Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Lo stralisco

208502
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Il respiro corto e la sveltezza del cuore lo rendevano agitato, mano a mano che si accostava al corpo coperto di seta verde, immobile nella luce abbondante ma discreta dei lampadari. Gli sembrò dapprima esile: ma guardando lo vide fiorire in armoniosa completezza. La lenta e lunga curva dell'anca saliva nell'onda del fianco, e poi del polpaccio a metà scoperto, fino alla grazia sottile della caviglia e all'arzigogolo finissimo del piede. I capelli, di nero profondo, con un remoto barbaglio rossastro, si gonfiarono ad un movimento del capo in una bolla setosa. Per vedere il volto dell'addormentata, Gentile avrebbe dovuto aggirare il giaciglio: guardò verso il boschetto di palme: il silenzioso accompagnatore accennò, appena visibile, che proseguisse la sua esplorazione. Spostandosi a sinistra, a passi lievi, il pittore si portò oltre il baldacchino, sorprendendo la fronte sgombra e il viso di lei. Uno sgomento del capo, del corpo, delle viscere, gli fece di colpo piegare le ginocchia: per un urto, un peso improvviso, un abbagliamento dell'anima, cadde in ginocchio a due metri dal giaciglio: finché la notizia che gli occhi davano, la novella che lo sguardo leggeva, lo fecero finalmente tremare fino alla profondità, e gli tolsero il fiato. Non riuscí a confrontare quel volto con altri, pure bellissimi, che aveva veduto; né gli accadde di giudicarlo il migliore: gli sembrò invece il primo, l'unico possibile, di una nuova e sconosciuta natura, in cui proporzione dolcezza e grazia a tale equilibrio erano giunti da impegnare per la sua raffigurazione e la sua lode generazioni intere di pittori e di poeti. Alzò la faccia oltre il corpo di lei: come chiedendo aiuto con gli occhi a quelli del suo accompagnatore: ma non vide, accecato di lacrime violente e abbondanti, altro che il misterioso e pacato intrico dei palmizi. Non vide, per lacrime ed ombra, lo sguardo di riservata simpatia, di mesta comprensione, che forse dal folto dei rami gli giungeva.

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Dalle larghe e alte feritoie schermate da garza bianchissima entrava una luce abbondante e uniforme, che riempiva lo spazio come un latte gassoso. L'unico accesso dal resto del palazzo era la soglia ad arco nella prima stanza a cui si giungeva dopo aver passato tre tende poste a un passo una dall'altra, triplice ostacolo per l'aria di fuori. Fra stanza e stanza non v'erano tende, ma larghe soglie squadrate: anche da quelle, come dagli angoli di ogni stanza, il burban aveva fatto togliere gli spigoli. L'insieme dei tre locali era tanto vasto che Madurer, percorrendone il perimetro, poteva contare quasi cento passi uniformi. Il letto del bambino era al centro della prima stanza. In quella, come nelle altre, pochi mobili di legno prezioso erano sparsi nello spazio chiaro. A qualche passo dal letto di Madurer stava un basso scaffale in avorio, pieno di libri e di giochi. Fu proprio accanto allo scaffale che Sakumat fece collocare il suo giaciglio. Durante il giorno, coperto di cuscini di seta, serviva ai due amici da punto di osservazione e di gioco. Era ancora in quella stanza, la prima, che tre volte al giorno veniva Ganuan a parlare e giocare con il figlio; e due volte al giorno, con Sakumat, padre e figlio pranzavano su un tavolo basso che i servitori portavano già imbandito nella seconda stanza. — Da dove cominciamo, Madurer? — chiese un mattino il pittore, dopo molti giorni di progetti e conversazioni. — Siamo davvero pronti, Sakumat? — chiese il bambino. — Vedi quanti pennelli? Abbiamo ogni tipo di colore. Il burban tuo padre ha fatto arrivare per noi gli oli e le polveri colorate piú preziose tra quelli che i mercanti portano dalla Persia con i cammelli. — Non intendevo questo, Sakumat. Io chiedo se... siamo sicuri delle cose da dipingere. — Abbiamo qualche idea, Madurer. — Si, certo. Ma non bisogna sbagliare. — Perché dici questo? Perché non bisogna sbagliare? — Perché se sbagliamo... se non facciamo le figure come vanno fatte, dovremo tenerle per sempre. Sakumat alzò una mano. Disse: — Invece possiamo sbagliare, Madurer. Basterà tenere gli occhi aperti, e accorgersi degli errori. Forma cancella forma, e colore copre colore. Però ora bisogna cominciare. Se non cominciamo non possiamo fare le cose giuste, e nemmeno quelle sbagliate. — Sí, — disse il bambino, — hai ragione. — E dunque, da dove cominciamo? Quale parete dipingiamo per prima? — Questa. No... quella! Oppure... Vedi, Sakumat? Sbaglio già adesso, e non abbiamo nemmeno cominciato! — Non stai sbagliando, Madurer. Stai decidendo. Questo è sempre difficile: ma si può fare. Sakumat attese in silenzio. Il bambino si era fatto molto serio. — Cominciamo da questa parete, — disse poi, — qui, a destra della porta. — Bene. E cosa dipingiamo? Ci fu altro silenzio. Madurer si leccava le labbra e respirava profondamente, con gli occhi spalancati. Sakumat teneva le mani appoggiate su un cuscino, davanti a sé. — Abbiamo parlato di molti luoghi, ricordi? — disse. — Sí, ricordo. Ma aspetta un poco, per favore. È proprio difficile scegliere. — Noi non abbiamo fretta, Madurer. Nessuna fretta davvero. — Cominciamo con la montagna. Ricordi quando abbiamo parlato del prato fiorito e del pastore Mutkul? Facciamo la montagna dove vive Mutkul! — Quella soltanto, Madurer? — No, certo! Anche le montagne intorno. Non tutte le montagne del mondo... Facciamo delle montagne. Sakumat non chiese altro: si mise al lavoro. Con un carboncino tracciò le linee di una grande vallata, schizzando vette rocciose intorno. Indicò con tratti leggeri le zone di bosco, definí sul fondo della valle i campi coltivati. Tratteggiò un gruppo di case di pietra e una strada che si arrampicava sul monte, sparendo a tratti in avvallamenti pietrosi. Dietro di lui Madurer guardava incantato. Ogni tanto si spostava inquieto, seguendo con il capo e il corpo i segni del carboncino sulla parete. Poi, calmato, sedeva sui cuscini e osservava a occhi socchiusi, godendosi le svelte aggiunte di Sakumat, ammirando il nascere ed ampliarsi degli spazi nella pittura. — Quello che cosa è, Sakumat? — Forse è un macigno. O una capanna. Vuoi che sia una capanna? — Ma può essere una capanna? — Certo. È vicina al grande campo... Può essere la capanna del contadino. — Però, Sakumat, è davvero una capanna? Tu volevi fare la capanna? Sembra un macigno. — È solo uno schizzo, Madurer. Niente è ancora finito. Potrebbe essere un macigno. E può essere la capanna del contadino. Il pittore, con tocchi leggeri, aggiunse qualche segno, e formò l'immagine della capanna. — È la capanna di un amico di Mutkul! — sbottò entusiasta Madurer. — Come si chiama? — chiese Sakumat senza voltarsi, — non ricordavo che Mutkul avesse un amico. — Nella storia non c'era, infatti! Però Mutkul poteva avere un amico contadino, vero? — Certo che poteva. Era un uomo socievole, anche se stava bene con le sue capre e il suo cane. — Allora facciamo che si chiamava Insubat! — Sí: questa è la capanna di Insubat. Aveva molte pecore, Insubat? — No, perché non era un pastore: era contadino. Aveva un bue per tirare l'aratro e anche un asino vecchio dal muso peloso. Sakumat schizzava rapidamente. — Ecco, questo è il piccolo recinto per il bue e l'asino, — disse, — è qui, dietro la capanna. Madurer si era di nuovo alzato e guardava ansioso la parete. — E la capanna di Mutkul, dove la mettiamo? — Ci penseremo oggi, Madurer, — disse il pittore, — ora siamo un po' stanchi. E fra poco arriverà il burban. Piú tardi, nel pomeriggio, mentre sfogliavano insieme un libro che mostrava molti insetti dalle lunghe zampe, il bambino chiese: — E il grande macigno, Sakumat? — Quale macigno? — Quello che... Quello che poteva essere un macigno, e dopo è diventato la capanna di Insubat. Quello che non era ancora la capanna... Il macigno che avrebbe potuto esserci, insomma... — Sí, ricordo. Cosa vuoi sapere? — Dov'è? — Non so, Madurer. Non esisteva ancora... C'era qualcosa, là, e abbiamo deciso che è la capanna di Insubat. C'è solo la capanna di Insubat. — Ma avrebbe potuto esserci anche il macigno, vero? E se non c'è, dov'è? Voglio dire, non esiste proprio per niente? Non c'è? Sakumat stava per rispondere, ma si trattenne. Tacque per qualche istante. Poi disse: — Forse è dall'altra parte della montagna. È sul lato che non vediamo. Madurer prese a sfogliare il libro. — Facciamo che è dall'altra parte della montagna, — disse, — quella dove ci sono anche i ladri di bestiame. E proprio in un bosco di cedri. Non è mai completamente illuminato dal sole, perché i rami dei cedri sono fittissimi. — Allora deve essere un po' coperto di muschio, - disse Sakumat. — Di che colore è il muschio? — chiese il bambino, continuando a sfogliare il libro. — Io ho letto che è verde. Ma è verde come questa farfalla? È verde cosí il muschio? — Un po' piú scuro. Assomiglia al verde di... questa parte del disegno. Ma ci sono molti tipi di muschio, e certamente esiste un muschio piú chiaro. Forse esiste un muschio dello stesso colore della farfalla. — Tu l'hai visto? — No. Non c'è molto muschio, in questa regione. Ma piú a sud, e anche a nord, fra le montagne alte, se ne trova moltissimo. Cosí dicono i viaggiatori. Madurer alzò la faccia. — Se esiste davvero, — disse, — e se la farfalla ci va sopra, nessuno la può vedere, perché ha lo stesso colore. — Sí, è cosí, — disse Sakumat, — come la lucertola sulla roccia. Madurer rise brevemente. Poi disse: Tu credi che la farfalla sappia di esistere, quando è sul, muschio verde chiaro? Anche Sakumat rise. — Sí. Credo che sappia di esistere allo stesso modo di quando vola, o è in riva a una goccia d'acqua... — Io invece credo che lo sappia un po' meno, — disse Madurer, continuando la sua risata leggera.

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Non soltanto: non può abitare una stanza come questa, per la cui finestra passa libera ed abbondante la luce e l'aria delle montagne. Tutti i medici di Turchia che possono vantare scienza e sapienza sono venuti in questa casa: tutti mi hanno spiegato, superandosi in bravura, la natura misteriosa e incurabile del malanno. Alcuni hanno sentito di simili casi in altri luoghi, o altri tempi. Alcuni parlano di sostanze nocive che il corpo di mio figlio assorbe dall'aria, e che la luce rende piú potenti. Ma quali siano queste sostanze, e come si possa difendere il mio figliolo, non sanno. Tutti hanno consigliato fermamente che Madurer viva nella parte interna e piú riparata del palazzo, che respiri un'aria filtrata da strati di garza umida, non abbia finestre o luce diretta, ma solo quella mandata nelle sue stanze da lucernari. Cosí accade: da più di cinque anni, da quando si manifestò la sciagura, mio figlio non, è mai uscito da questa casa, né gli è dato godere da una finestra lo spazio della vallata e la luce del sole. Nemmeno è consentito che nelle sue stanze siano messi piante o fiori, o semplici tralci di vite per ornamento, perché terra e pollini o la sostanza stessa dei vegetali gli sono nocivi. Dopo aver parlato guardando negli occhi Sakumat, il burban abbassò il capo e tacque a lungo. Anche il pittore taceva, e aspettava. Ganuan alzò la faccia, e disse: — Ora ho pensato di abbellire le stanze di mio figlio con figure e colori. Ho sentito parlare di te da mercanti e cacciatori di passaggio: per questo ti ho mandato a chiamare. Non avrai da lamentarti della mia ospitalità e del compenso, quando te ne andrai. Ti prego di accettare. Il burban guardava di nuovo gli occhi di Sakumat, e respirava profondamente. La sua mano destra, forte e scura, stringeva la cintura di pelle borchiata come si stringe la briglia di un cavallo ribelle. — Posso farti una domanda, signore? — disse il pittore. — Tutta la mia attenzione è tua, e tutta la verità che conosco sarà nelle mie risposte, — disse il burban. — Cosa desideri che io dipinga nelle stanze del tuo figliolo? — A questo non ho pensato, con precisione, — disse il burban, — lo decideranno la tua arte e il tuo pensiero. — Ecco un'altra domanda. Come è l'anima del tuo figliolo? La sua sorte, dura per un bambino, lo rende infelice? E il suo volto e il suo corpo, come si potrebbe immaginare, sono inerti e chiusi, simili alle piante che non ricevono luce? Il burban socchiuse gli occhi per un istante. La mano sulla cintura si rilassò. — A queste domande non risponderò, amico mio, — disse, — non perché non voglia: ma le parole di un padre non sono le piú adatte per parlare del figlio. Sentendole, tu non potresti fare a meno di pensare quanto è grande l'illusione, e quanto è bugiardo l'affetto. Ma poiché, se non mi inganno, hai generosamente accettato la mia preghiera, la risposta te la daranno direttamente il corpo e il volto e l'anima del mio figliolo. Tu stesso vedrai.

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