Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220086
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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La faccia lunga e scarna d' un pallor olivastro appariva quasi infantile all'ombra del cappello di feltro molle che gli si posava su' capelli neri e abbondanti. E poichè il perito sembrava cercarlo, allungando il collo, il giovane, impacciato sotto tanti sguardi, rasentò la parete, s'accostò al banco, e cavandosi di tasca un portafogli slabbrato, ne tirò fuori una carta rosea da cento franchi. Mentre la tendeva, le dita lunghe dalle nocche sporgenti gli tremavano. - Non importa che paghi adesso. Basta il suo nome. Le manderemo, se crede, il quadro a casa — disse il perito con cortesia, ma evidentemente seccato di questa interruzione. — No, no, ora, ora.... La porto io stesso - insistè l'acquirente, il cui nome ignoto fu prontamente allineato nel registro dallo scritturale. Il giovine, rosso fino alla punta de' capelli, preso con uno sguardo tra diffidente e incerto il ritratto muliebre per la cornice, se lo portò via con passo rapido e con addosso il fremito convulso d'uno che l'avesse rubato. Subito un altro lotto circolava....

D'Ambra, Lucio

220458
Il Re, le Torri, gli Alfieri 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Ricominciai imperterrito a leggere mentre Sua Altezza cedeva a poco a poco a quella sonnolenza soddisfatta e beata che segue i pasti abbondanti e gli amori felici. Ma era destino che la conferenza venutami giù di getto dovesse essere nota al principe per frammenti: chè leggevo appena da dieci altri minuti quando la porta s'apri di nuovo e Sua Altezza venne informata che la marchesa di Setteporte chiedeva anche essa di vedere la collezione di medaglie: non aveva, questa seconda dama, una spiccata preferenza per il Pisanello ma il suo interesse per il medagliere del principe non era meno vivace. Questa volta il principe si levò un po' meno vivacemente di prima e non m'invitò a rivedere quello che avevo letto: mi suggerì invece cortesemente di prendermi un breve riposo chè in dieci minuti al massimo avrebbe certamente sbrigato la gentile visitatrice. Ci volle invece un'ora e mezza. Questa volta ero disoccupato, e, disteso su un divano, fumando, potevo anche meglio della prima volta avere esatta nozione delle manifestazioni di riconoscenza cui giungeva l'ammirazione soddisfatta della marchesa per le collezioni di Sua Altezza. Il gran Condé dormiva placidamente e profondamente nella notte precedente alle sue più ardue battaglie. Io potevo quindi, con non minore forza d'animo, appisolarmi durante quelle scaramucce d'amore. I vecchi capitani pronti a tutto e, i vecchi testimoni a tutto abituati possiedono la medesima imperturbabilità. E, quando, un'ora e mezza dopo, Sua Altezza mi destò rientrando nella biblioteca, gli sguardi non bastarono più e ci vollero le parole per manifestarmi chiaramente il suo malumore. — Caro d'Apre, — mi disse, — la cosa comincia a diventare fastidiosa, e queste signore non mi dànno il tempo di respirare. Ho veduto iersera queste due signore all'Opera e le ho invitate, come invito tutte, a venire ad ammirare la mia collezione di medaglie a bere una tazza di te. Ed eccole qui oggi tutt'e due, una dopo l'altra. Decisamente qui bisogna cominciare a rovesciare le parti: poichè non si lascian pregare, sarà necessario che incominci io a farmi pregare! Non insistemmo e riprendemmo per la terza volta la lettura. Eravamo nel cuore della conferenza adesso, e Sua Altezza, non più sonnolenta, ma sostenuta invece da quell'eccitazione nervosa che segue i grandi strapazzi intellettuali, seguiva la mia narrazione col più vivo interesse e con frequenti cenni d'approvazione. Ma la porta si aprì una terza volta, e Sua Altezza venue informata che la principessa di Malaguena desiderava d'ammirare a sua volta collezione di medaglie. Vidi Sua Altezza levarsi in piedi d'un balzo stringendo i pugni e frenando la sua ira, finchè il maggiordomo non si fu allontanato e non ebbe richiusa la porta. Poi si volse verso di me che, levato il volto dal manoscritto sfortunato, guardavo Sua Altezza sorridendo: — Lei sorride! — esclamò Sua Altezza, con un tono irritato. — Lei sorride, eh? Ma vorrei un po' vederla al mio posto. L'invito alla principessa di Malaguena non l'avevo arrischiato che stamattina incontrandola a cavallo al Viale del Tigli. Ed eccola qui, sei ore dopo. È un'esagerazione.... E ci tenessi, almeno.... Ma niente affatto! Sparo a polvere tanto per rimanere in esercizio. Ma per loro basta. Sono uccellini che si contentano del rumore per potersi decentemente dare per morti. Feci rispettosamente osservare a Sua Altezza che, ingrato come tulti gli uomini si lamentava ingiustamente d'una troppo benigna fortuna. — Ma è la terza, sa, — rispose il principe, — e le ripeto che vorrei veder lei al mio posto. Non raccolsi quello che v'era di poco lusinghiero in questa ripetuta esclamazione che mi riguardava e approfittai invece del silenzio del principe, che camminava, con le mani in tasca e il naso verso terra, su e giù, furiosamente, per la biblioteca, per ricordargli che la principessa di Malaguena lo attendeva e che non era possibile farla più oltre aspettare; e che, date le circostanze, non gli rimaneva altro che sacrificarsi eroicamente e andarla sùbito a raggiungere. — Io? Ma lei è matto! — esclamò il principe fermandosi davanti alla mia scrivania e usando con me un linguaggio cosi confidenzialmente irriverente che era naturalmente giustificato dalla sua agitazione. — Lei è matto, caro d'Aprè! Scriverò a mio padre, stasera stessa, che Pulquerrima è una residenza inabitabile, e che qui non basta un principe ereditario ma ce ne vogliono dieci! E sa, intanto, che cosa faccio io? Mi faccia il piacere di cedermi il suo posto...._Grazie. Ecco. Mi siedo qui e la lettura della sua bella conferenza me la finisco per conto mio. E si mise a leggere, seduto al mio posto, coi pugni stretti alle due tempie. Osai ricordare a Sua Altezza la principessa che aspettava. — La principessa? — mi rispose senza levar gli occhi dal manoscritto. — La principessa, senta, me la sbrighi lei. Mi faccia questa cortesia. Le dica che sono uscito, che son malato, che non voglio essere seccato. Le dica che la collezione di medaglie non c'è più. È sparita, me l'hanno rubata, l'ho venduta, sono impazzito e in una crisi di follia l'ho gettata tutta dalle finestre. Lei saprà che cosa dire. Le situazioni difficili son fatte apposta per lei. Gli amici dispotici son come i sovrani assoluti: non discutono. E io che conoscevo Sua Altezza non tentai di ragionare e mi decisi sùbito a sbrogliare una volta di più una matassa intricata. Aggiustai la mia cravatta, spolverai la cenere delle sigarette sul mio vestito, presi un viso di circostanza, e mentre Sua Altezza, assorta, continuava a leggere le nostre avventure di terra e mare, m'avviai verso la mia impreveduta avventura di salotto. Aprii la porta ed entrai, guardingo, nella gabbia della leonessa. La quale leonessa era quanto mai addomesticata e leggiadra. Mi strinse la mano con cordialità e prese per buone tutte le spiegazioni che le davo per l'assenza del principe trattenuto quel giorno dalle sue gravi responsabilita al comando del Corpo d'Armata. Solo manifestò il suo profondo rammarico di non poter ammirare la collezione di medaglie. Le chiesi se anche la sua predilezione fosse per il Pisanello, ma la principessa ebbe l'aria di cadere un po' dalle nuvole. Per fortuna non si sbilanciò a domandarmi se il Pisanello aveva studio a Pulquerrima. E, tanto per tener viva la conversazione, mi scappò di bocca — giuro che fu senza malizia! — ch'ero collezionista anch'io: non di medaglie, ma d'una cosa assai più leggera, i ventagli. Gli eventi precipitarono. La principessa non tardò a dichiararmi che le collezioni di ventagli la interessavano in generale assai più di quelle di medaglie. Dovetti per cortesia dichiararle che sarei stato felice di mostrarle la mia. Accettò. Chiesi che mi fissasse una data e mi sentii rispondere ch'era pronta ad ammirarla anche sùbito. Tutto questo naturalmente con un'innocenza, con una semplicità, con una serietà impassibile come che si trattasse veramente di medaglie e di ventagli. Non c'era altro da fare che quello che feci: aiutare la principessa a indossar di nuovo il Mantello e offrirle la mia automobile per recarci a casa mia, scusandomi di non poterle mostrare, cosi all'improvviso, che una collezione incomplela e disordinata. Naturalmente in automobile non si parlò che di ventagli. In materia d'amore davvero la parola è fatta per nascondere il pensiero. Non parlavamo che di ventagli. Io risalivo a mano a mano fino alle fêtes galantes del secolo decimottavo. La principessa mi ascoltava con la più intensa attenzione come se non si fosse mai interessata d'altro in vita sua. E ne parlammo tanto, dei miei ventagli, che giunti a casa ci dimenticammo tutt'e due di guardarli. Era avvenuto lo stesso con Sua Altezza. I Pisanello, da sei mesi, non avevano visto altra luce oltre quella filtrante dagli spiragli delle loro inviolate custodie. Quando i fatti compiuti ci permisero di parlar d'altro che di ventagli, la seducente principessa mi costrinse a confessare che proprio quel giorno Sua Altezza non aveva avuto proprio nulla da fare al comando del Corpo d'Armata e che non s'era mosso da palazzo. Aveva infatti incontrate poco prima la duchessa di Villahermosa e la principessa di Setteporte che le avevano parlato con entusiasmo dei Pisanello. E, con una moina adorabile, la principessa di Malaguena mi chiese: — Spiegami un poco in due parole che cosa sono i Pisanello. Devo far credere di averli visti anch'io. Capirai, caro, che non posso essere da meno di loro. — E i miei ventagli? — chiesi. — I tuoi ventagli, no, caro. Non c'è bisogno di parlarne. Che c'entra? I ventagli son per il piacere. Ma le medaglie son per l'onore!

Mitchell, Margaret

221092
Via col vento 3 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Dopo ricordò, come in un sogno, le centinaia di candele che illuminavano le pareti, il volto di sua madre, affettuoso, un po' sgomento con le labbra che si muovevano in una silenziosa preghiera per la felicità di sua figlia; Geraldo rosso per le abbondanti libagioni di cognac e per l'orgoglio di maritare la sua gattina con un giovine dotato di denaro e di un bel nome... e Ashley, in fondo alla scala, con Melania al braccio. Vedendo l'espressione di quel volto, ella pensò: «Non può esser vero. Non può essere. È un incubo. Mi sveglierò e troverò che era un incubo. Non devo pensarvi adesso, altrimenti mi metto a piangere dinanzi a tutti. Non posso pensare adesso. Vi penserò piú tardi, quando potrò sopportarlo... quando non vedrò piú i suoi occhi». Era davvero come un sogno, quel passaggio attraverso due ali di gente che sorrideva, il volto scarlatto di Carlo e le sue parole balbettate e le proprie risposte cosí stranamente chiare e fredde. E poi le congratulazioni e gli abbracci e i baci e i brindisi e il ballo... tutto, tutto come un sogno. Anche la sensazione del bacio di Ashley sulla sua guancia, anche il dolce sussurro di Melania, «Ora siamo veramente sorelle» erano irreali. Perfino l'eccitazione cagionata dalla serie di svenimenti della rotondetta ed emotiva zia di Carlo, Miss Pittypatt Hamilton, sembrava un incubo. Ma quando il ballo e i brindisi finalmente terminarono e sopraggiunse l'aurora, quando tutti gli invitati di Atlanta che fu possibile ospitare a Tara e nella casa del sorvegliante si furono coricati nei letti, sui divani e sulle balle di cotone disposte sul pavimento, e tutti i vicini furono tornati alle loro case per riposarsi in vista del matrimonio del giorno seguente alle Dodici Querce, allora quello stato di catalessi simile a un sogno s'infranse come un cristallo dinanzi alla realtà. La realtà era Carlo che usciva pieno d'emozione dal suo spogliatoio in camicia da notte evitando lo sguardo sgomento che ella gli rivolgeva dal letto. Certamente ella sapeva che le persone sposate occupano lo stesso letto; ma non aveva mai pensato a questo. La cosa sembrava naturalissima nel caso di suo padre e di sua madre ma non le era mai venuta l'idea di applicarla a se stessa. Ora, per la prima volta, dopo il banchetto, si rese conto di ciò che aveva fatto. Il pensiero che quel giovane estraneo che ella non aveva mai desiderato sposare, dovesse venire nel suo letto, mentre il suo cuore era pieno d'angoscia e di rimpianto per la sua azione troppo frettolosa e di desolazione per avere perduto Ashley per sempre, era insopportabile per lei. Mentre egli esitava ad avvicinarsi, ella mormorò con voce rauca: - Se vi avvicinate griderò forte, griderò, griderò con tutta la mia voce. Andatevene! Non mi toccate! E cosí Carlo Hamilton trascorse la sua notte di nozze su una poltrona in un angolo, senza sentirsi troppo infelice perché comprendeva, o credeva di comprendere, la verecondia e la delicatezza della sua sposa. Era disposto ad attendere finché i suoi timori svanissero; soltanto... soltanto... sospirò mentre si voltava per cercare una posizione comoda, fra breve bisognava partire per la guerra. Per quanto le proprie nozze avessero avuto per Rossella un carattere di incubo, quelle di Ashley furono anche peggiori. Nel suo abito verde-mela del «secondo giorno», ella stava nel salotto delle Dodici Querce, tra lo splendore di centinaia di candele e stretta nella stessa folla della sera prima; e vide il visino insignificante di Melania Hamilton risplendere fino a sembrar bello nel momento in cui diventò Melania Wilkes. Ora Ashley era perduto per sempre. Il suo Ashley. No, non piú il suo Ashley. Ma era mai stato suo? Tutto era confuso nella sua mente, e il suo cervello era stanco e pieno di sgomento. Le aveva detto che le voleva bene, ma che cosa li aveva separati? Se almeno riuscisse a ricordare... Aveva imposto il silenzio ai pettegolezzi della Contea sposando Carlo, ma qual era il risultato? Allora le era sembrato importante, ma ora non lo era affatto. Tutto ciò che importava era Ashley. Ed ora egli era diviso da lei per sempre, ed ella era sposata ad un uomo che non solo non amava, ma per cui aveva un vero disprezzo. Oh, come rimpiangeva tutto! Aveva sentito parlare di gente che si tagliava il naso per far dispetto al proprio volto, ma finora questa non era stata che una figura retorica. Adesso comprendeva ciò che voleva dire; e insieme al desiderio frenetico di liberarsi di Carlo e tornare sana e salva a Tara, ancora signorina, aveva coscienza di dover biasimare solo se stessa. Elena aveva cercato di trattenerla, ed ella non aveva voluto ascoltare. Ballò tutta la sera come abbagliata e parlò meccanicamente e sorrise meravigliandosi della stupidaggine degli altri che la credevano una sposa felice e non vedevano che aveva il cuore spezzato. No, grazie a Dio, non lo vedevano! Quella sera, dopo che Mammy l'ebbe aiutata a svestirsi e se ne fu andata, e Carlo emerse timidamente dallo spogliatoio chiedendosi se doveva passare una seconda notte in poltrona, ella scoppiò in lagrime. Pianse finché Carlo si arrampicò sul letto accanto a lei e cercò di confortarla; pianse senza parole finché non ebbe piú lagrime, e rimase a singhiozzare tranquillamente col capo sulla sua spalla. Se non vi fosse stata la guerra, si sarebbe avuta una settimana di visite attraverso la Contea, con balli e conviti in onore delle due coppie di sposi, prima che esse partissero per Saratoga o White Sulphur per il viaggio di nozze. Se non vi fosse stata la guerra, Rossella avrebbe avuto da indossare abiti per il terzo, quarto e quinto giorno, ai ricevimenti dei Fontaine, dei Calvert e dei Tarleton in suo onore. Ma non vi furono né ricevimenti né viaggi di nozze. Una settimana dopo il matrimonio Carlo partí per raggiungere il colonnello Wade Hampton; e quindici giorni dopo anche Ashley e lo Squadrone si misero in moto, lasciando tutta la Contea deserta di giovani. In quelle due settimane Rossella non ebbe mai occasione di vedere Ashley da solo, né di scambiare una parola con lui. Nemmeno nel terribile momento della partenza, quando egli si fermò dinanzi a Tara mentre si recava a prendere il treno, ella poté dirgli una parola. Melania, in cuffia e scialle, tranquilla nella nuovamente acquisita dignità di donna, era al suo braccio; e tutto il personale di Tara, bianco e negro, uscí per salutare Ashley che andava in guerra. Melania disse: - Devi baciare Rossella, Ashley. Ora è mia sorella; - e Ashley si chinò e le sfiorò con le labbra fredde il volto rigido e impassibile. Rossella non ebbe alcuna gioia da questo bacio: non era soddisfatta perché era stata Melania a suggerirlo. Melly la soffocò in un abbraccio, dicendole: - Verrai ad Atlanta a fare una visita a me e alla zia Pittypatt, no? Cara, desideriamo tanto di averti con noi! Desideriamo conoscere meglio la sposa di Carlo. Trascorsero cinque settimane durante le quali vennero dalla Carolina del Sud lettere di Carlo, timide, estatiche, innamorate, piene del suo amore e dei suoi progetti per il futuro, dopo la guerra; del suo desiderio di essere un eroe per amor suo, e della sua adorazione per il suo comandante Wade Hampton. Nella settima settimana giunse un telegramma del colonnello stesso e poi una lettera, una bella e dignitosa lettera di condoglianza. Carlo era morto. Il colonnello avrebbe voluto telegrafare prima, ma Carlo credendo che la malattia fosse cosa da nulla, non aveva voluto preoccupare la famiglia. Il disgraziato ragazzo non era soltanto stato truffato nell'amore che credeva di aver conquistato, ma anche nelle sue alte speranze di onore e di gloria sul campo di battaglia. Era morto ignominiosamente dopo una breve polmonite, a seguito di una rosolia, senza essersi neanche avvicinato agli yankees. A suo tempo nacque il bambino di Carlo; e siccome si usava dare ai figlioli il nome del comandante del loro genitore, egli fu battezzato Wade Hampton Hamilton. Rossella aveva pianto di disperazione quando aveva saputo di essere incinta e aveva desiderato di morire. Ma portò la sua gravidanza con un minimo di disturbi, mise al mondo il bimbo con poche sofferenze e si ristabilí cosí rapidamente da far dire a Mammy che questa era una cosa volgare, perché una signora doveva soffrire di piú. Provò poco affetto per il bambino, pur cercando di nasconderlo. Non lo aveva desiderato e non era contenta della sua venuta; ed ora che lo aveva, le sembrava impossibile che fosse suo, parte di lei. Benché fisicamente si fosse rimessa molto presto, mentalmente era stordita e sofferente. Il suo spirito era depresso, malgrado gli sforzi di tutta la piantagione per sollevarla. Elena aveva la fronte aggrottata e preoccupata e Geraldo, bestemmiando piú del solito, le portava da Jonesboro inutili doni. Perfino il vecchio dottor Fontaine ammise di essere imbarazzato dopo che il suo tonico composto di zolfo e di erbe non le aveva giovato. Disse a Elena in via privata che era il dolore che rendeva Rossella cosí irritabile e a volta a volta indifferente. Ma Rossella, se avesse avuto voglia di parlare, avrebbe potuto dire che si trattava di un dolore assai diverso e piú complesso. Non disse che era la noia, lo sgomento di essere madre e soprattutto l'assenza di Ashley che le dava quell'espressione cosí addolorata. La sua noia era acuta e continua. La Contea era priva di ogni divertimento e di ogni manifestazione di vita sociale, da quando lo Squadrone era andato alla guerra. Tutti i giovanotti interessanti erano partiti: i quattro Tarleton, i due Calvert, i Fontaine, i Munroe e tutti quelli di Jonesboro, Fayetteville e Lovejoy che erano giovani e attraenti. Erano rimasti soltanto i vecchi, gli invalidi e le donne; queste passavano il loro tempo a far la maglia e a cucire, a coltivare con piú abbondanza cotone e grano e ad allevare maggior numero di maiali, pecore e mucche per l'esercito. Non si vedeva mai un vero uomo, eccetto quando una volta al mese veniva il commissario dello Squadrone, il maturo corteggiatore e di Súsele, Franco Kennedy, a rifornirsi di viveri. Gli uomini dei commissariati non erano molto eccitanti, e il timido corteggiamento di Franco la infastidiva fino a renderle difficile l'essere cortese nei suoi riguardi. Se almeno lui e Súsele si fossero decisi! Ma se anche il commissario dei viveri fosse stato piú interessante, ciò non avrebbe mutato la sua situazione. Ella era vedova, e il suo cuore era nella tomba; per lo meno tutti ne erano convinti e pensavano che ella dovesse agire in conformità. Ciò la irritava perché, per quanto cercasse, non riusciva a rammentare nulla di Carlo se non la sua espressione di vitello moribondo, quando ella gli aveva detto che lo avrebbe sposato. E anche questa immagine andava scomparendo. Ma era vedova e doveva sorvegliare il proprio contegno. I divertimenti delle ragazze non erano piú per lei. Doveva ormai essere grave e seria. Elena glie lo aveva fatto capire il giorno che aveva trovato il luogotenente di Franco che gironzolava con Rossella nel giardino e la faceva ridere di cuore. Profondamente colpita, Elena le aveva detto come era facile che si chiacchierasse sul conto di una vedova. La condotta di questa doveva essere assai piú circospetta di quella di una donna con marito. «E Dio solo sa» pensò Rossella mentre ascoltava ubbidiente la dolce voce di sua madre «che le donne sposate non si divertono affatto; dunque per le vedove tanto vale morire.» Una vedova doveva portare degli orribili vestiti neri senza neanche una guarnizione per ravvivarli, né fiori né nastri né pizzi e neanche gioielli: soltanto spille di onice o collane fatte coi capelli del defunto. E il velo di crespo nero che portava sulla cuffia, doveva arrivarle alle ginocchia e poteva essere accorciato solo dopo tre anni di vedovanza, per giungere all'altezza delle spalle. Le vedove non potevano chiacchierare vivamente né ridere forte. Anche quando sorridevano, il loro doveva essere un sorriso triste e tragico, e - questa era poi la cosa piú terribile - non potevano in nessun modo mostrare di provar piacere nella compagnia maschile. E se qualche uomo fosse cosí indelicato da mostrare dell'interessamento, ella doveva ghiacciarlo con un dignitoso riferimento al ricordo del proprio marito. «Oh, sí,» pensava Rossella tristemente. «Vi sono delle vedove che si rimaritano, ma quando sono vecchie e raggrinzite. E Dio solo sa come vi riescono, con tutti i vicini che si occupano sempre di loro! E di solito è con qualche vecchio vedovo desolato, il quale deve badare a una grande piantagione e a una dozzina di bambini.» Il matrimonio era già una brutta cosa; ma la vedovanza... Oh, allora la vita era finita per sempre! Come erano sciocchi quelli che le dicevano che il piccolo Wade Hampton doveva esserle di gran conforto ora che Carlo non c'era piú, e com'erano noiosi dicendole che ora aveva uno scopo nella vita! Tutti affermavano che doveva essere assai dolce per lei avere questo pegno postumo del suo amore; e naturalmente ella non li disingannava. Ma questo pensiero era il piú lontano di tutti dalla sua mente. S'interessava pochissimo a Wade e qualche volta stentava perfino a ricordarsi che era suo. La mattina, quando si svegliava, nei primi momenti di dormiveglia era ancora Rossella O'Hara; il sole brillava tra i rami della magnolia dinanzi alla sua finestra, i merli cantavano e il piacevole odore del lardo fritto saliva alle sue narici. Era di nuovo giovane e spensierata. Quindi udiva un vagito affamato, e vi era sempre in lei un attimo di sorpresa durante il quale pensava: «Ma come, c'è un bambino in casa!» E allora si ricordava che era suo. E Ashley! Oh, piú di tutto Ashley! Per la prima volta in vita sua ella detestò Tara, detestò la lunga strada rossa che conduceva dalla collina al fiume, detestò i campi purpurei coi verdi germogli del cotone. Ogni palmo di terreno, ogni albero ed ogni ruscello, ogni viale ed ogni sentiero le ricordavano lui. Egli apparteneva ad un'altra donna ed era andato alla guerra, ma il suo spirito vagava ancora sulle strade nel crepuscolo e le sorrideva coi suoi occhi grigi e sonnolenti nell'ombra del porticato. Ogni volta che lo strepito di zoccoli le giungeva dalla strada delle Dodici Querce, per un dolce attimo ella pensava: Ashley! Ora odiava le Dodici Querce, che una volta aveva amato. Le odiava, ma vi era trascinata, per poter udire John Wilkes e le ragazze parlare di lui; udir leggere le sue lettere dalla Virginia. Le facevano male ma voleva udirle. Le erano antipatiche Lydia cosí rigida e Gioia scioccherella e chiacchierona, e sapeva di essere ugualmente antipatica a loro. Ma non poteva rimanerne lontana. Ed ogni volta che tornava a casa dalle Dodici Querce, si metteva a letto di malumore e rifiutava di alzarsi per andare a cena. Questo rifiuto di mangiare era quello che maggiormente preoccupava Elena e Mammy. Mammy le portava dei vassoi pieni di cibi allettanti, insinuando che adesso che era vedova poteva mangiare quanto voleva; ma Rossella non aveva appetito. Quando il dottor Fontaine disse gravemente a Elena che il dolore spesso può minare un temperamento florido e condurlo alla tomba, la signora O'Hara impallidí, perché questo era il timore che ella nascondeva nel profondo del cuore. - E non si può far nulla, dottore? - Un cambiamento d'aria sarebbe la miglior cosa per lei - rispose il dottore, ansioso di liberarsi di un'ammalata cosí restia. E cosí Rossella, senza entusiasmo, partí col suo bambino, prima per recarsi a visitare i suoi parenti O'Hara e Robillard a Savannah e poi per andare presso le sorelle di Elena a Charleston. A Savannah furono gentili con lei, ma Giacomo e Andrea e le loro mogli erano vecchi e amavano sedere tranquillamente a parlare di un passato che non aveva alcun interesse per Rossella. Lo stesso fu coi Robillard; e Charleston fu addirittura terribile. Zia Paolina e suo marito, un piccolo vecchio pieno di una cortesia formale e volubile e con l'aria assente di una persona che vivesse in un altro secolo, abitavano in una piantagione sul fiume, molto piú isolata di Tara. I loro vicini piú prossimi abitavano a una distanza di venti miglia che bisognava percorrere attraverso foreste vergini, paludi, boschi di cipressi e di querce. Le querce, con i loro drappeggi di musco grigio, davano sempre i brividi a Rossella, e le ricordavano le storie di Geraldo di spiriti irlandesi erranti fra le nebbie color di cenere. Non vi era nulla da fare tutto il giorno se non lavorare a maglia; e la sera ascoltare lo zio Carey che leggeva ad alta voce le opere istruttive di Bulwer Lytton. Eulalia, nascosta in un giardino dalle alte mura in una grande casa presso la Batteria di Charleston, non era piú divertente. Rossella, abituata all'ampio paesaggio di colline rossastre, ebbe l'impressione di essere in prigione. Vi era qui piú vita sociale che presso zia Paolina; ma Rossella non provava alcuna simpatia per i visitatori, con le loro tradizioni, le loro arie, le loro enfasi a proposito della famiglia. Sapeva che tutti la ritenevano il prodotto di una «mésalliance» e che erano ancora stupefatti che una Robillard avesse sposato un volgare irlandese. Rossella sentiva che la zia Eulalia la scusava dietro le spalle; cosa che la irritava perché, come suo padre, ella non teneva affatto all'aristocrazia della famiglia. Ed era fiera di ciò che Geraldo era riuscito a fare senz'altro aiuto se non il suo astuto cervello d'irlandese. E anche quelli di Charleston se la prendevano tanto per il Forte Sumter! Dio mio, ma non capivano che se non fossero stati loro a commettere la sciocchezza di sparare le prime fucilate che avevano portato alla guerra, vi sarebbero stati altri pazzi che lo avrebbero fatto? Abituata alle voci acute della Georgia dell'altipiano, le voci gravi e strascicate della pianura le davano noia. In certi momenti aveva voglia di urlare. Durante una visita di cerimonia giunse a un tal punto di esasperazione che ricorse al dialetto di Geraldo, con gran scandalo di sua zia. Allora decise di ritornare a Tara. Meglio essere tormentata dal ricordo di Ashley che dall'accento di Charleston. Elena, occupata giorno e notte a raddoppiare il prodotto della piantagione per aiutare la Confederazione, fu terrorizzata quando si vide tornare a casa la figlia maggiore, magra, pallida e inasprita. Aveva avuto ella pure il cuore spezzato; quindi, coricata accanto a Geraldo che russava, passava la notte a cercare che cosa potrebbe fare per alleviare il dolore di Rossella. La zia di Carlo, Pittypatt Hamilton, aveva scritto parecchie volte chiedendole di permettere a Rossella di recarsi ad Atlanta per un lungo soggiorno; ed ora, per la prima volta, Elena considerò con serietà la proposta. «Sono sola con Melania nella vasta casa - scriveva Miss Pittypatt - senza protezione maschile ora che il caro Carlo è morto. È vero che c'è mio fratello Enrico, ma non abita con noi. Forse Rossella vi ha parlato di Enrico. La delicatezza mi vieta di scrivere lungamente sul suo conto. Melly ed io ci sentiremo piú tranquille e sicure con Rossella in casa. Tre donne sole stanno meglio di due. E forse Rossella troverà un po' di sollievo al suo dolore, curando - come fa Melly - i nostri bravi soldati negli ospedali di qui... E poi, Melly ed io desideriamo tanto di vedere il caro piccino...» Cosí il baule di Rossella fu chiuso di nuovo con dentro i suoi abiti da lutto, ed ella partí per Atlanta con Wade Hampton, la sua bambinaia Prissy, una quantità di avvertimenti sul suo contegno da parte di Elena e di Mammy e cento dollari in biglietti della Confederazione datile da Geraldo. Non desiderava particolarmente di andare ad Atlanta. Riteneva zia Pittypat la piú noiosa vecchia che dar si potesse; e l'idea di vivere sotto lo stesso tetto con la moglie di Ashley le ripugnava. Ma la Contea, con tutti i suoi ricordi, era un soggiorno impossibile; e qualsiasi mutamento era il benvenuto.

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I suoi capelli grigi erano fatti piú abbondanti da una frangia di riccioli finti che erano fieramente bruni, disdegnando di adattarsi al resto della capigliatura. Aveva un viso rotondo e molto colorito in cui si fondevano una naturale scaltrezza e l'abitudine di comandare. Mrs. Elsing era piú giovane; una donnina sottile e fragile, che era stata una meraviglia e che conservava ancora il ricordo della freschezza svanita e un'aria elegante e imperiosa. Quelle due signore, insieme a una terza, Mrs. Whiting, erano le colonne di Atlanta. Dirigevano in tutto e per tutto le tre chiese a cui appartenevano; il clero, i cori e i parrocchiani. Organizzavano vendite e presiedevano comitati di lavoro, balli e picnic; sapevano chi faceva un buon matrimonio e chi no, chi beveva segretamente, chi aspettava un bambino e per quando. Erano delle vere autorità in fatto di genealogie di qualunque famiglia della Georgia, della Carolina del Sud e della Virginia; e non si tormentavano il cervello per gli altri Stati perché erano convinte che chiunque avesse importanza negli altri Stati doveva esservi giunto da uno di quei tre. Sapevano come ci si doveva e come non ci si doveva comportare quando si era persone bennate, e non mancavano mai di dire schiettamente il loro modo di pensare: Mrs. Merriwether con una voce stridula. Mrs. Elsing con un accento strascicato e Mrs. Whiting in un mormorio desolato che mostrava come le dispiaceva parlare di certe cose. Queste tre signore si detestavano reciprocamente e non avevano fiducia una nell'altra come i primi Triumviri a Roma; e la loro stretta alleanza si doveva probabilmente a quelle stesse ragioni. - Ho detto a Pitty che desidero avervi nel mio ospedale - gridò Mrs. Merriwether sorridendo. - Perciò non promettete nulla a Mrs. Meade o a Mrs. Whiting! - Me ne guarderò bene - rispose Rossella, ignorando completamente ciò che desiderava quella vecchia signora, ma provando una sensazione di calore nel vedersi bene accolta e nel sapersi desiderata. - Spero di vedervi presto. La carrozza continuò la sua strada e si fermò un momento per permettere a due signore che portavano appeso al braccio un cestino pieno di bende, di attraversare la strada melmosa posando il piede su alcune pietre che emergevano. Nello stesso istante l'occhio di Rossella fu colpito da una figura che era sul marciapiede, vestita di un abito sgargiante - troppo sgargiante per la strada - e di uno scialle con lunghe frange che le giungevano ai piedi. Voltandosi vide una donna alta e bella, con una massa di capelli rossi: troppo rossi per esser veri. Era la prima volta che vedeva una donna di cui poteva esser certa che «aveva fatto qualche cosa ai suoi capelli» e la osservò, affascinata. - Zio Pietro, chi è quella? - bisbigliò. - Non sapere. - Sí che lo sai. Ne sono certa. Chi è? - Si chiama Bella Watling - e il labbro inferiore di Pietro cominciò a sporgersi. Rossella afferrò subito che il negro non aveva fatto precedere il nome dall'appellativo di «signora» o «signorina». - E chi è? - Miss Rossella - rispose il vecchio gravemente accarezzando il fianco del cavallo con la sua frusta - Miss Pitty non permettere che voi domandare cose che non vi riguardano. In questo periodo esservi in città grosso mucchio di persone che non contare e che essere inutile parlare di loro. «Dio mio!» pensò Rossella rinchiudendosi nel silenzio. «Dev'essere una donna cattiva!» Non aveva mai visto una donna di malaffare e si voltò a riguardarla finché quella si perse nella folla. Le botteghe e le nuove costruzioni erano ora piú rade, con spazi di terreno fra l'una e l'altra. Finalmente il quartiere degli affari terminò; ora erano tutte case di abitazione. Rossella le riconobbe come vecchie amiche: quella dei Leyden, dignitosa e superba; quella dei Bonnell, con le colonnine bianche e le persiane verdi; la casa georgiana di mattoni rossi della famiglia McLure, dietro alle sue basse siepi di bosso. Ora progredivano piú lentamente, perché dai porticati e dai giardini le signore la chiamavano. Ne conosceva alcune superficialmente; altre le ricordava vagamente; ma la maggior parte le era sconosciuta. Pittypat aveva certamente propagato la notizia del suo arrivo. Ogni tanto bisognava sollevare il piccolo Wade perché le signore che si avventuravano ad avvicinarsi alla carrozza attraversando il pezzetto di marciapiede potessero ammirarlo. Tutte le gridavano che doveva far parte del loro circolo di lavoro - cucito o maglia - e del loro ospedale e di nessun altro; ed ella promise instancabilmente a destra e a sinistra. Mentre passavano dinanzi a una villetta di legno coperta di rampicanti verdi, una bimbetta negra che era appostata sui gradini d'accesso gridò: - Eccola, eccola! - e subito uscirono il dottor Meade con sua moglie e il figlio tredicenne Filli, salutandola a gran voce. Rossella ricordò che anche loro erano venuti al suo matrimonio. La signora si avanzò sul pezzo di marciapiedi dinanzi alla casa e allungò il collo per vedere il bimbo, ma il dottore, senza preoccuparsi del fango, lo attraversò per avvicinarsi alla carrozza. Era alto e robusto, con una barbetta caprina color grigio-ferro; gli abiti ciondolavano sulla sua persona magra come se fossero sospesi a un attaccapanni. Atlanta lo considerava come la sorgente di ogni forza e di ogni saggezza e non era da stupire che egli avesse assorbito qualche cosa di questa loro fede. Ma a parte la sua abitudine di pronunciare delle affermazioni come se fossero oracoli e il suo modo di fare lievemente pomposo, era il piú brav'uomo del mondo. Dopo avere stretto la mano a Rossella e aver solleticato Wade sotto il mento, il dottore annunciò che la zia Pittypat aveva promesso e giurato che sua nipote non andrebbe in altro comitato ospedaliero e di preparazione delle bende se non in quello di Mrs. Meade. - Dio mio, ma ho già promesso a un migliaio di signore! - esclamò la giovine. - Alla signora Merriwether, scommetto! - esclamò la signora Meade indignata. - Al diavolo quella donna! Sono sicura che va incontro a tutti i treni! - Ho promesso perché non sapevo di che cosa si trattava - confessò Rossella. - Prima di tutto, che cosa sono questi comitati ospedalieri? Il dottore e la moglie scossero il capo, un po' scandalizzati della sua ignoranza. - Già, naturalmente siete stata seppellita in campagna e quindi non potete sapere - la scusò la signora Meade. - Abbiamo dei comitati per i diversi ospedali e in giorni diversi. Curiamo gli uomini e aiutiamo i dottori e facciamo bende e vestiti; e quando gli uomini sono in condizione di poter lasciare l'ospedale, li accogliamo nelle nostre case per la convalescenza, finché sono in grado di tornare al reggimento. E ci occupiamo delle famiglie dei feriti poveri o peggio. Il dottor Meade è all'ospedale dell'Istituto dove opera il mio comitato; tutti dicono che è straordinario e... - Lascia andare, Mrs. Meade - la interruppe affettuosamente il dottore. - Non vantarti di me con la gente. Faccio quel poco che posso, dal momento che non hai voluto lasciarmi andare con l'esercito. - Non ho voluto! - esclamò la moglie indignata. - Io? È stata la città che non ha voluto, e lo sai benissimo. Figuratevi, Rossella, che quando si è saputo che voleva andare in Virginia come medico militare, le signore hanno firmato una petizione pregandolo di restare. La città non può fare a meno di lui. - Via, via, Mrs. Meade - si schermí il dottore crogiolandosi evidentemente in quegli elogi. - Del resto, avere un figliolo al fronte può bastare, in questi tempi. - E io andrò l'anno venturo! - esclamò il piccolo Filippo saltando eccitato. - Come tamburino. Sto imparando intanto a suonare il tamburo. Volete sentire? Vado a prenderlo. - No, adesso no - ordinò la signora Meade stringendolo a sé, con una subitanea espressione di spavento. - Non l'anno venturo, tesoro. Forse fra due anni. - Ma allora la guerra sarà finita! - esclamò il ragazzo con petulanza, sottraendosi. - E me lo hai promesso! Gli occhi dei genitori si incontrarono al disopra del suo capo e Rossella vide lo sguardo. Darcy Meade era in Virginia; ed essi si attaccavano maggiormente al figliuolo che era rimasto. Zio Pietro tossicchiò. - Miss Pitty essere molto in bensiero quando io andare alla stazione e se non andare presto avrà svenimenti. - Arrivederci. Oggi nel pomeriggio sono libera - disse ancora la signora. - E dite a Pitty da parte mia che se voi non venite nel mio comitato, peggio per lei. La carrozza si avviò nuovamente per la strada fangosa e Rossella si appoggiò ai cuscini dello schienale sorridendo. Si sentiva bene come non si era piú sentita da molti mesi. Atlanta, con la sua folla, la sua animazione e la sua corrente di eccitazione, era molto piacevole, molto esilarante, molto piú graziosa della solitaria piantagione presso Charleston, dove il muggito degli alligatori rompeva solo il silenzio notturno; meglio della stessa Charleston, sognante nei suoi giardini difesi da alte mura; meglio di Savannah con le sue larghe strade bordate di palme nane e il fiume lutulento che le scorreva accanto. Sí; e provvisoriamente anche meglio di Tara, per quanto Tara fosse un luogo tanto caro. Vi era qualche cosa di eccitante in quella città con le sue strade strette e fangose; qualche cosa di rozzo e di immaturo che ricordava la rudezza e l'immaturità che era sotto la fine vernice data a lei da Elena e da Mammy. E a un tratto sentí che questo era il luogo fatto per lei, non le vecchie città serene e tranquille, cui il fiume pigro e giallo non dava vitalità alcuna. Le abitazioni erano adesso sempre piú rade; sporgendosi in fuori Rossella vide finalmente i mattoni rossi e il tetto piatto della villetta di miss Pittypat. Era quasi l'ultima casa al nord della città. Dopo di essa, la Via dell'Albero di Pesco andava stringendosi e girava tortuosamente sotto alti alberi che la nascondevano alla vista, perdendosi poi nei folti boschi silenziosi. La barriera di legno era stata recentemente ridipinta in bianco e il giardinetto dinanzi alla casa che essa chiudeva era macchiato di giallo dalle ultime giunchiglie della stagione. Sulla gradinata erano due donne vestite di nero e dietro a loro una grossa donna gialla con le mani sotto il grembiule e la bocca aperta a un largo sorriso. La rotondetta miss Pittypat saltellava agitata sui piedi piccolini, con una mano sul petto abbondante a frenare il cuore che le batteva forte. Rossella vide Melania che le stava accanto e, con un senso di antipatia si rese conto che essersi rifugiata nel balsamo di Atlanta significava vedere questa personcina vestita a lutto, coi suoi ribelli riccioli neri tirati e lisciati con dignità di donna sposata, che le rivolgeva un gentile sorriso di gioia e di benvenuto sul visino triangolare.

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In compenso, erano ancora abbondanti la carne di maiale, il pollame e i legumi. Il blocco yankee era diventato piú rigoroso e alcuni articoli di lusso, come il tè, il caffè, le seterie, le stecche di balena, l'acqua di Colonia, le riviste di moda e i libri erano scarsi e carissimi. Perfino i tessuti di cotone piú ordinari erano aumentati di prezzo e le signore erano costrette, loro malgrado, a indossare gli abiti della stagione precedente. Telai, che da anni erano stati relegati in soffitta a riempirsi di polvere tornavano all'onor del giorno e quasi in ogni salotto si trovavano rotoli di stoffa tessuta a mano. Tutti, soldati, borghesi, donne, bambini, negri, cominciavano a portare di queste stoffe. Il cenere, che era il colore delle uniformi della Confederazione, era praticamente scomparso per dar luogo a questi tessuti color bruno grigio. Gli ospedali cominciavano a preoccuparsi per la mancanza di chinino, di calomelano, di oppio, cloroformio e iodio. Le bende di tela e di cotone erano diventate troppo preziose per esser gettate via dopo averle adoperate; tutte le signore che facevano servizio di infermiera in qualche ospedale portavano a casa cestini di roba insanguinata da lavare e stirare per essere rimessa in uso. Ma per Rossella, appena uscita dalla crisalide della vedovanza, la guerra non era che un periodo di gaiezza e di divertimento. Anche le piccole privazioni di cibo e di vestiario non le davano noia in quella sua felicità di esser tornata nel mondo. Quando pensava alle giornate cupe e monotone dell'anno precedente, le sembrava che la vita avesse preso oggi un ritmo velocissimo. Ogni giorno le portava una nuova avventura; nuovi uomini che chiedevano di recarsi a farle visita, che le dicevano che era bella e che combattere e forse morire per lei era un privilegio. Amava Ashley con tutte le forze del suo cuore, ma non poteva fare a meno di invogliare altri uomini a chiederle di sposarla. La guerra sempre presente nello sfondo, dava alle relazioni sociali una piacevole mancanza di cerimonie, che le persone anziane osservavano allarmate. Le mamme stupivano vedendo che uomini a loro sconosciuti venivano a far visita alle figlie; gente che giungeva senza lettere di presentazione e i cui precedenti erano ignoti. La signora Merriwether, che non aveva mai baciato suo marito prima del matrimonio, non credeva ai suoi occhi quando sorprese Maribella che baciava il piccolo zuavo. E la sua costernazione aumentò quando Maribella rifiutò di sentirsi piena di vergogna. Anche il fatto che lo zuavo chiese immediatamente la mano della fanciulla non giovò a nulla. La signora Merriwether ebbe la sensazione che il paese andasse verso una completa rovina morale e non mancò di dirlo, spalleggiata dalle altre madri. Ma coloro che si aspettavano di morire fra una settimana o fra un mese non potevano certo attendere un anno per chiedere il permesso di chiamare una ragazza per nome, magari col «Miss» davanti. Né potevano perder tempo in un corteggiamento riguardoso come quello in uso prima della guerra. Al massimo aspettavano un paio di mesi prima di chiederla in moglie; e le ragazze a cui era stato insegnato che bisognava rifiutare almeno tre volte prima di accettare, ora accettavano alla prima domanda. Tutto ciò divertiva Rossella, la quale - a parte la noia di curare gli ammalati e di preparare le bende - sarebbe stata contenta che la guerra non finisse mai. In verità, ora sopportava ottimamente anche il servizio d'ospedale, perché questo luogo era un buonissimo terreno di caccia. I deboli feriti soccombevano al suo fascino senza lotta. Bastava cambiar le fasciature, sprimacciare i guanciali e sventolarli un pochino, ed ecco che si innamoravano. Era il paradiso, a confronto dell'anno scorso! Rossella era tornata ad essere quella che era prima di sposare Carlo; come se non si fosse mai maritata, non avesse mai avuto la triste notizia della sua morte, non avesse messo al mondo Wade. Guerra, matrimonio, maternità erano passate sopra di lei senza toccare alcuna corda profonda nel suo intimo; e il bambino era cosí ben curato dagli altri nella casa rossa, che ella quasi dimenticava di averlo. Era nuovamente Rossella O'Hara, la bella della Contea. I suoi pensieri erano identici a quelli di prima, ma il campo delle sue attività si era enormemente ampliato. Incurante della disapprovazione delle amiche di zia Pitty, ella si comportava come si era comportata prima del matrimonio; andava ai ricevimenti, ballava, usciva a cavallo con ufficiali, civettava, insomma faceva tutto ciò che faceva da fanciulla; soltanto non si toglieva il lutto. Sapeva che per Pitty e Melania sarebbe stato un colpo troppo forte. Si sentiva felice quanto poche settimane prima si era sentita disgraziata; felice di avere i suoi spasimanti, di essere sicura del proprio fascino; felice quanto era possibile esserlo con Ashley marito di Melania e in pericolo. Ma era piú facile sopportare il pensiero che egli appartenesse a un'altra, quando era lontano; con le centinaia di miglia che erano fra Atlanta e la Virginia, a volte le pareva che fosse piú suo che di Melania. I mesi d'autunno del 1862 trascorsero velocemente in queste divertenti occupazioni, interrotte da qualche breve visita a Tara. Queste non le davano la gioia che ella si riprometteva quando le pregustava ad Atlanta, perché non vi era il tempo di star seduta accanto ad Elena, mentre questa cuciva, aspirando il lieve profumo di verbena delle sue vesti; ed era impossibile avere lunghe conversazioni con sua madre e sentire le dolci mani di lei sulle sue guance. Elena, smagrita e preoccupata, era in piedi dalla mattina sino alla tarda sera, molto tempo dopo che tutta la piantagione era addormentata. Le richieste del commissario della Confederazione erano sempre piú gravose; ed ella aveva il compito di far produrre a Tara il piú possibile. Perfino Geraldo era occupatissimo, per la prima volta da molti anni, perché non aveva trovato un sorvegliante che sostituisse Giona Wilkerson e quindi correva in persona attraverso la piantagione. In queste condizioni, Rossella trovava Tara noioso. Perfino le sue sorelle si occupavano delle proprie faccende. Súsele si era messa «d'accordo» con Franco Kennedy e gli cantava «Quando questa guerra crudele sarà finita» con un'intenzione maliziosa che Rossella trovava insopportabile e Carolene fantasticava pensando a Brent Tarleton, sicché non era una compagnia interessante. Benché Rossella andasse sempre volentieri a Tara, pure era ben contenta quando le inevitabili lettere di zia Pitty e di Melania la supplicavano di tornare. Elena sospirava, attristata dal pensiero che la sua maggior figliuola e l'unico nipotino dovessero lasciarla. - Ma non debbo essere egoista e trattenerti qui quando c'è bisogno di te come infermiera ad Atlanta - diceva. - Soltanto... mi pare di non avere mai il tempo di parlare con te, tesoro mio, e di sentire che sei di nuovo la mia piccina, come una volta. - Sono sempre la tua piccina - rispondeva Rossella; e nascondeva il volto nel seno di Elena, sentendo che la coscienza le faceva dei rimproveri. Non diceva a sua madre che erano i balli e gli spasimanti che la richiamavano ad Atlanta e non il servizio della Confederazione. Vi erano molte cose che ella taceva a sua madre. E soprattutto conservava il segreto sul fatto che Rhett Butler si recava sovente in visita a casa della zia Pitty.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

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Misteri del chiostro napoletano 1 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
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Dopo un'ora soltanto, le lagrime poterono farsi strada, e scorrere abbondanti per le guancie. Mio padre, dotato d'impareggiabile mansuetudine, aveva interamente abbandonata alla moglie la direzione delle figlie, nè mai si opponeva alle risoluzioni di lei, credendole sempre convenienti. Saputo adunque l'accaduto, egli acconsentiva alla sentenza che escluder doveva Domenico dalla nostra società. Questi, ignaro di tutto, non mancò di venir quella sera, secondo l'usato. Notò l'assenza mia, ma credette sul principio che qualche cura impreveduta m'avesse trattenuta in altra stanza. Frattanto il tempo scorreva; non vedendomi punto comparire, cominciò a sospettare del vero, e se ne turbò. S'accostò a mio padre, il quale, incapace d'usare scortesia a chiunque, lo trattò come sempre. S'appressò a mia madre: fu agghiacciato dalla severità di lei, ch'egli non aveva notata nell'entrare in sala. Attese adunque palpitando l'opportunità per potersi avvicinare a Giuseppina, che in quel momento stava discorrendo con giovanette della sua età. "La signora Enrichetta è malata forse?" domandò finalmente, non appena si fu aperto un varco sino alla sorellina. "Sì;" rispose questa, fissando la madre. "Ma ieri stava tanto bene!" La sorella tacque. Dopo una lunga pausa, Domenico ripigliò: "È pure strano il cangiamento della Marescialla a mio riguardo! Ditemi, signorina, ve lo chieggo in grazia, sarebbe forse la malattia di vostra sorella cagionata dall'essermi seduto un istante a lei vicino ieri sera?" "Credo di sì." "Dio buono! Pare che la signora madre sia andata in cerca d'un pretesto per allontanarmi. Sono stati tanto innocenti i nostri discorsi, tenuti d'altronde in sua presenza, che non so a qual altro motivo attribuire la mia disgrazia." Il giovine trasse un sospiro, e continuò: "Ebbene..... non verrò più! Sia fatta la volontà di vostra madre! Vogliate però assicurare vostra sorella, che niente avrà la forza di cangiare il mio cuore per lei." Si alzò, e senza prendere commiato, senza guardare alcuno, celermente uscì. - Sera nefasta della mia vita! I tuoi affanni non saranno cancellati giammai dalla mia memoria! La separazione non poteva che esacerbare le furenti gelosie di Domenico. Per mezzo dell'amico suo mi fece conoscere, che se io voleva dargli una prova della mia costanza, doveva astenermi dal ballare con chicchessia. Niente di più confacevole al mio cordoglio: promisi d'astenermene totalmente. Una sera mi posi al piano-forte mentre si ballava una quadriglia. "Perchè non balli?" venne a domandarmi la madre, atteggiata di sdegno. "Non mi sento bene." "Vorresti, ragazza darla ad intendere a me! Qui, non m'inganno, ci deve star sotto qualche divieto dell'amante....." "Vi assicuro che....." "Bada che non soffro capricci. Alzati e balla!" Mi convenne ubbidire; ma fui tratta della danza in uno stato non lontano dal deliquio. Nè s'arrestarono lì i rigori della madre. Saputosi che Domenico ronzava l'intera notte intorno alla nostra casa per osservare i passi di coloro che ci visitavano, e conoscere se fra quelli vi fosse per avventura qualche rivale, mi venne imposto di non affacciarmi ad altra finestra, se non a quella solamente che non dava sulla via maggiore, ed era riparata da ogni parte. Se l'incalzare delle restrizioni ebbe per effetto di fomentare sino allo stato di frenesia l’umore naturalmente permaloso, e la passione fosca del giovine, io, dal canto mio, mi trovai in una di quelle crudeli alternative, dalle quali impossibil cosa è l'uscir senza discapito. Relativo a questa mia situazione avvenne in quel mentre un fatto, che mi credo in dovere di non passare in silenzio. Messina, cospicua città, situata, come si sa, a dodici miglia di distanza da Reggio, e divisa da quello stretto che in tempo procelloso fa impallidire il più esperto nocchiero, suole festeggiare con pompa solenne l'Assunzione della Vergine per quattro giorni, che cominciano al 12 e finiscono al 15 d'agosto. Questa festa, singolare miscuglio di sacro e di profano, di cristiano e d'idolatrico, di costume europeo e di indiano, mette in gran movimento le genti de' paesi limitrofi e delle Calabrie. Due smisurati cavalli di carta pesta, montati da due giganti della stessa materia, veggonsi drizzati nella piazza dell'Arcivescovado. Una pelle di cammello, da' Messinesi chiamato Beato (non so perchè) copre due altri uomini della plebe. Il cammello si accosta ai venditori d'ogni genere, e questi, per devozione, intromettono nella bocca spalancata del questuante quadrupede una porzione della loro merce, la quale viene raccolta in sacchi per le spese della festa. La parte più rilevante della solennità consiste nella seguente processione: Una macchina enorme è condotta per la città. Sopra la stessa sono messi in movimento rotatorio parecchi pezzi, simboleggianti i corpi celesti, come il sole, la luna, i pianeti ec. Vi sono pur fatti rotare de' cerchi, che grandi alla base, vanno impicciolendosi alla sommità. Bella e sontuosamente fregiata è quella macchina, eretta e posta in azione ad onore di Colei che diede la luce al Dio della carità! Ma le sue funzioni ti rammentano il famoso carro di Jagganatha, o le nefande ecatombe de' Druidi. A quella vista ti rifugge il cuore, nè puoi contenerti dal gridare all'orrenda barbarie. A' raggi del sole, della luna, e intorno a' cerchi sono legati de' bambini lattanti, le cui snaturate madri, mercè il vile guadagno di pochi ducati che dà loro l'impresario dello spettacolo, li fanno simboleggiare gli angioletti che accompagnano l'Assunta al cielo. Questi innocenti pargoletti, non d'altro colpevoli se non d'essere nati figli di madri inumane, e d'aver veduto il mondo in un secolo non abbastanza dirozzato, scendono o morti o moribondi dalla ruota fatale, dopo di aver girato in sensi opposti per sette ore. Terminate la festa, o per meglio dire, giunto al termine il sagrifizio, accorrono stipate, affollate, urlanti le madri, l'una respingendo l'altra, questa bussando quella, e tutte di conserva impazienti di verificare se morta o salva sia uscita la respettiva loro creatura. Comincia allora una scena d'altro genere, che talvolta finisce con ispargimento di sangue. Non essendo, pel grande numero, facili a riconoscersi dalle madri i sopravvissuti figli, l'una disputa all'altra il frutto delle sue viscere, mentre le imprecazioni delle disputanti e i lamenti delle più addolorate si mescolano agli scherni assordanti degli spettatori e a' fischi della ciurmaglia. Quelle poi fra le devote, che tornano in casa loro prive del proprio figlio, consolansi dicendo, che Maria, invaghitasi dell'avvenente angioletto, ha voluto menarlo seco lei in paradiso. Appagate da tale convinzione, s'intrattengono a banchettare colle femmine del vicinato, infino a che scialacquato sia del tutto il prezzo ottenuto, non dubitando di percepire da' preti ulteriori soccorsi, in memoria de' loro angioletti involatisi gloriosamente a' beati Elisi. Avvicinavasi dunque il tempo di questa festa, manifestazione di uno de' sopraddetti tre F Borbonici. I nostri amici, unitamente a' miei genitori, progettarono di assistervi. La brigata era di quaranta persone, ed una sarebbe stata la casa che doveva alloggiare tutti. Io mi trovava agitata, immaginando il cruccio che avrebbe arrecato a Domenico l'annunzio di tale divertimento, perchè nella brigata s'erano insinuati dei giovani, pe' quali egli sentiva un'ingiusta, ma pure straziante gelosia. Ve n'era uno fra gli altri, il quale, ignaro del nostro amore, aveva confidato a Domenico stesso il segreto della simpatia che disgraziatamente io gli aveva ispirata. Appena seppe il progetto, si abbandonò alle più spropositate smanie, e col solito messo mi fece conoscere, che se avessi lasciato Reggio si sarebbe ucciso. Invano Paolo, l'amico suo, gli fece osservare che esigeva da me cosa superiore alla mia volontà, non essendo presumibile che i miei genitori volessero lasciarmi sola; nè d'altronde potendo io lottare contro il loro comando. Cercò persuaderlo co' più efficaci argomenti, promettendogli inoltre ch'egli stesso non si sarebbe mosso dal fianco mio, e m'avrebbe dato il braccio nelle passeggiate, per evitare ch'altri mi avesse approssimata. Gli giurò di più, in nome dell'amicizia che li univa, come schietto e sincero, che al suo ritorno gli avrebbe reso conto della mia condotta rispetto ai rivali immaginarii. Rassicurato alquanto da questa promessa, mi precedette di poche ore nel viaggio; talchè, non appena giunti al porto di Messina, lo vidi lungo il molo che stava aspettandomi. Egli ci seguì da lontano, e conosciuta la nostra dimora s'installò in un caffè, donde senza esser veduto da mia madre, potea vedere i balconi della casa da me abitata. Paolo mantenne puntualmente la promessa. Si allogò a me dappresso, come l'ombra mia stessa, facendo del corpo suo una barriera insormontabile per ogni altra persona che avesse voluto avvicinarmisi. Mi sapeva mill'anni che, scevro di qualche dispiacere, giungesse l'ultimo giorno della festa. - Disgraziatamente non fu così. Erano le nove di sera, allorchè Paolo mi disse che usciva un momento solo, per fare acquisto d'un oggetto che gli era necessario. "Fate presto, Paolo, per carità," gli dissi: "sapete bene che alle dieci dovrò seguire la brigata al palazzo della Borsa." "Sì," rispose; "ma c'è un'ora ancora di tempo, ed io chiedo solamente pochi minuti." Ciò detto, se ne partì. Non aveva appena scesa la scala, che mia madre ordinò a me e a Giuseppina di prepararci per uscir di casa. "Ma che faremo," le dissi, "sino alle dieci, ora fissata per recarci alla Borsa?" "Andremo attorno per godere della luminara." "Non siamo tutti," soggiunsi: "manca ancora qualcuno della comitiva." "Chi manca ci raggiungerà," replicò essa in tuono che non ammetteva replica. Mi tacqui, e feci lentamente gli apparecchi necessari, colla speranza che Paolo esser dovesse di ritorno per darmi il braccio. Mia madre, Giuseppina, e gli altri aspettavano già pronti che mi unissi a loro. Strappai un bottoncino dal guanto, e pregai che avessero la pazienza di attendermi, finchè con un ago me lo riattaccassi. "Inutile!" fece mia madre in collera. "Eccoti uno spillo, che farà le veci del bottoncino." Presi lo spillo, e seguii la brigata, guardando affannosamente se Paolo arrivasse. Una voce mi scosse: "Signorina, poichè il vostro cavaliere è assente, vorrete gradire il braccio mio, invece del suo?" Alzai gli occhi: era quel desso, che aveva detto a Domenico sentire particolare simpatia per me... - Oh, Dio, quale imbarazzo! Come fare per disimpegnarmene? - Restai in forse, se accettare, o bruscamente ricusare. Mia madre mi guardava fissa; parecchi altri signori avevano udita l'offerta. L'urbanità, la confusione, il timore prevalsero. Gli porsi il braccio per metà, come se paventassi qualche contagio, e seguitai il cammino senza far motto. Allo svolgere della strada, non ostante l'immensa calca di gente, chi mi veggo innanzi? Domenico. Egli moveva alla volta mia. Il lividore di un morto è forse minore di quello che copriva il suo volto: aveva l'aspetto d'un vampiro infuriato. Guardò biecamente, ferocemerte il mio compagno, indi, volto quell'occhio terribile su di me, avventossi, come per atterrarmi, pronunziando parole inintelligibili. Misi un grido. Il frastuono della strada, per buona fortuna, lo coprì. Frattanto la folla mi aveva separata da Domenico, e siccome opposte eran le vie che facevamo, egli tirò per la sua, noi proseguimmo la nostra. Non perciò sedato fu il mio spavento, chè anzi, consapevole dell’impetuoso carattere dell'innamorato, temetti non ritornasse munito di un'arma micidiale, onde attentare alla mia od alla vita del povero giovine. Mi quetai un poco, soltanto quando fui giunta alla Borsa. Entrata nella grande sala, dissi a Paolo sotto voce di seguirmi al balcone, ed ivi gli narrai l'accaduto; al che, mostratosi questi dolentissimo, disse di volere mettervi pronto riparo, correndo immantinente in cerca dell'amico suo, e rappresentandogli la mia innocenza. Chi ha provato l'amore, può di leggieri comprendere quale fosse il mio stato. Amava Domenico con amore tenero ed affettuoso; era attentissima a non dargli alcun motivo di gelosia - ed intanto passava ai suoi occhi per donna frivola ed incostante. Spuntò l'alba, sempre desiderata dagli amanti afflitti, e la gente di servizio cominciò a fare gli apparecchi del ritorno. Poche ore dopo eravamo in Reggio. Paolo fu sollecito a venir la sera prima dell'usato. Lo interrogai cogli occhi se avesse veduto Domenico. - Con un leggero chinar di capo m'accennò di sì. Mi raccontò più tardi, che il furore aveva condotto l'amico suo ad un passo di pazza disperazione. Determinato di troncare meco, ed una volta per sempre, qualunque relazione, egli avea promesso a suo padre di partire, senz'altro indugio per Napoli. La parola era già data, nè più potevasi ritrattare. Nondimeno, gli acerbi rimproveri di Paolo, e gli atti della mia giustificazione, aveano esercitato un'influenza benefica sullo spirito di lui, nè era lontano dal pentirsi del passo, che fatto aveva in un momento di folle dispetto. M'alzai, non potendo frenare la commozione prodotta dalle parole di Paolo, e ritiratami in disparte, meditai un istante. Poscia, ripresa la perduta energia, tornai ad occupare il posto abbandonato accanto al confidente delle mie pene. "Un ultimo favore vi chieggo," gli dissi con fermo accento. "Vogliate riabboccarvi con Domenico, non per altro se non per annunziargli a nome mio che la parte offesa sono io. Può partire o restate a suo agio, non me ne curo più, conoscendomi innocente della colpa che m'attribuisce. Possa trovar egli in Napoli donna più fedele di me!" Da quel momento, coerente alla risoluzione presa, e forte della mia lealtà, feci le viste di volermi totalmente staccare da lui; ma egli, sinceramente ravvedutosi, avea digià riprese le consuete passeggiate sotto le mie finestre. Era un giorno di domenica, ed il giorno fissato alla sua partenza era il seguente martedì. Come ho già detto, trovavasi nella nostra casa un coretto che dava nell'interno della chiesa di Sant'Agostino. Ivi recatami per ascoltare la messa, vidi Domenico di rimpetto a me. L'amore, che spento non era nel mio cuore, malgrado gli sforzi che faceva per soffocarvelo, mi fece volgere lo sguardo verso di lui. Finita la messa, volea ritirarmene: al patetico segno ch'egli mi fece di volermi arrestare per poco, ebbi la debolezza di condiscendere. Come tutta la gente fu uscita di chiesa, egli, avvicinatosi al cancello, e giunte le mani in atto supplichevole, mi disse: "Perdonatemi! Confesso il delirio mio!" Lo guardai: l'espressione del suo volto era tale da disarmare il più forte risentimento. Colle lagrime agli occhi risposi: "Crudele! posdomani parti, m'abbandoni, e chiedi perdono!?" "Per questo sacro luogo in cui ci ritroviamo," soggiunse, "giuro che fra un mese sarò restituito a te, malgrado gli ordini del padre, il quale mi vorrebbe allontanato per un anno intero!" "Accetto il tuo impegno: a questo patto dimentico gli oltraggi." Un leggero tossire ci avvertì essere entrato qualcuno in chiesa. "Addio!" disse Domenico. "Addio!" ripetei con voce velata dalla commozione. Allontanossi, e giunto alle spalle dell'altare, presso alla porta minore della chiesa, si volse di nuovo, e mi disse: "Non mi tradire!" -Tradirlo! Or che mi rendeva l'amor suo, qual altra fortuna poteva io desiderare?-

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