Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Numero di risultati: 9 in 1 pagine

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Il successo nella vita. Galateo moderno.

173405
Brelich dall'Asta, Mario 1 occorrenze
  • 1931
  • Palladis
  • Milano
  • Paraletteratura - Galatei
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E' certo che essere chiamati ripetutamente al telefono per errore, non è un godimento speciale per gli abbonati, ma ciò però non autorizza in nessun caso ad essere grossolano. Se dopo parecchi tentativi non riuscite ad avere la desiderata comunicazione, non sgridate la signorina della centrale che certamente non ne ha colpa, ma domandate « informazioni ». Se si è riusciti ad ottenere una comunicazione, si dice subito: « pronto » e si prosegue col nome della ditta o col proprio nome, senza attendere la domanda superflua: « chi parla? » o « chi è là ». I l dire tre quattro volte « pronto », è anche una consuetudine superflua. Ricevuta la comunicazione, anzitutto salutiamo la persona che abbiamo chiamata o ci ha chiamato, e quando ci si congeda si saluta di nuovo. Un « arrivederci » può a volte riuscire alquanto comico e potrebbe venir piuttosto sostituito da un « a risentirsi ». La forma ed il contenuto del colloquio telefonico deve essere addattato al carattere. Anzitutto evitare colloqui di lunga durata. Perchè questi possono non solo far disperare tre o quattro persone che vorrebbero pure parlare, ma potrebbero far perdere anche a voi stessi una chiamata importante. Se in un telefono pubblico, un « automatico », vi accorgete che qualcuno sta fuori ed attende, affrettatevi. Sarebbe invece, scortese da parte dell'aspettante, di far cenni d'impazienza o eventualmente di picchiare al vetro, o far simili cose. C'è una certa specie di gente che fanciullescamente trova un piacere nell'adoperare il telefono, per ore e ore; tali persone sono per gli altri un vero tormento. Non chiamate mai qualcuno nel suo uffizio per scopi privati, - eccettuati naturalmente i casi urgenti. Non potete mai sapere se colla vostra chiamata, non fate eventualmente cosa sgradita, perchè p. e. in molti uffizi i colloqui privati sono vietati agli impiegati. La durata del colloquio viene imposta generalmente dal chiamante, ma se non avete tempo, potete sollecitarne la fine anche se chiamati. Naturalmente dovete motivare la vostra fretta. Durante il discorso telefonico si deve sempre pensare al fatto poco piacevole che il telefono talvolta trasforma o metalizza la voce, e con ciò la rende un po' rude; cercate perciò di essere al telefono, sempre molto affabili. Non prendetevi a male se la persona con cui parlate taglia corto al telefono: non potete sapere, se non c'è qualche importuno nella sua vicinanza, o se altri non attende

Pagina 66

Per essere felici

179471
Maria Rina Pierazzi 1 occorrenze
  • 1922
  • Linicio Cappelli - Editore
  • Rocca San Casciano - Torino
  • paraletteratura-galateo
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Al teatro Regio di Torino si usava, parecchi anni or sono, di presentare a quelle delle frequentatrici che si fosse fidanzata, un mazzo di fiori a nome di tutti gli abbonati; e le veniva posato sul parapetto del palco, mentre durante la serata era un continuo succedersi di visite per rallegrarsi con gli sposi. Uso gentile, ma non più possibile, ora; perchè con le attuali condizioni economiche che colpiscono in modo speciale i "signori„ gli abbonati dei nostri maggiori teatri non sono suscettibili di simili finezze. Il pubblico cambia e le tradizioni del nostro patriziato tendono disgraziatamente, per forza maggiore, a sparire.

Pagina 136

Parassiti. Commedia in tre atti

230517
Antona-Traversi, Camillo 2 occorrenze
  • 1900
  • Remo Sandron editore
  • Milano, Napoli, Palermo
  • teatro - commedia
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- Oh, gli abbonati che zittivano...e la claque pagata, che applaudiva... è verissimo!...Ma, vi prego, non parliamo più del mio debutto!... Ha fatto già troppo rumore... e, ora, sarà peggio.

Pagina 201

Non canterò più...e...fra un mese...gli abbonati...la claque... Storari...tutto sarà dimenticato!

Pagina 202

Passa l'amore. Novelle

241713
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
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Per questo, ora, egli restava a letto, attendendo che la moglie, sbrigato il postino, gli recasse la consueta tazza di latte e caffè assieme con la pipa e uno o due giornali arrivati la sera avanti, ch'egli leggeva da cima a fondo prima di consegnarli agli abbonati. Per questo, appena finito di desinare, egli aveva agio di andarsene nella Farmacia Russo, là di faccia, a farvi col farmacista bellicosissime partite di briscola, che radunavano attorno a loro parecchi frequentatori sfaccendati, partigiani accaniti dell'uno o dell'altro, e non meno accaniti scommettitori in favore dell'uno o dell'altro. Al ritorno del postino con la corrispondenza, Pietro Vètere fingeva di accorrere in ufficio per fare il suo dovere; ma, in verità, non si occupava d'altro che di caricare accuratamente la sua pipetta di terra cotta, di star a guardare fumando, seduto in un angolo, le operazioni di ufficio eseguite dalla moglie, e di dare un'occhiata ai giornali illustrati del "Casino dei Civili„ e della "Società Operaia, che mandavano a prenderli sùbito appena arrivati. Di tratto in tratto sua moglie gli mostrava, presa con le punte di due dita, una lettera, e sorrideva maliziosamente. - Ancora? - Ancora. Anzi, da un mese in qua le risposte piovono. - Risposte?... Ma se la baronessa non scrive mai!... - Come sei sciocco! Scrive, ma fa impostare altrove. - Dici bene; può darsi. - Certe volte mi viene la tentazione.... - Oh, Dea! Dea! (La signora Vètere si chiama Dorotea, ma questo nome, in paese, veniva accorciato a quel modo). - Eppure tu mi hai detto.... Pietro Vètere, rimproverando con aria severissima la sua signora, aveva dimenticato di averle confidato, tempo fa, che uguale curiosità lo aveva vinto parecchie volte, e di averle spiegato in che modo una lettera non sigillata si poteva aprire e chiudere senza che di tale operazione rimanesse traccia. - E poi - egli tagliò corto - certe cose si fanno ma non si dicono! E gli parve di aver affermato una bella cosa. Per fortuna, la curiosità della signora Dea non andava tant'oltre: le bastava di sapere che l'intrighetto della baronessa Toroni continuava. Ormai riconosceva anche da lontano la calligrafia dell'amante, di cui tutti sapevano vita e miracoli. Soltanto il barone aveva l'aria di non saper niente; soltanto lui ancora credeva, o fingeva di credere, che la baronessa non era scappata via con quell'amante, ma era andata in campagna, da certi suoi lontani parenti. Alla sentenza del marito, la signora Dea fece una spallucciata per significare che, infine, non le importava nulla delle prodezze della baronessa, e continuò a disporre negli scompartimenti lettere e giornali. - Torno in farmacia. Se occorre.... - Va pure.

Pagina 223

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246928
Matilde Serao 2 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Ella lo conosceva anche meglio, Ferdinando Terzi, poichè era l'amante della bella Emilia Tromba, la, seducente ballerina di prima fila, che ballava così male, ma che aveva dei magnifici capelli neri, che non andava mai a tempo, ma aveva delle spalle mirabili, che faceva un grande chiasso, ma che si rideva delle ammende, poichè era piena di denaro, di gioielli, di carrozze, e che l'impresa di San Carlo scritturava solo per far piacere agli elegantissimi abbonati delle poltrone, mentre ella era una maleducata, volgare, strillona, in continua lite con le sue compagne. Ferdinando Terzi raramente saliva sul palcoscenico, a prendere Emilia Tromba, e l'aspettava, taciturno, superbo, guardando le corifee coi suoi altieri occhi che attiravano e respingevano, crollando le spalle quando udiva la voce rauca di Emilia disputarsi con la cameriera, col custode del palcoscenico, col pompiere di guardia, rimanendo sempre lui un signore, un gran signore, malgrado l'incanagliamento di quella relazione. Più spesso, quasi sempre, il coupé di Ferdinando Terzi aspettava Emilia Tromba all'uscita del Teatro San Carlo, ma non sempre egli vi era dentro. li Carmela Minino, quasi sparendo sotto la sua corona di fiori, fissò per un minuto il viso preoccupato del giovino signore: egli non si accorse di lei naturalmente, e rientrò nel caffè. Un sospiro sollevò il petto di Carmela e, a, un tratto, la stazione ferroviaria le parve tanto lontana e la corona dei fiori soffocante. Ma ella vinse questo momento di scoraggiamento; l'ora si faceva tarda, il cielo si rannuvolava sempre più e se la pioggia la sorprendeva per le vie di Napoli non avrebbe potuto neanche aprire l'ombrello, impedita dalla corona. Nella piccola stazione della Nola-Baiano la folla era così grande che la ballerina comprese non avrebbe trovato posto, in terza classe: si sentiva così oppressa, così debole, scoraggiata e ammiserita nelle più misteriose regioni della sua anima, che dimenticò i suoi costanti proponimenti di economia e prese un biglietto di andata e ritorno, di seconda classe, pagando diciotto soldi. Anche la seconda classe era zeppa; tutti andavano al camposanto: chi portava un pacchetto di candele di cera, da far ardere innanzi alle tombe; chi una piccola corona di perline; chi mia corona di mortelle gialle, secche, con lettere di velluto nero che formavano le parole di dedica, e chi niente: e quasi tutti eran vestiti di nero, uomini, donne e fanciulli: e quasi tutti avevano l'aspetto contrito, silenziosi, alcuni vinti certamente dai ricordi di vecchi sopiti dolori, alcuni certamente portanti nel cuore un rammarico lontano e inconsolabile fattosi novellamente acuto, alcuni indifferenti nell'anima, ma fiaccati nei nervi dal cielo bigio, dal viaggio triste, dalla tristezza altrui. Per la massima parte in quella seconda classe del treno di Baiano, vi erano piccoli borghesi, operai, servi di famiglie ricche, impiegati e servi di quelle congregazioni religiose che riempiono delle loro cappelle il camposanto di Poggioreale e che rappresentano la più vasta associazione di mutuo soccorso innanzi alla morte, per la borghesia e pel popolo napoletano. Carmela Minino taceva: e oppressa dai suoi pensieri di miseria e di abbandono, oppressa dall'ambiente, abbassava la faccia dietro la grama veletta nera del suo cappello. - Poggioreale! Poggioreale - gridarono dalla minuscola stazione del cimitero i due ferrovieri. E quasi immediatamente, con un gran rumore di sportelli battuti, il piccolo treno si vuotò tutto, mentre pel viale saliente al largo ingresso inferiore del cimitero, un flutto di gente si avviava, portando i suoi pacchetti di cerei, le sue corone di canutiglie, di semprevivi, di fiori freschi. Attorno all'ampio cancello una quantità di omnibus, di calessi, di char-à-bancs, di biroccini, stazionava, coi cavalli senza cavezza, la testa immersa in un sacco di crusca, coi cocchieri che fumavano la pipa, seduti di traverso sulle loro serpi, alcuni aggruppati, altri in cerca di qualche osteria dei dintorni, dove mangiare un boccone, aspettando i passeggieri che dovevano ritornare dal loro lugubre pellegrinaggio. Sotto il cielo basso e bigio, in quel tetro giorno di novembre, il camposanto di Napoli che occupa una delle sue più belle e più amene colline, quella di Poggioreale, conservava il suo aspetto d'immenso e florido giardino signorile: e i suoi cespuglietti di fiori vivaci che circondano le tombe e le sue siepi di bosso e di mortella che dividono gli ombrosi viali dai campi pieni di lapidi e i boschetti di alberi dove da mattina a sera cinguettano gli uccellini, gli alberi alti che ombreggiamo le sue cappellette, le sue chiesette, i suoi più grandi monumenti, gli conservano, in ogni stagione questo grandioso aspetto di parco aristocratico, qua e là interrotto da piccoli edifici, ora vezzosi, ora pomposi. Non solo nel giorno della commemorazione dei morti, ma sempre vi lavorano giardinieri, sotto la direzione di qualcuno che ama quel camposanto teneramente, e le più belle rose di Napoli vi crescono e i meravigliosi crisantemi, di ogni tinta, ne smaltano persino le aiuole dei poveri e in tutte le stagioni pare che vi sorrida dolcemente la primavera dei morti. Tutto l'anno il camposanto di Poggioreale ha un aspetto, nella sua florida solitudine, raccolto, non triste; mentre in quel giorno, coi suoi viali neri di gente, con tutte le porte delle sue cappelle, delle sue chiese, dei suoi grandi monumenti aperte da cui escivan chiarore di cerei, canti liturgici e odore d'incensi, misto a quello dei fiori freschi, il suo aspetto, sempre, non era triste, ma singolare, ma bizzarro, come di una strana fiera mortuaria, come di una mai vista pompa funebre, in un parco vastissimo, percorso da una folla immensa e svariata. L'ampio viale onde Carmela Minino, insieme con gli altri, saliva alle alture del cimitero ove sono le chiese più belle e i monumenti funerari più ricchi e più artistici, era murato e sulle mura vi eran delle lapidi cementate, le più antiche, con date di trenta o quarant'anni: la ballerina ne lesse due o tre ed ebbe un moto d'indifferenza. Che mai eran quelle donne, quei bimbi, quegli uomini che essa non avea mai conosciuti? Nulla a lei e, forse, nulla a nessuno di costoro che salivan con lei: quaranta, cinquant'anni sono troppi, perchè mi morto possa esser più niente a nessuno. Qua e là, ora che cominciavano i prati fioriti di rose, di cinerarie, di tutti que' fiori bigi, lilla, violetti che par che Iddio faccia nascere nell'autunno per esser di accordo con la stagione e con le tombe dei morti, gruppetti di due o tre persone si agitavano intorno alle pietre mortuarie, infisse semplicemente nella terra e, ripulitele, amorosamente, vi depositavano le corone novelle e infiggevamo, nella terra i cerei che ardevano nel giorno, con certe linguelle di fiamma esili e pallide, e qualcuno s'inginocchiava, pregando, senza, curarsi di chi passava; e un singhiozzo, ogni tanto, rompeva l'aria, sulle tombe più recenti, singhiozzi scoppianti da donne vestite di nero, austeramente velate, mentre da tutte le cappelle, da tutte le chiese grandi e piccole, da ogni maestoso monumento escivano i canti del De profundis e della Libera e scintillavano, nel fondo di pietra, le candele accese e si dilatava l'odore dell'incenso, nell'aria. Carmela Minino, disfatta, sentendo sul suo corpo e sulla sua anima tutto un insopportabile peso di dolore, quasi non poteva avanzare più passo: un desiderio folle la travolgeva, di gittar via, quella corona, di buttarsi sulle erba, sui fiori, faccia a terra, e di sciogliersi in lacrime, fino a che la morte l'avesse sorpresa, colà! Ma, a un tratto, il monumento elevato ad Amina Boschetti le apparve innanzi, quasi magicamente. Sorgeva in un quadrivio pieno di alberi, alti e folti, pieno di odorati cespugli di fiori: aveva dirimpetto la cappella magnatizia dei principi di Sansevero: da un lato la chiesa votiva per la morte della giovanissima duchessa di Noja; ma il tempio eretto alla memoria della ballerina era più ampio, più ricco, più bello delle due chiese patrizie. Aveva un'architettura schiettamente egiziana, imitante una delle antiche tombe faraoniche, tutto in granito oscurissimo e in lucido basalto grigio: le due porte, di un massiccio e puro artistico bronzo cesellato, erano schiuse: intorno intorno a quelle possenti, gravi e larghe masse di granito, girava un giardino fiorito, chiuso a sua volta da un cancello di bronzo. Guardandolo di lontano, il tempio egizio costruito per chiudere la leggiera salma della danzatrice, pareva tozzo, goffo, come sempre appariscono queste architetture, anche laggiù, fra il Nilo e il deserto. Ma come vi si avvicinava, le linee si sviluppavano, si ingrandivano, diventavamo imponenti, maestose. E bastò questo solo suo aspetto grandioso e calmo, per dare un sussulto di coraggio a Carmela Minino; bastarono le due semplici parole, in bronzo dorato, scritte sul sommo della porta: AMINA BOSCHETTI, perchè mia novella forza la ringagliardisse. Man mano che ella si accostava a quella magnifica forma di tempio, dove la fortuna, la ricchezza e la potenza della sua madrina, ricevevano la consacrazione del trionfo anche dopo la morte, una esaltazione facea balzare l'anima di Carmela, asciugandone, disseccandone tutte le lacrime, gonfiandole di tenerezza, ma di tenerezza superba, il suo piccolo cuore. Fu senza dolore, con un senso singolarissimo e inesplicato a lei, che ella entrò nel tempio egizio, segnandosi piamente. Il tempio era riccamente adorno per la commemorazione di Amina Boschetti: dal soffitto pendevano quattro massiccie lampade d'argento, sospese a grosse catene di argento, dove bruciava l'olio votivo: quattro alti e adorni candelieri di argento sopportanti i grossi cerei accesi erano collocati innanzi al breve altare funebre, disposto sotto la lapide che murava la salma. Tutto il tempio, intorno, spariva, sotto le corone fresche di fiori rarissimi: ve ne erano, di fiori, sparsi per terra, sul basalto: e la lapide ne era coperta. Un prete, assistito da due altri, in ricchi paramenti dai colori mortuari celebrava la decima o la duodecima messa funebre, colà, e come egli era venuto dopo gli altri, altri sarebbero venuti dopo lui, sino alle tre pomeridiane: e due chierici spandevano incenso dagli incensieri di argento. Due camerieri in livrea, appartenenti alla casa del banchiere Schulte, colui che aveva, per dieci anni della sua vita, adorato la leggiadrissima danzatrice, che le avea dato la sua fortuna e che, fedele oltre la morte, in un miscuglio singolare di amore, di misticismo e di cinismo, le dava tutte le pompe più ricche del culto religioso, stavano in fondo al tempio, muti, immobili; il loro padrone era venuto presto colà e tutto era stato disposto secondo i suoi ordini, sotto i suoi occhi, e tutti quei fiori li aveva portati lui, ed egli stesso aveva pregato per un'ora, lì dentro, incapace di dimenticare, incapace di consolarsi. l due camerieri presero silenziosamente dalle mani di Carmela Minino la corona di fiori, per deporla presso l'altare: - Sulla pietra, sulla sua pietra - ella mormorò, supplice, tremante di una emozione che non era solo dolore, anzi quasi non era dolore. Poi, quando la corona andò ad appoggiarsi a metà della lapide marmorea, sul posto dove giaceva, dietro la fredda pietra, il freddo cuore della incantevole Amina, la sua figlioccia, si piegò sovra un inginocchiatoio di legno scolpito, dal cuscino di velluto rosso, dove, un'ora prima, era venuto a pregare Otto Schulte e chiuso il volto fra le mani mentre il prete orava, pronunziando le parole tetre, tristi, dolenti, ploranti, della messa per i defunti, mentre il grido dell'anima cristiana che, giunta davanti all'Eterno suo giudice, domanda misericordia esciva dalle labbra dei suoi coadiutori, invece di pregare, Carmela Minino vide innanzi agli occhi della sua immaginazione colei che era sepolta dietro quel marmo, colei per cui era stato eretto quel tempio ricchissimo, colei per cui ardevano quelle lampade e quei candelabri, per cui olezzavano quei fiori, per cui pregavano il Signore quei sacerdoti. E vide una figura esile e lieve, un paio di occhi larghi, bruni, pensosi e ridenti insieme, un sorriso sopra una bocca deliziosamente espressiva, un fascino emanante da ogni atto gentile, un fascino di bellezza, di grazia, di giovinezza, di poesia, qualche cosa di trasvolante tra i veli candidi, fra lo scintillio dei corsaletti ricamati d'oro, qualche cosa, di fugace, di alato, d'inafferrabile che facea palpitare e fremere non solo gli uomini giovani ma i vecchi, non solo gli uomini ma le donne: Amina Boschetti! Fra la luce, innanzi ai teatri zeppi e semioscuri, ella appariva, sottile come uno stelo, con la sua piccola testa carica di capelli bruni, e non toccava terra nelle sue gonne simili a una nuvola e i suoi piccoli piedi calzati di seta rosa non toccavan terra e appena appena parea ricamassero delle cifre posate fra i fiori, sulle aiuole. Ella sorrideva dagli occhi e dalle labbra, danzando, mentre il suo corpo pieghevole si arrotondava allo slancio lievissimo: ella danzava, senza che mai quel sorriso, quel lampeggio degli occhi venissero meno, per la fatica: ella danzava, così, come se null'altro ella fosse venuta a fare, sulla terra. E veramente, la sua irresistibile perizia, veramente la delizia di quella danza facevano delirare le platee: e dal loggione dove il popolo si ammassava nelle serate classiche alle poltrone d'orchestra dove si raccoglieva la nobiltà napoletana, il nome di Amina Boschetti era acclamato come quello di una trionfatrice. La coprivano di fiori, di doni, di gioielli: le offrivano i loro cuori e le loro fortune: ed ella tutto accoglieva, sorvolando su tutto, sapendo che i fiori, i gioielli, i cuori, le fortune, eran fatti per lei, perchè i suoi piedini calzati dalle fini scarpette di raso rosa vi facessero in mezzo una gaia danza. Ella aveva ville a Portici e a Posillipo, palazzi a Napoli, mobili sontuosi, equipaggi ricchissimi, vesti e pietre preziose degne di una sovrana; e la sua lieta giovinezza spensierata rideva di tutto ciò: ed ella dava in cambio tutta la poesia della sua bellezza, tutta la poesia della sua danza, sorridendo ai sogni di amore e di piacere. Così, nella sua infanzia, Carmela Minino l'aveva vista, ammirata, amata, come se Amina Boschetti avesse in sè qualche cosa di divino: così la povera figliuola della rammendatrice di maglie, la figliuola di Bettina Minino, aveva volto gli occhi pieni di ammirazione trepida e devota alla fata delle danze. Tutti quei deliri, tutte quelle acclamazioni, tutti quei gioielli, tutto quel denaro che la gente gittava innanti alla danzatrice adorabile, non sembravano, alla oscura piccola corifea, che un omaggio naturale, giusto, dovuto a quel leggiadrissimo idolo. La messa, funebre quasi finiva, mentre alte risuonavano le parole latine d'implorazione del sacerdote, sotto la volta granitica del tempio egizio. Ma Carmela Minino che, pure, era una, umile e pia cristiana, ancora non pensava a pregare per l'anima della sua madrina. Ora, si rammentava come la bella danzatrice era entrata nella sua piccola vita, piena di ombre, di tristez- ze, di miserie! si rammentava di essere stata condotta, un giorno, due giorni, varie volte, in quel grande palazzo della Riviera di Chiaia, dove Amina Boschetti viveva fra la ricchezza del lusso e dell'arte, e in quell'amena, fresca villa di Portici, posta fra gli orti, i giardini e il mare: sua madre rammendatrice di maglie di seta, aveva servito la Boschetti, quando costei era una semplice ballerinetta di quarta fila, e, più tardi, quando la ballerinetta era diventata una stella fulgida, la povera rammendatrice, assai misera per mancanza, di lavoro, andava a raccogliere le vecchie maglie che la Boschetti gittava via, gli scarpini di raso rosa che la Boschetti metteva una volta soltanto, e di questi doni, facili alla prodigalità, della grande artista delle danze, Bettina Minino faceva un piccolo commercio. Allora, Carmela Minino aveva dieci anni, due grandi occhi neri e dei bei capelli neri, non pareva che dovesse diventare bruttina come era, poi, più tardi, di- venuta pur conservando il dono dei belli occhi e dei bei capelli. Ogni tanto, Amina Boschetti passava nella sua anticamera, dove Carmela si rannicchiava in un angolo; la carezzava lievemente, passando, nelle sue ampie vesti di lana bianca che avevan del peplo greco e da cui si ergeva la seducente testina. - E falla ballare, falla ballare - rispondeva familiarmente la Boschetti, quando la sua vecchia rammendatrice sospirava, parlando di sua figlia. - E se è brutta, Eccellenza? - Speriamo di no. - E se si perde l'anima e il corpo a teatro? - Chi si perde, si ritrova - replicava, ridendo, la Boschetti. Ciò finì con questo: che la Boschetti dava venticinque lire il mese, per vari anni, a Bettina Minino, perchè la sua figliuola, potesse imparare il ballo. Ohimè, la piccola Carmela mancava di grazia, di brio, di leggerezza, nella danza: studiava molto, si stancava enormemente, era obbediente, sommessa alle osservazioni del maestro, tentava del suo meglio, ma non arrivava a conquistare quelle qualità necessarie ad una ballerina. Anche, verso i sedici anni, invece di fiorire come tutte le giovinette, deperì. La sua carnagione si fece bruna e opaca, le linee s' indurirono ai pomelli, al mento; le labbra s'impallidirono. Forse mangiava poco: forse, ballava troppo: forse mancava d'aria e di luce, in quella stanza del vico Paradiso; ma la sua gioventù fu sfiorata, restandole solo quei begli occhi un po' tristi, ma pur fieri, che, del resto, hanno le napoletane più brutte, quei bei capelli, che, anche, sono un pregio assai comune, a Napoli. - Signora mia, è brutta, è brutta - diceva, piagnucolando, ogni tanto, Bettina Minino alla sua benefattrice. - Pazienza! Così non si perderà - rispondeva, sorridendo la Boschetti. E per la sua protezione, solo per questo, Carmela Minino era entrata nel corpo di ballo di San Carlo: ma nell'ultima fila, con due lire e cinquanta ogni sera di ballo, con l'obbligo di fornirsi del basso vestiario, scarpette, coturni, maglie di seta, gonnellini di velo, coll'obbligo di venire ben pettinata o di farsi pettinare dal parrucchiere del teatro, con tanti obblighi, tutti costosi, che riducevano a nulla le due lire e cinquanta serotine. Era, anche, una grazia, particolare, perchè a San Carlo non volevano brutte ballerine, anche nell'ultima fila, perehè Carmela ballava così e così, sovra tutto mancava di sorriso, sempre con quel viso senza gioventù e gli occhi malinconici. Con il poco guadagno della madre, con le venticinque lire il mese del sussidio Boschetti, meno male, si tirava avanti, quando Amina Boschetti morì... Ora, la messa era finita e il prete secondato dai due coadiutori, benediceva con l'acqua santa il tumolo, cioè la lapide. E invece di pregare per colei che dormiva da sei anni l'eterno sonno della morte, dietro quel macigno di granito, Carmela Minino pensava alla morte di Amina Boschetti. Ella l'aveva vista ballare, l'ultima volta, in un ballo grandioso, di carattere egizio: Le figlie di Cheops. Le due figliuole del Faraonide eran rappresentate da una bellissima mima, alta, formosa, Assunta Mezzanotte, che poi, più tardi, doveva tentare con minor fortuna il teatro di prosa, e l'altra figliuola, la sorella, la rivale, era Amina Boschetti. Non so per quante sere, nelle vesti orientali, con l'ibis d'oro fermante i capelli bruni sulla fronte, carica di gioielli antichi, Amina Boschetti aveva ballato, e più che ballato, sceneggiato e drammatizzato quel ballo delle Figlie di Cheops: e non so quale storia d'amore vincitore e vinto, fra le due sorelle, conduceva la minore Faraonide, la danzatrice, alla morte. Nell'ultima scena, ell'appariva in una festa sacra, bella di una ieratica bellezza fatale, coverta di ori e di gemme preziose, con un sorriso inebbriato ed inebbriante sulle labbra, con qualche cosa di folle negli occhi scintillanti. Così la Faraonide Amina Boschetti imprendeva una sua danza religiosa insieme a uno serpente: a un serpente pitone, sacro alle deità egizie, che ella si avvolgeva alle braccia, al corpo, scherzando, giuocando con esso, accostandosene lietamente e follemente la testa al volto, gittandolo via, ghermendolo, agitandolo intorno a sè, in volute bizzarre. Poi, l'affanno delle danze cresceva, cresceva, i capelli della danzatrice si scioglievano sulle spalle, ella girava come folle, come convulsa, fino a che, appuntando la testa del serpente sul suo petto nudo, si faceva mordere, cadeva, moriva, fra il terrore di tutti. In questo ballo, in quest'ultima scena, Amina Boschetti esciva dal limite della danzatrice felice, vaga e spensierata: ell'assumeva un aspetto drammatico e il pubblico ne aveva un effetto più profondo e più alto. Quattro giorni dopo la chiusura del San Carlo, quattro giorni dopo l'ultima trionfale rappresentazione delle Figlie di Cheops, non ancora trentenne, in piena beltà, in pieno trionfo, Amina Boschetti moriva nel suo palazzo della Riviera di Chiaia, in pochi minuti per la rottura di un aneurisma. Niuno sapeva che ella fosse malata al cuore: forse, lo sapeva ella sola. E nella limitata intelligenza di Carmela Minino, la esaltazione dell'adorazione che ella portava ad limina Boschetti, la induceva oltre i confini della piccola anima popolana, la slanciava in pieno sogno. Quel tempio, quegli argenti, quei fiori, quegli incensi, quelle preghiere, quel culto d'amore e di lusso grandioso che oltrepassava il tempo, che oltrepassava la morte, non dicevano l'imperio della grande maga, ancora, sempre? Non era Amina Boschetti indimenticabile, indimenticata, come una suprema parvenza di poesia? Nessuna ne aveva preso il posto nella fervida ammirazione del pubblico e tutta una folla la rimpiangeva, ogni volta che una nuova ballerina appariva sulle scene del San Carlo: nessuno ne aveva preso il posto, nel cuore di colui che l'aveva amata. Nessuno, nulla, nè il tempo nè gli eventi avrebbero potuto prenderne il posto nella oscura vita, di Carmela Minino, la corifea. Colà, sola, innanzi a quella tomba, piegate le ginocchia innanzi a un diletto nome scritto sulla pietra, nell'ardore che le bruciava le vene, Carmela Minino promise, giurò, alla sua madrina morta, di fare sempre quello che ella aveva voluto la sua figlioccia facesse: promise, giurò di continuare quel mestiere duro, faticoso, pieno di pericoli, pieno di tristezze, che appena le dava il pane, che la lasciava mesi intieri senza lavoro, che la esponeva alle delusioni, alle amarezze, ai dileggi di tutto l'orribile mondo teatrale, che la teneva fra il disonore e la miseria e che, infine, l'avrebbe portata, chi sa, all'elemosina, all'ospedale: che importava? Ella aveva voluto così: e Carmela s'inchinava ancora una volta, ebbra di obbedienza, ebbra di devozione, oltre la tomba, sino alla morte e oltre la morte. Anzi, nella sua febbre di amore e di sacrificio, Carmela dimenticò completamente di pregare. Con la familiarità religiosa comune ai cuori semplici napoletani, con la empietà ingenua dei cuori passionali , ella era certa, certa, che il Signore aveva perdonato ad Amina Boschetti tutti i suoi peccati. La corifea rientrò in Napoli verso le cinque. Quasi annottava. Questa volta, per trovarsi più presto in Via Paradiso, alla Pignasecca, voltò dalla Stazione per la regione settentrionale di Napoli, Via Cirillo, Via Foria. Quando fu presso il Museo Nazionale, la pioggia cominciò a cader fitta fitta. Temendo pel suo vestito, pel suo cappello, per le scarpe, ella si rifugiò nella Galleria Principe di Napoli, dove centinaia di altre persone, senza ombrello, o con qualche vecchio ombrello consunto, aspettavano che finisse di piovere. Si faceva tardi, per Carmela. La pioggia diminuiva ed ella discese la scalinata della Galleria verso via Toledo; guardando innanzi a sè, ella scorse un elegantissimo coupé signorile fermo innanzi al grande arco della Galleria. Sul marciapiede, piegato verso lo sportello, nascondendone il vano, un signore parlava alacremente e attentamente ascoltava chi era dentro la vettura. Malgrado che le volgesse le spalle e che avesse cambiato vestito, Carmela riconobbe subito il Conte Ferdinando Terzi. Ella si fermò un istante sugli scalini, guardando verso il coupé, cercando timidamente di scorgere chi vi si trovasse dentro. Oh ella sapeva bene, Carmela, che Ferdinando Terzi nascondeva e mal nascondeva, una perigliosa e violenta relazione con una giovane signora dell'aristocrazia, a cui Emilia Tromba faceva o da paravento o da diversivo: sul palcoscenico se ne parlava, fra le ballerine che spettegoleggiavano sugli amori e sui vizi del mondo aristocratico, in cui spesso hanno delle rivali, e Carmela conosceva il nome e il volto giovanile, pensoso e dolce di colei che si diceva, amasse follemente Ferdinando Terzi. Ma pioveva ancora e fra le penombre del crepuscolo, il velo sottile della pioggia, nel giro largo e lento che Carmela Minino fece intorno alla piccola carrozza signorile, non giunse a distinguere nulla. Lentamente, la ballerina si allontanò lungo il marciapiede opposto, andando verso la sua casa: si voltò solo, sotto ombrello, due o tre volte, a guardare indietro. Il coupé era sempre fermo, Ferdinando Terzi - le pareva a Carmela - si era sollevato, guardandosi intorno, per diffidenza: poi si era curvato di nuovo, a discorrere. Ma in quell'ora, con quel tempo, lontano dal centro aristocratico di Napoli, fra le oscurità del crepuscolo che si facea sera, sotto la pioggia, chi potea, lassù, riconoscere Ferdinando Terzi e il coupé della marchesa.... chi, se non l'occhio umile ma acuto di una poveretta che ritornava dal cimitero, a piedi dalla ferrovia, tutta molle di umidità, senz'aver pranzato, anelando alla sua stanzetta solinga e a un po' di cibo? Fu più in là, verso piazza Dante, che una voce amabile interruppe il cammino di Carmela. Sulla soglia di uno dei grandi magazzini inglesi di Gutteridge, un giovanotto l'aveva interpellata: - Oh signorina Minino, buonaseral non mi salutate, neppure? - Buonasera, buonasera - ella mormorò, interdetta, fermandosi e pentendosi subito di essersi fermata. - Entrate un poco, signorina - soggiunse il giovane, liberando l'entrata. - No, non posso, signor Gargiulo, ho fretta. - Sempre così! E donde venite, sempre simpatica, sempre così simpatica e così cattiva, con me? Da una prova di ballo? - A quest'ora? - ella mormorò, senza badare ai complimenti. - Io vengo dal camposanto. - Scusate - disse Garginlo, interdetto. - Andate a casa? Posso accompagnarvi, un poco? - No, no, grazie, badate al vostro lavoro. - Oh, è già sera, non verrà più nessuno, dico a un compagno di supplirmi alla cassa. Permettete? - Nossignore, buonasera, signor Gargiulo - concluse lei, in fretta licenziandosi. Il giovane cassiere rimase un po' interdetto: ma lo stesso sorriso un po' fatuo gli restò sulle labbra, mentre guardava allontanarsi la ballerina. Egli era alto e magro, con un viso olivastro e un po' di baffetti bruni a cui teneva molto, accarezzandoli spesso: portava i capelli neri tagliati a spazzola sulla fronte e non mancava di una certa linea di eleganza, nella sua magrezza. Parlava con sovrabbondanza, come tutti i commessi di negozio, con uno spolvero di false buone maniere, con le unghie lunghe e accurate e un brillante al mignolo: vivente maluccio col suo stipendio di cassiere, ma sempre ben vestito, con quella ricercatezza speciale dei giovani commessi, amatore dello smoking e frequentatore accanito di teatri e di balletti borghesi. In teatro andava gratuitamente, per mezzo di un giornalista suo amico, specie a San Carlo: e, talvolta, con l'amico era andato ad aspettare l'uscita delle ballerine dopo lo spettacolo. Colà aveva visto passare, varie sere, Carmela Minino sola: le aveva diretto qualche parola, così, per far anche lui il corteggiatore di una ballerina. - Lascia fare - gli aveva mormorato l'amico giornalista. - È brutta ed onesta. - Ne sei certo - Certissimo. Sono otto o dieci, ancora zitelle, a San Carlo, fra cui la Minino. - Allora, sarebbe un bel guaio per me. - Naturalmente. Niente altro. Ma sempre che la incontrava, Roberto Gargiulo si avvicinava a Carmela, le faceva dei complimenti vivaci e delle allusioni poco velate. Ella rispondeva poco o nulla, si schermiva alla meglio, si allontanava,. Pure, Gargiulo che aveva fatto qualche conquista, nel monduccio borghese ove si aggirava, pensava che se avesse voluto, con una corte assidua, con qualche regaluccio, Carmela Minino avrebbe finito per amarlo. Conveniva a lui, però, insistere, poichè la ballerina era onesta, affrontare certe conseguenze, portare la catena di una relazione simile? Chi sa... più tardi... forse... e intanto, ogni volta che ella gl'impediva di continuare i suoi discorsi, egli conservava il suo sorriso fatuo, di seduttore che non vuole insistere. Carmela affrettava il passo, verso via Pignasecca, aveva crollato le spalle, lasciando Roberto Gargiulo. Egli non le dispiaceva e non le piaceva, ma ella adoperava con lui le armi di difesa abituali di una donna che ha paura dell'amore e paura del peccato. Credendosi anche più brutta di quello che era, una istintiva, selvatica diffidenza le veniva contro ogni accenno di corte; ella supponeva sempre un inganno maschile, una trama, per farla cadere nel peccato, per burlarsi di lei, subito dopo. Vagamente, nella sua coscienza di povera serva sociale, di povero atomo, senza forza e senza coraggio, ella sentiva che, un giorno o l'altro, questo sarebbe accaduto: ma con tutte le cure quotidiane ella respingeva da sè questo avvenimento, ciecamente respingendo chiunque avesse potuto rappresentarlo: adoperava le più puerili e le più inani armi di difesa, fuggendo le conversazioni, fuggendo i contatti, evitando ogni occasione, facendosi anche più rustica e più sgraziata. Oh non molti la corteggiavano, mal vestita, sempre sola, sempre danzante nelle ultime file, senza un gioiello, senza un fiore nei capelli, ma ogni tanto qualcuno, Roberto Gargiulo o don Gabriele Scognamiglio, il cav. Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, consuetudinario di San Carlo, che abitava in piazza della Pignasecca, o il figliuolo del direttore del palcoscenico, qualcuno di questi la perseguitava per due o tre giorni, per una settimana, dicendole sempre le stesse cose, volendo tutti la medesima cosa, ingannarla, cioè, pensava lei, condurla al peccato, per piantarla subito. No, no. Ella li scoraggiava, facendosi vedere sempre più sgraziata, a occhi bassi, troncando i discorsi, fuggendo, quasi sempre. - Buonasera, donna Carmelina! - disse una voce d'uomo, mentre ella sbucava sulla piazza della Pignasecca. - Ecco l'altro - mormorò fra sè, Carmela. - Buonasera, cavaliere. Era don Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, celibe impenitente, famoso donnaiuolo: un uomo che aveva già i suoi cinquantacinque anni, ma che portava la sua barba bianca bene tagliata e profumata, quasi sempre in marsina, la sera, pulito, svelto, che sapeva parlare alle donne, brutale, del resto, nel fondo del suo animo, freddo e calcolatore. - Donna Carmelina, volete venire a pranzo con me, a Frisio, stasera? - Grazie, cavaliere, ho già pranzato. - Allora, andiamo insieme al cafè concerto, donna Carmelina, che ne dite? Dopo mezzanotte, si cena... - Buonasera, buon divertimento, cavaliere - diss'ella, allontanandosi. - Siete proprio una scema, donna Carmelina, ve ne pentirete! - esclamò lui, ridendo, chiamando una carrozza per andare a pranzo. Ah, quando fu in casa, nella stanza al quarto piano, piena di umidità, Carmela Minino fu presa da una stanchezza mortale. A forza si trascinò sino al tavolino per accendere il lume a petrolio; e per forza se ne andò in cucina, ad accendere un po' di fuoco, per cucinarsi un paio di uova, che aveva in casa: niente altro, perchè sarebbe morta di fame, anzi che discendere quei quattro piani a comperarsi qualche altra cosa. Moriva di fatica, di lassitudine morale, di segreta tristezza: e mangiando quel poco di cibo, sopra un angolo nudo del suo tavolino, alla luce fumosa della sua lampada, pensò, sì, di essere una scema, come aveva detto don Gabriele Scognamiglio. Ma non se ne pentì, in quella sera.

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Il giovane, in quell'inverno, era stato varie, troppe volte a San Carlo, introdottovi da un amico giornalista: e sentendo che ognuno di quei abbonati alle poltrone aveva la sua innamorata, la sua amante, fra quelle ballerine, udendo tutti quei discorsi di piccoli e grandi don Giovanni, vedendo Carmela danzare, ogni sera, sapendo che non aveva nessuno che la corteggiasse, sapendola molto restìa, ma non totalmente restìa, si era rimesso a farle dichiarazioni amorose, in prosa e in versi - i versi, li copiava qua e là - ad aspettarla, innanzi al teatro, quando esciva. Il suo sogno sarebbe stato di andare nelle quinte, come tanti gentiluomini in marsina, in cravatta bianca, col fiore all'occhiello: ma egli non era che un oscuro impiegato di commercio! Carmela diceva no, sempre, con quel diniego costante e disperato di chi si ostina ciecamente: ma le lettere non le dispiacevano. Ed obbedì a un senso di vanità, mettendosi in tasca la ultima lettera di Roberto Gargiulo, a cui non aveva risposto. Quando avevano un quarto d'ora di riposo, di libertà, le ballerine, nelle quinte, nei loro cameroni, dove si acconciavano, cavavano fuori subito le lettere dei corteggiatori. E alle tre meno venti, puntuale come un soldato, Carmela Minino avendo un po' freddo, sotto la sua mantellina di panno nero, guarnita da una falsa pelliccia nera, tenendo nascosto il pacchetto della sua cena, col suo passo cauto, leggiero, misurato uscì dal portoncino del Vico Paradiso, per andare a San Carlo.

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La sorte

248008
Federico De Roberto 2 occorrenze
  • 1887
  • Niccolò Giannotta editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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- Tutta illusione - diceva Salvatore all'amico Agostino - Tutta polvere agli occhi per far pagare tre lire il mese agli abbonati. Egli non aveva le poltrone che giravano attorno, nè gli spazzolini per i mustacchi; ma per una lira il mese tagliava i capelli anche ogni giorno, se così piaceva, e faceva la barba a dovere, senza lesinare il sapone con la scusa che era profumato. Ora non si poteva neanche andare in un salone alla moda, senza trovarci dei ragazzi che, fingendo d'imparare il mestiere, servivano veramente a scroccare i soldi delle mancie. Quando un galantuomo s'era fatta la barba e pigliava il cappello per andarsene, quelli gli venivano dietro, lisciandogli il soprabito con la spazzola, quasi gli facessero il solletico, e se uno non dava loro un soldone, non riusciva a cavarseli di mezzo alle gambe. - Una vergogna che da me non si trova, perchè io non ho bisogno di aiuti! Egli s'era dato all'arte da ragazzo e la sua mano aveva acquistata una straordinaria agilità; i capelli cadevano sotto le sue forbici come la lana quando tosano, e i suoi rasoi portavano via le barbe, di un colpo solo, senza lasciare il più piccolo frego sulle guancie. La domenica era giornata campale. Dall'alba a mezzogiorno, la bottega restava continuamente affollata da ogni sorta di persone: contadini che si facevano radere sulla faccia e sulla nuca, e lavare le teste talmente piene di terra che si poteva seminarvi il prezzemolo, e all'ultimo leticavano sui soldi, ch'egli non ci ripigliava neanche il sapone; giovanotti che gli sciupavano una bottiglia d'olio per ungersi i capelli e gli facevano perdere un'ora per la scriminatura; murifabri terrosi, tutti imbiancati di calcina sulle giubbe color mattone; poveri diavoli con le barbe ispide, con le capigliature boscose che non conoscevano altro pettine fuor delle dita e si dimenavano sulla sedia ad ogni strappata di forbice; operai di tutte le età e di vario pelo, che una volta seduti, dinanzi allo specchio, con tanti buoni odori d'acque e di pomate sotto il naso, non trovavano più il verso di alzarsi e di cedere il posto ai nuovi venuti. Egli spiegava allora tutta la sua pazienza e la sua abilità, trattando ogni persona secondo il suo grado, aiutandosi con le mani e con la lingua, raccontando storielle, ripetendo le notizie che aveva raccolto durante la settimana da questo e da quello, aggiungendovi di suo un pizzico di sale e pepe, per non dare agli avventori il tempo di seccarsi. - Perchè non v'abbonate alla Gazzetta? - gli diceva l'amico Agostino, che passava tutte le sue ore libere nella bottega. - È buona per gli scuoia-cani della città, la Gazzetta! - Il vero giornale è la mia testa, e la gente mostra di gustarlo. Egli andava anche in casa, a servir le pratiche, e cominciava il suo giro appena giorno, con la scatola degli strumenti sotto il braccio e le mani dentro le saccoccie del soprabito. I vecchi volevano esser serviti presto; essi si levavano col sole, e non lo facevano aspettare; ma i giovani si ravvoltolavano fra le coltri fino a tardi e non erano contenti se non gli facevano salir le scale un paio di volte almeno. - Lasciamoli fare! Ho buone gambe, sia lodato Dio! La gioventù è tutta a un modo - pensava - e anche lui, diciamo la verità, se si metteva assieme una serenata e l'amico Agostino gli veniva a dire di portare il suo mandolino, non c'era il caso che si facesse pregare! Il mandolino, fra le mani di Salvatore, cantava come una voce umana e aveva certe note che facevano piangere. In tutta la città non c'era chi gli potesse stare a fronte, e i capi-musica dei reggimenti, e le stesse signore lo mandavano a chiamare per sentirgli suonare quel suo strumento che, come la casa e la clientela, gli veniva dal padre e dal nonno. Ma il grande svago di Salvatore era un altro: la lettura. Nelle lunghe ore quando la bottega restava deserta e non c'era da affilar rasoi nè da spazzare capelli tagliati, egli divorava romanzi, seduto dinanzi alla porta, talmente assorto da non sentire nè vedere quello che accadeva per la strada. I romanzi glie li prestava l'amico Agostino, il quale era parente d'un libraio che teneva la biblioteca circolante; ma quando ne capitava uno che gli piaceva davvero, lo andava a comprare addirittura. Così aveva messo assieme una piccola libreria: i Misteri di Parigi, il Cornuto, i Vermi, le Avventure di Rocambole, i Miserabili e finalmente il Conte di Monte Cristo, ch'egli sapeva quasi a memoria, tanto lo aveva letto e riletto. Quei cinque volumi gialli, dopo aver fatto il giro dei suoi avventori, giacevano di qua e di là, per la bottega, squadernati e unti, ma indispensabili a lui più degli stessi ferri del mestiere. Con Edmondo Dantès, con l'abate Faria, con Mercede, col signor Villefort, e Caderousse, e Massimiliano, e Morcerf, con tutti quei personaggi meravigliosi e interessanti, Salvatore faceva vita assieme, si poteva dire, poichè li aveva sempre dinanzi agli occhi e parlava di loro come se fossero vivi. La sera, quando venivano gli amici, a passare un'oretta, egli socchiudeva la porta, metteva fuori una bottiglia di vino e raccontava quella storia con più piacere che giuocando a briscola o chiacchierando dei fatti del prossimo. - Dunque, s'era rimasti? - S'era rimasti che i gendarmi chiudevano Edmondo Dantès al castello d'If - rispondeva Michele Lisani. Salvatore riassumeva gli avvenimenti precedenti, s'interrompeva per richiamare qualche particolare dimenticato; ma bisognava vederlo quando si rimetteva in carreggiata, ripigliando il filo del racconto! Allora si animava straordinariamente, come se tutti quei casi fossero capitati a lui in persona; si alzava in piedi, dava alla sua voce l'intonazione necessaria, trovava gesti energici ed espressivi che commentavano le parole e lasciava i suoi uditori sbalorditi, con la bocca aperta e gli occhi intenti. Ah! quella fuga dal castello! quei custodi che portavano il sacco con dentro il morto, che non era morto e sentiva quell'incomprensibile discorso! E quel rumore del mare, nella notte, mentre dondolavano il carico sull'abisso: «Uno!.. due!.. tre!..» - Bene!.. Bravo Salvatore! - Sapete che a fare il cantastorie potreste egualmente guadagnarvi la vostra giornata? - diceva Giovanni Santoro. - Alla generosità di lor signori! - E Salvatore faceva il giro della compagnia, col berretto in mano, per raccogliere le offerte. Con i soldi che mettevano assieme, compravano delle castagne, o delle carrube arrosto, roba che metteva sete e faceva rasciugare i bicchieri d'un sorso solo. - Alla salute della società! - Alla salute di Agostino - Che m'ha regalato questo bel vino! - Alla salute dei vostri figli, quando ne avrete! Salvatore si metteva a ridere, perchè quell'idea non gli era mai passata pel capo. Si trovava così bene, in quella pace degli angeli! e le donne non sapeva neanche dove stessero di casa. - Che bisogno ho mai di andare a cercar degli impicci? Del resto, ci sarà sempre tempo di pensarci, a cotesta corbelleria. - Eh, amico caro! - gli diceva Agostino - lo sapete che i quarant'anni son passati da un pezzo! - E questo che importa? Se mi trovate un pelo bianco ve lo pago quello che voi volete. - Ma date retta a me; cercatevi una moglie che faccia per voi, e v'arricchisca la casa! Voi avete del vostro, e non dovrete angustiarvi se verranno i figli. - Trovarla! Dove volete ch'io la vada a pescare? - Gli amici ci son per niente? Ma dite piuttosto che avete la testa ai romanzi e fantasticate Dio sa che stramberie! Agostino diceva così per farlo indispettire. Quando toccavano quel tasto, Salvatore che era sempre buono come il pane, s'arrabbiava davvero. - Non ne capite niente! Quasichè io fossi un ragazzo da guastarmi la testa! Se leggo romanzi vuol dire che ci trovo il mio gusto. A voi che piace, il bagordo? E chi vi dice nulla! - Basta! non se ne parli più. Invece tornava a parlarne. Egli aveva una gran premura di dargli moglie, ma diceva pel suo bene; si conoscevano da ragazzi, e ne aveano passate tante, insieme! Lui non l'aveva fatta quella corbelleria; ma c'era la ragione, che non aveva un soldo di suo, e il poco che guadagnava non gli bastava pei suoi bisogni. Con le tre lire il giorno che gli davano dal principe Leoparretti, dove accudiva alla contabilità, sarebbe stato padrone di morir di fame se gli fosse venuta la malinconia di ammogliarsi! - Che dice la principessa? - chiedeva Salvatore, pigliandogli il mento con due dita, per levargli la barba dal collo. - Eh! amico caro... - masticava l'amico Agostino - quella tiene i ganzi a quattro per volta... Se n'è perfino perduto il numero!.. - Quando poi si dice! Queste gran signore, se ci si mettono, ne vogliono cento di quelle... - Ma che bel pezzo di donna.... vista in casa... in disabigliè!... - e quello si dimenava voluttuosamente sulla sedia, mordendosi le labbra. - Una volta di queste ve la farò conoscere! Infatti, un giorno l'amico Agostino venne a dirgli che la principessa lo voleva a palazzo, col mandolino. - È per domani sera. Sono venuti certi parenti da Palermo e ci sarà gran concerto. Lui da principio non ne voleva saper nulla. - Che figura mi toccherà fare, in mezzo a tanti signori? - Non ci sarà nessuno, sono fra loro parenti. Andiamo, non fate il difficile; hanno inteso che siete un gran suonatore e vogliono ammirare la vostra abilità! E poi, date retta: quando sarete lì, guardatevi bene attorno, e me ne darete notizie! - Che intendete dire? - Lo so io! Salvatore aveva un cuor d'asino e un cuor di leone, come si dice, e non sapeva decidersi tra la voglia di andare dalla principessa e la soggezione che lo vinceva soltanto a pensarci. - Dunque, stasera? - venne a ricordargli il cocchiere della signora, che era dilettante di chitarra. - Ci sarete anche voi? - Passerò a pigliarvi. Così, quando fu l'ora, Salvatore mise il suo abito più bello, prese lo strumento sotto il braccio e s'avviò.

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Salvatore vi perdeva tutto il suo tempo e con le sue belle maniere riusciva a ingraziarsi le pratiche e a procurar abbonati. I registri li teneva Agostino; Salvatore aveva troppo da fare, e poi non riusciva a raccapezzarsi in mezzo alle cifre. Nardo era anche lui un buon lavoratore, attivo e intelligente; egli pensava sempre a metter bottega alla sua volta e intanto faceva di tutto per cattivarsi la benevolenza del principale. Andrea s'andava formando, a poco a poco; ora gli si poteva affidare una barba, quantunque fosse un po' tardo; i capelli sapeva pettinarli a garbo ed era famoso per la scriminatura. Egli non era più riconoscibile; spendeva tutto il suo a colletti, a spille di rame, a bottoncini d'osso, e prendeva sempre più l'aria d'uno zerbinotto. - Il figurino! - l'aveva soprannominato Salvatore. Tutt'e due, quando nel salone non c'era da fare, divoravano le dispense illustrate: Il Signore del mondo, Mietta o Il Fiacre N. 13. Nardo non le toccava se non per mettere in ordine il salone; quand'era disoccupato egli faceva conti, sulla punta delle dita. Ora Salvatore era costretto a comperare anche i giornali, perchè la nuova clientela, più scelta e numerosa dell'antica, gli metteva soggezione, ed egli non poteva chiacchierare con tutti. Ogni mattina, sul presto, arrivava sgambettando lo Sciancato, quello che strillava i fogli, e appena entrato si cavava il berretto. - Benedicite! - Poi, cominciando a fare il mulinello col braccio dritto: - Oggi, gran novità! C'è la scacciata d'Adamo e d'Eva dal paradiso terrestre! E come gli davano il soldo, lo buttava all'aria, lo faceva cadere dentro il berretto e scappava, tirandosi dietro la gamba storta.

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