Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Numero di risultati: 15 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Giovanna la nonna del corsaro nero

204994
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Lo stralisco

208502
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Il respiro corto e la sveltezza del cuore lo rendevano agitato, mano a mano che si accostava al corpo coperto di seta verde, immobile nella luce abbondante ma discreta dei lampadari. Gli sembrò dapprima esile: ma guardando lo vide fiorire in armoniosa completezza. La lenta e lunga curva dell'anca saliva nell'onda del fianco, e poi del polpaccio a metà scoperto, fino alla grazia sottile della caviglia e all'arzigogolo finissimo del piede. I capelli, di nero profondo, con un remoto barbaglio rossastro, si gonfiarono ad un movimento del capo in una bolla setosa. Per vedere il volto dell'addormentata, Gentile avrebbe dovuto aggirare il giaciglio: guardò verso il boschetto di palme: il silenzioso accompagnatore accennò, appena visibile, che proseguisse la sua esplorazione. Spostandosi a sinistra, a passi lievi, il pittore si portò oltre il baldacchino, sorprendendo la fronte sgombra e il viso di lei. Uno sgomento del capo, del corpo, delle viscere, gli fece di colpo piegare le ginocchia: per un urto, un peso improvviso, un abbagliamento dell'anima, cadde in ginocchio a due metri dal giaciglio: finché la notizia che gli occhi davano, la novella che lo sguardo leggeva, lo fecero finalmente tremare fino alla profondità, e gli tolsero il fiato. Non riuscí a confrontare quel volto con altri, pure bellissimi, che aveva veduto; né gli accadde di giudicarlo il migliore: gli sembrò invece il primo, l'unico possibile, di una nuova e sconosciuta natura, in cui proporzione dolcezza e grazia a tale equilibrio erano giunti da impegnare per la sua raffigurazione e la sua lode generazioni intere di pittori e di poeti. Alzò la faccia oltre il corpo di lei: come chiedendo aiuto con gli occhi a quelli del suo accompagnatore: ma non vide, accecato di lacrime violente e abbondanti, altro che il misterioso e pacato intrico dei palmizi. Non vide, per lacrime ed ombra, lo sguardo di riservata simpatia, di mesta comprensione, che forse dal folto dei rami gli giungeva.

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Dalle larghe e alte feritoie schermate da garza bianchissima entrava una luce abbondante e uniforme, che riempiva lo spazio come un latte gassoso. L'unico accesso dal resto del palazzo era la soglia ad arco nella prima stanza a cui si giungeva dopo aver passato tre tende poste a un passo una dall'altra, triplice ostacolo per l'aria di fuori. Fra stanza e stanza non v'erano tende, ma larghe soglie squadrate: anche da quelle, come dagli angoli di ogni stanza, il burban aveva fatto togliere gli spigoli. L'insieme dei tre locali era tanto vasto che Madurer, percorrendone il perimetro, poteva contare quasi cento passi uniformi. Il letto del bambino era al centro della prima stanza. In quella, come nelle altre, pochi mobili di legno prezioso erano sparsi nello spazio chiaro. A qualche passo dal letto di Madurer stava un basso scaffale in avorio, pieno di libri e di giochi. Fu proprio accanto allo scaffale che Sakumat fece collocare il suo giaciglio. Durante il giorno, coperto di cuscini di seta, serviva ai due amici da punto di osservazione e di gioco. Era ancora in quella stanza, la prima, che tre volte al giorno veniva Ganuan a parlare e giocare con il figlio; e due volte al giorno, con Sakumat, padre e figlio pranzavano su un tavolo basso che i servitori portavano già imbandito nella seconda stanza. — Da dove cominciamo, Madurer? — chiese un mattino il pittore, dopo molti giorni di progetti e conversazioni. — Siamo davvero pronti, Sakumat? — chiese il bambino. — Vedi quanti pennelli? Abbiamo ogni tipo di colore. Il burban tuo padre ha fatto arrivare per noi gli oli e le polveri colorate piú preziose tra quelli che i mercanti portano dalla Persia con i cammelli. — Non intendevo questo, Sakumat. Io chiedo se... siamo sicuri delle cose da dipingere. — Abbiamo qualche idea, Madurer. — Si, certo. Ma non bisogna sbagliare. — Perché dici questo? Perché non bisogna sbagliare? — Perché se sbagliamo... se non facciamo le figure come vanno fatte, dovremo tenerle per sempre. Sakumat alzò una mano. Disse: — Invece possiamo sbagliare, Madurer. Basterà tenere gli occhi aperti, e accorgersi degli errori. Forma cancella forma, e colore copre colore. Però ora bisogna cominciare. Se non cominciamo non possiamo fare le cose giuste, e nemmeno quelle sbagliate. — Sí, — disse il bambino, — hai ragione. — E dunque, da dove cominciamo? Quale parete dipingiamo per prima? — Questa. No... quella! Oppure... Vedi, Sakumat? Sbaglio già adesso, e non abbiamo nemmeno cominciato! — Non stai sbagliando, Madurer. Stai decidendo. Questo è sempre difficile: ma si può fare. Sakumat attese in silenzio. Il bambino si era fatto molto serio. — Cominciamo da questa parete, — disse poi, — qui, a destra della porta. — Bene. E cosa dipingiamo? Ci fu altro silenzio. Madurer si leccava le labbra e respirava profondamente, con gli occhi spalancati. Sakumat teneva le mani appoggiate su un cuscino, davanti a sé. — Abbiamo parlato di molti luoghi, ricordi? — disse. — Sí, ricordo. Ma aspetta un poco, per favore. È proprio difficile scegliere. — Noi non abbiamo fretta, Madurer. Nessuna fretta davvero. — Cominciamo con la montagna. Ricordi quando abbiamo parlato del prato fiorito e del pastore Mutkul? Facciamo la montagna dove vive Mutkul! — Quella soltanto, Madurer? — No, certo! Anche le montagne intorno. Non tutte le montagne del mondo... Facciamo delle montagne. Sakumat non chiese altro: si mise al lavoro. Con un carboncino tracciò le linee di una grande vallata, schizzando vette rocciose intorno. Indicò con tratti leggeri le zone di bosco, definí sul fondo della valle i campi coltivati. Tratteggiò un gruppo di case di pietra e una strada che si arrampicava sul monte, sparendo a tratti in avvallamenti pietrosi. Dietro di lui Madurer guardava incantato. Ogni tanto si spostava inquieto, seguendo con il capo e il corpo i segni del carboncino sulla parete. Poi, calmato, sedeva sui cuscini e osservava a occhi socchiusi, godendosi le svelte aggiunte di Sakumat, ammirando il nascere ed ampliarsi degli spazi nella pittura. — Quello che cosa è, Sakumat? — Forse è un macigno. O una capanna. Vuoi che sia una capanna? — Ma può essere una capanna? — Certo. È vicina al grande campo... Può essere la capanna del contadino. — Però, Sakumat, è davvero una capanna? Tu volevi fare la capanna? Sembra un macigno. — È solo uno schizzo, Madurer. Niente è ancora finito. Potrebbe essere un macigno. E può essere la capanna del contadino. Il pittore, con tocchi leggeri, aggiunse qualche segno, e formò l'immagine della capanna. — È la capanna di un amico di Mutkul! — sbottò entusiasta Madurer. — Come si chiama? — chiese Sakumat senza voltarsi, — non ricordavo che Mutkul avesse un amico. — Nella storia non c'era, infatti! Però Mutkul poteva avere un amico contadino, vero? — Certo che poteva. Era un uomo socievole, anche se stava bene con le sue capre e il suo cane. — Allora facciamo che si chiamava Insubat! — Sí: questa è la capanna di Insubat. Aveva molte pecore, Insubat? — No, perché non era un pastore: era contadino. Aveva un bue per tirare l'aratro e anche un asino vecchio dal muso peloso. Sakumat schizzava rapidamente. — Ecco, questo è il piccolo recinto per il bue e l'asino, — disse, — è qui, dietro la capanna. Madurer si era di nuovo alzato e guardava ansioso la parete. — E la capanna di Mutkul, dove la mettiamo? — Ci penseremo oggi, Madurer, — disse il pittore, — ora siamo un po' stanchi. E fra poco arriverà il burban. Piú tardi, nel pomeriggio, mentre sfogliavano insieme un libro che mostrava molti insetti dalle lunghe zampe, il bambino chiese: — E il grande macigno, Sakumat? — Quale macigno? — Quello che... Quello che poteva essere un macigno, e dopo è diventato la capanna di Insubat. Quello che non era ancora la capanna... Il macigno che avrebbe potuto esserci, insomma... — Sí, ricordo. Cosa vuoi sapere? — Dov'è? — Non so, Madurer. Non esisteva ancora... C'era qualcosa, là, e abbiamo deciso che è la capanna di Insubat. C'è solo la capanna di Insubat. — Ma avrebbe potuto esserci anche il macigno, vero? E se non c'è, dov'è? Voglio dire, non esiste proprio per niente? Non c'è? Sakumat stava per rispondere, ma si trattenne. Tacque per qualche istante. Poi disse: — Forse è dall'altra parte della montagna. È sul lato che non vediamo. Madurer prese a sfogliare il libro. — Facciamo che è dall'altra parte della montagna, — disse, — quella dove ci sono anche i ladri di bestiame. E proprio in un bosco di cedri. Non è mai completamente illuminato dal sole, perché i rami dei cedri sono fittissimi. — Allora deve essere un po' coperto di muschio, - disse Sakumat. — Di che colore è il muschio? — chiese il bambino, continuando a sfogliare il libro. — Io ho letto che è verde. Ma è verde come questa farfalla? È verde cosí il muschio? — Un po' piú scuro. Assomiglia al verde di... questa parte del disegno. Ma ci sono molti tipi di muschio, e certamente esiste un muschio piú chiaro. Forse esiste un muschio dello stesso colore della farfalla. — Tu l'hai visto? — No. Non c'è molto muschio, in questa regione. Ma piú a sud, e anche a nord, fra le montagne alte, se ne trova moltissimo. Cosí dicono i viaggiatori. Madurer alzò la faccia. — Se esiste davvero, — disse, — e se la farfalla ci va sopra, nessuno la può vedere, perché ha lo stesso colore. — Sí, è cosí, — disse Sakumat, — come la lucertola sulla roccia. Madurer rise brevemente. Poi disse: Tu credi che la farfalla sappia di esistere, quando è sul, muschio verde chiaro? Anche Sakumat rise. — Sí. Credo che sappia di esistere allo stesso modo di quando vola, o è in riva a una goccia d'acqua... — Io invece credo che lo sappia un po' meno, — disse Madurer, continuando la sua risata leggera.

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Non soltanto: non può abitare una stanza come questa, per la cui finestra passa libera ed abbondante la luce e l'aria delle montagne. Tutti i medici di Turchia che possono vantare scienza e sapienza sono venuti in questa casa: tutti mi hanno spiegato, superandosi in bravura, la natura misteriosa e incurabile del malanno. Alcuni hanno sentito di simili casi in altri luoghi, o altri tempi. Alcuni parlano di sostanze nocive che il corpo di mio figlio assorbe dall'aria, e che la luce rende piú potenti. Ma quali siano queste sostanze, e come si possa difendere il mio figliolo, non sanno. Tutti hanno consigliato fermamente che Madurer viva nella parte interna e piú riparata del palazzo, che respiri un'aria filtrata da strati di garza umida, non abbia finestre o luce diretta, ma solo quella mandata nelle sue stanze da lucernari. Cosí accade: da più di cinque anni, da quando si manifestò la sciagura, mio figlio non, è mai uscito da questa casa, né gli è dato godere da una finestra lo spazio della vallata e la luce del sole. Nemmeno è consentito che nelle sue stanze siano messi piante o fiori, o semplici tralci di vite per ornamento, perché terra e pollini o la sostanza stessa dei vegetali gli sono nocivi. Dopo aver parlato guardando negli occhi Sakumat, il burban abbassò il capo e tacque a lungo. Anche il pittore taceva, e aspettava. Ganuan alzò la faccia, e disse: — Ora ho pensato di abbellire le stanze di mio figlio con figure e colori. Ho sentito parlare di te da mercanti e cacciatori di passaggio: per questo ti ho mandato a chiamare. Non avrai da lamentarti della mia ospitalità e del compenso, quando te ne andrai. Ti prego di accettare. Il burban guardava di nuovo gli occhi di Sakumat, e respirava profondamente. La sua mano destra, forte e scura, stringeva la cintura di pelle borchiata come si stringe la briglia di un cavallo ribelle. — Posso farti una domanda, signore? — disse il pittore. — Tutta la mia attenzione è tua, e tutta la verità che conosco sarà nelle mie risposte, — disse il burban. — Cosa desideri che io dipinga nelle stanze del tuo figliolo? — A questo non ho pensato, con precisione, — disse il burban, — lo decideranno la tua arte e il tuo pensiero. — Ecco un'altra domanda. Come è l'anima del tuo figliolo? La sua sorte, dura per un bambino, lo rende infelice? E il suo volto e il suo corpo, come si potrebbe immaginare, sono inerti e chiusi, simili alle piante che non ricevono luce? Il burban socchiuse gli occhi per un istante. La mano sulla cintura si rilassò. — A queste domande non risponderò, amico mio, — disse, — non perché non voglia: ma le parole di un padre non sono le piú adatte per parlare del figlio. Sentendole, tu non potresti fare a meno di pensare quanto è grande l'illusione, e quanto è bugiardo l'affetto. Ma poiché, se non mi inganno, hai generosamente accettato la mia preghiera, la risposta te la daranno direttamente il corpo e il volto e l'anima del mio figliolo. Tu stesso vedrai.

Pagina 3

Il libro della terza classe elementare

210253
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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La falciatura era stata abbondante e i coloni avevano mescolato il sudore ai canti, e nei canti le cicale sembrava volessero sfidarli. Preparati i covoni e lasciatili qualche giorno al raggio del sole per meglio disseccarli, furono poi innalzati con le forche in un cumulo ben compatto, perchè il vento non rovinasse le spighe. I contadini, padroni, coloni, garzoni, a sera stanchi mangiarono una grande minestra, tutti uniti su di una stessa tavola, bevvero chi acqua del fresco e sano pozzo, chi vino dai boccali variopinti.

Pagina 103

Narco degli Alidosi

214035
Piumini, Roberto 2 occorrenze
  • 1987
  • Nuove Edizioni Romane
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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Spero soltanto che tu abbia brindato alla mia impresa, e che mi giovi un brindisi così abbondante...» Lo scudierò abbassò il capo, e Narco tornò alla sua fatica. L'albero, fermo, aspettava. Aspettava ma, in tutta verità, non proprio fermo. Quel tremito di foglie era diventato una specie di oscillazione, di molle scompigliamento di foglie e rami. Il braccio sinistro segnava, non so come, una linea meno netta e verticale... E forse, io non giurerei, dalle due nodosità del tronco-testa correvano giù piccole gocce di rugiada... Il fatto è, come molti hanno indovinato, che Blabante non aveva brindato né tanto né poco col vino delle ampolle: ma da tutte e cinque lo aveva sparso attorno alla pianta, fino all'ultima goccia, tingendo l'erba un poco di rosso. E dall'erba alla terra, dalla terra alle radici, il vino era entrato nell'albero, e quel tremare e ammollarsi proveniva da lui. Se questo vuol dire che l'albero era uomo, io non so e non dico: quel che si vedeva l'ho detto, e quello che dopo accadde si stia a vedere. Spingeva dunque Narco con la destra, il pugno sinistro dietro serrato, i piedi piantati in terra come durlindane. Il braccio di legno era fermo e solido, ma Narco sentiva che la forza di ora non era quella di prima: era più risentita e voluta, meno totale. E allora spingeva, spingeva, soffiando fuori il suo misero fiato come fa la balena quando sgorga dal mare. E all'improvviso, con un sussulto trepido di tutte le foglie, con un brivido soporoso del gran corpo incortecciato, l'albero di Kronof cominciò a cedere. Piano piano, continuamente, e mano a mano sempre di più: finché il braccio di legno si appoggiò vinto al macigno e vi rimase, con la mano aperta ad aspettare, sembrava, una pioggia dal cielo. Sfinito e felice Narco rotolava nell'erba della valle, strappava manciate e le lanciava in aria, ridendo e gridando: «Altro vino berrai, Blabante! Altro vino berremo!» Andarono via, e lasciarono l'albero nella sua nuova forma, che è quella di oggi. E io lo dico, ma non lo giurerei, che sulla faccia del tronco c'era una nuova piega di corteccia, un fisso e quieto sorriso. Chi poi, per dubbio, andrà a Kronof a constatare, vedrà da sé quel che accadde: la mano aperta, sul masso, mise presto foglie verdi, una bellezza di foglie. Come se fossero quelle, da dentro venute, il dono che aspettava.

Per meglio vedere quel sorriso, e far vedere il proprio, già abbondante sotto l'armatura, Narco levò l'elmo, e intanto avanzò di un altro passo verso il fiume. Fu un attimo. Lei lo guardò, e dal sorriso passò a un bianco spavento, e cominciò a fare cenni con le mani e a gridare: «Fermo! Fermo!» Pensando che la donna temesse una malvagia intenzione, Narco ampliò il suo sorriso, e fece un terzo passo verso di lei: e qui la donna scomparve dalla vista e dall'aria come una nuvola si scioglie nel cielo d'estate. Il conte quasi cadde nell'onda per lo stupore. «È possibile, amico mio» disse lamentosamente arrancando all'indietro sull'erba della sponda «è possibile che l'acqua del fiume abbia creato quella figura d'incanto? E non è apparsa però a me e a te nello stesso modo e tempo, come alle visioni non usa fare?» Trattenendo i cavalli, che a quelle micidiali domande di Narco tiravano a scappare, con le briglie di pelle, e se stesso con le briglie del rispetto e della volontà, Blabante rispose: «È possibile, mio signore... Quella scomparsa non è da donna vera: e non è cosa troppo rara che creature incantate, abitanti vicino alle acque, si divertano a spaventare i pellegrini, e ad ingannarli». «Inganno forse sì, amico mio, ma non spavento», disse Narco rimettendo l'elmo, poiché già vedeva piegarsi i fiori intorno. «Questa, semmai, mi ha convinto d' amore !» E ripartirono con nuovi pensieri: avvolti per Blabante nella sciarpa, per Narco nel metallo dell'elmo. Ma mentre allo scudiero, per le mosse dell'aria e le viste diverse, quei pensieri passarono assai presto, nella chiusa scatola dell'elmo quelli di Narco rimasero a lungo, come una specie di dipinto luminoso, di silenziosa canzone.

Pagina 12

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215416
Garelli, Felice 2 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Il contadino ha dunque bisogno di un nutrimento abbondante e sostanzioso. Più lavora, più ha bisogno di mangiare. Perchè lavori bene, bisogna che mangi anche bene. Chi mangia bene è più forte, e fa maggior lavoro. Ma il mangiar bene non vuol dire mangiare a crepapelle. Tutt'altro. Gli eccessi, e le indigestioni, non fan bene a nessuno. Il mangione si scava la fossa coi denti. Mangiar bene vuol dire mangiare cibi sani e quanto basta, non di più, e non di meno. In ciò consiste la virtù della sobrietà, o temperanza. Chi pratica questa virtù, unita a quella del lavoro, vive bene, e lungamente.

Pagina 85

Riflettendo alle fatiche del mestiere, ti sei convinto che il coltivatore abbisogna di una nutrizione buona ed abbondante; e che questa si può avere nella varietà dei prodotti della terra. Il mangiare cibi sani, nutritivi, e in quantità sufficiente, non è golosità, ma vera economia. Il buon lavoratore più mangia, e più lavora. Al contrario ti fu raccomandato di bere poco vino, e di astenerti dai liquori, mettendoti sott'occhio il brutto quadro dei mali, che la passione del vino, e dei liquori, trascina dietro a sè. - Ti venne parimenti consigliata l'astensione dal tabacco, nocivo agli adulti, e particolarmente ai ragazzi. Hai rilevato quanto pericolo si corra a mangiar funghi; quali siano i buoni, i velenosi, e i sospetti; come si debbano preparare; e quali le prime cure da usarsi per arrestare i terribili effetti dell'avvelenamento. Infine hai posto mente ai pericoli che derivano dall'uso di recipienti in rame.

Pagina 98

Quartiere Corridoni

216911
Ballario Pina 1 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
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I ragazzi non conoscono il significato di questa parola, ma sanno che da quando la mamma va a «scuola» l'orto produce di più, le galline fanno più uova, non muoiono di malattia, i conigli danno carne più saporita e le api miele più abbondante. Non si nasce sapienti e, semmai, c'è sempre chi ne sa più di noi. Le massaie rurali devono sfruttare al massimo la terra e farla rendere. Le vicine di casa, i primi tempi, ridevano della mamma che andava a scuola. Poi hanno visto che il raccolto migliore era il suo, i polli più grassi i suoi, i conigli più belli quelli della sua conigliera, e ora vengono da lei per consiglio.

Pagina 185

Il Plutarco femminile

217199
Pietro Fanfano 2 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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Al libro ho aggiunto un indice assai abbondante di tutte le materie che in esso si trattano: e come qua e là, alle giovanette che volta per volta leggono le Vite, metton loro sulle labbra dei modi e delle voci, o errate, o barbaro o improprie, per dare occasione al maestro e alla direttrice di correggerle, e proporre in lor vece le buone e proprie, così acciocchè le fanciulle che leggeranno sieno di primo tratto avvertite dell'errore, quei modi e quelle voci lo troveranno scritte in corsivo. Non ispendo più parole intorno a questa mia opericciuola, alla quale non desidero altro, guiderdone che il saperla bene accetta alle buone madri ed a' buoni istitutori; o almeno il sapere che esse ed valutano tanto o quanto la buona intenzione che ho avuto nel comporla. Pietro Fanfani.

E levato il suo quadernetto dalla borsa, lesse: "Oggi non ho alle mani argomento così abbondante come quando scrissi, per leggerla qui a voi altre, la vita della Vittoria Colonna; ma tuttavia anche la Camilla Fenaroli, di cui oggi debbo parlarvi, non è indegna di essere ricordata e proposta ad esempio. La Colonna era marchesa e nobilissima: contessa e nobilissima fu la Camilla, come quella che fu la della illustre e antica casa Solano di Asti, in Piemonte, benchè ella nascesse in Brescia. Da giovanetta non dava punto segni di dover riuscire quell' ingegno ricco e vivace che poi riuscì: aveva per altro molto brio, con una accesissima immaginazione; e però si buttò con ardore alla lettura dei romanzi. Non indugiò molto per altro ad accorgersi quanto simili letture fossero pestilente veleno al cuore ed allo spirito; e però, dato un calcio a' romanzieri, si volse a' poeti classici, la lettura assidua de' quali accese in lei il fuoco poetico, che diede lucida fiamma quando essa, andata sposa del conte Ottavio Fenaroli, potè comparire nel mondo, e fare apprezzare le rare sue doti. Nel comporre ella studiava alla perfezione: amava appassionatamente lo studio, e la lettura de' nostri grandi scrittori; ma non dimenticò mai di esser donna, moglie, madre; dacchè il marito amava e riveriva come ogni buona e geni il moglie dee fare: i figliuoli allevò ed educò da sè, usando con essi ogni più amorosa cura; da sè attese al governo della famiglia. Venuta in età, matura, si volse a studj più gravi, coltivando di preferenza la filosofia, massimamente la metafisica; e quanti allora tale scienza professavano, tanti la reputavano in quella eccellente, e con lei ne conferivano le più alte speculazioni. Pervenuta quasi alla estrema vecchiezza, morì istantaneamente verso la fine del secolo passato. "Ecco le notizie da me potute raccogliere sopra questa valente donna: se esse sono scarse, datene la colpa ai tempi procellosi che alla sua morte correvano, ne' quali a poco più si attendeva da ciascuno che alle cose di guerra e di politica; e molti libri, e molte carte andarono disperse: a me poi date tutta quanta la colpa, se questo mio discorso è così disadorno e mal composto." Tutte le compagne applaudirono, dicendo anche amorevoli parole alla Laurina: dopo di ciò la direttrice disse con solenne gravità: "La vita della Fenaroli, scritta e detta con molto garbo dalla signora Laurina, è un poco asciutta di notizie; ma però contiene un efficacissimo ammaestramento per tutte le gentili fanciulle. Nella prima sua gioventù quella valente donna si perdeva nel leggere i romanzi; ma come Dio le aveva dato buon senno, conobbe da sè medesima quanto era pericolosa lettura sì fatta: l' abbandonò in tempo da non sentirne verun effetto: e si volse animosamente ai buoni studj. Vorrei adunque che a tutte le fanciulle d' Italia fosse noto questo fatto della buona Camilla, e che tutte ne prendessero stimolo ad imitarla: dico tutte, e dovevo dire tutte quelle che impazzano dietro a' romanzi, le quali per altro sono un numero quasi infinito. Lo credano, signorine, non ci ha lettura più velenosa di certi romanzi che tanto allettano le giovani menti: il loro veleno poi è di tanto più pericoloso quanto nel primo gusto è dolcissimo ma uccide, o almeno altera e guasta così il cuore e la mente, che anche gli animi più ben disposti naturalmente, ne divengono una cosa compassionevole, e spesso ridicola. In quei libri sono generalmente ritratte le più ardenti, le più feroci passioni; e vi sono trattate anche esageratamente, con tutti i più strani e lusinghevoli casi di esse: amori scandalosi ed osceni: orribili vendette: fatti spaventosamente feroci: esempj di gravi delitti riusciti a buon fine: dispregio di ogni cosa Rosa Govona Parte II - X più santa e più reverenda: scherno di ogni principio morale: lusingata ogni più rea passione. Come dee fare, chi si nutrisce di questa roba, a non guastarsi e divenir pazzo o cattivo? Io parlo qui a signorine, e non è dicevole che a voi dica apertamente tutte le parti brutte delle lettrici di romanzi: vi leggerò nondimeno il ritratto che di una delle cosi fatte scrisse Giuseppe Manzoni nella sua operetta Ritratti critici. Ecco qui: "Matilde immagina gli eroi come possono essere, non come sono: vorrebbe che gli eventi, e le persone del mondo, succedessero, pensassero, operassero secondo la sua strana fantasia. Niuno è, secondo lei, fedele in amore, niuno è veramente valoroso. Non c'è donna bella, che a lei paja un' arpia; nè savia, che non la reputi sciocchissima. Niente cura, tutto disprezza: però tratta ciascuno con tale cortesia e gentilezza affettata, che stomaca. Ghigna, sorride, loda, ammira, fa carezze svenevolmente: è cascante di vezzi: pensa ed opera diversamente da chichessia; i suoi pensieri tendono al sublime; le sue parole sono scelte, e contengono sentenze da oracoli. I savj la dileggiano: vorrebbe acquistare naturalezza, e domandò a me il modo. "Io le risposi Bruciate tutti i Romanzi. "Questo scrittore ha toccato solo la parte ridicola; ma quanto ci resta da dire per l' altra parte dolorosa e dannosa? ... Basta, loro son savie e bene educate: sarà assai l' aver loro accennato il pericolo: e non dubito che lo sapranno fuggire." "Signora direttrice, disse qui la Bettina, ella ha parlato di alcuni romanzi: ma dunque vuol dire che non tutti sono pericolosi." "Ho detto alcuni a bello studio; e, se ella o qualcun' altra non mi avesse domandato nulla, io stessa avrei detto altre parole sulla materia dei romanzi. Dico loro per tanto che a' giorni nostri alcuni valentuomini, vedendo che la gente si volgeva alla lettura di tali libri pericolosi, e conoscendo che ogni argomento sarebbe stato vano a distogliernela; che fecero? " Scriviamo, dissero, de' romanzi anche noi; ma scriviamoli in modo che il buon costume non se ne vergogni: che non accendano a ree ed eccessive passioni, ma a nobili e temperate: che al diletto uniscano anche la istruzione; e così a poco per volta, se non tutti, molti almeno si volgeranno a leggere questi nostri, piuttosto che quegli altri." E così fecero: e così, primo Alessandro Manzoni scrisse quel suo mirabile racconto de' Promessi Sposi, e poi vennero il Grossi col Marco Visconti, il Canta con la Margherita Pusterla, il D' Azeglio con l' Ettore Fieramosca e col Nicolò de Lapi, lasciando stare altri minori, che pur seguitarono quel modo. I loro Romanzi dunque io intendo di non confondere con gli altri da me fieramente biasimati: e quelli credo che qualunque onesta e ben creata fanciulla gli possa leggere senza pericolo."

Pagina 206

Il ponte della felicità

219055
Neppi Fanello 2 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
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Pagina 89

La pesca si annunziava abbondante, e il giovane si sentiva lieto e fiducioso, di una letizia e di una serenità che gli allargavano il cuore. Era già trascorso un mese e mezzo da che la bufera lo aveva gettato su quell'isola deserta. Egli aveva contato il tempo nel lento sgranarsi delle aurore e dei tramonti. Mai, in quei giorni, una piccola alberatura era apparsa a rompere la placidità dell'orizzonte; ma Alvise e il suo compagno non avevano disperato. Essi avevano affidato a Dio, che nutre gli uccelli dell'aria e riveste i fiori dei campi, la loro vita e la loro liberazione. Quando, di tanto in tanto, la brezza cadeva e la zattera si fermava, cullata dalle onde tranquille, Alvise ricordava i giorni recentemente passati e un brivido di sgomento gli correva ancora per la persona. Ripensava alle sue prime ore di naufrago, allorchè andava disperatamente in giro per l'isola in cerca di qualche cosa per sostentare il suo compagno assalito da una febbre altissima. La Provvidenza gli era venuta in aiuto. Nella minuscola rada, in mezzo agli scogli, aveva trovato alcune cassette piene di viveri, relitti del naufragio delle galee venete sospinti in quell'angolo morto dalle onde infuriate. Quasi ai piedi dell'albero egli aveva inoltre scoperto una polla di acqua freschissima, leggermente alcalina, che gli era stata di valido aiuto in quella vita primordiale. Poi, piano piano, la febbre era scomparsa del tutto; la forte fibra dell'infermo aveva vinto il male. Ma Alvise, ricordando le tremende notti insonni trascorse accanto al malato delirante, si sentiva ancora agghiacciare. Alla fine la sua abnegazione e la sua costanza nel curarlo erano state premiate. Il marinaro, guarito, gli era stato d'immenso sollievo. Il poveretto si trascinava fino all'ingresso della grotta, e lì seduto, con la gamba ferita esposta ai benefici raggi del sale, provvedeva a costruire molte cose necessarie, utilizzando le scarse risorse dell'isola e i relitti del naufragio. Aveva costruito anche la zattera con la quale Alvise faceva ogni giorno il giro del loro dominio e ne tornava con il rozzo canestro colmo di pesce guizzante. Con l'aiuto di certe erbe aromatiche che crescevano abbondanti nella parte orientale dell'isola, Agnolo, così si chiamava il marinaro, riusciva a fare un'ottima zuppa di pesce. Sempre a oriente dell'isola, Agnolo aveva suggerito ad Alvise di scavare nella roccia alcune buche che, riempite poi d'acqua di mare, formavano piccoli stagni artificiali dove l'acqua, evaporata dal calore del sole, lasciava uno strato di sale, molto utile per i loro cibi. Gli uccelli, che nidificavano numerosissimi sui rami frondosi degli alberi, fornivano con la loro carne e con le loro uova una variante al cibo quotidiano. Essi venivano catturati mediante alcune rudimentali tagliole nascoste intorno agli alberi e cotti nello spiede davanti a una bella fiamma crepitante. Agnolo aveva raccolto una grande quantità di alghe, seccate dal sole, e con dei pezzi di vele cuciti con fibre animali aveva fatto due materasse asciutte e morbide. Così, nell'incessante lavoro e nel reciproco aiuto, la loro vita scorreva abbastanza serena. Ma, dove era in quel tempo la squadra veneta? La battaglia contro i Turchi aveva avuto luogo?... E quale ne era stato il risultato? Domande che i due naufraghi si rivolgevano spesso. Alvise, inoltre, pensava al padre, a nonna Bettina, a Loredana. Che cosa facevano i suoi cari? Invocavano il suo ritorno o piangevano la sua morte? Mentre la zattera procedeva mollemente cullata dalle onde, Alvise lasciava che la nostalgia cullasse il suo tenero cuore. Qualche volta tornava da Agnolo, con gli occhi rossi nel viso dimagrito e bruciato dal sole e dal vento salmastro; ma bastavano poche parole buone del suo compagno per rincorarlo e infondergli fiducia nell'avvenire. Per fortuna la stagione si era mantenuta buona. Solamente qualche giorno prima il cielo si era rannuvolato e la pioggia era caduta monotona e insistente per ventiquattr'ore. Sembrava, quella pioggia, l'addio accorato dell'estate. Il sole, tornato nel cielo di un pallido azzurro, aveva illuminato il mare improvvisamente scolorito. Solo la vegetazione delle dune e le foglie dell'albero apparivano più verdi e lucide dopo quell'acquazzone. All'alba e al tramonto l'aria cominciava a farsi pungente e già aveva il mesto sapore dell'autunno. Che ne sarebbe stato dei due naufraghi quando il maestrale, e le raffiche della pioggia sempre più fitte, e le brume sempre più dense avessero avvolto l'isola? Quando le verdi foglie dell'albero fossero ingiallite e la pispigliante tribù dei pennuti dispersa in cerca di lidi più clementi? Ma nel chiaro mattino di fine estate era dolce vogare, cullati dalle onde leggiere, sospinti dalla tepida brezza. E nel cuore di Alvise ferveva un grande amore, per le cose e per gli uomini. Egli andava, andava, sulle ali dei suoi giovani anni, e gli pareva di compiere viaggi sognati in giorni lontani, viaggi ammalianti che, pur percorrendo tutte le strade del mondo, lo riconducevano sempre alla sua città benedetta. Eccolo lì, il leone di san Marco che sventola sul pennone di fortuna della zattera, vicino alla piccola vela bucherellata! Gli bastava di alzare gli occhi su quel fragile lembo di patria perchè tutte le cose, mare, cielo, scogli e spiaggia, assumessero uno splendore insolito. Lo avresti creduto tu, piccola Loredana lontana, un simile miracolo, mentre la tua mano dipingeva l'emblema dell'Evangelista sullo sfondo turchino? Immerso nei suoi pensieri, il giovane non si accòrse che stava per doppiare la punta della scogliera e avvicinarsi alla loro piccola rada sabbiosa. Si era dimenticato di lanciare il solito richiamo all'amico intento certamente ad ammannire il frugale pranzo. - Agnolo, Agnolooo! - gridò con tutta la forza dei suoi capaci polmoni. Nessuna voce rispose al suo appello. Sorpreso e inquieto, Alvise afferrò una specie di remo giacente nel fondo della zattera, e con poche bracciate spinse l'imbarcazione ad arenarsi sul lido. I suoi occhi corsero subito alla grotta; ma Agnolo non c'era. Lo scoprì poco dopo, addossato agli scogli. Con grande fatica si era trascinato fin là e stava fissando un punto lontano. Nella luminosità cristallina dell'orizzonte si profilava una galea. La prora era rivolta verso l'isolotto e le vele, tutte spiegate, sembravano di una leggerezza irreale. - Agnolo! Agnolo! - mormorò Alvise, mentre Lo scoprì poco dopo, addossato agli scogli. sentiva il cuore battergli in gola. - Iddio ci assiste: saremo liberati, Alvise! - rispose il marinaro. E le sue chiare pupille si velarono di lacrime. - Quando credete che la galea giungerà qui, Agnolo? - chiese Alvise, afferrato da una grande impazienza. Avrebbe voluto gettarsi in mare e a forza di braccia andare incontro alla nave salvatrice. - Figliuolo mio, potrà esser qui verso sera, purchè il vento non cada. - Tanto tempo impiegherà?... - disse Alvise, deluso. - E se frattanto sopraggiunge la notte, la nave passerà senza vederci. - Non temerlo. Quando il sole tramonterà, accenderemo un bel fuoco per richiamare la sua attenzione. - Vado subito a raccogliere degli sterpi e delle alghe secche. - Piano, piano, Alvise! - mormorò il marinaro, sorridendo all'impazienza del giovane. - Aiutami piuttosto a scendere da questi scogli. Consumeremo prima il nostro pasto, poi penseremo al da farsi. - Il cibo era pronto e saporito; l'appetito non mancava; eppure Alvise non riusciva a inghiottire nulla. La commozione e l'orgasmo gli stringevano la gola e pareva lo soffocassero. Teneva il viso rivolto al mare, verso quella nave che per la sua lontananza sembrava ancora tanto piccina, e che pur conteneva, nel sue scafo leggero, un mondo intero di care speranze. E la muta, ardente preghiera delle mani incrociate sulle ginocchia lo accompagnava sull'immensa distesa lucente.

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Al tempo dei tempi

219472
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che s'imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva: - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò: - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - Il poverino non voleva narrare l'apparizione della madre perchè quel segreto era la sua sola gioia e la