Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Aristotele esposto ed esaminato vol. I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Questo lavoro (1) intorno alla filosofia d' Aristotele nacque tra le mani dell' Autore senza un disegno premeditato, e quasi contro la sua intenzione. Dettando il secondo libro degli « Ontologici », che ha per titolo « Le forme dell' essere », gli fu necessario esporre in qual maniera concepisse e divisasse le « Categorie », Aristotele. Non pensava che di dare un sunto del libro celeberrimo di questo filosofo su tale argomento. Ma postosi all' opera, la sua attenzione fu trattenuta dall' intimo nesso che congiunge le dieci categorie con tutta intera la dottrina dello Stagirita, e s' avvide che, per intendere a pieno il concetto che presiedette alla mente del filosofo nel compartimento dell' ente in sommi generi, si rende necessario addentrarsi nelle altre parti del sistema, ed esaminarne diligentemente le relazioni che le legano tra loro: così una questione conduceva ad un' altra, e un problema ad un altro. Troncare a mezzo queste ricerche gli spiaceva, e lo spronavano a proseguirle la curiosità non meno che la speranza di pervenire finalmente al fondo del pensiero aristotelico che si congiungeva con molti fili alle filosofie precedenti, e d' accertarsi se in questo fondo si trovava davvero un solo sistema, come fu supposto fin qui, ovvero s' avesse in fine soltanto un accozzamento d' opinioni, o anche di contraddizioni, del che gli dava gran sospetto la discordia degli interpreti, e i faticosi lavori dei conciliatori (2). Le stesse difficoltà che gli accadeva d' incontrare sulla via, nell' intelligenza dei luoghi difficili, anzichè stancarlo, acuivano in lui il desiderio e l' impegno di vincerle con confronto dei luoghi paralleli, colle determinazioni dei varii significati delle parole e delle frasi tecniche, coll' aiuto degli scoliasti antichi e dei lavori critici, sebbene ancor molto imperfetti, che alcuni dotti della Germania recentemente tentarono, all' emendazione e alla rettificazione del testo (1). Così perduto di vista il primo proposito, quel che dovea essere un brano, e anche breve, del trattato « Le forme dell' essere », crebbe in una lunga dissertazione, che ormai non poteva più appartenere al detto libro, e per la sproporzione della mole, e perchè il discorso usciva dai limiti dell' argomento prefisso al medesimo, spaziando per tutta intera la dottrina del maggior discepolo di Platone. Fu dunque separata dal rimanente questa parte, sopraccresciuta quasi a modo di gemma sulla prima pianticella; ed è quella che prese forma dall' opera presente, che intitolammo: « Aristotele esposto ed esaminato ». Colla qual narrazione dell' origine di questo scritto, intendo invocare l' indulgenza dei miei lettori sui difetti del lavoro; e nello stesso tempo giustificare in qualche modo l' ordine seguito in esso, e i limiti ad esso prefissi. Se fin da principio io avessi concepito il proposito di presentare all' Italia il sistema aristotelico accompagnato dall' esame razionale del medesimo, avrei distribuite le diverse parti in altro modo, avrei potuto più facilmente far apparire agli occhi dei lettori la conveniente simmetria di tutto il disegno. E in questa esposizione avrebbero trovato luogo quelle parti della dottrina aristotelica, che non appartengono strettamente alla filosofia, ma alla fisica, alla politica, alle arti del bello, come posto hanno trovato, per esempio, nella « Filosofia d' Aristotele » di Francesco Biese (2). Io restrinsi dunque il mio lavoro nei confini delle dottrine filosofiche, come quelle che sono intimamente connesse colla questione delle categorie, la quale diede l' occasione dello scrivere. Inoltre, se, nel primo accingermi a quella più ristretta esposizione e discussione delle dottrine prettamente filosofiche, avessi potuto prevedere dove m' avrebbe condotto l' annodata serie del discorso, avrei forse fatte andare innanzi alcune nozioni a quello che dovea seguire, le quali avrebbero sparso qualche luce su tutto il cammino. A ragion d' esempio, avrei probabilmente incominciato coll' esporre la serie delle aporie o dubitazioni, colle quali Aristotele spesso delinea l' ambito delle sue ricerche metafisiche (1): e di poi avrei esposto il libro aristotelico della significazione delle parole (2), che sebbene non sia ricco abbastanza per dichiarare tutto il vocabolario e il frasario aristotelico, pure presta un grandissimo aiuto in tale bisogna. E veramente questi due sono la chiave degli altri libri che si hanno sotto il nome di « Metafisici » e di tutte, si può dire, le opere aristoteliche. Poichè, conosciute chiaramente quali e in che modo fossero concepite le questioni che quel filosofo si proponeva, e che erano indubbiamente quelle che s' agitavano nelle altre tre scuole platoniche del suo tempo, e conosciuto il valore, sempre molteplice, dei vocaboli scolastici e di molte maniere di dire da lui usate in proprio, si può con più fiducia accingersi, quasi bene armati, all' interpretazione, e quasi vorrei dire all' espugnazione d' una filosofia, così chiusa e irta di difficoltà. Chi v' impediva, mi si dirà, di rifondere l' opera vostra, e di dare alla materia una migliore disposizione? O non era meglio sopprimerla del tutto, piuttosto che presentare al pubblico una cosa assai più imperfetta di quella che potevate fare con nuovo e maggiore studio? Se debbo addurre una scusa per meritarmi in qualche modo l' indulgenza che invoco, dirò che mi mancava del tutto il tempo necessario a rifonder quest' opera di lunga lena, ed estranea a quel disegno della filosofia che sto colorendo; che d' altra parte non ho creduto doverla del tutto sopprimere, considerando la scarsezza che di tali lavori ha finora l' Italia, e confidando, che quantunque l' abbozzo della dottrina aristotelica, che oso presentarle, sia molto imperfetto, potrà forse giovare quasi d' eccitamento e di stimolo per altri a far troppo meglio. Le imperfezioni stesse dell' opera contribuiranno per avventura a questo; perchè se l' opera fosse perfetta, chiuderebbe, quasi direi, la bocca a tutti; al contrario trovandosi da dirci sopra e da censurare, si moverà una discussione più facilmente; e la speranza che rimane agli ingegni nobilissimi della patria nostra di ritrattare l' argomento con migliore riuscita, e il diletto d' emendare falli e difetti d' un primo tentativo, li condurrà più facilmente in quella via di solidi studi, a cui abbiamo sempre desiderato di provocarli. Chè anzi a chi considera la storia dell' aristotelismo, non sarà difficile fare seco medesimo questa osservazione: « Se i libri pervenuti a noi del greco filosofo non ritenessero o dall' origine o dalle ingiurie de' tempi molti difetti, si sarebbero forse così profondamente studiati, siccome furono in tanti secoli? Se non fossero o non paressero così scomposti, e il ragionare in essi così discontinuo, il linguaggio così breve, oscuro e quasi ritenente un non so che degli antichi enigmi, avrebbe forse lo Stagirita avuti tanti commentatori? Si sarebbe accumulata tanta ostinazione negli animi e nelle menti di penetrarlo, d' intenderlo? ». In conseguenza, stavo quasi per dire che questa nostra esposizione d' Aristotele, se mostra in sè qualche difetto d' ordine, per questo avrà in certo modo diritto di partecipare a quell' impegno, che si pose per tanti secoli nello studio del « maestro di color che sanno ». S' aggiunga che, se il rifondere da capo questo lavoro potrebbe arrecare il vantaggio di una distribuzione di parti più netta e cospicua tutt' intera sin dal principio, non sarebbe tuttavia senza qualche suo scapito. Poichè il nuovo ordine caccerebbe quello che, sebbene meno appariscente, pure vi può scorgere anche nel presente dettato chi pone mente alla successione del discorso. Poichè si vedrà che noi procurammo tener dietro passo passo all' ordine d' Aristotele stesso; non all' ordine materiale de' libri, e nè pure al metodo che il filosofo tiene nell' esporre le singole dottrine, ma alla connessione intima di queste dottrine e delle sentenze che le contengono. In realtà la dichiarazione d' un luogo del nostro autore ci conduceva da se stessa a un altro chiamato in aiuto per illustrare il primo, e questo a un altro, e così via quasi per una catena continua; per la quale strada se ne va naturalmente e facilmente il pensiero; e benchè da principio non si affacci allo sguardo tutto il quadro intero delle dottrine, pure niuna sentenza è sconnessa e spezzata dalla susseguente; il qual notabile vantaggio sarebbe perduto, qualunque altro ordine si prendesse, e qualunque altra distribuzione si prestabilisse al lavoro. Vero è che quel tessuto di passi raffrontati, acciocchè reciprocamente s' illustrino, riconduce più volte il discorso ai medesimi argomenti. Ma oltre che questi sono rappresentati sotto nuovi aspetti e sotto nuova luce, difficilmente si potrebbe ritrarre al vivo Aristotele, e far conoscere la sua maniera di filosofare, senza questo, che è proprio di lui, non esser stanco mai di far ritorno sugli stessi principŒ, e ripetere gli stessi argomenti, e colle stesse parole altresì e colle stesse forme immutabili, come le forme delle statue degli Dei. E basta per convincersene dare uno sguardo al punto principale di tutta la polemica aristotelica, che è quel delle idee , su cui in luoghi diversi e tante volte ricade il suo ragionare (1). Sulle quali considerazioni e non su queste sole, presi in animo a fare di pubblica ragione lo scritto presente, qualunque sia, con tutte le sue imperfezioni. Se non m' inganno, il pensiero aristotelico nella sua totalità vi si riconoscerà ritratto fedelmente e illustrato con quel lume che presta la coerenza e il contesto di vari luoghi del filosofo. Dico nella sua totalità ; non pretendo io aver colto il vero nell' interpretazione d' ogni singolo testo, talora d' incerta lettura, e di locuzione oscura; abbandono agli eruditi queste minute, e ad un tempo importanti ricerche, e dichiaro subito che soprattutto mi sarebbe gradito vedermi emendato dai lavori di valenti filologi italiani. Non ci dimentichiamo che anche la filologia greca nacque presso di noi: e che il testo greco d' Aristotele comparve la prima volta in pubblico a Venezia per le erudite cure di Aldo Manuzio (2), e che a Giovambattista Bagolini e a Marco Oddi non costò leggeri studi critici e brevi fatiche (è cosa doverosa per noi il non dimenticarlo) la prima edizione latina dell' arabo commentatore, uscita del pari in Venezia (3). Sarebbe dunque ormai tempo che gli Italiani, che si lasciarono vincere negli studi dell' erudizione e della filosofia dai Tedeschi, dagli Inglesi e dai Francesi, si ricordassero finalmente dei loro padri, e la nostra ingegnosa gioventù, scosso il torpore e cessato l' importuno cicalio, riprendesse in mano l' opera gloriosa e tradizionale de' solidi studi filologici e filosofici, quasi del tutto lasciati. E già ce ne dà buon preludio un giovane ingegno, che sta per ora sul pubblicare colle stampe una traduzione italiana della « Metafisica », cioè dell' opera più importante d' Aristotele: arduo lavoro, a cui fin qui niuno italiano, ch' io sappia, aveva posto mano, e forse prima d' ora non si poteva. Ma ritornando a quello ch' io voleva dire, mi parve che in questo tempo, nel quale fu richiamato a nova vita lo studio di Aristotele, in Germania principalmente per le cure del Brandis e d' un gran numero d' eruditi che a lui seguirono, in Francia per quelle del Cousin e dei valenti giovani usciti dalla sua scuola, non dovesse riuscire inopportuno che si pubblicasse questo scritto in Italia, sia ch' esso adempia il tema e l' intento che gli è prefisso (di che altri giudicherà), sia che lo si consideri come un semplice tentativo di adempirlo. Poichè l' intento è certamente questo: ritrarre con fedeltà la filosofia d' Aristotele, definire come e fin dove le parti di essa siano tra loro coerenti ed atte a formare un solo tutto: se ce ne siano alcune che rimangano sospese e isolate, o ripugnanti all' intero sistema e quali siano: quali pure per la loro indeterminazione non si possano ridurre a concetti precisi: finalmente qual sia il valore scientifico di tutto il sistema e delle sue parti . Non vuol dunque esser considerata questa nostra, come un' opera di filologia e di pura storia, ma come filosofia, in una parola come un esame critico dell' aristotelismo, il quale serva a compiere in qualche modo quello che noi abbiamo fatto, troppo leggermente per verità, sopra alcune speciali sentenze del medesimo filosofo nei diversi scritti, dove la materia ce ne dava occasione (1). A portare un equo giudizio del sistema aristotelico, sono al presente rimosse quelle difficoltà che s' incontravano per addietro: prima della sua caduta, la venerazione superstiziosa che si faceva dei suoi detti, a cui era temerità il contraddire; dopo la sua caduta, l' orgoglioso e insolente disprezzo di quelli che insultavano al vinto. Ai giorni nostri è cessata l' una e l' altra passione: si sa ora quanto fosse grande l' ignoranza nel culto superstizioso reso ad Aristotele dal medio evo, e quanta più ce n' era nelle contumelie, di cui lo coprirono i sofisti del secolo XVIII: si sa come la dottrina aristotelica non fu appieno conosciuta dai moderni sensisti per un soverchio d' avversione pregiudicata e pel vezzo divenuto universale di non cercare più la scienza in uno studio serio e laborioso, ma solamente nel ridicolo. I primi erano rimasti abbagliati dalla troppo viva luce e repentina che mandava tra le tenebre il filosofo più consummato della Grecia, e il nobile entusiasmo, che la bellezza di quella luce suscitava nei loro animi, faceva tacere ogni critica. Appena si scorsero le prime macchie nel filosofo, e dopo molti contrasti appena si certificarono errori non pochi nelle cose fisiche, quell' ammirazione piena ed assoluta fu scossa, e i suoi credenti rimasero da prima come pusilli scandalizzati. Accusavano, quasi direi, di temerità la verità stessa che veniva a contraddire al filosofo per eccellenza. Ma quando una venerazione che s' è posata nell' animo umano assoluta e illimitata, rimane in qualche punto, anche minimo, offesa; prima resiste tutta intera, e poi cade tutta intera: l' uomo, che si riconosce ingannato, prova un sentimento tanto grave di sorpresa e di dispetto che lo sconcerta e lo confonde: ed è appunto allora che egli trascorre nella sua passione a bestemmiare quello che prima adorava, quasi per rifarsi, con soverchia disistima e licenza, del soverchio cieco ossequio con cui da prima aveva scemato e legato a se stesso il libero esercizio del proprio pensiero. E siccome i primi a dubitare dell' infallibilità d' un filosofo universalmente seguìto, com' era Aristotele, debbono lottare coi meno perspicaci e coi più cocciuti, quindi un grand' inasprimento di animi, che alla fine produce nei vincitori una specie di furore simile a quello che si manifesta nei soldati al prendere d' assalto una piazza forte che da lungo tempo ha resistito e non s' è voluta rendere a buoni patti. I sofisti dell' Enciclopedia, sopravvenuti dopo la presa di questa piazza, serenarono sulle sue rovine, dandosi allo stravizio, accendendovi fuochi e danzandovi intorno ubriachi. Queste superstizioni, questi disinganni, queste ire, queste licenze barbariche sono passate: ed è per più ragioni desiderabile che oggi si riprenda con calma lo studio e l' esame critico d' una dottrina, che ha occupati e affaticati e divisi per tanti secoli, non solo gli ingegni, ma gli affetti stessi e le passioni degli uomini; il dominio della quale, e il successivo ludibrio, ha immensamente influito sul mondo: e ancora ne rimangono gli effetti profondi nello stato dell' umana società. Sarebbe degno d' una mente perspicace vederli, e veduti raccoglierli in un libro, che riuscirebbe un anello non dispregevole nella grande storia dell' umanità. Ma uno spassionato esame critico dell' aristotelismo non è solo desiderabile che oggidì si faccia per una semplice curiosità scientifica, o per dare con esso ragione di tante discrepanze e scissure, che nelle opinioni degli uomini ci furono sempre intorno alle vere dottrine dello Stagirita, e al valore di esse, o prese tutt' insieme come un sistema, o considerate per parti: ma molto più pare a noi esser desiderabile, per toglier via, s' egli è possibile, e del tutto annientare l' occasione di altre scissure non meno gravi e di altri errori che quelle stesse dottrine potrebbero ingenerare in futuro, se non venissero una volta definite e giudicate in una maniera certa, chiara ed irrecusabile. Poichè le questioni che giacciono nella filosofia aristotelica sono vitali per lo uman genere, e la grandezza e l' importanza di queste, non meno che la loro difficoltà, restituirà sempre ad Aristotele un gran peso d' autorità ogni qualvolta il mondo scientifico volgerà gli occhi a quelle questioni inseparabili dal nome d' un autore che le ha trattate con tanta acutezza e con tal nerbo di pensiero e d' espressioni. Poichè le espressioni aristoteliche ancora al dì d' oggi suonano su tutti i labbri, anche di quelli che ne ignorano l' origine, e sono confitte, per così dire, in tutte le scienze, principiando dalle fisiche sino alla teologia (1), quasi sopravviventi d' una vita tenacissima al sistema a cui appartengono. Pare accertato dalle accurate ricerche de' moderni eruditi, che, eccetto l' « Organo », o alcune parti di esso, le altre opere d' Aristotele, perdute nell' occidente, vi rimasero affatto incognite sino al principio del secolo XIII, quando vi furono d' improvviso riportate da due parti contemporaneamente, cioè da Costantinopoli presa dai crociati, e dalla Spagna dominata dagli arabi. Allora furono lette con avidità, latinizzate, sia dall' arabico e dall' ebreo, sia dagli stessi testi greci (2). Tuttavia non convien credere, che le questioni principali della « Metafisica » d' Aristotele fossero del tutto sconosciute prima del secolo XIII; chè anzi se ne trovano qua e là nelle scritture di quei tempi vestigi così profondi, che sarebbe difficile spiegarne l' origine, senza ricorrere a un' antica tradizione, o a qualche estratto, tuttavia rimasto, dei libri metafisici e d' altre opere dello Stagirita (3). Ma l' epoca, nella quale lo studio d' Aristotele crebbe d' importanza e cominciò ad attrarre l' attenzione di tutti quelli che s' applicavano alle scienze, e della Chiesa stessa, risale a più d' un secolo prima che s' avessero i manoscritti arabi o greci, e quelli fossero fatti latini, quando il celebre canonico di Compiègne (circa 10.9 d. C.), Giovanni Roscellino mise in campo il nominalismo (4): dal qual tempo alcuni incominciano la storia della Scolastica, chè infatti con questa disputa tutte le menti s' accendono di nuovo ardore per le discussioni, e la Scuola acquista un carattere e una forma determinata, che più o meno si conserva fino al suo decadimento. L' universale non esiste nelle cose reali come universale, era stato detto da Boezio (n. 4.0, m. 526), che credeva di ripetere con ciò quanto aveva detto Aristotele (1). Come dunque quello, che è singolare nei reali, è poi universale nella mente? Lo stesso Boezio con molta giustezza osservava che il genere [...OMISSIS...] . Ora se l' universale è tutto in un singolare, non resta più nulla di lui da darsi ad un altro singolare. Oltre a ciò lo stesso Boezio spinge rigorosamente avanti la difficoltà. Dimostra infatti che il genere non può esser uno , perchè, essendo comune, si trova tutto in molti singolari diversi, nè può esser molteplice , poichè se fosse molteplice ci sarebbe un altro genere superiore, e così all' infinito. Come liberarsi da questa alternativa? La prima cosa che ricorre alla mente è quella di negare l' esistenza del genere e d' ogni altro universale, e così sbrigarsi di cotesto essere incomodo. [...OMISSIS...] Ora abolito l' universale, quegli universali che pur entrano nei nostri ragionamenti che cosa saranno? Non possono più esser altro che semplici vocaboli, meri nomi : ed eccoci nel nominalismo di Roscellino. Vero è che Boezio stesso si fa a risolvere poi quella difficoltà, già da lui proposta con tanta forza, per fare intendere quant' ardua fosse la questione accennata da Porfirio nella sua Introduzione , e lasciata da parte come troppo alta e bisognevole di lunga disputa. Ma la soluzione di Boezio non agguaglia certo la forza della difficoltà. E per accorgersene, basta che noi poniamo mente all' incostanza del suo ragionare. Egli ci cangia improvvisamente l' universale in una similitudine dei singolari, senza punto dirvi il perchè d' un tale cangiamento, senza giustificare questa repentina trasformazione. Ma che cos' è la similitudine ? Quest' è quello che ci si doveva dire, e quest' è quello che ci tace. E pure nell' arcana natura della similitudine giace tutta la questione, e tutta la difficoltà , che noi abbiamo dimostrato altrove (2). Di poi, si può egli dire che la similitudine d' una cosa sia la cosa, o sia nella cosa? Non è dunque vero, che gli universali sieno nei singolari, ma conviene che sieno fuori di questi, se non sono che una similitudine di questi (3). Finalmente se gli universali non fossero una similitudine , non potremmo conoscere con essi i singolari, perchè la similitudine è un astratto che nasce dal confronto di due cose simili. Ma il confronto di due cose simili non si può fare senza l' uso d' un universale precedente nella mente, che fa il confronto, al quale universale si riportino (1); e quand' ancora far si potesse, altro non s' avrebbe per risultato che una relazione di similitudine tra più cose singolari: ora una relazione tra più cose singolari è unica e singolare anch' essa, e perciò non può essere un universale. Dato dunque l' universale, si ha la relazione di similitudine e non viceversa. Che se in quella vece si volesse dire che il singolare somiglia all' universale, in tal caso converrebbe provare questa somiglianza, il che non si può se non si suppone prima, come dati avanti, l' universale e il singolare, e converrebbe provare l' esattezza di questa somiglianza, al che di nuovo si dovrebbero confrontare i singolari cogli universali, e si supporrebbero cogniti i singolari prima di ricorrere agli universali come a loro similitudini (1) per renderli noti. Era dunque naturale che tostochè si svegliasse qualche ingegno acuto e pensasse da sè, mal contento della soluzione data da Boezio, egli rimanesse in quella vece preso nella rete dell' argomentazione stessa, colla quale Boezio intendeva dimostrare la perplessità e l' arduità della questione toccata da Porfirio. Poichè quell' argomentazione conchiudeva che il genere , ossia l' universale , non esiste, e non può esistere (2): il che posto, non rimangono dei così detti universali altro che i nomi che è appunto l' induzione di Roscellino. Ma questo memorabile ingegno non aveva certo preveduto le terribili conseguenze che derivavano dall' annullamento degli universali, e quindi delle idee . Insieme con queste è tolto via dal mondo tutto ciò che c' è di divino, è sottratto il naturale veicolo, pel quale la mente umana si solleva a Dio . Il vizio del sistema cominciò ad apparire, come sempre accade, in una conseguenza particolare: non potendo Roscellino concepire che ci fosse qualche cosa di comune , era condotto necessariamente a parlare indebitamente della divina Trinità, dove l' essenza è comune alle tre persone. Per salvare dunque la Trinità delle persone, egli cadde necessariamente in una specie di triteismo, errore che fu condannato e da lui ritrattato nel concilio di Soissons del 1092 (3). Il suo discepolo Abelardo sostituì al nominalismo , il concettualismo (4), nel qual sistema gli universali non sono più puri nomi , quasi stimoli fisici che eccitino a pensare ai singolari, ma nomi, ai quali s' aggiungono gli attuali concetti della mente. Non bastava però questo a restituire agli universali una vera esistenza, perchè una cosa di cui si cangia la natura, non è più quella. Nel sistema d' Abelardo si disconosceva al tutto la natura obiettiva degli universali, e si rendevano puri pensieri subiettivi: erano nè più nè meno la « cogitatio collecta ex individuorum similitudine » di Boezio: non i veri universali. Se Roscellino, invece di salvare la Trinità delle persone in Dio, si fosse applicato a salvarne l' unità della natura, sarebbe ugualmente caduto nell' unitarismo. Poichè non potendo essere nel suo sistema comune la natura , rimaneva obbligato a scegliere tra questi due errori opposti o che le persone avessero tre nature numericamente distinte, o che, essendoci una sola natura singolare, le persone non fossero altro che attributi, qualità, rispetti della medesima. Abelardo, che disconoscendo la natura dell' universale, veniva in sostanza ad annullarlo altrettanto quanto Roscellino, per evitare l' errore condannato nel suo maestro, cadde nell' errore opposto, cioè nel sabellianismo (1) e fu condannato anch' egli dal concilio di Soissons nel 1121, e in quello di Sens nel 1140, come pure da Innocenzo II, ritrattandosi egli nell' una e nell' altra occasione, e abbruciando di propria mano la sua « Teologia cristiana » (2). Queste condanne abbatterono nella pubblica opinione il nominalismo di Roscellino, non meno che il concettualismo d' Abelardo, non solo per l' autorità da cui procedevano, ma perchè richiamavano l' attenzione alle conseguenze di tali sistemi. Il realismo puro non era men fecondo d' equivoci e di conseguenze erronee ed assurde, e Gilberto della Porretta fu condannato dal concilio di Reims del 114. per aver dedotta dal suo realismo l' erronea dottrina, che [...OMISSIS...] . Questa era conseguenza d' un sistema di realismo, che dell' essenza generica faceva una cosa reale distinta dall' individuo , e real causa del medesimo come appunto Aristotele fa della forma una causa reale della materia (2); nè questo solo però sarebbe bastato a poter dedurre quella conseguenza, se di più non fosse intervenuto nella mente di Gilberto un altro principio erroneo, quello che ci possa essere in Dio vera composizione, come accadrebbe se Dio fosse Dio per la sua forma, e non dipendesse dall' imperfezione del nostro concepire e del nostro favellare, il coniare dei vocaboli astratti: « divinità, deità », che rappresentano non Dio, ma la sua supposta forma universale (3). Ma sebbene il realismo puro sembri nel primo aspetto l' estremo opposto del nominalismo , tuttavia riesce in ultimo al medesimo: poichè l' uno e l' altro sistema annulla in sostanza l' ordine ideale (4): i nominalisti più schiettamente, dichiarando che le idee universali sono puri nomi; i concettualisti un po' meno, dichiarandole atti subiettivi del pensiero; i realisti puri finalmente coll' aria di difensori delle medesime idee, dicendo che sono reali; di che consegue, che anche per costoro rimangono in fatto i soli reali, le idee non più. Onde non senza acutezza e verità Abelardo nel concilio di Sens, dove fu condannato, rivolse, se è vero quel che narrano, a Gilberto Porretano, che l' impugnava, questo verso oraziano: [...OMISSIS...] . Tutte queste dottrine diverse erano sempre anche per innanzi venute in sul labbro dei maestri e sulla penna degli scrittori. Abbiamo veduto che il nominalismo stesso si trova nel germe in Boezio (1), e se ne trovano altre tracce nei dottori precedenti a Roscellino (2). Ma erano dottrine passeggere su cui non si fermava l' attenzione, di cui non si osservavano troppo le differenze, non si prevedevano le conseguenze, e si pronunciavano di corsa e involte in quell' indeterminato e in quel confuso, che ritiene le dottrine piuttosto in istato di feto, che di parto. Anzi anche quando i sistemi pel movimento dato al pensiero da Roscellino si separarono, essi non erano certo subito disegnati a precisione di contorni, ma tracciati alla grossa: e lo stesso realismo si divise in più scuole, nessuna delle quali andava priva delle sue nubi ed incertezze (3). Che anzi quando il realismo di Guglielmo de Champeaux, incalzato dalla inesorabile dialettica d' Abelardo, giunse fino agl' individui reali per la prima volta, allora nè pure s' accorse d' essere uscito dalla sfera delle idee, nella quale era racchiusa la questione, e confessando che gl' individui reali differivano d' essenza , non seppe distinguere tra l' essenza e la realizzazione dell' essenza , e però fu sospinto alla mostruosa sentenza, che l' essenza nella sua realizzazione , cioè l' individuo reale , fosse egli stesso, sotto un certo punto di vista, l' universale. Tutto questo per non essersi giammai distinto chiaramente e costantemente nè da Aristotele, nè da Boezio, nè dagli studiosi di tali autori fino al secolo XIII, le due forme primitive dell' essere , l' IDEALE e il REALE. Il realismo dunque prima dell' età di Roscellino esisteva solo e pacificamente, non come un sistema filosofico contrapposto al nominalismo , ma come un' opinione vagante, di cui non s' era trovata la formula. Tuttavia il realismo si conteneva nella sfera delle idee ; poichè non era venuto ancora a nessuno in mente lo strano pensiero che gli universali fossero le stesse realità individue . Ma l' equivoco, che giacea nella parola reale , lo conteneva in seme. La parola res non si prendeva come opposta a idea , ma come opposta a voce e a qualunque altra negazione d' esistenza. Quindi non c' era assurdo a dire che « gli universali fossero reali », intendendosi con ciò che non erano non esistenze, non erano nulla, non erano voci senza significato. Si dava dunque tanto agli enti sensibili e materiali, quanto alle idee, la realità , senza accorgersi che questa parola applicata ai primi e alle seconde mutava di significato: prendendosi, quando s' applicava alle idee, come un opposto di nulla , e quando s' applicava ai sensibili come un opposto d' idealità : la parola reale dunque, data egualmente ai sensibili e alle idee, impedì alla riflessione d' occuparsi seriamente nel rilevare la natura diversa ed opposta di quelli e di queste: gli uni e gli altri raccogliendosi in confuso sotto la denominazione comune di reali . In questa disposizione delle menti, trattandosi nelle scuole degli universali , si rimaneva bensì nella sfera delle idee , ma si poteva anche uscirne e trascorrere in quella delle sussistenze , senza pure avvedersene, senza avvedersi dello sdrucciolo che dava il pensiero. Il nominalismo ebbe appunto di qui l' origine. Videro alcuni ingegni dei più acuti che già incominciavano a pensare da sè, che l' universale era l' opposto dell' individuo singolare : essi non trovarono che ci potesse essere di reale altro che questo: conchiusero dunque che l' universale non esistesse, fosse un puro nome. Questa maniera di pensare e di parlare restringeva il significato della parola reale e in pari tempo lo determinava a un significato solo; il che fu un indubitabile vantaggio recato alla filosofia. Il realismo non si trovava preparato a questa battaglia, chè egli non conosceva la natura delle idee meglio che la conoscessero i nominali. Questi domandavano: « In che riponete voi la natura comune se non c' è nulla fuori degli individui? ». I realisti che si sollevavano ad una specie di platonismo, come Bernardo di Chartres, erano pochi, o piuttosto non ce n' era una scuola. Gli altri tutti, studiosi dell' aristotelismo, quali il poteano conoscere, accordavano che fuori dell' individuo non c' era nulla. Che rimanea dunque allora a rispondere? Non trovarono altro se non dire che « le essenze degli individui erano comuni, ma questi poi si dividevano per mezzo degli accidenti ». Venuti qui, non era più difficile a un dialettico potente come Abelardo cacciarli alle più stravaganti conseguenze che da quel principio veramente si derivavano. Dovettero dunque retrocedere, e confessarono che gli individui si distinguevano per le loro essenze. Ma così furono presi nell' equivoco della parola essenza ; poichè questa potea significare tanto l' essenza ideale , quanto l' essenza realizzata , equivoco che c' è in Aristotele di frequente. Confessando che gli individui si distinguevano per l' essenza , essi, con questo stesso prendevano la parola essenza in significato di essenza realizzata , e già con ciò si trovavano spinti, senz' accorgersi, fuori del territorio dell' idea . entro la quale si conteneva la questione. Dovettero allora giocare di sottigliezze per dimostrare che l' individuo reale era egli stesso universale , sia per la moltitudine , sia per la similitudine . Il realismo dunque delle idee, di cui si disputava, si cangiò in un realismo di sussistenze : appunto per l' equivoco della parola; e così si può dire che i realisti rimanessero a pieno sconfitti nel campo del ragionamento. Ma quella confusione che noi accennammo dei due significati del vocabolo reale , aveva cagionato pessime conseguenze, molto tempo prima che apparisse al mondo il nominalismo . Ella era nata, come abbiamo accennato, dalla mancanza d' una distinzione filosofica tra il sussistente , e l' ideale : ed ella stessa impediva col suo senso equivoco questa distinzione. Il realismo esisteva dunque prima di Roscellino e dominava pacificamente nei pensieri degli uomini dotti senza nome di sistema. Ma l' ammettersi che i generi e le specie sono dei reali , senza determinar di quale realità si parlasse, era al sommo pericoloso: non s' aveva altro esempio di realità che attirasse l' attenzione fuor di quella dei sussistenti e particolarmente dei corpi: anche ai generi ed alle specie davasi dunque con somma facilità questa realità che è in fatti il senso a cui fu poi ristretta questa parola. In una tale condizione delle menti era inevitabile che ogni qualvolta un pensiero potente s' occupasse della questione: dove dunque sono e che fanno nel mondo questi generi reali ? rovinasse in un baratro d' errori: vi era precipitato Aristotele ammettendo le specie eternamente congiunte colla materia. Aristotele di più diceva che niente esiste separato se non il singolare: l' universale dunque non poteva essere un reale , nel senso d' esistente, se non fosse nei singolari. Secondo questo concetto, il vocabolo reale aveva solo il significato di sussistente, poichè non c' era altra esistenza che quella dei sussistenti, che per vero sono i singolari. C' erano dunque tre sole vie per mantenere agli universali una realità di questa sorte, o che sussistessero in Dio, o che sussistessero da sè come altrettanti Dei, o che sussistessero negli individui creati. La sentenza di mezzo era un politeismo che non poteva essere facilmente abbracciato in secoli di fede cristiana. Rimanevano le altre due. Chi avesse collocati in Dio gli universali sarebbe venuto al platonismo: chi li avesse riposti negli individui creati avrebbe seguìto Aristotele. I realisti del secolo XII s' attennero a questo secondo partito, e ho accennato in una nota com' essi poi si divisero. Ma essi non ponevano mente che se questo poteva sembrar coerente in un sistema come quello d' Aristotele che ammetteva il mondo eterno, era inammissibile in un sistema, come il cristiano, che riconosce l' origine del mondo dalla creazione: poichè gli universali mostrano d' avere in se stessi una natura eterna. Questo ben videro i realisti anteriori di maggior polso, onde riposero gli universali in Dio ed anco nelle cose create. Evitando essi uno scoglio ruppero inavvedutamente in un altro, quello del panteismo . Poichè se gli universali sono in Dio come reali e sussistenti, non si possono più ricacciare l' uno dentro l' altro, (non essendo la realità suscettiva di questo involgimento), e così unificarli, nella quale unificazione solo si possono pensare esistenti in altro modo da quello in cui noi li pensiamo. Di poi , se questi reali e sussistenti sono quegli universali di cui partecipano le cose create, dunque anche queste sono composte della sostanza di Dio. Se avessero conosciuto che le idee hanno un altro modo di essere, opposto alla realtà dei sussistenti, avrebbero altresì conosciuto che il mondo è di un' altra natura diversa da quella delle idee ; perchè composto di sussistenti che sono realizzazioni delle idee , non idee. E in questo sistema soltanto è possibile una vera creazione che trae dal nulla il mondo reale. Ma se le idee s' unificano in Dio, e di esse in quanto sono reali partecipa il mondo, non ci può esser più che una cotal specie d' emanazione della divina sostanza. Io credo, coi più recenti critici (1), che Giovanni Scoto, il più grande pensatore del suo secolo, si possa benissimo purgare dalla taccia di panteismo; anzi le dichiarazioni ch' egli fa nella sua mirabile opera ch' è a noi pervenuta, sono una continua protesta contro il panteismo. E nondimeno un' opinione antica l' addita come il gran panteista del medio evo, precursore d' Amaury di Chartres e di David di Dinant, e quest' opinione è fondata in proposizioni che suonano un aperto panteismo, come queste: [...OMISSIS...] ; e somiglianti. Ora tali proposizioni conseguono necessariamente dal realismo delle idee. Se le idee, la specie e il genere sono realità, come si dicono reali le cose sussistenti, e, per esempio, le sensibili, in tal caso la realità del genere e della specie deve essere la stessa realità delle cose; perchè la realità non ha alcun altro mezzo di comunicarsi se non mettendo se stessa nelle cose: diventa così la materia di cui constano le cose. Ma tutte le idee si riducono all' essere che si chiama spesso anche da Aristotele il genere generalissimo: l' essere ancora secondo Aristotele è tutte le categorie e le categorie abbracciano tutte le specie e non hanno altra esistenza che negli individui: la loro esistenza dunque è la realità di questi. Dove si vede il realismo in Aristotele. Ma quando s' aggiunsero dottrine più elevate che non avesse Aristotele intorno a Dio, le idee reali ridotte all' essere reale erano con questa riduzione Dio stesso: perchè l' essere reale è certamente Dio. Se dunque le idee reali si riducono da una parte in Dio che è l' essere reale , e dall' altra sono nelle cose colla loro realità (non potendo esserci altramente, essendo reali), e però sono la materia delle cose (4): segue che Iddio sia la materia stessa di tutte le cose, che appunto è la proposizione di David di Dinant, chiamata insania da San Tommaso (1), e in fondo non punto lontana dalla proposizione dell' Eriugena che [...OMISSIS...] . Le idee reali dunque, l' universalissima massimamente, in cui tutte rientrano, l' essere reale essendo Dio (se rimane in questo sistema creazione , come pur vogliono i suoi fautori) (2), debbono esser creatrici del mondo . Ma poichè queste stesse idee sono nelle cose colla loro realità, di maniera che sono il fondo e la materia delle cose, quindi debbono essere anche create. Questo insegnava appunto il maestro di David di Dinant, Amaury di Chartres, cioè che [...OMISSIS...] . E questo richiama manifestamente la divisione della natura fatta più secoli prima dall' Eriugena per quattro differenze in quattro specie, la seconda delle quali specie di cose [...OMISSIS...] . Infatti, convien dire che le stesse ragioni delle cose che sono in Dio, siano create nelle cose, se (non distinguendosi il reale e subiettivo dall' ideale e obiettivo) si prendono le idee per cose reali , a quel modo che tali si dicono le cose sussistenti (5), onde ripete l' Eriugena assai di frequente: [...OMISSIS...] : il che potrebbe ricevere un senso immune da errore, qualora ciò che è nel Verbo s' intendesse d' un modo d' essere obiettivo , e ciò che è fuori di lui nel tempo s' intendesse d' un modo d' essere subiettivo , o estrasubiettivo ; e così non s' attribuisse alla natura stessa del Verbo la subiettività o l' estrasubiettività che costituisce la natura creata. Ma fatte le idee e le ragioni eterne reali, non si considerano veramente più come esemplare , da cui è totalmente distinta la copia: onde questa si confonde con quello; e non c' è più verso di distinguere quant' è mestieri la creatura dal Creatore, cioè di distinguerla per modo che la natura di questo rimanga di tutta sè ( ex toto ) diversa, e infinitamente separata dalla natura di quella. L' esperienza tuttavia e la storia della filosofia dimostrano, che c' è una somma difficoltà a distinguere e mantenere costantemente distinta nella mente la forma ideale ed obiettiva dell' essere, dalla forma reale , e ne somministrò recentemente prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede a me biasimo e mala voce d' aver proposta e stabilita una tale distinzione, dettando tre volumi col titolo dei miei errori. Laonde con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose di contro a me, quasi abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto realista : incolpando gli stessi scolastici realisti, di non essere stati tali abbastanza, eccetto alcuni pochi (1). Ma pace a quell' anima ardente: e torniamo alla storia. Il realismo, quale si stava nelle menti ancora indeterminato e senz' abito sistematico, aveva prodotto quelle sentenze panteistiche, che s' incontrano nell' Eriugena, a malgrado del suo indubitato proposito di non uscire dalle dottrine della fede, e che non ci sono sole, ma mescolate con altre del tutto opposte al panteismo stesso. Tali sentenze non di meno non si potevano abolire fino a che non si fosse abbattuto il principio da cui derivavano; onde a quando a quando ricompariscono nelle scuole, come si vide più espressamente in Amaury, e in David, e in altri suoi discepoli. Che anzi, prima assai dell' Eriugena, ed oso dire sempre, risonò il panteismo in bocca di quelli che meno il volevano, inevitabile conseguenza del realismo puro, cioè del concepirsi le idee siccome cose reali . Onde all' Eriugena parve d' assicurarsi sull' ortodossia della dottrina, appoggiandosi a quelle espressioni che ricorrono negli stessi Padri più rispettabili della Chiesa, come in un S. Basilio, che scrive: [...OMISSIS...] , nelle opere attribuite a S. Dionigi Areopagita e dall' Eriugena per la prima volta latinizzate, in cui si legge: [...OMISSIS...] ; in S. Massimo monaco, che non dubita pronunciare: [...OMISSIS...] , ed altre consimili. Ma qui è d' uopo distinguere un doppio ciclo dell' umana intelligenza, cioè quello del lume naturale , e quello del lume soprannaturale . I filosofi razionalisti non possono riconoscerne la differenza: ai loro occhi il lume soprannaturale è un lume falso, altro non è che l' effetto d' una esaltazione naturale dell' immaginazione. Nella dottrina all' incontro del cristianesimo quei due lumi e quei due cicli d' intelligenza sono profondamente distinti, e in pari tempo armonicamente uniti, e questa distinzione medesima ha per suo fondamento quella delle due forme, l' ideale e la reale , dell' essere. Il solo cristianesimo scoprì e produsse questo quasi doppio orbe scientifico, se pure scientifico si può chiamare il soprannaturale. Ma si dà almeno una scienza di lui. Mediante questa rivelazione, noi possiamo definire qual sia la cognizione naturale di Dio, e quale la cognizione soprannaturale; la prima « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha mediante le idee », la seconda « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha per una percezione intellettiva di Dio stesso »: in questa s' apprende la realità divina, non già colla immaginazione ma colla pura ed essenziale intelligenza. Questo l' uomo non può fare da sè: conviene al tutto che Iddio comunichi se stesso: e lo fece prima e ineffabilmente in Cristo, Verbo di Dio incarnato, poi, e certo in un altro modo, in molti altri uomini per Cristo ed in Cristo. Nondimeno l' uomo, impotente a percepire da se stesso la realità di Dio, capace soltanto di conoscerlo idealmente e negativamente , può sentire il vuoto e la negazione intrinseca di questa sua cognizione naturale, e può anche cadere nell' inganno, dandosi a credere di poter coi suoi propri sforzi giungere a riempire quest' ammanco della sua cognizione, raggiungendo Dio stesso nella sua reale sostanza. E a tal fine, non soccorrendolo l' intendimento naturale, che non eccede la sfera delle idee, egli mette in movimento la sua immaginazione e il suo sentimento: e così pel vano sforzo, nasce l' agitazione e l' esaltazione contro natura e compariscono i falsi mistici, gli Yoga e i Buddha, i filosofi teurgici; Maometto, i sufi, Gazali e i suoi seguaci, e via via fino a Giacomo B”hme, che tanto prolificò in Germania, terreno troppo adatto a tali stravaganze e ben preparatovi dal protestantesimo. Qui il falso misticismo s' infiltrò più che altrove nella filosofia, e non poco contribuì alla produzione degli ultimi sistemi di quella per altro dottissima nazione (1). A tutti costoro mancando la materia intorno a cui pretendono lavorare col loro pensiero, cioè la realità di Dio , devono necessariamente tessere con fili immaginari, e quindi cadere nei più strani errori: talora sono obbligati di conchiudere che Iddio è il nulla, e ciò quando s' avvedono di nulla stringere per quanto si sforzino; talora poi compongono Iddio di tutti gli enti naturali, o fattili rientrare in una oscura potenzialità, alla grossa sincretizzati. Per tutti costoro il panteismo non suol essere tanto la causa, quanto l' effetto del loro misticismo. Ad ogni modo anche questi sono sempre perfetti realisti , nel senso che conferiscono alle idee una realità di sussistenza . Non si trovano certamente costoro nell' ordine soprannaturale , ma vogliono prendere il soprannaturale d' assalto colle forze del pensiero naturale, il che è impresa non solo temeraria, ma assurda. Ma se ci trasportiamo veramente in quell' ordine divino e soprannaturale che ci ha rivelato e apportato il cristianesimo, nel quale troviamo i veri mistici, in tal caso, ci si fanno incontro di quegli uomini che ci parlano della realità di Dio, per averne un' interiore esperienza. Il loro linguaggio tuttavia non si può intendere nè si può interpretare se non da altri che abbiano fatto in sè l' esperienza medesima. Onde questa è scienza chiusa e segreta. Conviene che noi lo diciamo, sebbene ci sia noto che una simile sentenza turbi non leggermente i savi del mondo. Volevo dunque osservare che molte di quelle espressioni che in bocca dei filosofi naturali suonano panteismo, nel ciclo della dottrina soprannaturale, che riguarda la realità di Dio e l' unione intima di questa colla realità umana, ricevono un significato vero e non punto panteistico, perchè si riferiscono a un oggetto diverso da quello a cui le riferisce, e a cui solo può riferirle, il filosofo naturale. Laonde tali sentenze s' incontrano nei sacri libri, e nei Padri, e in ogni pio scrittore, e soprattutto nei più celebri mistici della scuola cristiana cattolica tedesca del secolo XIV, voglio dire d' Enrico Susone, di Giovanni Taulero, di Giovanni Ruysbrock (1), i quali assai volte imitano i concetti e le espressioni stesse dell' Eriugena. Non intendo certamente dire, che tutte le espressioni di cotesti scrittori siano rigorosamente teologiche: soltanto voglio osservare, ch' essi non parlano di pure idee , ma di sentimenti reali che nelle anime intellettive si eccitano da una causa soprannaturale, che è Dio stesso, essere realissimo, che immediatamente e graziosamente presenta se stesso alla sua creatura senza confondersi con essa. Laonde quand' anco costoro diano una certa realità alle idee, non si può inferire da questo, che professino il realismo filosofico, ma il realismo mistico e soprannaturale, che è tutt' altro (2). E che sia tutt' altro si vede ancora da questo, che la realità mistica non si predica delle cose create, se non, quasi per una comunicazione d' idiomi, dell' anima umana in istato soprannaturale, come quando si dice che i giusti sono luce, aggiungendosi: « nel Signore », laddove il realismo filosofico si predica, da quelli che lo professano, di tutti gli enti finiti. Il falso misticismo si trasforma facilmente in un realismo filosofico: il realismo filosofico degenera in un falso misticismo. La differenza sta nella forma, affettando il misticismo sconnessione e disordine di esposizione; la filosofia all' incontro vestendo le stesse immaginazioni d' una scrupolosa regolarità e d' una deduzione metodica. Giacomo B”hme e Giorgio Hegel (3) presentano queste due forme; come presso gli Arabi le presentarono Gazali (Algazel) (n. 105., m. 1111) e Ibn7Roschd (Averroè) (n. 1126, m. 119.): tutti realisti nel significato di cui parliamo. Ma per vedere come il realismo arabico s' infiltrasse nelle scuole cristiane e vi si rendesse fonte di gravissimi errori, conviene che risaliamo più alto. Teniamo distinto il realismo impropriamente detto, dal realismo di cui parliamo. Il primo sta nella sentenza di quelli, che quando dicono: « le idee sono reali », altro non intendono se non che le idee « non sono un nulla ». A questo modo siamo realisti anche noi, con Alberto Magno, con S. Tommaso e coi migliori dottori che mai fossero, e che il Gioberti chiama semirealisti . Noi crediamo che tanto la denominazione di realisti , quanto quella di semirealisti , applicata al sistema di questi valentuomini, sia impropria ed equivoca. Il secondo è il sistema di quelli che dicendo reali le idee, intendono d' una realità attiva , come quella delle cose sussistenti nell' universo: questo è quel realismo, dal quale trassero origine errori innumerevoli e mostruosissimi. La parola realità non definita, non distinta coll' opposizione dell' idealità fa sì che l' umana mente sdruccioli da quella in questa, quasi per un suo proprio peso, confondendo due entità infinitamente distinte. E nel vero, ciò a cui dapprima si volge naturalmente l' attenzione umana, sono gl' individui reali e sensibili componenti il mondo. Quando la mente s' innalza a Dio, spintavi o dal magistero tradizionale, o da una sua propria argomentazione o contemplazione, trova ancora un ente reale, il cui termine esterno è il mondo. Fin qui tutto è realità nel pensiero: non già ch' esso non abbia o non faccia uso d' idee: ne ha per certo, e ne usa: ma elle sono in esso come un mezzo di pensare, non ancora come oggetto dell' attenzione e della riflessione, perciò inosservate: ci sono come non ci fossero pel ragionamento riflesso: le idee in questo stato non entrano nel calcolo, non fanno parte della scienza (1). Viene più tardi il tempo in cui la riflessione speculativa s' affissa sulle stesse idee: e in questo momento nasce la filosofia: mille problemi si presentano allo spirito: la loro diversa soluzione fa comparire una molteplicità di sistemi. Ma quello a cui lo spirito umano può difficilmente e dopo più lungo tempo pervenire, si è a risolversi che le idee abbiano una maniera di essere tutta loro propria, interamente diversa da quella delle cose reali. Non arrivandosi a questo colla mente che già specula e non sa contenersi, o si negano a dirittura le idee, e nasce il sensismo , il nominalismo , lo scetticismo ; o si cade in quel realismo , di cui noi stiamo dimostrando le assurde conseguenze. Il qual realismo nelle menti acute vacilla incoerente con se medesimo: nelle meno perspicaci procede più franco e quasi sicuro di se stesso. La sapienza orientale, che ricevette la prima una forma filosofica, non potè mai uscire da un realismo di questa natura e giungere alle idee pure , che appartengono certamente agl' ingegni italici e greci. Perciò l' oriente apparve sempre la terra nativa del panteismo; e di qui l' ebbero i greci per mezzo degli orfici e d' altri poeti mitici prima del nascimento della filosofia; c' era Iddio in tutta quanta la natura, anima e vita di questa. Dalla vita della natura Anassagora separò la parte intellettiva e pronunciò quella memoranda sentenza, che « la mente non poteva avere mistura di sorta alcuna »ma con questo non si separava ancora l' oggettivo , che per l' uomo sono le idee, dal soggettivo , che è la potenza e l' atto d' intendere. Platone fu il primo, per quanto pare, che, avuto l' indirizzo da Socrate, pose nella serena quiete della sua mente, ferma attenzione all' oggetto per sè, cioè al mondo ideale: e senz' uscirne, dall' idea, mirò e vide in essa i caratteri divini dell' eternità, della necessità ed altri tali. Ma seppe Platone evitare totalmente il realismo? Il realismo, dico, nel senso che noi riproviamo, nel senso di quel sistema che attribuisce alle idee un' esistenza subiettiva ed attiva , come quella delle cose mondiali? Circa la quale questione, per quanto pare a noi, si suol prendere errore anche dai più dotti commentatori ed espositori. Il Tennemann sostiene che le idee di Platone sono pure nozioni della mente, fuori della quale non esistano (1). Questo ancora non basta ad assicurarci che Platone non dia alle idee una propria realità , non potendosi decidere una tale questione, senza sapere in che modo esse siano nella mente. Può intendersi che ci siano come atti della mente, e in tal caso non esistono più le idee che di nome, poichè gli atti della mente, la cui esistenza nemmeno il nominalismo ha mai negata, sono tutto altro che le idee; pure sono reali. Può intendersi che esistano nella mente come oggetti in opposizione al principio d' intendere subiettivo: e qui solo trova luogo la questione: « se questi oggetti siano reali o ideali ». Se si risponde che sono reali , è ancora a domandarsi di qual mente si parli, della divina o dell' umana. Poichè se si parla della divina, l' oggetto del suo conoscere non può essere che realissimo, altro esso non essendo che la stessa divina essenza, o ciò che nella divina essenza Iddio liberamente distingue senza porre in essa alcuna distinzione: e questo realismo è verissimo, ma non è punto quello della questione agitata tra i nominali e i realisti : perchè questa controversia riguardò le specie e i generi, ossia le idee che sono oggetti della mente umana secondo il modo proprio della sua intuizione, e non secondo quel modo tutto diverso con cui conosce Iddio. Rimane certamente qualche oscurità nella dottrina di Platone, quale risulta dalle opere che di lui ci rimangono e dalle indicazioni che ce ne dà Aristotele; ma pare tuttavia indubitato che le idee proprie dell' uomo per Platone siano produzioni di Dio e non qualche cosa d' essenziale a Dio stesso (2): siano cioè la prima produzione, il disegno, l' esemplare del mondo, come la mente nostra lo può concepire. Ora la natura d' esemplare , «paradeigma» (1), che Aristotele schernisce come una vana metafora poetica (2) è pure la parola solenne che esclude il realismo , perchè per essa s' intendono chiaramente contrapposte le cose reali alle idee , onde queste, secondo la teoria dell' esemplare, sono categoricamente diverse e anteriori logicamente alla realità di quelle. Goffredo Stallbaum si oppone al Tennemann, scrivendo: [...OMISSIS...] ; e dà alle idee di Platone una forza produttrice. Questa maniera di concepire le idee di Platone viene ad attribuire a questo filosofo due sistemi di realismo ad un tempo: 1 quello che cangia le idee in principŒ subiettivi ed attivi ; 2 quello che colloca le idee nelle cose reali come loro forme o atti. E questo secondo sistema è in parte quello d' Aristotele, come vedremo. Qualora dunque collo Stallbaum si dovesse assegnare alle idee , quali sono vedute dall' uomo, quest' attività di produzione, e non la semplice natura di luce, d' intelligibile, d' esemplare, converrebbe certo classificare Platone tra i realisti : ma questo ripugna, come osservavamo, al concetto di paradigma costantemente da Platone mantenuto nelle sue idee. E` sempre Iddio, il «demiurgos», che opera in Platone: le idee sono la sua produzione, e riguardando in queste, come in esemplare, Egli crea la realità del mondo . Questa maniera di concepire, indubitatamente platonica, è aliena affatto dal realismo , le idee non vi compariscono che come norme del divino operare, oggetti conoscibili e possibili, non reali. Gli altri luoghi, dove sembra che Platone dia alle idee una loro propria attività, si devono intendere con cautela e conciliare colla sua dottrina fondamentale e indubitata: le idee operano solo in quanto Iddio opera per esse: l' attività si rifonde tutta in Dio. Ma se le idee si considerano in Dio, non quali sono nell' uomo e all' uomo appariscono, ma quali sono veramente in Dio, certo che hanno l' attività di causa, perchè si riducono necessariamente nel Verbo divino, e con questo riducimento cessano d' essere pure idee. A tal concetto pare che in alcuni luoghi s' elevi Platone, o almeno così fu inteso dai platonici nei tempi cristiani e da alcuni padri della chiesa. Del pari non crediamo potersi attribuire a Platone il secondo sistema di realismo , quello che fa esistere le idee nelle cose reali: le idee esistono fuori del tempo, molte delle cose reali soggiacciono al tempo. Tant' è lungi che secondo Platone le cose reali abbiano le idee in sè, ch' esse non ne sono altro se non imitazioni, e però servono alle menti di segni delle idee, perchè ne sono il realizzamento. Quanto poi alla partecipazione che le cose hanno delle idee, questa ha luogo solo nella mente umana , a cui è data la contemplazione delle idee stesse: e nella nostra mente le realità sensibili certo si copulano a quelle essenze eterne che le rendono conoscibili. Onde crediamo che Platone il primo e il solo abbia scosso dalla filosofia il pernicioso realismo dei suoi predecessori ed abbia conosciuta la singolar natura delle idee (1). Era impossibile che Aristotele, avendo udito per vent' anni Platone, non ne ritraesse nulla della nuova e sublime dottrina delle idee. Ritenne le idee immateriali, ma in molte maniere le realizzò, abbandonandone la parola, e sostituendo quelle di forma e di specie . Le realizzò primieramente confondendo l' oggetto , che solo appartiene alle idee, col subietto intelligente , ponendo che tutto quello che fosse senza materia dovesse essere ad un tempo e intelligibile e intelligente. Tale è il Dio d' Aristotele, tale anche la mente umana. L' oggetto non è per lui qualche cosa che involga un' assoluta esistenza contrapposta al subietto umano. Ora l' intelligente appartiene all' esistenza subiettiva e reale: quest' è dunque un sistema di realismo. Tuttavia egli descrive Iddio come una pura causa finale non attiva, ma solo intelligibile ed appetibile: il che dimostra che il concetto dell' intelligibile platonico aveva lasciato una profonda impressione nell' animo suo. A questo primo sistema di realismo in Aristotele se ne congiunge un altro. Poichè le specie mondiali sussistono ab aeterno reali negli enti reali del mondo, possono essere separate dalla materia soltanto per opera del pensiero; ma anche nel pensiero umano sono attive, come sono attive nella natura. In realtà nella natura costituiscono insieme colla materia quella causa efficiente che Aristotele chiama appunto natura , e nel pensiero costituiscono quella causa efficiente che Aristotele chiama arte . Le idee dunque per Aristotele sono principŒ attivi e non già puri oggetti intelligibili; perciò veramente reali. Che anzi egli fa della sua forma un sinonimo di atto . Tali sono le viste diverse e i principŒ (dai quali svolgendosi, o separati o confusi insieme, come per lo più è avvenuto, uscirono le diverse dottrine che apparvero intorno alle idee e dominarono nelle scuole da Aristotele fino a noi) quali ora riassumeremo ed enumereremo così: 1 il realismo orientale e orfico , che non distingue, dal mondo ideale, Iddio, ma fa la divina mente vita dell' universo; 2 l' esemplarismo di Platone, che evita ad un tempo il realismo, il nominalismo e il concettualismo; 3 il realismo aristotelico , che si parte in due proposizioni, ciascuna delle quali, prese a parte, costituisce da sè un sistema di vero realismo, e sono: a ) l' intelligibile in atto è identico all' intelligente, qualunque sia, in atto, e però l' intelligibile è un reale ; b ) le forme o specie esistono nella natura come atti nella materia , e nella mente umana come atti puri da materia , ma, nell' una e nell' altra esistenza, sono principŒ e cause attive (natura ed arte), e perciò reali. Il nominalismo e il concettualismo delle scuole ebbero il loro germe nello stesso realismo aristotelico . La prima proposizione del realismo aristotelico contiene il germe del nominalismo : la seconda quello del concettualismo , che è anch' egli una specie di nominalismo. Coloro che posero mente alla proposizione che « i generi e le specie non esistono che nella natura, cioè negli individui reali », conchiusero a ragione che dunque gli universali non esistono: sono puri nomi. Coloro la cui attenzione fu più colpita dalla prima proposizione che « le specie sono nelle menti come puri atti », conchiusero a ragione che gli universali non esistono in sè: sono puri concetti subiettivi e individuali anch' essi. Era sommamente difficile ad intendersi e a mantenersi in tutta la sua purità il sistema di Platone dell' esemplarismo : Aristotele stesso, io credo, non l' aveva bene inteso: dopo di lui, nel decadimento della filosofia, molto meno un così sottile concetto potè cogliersi dalle menti. I neoplatonici e gli alessandrini (1) bevevano grosso: tutta la fatica ch' aveva durata Platone per separare i prodotti dell' immaginazione dagli oggetti della pura intelligenza, e per distinguere ciò che andava confuso nelle dottrine filosofiche precedenti, si perdette per essi interamente: essi con pieno sincretismo rimpastarono in uno il panteismo ed il misticismo orientale e orfico, e il pitagoreismo, e il platonismo: tornò dunque a galla il realismo puro, confuso, cieco, senza contrasto, senza che nè pure si movesse nelle menti il sospetto che l' esemplarismo , di cui si riteneva il linguaggio, fosse qualche cosa di contraddittorio appunto a quel realismo che si professava. E veramente, sconosciuta la forza e il valore di questo concetto dell' esemplarità , che contiene anche quello dell' intelligibilità delle idee, il carattere che distingue la filosofia platonica da ogni altra non si vede più, e però non rimane più difficoltà a confonderlo da una parte colle contemplazioni orientali, dall' altra colle speculazioni aristoteliche. Di qui ancora venne quella sentenza così frequente in Cicerone, che gli antichi accademici e gli antichi peripatetici, d' accordo nelle cose, differissero solo nelle parole (3). Il vero carattere dunque, che rende unica da tutte le altre la filosofia di Platone, non fu ereditato dai suoi successori, e ben presto non si seppe più vedere. Il realismo dunque, distinto nei vari modi di concepirlo, ebbe libero il campo: esso regnava ugualmente nel preteso platonismo di Filone, che fu uno dei primi tra gli alessandrini, nella Cabala di Akibha e di Simeone Ben7Jochai, nei nuovi pitagorici, negli gnostici: tutti più o meno entusiasti o panteisti. Nessun filosofo di queste scuole si dava cura di rendere a se stesso o agli altri un conto accurato delle proprie idee: anzi nell' oscurità misteriosa delle loro locuzioni si piacevano d' involgere una pretesa sapienza indefinibile (4). Quelli dunque, che rifuggivano dalle cognizioni confuse e bramavano di pervenire a cognizioni chiare e distinte, inclinavano a buttarsi nello scetticismo: e questo nella bocca d' Enesidemo e di Sesto aveva un gran vantaggio dialettico a fronte di tali avversari. Onde non è maraviglia se gli scettici di questi tempi sembrano più acuti dei loro avversari, più dialettici, e abbiano conseguito una momentanea prevalenza. Ammonio Sacca, da cui prese la scuola profana d' Alessandria un nuovo vigore dopo la fine del secondo secolo, pretendeva di fondere Platone ed Aristotele insieme, come i suoi predecessori: la serie dei filosofi che ne uscì, specialmente Porfirio, Jamblico, Proclo, non dubitarono più che i due maggiori filosofi professassero una stessa filosofia: il solo Plotino si può considerare come un ingegno a parte, che pur sentì l' influenza del secolo, come vedesi dall' imperfezione del suo stile. Veramente questo era un darla vinta ad Aristotele, poichè quello che si sacrificava, senz' accorgersi, alla pretesa conciliazione dei due filosofi, era tutto ciò che Platone aveva di proprio e di eccellente, cioè la dottrina non più intesa delle idee, delle idee dico, quali si presentano alla mente nostra come eterne conoscibilità delle cose : e con ragione fu osservato che questa prevalenza d' Aristotele spiega l' origine della dottrina, tutta aristotelica, degli Arabi. [...OMISSIS...] Perdutasi quindi interamente la chiave dell' esemplarismo di Platone, il solo realismo era restato padrone del campo: e se si nominavano a quando a quando le idee, era un nome vano; chè non se ne intendeva punto la natura. Il realismo poi, lo vedemmo, ora cercava la sua base nella divinità, realità prima emanatrice di tutte le altre di cui si compone il mondo, e se n' aveva il panteismo , il misticismo , il quietismo , il teurgismo ; ora la cercava e credeva di trovarla nelle realità sensibili dello stesso universo, e se n' aveva il naturalismo , il razionalismo , il sensismo , il soggettivismo , il materialismo , e quando più tardi si osservò che di tutte queste realità niuna poteva essere universale , si trasse la naturale conseguenza della negazione degli universali, sentenza che prese le due forme e i due nomi di nominalismo e di concettualismo . Schernitore acuto di tante aberrazioni e di tante stravaganze era nato da sè, e s' era messo di contro a tutti, lo scetticismo . Una filosofia maestra di tanti errori non poteva condurre avanti il suo corso senza che venisse ad urtare, e in fine a rompersi, da una parte contro il cristianesimo, dall' altra contro l' islamismo che riteneva una parte di verità dal primo ond' era uscito. Giustiniano dunque nel 529 fece chiudere le scuole pagane di Atene; nè valse che i filosofi, dopo quattr' anni, dalla Persia dove s' erano rifugiati, potessero ritornare; chè nella luce già diffusa del cristianesimo non poteva più essere ben accolto un magistero così imperfetto: la filosofia pagana dunque, confusa da se stessa, ammutì. Pure al mondo cristiano la pagana filosofia lasciava una eredità, ma sporca. A nettarla dai pesi degli errori, ponevano già da molto tempo ogni lor cura gli scrittori ecclesiastici. Ma questo gran lavoro fu storpiato dalla violenza dei barbari, che coll' impero romano sconvolsero dai fondamenti la società e vi distrussero la civiltà, senza nondimeno poterne sterpare le radici custodite dal cristianesimo, vincitore e maestro paziente dei barbari stessi. Il lavoro cristiano dunque nei primi tempi si limitò, quasi direi, a combattere le erronee conseguenze, che propagginavano dalle antiche filosofie e dalla loro degenerazione: ma non ci fu campo, nè tranquillità sufficiente a richiamare in esame i primi principŒ e a ricostruire dal suolo una filosofia degna del Vangelo. Quindi l' esemplarità delle idee si tenne, quanto bastava a spiegare la divina sapienza e la creazione senza renderla fondamento d' un sistema filosofico (1). Il realismo dunque, che formava il vizio radicale delle ultime scuole filosofiche, rimase fitto e appiattato nel comune insegnamento, senza però che osasse metter fuori le unghie: nè ci fu alcuno degli ultimi filosofi cattolici, nè Boezio, nè Cassiodoro, nè Beda che lo scoprisse e che gettasse pure un sospetto sopra le sue conseguenze. Di che non deve cagionar maraviglia se in progresso di tempo e a quando a quando, uscissero da quel realismo medesimo che s' ammetteva a fidanza, illazioni inaspettate ed eterodosse. Queste certamente si guerreggiavano tosto dal sentimento cattolico, e si recidevano dall' autorità, come accadde a quelle che ne dedusse nel IX secolo l' Eriugena (1), ma più ancora i pretesi suoi discepoli del secolo XII e XIII Amaury e David. L' islamismo non trovava in sè quella forza logica e morale che ha il cristianesimo, e però non poteva difendersi con egual polso contro le conseguenze del realismo aristotelico . Anzi non poteva difendersi punto con armi dialettiche dalla corruzione e dal veleno di quel realismo. Non gli restava altro scampo che di combatterlo con la forza bruta, di cui trovavasi ben armato. Non ragionò dunque, ma distrusse a ferro e a fuoco la stessa filosofia; e Averroé che tirò dal realismo d' Aristotele le ultime conseguenze di razionalismo e di naturalismo puro, fu, si può dire, anche l' ultimo filosofo presso gli arabi (2). Il cristianesimo non ha paura di sorta della filosofia: egli dunque non la distrugge, e anzi ne promove e ne incoraggia lo studio; ma in pari tempo con una continua vigilanza combatte acremente e legittimamente gli errori, e li corregge, giovando con questo incredibilmente alla filosofia stessa. Tuttavia gli errori sono tenaci: lo spirito d' empietà, immortale quanto il genere umano sopra la terra, se ne impossessa e vive di essi, difendendoli a morte come la sua propria vita. Poichè la prima, la perpetua e più profonda divisione del genere umano sulla terra, è indubbiamente quella delle due società, di cui fa menzione il « Genesi » (3); e ogni qualvolta comparisce nel mondo una filosofia imperfetta, o avente qualche indeterminazione o qualche incoerenza, o, quello che è sempre inevitabile, circondata, agli occhi di molti, d' oscurità e di difficoltà, tosto ella si biparte in due, e si differenzia per la contraria interpretazione e per la piega diversa che le danno quelle due società che a gara se ne vogliono impadronire. Il che è quanto dire, che l' abuso si mette sempre al fianco dell' uso. La scissura del genere umano s' imprime dunque e si riflette nelle filosofie, e principalmente in quella che in un dato tempo è più autorevole e più acclamata, la quale così si fa segno di speciale discordia e oggetto e materia della lotta più di tutte ostinata. Il che viene confermato dalla storia del platonismo non meno che da quella dell' aristotelismo. Nelle considerazioni storiche fatte da noi fin qui, vediamo l' aristotelismo abbracciato e tirato a sè dalle due parti. Di qua la dottrina d' Aristotele insegnata e proclamata altamente come un aiuto naturale e un sostegno del cristianesimo: di costà essa medesima pure divenuta un' arma possente nelle mani dell' empietà, con cui questa tenta niente meno che l' intera distruzione del cristianesimo e d' ogni altra religione, e lo stabilimento del materialismo e dell' ateismo più consummato. Appresso gli arabi erano ricomparse le due fasi opposte del realismo che non mancano mai nella storia della filosofia: voglio dire il realismo panteista e mistico (1); e il realismo naturalista . Quando la filosofia araba comparve nella cristianità, l' uno e l' altro errore vi fu combattuto, e se rimase tuttavia il realismo delle idee, sotto questa parola equivoca s' intese dai più sani che le idee erano qualche cosa, non puri nomi. In questa lotta, il primo errore cioè il mistico e panteistico, fu del tutto vinto e dovette nascondersi per fare soltanto delle uscite momentanee: poichè, appena si affermava, veniva compresso. Quando l' errore si presenta sotto forma di religione, il cattolicismo colla stessa coscienza di sè lo ripudia. Nel cattolicismo cammina la ragione a lato della fede; due lumi che non vi possono essere nè confusi, nè disgiunti. Il razionalismo e il naturalismo all' incontro , non presentandosi con la forma d' una religione, e però non domandando, per esistere, d' occupare il luogo del cristianesimo, potevano mantenere per qualche tempo una propria esistenza, dissimulando la propria opposizione alla dottrina cristiana. Questa la ragione, per cui l' averroismo infiltrato nelle scuole lungamente vi si mantenne (1), talora coperto, talora pigliando sicurità e denudandosi; quando sterile tronco, e quando col seguito delle sue ultime conseguenze, ora senza schermi ed ora schermendosi con ridicole ed insolenti distinzioni, qual fu quella celeberrima della doppia verità, la filosofia e la teologia. L' aristotelismo fu dunque condannato da prima nel 1209, poi nel 1215 e 1231; vi fu condannato, come l' avevano esposto gli arabi, insieme col panteismo di David e d' altri nominati nella sentenza del concilio di Parigi pubblicata dal Marlene (2). Il realismo aristotelico consisteva nell' aver dato alle specie ed ai generi, cioè alle idee delle cose mondiali, una esistenza nelle stesse cose reali . Essendo le idee cosa divina e ponendosi esse come forme reali delle cose, si faceva manifestamente Iddio forma reale degli enti mondiali. Ora gli enti tutt' intieri si riducono alla forma, perchè la forma, causa della materia, è quella che li fa essere, e dalla forma si denominano. Se questo sistema, riguardato da una delle sue facce, è una specie di panteismo, riguardato dall' altra, è naturalismo e ateismo. Quanto tenacemente si abbarbichi negli animi e nelle menti cotesto realismo che, portando il suo frutto, si converte in un sistema d' empietà bifronte, lo dimostra, oltre le ripetute condanne frequenti, la dura lotta che gli scrittori più eminenti, cominciando da Guglielmo d' Auvergne e discendendo fino a quelli del secolo XVI, sostennero per abbatterlo; e le rovine che tuttavia egli andò menando, combattuto, non mai pienamente estinto. Che più? Se noi stessi, nel tempo nostro, altro non facciamo che combattere lo stesso nemico sullo stesso campo? L' averroismo , figliuolo, per generazione logica, dell' aristotelismo, diede al mondo la formula della più mostruosa empietà: ognuno intende che alludiamo alla bestemmia dei tre impostori . L' empietà sbocciata da questo fonte aristotelico ed arabico comparisce sotto forme volgari e religiose nel gioachinismo, nell' evangelio eterno, nei catari, beguardi, lollardi, bizzocchi, fraticelli, poveri di Lione, ecc., che cotanto commossero la società nel secolo XIII; e si dovettero frenare e comprimere colla forza scientifica specialmente nell' università di Parigi; e si dovette con autorevoli decisioni ecclesiastiche degli anni 1240, 1269, 1277 condannare, quand' esso si proponeva nelle tesi le più strane e le più empie, e che pure si riprodussero per molto tempo ancora (1). Sventuratamente la casa degli Hohenstaufen divenne il centro di tutta questa empietà e dell' immoralità che ne era e ne doveva essere causa ed effetto (2); la filosofia araba nella sua forma più bassa, materiale e dissoluta, annidatasi in quella corte, e ivi protetta da Federico e da Manfredi, corruppe tutto il secolo XIII, che fu pure maestro all' empietà del XIV, nè la tradizione d' empietà e d' incredulità s' interruppe più mai, e la esplosione terribile ch' ella fece nel secolo XVIII, indica troppo bene lo stesso fuoco vulcanico che coperto in parte da ceneri e da rovine, ci fa ancora sotto le piante traballare ed ardere il suolo (3). L' averroismo purtroppo corruppe specialmente la filosofia in Italia: entrato nell' università di Padova per opera di Pietro d' Abano (n. 1250, m. 1317) e cresciutovi d' autorità per opera di Gaetano Tiene (n. 13.3, m. 1465) vi durò fino al Cremonini (m. 1641), cioè più di trecento anni. E questa non fu la minore delle deplorabili calamità a cui questa nazione soggiacque. Lo stesso studio incessante d' interpretare benignamente Aristotele ed Averroè, e di confutarne gli errori, contribuì non poco a mantenere più a lungo nelle cattedre autori, i cui principŒ erano prolifici delle più perniciose dottrine: si credeva renderli innocui con interpretazioni stiracchiate o false, o con confutazioni che non distruggevano ciò che quegli errori contenevano di seducente. Coloro a cui basti la perspicacia per rannodare le conseguenze più remote ai principŒ e gli effetti alle cause, dopo aver profondamente meditato sulle sciagure italiane, non crederanno esagerazione il conchiudere che l' erronea filosofia introdottavi e pertinacemente mantenutavi, c' entra molto da per tutto. Le sciagure morali, checchè ne dicano i vani e belli spiriti, cagionano tutte le altre. E tutte le altre dell' ordine morale furono indubbiamente scosse e guaste dal realismo aristotelico e averroistico, che trovò tant' altre cause a lui affini con cui associarsi. Queste parti integranti dell' ordine e dello stato morale della società sono: 1 la religione ; e l' averroismo introdusse in varie parti d' Italia una scientifica incredulità, incominciando da quei medici atei che tentarono d' attirare al loro materialismo il Petrarca (1), e più sù ancora (2) e più giù fino al Vanini (3); 2 il costume ; e l' averroismo ci dà gli epicurei di Firenze del secolo XIV coi loro successori (1); 3 la politica ; e dalla stessa filosofia aristotelica, sorse il macchiavellismo (2), che fa perdere affatto agl' Italiani la traccia della vera politica; 4 il diritto politico ecclesiastico ; e sotto il regno dello stesso sistema filosofico, esso degenera in una guerra appassionata che si fa alla Chiesa da Arnaldo da Brescia (m. 1155) fino a Fra Paolo (m. 1623), tanta parte del decadimento di Venezia, cioè dello stato meglio ordinato che avesse l' Italia; 5 la letteratura ; e si rimane sudicia e snervata dalla scostumatezza nei suoi stessi esordi, come specchio che doveva essere della società italica e fiorentina del secolo XIV, cioè d' una società travagliata dalle quattro piaghe indicate. Tale è l' eredità ricca di guai che l' Italia raccolse dal realismo aristotelico e arabico, tenuto da essa, per sua sciagura, più tenacemente di tutte le altre nazioni (3). Certo nelle bocche del Cesalpini (m. 1603) e del Cremonini (m. 1641), che vanno contati tra gli ultimi rappresentanti dell' aristotelismo in Italia, il principio del realismo aristotelico suona così fresco e così spiccato come se fosse un trovato pur d' allora: le forme delle cose si riducono in Dio che n' è principio, causa formale egli stesso del mondo (4). Le conseguenze si possono negare, dissimulare, impugnare, ma brulicheranno tuttavia nelle menti che avranno ricevuto in sè quel principio fecondissimo. E un sistema di questa natura si continuava a insegnare, perchè non ce n' era allora un altro. Pure tostochè gli occhi cominciarono a levarsi dai libri e a riguardar la natura, esso perì, ucciso, da quegli stessi germi di corruzione che portava in se stesso (1): si tentò dunque per un poco di far senza della filosofia, ristorandosi di questo mancamento colle fisiche scoperte (2). E per vero l' avverroismo doveva necessariamente rendere la filosofia trista, barbara, pedantesca, sofistica, difetti tutti, che cresciuti col tempo, venivano infine a renderla insopportabile agli ingegni che secretamente da essi stessi progredendo si andavano svezzando (3). In questo modo invecchiò e si corruppe la filosofia scolastica; e dall' ali del nuovo genio che invase l' Europa ne furono spazzate le rovine. L' ultimo sforzo fatto da essa per prolungare la vita, se fosse stato possibile, ebbe ancora il doppio carattere di razionalismo e di misticismo. Spossata e discreditata la forma realistica , Ockam, l' idolo degli ecclettici francesi (questi terribili riabilitatori delle riputazioni perdute ) ripropose nel secolo XIV la forma nominalista , già abbattuta al suo nascere due secoli prima. Molti buoni ingegni, spauriti dalle conseguenze del realismo, sperarono di trovare nel nuovo nominalismo qualche asilo sicuro alla sbattuta filosofia. Dopo un lungo tafferuglio col vecchio realismo, il nuovo nominalismo pareva rimasto padrone del campo, e già Ockam riceveva il titolo di Dottore invincibile. Del rimanente, al vedere che la scuola nominalista può vantare delle glorie postume, dal secolo XVI e XVII fino a noi, ben apparisce che la filosofia aristotelica non sapeva più dove posare il capo, e invano le si voleva acconciar sotto un nuovo origliere. E veramente in Italia Mario Nisolio combattè due secoli dopo Ockam pel nominalismo contro il realismo (1). E in Germania l' opera del grammatico modenese ebbe l' onore di essere ristampata e commentata dal Leibnizio nel 1670; e nella dissertazione, di cui il maggior filosofo arricchì quell' edizione, non dubitò di scrivere: [...OMISSIS...] ! In Francia Giovanni Salabert pubblicò nel 1651 la sua Philosophia nominalium vindicata . L' Inghilterra finalmente, la patria di Ockam, non mancò mai di quei dottori che insegnassero il nominalismo. Nel secolo XVII Melchiorre Goldast ed Edoardo Brown fecero l' apologia di Ockam, e nello stesso secolo il nominalismo fu rivestito a nuova foggia dall' Hobbes, e si rimase poi nella scuola scozzese (3). Tutti questi tentativi, fatti in sul cadere della scolastica e continuati con perseveranza anche dopo la sua caduta, per ristabilire il nominalismo, dimostrano la ripugnanza e quasi direi l' orrore che aveva lasciato in tutti gli animi il realismo aristotelico. Ma si tentava l' impossibile: ed era un' illusione il credere di riparare così ai danni della filosofia. Il realismo e il nominalismo sono i due fianchi dell' ammalato [...OMISSIS...] E veramente, l' abbiamo già detto innanzi, il realismo e il nominalismo nascono dallo stesso errore aristotelico, cioè che « l' universale sia nelle cose reali e non altrove ». Se è nelle cose reali, dunque l' universale è reale; ecco il realismo nel senso proprio. Se è nelle cose reali, dunque l' universale fuori di queste è un nulla, un puro nome: ecco il nominalismo . Sono dunque due formole della stessa dottrina e non due sistemi, sono due conseguenze dello stesso principio. Questa dunque del nominalismo fu la faccia razionalistica che mostrò l' aristotelismo nel suo spegnersi: in Germania scoperse di nuovo, nello stesso periodo, anche l' altra cioè la mistica . E questo accadde perchè, in sullo scorcio della sua vita, s' abbattè nella riforma protestante. Il protestantesimo, scossa l' autorità, non si potè mai adagiare e rimanersi tranquillo nel raziocinio, così mal sicuro nei suoi passi quand' è solo, impotente del tutto, se trovasi sfinito in un puro nominalismo. Niuna maraviglia che l' uomo, ridotto a questo solo, provi una incredibile inclinazione a buttarsi in un falso misticismo. Il quale è come il bigottismo dei dissoluti di professione. Ma il seguace della religione cattolica con assai più confidenza s' affida alla ragione, come il fanciullo muove più ardito le gambe quando sa d' aver vicina la madre. Da questo provenne dunque che in Germania l' aristotelismo cadente s' avviluppò di nuovo nel falso misticismo, e di nuovo in progresso, rivolgendosi, mostrò ancora l' altra sua gota razionalistica, che ricomparve a pieno discoperta nel Kant e nel Fichte, per riapparire mistica e panteistica nello Schelling e nello Hegel, ove questa filosofia sembra aver determinato il suo corso fatale divorando se medesima. Quegli storici della filosofia che raccolgono le opinioni, che di secolo in secolo corrono intorno a un dato sistema e a un dato filosofo, e le trovano discrepanti, e oltracciò vedono succedere alle lodi i biasimi, o ai biasimi leggeri altri biasimi più gravi (com' è avvenuto dell' averroismo già convinto d' errore nel secolo XIII, ma nel XIV detestato come padre d' empietà e d' immoralità), si persuadono facilmente che in tali giudizi non ci sia altro che talune contraddizioni casuali, la causa delle quali si debba cercare o in un andazzo del tempo o in accidenti stranieri alla scienza; e s' incaricano sul serio di rettificare e di ammoderare, colle loro discrete sentenze, quelle esorbitanze, quelle esagerazioni o contraddizioni. Ma questo tono di superiorità giudiziale, così comune nei nostri tempi, non ha sovente altro fondamento che o una scarsa perspicacia, o la mancanza d' uno studio profondo sulla natura intima delle filosofie che hanno esercitata una lunga dominazione nel mondo. Poichè niuno può essere storico della filosofia se prima non è filosofo egli medesimo . Tale vicenda ci porge, come dicevamo, la filosofia d' Aristotele, ora esposta dai commentatori greci, ora dagli arabi, ora spiegata dagli orientali, ora dagli occidentali. Onde dunque tante diverse interpretazioni spesso contrarie? Se ne dovrà dare tutta la colpa agli interpreti? Onde tante lodi a lato di tanti biasimi? E onde il biasimo e, direi quasi, la detestazione, cresciuta in fine a segno da considerarsi l' aristotelismo come sorgente inesausta d' errori, come germe d' irreligione, come ostacolo al progresso della civiltà, come soffocatore del gusto e non più oggimai tollerabile sulle cattedre? Fu tutto questo l' effetto d' un semplice riscaldo di testa, d' un eccesso appassionato e nient' altro? Così per vero considerano la cosa alcuni storici ed eruditi, che hanno per massima di dire sempre un po' di bene di tutto ciò di cui fu detto male, e un po' di male di tutto ciò di cui fu detto bene. Quanto a noi, siamo d' avviso che tutte le principali maniere d' intendere Aristotele, sebbene diverse ed anche contrarie, trovano qualche fondamento di solidità nella stessa lettera del testo aristotelico. Mi condusse a questa conclusione l' esame del fatto; e di questo fatto si trovano le ragioni: 1 nel disordine con cui furono affastellati gli scritti d' Aristotele: nella perdita di molti di essi, e nel guasto che debbono aver subìto gli altri a noi pervenuti; 2 nella maniera colla quale Aristotele stesso scrisse quasi a brandelli molte sue cose, senza forma sistematica; 3 finalmente nell' imperfezione d' esposizione e di linguaggio. I guasti che debbono aver riportati i libri dello Stagirita nella grotta ove furono nascosti dagli eredi di Neleo, e ci rimasero sì a lungo per sottrarli ai re di Pergamo, che mandavano a caccia di libri per le loro biblioteche; il disordine nel quale probabilmente furono estratti di là; gli errori e i nuovi guasti introdotti nelle copie che ne fece trarre Apellicone, supplendone le lacune con mano imperita, più filòbiblo che filosofo, come lo chiama Strabone (1); la classificazione e la disposizione arbitraria, e i nuovi restauri fattivi da Tirannione e da Andronìco Rodio peripatetico (2); tutte queste sventure debbono aver assai male conciati gli scritti del nostro filosofo, di maniera che or ci è impossibile trovare quanto quelli che abbiamo, s' allontanino da quelli veramente usciti dalla sua mano (3). Ma più ancora di cotesti guasti, doveva influire a rendere incerta e molteplice l' interpretazione della dottrina d' Aristotele, il non averla egli stesso voluta esprimere chiaramente, ancor che non si voglia credere genuina la nota lettera ad Alessandro. Anzi sebbene la tela della dottrina aristotelica sia forse la più ampia che mai alcun filosofo anteriore ardisse d' intelaiare, tuttavia si potrebbe dubitare, senza temerità, s' egli stesso si sia costruito in mente un sistema filosofico unico, netto e coordinato in tutte le parti. Certo (anche senza contare che alcuni dei libri che ci rimangono col nome d' Aristotele non sono autentici, altri non autentici in tutte le loro parti), basta por mente alla maniera e al fine diverso in cui e per cui egli compose quei diversi scritti, per avvedersi tosto quanto debba esser difficile il raccogliere qua e colà i brani sparsi in essi, e intenderli, e accozzarli in unica dottrina, quand' anco nessuno ne mancasse all' interezza del sistema. Si sogliono dividere le opere del filosofo in tre classi, intitolandosi le une «hypomnematika» o memoriali, le altre «exoterika», o cose popolari, e le altre ancora «akroamatika» o cose scolastiche, o se piace meglio, scientifiche (1). Ora i memoriali , scritti per uso proprio, altro non sono che annotazioni, tratti, pensieri, consegnati occasionalmente alla carta, senza alcun metodo scientifico, sol quanto bastasse allo scrittore per ricordarsene. Egli è manifesto che in questo genere di scritture non si deve cercare un sistema compiuto, nè pretendere che sia chiaro a noi quello che l' autore notò perchè fosse chiaro a sè medesimo. Nè manco si può aspettare di conoscere la sua vera mente dai libri popolari , poichè gli antichi filosofi non solo credevano di dover nascondere al popolo una parte, e la più preziosa parte della verità, ma anco si facevano lecito di allettarne e molcerne gli orecchi con insegnamenti, di cui pur conoscevano tutta la falsità. Finalmente i libri acroamatici , riservati ai soli uditori della scuola, e certi anche tenuti via più occulti «en aporretois» si solevano scrivere a bello studio in un modo astruso e misterioso. Laonde nè pure in questi il sistema (quando anco ci si contenesse) potrebbe apparire in piena luce. Al che s' aggiunga, essere tutti questi libri venuti alla posterità così uniti e sparpagliati come dicevamo, anche per la venalità dei librai, che non avrebbero trovato a smerciare facilmente l' intero corpo voluminoso e costoso di tali scritti, e però li spacciavano divisi e con tanta e tale sconnessione, che difficilmente si potè e si può riconoscere a quale delle due indicate classi ciascuno dei libri si debba riferire, e forse uno stesso libro ora è composto di brandelli d' altri da distribuirsi per tutte e tre. Si crede tuttavia che Aristotele abbia lasciato a Teofrasto i suoi libri ordinati e distinti in «pragmateiais», o trattazioni, dette da Cicerone disciplinae partes (1). Ma a queste non pare che possano appartenere gli ipomnematici , troppo imperfetti e d' uso privato, e forse nè pure gli exoterici o popolari , siccome alieni dal sincero pensiero dell' autore, ma puramente gli acroamatici o scientifici, come quelli che soli possono ricevere, e di ricevere son degni, una divisione scientifica (2). E tra i molti libri che si sono perduti d' Aristotele, non possiamo sapere quanti ce n' erano d' acroamatici, anelli forse necessari al sistema. Ognuno intende che, con tutte queste difficoltà gravissime, è vano lo sperare di pervenire a conoscere con sicurezza l' intero sistema filosofico che fu nella mente del nostro pensatore, se pure ce ne fu veramente uno intero. Ma soprattutto a chi attentamente considera la lingua, lo stile, la maniera di scrivere adoperata da Aristotele, non solo in diversi libri, ma anche nello stesso, diversa, cessa la maraviglia del vedere che in diversi tempi e da diversi ingegni il suo pensiero sia stato inteso e spiegato in modi diversi e contrari, e che pure non sarebbe facile convincere una sola delle tante teorie, di non aver a base qualche passo delle opere dello Stagirita strettamente interpretato. Primieramente non c' è un solo vocabolo filosofico che non riceva nei suoi scritti diverse e molte significazioni, e quando l' usa è ben rado ch' egli ci avvisi in quali di esse lo prende. Mancando questo avvertimento, poco giova ch' egli in V dei « Metafisici » abbia raccolto trenta vocaboli o locuzioni tra le più frequenti, e a ciascuna abbia assegnato un certo numero di significati, senza contare che quelle trenta voci sono assai lungi dall' esaurire il suo dizionario filosofico, e che i significati posti a ciascuna non sono ancora tutti quelli ch' egli stesso attribuisce nell' uso che ne fa. Finalmente talora adopera i vocaboli nel significato attribuito dai filosofi anteriori e contrario a quello che assegna egli stesso. S' aggiunga la maniera sospensiva e dubitosa con cui esprime le sue proprie opinioni, sulle quali sembra spesso vacillante. Pone il maggiore sforzo nel suo dire e spende la maggior copia delle parole in ottenere che il lettore senta la difficoltà della questione, men sollecito poi di darne una retta soluzione (1): al qual fine fa largo uso di ragioni pro e contra, e non si sa sempre discernere se parli in persona degli avversari, o in sua propria: e fa uso frequentissimo della particella «pos», che lascia in una cotale incertezza i contorni della dottrina. Come Aristotele insegna che la virtù consiste nel mezzo, così pare che egli si compiaccia di fare altresì delle opinioni (2): cerca di collocarsi tra i due estremi contendenti: distribuisce un po' di ragione e un po' di torto a tutti i filosofi che l' hanno preceduto. E se facesse sempre il taglio netto tra quello che approva e quello che disapprova, s' avrebbe chiaro il suo pensiero: ma non lo fa per tutto, e dice l' una cosa e l' altra, rimettendo troppe volte al lettore l' interpretazione sotto quale aspetto la dica e sotto quale la contraddica. Non solo poi nei libri ipomnematici , ma anche nei sintagmatici (3) egli ragiona di questioni vive al suo tempo, e agitate nelle scuole che Speusippo e Senocrate guidarono dopo la morte di Platone: e suppone che il suo lettore conosca come si conducevano quelle dispute, e quali argomenti s' usavano in quelle pugne, e di quali formule si vestivano, come invero tutto ciò dovevano conoscere i suoi contemporanei. Ma non è questa per noi una delle più piccole cagioni dell' oscurità d' alcuni luoghi dello Stagirita: chè siamo venuti troppo tardi, e di quei filosofi, condiscepoli ed emuli d' Aristotele, non ci rimangono gli scritti, ma frammenti scarsissimi: la solenne voce poi dei maestri, e il frastuono clamoroso dei discepoli svanì ben presto in un assoluto silenzio (4). Che se al presente gli eruditi si affaticano di raccogliere qualche parola o qualche detto, e accozzarlo, e congetturare su qualche punto la maniera speciale di concepire e di favellare in quelle scuole usata: il lavoro è appena incominciato, e la sterilità del terreno non promette abbondevole raccolta. Ma si può spiegare come i discepoli d' un filosofo, suddividendosi tra loro, attribuiscano poi al medesimo sistemi diversi e contrari, e ciascuno accampi a suo favore ragioni non dispregevoli, anche astrazion fatta dalle circostanze indicate, che tutte s' uniscono a contribuirvi nel caso d' Aristotele. Poichè un sistema sta per intero nei principŒ , e le conseguenze sono già tutte in essi. Ma la deduzione di queste può esser fatta bene e male, e da filosofi diversi. Ora, allo storico della filosofia appartiene certamente l' indicare chi abbia posti i principŒ, e chi dedottene le conseguenze: ma questa è la storia dei filosofi e dei loro speciali lavori e non ancora la storia dei sistemi. Il sistema non perde la sua identità, o ch' esso si presenti concentrato nei soli principŒ, o che l' esposizione ne svolga le conseguenze, siano poche o molte, e anche tutte. Colui che ha formulati i principŒ è il solo autore del sistema. Se le conseguenze non sono state da lui dedotte e nè anco prevedute, a lui non appartiene l' imputabilità morale di esse; ma glien' appartiene tuttavia, per dir così, l' imputabilità filosofica, poichè chi ha posto i principŒ ha già posto le conseguenze. Il che vale pel caso in cui i principŒ siano pienamente definiti e determinati. Ma accade troppo spesso, che i principŒ stessi insegnati da un filosofo vengano da lui posti in un modo indeterminato e imperfetto, o che la loro indeterminazione sia intrinseca agli stessi concetti della mente, o dipenda dalle formule verbali, delle quali quei principŒ si vestono. Nell' uno e nell' altro caso il pensiero dei discepoli, che pur accettando senza controversia i principŒ del maestro, non può formarsi, ma tende continuamente a renderli feraci di conseguenze, è naturalmente portato ad aggiungere da sè a quei principŒ che il maestro lasciò nell' indeterminazione, le determinazioni che mancano. Ora, i principŒ stessi determinati diversamente si moltiplicano: determinati a un modo riescono diversi ed anche contrari da quei principŒ medesimi determinati a un altro modo; chè l' indeterminato contiene il diverso ed anche il contrario. Non è dunque fuori di ragione il riferire ad un medesimo filosofo diversi e contrari sistemi sotto quest' aspetto: e possono esser vane in tal caso le contese dei discepoli per vincere chi abbia bene interpretato il maestro e ne abbia colto il sistema: poichè tutti, in un senso, possono veramente avere il sistema del maestro, e in un altro senso non averlo nessuno: l' hanno cioè tutti, se si considera che i loro sistemi, benchè diversi e contrari, giacciono virtualmente nel sistema più indeterminato del comune maestro: non l' ha nessuno, se per sistema del maestro si intenda la sua dottrina materialmente presa con tutta quella indeterminazione nella quale egli la lasciò. Poichè i discepoli, per lo spontaneo progresso del pensiero, togliendovi d' attorno l' indeterminazione che gli dà il carattere, non si mettono nè pure in sospetto d' alterarlo con ciò, e tutti potrebbero intendersi e aver ragione qualora s' avvedessero e convenissero che una delle determinazioni non esclude l' altra, onde il principio indeterminato sta lì per tutti, e questo solo ritengono dal comune maestro. E non fu questa certamente la meno efficace delle ragioni per le quali i seguaci di Platone e quelli d' Aristotele si dividessero in tante sette, e così disparate, senza però trovar mai la via della concordia. Da questo stesso provennero poi altre conseguenze. I principŒ di Aristotele, variamente determinati dai suoi seguaci ed interpreti, racchiudevano altrettanti complessi diversi d' illazioni. Perciò non fa maraviglia che essi, da una parte si traessero al servizio del cristianesimo, dall' altra divenissero sementi dell' empietà. Nei commentari di Averroè prendono questa rea natura. Che i maestri cattolici del secolo XIV come Alberto Magno e san Tommaso, abbiano confutati gli errori dell' arabo commentatore senza veemenza, e che nel secolo susseguente il Petrarca e i dottori domenicani con alto e nobile sdegno combattessero l' araba dottrina, imputandole l' immoralità, la eresia, l' incredulità che vedeano propagata per tutto e annidata nella corte degli Hohenstaufen e penetrata in tutta la parte ghibellina, non può far meraviglia, se non agli storici dell' eclettismo francese. E` assai naturale che i principŒ, fino a tanto che stanno da sè soli, si combattano col freddo raziocinio: armi uguali s' appongano ad armi uguali. E` naturale e giusto del pari, che la corruzione che s' ingenera in appresso quando se ne inducano le conseguenze e se ne fanno le applicazioni alla vita e il contagio ampiamente n' è propagato, venga assalita e investita dall' eloquenza di uomini che ardono d' uno zelo santo e provano nel cuore un crudel dolore che ne li fa lamentare. Ci si dirà forse che le varie difficoltà fin qui indicate tolgono quasi la speranza di pervenire a conoscere con chiarezza tutto l' intero della dottrina aristotelica. E se la cosa è così, come voi ci annunciate un' opera che la espone? o che cosa dunque vi proponete in questo vostro libro che intitolate: « « Aristotele esposto ed esaminato » »? Domanda ragionevolissima a cui brevemente dobbiamo rispondere. Dicevamo che in Aristotele si trova un sistema, ma indeterminato e incerto in molte sue parti, e che a una tale indeterminazione e incertezza si deve reputare principalmente il vario modo d' intenderlo dei suoi interpreti. Ora, questo appunto noi intendiamo far risultare dallo scritto presente nel quale affrontiamo i diversi luoghi nelle opere dello Stagirita sopra le questioni capitali, e facciamo ogni prova di conciliarli insieme. Apparirà che una perfetta conciliazione è almeno a noi spesse volte impossibile, e che talora si presentano principŒ che sembrano piuttosto diversi che contrari; ma esaminato poi il loro valore nelle conseguenze che portano in seno, si scoprono appartenere essi a dottrine contraddittorie e inconciliabili. Abbiamo posta ogni diligenza per iscoprire nei singoli luoghi del nostro autore quale dei molti significati che attribuisce ad ogni vocabolo filosofico sia appunto quello di cui in essi fa uso. Con questa cura si conciliano, a dir vero, in parte i luoghi diversi che si riferiscono a uno stesso punto di dottrina, ma non interamente però. Ora, questa incoerenza dipende, a parer nostro, dall' indeterminazione della dottrina medesima. E il fare che spicchi agli occhi del lettore questo vero, è la prima parte della critica che noi intraprendiamo di fare alla filosofia d' Aristotele. Poichè noi abbiamo già avvertito che il carattere di quest' opera non è già d' essere filologica ; ma d' esser critica , e d' una critica che riguarda la stessa dottrina. In una parola, noi scriviamo come filosofi , scriviamo un giudizio sopra un' antica filosofia: vi ci accingiamo spassionati, senza lasciarci prevenire da alcuna autorità. Questo giudizio nostro (qualunque valore possa avere in se stesso) accusa la dottrina che giace sparsa nelle opere che si attribuiscono ad Aristotele di tre peccati: il primo d' esser formulata in un modo indeterminato e di prestarsi per conseguenza a interpretazioni diverse e contrarie; il secondo d' essere incoerente, anche prescindendo dalle contraddizioni puramente verbali che sono la conseguenza dei diversi significati pei vocaboli, considerata solo la dottrina in se stessa; il terzo d' essere erronea non già in tutte le sue singole parti, ma in ciò che costituisce il fondo e l' unità del sistema. In certe parti farà certamente bella mostra di sè la perspicacia ammirabile e la sottigliezza d' Aristotele, e niun' altra qualità sembra così propria a tanto ingegno quanto questa della sottigliezza . Non ebbe tutta l' antichità, io credo, un' altra mente che fosse più analitica e più dialettica di questa d' Aristotele, e sol essa poteva lasciare ai posteri quel gran monumento aere perennius della sillogistica . E fu questa parte dialettica appunto che innamorò di sè, a buona ragione, tutto il medio evo, nè potrà mai essere, per iscoperte nuove e nuovi progressi, obliata e dismessa: quest' è ancora la parte, per la quale l' aristotelismo recò grandissimo vantaggio alla cristiana teologia che ne serbò sempre riconoscenza. Ho indicato brevemente l' intento dell' opera presente: più ancora che di conoscere storicamente quali fossero le dottrine professate da Aristotele, noi siamo solleciti della verità : il nostro intendimento, lo diremo ancora, non è storico, nè eclettico, ma strettamente filosofico e razionale . L' ultimo risultato, a cui tendono di loro natura le diverse ricerche ed osservazioni che andremo esponendo, si è di vagliare il vero dal falso che ci possa essere in tutto quell' ammasso di opinioni che si presentò fin qui con pretesa d' appartenere agli insegnamenti ed alla dottrina d' Aristotele. Sceverandone il falso e quasi affiggendovi segni, ai quali possa esser da tutti conosciuto, speriamo che si debba scemar il pericolo d' incorrervi nuovamente: porgendo netto il vero, se ci riesce, e procurando di fare che ciascuno veda l' evidenza della sua luce, speriamo che più facilmente se ne conserverà il possesso tra gli uomini, e l' oro che troviamo nella miniera del peripatetismo, separato dalla scoria, potrà essere accresciuto dai moderni con nuovo metallo di buona lega. S' abbrevierebbe di molto il lavoro che il mondo presente aspetta dagli scienziati, che cioè gli restituiscano o ricostituiscano una sana e sufficiente filosofia, qualora non s' avesse più a disputare sul buono e sul reo degli antichi sistemi e specialmente di quello che trionfò di tutti gli altri, l' aristotelismo; ma ne fosse riconosciuta per sempre la separazione. Allora nessuno più abuserebbe d' una incerta autorità nei trattati filosofici a complicare e avviluppar le questioni, e nessuno oserebbe di riprodurre le antiche maniere di dire senza averle prima giustificate e sanate da ogni equivocazione. L' autorità infatti deve essere sbandita dall' interiore della filosofia essenzialmente razionale. L' ufficio dell' autorità è quello di precedere alla mente razionatrice come consigliera e amica, e di susseguire ad essa dando conferma ai raziocinii e aiuto alla persuasione che va troppo lenta e debole dietro all' astratto ragionamento. L' autorità divina oltracciò presta all' umanità un beneficio assai maggiore; supplisce alla ragione quando questa si ferma venuta ai suoi ultimi confini; e la rimette in sulla via se erra nelle cose di suprema importanza, quali sono quelle che riguardano gli eterni destini dell' uomo. Ma tutto questo è sempre guadagno estraneo alla filosofia che si tesse puramente a filo di raziocinio. Se il nostro lavoro contribuirà a rendere più netto e men intralciato il pensiero e il discorso dei filosofi, spacciandolo da un gran numero di concetti e di vocaboli equivoci che sopravvissero in tutta la loro ambiguità alla caduta dell' aristotelismo, esso avrà ottenuto l' uno dei due scopi che gli furono proposti. In tal caso apparecchierà altresì la via (e questo è l' altro scopo) alla seconda scienza metafisica che abbiam promesso di comunicare al pubblico, cioè alla « Teosofia », l' ultima, e per vero la più elevata parte dell' edifizio filosofico, quella in fine che più di tutte le altre esige proprietà nelle voci, distinzione nei concetti, rigore nei raziocini. Propagata l' umana stirpe, e divisa successivamente in nazioni, ella smarrì un po' alla volta, e confuse la memoria della propria origine e della prima sua istituzione. Se si eccettui l' ebraica stirpe, nella quale l' antica tradizione fu conservata per speciale provvidenza, noi vediamo i più dotti del popolo più ingegnoso del mondo, il Greco, ignorare che l' umanità avesse avuto un padre ed una madre comuni (1). Tra queste genti spoglie della storia umanitaria e della primitiva sapienza, e quindi abbandonate a se stesse, nacque la filosofia, e questa toccò tra i gentili il suo apice per opera di Platone. Aristotele fu il più celebre dei suoi discepoli, ingegno di gran lunga meno elevato, ma acre, sottile, laborioso. Se si dovesse prestar fede all' autore d' una sua vita, sia questi Ammonio o Filopono, Aristotele, colla sua scuola, non intendeva punto di combattere il maestro, ma « « quelli che meno rettamente interpretavano le sue sentenze »(2) », il che è quanto dire i suoi condiscepoli Senocrate, Speusippo, Amicla ed altri. Ma molti luoghi delle sue opere e il fondo stesso della sua dottrina ci persuade del contrario. Sappiamo che Platone stesso si lamentava di lui dicendo: « « Aristotele ricalcitrò contro di noi, come i poledri generati, contro la madre »(3) », ed Eliano e Diogene ci narrano l' arroganza del discepolo, che obbligava il vecchio maestro a rimuoverlo dal suo consorzio (4). Oltre di che l' ambizione [...OMISSIS...] , rimproveratagli da Senocrate, era in costui sì grande, che non solo voleva primeggiare nelle filosofiche discipline, ma punto dalla gloria oratoria d' Isocrate, anche alla scuola di questo contrappose una sua scuola d' eloquenza (1). Ma lasciando da parte la storia dei dissapori privati (chè quel solo che a noi importa è la dottrina), reputiamo non potere noi in altro modo condurre questa nostra esposizione e critica della dottrina Aristotelica, che raffrontandola di continuo a quella veramente originale del suo maestro, dalla quale la derivò nella sua miglior parte, e dimostrando in quali sentenze e come dalla medesima s' allontani. Volendo noi dunque esporre ed esaminare a questo modo la dottrina propria d' Aristotele, quale risulta dagli scritti di lui, che a noi pervennero, conviene che incominciamo col determinare quel punto di dottrina, che cagionò la separazione del gran discepolo dalla scuola di Platone. Il qual punto è chiaramente indicato nel libro M (XIII) dei metafisici con queste parole: [...OMISSIS...] . E lasciando per ora i numeri, quelli che pongono le idee, « a un tempo fanno le idee (2) come essenze universali, e di nuovo come separate, e come predicate dei singolari. Ora noi abbiamo già prima dubitato che la cosa vada così. A coloro che dicono le idee universali, il non dar essi le stesse essenze ai sensibili fu cagione che unissero in un medesimo queste contraddittorie attribuzioni. Poichè credevano che i singolari, che sono nei sensibili, fluissero: e niuno di essi permanesse: l' universale poi fuori di questi non solo essere, ma essere un altro che. Questo pensiero fu mosso da Socrate per le definizioni, come abbiamo detto avanti, ma non le separò dai singolari. E vide bene, non separandole. E` manifesto dall' opere. Poichè senza gli universali non si può ricevere scienza. Ma il separare è la causa delle difficoltà, che occorrono intorno alle idee:. [...OMISSIS...] Il punto dunque, che cagionò lo scisma aristotelico fu la separazione delle idee. Egli riconosceva: 1 che senza le idee universali non ci può essere scienza [...OMISSIS...] , ammetteva dunque idee universali; 2 riconosceva altresì in queste qualche cosa di stabile e di eterno, onde viene la necessità della scienza, e lodava Socrate per aver eretta la morale su definizioni delle essenze incorruttibili delle cose; 3 ma diceva, dopo di ciò, che Socrate non aveva mai pensato a dividere le essenze delle cose sensibili da queste, e che aveva ben veduto non separandole. Biasimava perciò coloro che delle idee fecero altrettante sostanze sussistenti da se medesime diverse dalle sostanze sensibili, e trovava una contraddizione nella dottrina di questi filosofi, che ad un tempo stesso facevano le idee: 1 essenze universali; 2 essenze separate dei singolari; 3 essenze dei singolari; [...OMISSIS...] quasi facessero le idee ad un tempo stesso universali e singolari, e affermassero e negassero, che fossero le essenze dei singolari. Egli dunque disse che le specie si separano bensì colla mente, ma sono realmente negli individui reali sussistenti. Essendo nella mente separate dalla materia, danno luogo alla scienza; essendo negli individui reali, sono le vere forme sostanziali ed individue di questi. Alla difficoltà poi, che le cose sensibili siano di continuo fluenti, e non possano per conseguenza avere nulla di stabile, come pur sono le essenze, rispose col fare la materia eterna e immutabile, e ridurre le specie ad un' ultima eterna sostanza, scevra d' ogni materia, mente divina; a cui le cose tutte tendendo incessantemente, come al bene, acquistassero la specie di cui sono capaci. Così credette d' aver trovato due punti fissi e quasi due poli: la materia prima e l' ultima divina forma . Ma questo era un ricadere in sostanza nel sistema del suo maestro circa le idee: perchè concedeva la necessità, che esistesse una prima e suprema forma separata e per sè essente. Nè voleva certamente di più Platone, che, quantunque riconoscesse nelle idee la necessità eterna di essere, le riduceva nondimeno anch' egli in una mente prima, e le dichiarava esistenti in virtù degli atti di questa mente. Perciò non fa maraviglia, che molti in tutti i tempi credessero possibile di conciliare la dottrina aristotelica colla platonica, dichiarandola piuttosto diversa nelle parole che nella sentenza (1). E benchè noi crediamo questa conciliazione impossibile, tuttavia egli pare che Aristotele affetti talora di mostrarsi discorde da Platone anche quando non è; e che in quei luoghi, nei quali s' attiene alla dottrina del maestro, benchè con altre espressioni, proceda con lucidezza, in quelli nei quali se n' allontana veramente, si perda spesso in sottigliezze, equivoci e difficoltà inestricabili. Uno di questi luoghi è appunto quello in cui pretende che le specie stesse, che nella mente sono universali, inesistano come particolari negli individui reali, cadendo così nella stessa contraddizione che imputa ai suoi avversari [...OMISSIS...] e che non si può imputare certamente a Platone, il quale non pone le idee stesse nei singolari sensibili, ma solo in questi riconosce delle copie «ektypa», di quegli esemplari. Il concedere, come Aristotele fa costantemente, che « « senza gli universali non ci può essere scienza » », giacchè la necessità stessa della scienza nasce dall' universalità (1), e nello stesso tempo affermare, che gli universali sono nei singolari, è appunto, come dicevamo, e come meglio vedremo in appresso, dichiarare le essenze singolari ad un tempo e universali. Sembra che Aristotele cerchi di nascondere questa contraddizione sua propria, che indebitamente riscontra nella scuola di Platone, non solo ai suoi lettori, ma a sè medesimo, colla varietà e quasi direi sinuosità del linguaggio e della maniera di concepire. Ora, essendo in Aristotele la maniera di concepire universalissima e del tutto formale (2), avviene ch' egli riponga sotto uno stesso vocabolo, e tratti ad un tempo cose le più disparate, riunendole sotto le medesime vedute logiche. Possono infatti vestire una stessa forma logica entità reali, ideali, dialettiche etc. (3). Ma questa maniera di ragionare rompe tutte le classificazioni naturali degli enti; e da una parte si possono far comparire, come aventi una stessa natura, cose di natura diversissime: dall' altra si moltiplicano gli enti senza necessità, chè una stessa entità diventa molte davanti al pensiero, rivestita di varie relazioni logiche e di vocaboli ad esse corrispondenti. Nel passo citato in principio del nostro discorso si nominano idee, essenze, universali. Ma tutte queste parole, e quant' altre si riferiscono alla stessa questione, cangiano di significato ad ogni piè sospinto nel dettato aristotelico: per raggiungerlo conviene che teniamo dietro ai suoi andirivieni. Cominciamo dall' essenza, o se vogliam mantenere la parola greca, dall' «usia». . [...OMISSIS...] Ma ciascuno di questi quattro modi si moltiplica. Poichè del subietto dice continuando che in un modo questo si dice materia «he hyle», in un altro forma, «he morphe», in un terzo il composto della materia e della forma, «to ek tuton». Chiama poi la forma « « lo schema dell' idea, » [...OMISSIS...] . Sono tre dunque i significati della parola subietto , e questo è uno dei quattro significati della parola «usia». Un altro di questi quattro significati è la quiddità , ma questa si divide anch' essa per lo meno in tre significati. Poichè dice in un altro luogo che le cause come quiddità, [...OMISSIS...] , sono: il tutto, «to holon», la composizione, «he synthesis», e la specie «to eidos» (3). Che cosa dunque è la quiddità, il «to ti en einat»? Secondo il primo e proprio significato « « non c' è quiddità in altri se non nelle specie del genere »(4) »: poichè questa è l' oggetto della definizione. Per questo la quiddità è una specie, «to eidos», ma non tutte le specie sono « specie del genere ». Infatti la parola specie s' applica da Aristotele al genere stesso e a tutte le idee. Quando dunque Aristotele dice, che la quiddità è la specie, deve intendersi unicamente della specie sostanziale, che è la sostanza categorica, che si predica degl' individui, e non deve intendersi degl' individui stessi. Ora se la quiddità è la specie, o come anche dice, è la specie del genere, dunque è un universale: tant' è vero che ammette definizioni, e che i singolari non l' ammettono. Ma quando dice, che anche il tutto, «to holon», e la composizione «he synthesis», è quiddità, allora si può intendere tanto la quiddità degli individui reali, quanto quella degli individui ideali: poichè il tutto e la composizione possono esser pensati come possibili, ovvero anche come sussistenti. C' è dunque sempre la dimenticanza (pur comune ai filosofi) di tener separato l' ordine ideale dall' ordine reale (1). Ora il tutto ideale, e la composizione ideale è la stessa specie sostanziale , quando però il tutto abbia unità, senza di che non potrebbe avere definizione (2), e per composizione s' intenda quella che mette l' ente in atto. Un altro dei quattro significati dell' essenza è il genere . Ora qui siamo in un universale ancora più esteso che non è la specie: ma la stessa parola genere riceve molti significati (3). Come dunque, non contento di queste definizioni, aggiunge che l' «usia» è anche l' universale? Non l' aveva già affermato dicendo che significa la specie e che significa il genere? Per Aristotele non c' è universale che non sia genere o specie. Ma convien dire che introduca qui l' universale come nuova parola, che dice lo stesso con una relazione logica diversa. Pure quando prende l' «usia» prima e singolare, allora s' affatica a dimostrarvi ch' ella non può essere un universale (4). Come dunque crede d' evitare la contraddizione? Da una parte l' «usia» in senso primo e proprio non è e non può essere l' universale; dall' altra l' «usia» è la quiddità, l' universale, il genere, parole tutte che indicano universalità. Risponderemo forse col distinguere la prima e la seconda «usia» (5), e diremo che la prima sola non è universale, e che quando insegna che l' «usia» si dice in quattro modi (poichè « sembra essere «usia» a ciascun ente la quiddità, l' universale, il genere, il subietto di queste cose ») parla solo dell' «usia» seconda ? La risposta non appagherebbe, poichè per lo meno il subietto deve appartenere alla «usia» prima , come quello che non si dice d' altra cosa, ma di lui le altre cose si dicono. Osserveremo ancora che in quel luogo parla dell' «usia» senza fare alcuna distinzione tra la prima e la seconda. Vero è che il subietto stesso può essere ideale o reale (le due modalità perpetuamente confuse), e che il subietto ideale è un universale anch' egli (1); onde questo secondo apparterrebbe alla sostanza seconda, che si può predicare della prima (2). La parola «usia» dunque sarebbe usata equivocamente, quando dicesi «usia» seconda : il che involge di necessità tutti i ragionamenti in equivoci inestricabili, se non s' emenda il linguaggio. Ma noi crediamo che la maniera, con cui Aristotele tenta di conciliarsi con se stesso, non si limiti ai due significati della parola. Acconsente egli che un vocabolo abbia diversi significati, purchè si riferiscano tutti ad un primo e proprio, e gli altri nascano dalle relazioni delle cose nominate colla prima nominata in senso proprio (3). La seconda «usia» dunque ripeterà il suo nome di «usia» dalla prima. Ma come è possibile questo, se la prima è singolare e non si predica d' altra cosa (4), e la seconda è universale e si predica? Come l' universale riceverà il nome dal singolare? E` sempre la stessa questione, che ritorna, delle due attribuzioni contrarie: all' «usia» si dà l' essere singolare ( «usia» prima ), all' «usia» si dà l' essere universale ( «usia» seconda ). Il dire che questa venga dalla prima è un tentativo di conciliazione: è la soluzione della questione aristotelica, che rimarrà ad esaminarsi, ma questa soluzione ad ogni modo suppone le due attribuzioni di universale e di singolare date alla cosa stessa, all' «usia»: contraddizione, di che a torto si accagionava Platone. Esaminiamo dunque brevemente questa soluzione di più in appresso. Nel libro E (VI) dei metafisici, nel quale Aristotele dà i vari significati delle parole filosofiche, in vano si cercherebbe quello di cui abbisogniamo, dell' universale : convien dunque che noi lo raccogliamo dai vari luoghi, nei quali Aristotele ne fa uso, e dall' intrinseca natura del medesimo. Tra i vari sensi che riceve la parola universale , noi dobbiamo fissare quei due che divennero il fondamento delle due filosofie di Platone e d' Aristotele; e che nascono da due maniere diverse di concepire, vere in se stesse entrambe. Per legare a nomi questi due universali chiameremo l' uno idea , l' altro individuo vago . Il primo nome di idea è usato da Platone, ed evitato, quanto mai può, da Aristotele che le sostituisce i vocaboli di specie e di genere . Il secondo nome di individuo vago non si trova nè in Platone nè in Aristotele ed appartiene agli scolastici, ma è opportunissimo a indicare quell' universale, in cui massimamente concentrò la sua attenzione Aristotele, e con cui volle discacciare di luogo l' idea platonica. Che queste due maniere d' universali cadano nella mente umana apparirà chiaro a chi avrà ben intesa la distinzione delle due fondamentali facoltà, da noi distinte nella medesima, dell' intuizione e dell' affermazione (1). L' intuizione ha per oggetto un' essenza intelligibile , che, a quel modo che si rappresenta all' uomo, dicesi idea . In questo pensiero non cade alcun individuo reale, anzi nessuna realità. La riflessione poi trova la possibilità che quell' essenza intelligibile venga realizzata; trova ancora che ordinariamente può essere realizzata in molti individui; e conchiude che l' idea è universale: quest' è il primo universale , che diremo platonico. La seconda facoltà, cioè l' affermazione , comincia a produrre i suoi atti nelle percezioni dei reali sensibili : giacchè queste percezioni inchiudono sempre almeno una implicita affermazione (2). L' oggetto della percezione è un reale, che in essa s' afferma. Il reale compiuto, su cui non è stata ancora esercitata astrazione di sorta, è un individuo , un individuo , dico, reale e però un singolare. Ora diamo un uomo, che abbia conosciuto in tal modo un dato individuo reale . Costui può dire indubbiamente a se stesso: Quest' individuo reale, ch' io conosco, è possibile, poichè ciò che esiste è possibile. Dopo aver detto ciò, può dire ancora, facendo uso della sua immaginazione: Ecco che io immagino un altro individuo reale uguale a questo, e del pari un altro, e un altro, all' infinito. Finalmente egli domanda a se stesso: Che cosa ho io pensato fin qui? forse delle astrazioni? e risponde: No certo, ho pensato un numero determinato d' individui reali e non più: ciascuno di questi individui esiste esclusivamente in se stesso, e niuna sua particella, per menoma che sia, è comune a ciascun altro. Io non ho fatto altro, che affermare coll' immaginazione un individuo dopo l' altro, che vedere la possibilità d' individui reali: tutto ciò che è in ciascun individuo pensato rimane sussistente in lui, e fuori di lui non sussiste. Questo è l' individuo vago . Ora, è egli un universale? Se è un universale, è una maniera d' universale ben diversa dalla prima. Poichè, se si vuole descrivere questo concetto, si avrà che con esso si universalizza l' esclusione dell' universale. E in vero, quando si dice individuo reale, si dice: non universale. Onde col dirsi: è possibile questo non universale, altro non si dice se non: E` possibile questo non universale (1). L' universalità qui giace nella possibilità della non universalità. In questa maniera Aristotele si persuase d' aver escluso l' universale nel senso platonico sostituendo l' individuo vago , cioè il pensiero d' individui reali: si persuase d' avere lasciato l' universale come fondamento della scienza e del raziocinio nella possibilità che si replichi il pensiero dell' individuo reale. Senza bisogno d' ammettere alcun universale esistente nella natura delle cose, si persuase finalmente d' aver conciliata in tal modo l' universalità e la singolarità delle essenze. Laonde definendo l' «usia» non solo dice che è la materia, l' ultimo subietto, che non si predica d' altro (2), ma è anche la forma e la specie. Or come ciò? Si badi; la forma e la specie non prese in se stesse, ma inesistenti nelle cose reali o singolari, [...OMISSIS...] , però quella forma e specie che sia un che determinato realmente, [...OMISSIS...] . E ciò, perchè c' è sempre nella parola essenza i due significati d' ideale e di realizzata, e Aristotele si attiene a questo secondo, di maniera che parla di quell' essenza che si contiene nel concetto di individuo vago , che è quello della stessa realizzazione. I questo modo la causa formale essendo realizzata, non si predica del subietto, perchè il reale non si può predicare del reale (1): e così presa anche l' «usia» seconda è in sè reale e singolare, e conviene in questo colla prima. Appartiene dunque all' individuo vago: questo spiega perchè Aristotele desse il nome d' «usia» non solo alla prima (l' individuo) ma anche alla seconda (il genere e la specie): anche questa in quanto inesiste, è singolare e reale. Di qui si scorge ragione del perchè Aristotele non parli mai in un modo diretto e assoluto dell' essere , come d' una cosa unica e da sè; ma in quella vece vi dirà come l' essere si predica o per accidente, o per sè (2); e quando parla dell' essere che si predica per sè, vi dirà che l' essere sono le dieci categorie, di maniera che l' essere come essere non ha unità, è nulla, è solo una maniera di concepire le diverse categorie; come pure ciascuna di queste non ha neppur essa unità e, non essendo una, è nulla (poichè ogni cosa che esiste, esiste come uno), onde di nuovo non è anch' essa altro che una maniera di concepire gli individui reali , i quali solo esistono da sè, «choristos» (3). L' oggetto dunque del pensare è il singolare , l' individuo reale . L' universale poi rimane del modo con cui si pensa l' individuo reale, perchè si può pensar questo individuo reale, e poi si può pensar quello, e poi un altro, e così via: e c' è sempre la possibilità di replicar l' atto ( individuo vago ). Quindi le categorie stesse, se si considerano come realizzate in individui, sono singolari e reali. Ma c' è differenza tuttavia tra la prima categoria, cioè l' essenza sostanziale e l' altre. Poichè la prima dà il nome e la natura all' individuo: così quest' uomo riceve il nome e la natura dall' essenza umana e non dalla qualità del color bianco o da altra categoria (1): onde la prima, realizzata che sia, è lo stesso individuo reale, non così l' altre, che si predicano della prima, e si possono predicare e negare molte volte dello stesso individuo, come se un uomo cangiasse più volte di colore. Di che queste conservano un' altra specie di universalità predicabile, oltre quella propria dell' essenza sostanziale. Quindi la sola sostanza si divise in prima e seconda: intendendo per prima l' individuo reale (2), e per seconda l' essenza sostanziale realizzata nell' individuo, per esempio l' umanità realizzata in Socrate, di cui l' altre categorie o essenze accidentali si predicavano. Crede dunque Aristotele di conciliare l' universalità e la singolarità dell' essenza sostanziale a questo modo: « « l' essenza sostanziale è universale, perchè la mente può pensarla in quanti individui reali ella vuole, ed è singolare, perchè ella non esiste che in ciascuno di questi individui » », è la causa formale della loro esistenza, è ciascuno di essi. Quindi domanda: « « l' essenza sostanziale è universale? è, cioè, di quelle cose che si predicano universalmente? » ». E risponde di no e di sì. [...OMISSIS...] . Con queste ragioni dimostra, che l' essenza sostanziale non può essere un universale; ma egli volge il discorso e risponde anche di sì, cioè che può essere sotto un altro rispetto. [...OMISSIS...] . Vien dunque a dire, che quello stesso universale, se trattasi di quiddità o d' essenza sostanziale, inesiste realmente nell' individuo reale e così è singolare e proprio. L' uomo (l' essenza umana), a ragion d' esempio, è universale in se stesso considerato, ma in quell' uomo reale nel quale inesiste è singolare: l' animale (l' essenza animale) è pure universale considerato da sè; ma inesiste come proprio e singolare nella specie e non esiste da sè, separato. Vero è, che tutto ciò, che si contiene nell' essenza sostanziale d' un individuo reale, non ha una ragione o una definizione: come se prendiamo la ragione d' animale, o d' uomo, questa ragione non abbraccia tutto ciò, che costituisce l' essenza sostanziale e la quiddità d' un uomo singolare e reale; ma non è meno vero, che l' animale, o l' uomo inesiste, come essenza sostanziale, in un modo proprio, nell' individuo reale: e costituisce la causa formale di lui (3). In fatti, continua a dire, poniamo, che l' ousia prima sia un prodotto, come vogliono i platonici che sia la partecipazione dell' essenza. Ne verrà, che l' essenza ( ousia seconda ) sia quella che inesistendo in un individuo reale lo costituisce ciò che è, cioè un' ousia prima . Or se quella non fosse sostanza (essenza sostanziale), sarebbe una qualità o tal altra cosa accidentale; e come allora potrebbe essere costituita una sostanza da ciò che non è sostanza, ma cosa di posteriore alla sostanza? (1) Se poi l' essenza seconda (universale) fosse un' essenza diversa dall' essenza prima e singolare, e quella costituisse questa, ci sarebbe una dualità di sostanze nello stesso individuo, per esempio, in Socrate; [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che l' essenza costituente, e l' essenza costituita sia la medesima. Convien dunque conchiudere, che quella stessa essenza sostanziale, che in quanto si predica di molti è universale, cioè l' ousia seconda , sia quella stessa essenza sostanziale che costituisce l' individuo reale, ousia prima , ed esistendo in questo, è singolare, e questa essenza singolare sia perciò lo stesso termine della predicazione; affermandosi col predicare questa essenza reale nell' individuo. Poichè non c' è un' essenza sostanziale, che non sia di nessuno individuo, ma ogni essenza sostanziale è di qualche individuo, [...OMISSIS...] . Fuori dunque degli individui reali, ossia delle prime essenze sostanziali, altra essenza sostanziale non esiste, che sarebbe superflua a costituire gl' individui reali, e un impaccio. L' essenza sostanziale dunque presa da sè e non riferita ad individui non è punto: [...OMISSIS...] . In questa maniera Aristotele credeva di uscire da quell' ambiguità, da quella specie d' antinomia, in cui la questione degli universali involgeva la mente. Poichè 1 da una parte gli universali sono necessari a costituire la scienza, nulla sapendo l' uomo senz' essi; 2 dall' altra gli universali, come universali, non possono esistere, poichè tutto ciò che esiste è l' individuo singolare, e quest' è ancora l' oggetto vero del conoscere. Ai platonici, che ammettevano le essenze universali separate, le idee, e i singolari esistere per la partecipazione di quelle, faceva questo argomento: [...OMISSIS...] . Credette dunque di comporre quest' alternativa, che secondo lui resisteva al sistema platonico, dicendo: 1 che c' era qualche cosa di singolare negli enti, che non ammetteva alcuna ragione universale , e quest' era « il subietto ultimo »la prima materia: 2 che c' era negli stessi enti qualche altra cosa (l' essenza seconda, cioè la specie e il genere, e l' altre categorie), che si predicavano universalmente e in comune: questo predicarsi universalmente non voler dir altro, se non che lo spirito umano può attribuire a diversi individui la stessa qualità. Ma questa qualità predicata può essere essenziale, ed è quella che si dice « sostanza seconda », e significa un quale circa la sostanza prima, [...OMISSIS...] . Quest' è quella qualità sostanziale, quell' universale (la specie e il genere), che illustra, fa conoscere la sostanza prima, e però si chiama sostanza seconda (4). Ecco dunque che cosa sono gli universali d' Aristotele; non sono, nel senso proprio e vero, sostanze, ousie , come li vuole la scuola platonica: quindi sono posteriori alle sostanze (per le quali sempre s' intende la realità), qualità di esse, qualità o essenziali o accidentali. Ma così è forse sciolta la questione? Non ancora; perchè rimane a domandare tuttavia « come questi universali esistano nei singolari ». Da prima risponde, come vedemmo, che ciò, che si afferma colla predicazione, si afferma esistente nell' individuo singolare e reale, come una qualità di questo; perciò la cosa affermata è anch' essa inesistente come singolare e reale. Ma perchè dunque si dice universale? Perchè lo spirito può replicare lo stesso atto di predicazione rispetto ad altri individui. Questa risposta, di cui si fecero forti i nominali, non può soddisfare, se non a chi non l' analizza. E veramente, sia pure che lo spirito predicando affermi d' un individuo una qualità reale, e d' altri ancora la stessa qualità in ciascun d' essi reale, ma rimane a spiegare come questa qualità sia la stessa . Come più qualità reali, ciascuna delle quali inesiste come propria in diversi individui, possono essere una stessa qualità? Nè varrebbe il dire, che non sono le stesse, ma simili : poichè più cose non sono simili, se non hanno almeno qualche elemento uguale . Ritorna dunque la questione: « come più elementi reali possano essere un elemento uguale ». Aristotele crede di sfuggire alla difficoltà con una parola nova che introduce: dice dunque, che è uguale la loro ragione , «logos», distinguendo la realità dalla ragione della medesima, come vedemmo ne' passi citati. Ma una parola nova non iscioglie la questione. Che cosa è la ragione della realità? Ecco quello che Aristotele non dice, e dove rimane sana e salva, sebbene appiattata, l' idea che si vuole escludere. Questa ragione dunque sarà la conoscibilità delle cose, l' universale fuori delle cose. Si dirà che ella è un atto della mente? Sia pure. Ma che un atto della mente sia un quale della mente, s' intende: ma non s' intende come un atto della mente sia un quale delle cose, se pure le cose, per esempio le pietre e gli alberi, sono sostanze diverse dalla mente, e non la medesima sostanza prima, «usia protos». Il problema dunque della cognizione umana, come pure quello de' generi e delle specie delle cose, rimane insoluto, nelle mani del discepolo dissidente di Platone. Abbiamo veduto, che la parola subietto, secondo Aristotele, si prende in tre significati, come materia, come forma, e come l' ente reale composto di materia e di forma. La materia è il subietto ultimo di cui tutto si predica, anche l' essenza sostanziale, o sostanza seconda. Il composto di materia e di forma è un subietto, di cui propriamente non si predica l' essenza sostanziale seconda, che è uno de' componenti (la forma), ma gli accidenti. Del subietto come forma, cioè dell' essenza sostanziale o sostanza seconda, si predicano del pari gli accidenti (1): onde questi sono predicati di predicati, e però vengono ad avere una doppia universalità. Ma restringendo il nostro parlare alla forma, cioè all' essenza sostanziale o sostanza seconda, questa è quella, come vedemmo, che fa conoscere l' essenza prima, ne dichiara la natura, ne è, si può dire, la sua intelligibilità, in quant' è universale, ossia concepita come comune o predicabile di molti individui. Ma qui appunto s' affaccia ad Aristotele una nuova difficoltà: se cioè la forma reale e la specie siano cose perfettamente identiche. Il sistema aristotelico esige strettamente questa identità, perocchè in un tale sistema non esistono specie fuori degl' individui reali; e però spesse volte Aristotele usa promiscuamente dell' una e dell' altra parola. Ma non può reggere a lungo in questa confusione di cose così disparate, l' una essendo una realità, l' altra una idealità. Che cosa fa egli adunque? Ricorre all' espediente di dare due significati diversi alla stessa parola specie , o alla stessa parola forma . Chi non sente qui l' imbarazzo e la contraddizione? La specie è diversa di materia in Callia e in Socrate, ma è la medesima di specie . Conviene dire che la specie riceva in queste parole due significati, cioè sia adoperata specie per forma reale , la quale è molteplice e può considerarsi come subietto [...OMISSIS...] , e sia pure adoperata per specie o idea universale, qual è nella mente, che certamente è una e indivisibile (1). Ora, come poi quella forma reale , che dice in un modo essere subietto, sarà schema dell' idea, [...OMISSIS...] , come altra volta l' ha chiamata? (2). Che differenza c' è dunque tra lo schema dell' idea , e l' idea ? Questo rimane oscuro in Aristotele, non potendosi nel suo sistema interpretare questo schema, come si potrebbe in quello di Platone per una cotale copia dell' idea esemplare, nel qual modo cessano le difficoltà. Un altro impaccio. - Aristotele dice, che [...OMISSIS...] . Come poi, essendo uno e semplice, possa inesistere in molti, questo non lo dice, non soddisfacendo la spiegazione, che abbiamo esposta nei capitoli precedenti. Quando poi dice, come testè vedemmo, che è diverso nei molti per la materia, ed è il medesimo per la specie, [...OMISSIS...] , allora non s' accorge, che questa specie appunto, e non altro, è l' universale; onde il dire, che l' universale è il medesimo per la specie, è lo stesso che dire, che « « l' universale è il medesimo per l' universale » », cioè per se stesso, e se è il medesimo per sè, come dunque sarà diverso per la materia restando universale? O come sarà identico al singolare quello, che è universale per sè? L' attribuirgli un nome novo, quello di ragione, «logos», questo, come vedemmo, lascia la questione intera, come prima. Laonde, spinto dall' evidenza del vero, talora gli viene detto il contrario (senza avvedersi della contraddizione), come là dove, dopo aver parlato delle prime sostanze, cioè delle sostanze singolari che chiama « primi degli enti », dice che nelle sostanze seconde, che sono una classe d' universali, inesistono le prime, come nelle loro specie, [...OMISSIS...] . Questa maniera, che si adatta ottimamente al sistema platonico, è al tutto discrepante dall' aristotelico. Del rimanente l' una e l' altra delle due opposte espressioni, prescindendo dai sistemi, ha la sua verità. Poichè dovendosi distinguere in tutti i percepiti e i concetti la comprensione e l' estensione , sotto l' aspetto della comprensione gli universali sono nei singolari, e sotto l' aspetto della estensione i singolari sono negli universali. Ma convien riflettere, che quando noi diciamo, che gli universali sono ne' singolari, intendiamo (e non si può intendere altramente), in quanto sono percepiti o concepiti nella mente, perchè solo nella mente si può congiungere l' unico universale ai molti singolari. E tuttavia non v' ha dubbio, esser vera, assolutamente parlando, ed essere importante e luminosa questa sentenza di Aristotele: « « tolte via le sostanze singolari, non ci sarebbe più nulla »(2) ». La qual sentenza non gli può essere certamente contesa da Platone, che ogni cosa deriva da Dio, alla cui natura compete al sommo l' unità e la semplicità. Ma il guaio sta nell' applicare questo stesso principio alle cose finite e mondiali, alle quali pure l' estende Aristotele. Se questo filosofo avesse posta la necessità d' una sostanza singolare precedente a tutto, mente infinita, dove fosse l' universale eterno, e quindi la fonte delle idee, sarebbe andato d' accordo con Platone. Ma parlando delle specie in relazione agli enti reali della natura, pretese, che anche in quest' ordine le sostanze singolari precedessero agli universali. Egli non potè certamente mantenere un linguaggio coerente a un tale assunto. E veramente, se le sostanze prime e singolari sussistono nelle specie come potranno essere i primi degli enti? Il contenuto potrebbe essere prima del contenente? Aristotele medesimo dice di no; insegna anzi, che i contenenti si dicono anteriori ai singolari; [...OMISSIS...] . Di più egli riconosce senza esitazione, che la sostanza singolare riceve il suo nome e la sua definizione, e quindi la sua quiddità (2) dalla specie che di essa si predica, e che perciò è universale. [...OMISSIS...] La quiddità dunque viene alla sostanza singolare dalla specie universale, che le s' attribuisce, e quella si conosce dalla mente con questa. Come dunque quella sarà prima, se riceve la sua quiddità, l' esser quello che è, da questa? Come sarà prima ciò che si conosce, di ciò, con cui si conosce? Come si avrà il fine prima d' avere il mezzo necessario ad ottenerlo? Si può stringerlo ancor più cogli stessi suoi ragionamenti. Poichè egli pone, che gli accidenti sieno nelle sostanze, come in loro subietto. Dall' essere essi nelle sostanze, argomenta che non sono dunque i primi, e che senza le sostanze non ci sarebbero le altre cose degli enti (4). Ottimamente; ma quest' argomento trae la sua forza dal principio accennato, che « il contenente è anteriore al contenuto ». Ora egli colloca le sostanze singolari nelle specie, che danno loro la quiddità. Come dunque non deduce, secondo lo stesso principio, che le specie abbiano un' anteriorità a quelle singolari sostanze, e in quella vece pretende che sa il contrario? In un altro luogo, volendo provare, che non ci sono elementi comuni alla sostanza e all' altre categorie, dice che, se ci fossero, sarebbero anteriori alle categorie, perchè l' elemento è anteriore a ciò, che consta d' elementi. Ma anteriormente alle sostanze non c' è nulla. Riconosce dunque che il più comune, ossia il più universale ha un' anteriorità al singolare (1). In un altro luogo però dice, che la materia e la ragione «logos» cioè la specie, in quelle cose che si fanno per natura, sono ad un tempo (2). Se sono dunque ad un tempo la materia e le specie componenti la sostanza reale, come questa può esser prima, e non tutt' al più coeva a quelle? Pur egli va avanti e trae da quelle premesse questa conseguenza: [...OMISSIS...] . Ma qui c' è un salto nel ragionamento, perchè da premesse, che riguardano cose naturali e reali, si passa ad una conclusione che riguarda l' ordine delle cose ideali . C' è anche una petizione di principio, perchè sarebbe vero, che, essendo nelle cose reali la forma e la materia ad un tempo, non fossero necessarie le idee, quando non ci fosse da spiegar altro che le cose reali; ma se oltre queste ci sono le specie, se ci sono le cose possibili , che non essendo reali pur sono qualche cosa, in tal caso, ci sono anche queste da spiegare, e così le idee ridivengono necessarie. Quella conclusione dunque vale a condizione, che sia vero il principio, che colla conclusione stessa si vuole stabilire: pecca dunque di circolo. E questa conclusione era probabilmente venuta, o certo più facilmente ammessa, per una falsa maniera di parlare già introdotta nelle scuole, e da Platone stesso, mi pare, usata, od accettata, quella cioè che chiamava la materia il tuttinsieme «to synolon», o tutte cose, «panta», onde la questione [...OMISSIS...] come la propone Aristotele, questione che ha una ripugnanza intrinseca. Aristotele fa dunque gli universali ora posteriori, ora simultanei, ora anteriori ai singolari. Ma vediamo, se facendo uso delle sue sottili distinzioni, possiamo conciliarlo seco medesimo. Circa l' anteriorità nell' ordine della cognizione, che dice essere un' anteriorità assoluta (1), così distingue: [...OMISSIS...] . Ma che secondo il senso sieno anteriori i singolari agli universali, non c' è, a dir vero, bisogno di dirlo: poichè il senso, secondo Aristotele stesso, è dei soli singolari, e non raggiunge punto nè poco gli universali, se non per un certo parlare improprio e traslato. Laonde, quando Aristotele gli attribuisce gli universali per accidente (2), altro non fa che impacciare la nettezza del ragionamento, non potendo significare un tal modo di dire, così caro al nostro filosofo, se non che l' intendimento vede nella sua universalità quello, che nel senso è singolare. Ma il vedere questo non è altro, che il vedere la ragione della cosa sensibile, ossia la specie , la quale non è certamente lo stesso sensibile reale, nè con lui si può confondere, ma è appunto l' universale, e nient' altro che questo, riferito al singolare. Ora, secondo Aristotele, il solo intendimento ha per oggetto l' essere o la ragione della cosa (prendendo Aristotele questi due vocaboli come equivalenti): l' ordine dunque della cognizione, «kata logon», è l' ordine dell' essere e della verità, che nella mente e non nel senso si trova. Di nuovo dunque, nell' ordine dell' essere delle cose, l' universale è anteriore al singolare, parlando sempre delle cose contingenti. Finalmente, secondo lui, sono anteriori le sostanze singolari, perchè, dice, queste sole producono le altre colla generazione, e non producono la specie separata dalla materia, ma tutt' insieme. Quei primi principŒ, che sono in atto, « « non sono universali. Poichè il principio dei singolari è singolare. L' uomo detto dell' uomo è universale, ma non ce n' è alcuno »(1) »; ci sono soltanto degli uomini singolari. Quelli dunque sono i principŒ, e i principŒ sono anteriori. Ottimamente. Ma questo non prova, se non che il singolare generante è anteriore al singolare generato: il che non ha a far nulla colla questione delle specie. Questa comparisce ben tosto appresso, quando convien spiegare come la specie , essendo una e comune a molti, non sia qualche cosa di diverso da ciascuno dei molti, ed anteriore a tutti i singolari, e generanti e generati, potendo ella accomunarsi colla mente anche a qualunque numero di singolari possibili. Qui si sente l' imbarazzo del nostro filosofo, che si involge nell' oscurità. [...OMISSIS...] (2). Dunque s' abusa della parola specie , perchè 1 si dice che la specie mia non è la sua , la specie di ciascuno singolare è diversa (qui si prende evidentemente come forma reale ); 2 e pure si dice, che queste diverse specie non differiscono di specie o di ragione . Sono dunque due le specie, l' una singolare diversa in ciascuno dei singolari, l' altra universale, comune a tutte le specie singolari. Aveva dunque ragione Platone di dire che le cose sensibili non hanno la specie universale , ma solo la imitano, che la forma de' singolari è una certa copia o imagine della specie; e Aristotele non avrebbe fatto altro, che estendere la denominazione di specie a quello che non è veramente specie , fondando il suo nuovo sistema sopra un equivoco di parole. Così dunque Aristotele, parlando delle cose, che si generano, ossia, come dice, dei principŒ dei sensibili (1); ma venendo a quella specie, che è nella mente dell' artefice, confessa apertamente, che la specie è anteriore all' opera. E questo per lui è un nuovo imbarazzo. Vediamo come anche di questo procacci di uscire. Confessa dunque, che nell' opere dell' arte le specie sono anteriori, ma queste, dice, inesistono nell' opifice, e perciò in un reale, perchè « « le cause moventi (come l' opifice) esistono come nate avanti » ». L' arte non è un principio insito in ciò che si fa, com' è la natura, ma in un altro; [...OMISSIS...] . Onde, quando si cercasse la specie dell' opifice stesso, allora si troverebbe coesistente alla sua materia, e non anteriore. Ma di quante difficoltà rimane involta questa risposta? La prima è quella di sapere, se la specie , che è nell' artefice, sia specie dell' artefice stesso. A ragion d' esempio: la specie della casa, che è nella mente dell' artefice, è la specie dell' artefice, o dell' opera futura dell' artefice? Aristotele qui si trova in un impiccio tanto maggiore, quant' è maggiore l' acutezza della sua mente: ei si dibatte seco stesso tra le contraddizioni. Comincia dal dirvi, che [...OMISSIS...] ; e così mentre si parlava prima dell' artefice, ora si parla dell' arte, quasichè l' arte e l' artefice sia la medesima cosa. Ricomparisce dunque, sebbene con altra forma, la stessa questione: « se l' arte sia la specie dell' artefice, che opera secondo l' arte, o della sua opera futura ». Quand' anco dunque la specie , secondo cui opera l' artefice, si chiamasse arte , non sarebbe con questo sciolta la questione: « se la specie della casa nella mente dell' artista sia la specie dell' artista, o qualche cosa di diverso da esso, sostanza operante, che la possiede, qualche cosa fornita di caratteri e di natura propria », poichè la sostituzione d' un nome non scioglie la questione. Oltracciò il confondere la specie coll' arte va in opposizione cogli stessi principŒ d' Aristotele, il quale insegna che la natura , e l' arte sono due principŒ motori, l' uno interno e l' altro esterno, e insegna pure che la specie all' incontro è ciò, in cui tende il moto, [...OMISSIS...] , e che « « nè move, nè si move » » [...OMISSIS...] , poichè le forme o specie sono immobili [...OMISSIS...] . Dunque le specie non sono l' arte , come l' arte non è l' artista, sostanza reale e prima per Aristotele. Di più, se la specie, per confessione d' Aristotele « « è ciò in cui tende il moto com' a suo fine » », questo, che si dice anche « « primo nella mente dell' artista, e ultimo nell' operazione »(4) », conviene pure che sia qualche cosa, prima che l' opera abbia raggiunto e sia realizzato, poichè, se ci tende, non l' ha raggiunto ancora. Nè si dirà, che il moto tenda nel nulla, perchè anzi ciò, in cui tende, è dichiarato più nobile di quelle cose, che sono al fine (5). La specie dunque è qualche cosa d' anteriore alla sua realizzazione, secondo i principŒ riconosciuti da Aristotele medesimo: ma quest' elemento anteriore al reale finito sfuggì alla mente del filosofo. Quando poi ei non era preoccupato da questa terribile questione delle idee, confessava ingenuamente, che la specie, per esempio: la sanità (nella mente del medico) non è operativa, e però non è l' Arte, se non per la metafora; [...OMISSIS...] . Perchè dunque, quando nella questione delle idee si trova stretto, dice, che la sanità stessa è l' arte, cioè una causa operativa, senza avvertire il lettore della metafora? La ragione è chiara; se ne l' avesse avvertito, svaniva l' argomento. Ed è da notarsi, che come, per via di metafora, confonde l' Arte colla specie, così confonde pure colla specie, per un' altra metafora, la Natura, che è l' altro motore, cioè il motore interno; onde ne dà una doppia definizione, ossia la fa risultare da un doppio elemento, chiamandola ad un tempo un certo chè e un cert' abito a cui , [...OMISSIS...] . Il certo chè è la specie, l' abito poi a cui , è la tendenza alla specie, che ancora manca nella materia. Per natura dunque intende la specie, ma con aggiungervi un principio abituale attivo: dove osserviamo, che se la specie ha bisogno di quest' aggiunta, dunque essa da sè non è attiva. [...OMISSIS...] (1). Allo stesso modo dunque, che altrove fa risultare l' individuo dalla materia e dalla specie , qui il fa risultare dalla materia e dalla natura , sostituendo alla specie la natura, e per poter far ciò v' inserisce un abito attivo, e tuttavia non crede di moltiplicar con questo i suoi principŒ che sono costantemente tre: la materia, la specie, e la privazione. Ma in fatto non bastandogli la specie a spiegare la produzione delle cose, ci aggiunge un abito attivo che è veramente un quarto principio, che egli dissimula, e chiama così la specie , resa da lui attiva, col nome di natura . Tornando dunque a ciò, che dicevamo in principio, il luogo citato parso oscurissimo agli interpreti, che si dividono in varie sentenze, secondo noi contiene uno sforzo, che fa Aristotele, per conciliare il suo sistema « delle specie non altrove esistenti che nelle sostanze reali » col fatto delle operazioni e produzioni dell' uomo, che si fanno dietro le specie che sono nella mente dell' uomo stesso, e non nelle cose. Analizziamo senz' altro il nostro contesto. Ivi si propone di mostrare che « « nè la materia, nè le specie si fanno » ». E, tra gli argomenti, che adduce, il principale è questo, che ciò, che si fa, esige un principio, dal quale si faccia ( «u») e quest' è la materia , e un altro, in cui termini l' operazione ( «eis ho») e quest' è la specie . La materia dunque e la specie sono condizioni di ogni trasmutazione: dunque nè l' una nè l' altra si genera ( «u ginetai»), chè altramente s' andrebbe all' infinito, convenendo, che, se la materia o la specie fosse l' effetto della trasmutazione, ci fosse un' altra materia, e un' altra specie anteriore, e così senza fine. Ma la specie , che è nella mente dell' artefice, è ella forse il principio «eis ho», ossia «eis ti» ( « in quod, in aliquid »)? - Qui comparisce la difficoltà, perchè la specie reale, in cui termina la trasmutazione, non è nella mente, ma nella cosa prodotta dalla trasmutazione. Introduce dunque un terzo principio, che è il principio movente [...OMISSIS...] , e dice che appartiene a questo principio movente l' Arte, e che l' Arte è lo stesso che la specie, secondo cui opera l' artefice: quasi dica, che i principŒ moventi, essendo nati prima, [...OMISSIS...] , si dee cercare, come sia nata l' arte in un altro discorso. Ma con questa risposta riserva la questione e non la scioglie. Traduciamo ora le parole del testo come noi crediamo che vadano intese: [...OMISSIS...] . Pare che gli rincresca d' introdurre quest' arte, perchè lo fa dubitativamente, benchè tosto appresso, rinfrancato, ne parli in modo assoluto: quella specie dunque, che è l' arte , è fuori della casa reale, che è la sostanza composta di materia e di forma. [...OMISSIS...] ; in un altro per verità da quello delle cose naturali. - Qui confessa, che l' arte, la specie nell' artefice, è, ma in un altro modo da quello in cui sono le specie nelle sostanze naturali (e certamente anche nelle sostanze prodotte dall' arte, dove la specie è unita intimamente colla materia e da questa inseparabile). Non dice tuttavia quale sia questo modo, e però riserva di nuovo, e non iscioglie la questione. Dice bensì, che non si generano, nè corrompono: con che confessa di più, che tali specie sono privilegiate sopra quelle che si generano e si corrompono, e però sono in questo agguagliate a quella che prima avea chiamata « « l' ultima ( «ta eschata») » »; cresce con ciò, anzi che diminuirsi, la difficoltà. [...OMISSIS...] Traducendo così questo luogo io m' allontano alquanto dalla comune interpretazione; ma parmi che inteso così riesca più chiaro. Aristotele vuol persuadere, che tutto ciò che c' è, si riduca alle sue sostanze prime , cioè alle sostanze reali composte di materia e della specie che la finisce e determina. Ora questa mi pare, che voglia indicare colle parole «tes malist' usias he teleutaia», e che esse non si devano già riferire alla materia, essendo proprio della specie l' esser fine, e non della materia, che è indeterminata e senza fine per se stessa, e l' ultima materia si direbbe «eschate» ma non «teleutaia» (1). A quell' «he teleutaia» dunque si deve sott' intendere, per quant' io credo, «usia», che è la specie sostanziale, la seconda sostanza [...OMISSIS...] , finale della prima [...OMISSIS...] . Trae vantaggio da una sentenza di Platone, approfittandone a suo modo. Platone avea detto, che le cose reali e sensibili sono l' altro o il diverso delle specie, e le specie l' altro o il diverso delle cose «alla tuton»: di qui vuol conchiudere Aristotele, che le cose e le specie sono relativi indisgiungibili. Avea detto ancora Platone, che le essenze delle cose tutte sono le specie , e poichè nominandosi le cose si nominano le loro essenze, quindi le cose tutte sono specie; [...OMISSIS...] ; il che ammette e riconosce costantemente per vero Aristotele per tutto, ov' insegna, che le seconde sostanze, [...OMISSIS...] , quali per lui sono le specie sostanziali, si predicano delle prime, cioè delle sostanze reali [...OMISSIS...] in modo, che a queste si dà il nome e la definizione di quelle (e la definizione esprime l' essenza): onde se si domanda d' un uomo reale, (prima sostanza) « che cosa è », si risponde giustamente: « è un uomo »(seconda sostanza), il che ritorna alla sentenza platonica «eide estin hoposa physei» (3). Da questo adunque argomenta Aristotele, che le specie non ci possono essere, secondo Platone, che delle sole cose in quanto sono naturali, e non in quanto sono fatte da un artefice intelligente: le specie, dunque, conchiude, devono essere nelle nature reali, coerentemente alla dottrina di Platone, e resterà poi sempre a spiegare, che cosa sia la specie nella mente dell' artefice. Ora questo procura veramente di farlo nel primo dei posteriori, e nel terzo dell' anima; ma come gli riesce? Ci troviamo alcune sentenze generali, ma la questione non si lascia vincere (4). Vediamolo. Aristotele suppone, che l' intendere « sia un patire, simile in qualche modo, a quello del senso »; [...OMISSIS...] . Ora l' intendere è tutt' altro, poichè la sensazione o il fantasma non significano nulla, l' intendimento all' incontro rende lo stesso fantasma significativo degli enti . Come avvien dunque ai fantasmi stessi l' abilità di significare ? Questo è quello, che Aristotele non s' accorge punto di dovere investigare (6). Se avesse frugato qua entro avrebbe probabilmente conosciuta una verità, che gli sarebbe stata luce nova; perchè avrebbe veduto, che segno non si dà, senza che preesista una idea, avente un' esistenza obiettiva (1). L' idea dunque da Aristotele è supposta, non ispiegata, e in vano negata. Se si suppone che dalla passione sofferta dall' azione della sostanza reale resti qualche cosa nell' intelletto, a quel modo che spiega nel primo de' Posteriori, come, dimandiamo di novo, questa cosa, che resta, sarà un segno, come sarà rappresentativa d' una sostanza reale? Il nodo sta qui, e sfugge interamente ad Aristotele. Suppone senza difficoltà, che quello, che resta nell' anima, sia l' intelligibile , «noeton»; ma non si tratta di supporre l' intelligibile, bensì spiegare come una cosa qualunque possa essere intelligibile. Dice che la forma, in quest' azione della sostanza reale sull' intelletto, si separa, e conchiude che « come le cose sono separabili dalla materia, così sono le cose intellettuali » [...OMISSIS...] . Quello che si separa, secondo lo stesso Aristotele, è l' essere della cosa dalla cosa , come l' essere della carne dalla carne [...OMISSIS...] ; la quiddità [...OMISSIS...] ; il comune . Ma se veramente si separa quest' elemento intelligibile, quest' essenza seconda dei reali, e il filosofo non ci tiene anche qui a bada con delle metafore, è da conchiudersi, che le specie non sussistano solo nelle sostanze reali, ma anche separate, e nelle menti, e sieno di due maniere e d' opposta natura. Nel qual caso egli si fa con Platone, e rinnega il proprio sistema. - Vuol egli dire, che queste specie prima si trovano nelle sostanze reali, e posteriormente nell' intelletto, a cui dà la facoltà di prendersi per sè quell' elemento separandolo dalla materia? - Ma d' altra parte la specie comune non può stare in nessuno dei singoli, chè un singolare, come tale, niuna cosa propria comunica all' altro, ma è finito tutto in se stesso. Pure Aristotele, senza vedere, che quest' è impossibile, è obbligato dalla necessità del sistema ad ammettere il comune ne' singolari reali, e lo chiama « l' uno ne' molti »(3). Che se è uno , separato quest' uno da' molti per opera dell' intelletto, s' ha una specie sola partecipata da' molti, che è quello appunto, che attribuisce a Platone, [...OMISSIS...] , ma Platone la faceva anteriore alle cose finite, e da queste partecipata, Aristotele la vuole posteriore, e da queste partecipata all' intelletto umano, per un' operazione di questo, ritornando così indietro dal cammino fatto da Platone, e ravvicinandosi a' Pitagorici (1). Oltrechè poi, essendo manifestamente impossibile, che nei singolari, che come tali hanno una esistenza ciascuno separata, e senza alcuna comunanza, ci sia il comune o l' universale (e se non vi fosse l' intelletto non potrebbe separarlo), Aristotele è obbligato, per sostenere il suo sistema, d' adoperare delle frasi contradditorie. A ragion d' esempio dice che la specie è l' « uno ne' molti »(2), cui l' intelletto poi separa. Ora mentre qui fa, che la specie, cioè la sostanza seconda, inesista ne' molti singolari e reali, che sono le sostanze prime, tutto il contrario dice nel libro delle Categorie, dove, come abbiamo veduto, insegna, che le sostanze prime sono nelle sostanze seconde o specie; [...OMISSIS...] . Ora questo, che le sostanze reali (finite) sieno nelle ideali, non involge punto contraddizione, perchè s' intende, come nell' universale possa dirsi che si contiene il singolare ; ma che nel meno stia il più, nel singolare l' universale, l' idea nella realità, questo manifestamente ripugna, a meno che si consideri il reale, non quale è in sè, ma qual è pensato dall' intendimento; dove il reale è composto di reale e d' idea, e in questo composto l' intendimento può trovarci l' idea, come la parte che sta nel tutto; ma questo modo di concepire l' ideale nel reale pensato, o favorisce Platone, e non Aristotele, o riconduce Aristotele a Platone. Se dunque noi prendiamo da Aristotele quello che ci concede, che « le cose non si potrebbero conoscere per mezzo delle specie qualora queste non fossero nelle cose »verremo contro lui stesso ad argomentar così: « le specie che sono universali non possono esistere ne' singolari reali, ciascuno de' quali ha un' esistenza chiusa nella propria realità: ma quando i reali singoli sono conosciuti da un intendimento, allora c' è ad un tempo presente a questo, sebbene in diverso modo, la realità di ciascuno, che niente ha di comune colla realità degli altri, e la specie universale e comune, che coll' astrazione si può segregare. Dunque questa specie universale, che è l' intelligibilità de' reali, vien posta dall' intendimento, e non è ne' reali quali sono fuori di questo ». Ma pure conviene, che Aristotele ci dica chiaro, se la forma reale , che ha ciascuno degli enti finiti, sia numericamente la medesima colla specie , che è nell' intelletto che li conosce, o se questa sia diversa e forse una similitudine di quella. Non dimandiamo, se si chiamino equivocamente con uno stesso nome, perocchè gli equivoci non sciolgono le questioni, ma se si tratta d' una identica e univoca specie. Se dice, che sono diverse, benchè simili, in tal caso ricade su di lui la censura, ch' egli fa a Platone, di moltiplicare gli enti, e per ispiegare i reali introdurne altrettanti e più d' ideali (1). Nè varrebbe cos' alcuna l' aggiungere, che le specie dell' intelletto sono simili alle specie o forme delle cose reali: poichè lo stesso può dir Platone; e poi, come sa egli che siano simili se non confrontandole? E per confrontare la specie reale e l' ideale, conviene avere presenti all' intelletto sì quella che questa: ma se quella si conosce, questa seconda è inutile «( Ideol. 107, not.) ». Di più, se sono simili hanno una specie comune , e intorno a questa rinascerà la stessa questione, onde s' andrebbe all' infinito colla serie delle specie «( Ideol. 11.0 7 11.9) ». Dirà dunque, come effettivamente risulta dai luoghi allegati, che sono identiche numericamente. Ma questo è impossibile secondo i suoi stessi principŒ: e vediamolo. 1 Aristotele riconosce, che la forma degli enti è singolare; e che la specie dell' intelletto, con cui si conosce, è un universale . Il singolare non può essere identico coll' universale; nè vale il dire che l' intelletto è quello che aggiunge l' universalità, perchè l' universalità non è una cosa accidentale, che si possa aggiungere o levare alla specie, ma la specie è universale essenzialmente, e questa universalità deriva intrinsecamente dalla natura della specie stessa; 2 Aristotele dice, che [...OMISSIS...] ; dunque la specie nell' intelletto si produce all' atto dall' operazione dell' intelletto stesso. Ma la specie, forma dei particolari reali, è già prodotta all' atto in essi prima ancora che sieno conosciuti. Il che tanto più vale per Aristotele, che non riconosce necessario all' esistenza dei sensibili che sieno conosciuti, mettendo in beffa gli esemplari di Platone (2). Non possono dunque esser la stessa cosa la forma de' reali , e la specie dell' intelletto , facendosi quella in atto, quando questa non è in atto, ma ha bisogno, che l' intelletto stesso la renda in atto; 3 Aristotele dice, che la forma, che è l' essere stesso delle cose, è separabile dalla materia per opera dell' intelletto. Nell' intelletto dunque la forma o specie è separata dalla materia, ed è quello ch' egli chiama l' intelligibile ( «to noeton») (3). Ora la stessa numericamente, ed identica specie, non può essere, alla maniera di concepire aristotelica, nello stesso tempo, separata ed unita colla materia: dunque di nuovo la specie , che è nell' intelletto, non può esser quella stessa che è ne' reali (4). A malgrado di tutto ciò Aristotele è obbligato dal suo sistema d' ammettere, che la specie nell' intelletto e ne' reali sia veramente identica, poichè se dicesse questo per metafora, intendendo che sono simili, che forza avrebbe il suo argomento contro Platone d' aver coll' introdurre le idee moltiplicati gli enti inutilmente, rendendo anzi più difficile la spiegazione dell' esistenza delle cose? Ma per sostenere la detta identità, quanti assurdi non deve egli ingoiare? Primieramente è assurda questa proposizione: [...OMISSIS...] . Ora la scienza contemplativa è forse l' intelligente? No certamente; ma l' intelligente ha la scienza. Sia pur dunque, che la scienza si possa dire il complesso delle cose intese, non è per questo che l' anima intelligente sia queste cose. Ignora Aristotele, con tutta l' antichità, la profonda differenza tra l' esistenza subiettiva propria dell' intelligente, e l' esistenza obiettiva propria degl' intesi, che è il filo che riconduce da questo labirinto, o almeno egli confonde spesso in uno queste due cose. Aggiunge Aristotele che [...OMISSIS...] . Che se è ben detto, che l' anima intellettiva sia il luogo delle forme in potenza, consegue che l' anima intellettiva sia distinta dalle forme, come il luogo da ciò che occupa il luogo. E se le forme sono identiche nell' anima e ne' reali, sono nell' anima anche i reali indivisi dalla loro forma, il che nega Aristotele. Sembra piuttosto manifesto, che Aristotele, quando dice separabile per la virtù dell' intelletto la forma dalla materia, non considera le cose in sè, quali sono fuori della mente, ma quali sono nella mente concepite dall' anima. L' una delle due dunque: o le sostanze reali e prime non esistono che nella mente, o se esistono fuori della mente, non ha luogo la separazione: o si ammette che esistano identiche fuori e dentro, e in tal caso la mente non è più il proprio luogo delle forme, perchè queste stanno anche fuori della mente. Ma se le specie esistono nell' anima intellettiva solo in potenza, anche l' anima stessa esisterà solo in potenza, poichè « è il medesimo ciò che intende, e ciò che s' intende », e ciò che intende è l' anima intellettiva, ciò che s' intende sono le specie. Non si ritrae Aristotele da questa conseguenza, anzi chiama l' anima [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' uomo, secondo Aristotele, un' anima intelligente possibile, che è lo stesso che le forme possibili. Ora come è tratta poi quest' anima all' atto? Sente egli stesso che non può bastare il definire l' intelligenza un che puramente possibile, un suscettivo delle forme, e però è obbligato d' aggiungere all' anima stessa [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' anima una mente che diventa tutte le forme, [...OMISSIS...] ; e un' altra mente che la fa diventar tutte le forme. Ora quella mente che produce le forme non può essere le forme stesse da lei prodotte, perchè produrrebbe in tal caso se stessa: oltredichè le forme sono in potenza, e questa mente che trae le forme in atto, è per essenza in atto, separabile dalla materia, immista e impassiva; [...OMISSIS...] . Non può esser le forme nè pure dopo che le ha prodotte, perchè non le produce in sè stessa, ma nell' altra mente possibile, che è suscettiva delle forme, e che diventa tutte le cose. Tuttavia dice che questa mente producente è più eccellente dell' altra e sola immortale e perpetua. [...OMISSIS...] . Gli Arabi intesero, per questa mente separata, una mente separata dall' uomo, poniamo la mente divina; ma questa interpretazione è chiaramente smentita da Aristotele, che dice tale differenza, di mente in potenza, come materia, e di mente in atto, dover essere nell' anima stessa, [...OMISSIS...] . Se dunque la mente in atto trae la mente in potenza a divenire le specie in atto, e però quella è diversa dalle specie in atto da essa prodotte, e pure, quella sola è immortale e perpetua: convien dire che c' è qualche cosa di più eccellente delle specie stesse in atto, e queste periscono, quella poi sopravvive. Ma in tal caso come fa egli che la mente agente sia la scienza in atto, la quale è appunto il complesso delle specie in atto, come avea detto avanti? e queste stesse specie in atto aveva detto essere quella mente possibile che diventa tutte le specie? Poichè torna a dire, a proposito della mente agente, che « « quella scienza, che è in atto, è il medesimo che la cosa (4) » ». L' apparente contraddizione mi sembra conciliarsi a questo modo. E` da ritenersi che, secondo Aristotele, tutte le sostanze mondiali sono composte di materia e di forma, ma il loro essere sta nella forma (5), la materia poi, benchè non sia la forma, riceve da questa l' essere per sì fatto modo, che senza questa non esiste, e se si considera in separato non rimane più che un concetto astratto di relazione, come insegna espressamente nel secondo de' libri fisici. La forma dunque e la materia sono unite sì strettamente, che costituiscono un solo essere chiamato da Aristotele « « quella che da prima è sostanza » » [...OMISSIS...] . Questa dottrina l' applica egli anche alla natura dell' anima. [...OMISSIS...] . Ora questa materia e questa forma dell' anima sono la mente possibile e la mente agente. Queste due menti non si devono disgiungere, ma unite fanno un solo subietto intelligente, una sola anima intellettiva completa. L' effetto della loro unione, quando la mente possibile abbia ricevuto le disposizioni preambule , sono le specie. Queste adunque sono come il nesso tra la mente possibile e l' agente, e il termine d' entrambi: la mente possibile dunque le riceve per la sua unione e aderenza colla mente agente; ma come le forme sono atto, dipendono e appartengono a quest' ultima: così la materia riceve la forma, ma non è, e non diviene perciò la forma: la mente agente poi avendo la materia (la mente possibile e le condizioni preparatorie su cui operare) emette un atto che non avea prima e sono le specie: queste dunque sono la stessa mente agente in quanto è attiva sulla datale materia cioè sulla mente possibile, condizione della quale attività sono i sensibili (2). E conviene che vediamo appunto come la mente possibile si disponga alle specie, come altresì queste sieno prodotte dalla mente agente. E` da ritenersi in prima che il concetto della materia divisa dalla forma non è che un' astrazione, cioè un relativo (3) per Aristotele, e che ciò che è in potenza non è ancora. Onde la mente in potenza non è ancora mente. L' anima dunque in quant' è mente in potenza, non è ancora anima intellettiva. Che cosa è dunque per Aristotele? Senso. Vediamo come questo senso sia suscettivo delle specie . In fine al secondo libro degli Analitici posteriori, dopo che aveva dimostrato prima, che « « ogni cognizione nova nell' uomo nasce da una cognizione precedente »(4), » e che le conseguenze si cavano da principŒ preconosciuti: viene alla questione dell' origine de' principŒ stessi che non si possono dedurre da principŒ anteriori, senza andare all' infinito. Trova assurdo il dire, che noi li abbiamo per natura, perchè non ne abbiamo coscienza; trova pure impossibile, se non li abbiamo, di generarli in noi, perchè non c' è la cognizione antecedente, da cui generarli. Conchiude adunque che si deve ammettere una speciale facoltà (1), non però più eccellente dei principŒ stessi, che è quanto dire una potenzialità. E così si fa a spiegare questa facoltà inferiore, da cui poi s' hanno i primi principŒ della ragione. Da questo luogo sembra potersi inferire, che Aristotele deduca l' intelligenza dal senso, e che il sensibile corporeo, qual è il fantasma, si converta da sè prima in concetto ( «logos»), poi in memoria ( «mneme»), poi in esperienza ( «empeiria»), poi in principŒ ( «arche») delle arti e delle scienze pure col fermarsi nell' anima. Questi suoi modi, ripetuti da Aristotele altrove, hanno fatto credere ad alcuni, come tra gl' Italiani del cinquecento a Pietro Pomponazio (4), che colla filosofia d' Aristotele (e non si credeva ce n' avesse un' altra migliore), l' anima umana non si potesse dimostrare immortale, perchè i fantasmi sensibili se ne vanno col corpo. Per la stessa ragione Alessandro Afrodisio e Averroè introdussero l' Intelletto passivo , pel quale intendevano la potenza sensibile, atta a fare tutte quelle operazioni, e in questo l' arabo Commentatore poneva la specie , ponendo poi un intelletto agente separato dall' uomo, e unico per tutta la specie umana (1). Ma avendo Aristotele espressamente insegnato la sopravvivenza d' una parte intellettiva dell' anima (2), e altri luoghi delle sue opere esigendo una diversa interpretazione, conviene che ci atteniamo a quella che meglio e più facilmente concilia Aristotele con se stesso. Aristotele adunque dopo il luogo arrecato degli Analitici posteriori soggiunge: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque si possa fare quei passi ch' egli descrisse dalla sensazione al concetto fino a' principŒ scientifici , dice che l' anima dee essere costituita in un dato modo, ma qui non dice quale . Per conoscere adunque la natura di quest' anima, convien ricorrere ai libri dell' Anima e a' Metafisici, dove si vede che la natura d' una tal anima dev' essere intellettiva. Non è dunque il solo senso, che possa fare tutto ciò che in fine agli Analitici posteriori descrive, ma il senso in un' anima intellettiva. La dottrina dunque propria dell' intendimento è supposta, ed è quella che abbiamo prima indicata, e considerando quale sia questa, si può raccogliere, che l' opera del senso non è che una preparazione, o condizione materiale agli atti della intelligenza. Questa è la più conciliante interpretazione che si possa dare ad Aristotele, che certo s' esprime assai oscuramente. E per raccogliere come noi crediamo doversi intendere Aristotele, nel capitolo 4 del terzo libro dell' Anima, egli parla, secondo noi, della mente umana in universale. E poichè talora dà il nome di mente a ciò che non è mente, per traslato, come dice pure per un certo traslato, che il senso giudica (4); perciò qui si dà cura di definire di qual mente parli, e dice di quella « « per la quale l' anima conosce ed è prudente » [...OMISSIS...] ; e poco appresso di nuovo si dà cura, acciocchè non nasca equivoco, di avvertire che parla di quella mente « « colla quale l' anima raziocina e congettura » [...OMISSIS...] . Così distingue questa mente di cui parla e che è sola vera mente, dal senso. E quanto sia distinta da questo, risulta dalle parole che seguono, dove dice che [...OMISSIS...] . Distingue dunque i sensibili, e però i fantasmi, dagl' intelligibili: questi dunque, oggetto della mente, non sono i fantasmi. Ma gl' intelligibili non sono naturalmente in atto, ma in potenza: conchiude dunque, che anche la mente non ha altra natura, che quella di potenza , [...OMISSIS...] . Nel capitolo seguente viene a determinare come sia fatta questa potenza, e qui dice che quantunque sia potenza, ella deve avere una virtù in sè stessa, che (date certe circostanze) la trae all' atto, onde distingue nella stessa ed unica potenza due funzioni, l' una di ricevere, l' altra di fare, che non chiama parti ma differenze ( «diaphoras»). Queste funzioni o differenze appartengono alla stessa parte dell' anima di cui ha detto voler parlare (1). Ma l' averle chiamate, ciascuna, mente ( «nus»), fece sì che si rendesse più difficile l' intenderne la dottrina, considerandole come due menti, o intelletti diversi, il possibile, e l' agente. All' incontro il sistema riesce assai più chiaro, se si considerano come due attitudini, virtù, funzioni, o piuttosto elementi della stessa potenza, nella quale unità compariscono costantemente nel capitolo quarto. E veramente in questo capitolo in primo luogo loda la sentenza di Anassagora, che aveva detto la mente dovere essere immista ( «amige») e però senza alcun miscuglio di cosa corporea [...OMISSIS...] , semplice ( «haplun»), senza passione ( «apathes»), e non avente nulla affatto di comune con alcun' altra cosa [...OMISSIS...] : le quali qualificazioni la distinguono affatto da ogni cosa sensibile , e però la specie della mente, secondo questa dottrina, conviene che sia totalmente diversa e separata non solo dalla forma materiale, ma ancora da ogni sensazione: onde le difficoltà che più sopra abbiamo indicate, e che qui lasciamo da parte. Posta questa spiritualità e purità della mente, Aristotele propone due dubbi: 1 se la mente ha nulla di comune coll' altre cose, e se l' intendere, come fu detto prima, è un certo patire, in che modo la mente intenderà? 2 se l' intendere è patire, come la mente intenderà sè stessa? Come patirà da sè stessa? Acciocchè patisca da sè stessa ella dovrebbe esser duplice, dovrebbe agire e patire ad un tempo, e l' agire e il patire suppone un chè di comune [...OMISSIS...] . Se essa è intelligibile come l' altre cose, sarà mista di materia e di forma e non più semplice, cioè avrà qualche cosa in sè, che, separandosi dal resto, la renda intelligibile [...OMISSIS...] : nè intelligibile in un altro modo può essere, perchè l' intelligibile è unico di specie [...OMISSIS...] . Quant' è chiaro e lungo Aristotele nel proporre le obbiezioni, altrettanto è oscuro e breve nel rispondere alle medesime. Tuttavia non dubito che la risposta ch' egli intende dare sia la seguente. Alla prima difficoltà risponde così. Prima accorda che il patire supponga qualche cosa di comune tra il paziente e l' agente, [...OMISSIS...] . Poi non nega questo comune alla mente, ma esso è appunto comune per questo che [...OMISSIS...] . Ora l' intelligibile è l' agente, come ha detto prima [...OMISSIS...] , e la potenza suscettiva di questi [...OMISSIS...] è il paziente. Onde da prima questa è divisa, [...OMISSIS...] ; perchè non è uscita ancora al suo atto che la finisce. Ella, la mente, patisce quando fa l' atto di conoscere, perchè in virtù di quest' atto quella che prima era potenza, riceve gl' intelligibili; ma questi intelligibili, quando sono in atto, sono lei stessa, perchè essi sono l' estremo suo atto, o termine. Onde, di questa divisione, che da prima si ravvisa nella mente tra il suo essere in potenza e il suo essere in atto, dice che [...OMISSIS...] . Questo è il celebre luogo d' Aristotele, del quale tanto abusarono i sensisti moderni senz' intenderlo. Aristotele paragona la mente, in quant' è potenza, alla tavola rasa, ma questa tavola per Aristotele è una potenza viva, che quando vuole (1) si scrive da sè stessa (2). Ed aveva già prima avvertito, che ci sono due maniere di patire [...OMISSIS...] . Onde non è assurdo, che si attribuisca una tale potenza, che non importa alcuna corruzione nè alterazione, ad un incorporeo. Laonde un recente Scoliaste della psicologia Aristotelica raccoglie che, secondo questo filosofo, [...OMISSIS...] . E la cosa si rende evidente, dove si consideri la differenza che Aristotele pone tra il senso e la mente, dove chiaramente apparisce, che nè la mente viene dal senso, nè i sensibili si trasformano punto in intelligibili. Se dunque gl' intelligibili sono nell' anima, e per un atto di questa si attuano, la specie intellettiva e quella, di cui partecipano le cose reali fuori dell' anima, non sono identiche, ed è una metafora il dirle tali, onde ritornano in campo le difficoltà che Aristotele oppose a Platone, circa l' attitudine delle idee a far conoscer le cose. Come dunque si risponderà alla prima questione? Tutta la risposta si riduce a queste parole, che « quando la mente fa l' atto dell' intendere, allora la stessa mente e la cosa intesa sono il medesimo ». Ma tanto è lungi che Aristotele spieghi come ciò sia o possa essere, che dalla sua stessa dottrina risulta che la cosa intesa si divide in due, materia e forma, e con questa sola s' intende, rimanendo l' altra al senso; ma questa stessa, la forma, è solo equivocamente la medesima nell' intelletto, e fuori dell' intelletto, e per similitudine, come hanno più espressamente detto gli Scoliasti, e i loro successori, gli Scolastici. Ma che per via di similitudine non si possa spiegare la cognizione delle cose esterne, fu da noi dimostrato (10 7 11). Laonde si ricorse dagli espositori d' Aristotele ad un altro ripiego, cioè a dire, che la stessa forma aveva due maniere di essere, l' una nella mente senza materia, l' altra fuori della mente nella materia, e si limitarono ad impugnare la terza maniera di essere, che attribuivano, secondo noi falsamente, a Platone, cioè l' esistenza della essenza in sè fuori d' ogni mente, e fuori delle cose (1). Ora l' essere caduti a questo, era un trovarsi nel vero cacciativi dalla necessità logica, e senza pure accorgersene. Se avessero afferrata l' importanza di questa sentenza che usciva loro di bocca, ed avessero distinto accuratamente l' essere dalla maniera di essere , che nel loro linguaggio si confondono, avessero veduto che l' essere può conservarsi identico sotto più forme, avessero studiata la natura di queste forme e trovato che l' una era subiettiva (alla quale si riduce l' extrasubiettiva), e l' altra obiettiva , sarebbero pervenuti a vincere le immense difficoltà che seco ravvolge il problema della cognizione umana. Ma quanto rimanessero lontani da ciò, l' incertezza, l' improprietà e l' incoerenza, con cui parlano, il manifesta. E riguardo ad Aristotele, s' osservi anche qui, come inframetta di continuo al discorso delle particelle diminutive ed eccezionali, che poi non ispiega più in nessun luogo, e che pur gli valgono di scusa per avere la facoltà di prendere la stessa proposizione quando gli accomoda, o escluderla in caso diverso, appigliandosi alla sua contraria. Così quando dice che la mente « « è in potenza in qualche modo, «pos», le cose intelligibili » », tutto il nodo della questione sta in quella particella «pos», piccolissima di mole a segno che sfugge all' attenzione de' lettori, come un nonnulla, ma che pure è quella cosa che contiene tutto il sistema, se c' è sistema; e se non c' è, che fa credere che ci sia. Ora quella particella è appunto la più trascurata dal nostro filosofo, ne commette al lettore la interpretazione, e supponendola chiara da sè, non ci fa commento. Intanto da quella proposizione limitata e condizionata, perchè non s' avvera che in qualche modo, «pos», ne cava una conseguenza assoluta, che « « la mente può pensare quando le piace agl' intelligibili » », il che suppone che gl' intelligibili non sieno in qualche modo nella mente, ma che semplicemente ci sieno: altramente la conseguenza dovrebbe essere, per non riuscire più larga della premessa, che « « la mente in qualche modo può pensare quando vuole agl' intelligibili » ». Quando poi la proposizione non gli va bene, prende la contraria che, « gl' intelligibili sieno in qualche modo fuori della mente »; ed eccoli nelle cose reali, contro quello che avea prima supposto. La seconda questione, dopo la prima, è assai più facile a risolvere. Poichè se gl' intelligibili si fanno per l' atto stesso dell' intendere, e sono la stessa mente in atto, chiaro è che la mente in atto dee essere intelligibile a sè stessa, essendo l' atto della mente l' intelligibile, onde dice, che è « « anch' essa intelligibile come gl' intelligibili, poichè nelle cose scevre da materia è il medesimo l' intelligente e l' intelligibile »(1) ». E quest' è il passo dove Aristotele consumma la confusione e la identificazione del subietto coll' obietto: poichè la mente in tal modo da subiettiva che era in potenza, in atto è divenuta obiettiva. Continuando dunque ad esporre l' intricato ed oscuro sistema d' Aristotele circa l' intendimento umano, dicevamo, ch' egli nel capo quarto del libro terzo dell' Anima, stabilisce in generale da prima, che la mente umana è un potenziale, «dynaton», e non è altra natura che questa [...OMISSIS...] . Ma qui la parola potenza, o ciò che è potenziale, deve prendersi in altro significato da quello in cui la prende poco appresso, quando dice che [...OMISSIS...] . Poichè se quando gli intelligibili sono in potenza, non ci potesse essere una mente, in tal caso la mente sarebbe solo degli intelligibili in atto, e non ci sarebbe una mente potenziale, «dynaton», che non ha niuno degli intelligibili in atto; e pur questa non solo c' è secondo lui, ma è immista e pura da concrezione corporea, acciocchè vinca e domini, «hina krate», come aveva detto Anassagora, espressione che Aristotele ammette, e spiega così [...OMISSIS...] ; il quale luogo conferma quello che dicevamo avanti, cioè che Aristotele per la Mente possibile di cui parla nel citato capitolo quarto, intende l' unica mente umana, anche quella che opera, conosce, raziocina, congettura, prudenteggia [...OMISSIS...] , essendo prima potenza, ed ella stessa poi atto, entelechia. Il medesimo si prova da questo che nel capitolo quinto dice, che il solo intelletto agente, [...OMISSIS...] , è separabile, e nel capitolo precedente, dove parla del possibile [...OMISSIS...] , dice che è separabile dal corpo (1); il che mostra che si tratta della stessa mente analizzata, e considerata sotto due aspetti diversi. Rimanendo dunque a spiegare come questa potenza intellettiva passi al suo atto, dice che anche quando la mente è divenuta ciascuna forma [...OMISSIS...] , uscendo al suo atto « « è anche allora in certo modo in potenza » [...OMISSIS...] «ma non a quel modo come prima che imparasse o ritrovasse »(2) ». La mente umana dunque si rimane sempre una potenza, ma in altro modo quando non ha ancora appreso nulla, e in un altro quando ha già appreso. Queste due potenzialità della mente erano state dichiarate prima da Aristotele. Poichè aveva distinto l' uomo che non sa ancor nulla, ma che è in potenza ad imparare, ad acquistare l' abito della scienza; e l' uomo che già ne ha l' abito , come chi ha la scienza grammaticale, il quale può ripensare alle cose che sa, quando vuole, e quando non ci pensa è in potenza all' operazione del contemplare. Prima dunque la mente è in potenza all' abito della scienza; poi è in potenza all' operazione del pensiero attuale. Ora l' uomo, che è sciente in potenza al primo modo, lo chiama « « genere e materia dello sciente » » [...OMISSIS...] . Questa mente dunque « materia di tutte le specie », viene ad essere il medesimo della « materia ideale »di Platone, di cui abbiamo parlato, poichè di questa prima materia ideale, secondo Platone, si compongono tutte le idee. Dove si vede manifesto, che come abbiamo già prima osservato, Aristotele confuse l' esistenza puramente obiettiva di questa materia e di tutte le specie, che ne derivano, coll' esistenza subiettiva dell' uomo intelligente, onde la chiamò [...OMISSIS...] , « un che intelligente », e volle, che questo « che intelligente »dovesse essere lo stesso che « un che inteso », partendo dal principio « « che in quelle cose che sono senza materia (corporea) l' intelligente è il medesimo che l' inteso » » [...OMISSIS...] . Principio affatto gratuito, di cui Aristotele non reca in alcun luogo la minima prova, e contrario al testimonio della coscienza, giacchè chi pensa è consapevole di non esser nessuna delle cose pensate, eccetto se pensa se stesso: che se fosse le cose pensate, egli non potrebbe più distinguere quando pensa se stesso, e quando pensa l' altre cose. Che se avesse afferrata questa distinzione tra le due maniere d' esistenza di cui parliamo, e avesse riconosciuto che « la materia ideale, di cui si formano tutte le idee determinate »non ha e non può avere che un' esistenza obbiettiva, egli avrebbe colto nel segno. Poichè chiamandola «dynaton», possibile, l' avrebbe altresì saputa chiamare in un modo oggettivo «to dynaton», il possibile ; e sarebbe pervenuto alla nostra teoria delle idee, che pone nell' anima umana una materia ideale indeterminata, e questa non esser altro che « il possibile, «to dynaton» », ossia come noi lo chiamiamo più espressamente « l' essere possibile », distinto affatto dall' anima che l' intuisce. Le cagioni, che indussero Aristotele a dare alla materia prima dello scibile un' esistenza subiettiva ad un tempo ed obiettiva, confondendo insieme maniere d' essere così distinte, furono varie. - E prima, l' impegno che avea preso di mostrare, che le idee platoniche non potevano giovar nulla alla cognizione delle cose, perchè estranee a queste; onde non gli rimase che la via di unire le specie alle cose, e di fare le specie nelle cose e nella mente identiche, temperando poi un tale assurdo colla particella «pos», e col dire il contrario altrove in altre parole, come quando fa che la mente patisca dal simile, [...OMISSIS...] , cioè dall' intelligibile , [...OMISSIS...] , quando questo non doveva esser pur altro, che l' effetto e l' atto della mente stessa. Un' altra cagione è quella, comune a tutta l' antica filosofia, che vi era assai poco considerata la coscienza , e non si deduceva la dottrina dell' anima dall' anima stessa, ma dall' analogia delle cose esteriori, attribuendosi all' anima quella costituzione, che in queste si ravvisava. Ora in tutte le cose reali e finite non c' è che potenza , atto e limitazione , e la parola forma è tolta dall' intelletto e a loro applicata, ma in esse veramente, in quanto sono fuori della mente, non c' è specie o forma alcuna. Confondendo dunque le cose reali in sè colle cose reali pensate dalla mente, si prese l' atto che hanno i reali, per identico alla forma che non è in esse, ma solo nella mente, ed è dalla mente data ad esse quando si conoscono, essendone la forma o la specie l' essenza intelligibile. Questa confusione d' elementi diversi accadde anche ad Aristotele, nel secondo libro cap. due dell' « Anima », dove la materia è detta potenza , e l' atto è detto specie o forma , [...OMISSIS...] ; quando la specie o forma è diversissima dall' atto, essendo puramente oggetto in cui termina l' atto dell' intelletto. La confusione di questi due concetti, atto e specie od oggetto , si confermò nella mente di Aristotele, o si giustificò a' suoi occhi dall' aver supposto, senza sufficiente esame, che tra il senso e l' intelletto passasse una similitudine maggiore di quella, che veramente ci passa, come risulta da questo luogo: [...OMISSIS...] . Egli vuol dire, che noi diciamo d' intendere colla scienza , e d' intendere coll' anima : [...OMISSIS...] . Dove chiaramente apparisce, che Aristotele prende come equivalenti i vocaboli di forma, di specie, di ragione e di atto [...OMISSIS...] . Pare però rispetto a quest' ultimo, che dubiti egli stesso di ciò che afferma, perchè dopo aver detto francamente che la scienza e la sanità sono forme e specie e ragioni dello sciente e del sano, non osa poi dire, con egual franchezza, che sono loro atto , ma « « come atto, [...OMISSIS...] » ». E crede oltracciò necessario di giustificare quest' ultima appellazione dicendo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque osservato, che nel parlar comune si dice, che l' uomo conosce coll ' anima, ed anche che l' uomo conosce colla scienza, attenendosi a questa maniera di parlare strettamente, distinse due principŒ, denominandoli con cui , [...OMISSIS...] , quo appresso gli scolastici, l' uno de' quali l' anima , l' altro la forma ultimata cioè la scienza o la sanità . Ma si considerino attentamente queste parole: « Noi viviamo e sentiamo e raziociniamo coll' anima ». Si distingue dunque il noi dall' anima. Il noi indica certamente il subietto, la persona umana . Ma l' anima non è ella anche persona umana? Se si distinguesse l' anima dalla persona, come gli antichi infatti distinsero «psyche» da «pneuma», si potrebbe dire acconciamente che: « noi viviamo e sentiamo coll' anima », intendendo per anima « la vita animale e sensibile ». E probabilmente fu tratto Aristotele a considerare l' anima come un istrumento con cui noi operiamo, dall' aver fondata la sua psicologia sulla definizione dell' anima generica, e però della più imperfetta. Ma dicendo egli oltracciò che noi coll' anima « raziociniamo », non può più dirsi che noi facciam questo coll' anima sensitiva. Coll' anima intellettiva dunque? Nè pure, perchè quest' anima siamo noi stessi, subietto personale. Come dunque poteva dire Aristotele che noi raziociniamo coll' anima? Aristotele considera l' uomo composto di corpo e d' anima, come di materia e di forma [...OMISSIS...] , e questo composto è quello, a cui attribuisce gli atti che si fanno coll' anima. Ma in vano, perchè negli atti intellettivi, la parola noi che esprime il subietto che si fa, è un sentimento semplicissimo ed incorporeo (1). In secondo luogo Aristotele cade in un manifesto assurdo, poichè ponendo il corpo come materia e potenza, l' anima come forma e come atto, e dicendo che tutti gli atti sussistono nella materia come in loro subietto (giacchè nega che l' anima sia subietto), viene a fare che il noi intelligente sia il corpo e che l' anima sia il suo atto (2). L' anima umana dunque è ella propriamente il subietto che sente coll' istrumento del corpo, e intende coll' idea, e non è quella, con cui si sente e s' intende da un composto. Un' inesattezza così grande di parlare condusse Aristotele ad altre strane confusioni: [...OMISSIS...] : e questo che ha potenza ad essere così è il corpo suscettivo d' essere animato, cioè di ricevere quell' anima che è una ragione e una specie, componendo così l' uomo di corpo, organizzato sì, ma per sè del tutto materiale, e di specie , onde il puro corpo sarebbe il subietto della specie . Vedesi che Aristotele non colse punto nè poco la distinzione tra la forma subiettiva , l' estrasubiettiva e l' obiettiva (2), e però non intese, che la specie o idea è una forma obiettiva, e che ha quindi bisogno d' un subietto vivente e senziente per essere da questo intuìta, e così avuta; il che non può fare alcun organismo materiale, che ha un' esistenza puramente estrasubiettiva, ed è suscettivo soltanto della forma estrasubiettiva. Questa confusione tra la forma subiettiva ed estrasubiettiva, e la forma obiettiva, vedesi dal mettere insieme che egli fa la sanità e la scienza , quando quella è una forma subiettiva , e questa è una forma obiettiva . E come abbiamo già detto prima, alla subiettiva non appartiene nè pure il nome di forma , ma semplicemente quello di atto , e questo non si chiama forma, se non considerato in relazione all' intelligenza che n' ha l' idea, la quale, applicata all' atto conosciuto, dicesi forma. C' è ancora in questa dottrina Aristotelica un altro errore profondo, ed è quello di supporre che la materia costituisca sempre il subietto , anche de' composti. Prendendo la materia al modo Aristotelico come « ciò che è in potenza », convien distinguere tre materie, e relative ad esse tre maniere di forme: la materia e la forma estrasubiettiva, la materia e la forma subiettiva, la materia ideale e obiettiva, che è ella stessa in un altro rispetto, anche forma. Ciascuna di queste materie costituisce benissimo il subietto della forma a sè relativa, ma non di tutto il composto; come nell' uomo, se si prende per materia il corpo e per forma l' anima, quello non è punto il subietto di questa, benchè si possa prendere per subietto delle sue proprie forme corporee. La materia estrasoggettiva dunque è estesa e corporea, ed essa è suscettiva di sole forme (o piuttosto limiti ed atti ) estrasoggettive , come la sfericità, o la cubicità di un corpo: la materia subiettiva è la potenza di sentire o d' intendere, e quest' è l' anima sensitiva in quant' è costituita da un sentimento fondamentale e sostanziale suscettivo di modificazioni o sensazioni, ed è l' anima intellettiva in quant' è costituita da una prima intuizione e conseguente sentimento e potenza di emettere degli speciali atti intellettivi: gli atti poi sensitivi e intellettivi, rispetto all' intendimento che li pensa, si dicono forme subiettive: la materia ideale finalmente è l' essere indeterminato, e in quanto è suscettivo di determinazioni si può chiamar materia delle idee speciali e generiche, ma in quanto egli è essenziale obiettività, si dice forma obiettiva di tutte l' altre idee e di tutte le cose. Ora nelle due prime maniere di materia e di forma, la materia propria di ciascuna, o si prende pel subietto, od anche è tale; il subietto d' una forma estrasoggettiva non può essere altro che dialettico, cioè non propriamente un subietto, ma un estrasubietto che si prende per subietto dalla mente per la necessità del pensare: il subietto poi d' una forma subiettiva è vero subietto, e però non può mai essere un estrasubietto. Quanto poi alla forma ideale ed oggettiva, ella non ha subietto negli enti finiti, ma si prende come subietto dialettico delle sue determinazioni. C' è però un subietto, che non s' appropria già quella forma come un elemento della propria natura, ma un subietto che la intuisce come un diverso da sè, propriamente come oggetto; e quest' è l' intelligenza finita, come è appunto l' anima dell' uomo. Il vero dunque e reale subietto è costituito solo dalla materia subiettiva ed è il principio sensitivo e l' intellettivo: l' estrasoggettivo e l' ideale non sono subietti, se non dialettici. Se dunque si cerca di questo composto che dicesi uomo , qual sia il subietto, è da rispondersi non altro che « il principio sensitivo e intellettivo che è l' anima in quanto è persona », e perciò il subietto non è la materia, ma la forma dell' uomo, cioè l' anima intellettiva, che non è forma del solo corpo, ma di tutto il composto uomo (1). A torto dunque Aristotele considerò il corpo come il subietto dell' umana natura, il subietto di quell' atto , che chiamò anima, poichè scrisse: [...OMISSIS...] . Gli espositori cercano di attenuare il torto d' Aristotele, dicendo che egli parla non del corpo puramente materiale, ma del corpo unito all' anima (3). Ma se l' anima è un atto del corpo, chiaramente apparisce che il corpo è il subietto di quest' atto, e se l' anima è un quid corporis benchè non sia corpo, il corpo rimarrà di novo il principale; e finalmente il dire che « l' anima sussiste nel corpo »è un non intendere la dignità e potenza dell' anima, perchè in questa piuttosto, come dice S. Tommaso, sussiste il corpo vivente, e da essa è contenuto nella sua unità. I quali errori d' Aristotele nacquero in gran parte dall' aver considerata l' anima con principŒ troppo generici ed astratti (4), onde poi non potè conservare la coerenza seco stesso, quando pose che l' intellettiva era un altro genere d' anima , [...OMISSIS...] , e che potea separarsi dal corpo realmente [...OMISSIS...] , e non di mero concetto [...OMISSIS...] . Ma tornando ora noi alla confusione che fa Aristotele tra quello che per sè è atto , e non forma , e quello che è per sè forma: vedesi questo equivoco nelle due forme che reca in esempio, la scienza e la sanità , dicendo, che quella è forma dello sciente , questa del sano . Poichè la sanità non è che un atto dell' animale, e non è forma se non quando quest' atto è pensato dalla mente, perchè allora è oggetto, e non fa sano nessuno; laddove la scienza è per sè forma, non potendo esistere che nella mente come un complesso di oggetti da questa contemplati. Confonde dunque l' atto che si può dire forma subiettiva, colle vere forme obiettive (1). Ed anzi nella scienza stessa due cose si devono distinguere, quelle appunto che Aristotele prende per una sola, cioè l' atto della mente che contempla, e questo non è forma, se non in senso subiettivo e traslato, e le idee contemplate, e queste sono veramente e propriamente le forme. Da questa confusione avviene che Aristotele parli dell' anima intellettiva come fosse ad un tempo un atto subiettivo, e come fosse ella stessa obietto; negando però all' anima in genere l' esser materia e subietto, e accordandolo al corpo vivente (2). La considera in fatti come un atto subiettivo quando ammette che essa sia un che sciente. [...OMISSIS...] . Benchè parli qui d' uno sciente in potenza, tuttavia non si potrebbe chiamare sciente semplicemente [...OMISSIS...] , se non avesse un atto qualsiasi di sapere anteriore alla cognizione ricevuta. E veramente quello che nega Aristotele all' uomo per natura sono, come vedemmo, degli « abiti di sapere determinati (4) », e quando parla del sapere acquisito, sempre adopera tali espressioni, che indicano una scienza determinata, come in questo luogo adduce per esempio la grammatica. Aver dunque l' anima intellettiva ed essere sciente in potenza è il medesimo per Aristotele. Ora l' atto che s' esprime colla parola sciente , è un atto subiettivo, e non una forma obiettiva. Ma altre volte e interpolatamente, come gli accomoda, Aristotele parla dell' anima intellettiva come fosse una forma obiettiva , come abbiamo veduto, e come si può di nuovo rilevare dal seguente luogo (5). [...OMISSIS...] . E poco appresso la dice « « essenza come concetto » » [...OMISSIS...] , e la paragona al concetto della scure, che non è separato dalla scure se non di nome. Così ora la fa atto subiettivo del corpo vivente (1), ora specie ossia forma oggettiva, confondendo l' una cosa coll' altra. Ma quest' atto, questa entelechia del corpo, restringendoci all' anima intellettiva, ha egli stesso tre gradi successivi; il primo fa l' uomo sciente in potenza ed è l' anima intellettiva , il secondo è la scienza appresa come abito , di cui dà in esempio la grammatica, il terzo è l' atto della contemplazione d' una cosa determinata che già si sa per abito (2). Il primo che è l' essenza dell' anima, e che avea detto atto del corpo, diventa ella stessa nel discorso d' Aristotele, rispetto alla seconda e alla terza maniera di atti « genere e potenza »; [...OMISSIS...] ; di che deriva, volendo esser coerenti ai principŒ Aristotelici, che l' anima non solo è atto del corpo, ma anche subietto, perchè materia e potenza d' altri atti, che da lei procedono (4). Di più ella non ha bisogno, per fare alcuni di questi atti, di alcun organo corporale. Costretto di confessar tutto questo, Aristotele si trova impacciato più che mai, nel rispondere alla domanda: se quest' anima possa sussistere separata dal corpo, e dice e ripete, che questo è cosa oscura (1), ma finalmente confessa di sì: « « Niente vieta, che alcune parti dell' anima sieno separabili, perchè non sono atti di nessun corpo » »: a queste parti adunque, o parte, che non è atto del corpo, si deve necessariamente attribuire la condizione di subietto di quegli atti che sono esclusivamente suoi. Ora, se può sussistere, conviene che sia un subietto determinato , perchè l' indeterminato non può avere propria esistenza. Non si può dunque chiamare materia , se non relativamente ad atti accidentali. Ma il subietto degli atti accidentali è la forma, ossia è la sostanza, secondo lo stesso Aristotele, come vedemmo. Non può dunque dirsi materia , se non in un senso relativo e dialettico. E ancora Aristotele descrive l' anima come subietto, ogni qualvolta la descrive come quella che contiene e dà l' unità agli elementi corporei, [...OMISSIS...] (2), poichè il contenente ha ragione di subietto relativamente al contenuto; e molto più quando la considera come cosa superiore e dominante il corpo, il che attribuisce a tutta l' anima, ma soprattutto poi alla mente (3). Ma, di nuovo, come quest' anima, per sè subietto, passa dal primo suo essere di potenza, cioè di sciente in potenza , [...OMISSIS...] , a' suoi atti? Il primo genere di questi (ciascun de' quali può in appresso rimanere nell' anima com' abito determinato, o può divenire oggetto d' attuale contemplazione) è quello che Aristotele chiama mente, «nus», e che gli Scolastici tradussero intelligentia : questa mente ha per suo oggetto i principŒ, [...OMISSIS...] (4) e non è scienza, perchè la scienza è sempre accompagnata col raziocinio, e però non è mai de' principŒ (1), ma è anteriore alla scienza perchè è « « principio della scienza » », [...OMISSIS...] , ed è della scienza più evidente, [...OMISSIS...] . Questa mente dunque è la stessa mente da potenza passata all' atto suo proprio e primo, che è quello d' intuire le specie e gli astratti, che Aristotele unisce sotto gli stessi nomi d' indivisibili , [...OMISSIS...] , impartibili [...OMISSIS...] , universali, [...OMISSIS...] , immediati, [...OMISSIS...] , principŒ, [...OMISSIS...] , o principŒ primi, e immediati, [...OMISSIS...] (2) e la stessa mente che da «dynamei» è divenuta «entelecheia». Ora il maggiore sforzo del filosofo si pone appunto nello spiegare questo passaggio, nello spiegare come la mente si provveda delle specie determinate , che le mancano da principio, onde si paragona a una tavola rasa, la quale è la questione dell' origine delle idee. Poichè spiegate le idee, è facile lo spiegare gli atti che vengono appresso, cioè quello di contemplare attualmente le idee che si hanno, «theoreim», e di conoscere ragionando, «noein, dianoeisthai» (3). Ora Aristotele, per ispiegare questo passaggio concepì una facoltà di sentire in genere, nella quale si radichino tutte le attività dell' anima, d' ogni anima qualunque, e questa anche noi abbiamo ammessa (4). Ma questo sentire si diversifica ne' varŒ animali, e specialmente da tutti gli altri nell' uomo. In questo Aristotele riconosce un senso de' singolari, e una sensione degli universali. [...OMISSIS...] . E` dottrina costante di Aristotele, che il senso esterno è de' singolari, e l' intelletto degli universali (6), ma nell' uomo rimane una sensione dell' universale . Questa suppone una facoltà dell' universale nell' anima, che è l' intelletto, e che si può dire una special maniera di senso, perchè sente immediatamente l' universale. Quest' universale è quello che Aristotele chiama talora essere della cosa, talora essenza, specie, forma., ecc.. Il che si conferma con queste parole: « « Nell' anima ragionativa inesistono i fantasmi come pure i sensibili »(7) », il che si può intendere così, che i sensibili soggiacciono ai pensieri, come loro materia e condizione. In questa maniera si salva dall' assurdo la sentenza che « « la sensione faccia nel modo detto l' universale » » [...OMISSIS...] : distinguendo Aristotele la sensione dall' attuale sentire , che prende la sensione per ciò che rimane nell' anima intellettiva dopo l' atto del sentire; e si può congetturare, che questa maniera di restare, di rimanere nell' anima, sia stata suggerita ad Aristotele dalla stessa lingua greca, di cui la sua filosofia è una continua interpretazione, poichè da «meno», permaneo, constanter maneo , si derivava «menos», che significava « anima mente », da cui il latino mens . Viene dunque a dire Aristotele, che data una sensione esterna, rimane una sensione interna, che non è l' atto del sentire esterno, ma d' un' altra facoltà di sentire troppo diversa, della facoltà di sentire l' universale, che dicesi intelletto , «nus». E però benchè sostenga che l' universale da prima si trovi ne' singolari [...OMISSIS...] , pure è costretto d' ammetterlo anche fuori di essi [...OMISSIS...] , cioè nell' intelletto, dove è solo l' uno e non i molti, come prima abbiamo veduto della specie che dirige l' arte (.0 e segg.). E che la cosa sia così, rilevasi anche da questo che, a spiegare come l' anima abbia l' universale, non si contenta della sensazione esterna, ma c' introduce un' operazione interna, che chiama «epagoge», inductio (2), e chiama gli universali, che per essa si conoscono, «prota», quasi primi conosciuti. Poichè l' induzione aristotelica è cosa totalmente diversa dall' induzione introdotta da' moderni sensisti per ispiegare l' origine delle idee: i moderni introducono il paragone de' singolari, il che suppone questi conosciuti avanti gli universali; Aristotele non fa menzione di paragone alcuno, anzi dice, che i singolari si conoscono dalla mente per mezzo degli universali: è una operazione sola, che fa la mente, colla quale, all' occasione delle sensazioni, conosce ad un tempo gli universali e in questi i singolari, [...OMISSIS...] , riunendo quelle due operazioni, che noi abbiamo chiamate percezione ed universalizzazione . A una tale induzione Aristotele non accorda tuttavia la dimostrazione scientifica dell' essenza e della quiddità della cosa [...OMISSIS...] . Noi diciamo che nella percezione c' è ad un tempo il singolare e l' universale; ma con quest' ordine logico, che è prima la sensazione singolare che non è cognizione, per secondo l' universale, che è la prima cognizione, e per terzo la cognizione del singolare o l' affermazione: e quando questa si abbandona, rimane nella mente l' universale realmente diviso dal singolare. S' ascolti Aristotele: [...OMISSIS...] , come accade se non s' è fatta l' applicazione della cognizione universale al particolare. Ed è per questo che Aristotele rappresenta la mente come un senso, e la chiama sensione (il che impacciò gl' interpreti), e la distingue dalla facoltà di ragionare [...OMISSIS...] per indicare, che opera immediatamente, senza moto di raziocinio come il senso, ond' anche noi abbiamo chiamato « sensione intellettiva » l' intuizione dell' essere; il che Aristotele in quella vece dice della percezione, nella quale l' intendimento apprende con una sola operazione l' universale e in questo il singolare reale. [...OMISSIS...] Tale sensione dunque, che è la mente, non è la sensione esterna, ma l' interna e mentale; è in una parola la percezione intellettiva. Se dunque c' è, oltre il senso corporeo, una facoltà nell' anima umana, che quasi continuandosi al senso, forma gli universali, e che è un cotal senso anch' essa dell' universale, come lo chiama Aristotele [...OMISSIS...] , facoltà che altrove chiama mente, «nus», di novo dimanderemo come Aristotele la concepisca. E vedemmo, che secondo lui prima è potenza, «dynamis», poi atto, «entelecheia». E` la stessa mente che passa dallo stato di potenza a quello di atto. Ma la mente in potenza è come la materia de' suoi atti. Come dunque passa a questi suoi atti? Se fosse materia inerte, ci vorrebbe una causa esterna che la movesse. Questa causa esterna non può essere il sensibile , perchè espressamente dice Aristotele, che il solo senso è mosso dal sensibile, la mente poi dall' intelligibile . Ma se l' intelligibile è opera della mente, come può esser quello che la move a formarlo? Aristotele dunque accorda alla mente ancora in potenza un' attività propria, per la quale all' occasione delle sensazioni, ella si mova a formare, o più veramente a intuire gl' intelligibili e gli universali. - Ma può ella intuire gli universali, senza averne un primo in se stessa? Se si considera che alcune volte Aristotele riduce tutti gli universali alle dieci categorie, e si dimentica degli altri, come dell' ente e dell' uno, che altrove accenna pure come universalissimi: noi diremo, che così prendendo gli universali, egli ha ragione di negarlo, poichè le categorie sono tutte più o meno determinate. Prendendo dunque in questo senso la parola universale, non c' è che dire. Ma se si considera tra gli universali anche l' essere possibile al tutto indeterminato , che rimane dagli universali categorici d' Aristotele e dagli altri, ch' egli a questi subordina, squarciato e limitato, crediamo, che dalla stessa dottrina d' Aristotele consegua, che la mente in potenza di questo filosofo, presa come subietto, sia fornita di un tale universale, il quale le dà quella virtù, che la rende mente attiva, «nus poietikos», ossia atta a formare le categorie, e le altre idee inferiori, alle quali Aristotele riserbò il nome d' universali, e presa come obietto, sia ella stessa questo universale, che perciò diventa tutte le cose, e la rende «nus to panta gignesthai». Le ragioni, che a ciò mi movono sono le seguenti: 1) Aristotele dice, che ci deve essere nell' anima intellettiva, « « una mente tale che faccia tutte le cose » », [...OMISSIS...] , e che questa mente è « « come un cert' abito, quale il lume » », [...OMISSIS...] . Ora il lume è una cosa, che si vede, e non è l' occhio, nè l' atto dell' occhio, ma ciò che veduto, fa veder l' altre cose. Dunque questa virtù naturale della mente umana è un oggetto veduto, col quale si vedono l' altre cose. Onde Aristotele soggiunge: [...OMISSIS...] . Questo è il lume della ragione, che noi abbiamo dimostrato nell' ideologia essere l' essere in universale presente alla mente, senza il quale nulla potrebbe conoscere la mente, e col quale conosce tutto ciò che presenta il senso. Ma quest' essere non è nessun colore, ma indifferente a tutti, e in una simile indifferenza fa consistere Aristotele l' universale (1); esso è puro, immisto, non ha nulla di comune col sensibile ed ha tutte l' altre attribuzioni che gli dà Aristotele, tra l' altre quella di non essere alcuna delle specie, quand' è in potenza, ed esser tutte le specie, quand' è in atto, poichè ogni specie e idea è sempre l' essere variamente determinato, [...OMISSIS...] , onde, conchiude Aristotele, non ha altra natura che quella di possibile ; [...OMISSIS...] . 2) Dice poi che questa mente è « come un abito »: e un abito dice cosa che si ha , e non quello che si è (3). Onde indica una duplicità o differenza, perchè altro è l' avente , altro la cosa avuta . La mente dunque di cui qui parla Aristotele non è il principio subiettivo, che ha, ma un diverso da esso, com' è appunto questo lume diverso dall' occhio. Così l' anima intellettiva ha l' idea, ma non è l' idea. E poichè altrove Aristotele nega, che sieno innati nell' anima « abiti determinati di scienza », [...OMISSIS...] , convien dire, che questa mente, o lume, sia posseduta a foggia d' abito indeterminato, appunto perchè non è alcuna specie determinata. 3) Abbiamo veduto che Aristotele confonde in una l' esistenza subiettiva coll' obiettiva, e alla sua mente dà l' una e l' altra, e le proprietà d' entrambe. Questo gli accade, perchè la mente risulta veramente dall' unione per così dire dell' una e dell' altra esistenza, cioè dell' anima ch' esiste solo subiettivamente, e dell' essere ideale che esiste solo obiettivamente: ma il valore della parola « mente »per noi è subiettivo, indicando « « il principio o la facoltà che ha presente l' oggetto e lo intuisce e per esso conosce l' altre cose » ». Aristotele all' incontro, prendendo la mente ora come subiettiva, ora come l' obietto stesso, è costretto a dare di essa una doppia definizione, e però la dice: 1) abito , che si suol prendere subiettivamente per una facoltà del subietto, perchè chi ha, è il subietto; e la dice anche: 2) lume , che ha valore obiettivo. Non può dunque trovare una definizione unica della mente, che possa esser mantenuta con coerenza in tutti i suoi ragionamenti. Ma quando parla della « mente agente », egli per lo più la prende in senso obiettivo, ed è questo che dimostra, come quell' acutissima sua mente sentiva, senza poterlo nettamente esprimere, essere impossibile concepire l' umano conoscere, senza dare all' anima intellettiva qualche primo e fondamentale oggetto. Tale dunque è per lui la mente attiva, «nus poietikos». Questa dunque l' assomiglia al lume e non all' occhio: e vuole che produca le specie, cioè gl' intelligibili, come il lume produce ne' corpi i varŒ colori. Per questo noi già vedemmo, che la mente è chiamata altrove da lui specie, ragione, forma, tutte parole, che esprimono esistenze obiettive, e non punto subiettive. Che anzi chiama la mente non solo principio della scienza [...OMISSIS...] , ma « «principio del principio », [...OMISSIS...] »(1), e finalmente con tutta chiarezza « «specie delle specie », [...OMISSIS...] »(2). Ora niente più propriamente di questa definizione conviene all' essere indeterminato , come abbiamo osservato altrove, e d' altra parte l' appellazione di specie , e molto meno « di specie delle specie », non può convenire a niuna facoltà subiettiva. 4) In quarto luogo si richiami alla mente la dottrina aristotelica, da noi accennata di sopra, circa la materia. Per Aristotele la materia è un puro relativo, e però non può sussistere sola senza la forma, perchè dice Aristotele, da sè non è un chè determinato (3). Ora la mente umana, prima che acquisti le specie determinate, è detta da Aristotele materia . Ora, se la semplice materia non può sussistere da sè, conviene ch' ella abbia anche una forma. E in fatti la chiama anche forma, dicendola mente agente, «nus poietikos». Ora la forma della mente non è altro che la specie, che la rende qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (4), e quivi stesso dice, che è una forma come la scienza , [...OMISSIS...] (5), non come l' attuale contemplazione. Ora, queste appunto sono le proprietà dell' essere universale , che sotto aspetti diversi sia materia ideale , come quello che giace per fondo di tutte le specie determinate e subietto, e forma universale , ossia « specie delle specie »come lo chiama appunto Aristotele. Al modo stesso i generi , che sono ciò che c' è in più specie di comune, sono detti da Aristotele materia rispetto alle specie , benchè ne siano allo stesso tempo la forma. Ed è coerente, che Aristotele non solo chiami la mente materia delle specie, ma ben anco genere », poichè ammette nell' uomo per natura un « che sciente, [...OMISSIS...] (6) e tosto appresso dice, che l' uomo è « « un chè sciente come genere e materia » », genere di tutte le specie, materia di tutte le forme di scienti , che prende in appresso col suo sviluppo. Se non s' interpreta dunque a questo modo la mente d' Aristotele, non ci rimarrebbe altro che un viluppo di contraddizioni e di non sensi. Quelli che hanno voluto far comparire Aristotele un puro sensista, come i moderni, e anche un materialista, come il professore dell' università di Padova, Pomponazio co' suoi discepoli, fondavano il loro argomento principalmente sopra una sentenza che ricorre frequente in Aristotele, cioè, che [...OMISSIS...] . Ma essi non posero mente alla forza del verbo «noein», che esprime un movimento cogitativo della mente, e non la stessa mente, «nus», la quale, com' insegna Aristotele, non è movimento (2). Ora che la mente non esca a' suoi atti, o piuttosto l' uomo non esca a' suoi atti intellettivi, se non alla presenza de' fantasmi, questo lo diciamo anche noi: la questione è anteriore a questi atti transeunti della mente, riguardando la natura e la costituzione della stessa mente, domandando cioè, « « se questa, la mente, esiga un oggetto per esistere, se l' uomo abbia per sua propria natura immobilmente presente un oggetto, col quale operi quasi con istrumento » ». Aristotele risponde, a nostro parere, di sì, solamente che chiama questo stesso oggetto o istrumento, la mente, «nus», e l' uomo per lui è il subietto, che opera con essa, e questa mente oggetto, egli la chiama propriissimamente « specie delle specie », e la rassomiglia alla mano (3), che è per l' uomo « l' istrumento degl' istrumenti »(4). E questo stesso, di considerare la mente come un istrumento, di cui si vale l' uomo alle diverse sue operazioni intellettive, dimostra di novo quello che dicevamo, cioè che questa mente non è per Aristotele una facoltà subiettiva d' intendere, ma il mezzo , con cui l' uomo intende. Così appunto chiama Aristotele la mente e anche l' anima intellettiva « principio con cui », principium quo degli Scolastici. Di che apparisce la ragione che avea di negare ogni cognizione innata. Non dava egli questo nome di cognizione, se non a quella, di cui l' uomo ha consapevolezza: perciò, secondo lui, si conosce solo quell' oggetto, di cui si è consapevoli o di cui si può esser consapevoli, quando si vuole [...OMISSIS...] (1): e questo è un principium quod , cioè un principio, in cui si porta l' atto della consapevolezza. Ammise dunque nell' anima qualche cosa COL QUALE ci procacciamo consapevolmente le cognizioni, ma non qualche cosa IL QUALE sia oggetto della nostra consapevolezza. E l' essere ideale, ossia il possibile, «dynaton», è certamente tanto principium quod , termine dell' intellezione, quanto principium quo , mezzo di conoscere l' altre cose. Ma Aristotele l' ammise solo come mezzo , e non lo riconobbe come oggetto , perchè esso rimane da prima occulto all' umana consapevolezza, e non si scopre se non da poi per una riflessione che fa l' uomo sulle proprie operazioni razionali, a far le quali esso s' adopera come mezzo: lo dichiarò come un lume atto a far risaltar dalle cose i varŒ colori, ma non s' accorse poi, che il lume dovea essere prima veduto lui stesso, acciocchè facesse vedere i colori diversi, di cui egli non era che il complesso. Del resto l' aver distinto l' uomo dalla mente , e quello dichiarato il subietto conoscente, questa il mezzo , con cui conosce, conferma ad evidenza, che per mente agente Aristotele non intese il subietto o la facoltà subiettiva che è il subietto stesso considerato in relazione con una classe de' suoi atti, ma intende un obietto , appunto un lume. Allo stesso modo avea detto che l' uomo conosce prima « per l' anima »intendendo « l' anima intellettiva o la mente ». In questa dottrina però non è costante Aristotele, il quale in altri luoghi riconosce che la mente è anche da sè una sostanza, ed ha atti suoi proprŒ senz' uso d' organo corporale, come vedremo. Ma oltre ciò, dagli stessi principŒ del nostro filosofo, si cava che non si può dividere il principio con cui si conosce, da ciò che si conosce, perchè non si può conoscere con ciò che non si conosce. Aristotele stesso l' insegna con queste parole: [...OMISSIS...] . E così seguita a dimostrare che i principŒ si devono sapere e credere più delle conclusioni, altramente essi non ci potrebbero servire di mezzo a conoscere queste. [...OMISSIS...] . Da tutte queste premesse consegue che la mente non è solo, secondo Aristotele, un mezzo di conoscere, ma un oggetto, più evidente, più noto, più creduto di tutte l' altre cose. Ma tornando alla necessità de' fantasmi per conoscere, l' argomento col quale i Sensisti credono d' attirare a sè Aristotele, svanisce loro in mano anche per un altro modo, solo che si consideri ciò che veramente ne dice Aristotele. Esaminiamo con diligenza i luoghi più classici, in cui egli espone la sua mente. Nel terzo della sua Psicologia al capo ., riassume se stesso, e comincia a collocare nella natura dell' anima due elementi, un chè sensibile , [...OMISSIS...] , e un chè scibile [...OMISSIS...] , questo scibile è lo stesso che prima aveva chiamato « un chè sciente, [...OMISSIS...] »e, « materia e genere »degli scienti o aventi la scienza, [...OMISSIS...] (3). Dal che già si vede, quanto Aristotele fosse lontano dal fare dell' anima umana una qualche statua condillacchiana, che anzi in essa poneva, non certo alcuna idea, ma il genere e la materia universale di tutto lo scibile, che è appunto quello, che facciamo noi. Ora dice che « « questo sensibile e questo scibile o sciente dell' anima, sono le stesse cose in potenza, cioè il sensibile dell' anima è il sentito [...OMISSIS...] in potenza » », e lo scibile dell' anima è il saputo [...OMISSIS...] , pure in potenza (4). Non è lo stesso di quello, che noi abbiamo detto in altre parole, esser così fatta la natura dell' anima umana ch' ella possiede un sentimento fondamentale , dove si può dire, che ci sono in potenza le specie sensibili delle cose sentite (5), perchè diviene tutte le sensazioni, non essendo queste che sue modificazioni, e un' idea che è in potenza tutto ciò, che poi sa l' uomo in appresso, luogo delle specie, [...OMISSIS...] (6), anzi specie delle specie [...OMISSIS...] ? (7). Continua Aristotele proponendosi questa questione: [...OMISSIS...] . Ora niuna cosa è separata dalle grandezze sensibili, dice Aristotele, cioè a dire, non c' è la cosa intellettuale puramente, come voleva Platone, senza il sensibile, chè, rimosso questo, non esisterebbe più la cosa (1). [...OMISSIS...] . Primieramente trova assurdo, che le cose stesse sieno nell' anima, essendo composte di materia e di specie. Ora la specie può esser nell' anima. C' è dunque una specie colle cose fuori dell' anima, e una specie nell' anima, che fa sentire e conoscere le cose. Tornano le difficoltà più sopra notate. Poichè quando Aristotele dice « « che la mente è tutte le cose, perchè è le specie stesse, e queste sono le cose » » o conviene intendere tutto ciò metaforicamente, ed allora non ci rimarrebbe alcuna spiegazione del fatto della cognizione umana, ma parole, quasi un mantello da coprire le spalle del filosofo; o conviene ammettere che la stessa entità, rimanendo identica, abbia due modi d' esistere, il subiettivo o estrasubiettivo nelle cose, e l' obiettivo nella mente, il quale appunto perchè obiettivo è specie; al che non pare esser giunto Aristotele. Di poi, qui Aristotele non ha in vista altro, che di spiegare la cognizione che l' uomo s' acquista delle cose corporee, delle grandezze sensibili, e rispetto a queste, certo non si può ammettere cognizione innata. In terzo luogo Aristotele trova la necessità del fantasma per contemplare, «theorein», le dette cose sensibili, e questo « contemplare », com' ha espressamente dichiarato, non riguarda l' abito della cognizione, ammesso anche da Aristotele senza fantasma, ma l' atto della mente, che pensa l' oggetto, o la prima volta, e allora impara o percepisce, o di poi quando pensa alle cose reali e sensibili che già conosce (3). E chi mai potrebbe negare, che a pensare attualmente un sensibile determinato (che altramente non sarebbe sensibile), ci abbisogni il fantasma? Anche questo è fuori di questione. In quarto luogo dice bensì Aristotele che la specie intelligibile è veduta dal contemplante nella specie sensibile , ma con ciò stesso distingue quella da questa. E tant' è vero che la distingue, che dice che quella si contempla « «insieme col fantasma » [...OMISSIS...] »; onde non è il fantasma. E questo vie più chiaramente si spiega nell' opuscolo «peri mnemes», dove è indicato più precisamente l' uso che del fantasma fa l' intendimento, e l' aiuto, che esso presta all' intendere, e quest' aiuto non è ch' egli già sia l' oggetto inteso, ma si riduce a mantener ferma l' attenzione, come chi vuole speculare sulla natura del triangolo, si mette sott' occhio un triangolo reale, benchè lo specolatore non badi punto alla sua grandezza, o a' suoi difetti (1): ma gli giova quel cotal simbolo al pensiero del triangolo ideale ed astratto, che non ha alcun quanto determinato, e non è nè manco sensibile, non essendo sensibili punto nè poco le linee matematiche, che lo costituiscono: pure il triangolo intelligibile è in qualche modo nel sensibile, perchè nel sensibile c' è un atto che corrisponde a una specie che ne rappresenta alla mente la forma possibile: onde l' intendimento vede il reale (fantasma) nel possibile, nell' essenza, di che s' era per un momento accorto Aristotele stesso quando scrisse che «en hois eidesin hai protos usiai legomenai huparchusi» (2), e non viceversa quando scrisse al contrario, che «en tois eidesi tois aisthetois ta noeta esti» (3) dal che s' avrebbe, che « « le sostanze reali sarebbero nelle specie intelligibili, e queste nelle specie sensibili, e le specie sensibili nelle sostanze reali » ». O bisogna dunque convenire che Aristotele fu incoerente, o intendere che la mente vede gl' intelligibili nelle specie sensibili, non perchè quivi essi veramente ci sieno, ma perchè la mente stessa colla sua attività ve li pone, benchè per sè non ci sieno punto. E porre ne li deve indubitatamente, se si considera, che Aristotele stesso insegna che la mente opera senza organo corporale (4), laddove il fantasma non si può avere senza organo corporale. Finalmente quell' Aristotele che avea preteso contro Platone che tutte le specie intelligibili si riferissero alle cose reali, e che perciò non esistessero da sè, ma altro non fossero che la forma o l' atto di queste, si trova necessariamente condotto a distinguere « « i primi intelligibili » » [...OMISSIS...] , cioè gli universalissimi, da tutti gli altri; e di questi già dubita se si pensino co' fantasmi, o senza fantasmi, anzi mostra apertamente di credere che senza, come osserva il Trendelenburg (1); appartengono immediatamente questi intelligibili al lume della mente agente, e noi diremo all' oggetto. E veramente gl' immediati, [...OMISSIS...] , s' intendono immediatamente dall' intendimento (2), ed anzi l' intelligibile si fa col tocco e coll' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] (3), onde l' intelligibile non esiste prima di quest' atto nè nel fantasma nè altrove, perchè l' esistere in potenza non è ancora esistere. Questi primi intelligibili sono chiamati da Aristotele principŒ, «archai» o principŒ della dimostrazione, «archai apodeixeos», ed essi sono indimostrabili, appunto perchè veduti immediatamente dall' anima intellettiva. Ma qual è il primo di questi intelligibili, secondo Aristotele? La stessa mente. [...OMISSIS...] . Conviene dunque che la mente sia qualche cosa di oggettivo e di per sè conosciuto, acciocchè sia il primo principio della scienza e della dimostrazione, quello che fa conoscere l' altre cose (5). Pure questa stessa mente acquista d' improvviso nelle mani d' Aristotele un' esistenza subiettiva, da per tutto dove la fa operante. E congiunge egli espressamente questi due modi di esistere da per tutto dove dice che « è il medesimo la mente e l' inteso » [...OMISSIS...] (1). Poichè è l' atto stesso della mente, che fa gl' intelligibili in atto, e questi li ha la mente, onde dice, che la mente « opera avendo » [...OMISSIS...] (2): gl' intelligibili dunque non sono fuori della mente, ma la mente li fa in se stessa, li fa in atto, avendoli in potenza: e quest' intelligibili, quando così sono fatti in atto, sono la mente stessa in atto, appunto perchè sono atti della mente. Quindi la doppia mente che Aristotele pone nell' uomo, in potenza, prima di fare gl' intelligibili, e in atto. Ma quella mente che fa gl' intelligibili, è essa stessa per natura sua in atto, altrimenti ci vorrebbe un' altra causa che la riducesse all' atto, onde di essa dice Aristotele, che « « questa mente è separabile, e immista, e impassiva, ed essente per sua essenza in atto » » (3), ond' anco asserisce, che di essa non si può già dire, che « « ora intenda, ora non intenda » » (4). Se dunque « « l' intelligibile è l' atto della mente » », e c' è nell' uomo una mente, che è atto per sua propria natura, consegue, che questa mente sia un intelligibile ella stessa, e però, che Aristotele ammetta innato nell' uomo un primo intelligibile , che chiama Mente, e questo primo intelligibile sia lume e principio della dimostrazione e della scienza, e non sia scienza, ma anteriore e più vero [...OMISSIS...] della scienza (5), e sia principio de' principŒ, e specie delle specie, e privo d' ogni corpo e d' ogni fantasma. Lo stesso si deduce anche dall' altro principio aristotelico, che « « ciò che è immateriale è per se stesso intelligente ed intelligibile » » (6). Ora la mente agente è tale: dunque ella stessa è il primo degli intelligibili, da cui tutti gli altri. Cercando quale sia il primo degli intelligibili per l' uomo, noi abbiamo trovato che è « l' essere possibile » al quale possiamo con verità applicare quello, che Aristotele dice della sua mente, insegnando che sia separabile solo «tuth' hoper esti» (7) « ciò che è », e quell' altre parole pure dello stesso filosofo: [...OMISSIS...] , perchè quello stesso intelligibile che in sè è in atto, in potenza è tutti gli altri intelligibili, il possibile assoluto indeterminato, l' essere. Risulta la medesima conclusione da un' altra dottrina di Aristotele, secondo la quale trova la mente in atto, ossia il primo intelligibile, tanto necessario per ispiegare la natura delle cose mondiali, da dichiararlo per sè sostanza , [...OMISSIS...] : onde ammette che possa sussistere per sè separato dalle cose corporee. Perciò dice che questa mente sia nell' uomo parte dell' anima, ma separabile, e la dimostra separabile perchè essa non « « è atto d' alcun corpo » » [...OMISSIS...] (2), come sono le altre parti, che colla mente formano nell' uomo un' anima sola: e perchè l' esperienza dimostra che l' anima non invecchia col corpo, benchè possa essere impedita da certi suoi atti per l' infermità del corpo (3). Dice dunque, che la mente è da sè sostanza, [...OMISSIS...] (1). Questa importantissima conclusione procede dal principio costantemente insegnato da Aristotele, cioè che, sebbene in uno, cioè in un qualche individuo della natura, possa precedere la potenza all' atto, come esserci, a ragion d' esempio, il seme prima del frutto, tuttavia non può esser così nella università delle cose, e il seme precedente a quel frutto, che di sè germina, deve essere stato preceduto dall' individuo perfetto che ebbe in sè o produsse il seme; e ciò: 1) perchè la potenza sola non esiste, è un concetto della mente; se esiste, è solo per essere unita a qualche atto; 2) la potenza non opera; che se operasse, sarebbe in atto; e però ha bisogno di qualche agente in atto, che la ecciti e la sviluppi facendola passare all' atto. L' atto dunque deve precedere in ogni ordine di cose, tanto nelle cose fisiche, quanto nelle intellettuali: altrimenti non si potrebbero spiegare gli atti , che sono nell' universo, il quale ridotto a pura potenza sarebbe annullato (2). Anche alla potenza dunque di conoscere dee precedere un atto primo di conoscere, e però ammette anche nell' anima umana una mente in atto e dice: [...OMISSIS...] . Riconosce dunque la necessità di dare all' anima intelligente, acciocchè sia tale, un atto d' intendere anteriore alla potenza di conoscere, un atto che non è nel tempo, che non cessa mai, onde di esso non si può dire che ora intenda e ora non intenda, una scienza in atto, la quale sia il medesimo coll' intelligibile, ossia colla cosa intesa, [...OMISSIS...] (4). Colloca dunque nell' anima un intelligibile indeterminato, e come genere, attualmente e continuamente contemplato, uno e continuo (5), che dice esser lo stesso dell' atto essenziale della mente, col quale questa mente riduce poi in atto tutti gl' intelligibili determinati, onde altrove usa le parole «to noein» e «to theorein», per la stessa mente, «nus» (6). Convien dunque osservare quale sia tutt' intera la dottrina aristotelica. Quest' è fondata sulla distinzione delle tre essenze elementari, materia, specie e composto . La materia è un concetto della mente, non può stare da sè, non è qualche cosa di determinato; [...OMISSIS...] . La specie o forma può stare da sè, perchè è già qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (1). E similmente il composto di materia e di forma può stare da sè. La specie dunque ha due modi d' esistere, da sè, e unita colla materia. La specie unita colla materia e formante il composto dà alla materia un atto delle operazioni, che non aveva da sè. Ora Aristotele dice che l' anima è specie, e però pone che possa tanto stare da sè, quanto unita alla materia (2), e quando sta da sè, le vengono meno quelle operazioni che a farsi hanno bisogno della materia (3), come d' istrumento, e non solo come d' istrumento ma anche come di potenza e di subietto. Aristotele accorda quest' esistenza dell' anima fuori della materia non solo all' anima intellettiva, ma ben anco all' anima sensitiva, poichè dice che per vecchiezza il principio sensitivo non perisce, ma solo l' istrumento; onde se al vecchio si desse un occhio vigoroso e giovanile, vedrebbe come il giovane (4). Pure più frequentemente insiste sulla separabilità della mente, e pare che ponga questa sola separabile; ma probabilmente intende comprendere in essa il principio sensitivo, considerandolo come un principio o rudimento della facoltà di conoscere; onde per indizio, che gli uomini per natura amino di conoscere, allega l' amore, che hanno, delle sensazioni (5). E poichè l' anima separata non cade sotto la nostra esperienza, si fa a considerarla nel composto, poi passa ad argomentare dalla sua natura ciò che può essere separata. Nel composto considera tutte le operazioni, e dice che l' anima è quella che le contiene tutte ed unifica e però non ha parti (6). Secondo questo principio, l' anima che contiene il corpo e tutte le operazioni del composto dovrebbe essere il subietto ; ma in questo non è coerente, e fa che l' anima tenga qualche cosa del materiale, perchè avendo detto che il corpo è la materia del composto e l' anima la forma, e la materia essendo per lui potenza, e l' anima di conseguenza atto, fece il corpo vivente subietto di quest' atto, chiamandolo sostanza, [...OMISSIS...] (1), onde vuole che « il corpo vivente (il composto, l' uomo considerato dalla parte del corpo), sia quello, che senta la compassione e impari e raziocini [...OMISSIS...] per mezzo dell' anima (2); e pure, come vedemmo, l' intendere [...OMISSIS...] l' attribuisce all' anima sola, senz' uso di corpo, e in mille luoghi parla delle diverse funzioni ed operazioni dell' anima, onde gli è forza di considerare l' anima come subietto paziente ed operante, e non come mezzo delle operazioni. E del pari in tutti quei luoghi dove dice, che il corpo e le sue parti sono istrumenti dell' anima, anche dell' anima sensitiva, riconosce questa per subietto, che adopera quegl' istrumenti, e la considera anche come potenza de' suoi atti (3). Come dunque il corpo per natura vivente sarà il subietto e non l' anima? A questa sentenza fu tratto Aristotele da' suoi principŒ dialettici, come si vede dalla ragione che dà per provare che il corpo vivente è il subietto; [...OMISSIS...] . Avea già detto nelle « Categorie » che gl' individui singolari non si predicano del subietto, ma sono sostanze prime, delle quali si predicano le specie come del loro subietto (5). Avendo dunque detto che l' anima rispetto al corpo è specie , e le specie si predicano del subietto, e non viceversa, fece che il corpo di cui si predica la specie dell' anima sia il subietto di questa, e questa la qualità essenziale e specifica di quello (6). Onde si vede che Aristotele confuse il subietto dialettico col subietto reale . Certo si può prendere il corpo vivente pel subietto dialettico, come quando si dice - e lo dice spesso Aristotele - che l' anima è nel corpo; ma il subietto reale è l' anima, e però si dice (quello che pur dice Aristotele), che il corpo è nell' anima come nel suo contenente ed unificante. Questo subietto dunque reale, l' anima, rimane, anche disciolto il corpo, ed uscita da esso, come s' esprime lo stesso Aristotele (7), ma senza quelle operazioni, che essa fa pel corpo. L' intendere poi [...OMISSIS...] non ha bisogno d' organo corporale, onde dice che la mente pare un altro genere d' anima (1), ed è non lontano dal considerarla un atto del corpo, come si può considerare il pilota un atto della nave. [...OMISSIS...] . Quest' anima dunque, secondo Aristotele, è una sostanza dell' ordine delle specie , che quantunque si può predicare del corpo vivente, come si predicano l' altre specie delle sostanze prime ossia composte (3), tuttavia è determinata, e da se stessa è atto sussistente, e così separata dalla materia è ad un tempo l' intelligente e la cosa intesa, ossia il primo intelligibile, materia e subietto di tutti gli altri intelligibili o specie più o meno determinate che sono suoi atti secondi. A questi atti secondi o specie intelligibili determinate, la mente ossia l' anima intellettiva non esce, se non quando è unita al corpo, perchè tali specie intelligibili le vede nelle specie sensibili, e le specie sensibili non sono divise dalle cose sensibili e reali, cioè dai corpi (4). E questo è il punto di divergenza d' Aristotele da Platone, poichè questi ammetteva tali specie o idee determinate come esistenti da sè fuori de' sensibili e de' reali, e Aristotele lo nega. Ma nello stesso tempo ammette una specie prima pura da ogni materia e da ogni elemento sensibile, che è in potenza tutte quelle specie determinate, e questa è quella che chiama mente, «nus». Stabilito questo, Aristotele ascende a questioni maggiori. Poichè domanda a se stesso, se, essendo la mente cosa che può stare da sè, abbia essa nel suo essere proprio e separato dalla materia, preceduto, almeno nell' ordine logico, la materia stessa e il composto. E quest' appunto sostiene: [...OMISSIS...] (1), dove allude alla dottrina di Anassagora, di cui accenna nel XII dei Metafisici (2). Nel qual libro questa stessa questione è trattata più pienamente. Quivi prende a dimostrare che ci deve essere « «una qualche sostanza eterna ed immobile », [...OMISSIS...] ». Egli muove la sua dimostrazione dalla necessità di spiegare il fatto della generazione e della corruzione delle cose, che suppone sempre stata e quindi sempre stato il moto. Ora dice, che a questo moto continuo conviene assegnare una causa, e questa in atto , poichè in potenza, ancorchè fosse eterna, non produrrebbe il moto continuo (3). Questo motore dunque deve essere un principio, la cui essenza sia atto; [...OMISSIS...] , e, sia uno o più, dee essere scevro da materia [...OMISSIS...] . Ora è qui da risovvenirsi che, secondo Aristotele, ogni sostanza che sia pura da materia, è per sè un intelligibile e un intelligente, ed è pura specie. Ammette dunque Aristotele delle specie eterne, che sono sostanze senza materia, e menti in atto, e sono eterne appunto perchè sono in atto per loro propria essenza, [...OMISSIS...] . Dice in appresso che quest' immobile sostanza è « separata da' sensibili »e che è « priva d' ogni grandezza »senza parti e indivisibile (4). Queste dunque non sono di quelle specie che sono vedute dall' uomo ne' sensibili. Trova dunque necessario di ammettere delle specie, come sostanze eterne, intelligibili, senza materia, separate al tutto dalle cose sensibili, per ispiegare, come per una prima causa, i movimenti mondiali e la generazione e corruzione delle cose. Perchè si concepiscono certe cose mosse e non moventi, altre mosse e moventi, altre finalmente moventi immobili, essenzialmente in atto: e queste sole possono essere prime cause. [...OMISSIS...] . Ora prosegue Aristotele a osservare, che non c' è nulla che possa movere restando egli stesso immoto, se non l' appetibile [...OMISSIS...] e l' intelligibile [...OMISSIS...] . Ora i primi appetibili e i primi intelligibili s' immedesimano (1). In fatti il primo volibile è il vero bello (2), il quale è ad un tempo intelligibile e appetibile. Ma osserva, che è anteriore la ragione d' intelligibile a quella di appetibile, perchè si appetisce una cosa per la ragione che sembra tale, e non sembra tale per la ragione, che la si appetisce: laonde il principio dell' appetizione volitiva è l' intellezione (3). Ma come la mente esce all' atto dell' intellezione? Risponde che è mossa dall' intelligibile ; [...OMISSIS...] . Dal che consegue che l' intelligibile come quello che move la mente, logicamente è anteriore alla mente in potenza, e anteriore altresì all' intellezione, che è la mente condotta al suo atto. Laonde l' intelligibile è anteriore a tutto e forma una serie per sè: tra gl' intelligibili poi la prima è la sostanza che logicamente precede agli accidenti, e tra le sostanze quella, che semplicemente è, cioè quella che è in atto; perchè se fosse in potenza non sarebbe ancora, e non potrebbe dirsi semplicemente che fosse. Il primo dunque tra tutte le cose è « « un intelligibile puro, sostanza in atto » ». Ma tale non potrebbe essere, secondo Aristotele, se non fosse egli stesso, quest' intelligibile, per sè intellezione e così atto o mente intelligente. C' è dunque una mente che è essenzialmente intelligibile e intellezione e intelligente nel tempo stesso, poichè l' intelligibile è per Aristotele l' estremità dell' atto della mente. Riconosce dunque Aristotele la necessità che preceda un intelligibile per sè a tutto, il quale abbia non solo un' esistenza obiettiva, ma anche subiettiva, e sia una mente in atto che si continui quasi numero trino, [...OMISSIS...] (5), nei tre stadŒ di mente, intellezione, intelligibile, [...OMISSIS...] e sia una sola sostanza eterna e divina, onde conchiude, [...OMISSIS...] , « poichè questo è Dio »(1): questo, dico, lo riconosce necessario per ispiegare non meno l' origine della mente umana, che la generazione e il movimento delle cose naturali. Ma come egli applichi quest' intelligibile eterno a spiegare tutto ciò, è difficile a dire, perchè ne tocca con brevità, oscurità e dubbiezza qua e colà ne' varŒ libri che ci rimangono. Cominciamo dalla mente umana. Nel secondo « Della generazione degli Animali » (2) propone la doppia questione se nel seme [...OMISSIS...] , e nel concepito [...OMISSIS...] ci sia l' anima, e onde venga [...OMISSIS...] ; e prima dice che c' è un' anima vegetale [...OMISSIS...] , che poi ne emette una sensitiva [...OMISSIS...] , per la quale il concepito diventa animale (3), finalmente una razionale, per la quale diventa uomo (4). Di queste tre anime ossia gradi di perfezione dell' anima il rudimento è nella vita de' generanti ossia nel loro seme, onde così ne descrive lo sviluppo. [...OMISSIS...] . E qui passa alla seconda questione, se queste tre anime vengano dal di dentro cioè dalla virtù seminale, che è nel corpo, o dal di fuori s' aggiungano al feto. [...OMISSIS...] . Dopo aver detto che le tre anime così sono insite nel corpo seminale e si sviluppano l' una dall' altra, da queste tre anime separa la mente e conchiude così: [...OMISSIS...] . Qui distingue dunque la mente, «nus», dall' anima, dico anche dall' anima intellettiva, «noetikes», in virtù della quale l' animale si fa uomo. Pare dunque evidente che qui Aristotele prenda la mente sotto l' aspetto d' intelligibile , ossia com' oggetto primo dell' anima intellettiva, e in fatti anche le parole che seguono dimostrano la mente distinta dall' anima stessa. [...OMISSIS...] . Dice dunque che la sola mente è divina e viene dal di fuori, cioè da Dio, che è, come vedemmo, l' intelligibile, pura forma, senza nulla di corporeo e di sensibile. Tuttavia il corpo animato avendo in sè il principio dell' anima trina, cioè vegetale, sensitiva, e intellettiva [...OMISSIS...] , alla qual ultima avviene dal di fuori la divina mente, partecipa anch' egli del divino, e però lo chiama « « più divino degli elementi » » [...OMISSIS...] . Ma come la mente s' aggiunge venendo dal di fuori, così anche si separa dal corpo; [...OMISSIS...] , sebbene egli pare che in questo luogo oscuro si separi piuttosto dal corpo crasso un corpo sottile, unita al quale sia la mente partecipata da Dio. Di qui nasce un' altra questione: Che cosa fa dunque questa mente divina al tutto separata dalla materia, ma che avviene all' uomo, cioè all' anima intellettiva, e che pure nell' uomo stesso non fa uso d' alcun organo corporale? Anche su questa questione un gran buio. Pure se attentamente si considerano e si pesano i diversi luoghi paralleli, parmi che ne risultino due cose: 1 Che la mente informa l' anima umana e la rende intellettiva e così capace d' intendere i sensibili e tutto ciò che da questi si trae per astrazione; 2 che essa mente somministra da sè i primi intelligibili, [...OMISSIS...] , in occasione delle sensazioni, i quali primi intelligibili nè sono fantasmi, nè s' intuiscono ne' fantasmi, nè vengono in alcun modo dal senso, ma dalla mente pura. Che questo sia il pensiero d' Aristotele, apparirà chiaro quando si osservi attentamente la differenza ch' egli pone tra la scienza, «episteme», semplicemente, e la mente , «nus», che è la scienza o cognizione de' principŒ «ton archon episteme». La scienza semplicemente detta , secondo Aristotele, si trae dalle sensazioni, non così la scienza de' principŒ ossia la mente , «nus», poichè egli così la chiama, «nus an eie ton archon» (1); questa viene da Dio, ossia dalla mente separata e pura. Per non essersi distinte queste due maniere di cognizioni, fu erroneamente creduto che Aristotele riducesse l' origine d' ogni sapere umano, come a suo principio, alle sole sensazioni. Ma niente di più falso, come già apparisce anche dal detto di sopra. S' esamini attentamente il luogo classico, che è l' ultimo capo de' « Posteriori », dove cerca l' origine dei principŒ. Per venire a questi, prima di tutto descrive la formazione della scienza semplicemente detta . La formazione di questa percorre i seguenti gradi: la sensazione , la memoria , l' esperienza , il principio dell' arte e della scienza , «technes arche kai epistemes», dell' arte se riguarda la generazione o l' operazione, della scienza se l' ente; [...OMISSIS...] . Fin qui ha descritto la formazione della scienza propriamente detta, e di questa conchiude che [...OMISSIS...] . Ma la formazione della scienza suppone avanti di sè un' altra specie di cognizione, che non è scienza, o abito di scienza, ma è ciò da cui viene la stessa scienza, e questa cognizione anteriore sono i supremi principŒ ossia la mente. [...OMISSIS...] . Descrisse dunque prima come successivamente si formi la scienza nell' uomo, ma perciò appunto non descrisse, come si sieno formati i principŒ, poichè questi non appartengono alla scienza. E veramente la scienza che descrisse, è quella che si fa per via di discorso, come egli stesso dichiara, [...OMISSIS...] , e gli abiti determinati, menzionati più sopra, qui li chiama abiti riguardanti la cognizione raziocinativa, [...OMISSIS...] . Il principio dunque della dimostrazione è fuori della dimostrazione come il principio della scienza non può esser la scienza, [...OMISSIS...] . E che la scienza, di cui aveva parlato, fosse raziocinativa e dimostrativa, l' avea mostrato anche dicendo che si conoscevano i primi per analogia, che è una specie di ragionamento come vedemmo; [...OMISSIS...] . Sopra la scienza dunque colloca Aristotele un genere più splendido, e questo è il complesso degli ultimi principŒ, cioè la mente stessa, [...OMISSIS...] . Colloca adunque nell' uomo un abito, non un abito determinato, un abito di scienza, ma un abito anteriore e più vero della scienza, principio della scienza, anzi principio del principio, [...OMISSIS...] . E lo chiama « « principio del principio » » per distinguerlo da quello, che prima avea chiamato «technes arche kai epistemes», con che intendeva l' universale, e da quello che avea chiamato «ta prota», cioè i più estesi universali ossia le categorie (1). Sopra tutti questi sono gli ultimi principŒ della dimostrazione, il principio del principio della scienza, la mente. Questa mente è la mente in atto, che nel terzo dell' anima chiamò abito e lume, [...OMISSIS...] e che disse esser quella, che trae al suo atto la mente potenziale, quella perciò che rende l' anima umana atta a trarre dalle sensazioni nel modo detto la scienza; poichè non ogni anima è atta a ciò, ma quella che è tale, cioè a cui è venuta dal di fuori questa mente divina, [...OMISSIS...] . Ora questi primi principŒ proprŒ della Mente, Aristotele li chiama immediati [...OMISSIS...] , e l' uomo non può saper nulla per via di dimostrazione, a cui appartiene la scienza, se non conosce prima que' principŒ (2), onde li chiama più noti della scienza, [...OMISSIS...] ; questi dunque precedono nella mente umana la scienza. Ma Aristotele qui si trova in una somma perplessità. Da una parte egli riconosce che niuna scienza ci può essere, se l' uomo non conosce avanti que' principŒ; onde dice: [...OMISSIS...] . Dall' altra, trova pure assurdo, che ci sieno in noi gli abiti della scienza, senza che noi n' avessimo coscienza [...OMISSIS...] . La risposta a queste difficoltà consiste nella distinzione tra due generi di cognizioni, la cognizione dimostrativa, e la cognizione de' principŒ, il qual ultimo genere avviene, che talora sia nell' uomo, e l' uomo nol sappia (1), e da esso si fa il secondo, cioè quello della scienza. Laonde la scienza suppone la cognizione de' principŒ, ma una cognizione latente fino che non c' è l' oggetto d' applicarla. Sia a ragion d' esempio quest' oggetto il triangolo. Il concetto generale di triangolo si forma per l' induzione aristotelica che abbiamo descritta. Conosciuto il triangolo si rileva che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, mediante un sillogismo che parte dal principio di contraddizione . Questo principio, [...OMISSIS...] , dice Aristotele, deve assumersi come noto. Dee ancora preconoscersi il triangolo prima di venire alla dimostrazione; e se s' impara dal maestro, sapersi che questo appunto indica la parola « triangolo ». Due cose si devono dunque preconoscere prima di dedurre che gli angoli del triangolo sono uguali a due retti, [...OMISSIS...] . Preconosciute queste due cose, si conosce anche la conseguenza che se ne trae. Domanda dunque Aristotele: [...OMISSIS...] . E così scioglie il dubbio, che Platone proponeva nel dialogo intitolato il Menone «( Ideol. 222 segg.) ». Distingue dunque Aristotele l' universale individuo dai primi principŒ del ragionamento, e vuole che quello si formi per via d' induzione dal senso, questi vengano immediatamente dalla mente di sua essenza in atto, e, da latenti forse che stanno nell' anima, si manifestino in occasione di sillogizzare mediante l' universale conosciuto per la detta induzione. L' universale individuo [...OMISSIS...] è di quelli che si dicono senza congiunzione, [...OMISSIS...] , i principŒ sono di quelli che si dicono con congiunzione, [...OMISSIS...] , cioè s' esprimono in un giudizio o proposizione; tale è il principio di contraddizione: « che d' ogni cosa è vera l' affermazione o la negazione ». I primi non hanno nè vero nè falso in se stessi, perchè nulla affermano o negano: ai secondi appartiene la verità e la falsità. Ora la verità appunto delle proposizioni è ciò che Aristotele riconosce superiore alla sensazione e immune affatto da queste, e rimette totalmente alla mente in atto. [...OMISSIS...] . Dal che deduce che se il vero e il falso è la congiunzione degl' intelligibili ossia de' concetti, dunque non sono i singoli concetti, e però molto meno i fantasmi. [...OMISSIS...] . Ora l' aver posto Aristotele che l' oggetto della Mente in atto sia la verità , non discorda nè pure in questo da noi, che abbiamo detto il primo oggetto della mente essere appunto la verità «( Ideol. ) ». Ma resta a vedere più accuratamente che cosa sia questa verità che non viene da' sensi, ma è dalla mente immediatamente conosciuta. Cercando dunque Aristotele qual sia il fondamento della verità de' giudizi e delle proposizioni, trova che tutte dipendono in ultimo da due principŒ o prime proposizioni per sè evidenti ed indimostrabili: 1 il principio di contraddizione ; 2 e un principio che egli non denomina nè chiama principio, ma che noi per maggior chiarezza, parendoci che così si determini meglio il suo pensiero, chiameremo principio d' affermazione assoluta . A questi principŒ Aristotele suppone questo fondamento: [...OMISSIS...] , perchè niente è o si fa con incertezza o a caso, ma tutto l' essere è determinato (4). Ora consideriamo a parte i due principŒ. Il principio di contraddizione è questo: « D' ogni cosa è necessario che sia vera o l' affermazione o la negazione ». Su questo principio osserva Aristotele, che non è già necessario che sieno veri i due estremi dell' alternativa presi in separato, ma o l' uno o l' altro, e il principio non determina punto quale: [...OMISSIS...] . Laonde non determinando questo principio quale de' due estremi sia vero, ma solo, che l' uno o l' altro è vero; non basta per conoscere la verità, ma dee esser soccorso da qualche altro, che togliendo l' alternativa, mostri quale sia de' due il vero: dal che poi s' inferisce l' altro, falso. Questo secondo principio è quello, che noi abbiamo chiamato di affermazione assoluta e che da Aristotele viene solamente indicato. Poichè dice che l' alternativa che si ha nel principio di contraddizione, c' è solo ne' contingenti cioè in quelle entità che non sono sempre in atto, [...OMISSIS...] . C' è dunque un altro principio per le cose necessarie, che dice: [...OMISSIS...] . E come il principio di contraddizione ha per fondamento la natura dell' entità in astratto, senza che si consideri ancora se l' entità sia contingente o necessaria: così il secondo principio nasce quando s' è conosciuto che ci hanno degli enti contingenti e degli enti necessari, pei primi de' quali rimane valevole lo stesso principio di contraddizione che pone l' alternativa, per gli altri poi è già tolta l' alternativa, e al principio di contraddizione sostituita l' affermazione assoluta (4). Da questo si vede, che, secondo Aristotele, il vero è nei giudizŒ ed è lo stesso ente affermato (1) detto da lui, « « ente nel senso più eccellente e proprio », [...OMISSIS...] ». Poichè ciò, che non è affermato, cioè gli enti che si dicono senza composizione, come sono le specie, che si riducono alle categorie - si concepiscano queste in atto o in potenza - non sono da Aristotele considerati come enti completi, chè, concepiti in tal modo, e non affermati, non è ancor detto che sieno o non sieno, e restano solo possibili, per la mente, ma l' ente affermato è completo (se l' affermazione è vera) cioè è l' ente che veramente è (2). Distingue dunque le cose che ammettono composizione dalle cose semplici, come sono le specie. Nelle prime dice, che « « l' essere è il comporsi e l' esser uno, il non essere è il non comporsi e l' esser più » » (3). Questo comporsi e non comporsi è tolto dalla forma del giudizio, che è l' unione che fa la mente del predicato col subietto: e vuol dire, che se il predicato nel fatto si compone col subietto, la cosa è così come s' afferma, e questo la chiama essere , [...OMISSIS...] : se poi il predicato, che noi uniamo al subietto, nella cosa non si unisce e compone, essa non è qual s' afferma, e questo lo chiama non essere [...OMISSIS...] . Dunque, se la cosa è come s' afferma, c' è il vero, se non è, non c' è il vero. Il vero dunque è l' essere affermato. Ma dove non c' è composizione di subietto e di predicato come nelle specie?... Domanda dunque in queste cose incomposte « « che cosa sia l' essere e il non essere, e il vero e il falso »; [...OMISSIS...] ». E risponde che « « il vero è il toccare, ed esprimere colla voce », [...OMISSIS...] », cioè il toccarle colla mente, l' intuirle e il significarle colla voce, distinguendo il mandare una voce, dire un vocabolo «fasis», dall' affermare, pronunciare una proposizione, «katafasis». Ora osserva che circa gl' incomposti, «asyntheta», l' intuirli, o come dice, il toccarli colla mente è il vero, ma il contrario di questo vero non è propriamente il falso, ma semplicemente l' ignoranza, chè l' ignorare è non toccare, [...OMISSIS...] . Il che dice in molt' altri luoghi. Ed è molto da considerarsi questa sentenza d' Aristotele. Poichè se le essenze incomposte, le quali sono certamente le specie, che altrove chiama seconde essenze, [...OMISSIS...] , o se non queste sole, anche queste però, non si generano, nè si corrompono, e la mente umana non le produce già, ma le tocca o non le tocca, le intuisce o non le intuisce, e se queste sono sempre e sempre in atto, [...OMISSIS...] , e perciò eterne, e se queste nelle cose corruttibili e sensibili non sono sempre, perchè queste si cangiano e perdono i loro atti, e ne prendono altri, che rispondono ad altre specie: conviene certamente dire che Aristotele ritiene molto di ciò che ebbe appreso alla scuola del suo maestro. E come s' ha da intendere dunque quello che altrove dice che le specie intelligibili s' intuiscono dall' anima nelle specie sensibili? Non può essere in alcun altro modo, se non così; che le specie sensibili sieno l' occasione e quasi il luogo, dove la mente umana vede le specie eterne, sebbene queste sieno immuni da ogni corruttibile e sensibile elemento. Ma Aristotele vede un' altra verità maggiore. Poichè si presentò alla sua mente la questione, « perchè le essenze o specie semplici ed incomposte sieno sempre in atto, e non si generino nè corrompano, ma, o si tocchino dalla mente, o non si tocchino ». E rispondendo a se stesso s' accorge, che questo avviene necessariamente per la natura dell' ente , che è la specie o essenza prima e indeterminatissima, a cui tutte le altre si riducono: onde ne dà appunto questa ragione che [...OMISSIS...] . E in tutto questo troviamo che Aristotele è con noi, o a noi sommamente s' avvicina. Poichè: 1 Riconosce, che la verità è l' essere , o affermato , o toccato, intuito dall' anima intellettiva (2); 2 Che le essenze e specie, essendo incorruttibili ed eterne, sono o toccate o non toccate dalla mente, e però si dà ignoranza, ma non inganno circa di esse; 3 Che queste essenze o specie si riducono all' essere stesso [...OMISSIS...] , dal quale ricevono l' ingenerabilità e l' incorruttibilità e quindi l' altre loro doti. Altrove suddivide il falso delle cose, che ammettono composizione, e dei giudizŒ, in due specie; la prima quando le cose non si compongono, cioè il predicato non si affà al subietto, o anche è impossibile che si compongano, e queste cose, dice, non sono enti, [...OMISSIS...] : la seconda, quando le cose, gli enti, qualunque sieno, [...OMISSIS...] , sono atti per natura ad apparire quali non sono o quelli che non sono, come l' ombre ed i sogni. Queste cose sono un chè, ma non ciò di cui producono la fantasia, [...OMISSIS...] . Quest' acuta sentenza, che ogni ragione è falsa d' altro che non di ciò, di cui è vera, suppone che la ragione resti, e diventi vera o falsa, secondo che l' uomo l' applica all' ente a cui appartiene o a un altro, e in quanto resta ella è vera del secondo genere di verità, cioè degl' incomposti. Questa ragione poi, che è sempre vera in sè, ma di cui l' applicazione può essere falsa o vera, è il principio, come già vedemmo «( Ideol. 10.3 segg.) », che atterra lo scetticismo critico. L' essere dunque, secondo Aristotele stesso, è la verità, e rivestendo la sua dottrina del nostro linguaggio, l' essere presentandocisi in due modi, come reale e come ideale, due sono i generi della verità, il primo de' composti, il secondo de' semplici: al primo corrisponde il giudizio che unisce, e però il vero qui è «to sygkeisthai kai hen einai», al secondo corrisponde l' intuizione, e però qui il vero rispetto alla mente, è «to thigein» (2). Nè fa meraviglia, che si dia da Aristotele la verità egualmente alle cose e alla mente, perchè egli parte dal principio, che la mente dopo che ha intese le cose è divenuta le stesse cose e che [...OMISSIS...] . La mente in atto dunque, venuta dal di fuori all' uomo, somministra i primi principŒ all' atto di giudicare della verità e di raziocinare, che non è altro che un conoscere l' essere nelle cose. Quindi questa mente venuta dal di fuori è quella che rende intellettiva l' anima che la riceve, ossia che dà all' anima « « la mente in potenza » » cioè a dire una facoltà atta a raziocinare, che da Aristotele è anche chiamata « « mente dell' anima », [...OMISSIS...] », ed è definita « « quella con cui l' anima raziocina e percepisce », [...OMISSIS...] » (2). Ora come non si può raziocinare senza che anteriormente l' anima intuisca i principŒ, così questa mente dell' anima o facoltà di ragionare dee essere preceduta nell' uomo da un' altra mente in atto, ch' egli chiama [...OMISSIS...] . Solamente è da notare che Aristotele non intese bastevolmente l' intima connessione ed identificazione tra l' universale ed i principŒ , i quali, come noi abbiamo mostrato, non sono altro che lo stesso universale applicato a giudicare del meno universale «( Ideol. 559 7 566) »: onde ogni universale nella sua applicazione a' giudizŒ, che da lui, come da regola si fanno, è un principio del ragionamento, principio più o meno esteso, a quello stesso modo che è più o meno esteso l' universale. Se questo avesse veduto chiaramente Aristotele, non avrebbe divisa la cognizione dell' universale dalla cognizione de' principŒ: ma si sarebbe accorto che quella e questa dipendono dallo stesso atto d' intuizione dell' essere, benchè quella, posteriore a questa, abbia bisogno a formarsi d' altre facoltà, che chiameremo, complessivamente, facoltà d' applicazione e di deduzione. Non pare dunque, che Aristotele abbia colto la natura comune degli universali, ma solo vide, che gli ultimi e più estesi universali, [...OMISSIS...] , non poteano aver nulla di comune coi fantasmi. E questo lo argomentò dal considerare « i giudizi intorno alle verità delle cose », i quali, mettendo a confronto le specie per giudicarle, non poteano essere le specie stesse, e doveano avere altresì per regola de' principŒ evidenti e precogniti: onde disse, che [...OMISSIS...] . E dimostra ciascuna di queste qualità che devono avere i principŒ della dimostrazione; tra le quali quella di essere più noti e precogniti, [...OMISSIS...] . Dalle quali ultime parole si vede, che conobbe certo Aristotele, che i primi e sommi universali erano il medesimo che i primi e sommi principŒ; ma non molto s' accorse che di qualunque universale, fosse anche il minimo, si può dire il simile, cioè che è atto ad essere usato in giudicare, e in dimostrare, come un principio. La distinzione poi che fa tra le cose anteriori e più note assolutamente e semplicemente, e anteriori e più note relativamente a noi, acciocchè abbia un senso, dee intendersi relativamente alla nostra consapevolezza, poichè, come ha detto altrove, « « avviene, che le notizie più chiare » [...OMISSIS...] «nella stessa dimostrazione stieno celate » » nell' uomo (1), cioè l' uomo le abbia senz' accorgersene. Onde chiama cose anteriori e più note a noi quelle che sono tali in ordine alla riflessione nostra, benchè i sommi universali devano essere anche a noi stessi noti precedentemente, e più noti d' ogni altra cosa, se da essi dobbiamo dedurre la cognizione di tutte l' altre cose, come Aristotele stesso segue a mostrare: poichè dice: [...OMISSIS...] . Insegna dunque chiaramente Aristotele, che a quello stesso uomo [...OMISSIS...] che è atto ad imparare per dimostrazione, devono precedentemente esser noti e più noti i principŒ e l' assurdità di ciò che a questi s' oppone, [...OMISSIS...] perchè così è rimossa da lui la possibilità dell' inganno; e però quando dice, che rispetto a noi è più noto ciò che s' approssima al senso, dee intendersi rispetto al nostro accorgerci, e al nostro sapere riflesso e consapevole. I sommi universali dunque, i primi intelligibili, i principŒ indimostrabili [...OMISSIS...] sono il medesimo per Aristotele, e questi sono noti all' uomo prima d' ogni sapere acquistato per dimostrazione: ora dopo aver dimostrata la necessità che queste notizie nella mente umana precedano, riassumendosi, le chiama tutte insieme « « principio della scienza » »; [...OMISSIS...] . Ora in appresso dice che questo principio della scienza è la mente, [...OMISSIS...] . Per mente dunque intende Aristotele il complesso de' primi intelligibili anteriori alla dimostrazione, indimostrabili, notissimi, tutto ciò in una parola che ci può essere d' anteriore alla dimostrazione, di cognizione evidente, [...OMISSIS...] onde dice, che la mente è dei principŒ, [...OMISSIS...] . Di nuovo dunque raccogliamo che la mente è presa in senso obbiettivo come i primi intelligibili (3). E di questi primi intelligibili, che sono essenze incomposte, dice Aristotele che sempre sono in atto, e non mai in potenza da cui passino all' atto: [...OMISSIS...] . Questi intelligibili sono dunque, secondo Aristotele, sempre in atto, davanti all' anima intellettiva, e costituiscono la mente che viene dal di fuori, il lume della ragione, [...OMISSIS...] . Ma se questa mente è una, come poi essi che la costituiscono, sono molti? Se si considera attentamente i diversi luoghi d' Aristotele, si trova ch' egli stesso riduce la moltiplicità de' principŒ ad un solo, che contiene in sè tutti gli altri. E veramente gli altri non sono che il primo principio, che riceve diverse espressioni secondo il diverso genere d' entità a cui si applica. E questo primo principio per Aristotele è quello di contraddizione. Del quale dice espressamente che per natura sua è « « il principio di tutti gli altri assiomi », [...OMISSIS...] . Se dunque il principio di contraddizione è il principio di tutti gli altri assiomi, questi sono sue conseguenze, e però per lui, come per un primo lume, si conoscono: dice ancora, che [...OMISSIS...] . Sui quali luoghi notevolissimi conviene osservare: 1 Che se il principio di contraddizione è il principio degli assiomi, [...OMISSIS...] , e se la mente pure è il principii de' principŒ, [...OMISSIS...] , consegue, che il principio di contraddizione, che contiene nel suo seno tutti gli altri principŒ, sia lo stesso che la mente obiettiva ed in atto d' Aristotele, [...OMISSIS...] . Il principio di contraddizione è dunque, secondo Aristotele, la luce sempre in atto dell' anima intellettiva: vedremo in appresso a che cosa esso si riduca. 2 Il nostro filosofo insegna pure ne' luoghi citati chiaramente che non si può concepire un ente o una ragione qualunque degli enti senza già avere il principio di contraddizione, [...OMISSIS...] , e che chi si fa a conoscerla, deve venire a impararla, già avendo quel principio, [...OMISSIS...] . E dire esser necessario che si preconosca questo principio per concepire o imparare qualunque ente o ragione, nel linguaggio d' Aristotele risponde alla nostra percezione intellettiva o concezione degli enti: solamente egli nota in tale conoscere anche l' intuizione della necessaria certezza della cosa concepita, onde dice, che non si concepisce come ipotesi, [...OMISSIS...] , e anche noi ce la comprendiamo ma implicita e indistinta dalla percezione e concezione, distinguendosi poi solo in appresso per un atto di riflessione scientifica. 3 E qui si ha la chiara spiegazione di ciò che voleva dire il nostro filosofo in fine al secondo degli Analitici posteriori, dove descrivendo il modo col quale l' anima dalle sensazioni viene formandosi la scienza, dice che [...OMISSIS...] . La condizione dunque che dee avere quest' anima è che abbia precedentemente in sè in atto il principio di contraddizione ossia la mente che le viene dal di fuori: con questa mente ella può conoscere, percepire, ragionare, e però distingue l' anima intellettiva che è in potenza, dalla mente che è in atto, e colla quale l' anima intellettiva intende e ragiona tutto ciò che intende e che ragiona (3). Conviene ora osservare a conferma di tutto ciò, come sia lontanissimo da Aristotele il confondere ciò che dà il senso, con ciò che è l' oggetto dell' intelletto. Poichè quantunque dica che si vedono da noi le specie intelligibili nelle specie sensibili , e quantunque faccia venire la scienza nostra per via d' induzione , [...OMISSIS...] nel modo spiegato, e dica che il senso faccia l' universale, [...OMISSIS...] , tuttavia tiene sempre al tutto distinto il termine sensibile dall' intelligibile. E già vedemmo, che per senso non si dee intendere i sensi particolari ed esterni « ma una potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente »: onde questa potenza è generica e può variare di specie ne' diversi animali, nell' uomo poi questa potenza immediata è anche intellettiva, onde anche noi non ricusiamo di riconoscere nell' intuizione « un senso intellettivo »che tocca , per usare una parola Aristotelica, l' intelligibile. E che per senso Aristotele intenda in genere questa potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente, e non i soli cinque sensorŒ, vedesi anche dall' ammettere egli « « un senso comune » » [...OMISSIS...] (1), che non è niuno de' cinque. Oltre di che il sensibile per Aristotele non è che l' accidente degli enti (2), e anche questo si trova sì fattamente nell' anima, che fuori di questa non esiste più in atto; in potenza poi non è ancora esistere, e quindi al senso egli dà l' apparenza e non la verità, benchè dica, che di queste apparenze sensibili ciascun senso ha la sua e in essa non s' inganna (3). All' intelligenza sola poi riserva l' essere delle cose (4), le essenze , la verità, gli universali. Laonde censurando Democrito dice che [...OMISSIS...] . Dal qual luogo, come da molti altri si trae: 1 Che Aristotele assegna ai sensi l' apparente, [...OMISSIS...] : 2 che assegna alla mente l' essere , [...OMISSIS...] , la verità, [...OMISSIS...] : 3 e che dalla mente, che viene dal di fuori, vuole distinta l' anima, non solo come una parte di questa, qual sarebbe la mente subiettiva, ma come un' altra cosa, qual è la mente obiettiva (6). Ora per anima propriamente distinta dalla mente Aristotele intende « quel principio immateriale, che usa nelle sue operazioni per istrumento il corpo da esso animato ». E tra queste operazioni, [...OMISSIS...] del composto, enumera tra le principali e più evidenti [...OMISSIS...] , alle quali si devono aggiungere quei tre modi d' operare che, come vedemmo altrove, chiama compassionare, imparare, raziocinare, [...OMISSIS...] : poichè ogni discorso dell' anima intellettiva ha bisogno dell' aiuto de' fantasmi. Dice che quelle operazioni, che sono del composto, non sono tutte fatte dal senso, ma « « alcune dal senso, alcune altre col senso » » [...OMISSIS...] (4), onde il raziocinare si fa bensì col senso, ma non dal senso, e così, secondo Aristotele, insieme col senso opera la ragione, che non è il senso, ma che al senso s' unisce, e concorre a produrre un effetto congiunto in uno nell' anima, che per la sua unione è talora da Aristotele chiamato sensazione benchè abbia un elemento razionale ed intelligibile: il che io credo voglia dire in quelle parole che [...OMISSIS...] . Il termine dunque del senso corporeo è interamente diverso per Aristotele dall' oggetto della mente; ma questa ha due atti, il primo, «noein», è l' intuire, che si fa senz' organo corporale, e l' altro è «dianoeisthai», raziocinare, che non si fa dal senso, ma col senso, e che perciò abbisogna d' organo corporale (6). Non essendo dunque il puro sensibile il vero, ma l' apparente, se si confonde il sensibile col vero, si distrugge « « il principio di contraddizione » » e si cade nell' opinione di Protagora, che « « tutte le cose fossero ad un tempo vere e false, perchè or vere, or false appariscono » » (1). Aristotele confuta quest' opinione dimostrando che [...OMISSIS...] . Poichè il subietto del movimento e della mutazione deve essere uno e immoto, altramente, se tutto si movesse, non ci potrebbe essere movimento. E venendo al sensibile dice: [...OMISSIS...] . Il sensibile dunque è un relativo che domanda per condizione qualche altra cosa d' anteriore a sè, del tutto insensibile. Ora quest' altra cosa anteriore al sensibile è l' essere , e come il sensibile è il termine del senso, così l' essere è l' oggetto della mente in senso subiettivo, ed è la stessa mente in senso obiettivo. In quest' essere si trova quella costanza, che non si trova nel senso, onde come quelli che riposero la verità nel senso, la resero mutabile, ossia non verità, così quelli che la riconoscono nell' essere, la scorgono permanente. [...OMISSIS...] . Intende dunque sempre di asserire « « la natura degli enti » » quantunque parlasse dello stesso sensibile, perchè « « asserire qualche cosa del sensibile » » non è sentire, ma un' altra cosa diversa dal sentire, appartenente allo intendimento, che è quello che fa l' atto dell' asserire, e quest' altra cosa asserita è sempre « « la natura dell' essere » ». Ora per la costanza e immutabilità di questa natura procede che « « essere e non essere » » non istieno mai insieme, e però riman fermo il principio di contraddizione, la cui difesa fatta da Aristotele nel IV de' Metafisici obbliga il filosofo a riconoscere che questo principio a cui riduce tutti gli altri, non è infine se non « « la intuizione evidente della natura dell' essere, il quale non può contraddirsi mai, cioè è in un modo immutabile »(1) ». Se dunque, come vedemmo, la mente oggettiva e sempre in atto d' Aristotele sono i primi, ossia i principŒ (2), e questi si riducono tutti al primissimo, che è quello di contraddizione, e questo non è altro che « « la natura invariabile dell' essere » », ne viene che l' essere sia la mente in atto d' Aristotele. Nell' ordine dunque delle cognizioni umane, secondo Aristotele, c' è: 1 l' essere, ossia la mente obiettiva, [...OMISSIS...] : 2 il quale essendo immutabile e costante non può esser nulla di contrario a sè stesso, e questa sua permanenza s' esprime col principio di contraddizione, che dice « « l' essere non può non essere » » secondo la forma intuitiva; e secondo la forma di predicazione « « d' ogni ente è vera o l' affermazione o la negazione » »: 3 da questo vengono gli altri principŒ immediati e indimostrabili, [...OMISSIS...] , cause della conclusione, [...OMISSIS...] : 4 istrutto l' umano intendimento di questi principŒ, di cui a principio non è consapevole, ma che possiede impliciti nell' essere che intuisce per natura, vede nelle sensazioni, cioè nelle specie sensibili , le specie intelligibili immateriali, ed universali, e di universale in universale perviene all' essere stesso che intuiva per natura, e che ora conosce coll' atto consapevole della sua mente: e quindi; 5 la scienza di dimostrazione , che riguarda le conclusioni che si cavano da quei principŒ, ed è scienza mediata e riflessa. Tale risulta l' Ideologia d' Aristotele, se si mettono insieme, colla maggior coerenza possibile, i varŒ luoghi delle sue opere, ne' quali egli la sparpaglia, e la va quasi direi seminando. Tutto il principio di questo sistema è l' essere , la mente oggettiva, sempre in atto, che l' uomo ha, e perciò è detto « abito »parola che indica da se stessa una dualità d' opposizione tra l' avente e l' abito, cioè l' avuto, ed è detto parimente lume. E che questo essere7lume sia « l' essere indeterminato ossia comunissimo », vedesi da ciò che dice Aristotele della « Filosofia prima ». Poichè come anteriormente alla scienza di dimostrazione c' è un altro genere o modo di sapere, [...OMISSIS...] che è quello de' sommi ed immediati principŒ che si hanno dall' uomo per natura e che tutti sono contenuti nella natura dell' essere; così stabilisce Aristotele, che antecedentemente a tutte le scienze ci sia una scienza, che non tratta d' alcun essere particolare, e perciò dell' « essere comunissimo », e questa è quella che chiama Filosofia prima. La prima dunque di tutte le scienze deve considerare l' ente in universale, senza alcuna parziale determinazione, che è l' ente comunissimo. E questo ente, che dice esser lo stesso che l' uno, lo chiama primo, [...OMISSIS...] a cui tutte le notizie intorno all' ente si riducono (4): primo certamente nella mente, benchè, considerato come predicato, esso stesso si diversifichi, e non sia più il medesimo. Dove si parla manifestamente « dell' essere comunissimo »che non esiste tale in separato, ma che pure è davanti all' intelligenza, come « « il primo uno e il primo ente » » cioè quell' idea dell' ente che antecede ogni altra cognizione dell' ente, e alla quale ogni altra cognizione si riferisce, [...OMISSIS...] , poichè se quest' uno in questa universalità e indeterminazione non fosse davanti all' intelligenza, l' altre cose o notizie non si potrebbero a lui riferire, nè predicare egli stesso in un modo molteplice, onde [...OMISSIS...] . Se noi ora rivolgiamo indietro lo sguardo, vediamo qual lungo cammino abbia fatto il pensiero aristotelico e come si sia immensamente allontanato da' suoi primi principŒ. Egli incominciò la sua opposizione alla dottrina di Platone prendendo a provare, che le idee separate dai sensibili reali non esistono, e che esistono solo le specie , e queste sono le forme , e le forme altro non sono che gli atti sostanziali delle stesse cose reali: laonde esistono solo in queste unite colla materia. Ma a questa ardita e complicata proposizione s' affacciò come contraria la necessità degli universali , perchè ci sia la scienza e non restino le cose al buio. Tentò dunque di provare, che per universale altro non si può intendere se non ciò che gli Scolastici poi chiamarono l' individuo vago , il pensiero del quale termina sempre in un singolare reale, ma questo pensiero si può replicare per molti individui reali successivamente: onde il poter sempre pensare e immaginare nuovi individui reali è tutto ciò che si nasconde sotto il nome d' universale, e questa possibilità che un tal pensiero si replichi indefinitamente, è un carattere dello stesso pensiero, e non delle cose reali e singolari. Entrò nondimeno tra' piedi la difficoltà di questi individui reali, oggetto suscettivo di diversi pensieri ed immaginazioni, i quali sono pure tutti uguali o simili tra di loro; altrimenti, non si intenderebbe come si dicessero essere della medesima specie e del medesimo genere: e però rimaneva sempre a spiegare che cosa sia quest' uguale, simile, o comune, che si chiama specie o genere. Occorse a quest' incaglio il filosofo rispondendo, che quest' era la ragione delle cose. Ma si dimenticò d' avvertire che, se questa ragione comune delle cose, era diversa dalle cose, conveniva pur dire che cosa questa ragione fosse. Altrimenti i Platonici avrebbero potuto rispondere, che la ragione introdotta dal nostro filosofo che volea cacciare le idee, era appunto l' idea (mutato solo il nome), la quale non è le cose, essendo queste per loro essenza singolari, e quella per sua essenza universale , e per conseguente comune . D' altro lato veniva a turbare i sonni all' infedele discepolo di Platone un altro fatto della natura non possibile a negarsi o a dissimularsi; e quest' era, che l' uomo, che produceva dei lavori esterni, li lavorava sopra un' idea da lui preconcetta, e però esistente ancora scevra d' ogni materia reale, giacchè la materia reale si foggiava poi dall' artista su quel modello o esemplare. All' evidenza di questo fatto Aristotele dovette convenire che oltre le specie che informano le cose reali e singolari e che sono unite colla materia, ci sono altre specie separate dalla materia, il cui domicilio è la mente. Così cominciò ad ammettere in qualche modo le specie separate , intendendo per separate, prive della materia reale. Ma il valent' uomo corse a riparare la breccia, e cominciò a dire o a fare intendere che le specie nella mente, e le specie nelle cose reali, sieno identiche: onde la sanità nella mente del medico è quella stessa che da lui prodotta esiste nell' uomo sano. E così pure diede all' anima intellettiva la facoltà di separare nelle cose reali la loro specie dalla materia, e così separata in esse contemplarla. Ma il soccorso era debole a segno, ch' egli stesso dovette confessare che l' identità di tali specie non era che una metafora: confessione alquanto umiliante in colui, che aveva cacciato in faccia al maestro questa stessa parola di metafora , a proposito delle sue idee esemplari (1). Infatti è per ogni verso impossibile sostenere, che la specie intellettiva della pietra sia quella stessa specie reale , se così si vuol chiamare, che è l' atto sostanziale e reale della stessa pietra, da questa indivisibile, finchè la pietra dura; indivisibile, dico, egualmente, o si pensi dagli uomini, o non si pensi. Costretto dunque dalla perspicacia stessa della sua mente ad ammettere, che le specie delle cose reali esistono anche separate da queste, cioè nella mente, e così già sciolto quel connubio indissolubile che avea pronunciato a principio, egli fu sbalzato in una regione molto più lontana dalla materia e dai reali sensibili, a cui credea prima d' aver legate, quasi schiave alla catena, le idee o specie, e dovette fare altre ed altre concessioni alla scuola che avea disertato. Infatti egli ben vide, abbondandogli l' acume dell' ingegno, che nell' ordine delle cose intelligibili non c' erano solamente quelle specie, che sono prossime alle cose reali (1), ma c' era una gerarchia di specie, cioè sopra le specie propriamente dette c' erano i generi, e questi si riducevano come a ultime classi, ai generi categorici (2), e sopra questi ancora i generi universalissimi, cioè l' essere e l' uno, due generi, che tornano ad un medesimo. Ora venuto a quest' ultima specie, lontanissima più che mai dai reali e dai sensibili, non solo la riconobbe pura d' ogni materia, ma vide ancora, ch' ella dovea sussistere, e però essere un' essenza sostanziale, anzi una sostanza prima, che chiamò Mente. Questa Mente oggettiva poi nell' uomo la considerò in potenza alle specie inferiori fino alle ultime, cioè alle più prossime ai reali sensibili; in se stessa poi e fuori dell' uomo la dichiarò essere Iddio, Primo Motore di tutte le cose, in cui finisce ogni contemplazione ed ogni appetito. Così trovò una specie, la quale non è più solo separata di ragione, [...OMISSIS...] dai reali sensibili, ma ben anco di attualità e di sostanza, [...OMISSIS...] , dovendosi dopo un gran viaggio vedere ricondotto, quasi direi prigioniero, alla casa del suo maestro. Ma non però gli si arrese del tutto. Riprendendo noi dunque l' esposizione della divergenza della opinione di Aristotele da quella di Platone suo maestro, ripassiamo i novi argomenti che egli adduce contro le idee platoniche, o le nove forme di cui le riveste. Ma facciamolo in modo da restringere il dissidio entro a' suoi più brevi confini, non tenendo conto delle divergenze apparenti, anzi, per tutto dove ne incontriamo sciogliendo l' apparenza della discordia: il che ci obbliga a cercare tutte le vie di conciliare il maestro e il discepolo per tutto colà, dove una conciliazione è possibile. Diciamo dunque che i due principali argomenti accampati da Aristotele contro le idee platoniche sono: 1 Che esse nulla servono a spiegare l' esistenza de' reali sensibili, di cui consta il Mondo, perchè sono da questi intieramente separate, onde con esse altro non si fa che aggiungere sostanze a sostanze, e così accrescere le cose da spiegarsi invece d' assegnarne le cause (1). 2 Che esse nulla servono a spiegare la cognizione umana de' medesimi reali sensibili , per la stessa ragione, che quelle idee, essendo pienamente separate per loro natura, non sono l' essenza di questi, e però, intendendo esse, non s' intendono questi. Da tutto quello che abbiamo detto precedentemente, si può in qualche modo raccogliere, che Aristotele non intendeva propriamente impugnare nè l' esistenza delle idee o specie delle cose, nè l' immutabile ed eterna loro natura, ma unicamente l' essere state separate e dissociate dalle cose reali. Ammette quello che avea trovato Socrate, ma rifiuta quello che vi aggiunse Platone, come si vede da questo luogo: [...OMISSIS...] . Riserva la parola idea alle specie, in quanto s' ammisero separate, e non combatte la stabilità ed eternità loro, che anche egli riconosce necessaria, acciocchè si possa avere scienza, e un fermo ragionamento, ma solo il loro essere separato da' reali. Socrate, dice in un altro luogo, cercò l' universale e la definizione, pel bisogno che avea di dare una base ferma alla morale: Platone, [...OMISSIS...] . Sinonime chiama Aristotele quelle cose che si chiamano collo stesso nome, e la ragione della loro essenza è la stessa, [...OMISSIS...] equivoche ossia omonime quelle che si chiamano solo collo stesso nome, ma hanno un' altra ragione d' essenza, [...OMISSIS...] . Appone dunque a Platone, che le idee e le cose sensibili si chiamassero collo stesso nome, ma avessero un' altra ragione d' essenza, laddove i sensibili fossero tra loro uguali secondo la stessa ragione d' essenza: e questo solo biasimava nel suo maestro. Quello dunque che Aristotele non voleva, era la scissura tra il mondo ideale e il mondo reale, che attribuiva al sistema del suo maestro. [...OMISSIS...] . Voleva tutto connesso; ma è difficile assai ritrarre dalle opere d' Aristotele una chiara teoria di questa connessione di tutte le cose, e che abbia coerenza. Poichè è molteplice da per tutto il significato degli stessi vocaboli da lui usati, e le cose che dice sembrano parimente variare, secondo il bisogno del momento e dell' argomento di cui scrive, onde una grande apparenza almeno di contraddizione. Tuttavia tentiamo il guado. Aristotele divide tutto ciò che può cadere nel pensiero in sostanza e accidenti (1), riducendo alla prima, come vedremo, gli elementi della sostanza, e ai secondi le privazioni (2). Ora divide la sostanza in tre classi: gl' individui reali , la specie e il genere . I caratteri distintivi e definitivi di queste tre classi di sostanze li trae dalla dialettica, secondo il suo solito metodo, cioè dall' analisi del discorso: poichè da questa Aristotele deduce quasi sempre l' Ideologia e l' Ontologia. Assegna dunque per primo carattere della sostanza individuale che [...OMISSIS...] . Questa è una eccellente nota caratteristica, e la parola subietto qui indica il subietto del discorso, e però ha un senso generalissimo, che abbraccia tanto il subietto reale, quanto il dialettico. In fatti un individuo reale di null' altro si può predicare, e nè pure esiste in altro che in se stesso, cioè, per concepirlo non ha punto bisogno di essere concepito in altro, il pensiero di lui sta da sè, è finito in lui «( Ideol. 613 not.) ». Le altre due classi di sostanze, cioè le specie e i generi, hanno per carattere comune che si predicano « delle sostanze della prima classe come di loro subietti », di maniera che si attribuisce alle sostanze della prima classe il loro nome e la loro definizione. Così l' uomo e l' animale che è specie e genere si predica del subietto, cioè di quest' uomo singolare e reale, e si dà a questo tanto il nome di uomo quanto la definizione. Le specie e i generi dunque sono cose che « si dicono del subietto, ma non sono nel subietto », perchè l' uomo non è in un uomo particolare, il che verrebbe a significare una distinzione reale tra l' uomo particolare e la natura umana, ma è egli stesso questa natura umana. Ora, Aristotele dice, che le « sostanze individuali e reali »sono le prime, [...OMISSIS...] , e che si chiamano sostanze propriamente e nel più vero significato, [...OMISSIS...] , e che dopo quelle prime [...OMISSIS...] . E quest' è appunto la dottrina che Aristotele sembra voler contrapporre a quella di Platone. Poichè questi per trovare un punto fermo cercava l' universale, e d' universale in universale volea giungere all' universalissimo. Infatti ne' meno universali riconosceva una deficienza ed una limitazione (3), una moltiplicità, e non una perfetta unità (4): l' individuo reale poi come cosa cieca e indefinita, [...OMISSIS...] , era abbandonato a' sensi ed escluso dalla speculazione della mente. Come dunque Platone cercava nel comunissimo (5) l' unità sostanziale, assoluta, non ipotetica (6); così Aristotele per lo contrario disse, che anzi prima di tutto è la sostanza completa, individuale e reale. Consideriamo le ragioni più immediate che adduce Aristotele a sostegno d' un sistema che sembra a prima giunta direttamente opposto a quello di Platone, ma la cui opposizione s' andrà scemando di mano in mano, che si vedrà svolto, e talora racconciato da Aristotele stesso. La prima ragione è tratta dalla relazione logica tra quelle idee che si dicono generi e specie, e la sostanza individuale e reale. Poichè quelle idee si predicano di questa, e n' esprimono l' essenza, come, dicendosi d' un uomo particolare, che è uomo o che è animale, si dice che la sua essenza o natura è quella d' esser uomo o animale. Se dunque quegli universali, che si dicono specie e generi, involgono nel loro concetto una relazione alle sostanze individuali e reali di cui si predicano, quelli non possono essere prima di queste, onde « « tolte queste, è impossibile », dice Aristotele, «che rimanga nulla di quelli »(1) ». La seconda ragione d' Aristotele è ontologica e la trae da questo, che le idee universali, che si dicono specie e generi, non sono a pieno determinate, e però non hanno l' ultimo atto; ora ciò che è in atto deve, assolutamente parlando, precedere ciò che è in potenza: altrimenti non si potrebbe spiegare come questa si riducesse all' atto. Quest' argomento è svolto in questi termini nei Metafisici, e si conchiude così: [...OMISSIS...] . E perciò anche nell' uomo non si contenta di ammettere innato lo scibile, [...OMISSIS...] , ma un che sciente, [...OMISSIS...] , affinchè ci sia l' atto compiuto, poichè [...OMISSIS...] . Conviene che noi esaminiamo il valore di queste due ragioni, e che determiniamo precisamente ciò che hanno virtù di provare. Se noi prendiamo la prima, dividendola dalla seconda, e cerchiamo a che s' estenda, ci accorgeremo ch' ella è atta solamente a dimostrare, che le sostanze individue precedono logicamente quelle idee universali, che si chiamano generi e specie , e che perciò queste non si potrebbero concepire senza quelle prime, di cui si predicano; ma non prova punto, che avanti questi generi e specie devano esistere sostanze individue attualmente reali . Poichè vi hanno sostanze individue , che non sono reali attualmente, ma unicamente possibili, il che sembra sfuggire frequentissimamente a' filosofi. Conviene dunque riflettere che l' intendimento umano ha due facoltà nel campo dei possibili: 1 La facoltà d' intuire le idee fino alle loro ultime determinazioni, colle quali si ha la specie piena , per esempio, la specie piena di una data sostanza «( Ideol. 5.9 7 594) »; 2 la facoltà di affermare un individuo come possibile, coll' aiuto della immaginazione intellettiva, che in qualche modo lo segna e distingue dalla specie piena, il qual individuo è un reale possibile . Ora essendo la ragione aristotelica di cui parliamo, puramente dialettica, ella non ha virtù d' uscire dal circolo delle idee e dei reali possibili , che non hanno ancora attualità reale (2). Perocchè data un' idea specifica piena di sostanza, io posso dire di questa quello appunto ch' egli dice delle sue sostanze prime, cioè posso dire che d' un' idea piena di sostanza si predicano i generi e le specie «( Ideol. 591) », con che non si dice altro, se non che c' è quest' ordine tra l' idea specifica piena, e i generi e le specie (astratte) che di essa si predicano, e che questi sono posteriori a quella nell' ordine del pensiero totale, e però quella deve preesistere. Si dirà non di meno che un' idea specifica piena di sostanza non ha il carattere che Aristotele assegna alle sue prime sostanze, cioè, che non si possano predicare d' alcun' altra cosa, perchè quell' idea si predica pure degli individui reali. Vero; ma questo non implica ancora, che quest' individui reali sussistano attualmente, bastando che siano affermati ipoteticamente per mezzo dell' immaginazione, come reali possibili. Questa prima ragione dunque d' Aristotele vale bensì a favore delle sostanze individuali, ma non a favore delle sostanze attualmente sussistenti. La seconda ragione ontologica a favore della preesistenza della sostanza singolare e attualmente reale alle universali è di maggior peso. Ma se si considera a che precisamente si riduca la sua efficacia, qui appunto si vedrà, che non oppugna il sistema di Platone, se non in apparenza. Poichè la precedenza dell' atto alla potenza non riguarda punto ogni ente particolare, secondo Aristotele, ma accade che la potenza sia in uno anteriore all' altro, come il seme anteriore all' albero; ma questo non è possibile in tutta la serie, che dee cominciare dall' atto. Onde dice che ogni principio di moto e di quiete dev' essere anteriore [...OMISSIS...] . E` dunque necessario un primo atto, acciocchè sia ridotto in atto quello che è in potenza. Questo principio è evidente, ma questo non prova altro che la necessità d' una prima causa, d' un primo motore. Ora è lontanissimo Platone dal negare la verità di questo principio, e di questa conclusione, che unica procede dal principio, e che non si deve estendere al di là di ciò che dà l' illazione. E` una aperta calunnia l' attribuire a Platone ch' egli si fermi alle idee, ai generi ed alle specie (poichè Aristotele a queste due classi le riduce); egli n' esce senza equivoco. Sebbene riconosca nelle idee l' eterno, e il necessario, come ve lo riconosce pure Aristotele, tuttavia ei riconosce pure la limitazione: [...OMISSIS...] , e applicando questo principio alle specie, dice che [...OMISSIS...] , e vuol dire che in ciascuna specie si può distinguere più cose col pensiero e però c' è delle entità molteplici, ma nello stesso tempo si può negare di ciascuna tutte le altre cose, che non son essa, e perciò è indefinito il numero di quelle entità ch' essa non è punto. Ora Platone estende questa limitazione, o, come egli dice, mescolanza di non7ente, a tutte affatto le specie, anche alla prima, a quella dell' ente, che costituisce il primo de' cinque sommi generi platonici, il che è osservabilissimo. Poichè l' ente puro è lo stesso che l' idea dell' essere , astrazion fatta da ogni altra cosa. Se dunque il sommo genere delle idee secondo Platone è limitato, e limitato più d' ogni altra specie, appunto perchè di lui si negano tutte le altre cose, che non sieno puramente essere; di molto s' ingannano quelli che attribuiscono a Platone il ridurre tutto ai generi più universali, e credono che a questo solo conduca quella disciplina da lui tanto magnificata come la prima di tutte e chiamata Dialettica, quasichè l' unica operazione di questa sia l' ascendere alle ultime astrazioni (3). Che anzi secondo Platone le idee non sono l' una dall' altra divise e indipendenti, ma si copulano tra loro con certe leggi, e il principale ufficio della Dialettica platonica è il determinare [...OMISSIS...] . E per questo fine di dimostrare come si connettano tra loro le idee e vengano formando insieme un certo organismo, deve la Dialettica dividere le cose per generi [...OMISSIS...] , e non confondere una specie coll' altra [...OMISSIS...] . La Dialettica platonica adunque non ha solamente per ufficio di dividere le cose in generi, ma di mostrarne la loro connessione e la loro unità senza pregiudicare alla loro distinzione. E quando Aristotele nelle Categorie distinse le cose, che si dicono del subietto, e non sono in esso, quelle che si dicono del subietto, e ci sono, quelle che non si dicono del subietto, e ci sono, e quelle che nè sono nel subietto, nè si dicono di lui, altro non fece che far uso appunto della Dialettica platonica, che discopre il nesso tra le idee. Riconosciuta dunque da Platone la limitazione di ciascuna idea, presa in separato, egli riconobbe ancora che per varŒ nessi comunicavano e si connettevano tra loro, e connettendosi non a caso, s' organavano e completavano nel tutto ideale, che ne risultava, senza che perciò si confondessero le parti moltiplici contenute nell' unità. Ma è da rimovere oltrecciò il pensiero da un altro comune pregiudizio circa la teoria platonica, credendosi comunemente ch' essa s' esaurisca tutta nelle idee. Anzi sotto la parola «polla», i molti , egli non comprende solo le idee, ma anche le singole cose reali, che, come abbiamo veduto, nel Filebo chiamò «apeira», gl' indeterminati , perchè venuto il pensiero ad essi, non si può più oltre recare l' analisi e distinguerci nuove specie (2). Univa dunque Platone stesso tutte le cose in un grande organismo, nel quale si allogavano, connesse insieme gerarchicamente, ma distinte le idee e i reali, ultimi questi, ma non divisi dal tutto. E` bensì vero che non dava fede ai sensibili, come sensibili, perchè di continuo mutabili, e però inetti ad essere scienza. Ma questo l' accorda anche Aristotele. Se però Platone diceva che i sensibili per se stessi non hanno consistenza e sono apparenze, non negava per questo la realità dell' essere, checchè possa parere considerando alla sfuggita i suoi discorsi intorno alle idee. Chè altro è l' idea come semplice conoscibilità separata dalla cosa, o mezzo di conoscere; altro è l' essenza che nell' idea s' apprende «( Ideol. 646) ». Nell' idea Platone vedeva ciò che esiste per sè, assolutamente. Diceva dunque che acciocchè una cosa qualunque veramente esistesse, dovea partecipare di questa cosa per sè esistente. E non dice Aristotele lo stesso in altre parole? [...OMISSIS...] . Non dice che il nome e la definizione, cioè l' essenza delle specie e dei generi si predicano delle sostanze singolari, esprimendosi così la natura di queste, onde forz' è che questi siano appunto quell' essenza stessa che è nel genere e nella specie, altrimenti sarebbero un bel nulla? (2). Non dice, che così appunto e non altrimenti si conoscono i singolari, cioè riconoscendo in essi quell' essenza appunto che si vede nelle specie e nei generi, dove solo quell' essenza è conoscibile? (3). E non sono queste specie o idee dette da Aristotele ciò che è eterno, [...OMISSIS...] , fondamento d' ogni scienza, e della dimostrazione, che non è di cose caduche, [...OMISSIS...] ? (4). Se dunque, secondo Aristotele, l' essenza che si vede nelle idee è quella stessa de' singolari, in modo che a questi si deve attribuire la definizione di quelle, nè si può altramente conoscerli, non viene egli a confessare con ciò che i singolari partecipano, come diceva Platone, di quell' essenza appunto, che è veduta nelle idee? E dico partecipano , perchè nessuno de' singolari esaurisce in sè l' universale, egualmente partecipato da altri. Rimarrà tuttavia una differenza d' opinione circa la questione dell' origine dell' universale eterno. E Aristotele infatti non perde mai l' occasione di dire che [...OMISSIS...] . Ma tutto questo è vero certamente rispetto al conoscere consapevole dell' uomo, ed è da notare che il nostro filosofo non dice necessaria l' induzione per formare gli universali, quand' anzi egli li dichiara sempre eterni, ma per contemplarli, [...OMISSIS...] , la qual maniera di dire li suppone preesistenti e dimostra che si parla d' una cognizione relativa all' uomo. Il che ancor più si conferma se si considera che Aristotele distingue il contemplare dal conoscere semplicemente, quello significando il pensiero attuale, questo l' abituale, e quello suppone questo (2). Ma lasciando questa questione dell' origine e conchiudendo ciò che stavamo dicendo, Platone non separa punto l' esistenza reale dal discorso delle idee, ma anzi in queste vuole che si veda l' essenza che è per sè ed assolutamente, e vuole che le cose mutabili partecipino di questa per essere e che in queste noi conosciamo quella; e del pari Aristotele riconosce che l' essenza stessa, che è nelle idee, è quella che s' attribuisce veramente e si predica delle cose reali e singolari, e per quella queste si conoscono, perchè quella è la propria natura e causa formale di queste (3). Rimane tuttavia un' altra profonda differenza tra Aristotele e Platone, che abbiamo già toccata e che ci conviene ora meglio sviluppare. L' argomento che fa Aristotele, ridotto ad espressioni più chiare per noi, è il seguente: « Io osservo, viene egli a dire, che le specie e i generi si predicano d' un subietto che è la sostanza individuale, e che gli accidenti (idee degli accidenti) non si predicano, è vero, d' un subietto sostanza individuale, ma sono in un tale subietto ». Dunque questo subietto è necessario che preesista nell' ordine logico alle idee, e che esista realmente insieme con queste, informato da queste, perchè queste essendo relative a lui, non esistono realmente se non come di lui o in lui. Non dico già che sia necessario, che esistano tanti e tanti subietti, ma almeno qualcuno, di cui si dicano le idee specifiche e generiche, e in cui sieno quelle degli accidenti [...OMISSIS...] . E` dunque necessario, che quelle idee che si dicono specie e generi, non sieno propriamente sostanze, ma piuttosto « « qualità circa la sostanza » » [...OMISSIS...] , e si distinguano dagli accidenti, perchè questi sono « « qualità semplicemente » » [...OMISSIS...] (2); non c' è dunque veramente altra sostanza che l' individuale, perchè questo è un subietto che non si predica d' altro subietto, ma è subietto assolutamente. Ciò posto, se si vuole tenerla con quelli che tentano di spiegare l' esistenza delle cose reali per la partecipazione delle idee, converrà dire che la partecipazione di ciascuna d' esse sia in quanto non si dice del subietto, dovendo in tal caso ella stessa, l' idea partecipata, costituire il subietto individuale, che non s' ammette prima, e il quale non si dice d' altro subietto: dunque le idee saranno sostanze individuali. Ma in tal caso le idee saranno sostanze individuali doppie, cioè non partecipate ed eterne, e partecipate. Se questo è così, ci sarà ancora qualche cosa di comune tra le idee eterne e le idee cose, e così s' andrà all' infinito. Che se non c' è nulla di comune, il chiamare collo stesso nome la sostanza idea non partecipata, e la sostanza partecipata non sarà più che un equivoco, come il chiamar uomo, un uomo vero, e una statua di legno. La partecipazione dunque delle idee non può spiegare l' esistenza de' subietti individuali, ma questi rimangono sempre presupposti (1). Alle quali difficoltà un accorto difensore di Platone potrebbe con tutta verità rispondere in questo modo: « Voi tormentate la dottrina di Platone, contraffacendola per confutarla. E` verissimo, che Platone nega ai sensibili, e a tutto ciò che apparisce come in un continuo moto e trascorrimento, una vera esistenza, concedendogli un' esistenza solamente fenomenale, ma Aristotele, dove gli bisogna e dimentica Platone, dice il medesimo (2). Poichè qual vi può essere sentenza più consentanea a quella di Platone quanto il distinguere che fa Aristotele tra la carne , il sensibile, e l' essere della carne , che attribuisce al solo intelletto? (3). Negare dunque al sensibile e al continuo mutabile l' essere per sè, e dire che questo l' ha bensì, ma non è lui, non significa punto, che Platone neghi la realità degli enti o la loro individuale sussistenza, e riduca ogni cosa a generi, cioè a idee. Di poi, Aristotele pretende che l' essenza de' generi e delle specie consista unicamente in questo che sieno atte ad essere predicate d' un subietto; dal che deduce, che dunque avanti ad esse ci dee essere il subietto. Platone nega, che le idee sieno puri predicabili, e però cade l' argomento d' Aristotele. Dice, che se le idee possono esser predicate , è perchè prima sono partecipate ; e veramente non sarebbero predicate con verità, se la natura che si predica non fosse veramente partecipata dal subietto di cui si predica. Esser partecipate vuol dire che il subietto non ha in sè l' idea così totalmente, che questa non possa essere e non sia in altri subietti. Ora accordando Aristotele che tali idee sono universali, egli accorda che ogni individuo singolare non è quell' idea, ma la partecipa, perchè quell' idea è una e la stessa in ciascuno, onde lo stesso Aristotele la chiama «autoekaston» od «auto en ekaston», od «en kata pollon» (1), e con altri simili nomi. Se dunque non si vuol questionare di parole, la partecipazione dell' idea è innegabile e accordata da Aristotele. Se l' esser predicata e partecipata , benchè sia cosa propria dell' idea e conseguente dalla sua stessa essenza, pure non è la sua essenza, l' idea dunque si concepisce ed è anteriormente alla sua partecipazione. Ora ella acquista il titolo d' universale unicamente per la sua partecipabilità a molti individui, il che è ammesso da Aristotele; dunque se l' idea è universale in relazione agli individui a cui può essere partecipata, ella per sè, nella sua essenza anteriore al concetto della sua partecipazione, è ella stessa un singolare, e questo appunto significa la denominazione d' «autoekaston» che gli dà lo stesso Aristotele «( Ideol. 1020 not.) » (2). Con questa sola osservazione cade il secondo argomento d' Aristotele contro le idee platoniche, che abbiam detto ontologico, perchè niente ripugna l' ammettere che le idee sieno essenze singolari, che possono stare senza la partecipazione loro agli individui reali e irrazionali, di cui si compone il mondo materiale e sensibile. Ma di mano in mano che si seguita Platone nella perscrutazione delle idee, la sua dottrina diventa più consistente in ragione che si fa più completa. Platone distingue due cose nelle idee: 1 l' essenza; 2 l' intelligibilità; l' una e l' altra immutabile ed eterna. Tutti gli enti dell' universo, anche i sensibili, benchè in quanto sono sensibili sieno fenomenali, partecipano, concepiti come sensibili dalla mente, l' essenza , che è nelle idee, e così anch' essi acquistano qualche cosa di stabile, di consistente; la loro esistenza reale. Le menti poi godono della intelligibilità intrinseca a tali essenze, e per questa loro intelligibilità le essenze si chiamano propriamente idee , e su questa intelligibilità si fonda la stabilità e certezza e necessità delle definizioni e della scienza dimostrativa, onde la verità ne' ragionamenti della mente e nelle orazioni. Se l' essenza dunque è quella che si partecipa da' sensibili, e questa è veramente, non convien dire, che Platone sia un puro idealista, come hanno detto i moderni, giacchè Aristotele si guardò bene di fargli una tale censura; quando anzi pone sotto l' apparenze sensibili qualche cosa di così permanente come sono le loro essenze, che si intuiscono nelle idee. Confessa Aristotele che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, ma dà loro una natura anteriore alla predicazione, e dice che quelli che fanno le idee essenze, di conseguenza le devono porre separate, [...OMISSIS...] : confessa ancora che le pongono ne' molti, per modo che ciascuna, rimanendo una, sia ne' molti, [...OMISSIS...] . Se dunque Aristotele stesso riconosce che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, a che vale il suo argomento che le idee non sieno separate, perchè i predicabili suppongono il subietto, di cui si predichino? D' altra parte si contraddice anche in questo, che qui confessa, che le essenze nelle idee e nelle cose sensibili sono le medesime di specie, perchè l' essenza che è nella specie, è quella medesima che è ne' corruttibili; mentre altrove pretende che Platone coll' ammettere le idee raddoppi le sostanze, senza spiegar meglio l' esistenza delle sostanze sensibili. E quando dice che i sensibili tra loro univoci, nel sistema di Platone sono equivoci colle specie (2), abusa manifestamente di sottigliezza; poichè sono equivoci colle specie presi da queste in separato per astrazione in quanto così presi non sono che fenomeni; ma non sono equivoci presi come già partecipanti alla specie, se è vero che alla specie dia Platone la medesima essenza che ai corruttibili, [...OMISSIS...] . Ma ora di questo appunto Aristotele riprende Platone, di far cioè le stesse identiche nature ad un tempo universali e particolari, [...OMISSIS...] . Questo è quello che non intende Aristotele, e in cui sta tutto il nodo della questione. Egli reputa contraddittorio che la stessa essenza sia universale ad un tempo e particolare. Pure la chiave di tutta la filosofia è questa, che « l' essere, l' essenza, abbia due modi, ne' quali rimane identico, sotto l' uno è essere od essenza reale, sotto l' altro è essere od essenza ideale: e che il secondo di questi due modi, cioè il reale, per tutte le cose finite sia contingente e mutabile, e il primo, cioè l' ideale ed universale, sia necessario ed immutabile; per l' infinito poi ed assoluto essere, entrambi quei modi sieno necessarŒ e immutabili ». Ciò che impedisce di vedere, che qui la contraddizione non è che apparente, è prima di tutto lo spazio che coll' immaginazione s' intromette in una cosa semplice e immune affatto di spazio com' è il mondo metafisico. Pare dunque per un gioco d' immaginazione, che se s' ammette « un' essenza ideale »e poi questa stessa essenza ideale s' ammette in certo numero d' individui reali, la si ponga in diversi luoghi e così si moltiplichi. Ma nè ella è in alcun luogo nè si moltiplica veramente, ma sono i sensibili, che, essendo in diversi luoghi, quando sono percepiti dall' anima, la quale è semplice e senza luogo, s' uniscono a quell' unica essenza che è nell' anima cioè presente all' anima, e quivi hanno quell' essere o essenza che l' anima pensa, sempre identica in ciascuno di essi. Nasce qui subito la voglia di domandare: « che cosa dunque sono i sensibili prima di ricevere una tale essenza presente all' anima, nella quale essenza l' anima intellettiva li vede? ». Si risponde che, se si parla d' un' anima intellettiva singolare, essi non sono più a quest' anima, perchè per questa non è ciò che non è intelligibile. Che se si suppone che nessuna intelligenza gl' intenda, essi non sono punto a niuna intelligenza. - Ma il sensibile, non è qualche cosa di diverso dall' intelligibile? e se è qualche cosa di diverso, non rimane anche tolto via l' intelligibile? - Alla prima di queste due questioni si risponde di sì, alla seconda si risponde di no, se per « toglier via l' intelligibile », s' intenda non già astrarre ipoteticamente dall' intelligibile o dall' intelligente; ma toglierne via anche la possibilità, astrarre anche da questa: in tal caso il sensibile rimane privato di ciò che gli è essenziale, cioè di « poter essere intelligibile », e così diviene assurdo, egli è dunque nulla (2). Il sensibile adunque nè esiste solo, nè può esister solo; ma è in una relazione essenziale coll' intelligenza, e non si può pensare se non si suppone ch' egli sia in relazione almeno con una intelligenza possibile, e quindi che abbia il suo essere intelligibile. Considerato il sensibile in questa relazione, egli è diverso dall' intelligibile, ossia dall' essenza, come un termine è diverso dal principio , benchè il termine, quello che è essenzialmente termine, non possa stare senza il suo principio. Per la difficoltà d' intendere questa dottrina, si perpetuano i dissidŒ delle scuole filosofiche e sembrano inconciliabili. Aristotele dice: [...OMISSIS...] . L' argomento non ha forza, se non nell' erronea supposizione che qui fa Aristotele, e che poi, come vedremo, smentisce egli stesso, che le essenze che s' intuiscono nelle idee non abbiano altra natura che quella d' essere precisamente « universali o comuni ». Ma Platone risponde che la qualità d' essere universali e comuni è una relazione che consegue alla natura delle essenze quando queste si considerano come il fondamento de' reali; ma che anteriormente a questa relazione, esse esistono come singolari, anzi ciascuna è perfettamente una e causa d' unità all' altre cose; il che Aristotele stesso confessa senz' accorgersi della contraddizione ogni qualvolta le chiama «autoekaston». Nè ripugna punto che de' molti sensibili reali che a ciascuna corrisponde, ognuno di essi abbia per suo fondamento la stessa essenza e la mente veda il detto sensibile in questa essenza, onde si dica giustamente che essa s' estenda a ciascuno di essi, [...OMISSIS...] ; come nè pure non ripugna che tutt' insieme que' sensibili si vedano nella stessa idea, e per questo ella si chiami comune o universale, [...OMISSIS...] . Poichè essendo la idea semplice e fuori di luogo, la mente, spirituale anch' essa, può considerare in essa quello che è in luogo: e ciò con verità, perchè l' esteso ha un modo d' esistere nell' inesteso «( Antropol. 94 7 97; 12., 129) », ed anzi non può esistere altrove. La qualità dell' estensione in fatti è una relazione al principio senziente, a cui non appartiene, come confessa Aristotele, l' esistenza vera della cosa, ma l' apparente e fenomenale; all' incontro l' essere vero delle cose appartiene alla mente, e l' essere vero è uno essenzialmente e semplice (1). Se dunque, come dice lo stesso Aristotele, la sostanza esiste in se stessa, e in ciò di cui è sostanza, [...OMISSIS...] , niente più domanda Platone, secondo cui l' essenza esiste in se stessa non comunicata a' sensibili, ed esiste in questi di cui è sostanza, ossia essenza. Una obbiezione più speciosa, ma non meno vana, fa Aristotele all' idee di Platone. Egli viene a dire così: [...OMISSIS...] . Ma quello stesso che con queste parole si rimprovera a Platone, è quello stesso che lo giustifica. Poichè qual è il rimprovero? Che Platone faccia due sostanze separate. E se questo fosse, certo che dovrebbe dire, quale sia quest' altra essenza separata diversa da quella de' sensibili. Ma se fa un' essenza sola, e dice che questa è in sè, indipendentemente dai sensibili, se non che ella stessa è anche l' essenza de' sensibili, perchè ha l' attitudine d' essere partecipata, cade la censura, e non c' è più bisogno di dire che cosa sia quest' altra sostanza o essenza diversa da quella de' sensibili, che Aristotele rimprovera di continuo a Platone. Ora che questa duplicità di essenza o sostanza sia un puro equivoco d' Aristotele (proveniente forse dalle scuole platoniche, contro cui sembra combattere), si riconosce dallo stesso discorso d' Aristotele. Poichè non è egli stesso che dice, che fanno identiche e non già diverse le essenze de' corruttibili e de' sensibili? [...OMISSIS...] . E non è egli stesso che riprende Platone, perchè faccia le stesse essenze universali e particolari? [...OMISSIS...] . Ora questo è appunto un confessare essere vero il contrario di ciò che con incoerenza si rimprovera a Platone, cioè ch' egli faccia due serie di essenze, l' una sensibile e l' altra intelligibile. Che se ne fa una sola, non c' è più ragione di apporgli a colpa, ch' egli non sappia dire quali sieno coteste essenze separate da' sensibili (4), perchè non ne ha bisogno, non essendo esse altro che le essenze de' sensibili stessi, e la mente umana da questi ascende a contemplarle. Gli stessi sensibili e corruttibili dunque hanno bisogno secondo Platone d' una loro essenza immutabile, senza la quale non sarebbero, perchè l' essere, per confessione d' Aristotele stesso, non è sensibile ma intelligibile, e non mutabile, ma eterno. Se dunque i sensibili sono, se si predica di essi con verità l' esistenza, se per questo si conoscono, e si conoscono quali sono in verità: è dunque da dire che partecipino dell' essenza , e non senza questa, ma solo con questa e per questa, e in questa siano. Ma posto che sono in questa, niente poi vieta che la mente coll' astrazione ne faccia la separazione e li consideri privi di questa: allora restano non pure incogniti, ma assurdi, perchè privi di stabilità e d' unità, e del tutto annullati perchè privi dell' essere. Quando dunque Platone parla della continua mutabilità de' sensibili e della loro fenomenalità, egli parla de' sensibili così astratti e divisi dall' essenza, parla d' un astratto che non ha alcuna reale esistenza, non parla de' sensibili che sono; poichè i sensibili che sono, sono già uniti e inseparabili dalla loro unica essenza. E questo io credo in parte una delle cause, che condussero Aristotele in errore: vide che i sensibili non possono separarsi dall' essenza senza distruggersi: disse dunque, che queste due cose, il sensibile e l' essenza, erano inseparabili. Ma sono due proposizioni totalmente diverse, che il sensibile non si possa separare dall' essenza, e che l' essenza non si possa separare dal sensibile. Questa può stare da sè, perchè è indipendente da quelli: quelli non possono separarsi da questa, perchè da questa dipendono e hanno l' essere: quest' è necessaria, quelli contingenti. E qui s' osservi, che non può applicarsi, come vorrebbe Aristotele, la distinzione tra ciò che è separabile di concetto, [...OMISSIS...] , e ciò che è separabile di sostanza, [...OMISSIS...] , o come dice altrove, di grandezza, [...OMISSIS...] . Poichè che cosa significa separabile di sostanza, o di grandezza, e separabile di concetto? Non altro che separabile realmente, e separabile idealmente. Questa separazione ideale suppone già le idee, e sono appunto queste di cui si disputa: onde la distinzione applicata al caso nostro ci rimanda alla dottrina delle idee, e non vale a chiarirla. Consideriamo l' esempio con cui Aristotele stesso illustra questa distinzione (1). Un corpo si può dividere in più parti: questa è una separazione reale. In una figura rotonda, si può distinguere la superficie convessa dalla concava (2): questa è una separazione ideale, perchè il convesso non si può dividere realmente dal concavo, non essendo che due relazioni ideali. La separazione reale adunque importa che un reale si divida da un altro reale, la separazione ideale importa che un' idea si separi da un' altra idea: la prima separazione divide i reali, la seconda separazione (che è propriamente una distinzione) separa le idee ossia i concetti: l' una di queste due separazioni passa dunque tra reale e reale, l' altra tra idea e idea, benchè queste si possano riferire ad un reale. All' incontro tutt' altra è la questione delle idee separate di Platone; poichè non si cerca più se un reale è separato da un altro, o un' idea da un' altra idea; ma si cerca se l' idea stessa è separata dal reale. Questa non può essere separazione nè di reale da reale, nè d' idea da idea: ma un terzo modo di separazione, cioè separazione di reale e d' idea. Questo modo dunque di separazione non è tale su cui si possa istituire la questione se egli sia uno de' due primi modi, come pur fa Aristotele: anzi convien dire che questo terzo modo è il fondamento degli altri due. Poichè non si separerebbe e distinguerebbe la separazione reale dalla separazione ideale , se non si supponesse prima che fossero cose separate la realità e l' idea. La separazione dunque dell' idea e della realità è il primo e il massimo di tutti i modi di separazione e di distinzione possibili, e la causa degli altri: non è una separazione nè reale, nè ideale, ma è una separazione precedente, che dee avere un nome suo proprio, e che noi appunto chiamiamo categorica . Aristotele stesso, come ancora vedemmo, è ricacciato dalla necessità e dall' evidenza a questa separazione, che si studia in tanti luoghi di eliminare, e che pure è costretto in tanti altri luoghi di riconoscere. Poichè distingue l' essere della cosa, dalla cosa sensibile (3), e in quello, che attribuisce all' intelletto, ripone il vero (1), in questa, che attribuisce al senso, ripone il fenomenale ; sia pure il vero rispetto a noi mescolato col fenomenale, ma l' uno non è certamente l' altro, ed è separato d' essenza dall' altro, e non di nome o di concetto. In un luogo (perchè crediamo in cosa così contrastata non dover risparmiare le citazioni) stabilisce Aristotele che [...OMISSIS...] che è quanto dire delle prime e più universali idee. Distingue poi le scienze in attive, fattive, e speculative, e le speculative in matematica, fisica, e teologia , e chiama quest' ultima anche filosofia prima (3). Dice che in tutte queste scienze è sempre necessario che si conosca l' essenza della cosa di cui si tratta. [...OMISSIS...] . Ma quest' essenza o si definisce separata dalla materia o unita, e di queste essenze non separate dalla materia trattano la fisica e la matematica; dell' essenza poi separata e universale la teologia . [...OMISSIS...] . E qui dopo aver detto che la fisica tratta di cose che non sono senza materia, [...OMISSIS...] , benchè deva anche la fisica cercare e definire la stessa quiddità, [...OMISSIS...] , ma colla materia; e dopo d' aver detto che la matematica specula d' alcune cose in quanto sono immobili e separabili, [...OMISSIS...] , prosegue venendo alla teologia o filosofia prima e dice così: Da questo luogo si vede chiaramente: 1 Che Aristotele ammette una sostanza separata non per semplice concetto, ma di essere proprio, dalle sostanze fisiche e sensibili: questa sostanza è immateriale, immobile, perpetua, causa del movimento degli astri. Infatti un' una e medesima cosa non può essere col moto e senza moto ad un tempo; questi dunque non sono due concetti che si possano distinguere nella stessa cosa: non può essere soggetta alla mutazione, ossia generabile insieme e perpetua, perchè ciò che si genera e si corrompe principia e finisce, onde non si può distinguere la stessa identica cosa in generabile e non generabile. In una parola ogni distinzione di concetto suppone che i concetti, secondo cui si distingue la cosa, sieno bensì diversi, ma non contradditorŒ tra loro: dove dunque la separazione è di concetti contraddittorŒ, trattasi di separazione di esseri e non di concetti. 2 Ora questa cosa separata dagli enti fisici generabili e corruttibili, de' quali tratta la Fisica, è l' oggetto della Teologia detta anche Prima Filosofia, ed è Dio stesso. Ma che cosa è questo Dio d' Aristotele? Primieramente è la causa immediata de' movimenti e de' fenomeni celesti, perchè i Cieli, secondo Aristotele, sono quelli, come si dirà, che ricevono l' immediato impulso dalla prima causa. Ma questo stesso oggetto poi si dice « «genere onorabilissimo », [...OMISSIS...] », e la scienza che lo riguarda, « «universale, comune a tutti i generi », [...OMISSIS...] », e di nuovo l' oggetto di questa si definisce: « « l' ente come ente, e quegli universali che esistono nell' ente in quanto ente » », [...OMISSIS...] . 3 E qui l' oggetto di questa scienza che ha due nomi, cioè Teologia e Filosofia prima, apparisce pur esso duplice, cioè: 1 l' ente come ente, 2 quegli universali che esistono nell' ente come ente. Se dunque l' ente, come ente, è Dio, secondo il contesto, che cosa poi sono quelle cose che in lui inesistono, [...OMISSIS...] ? Certamente le idee o almeno quei primi, [...OMISSIS...] , che si distinguono da' fantasmi, e non si generano nè corrompono, ma unicamente si conoscono toccandoli immediatamente (2), e che sono il fondamento di tutto l' umano sapere: perocchè si parla di cose prive al tutto di materia, di cose immobili e separate, [...OMISSIS...] . E` dunque obbligato Aristotele stesso ad ammettere le prime nozioni separate, non separate dall' ente per sè, da Dio, ma separate dalle cose reali e finite. Come dunque insegna egli in tanti altri luoghi, contro Platone, che sono inseparabili, e che separate sono posteriori? Il pensiero d' Aristotele parmi che riceva luce, e in qualche modo si concili seco medesimo col confronto d' un altro luogo. « « C' è una scienza, dice, che specula l' ente com' ente e quelle cose che in esso inesistono per sè » ». Ecco di novo i due oggetti della Teologia e della Filosofia prima: ecco le cose che inesistono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Che cosa sono queste cose che inesistono nell' ente per sè? Certo quelle che nel passo precedentemente citato disse esistere come ente, [...OMISSIS...] : i primi intelligibili. Sembra evidente che da questi Aristotele distingua le specie de' sensibili, perchè queste non appartengono all' ente come puramente ente, ma come ente sensibile. [...OMISSIS...] . Le scienze dunque che trattano di qualche genere esclusivo di ente, si dicono in parte , e specolatrici dell' accidente: la Teologia o Filosofia prima non è di quelle che si dicono in parte, perchè trattano dell' ente nella sua interezza come uno e tutto. Di novo dunque qui si chiarisce, che Aristotele distingue due classi d' intelligibili: 1 quelli che appartengono all' ente come puro ente; 2 quelli che appartengono ai parziali generi dell' ente, che noi chiameremo i primi e i secondi intelligibili . Questi secondi poi li considera come accidentali all' ente, onde dice che le scienze di questi specolano l' accidente circa l' ente, [...OMISSIS...] , laddove la prima tratta delle cose che sono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Ma i principŒ e le supreme cause appartengono, all' ente per sè, o sono accidentali? [...OMISSIS...] . Ammette dunque una natura per sè, di cui siano i principŒ e le cause supreme, [...OMISSIS...] . Ora questa natura è indubitabilmente di quelle che egli chiama prime sostanze, anzi veramente di tutte la prima, [...OMISSIS...] , perchè l' altre tutte, di cui tratta la Fisica e le scienze inferiori, sono parziali, [...OMISSIS...] , e minori di quella prima natura a cui nulla aggiungono, ma da cui rescindono una parte, [...OMISSIS...] : quella natura dunque è più completa d' ogni altra sostanza. Questa natura o sostanza è per sè ente e non per accidente, e di essa sono i principŒ e le cause supreme, che sono immobili, perpetue, e separabili da ogni materia. Questi sono, come dicevamo, i primi intelligibili, i principŒ della ragione e le prime cause formali. Ora Aristotele è pure costretto di convenire che la scienza che tratta dell' ente in questo modo, e di quelle cose, che in esso inesistono, e che, essendo prive di materia, sono per sè intelligibili (1), è « «comune a tutti i generi e a tutte l' altre », [...OMISSIS...] », poichè tutte le cose che esistono essendo in qualche modo enti, possono essere considerate come enti, cioè come aventi quelle proprietà che sono dell' ente come ente. Quindi egli viene di novo a considerare l' universale in un doppio aspetto: 1 come separato, proprio dell' ente per sè, inesistente in questo, senza materia, [...OMISSIS...] ; e 2 come comune a tutti gli enti anche sensibili e materiali. Dal che ne viene che il comune può esistere, come diceva Platone, per sè indipendentemente dalle sostanze sensibili, non precisamente nella sua condizione di comune , ma in quella d' appartenenza d' un primo ente per sè, cioè di Dio. A questo dunque ricadeva Aristotele stesso argomentando da quel principio ontologico, che abbiamo innanzi accennato, cioè che « ciò che è in atto, dee assolutamente precedere ciò che è in potenza ». Il qual principio per la sua stessa confessione non vale per ciascun ente singolo, rispetto al quale può preesistere la potenza all' atto, ma per l' università delle cose, e però basta a soddisfarvi che ci abbia un atto primo anteriore a tutte le entità potenziali, e questo è Dio. Ora non è fin qui identica la dottrina di Platone? Lasciava forse Platone le idee disunite, vaganti a caso, per così dire, senza una singolare e compiuta sostanza in cui fossero? No, certamente; ma la sede delle sue idee era Dio stesso, al che vedemmo riuscire lo stesso Aristotele. L' argomento dunque d' Aristotele che le idee, essendo universali, sono enti in potenza (2), e che perciò deve esserci quella sostanza singolare che non si predichi d' altro, in cui sieno, non ha forza per due ragioni: l' una , che le idee non sono universali se non in quanto possono esser partecipate, ma in sè stesse sono singolari, che anzi ciascuna rimane una e identica anche partecipata da molti, secondo Platone (1); l' altra , che è soddisfatto al bisogno d' un subietto in cui le idee si trovino, nella dottrina di Platone, che le ammette in Dio. Poichè l' argomento d' Aristotele si deve accomodare così, acciocchè abbia valore: « Le idee non dimostrano che un' esistenza obiettiva. Ma un' esistenza puramente obiettiva, cioè priva della subiettiva, non fa che la cosa sia a se stessa, ma ad un' altra cioè alla mente, di cui è obietto. Dunque le idee non sarebbero a se stesse, se non fossero in un subietto, che desse loro anche l' esistenza subiettiva ». Quest' argomento è come traveduto da Aristotele, ma non espresso. Ora Platone soddisfa a questa condizione dando per subietto delle idee Dio stesso. E questo non è già un fuor d' opera nel sistema di Platone, come è sembrato a qualche scrittore moderno, ma è coerentissimo a tutta la sua filosofia, ed un risultato di quella sua dialettica, con cui egli l' ha lavorata, e che egli chiama perciò appunto la scienza massima (2). Alla dialettica appartiene, secondo Platone, di conciliare i contrarŒ, e per mezzo di questa egli non solo non si ferma ai numeri e alle astrazioni geometriche (3), che riguarda come altrettante supposizioni, ma nè pur si ferma alle idee che, come vedemmo, trova bensì eterne, ma limitata ciascuna, e da sè sola insufficiente ad esistere, onde le vuol tutte connesse ed organate in un gran corpo o mondo intelligibile (1). Che anzi dice chiaramente essersi appigliato allo studio delle ragioni, ossia delle idee, per poter sollevarsi da queste più alto, cioè a Dio, che rassomiglia sempre al sole. [...OMISSIS...] . Fra il contemplare adunque le cose nello stesso ente cioè nel sole, e il considerarle ne' sensibili, ripone il considerarle nelle ragioni o idee, che sono da più che non sieno le immagini sensibili degli enti, ma non sono ancora l' ente assoluto in cui risiede come in prima fonte l' assoluta verità delle cose. Laonde giustamente avverte Goffredo Stallbaum non doversi già credere, che Platone faccia di Dio un' idea, o il complesso delle idee (3); il che ben avvertano quelli, a' quali in Italia piace la maniera di parlare, che l' eloquentissimo Vincenzo Gioberti tentò introdurre nella filosofia. Invano dunque Aristotele oppone a Platone, che le idee non possono stare separate dalle cose, poichè essendo universali sono enti in potenza e l' atto deve precedere, poichè anche Platone fa che preceda l' atto (1), riponendole in Dio, a cui ascende appunto per un simile argomento, ricopiato poi da Aristotele, il quale pure ascende dalle idee ad un primo intelligibile separato al tutto dalla materia sensibile. E` del pari falso, come vedemmo, che le idee di Platone costituiscano delle essenze diverse da quelle de' sensibili, perchè questi senza quelle nè sono nè hanno alcuna essenza, ma l' essenza loro è quella stessa che sta e si conosce nelle idee di cui partecipano. E benchè Aristotele sparli di questa partecipazione che i sensibili fanno delle idee, tuttavia egli stesso attesta, che secondo Platone « « i sensibili sono enti per la partecipazione delle specie, come i Pitagorici dicevano esser enti per la imitazione di esse »(2) »: non ci sono dunque due serie di enti, ma una sola, che ha due modi, in sè, e partecipata, rimanendo identica. Si consideri oltracciò che Aristotele ritiene la denominazione che Platone diede alle idee di cause delle cose (3): onde la prima delle sue quattro cause « « l' essenza e la quiddità separata dalla materia, che definisce anche il primo o prossimo perchè, l' ultima ragione della cosa »(4) ». Questa denominazione di causa data alle essenze ideali, implica la distinzione di queste dalle cose reali, singolari e sensibili. Nello stesso tempo Aristotele insegna, che l' essere sta in queste cause delle cose, per modo che la loro definizione e quiddità si predica delle sostanze reali, singolari e sensibili, sicchè ciò che di queste si conosce non è altro, che quelle essenze appunto che nelle idee s' intuiscono (1): c' è dunque identità secondo Aristotele tra l' essere intuito nelle idee universali, e l' essere conosciuto nelle cose reali sensibili. E questo è quello che fa Platone per confessione dello stesso Aristotele, dicendo che quelli che introdussero le specie, fanno le specie quiddità a ciascuna delle altre cose, e alle specie l' uno (2). Avendo dunque riconosciuto così Aristotele, che le essenze insensibili e immateriali non sono le cose, in quanto sensibili, ma loro cause prossime, non poteva farle derivare da queste, e dirle posteriori a queste, e però quando le dice posteriori, conviene intendere posteriori unicamente rispetto alla mente umana. Ma nello stesso tempo riman fermo il suo principio « che la sostanza reale e singolare, come quella che è perfettamente attuata, dee essere anteriore a quelle che, essendo universali, hanno della potenza ». Quando dunque considera quelle cause o principŒ prossimi e formali delle cose in se stesse, non potendo negare che preesistano, nè potendo ammettere che esistano come primi, per la loro universalità e potenzialità, dice che si devono ridurre in qualche natura diversa affatto dalle sensibili e materiali, [...OMISSIS...] . Come poi Platone connetta i sensibili, a cui appartiene il moto, coll' idee o essenze, che sono immobili, è detto nel Sofista e in altri dialoghi. Poichè avendo ivi distinti cinque sommi generi [...OMISSIS...] , cioè l' ente (4), lo stato , il moto , il medesimo e il diverso , dimostra, che l' ente si copula cogli altri quattro generi, e che se non si copulasse con essi, non sarebbero, nè si potrebbero pensare (5): e tuttavia non si confonde con essi. Gli altri quattro generi dunque, a cui tutti i generi inferiori si riducono, sono per la partecipazione dell' ente, e pure nessuno di essi è l' ente. Platone viene a dire così: noi dobbiamo considerare com' è fatta la natura delle cose, quale noi la conosciamo e la esprimiamo nel ragionamento interno ed esterno, e questo fedele rilievo dell' ordine della natura delle cose, qualunque sia, purchè non involga contraddizione, non ci deve turbare, nè dobbiamo, uscendo di senno per la maraviglia di un risultato che non aspettavamo, impugnarlo, o negarlo, o contraffarlo coll' immaginazione nostra e coll' arbitrio. Ora che cosa ci risulta da questa attenta osservazione delle cose tutte da noi conosciute? Ci risultano queste conclusioni: 1 Che niuna cosa può essere se non ha l' atto dell' essere (1); 2 Che questo atto dell' essere comune a tutte le cose, condizione necessaria acciocchè siano, di maniera che rimarrebbero annullate senz' esso, non è nulla di tutto ciò che costituisce le loro differenze, e pur le fa essere in quel modo che sono, l' una dall' altra distinte, e molte. Le qualità dunque delle cose (chiamando qualità non i soli loro accidenti, ma anche quello che costituisce la loro natura o essenza speciale, che è quello che Aristotele dice «peri usian to poion») (2), queste qualità che noi diremmo « essenze speciali », non sono l' essere, perchè questo è comunissimo ed uno, e quelle sono speciali (specie e generi). 3 L' atto dunque dell' essere che è in ciascuna e in tutte si può acconciamente chiamare l' ente, «to on», e tutto il resto che costituisce le cose «me on», il non ente. 4 Che se le essenze speciali che prese da sè sono il non ente, hanno bisogno per esistere dell' ente: dunque consegue che l' ente si copuli col non ente, cioè con tutte le essenze e nature, che non sono lui. Questa copulazione del non ente coll' ente è quello, che Platone chiama partecipazione, «methexin» (3), la quale è triplice, come è triplice la materia platonica, cioè l' ideale (4), la matematica e la sensibile. Laonde dice, che « « il non ente sembra implicato coll' ente in mirabili modi »(5) ». 5 Ma l' ente stesso, il «to on», ha bisogno d' essere unito col non ente per sussistere, perchè s' egli pure non avesse alcun' altra proprietà, rimarrebbe indeterminato e però assurdo, sarebbe e non sarebbe essere, come dimostra nel Parmenide. 6 Ora l' ente, il «to on», puro, è uno; il non7ente, il «to me on», è molti, perchè abbraccia i quattro generi (1) e tutti gli altri e l' altre cose anche reali, gerarchicamente subordinate: l' uno dunque e i molti sono sempre, nella verità del fatto, copulati insieme, onde la formola «hen kai polla», che è la tessera del sistema platonico, distinto ugualmente da quello di Parmenide, che solo ammetteva il «to hen», e da quello d' Eraclito, e de' fisici che solo ammettevano «ta polla». Qui converrebbe inserire un' altra dottrina di Platone, per la quale questo filosofo dal concetto dell' essere, fornendolo di tutto ciò di cui abbisogna affinchè sussista come essere compiuto, perviene al concetto di Dio, ma di questo in appresso. Continuando dunque nell' esposizione dei cinque supremi generi, egli mostra che nè lo stato, nè il moto, nè il medesimo, nè il diverso non sarebbero se non partecipassero dell' essere , e che perciò sono per la partecipazione di questo: ma che tuttavia non sono questo; copulandosi bensì, ma non confondendosi mai le nature. Di qui vengono le antinomie , e di qui pure si sciolgono, cioè si dimostra che esse non sono punto vere contraddizioni, ma solo apparenti. Poichè accade che una cosa si possa dire in due modi: per sè, e per quello di cui partecipa. Quindi una prima antinomia nasce da questo che si dica la cosa essere la medesima e non essere la medesima. Prendiamo a ragion d' esempio il moto. Si dice tanto che « il moto è », quanto che « il moto non è »: con verità l' un e l' altro. Poichè è vero che il moto è, intendendosi che è per partecipazione dell' essere; ed è vero che il moto non è, intendendosi per sè solo, come moto, astraendo dalla partecipazione dell' essere. Allo stesso modo dicesi che « l' essere si move », e che « l' essere non si move »: vero di nuovo l' un e l' altro, ma sotto un diverso aspetto, perchè l' essere si move per la partecipazione del moto, ma non si move per sè come puro essere. Dunque, dice Platone, non c' è contraddizione a predicare l' ente del non ente, e il non ente dell' ente, come ci rimproverano gli avversari, quasi cadessimo in contraddizione. [...OMISSIS...] . Viene dunque a dire che tutte le nature che veramente esistono, sono mirabilmente organate d' ente, che è il fondo di tutte, col quale tutte si copulano, acciocchè sieno (onde lo chiama il massimo, il principale, il primo) (2), e di non ente, cioè d' altre qualità, che da sè sole prese differiscono dalla natura dell' ente, ma per partecipazione di questa sono. Ed osserva, come dicevamo, che ogni discorso interno ed esterno dell' uomo attesta questo sintesismo della natura. [...OMISSIS...] . Stabilita dunque questa comunione e copulazione delle diverse cose, che unite senza confondersi organano gli enti esistenti, vedesi come Platone ne concepiva la loro costituzione di cose opposte e non punto contradditorie. Ed è da considerare attentamente che quando qui parla di generi e di specie, intende sotto queste parole parlare delle essenze che ne' generi e nelle specie si contemplano dalla mente, cioè di cosa che è anteriore alle forme categoriche. Non parla dunque di esse in quanto sono ideali, o in quanto sono reali, o morali, ma puramente in quanto sono, e perciò in quanto il loro essere è poi suscettivo d' una di quelle tre forme. Onde la teoria universale, che dà qui Platone circa il mutuo abbracciarsi e copularsi delle essenze, vale egualmente sia che si parli d' una copulazione che si consideri nell' ordine ideale o nell' ordine reale, ovvero di una copulazione che si consideri tra l' ordine ideale e il reale. E in quanto a quest' ultima, dove sta il nodo della difficoltà, e a cui si rivolgono le obbiezioni d' Aristotele, è prima di tutto da osservare che Platone non dice mica, che tutto ciò che appartiene all' ordine reale sia apparente, e non ci sia di vero che l' ordine ideale, come falsamente gli viene imputato, a cagione che talora dà alle essenze il nome d' idee, perchè quelle nelle idee solo si vedono e si contemplano dalla mente; ma tra i reali distingue i sensibili e corporei dagl' incorporei e spirituali (dottrina ricopiata poi da Aristotele) (2), e a quelli lascia un essere fenomenale, a questi attribuisce una vera e non fenomenale esistenza. Posto dunque che le nature esistenti sieno così organate di elementi non contraddittorŒ, ma diversi, non c' è alcuna ripugnanza che gli enti stessi fenomenali della natura, cioè i sensibili, sieno copulati nel concetto della nostra mente, secondo il quale parliamo di essi, d' una essenza immobile ed eterna, e d' un elemento scorrevole ed apparente come fenomeno alla nostra facoltà di sentire, giacchè queste due cose, quantunque copulate insieme e così costituenti una natura, non si confondono tra loro, nè l' una non diventa l' altra, ma sintetizzano, avendo il sensibile bisogno dell' insensibile essenza per essere concepito e per essere. Così se si separa il sensibile dalla sua essenza, diviene un incognito e anche un assurdo; se lo si lascia unito, s' intende, ed è come s' intende: per sè solo adunque non ha la essenza, ma partecipata questa, è anch' egli per questa partecipazione: non già che egli sia avanti di questa partecipazione, ma l' esser suo è il parteciparla, [...OMISSIS...] , per usare una frase d' Aristotele. Platone dunque non deduce, e non intende spiegare questa partecipazione, ma v' invita a osservarla coll' attenzione della mente nel fatto della natura delle cose, rispetto alle quali la chiama più spesso comunione , e nel fatto degli oggetti del pensiero, rispetto al quale la chiama presenza (2), parola acconcissima e forse unica, perchè le essenze sono là presenti al pensiero senza punto confondersi con esso e nè pur co' sensibili, benchè con questi abbiano una cotal comunione. Non è dunque vero nè che Platone faccia due ordini di essenze, le eterne e incorruttibili, e le sensibili; nè che egli ammetta gli universali per sè esistenti, l' uno separato dall' altro, e separati tutti da ogni singolare sussistente, che sono le imputazioni che gli fa Aristotele con tant' evidente ingiustizia, che farebbero credere non poter esser d' uomo che ascoltò per vent' anni le lezioni di Platone. Platone ammette un solo ordine d' essenze e queste incorruttibili, le quali sono in due modi, per sè, e partecipate. Ma nè nell' uno nè nell' altro de' due modi esistono o divisi fra loro o divise dalla realità. In quanto sono partecipate sono le stesse che esistono per sè, e i sensibili sono in esse, frase ripetuta da Aristotele e appropriatasi quando disse: [...OMISSIS...] in quanto sono per sè (il che altro non significa se non che per essere non hanno bisogno de' sensibili, e che possono esser concepite separate da questi, come ammette pure Aristotele) esistono congiunte e tutte organate in Dio. Nè vale il dire, che l' uomo se le forma colla percezione de' sensibili, di modo che Aristotele imputa a Platone di formare le sue idee col prendere i sensibili e aggiunger loro il vocabolo «auto» (2), questo non provando menomamente, che le essenze sieno lo stesso che i sensibili, o da questi indivisibili, ma solo che la mente vede questi colle essenze copulati, in modo che ogni sensibile ha per fondamento suo la essenza colla quale è copulato; e il moto stesso, e il sensibile , ha un' essenza immobile ed insensibile per la quale e nella quale è, e si conosce (3). Poichè l' essenza del moto non è mobile, e l' essenza del corruttibile non è corruttibile: e tutte queste essenze sono per l' essenza prima (che si chiama semplicemente essenza), cioè per l' essere, che sotto di sè le contiene, senza confondersi punto con questi suoi termini, come noi li chiamiamo. Le idee in Platone dunque non rimangono divise fra loro e ciascuna come un ente da sè sussistente, senza appoggio d' altra cosa reale, ma, sia in Dio, sia nell' uomo, si trovano in un subietto sostanziale e reale; al quale non appartiene ciò che Platone dice dei sensibili e corruttibili, che sieno in perpetuo moto, senza aver nulla di consistente: quasichè dal negare che fa Platone la stabilità e verità di questi si deva dire, con Aristotele, che Platone in universale parlando ponga prime le idee, e posteriori i reali. Anzi i reali sono in Platone il sostegno delle idee, sono quelli a cui esse appartengono, e ne' quali si copulano e congiungono tra loro e diventano operative e quasi mobili, non perchè esse sieno tali, ma perchè i subietti reali in cui sono operano secondo esse, come secondo altrettante norme e misure e regole e forme. Ma di nuovo, questi reali veramente sussistenti non sono i sensibili, ma gli esseri intelligenti ed incorporei. Laonde quando distingue il genere del moto e dello stato da quello dell' essere, Platone dice, che si fa questa distinzione nell' anima , certamente intellettiva, [...OMISSIS...] e in generale descrive le essenze come quelle che colla sola intelligenza e sapienza si apprendono, [...OMISSIS...] (1), che anzi egli impugna risolutamente i Megarici (poichè pare indubitato, che a quelli alluda nel Sofista), che dividevano le idee dalle cose reali per modo che non ponevano tra le une e le altre una vera comunicazione, e dicevano, che « « la generazione (i sensibili) è partecipe della potenza d' agire e di patire, ma all' essenza non convenisse alcuna potenza di simil fatta » ». Onde l' ospite eleate nel Sofista domanda: « « se concedano che l' anima conosca, e l' essenza sia conosciuta » ». A cui Teeteto: « « L' asseriscono certo » ». Ottenuta questa risposta, dimostra l' ospite, che se conoscere è un agire, come non si può negare, dunque essere conosciuto conviene che sia patire, e però « « che l' essenza in questo modo, conoscendosi, patisca dalla cognizione, e in quanto patisce, anche si mova, il che circa una cosa stabile abbiam detto non potersi fare » » (2). La conseguenza che Platone vuol qui derivare dal conoscersi le essenze, non è certamente del tutto esatta, poichè veramente le essenze nulla patiscono dall' esser conosciute, benchè la mente agisca in conoscerle «( Rinnovam. 497 e segg.) ». Il fatto si è che l' operare dell' anima conoscente non produce altro effetto che nell' anima stessa, la quale si può dire in qualche modo che sia attiva e passiva ad un tempo, nel qual senso si potrebbe distinguere un intendimento attivo ed uno passivo, ma non in questo senso glie li dà Aristotele. Non c' è bisogno di cercare il termine passivo della sua azione fuori dell' anima. Oltre questo agire poi e patire dell' anima, c' è anche, rispetto all' oggetto conoscibile, il predicamento del ricevere «( Logic. 431) » e dopo essersi ricevuto c' è il predicamento dell' avere «( Ivi e segg.) », i quali non importano nessuna passione nell' oggetto. I Megarici dunque esageravano o mal applicavano una verità luminosa, e così cadevano nell' errore, cioè la verità dell' « impassibilità delle essenze ». Platone più forse per dimostrare quanto quella questione fosse implicata, e più per confonderli che per convincerli e dare la vera soluzione delle difficoltà, li tirava ad accordare, che l' essere conosciuto fosse patire, e quindi che patisse l' essenza conosciuta [...OMISSIS...] , e di conseguente che anche si movesse [...OMISSIS...] . Dal che deduceva non essere assurda la comunicazione delle essenze. Ma sebbene quest' ultima, cioè la comunicazione o comunione delle essenze, fosse indubitatamente opinione di Platone, tuttavia credo, che il raziocinio che qui trae dal patire non fosse che un argomento ad hominem , che poteva valere bensì co' Megarici e co' Sofisti, ma che Platone non facesse veramente patire le essenze (1). Poichè egli non insegna mai altrove che le idee o le essenze eterne patiscano o si movano, ma il contrario; e le parole che usa di comunione ( «koinonia»), di presenza ( «parusia»), e simili, non inchiudono propriamente il patire , ma solo il modo reciproco di essere , e in questo senso, secondo noi, cioè come esprimenti in qual modo sieno reciprocamente e co' reali, vanno intese l' altre espressioni, «metalambanein allelon, epikoinonein allelois, metechein», e simili, colle quali significa in più modi lo stesso concetto. La vera discrepanza dunque tra Platone ed Aristotele non consiste in questo che Aristotele faccia anteriori i reali e posteriori le idee, e Platone faccia il contrario; e Aristotele dissimula il vero e va cavillando tanto spesso, quanto spesso di questo calunnia il suo maestro. Se i successori e discepoli di Platone in questo peccassero per non aver abbracciata colla mente la dottrina del maestro in tutta la sua integrità, non mi è ben chiaro, nè forse sarà mai del tutto. Ma è chiarissimo, e la confessione stessa d' Aristotele n' è la riprova, che Platone antepone assolutamente l' atto alla potenza, e i singolari e i reali alle idee che sono il termine della loro intelligenza, ma non punto i reali corporei o i sensibili, che egli fa posteriori. E tuttavia rimane ancora una vera discrepanza tra Aristotele e Platone, e un dissidio profondo. In che dunque questo consiste? - Qui siamo obbligati di uscire, per rinvenirlo, dalla sfera della Ideologia, e questo prenderemo a fare nel libro seguente. Una diversa ideologia conduce di necessità le menti dei filosofi a una diversa Teologia e a una diversa Cosmologia, giacchè non si può speculare sui principŒ di queste ultime scienze se non traendone i primi fili da quella che dà il loro naturale iniziamento a tutte le scienze filosofiche «( Logic. 1 e segg.) ». Il che si avvera ogni qualvolta la mente ne' suoi ragionari va pel cammino naturale, e non s' accinge al filosofare colla mente imbevuta di preconcette e volgari opinioni, e queste false. Quando all' incontro, invece di cominciare dal principio della scienza, che è il lume ideale, sbalzando in mezzo ad essa quasi a caso, e più secondo le secrete propensioni del cuore umano e l' educazione ricevuta, che per via d' un limpido ragionare, l' uomo si è venuto formando cotali anticipate opinioni intorno alla divinità e alla natura del mondo: egli è condotto da questa sua Teologia e Cosmologia precoce a comporsi un' Ideologia in loro servigio. Perocchè ad ogni modo questa e quelle devono consonare e non possono rimanere nella mente umana a lungo discorsi: sia che questa preceda e somministri l' ordito di quelle, sia che precedano queste e a lor servigio co' proprŒ fili ordiscano e tessano quella. E questa diversità di metodo in procedere speculando, parmi aver data origine, chi ben considera, alla differenza delle due grandi filosofie dell' antichità, l' Aristotelica e la Platonica. Perocchè Platone incomincia dalle idee e da queste trae i primi dati ed elementi, su' quali viene argomentando e congetturando con somma sagacità ed elevatezza, quello che si deve reputare vero o verosimile intorno alla prima Causa e all' Universo; laddove Aristotele viene già provveduto d' opinioni intorno alla natura delle cose mondiali, dalle quali ascende al primo Motore; e così, fornito d' una qualunque sia dottrina cosmologica e teologica, chiama le idee a riscontro di queste, e quanto più può s' affatica per ridurle a tale condizione e natura, che a quelle sue opinioni non contraddicano, anzi ad esse umilmente servendo, via più le confermino. Da questo lato dunque considerata la questione, non dubito punto asserire che la ragione del dissidio tra i due filosofi giace nell' opinione diversa intorno l' origine del Mondo, facendolo Platone creato da Dio, e Aristotele volendolo eterno. Esponiamo dunque i due sistemi intorno a questo punto colle loro conseguenze. Platone, come abbiamo detto prima, non pone la materia eterna, ma la fa veniente da Dio, da cui pure fa venire le idee (1). Nel decimo libro della « Politeia » introduce il legnaiuolo che fa letti e mense, e osserva che egli li fa secondo una specie , e che in questa è l' essenza e la natura propria del letto o della mensa che fa, ma non fa la stessa specie e però non fa « il letto »ma « un letto ». Quello che è veramente il letto, cioè l' essenza stessa del letto, chi la fa dunque? E risponde: indubitatamente Dio (2); dimostra anche di più, che il letto che serve d' esemplare al fabbro per farne molti, non può essere che uno, col principio degl' indiscernibili (1), richiamato in vita da Leibnizio. Come poi il legnaiuolo imita e ricopia il letto fatto da Dio (l' essenza del letto), così il pittore imita e ricopia il letto fatto dal legnaiuolo: onde distingue tre letti: quello fatto da Dio, l' idea, quello del legnaiuolo, e quello del pittore (2). Se adunque Platone fa che le idee stesse, in cui ripone la natura delle cose, sieno generate o prodotte da Dio, molto più la materia. Poichè questa senza la forma, e però indefinita, non può sussistere e non è che una pura astrazione della mente (3), cosa ripetuta da Aristotele (4), giacchè, secondo Platone, non può sussistere niente d' indefinito, onde le idee stesse, sebben ciascuna inconfusibile coll' altre, non esistono se non copulate ed organate insieme, il che mostrò a lungo nel Parmenide per riguardo alla idea dell' uno , che svanisce ove si separi da tutte le altre, e di più ivi dimostra che l' uno in quanto è partecipato da ciascuna parte d' un tutto è contenuto dal tutto, ma in quanto è partecipato dal tutto insieme, pure non è solo in sè stesso, ma in altro, [...OMISSIS...] (5). Il che è detto in un modo dialettico e formale, così che si può applicare il principio a più casi. Se dunque si prende per tutto il mondo intero delle idee, certamente allude alla loro contenenza in Dio, come abbiamo detto altrove (1). E veramente nel Timeo egli pone anteriori alla formazione del cielo tre elementi, l' idea, la materia corporea non inerte ma dotata di forze, onde la chiama generazione [...OMISSIS...] , e lo spazio, nell' immensità del quale quella materia da' suoi proprŒ pesi disquilibrata era portata a caso e qua e là sbalzata (1), i quali tre elementi egli fa comparire come contemporanei, e aventi una stessa origine, cioè quella che assegna al più eccellente di questi tre elementi nel X della « Politeia », Iddio. E il dice anche a questo luogo del Timeo indirettamente e con certa riverenza, riguardando come un religioso mistero l' ultima origine delle cose. [...OMISSIS...] . Il che non direbbe se non considerasse Iddio come l' autore del tutto, e accennando all' amico di Dio, pare che alluda alle tradizioni conservate dai sacerdoti, le quali tutto facevano venire da Dio, arcano superiore all' intelligenza, e alla fede comune degli uomini. E qui s' osservi tutto l' andamento del discorso di Platone, che mi pare non bene distinto dai commentatori. Egli prima parla di tre principŒ elementari delle cose: 1 la specie; 2 la materia corporea; 3 il corpo, che è l' unione dei due primi. Questo lo chiama: « « ciò che si genera », [...OMISSIS...] ». La materia corporea: « »ciò in cui si genera » [...OMISSIS...] ». La specie: « « ciò da cui nasce assimilato quello che si genera », [...OMISSIS...] ». E paragona alla madre la materia corporea che riceve; al padre la specie da cui riceve; e alla prole la natura che ne risulta media ossia mediatrice tra esse, [...OMISSIS...] (3). Dice d' assumere questi tre soli principŒ per ora (1), dando così ad intendere che n' aggiungerà loro poscia qualche altro. Dopo aver dunque distinti questi tre principŒ elementari li riassume in due, l' uno immutabile e immobile, che sono le specie, l' altro mutabile e mobile che è la materia corporea e i corpi, che col ricevere successivamente varie forme, il che è generarsi, di essa si vanno formando. Ora l' uno e l' altro di questi due generi elementari, li dice prodotti e generati, cioè tanto le specie quanto la materia corporea, ma prodotti distinti, e in qualche modo separati, perchè dissimili, [...OMISSIS...] . Riassunti così que' tre principŒ elementari in questi due, cioè nella specie , e nella generazione (che comprende la materia e i corpi mutabili), vi aggiunge ora il terzo (che viene ad essere il quarto, se la generazione si sparte in due), cioè lo spazio , onde le entità matematiche che, secondo lui, erano immobili come le specie, ma moltiplici come i corpi (3). Con ragione dunque Goffredo Stallbaum [...OMISSIS...] sostiene, che questa appunto della Creazione fu la sentenza professata da Platone (5). E nel vero se le idee del mondo che pure contengono l' essere delle cose, sono « veri enti », o enti semplicemente (6), pure hanno per autore Iddio, come potrà ammettersi per increata quella natura, che non ha verità in se stessa, ma è mutabile apparenza, e che tende a imitare la specie, sempre da un altro, cioè dalla specie stessa, sorretta e portata, [...OMISSIS...] , e che perciò ha un' esistenza reale di necessità relativa alla specie? (7). Poichè, come dicemmo, Platone parla della materia separata solo per astrazione dalla forma; ma come esistente, egli la fa vestita di qualche forma; però cangiabile, e in questa facoltà di rimutare la forma, pone la natura della materia finita, cioè in quanto giace sotto la forma, onde dice, che « « tutte queste cose (il fuoco, l' aria e gli altri elementi) si danno reciprocamente, come appare, la generazione », «ten genesin», » che il Ficino traduce « vires fomentaque generationis ». Quest' è la materia esistente sotto la forma, ma non divisa della forma. Quando si concepisce poi divisa per astrazione dice, che « « sembra che si veda onniforme », [...OMISSIS...] », perchè non si vede veramente senza forme, essendo impossibile; onde l' immaginazione le aggiunge quasi di furto tutte le forme, di cui l' avea spogliata l' astrazione, e così si concepisce. La materia indefinita non essendo dunque, che solo concepita dalla mente, è ideale, e così può dirsi eterna e immobile, essendo le idee nate dal pensiero divino ab aeterno (1). Ma la materia definita è reale, e come quella si chiama immobile al par delle idee, così questa si move, chiamandola Platone « « simulacro che soggiace a ogni natura, agitata e figurata dalle (specie) ingredienti »(2) ». Avendo dunque Platone concepita la materia corporea indefinita come un' idea o essenza generica, ne parlò come fosse una (benchè virtualmente avesse il numero ne' suoi visceri), il che diede occasione ad Aristotele di redarguirlo. Poichè non ammettendo Aristotele idee separate dalle cose corporee (benchè poi ammettesse egli stesso le prime idee, [...OMISSIS...] , nella mente separate dai corporei e dai fantasmi), considerò la materia come definita, e quindi sostenne che tante erano le materie quanti i corpi, cosa che Platone non gli avrebbe negato; mostrandogli in quella vece che quelle materie, non differendo nè di specie, nè di genere, non potevano avere che natura di parti d' una sola materia specifica. Il nome dunque, che Platone dà a Dio di «phyturgos», piantatore, o autore della natura, ha virtù d' esprimere la creazione, così appunto spiegandolo Platone, come indicante che Iddio « « fa in natura e questo » » (il letto per essenza) « « e tutte l' altre cose » » dove «alla panta» abbraccia tutta la materia informata (1). Laonde prima avea detto chiaramente, che « « dal Bene (cioè da Dio) a quelle cose che si conoscono, non solo avviene il poter essere conosciute, ma di più da quello prendono l' essere e l' essenza, quand' egli non è l' essenza, ma è più su dell' essenza, superando questa in dignità e potenza » » (2). Dove chiaramente è distinta la conoscibilità delle cose, «to gignoskesthai» dall' essere, «to einai», e dall' essenza, «ten usian», delle cose, e tutti e tre questi elementi si dicono provenire da Dio che è il bene stesso, a tutte le cose superiore. Ora da questi tre elementi nulla si può escludere, nè pure certamente la materia, che ad ogni natura soggiace, foggiandosi a modo di simulacro, [...OMISSIS...] . Poichè se ogni natura risulta da que' tre elementi: 1 la conoscibilità; 2 l' essenza; 3 l' essere; e se ad ogni natura soggiace la materia, e la sua propria condizione è questa di soggiacere, per fermo essa da que' tre elementi non si può in alcun modo dividere. Convien dunque dire che, secondo Platone, Iddio creò la materia corporea coll' idea e nell' idea, e che, se ne parlò prima come d' un elemento da sè indefinito, ciò non facesse che per un processo dialettico, pel quale distinguendosi le cose per considerarle meglio nelle loro distinzioni, non si lasciano però divise, ma poi si riuniscono. Ed è da considerare i vestigi che sono nell' animo umano d' una doppia potenza, l' una che si riferisce alle idee, l' altra alla materia; dalla quale doppia potenza, che in noi stessi osserviamo, possiamo salire per analogia a Dio, e vedere come l' atto suo può abbracciare le idee e la corporea materia, e in generale ogni realità. Poichè l' uomo ha: 1 il potere d' intuire le idee, poniamo l' idea della casa, anzi la specie piena (facoltà d' intuire le idee); 2 il potere altresì di porla e affermarla sussistente, mediante una certa virtù imaginativa della mente (facoltà di pensare individui reali possibili; la quale s' inchiude nella facoltà del verbo) «( Ideol. 531 7 554) ». Ora questo secondo potere è il vestigio appunto di quel potere che ha Dio di creare. Poichè come l' uomo imaginando e affermando si pone avanti un simulacro d' individuo reale possibile, così Iddio con un atto analogo lo fa essere (1). Ma come l' uomo non potrebbe pensare un individuo sussistente possibile, se non ne intuisse la specie, così Iddio creando, pone colla materia la specie nella materia che crea, o per meglio dire figura la materia sul tipo della specie e ne fa un simulacro di questa. L' atto dunque col quale Iddio crea la natura sussistente, le cui parti poscia coordina e armonicamente dispone, non è già una semplice intuizione, ma, quasi direi, un atto efficace d' immaginazione ed affermazione divina: non è come nell' uomo l' intuizione delle specie, un ricevere, ma un fare collo stesso esser suo. Ora a quest' altezza non giunge Aristotele. Quantunque egli sia costretto dalla forza del suo ingegno a riconoscere, che l' essere delle cose non è punto sensibile, tuttavia non sa punto slegarsi da' sensi, che sono pania alle sue ali, onde contraddizioni per tutto e, diviso in due, ora sembra innalzarsi alle cose più spirituali e immateriali, ora nella materia ricade. E` sempre il sensibile da cui parte, e la prima ragione su cui fonda il raziocinio è il testimonio de' sensi anche dove questi, secondo la sua stessa dottrina dialettica, non possono avere alcuna autorità. Così a impugnare la Creazione del Mondo ricorrendo al testimonio della vista, induce che il movimento circolare de' cieli sia naturale in essi ed eterno, perchè si vedono mover sempre (2). L' argomento è manifestamente indegno di un tanto filosofo. Con simili ragioni toglie a provare contro Platone (3), che il moto e il tempo non ha mai cominciato (4) e sembra che non sappia concepire nè pure la stessa divinità fuori di luogo (5) e del tutto inestesa, non perchè non s' accorga che la mente non può ammettere estensione di sorta, chè questo bene il vede (1), ma perchè pare che la mente stessa deva risiedere in qualche corpo e non possa pura e sola sussistere. Onde recando i diversi significati della parola «usia» pone per primo che significhi « « i corpi semplici, come la terra, il fuoco, ecc.. »(2) ». Indi molte dottrine rimangono in Aristotele sospese quasi in aria, senza alcuna ragion sufficiente, come ad esempio, quella dell' unità del Mondo argomentata dall' esser egli composto di tutta quanta è la materia (1). Nella dottrina di Platone, ricevendo la materia da Dio l' esistenza, si trova la ragion sufficiente, per la quale sia tanta e non più: chè la volontà del Creatore le assegnò una misura proporzionata a quell' ideale organico del mondo da lui concepito secondo la perfezione che dovea in sè realizzare; ma ad una materia esistente per sè ed eterna chi può assegnare una misura? Onde non rimane più un perchè essa deva essere piuttosto tanta che tanta, o perchè al bisogno di questo mondo non ne sopravanzi una porzione, sia che altri mondi se ne compongano, o sia che disordinata si rimuova in un caos a guisa di materia nebulosa. Ma torniamo a Platone. L' idea suprema pel gran filosofo è « l' idea del bene ». Non si creda che quest' idea sia per Platone interamente diversa da quella dell' ente, che è da lui chiamato « « il massimo e precipuo e primo »(2) ». Ma poichè l' ente si può prendere secondo un concetto indeterminato e formale, secondo il quale tutti gli altri concetti a lui si copulano (3), non essendo egli che l' essere possibile, o potenziale, come Platone stesso lo definisce (4), e si può prendere nel suo atto da ogni parte compiuto, perciò Platone a quest' ultimo riserva il nome di bene (5). Ma il bene stesso, attesa la limitazione della nostra mente e i diversi modi dell' umano pensare, duplica il suo concetto. E però Platone distingue il Bene [...OMISSIS...] dal Figlio del Bene [...OMISSIS...] . Questo Figlio del Bene lo chiama « «similissimo al Bene » [...OMISSIS...] , ed è il lume dell' umana intelligenza, il lume di Dio segnato nell' anima umana, il qual lume perciò Platone lo distingue sapientemente da Dio stesso, e nol confonde punto con lui; come faceva, e in vano l' attribuiva a Platone, un recente scrittore di gran nome in Italia, che a noi s' oppose da principio con grand' impeto per quest' appunto, ma finì poi coll' esserci non concorde, ma benevolo (1). Platone dunque paragona il Bene, cioè Dio, al Sole, il lume della ragione umana al lume appunto del Sole, che s' imprime nell' occhio e si sparge ad un tempo su tutti i corpi, che, riflettendolo (2) all' occhio, si rendono per esso visibili. [...OMISSIS...] Il lume dunque, che viene da Dio al mondo, è ciò che Platone chiama il Figliuolo del Bene, cioè di Dio, e dice, che è generato analogo a Dio stesso [...OMISSIS...] , cioè simile per via di proporzione, e spiega questa proporzione così. Il Bene è in luogo intelligibile [...OMISSIS...] , il Figliuolo del Bene è in luogo visibile [...OMISSIS...] : quello nel luogo intelligibile sta alla mente e alle cose intelligibili [...OMISSIS...] , come questo nel visibile sta al vedere e alle cose visibili [...OMISSIS...] , il che viene a dire, che come dal Bene, cioè da Dio, viene il lume alla mente, e quindi la virtù intellettiva, e vengono le idee che sono le cose intelligibili; così da questo lume ricevuto dalla mente, accompagnato dalle idee, viene al senso (1) e alle cose sensibili l' essere conosciute e conoscibili. Le cose dunque che cadono sotto i sensi corporei ricevono la loro conoscibilità dal lume della ragione e dalle idee, ossia dall' essere indeterminato presente alla mente e avente in sè tutte le altre idee: ma questo lume e queste idee vengono, secondo Platone, da Dio stesso, salvo che egli non conobbe, come sembra, in che modo tutte le idee si riducano a quella prima, che è il lume, e in essa s' acchiudano virtualmente, e da essa escano all' occasione delle sensazioni, e altre operazioni dello spirito «( Ideol. 229, 230) ». Conviene di più che osserviamo come Platone pei sensibili che rimangono illuminati dal Figlio del Bene, cioè dal lume della mente, non intende solamente i corpi, ma tutto ciò che è sensibile, come le azioni, alle quali pure attribuisce la sua essenza e natura immobile, e la partecipazione d' altre essenze, come della giustizia e della bellezza (2). Onde definendo ciò che intende per intelligibile e per visibile così s' esprime: [...OMISSIS...] . Le azioni singole adunque appartengono alle cose visibili; ma l' idea del giusto e del bello alle intelligibili. Ma quest' idee, che costituiscono il Figlio del Bene, sono quelle che rendono intelligibili le singole azioni visibili, e che le fanno conoscere come buone e belle. Quando dunque Platone nomina « « molti belli e molti buoni » » [...OMISSIS...] , devonsi intendere quest' espressioni in senso diviso «( Logic. 373) », cioè per azioni, che poi dalla mente, che aggiunge loro l' idea del buono e del bello, ricevono la denominazione di buone e di belle (4); e quest' è la funzione, che il Figlio del Bene, cioè il lume della mente, esercita rispetto alle cose visibili in un modo proporzionale a quello che il Bene esercita colla mente, alla quale dà il lume e le idee, ossia gl' intelligibili puri. C' è dunque nell' uomo la virtù intellettiva, intendendosi anche questo in senso diviso, cioè come un principio subiettivo capace d' acquistare la detta virtù (1); ci sono le cose reali atte a divenire intelligibili: c' è il Bene, che come Sole manda il suo lume (suo Figliuolo) nelle menti, e con esso gl' intelligibili , cioè le idee pure (come «auto kalon auto agathon» ecc..): questo Figliuolo (lume7idee) produce ad un tempo due effetti: 1 dà al principio subiettivo la virtù e l' atto d' intendere; 2 e dà ai reali la facoltà d' essere intesi, li rende attualmente intelligibili. Con acconcissima similitudine adunque si può paragonare questo lume naturale delle menti ad un giogo che aggioga la mente e le cose reali, cose senza di lui disunite, e aggiogandole le fa essere. Onde Platone usando della similitudine del Sole materiale e delle cose visibili agli occhi, dice appunto: [...OMISSIS...] . E la parola idea che qui ad arte usa Platone, parlando del lume sensibile, si riferisce all' intelligibile, onde, senza dubbio il lume delle menti per Platone è una prima idea, quella che egli chiama massima, e precipua, e prima di tutte, l' idea dell' ente. Ma è necessario che noi vediamo come, secondo la mente di Platone, tutte le cose si derivano dal Bene. Il Bene dunque è l' essere assoluto, la cui più alta denominazione è quella di Bene (3). Questo colla sua propria energia produce in sè le idee del Mondo: in queste idee si contiene l' essere del Mondo. Tra queste idee ci sono quelle dell' anime finite. Il Bene che colla facoltà intuitiva vede l' anima nel suo essere ideale, ad un tempo, colla facoltà che chiameremo, benchè impropriamente, dell' immaginazione e affermazione divina, la realizza, la pone a se stessa, fa che l' essere dell' anima, che è nell' idea, acquisti una relazione a sè stesso, sia a sè stesso (4). Ora l' anima è vita, sentimento. Questo sentimento è suscettivo come di due impronte, l' una è quella del Bene stesso, e quest' impronta del Bene è il lume intellettivo, la cognizione e la verità, che da Platone si dicono non essere il Bene, ma suo Figlio, e boniforme , [...OMISSIS...] (1), ossia una specie impressa del Bene. L' altra impronta è quella del sensibile corporeo; perocchè i corpi sensibili sono, secondo Platone, de' fenomeni, che appariscono al sentimento dell' anima, e che imitano e si conformano alle idee, che trovano nell' anima stessa, onde come l' anima riceve le idee da Dio, e così s' informa ella stessa, così essa dà le idee al proprio sentimento inferiore, quasi in esso improntandole. E come il Bene improntato nell' anima non è il Bene, ma una sua partecipazione e similitudine, così l' impressione delle idee nel sentimento inferiore dell' anima non sono le idee stesse, ma un cotal simulacro delle idee, ed è perciò che i corpi formati dice che sono «homonyma» (2) alle idee, cioè riceventi lo stesso nome, ma differenti di natura, di che Aristotele lo riprende (3), come se con ciò facesse dell' idea e della cosa due sostanze. Così dunque nel sistema di Platone tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e tutto è connesso. Che se in descrivendo la produzione delle cose mondiali le divide, e prima descrive la formazione dell' anima, poi quella dei corpi, questo fa per ragione di metodo e per la priorità logica, ovvero di eccellenza, non perchè ammetta veramente una separazione tra i mondiali principŒ. Le quali cose conviene che noi confortiamo di qualche autorità. E prima è necessario dire una parola sulla questione più sopra toccata e tant' agitata tra' più recenti eruditi della Germania « Se il Dio di Platone sia il Bene o l' Idea del Bene ». La quale noi crediamo potersi agevolmente comporre, purchè si chiarisca il senso della idea platonica. Due proprietà ha quest' idea: 1 che è l' essere delle cose; 2 che quest' essere è oggettivo, cioè per sè intelligibile; e talora, usando il vocabolo Idea, Platone abbraccia in esso le due proprietà, talora lo prende a significare una sola di esse, e specialmente la seconda, cioè « l' essere della cosa in quanto è intelligibile ». Ora le cose si distinguono in due classi. Alcune non sono altro che l' essere stesso [...OMISSIS...] ; altre sono un' immagine o simulacro dell' essere [...OMISSIS...] . Queste ultime sono i corpi, e, almeno in parte, tutti i reali finiti. Ora le cose che non sono essere, ma simulacri di essere, non possono stare da sè sole, perchè hanno una esistenza relativa all' essere, ma sono per l' essere, e pure per l' essere, di fronte al quale sempre si pongono, sono conoscibili; onde dall' essere hanno la conoscibilità, [...OMISSIS...] , l' esistenza, [...OMISSIS...] , e l' essenza [...OMISSIS...] . Quindi avviene che le prime cose che sono essere, abbiano una unicità d' esistenza, l' altre che sono simulacri, abbiano una duplicità nella loro esistenza: nelle prime adunque non si può distinguere un' esistenza diversa dall' Idea, perchè l' idea è l' essere, e questo per sè intelligibile; ma nelle seconde altro è l' esistenza, che hanno come idea o essere, altro quella che hanno come simulacri o fenomeni, la quale può anche cessare, ed anzi cessa di continuo ne' sensibili, che mai non sono, sempre si fanno, perchè continuamente fluiscono. Di tutti adunque i noumeni , cioè di tutte le cose che sono essere e per sè intelligibili, il primo e massimo è Dio, ossia il Bene. L' Idea dunque del bene non è nè può essere nel pieno suo significato cosa diversa dal Bene stesso, e però ogni qualvolta si prende da Platone l' Idea in questo senso, distinta dalla specie partecipata , che è diversa dal Bene, ed è la scienza e la verità «agathoeide», egli usa indifferentemente Bene e Idea del Bene, a significare veramente la stessa cosa, cioè il Bene essenziale (1). Onde facilmente quella discrepanza d' opinioni così si compone. Vediamo ora qual sia la dottrina platonica intorno all' Essere assoluto, che egli chiama massima: riconosce in prima che essa eccede l' umana intelligenza, e non vi si accosta che con gran riverenza, toccandola sempre alla sfuggita, e protestando di riconoscerla d' una sublimità inarrivabile. Parla Socrate nel Fedone di quelli che nè investigano quella potenza per la quale l' Universo è così ottimamente disposto, nè reputano aver essa una cotal forza divina, ma si contentano meglio d' immaginare Atlante che porta il mondo, e « « non reputano punto che veramente il Bene e il Decente congiunga e contenga » » tutte le cose (1). [...OMISSIS...] . Non trovando dunque Platone alcun maestro tra gli uomini che gl' insegnasse a conoscere Iddio, ragione del Mondo; e non sapendo in che modo contemplarlo direttamente, perchè chiuso in un abisso di luce, tentò la seconda navigazione, [...OMISSIS...] secondo il greco proverbio. Ed ecco la vera ragione dello aver Platone ridotta la filosofia alla Dialettica (4). Nella quale vide che si potevano stabilire delle ferme basi su cui ragionare, e spiega tosto la via che tiene in tutto il suo filosofare. Suppone a tutti i ragionamenti una ragione che giudica validissima [...OMISSIS...] , e poi quelle cose che ad essa consonano ha per cose vere, quelle che ad essa ripugnano per cose false. Ora qual è questa ragione? Ella è la causa formale e finale, perchè questa seconda viene dalla prima nella filosofia di Platone. Il quale ragiona così: Se si domanda perchè una data cosa abbia una data qualità, per esempio perchè sia bella, si può rispondere in due modi, l' uno semplice ed innegabile, così: « perchè ha la bellezza »; l' altro soggetto a investigazioni difficili e controverse, così: « perchè ha un colore florido, una figura o altra tal cosa ». Ora, dice, benchè la prima risposta paia forse rozza (1), pure mi attengo per intanto a quella. Poichè il resto non oserei affermarlo così subito; ma « « che tutte le cose belle si fanno tali pel bello, il risponder questo e a me stesso e agli altri, mi sembra sicurissimo, e, fermo su di questo fondamento, stimo di non poter mai cadere » ». Non potendosi questo negar da nessuno, perchè evidente, questa è la ragione validissima [...OMISSIS...] su cui, come sopra un fondamento inconcusso, toglie a edificare la sua filosofia. Poichè dimostra, che il bello, pel quale sono belle le cose che così si dicono, non è le cose stesse: oltre le cose dunque, c' è qualche altro elemento, di cui le cose partecipano per esser quello che sono, ed esser così denominate come si denominano, e questo elemento, nell' esempio addotto, è il bello stesso, pel quale le cose si dicono e sono belle. Quest' è quello che Platone chiama l' idea. Non rimane dunque che a considerare la natura delle idee, e vedere ciò che alle idee si confà, o che ad esse ripugna, per trovare ciò che è vero, o non è. Ora lo studio della natura delle idee, causa prossima, per la quale le cose sono quello che sono, conduce a conoscere: 1 che tra le idee non cade e non può cadere alcuna contraddizione; 2 che quindi alcune di esse si collegano ad unità, altre non si possono collegare, quando s' incontrerebbe, collegandole, una contraddizione (2). E questo studio del collegamento e della opposizione delle idee è appunto quello che il filosofo chiama dialettica , a cui di conseguente tutta si richiama la filosofia. Essendo dunque le idee tra loro per natura aggruppate (e la dialettica è quella che cerca di conoscere questi gruppi e li analizza), non è maraviglia, che anche nelle cose sensibili e corporee, che ne sono il simulacro, si vedano aggruppate, e però non si sa intendere, come alla presenza d' una tale dottrina Aristotele potesse credere, che fosse un' obbiezione contro le idee del suo maestro, che « « una cosa stessa partecipasse di più idee, quasi di più esemplari » » (3). Se non che egli abusa della parola esemplare, «paradeigma», giacchè, a propriamente parlare, d' una cosa reale non c' è che un esemplare solo, e questo non è un' idea separata, ma il gruppo di quelle idee che la rappresenta e per il quale s' intende, che noi chiamiamo specie piena, avendo quel gruppo una perfetta unità per l' unico subietto, che è l' idea fondamentale, a cui sono congiunte organicamente le altre. Che anzi, a propriamente parlare, Platone non ammette che un Esemplare unico risultante dal perfetto organismo di tutte le idee, l' Esemplare voglio dire dell' Universo, di cui gli altri sono parti, e non diversi esemplari (1). E non è egli strano al sommo che Aristotele dissimuli tutto questo? Veduta dunque la via per la quale procede Platone, cioè per ragioni ed idee, e tenuto conto della sua dichiarazione, che non intende con ciò di dare la scienza compiuta della prima divina causa, che immediatamente non si percepisce, ma di parlare intorno ad essa secondo buone ragioni, e vere singolarmente prese, ma che conducono a conoscerla piuttosto per analogia , che per la propria essenza: vediamo come si venga componendo per idee e ragioni la dottrina del sommo essere. Primieramente egli pone che l' Essere sia la massima e precipua e prima idea, e che tutti gli altri generi privi di lui non sarebbero: l' essere stesso dunque è per sè essere, perchè questa è la sua essenza, ma l' altre cose hanno l' esistenza da lui (2). Ma egli stesso l' Essere per sè non potrebbe concepirsi se non avesse in sè altro che essere, cioè essere indeterminato, uno puramente senz' alcuna pluralità (3). E` da notarsi che la pluralità di concetti, che Platone vuol distinguere nell' uno esistente nasce dall' indicato metodo di procedere per via di ragioni , le quali danno necessariamente una pluralità, anche dove non ci potrebbe essere, e però una cognizione imperfetta, ma l' unica che possa aver l' uomo, secondo Platone (4). Conviene però osservare, che se l' essere è essere per sè perchè è l' idea, l' essenza dell' essere; anche quelle cose che noi, discorrendo per via di ragioni , come l' unica che ci resti, troviamo necessarie perchè esso sia, sono per la stessa necessità dell' essere, essendo a lui essenziali costitutivi, di che s' induce che sono puro essere esse stesse, e però che non pongono in lui che una pluralità apparente, nascente dal nostro modo di concepire per via di ragioni. Il che non so se espressamente dica in alcun luogo Platone, ma è logicamente coerente al principio. Vediamo dunque che cosa deva avere l' essere per sè, ossia l' idea dell' essere, acciocchè esista, cioè sia veramente essere. Egli è chiaro, che deve avere in sè tutto ciò che è veramente essere, perchè all' essere non può mancare, essendo perfettamente uno e semplice, nessuna porzione dell' essere: dee dunque aver tutte le idee, poichè, come abbiamo veduto, sotto il nome d' idee Platone intende l' essere stesso delle cose, non le loro similitudini, imagini ed ombre. Il che intende quando nel « Fedro » dice, che « « Dio è divino, perchè è colle idee » » (1). Infatti contenendo le idee lo stesso essere obbiettivo, Iddio non sarebbe Dio, se non avesse, in qualche modo, tutte le idee, cioè ogni porzione dell' essere; e dico in qualche modo, perchè niente vieta che egli le abbia non già in un modo confuso e indeterminato, ma indistinte tra loro, onde poi distinguendole all' occasione di creare il mondo, si dicono da lui create, come nel X della « Politeia », benchè io intenda questo delle sole idee del mondo, e non delle prime idee, che non sono tipi del mondo, come verrà forse altrove occasione di dire. Il che stabilito, s' intenderà come Platone ponga come sentenza indubitata e di verità universale, che « « la mente non possa concepirsi esistere senza un' anima » » (2). Il che non intende già affermare delle menti create, ma assolutamente, con questa avvertenza però che l' anima che egli attribuisce alla mente essenziale, cioè a Dio, è l' idea dell' anima, ossia l' essenza, l' essere stesso dell' anima, non una sua partecipazione o similitudine. Onde dice nel « Sofista »: [...OMISSIS...] ; dove è d' avvertire che il moto, secondo l' uso di Platone, si prende per azione in genere, senza che involga di necessità il concetto di passaggio o di successione. Ora qual è questo moto, questa vita, quest' anima, questa prudenza, che si dee manifestamente trovare appo l' Ente completo e assoluto? Certo le idee di tutte queste cose, non già le loro immagini o le loro ombre, ma lo stesso loro essere, lo stesso moto, vita, anima, prudenza essenziale. Onde in appresso dimostra che l' essere dello stato e del moto non è nè stato nè moto, ma cosa ad essi superiore, sotto il quale tuttavia il moto e lo stato si contengono (1). Così Platone ascende a riconoscere colla gran forza del suo ingegno eminentemente speculativo, che tutte le cose hanno un primitivo e originale loro essere, un essere oggettivo eterno, necessario all' essere stesso, senza la qual ricchezza interiore l' essere stesso non potrebbe essere. Questa dottrina è costante in Platone. Nel « Filebo » pronuncia pure la sentenza che « « la sapienza e la mente non sono mai senza l' anima » » (2). E quindi trae che « « nella natura dello stesso Giove alberga un' anima regia ed una regia mente, a cagione della potenza della causa » » che è in lui, parole che sembrano fatte a posta per ribattere l' obbiezione che Aristotele fa a Platone, quando gli rimprovera così spesso che colle sue idee non può spiegare il movimento; quand' anzi Platone appunto per ispiegare come Dio possa essere causa delle cose, [...OMISSIS...] , gli dà un' anima, cioè un sentimento sostanziale, principio d' ogni energia. Nè conviene intendere che quest' anima sia un' anima partecipata, ma lo stesso essere dell' anima, il genere sussistente, non già il genere in sè stesso indeterminato, come quello che noi concepiamo raccogliendolo per astrazione dalle diverse specie di anime, ma per sè determinato intrinsecamente. Laonde io stimo che quest' anima di Dio sia diversa da quella creata e partecipata che Platone dà al mondo. Poichè di questa descrive la generazione nel « Timeo », laddove Iddio è la causa generante, e acciocchè possa esser causa deve avere già l' anima, come leggiamo nel « Filebo ». Si distingue oltre a ciò nel « Timeo » l' esemplare del mondo dal mondo : quello è formato dalle idee che Iddio produsse in se stesso organate a maravigliosa unità come richiedeva la bontà del Creatore. Ora dovendo il mondo essere la copia di quest' ottimo esemplare, conveniva che in questo esemplare ci fosse l' idea non meno dell' anima che del corpo del mondo, e che quindi il mondo fosse costituito d' anima e di corpo perchè nell' esemplare c' era l' una e l' altra idea connessa insieme. L' anima del mondo dunque non è l' anima che c' è nell' esemplare, ma una copia o imitazione di essa: [...OMISSIS...] . L' anima adunque dell' esemplare non è l' anima del mondo, ma quella da cui fu ricopiata. Ma Iddio che fece e l' esemplare e il mondo dovea avere l' anima sua propria, acciocchè potesse esser causa. Nondimeno la difficoltà della materia e l' oscurità o piuttosto la sublimità del linguaggio fece credere il contrario a molti dotti, e ciò perchè fa Iddio presente a tutto il mondo e dappertutto inesistente. Ma ecco come questo si spiega. Stabilito che l' esemplare, essendo quel complesso d' idee, che pensò Iddio per formare il mondo, è in Dio ed appartiene a Dio, benchè da Dio si distingua «kata logus», e distinto così l' esemplare dal mondo ricopiato su di esso; questo esemplare stesso si vede tuttavia nel mondo, poichè la mente dai vestigŒ o similitudini di esso, raccolte pe' sensi, ascende al mondo eterno, come Platone ha spiegato nel « Fedro », attesa la reminiscenza delle cose colà vedute dalle nostre anime (2). Così deve intendersi quello che dice nel « Filebo » che la causa [...OMISSIS...] inesiste in tutte le cose (3) pe' suoi effetti e vestigi, perchè ella presta a noi, e ad alcune altre cose che sono quaggiù in terra presso di noi, l' anima e la via d' esercitare il corpo sano e, infermo, restituirlo alla salute, e in altre cose pone e ristaura altri pregi, dal che acquista il nome d' « « universale e omnimoda sapienza » », [...OMISSIS...] , che è appunto quella che contiene l' Esemplare; di che argomenta che la sapienza della Causa molto più si dee essere avvisata di dare anche alle maggiori parti del mondo, che sono le celesti, e al mondo tutto l' anima, « « la bellissima e venerabilissima delle nature » », [...OMISSIS...] (4). E l' anima si chiama appunto la bellissima e venerabilissima natura, perchè è suscettiva d' avere le idee, e così la sapienza. Ma altro è l' anima, altro la sapienza, e altro le idee; poichè queste ultime non possono essere senza l' anima, cioè senza il principio subiettivo che avendole diventa sapiente. Laonde dice che soprastando la Causa ai due elementi del mondo, l' indefinito e il fine, li congiunge e congiungendoli li adorna e dispone, e per questi effetti si chiama giustamente mente e sapienza, [...OMISSIS...] . Di che deduce che anche Giove come causa suprema, [...OMISSIS...] , dee aver un' anima e una mente regale e che proporzionatamente sia da dirsi lo stesso dell' altre cause che a quella somma s' avvicinano, cioè degli astri (2). Il che, dice, conferma l' antica sentenza (alludendo principalmente ad Anassagora), che a tutto l' universo impera mai sempre la Mente, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che « « la mente è prole della Causa di tutte le cose » » (3) e ciò certamente per quella ragione appunto, che è nel X della « Repubblica », che Iddio produce di sè le idee e così la sapienza. Conviene dunque distinguere l' anima e la sapienza dalla causa, e in questa sapienza l' Esemplare dall' effetto che è l' Universo, nel quale ci sono i vestigi dell' esemplare e c' è l' anima somministrata dalla Causa, e però diversa da quella propria della causa. Questa non può esser causa se non ha l' anima in cui sta la forza causale e le idee, cioè l' Esemplare, e la sapienza che da quest' idee risulta all' anima: e questa causa sta sopra all' altre cose, [...OMISSIS...] , e le adorna e dispone, [...OMISSIS...] , e sempre impera al tutto, [...OMISSIS...] ed è quella che presta l' anima alle cose animate di quaggiù [...OMISSIS...] , e ugualmente alle cose che sono in tutto il cielo, [...OMISSIS...] : onde rimane sempre distinta la causa dall' effetto; e se le anime nostre raccolgono i vestigi della sapienza sparsi nel mondo, non è che questi vestigi sieno le stesse idee che stanno nella sapienza e nell' anima della causa, ma è perchè le anime nostre prima di venire nel corpo hanno riguardato nell' Esemplare del Mondo qual è nella prima causa, e ora si ricordano di quello che hanno veduto a cagione delle similitudini di cui è abbellito l' Universo. Anche nel Cratilo Giove è detto « « il principe e il re di tutte le cose »; e « ch' esso sia la causa del vivere a noi e a tutte l' altre cose » » (1). Questa causa è l' Esemplare del Mondo vivente e operante, come avente la sua sede in una regia anima e mente. Ora si dice questo Giove dirsi figliuolo di Saturno per indicare che « « egli è prole d' un qualche gran pensiero » » (2), che è certamente quello con cui il Bene ossia Iddio produsse l' idee del Mondo quando s' accinse a crearlo (3). Attribuisce al padre di Giove « « la purità e la sincera integrità della mente » » (4), perchè nell' Esemplare non ci sono che pure idee scevre da ogni concrezione e realità. Iddio adunque è l' Essere, e questo perfetto, [...OMISSIS...] , e perciò è il Bene. Nelle idee c' è l' essenza, l' essere. Ma si devono distinguere due classi d' idee, appunto perchè l' essere si concepisce in due modi. Si concepisce un essere assoluto e un essere relativo. L' essere assoluto è in sè ultimato e non ne richiama alcun altro: quest' è a ragion d' esempio « l' idea del Bene »e tutte quelle idee che contengono le qualità di Dio, come la sapienza, la giustizia, la potenza, la vita, ecc., queste non possono mai mancare all' Essere, al Bene, a Dio, perchè lo costituiscono (5), e in parte corrispondono ai «ta prota noemata» d' Aristotele (6). Per questo mostra nel « Parmenide », che l' uno puro d' ogni altra cosa non può stare, e nel « Filebo » dice la Mente cognata colla Causa e dello stesso genere (7), e nel « Sofista » che al compiuto ente, [...OMISSIS...] , non può mai mancare l' attività, la vita, l' anima, la sapienza; ma per distinguere queste cose, quali sono nell' Ente assoluto, a diversità del modo in cui sono nel mondo, usa delle parole «alethos kinesin k. t. l.», e appresso dice che sono «os onta» (.). L' atto poi con cui è l' essere, e queste idee a lui essenziali, sembra un atto d' intelligenza, quella «megale dianoia» di cui nel Cratilo dice che Giove sia figlio, «ekgonos» (9). Così Iddio è tutto idea , ma non come prendiamo noi questa parola, cioè come la notizia della cosa separata dalla cosa, ma come avente valore di « essere », e di « essere per sè intelligibile », onde Iddio è puro essere e medesimamente è puro intelligibile e quindi di necessità intelligente, la «nus» stessa d' Aristotele (1); ma essendo Essere perfetto, ossia Bene, e non potendolo noi conoscere immediatamente, nè trovando Platone, come avrebbe desiderato, qualche maestro che avendolo veduto gliel' avesse rivelato, se ne compose il concetto per via di ragioni (2) e così fu obbligato a comporre questo concetto d' un certo numero d' idee organate, a quella prima dell' essere congiunte, benchè Iddio in sè sia semplicissimo e superiore alla verità ed alla cognizione umana ed all' essenza delle cose mondiali (3). Ma oltre queste idee che compongono, secondo le ragioni della mente umana, Dio, ci sono delle altre idee relative alle cose mondiali, che contengono l' essere e l' essenza di queste, non essendo le cose mondiali che un' imitazione dell' essere, una similitudine, un cotal simulacro, e non l' essere stesso. Il proprio essere oggettivo e vero l' hanno in Dio. Tutte queste idee dunque relative al Mondo sono quelle che costituiscono l' Esemplare del mondo, da Dio in se stesso col suo pensiero prodotto, quando volle creare il Mondo, ma non quelle che contengono l' essere stesso di Dio, il quale perciò è chiamato da Platone « « l' ottimo di tutti gli intelligibili che sempre sono » » (4), distinguendo così tra gl' intelligibili quelli che contengono l' essenza divina, da quelli che contengono l' essenza mondiale, ossia l' Esemplare. Nè pure è da credere che questo Esemplare, benchè sempiterno, sia stato prodotto con un atto di pensiero divino diverso da quello con cui creò il Mondo, ma con lo stesso atto fece essere l' uno in sè e creò l' altro fuori di sè, non essendo un tal atto del pensiero divino una semplice intuizione de' possibili, ma ad un tempo un atto di quella immaginazione e affermazione divina con cui Iddio pensando gli esistenti, li pone. Onde Platone descrive Iddio creante, dicendo, che « « facendo egli uso dell' esemplare effettua l' idea e la forza » » cioè ad un tempo fa uscire in opera la forma e la materia o natura reale della cosa, [...OMISSIS...] . La ragione della creazione del mondo è, dice Platone, l' essenziale bontà di Dio. Laonde volle che il mondo fosse, per quanto esser potesse, a sè similissimo. L' Esemplare dunque dovea essere sempiterno e contenere un contemperamento armonico di tutte le nature, dalle più eccellenti alle inferiori. L' ultima possibile delle nature, la materia corporea, non è di natura sua ordinata. Conveniva dunque che ricevesse un ordine. Ma se non ci fosse un' intelligenza che intendesse quest' ordine, era inutile ordinar la materia; un tutto in tal caso, comunque ordinato, non sarebbe stato migliore di un altro tutto. Era dunque necessaria un' intelligenza, e questa non potendo stare da sè, dovea avere un' anima in cui fosse. Il mondo dunque dovea risultare d' intelligenza, d' anima e di sentimento e di corpi ordinati; queste tre cose o piuttosto due (perchè l' anima è quella che ha l' intelligenza) congiunte insieme lo formavano « « un animale intelligente costituito dalla divina provvidenza »(1) ». L' Esemplare dunque è quest' animale nel suo essere oggettivo e sempiterno [...OMISSIS...] , il Mondo in verità, [...OMISSIS...] , l' essere, l' essenza stessa del mondo. Il mondo reale poi è quest' animale stesso nella sua copia od effigie [...OMISSIS...] . Dal che si vede che il mondo reale, anima e corpo, e noi stessi, anima e corpo, siamo, secondo Platone, al tutto distinti dall' eterno divino esemplare, e molto più da Dio stesso che lo vide. Secondo l' ordine logico, l' ordine di eccellenza, e anche, secondo Platone, cronologico, l' Anima del Mondo dovette esser creata prima. Essa è una specie di sostanza, media tra quella che è sempre la medesima e quella che è sempre un' altra , e lega in sè stessa queste due specie. [...OMISSIS...] . Questa descrizione dell' anima risultante da tre elementi ha una singolare analogia con quello che noi, non pensando a Platone, ma riguardando la stessa natura dell' anima, n' abbiamo detto negli « Antropologici » o sussistente avente due termini, semplice l' uno, esteso l' altro, di maniera che abbracciandosi essa quindi a ciò che è eterno, quinci a ciò che è temporaneo, mediatrice degli estremi, congiunge in sè le opposte nature. La sostanza dunque media di Platone, su cui tanto fu disputato, altro non è che il subietto stesso dell' anima, cioè quell' ente principio , chiamato anima, che finisce, col suo atto di essere, ne' due termini che dicevamo. Noi abbiamo osservato che, rimossi affatto i termini, il principio non è più, ed osserva una cosa simile lo Stallbaum, quando scrive che quell' essenza media di Platone, tolte le due nature che in sè medesima unisce, rimane un mero astratto, non è più cosa reale (1). Più difficile è il determinare che cosa intenda Platone per quel componente dell' anima che chiama il diverso «to thateron». Poichè non può con questo significare i corpi, parlando qui della formazione dell' anima anteriore all' esistenza de' corpi e d' ogni corporeo. Che anzi dopo aver descritta la formazione dell' anima del Mondo, venendo ai corpi, dice così: [...OMISSIS...] . Non si può intendere neppur la materia corporea, perchè è assurdo a pensare che l' anima si componga di ciò che è disordinato e qua e là a caso agitato e sbattuto (3), e informe, quando una tale materia informe, secondo Platone stesso, non può sussistere senza le sue forme, ma è un' astrazione della mente. Che anzi dicendo non che Dio facesse nell' anima già compiuta i corpi, ma tutto ciò che fosse corporeo, parlò vigilantemente, escludendo non meno i corpi dalla natura dell' anima che ogni corporea materia. Parmi dunque di non andare lontano dal vero dicendo che la «thateru physis» posta da Platone come uno dei due estremi elementi dell' anima, deva significare lo spazio puro. E benchè prima d' ora non mi fosse mai occorso alla mente una tale interpretazione di questa sentenza di Platone, tuttavia meditando la natura dell' anima umana, già da buon tempo mi ero convinto che lo spazio immensurato dovesse essere uno de' due termini essenziali all' anima, di che ho anche addotte le prove «( Antrop. 165 7 174; Psicol. 554 7 559, 703, 709) ». Ho dimostrato di più, che tale è la natura dell' estensione che ella non si può concepire se non essente in un semplice, e dal semplice, cioè dall' anima, contenuta «( Antrop. 94 7 97) ». Ora posto che lo spazio puro sia uno degli elementi dell' anima, non ha più difficoltà la sentenza di Filolao (1), seguita poi da Platone, che il corpo sia stato da Dio formato nell' anima. Poichè, come dice Platone stesso, lo spazio « « presta la sede a tutto ciò che si genera », [...OMISSIS...] », cioè alla materia corporea che generandosi diventa corpi (2). La materia è la nutrice della generazione, [...OMISSIS...] , laddove lo spazio n' è la sede, [...OMISSIS...] , cose che fa meraviglia essersi confuse in una da tutti forse i commentatori. Ma egli è difficile a dirsi come Platone concepisca questo spazio nell' anima scevra ancora dal corpo, se, come l' abbiamo descritto noi ne' « Psicologici », come una pura estensione immisurata ed immobile, o con aggiunta di qualche altra cosa. E a questa seconda sentenza ci atteniamo: giacchè crediamo difficile a provare che gli antichi avessero il concetto della pura estensione. Abbiamo veduto che Aristotele aggiungeva allo spazio, o piuttosto al luogo (chè egli confonde queste due cose), una forza attraente: e dice esser materia lo spazio preso come intervallo tra le grandezze. E quantunque al puro spazio, come noi lo concepiamo, possa convenire la denominazione di altro (altro cioè dall' idea), tuttavia non gli può convenire quella di diverso , di contrapposto a ciò che è sempre il medesimo , poichè lo spazio puro non mutandosi, non è diverso da sè stesso. Conviene dunque dire che quell' elemento dell' anima, che Platone chiama «thateron», non sia lo spazio puro, ma con qualche aggiunta. Ponendo egli dunque la vita e il principio d' ogni movimento nell' anima, convien dire che insieme collo spazio egli desse all' anima un sentimento soggettivo proprio bensì dell' essenza media, ma stendentesi anch' esso quanto lo spazio. Il che s' intenderà da tutti quelli, che conoscono la distinzione da noi esposta tra la sensazione soggettiva e la percezione intimamente a quella unita «( Ideol. 701 7 707; 722 7 747; .7. 7 900; 9.3 segg.) ». Come dunque noi, parlando del sentimento de' corpi, abbiamo distinto dal sentimento nostro proprio il diverso da noi percepito, e quello unito e conformato a questo per modo che dove c' è il diverso corporeo percepito, ivi sia anche la sensazione: così crediamo che si possa concepire il diverso di Platone; lo spazio percepito come un termine diverso dall' anima, consociato a un sentimento in questa che s' estende a tutto quello, il quale sentimento è vita e forza, proprietà innegabili ad ogni sentimento che ha natura di realità, come tante volte abbiamo detto. Ora a questo sentimento conviene certamente la qualità di diverso , avendo egli la virtù d' essere di continuo modificabile, date le condizioni che sono gli stimoli materiali, e anche in virtù dell' attività intellettiva e volontaria. Trovato questo principio sentimentale ed efficiente nell' anima, ivi ripose Platone un' intima azione vitale o moto continuo, e l' origine del moto all' altre cose (1), onde è a stupire, che Aristotele cercasse la causa del moto nelle idee, e non trovandocela ne biasimasse Platone, quasi a questi fosse impossibile render ragione dei movimenti mondiali. Andava in collera perchè non trovava la causa del moto dove non era, e dove non poteva essere in alcun modo. Trovato questo sentimento soggettivo, finiente nell' immensurato spazio, questo stesso spazio viene in certo modo ad essere tutto animato, e nella mutabilità del sentimento si trovava la natura del diverso , elemento dell' anima mondiale non ancora fornita di corpo. Ora questo sentimento soggettivo di natura sua mutabile, doveva contenere virtualmente tutte le potenze sentimentali dell' anima. Con questo si può facilmente illustrare il magnifico mito del Fedro, nel quale l' anima è assomigliata « « alla natura risultante da una biga subalata e da un auriga » » (2), dove il carro è la sostanza media che lega gli estremi, l' auriga rappresenta il medesimo , e i cavalli simboleggiano il diverso , cioè il sentimento e gli affetti che danno all' anima il movimento. E parimente supponendo che la natura del diverso , che Platone vuole uno degl' ingredienti dell' Anima del Mondo, sia il sentimento soggettivo, che s' estende a tutto lo spazio immensurato, s' intende, come Dio poteva, anche prima di creare il corpo, assegnare delle leggi armoniche a questo sentimento, quasi screziandolo di diversi istinti relativi allo spazio in cui finiva, e con questi disegnare nello spazio stesso de' luoghi diversi, con proporzioni tra loro di numeri e di figure geometriche e di movimenti (1), e come i discepoli di Platone, tanto minori del maestro, potessero poi definire l' anima « « un numero che si move da sè medesimo » » (2), o in altre maniere in cui si vede ritenuta qualche particella della dottrina, non tutta abbracciata la teoria del maestro. L' aver poi assegnato all' anima sola, senza il corpo, tutto ciò che spetta all' armonia e all' ordine di più cose connesse insieme, come il numero, la proporzione e somiglianti, dando al corpo l' esser sensibile, ma l' anima dicendo « « partecipe del raziocinio e dell' armonia degl' intelligibili sempre esistenti » » (3), prova da una parte l' alta mente di Platone che ben vide solo una sostanza semplice e vivente potere contenere in sè il numero e l' ordine, laddove l' esistenza del corpo bruto è solitaria, e di più per la continua divisione irreperibile, dall' altra conferma quanto dicevamo, che lo spazio, materia alle diverse figure geometriche, anch' egli poteva esistere solo nell' anima e da questa esser contenuto, non essendoci parte assegnabile in esso che non sia straniera a tutte le altre, e però incapace d' unire le altre ad unità, senza la quale unità niente esiste, poichè l' ente è per sua essenza uno. La pluralità dunque delle parti assegnabili nello spazio non esiste se non nell' anima, e neppure ciascuna di esse esiste, perchè ogni suo punto essendo fuori d' ogni altro, non può aver cogli altri unità. Ora, prima di proceder oltre vediamo che cosa sia l' altro elemento estremo dell' anima, il medesimo , ossia [...OMISSIS...] . Certamente quest' elemento è la materia ideale, come l' altro vedemmo essere la materia matematica , e medio tra loro sta il sentimento , che all' una e all' altra materia s' estende, di che egli dice esser l' altre con questa commiste [...OMISSIS...] : la materia ideale poi per Platone è indubitatamente l' ente (indeterminato) «to on» (1). Ora come dal sentimento unito collo spazio, Platone deriva la facoltà di sentire i corpi quando si presentano all' anima, così dal sentimento unito all' idea dell' essere cioè a quello, che è sempre identico, deriva la facoltà di conoscere, cioè d' intuire le idee determinate, e di ragionare. Questo ragionamento poi lo distingue in due, secondo l' oggetto intorno al quale si esercita; se si esercita intorno all' idee contenenti l' essere che è sempre il medesimo, e alle ragioni, nasce nell' uomo l' intuizione ( «nus») e la scienza ; se si esercita intorno alle cose mutabili, come i corpi od i sentimenti, e si esercita nel debito modo, nasce l' opinione vera e la fede vera . Dove si vede che Platone qui non parla più del suo mito della reminiscenza , ma, seriamente ragionando, in vece di dare all' anima le idee e notizie preconosciute, di cui all' occasione delle sensazioni non faccia che ricordarsi, le dà una vera potenza di procacciarsi nuove cognizioni e di ragionare. Costituisce poi questa potenza come noi appunto l' abbiamo costituita, ponendo cioè che l' anima per sua natura sia partecipe d' un primo identico , «tautu» (2), cioè di ciò che non è questo o quello tra le cose identiche, ma è l' identico stesso, «tautu genos», senz' altra determinazione, il che è quanto dire l' idea indeterminata (3), e che con questo primo identico ella conosca tutte l' altre cose identiche, cioè l' altre idee; e ponendo altresì che l' anima partecipi d' un primo diverso , cioè d' un sentimento terminante nell' estensione, col quale possa apprendere sensibilmente tutti i diversi, cioè i corpi, e in tal modo attingere la materia di altre cognizioni. E così col simile fa che si conosca e si apprenda il simile, secondo l' antico effato de' Pitagorici (4). Dalle quali parole e da tutta insieme la dottrina del Filosofo, si rileva: 1 Che l' anima conosce sempre per quel suo elemento che Platone chiama il Medesimo, e che vedemmo esser l' idea prima e universalissima. 2 Che nondimeno, se il mezzo del conoscere è un solo, gli oggetti del conoscere sono due, il sensibile, [...OMISSIS...] e il razionale, [...OMISSIS...] e la cognizione di quest' ultimo è intelligenza e scienza , [...OMISSIS...] la cognizione dell' altro è opinioni e persuasioni ferme e vere, [...OMISSIS...] . Laonde l' atto conoscitivo non è mai sensazione, benchè anche la sensazione possa divenire oggetto di cognizione, ma è sempre «logos alethes» e «kata tauton» (1); ma quando oltre essere «ho logos» l' operazione della mente, è anche «to logistikon» il suo oggetto, allora c' è intelligenza e scienza. 3 E` sempre tutta l' anima quella che conosce con un interno movimento, [...OMISSIS...] : onde non separa mai Platone le parti dell' anima, come a torto gli rimprovera Aristotele, e non ne fa più anime. 4 Essendo l' anima composta dell' identico e del diverso , ella di conseguenza ha due operazioni o movimenti che egli chiama cicli o giri, perchè con queste operazioni essa si rivolge intorno a se stessa, [...OMISSIS...] . Distingue dunque nell' anima il ciclo del Medesimo, [...OMISSIS...] , che produce l' intelligenza e la scienza, e lo chiama «eutrochos», e il ciclo del Diverso che vuol che sia retto, [...OMISSIS...] : il primo è il movimento dell' intelligenza, il secondo il movimento del sentimento. E con ragione Platone assomiglia questi movimenti spirituali a circoli; perchè qualunque cosa faccia il sentimento, egli lo fa in se stesso; il movimento parte dal sentimento e finisce nel sentimento; e così pure il ragionamento non esce e non può uscire di sè colla sua azione, ma partendo dall' idea e dalla cognizione ritorna e finisce sempre all' idea e alla cognizione, poichè la prima intuizione nella quale il soggetto parte per così dire da sè e va nell' idea, non è ancora movimento razionale, ma è l' atto costitutivo della razionalità. Questo poi costituito opera, per una certa riflessione, su di ciò che è in sè, cioè o sul sentimento o sulle idee, e come dice Dante « « sè in sè rigira » », soltanto che convien badare che quando si dice: « in sè »si dee intendere su di ciò che ha in se stesso. Veduto che cosa sia la natura del Diverso e la natura del Medesimo, di cui Platone compone l' anima, e come essi rispondano ai due termini dell' anima, cioè lo spazio sentito per natura, e l' idea universalissima; rimane a vedere di quella terza sostanza che li congiunge quasi nel mezzo di essi, [...OMISSIS...] , la quale certamente è il principio di essi due termini. Ma come il principio è indivisibile da' suoi termini, perciò dice Platone, che risulta da entrambi [...OMISSIS...] . Essendo dunque questa media sostanza che termina nelle due estreme e ad esse essenzialmente s' appoggia senziente secondo l' uno e l' altro termine, ossia unendo in sè il sentimento dell' uno e dell' altro termine, non può avere il sentimento dello spazio senza che lo percepisca anche coll' intendimento; onde in questa composizione dell' anima, ancorchè separata dal corpo, Platone pone una percezione intellettiva fondamentale, cioè la percezione intellettiva dello spazio, ad un tempo sentito ed inteso , e questa percezione è quella che dà all' anima, per così dire, una figura circolare, perchè essendo una per l' unità del principio che è la terza sostanza, si fa una anche per la riunione de' termini; giacchè ella col suo atto primo e costitutivo, dopo essersi divisa da una parte estendendo il suo atto all' idea, dall' altra allo spazio, continua il suo moto costitutivo ripiegando questi due in uno, e riunendo lo spazio e l' idea, fa che quello sia abbracciato da questa, il che noi chiamiamo percezione intellettiva fondamentale dell' anima separata. Descritto a questo modo l' interno ordine e costituzione dell' anima, niente vieta di concepire che il sentimento di quest' anima possa essere da certe leggi quasi screziato e variato, dotato di varie forze d' istinti relative a certe parti dello spazio, a certi conati, a certa successione di movimenti. Si consideri ciò che noi abbiamo esposto sulla legge cosmologica dell' armonia «( Psicol. 1537 7 159.) », e sull' altra che le corrisponde nell' anima umana «( Psicol. 1726 7 1779) », le quale due leggi del Mondo e dell' Anima corrispondendosi e sintetizzando, non ne formano, a dir vero, che una sola con due faccie o rispetti. Questa nobilissima verità, che l' anima abbia l' armonia in sè stessa, vide ed espose Platone nel « Timeo ». Solamente che noi considerammo l' anima già dotata di corpo, e in relazione col mondo corporeo; egli trova certe leggi d' armonica costituzione nell' anima prima ancora che questa sia immessa nel corpo. Il che gli è suggerito dall' opinione da lui professata, che l' anima abbia preesistito al corpo: opinione per vero erronea, ma che nel ragionamento di Platone annunzia, aver egli conosciute alcune verità nobilissime e profonde. Poichè da questo siamo assicurati, che egli vide doversi riporre il principio dell' armonia nel semplice, nel sensitivo ed intelligente, e non in qualsivoglia cosa corporea, onde dice dell' anima; [...OMISSIS...] , e dopo aver descritto com' ella armonicamente movendosi intenda i sensibili e gli intelligibili, aggiunge che in essa sola possono accadere tali cose (2). Egli vide ancora come per questa forza di sentimento armonico, di cui l' anima è per sè stessa dotata da Dio, ella era e dovea essere la dominatrice del corpo (1), e così mirabilmente spiega la virtù formatrice propria dell' anima «( Psicol. 17.7 7 1794) ». Certo che le leggi speciali dell' armonia nell' anima racchiuse sono d' una tanta grandezza, moltitudine e profondità che nè Platone le potè raggiungere, nè sono nè saranno esaurite dalle meditazioni di molti filosofi nel corso di molti secoli futuri. Ma una gran cosa è questo solo che da tempo così antico sia stato veduto, che esse si giacciono nell' intima costituzione dell' anima. Il primo pensiero sembra dovuto a Pitagora; il quale però, quando dal generale venne a specificare una tale armonia, si restrinse a considerare quella specie particolarissima di legge armonica che governa i suoni «( Psicol. 1565, 1566) ». Egli prese dunque la legge dell' armonia che si trova in un solo sensorio, cioè in una particolarissima facoltà dell' anima sensitiva e la universalizzò, prendendola per tipo, o tema d' ogni armonia non solo di tutta l' anima umana, ma anche de' corpi celesti e in una parola dell' universo. Questa maniera soverchiamente ristretta di concepire l' armonia che governa il creato, conteneva però come supposizione e base una gran verità, che « « l' anima e l' universo sono coordinati insieme da una mano sapientissima, quasi due corde unissone in due istrumenti » ». Che se questo principio è vero, come è indubitatamente, le principali leggi dell' armonia universale e di quella dell' anima devono essere le stesse. Se non che piuttosto che due armonie identiche, c' è tra l' anima e l' universo sintetizzante un' armonia unica e sola. Essendo dunque pervenuta a Platone per mezzo di Filolao la dottrina pittagorica dell' armonia, il suo pensiero rimase chiuso nelle angustie di questa tradizione (2). Non rimanendogli tempo, nella vastità delle ricerche in cui era occupato, di meditare una teoria più ampia per compiere la lacuna del suo sistema filosofico, accettò, come una vaga ipotesi, quella dottrina dell' armonia sonora , e ornandola di novi concetti e di elegantissimo linguaggio, l' applicò a dichiarare la costituzione dell' anima che dovea dar poi vita ed ordine alla macchina corporea dell' universo (1). Si fa adunque ad esporre gli istinti armonici che Iddio pose nell' anima in questo modo. Dice che dopo aver mescolati insieme i tre principŒ, cioè il Medesimo, il Diverso e l' Essenza, e di questi tre fatta una cosa sola, come spiegammo di sopra, distribuì in questo tutto le membra, dandogli il decoro d' un cotale spirituale organismo, e ciascuna delle dette membra riuscìa così composta di quei tre primi elementi (2). Con questo viene a dire, che la percezione intellettiva abbraccia lo spazio sentito e la sostanza media (3), giacchè solo per questa percezione può avverarsi, che in tutti gli istinti e modi d' operare dell' anima appariscano i tre elementi, da cui essa risulta. Le quali membra spirituali dell' anima vengono distinte secondo i numeri della doppia tetrade pittagorica formata dai sette numeri 1, 2, 3, 4, ., 9, 27 distribuiti nella serie de' pari e nella serie degli impari, avente ciascuna a capo l' unità: 1, 2, 4, . e 1, 3, 9, 27; le quali due tetradi rappresentano il sistema diatonico, composto di quattro ottave, più un intervallo di quinta e un tono intero (4). Per trovare poi le consonanze in queste quattro ottave, Iddio riempì d' altre porzioni della stessa sostanza trina ed una, gli intervalli tra i numeri della prima e della seconda tetrade, con due numeri medii, cioè col medio aritmetico e col medio armonico (5); onde ne risultano due serie di dieci numeri ciascuna, ossia una serie di venti numeri. Finalmente per trovare e distinguere i singoli toni e mezzi toni, da per tutto dove c' era l' intervallo di quarta, lo riempì con divisioni per toni interi, avanzandone il mezzo tono minore, la cui ragione è computata 256 .diviso . 243, e lo stesso, benchè nol dica Platone, convien supporre dell' intervallo di quinta, avanzandone il mezzo tono maggiore, la ragione del quale si computava 273 3 .fratto . . .diviso . 256. Così la sostanza trina ed una dell' anima fu distinta in membra rispondenti alle ragioni, in cui è compartito a consonanze, a toni e mezzi toni il Diagramma; e Platone per dimostrare meglio la grandezza di quest' armonica distribuzione dell' anima mondiale, a cui dovea rispondere il mondo visibile, prese ad esempio un Diagramma di tanta estensione, quale i Greci non usarono giammai nelle loro musiche, come già fu osservato da Adrasto presso Teone Smirneo (1). Così la sostanza una e trina, distribuita in altrettante membra per una serie di numeri rappresentanti ragioni armoniche, fu divisa da Dio tutta per lungo, di che si ebbero due serie, ciascuna dotata delle stesse proporzioni numeriche: delle quali due liste fece una croce decussata, e piegata, ciascuna lista a circolo, se n' ebbero due circoli intersecantisi ne' due punti opposti, i quali circoli rappresentano e rispondono al circolo equinoziale ed al zodiaco. Al primo, esteriore e molto più alto del secondo, attribuì la costanza e l' equabilità e lo fece movere verso la destra, cioè dall' occidente all' oriente, chiamando questo movimento « della natura del Medesimo »; all' altro, interiore e più basso e che fece movere verso sinistra, cioè dall' oriente all' occidente, attribuì la varietà e l' incostanza, chiamando il suo movimento « della natura del Diverso ». Al giro del Medesimo concesse il principato, poichè lo lasciò uno ed indiviso. Ma riguardo al circolo interiore, prima di ripiegare in circolo la lista numerica, ne tagliò via sei pezzi alle giunture de' numeri della doppia tetrade, e n' ebbe sette parti rispondenti ai sette numeri della medesima, ciascuna delle quali movendosi in giro, ne riuscirono le orbite dei sette pianeti, i tre primi e inferiori moventisi con eguale celerità, i quattro ultimi e superiori con celerità disuguali e da quelle de' primi e tra esse, ma pure secondo opportune ragioni. Ora di tutti questi sette orbicolari movimenti risulta quello che si dice il circolo del Diverso. Non è necessario a noi addentrarci in maggiori particolari circa questi armonici compartimenti, non consistendo in questi la parte solida della dottrina: questa sta nel principio generale, che l' anima è la dominatrice del corpo, e quindi che ella stessa lo adatta a sè stessa, l' informa, l' organizza, e il corpo in tutto le ubbidisce, di maniera che ogni movimento di questo all' anima è dovuto (1). Vediamo come ciò avvenga secondo la mente di Platone. Primieramente essendo nella sostanza dell' anima lo spazio immensurato, c' è il luogo dove Iddio poteva collocare il corpo. Di poi essendoci un primo sentimento, che s' estende a tutto lo spazio, c' è per così dire la morsa a cui attaccare il corporeo. Poichè il corporeo non è che il sensibile, e il sensibile non è che uno stimolo applicato con certe leggi fisse al sentimento primo, che eccitandolo lo modifica, così producendo in lui le sensazioni. Ora dato che un primo sentimento, qual è quello dell' anima, 1 soffra una violenza e così senta un altro principio diverso da sè che esercita su di lui la propria potenza; 2 e questa violenza non abbracci tutto lo spazio, ma essendo limitata disegni in esso co' suoi confini una figura; 3 ne nascano di conseguenza modificazioni o sensazioni nello stesso primo sentimento; 4 e tutto questo con quella stabilità di fisse leggi colle quali sogliamo avere le sensazioni esterne: dato questo, egli è evidente, che esistono quelle sostanze sensibili che noi chiamiamo corpi, e che n' è spiegata la creazione. Dice dunque Platone che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo s' osservi che: 1 Dice che il corpo fu fatto da Dio tosto dopo ultimata la costituzione dell' anima, «meta tuto», onde qui non lascia che l' anima dell' universo viva gran tempo separata dal corpo, secondo l' ipotesi che altrove introduce delle anime viventi immuni da ogni concrezione materiale. 2 Dando a tutto l' universo corporeo un' anima sola, cade rispetto all' anima mondiale la censura che Aristotele fa ai Pitagorici e a Platone, cioè che questi credesse, ogni anima poter convenire ad ogni corpo. 3 Dicendo che l' anima del mondo si volse in se medesima quand' ebbe il corpo e diede principio alla durata della vita, ben dimostra che tutte le membra e i movimenti prima distinti nell' anima esprimevano non atti, ma potenzialità instintive. 4 Che tosto che l' anima mondiale ebbe il corpo, i suoi due movimenti spirituali cioè quello dell' intelligenza ossia del medesimo , e quello del sentimento ossia del diverso , rapirono colla loro potenza dominante il corpo, e in questo si rappresentarono coi due movimenti opposti del cielo delle stelle fisse che si move equabilmente, prendendo la legge dal moto dell' intelligenza, e del cielo solare7planetario, che si move con variati e molteplici modi, prendendo la legge dal moto del sentimento: onde nel mondo materiale comparve un simulacro sensibile del mondo spirituale e invisibile, un simulacro cioè del ciclo del medesimo e del ciclo del diverso , i due elementi di cui l' anima si compone. 5 Che quindi la causa efficiente e movente del mondo sensibile e fenomenico è il mondo invisibile e spirituale, e quello non è che una cotale copia e imitazione di questo. 6 Che all' anima dell' universo, dopo aver data la vita a tutto il mondo corporeo, compresi gli ultimi cieli, rimane ancora una parte sopramondana, circonfusa al mondo [...OMISSIS...] contenente il mondo (1), quella parte certamente che nel Fedro chiama sopraurania . Così il mondo corporeo non può rappresentare l' anima compiutamente; perchè quantunque ci vengano rappresentati sensibilmente i movimenti dei due elementi dell' anima, il diverso e il medesimo , quello del diverso col volgersi del cielo planetario, e quello del medesimo col volgersi del sommo cielo: tuttavia rimane ancora, al di là di tutto il cielo visibile, uno spazio infinito occupato dall' anima, dove non dice Platone se ci sia moto o quiete, e vuol forse significare ciò che non ha moto nè quiete, cioè l' essere puro, a cui nel Sofista nega ogni quiete ad un tempo ed ogni moto, d' entrambi de' quali generi esso è il contenente; cioè è genere maggiore di essi. E certo che ivi, fuori del mondo corporeo, nulla più v' ha di sensibile, come avea detto avanti (2), laonde a quel luogo si riferisce indubitatamente l' anima, in quant' è partecipe de' puri e primi intelligibili (3). Agli intelligibili appartiene l' esemplare del mondo chiamato da Platone «zoon aidion» (4). L' eternità che a questo solo divino esemplare conviene, non può appartenere all' animale generato, cioè al mondo (1). Ma acciocchè questo imitasse, per quanto era possibile, quell' eterno, fece « « una mobile imagine dell' eternità » »; fece, adornando ad una il cielo, un' eterna imagine « « fluente secondo il numero dell' eterno manente nell' uno »(2) ». L' eterno manente nell' uno è Dio; e della stessa permanenza è dotato anche l' esemplare del mondo in se stesso considerato. Ma poichè questo esemplare era da Dio pensato, affinchè a sua norma si potesse produrre il mondo reale, esso non dovea rappresentare l' eternità di Dio, ma il tempo, per solo il quale può il mondo imitare la divina eternità. Laonde nell' esemplare del mondo Iddio pensò l' imagine a cui doveva crearsi il tempo , e questa imagine che forma parte dell' esemplare dicesi imagine della eternità, [...OMISSIS...] ; cioè dell' uno eternamente immanente che è Dio, e dicesi eterna , appunto perchè appartiene all' esemplare [...OMISSIS...] ma dicesi nello stesso tempo mobile, [...OMISSIS...] , e progrediente secondo il numero, [...OMISSIS...] , perchè rappresenta la mutabilità e quasi scorrevolezza del mondo reale. Dove apparisce in che modo Platone dica ora immobili , ed ora mobili certi intelligibili: sono immobili in se stessi, ma nel loro seno hanno la mobilità esemplare della mobilità reale, copia di quella (3). Distingue dunque Platone anche qui quelle due specie d' intelligibili di cui abbiamo parlato di sopra: 1 il primo intelligibile, che è Dio, e tutto ciò, che in proprio appartiene a Dio; 2 il secondo intelligibile che è l' esemplare del mondo. Il mondo è l' imitazione di questo esemplare, come l' esemplare è l' imitazione o la similitudine di Dio, la più fedele, che fosse possibile, data la condizione che dovesse esser creato. Questa condizione importava che il mondo non potesse esser necessario, nè eterno, nè immutabile, ma volendo tuttavia Iddio renderlo simile per quanto esser potesse alla propria eternità e consistenza, gli diede la durata del tempo. Pose dunque nell' esemplare la contingenza, il numero, la successione, la mutabilità, ma tutte queste cose ve le pose in un modo eterno: di maniera che l' esemplare non fosse il subietto della mutazione, ma il disegno e il decreto di tutto ciò che dovea esser nel mondo, vero subietto di tali vicissitudini. La natura di Dio dunque nulla avendo di tali cose, non potea nè pure prestare di tali cose l' esempio, e però convenne che il pensiero divino imaginasse un esemplare a posta a cui similitudine creare il mondo, che a lui somigliasse, di maniera che non gli somigliava pienamente, ma quant' era possibile che gli somigliasse l' esemplare. L' esemplare dunque sebbene eterno in se stesso, perchè ab aeterno da Dio pensato, riceve dall' atto della divina volontà, che si determina a creare, una condizione che lo limita, e una natura relativa al creabile, oggetto di quell' atto di volontà; di che apparisce che l' esemplare e il mondo, appunto per questa natura relativa, si chiamano e sintesizzano, ma quello è subiettivamente immutabile, avendo solo in se la mutazione obiettiva (e tutto ciò che è obiettivo è immutabile), questo è subiettivamente mutabile, realizzando in sè quella obiettiva mutazione. A Dio dunque, dice Platone, e all' esemplare, come oggetto, non ispetta il fu, o il sarà, ma solamente l' E`. [...OMISSIS...] . Descritta così la formazione dell' anima e del corpo mondiale, narra la formazione delle specie d' animali minori, le quali sono tante quante ne vede Iddio nell' idea d' animale (2), e tutte comprese nell' esemplare del mondo, poichè non sarebbe perfetto se alcuna ne mancasse. E però ci doveva essere anche la generazione degli animali mortali, i quali non potevano essere formati immediatamente da Dio, perocchè in tal caso sarebbero stati immortalati anch' essi (3). Ma di quello tra tutti questi animali, al quale conviene in comune cogli immortali l' appellazione di divino (4), Iddio stesso somministrò il seme ed il cominciamento [...OMISSIS...] formando, delle reliquie di quella stessa sostanza, di cui aveva elaborata l' anima del mondo, un certo numero d' altre anime che distribuì ai grandi e per divina virtù immortali animali, cioè agli astri, un' anima seminale per ciascuno di essi, lasciando a cotesti divini il carico di generare con questo seme di divina provenienza gli animali razionali, formando i loro corpi, e alimentandoli; e quando si consumassero, ricevendo di novo in sè la materia (1). Poichè le anime per una certa necessità, e non per colpe precedenti devono essere copulate ai corpi (2). Non appartiene allo scopo del nostro discorso esporre qui più ampiamente per quali ragioni Platone volle distribuite da Dio le anime seminali ai corpi celesti, l' affinità o convenienza di ciascuna a ciascuno de' detti corpi, nè ci giova entrare a discutere se e come Platone ammettesse i pianeticoli. Allo scopo del nostro discorso basta d' indicare che il nostro filosofo seco stesso faceva ragione, che Iddio, creato il mondo, avesse in esso collocato la virtù generativa; per modo che l' astro avendo una soprabbondanza di vita, cioè non solo la vita mondiale sua propria, ma l' anima seminale che il rende atto alla generazione, nè mancandogli la corporea materia dalla sua anima e mente e virtù generativa dominata, abbia forniti e organizzati di sè gli animali, e tra essi l' uomo ragionevole da Platone chiamato «theosebestaton» (3), il quale poi, come pure gli altri, per una sua propria generazione, atteso il continuo aiuto della natura mondiale, si moltiplica (4). L' anima dunque dell' uomo, formata colla stessa sostanza dell' anima del mondo, e quindi de' tre elementi del medesimo , del diverso e della sostanza media, e ordinata colle stesse proporzioni armoniche (5), ha in sè medesima di continuo il doppio movimento ciclico del medesimo e del diverso che si fa senza strepito e suono, [...OMISSIS...] , ed è l' azione dell' interna sua vita di sentimento e d' intelligenza [...OMISSIS...] . Nè quest' intelligenza è priva di idee, poichè ancor prima che per la virtù organizzatrice degli astri a cui appartengono le anime seminali, queste ricevessero i loro corpi speciali e si moltiplicassero, Iddio mostrò ad esse anime seminali « « la natura dell' universo e le leggi fatali » », [...OMISSIS...] (2), e in queste l' equità con cui furono a principio create tutte allo stesso modo, rimanendo a ciascuna affidata la futura sua sorte, e come di esse si sarebbe formato quell' animale umano di tutti religiosissimo. Ma quando l' astro, poniamo la terra, mette in movimento una moltitudine di particelle di fuoco e d' aria e d' acqua e di terra per provvedere all' anima seminale dei corpi, allora quelle particelle rapite in turbine con movimenti molteplici per apprendersi ed accozzarsi assaliscono in folla ed in tumulto l' anima; di maniera che dalle percosse disordinate di questo fiume d' atomi rimangono in essa impediti e sconcertati nel loro corso i due circuiti del medesimo e del diverso , che costituiscono la sua vita sapiente, ed essa rimane allora del tutto stupida e smemorata, ond' è che l' uomo nasce in apparenza così ignorante. Poichè il circuito della natura del medesimo sopraffatto da un tal fiume entrante ed uscente di continuo dal corpo che si organizza, viene impedito e sospeso, l' altro poi del diverso perde la sua armonia, e quantunque nè l' uno nè l' altro possano esser distrutti perchè posti da Dio, tuttavia contrastati, l' uno s' arresta, l' altro, quello del sentimento, va come senza ragione, [...OMISSIS...] (3), finchè non si rimettano nel pristino stato. Così le cose tutte finite e nella loro materia e nella loro forma si creano; e non solo la forma dà il suo finimento [...OMISSIS...] ai singoli enti, ma dà un altro finimento alle cose tutte insieme, cioè un ordine sapiente, [...OMISSIS...] . Conviene dunque distinguere tre cose, secondo Platone, le idee eternamente da Dio pensate, intelligibili, le anime spirituali ed insensibili composte de' tre elementi, del medesimo , del diverso e della sostanza media, e finalmente i sensibili , i quali nascono quando le anime s' uniscono ai corpi e acquistano i sensorŒ, nascimento che in più luoghi descrive Platone (5). E` dunque singolare a vedere come Aristotele quando si fa a combattere le idee di Platone, non riferisce mai ad esse altro che i sensibili, tacendosi interamente dell' anima nel cui seno sono creati i corpi, onde dalla congiunzione di essa con questi poscia i sensi ed i sensibili fenomeni traggono l' origine. E qui conviene osservare come il diverso , secondo la mente di Platone, sia un genere più esteso di quello de' sensibili, perchè vien posto da Dio nell' anima avanti della produzione di questi. Vi ha dunque nell' anima qualche cosa di mutabile e molteplice che non è il sensibile corporeo; ma la materia appunto del diverso , che è nella natura dell' anima, riceve la sua continua rimutabilità, cioè la rimutabilità della sua forma, che esce dalla materia e vi entra di continuo, come dice Platone in altro luogo. Il che si intenderà facilmente, se si considererà la materia corporea tutta per la sua stessa essenza esser dentro all' anima contenuta (dove Iddio l' ha creata, inseparabile da questa, e però da questa ricevente l' unità, senza la quale dissipandosi s' annullerebbe, cioè diverrebbe un essere assurdo), e altresì dall' anima pienamente dominata. La ragione dunque, per la quale le diverse particelle di materia hanno di necessità un' estensione, si è perchè dall' anima la ricevono; ogni estensione essendo nell' anima, e non potendo esistere, fuori del semplice ed uno, estensione alcuna, di sua natura continua e non moltiplice, chè il continuo e il moltiplice involgono contraddizione. Ora, come la estensione, che è nell' anima, è quella stessa in cui è diffusa la materia e la forza corporea (1) ai cui elementi però è determinata dal Creatore la quantità e la figura: così anche l' anima dominando e movendo questa materia e questa forza corporea secondo i suoi proprŒ istinti, le dà, secondo Platone, quella configurazione che mostra d' avere, sia come corpo dell' animale massimo, che è l' universo, e degli animali maggiori in esso contenuti, che sono gli astri: sia altresì come corpo degli animali minori, e in tutte le generazioni di cose; e produce tutti i grandi e i minimi movimenti, fino a quelli delle coesioni e delle chimiche affinità. Così la materia riceve dall' anima non già propriamente la forma ideale, che non può essere un abito della materia, ma una copia e un' imitazione apparente ai sensi di quella forma ideale. E che le forme e la distribuzione dalla materia corporea e sensibile siano una copia, imitazione e partecipazione dell' idee ad esse relative, vedesi da questo che le forme s' intendono nelle idee, quando sono nel senso ricevute, e nelle idee si vede il loro essere eterno; ma nei corpi, all' incontro, essendo forme periture, non si vedono eterne, e però non sono l' essere immutabile, ma una sensibile espressione e rappresentazione dell' essere immutabile. E poichè quando le sensibili forme son vedute e così intellettivamente apprese nell' idea, nell' anima nostra intellettiva si fa una cotale soprapposizione e immedesimazione della copia sensibile coll' originale intelligibile: perciò anche le forme sensibili si dicono giustamente partecipare le idee nella mente nostra, e nell' atto della nostra percezione intellettiva di esse, e nella memoria, secondo la quale ne' discorsi intorno a tali cose ci esprimiamo. Le forme adunque e la distribuzione delle cose sensibili, essendo determinate dall' anima secondo le ragioni armoniche della sua interna costituzione, e l' anima essendo con una così perfetta sapienza ordinata da Dio secondo l' eterno esemplare, procede che noi dai sensibili andiamo alla cognizione dell' anima, e da questa all' esemplare, e da questo alla mente eterna, e da questa al Bene, cioè a Dio, e che affermiamo « « ch' ei v' abbia molto infinito nell' universo e fine sufficiente; ed una non ispregevole causa, ad essi soprastante, ordinatrice e temperatrice degli anni, delle stagioni e de' mesi, la quale a troppo buon diritto sapienza ed intelletto potrebbesi addimandare (1) » ». Le idee dunque sono partecipate in un modo dall' anima, e in un altro dai corporei sensibili, ed è per questo che da Platone, come dicemmo, sono assomigliate ad un giogo imposto da Dio all' anima ed alle cose, dal quale, insieme connesse, insieme comunicano. Ma all' anima, come a me pare, specialmente si dee riferire la presenza delle idee, «parusia», ai corporei sensibili la comunione , «koinonia» 2). Giacchè i sensibili colle loro forme imitano, come dicevamo, le idee loro corrispondenti, e le loro imagini nell' anima nostra colle idee, quasi direi, combaciandosi, diventano con esse una cosa, rispetto all' atto del nostro vedere, cioè un solo oggetto della nostra percezione (3). L' anima poi, avendole presenti senza che con esse si confonda, le intuisce. Ma poichè di certe idee, come di quelle della bellezza e della giustizia, essa sola partecipa in modo che in sè le realizza, perciò Platone esprime l' unione di tali idee coll' anima non solo col vocabolo di presenza , ma ancora con quello di abito , come nel Sofista, ove dice che l' anima diventa giusta e sapiente per la presenza e per l' abito di tali idee, [...OMISSIS...] (4). Pure la giustizia e la sapienza e simili entità come abito , sono accidentali all' anima, e quindi nasce la questione se la giustizia e la bellezza, come abito dell' anima, siano una similitudine e copia della giustizia e della bellezza, come le forme de' sensibili sono una copia di ciò che è nelle idee. La qual questione non oserei dire che si sia presentata chiaramente ed esplicitamente alla mente di Platone: ma dicendo che sono di quelle cose che possono essere presenti od assenti (1) all' anima, non c' impedisce di credere che la stessa essenza della giustizia possa divenire un abito dell' anima, non potendo la giustizia essere imitata senza che sia distrutta, giacchè l' imitazione della giustizia, se non è giustizia, non può essere che una simulazione di giustizia e però tutt' altro che giustizia. Le idee dunque, secondo Platone, non possono essere ricevute dalle cose inanimate e sensibili, perchè la loro essenza è di essere intelligibili . Non essendo dunque intese, non sono per sè stesse ricevute da' corpi, ma questi partecipano solo di alcune loro similitudini . Similitudini poi si dicono, perchè, ove per mezzo del senso sieno date all' anima, essa vede le immagini sensibili nelle idee corrispondenti; quelle dunque conducono l' anima a queste, e però si dicono similitudini di queste. E così l' anima è descritta da Platone come la mediatrice e il vincolo del mondo sensibile coll' intelligibile, con quello comunicando per mezzo del suo elemento del diverso , e con questo mezzo del suo elemento del medesimo . E quindi nel « Sofista » dice che [...OMISSIS...] (2). Ma secondo Platone questa comunicazione dell' anima intellettiva coll' essenza involge un' azione reciproca, perchè dice che il conoscere , che appartiene all' anima, è agire, e l' essere conosciuto , che appartiene all' essenza, è patire (3). E che conoscere sia agire, non ci può esser dubbio; ma noi neghiamo che all' agire corrisponda sempre il patire (4). Ma il patire che adopera qui Platone deve intendersi piuttosto del copulativo esser avuto (5), perchè sarebbe contrario a tutta la dottrina di Platone che l' essenza sofferisse qualche vera modificazione dall' anima, quand' ella è anzi «aei kata tauta hosautos»; quella che si modifica è l' anima, ricevendo l' atto del conoscere e una luce che diventa anche subiettiva per l' appropriazione naturale dell' intelligibile essenza, luce resa così indivisibile dall' anima stessa. Si consideri che, sotto la parola conoscere Platone comprende non meno il conoscere speculativo che il pratico , onde la virtù stessa è concepita da Platone come una scienza . Quindi il praticare, a ragion d' esempio, la giustizia, non è che un conoscere la giustizia, appropriarsi questa idea , che diviene così abito dell' anima e parte della sua propria natura. Conoscendo dunque l' anima le idee, parte in modo speculativo e parte in modo pratico, s' intende come il medesimo , che abbraccia appunto le idee, sia posto da Platone come elemento mesciuto e rimestato da Dio nella sostanza dell' anima. Onde nel Fedone dice che all' anima appartiene quell' essenza che si denomina « « ciò che è »(1) », il che è quanto dire l' essere che sta nell' idee. E questo è il germe dell' immortalità dell' anima. Laonde nel Fedone il nostro filosofo è tutto intento a dimostrare questo: che le cose sensibili e corporee non hanno alcuna stabilità, alcun vero essere, che il vero essere è sempre il medesimo, ma che col raziocinio all' anima si manifesta qualche cosa di ciò che veramente è, e perciò non può perire. Più dunque le riesce di sottrarsi alle illusioni e distrazioni sensibili, e di raccogliersi in se stessa, lasciato il corpo, più altresì ella comunica coll' ente, e quasi con mano l' apprende [...OMISSIS...] ; onde quando poi ella del tutto priva del peso corporeo sarà con ciò che mai non muore, si troverà continua, ricevendo dalla intima e non più impedita sua unione con quella eterna natura, la perenne immortale e stabile vita. E questo astrarsi dell' anima dal sensibile e vivere d' intelletto, dice Platone, che è uno stare con sè stessa [...OMISSIS...] , un raccogliersi in sè stessa [...OMISSIS...] , appunto perchè egli considera le idee così unite all' anima, che ne informino la natura. Onde distingue il considerare che fa l' anima gli esistenti per mezzo del corpo [...OMISSIS...] , dal considerarli per sè stessa [...OMISSIS...] , recandole il primo modo inscizia, e scienza il secondo. Onde la filosofia insegna all' anima « « di non creder nulla fuorchè a sè medesima, in quant' ella per sè stessa intende ciascuna di quelle cose che sono per se stesse »(1) », il che è quanto dire che le essenze devono essere conosciute immediatamente dall' anima e non per alcuna effigie o copia che gliele presenti. A malgrado di questo, non confonde Platone l' anima intellettiva coll' idee, onde si contenta di dire che ad essa è simile ciò che è divino, immortale, sapiente, cioè l' idee; [...OMISSIS...] ; e che l' anima virtuosa, la quale in questa vita si divide colla contemplazione e coll' amore dell' eterno dal corporeo, e segue la ragione e quel vero e divino, superiore all' opinione che in essa si trova, quando lascia per la morte il corpo, spera di migrare in quello a sè cognato [...OMISSIS...] ; laddove all' opposto quell' anima che parte da questa vita infetta del sudiciume corporeo, ricade in un altro corpo, acciocchè, quasi ivi seminata, rinasca, e rimane priva del consorzio della divina, pura e uniforme essenza: Accenna poi che Iddio pose gli astri, animali divini, col corpo di puro fuoco nella sapienza del potentissimo, cioè del medesimo (5): laddove dice che all' anime seminali « « mostrò la natura dell' universo e insegnò loro le leggi fatali »(6) »; di che si può dedurre, che la scienza innata, da Platone conceduta all' anime umane, sia la cognizione dell' esemplare del mondo o d' alcuna parte di esso. Non diede dunque Iddio, secondo Platone, a queste anime la visione di sè stesso, causa dell' esemplare; ma l' esemplare imitandolo imperfettamente, per questi vestigi sono condotte sempre con un' inclinazione veementissima al Bene stesso, che è appunto la causa delle idee che compongono l' esemplare, e quella che in sè contemplandole, le contiene e le rende vive ed efficaci creatrici del mondo. Così spiega Platone il tendere di tutti gli esseri umani al Bene, come una tendenza a Dio, oscuramente e quasi per enimma conosciuto, e pur incessantemente desiderato. [...OMISSIS...] . Quella insufficienza con cui l' uomo conosce il Bene, quell' augurarsi che sia veramente qualche cosa e pur dubitarne, quel tendere tuttavia in questo oggetto, così oscuramente e incertamente conosciuto, con tutta l' anima, con tutti gli atti della vita [...OMISSIS...] , questo facile ingannarsi del giudicare intorno all' utilità dell' altre cose, benchè più conosciute, a cagione della insufficiente cognizione che s' ha del Bene, essendo la misura e la norma secondo la quale devonsi giudicare, sono tratti sublimi d' una mente straordinaria. E quantunque l' idea del Bene rimanga così all' umana mente involta in una certa misteriosa caligine, pure a preferenza d' ogni altra si dee pregiare e cercare siccome la massima delle discipline [...OMISSIS...] . Niun' altra cognizione giova senz' essa, come niente pur vale il possedere tutte l' altre cose senza il Bene (2). E Platone parla di quel puro e perfetto Bene, che dee essere misura di tutti i beni e le cose, di cui si pervertirebbe il concetto se d' alcuna sua minima parte si diminuisse, poichè « « di niuna cosa può esser misura ciò che è imperfetto »(3) ». Ma per quali vie può dunque l' uomo pervenire a quella, se non compiuta (mentre si trova in questa vita e circondato da questo corpo) almeno sufficiente notizia del Bene a cui aspira? Partendo dai più eccellenti intelligibili dati all' anima umana, dall' idee più eccellenti di cui ella sia stata fatta partecipe. Noi dicemmo che l' oggetto proposto da Dio all' intuizione naturale dell' anima non è, secondo Platone, Dio stesso, ma il divino esemplare del mondo, che alcun' anima intuisce più perfettamente, alcun' altra meno. Da questa intuizione naturale l' anima per mezzo del raziocinio può innalzarsi ad una sufficiente cognizione del Bene, che è la causa del mondo, Iddio, atteso che in quest' esemplare ci sono i vestigi del divino suo autore ed è con esso intimamente connesso come effetto ottimo, per quanto può essere, d' una causa assolutamente ottima. Ma a tanto non perviene se non con vari passi del raziocinio, i quali addimandano quel continuo esercizio di meditazione e continuo sforzo della mente per astrarsi dal corporeo ed ascendere all' invisibile e all' ottimo, a cui Platone riserva il nome di filosofia. Primieramente conviene ben distinguere quattro gradi di cognizione, due appartenenti all' ordine delle cose visibili, e due a quello delle cose invisibili. Perchè le cose visibili si dividono in due classi: 1 le imagini; 2 le cose reali di natura o d' arte (4). Di qui due affezioni dell' animo [...OMISSIS...] , cioè l' affigurazione , «eikasia», che si riferisce all' imagini visibili delle cose, come quelle che si vedono riflettute da uno specchio d' acqua o nell' ombre, e la persuasione , «pistis», che si riferisce ai reali stessi corporei, e dicesi da Platone fede o persuasione, poichè intorno ad essi noi prestiamo fede alle passioni de' nostri sensorŒ e ce ne persuadiamo senz' altra ragione. Le cose invisibili ed incorporee del pari si dividono in due classi: 1 le cose conosciute mediante un raziocinio che parte da altre cose conosciute, come da supposizioni ammesse gratuitamente per vere, senza ascendere colla mente al primo principio ed evidente della cognizione; 2 il principio stesso conosciuto mediante un raziocinio che movendo da supposizioni, non ammette queste per vere, ma da queste ascende a trovare il principio evidente, dal quale poi, discendendo, si conoscono poi indubitatamente per vere le cose dedotte. L' affezione che nell' anima corrisponde al primo di questi due generi è chiamata da Platone cogitazione , «dianoia», quella che corrisponde al secondo è chiamata mente o intelligenza , «noesis» (1). Tutte queste quattro affezioni e funzioni dell' anima suppongono l' intuizione dell' essere. Quando conosciamo la cosa sensibile per mezzo di qualche suo ritratto esterno, come, per servirci dell' esempio che usa Platone stesso nel X della « Politeia », d' una dipintura, allora noi abbiamo prima la percezione sensibile di quella imagine, poi la percezione intellettiva ; da questa, l' idea della dipintura, e da quest' idea passiamo all' idea della cosa reale: tutte queste operazioni e l' affezione dell' animo conseguente sono comprese da Platone sotto la parola «eikasia». Quando conosciamo la cosa sensibile per se stessa, dopo la percezione sensitiva e la percezione intellettiva e l' idea della cosa , noi prestiamo fede alla sua esistenza, e tutte queste operazioni e la fede o persuasione conseguente sono comprese sotto la parola «pistis». Fin qui non c' è ancora il raziocinio, ma solo la percezione intellettiva sia del ritratto sensibile della cosa sensibile, che dicemmo l' affigurazione , sia della cosa stessa, e la conseguente persuasione o fede. Nel primo caso la notizia della cosa è più imperfetta perchè si fonda sulla percezione del ritratto; nel secondo è meno imperfetta, perchè si fonda sulla percezione della cosa: ma l' uno e l' altro fondamento non eccede l' ordine sensibile. Il raziocinio invece di cominciare dalla percezione sensitiva arrivando fino all' affigurazione e alla persuasione , parte dalla idea pura , e qui comincia il raziocinio, e percorre pure due stadii. Poichè primieramente l' idea da cui parte, suol esser cavata dalle percezioni precedenti, e però il primo stadio di questo nuovo lavoro s' incatena co' precedenti e anche fa uso de' sensibili, non come fondamento al raziocinio, ma come fanno i matematici, che in aiuto della mente tengono sott' occhio de' triangoli ed altre guise di figure sensibili, benchè ad esse non dirigano il pensiero, ma al triangolo stesso e all' altre figure ideali, delle quali le sensibili sono imperfetti simulacri. In questo stadio adunque il raziocinio partendo da tali notizie e supponendole vere, ne trae le conseguenze come appunto fa il matematico che suppone il pari e il dispari e le figure e le tre specie d' angoli ed altre cose simili, di cui, supponendo tali cose note a tutti, non domanda altre ragioni, ma da esse discende a cercar altre cose, quelle che vuol rinvenire; e questo è quel primo stadio del raziocinio che Platone chiama «dianoia». Alla formazione di questa specie d' intelligibile [...OMISSIS...] , secondo Platone « « l' anima è costretta a far uso di supposti [...OMISSIS...] non rivolgendosi verso il principio [...OMISSIS...] , perchè non può ascendere più su dei supposti » » e questo si fa nella geometria e nelle altre arti affini [...OMISSIS...] . Ma la Filosofia sta più su e ad essa appartiene l' altra divisione d' intelligibile [...OMISSIS...] . Questa porzione o specie d' intelligibili sono le ragioni ultime, e la ricerca di queste è così descritta da Platone: [...OMISSIS...] . Così distingue Platone la filosofia da tutte le scienze e le arti, avendo queste de' principŒ supposti , la sola filosofia il principio non supposto, evidente per sè, necessario, [...OMISSIS...] . Platone, con tutto il meglio dell' antichità, s' affida sempre al raziocinio, e distribuisce sempre il sapere umano entro l' ordine della riflessione : manca del tutto nell' antichità la teoria dell' intuizione primitiva, non riflessa e inconsapevole. In luogo di questa, di cui pure sentiva il bisogno, Platone introdusse a colmar la lacuna, il tipo ingegnoso della riminiscenza . Questa però non s' operava per via d' un semplice ricordarsi, ma imperfettamente per mezzo della percezione, perfettamente per mezzo del raziocinio riflesso . A questo dunque Platone assegna due gradi: l' uno, quello delle matematiche e dell' altre scienze, che non ascendono al sommo ed evidente principio; l' altro, quello della filosofia che vi ascende. La distinzione di questi due gradi ha per fondamento la distinzione tra due classi d' idee, ossia d' intelligibili, l' una più eccellente dell' altra. La classe inferiore delle idee è di quelle che si riferiscono immediatamente al mondo sensibile , e che l' uomo ha mediante la percezione ( specie piene, specie astratte ). L' acquisto di queste idee non importa ancora il raziocinare, ma l' affigurazione e la persuasione. Da queste idee inferiori prossime ai sensibili, di cui sono l' intelligibilità, move il raziocinio per due vie a diverso intento. Poichè o si parte da esse per arrivare ad altre idee parimenti inferiori, per arrivare alle idee ultime: queste sono le idee superiori . Come le idee inferiori sono quelle che manifestano il mondo sensibile e corporeo, così l' idee superiori sono quelle che manifestano il principio dell' universo, e le cose tutte che ad esso sono inerenti, e che l' anima, per questa via d' alto raziocinio, può arrivare, in qualche modo, a toccare: [...OMISSIS...] . Queste idee o intelligibili superiori sono lontanissimi da ogni sensibile, e la mente va ad esse senza fare alcun uso del sensibile, [...OMISSIS...] , laddove il sensibile avea luogo nell' ordine delle percezioni, ed anche nel primo grado del raziocinio, servendo i sensibili come di simulacri a quelle idee a cui la mente si rivolge, atteso che queste idee ai sensibili appunto si riferiscono, come accade a' matematici. Le idee superiori dunque sono quelle che manifestano nature spirituali e doti e qualità di queste, e che perciò non si riferiscono punto ai corpi. Vediamo quali queste sieno, e come la mente giunga per esse al principio dell' universo, procedendo sempre nei campi del mondo puro, scevra d' ogni concrezione sensibile, d' idea in idea; [...OMISSIS...] . Sono indubitatamente tali idee quelle del giusto , dell' onesto , del sapiente e simiglianti, le quali tutte insieme s' unificano in un modo occulto nell' essenza divina, ossia nel principio del tutto e non possono esser partecipate da alcun corporeo e sensibile, ma solo dall' anima per l' intelligenza. Da queste idee dunque vuole Platone, che il filosofo dialettizzando pervenga a quella qualunque notizia che l' uomo può acquistarsi della divinità. Poichè il lume pel quale l' anima intuisce quelle idee e per esse è scorta alla cognizione di Dio, è ciò appunto che Platone chiama il Figliuolo del Bene, come chiama Iddio il Bene, cosa più augusta di quelle singole idee e del lume stesso che all' uomo le dimostra. Descrive dunque il filosofo come colui che [...OMISSIS...] . Dove Platone distingue il divino , «to theion», da Dio, attribuendo la qualità di divino alle idee veramente essenti, «alethos onta», e massimamente ad alcune più eccellenti ordinate con ordine immutabile, [...OMISSIS...] , le quali sono indubitatamente quelle della giustizia, della virtù, della sapienza e simiglianti, poichè a queste conviene, a preferenza dell' altre, l' essere tutte ornate e secondo ragione, [...OMISSIS...] , essendo il raziocinio [...OMISSIS...] , quello che ritrova il giusto e l' onesto e altre tali idee. In secondo luogo poi attribuisce Platone l' attributo divino a tutti quegli enti che partecipano di tali idee contemplandole ed imitandole, cioè all' anima del mondo, poi agli astri che ne sono avvivati, finalmente al filosofo che mettendo tutta la sua mente e il suo cuore in esse, si rende ad esse simile. Poichè secondo Platone è la contemplazione pratica della giustizia, dell' onestà, della virtù e di somiglianti essenze, la causa per la quale l' uomo si rende giusto, onesto, virtuoso e in ogni maniera ornato: come noi pure abbiamo affermato, che il principio della morale non si può trovare altrove che in un primo atto volontario d' intendimento, pel quale l' uomo aderisce col suo principio, e con tutto se stesso alla verità delle cose, e che abbiamo chiamato ricognizione dell' essere (3). Questa è dunque la maniera nella quale Platone insegna che l' uomo imita tali essenze: la contemplazione di esse incessante, ma affettuosa, pratica, assoluta; [...OMISSIS...] . E perciò appunto che Platone vuole che il fine della filosofia sia pratico ed effettivo, e non di astratta speculazione, dà per ultima e suprema essenza, non questa del nudo essere ma quella del Bene; poichè quella del puro e indeterminato essere non presta che il principio della filosofia, ma l' essenza del Bene ne è lo stesso termine e finimento. Onde s' affatica Platone a rimovere la falsa opinione che la filosofia sia una speculazione sterile, e a dimostrare che il vero filosofo, posto al reggimento della cosa pubblica, è il solo atto, non pure a informare alla virtù sè stesso, ma anche tutto il popolo (1). Dal quale prima rimove gli impedimenti, come il pittore che ripulisce prima la tavola su cui deve dipingere, e poi lo istituisce alle virtù per modo che lo conduce fino a Dio, rendendolo teofilo. [...OMISSIS...] . Così dalla contemplazione e dall' amore di quelle supreme idee del giusto, dell' onesto, del prudente e simili, l' uomo va, secondo Platone, alla cognizione, alla contemplazione, all' amore di Dio stesso. Pure Iddio è tal cosa che sta ancora più su di quelle singole essenze (3). Avendo distinte tre specie d' anima (4), in rapporto a quel che è giusto per natura, quel che è per natura bello e onesto, quel che è per natura saggio e temperato [...OMISSIS...] (5), Platone mostra che l' idea del Bene è superiore a tali eccellentissime essenze. Poichè dice, che « « la giustizia stessa e l' altre cose tutte devono avvalersi dell' idea del Bene, affine di rendersi utili e convenevoli »(6) »: di maniera che l' idea del Bene è la stessa regola suprema e la misura della giustizia e dell' altre essenze tutte, di quella dell' onesto, del temperato, del sapiente, dell' utile; le quali perciò da quella dipendono e ne ricevono la legge e l' ordine, e tutto ciò che hanno di bene. Dimostra lo stesso contro coloro che riponendo il Bene nella sapienza [...OMISSIS...] fanno di quelle due cose una sola. Poichè acutissimamente dice che se costoro s' interrogano di qual sapienza parlino, qual oggetto le assegnino, sono costretti in ultimo di rispondere, che intendono « « della sapienza del Bene » ». In tal modo ricorrono al Bene per determinare quella sapienza nella quale dicevano di riporre il Bene. Suppongono dunque di conoscere il Bene prima della sapienza, e per mezzo di quello definiscono questa, non viceversa (1). Dall' idea dunque del Bene anche la sapienza procede, e egli n' è la ragione, onde senza la cognizione del Bene non giova, o piuttosto non esiste, nè la cognizione della giustizia, nè d' altra cosa, quantunque eccellente ella sia (2). Con un altro carattere nobilissimo distingue Platone il Bene da tutte le altre cose più eccellenti, ed è che il Bene è sempre amato per se stesso, onde non è possibile che nessuno intorno a lui voglia ingannarsi: [...OMISSIS...] . L' essenza del Bene, dunque, è l' altissimo Iddio superiore a tutte le cose più eccellenti e causa di tutte. Ma qual è l' essenza più vicina a lui? Quella che Platone chiama il Figliuolo del Bene che è la luce , per la quale l' umano intendimento conosce tutte queste cose; ed è d' idea in idea diretto ad argomentare qualche cosa al di là di tutte le idee, la prima ed ottima causa, in una parola, il Bene stesso, che perciò non è immediatamente intelligibile, ma dal lume e col lume suo figliuolo s' argomenta: poichè col lume s' ha il vedere, e col vedere si vede il lume e nel lume come nell' effetto si vede la causa, [...OMISSIS...] . Come tra tutti gli organi sensori la vista è quella che è sommamente partecipe del sole e del lume, così tra tutte le facoltà umane quella che riceve più il lume intelligibile è la mente «nus» (4), che intuisce le idee e il loro ordine. Ora che cosa è questo lume delle menti, effetto, ossia prole del Bene, che per mezzo di questo lume, ascendendo dall' effetto alla causa, si conosce? Platone risponde la verità e l' ente , [...OMISSIS...] (1). Il che noi abbiamo ripetuto nell' ideologia. E la verità e l' ente è il medesimo lume, che considerato in relazione alla mente dicesi verità, considerato in relazione all' oggetto stesso, dicesi ente. Il Bene, adunque è al di là del lume della mente umana, essendone la causa. [...OMISSIS...] . Il figliuolo del Buono, adunque, da Platone è chiamato ente, verità, cognizione, scienza , vocaboli che significano sempre il lume e la forma oggettiva della natura umana. Poichè l' ente [...OMISSIS...] o, come altrove lo chiama, l' essenza semplicemente detta, è la prima specie che illumina la mente umana; la verità [...OMISSIS...] è lo stesso ente, in quanto è esemplare delle cose reali e definite e queste lo imitano e così partecipandone diventano vere; la cognizione [...OMISSIS...] è l' effetto che consegue nell' anima che ha presente l' essere o la verità; la scienza [...OMISSIS...] è la cognizione più ferma ridotta alle ragioni ultime (3). Il Bene dunque è il sovraintelligibile per Platone, perchè sta più su dell' ente indeterminato e comune, più su della verità, più su della cognizione e della stessa scienza; pure se ne può avere una cognizione per analogia , perchè queste cose tutte date alla mente umana sono boniformi , ed hanno un' analogia ed un' intima relazione colla sua causa, il Bene essenziale, Iddio; e nell' uomo stesso che le partecipa colla mente e che, conformandosi ad esse con tutto sè, si rende giusto, onesto e temperato, rimane come dipinta e formata una certa imagine di Dio [...OMISSIS...] (1). Questa certa cognizione poi, quantunque analogica, negativa e raziocinativa, del Bene, è tuttavia così preziosa e importante, « « la massima disciplina o istituzione » » che possa avere l' uomo [...OMISSIS...] (2): poichè da questa notizia del Bene, come da regola suprema, si può giudicare del giusto e dell' onesto e d' ogni altra cosa pregevole. Il Bene poi non è solamente causa del suo Figliuolo, la luce delle menti umane, ma, senza cessar d' esser luce inaccessibile in sè stesso, è causa effettrice di tutte le cose, ond' anche per questo Platone lo rassomiglia al sole: [...OMISSIS...] . Dove parla manifestamente dell' essenza delle cose finite, di quelle essenze che tutte unite insieme costituiscono, come vedemmo, l' eterno esemplare del mondo, del quale si dice Iddio più antico (perchè da Dio, sebben ab aeterno , fu formato), e perciò stesso più potente [...OMISSIS...] . All' essenza infatti di Dio, che è quella della bontà, Platone attribuisce nel Timeo la causa della creazione del mondo [...OMISSIS...] . Affine dunque di rendere il mondo similissimo a sè stesso, Iddio creò delle intelligenze, e in servigio e gloria di queste, altre cose sensibili da dominarsi, ordinarsi ed effigiarsi, per quanto esser potesse, alla stessa similitudine. Le intelligenze poi le creò a sua imagine e somiglianza, ponendo davanti ad esse le idee a contemplare. Ora contemplando in queste ed ascendendo la mente dalle une alle altre fino alle somme, fino a quella della stessa virtù, cioè a quello che è « « per sua natura giusto, per sua natura bello, per sua natura sapiente » » e da queste finalmente ascendendo col raziocinio dell' analogia alla cognizione della Causa, ossia del Bene stesso; se con tutti se stessi, con tutte le azioni gli uomini a questo ineriscano, di maniera che riescano i costumi informati dall' amor di Dio, [...OMISSIS...] : in essi finalmente s' impronta e rifulge una cotale specie e squisita dipintura della divinità. Tale è l' ideale dell' uomo appieno educato e istituito alla virtù; ciò che Platone chiama «andreikelon» (1). Nel Filebo dove Platone espone la stessa dottrina, accenna quanto la natura divina sia superiore alle idee che noi contempliamo e che costituiscono la nostra mente e la nostra sapienza. Vede infatti il Figliuolo della Causa suprema in queste, onde dice: [...OMISSIS...] . E poco appresso chiama la mente cognata alla Causa e quasi dello stesso genere: [...OMISSIS...] . Ma quanto la mente e la sapienza umana ossia il complesso delle idee accessibili all' uomo sia inferiore del Bene stesso, causa del tutto, lo dimostra in questo modo. Pone per caratteri del Bene primo che sia perfetto (4), quindi sufficiente a se stesso , [...OMISSIS...] . E questa sua piena perfezione e sufficienza è un carattere così proprio di lui, che per esso si distingue da tutti gli esistenti (5), niun altro di questi potendo essere a sè medesimo sufficiente. Un altro carattere nobilissimo del Bene è ch' egli non può essere da niuno conosciuto senza che ad un tempo sia ed amato e cercato, e così fattamente che niun' altra cosa si ama e si cerca, se non per lui (6). Dopo stabiliti questi distintivi del Bene, mostra che nè il piacere nè la sapienza umana sono in separato sufficienti a sè stessi. Poichè niuno vorrebbe godere tutti i piaceri del mondo senza avere alcuna conoscenza nè memoria de' medesimi, che non sarebbe la vita dell' uomo ma del polmone o spugna marina, o della conchiglia. Niuno del pari s' appagherebbe d' aver sapienza e mente e scienza e memoria di tutte le cose, privo di ogni qualsiasi godimento, benchè anche insensibile alla molestia (7). All' incontro tutti, senz' eccezione alcuna, eleggerebbero ugualmente la vita del piacere [...OMISSIS...] unita e mista colla vita della sapienza [...OMISSIS...] che Platone chiama anche indifferentemente la vita della mente [...OMISSIS...] (1). Così della sapienza e della mente dell' uomo, la quale essendo insufficiente non è lo stesso Bene. [...OMISSIS...] . Distingue dunque la mente divina dalla mente creata , quella perfetta e sufficiente a se stessa, questa imperfetta e insufficiente a rendere beato l' essere finito. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione. L' ente creato (secondo Platone, che a servigio del suo pensiero trae i concetti e il linguaggio dei Pitagorici) tutto ciò insomma che è creato, è il composto [...OMISSIS...] di due elementi, l' indefinito [...OMISSIS...] e il fine o finiente [...OMISSIS...] . All' indefinito appartiene la materia corporea, al fine l' anima, e però d' anima e di corpo il mondo si compone (3), animale razionale, che contiene altri animali in se, gli astri e l' uomo. Essendo dunque due gli elementi accoppiati insieme, la felicità dell' essere finito non può consistere nella vita della sola mente che appartiene alla sola anima, ma deve concorrere a render pago un tale essere anche la vita del piacere che appartiene al misto in quanto è fornito di corpo. Ma come il misto risulta da due elementi bensì, ma armonicamente tuttavia uniti e compaginati, così il pieno bene dell' ente creato deve risultare da un' armonica unione e contemperamento delle due vite, cioè della sapienza e del piacere, e di questo contemperamento armonico lungamente e sapientemente ragiona nel « Filebo ». Questo dunque è il solo bene di cui noi uomini e ogni altro ente creato abbiamo esperienza, un bene misto di sapienza e di piacere. Ma sebbene non abbiamo esperienza d' altro bene, non possiamo noi formarci in qualche modo il concetto d' un bene ancor più perfetto? Sì, risponde Platone, ma non per alcuna positiva esperienza; bensì per via delle ragioni , cioè raziocinando da quel bene che sperimentiamo; e così per analogia arriviamo ad una cognizione ideale e negativa dell' essenza stessa del Bene, che è quanto dire di Dio, il Bene stesso, ed ecco come. Poichè l' ente creato è composto d' infinitezza e di fine , ma questi, congiunti armonicamente, e così pure il bene di quest' ente è un accozzamento armonico di sapienza e di piacere , è manifesto che ci deve essere una causa che abbia così opportunamente collegati que' due elementi, e fattane uscire una sola essenza (4). Questa causa è cosa anteriore all' effetto, cioè all' accoppiamento de' due elementi (1) e per natura di entrambi più eccellente. Essendo dunque quella che dà l' essere e l' essenza e il bene a tutte le altre cose, conviene che ella sia il Bene stesso ed assoluto (1). Così dal bene imperfetto e partecipato, che si percepisce nel mondo e più o meno si esperimenta, vuole Platone che la mente ragionando, per una certa scala d' idee, ascenda al Bene stesso impercettibile e al di là di questo universo. Il primo lavoro adunque è quello di formarsi un concetto del Bene, di cui è suscettibile quest' universo, nel modo più perfetto. Questo concetto che risulta dal più perfetto contemperamento della sapienza e del piacere, conduce la mente nostra all' esemplare del mondo in cui, essendo opera perfettissima, è disegnato quel Bene. Onde, dopo aver lungamente mostrato per quali vincoli opportuni il piacere dee collegarsi alla sapienza, acciocchè ne esca la miglior vita, Socrate nel « Filebo » soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma dopo di tutto ciò rimane il secondo lavoro della mente raziocinatrice. Poichè rinvenuto « « l' ideale del bene mondiale » », questo, dice Platone, non è che come un atrio della casa del Bene stesso. [...OMISSIS...] . Dal bene creato dunque vuole che s' ascenda alla notizia del bene increato, dall' effetto alla causa che non si può esperimentare quaggiù, ma argomentare, ed ecco per qual via. Primieramente questa causa deve essere una Mente, essendo composto con tant' ordine, convenienza e perfezione il Mondo e commiste in esso con tant' arte le due vite della sapienza e del piacere. Distingue dunque due menti: quella partecipata dall' ente creato e quella che è per sè Mente. Chiama questa « «vera e divina Mente », [...OMISSIS...] (1), Mente regia, [...OMISSIS...] (2), e questa, dice egli, è la Causa certo non ispregevole che adorna e dispone, [...OMISSIS...] . Quest' intelligenza, causa del mondo, non è composta de' due elementi dell' infinitezza e del finiente , essendo essa anzi la Causa e l' accoppiatrice di essi. Non avendo in sè alcuna cosa che sia di natura sua indefinita, per questo stesso è immutabile . Poichè l' indefinito è quello che riceve il più e il meno, [...OMISSIS...] , e però che ha la natura del variabile. La variabilità, ossia l' ammettere più e meno, è il fonte, secondo Platone, delle imperfezioni a cui soggiacciono le nature finite e composte, ed essa stessa è il primo difetto e il genere de' difetti. La Mente causa dunque non ha difetto, e quindi ha le due qualità del Bene, la perfezione e la sufficienza . Il piacere e il dolore della vita animale nasce dall' elemento dell' infinitezza che è massimamente il corporeo, e perciò tali affezioni sconvengono del tutto alla Divinità: non possono dunque entrare nell' essenza del Bene, la quale non è, nè può essere come il Bene del mondo, composta d' indefinito e di definito: il che fa ben intendere che la vita della pura contemplazione sia in sè la divinissima, [...OMISSIS...] . Ma quantunque il Bene perciò stesso sia al tutto semplice, tuttavia noi dovendone raccogliere la cognizione per via di raziocinio induttivo e analogico dal bene partecipato del mondo, che è composto, non possiamo concepirlo mediante una sola idea (5). L' idea stessa dunque del Bene, cioè, ciò che è per sè il Bene quaggiù ci manca. Possiamo in quella vece esprimerlo con una cotal formola razionale composta e quasi organata di più idee: e sono quelle idee eminenti che si vedono nel mondo partecipate, ciascuna delle quali dà una tale essenza che dee essere necessariamente compresa in quella del Bene nè può essere altrove, benchè non sappiamo come si fondano in quell' unica somma ed a noi inescogitabile essenza. Si ferma Platone nel « Filebo » a tre di queste idee che ci servono a conoscere, come possiamo, il Bene stesso. [...OMISSIS...] . Trattasi qui di quella mistione da cui risulta il bene dell' animale intelligente (non essendo altro il creato che questo), il quale è misto di piacere, che si riferisce al corpo animato, e di sapienza, che si riferisce all' anima pura. Ora dice Platone che in questo stesso bene misto si scorge la partecipazione di quelle tre essenze, cioè della verità, della commisurazione e della bellezza; e per sì fatto modo che, tolte via queste, non resta più nello stesso animale, ossia nel creato, nulla che abbia ragione di Bene. La ragione dunque perchè l' ente creato animato è buono, ossia ha il bene, consiste unicamente nella partecipazione di quelle tre essenze. Se noi dunque prendiamo queste tre essenze e separandole colla mente da ogni altro elemento, le consideriamo come fuse in uno, [...OMISSIS...] (e in questa fusione e unificazione com' ella sia, sta il mistero impenetrabile alla mente umana, onde Platone dice l' idea del Bene appena visibile, [...OMISSIS...] ) (1), noi così ci formiamo la cognizione del Bene puro . Dimostra adunque prima che acciocchè il bene del creato sia bene, è necessaria la verità . E quanto al primo elemento di quel bene, cioè alla sapienza, è facile vederlo, non dandosi nè sapienza nè scienza senza la verità, ma questa è necessaria anche ai piaceri che sono il secondo elemento, chè se non sono veri piaceri nè pur sono piaceri. [...OMISSIS...] . E dimostra che ci sono de' piaceri veri e dei falsi: i primi ordinati e moderati che si possono di conseguente comporre e mescere colla sapienza; gli altri disordinati che non potendosi mescere con essa nè sono veri, nè possono convenire in quel misto nel quale sta il bene della creatura. E prende Socrate a interrogare la stessa sapienza e mente, se loro bisognino, per formare il compiuto bene dell' ente creato, oltre i veri piaceri, anche i più veementi e grandissimi; le quali rispondono: [...OMISSIS...] . Dimostra poi, e da questo stesso deduce, che al bene creato è necessaria in secondo luogo la commisurazione o simmetria, senza la quale non può riuscire la concorde e pacifica mistione dei due elementi [...OMISSIS...] . La misura dunque e il commisurato [...OMISSIS...] è la seconda idea che si scorge nel bene finito: il commisurato è lui stesso il bene finito ricevuto che abbia la misura, e la misura , che è quell' idea che noi caviamo per astrazione da questo commisurato, e che si deve attribuire in proprio alla causa, cioè al Bene puro ed essenziale, misura di tutti i beni, e perciò stesso da sè essenzialmente misurato, [...OMISSIS...] chè, come già disse nella « Politeia », [...OMISSIS...] . Quindi la terza idea partecipata dal Bene, quella della bellezza. [...OMISSIS...] . Il bene dunque nell' ente creato si mostra sotto tre aspetti, ora di verità, ora di misura e commisurato, ora di bellezza: e nessuna di queste tre idee può abbandonar l' altra, chè c' è tra esse un naturale sintesismo; nè tuttavia si possono da noi unificare come si converrebbe a comporre l' unica e semplicissima idea del Bene stesso assoluto. A queste tre idee si riducono quelle tre altre di cui fa uso nella « Politeia » di ciò che è giusto, bello, prudente o temperato [...OMISSIS...] , poichè, come apparisce dall' ultimo luogo citato, riduce allo stesso il bello e la virtù [...OMISSIS...] , e perciò la giustizia e l' altre tre virtù cardinali (2); nè si dà il giusto e il prudente o temperato senza verità, misura e bellezza. Il Bene dunque è la verità, la misura e il misurato e il bello. e ciascuna di queste tre essenze è il Bene, che prende diverse forme ed aspetti (3), e nel mondo risplendono. Venendo dunque Platone in sulla fine del « Filebo » a classificare i diversi ordini di bene che sono nel mondo, li distribuisce nella scala seguente. Il primo luogo, dice, dee darsi alla misura [...OMISSIS...] e al misurato e ammodato [...OMISSIS...] e a qualunque altre cose tali, di cui convenga credere aver sortito una sempiterna natura [...OMISSIS...] ; e quest' altre cose sempiterne sono appunto quelle indicate, la verità, la bellezza, la giustizia, la prudenza ed ogni virtù. Tutte queste cose per sè stesse non appartengono al mondo o all' uomo, ma sono di spettanza alla causa, [...OMISSIS...] , e tutte insieme formano l' idea del Bene, [...OMISSIS...] , il quale nel mondo e nell' uomo, siccome in uno specchio, si riflette con diversi raggi in tutte quelle diverse idee supreme, l' una reciprocamente inserta nell' altra, che dicevamo. Tutto questo lume riflesso poi non è lo stesso Bene, ma il figliuolo del Bene, [...OMISSIS...] , nel quale e pel quale noi divinando [...OMISSIS...] acquistiamo una cognizione oscura bensì «( per speculum et in aenigmate ) », ma preziosissima e la più necessaria di tutte, del Bene stesso, colla quale sola misuriamo e giudichiamo tutto ciò che del Bene partecipa, e quelle stesse idee eterne, che al Bene ci conducono, e a questo di nuovo, come ad ultimo principio, riferiamo, e vediamo che senza quest' ultima idea non sarebbero. [...OMISSIS...] . Le quali sublimi parole non pronunzia Platone senza dar segno di quella sua solita riverenza e modestia, con cui parla delle cose divine e che s' addice tanto ad un uomo, specialmente privo della divina rivelazione. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo è da notarsi come Platone riconosca chiaramente l' idea del Bene, non solo esser causa delle cose intelligibili, ma anche delle visibili; il che dimostra due cose: 1 che per « idea del Bene »intende l' essenza stessa del Bene, il Bene assoluto, Dio; 2 che nulla ammette fuori di Dio, che non abbia per causa Iddio. Questo dunque ha il primo luogo nell' ordine de' beni: il secondo è occupato dal tutto insieme, perfettamente ordinato, sia nel mondo, sia nell' uomo, cioè in quella perfetta composizione tra la sapienza e il piacere, onde risulta la felicità e la perfezione di tali animali intelligenti: è dunque «to xymmisgomenon». E di questo bene si deve intendere il passo che segue: « « Il secondo (bene) è circa il commisurato, e il bello, e il perfetto, e il sufficiente, e quante v' abbiano cose di questa generazione » » (2). Poichè il mondo e l' uomo a pieno virtuoso ha appunto queste qualità di commisurazione, bellezza, perfezione e sufficienza relativamente alla sua natura; e bene è del pari ogni altra cosa che le abbia in sè. Dipoi vengono i beni elementari, di cui questo bene composto, proprio dell' ente creato, si compone, e anche tra questi Platone cerca qual sia l' ordine di preminenza. Avea già detto che questi elementi buoni sono primieramente due, l' uno appartenente all' ordine intelligibile, e l' altro all' ordine sensibile, e che quello va di lunga mano preferito a questo, stante che abbia una stretta parentela col bene supremo. Ma non contento di ciò, spezza l' intelligibile in due, e all' uno dà le idee più sublimi, come appunto quelle dal cui complesso si arriva all' idea del Bene; e questo pone il primo bene degli elementari e il terzo della serie totale. Dice dunque « « se tu dunque porrai per terzo bene la mente e la sapienza [...OMISSIS...] , non andrai lontano dal vero, come io vaticino » ». Avea detto poco prima della mente che ella « « o è un medesimo colla verità, o certo di tutte le cose è la più simile e la più vera » » (3). Delle quali parole, le prime, cioè che la mente sia il medesimo colla verità, appartengono alla mente divina, alla Causa, al Bene: l' altre, cioè che la mente sia di tutte le cose la più simile alla verità e la più vera, appartengono alla mente creata o partecipata dagli animali divini e dall' animale umano. E questa è quella mente che pone terza nell' ordine de' beni, perchè sola non è sufficiente all' animale, benchè per essa comunichi colle cose divine, perchè egli non è pura mente, ma oltre a ciò ha per sua natura l' elemento dell' indefinito, [...OMISSIS...] , che deve essere dalla mente governato. Appunto per questo, oltre alla prima e più sublime delle facoltà intellettive, cioè alla mente che intuisce le più sublimi idee, s' aggiungono le scienze e le arti; e queste stesse talune sono pure e proprie della sola anima senza mescolanza d' alcun elemento attualmente sensibile, opere della mente e della ragione. A questo secondo genere d' intelligibili dà dunque il secondo luogo tra i beni elementari del creato; e il quarto nella classificazione totale: [...OMISSIS...] . E chiama scienze dell' anima, benchè alle sensazioni congiunte, anche questi piaceri (3): poichè non ammette punto per beni i piaceri sensibili, in quanto sieno scompagnati dalla cognizione e dalla verità, ma dall' essere a queste uniti e loro pedissequi ed inservienti [...OMISSIS...] deriva loro la qualità d' essere bene. Essi, dice, devono esser veri , [...OMISSIS...] . Il piacere dunque animale separato dalla cognizione è escluso da Platone dal novero de' beni, come quello che è indefinito, ma dall' idea, quando ne partecipa, riceve il suo finimento e da un' idea ancor superiore e finalmente dall' ultima che è misura suprema il finimento stesso è misurato (5), poichè le idee inferiori cioè più prossime ai reali sensibili, e il loro ordine dalle superiori e finalmente dall' ultima, che è quella del bene, ricevono la commisurazione. Conchiude dunque colla solita piacevolezza. [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo per conclusione e ricapitolazione di questo discorso segnare il principio ed il fine della filosofia platonica, e il corso di quell' arte del raziocinio che Platone chiama dialettica, e che conduce l' umana mente da quel principio passo passo finchè abbia raggiunto quel fine, diremo, con persuasione di non andare errati, che l' idea in universale, e propriamente l' essere ideale, [...OMISSIS...] è il principio, da cui vuole che si muova la filosofica disciplina, e il Bene, [...OMISSIS...] è il termine, a cui deve pervenire. Così descrive il filosofo dal principio e dal termine, quando lo dice « « amatore dell' ente e della verità » », [...OMISSIS...] . Ma torniamo oggimai ad Aristotele. Questo magnifico monumento filosofico non si trova nelle opere d' Aristotele, che mutilo a scarsi frammenti, insufficienti a ricomporlo, e guasti anche questi da un' esposizione infedele, sofisticamente tormentati piuttosto che discussi. Si direbbe, paragonando certi luoghi d' Aristotele, in cui parla delle dottrine di Platone, con altri che ancor si leggono nelle immortali opere di questo, che o gli scritti attribuiti ad Aristotele non fossero del discepolo di Platone, o avessero subite profonde alterazioni . Ad ogni modo ecco in che consistono le cardinali differenze tra i due sistemi, dalle quali dipendono tutte l' altre. 1 Secondo Platone, il mondo, e con esso il moto e il tempo, è cominciato per opera di Dio: secondo Aristotele è eterno, e Dio non fa che imprimergli ab aeterno di continuo il primo movimento; 2 Secondo Platone, il mondo è fatto nel tempo, secondo un eterno esemplare, il quale comprende tutte le idee, che si riferiscono al mondo; esemplare formato dalla mente divina per creare il mondo; secondo Aristotele, il mondo, essendo di sua natura eterno, non ha bisogno d' alcun esemplare, e però non ci sono le idee , che lo compongono, separate e indipendenti dal mondo; 3 Secondo Platone, le idee che si riferiscono al mondo come esemplari, sono intuite dalle menti create, che così ne partecipano; ma gli enti privi d' intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse, ma soltanto esprimono le loro similitudini , dalle quali, ricevute dall' uomo col senso, la mente trapassa alle idee , di cui quelle sono similitudini, ossia alle essenze de' medesimi sensibili, e per queste essi si conoscono. Aristotele nega, che gli enti reali e sensibili sieno similitudini, ma dà a loro stessi le specie o forme, che diventano intelligibili, tosto che l' anima che n' abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così è, che ella conosce gli enti reali. Quindi Aristotele stabilisce, che tutte le cose mondiali sono composte di due elementi: 1 materia, [...OMISSIS...] ; 2 specie, [...OMISSIS...] (a cui si riduce anche il terzo elemento, la privazione ). Ma tutto questo complesso di enti, ciascuno composto di materia e di forma, che dicesi mondo, si muove in molte guise (1). Sebbene dunque nella sua supposizione d' un' eternità del mondo, egli non avesse bisogno di ammettere un ente creatore e ordinatore, tuttavia gli fu necessario di stabilire un principio , ed un fine del movimento del mondo e degli enti in esso contenuti: e quel principio non doveva essere mosso, altramente non sarebbe stato principio; doveva essere un primo motore immobile, [...OMISSIS...] , quel fine non potea essere che il Bene, [...OMISSIS...] , come aveva appreso da Platone. Ora i due elementi, di cui si compongono gli enti, e il principio e il fine del loro movimento, sono chiamati cause da Aristotele, e alla dottrina di queste quattro cause egli riduce tutta la metafisica (3). La prima causa dunque, ossia elemento, è la specie, o forma o essenza, [...OMISSIS...] . La seconda causa o elemento è la materia o il subietto , [...OMISSIS...] . La terza causa è il principio del movimento, [...OMISSIS...] , chiamata ancora causa efficiente, [...OMISSIS...] . La quarta causa è la finale, il fine del movimento, il Bene, [...OMISSIS...] . La materia è la realità in potenza, indeterminata, la forma è la sua determinazione, il suo termine, e però è un che determinato (9). Quantunque non possa esistere il solo indeterminato, tuttavia un ente determinato da una forma è in potenza ad altre forme, e così può passare da una forma all' altra; questo passaggio dallo stato di potenza a quello di atto è il movimento , la formola che esprime tutto ciò che si fa e si patisce nell' Universo. Ora questo passaggio, ossia questo movimento (1) dee avere la sua causa, e questa è il principio del moto ; dee avere anche un termine , e questo è il fine. Queste quattro e, colla privazione, cinque cause, sono considerate da Aristotele come i generi più estesi possibili. Ma ciascuna di queste cause generiche, quando si vuol determinare maggiormente e distribuire in generi minori e in ispecie e in individui, si può considerare sotto due aspetti che danno una diversa base d' eseguire una tale determinazione. Poichè: 1 ciascuna si può considerare nel suo effetto , in quanto può concorrere diversamente a produrlo, spezzandosi così quel genere unico in più classi e individui di cause; 2 e dopo ciò si può prendere ciascuna di queste cause, la più prossima all' effetto prodotto, e ascendendo ad una causa anteriore, e da questa ad un' altra pervenire a trovare la prima, la più remota di tutte l' altre. Si può dunque considerare ciascuno di quei generi di cause relativamente all' ultimo termine della sua azione in basso, e viceversa relativamente al suo primo principio in alto: distribuendosi in una serie dalla prima causa sino all' ultima. Consideriamo ciascuna di queste cinque cause, la materia, la forma, la privazione, la causa motrice e la finale sotto il primo aspetto, in quanto concorre in diverso modo a mettere in essere l' effetto. La materia , secondo Aristotele, non è mai priva della forma (2), ma esiste con questa formando l' ente singolare (3). Ora poichè questi sono diversi (4), perciò, secondo Aristotele, ci devon essere altrettante materie diverse che li moltiplicano. E poichè gli enti reali, oltre dividersi in individui, si classificano secondo le specie e i generi, così anche le materie (5). Le materie della stessa specie producono gli individui (è ciò che gli Scolastici chiamarono principio dell' individuazione), le materie di varia specie o genere appartengono ad individui di varia specie e genere. Così la materia degli astri è specificamente o genericamente diversa, secondo Aristotele, da quella, di cui si compone il mondo sublunare (1). Questa dottrina d' Aristotele intorno alla materia, non regge alla prova; poichè se le materie si distinguono tra di loro, hanno delle differenze, qualunque sieno: se hanno differenze, hanno delle forme, onde non trattasi più d' una materia prima, d' una pura potenza, che come tale, è indifferente a tutto. Se poi le materie si dividono anche specificamente o genericamente, partecipano dunque di forme specifiche e generiche. Aristotele dunque non giunse al concetto d' una prima materia e d' una pura potenza; ma il suo pensiero si fermò ad una materia non del tutto, ma solo in parte informata, e così potè trovare molteplice la materia. Se questa non fosse in parte informata non potrebbe avere il numero, che già è forma. Si fermò ad una potenzialità determinata a una certa classe di forme; ma questa determinazione della potenza è ella stessa una forma (2), quantunque non ultimata. Se la materia, secondo Aristotele, non può esistere nè concepirsi, senza la specie, e si parla di lei per via d' astrazione; della specie non osa dire il medesimo. In fatti riconosce una essenza immobile che appunto per questo dee essere pura specie secondo il suo principio; [...OMISSIS...] . E però anche alla sola specie dà la denominazione di «usia» (3) e di «to ti en einai» (4) come alla sostanza composta, denominazioni che nega interamente alla materia. Ma le forme degli enti singolari e composti non esistono se non in questi (5), e si classificano in dieci supremi generi che sono le categorie. Ci hanno dunque due generi di specie , secondo Aristotele: 1 Quelle che possono sussistere da sè stesse anche senza materia come il motore immobile e la mente; 2 Quelle che non possono sussistere che nella materia, come le specie di tutte le cose sensibili, sieno celesti o sublunari. Esamineremo forse in appresso qual sorta di purità Aristotele accordi al primo genere di queste specie, e se possano anche esse o no mescolarsi colla materia. Le categorie poi sono i generi formali che abbracciano le une e le altre; per esempio: sotto il genere di sostanza si comprendono tutte le sostanze singolari, siano pure forme o composte di materia e di forma. Poichè le categorie hanno per base della classificazione la nostra maniera di concepire per via di predicazione, sono una classificazione di predicati generalissimi; laddove la classificazione delle specie in pure e composte ha per sua base la natura delle forme stesse, è una classificazione di subietti . Venendo alle cause motrici e considerandole rispetto all' effetto che producono, queste si dividono da Aristotele primieramente in due: una causa interna alle cose che chiama natura , e una causa esterna che chiama arte (1). A queste ne aggiunge due altre, il caso e la fortuna , che nascono dalla privazione delle due prime, [...OMISSIS...] , e però presuppongono le due prime (3). Poichè quando la natura fallisce a produrre il suo effetto ordinario, si dice caso ; e quando all' uomo fuori della sua intenzione e aspettazione incontra per accidente qualche cosa, dicesi fortuna (1). Ma queste sono piuttosto cause rispetto al concepire dell' uomo che non conosce tutte le leggi della natura, che non vere cause. Quando poi l' uomo, volendo fare una cosa gliene riesce un' altra, il che dicesi fortuna, è caso anche questo, perchè è la natura che produsse quell' effetto inaspettato in vece dell' arte, onde il caso è un concetto più esteso della fortuna. La natura è dunque considerata da Aristotele come una causa motrice insita nelle sostanze composte di materia e di specie. Dalla materia in tal caso deve venire la forza del movimento, dalla forma la direzione del movimento: onde attribuisce il principio movente che dicesi natura , non meno alla materia ed alla forma che al composto. « « In un modo così si dice natura la prima subietta materia di ciascuna di quelle cose, che hanno in sè il principio del moto e della mutazione: in un altro modo la stessa forma e specie » »: ma questo per astrazione in quanto colla mente si considera la specie come altra cosa separata dalla materia (2). [...OMISSIS...] . Da questo apparisce, che i due principŒ d' ogni mutazione, la natura e l' arte , non sono entità diverse, secondo Aristotele, dai due elementi materia e specie , di cui risulta il mondo, ma sono virtù efficaci inerenti ai medesimi nell' ente composto (natura), e che oltracciò vi sono forme pure di materia, che danno origine all' arte , la quale è una causa fuori del composto (4). Del pari, la causa finale non differisce dalla forma . [...OMISSIS...] . La natura dunque, cioè il principio interno movente d' un ente naturale composto di materia e di forma, si muove verso un' altra forma ; e se niente osta, sempre verso la forma stessa: se non la consegue, dicesi caso . [...OMISSIS...] . Se poi c' è qualche impedimento, allora dicesi avvenire l' effetto per caso o per fortuna. E Aristotele per assegnare un fine agli agenti naturali dice non esser necessario che il movente deliberi, chè anzi l' arte stessa non delibera, operando abitualmente (1): [...OMISSIS...] . E veramente essendo il fine la forma , e questa, secondo Aristotele, essendo la medesima nell' arte e nella natura , nell' arte, cioè nella mente, separata dalla materia, nella natura unita colla materia, ma tuttavia dello stesso genere l' una e l' altra, conviene che tanto la natura quanto l' arte operino ugualmente pel fine. Dove si vede la profonda differenza, che passa da questa dottrina a quella di Platone; poichè questi nella natura sensibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma riservata alla sola mente. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente , che le desse l' ordine e il fine, e a questo la dirigesse. Nel sistema d' Aristotele all' incontro la natura fa da sè, avendo la stessa forma in se stessa. Che la forma nella mente e ne' reali sia presa da Aristotele per la medesima, è chiaro da queste sue parole: [...OMISSIS...] (1). Il qual discorso nulla varrebbe o sarebbe sofistico, se la sanità e la casa senza materia non fossero identiche di numero colla sanità e colla casa reale e materiata. E veramente se fossero numericamente diverse, di maniera che ci fossero due forme, la reale e l' ideale (come in cert' altri luoghi sembra che dica Aristotele), s' incapperebbe nel sofisma del terzo uomo , di cui lo stesso Aristotele accusa ingiustamente Platone (2). Poichè se ci sono due specie della casa, devono aver qualche cosa di comune, e però ce n' abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro: e potendosi su questa fare lo stesso ragionamento che sulle due prime, si va all' infinito, nè si troverebbe mai l' ultima specie. Il che s' evita nel sistema di Platone, in cui la specie è una sola, e ne' sensibili c' è soltanto l' imitazione, la quale nella mente di chi conosce s' aduna insieme colla specie, su cui è stata esemplata. Onde la similitudine, che ha il sensibile colla specie, è la specie stessa imitata: di che anche a noi venne detto, che le idee sono la stessa similitudine (3). S' evita il sofisma del terzo uomo anche facendo, che la stessa numerica specie sia nella mente e nelle cose; ma questo sistema, nel quale ricaddero spesso i filosofi, tra i quali il fondatore della scuola tedesca (1), e appresso di noi il Gioberti conduce ad altri e gravissimi inconvenienti. Aristotele ad ogni modo prese questa via non giungendo a discernere la vera distinzione tra la specie , che solo alla mente appartiene, e il reale, come apparisce dal luogo citato, e come è necessario che sia, se deve mantenersi il suo ragionamento. Perocchè questo tende a dimostrare, che la natura ha in sè una virtù d' operare da sè convenevolmente ed ordinatamente, senza bisogno di ricorrere ad una mente che sia fuori di lei (bastando un primo Motore) per questo appunto che ha in sè la specie , come opera appunto l' arte, perchè ha la specie , sebben quella congiunta colla materia, e questa da ogni materia disgiunta. Alla materia dunque congiunta colla specie nell' ente composto, che è la sostanza perfetta, è inerente un principio di moto che tende a passare o a far passare un altro ente da una forma all' altra; quello che move, è il principio motore (natura), ossia la causa efficiente ; quella a cui arriva, è il fine ossia la causa finale . Aristotele dunque prende a spiegare l' operare della natura così. Alcune cose, dice, sono determinate dalla necessità , e la ragione di questa necessità è la materia (2); altre si fanno per un fine e la ragione dell' operare con un fine utile e buono è la forma o specie. Quando poi la natura pecca o se n' hanno effetti insoliti, questi s' attribuiscono al caso . Poichè l' operare secondo la forma può peccare, cioè non ottenere il fine, secondo Aristotele: e come la forma è nella natura ed è nell' arte , così si danno ugualmente peccati di natura e peccati di arte (3). La natura dunque, benchè legata in parte alla necessità che le impone la materia, ha in sè tutto ciò che le bisogna per operare ad un fine, il che Aristotele crede di dimostrare a questo modo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque dato la forma alle cose materiali e sensibili e la medesima anche alla mente, trova Aristotele un problema importante, quello di rendere ragione perchè « « le cose naturali non abbiano intelligenza, e l' abbia l' anima » » (2), e risponde, che nella natura la materia è quella che acceca, per così dire, la forma, e le toglie l' intelligibilità, e di conseguenza al subietto che la possiede, l' intelligenza. Sono da osservare nel passo citato quelle parole: [...OMISSIS...] , poichè in questo sta il nerbo del suo discorso, su cui torna spesso in altri luoghi (3): suppone che le cause remote e prossime nella natura sieno già incatenate da sè, come sarebbero se fossero poste dall' arte . Onde deduce, che non è necessario preporre quest' ultima alla natura (4), e di conseguente non è vero quello che volea Platone, che fossero necessarie le idee, per ispiegare la natura ed il suo operare sapiente, e la sua tendenza a fini migliori. [...OMISSIS...] (1). Ma l' argomento di Aristotele pecca di circolo. Poichè si riduce a questo: « le forze della natura sono connesse e concatenate per modo che conducono un ente da uno stato o da una natura all' altra per una serie di azioni ed effetti di queste, e quindi di gradi determinati. Questa serie rimane la stessa, tanto se la prima forza riceve l' impulso da una mente, che vedendo tutta quella serie di cause e di effetti dà quell' impulso col fine d' ottenere l' ultimo effetto; quanto se quell' impulso è dato dalla natura stessa, dal caso, da una causa cieca insomma, che non delibera e non conosce il fine: questo fine s' ottiene dunque egualmente e nello stesso modo. Non è dunque necessario ricorrere ad una mente e ad un' arte precedente, perchè le forze e l' ordine loro esistono indipendenti dalla mente e dall' arte che si supponga dare ad esse, con un fine preveduto, l' impulso ». Dico che quest' argomento pecca di circolo, perchè considera l' arte o la mente unicamente come causa motrice e suppone che la natura esista da sè, così fatta come noi la vediamo, e che quando produce qualche cosa, non abbia bisogno d' altro che di un primo impulso. Ma è appunto questa la questione platonica: « se la mente eterna ossia il bene sia puramente un principio motore , e non anzi sia causa piena della natura stessa, e vero creatore ». S' egli è dunque vero, come sostiene Platone, che l' universo non esistesse, ma Iddio mosso dalla sola sua bontà l' abbia prodotto, egli accingendosi a quest' opera doveva indubitatamente concepire prima, secondo le regole d' un' assoluta sapienza, l' opera a cui volea por mano, e questo è l' Esemplare eterno composto tutto d' idee, conforme al quale ogni cosa fu fatta e si fa di continuo. In tale supposizione adunque le idee esemplari sono tutt' altro che « vaniloquii e poetiche metafore »: sono anzi sì alte cose a cui il volo d' Aristotele non pervenne. Ma di questo meglio in appresso. Ora veniamo al secondo aspetto in cui dicemmo (1) considerate da Aristotele le sue quattro o sei cause, cioè nel loro ordine, dalla più prossima all' effetto all' ultima più remota, ed è su questo che ci dobbiamo estendere. Tutte queste cause, come vedemmo, si riducono finalmente alle due elementari, materia e specie , perchè la causa motrice è inerente nel composto alla materia e alla specie, e dicesi natura , alla specie separata dalla materia, e dicesi arte . La privazione (2) poi nella natura e nell' arte dicesi caso e fortuna . Essendo dunque tutto per Aristotele materia e forma (subietto e predicato nell' ordine dialettico), quello che si dice dell' ultima materia e dell' ultima specie, vale anche per le ultime delle altre cause. Dice dunque che sussiste in natura il composto di materia e di specie , e che l' ultima materia, come l' ultima forma [...OMISSIS...] non sono prodotte (3). Dagli argomenti che adopera Aristotele a provare questa proposizione si potrà rilevare meglio che cosa intenda per materia ultima ed estrema. Egli argomenta dall' osservazione di ciò che nasce nei cangiamenti naturali: poichè il pensiero del nostro filosofo è così legato alla natura sensibile, che non può concepire un operare diverso da quello che cade sotto la sua esperienza, onde il suo ragionamento ha sempre come supposto il pregiudizio che « le leggi dell' operare naturale siano universali e assolutamente ontologiche ». Osserva dunque, che ogni cangiamento suppone tre cose: 1 il subietto del cangiamento, la materia [...OMISSIS...] ; 2 la causa movente [...OMISSIS...] ; 3 il fine o specie a cui tende il moto [...OMISSIS...] . Da questo deduce che il cangiamento suppone sempre il composto di materia e di forma, e che è sempre il composto quello che si cangia in un altro composto. Poichè se ciò che si cangia o diviene, non fosse il composto, ma ciascuno de' suoi elementi, cioè la materia a parte e la forma a parte, s' andrebbe all' infinito, poichè nella materia, o nella forma si dovrebbero di nuovo trovare quei tre elementi e condizioni necessarie del cangiamento, cioè si dovrebbe di nuovo distinguere in ciascuna di esse: 1 una materia subietto; 2 una forma termine del moto; 3 una causa movente; e in ciascuno di questi ugualmente. Convien dunque fermarsi a quella materia e a quella forma che costituisce da prima il composto, e in quest' unione soltanto rinvenire il cangiamento. Si produce, dunque, per esempio « la sfera di bronzo », ma non si produce a parte il bronzo, la materia, e a parte la sfera, la forma (1). Così avviene in fatti in tutti i cangiamenti e le produzioni della natura; e certo nella natura non si produce mai la forma in separato dalla materia, nè la materia in separato dalla forma: questo lo sapeva anche Platone, nè è prova d' ingegno maggiore averlo osservato. Laonde la conclusione che ne vuole cavare Aristotele contro le idee di Platone, non coglie punto questa sublime dottrina: [...OMISSIS...] . Vuole insomma Aristotele che tanto la causa efficiente , quanto la causa della cognizione delle cose reali sieno nelle stesse cose reali, perchè dice, se ci fossero specie fuori delle cose reali, queste nè potrebbero produrre o informare le cose reali, nè potrebbero farle conoscere (3), perchè sarebbero da esse dissociate, e cosa al tutto diversa da esse. Quindi spiega la produzione collocando un principio produttivo nelle cose reali, che produce non la materia sola, o la forma sola, ma altre cose reali composte di materia e di forma, e lo chiama natura , e spiega la cognizione delle cose collocando del pari in queste un principio conoscibile , cioè la forma, conoscibile cioè tostochè sia ricevuto in un' anima che sia atta a riceverlo scevro dalla materia. Dove osserveremo, di passaggio, aversi qui una nuova prova, che Aristotele ragiona come se la forma , che è nelle cose sensibili, fosse la stessa identica di numero con quella che, ricevuta nella mente, dicesi idea (a differenza di Platone che, ne' sensibili, non riconosce che un' effigie dell' idea) reputando che se fosse diversa e fuori di esse, non potrebbe far conoscere le cose stesse sensibili (4). In questa conclusione dunque e in tutta questa dottrina ontologica giace sempre nel fondo lo stesso vizio di circolo. Si suppone cioè quello che si vuol provare, che il mondo sia eterno, un' eterna successione di generazioni e corruzioni. Questo è quello che si deve provare. In quella vece, Aristotele lo suppone. Supposto questo, è chiaro che la maniera colla quale gli enti reali si cangiano e trasformano è l' unica maniera di produzione che ci sia nell' universalità delle cose. Se questa è l' unica maniera, dunque la forma e la materia stanno sempre unite, e così unite e formanti le sostanze composte, si vanno insieme permutando. Non è dunque più possibile che la forma o la specie abbia preesistito alla materia, e sia concorsa alla produzione del mondo. Non ci sono dunque le idee separate di Platone. Il mondo dunque è eterno e non creato da Dio, come vuole Platone: dunque di separato dalla natura non ci può essere una causa efficiente , ma solo una causa motrice che eternamente il mova. Legato dunque ai sensi e all' esperienza materiale, Aristotele suppose gratuitamente che stesse tutto qui, e che bastasse osservare come son fatti gli enti specialmente sensibili e materiali, per foggiare su di essi e sul loro operare una perfetta ontologia : le leggi dell' ente reale e finito divennero dunque nel pensiero di Aristotele, con un salto immenso, leggi dell' essere in tutta la sua estensione. Ma Platone non gli accorda il supposto, e così il sistema Aristotelico rimane senza alcuna solida base. Prima però di notarne più particolarmente i difetti, conviene che ne ultimiamo l' esposizione, accompagnandolo degli argomenti, dei quali Aristotele lo munisce e fiancheggia. Aristotele osserva, che « « tutto ciò che si produce, si produce di qualche cosa e da qualche cosa, ed è di specie il medesimo » » col producente (1): dal che deduce che il composto di materia e di forma produce altri composti della stessa specie, come l' uomo genera l' uomo. Deduce ancora che quella specie, che non si trova per anco in ciò che è in via di prodursi, deve preesistere nel producente (1). In questa sfera di cose naturali Aristotele non riconosce che una perpetua trasmutazione d' un composto in un altro della stessa specie, senza che mai sia possibile rinvenire l' origine del composto stesso, l' origine dico della materia, o l' origine della forma separata dalla materia. Questa specie è inseparabile dalla materia che informa, ma si separa di ragione, [...OMISSIS...] ; e però esiste nella mente pura da materia. Questo gli fa la via a riconoscere e spiegare un altro genere di produzioni, quelle dell' arte , a cui riduce quelle che vengono da una potenza d' operare e dal pensiero, [...OMISSIS...] . Chiama geniture , [...OMISSIS...] , le produzioni naturali, l' altre fatture, [...OMISSIS...] . Le produzioni dell' arte, dice, sono quelle « « di cui la specie è nell' anima » ». [...OMISSIS...] (5). L' anima che vuol produrre un effetto, per esempio la salute, trascorre col pensiero la serie dei mezzi fino che arriva ad uno, che è in suo potere di produrre, per esempio la frizione per produrre il calore. Allora colla sua potenza d' operare produce questo mezzo, il quale per una serie di effetti produce quello che cercava, la sanità, fine che era presente all' anima sin da principio. Il movimento dunque dell' anima, che dalla prima specie perviene a trovare l' ultima, la specie cioè di quel mezzo che è in suo potere di produrre, dicesi, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e risponde a ciò che prima aveva detto [...OMISSIS...] : l' operazione poi che comincia da quest' ultima specie, producendo effettivamente il detto mezzo, dicesi [...OMISSIS...] , e corrisponde a quello che prima aveva detto [...OMISSIS...] (6). Da questo deduce che quantunque la sanità che vuol produrre coll' arte, sia nell' anima, sia cioè la stessa specie finale dell' anima (1), tuttavia essa sola non è la causa efficiente della sanità; produce solo il movimento del pensiero, [...OMISSIS...] , trova la specie ultima a cui si rattacca l' azione, per esempio la frizione; allora eseguendosi questa, comincia la vera produzione della sanità, [...OMISSIS...] . Ora se questa causa, cioè la frizione, fosse posta anche dalla natura o dal caso, s' avrebbe ugualmente la sanità, benchè non ci fosse la specie pura nella mente. Di più, quando trovata dalla mente l' ultima specie, la frizione nell' esempio addotto, questa si produce e con questa la sanità, non si produce la sola specie, ma la specie nella materia, cioè nell' uomo: la specie dunque non si genera sola, ma si genera il composto di specie e di materia. L' arte sola dunque nulla produce, ma abbisogna di materia. Ma basta forse la materia, per modo che a questa sovrapponga la specie, senza che quella non l' abbia in nessun modo? No, perchè se la frizione nel corpo umano produce il calore, e questo la specie della sanità, convien dire che questa specie era già in potenza nella materia, nè la materia era svestita al tutto di specie, ma n' avea una; e quel composto, prodotto il primo moto, la frizione, si trasmutava, per diverse trasformazioni, in modo da acquistar l' ultima, cioè la sanità. Dunque le specie non si producono sole; nè separate dalla materia, quali sono nella mente, sono cause efficienti delle cose di cui il mondo sensibile risulta (2). Stabilisce dunque Aristotele questa dottrina: « ciò che si trasmuta è sempre il composto de' due elementi, la materia e la specie ». Ma il primo movimento di questa trasmutazione può venire da tre principŒ; cioè o dal composto stesso, o dall' uno, o dall' altro de' due suoi elementi. Se il primo movimento viene dal composto, si hanno le produzioni della natura; se viene dall' elemento della specie sola, si hanno le produzioni dell' arte; se viene dall' elemento della materia, si hanno le produzioni del caso (1). [...OMISSIS...] . Tale è il sistema aristotelico. Ma di quante difficoltà non è egli circondato? - Molte n' abbiamo indicate: affrettiamoci ad esporre quelle che ci restano, e a rinforzare di nuovi ragionamenti quelle che sono già state sottoposte alla meditazione del lettore.

Aristotele esposto ed esaminato vol. II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Se questo severo giudizio debba ricadere tutto intiero sopra il precettore del Peripato, o una gran parte ne sia dovuta all' imperfezione de' documenti, da cui noi siamo obbligati d' attingere la sua dottrina, o quella che per sua ci è presentata, questo è impossibile a dirsi, ed inutile alla filosofia. A questa, i cui studŒ ed amori sono tutti collocati nella verità, importa solo, che si separi con diligenza nelle opinioni il vero dal falso, acciocchè l' autorità degli antichi non ci trattenga più indebitamente dal libero uso del pensiero filosofico, e dall' acquisto d' una scienza sempre più purgata e matura. Ricominciamo dunque a cimentare la dottrina del nostro filosofo esposta ne' libri precedenti. Il fondamento d' una teoria ontologica o metafisica, è il principio della ragione sufficiente. Poichè l' esposizione dei fatti della natura, di cui non si può assegnare alcuna ragione, sarà una storia naturale o una fisica, ma in nessun modo una teoria metafisica. Ma Aristotele, sia che disperi di rinvenire questa ragione e quindi con sobrietà e modestia filosofica s' astenga dall' indagarla, sia che non abbia appieno intesa la suprema necessità, che c' è in ontologia di dare o di cercare almeno quella ragione che basti alla spiegazione de' fenomeni mondiali, lascia i più notevoli fatti senza indicare nè cercare il loro perchè. Così qui vi dice, che la materia di cui constano certi enti si move da sè, la materia di cui constano altri non si move da sè, ma deve essere mossa dall' arte. Ma perchè questa differenza tra le materie di cui constano diversi enti della natura? Questo perchè manca affatto nella teoria Aristotelica; e non solo manca come una cosa non ancora trovata, ma come una cosa che non può trovarsi, perchè si suppone che affatto non ci sia. Così al caso , nel più stretto senso, Aristotele, checchè dica, è obbligato a far fare la sua parte negli avvenimenti mondiali. Ma quando si dice in questo senso il caso, si dice una non causa , una non ragione. E che cosa è una non causa, una non ragione, se non una mancanza di filosofia? Rimane infatti necessariamente questa gran lacuna in un sistema, che suppone la materia e il mondo eterno: è lo stesso che ammetterlo senza ragione e senza causa. Perchè la materia è piuttosto tanta che tanta? Perchè veste piuttosto queste che quelle forme? Perchè le veste con quest' ordine di prima e poi? Perchè è distribuita così nello spazio? Perchè ha quelle forze piuttosto che quest' altre? A tutte queste domande Aristotele necessariamente ammutolisce; non gli resta che a dire: « E` così ». Lo dica pure; ma chi l' autorizza poi a dire che fu sempre così? Qui l' abbandona l' esperienza; e senza questa gli rimane l' ipotesi; ma l' ipotesi, con cui egli travalica l' esperienza, è assurda, perchè è la negazione d' ogni ragione. Non s' è dunque sollevato nè ha punto inteso il bisogno di sollevarsi all' altezza della questione posta da Platone: qual è la prima ragione che spieghi l' esistenza e l' ordine dell' universo? Solo rispondendo come fa Platone: una mente eterna, ottima, creatrice, l' enigma del mondo riceve la sua spiegazione: e tutto ciò che è, ed il modo in cui è, e ciò che avviene, ricupera l' ultima sua ragione, da cui dipende, come un frutto da una pianta, la sua possibilità. L' arte, dice Aristotele, non può far nulla senza una materia. - Chi ve l' ha detto? - L' esperienza dell' arte umana . - Ve l' accordiamo intieramente se parlate dell' arte umana. Ma il discorso di Platone non risguardava nè l' operare dell' arte umana, nè quello della natura. Egli saliva più sù e dimostrava che è necessario pervenire ad un Ente assoluto, diverso dal mondo che non ha in se stesso nessuna ragione d' esistere; non condizionato, quest' Ente assoluto alle leggi del mondo, e perciò operante in modo affatto diverso da quello che vediamo farsi dalla natura e dall' arte umana; poichè solo supponendo codesto Ente, si possono spiegare quelle cose che non dipendono da questi agenti finiti, e la stessa esistenza, la stessa costituzione di questi stessi agenti. Platone dunque lascia valere tutti gli agenti d' Aristotele, la natura e l' arte umana: accorda ad Aristotele, che tali sono appunto le leggi e le condizioni di questi agenti quali Aristotele li descrive; ma dopo di ciò domanda, perchè sono tali? E la ragione la trova in Dio; laddove Aristotele a questo ammutolisce. Aristotele, a ragion d' esempio, vi dice: vi è questa materia; la materia non è una se non per analogia, ma le materie sono diverse secondo le specie degli enti; questa materia è suscettiva di tali specie, perchè le ha in potenza nel proprio seno, quest' altra no, ma è in potenza ad altre: questa materia ha un moto suo proprio, e quest' altra non l' ha, ma dee esser mossa dall' arte; questa ha un dato moto, ma non un altro: perciò fa alcune cose a caso, ma non può farne cert' altre, senza che l' arte la mova. Ma perchè tutto ciò? Che necessità? Non potrebbe esser altrimenti? Non potrebbe non esistere affatto questa materia? E che cosa la determina a ricevere queste piuttosto che quest' altre forme, ad aver in sè questa piuttosto che quest' altra virtù? Voi non trovate in essa nessuna ragione di ciò: il pensiero pensa l' una cosa e l' altra senza ripugnanza. Il sistema Aristotelico dunque è in aria, manca di ragion sufficiente, non spiega punto l' esistenza del mondo e le cose che in esso avvengono. Oltre di ciò, Aristotele è ingiusto con Platone quando pretende di confutare la sua sentenza che « le forme sieno le prime cause delle cose », sofisticamente interpretandola. Aristotele si stende a provarvi una cosa che Platone non avrebbe mai contraddetto, cioè che non c' è una generazione delle forme separate dalla materia; ma che il composto tutt' intero, materia e forma, si muta nello stesso tempo. Il dire, che si muta anche la materia , è un errore contraddetto da Aristotele stesso, e quest' errore nasce dalla confusione che fa sempre Aristotele tra la materia prima , che è una pura astrazione e che è svestita d' ogni forma, la quale, ne' corpi, deve esser una; e le materie seconde , a cui Aristotele, come vedemmo, lascia certe forme, dalle quali solo può nascere una varietà di materie, varie specie di materia. Di poi, si cangi pure il composto, ma la questione non istà sul cangiamento, ma sulla prima causa, per la quale un ente, dopo ultimato il cangiamento, è quello che è. Ora Aristotele stesso concede che questa prima causa è la forma: è dunque d' accordo con Platone. Altro è dunque cercare perchè un ente è quello che è: altro è cercare, perchè un ente si cangia e diventa un altro. Platone insiste sul primo perchè, Aristotele sul secondo: le due questioni sono diversissime. Platone credette che al filosofo spettasse: 1 trovare la dottrina della prima causa da cui procede la natura e l' uomo con tutte le sue leggi e forze; 2 trovare la dottrina di tutto ciò che c' è di divino, cioè di partecipato dalla prima causa nella natura e nell' uomo. Quanto poi alla questione del modo d' operare delle cause seconde, l' abbandonò al fisico, e non la reputò argomento proprio del filosofo. Aristotele s' impossessò di quest' ultima questione, e la volle elevare al primo seggio, esagerando l' importanza delle cause seconde, come se non ce ne fossero altre, come se fossero esse stesse le cause prime. Gli s' affacciò soltanto la difficoltà in un modo parziale, quando s' accinse a spiegare il movimento: allora vide che la natura intera non conteneva il principio del moto e ricorse ad un primo motore fuori della natura. Noi esporremo tantosto questa parte, la più elevata di tutte nella dottrina aristotelica. Ma prima vogliamo osservare quanto sia labile la mente umana anche negli ingegni più acuti. Nessun altro filosofo, meglio d' Aristotele, ha forse dimostrato l' assurdità del ricorso delle cause all' infinito, e della necessità d' arrestarsi ad una prima (1): questi vide pure che niun numero può essere infinito se non in potenza. Or bene a malgrado di questi principŒ veduti da Aristotele e dimostrati, che fa egli ponendo il mondo eterno e in continue vicissitudini? Egli stabilisce che le cose mondiali abbiano percorso un numero attualmente infinito di cangiamenti; ed essendo un cangiamento causa dell' altro per la continuità del moto, egli stabilisce col suo sistema, che ci sia stato nel mondo un vero ricorso di cause all' infinito. Inserisce dunque nel suo sistema due sentenze, che secondo gli stessi principŒ elementari ed evidenti da lui stabiliti, sono patentemente assurde. Ma è degno che, di più, s' osservi come lo stesso Aristotele che riconosce assurda una catena di cause infinita, da una parte applichi questo principio con esagerazione, e nello stesso tempo da un' altra lo dimentichi. L' esagerazione è questa. Tutti i quattro generi di cause debbono essere eterni, secondo Aristotele (1); deve, di conseguenza, essere eterna una causa materiale, una formale, una motrice, una finale: poichè, secondo il ragionare di questo filosofo, se d' una materia, a ragion d' esempio, ne venisse un' altra, e di questa un' altra, e così all' infinito, ricadremmo nel detto assurdo: dunque ci deve essere una materia prima eterna: la qual materia prima avrebbe bensì le forme più imperfette, secondo Aristotele, ma non ne sarebbe mai del tutto priva. Anzi ci sarebbero diverse materie prime, secondo lui, aventi ciascuna diverse altre specie in potenza. L' argomento avrebbe forza per verità; ma ad una condizione, a condizione che sia vero ciò che si vuol dimostrare. Pecca dunque di circolo, perchè quell' argomento prova unicamente che la materia è eterna, se non è stata creata, cioè se il suo principio non si debba ripetere da una prima causa immateriale. Non dimostrando Aristotele punto che questo sia impossibile, le trasmutazioni della materia, altro non provano se non che queste trasmutazioni hanno cominciato con una materia, ma non che questa materia con cui hanno cominciato non sia stata creata con un' azione, che è tutt' altro che una trasmutazione, con un' azione la cui natura non ha niente di simile alle azioni della natura, benchè verissima e necessarissima. Ma, come dicevamo, da un' altra parte poi Aristotele, posta l' eternità di quelle cause, dimentica il principio « dell' assurdità che c' è in una serie di cause e d' effetti infinita », quando non vede niente d' impossibile che la serie degli atti operati da quelle cause sia veramente eterna. Le cause in potenza e le specie delle cause non possono essere infinite; gli atti di ciascuna di queste cause non possono essere infiniti. Ma l' assurdità c' è tanto in questa seconda supposizione, quanto nella prima; e però il sistema è incoerente. Abbiamo detto, che Aristotele lascia il mondo e la quantità, la qualità, la disposizione delle cose di cui consta il mondo, senza ragione sufficiente, e però la sua dottrina non è veramente una teoria ontologica o cosmologica. Dobbiamo ora dire come parzialmente e da un solo lato si presenti alla sua mente il bisogno di ricercare una causa sufficiente fuori della natura. Egli s' accorge di questo bisogno dalla considerazione che non tutte le cose, com' egli stima, avvengono per necessità, ma alcune per caso, o, com' anco dice, per accidente. Ecco come definisce quest' accidente fisico, come noi lo chiamiamo (1): [...OMISSIS...] . Ma se è accidentale l' evento, argomenta Aristotele, dunque anche accidentale la causa (1). Ma qual sarà questa causa accidentale? Avea altrove insegnato, che la causa delle cose che avvengono per caso, è la materia che si move talora da se stessa, sottraendosi alla legge della forma. [...OMISSIS...] Ora s' accorge in qualche modo Aristotele, che questo non basta, e che bisogna trovare una ragione , perchè certe volte accada questo alla materia. Continua dunque a proporre la questione che riceve questa forma: [...OMISSIS...] (3). Egli vede che di queste stesse cause accidentali non può esservi una serie infinita. Poichè dice: Si farà questa cosa o no? - Si farà, se si avvererà questa condizione. - Ma questa condizione si avvererà ella? - Si avvererà, se avrà luogo quest' altra condizione. E così converrà fermarsi in un' ultima condizione. [...OMISSIS...] Dopo aver dunque Aristotele confessato, che ci sono eventi accidentali, che questi essendo incerti non possono essere oggetto di nessuna scienza e di nessuna arte (1), che nè manco possono essere spiegati colle leggi della generazione e della corruzione, le quali procedono per necessità e con leggi stabilite e determinate (2); dopo aver detto altresì che la causa di questo operare per accidente deve ridursi ad un principio ultimo, non riducibile più in un altro, chè altramente non sarebbe ultimo: lascia in dubbio, e dice esser cosa da ricercarsi, se questo principio la cui produzione non ha causa, si riduca ad uno dei tre generi di cause, la materiale, la finale, o la motrice; senza tener più conto di ciò che aveva detto prima, la causa dell' accidentale essere nella materia. Sebbene dunque lasci qui il discorso, e sembri che ponga l' ultima, quale causa dell' accidentale, ciò che sarebbe appunto il caso; tuttavia altre confessioni preziose si possono raccogliere intorno a questa prima causa dell' accidentale da questo stesso libro dei « Metafisici ». In realtà Aristotele riconosce una grande analogia o somiglianza tra la prima, causa dell' accidentale, e la mente che compone e divide, producendo così il vero o il falso. Dell' accidente dice, che la causa è indeterminata ; della mente poi dice che « « essendo la composizione e la divisione nella mente, non nelle cose, ciò per fermo che è così, è ente diverso dagli enti propriamente detti. Si tratta appunto o della quiddità, o della qualità, o della quantità o se altro c' è che compone o divide il pensiero »(3) »; onde anche il vero e il falso che definisce « « una passione del pensiero »(4) », è indeterminato e non ristretto a un solo dei generi categorici degli enti. Conchiude dunque che « « amendue » » (l' accidentale e il vero ) « « sono fuori del restante genere dell' ente, e non dimostrano una certa natura di enti fuori esistente »(5) ». Questa è un' osservazione acuta, che avrebbe potuto condurre Aristotele alla scoperta del vero. Poichè riconoscendo egli che il vero ed il falso che risiede nella mente non può allogarsi in alcuna delle categorie, e che la causa dell' accidentale è del pari indeterminata; facilmente avrebbe potuto proporsi questa questione: « non potrebbe forse essere questa causa una mente suprema, libera, e perciò appunto tale che le sue operazioni non sono determinate da alcuna necessità? ». Alla quale questione si trovava prossimo tanto più col pensiero, che sul principio dello stesso libro avea riconosciuto dover esserci una sostanza superiore a quelle che sono costituite da natura, e questa non appartenere a nessun genere degli enti, ma essere universale, e la scienza di questa sostanza esser la prima di tutte le scienze, e universale, e trattar dell' ente come ente, e non come un genere (1), e di più avea parlato dell' eligibile [...OMISSIS...] come principio delle scienze ed arti pratiche: poichè la facoltà d' eleggere è indeterminata, non è causa necessaria, onde si può manifestamente dir causa dell' accidentale . Che più, se egli stesso in alcun luogo esce in questa sentenza: [...OMISSIS...] . Sebbene dunque Aristotele non si sollevasse a ricercare la causa della natura e della generazione, nè dell' esistenza della materia, s' accorse però, che, anche ammessa e la natura e la materia, siccome eterna, rimaneva qualche cosa ancora, che con tutte le cause naturali non si poteva spiegare, e quest' era l' evento accidentale, e per questo filo la sua mente fu obbligata ad uscire dell' ambito della natura, a cui pur era così tenacemente appiccicata. Ma non potè attribuire alla libera volontà di Dio tali eventi accidentali, perchè egli avea chiuso Dio in lui stesso, e privato d' ogni efficienza nella natura, altro non lasciandogli che d' essere l' oggetto del desiderio e della contemplazione. A questo nondimeno si rattaccò nella sua mente la questione del moto. Egli vide che nella natura, oltre la materia , la forma e la privazione , oltre il composto di materia e di forma, oltre la virtù insita in questo composto, la natura , causa della generazione e della corruzione, c' era qualche cos' altro, cioè una causa motrice , che influiva per qualche modo in un ente naturale, benchè esistente fuori di esso; e anzi che più cause motrici potevano concorrere a dare il movimento a una materia che si naturava. Così rispetto all' uomo egli annovera tre cause motrici ed esterne (oltre la suprema), cioè il genitore , il sole e lo zodiaco (1), e queste due ultime non della stessa specie «ute homoeideis:» chè le sole cause puramente motrici possono, secondo lui, non essere unispecie coll' effetto. Ora partendo dalla sua ipotesi (e non è mai altro che una ipotesi, niuna vera dimostrazione arrecandone) che il movimento degli astri sia eterno ed eterne di conseguente le vicende della natura, da quest' ipotesi, ossia da quest' errore trae con molto ingegno una gran verità: la necessità cioè d' un eterno motore: ben accorgendosi che non si può ammettere un movimento , che è un cangiamento continuo, senza una causa. Poichè, quantunque Aristotele si contenti di lasciare senza ragione sufficiente l' esistenza delle cose finite, gli ripugna troppo a lasciare senza causa il moto; e quantunque sembri talora che abbandoni al caso alcuni avvenimenti che si tolgono dal consueto operare della natura, il che non è altro che lasciarli senza causa, tuttavia non sostiene che gli stessi avvenimenti ordinari della natura rimangano senza cagione, come rimarrebbero, qualora non si ricorresse a una prima causa estranaturale del movimento; e gli astri, e tutte le trasmutazioni dell' universo senza quella prima Causa si fermerebbero (2). Spaventato dunque, per così dire, dal pericolo di arrestare il mondo e ogni generazione dal suo corso eternale, si diede alla ricerca della prima cagione del moto. Afferrato questo capo, egli ragiona egregiamente sulla natura di questo principio eterno in questa maniera: Il moto nell' universo ed il tempo è continuo ed eterno (1): dunque è necessario che ci sia un motore continuo ed eterno: perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa. Questo primo motore deve essere una sostanza, chè la sostanza è la prima delle cose, l' altre tutte riferendosi alla sostanza e supponendola prima di sè (2). La qual sostanza deve essere anche continuamente in atto, anzi la sua natura deve essere puro atto: perocchè se potesse essere in potenza cesserebbe, almeno qualche volta, d' agire (3), e se una volta cessasse, come riprenderebbe poi la sua azione? Se ella poi è puro atto, è altresì priva di materia, ed è pura specie , per la definizione stessa della materia e della specie, intendendosi per materia ciò che è in potenza, per forma ciò che è in atto (4). E qui riconosce ancora che, qualunque sia il movimento di cui la materia sia suscettiva, ella non può mai dare da sè a sè stessa questo movimento, ma conviene che lo riceva o dalla specie pura, che è nella mente dell' artefice, o dalla specie che è congiunta alla materia e che vi produce quel principio attivo che si chiama natura (5). Essendoci dunque una prima sostanza immateriale fuori della natura, prima causa motrice, e dovendo essere sempre in atto, conviene che ella mova restando immobile (6). Ma che cosa c' è che rimanendo immobile mova altre cose? Risponde Aristotele, seguendo in questo certamente Platone: [...OMISSIS...] . Ora Aristotele distingue il bello apparente [...OMISSIS...] , ed è ciò che si appetisce col senso [...OMISSIS...] , dal vero bene , ed è ciò che si appetisce e si desidera prima di tutto dalla volontà, il primo voluto [...OMISSIS...] . Ma il primo Motore è assolutamente bello e in esso tende prima di tutto la volontà. Il primo appetibile dunque e il primo intelligibile sono la cosa stessa [...OMISSIS...] , sono l' assoluto bello [...OMISSIS...] . Ora qui Aristotele ottimamente dimostra come questo primo intelligibile formi la mente e questa a lui si leghi e con esso diventi, in un certo modo, una cosa. Ma conviene recare le sue stesse parole. Dopo aver detto dunque che l' intelligibile primo è il primo desiderabile, perchè assolutamente bello, continua così: [...OMISSIS...] . Dice dunque che l' intelligibile fa una serie di cose per sè, e la prima delle cose intelligibili è la sostanza, poichè l' altre cose si rattaccano a questa, e tra le sostanze la prima è di necessità quella che è semplicemente, e tutta in atto, poichè quello che ha una qualche potenza non è ancora semplicemente, ma è sotto un rispetto particolare. Ora l' intelligibile move la mente, e da questa mozione viene l' intellezione. C' è dunque prima di tutto l' intelligibile «noeton» (questo precede tutte l' altre cose ma solo di concetto), di poi la mente, «nus», di poi l' intellezione, «he noesis;» ma questa appunto perciò è l' ultimo atto, e perciò il principio come dice. E se la intellezione è l' atto, perciò è la sostanza prima, cioè il primo intelligibile. L' intellezione per sè dunque è il primo intelligibile per sè, onde la prima ed eterna sostanza « « è intellezione d' un intelligibile che è la stessa intellezione » » [...OMISSIS...] Nella sostanza prima dunque e tutta atto, conviene che queste cose si trovino unite e coesistenti, di modo che sia ad un tempo intelligibile, mente ed intellezione , ossia che la mente e l' intelligibile sia l' intellezione stessa. Questo si fa a spiegare il nostro filosofo considerando la natura della mente in universale colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . Il puro atto adunque è riposto da Aristotele nell' intellezione che è ad un tempo e mente in atto ed intelligibile in atto, e queste due cose si distinguono dall' intellezione solo perchè la mente e l' intelligibile può essere in potenza, come è negli enti inferiori, ma l' intellezione e la contemplazione che è atto, non può mai essere potenza, chè sarebbe il contrario della propria natura. Laonde noi che abbiamo della potenza, non sempre contempliamo; ma Iddio, che è puro atto, sempre attualmente intende e contempla e però vive in eterno. [...OMISSIS...] In questa certo nobilissima dottrina è difficile ad intendere come Iddio sia pura intellezione per sè senz' altro. In primo luogo se si dà a quest' intellezione un oggetto diverso dall' intellezione stessa, già non è più intellezione pura. Aristotele, che vede la difficoltà, dice che l' intellezione prima e pura è oggetto di sè stesso, onde la definisce: intellezione d' intellezione, [...OMISSIS...] . E quest' è forse l' ultima parola che potea dire la filosofia, ma insieme quella in cui la filosofia stessa veniva meno. Poichè in quella parola compariscono non una sola intellezione, ma due; 1 l' intellezione come atto; 2 l' intellezione come oggetto: c' è dunque pluralità, e non più unità. Di poi, se l' oggetto è la intellezione stessa, questa intellezione oggetto deve avere tutto ciò che si richiede acciocchè sia intellezione. Ma l' intellezione per essere tale deve pure avere un oggetto. Dunque anche l' intellezione oggetto deve avere un oggetto; e così si va all' infinito. La speculazione filosofica dunque delle genti, all' ultimo, al più sublime e al più necessario suo passo venne meno, cadendo non tanto in un mistero, quanto in una contraddizione. Noi, illuminati da più che umana sapienza, discioglieremo il nodo nella Teologia, mostrando che ciò che cercava l' antica Filosofia senza raggiungerne il concetto era l' ente sussistente infinito per sè inteso (2), cioè il Verbo, dove non cessando ogni mistero, cessa però ogni contraddizione. Di poi, se l' intellezione pura altro non intende che se stessa, ed essa non è che intellezione pura, come conosce Iddio l' altre cose? A questa difficoltà si smarrisce di nuovo e cade Aristotele. Se questo filosofo avesse potuto concepire un Dio creatore, sarebbe altresì giunto a sciogliere la difficoltà che si presentava al suo spirito e che consisteva nella conciliazione di queste due proposizioni egualmente dimostrabili: 1 Iddio intende solo sè stesso; 2 Iddio intende tutte le altre cose. Poichè, solamente ammessa la creazione, si concepisce che le cose finite abbiano un modo d' esistere eminente e obiettivo in Dio, e che Iddio possa conoscerle compiutamente in sè, conoscendo solo sè stesso. Ma avendo dato Aristotele un' esistenza eterna alle cose mondiali indipendente, in quanto all' essere, da Dio, e dipendente solo come da causa finale e bene appetibile, concependo Aristotele Iddio sotto l' unico concetto di primo motore immobile, non c' era più verso di pensare che le cose mondiali fossero comprese in Dio, e da Dio nella loro natura propria conosciute. La conciliazione dunque di quelle due proposizioni nel sistema d' Aristotele diveniva impossibile, e quindi egli fu spinto a rigettarne una: mantenendo la prima sacrificò l' onniscienza divina . Ed ecco come egli ragionò: [...OMISSIS...] (1). Vedendo dunque Aristotele che l' inteso doveva immedesimarsi coll' intelligente e coll' intellezione, e non conoscendo quel modo oggettivo nel quale le cose mondiali esistono in Dio, ma solo l' essere di queste cose subiettivo, pensò, come sembra, che se la sostanza suprema ed ottima conoscesse le cose più vili si immedesimerebbe colle cose più vili, e così non vide altra via se non stabilire che l' oggetto della sostanza ottima debba esser l' ottimo, e null' altro che l' ottimo. Ora tra tutte le cose trovò che la migliore è la mente, ma questa non in potenza, ma tutta e pienamente in atto, perciò purissima intellezione. L' intellezione purissima dunque doveva essere l' oggetto ottimo di sè stessa: e dall' ottima sostanza così formata venne da Aristotele escluso il conoscimento delle cose inferiori, perche, disse, d' alcune cose è indegno pensare; [...OMISSIS...] , e alcune cose è meglio non vedere, che vedere, [...OMISSIS...] (2). Avendo dunque tolto a Dio la cognizione delle cose mondiali, gli tolse del pari la provvidenza di esse: era coerente: se le cose non sono create da Dio, nè pure conosciute; se non conosciute, nè pure governate: la gran differenza dunque tra Aristotele e Platone si riduce a questo, che l' uno concepisce la necessità d' un primo Creatore, e l' altro solo quella d' un primo Motore (3). Come poi a malgrado di questo in altri luoghi descriva Iddio come quello che contiene il mondo, noi dichiareremo altrove: vedremo cioè che questa contenenza è simile a quella, secondo la quale si potrebbe dire che un circolo contenga tutti i poligoni possibili, perchè è più ampio di qualunque poligono, e non perchè contenga i poligoni nella natura propria di ciascuno di essi. E` oltracciò da considerare che Aristotele parla dell' intellezione in sè stessa considerata, come d' unica cosa, come d' una prima sostanza realmente singolare (benchè la stessa prima e singolare sostanza egli senz' accorgersi la faccia poi universale), di cui l' uomo partecipa per brevi istanti, non potendo durare nella contemplazione molto tempo, ma essa, l' intellezione, non perdendo mai la sua natura d' intellezione, rimane eterna, infaticabilmente contemplante sè stessa, che è l' ottima di tutte le cose. Quello dunque che dice dell' intellezione divina, dice d' ogni intellezione come avente la stessa natura o piuttosto essendo la medesima, ma qui congiunta a una natura inferiore di sè, cioè all' anima ed al corpo umano. Ed è in questa maniera di concepire del nostro filosofo che si trova il primo anello col quale congiunge fisicamente Iddio alle cose mondiali. Poichè Iddio è l' intellezione pura di sè stessa, immobile, immutabile: quest' intellezione è il bene, la vita (1). L' uomo è un ente che per brevi istanti partecipa di quest' intellezione, e però di Dio. Quest' intellezione costituisce un medesimo coll' inteso. L' inteso è la forma. Le cose del mondo partecipano della forma e della materia. Ma questa forma non è intellezione se non in potenza, fino che è unita alla materia; l' atto intellettivo è impedito dalla materia. Ma quando queste cose materiali agiscano per via de' sensi nell' anima umana, allora quest' anima con una sua facoltà che è la mente, separa quella forma dalla materia. Allora quella forma nell' anima è una cosa coll' intellezione. Questa dottrina risulta da tutto l' insieme de' diversi luoghi paralleli dell' opere d' Aristotele, di cui molti abbiamo già riferiti. Il seguente ne fa la conferma. Dopo dunque che Aristotele ebbe mostrato necessità, che l' intellezione per sè abbia sè stessa per oggetto, e quindi che l' intellezione e l' inteso sieno una stessa cosa, si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . A questa obbiezione risponde dubitativamente come suole, ma esprimendo però il suo costante pensiero, [...OMISSIS...] . E questo poi afferma dicendo che la cosa, cioè la forma che è nelle cose, è ella stessa la scienza, come noi abbiamo mostrato anche di sopra, poichè dice: [...OMISSIS...] . Le quali ultime parole (3) vengono a dire che non c' è intellezione separata dall' inteso nè inteso separato dall' intellezione, ma l' intellezione dell' inteso è una sola entità, che si dice semplicemente intellezione . Dice dunque, che nelle scienze fattive la cosa è l' oggetto inteso privo di materia; nelle speculative la cosa è l' intellezione stessa. Ma poichè anche in quelle c' è intellezione, e anche in queste l' inteso, non c' è in verità che un' intellezione, cioè l' intellezione dell' inteso. Propone poi un altro dubbio, [...OMISSIS...] . Vuol dunque dire che la facoltà di giudicare e di raziocinare, cioè di comporre e di dividere, ha una operazione passeggera, e in questo passaggio non istà il perpetuo ben essere, [...OMISSIS...] , perchè il movimento non è atto compiuto; ma si trova quel ben essere, quando giunta alla fine si riposa nella contemplazione dell' ottimo: questo però non è essa stessa, bensì altro, [...OMISSIS...] . Ma l' intellezione per sè, è l' ottimo ella stessa, e però è intellezione di sè stessa, e quindi non composta, non mutabile, e tale che non può cessar mai. Questa dottrina Aristotelica per la quale il primo movente è il Bene, e questo bene non è altro se non l' Eterna intellezione , che ha per unico oggetto inteso sè stessa, molte difficoltà suggerisce al pensiero. Primieramente , quella che abbiamo accennata, che « una pura intellezione di sè stessa »è cosa assurda, e a questa non soccorre, come dicevamo, il pensiero aristotelico. Di poi l' altra pure toccata, di fare che Iddio non conosca le cose mondiali; a cui pure vien meno il sistema. Ve n' ha una terza a cui il sistema in qualche modo risponde, ed è questa: « se l' eterna e suprema intellezione non ha per oggetto che sè stessa, onde vengono le idee determinate, le forme delle cose mondiali che, separate dalla mente, sono intelligibili? O che cosa riceve il mondo da quell' intellezione eterna, se da essa non gli vengono le forme? ». Rispondere a questa domanda è il medesimo che continuare l' esposizione che stiamo facendo del sistema aristotelico, quale risulta dai libri che abbiamo. Aristotele dunque, considerando astrattamente la natura della perfezione e dell' imperfezione, ripose il concetto della perfezione somma nel puro atto , e dell' imperfezione somma nella pura potenza . Provveduto di questi due concetti, egli concepì una gerarchia tra tutti gli enti per modo che il luogo più basso si tenesse dalla mera potenza , che fu detta anche materia prima , e il luogo più di tutti sublime si tenesse dal puro atto , ossia da Dio e tra l' uno e l' altro estremo gli enti medŒ si distribuissero in una scala di maggiore o minor pregio, secondo che avessero più di atto, e meno di potenza, o viceversa. Ora questo puro atto lo trovò nell' intellezione che non avesse per oggetto altro che sè stessa. E in fatto le cose intelligibili hanno più di atto delle sensibili, e nell' ordine delle intelligibili, ciò che vi ha di più attuale è l' intellezione , e tra le intellezioni quella che non ha bisogno d' altro che di sè stessa per esser tale, e però che non dipende da alcuno oggetto, eccetto sè stessa. Questa dunque è di tutte le cose la più nobile, la più perfetta, il bene per essenza, l' ottimo, l' onorevolissimo, il divinissimo. Questo è il concetto aristotelico dell' entità ottima e perfettissima di tutte, che rimane nondimeno priva d' ogni azione propria fuori di sè medesima, nè può conoscere altro, nè operar altro, tutta essendo la sua natura attuata ed esaurita nell' istesso atto dell' intellezione di sè stessa, onde al Dio d' Aristotele vien meno l' onniscienza, l' onnipotenza, e la provvidenza, come abbiam detto. Un tal ente è necessario, secondo Aristotele, che s' ammetta veramente sussistente, secondo il principio che « « le sostanze singolari sono anteriori alle universali e queste non possono stare senza di quelle »(1) ». E qui si osservi, come in fondo questo argomento aristotelico non differisce dall' argomento a priori proposto da S. Anselmo, e dopo di lui da tant' altri, ridotto dal Leibnizio a questa forma: « « Iddio è possibile; dunque sussiste » (2) ». Infatti a che in fin dei conti si riduce il pensiero Aristotelico sciolto dalle pastoie? A questo: « La sostanza possibile (o universale) non può stare senza la sussistente: ma quella c' è, dunque anche questa ». Un secondo argomento poi con cui Aristotele dimostra la sussistenza di Dio, è quello da noi esposto, cioè la necessità d' un Primo Motore. Questo, più veramente, non è un secondo argomento, ma l' applicazione del primo al movimento locale, uno de' quattro movimenti da lui distinti. Ma nella mente d' Aristotele manca, come già abbiamo osservato, la precisa e costante distinzione tra il vero singolare , che è l' ente reale, e l' universale : e l' infimo tra gli universali è preso da lui per singolare. Quindi molte fallacie di ragionamento, e il distruggere poi quello che aveva prima stabilito. Questo gli accade per non aver penetrata abbastanza la natura dell' essere oggettivo, e aver creduto che ogni oggetto dell' intuizione intellettiva dovesse essere necessariamente un predicato . Distinse dunque la sostanza prima dalla sostanza seconda , e volle che la prima non si predicasse d' alcun altro subietto (1), e che la seconda si predicasse della prima. Così pareva, che avesse distinto chiaramente il singolare reale dall' universale, la sostanza reale dalla sostanza ideale che si predica di quella. Ma questa distinzione gli sfugge di mano per non avere afferrata abbastanza la natura del reale , e non aver inteso che questo solo è quello che costituisce il singolare . Eccone la prova. Nel VII de' « Metafisici » dopo aver detto che la sostanza prima è quella che non si predica d' altro, trova insufficiente questa proprietà, e finisce col conchiudere che « « la sostanza si predica della materia, della sostanza poi tutte l' altre cose » », [...OMISSIS...] . Quella sostanza dunque che prima non si predicava di nulla, ora si predica della materia. Chi non vede qui la confusione del reale e dell' ideale? Poichè o parla d' una sostanza reale , e in tal caso non si predica certamente nè della materia, nè di cosa alcuna: ovvero parla d' una sostanza ideale , e questa d' altro non si predica che della sostanza reale . Come dunque si può dire che la sostanza si predichi della materia? Evidentemente questo non ha luogo se non intendendo, per sostanza , talune forme aventi un nome sostanziale, ma che veramente sono accidentali, come se cogli stessi elementi corporei si componessero due corpi di nome diverso, poniamo il vino e l' aceto; in tal caso le forme indicate da questi nomi si potrebbero predicare della materia, dicendo per esempio: « questo è vino », e: « quest' è aceto », cioè « questa materia è vino » « questa materia è aceto ». Ma in tal modo « il predicarsi la sostanza della materia », vale ugualmente nell' ordine reale e nell' ordine ideale: e in quest' ultimo ordine è sparito affatto il singolare; giacchè la materia dell' aceto concepita come possibile, è anch' essa universale, non allo stesso modo della forma, ma come una possibilità indeterminata a questo piuttosto che a quell' altro pezzo di materia. Ripetiamo che questa mancanza d' una ferma distinzione tra la natura del reale , e la natura dell' ideale o dell' oggettivo accadde ad Aristotele, per aver egli considerate le idee e ogni oggetto intellettivo, unicamente come predicati delle cose (1), e considerati i reali unicamente come subietti, a cui s' attribuiscono que' predicati. Egli non s' accorse dunque: 1 che un ideale si poteva predicare tanto d' un reale, quanto d' un ideale: onde il predicato era sempre ideale, ma il subietto poteva essere tanto ideale, quanto reale; 2 che quindi allora, quando si predica qualche forma accidentale o parziale d' un subietto reale, c' è sempre nascosta una doppia predicazione, l' una, in cui tanto il subietto quanto il predicato sono entità mentali o ideali, l' altra in cui il subietto è reale e il predicato ideale. Così in questa proposizione: « questo era vino e divenne aceto », c' è implicita una predicazione tra un subietto mentale (2) e un predicato ideale, poichè il subietto « questo », non è un reale determinato, non è nè aceto nè vino, e però è un ente mentale, a cui si può attribuire poi indifferentemente la qualità di vino e quella di aceto . Aceto e vino sono due universali che s' attribuiscono ad un ente mentale che è la materia significata colla parola « questo ». C' è di più poi l' affermazione che questa materia esiste realmente prima nella forma di vino e ora in quella di aceto: e il predicarsi « l' esistenza in forma di vino e d' aceto »è lo stesso che predicarsi « l' idea della sostanza determinata », del vino e dell' aceto, cioè della sostanza reale. Ogni subietto dunque ed ogni singolare, secondo Aristotele, ha la sua natura dall' universale, onde dice: « « E` manifesto dalle cose dette che è necessario attribuire al subietto » » (alle prime e singolari sostanze), « « il nome e la ragionedi quelle che si dicono del subietto »(3) », che sono le sostanze seconde e universali. Se dunque le sostanze singolari hanno la loro ragione o quiddità, come pure il nome, dalle sostanze universali e ideali: consegue, come abbiamo osservato già prima, che le sostanze singolari non sarebbero senza le universali, che contengono il loro essere: benchè Aristotele dica il contrario, cioè che le universali non sarebbero senza che ci fossero prima le singolari. Fatto sta che Aristotele parla sempre de' singolari, attribuendo loro i predicati universali, e in questi, oggetto dell' intelletto, ripone costantemente l' essere, [...OMISSIS...] , di quelli. Lo stesso adunque egli fa anche della prima e divina sostanza, e con questo ne guasta necessariamente il concetto. Poichè attribuendo a questo suo Dio una natura comune, distrugge con ciò quello stesso Dio, che aveva prima costituito, e rende il sistema razionale ed astratto. Infatti attribuisce al suo primo motore l' essere atto purissimo, e prima intellezione; in modo che tutta la sua eccellenza consiste e deriva nell' avere questa condizione di puro atto e di pura intellezione. Essendo dunque i concetti « di atto e d' intellezione »di natura loro universali e comuni, Aristotele, osservando che tutti gli enti della natura tendono naturalmente ad uscire dalla potenza e a mettersi in atto, dichiarò che in tutti era una continua tendenza verso Dio. In questo modo insegnò (e certo c' è un lato di vero in tale sentenza, ma involge ancora del falso), che la natura divina poteva e doveva essere appetita da tutte le cose dell' universo. Diede dunque il nostro filosofo a tutti gli enti mondiali un intrinseco appetito , tendente al sommo bene, cioè all' ultimo perfetto atto, in cui nulla più resti di potenziale, supponendo che tutti quelli che ci potessero giungere, con questo appunto otterrebbero la divina natura, che in tale purità d' atto consiste. Ma onde avviene, che non tutti gli enti mondiali, nel loro perpetuo conato di giungere al puro atto, non ci pervengono, e alcuni più, alcuni meno vi s' avvicinano? Aristotele risponde, perchè vi hanno diverse materie e potenzialità (1). Se non constasse l' universo che d' una sola materia, tutti gli enti conseguirebbero la stessa forma, e in tal caso non ci sarebbe diversità tra gli enti componenti il mondo. Le materie dunque, ossia le potenzialità, sono diverse, in quanto che nel loro sforzo all' atto, cioè verso il sommo bene, non arrivano che a certi atti ossia forme, a cui sono in potenza e non ad altre. Ciascuna materia dunque non può arrivare nel suo naturale movimento che a certe forme ultime per essa. Ma non vi è sempre arrivata; quindi ciascuna trovasi in una serie di stati successivi, di minore e maggior perfezione, secondo che è più o meno lontana d' aver raggiunta l' ultima sua forma. La materia priva al tutto di forma non è che un' astrazione della mente, ma ciascuna materia può esser fornita di forme meno perfette, come il seme ha una forma meno perfetta della pianta già svolta. Ogni materia dunque, vestita sempre d' una forma qualunque, è dotata, secondo Aristotele, di due caratteri: 1 d' una forza istintiva verso il suo bene, cioè verso la sua maggiore attuazione, che è la causa finale, [...OMISSIS...] ; 2 della privazione , ossia mancanza di quella forma ultima o perfezione a cui tende (1). Tende dunque a cacciare da sè questa privazione, onde nella generazione d' un ente c' è un cangiamento « da ciò che ha la privazione in ciò che non ha la privazione », ma questo cangiamento si fa dalla forza istintiva che è nella materia avente una data forma (2). E così scioglie Aristotele il sofisma di quelli che dicevano niente potersi generare, perchè: « non potea generarsi dall' ente, perchè questo essendo già, non si genera, nè dal non ente, perchè il non ente nulla può fare ». Aristotele risponde che si genera dalla materia la quale in quanto ha la forza istintiva si può dire ente , e in quanto ha la privazione si può dire non ente ; ma la proposizione « si genera dall' ente », come pure la sua contraria « si genera dal non ente », sono vere in quanto s' intenda, che per accidente si genera dall' ente e dal non ente , in quanto con questi nomi si vuol chiamare « « l' istinto generativo che è in parte » » (cioè in potenza) « « l' ente che genera e non è ancor generato, e in parte non è » » (cioè in atto), « « onde tutto ciò che viene generato in parte è già, e in parte non è »(3) ». Sebbene dunque Aristotele chiami Iddio il primo motore di tutte le cose, tuttavia in questo sistema non è già esso quello che mova fisicamente la natura o a questa imprima un impulso meccanico o reale, o che le somministri le forze. Tutte le forze di muoversi sono già insite nella natura; e il Dio d' Aristotele non è che l' ultimo termine di questo movimento, chè da se stessa eseguisce la natura verso di quello che ella appetisce, cioè verso il bene, il bello, l' ultimo qualunque sia, che essa è atta a raggiungere. « « Poichè, dice, essendoci un certo chè divino e buono e appetibile, noi diciamo esserci qualcosa contrario a lui » » (la privazione) « « e qualcosa che in lui tende e lui appetisce, secondo la propria natura »(1) », che è appunto la tendenza insita della materia avente una data forma imperfetta. Tra le quali materie ce n' è una nell' universo che arriva ad attignere la specie altissima e divinissima, come la chiama, cioè la mente, e questa è un certo corpo che ha in potenza la vita, come a suo luogo meglio dichiareremo. Aristotele dunque descrive il divino, il buono, l' appetibile così formalmente e astrattamente, che cessa d' essere una sostanza singolare. Di che è prova manifesta questa, che, come apparisce dal brano ultimamente citato, egli gli dà un contrario; quando assegna per carattere costante delle sostanze singolari, il non avere contrario alcuno (2). Oltre di che egli dice espressamente, ricadendo nelle dottrine di Platone, che è migliore ciò che è nel genere , di ciò che non è nel genere, come la giustizia che è nel genere del bene è migliore dell' uomo giusto che non è nel detto genere (3). E` dunque una natura universale, che può essere conseguita da più individui. E quantunque ciascuno di questi lo faccia di natura semplice e puro atto, non lo fa però unico. E infatti dopo averlo detto semplice, s' affretta a far osservare a suoi lettori, che « « l' esser uno e l' esser semplice non è lo stesso: poichè uno significa misura, semplice poi certa abitudine della stessa cosa »(4) ». Ma vediamo quante difficoltà e contraddizioni involga su di ciò la dottrina aristotelica. Dopo aver detto che tanto l' appetibile [...OMISSIS...] , quanto l' intelligibile [...OMISSIS...] movono senza esser mossi, il nostro filosofo aggiunge che « « il primo appetibile e il primo intelligibile è il medesimo » » [...OMISSIS...] , di maniera che da questo primo, che è quasi la punta dell' angolo, movendo, la serie si divide in due, l' una d' appetibili, l' altra d' intelligibili. Ora il primo appetibile è il volibile, [...OMISSIS...] e questo è il vero bello, [...OMISSIS...] , distinto dal bello apparente, [...OMISSIS...] , che non è volibile, ma concupiscibile [...OMISSIS...] : il volibile, dunque, s' identifica col primo intelligibile. Ma qui prima di tutto la distinzione tra il bello apparente e il bello vero , cioè tra il sensibile o concupiscibile e l' intelligibile o volibile, appartiene al sistema di Platone da cui è tolta, ma in quello d' Aristotele è un fuor d' opera. Poichè la distinzione s' intende quando si pone con Platone, che il vero essere delle cose sensibili giaccia nelle idee, e i sensibili non sieno altro che ritratti di quelle: allora colà è la verità e qua l' apparenza. Ma come può aver diritto Aristotele d' ammettere questa distinzione, se vuole, in que' luoghi dove se la prende con Platone, che il vero essere delle cose non sia già nelle idee, che nega, ma nelle cose stesse sensibili? E` una delle tante sue incoerenze: dopo aver rifiutate le dottrineplatoniche, vi ricorre ogni qualvolta sente di non poter andare avanti senz' esse. Dice dunque che nella serie degli intelligibili la sostanza è la prima, [...OMISSIS...] (1), e che delle sostanze è prima quella che « « è semplicemente e secondo l' atto » », [...OMISSIS...] , e questa è « « l' intellezione stessa » », [...OMISSIS...] . Ora l' intellezione, questa che è prima nelle cose intelligibili, è anche il principio della volizione, perchè si vuole e desidera ciò che s' intende, e non viceversa. Ora ciò che move la volizione, ciò che è per sè volibile, è il vero bello; poichè « il bello e il volibile per sè è nella stessa serie », ma il vero bello è anche ciò che muove l' intellezione: il volibile dunque e l' intelligibile primo e nel suo primo atto s' immedesimano. Mette dunque il bene in ciò che è primo , ma questa qualità di esser primo, è relativa alla serie a cui il primo si riferisce, quindi Aristotele distingue « « l' ottimo che è sempre tale, e l' ottimo che è tale di proporzione » », [...OMISSIS...] . Ora questi due ottimi hanno essi qualche cosa di comune ? Se parla dell' ottimo sotto una concezione comune, Aristotele torna al comune, e così manca di nuovo al suo stesso sistema; chè il comune , egli osserva (1) con molta sagacità, è potenziale, e come tale, cioè come comune, non è l' ultimo atto dell' essere. Questa osservazione importante si renderà più chiara da ciò che diremo. Distingue dunque Aristotele l' intellezione , che non ha per oggetto altro che sè stessa, - e questa, secondo lui, è Dio; - dall' intellezione che ha altri oggetti, cioè degli intelligibili diversi, da sè stessa, come sono tra l' altre le intellezioni umane , le quali, dipendendo da oggetti stranieri a sè, non perdurano nel continuo atto della contemplazione, ma la mente umana per lo più è in istato di potenza, per breve tempo poi dura nell' atto contemplativo. Così il sonno e la veglia della mente si succedono nell' uomo. Ma le intellezioni umane e l' intellezione divina sono ugualmente intellezioni: ancora dunque hanno di comune l' essenza generica d' intellezione. Se poi v' ha un' essenza generica che abbraccia le intellezioni particolari, che cos' è quest' essenza generica ? L' intellezione suprema sarà dunque composta di genere e di differenza? Ma in tal caso ella non è più cosa semplicemente in atto, ha qualche cosa di potenziale, cioè la sua radice generica. Ritorna dunque sempre la stessa difficoltà, e contraddizione. Che dunque Aristotele abbia veduto la necessità d' un primo essere e che questo sia atto purissimo; e l' abbia veduto, forse meglio di tutti i suoi predecessori, certo è gran cosa, e costituisce il suo sommo merito. Ma seppe porre la questione, non risolverla. Come si potea risolverla? In una sola maniera dovuta alla luce del cristianesimo: cioè colla dottrina che fa di Dio un atto puro che non ha nulla affatto di comune coll' altre cose, le quali non sono simili a lui, ma solo analoghe (2). E veramente, se ci fosse un' essenza (non la semplice esistenza) comune a Dio ed alle cose mondiali, quest' essenza sarebbe superiore a Dio ed alle cose mondiali, e da essa dipenderebbe l' uno e le altre; sarebbe una forma dell' intelligenza, colla quale si conoscerebbe Dio e le cose mondiali, cioè si conoscerebbe Dio con un lume che non sarebbe suo proprio, ma comune alle creature: questo lume sarebbe veramente divino: e così un' essenza veramente divina verrebbe in composizione da una parte con Dio, dall' altra colle cose mondiali. E infatti questa conseguenza assurda si manifesta appunto nel sistema aristotelico, il quale non si contenta di dare la divinità al primo motore, ma la sparge altresì a piene mani per tutto l' universo. Il che, se da una parte mostra il vizio fondamentale del sistema, dall' altra mostra la penetrazione dell' ingegno che l' ebbe concepito: essendone prova l' ardire di questa conseguenza. Vede bensì Aristotele, che il primo motore deve essere unico numericamente, appunto perchè non deve avere alcuna materia o potenzialità: « « Tutte quelle cose, dice, che sono molte di numero, hanno materia » », cioè potenzialità « « la prima quiddità non ha materia: poichè è atto che ha in sè il suo compimento (1). Dunque il primo motore immobile è uno di ragione e di numero » » (2). Ma questo non basta a fare che il primo essere non abbia alcuna potenzialità in sè; non basta a fare, che la sua essenza non sia una specie, che non si realizzi se non in lui; conviene di più che nessuna sua parte o qualità sia tale; se la qualità d' intellezione può essere una specie comune, in tal caso, egli ha già in sè un elemento di natura potenziale, e c' è qualche cosa che è potenza (la qualità d' intellezione), qualche cosa che è atto di questa potenza, l' avere quest' intellezione per atto sè stessa. Quindi il politeismo aristotelico. E veramente nel concetto d' un' intellezione , che intende sè stessa, non si trova la ragione per la quale debba essere una di numero. Laonde Aristotele stesso vedesi obbligato di dedurre la prova della unicità del primo motore non dall' intrinseca sua natura, ma da ragioni esterne, com' è quella dell' unicità dell' effetto, cioè dell' unico movimento del primo cielo; [...OMISSIS...] . Per dimostrare dunque l' unicità del primo Motore ricorre alla supposizione che un primo cielo, detto il primo mobile, si mova d' un movimento unico ed uniforme. Ognuno sente come alla dimostrazione manchi il fondamento su cui si vuole edificare. Ma non è questo solo che vogliamo osservare; poichè foss' anco vero che esistesse questo primo mobile celeste, e procedesse bene l' argomento, esso tuttavia non sarebbe cavato dall' intrinseca natura del primo motore, e darebbe luogo alla pluralità d' altri primi motori. E veramente Aristotele stesso non trova assurdo, anzi necessario d' ammettere altri motori eterni, se non primi. E se non primi, non differiscono però dalla natura del primo nè per riguardo all' eternità, poichè sono eterni come lui, nè per la condizione d' essere motori immobili. [...OMISSIS...] Laonde non con alcun argomento a priori inducente necessità, ma argomentando in qualche modo da' fenomeni sensibili degli astri, senza saper liberarsi dalle più antiche superstizioni, Aristotele s' ingegna di comporre filosoficamente un politeismo e si dà il vanto oltracciò di essersi molto elevato sui pregiudizi volgari. [...OMISSIS...] Pareva dunque ad Aristotele d' essersi molto innalzato sui volgari pregiudizŒ coll' aver negata alla divinità la forma d' uomini e di bestie, e attribuita quella di astri! Dall' esserci dunque più movimenti ne' cieli, argomenta Aristotele che ci devono essere più Iddii, o prime sostanze, immobili e motrici, che chiama anche primi enti, e che fa ragione dover essere 55 o 47, altrettante quante le sfere che si credevano percorse dagli otto astri (2). Ora a ciascuno di questi si può applicare l' argomento con cui egli provò che il primo Motore dee essere « « un' intellezione che ha per oggetto sè stessa » » perchè l' intellezione è l' ultimo atto, e se avesse un oggetto intelligibile da sè diverso, dipenderebbe da questo nel suo atto, perchè «nus hypo tu noetu kineitai,» onde avrebbe dell' atto e della potenza e però non potrebbe essere in una eterna e continua attuazione. Se dunque Aristotele ripone la natura del primo Motore in un atto intellettivo che finisce in sè stesso, sempre immanente ed immobile, per la stessa argomentazione gli altri eterni motori hanno col primo la stessa natura, e la loro differenza rimane che sia accidentale, derivata dal diverso e più ristretto moto che producono. Ma che i movimenti sieno grandi o piccoli, che sieno grandi o piccole le sfere, la differenza rimane accidentale. Quindi non si può dire, come pretende Aristotele, che non abbiano la specie o almeno il genere comune: e se comunicano nel genere, già contengono tutti questi motori, anche il primo, un elemento potenziale, convenendo anche Aristotele, che il genere sia potenziale, come pure l' accidente . E perciò nessuno di essi possono essere sostanze prime, od enti primi, quando l' ente primo, come Aristotele stesso, e in questo eccellentemente, insegna, deve essere atto purissimo e per sè tale, senza mescolanza d' altro elemento. Non giunse dunque Aristotele a un sufficiente concetto della Divinità (3). D' altra parte fondare, non dico la prova dell' esistenza, ma la deduzione della natura di Dio, dall' effetto del sensibile movimento è impossibile. Poichè essendo quest' effetto del moto locale parzialissimo e ristretto allo spazio, che è l' infimo degli enti, esso potrà ben dare il filo a dimostrare che una prima causa debba esistere, ma in nessun modo a far conoscere quale e quanto eccellente ella debba essere. E per ciò stesso non si può dedurre l' unicità del Motore immobile, come infatti non potè inferirnela Aristotele. Pare che faticato il suo ingegno nel combattere gli altrui sistemi, almeno com' egli li acconciava, e in questa lotta avendo molte volte riportato il vantaggio (1), pare, dico, gli venissero meno le forze a sostituire agli errori una perfetta dottrina: poichè spesso avviene che l' uomo stanco del combattimento, e gonfiato della vittoria, diventi poi negligente e troppo sicuro di sè stesso nel governare il soggiogato paese. D' altra parte questi motori che sono causa de' diversi movimenti degli astri, essendo immobili come il Primo, non ricevono alcun moto da questo, e però da questo sono necessariamente indipendenti. E non accade così quello stesso ch' egli rimprovera ad alcuni filosofi che lo precedettero, che «epeisodiode ten tu pantos usian poiusin»? Poichè gli astri da loro mossi avranno un appetito tendente ad essi come tanti eligibili, ma queste stesse « sostanze prime »non avendo moto non hanno appetito alcuno con cui tendano verso la suprema tra queste prime sostanze. Egli è vero che Aristotele dà a queste sostanze l' ordine stesso che hanno i movimenti degli astri da esse prodotti. [...OMISSIS...] . Ma oltrechè in tale sistema manca la ragione sufficiente dell' ordine delle stelle medesime, la differenza tra le sostanze prime ed immobili motrici non è che accidentale, e non determina per ciascuna di esse un' altra natura. Sono tutte cause motrici immobili, sono atti puri, intellezioni che hanno per solo oggetto se stesse. L' ordine, dunque, in cui le dispone Aristotele, sembra appiccicato, non procedente dal sistema, ma veniente dal di fuori. Nondimeno udiamo ancora su quest' ordine Aristotele: « « Convien perscrutare anche questo, in che modo la natura dell' universo abbia il Bene e l' ottimo » » [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si intende come Aristotele non divida già il Bene e l' ottimo dall' universo, ma voglia che sia dall' universo stesso avuto. [...OMISSIS...] . Ammette dunque che il Bene e l' ottimo sia ad un tempo come il duce nell' università delle cose, distinto da questa, e tuttavia sia ancora nell' ordine che risplende in questa università. Il qual ordine è così descritto dal filosofo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole ben chiaramente si vede come Aristotele da' suoi principŒ non avea potuto cavare se non un concetto meschino e imperfetto dell' unità e dell' armonia dell' universo. Invano cita il verso di Omero che loda il governo d' un solo, e dice che gli enti vogliono un buon governo. Poichè egli poi non trova che le entità dell' universo sieno coordinate se non in qualche modo, [...OMISSIS...] , e acciocchè non si creda ch' egli parli d' una ordinazione veramente perfetta ed universale, soggiunge subito, riferendola alle parti, che non però allo stesso modo sono coordinati i pesci, gli uccelli e le piante [...OMISSIS...] , caduta immensa dall' ordine del tutto all' ordine di queste cose speciali, ben mostrando il suo solito modo di vedere e di speculare per forme individuali, senza sapere conservarsi a considerazioni veramente universali. Tuttavia, sebbene secondo lui le cose sieno indipendenti, quant' è al fine, le une dalle altre, pure dice « « non sono così fra loro, che l' una abbia a che fare coll' altra, ma sono ordinate, ad un certo chè » », [...OMISSIS...] . Ma quest' uno finale a cui sono ordinate le cose è rassomigliato all' ordine e al bene comune di una famiglia; «eis to koinon, eis to holon», onde non c' è più un ente supremo a cui tutto sia ordinato, ma a questo è sostituito nella famiglia qualche cosa di comune , senz' accorgersi che il bene comune è appunto quello che più disdice a' suoi principŒ, che dichiarano (e giustamente) il comune un essere potenziale, e non separabile dai suoi subietti individuali, e però non l' atto finale delle cose; e lo stesso si può dire del concetto dell' ordine che non è certamente una sostanza individua , la quale è per Aristotele la prima di tutte le cose. Di più, riconosce nell' universo i difetti stessi, che cadono nell' umano reggimento della famiglia, e questi descritti da lui, dirò anche, con esagerazione, poichè vuole che una parte de' membri di essa, cioè i figliuoli soli, operino cose ordinate, [...OMISSIS...] , gli altri, cioè gli schiavi e i giumenti, operino per lo più a caso, [...OMISSIS...] , e poco conferiscano al comune, [...OMISSIS...] . E così fa che vadano a caso alcune cose dell' universo (1), onde la disunione e la discordia, [...OMISSIS...] (se bene intendo queste controverse parole), ed altre sole tiene ordinate al tutto. Ed è conseguente, dal momento che la prima Causa non è che semplicemente motrice, come intelligibile ed appetibile, e però essa non ha una vera efficacia e un vero governo dell' universo, che si move secondo le forze sue proprie, eternamente ed indipendentemente esistenti, onde qui stesso dà questa cagione, dell' esserci alcune entità che operano le cose ordinate ed altre le casuali e che tale è la loro natura, principio del loro operare, [...OMISSIS...] . Noi diremo in appresso come il Bene e l' ottimo aristotelico possa essere ad un tempo separato e compreso nell' universo; ma vogliamo osservare il valore di quelle parole: « « E` dunque ente per necessità, e in quanto è necessità, è bene, e così è principio. Da tal principio dunque il cielo e la natura dipende »(1) ». Prendendo queste parole isolatamente, parrebbe che Aristotele parlasse del solo primo motore, e che volesse dire che da esso dipende l' universo. Ma non così. Aristotele parla del motore immoto, e tutto ciò che dice, conviene perfettamente a ciascuno de' motori immoti: onde, come fa spesso, parla d' un individuo specifico o vago, e non d' un vero individuo reale. Dà la teoria del motore, riservandosi nel capitolo seguente a mostrare che non è un solo, ma più. Dipende dunque tutto il resto dalla sostanza pura, ma, come queste sostanze pure sono molte, neppur questo luogo contribuisce a restituire all' universo la perfetta unità e armonia, che in tanti luoghi gli toglie. Veniamo ora ad altre questioni, cagione come le precedenti d' infinite dispute tra i commentatori (2). Se ciascuno dei primi motori move il suo astro, a che il moto del primo cielo mosso dal Motore supremo? - Il primo mobile gira con un moto uniforme, secondo Aristotele, e produce il movimento diurno, che si comunica a tutte le sfere e a tutti gli astri. Ma poichè questi oltracciò hanno i movimenti loro propri, perciò introdusse Aristotele, seguendo in parte più antiche favole, le altre sostanze motrici, indipendenti dalla prima, che non dà che un moto solo. Laonde ognuno degli astri partecipa del movimento del primo cielo, che viene dal supremo Motore, e nello stesso tempo ha i motori suoi propri. Ma lasciando da parte questo meccanismo immaginario de' corpi celesti, veniamo alla parte filosofica. Che cosa ha da fare il movimento locale coll' intellezione pura ? Come l' intellezione pura può essere il Bene, e l' oggetto dell' appetito di tutta la natura? Come appetendo l' intellezione può nascere il moto locale? Il solo proporre queste questioni parmi sufficiente a dimostrare che Aristotele fece una mostruosa mescolanza di due o tre ordini d' idee disparatissime, che si trovarono nella sua mente: da una parte delle speculazioni razionali sui concetti ontologici di sostanza, d' intelligenza, d' idee e simili; dall' altra delle osservazioni de' fenomeni sensibili e naturali; in terzo luogo delle tradizioni favolose e superstiziose annesse ai fenomeni naturali, specialmente celesti. Di tutte queste cose, senza badare troppo sottilmente se si potevano unire e tenere insieme, compose con ammirabile miscuglio il suo sistema. Pure crediamo che si possa spiegarlo investigando le analogie , che servirono al suo pensiero di cemento tra quei tre ordini di pensamenti (1). Il principio della filosofia aristotelica è l' atto : principio solido e luminoso. Aristotele disse, o volle dire: « Avanti a tutte l' altre cose è l' atto : dall' atto tutte dipendono »: per questo rigettò come principio l' idea di Platone, perchè non trovò che l' idea sia puro atto: e questa osservazione sarebbe stato un progresso, se non fosse stata una distruzione di ciò che s' era trovato precedentemente. Ma Aristotele vide dopo di ciò, che in tutti gli enti naturali c' era del potenziale, ma che tutti tendevano, secondo il naturale sviluppo, ad uscire al maggiore loro atto possibile. Disse dunque che l' atto era il bene, e che tutte le cose appetivano il bene. Questo concetto del bene non solo era una entità comune , ma comunissima ed astrattissima. Quando dunque si parla d' un bene, appetito da tutte le cose, che hanno in sè qualche potenza, non si parla d' un ente realmente unico col quale ogni cosa tenda a congiungersi, ma si parla di tanti beni , quanti sono gli atti compiuti a cui possono arrivare le diverse cose, ciascuna secondo la sua propria natura (1). Ora l' atto compiuto di ciascuna cosa fu da Aristotele chiamato specie (2), e la potenzialità della cosa materia . Il filosofo si fece a classificare questi atti o specie. La prima classificazione nasce dalle diverse materie in potenza a diverse forme. Ma tutte queste specie hanno qualche carattere comune , quantunque tra di loro differiscano. Questi caratteri comuni si riducono anch' essi in alcune classi, che servono di fondamento ad altrettanti generi di specie. Le classi di questi caratteri comuni alle specie di tutti gli enti sono le Categorie (3). Se si osserva l' ordine che hanno le categorie tra loro si trova che tale ordine considera: 1 l' ente, e a questa considerazione appartengono le tre prime categorie, la sostanza , il quale e il quanto ; 2 le relazioni di più enti o entità, e a questa considerazione appartiene la quarta categoria che è appunto la relazione , di cui le altre sei, cioè il dove , il quando , il sito , l' avere , l' agire , il patire , sono classi minori: perchè tutte queste sono relazioni . Le tre prime poi si riducono a due, cioè alla sostanza ed all' accidente ; chè il quale e il quanto sono classi minori d' accidenti. Onde tutte le dieci categorie Aristoteliche si riassumono in tre sommi generi, la sostanza , l' accidente e la relazione . Le specie adunque hanno questi tre caratteri comuni, di qualunque ente sieno specie, che esse sono sempre o sostanza, o accidente, o relazione. Ma poichè gli enti differiscono tra loro per la materia diversa, o per una potenzialità ad atti, ossia a specie diverse, perciò la sostanza varia secondo gli enti specificamente diversi, e non è una se non per analogia, e così è da dirsi degli accidenti qualitativi e quantitativi. Ma tra gli atti ossia specie c' è una gradazione, di maniera che un atto è più ultimato e perfetto d' un altro, e quindi suppone nell' ente meno di potenzialità. Quell' atto poi che dipende da un altro per esistere è meno perfetto e ritiene più del potenziale. Paragonati dunque sotto quest' aspetto que' sommi generi analogici di specie, vide che l' accidente dipende dalla sostanza , sicchè quello non si può concepir senza questa, e questa sì senza quello (1). Come dunque l' atto è anteriore alla potenza, così Aristotele stabilì che nell' universo prima delle entità e anteriore di concetto fosse la sostanza . Ma questa sostanza, come dicevamo, non è che una classe analogica, cioè tale che comprende degli enti diversi, solamente tra loro analoghi. Conveniva dunque cercare una classificazione di questi enti, per vedere quale sostanza fosse la prima. Gli enti dunque secondo questo rispetto furono divisi in sensibili e intelligibili . Così le specie o forme si classificarono in tre modi. 1 In un modo analogico , e la base di questa classificazione sono i caratteri comuni alle specie de' diversi enti. Questa classificazione distingue le specie in sostanziali, accidentali di qualità e quantità, e relative . 2 In un modo entico , e la base di questa classificazione è la diversità (specifica e individuale) degli enti, diversità che, secondo Aristotele, nasce dalla natura di ciascun ente risultante dalle forme diverse di cui è suscettivo. Questa classificazione distingue le specie in sensibili e in intelligibili con tutte le suddivisioni degli enti sensibili e intelligibili (2). 3 In un modo ultimativo , secondo che le forme di ciascun ente sieno sostanziali, sieno accidentali, sono prodotte più avanti verso l' ultima loro perfezione. Ma l' ultimazione stessa delle specie, cioè l' ultimo loro atto di perfezione, o è per sè tale, o è per accidente . L' ente che ha la forma ultimata per sè, dicesi da Aristotele entelechia , ed è più eccellente di quello nel quale la forma può essere ultimata o no, e perciò, se è ultimata, è ultimata per accidente. Tra le entelechie poi c' è ancora una gradazione, poichè 1 può essere la forma ultimata solo rispetto alla sostanza qual è l' anima umana, che dicesi entelechia , perchè è per sè atto del corpo, e tuttavia è perfettibile rispetto alle sue specie o forme accidentali; 2 può essere ultimata totalmente, di modo che non ci possa esser nulla di potenziale nè di accidentale, e così sono entelechie le prime sostanze motrici dell' Universo. E` da considerare la singolare contraddizione che si riscontra in Aristotele tra' suoi principŒ ontologici , e il metodo col quale va filosofando. Egli vuole che si parta sempre dalla sostanza individua , e che tutto si riferisca a questa, come quella natura che ha più atto, a cui tutte l' altre devono riferirsi quasi potenze. Pure il metodo lo conduce sempre ad un ragionare generalissimo, per forma che sotto la stessa parola abbraccia le cose più disparate; il che è quanto dire, ragiona per via di concetti al sommo generici ed astratti. Così, compartendo tutte le cose in atto e in potenza (che sono i due elementi che chiama forma e materia), benchè dica egli stesso che i diversi atti e le diverse potenze, sieno così diverse, che non sono une se non per analogia (1): tuttavia, dimentico di ciò, parla degli atti in universale come avessero le stesse proprietà essenziali. Con questa maniera di ragionare egli perviene a conchiudere che l' atto puro , per sè forma, è intellezione, nè riconosce altri atti puri fuori dell' intellezione. E poichè tutte le cose tendono per loro natura all' atto, dunque tutte tendono all' intellezione, benchè tutte non ci arrivino per difetto della loro materia. Stabilisce così un appetito universale verso l' intellezione, nella quale ripone il Bene essenziale. Ora tanto la parola atto quanto la parola intellezione , come abbiamo detto, non indicano che concetti generici e però non rappresentano che il Bene in genere . Nè gli argomenti che adduce Aristotele nel XII de' « Metafisici », c. 7, per provare che ci deve essere un' intellezione pura, hanno alcun valore a provare che quest' intellezione pura sia una di numero, come abbiamo osservato, non vedendosi ragione alcuna intrinseca, per la quale non ci possano esser molte di quelle intellezioni pure: anzi ammettendone molte Aristotele stesso nel c. ., benchè le consideri come inferiori alla prima, anche questo senza addurre una ragione che sorta dalla loro stessa natura. Comechessia, sottomettendo Aristotele i corpi e gli spiriti ad una stessa legge, per quel suo parlare universale e generico, cioè considerandoli come una catena di enti differenti solo secondo la quantità maggiore o minore di potenzialità e di materia e secondo la quantità maggiore o minore di atto o di forma, che sono gli elementi dai quali constano; egli così li classifica, come si può raccogliere da tutto il complesso delle sue dottrine: 1 Forme pure , prive di materia ed ultimate d' ogni parte per sè, sostanze prime, motrici de' cieli e degli astri, entelechie di primo ordine . Bene vero, desiderabile, eleggibile. 2 Forme pure , prive di materia rispetto alla sostanza, ma non rispetto agli accidenti, anime, entelechie di second' ordine . 3 Enti materiati , cioè enti aventi per subietto la materia, cioè una potenzialità: i quali enti si distinguono per le diverse materie , cioè per le diverse potenzialità a forme diverse . Una materia è potenza a certe forme, un' altra a certe altre: questo costituisce la differenza degli enti. Ma anche qui si ha una differenza specifica e non realmente individua, il che non sempre riconosce Aristotele (1). Ma poichè non si dà materia separata da ogni forma, ogni materia ne ha una in atto , e alle altre forme che le convengono è in potenza: o, come dice Aristotele, esistono in essa in potenza. Tutti questi enti, dunque, sono così classificati sopra una stessa base secondo il maggiore o minore grado di atto (2): e tutti hanno una tendenza ad ascendere, cioè a passare da quel grado di potenzialità che hanno ad un' attualità sempre maggiore. Ma perchè alcuni arrivino ad un grado di attualità in questo movimento ascendente, ed altri non vi arrivino, questo è attribuito da Aristotele alle diverse nature della materia ossia della potenzialità: ma la ragione di questa differenza fondamentale tra le materie manca del tutto in Aristotele: perchè suppone, come dicevamo, la materia eterna: così la sua ontologia è in aria, non posa sul fondamento d' una ragione sufficiente. La causa efficiente di questa tendenza e conato continuo degli enti verso l' attuazione, dice Aristotele, è intrinseca a ciascuno, e si chiama natura (1): risulta dalla forma o atto che già hanno nella materia: è potenza e atto insieme congiunti in un ente: l' atto opera nella potenza, operando si perfeziona, la potenza si lascia movere dall' atto che ha in sè, per arrivare ad un atto maggiore (2). La causa finale è dunque l' atto o specie che l' ente vuol conseguire e che ha già in potenza; come l' atto o specie che ha attualmente, è la causa efficiente interna. L' ente dunque che chiameremo materia7forma o potenza7atto è costituito tra due atti, quello che ha, e quello a cui tende; il primo è la causa efficiente , il secondo la causa finale : medio tra l' uno e l' altro ente è il movimento. Descriviamo il movimento, ossia la trasmutazione degli enti di questa terza classe, cioè degli enti materiati , degli enti potenza7atto . La specie a cui tende l' ente che si fa, può appartenere all' uno o all' altro de' quattro generi categorici che abbiamo annoverati, cioè sostanza, quale, quanto e relazione . Se la specie cui tende di conseguire è sostanziale , il movimento dell' ente chiamasi generazione (e il suo contrario corruzione ); se quella specie è qualitativa , il movimento dicesi alterazione ; se è quantitativa , il movimento dicesi aumento ; se quella specie è di relazione e riguarda lo spazio, il movimento dicesi moto locale (3). Il secondo ed il terzo di questi movimenti non migliorano o deteriorano l' ente materiato se non accidentalmente; il quarto non produce che un cangiamento di relazione . Ma il primo movimento, cangiando la forma sostanziale degli enti, li tramuta per intero, o facendogli passare a una classe più nobile di enti, o ad una inferiore. Su questo dunque conviene che ci tratteniamo. Aristotele suppone che ci sia passaggio da una sostanza all' altra. La sua maniera di ragionare degli enti con concetti così universali gli impedì di conoscere la profonda differenza tra i corpi e gli spiriti, tra gli enti che non esistono che come termini d' altri, e quelli che sono principŒ: onde non vide l' impossibilità del passaggio degli uni negli altri. Non concependo egli la scala degli enti formata in altro modo che per via di una graduazione di potenza e di atto , gli parve sempre possibile il passaggio da quella a questo, salvo dove l' esperienza gli mostrava apertamente il contrario; nel qual caso ricorreva alla ragione generale, che « « la natura di quella potenzialità non consentiva quel passaggio »(1) ». Quindi egli vide altresì la possibilità d' un passaggio sostanziale dal corpo all' anima, considerando che quello non differisce da questa se non per una potenzialità maggiore. Le diverse materie, ossia i diversi enti potenziali, sono in potenza a specie diverse. Ora tra questi enti potenziali ce n' anno alcuni, cioè alcuni corpi, che sono in potenza alla specie ossia all' atto della vita. Quando dunque questi corpi in potenza alla vita, e che però appetiscono questa specie sostanziale come loro bene , ricevuto l' impulso necessario, si mettono in movimento e arrivano a quell' atto e a quella specie che hanno già in potenza, allora mettono in essere l' anima ossia la vita. Di conseguente Aristotele definisce la vita l' atto di un tal corpo che ha in potenza la vita: [...OMISSIS...] (2). Così Aristotele definisce l' anima generica, secondo il suo metodo (1), per venire poi alle specie (2). Se poi tutti gli elementi corporei possano naturalmente organizzarsi in modo da avere la vita in potenza, e se questa potenzialità della vita sia un effetto dell' organizzazione, questo non si rileva da Aristotele, e non credo che si sia proposta questa questione (3). Venuto il corpo a questo suo atto che si chiama vita ed anima, rimangono ancora degli atti ulteriori. Poichè l' inferiore e il meno ultimato di questi atti è quello della vita vegetale , e questo basta alla definizione generica dell' anima, onde in una tale definizione Aristotele chiama l' anima in genere entelechia prima , cioè prossima al corpo che la produce e la tiene, come suo subietto, [...OMISSIS...] (4). Quest' anima vegetale si trova separata nelle piante (5). Ma in cert' altri enti l' anima vegetale contiene in potenza la specie della sensitività (6), e quando concorrono le condizioni necessarie a suo tempo il corpo che è passato all' atto dell' anima vegetale, da questa passa all' atto ulteriore che si chiama anima sensitiva . L' anima sensitiva, secondo Aristotele, è sempre contenuta in potenza in un' anima vegetale (7), come quest' anima è contenuta in potenza in un dato corpo naturale organizzato. L' anima vegetale adunque che ha in potenza la sensitività, tende alla specie o anima sensitiva come a suo fine, e a suo bene: chè in grazia del bene opera sempre la natura (.). Ora in un modo somigliante spiega l' origine dell' anima intellettiva . Ella è già in potenza nella sensitiva, come questa nella vegetale, e questa in certi corpi naturali organici. Ma quando viene all' anima intellettiva, distingue da questa, subbiettivamente considerata, la mente , che si cangia col suo ultimo atto in obbiettiva, come abbiamo accennato. Secondo Aristotele, anche il senso conosce (1). Che cosa conosce? Unicamente le specie sensibili . Queste specie o forme sensibili, che nelle cose corporee sono unite indivisibilmente colla materia, nell' anima rimangono senza materia, e però come puro atto (2). Ora avendo stabilito Aristotele che il puro atto è sempre per sè conoscibile (3), anche la sensazione dunque appartiene all' ordine delle cose che sono per sè conoscibili. Ma queste specie sensibili , sebbene prive di materia, sono particolari: e in questo si distingue il senso dall' intendimento, che quello conosce i particolari, questo gli universali (4). Le forme sensibili che sono nei corpi unite colla materia passano all' anima mediante l' atto de' corpi. Ora l' atto de' corpi sensibili e quello della sensitività s' uniscono in un istante e diventano una cosa sola nell' anima che sente (5). Essendo dunque la forma sensibile l' atto del corpo, e questo, pel contatto e per l' azione, facendosi ed esistendo nell' anima stessa, in questa c' è la forma stessa sensibile che prima in potenza era ne' corpi (6). Ma la forma sensibile sebbene sia priva d' un certo genere di materia e rispetto a questa sia puro atto, tuttavia ha in sè ancora della potenza. Infatti giace in essa potenzialmente, secondo Aristotele, la forma intelligibile . E per questo dice che il senso apprende per accidente l' universale in quanto questo è contenuto potenzialmente nel particolare sensibile (7). La facoltà dunque del conoscere, e l' atto conoscitivo non è ancora altro per Aristotele che un' attualità ulteriore del medesimo subietto. Nella natura ci sono degli enti sensitivi, secondo Aristotele, che hanno la virtù in sè di ridurre le sensazioni e imagini avute, ossia le forme sensibili , a quell' atto che hanno in potenza, e che costituisce le forme intelligibili , e per la produzione di questa nuova attualità nasce l' intendimento, e l' anima intellettiva. Queste forme intelligibili non hanno più nulla di sensibile, e sono per sè universali , sono ragioni. Perciò si dice che l' anima intellettiva possiede la ragione, «logon» (1). Senza la forma universale non ci sarebbe il ragionamento, perchè non si dà passaggio dal particolare al particolare, nulla essendovi di mezzo che serva di via, ma l' universale abbracciando molti particolari, fa da veicolo pel quale il pensiero può trascorrere dall' uno all' altro di essi: l' universale dunque è il mezzo del ragionare (2). Tuttavia la parte discorsiva, che ammette errore (3), e che rassomiglia ad un movimento (4), suppone bensì la mente, ma non ne è l' atto suo proprio: quest' atto proprio è l' intuizione dell' universale: la mente in atto, l' intellezione (5). Ma questa mente in atto, secondo Aristotele, è una sostanza da sè, che avviene all' animale, e che non si corrompe, [...OMISSIS...] , onde sopravvive alla morte dell' animale. [...OMISSIS...] E in queste ultime parole si ha la chiave per vincere una difficoltà, che parve fortissima ai commentatori. La esporremo colle parole del Trendelenburg: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa difficoltà deve ripetersi, a nostro avviso, dall' avere Aristotele concepita la natura divina, come una natura impersonale, siccome abbiamo già dimostrato. Sfuggì infatti ad Aristotele, come pure a' suoi predecessori, il vero concetto della personalità. Platone è quello che più distintamente la conosce, ma nè pur egli l' afferra direttamente, e non ne dà un' espressa definizione. Quindi altri subietti reali non compaiono in Aristotele se non la materia (2), che confessa pur egli essere un indeterminato, e che di conseguente non può essere che un subietto estrasoggettivo , una classe di subietti dialettici (secondo le distinzioni da noi introdotte): comparisce l' uomo, senza che sia distinto in esso punto nè poco quell' elemento primo, uno, fondamentale che costituisce la persona (3). [...OMISSIS...] (4). Che l' anima non sia un subietto, ma solo una natura impersonale, si può certamente concedere, se per anima s' intende soltanto o la vita, o ciò che prossimamente dà ad un subietto personale la vita. Ma Aristotele, come dicevamo, accorda il nome e la qualità di subietto alla materia, e al composto, che opera col mezzo della specie; lasciando così la specie priva al tutto di personalità. Ora nella specie ripone la divina natura . Ciò posto, non è più assurdo che questa natura divina impersonale ora si trovi da sè, scevra da ogni potenzialità, ora mescolata colla potenza. Onde nel XII, 10 de' « Metafisici », si propone la questione « « come la natura dell' universo » [...OMISSIS...] «abbia il bene e l' ottimo, se come qualche cosa di separato e esso da sè, o come un ordine, o nell' uno o nell' altro modo » ». (La qual domanda già mostra che Aristotele suppone come fuori di questione, che l' universo abbia il bene e l' ottimo; e fa conoscere il valore dell' espressione « «qualche cosa di separato », [...OMISSIS...] », cioè non significarsi per essa che non sia congiunto coll' università delle cose, ma che abbia natura non mista coll' altre cose). E risponde che il bene e l' ottimo è appunto nell' uno e nell' altro modo (1), come un esercito che ha il suo bene nel suo capitano, ed anche nell' ordine delle schiere, benchè questo sia pel capitano, e non viceversa. La natura divina , com' è concepita da Aristotele, è sparsa per tutto e mista colla potenza, ma è anche da sè, immista e pura; e in quest' ultimo stato, le conviene propriamente il nome di Dio. Come poi, essendo in tal modo diffusa la natura divina del bene, ella sia una e singolare e non sia piuttosto una natura comune, questo non dice Aristotele; e non pare che abbia sentita la forza della difficoltà, a cagione che, senz' accorgersi, ed anzi negandolo, egli definì il divino, come abbiamo osservato avanti, unicamente mediante concetti comuni i quali non ammettono un' unità reale , ma solo ideale e d' essenza. Tuttavia su quest' unità torneremo tra poco. Tenedo dunque presente che Aristotele s' era formato un concetto impersonale della divina natura , e che il suo sistema manca della ragione sufficiente , che spieghi perchè l' universo sia così e così, quando al pensiero non ripugna che fosse altramente, si comprende ch' egli ammettesse un' ipotesi fondamentale, che cioè la divina natura mista colla materia e in uno stato potenziale tende continuamente a liberarsi dalla materia e passare all' atto perfettissimo, al quale giunta acquista il nome e la condizione di Dio. Questo è l' appetito universale, e il movimento ascendente verso l' ottimo di tutta intera la natura. Le materie dunque o potenzialità prime che sono le corporee, sono diverse. Ogni materia ha qualche forma in atto, ed altre ne ha in potenza. Ma non ogni materia le ha tutte in potenza, e questa mancanza di forme in potenza è una prima privazione . Le diverse forme in potenza costituiscono le diversità delle materie d' Aristotele. In quanto dunque una data materia ha certe forme in potenza, intanto appetisce l' atto, cioè appetisce che queste forme escano all' atto; in quanto poi ha la privazione di forme, in tanto non l' appetisce e vi mette ostacolo. Di più la materia ha talora una forza irregolare, secondo Aristotele, che non tende alla forma, e con questo cerca spiegare quegli eventi ch' egli crede casuali. In certi corpi dunque naturali e organati c' è in potenza quella forma o specie che dicesi anima nutritiva o vegetale , in altri di più quella che dicesi anima sensitiva , in altri anche quella che dicesi anima intellettiva , che si sviluppa per generazione. Venuta quest' ultima specie all' esistenza, ha in sè ancora della potenza che tende a svolgersi. Di qui due novi principŒ d' operazioni si costituiscono nella natura, cioè l' intendimento speculativo che tende a conoscere, e l' intendimento pratico , onde l' arte che tende a produrre. E che anche in quell' atto o specie naturale che si chiama anima intellettiva, ci sia la materia ossia la potenza, e con essa l' atto, qual principio attivo e causa d' altri atti, rilevasi da queste parole: [...OMISSIS...] . Or come la mente in potenza dell' anima passi ad emettere gli atti speculativi, cioè ad acquistare la scienza, mediante la mente in atto , [...OMISSIS...] , in parte è dichiarato nel « De Anima » (2), come abbiamo veduto. Passata poi, la mente in potenza, all' atto coll' acquisto della scienza, che può essere più o meno copiosa, ancora distingue Aristotele in quest' atto della scienza due gradi d' attuazione, l' uno de' quali simile al sonno in cui la scienza è in noi come abito, e l' altro alla veglia, l' ultimo e più perfetto atto, quello della contemplazione, che chiama costantemente divino, o divinissimo (1). Conviene dunque distinguere, secondo Aristotele, quasi quattro atti, l' uno più perfetto dell' altro, nello stato dell' anima intellettiva, due dirò così innati e due acquisiti. 1 L' atto o specie della mente in potenza , che dicesi atto rispetto all' anima sensitiva che lo emette; 2 L' atto ulteriore, o specie della mente in atto (intuizione primitiva) che ha virtù di fare che la mente in potenza esca al suo atto; 3 L' atto ulteriore o specie della scienza , che è l' atto, a cui è già uscita la mente in potenza, e quest' atto s' unifica colla mente in atto che rimane così accresciuta e rinforzata; poichè in quanto da potenza diviene atto, in tanto cessa d' esser potenza. Come dunque il sensibile in potenza è diverso dal senziente in potenza, ma il sensibile in atto s' unifica col senziente in atto, secondo Aristotele, così la mente in potenza si distingue dalla mente in atto finchè in potenza, ma non più quando cessando d' essere in potenza, diventa in atto. 4 L' atto ulteriore finalmente della contemplazione , con cui attualmente contempla le specie. Per ridurre questa dottrina a maggior chiarezza, conviene rispondere a tre questioni. 1 Che cosa è mente in potenza che diventa tutti gl' intelligibili secondo Aristotele? E` forse il complesso delle potenze anteriori, incominciando dal senso fino all' immaginazione, che somministrano la materia del conoscere, come vuole il dottissimo Trendelenburg? (2); 2 Che cosa è, qual è la sfera del divino, secondo Aristotele? (3); 3 Come il divino è da sè, ed anche sparso nella natura universa, e com' egli è uno, come moltiplice? (4). Veniamo alla prima. Noi non possiamo convenire col nominato erudito nella sentenza che Aristotele dia la denominazione di mente di cui si fa tutto , [...OMISSIS...] , all' imaginazione e a quel gruppo d' altre facoltà sensitive che somministrano effettivamente de' materiali all' intendimento, poichè di nessuna di queste, nè di tutte insieme, si può dire che diventi tutto. Noi reputiamo dunque, che come Aristotele tolse assaissime cose da Platone, ma le vestì a suo modo e le fece passare come sue proprie, così qui abbia ritenuta la materia comune che accordava Platone alle idee (1), ma invece di darla alle idee, ch' egli non voleva ammettere, la diede alla mente. Ora la materia delle idee secondo Platone è l' essere in universale. Ma questo essere stesso si può considerare sotto due aspetti: 1 o come il subietto delle determinazioni, colle quali egli diviene tutte le idee, generi e specie, e così tiene l' ufficio di materia ; 2 o come lume dal quale è illuminato lo spirito per misurare l' entità di tutte le cose, prima di tutto delle sensibili, e di vederne le essenze, che è appunto formare le idee, onde sotto questo aspetto egli tutto fa, egli produce tutte le specie o forme delle cose. Così lo stesso essere in universale da una parte costituisce quella mente (2) che è fatta tutte le cose, cioè tutte le specie, dall' altra costituisce quella mente che le fa tutte. Come questi caratteri non possono convenire alle facoltà sensitive, così anche ripugna che esse si dicano la mente in potenza, giacchè Aristotele chiama abito questa mente, [...OMISSIS...] , espressione, che non troverebbe una spiegazione naturale, se si dovesse applicare alle sensitive potenze. Secondo Aristotele dunque quando un corpo naturale organizzato, mediante il necessario impulso, viene all' atto dell' anima, prima vegetale, poi sensitiva, finalmente intellettiva, allora quest' ultima anima è così fatta che è suscettiva di tutte le specie, [...OMISSIS...] , e le ha in potenza, [...OMISSIS...] (3). Ora questa appunto è la mente in potenza che diventa tutte le forme. E tant' è lungi che questa sia la sensitività o l' imaginazione e l' altre facoltà sensitive, che da queste espressamente la distingue Aristotele là appunto dove paragona questa mente e il suo sviluppo a quello della sensitività (1). Dice di questa mente che « « intendendo tutte le cose, conviene di necessità che non sia mista, come disse Anassagora, poichè tutto ciò che è eterogeneo, quando accostandosi apparisce, impedisce e divide » ». Onde conchiude, « « la natura di lei non è niuna natura speciale , se non questa che è possibilità », [...OMISSIS...] »(2). Ora che è la possibilità, secondo Aristotele, se non materia, [...OMISSIS...] ? (3). Ma c' è una materia intelligibile , come dopo Platone disse Aristotele? (4). E che cos' è questa materia intelligibile se non l' essere in potenza, ossia l' essere possibile? Questo solo d' altra parte è privo di tutte le differenze, e perciò è del tutto immisto e puro; il contrario poi di questo, l' essere in atto, è privo d' ogni materia sensibile e intelligibile. Del solo essere in potenza e ideale, d' altra parte, si può dire quello che dice Aristotele della sua mente in potenza che, « « non è attualmente niuno degli esseri avanti che intenda » », [...OMISSIS...] . Nè farà difficoltà, che Aristotele attribuisca l' intendere a questa mente, che secondo noi è l' essere in potenza, perocchè egli, come già vedemmo, dell' obietto e del subietto pensante fa una cosa, e quando sono uniti attribuisce all' uno di essi ciò che apparterrebbe all' altro. Nè del pari sia d' ostacolo a intendere in questo modo il pensiero d' Aristotele l' osservare ch' egli sembra accordare a questa mente in potenza l' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] , perchè ciò che è in potenza e ciò che è in atto è un medesimo ente, e ciò che è in potenza, la materia, per Aristotele è sempre il subietto dell' atto. Quivi stesso però egli adopera una maniera di parlare, che dimostra non essere la sua mente in potenza, quella che propriamente intende, raziocina e giudica, ma l' anima con essa, [...OMISSIS...] . Della qual maniera non c' è nulla di più proprio per esprimere l' essere ideale indeterminato , perocchè con questo appunto, quasi con un mezzo universale, il subietto intelligente fa tutte le sue operazioni. Finalmente al solo essere indeterminato conviene il carattere che dà Aristotele alla sua mente in potenza, d' essere « « le specie in potenza » », [...OMISSIS...] , con che mostra chiaramente di parlare d' una mente obiettiva, quali sono le specie; e d' essere medesimamente « « il luogo delle specie » » [...OMISSIS...] , giacchè le specie determinate altrove non sono che nella specie indeterminatissima, specie delle specie, come la chiama pure Aristotele, cioè nell' essere indeterminato (1). Si aggiunga un' altra considerazione. Che cosa è l' intelligibile, il proprio oggetto del pensiero? Secondo Aristotele è lo stesso essere della cosa, l' essere determinato ch' egli chiama «to ti en einai,» e che dice che è senza materia, indicando con ciò che è l' intelligibile (2). Ora ciò che può diventare un essere determinato, non può essere altro che l' essere indeterminato e potenziale, che acquistando diverse determinazioni diventa tutti gli intelligibili. Se dunque la mente in potenza è quella che diventa tutti gl' intelligibili, e l' intelligibile è l' essere, quella mente non può esser altro che lo stesso essere in potenza. Il che Aristotele sembra dire in espresse parole, là dove dice che la « materia dell' universale »è la scienza in potenza (3). Poichè l' universale in potenza, che cos' è se non quell' universalissimo indeterminato (epiteto che gli dà Aristotele), che col determinarsi diventa tutti gli universali? Passiamo alla seconda questione: qual è la sfera che abbraccia il divino , secondo Aristotele? Indubitatamente nelle forme pure , per questo filosofo, giace la divina natura . E veramente, cercando qual sia « « la sostanza sempiterna e immobile » » e riferendo le altre opinioni, dice che « « alcuni la dividono in due » » (le specie e le entità matematiche) « « alcuni pongono nella stessa natura le specie e le entità matematiche, alcuni le sole entità matematiche »(1) ». Ma Aristotele non ripone le entità matematiche tra le cose divine, che sono argomento della massima scienza. Poichè egli distingue tre scienze così: « « la fisica è circa gl' inseparabili » » (dalla materia) « « e non immobili; delle matematiche alcune sono circa gl' immobili per vero dire, forse tuttavia non separabili, ma come nella materia: la prima filosofia poi è circa i separabili » » (dalla materia) « « e gl' immobili »(2) ». Questi « « separabili e immobili » » sono appunto le forme pure . Continua poi: « « ora tutte le cause è necessario che siano eterne, soprattutto queste » » (le separabili dalla materia ed immobili), « « poichè sono cause a quelle tra le cose divine che appaiono (3). Onde sono tre le filosofie: la matematica, la fisica e la teologica »(4) »; dove manifestamente chiama scienza di Dio o teologia quella che tratta delle pure forme . Ma nasce il dubbio se Aristotele riponga tutte le forme pure ed astratte dalla materia tra le cose divine; e questo parrebbe, poichè egli dice, che ogni cosa della natura appetisce il bene, l' ottimo, il divino, per la specie a cui tende di pervenire (5), che, separata dalla materia, è divina (6). Ma altrove dice, che ci hanno degli oggetti vili del pensiero e degli oggetti nobili, e che l' eccellenza della mente sta in pensar quelli e non questi (7): sebbene il riputare vili alcune specie, direbbe il vecchio Parmenide esser di chi filosofa ancora inesperto, e si lascia intimorire da' pregiudizŒ del volgo (.). E veramente la cognizione e le specie delle cose vili non sono vili; benchè poco di bene saprebbe la mente, se quelle cose solo sapesse, ma se quelle sono ordinate nel tutto del conoscibile, debbono anch' esse esser conosciute da una mente sapientissima. Ma questo luogo in cui suppone Aristotele, che le notizie delle cose vili sieno vili, basta egli, o può valer tanto, quand' anco sia sfuggito veramente alla penna d' Aristotele, ad escludere alcune specie dalla sfera del divino? Quello che si può dire con sicurezza si è che nè i sensibili, nè le cose miste di materia corporea sono da Aristotele collocate nella classe delle entità divine. E nel vero, le essenze non sono date dal senso; Aristotele stesso ne conviene in tutti quei luoghi, dove distingue le cose corporee dal loro essere , e quelle concede al senso, ma riserva l' essere stesso delle cose alla ragione (1). Che cosa dunque ci dà il senso, secondo lo stesso Aristotele? Delle apparenze che sono vere solamente come apparenze, cioè relativamente: il che viene a dire: è vero che così apparisce. In fatti se tutte le cose fossero come appariscono al senso, apparendo esse a vari individui o anche allo stesso individuo in diversi tempi diverse, la stessa cosa sarebbe e non sarebbe, nè varrebbe più il principio di contraddizione (2). Non è dunque nelle sensazioni che si possa trovare la verità , la verità assoluta (3). Convien dunque ricorrere alle specie con cui conosciamo ogni cosa (4) per trovare una notizia vera e permanente; e la scienza non può avere altro genere che gli universali (5), però in questi solo, non nelle particolari e sfuggevoli sensazioni, dimora la verità. Di che conchiude, che, affinchè ci sia la scienza e la verità, è necessario che ci siano degli altri enti oltre i sensibili (6). E in fatti sono due cose ben diverse, che sia vero che a me un ente apparisca così, e che sia vero che un ente sia così. Della prima di queste due specie di verità, dice Aristotele, che il senso del proprio oggetto è sempre verace; non della seconda. Ma, a vero dire, nè pure questo si può accordargli, perchè il dire: « è vero che mi apparisce questo e questo », non è un pronunciato del senso, al quale solo rimane l' apparire, senza formarsi mai la questione, se l' apparenza sia vera o falsa: questa appartiene alla ragione: l' apparenza sensibile dunque non è giudicata dal senso, e rimane apparenza senza alcuna relazione col vero o col falso, che è sempre nella mente e non nel senso, come lo stesso Aristotele insegna (1). Oltracciò il carattere della verità è quello d' esser permanente ed eterna; quello che è vero, è vero sempre: il senso all' incontro e le cose sensibili sono perpetuamente rimutabili, e se non esistessero che queste, concede lo stesso Aristotele, che non ci potrebbe essere nè scienza nè verità, e che avrebbero ragione Democrito e Protagora (2). Ma quello stesso che si muta si può considerare con una specie e con un pensiero che non si muta, e in questo giace la verità di quello (3). Se si considera attentamente questa dottrina della sensazione, si trovano molte cose in essa levate dal sistema platonico, e in questo pienamente coerenti, ma ripugnanti all' aristotelico. Poichè se il sensibile è solo apparente e mutabile di continuo, e quindi non ha la verità in sè stesso, ma solo il pensiero fa intorno ad esso delle proporzioni vere, dicendo a ragione d' esempio « è di continuo mutabile, è apparente, mi appare questo e questo »; e queste proposizioni sono verità nella mente e quivi immutabili e non nei sempre mutabili sensibili: come mai, in tal caso, le specie possono essere ne' sensibili, alcune in atto nella materia, altre in potenza ? Anzi non resta altra conclusione possibile, se non quella che sagacissimamente ne cavò Platone, quando disse che le essenze delle cose sensibili erano nelle idee , e le cose sensibili non erano che certe similitudini e imagini di esse. In fatti, quando la mente distingue da una parte la specie d' un sensibile e dall' altra il sensibile , e vede che quella ha caratteri opposti a questo, essendo quella permanente, immutabile, eterna, questo sfuggevole di continuo, rimutabile e corruttibile: non è certamente più possibile nè di confondere questo con quella, nè di anteporre questo a quella, nè di dire che quella copii questo, perchè come può quello che è eterno, copiare da quello che non dimora mai nella stessa condizione, non è, ma sempre diventa? E` dunque indeclinabile convenire, nel riconoscere conveniente e sagacissima la maniera di esprimersi di Platone, che i molti sensibili imitino e simulino per un istante quella unica specie che mai non passa: ed è manifestamente insostenibile che la specie incorruttibile sia o possa essere, o in atto o in potenza, in ciò che ha natura corruttibile, momentanea ed apparente, cioè relativa ad un altro. Nè suffraga punto ad Aristotele il cercare, ch' egli fa nel sensibile, un punto fermo nella materia quasi in cosa permanente (1); perocchè, accordata anche la sua ipotesi erronea della materia eterna, egli stesso insegna che la materia non è il fondamento della cognizione e che tutto si conosce non per la materia, ma per la specie e per l' atto; e la specie e l' atto sensibile è appunto il fuggitivo e l' apparente. Nè gli val meglio un altro effugio che tenta Aristotele, dicendo che il sensibile ha la sua fermezza nell' anima in cui si attua la forma sensibile (2). Poichè l' anima stessa ha la sua verità nella specie con che è conosciuta, giacchè anche l' anima si conosce come l' altre cose (3); onde, per essere il sensibile nell' anima, non muta natura, è sempre vero solo come apparenza, e vero non perchè egli abbia la verità in sè, ma perchè ha la verità nella mente, che lo giudica tale, nella qual mente, a detta dello stesso Aristotele, sta il vero ed il falso: e che cosa è questo se non quello che avea detto Platone? E quando Platone diceva che le specie o idee non sono le cose, ma contengono l' essenze delle cose, non dice quello che poi ripete Aristotele, cioè che le cose si dividono in due classi, altre sensibili, altre intelligibili? (4) e che quelli che distruggono le cose intelligibili e lasciano solo le sensibili distruggono la scienza, la verità? (5). In che consiste dunque la differenza? Certo in quello che dicevamo: che Platone non riconosce nelle cose sensibili se non un riflesso, un' imagine, una realizzazione delle intelligibili; laddove Aristotele trova esser questo un sequestrare soverchiante le idee dalle cose sensibili, per un abisso che non si può più colmare. Ricorse dunque a dire che le cose intelligibili sono nelle sensibili in potenza: le sensibili poi sono in potenza nella materia corporea. Così credette di aver legata tutta insieme la natura e tolto lo sconcio del lasciarla sconnessa quasi un mucchio di episodŒ. Ma s' intenda bene tutto il pensiero aristotelico, che a dir vero è imaginoso e gigantesco, ma non regge alla prova d' un raziocinio rigoroso; noi l' esporremo colle nostre parole, per dirlo più in breve, ma rendendolo, come crediamo, con fedeltà. E qui si presentano alla mente da sè una folla di questioni; ne indicherò quattro: 1 Le specie che sono innumerevoli si riducono ad unità, o il divino è diviso e molteplice? 2 Le specie non sono universali? e se sono universali non sono esse in potenza, secondo Aristotele? Come dunque saranno il divino che dev' essere puro atto? 3 Le specie e i generi si formano nella mente umana per via d' induzione da' sensibili: ma come si formano se sono eterne e divine? 4 Le specie sono partecipate dalla materia: or come il divino può comporsi colla materia? Della prima questione ci verrà occasione di trattare in appresso. La seconda e la terza hanno una certa affinità tra loro. Poichè l' una e l' altra sembrano nascere dalla maniera dialettica di concepire d' Aristotele, per la quale la stessa idea o specie diventa nelle sue mani più cose, secondo la diversa relazione sotto cui la riguarda. Poichè pare che talora la consideri sotto la relazione d' universale e di comune a più cose, e in tal aspetto essa e i generi superiori si ritraggono dalle cose sensibili per via d' induzione, e non dànno allora una cognizione attuale delle sostanze composte di materia e di specie; talora poi in sè stessa, ed allora come una cosa eterna, o certo riducibile in un' ultima idea eterna, ingenerabile, che non si produce, che solo si vede o non si vede: e che è sostanza singolare ed ultimata. E veramente la ragione, per la quale nega che la specie sia separabile ed essente per sè, non è tratta propriamente dalla natura della specie stessa, ma dalla specie considerata in relazione con un subietto che può averla ed anche esserne privo: onde argomenta che è relativa al subietto, e che però non si può da esso separare: egli trova assurdo che si consideri la cosa in sè, e nello stesso tempo si consideri come inesistente nel subietto; in sè è antecedente al subietto, ma in tal caso non è più considerata come parte del composto. Egli trova un errore de' filosofi che lo precedettero, di fare che i principŒ sieno contrari, come sono le specie in relazione al subietto, perchè lo stesso subietto può avere specie contrarie. [...OMISSIS...] . Distingue dunque il bianco in sè, [...OMISSIS...] , dal bianco come predicabile d' un subietto, [...OMISSIS...] , e condanna que' filosofi che dicono esser principio una specie in quant' è predicabile. Ora, se questa specie, che si vuol principio, fosse a ragion d' esempio il bianco, egli è evidente che sarebbe anteriore il bianco in sè come puramente bianco, dal bianco come predicabile d' un subietto, [...OMISSIS...] , e però il principio sarebbe questo bianco in sè, e non il bianco predicabile. Da questo conchiude che niuna specie in quanto è predicabile , può essere il primo principio, perchè non ci può essere nulla d' anteriore al primo principio; e i predicabili hanno d' anteriore le specie considerate in sè stesse, pure da ogni materia, onde a queste si deve ricorrere per rinvenire il primo principio di tutte le cose. Ora, tutti i predicabili sono contrari, perchè i predicabili sono sempre d' un subietto, e però senza il subietto non può esistere il predicabile; il subietto poi è suscettivo del predicabile e del suo contrario. Hanno dunque torto quelli che fanno i principŒ contrari tanto nelle cose fisiche, quanto circa le essenze immobili (1), poichè i contrari sono predicabili. Distingue dunque Aristotele e qui e altrove (2) la specie come specie pura, e la specie come predicabile d' un subietto. Altra dunque è secondo Aristotele la stessa forma in sè, [...OMISSIS...] , e altra è la forma mista colla materia, [...OMISSIS...] . La prima è la ragione e la quiddità , [...OMISSIS...] , della cosa, per esempio d' un circolo, e in questa ragione non c' entra la materia, l' oro o il bronzo, come non appartenenti all' essenza, [...OMISSIS...] : la prima è detta da Aristotele semplicemente la specie , la seconda la cosa avente la specie (4); la prima è l' essere della cosa , come [...OMISSIS...] , l' altra è l' essere di questa cosa , come [...OMISSIS...] , la prima dicesi semplicemente «to eidos,» l' altra dicesi «to eidos en tehyle.» Or poi solamente questa seconda dicesi «to kath' hekaston» (5), cioè « « specie delle cose singolari » ». Quest' ultima denominazione dimostra chiaramente che ciò che si predica de' singolari non è per Aristotele la specie pura e presa in sè, ma la specie nella materia. Nega bensì Aristotele di molte specie che sieno fuori de' singolari, distinguendole però da' singolari, secondo la ragione [...OMISSIS...] , e ammettendo che la specie e l' essenza è unica in molti singolari (7): ma questo intende della specie nella materia, [...OMISSIS...] . E di questo biasima i Platonici, in quanto vollero che la specie, in quant' è ne' singolari, esistesse da sè stessa come un altro singolare. Della specie poi presa in sè stessa e non come predicabile, [...OMISSIS...] , fa tutt' altro discorso, e, per quel ch' io intendo, la riduce a certe specie ultime o all' ultimissima, l' essere o la mente in senso obbiettivo, di cui riconosce l' eterna sussistenza. La riprensione dunque che fa ai Platonici consiste primieramente in questo: ammettendo che la stessa specie che è in un individuo sostanziale, sia un individuo sostanziale ella stessa, [...OMISSIS...] (1), si avrebbe qui una terza specie comune, che è quello che dicevasi il terzo uomo . Ora, egli dice, non c' è il terzo uomo tra la specie pura e la specie nella materia, [...OMISSIS...] (2). Poichè se ci fosse quella terza specie (3), per la stessa ragione ce ne dovrebbe essere una quarta e così all' infinito, nel che i Platonici convenivano. In queste parole si ammette che esista la specie stessa, «par' hauton», e che esista il singolare composto di materia e di specie, «kath' ekaston,» ma quello che si nega si è solamente che questa seconda specie inesistente nella materia abbia una sussistenza individuale, sia un individuo anch' essa; nel qual caso sarebbe una terza cosa. Aggiunge poi Aristotele un' altra questione: « « se ogni specie considerata in sè, e non come predicabile, esista veramente separata? » ». « « C' è egli o non c' è qualche altra cosa oltre lo stesso tutt' insiemeDico la materia e ciò che è con essa? » » (la specie nella materia). « « Poichè se non c' è, quelle cose che sono nella materia, sono tutte corruttibili (4). Se poi c' è qualche cosa, per certo che sarà la specie e la forma »(5) ». Quest' è questione diversa dall' altra: nell' altra si cercava se oltre questi due, 1 la specie stessa e 2 il singolare composto di materia e di specie, ci fosse una terza cosa che potesse essere principio comune a quelle due, e si rispondeva di no: in questa si cerca se oltre il singolare composto esista la stessa specie in sè come sussistente, e risponde di sì, ma dice: « « essere difficile determinare rispetto a quali cose questa specie ci sia, e rispetto a quali cose non ci sia »(6) ». Toglie dunque a determinare rispetto a quali cose la specie in sè non esista separata e sussistente, e prima di tutto esclude le specie artistiche, poichè riguarda come cosa manifesta che la specie della casa non sussiste in sè, ma solo nella casa (1): dove si vede che per Aristotele altro è esistere la specie in sè scevra da materia, e altro è esistere separata come un ente da sè sussistente: poichè la specie della casa esiste scevra da materia nella mente dell' architetto, ma non come un ente che da sè solo sussiste. Resta il dubbio rispetto alle cose naturali: intorno al qual dubbio dice: [...OMISSIS...] . Non vuole dunque Aristotele che sussistano per sè come enti separati e indipendenti nè le specie artistiche, nè le specie delle cose naturali. Pure le ammette, ma in che modo? Le ammette tanto unite colla materia, quanto separate della materia, ma non come enti sussistenti da sè. In quanto sono nella materia da questa accecate non sono nè attualmente intelligibili, nè intelligenti, ma pur sono intelligibili in potenza. Quando poi si riducono all' atto, per opera della mente in atto, allora sono scevre di materia, ed esistono come pure specie, ma non come enti indipendenti, ma come appartenenze della mente: la mente poi è quella specie che sussiste in sè da ogni altra cosa separata, indipendente e al tutto divina. Trova dunque indegno della divinità l' ammettere specie eterne di cose corruttibili per sè essenti, poichè se così sussistessero, sarebbero altrettante divinità: e ripugna che la divinità sia fatta come gli enti finiti sensibili e corruttibili della natura, colla sola aggiunta, che sieno eterni e incorruttibili. Ma se la mente stessa è una prima specie, e però un primo intelligibile, ammesso da Aristotele, come contenente ora in potenza, ora in atto tutte l' altre specie, tutti gli altri intelligibili: come dice che intelligibile è dunque la mente, e come scevera essa dalla materia e riduce in atto le specie che si riferiscono agli enti materiati? La mente, dice Aristotele, è dei principŒ: ciascun genere è il principio di ciò che è subordinato ad esso (1); ma fuori e al disopra di tutti i generi c' è l' essere e l' uno che non differisce dall' essere se non di concetto (2): questo è principio di tutti i generi e di tutte le cose, e in questo si fonda il principio di contraddizione, primo principio di tutti i principŒ logici. Se dunque la mente è il principio dei principŒ, e l' essere è appunto il principio de' principŒ, consegue che la mente in senso obiettivo e come intelligibile sia l' essere , in senso subiettivo poi sia l' intuizione dell' essere e nell' essere dei principŒ primi del ragionamento. E qui appunto ha luogo il doppio aspetto, sotto cui dicevamo che Aristotele considera l' idea o specie, cioè in sè stessa come sostanza sussistente, e come universale partecipabile. Poichè cercando qual sia l' oggetto della prima filosofia, da una parte dice che è la prima sostanza separabile e per sè sussistente, dall' altra dice che è l' ente universalissimo. Nell' XI dei « Metafisici », dopo aver detto che ogni scienza ha per principio la quiddità (3), e mostrato in che modo questo accada nella fisica e nella matematica, venendo alla prima filosofia dice: [...OMISSIS...] . Riguarda dunque per primo e principale principio, [...OMISSIS...] , l' Ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] , e questo vuole che sia l' oggetto della prima filosofia. Ma separato da che? Da tutto quello certamente che non è puramente ente. Questo si vede considerando come Aristotele distingue gli oggetti delle scienze in cui divide la speculativa che sono fisica, matematica e filosofia prima. L' oggetto della fisica è l' essenza delle cose naturali unita colla materia, come il naso simo che ha ad un tempo il concetto di concavo e la materia corporea di cui necessariamente il naso si compone, e però essendoci la materia e la forma, c' è in queste cose il principio del moto (1). L' oggetto della matematica è quell' essenza che si separa bensì coll' astrazione dalla materia, e però è immobile; come il concavo che è il concetto del naso simo dalla materia del naso (2), ma non è da essa separabile in fatto, di modo che sussista da sè sola, e una tale essenza è la quantità (3). Finalmente l' oggetto della prima filosofia è un' essenza non solo separabile per astrazione, ma separabile di fatto e sussistente da sè come una compiuta ed ultimata sostanza, e questa essenza separabile è l' ente come ente; [...OMISSIS...] (4). Da questo passo risulta, che ogni scienza ha per suo oggetto un' essenza, o quiddità [...OMISSIS...] ; ma che Aristotele distingue l' essenza dalla ragione dell' essenza , [...OMISSIS...] e quindi l' essenza è considerata sotto un' altra ragione o aspetto dalle tre accennate diverse scienze. L' essere dunque, secondo Aristotele, è solo quell' essenza che inesiste in tutte le cose (5), e che sussiste anche separata da tutte e per sè, ed è il divino, [...OMISSIS...] . Questa dunque è ad un tempo singolare in quant' è separata e da sè sussiste, e universale e comunissima, in quant' è in tutti gli enti, non come genere (6), nè come privazione , nè tampoco come specie limitata , ma puramente come essere comune a tutti i generi, a tutte le specie, ed anche alle differenze, ma sotto un altro rispetto, di maniera che la ragione, [...OMISSIS...] , sia diversa. Ciò posto, s' intende in qualche modo come la mente sia ad un tempo dell' universalissimo e del singolare, e come ad una stessa scienza, cioè alla filosofia prima, Aristotele attribuisca per oggetto Iddio, e l' essere comunissimo e universalissimo, come fosse un oggetto medesimo, supponendo Aristotele che l' Essere come separato e da sè sussistente sia Dio, e che l' essere stesso sotto un altro concetto logico sia in tutte le cose: e qui di novo c' è la traccia di quel panteismo che giace in fondo al sistema aristotelico. Concede dunque a quelli, che chiama gli elegantissimi, [...OMISSIS...] , cioè ai Platonici, che ci debba essere un' eterna sostanza e separabile, non potendo esserci senz' essa l' ordine nel mondo (1) e che questa sostanza sia l' essere e l' uno, che sono, pare, i principŒ sommamente immobili [...OMISSIS...] , perchè, rimosse anche tutte l' altre cose coll' astrazione, queste rimangono, ma vuole che essi si costruiscano e concepiscano come quiddità determinata e sostanza compiuta [...OMISSIS...] (2). Ma qui si fa egli stesso l' obbiezione: se, dice, supponiamo che l' ente e l' uno sia una quiddità e sostanza determinata (3), in tal caso s' avrebbe l' assurda conseguenza che tutto fosse sostanza, anche gli accidenti, perchè anche di questi si predica l' essere, e di alcuni anche l' uno. Quello dunque che ripugna ad Aristotele non è già che l' essere , a cui si riduce l' uno, sia una sostanza separata ed eterna, ma che tale sia l' essere come predicabile secondo quest' obbiezione, e non trova nè pure assurdo, che tale sia l' essere come predicabile delle sostanze, ma sì che tale sia l' essere come predicabile degli accidenti, poichè in tal caso, essendo l' essere sostanza, gli accidenti si cangerebbero in sostanze. La soluzione di questa difficoltà è oscura in Aristotele: pure ci pare, che egli l' intenda così. Ammette queste due proposizioni: 1 Che la prima filosofia tratti intorno all' Ente separabile, sostanza prima e singolare, Bene, Dio (1); 2 Che ogni scienza ed anco la prima filosofia tratti degli universali, tra' quali l' essere è il massimo e il comunissimo (2). Egli cerca la conciliazione di queste due proposizioni, poichè l' universale è in potenza e però è diverso dall' ente separato, che dev' essere atto purissimo: espone a lungo e replicatamente le difficoltà che involge l' una e l' altra proposizione: finisce coll' ammetterle entrambi; ma brevemente e oscuramente parla quando vuol dissipare quelle due serie di difficoltà e conciliare proposizioni che sembrano contraddittorie. La conciliazione dunque d' Aristotele, se non erro, è questa. L' ente come ente ha un senso primitivo ed assoluto, e preso in questo senso è separabile e sussistente, ed è Dio: ma quest' ente ha poi altri significati che si riducono tutti a quel primo (3). Questi altri significati sono quelli che appartengono alle predicazioni dell' ente. L' ente si può predicare in due modi, per sè e per accidente: l' ente per accidente non può costituire l' oggetto d' alcuna scienza; e nelle predicazioni, in cui l' ente si predica per sè, sia de' generi, sia delle specie, sia delle differenze, esso significa partecipazioni dell' ente. Ma queste predicazioni sono varie; e alcune sono relative ad altre, come l' ente predicato del quanto, del quale e del relativo, si riferiscono all' ente predicato della sostanza, e significano passioni di questa. L' essenza sostanziale invece non si predica che della sostanza singolare. Di più, tra le sostanze stesse che partecipano l' ente, altre lo partecipano potenzialmente, altre attualmente; più attualmente di tutte l' altre lo partecipano le anime intellettive, tra le quali è la Mente; e questa in senso obiettivo è l' ente stesso primitivo e divino. L' ente dunque predicato e partecipato è universale e comunissimo, e però anche la prima filosofia tratta dell' universale (1); ma essa non si ferma a questo, ma riduce questo all' ente separabile, come a sostanza compiuta. Che se il filosofo col suo pensiero si fermasse all' ente come universale e predicabile, non sarebbe ancora giunto all' ultima e più ultimata sostanza e specie, e però non avrebbe la prima scienza (2). Non si può dunque dividere la dottrina dell' essere universalissimo dalla dottrina di Dio, perchè questa risulta da diverse partecipazioni o relazioni con quella. Quello dunque, che Platone disse di tutte le specie o essenze, Aristotele restrinse al solo essere , e non si può a meno di ravvisare in questo un progresso dell' ideologia . Platone vedendo l' immutabile natura delle essenze, disse che dovevano essere eterne sostanze, di cui le sostanze sensibili partecipassero, e così spiegò l' esistenza di queste. Aristotele osservò, con molta sagacità certamente, che gli universali non indicano l' essere delle cose, ma alcune loro qualità comuni (3), perchè in fatti gli universali si predicano di molti individui, di che conchiuse « « che gli universali non potevano esistere da sè come enti compiuti » », ma solo potevano esistere negli enti compiuti, come loro qualità comuni (4). Che se si ponesse che l' universale sia un ente compiuto, in tal caso ne seguirebbero due assurdi: il primo , che tutti gli enti di cui si predica un universale, sarebbero il medesimo ente, l' altro, il secondo , che un ente solo sarebbe composto di molti enti compiuti, come Socrate dell' ente animale, dell' ente uomo, ecc. (5). Ma è facile vedere, che dell' essere non si può dire quello stesso, che degli altri universali, cioè non si può dire che non significhi «tode ti,» ma «toionde,» poichè essere non significa certamente una qualità dell' essere , ma l' essere stesso . L' argomento dunque d' Aristotele contro le idee platoniche qui si frangeva: ed egli stesso dovette convenire, che l' essere si potea porre a parte dal resto, [...OMISSIS...] , come sussistente da sè solo, e si potea di lui dire quello che Platone estendeva a tutte le idee, cioè che sussistessero da sè come essenze eterne, e i sensibili non fossero che una cotale imitazione e partecipazione di esse. Ma se quell' argomento contro la sussistenza degli universali non si poteva applicare all' essere , altri argomenti parevano valere ugualmente anche per l' essere universale . [...OMISSIS...] Quest' ultime parole, a dir vero, escludono l' essere dall' argomento; dico l' essere proprio della cosa, perchè l' essere della cosa è il subietto stesso, di cui si predicano l' altre cose, ed Aristotele dice appunto, che la prima scienza ha per oggetto gli enti come subietti , e non come qualche cos' altro, [...OMISSIS...] (3). Sembra dunque che la scienza prima non tratti dell' essere come predicato, perchè come predicato è universale, e s' incorre nell' obbiezione accennata, [...OMISSIS...] onde la scienza prima non tratterebbe della sostanza, e della prima sostanza, come pur deve (4). Ma per l' opposto Aristotele stesso insegna espressamente che la prima scienza tratta dell' ente comune , dell' ente in quanto ente in universale , e che se l' ente non si considerasse come un solo genere , non potrebbe essere oggetto d' una scienza sola, ma di più (1). E in fatti, poichè la scienza prima tratta di tutti gli enti, in quanto sono enti subietti , [...OMISSIS...] , come potrebb' essere una scie o genere comune? E` dunque indubitato che la prima scienza, secondo Aristotele, tratta dell' ente come puro ente, [...OMISSIS...] , e che questo puro ente in quanto esiste separato da ogni altro ed è compiuto è Dio, ma oltracciò è anche univocamente gli altri enti tutti della natura, benchè mescolati di potenza e di atto, ed essendo tutti questi enti , è comunissimo: dove si vede riaffacciarsi il panteismo aristotelico, che abbiamo già scoperto. E` comunissimo univocamente a tutte le sostanze prime e singolari, ma non alle nove categorie che seguono a quella della sostanza, delle quali l' ente si dice «omonymos,» e così non appartiene più alla scienza prima, se non per una cotale relazione di pensiero, per la quale si considerano que' diversi significati di ente, come passioni o altre attinenze dell' ente come ente (2). Or se l' ente si dice di tutte le sostanze singolari, oltre l' altre sue significazioni equivoche o relative, sarà egli l' ente un predicato , quando Aristotele nega assolutamente, che ciò che è predicato, sia sostanza ed oggetto della prima scienza? Ritorna qui quello che dicevamo a principio, che Aristotele considerando l' ente dialetticamente, ne fa due, cioè stabilisce due ragioni dell' ente, secondo l' una delle quali sussiste da sè separato da ogni passione, e quest' è Dio sostanza suprema e singolare, l' altro poi è la specie comunissima dell' ente. Ora rispetto a tutte l' altre sostanze, non ammette se non due modi, cioè: 1 la sostanza singolare , 2 la specie sostanziale , che non esiste separata da quella, e da sè come sostanza compiuta, ma solo separata di ragione e così esistente nella mente. Ma rispetto alla suprema sostanza, cioè a quella dell' essere, pare che ammetta tre modi: 1 l' essere che esiste separato come sostanza compiuta, e questo è Dio; 2 l' essere comunissimo , che è la specie dell' essere che esiste separata nelle menti prese in senso subiettivo, e che costituisce le stesse menti in senso obiettivo; 3 e l' essere che costituisce tutte le singolari sostanze come subietti delle modificazioni e passioni, e di tutti i predicati. Ora, la scienza è sempre degli universali; laonde delle singolari sostanze finite non si dà scienza, ma si conoscono colle specie loro che sono nella mente e col senso. Ma poichè l' essere come essere è egli stesso ad un tempo e specie universale e singolare sussistente, risulta che si conosca per sè, e però che sia intelligibile anche come singolare, chè quello stesso essere che è sussistente come singolare è anche universale, specie universalissima, specie delle specie. L' essere dunque è per sè conoscibile. E poichè le specie dell' altre cose sono nella mente oggettivamente presa, cioè nell' essere, perciò coll' essere e nell' essere si conoscono l' altre cose. Ma è necessario, che noi vediamo come l' essere possa esser predicato . Poichè se attentamente si considera ben si vedrà, che egli ha una natura interamente diversa da tutti gli altri predicati; e benchè Aristotele non esponga chiaramente questa differenza, egli è mosso a fare un' eccezione all' essere, perchè n' ha il sentimento. E veramente di che mai si può predicare l' essere? Forse del nulla? No certamente. Di qualche materia o potenza, di qualche specie od atto? In tal caso si supporrebbe che prima dell' essere ci fosse qualche cosa, che potesse servire di subietto all' essere predicato. Ma prima dell' essere non c' è nulla, perchè se ci fosse, sarebbe già essere (1): egli dunque è veramente il primo subietto (dialettico) di cui tutto il resto si predica. L' essere dunque non si predica, che dell' essere stesso. Ora, come non manca d' osservare Aristotele, la predicazione si fa nel pensiero (2) e propriamente consiste nell' applicare l' essere intelligibile o ideale al reale sensibile o a un altro intelligibile che è precedentemente nella mente. L' essere intelligibile fa conoscere all' uomo la natura dell' essere, unica e semplice (3): nei sentiti dunque e negli altri intesi si riconosce questa natura dell' essere: è una identificazione dell' essere inteso, e che è in potere della mente, col sentito o coll' inteso precedentemente, ma questa identificazione non si può fare che in quel grado e modo che è determinato dallo stesso sentito ed inteso, il quale fa il personaggio di subietto, benchè non esista se non per una tale identificazione della mente. La spiegazione dunque di questo mistero consiste nella distinzione tra l' essere reale e l' essere ideale o intelligibile, che gli antichi non avevano colta, o certo non aveano mantenuta costantemente. Se dunque si domanda se l' essere predicato d' ogni cosa è universale, si dovrà rispondere di sì avanti la predicazione; ma colla predicazione egli diventa uno con ciò di cui si predica, e perciò l' essere della cosa di cui esso si predica è reale o ideale, sostanza o accidente, assoluto o relativo; perchè l' essere universale che si predica è suscettivo di divenire tutto ciò mediante la predicazione. Quindi se l' essere si predica d' una sostanza reale e compiuta, egli stesso dopo la predicazione è sostanza reale e compiuta. Ma se si predica di cosa accidentale e relativa, egli dopo la predicazione non è un ente compiuto, ma ente in senso equivoco, ente imperfetto, parte di ente e non ente. Acciocchè dunque l' ente, che si predica, dopo la predicazione sia ente compiuto , conviene che sia predicato della sostanza reale ; e tuttavia non è meno vero che avanti la predicazione egli è essere universale e universalmente predicabile, tanto della sostanza, come del quanto, del quale, del relativo. Ma poichè avanti la predicazione è il medesimo essere che dopo la predicazione, come accade che dopo la predicazione diventi così vario e molteplice, e talora non si possa dire più semplicemente ente, come quand' è predicato dell' accidente? La ragione di ciò si è che avanti la predicazione l' essere è in potenza tutto ciò che dopo la predicazione è in atto: ora alcuni dnza sola, quando tutti questi enti non s' adunassero in una sola speciei questi atti, come gli accidentali, non sono atti compiuti dell' essere, ma parte di atti e però smarriscono la denominazione semplice di essere, benchè tali atti parziali si riducano agli atti completi. Ora ciò che è in potenza e ciò che è in atto appartiene allo stesso genere, secondo Aristotele; e però quella scienza prima che tratta dell' essere come essere, tratta anche delle passioni dell' essere come essere. Di più tra gli atti compiuti dell' essere ce n' ha uno ultimatissimo e compiutissimo, anteriore a tutti gli altri, dal quale gli altri dipendono come da loro causa finale, e quest' è Dio; onde la prima scienza dee trattare principalmente di Dio. Così questa scienza ha per oggetto ad un tempo: 1 Dio, essere attualissimo; 2 l' essere in potenza o comunissimo; 3 le partecipazioni di quest' essere, considerate non a parte, ma come passioni dell' essere come essere (1). Che cosa si presenta al pensiero del filosofo? Tutto, tale qual è l' universo. Questo, per ipotesi assunta (chè prove efficaci non se ne danno e le inefficaci trapassiamo per brevità), è sempre stato. Dunque ci si dovea trovare tutto ciò che c' è al presente. Poteva sussistere l' universo solo materia corporea senza alcun' anima vegetativa ? No, risponde, perchè senza questa non c' è l' anima sensitiva. Ma non potrebbe esistere l' universo senza alcun' anima sensitiva ? In tal caso non si potrebbe più concepire esistente cosa alcuna, [...OMISSIS...] (il solo corpo sensibile) [...OMISSIS...] . (2). Poteva esistere l' universo senza l' intelligenza, ossia l' anima intellettiva ? Impossibile del pari, perchè in tal caso non essendoci che i senzienti, e in essi i sensibili, e questi essendo apparenze relative, non esisterebbero che relativi, il che è assurdo (3). Poteva esistere l' anima intellettiva senza gli intelligibili ? Nè pure, perchè la mente non è tratta al suo atto, che da una specie di contatto cogl' intelligibili, [...OMISSIS...] (4). Aristotele dunque trova, che nell' università delle cose, ci sono e ci devono essere sempre state queste cinque cose: 1 materia corporea; 2 esseri vegetativi; 3 esseri sensitivi; 4 esseri intellettivi; 5 intelligibili; e che se un solo di questi anelli mancasse, non potrebbero più esistere gli altri. Questi anelli poi sono collegati così, che il seguente è il precedente in atto, e il precedente è il seguente in potenza. Quindi la materia corporea è in potenza l' anima vegetativa, la qual è l' atto di quella; l' anima vegetativa è l' anima sensitiva in potenza, e questa l' atto di quella; l' anima sensitiva è l' intellettiva in potenza, e questa l' atto della sensitiva; l' anima intellettiva è gli intelligibili in potenza, e questi sono l' atto di quella. Così costituito e organato l' universo, si fa a spiegare la generazione delle cose. Osserva, che certi corpi passando all' atto metton fuori l' anima vegetativa, e questa la sensitiva, e questa passando all' atto l' anima intellettiva, e questa passando all' atto gl' intelligibili. Ma come si fa questo passaggio? Risponde: è sempre una cosa in atto, quella che opera e trae un' altra cosa, che è in potenza, al medesimo atto, la potenza non si move da sè stessa, ma solo asseconda e segue il movente. Se dunque vi sono cose che relativamente sd altre sono in potenza, queste però che sono in potenza, non potrebbero passare al loro atto, se non per la mozione d' altre cose che sono in quel medesimo atto, a cui esse passano. Laonde, se rispetto a quelle cose, che, essendo in potenza, passano all' atto, la potenza precede, l' atto sussegue: questo però, assolutamente parlando, precede sempre la potenza, cioè deve esistere in altre cose. E poichè la potenza e l' atto non sono che un medesimo ente, quindi tutte le cose si continuano, e sono come un ente solo che va passando a diversi stati o gradi d' eccellenza; non mancando mai questi gradi, che traggono e sollevano a sè quella porzione di natura rimasta indietro in uno stadio inferiore (1). Fermandoci qui, dicevamo che questo ingegnoso sistema non regge ad un esame rigoroso. Invano ricorre a questo principio vero e acutissimo, che « « l' atto di chi opera, si fa in quello in cui si opera » » (2). Primieramente la materia corporea, mancando per sè d' unità, non può mai essere un subietto com' egli stesso riconosce (3), appunto perchè non può esser una: quindi vacilla la base di tutto il sistema. Di poi quest' espressione « « ciò che è in potenza » » o è una frase insignificante e che non dice nulla di reale, o significa un germe, un principio, da cui si sviluppi quello che inchiude. In tal caso converrebbe che nella pura materia corporea ci fosse in germe la vita vegetale. Ma se questa ci fosse, non sarebbe più la materia pura ma formata, e non potrebbe poi essere al tutto materia corporea ed estesa, ma già sarebbe un principio inesteso, insito ed operante nella materia; e questo principio solo potrebbe essere il vero subietto dell' anima vegetale, di cui la materia non sarebbe che un puro termine. Che cosa poi dovrebbe essere l' anima sensitiva in potenza? Se l' anima vegetale, come suppone Aristotele, non sente nulla, in che modo ci può essere un germe del sentimento che non sente nulla? Nel germe si acchiude sempre qualche cosa di ciò che si svolge da esso di poi (1). O conviene dunque ammettere nell' anima vegetale qualche cosa di sentito, per minimo che sia, o riconoscere che non c' è in essa punto nè poco l' anima sensitiva in potenza. Il sentimento dove non è, dovrebbe essere creato del tutto, e non sviluppato; esso differisce di specie, ed anzi di genere da tutto ciò che non sente, e lo stesso Aristotele confessa, senz' accorgersi che così atterra sè stesso, che la produzione si fa entro la stessa specie, e dall' univoco (2). Medesimamente, non contenendo il sensibile l' essere delle cose, che è l' oggetto, secondo Aristotele, dell' intelligenza, come l' intelligibile si potrà trovare in potenza nel sensibile? E come potrà ridursi all' atto quello che non c' è? e non dovrà piuttosto crearsi dal nulla? O dunque « trovarsi in potenza »è un suono vano, o se vuol dire trovarsene qualche parte, per quanto involuta, già non è più vero, che il sensibile non sia che fenomenale e puramente relativo, come pur insegna Aristotele. Da tutte parti dunque crolla cotesto sistema, rimanendo però veri certi principŒ e certe parti accidentali. Arrivati noi qui agl' intelligibili d' Aristotele, ci si offre di nuovo la questione che abbiamo trattata precedentemente: se ci sia per Aristotele qualche intelligibile, che sussista da se solo. Su cui ci par necessario d' aggiungere alcune altre considerazioni, essendo questo il nodo più difficile di tutto l' Aristotelismo, e il più controverso. E già abbiam veduto, che Aristotele distingue le specie in quelle che sono in natura, e in quelle che servono all' uomo di norma nell' opere dell' arte. Sulla quale distinzione osserviamo come Aristotele non concepisca la specie unicamente come un' idea, che fa conoscere le cose, ma confondendo la specie7idea colla forma reale delle cose (cioè col loro atto immanente), dà a questa forma reale un' efficienza nella cosa stessa che non può certamente dare alla pura specie ideale , che sta nella mente dell' artista, la quale è bensì efficiente, ma nell' artista, non nella cosa dall' artista prodotta (1). Questa confusione del reale coll' ideale impaccia tutto il sistema aristotelico, e in qualche parte anche quello di Platone, a cui Aristotele riferisce la distinzione tra la specie negli enti naturali, e nei prodotti dell' arte (2). Alla specie artistica dunque nega a dirittura, come vedemmo, l' esisenza da sè; delle specie naturali non parla così reciso. [...OMISSIS...] Osserviam dunque su questo luogo che il negare il titolo d' essenze alle specie artistiche, riservandolo alle sole specie naturali, che costituiscono la natura delle cose e il principio della generazione e della corruzione, è consentaneo al suo sistema, il quale non ammette con Platone che l' universo sia creato da Dio come da un artefice, sull' esemplare delle proprie eterne idee, ma vuole, che tutto sia stato sempre, e questo tutto si rimova eternamente e cangi per que' quattro modi di trasmutazioni che abbiamo indicati, rispondenti alle quattro prime e fondamentali categorie. S' osservi anche quell' espressione, « « che d' alcune specie non può accadere così » », [...OMISSIS...] , per la quale sembra che consideri come accidentale a tali specie il sussistere separate. Con questo egli allude indubitatamente all' anima intellettiva, che considera come specie del corpo corruttibile, negando che preesista al corpo, come pare facesse Platone o alcuno della sua scuola, sebbene conceda che sopravviva al corpo, corrompendosi accidentalmente questo. Escluse dunque le specie artistiche, veniamo alle naturali che oltre esser mezzo del conoscere, quando rimangano nella mente separate dalla materia corporea, sono anche forme degli enti della natura (4). Richiamiamo il gran principio aristotelico, che « « niente di quello che è in potenza è eterno », [...OMISSIS...] (1), «e che se c' è una specie separabile, questa dee essere in atto », [...OMISSIS...] (2). Questo principio ci conduce egli a qualche specie in atto compiuto e separabile? Primieramente non è da discorrere della privazione , che si riduce alla specie , essendo o il mancamento della specie, o la specie opposta (3). Di poi, i generi e tutti gli universali incompiuti, non avendo l' ultimo atto, sono da Aristotele dichiarati materia (4). In terzo luogo, non possono essere separate le specie degli accidenti, perchè questi non hanno l' atto per sè, onde dice: [...OMISSIS...] . Rimosse queste tre classi di specie, che rimane? Rimane da sè la mente, specie ultimata, e separabile non solo di concetto, ma anche realmente, non solo dal corpo (se pure Aristotele rimane a questa altezza), ma anche dal resto dell' anima: e la mente è il complesso degl' intelligibili. Gl' intelligibili dunque, per riassumere, sono specie e generi, e le specie altre sostanziali, altre accidentali: queste ricevono il loro esser da quelle; la specie sostanziale è più atto della specie accidentale. I generi poi sono più potenza delle specie, e ricevono il loro atto in queste (6). Le specie sostanziali ancora si considerano o come termini dell' atto intellettivo e contemplativo, o come atti intellettivi esse stesse per la solita o almen frequente confusione che fa Aristotele tra la specie e l' atto . Secondo la prima considerazione, essendo ancora in potenza, non sussistono da sè, e Aristotele riprende Platone, quasi abbia voluto ammettere le idee come essenze prive dell' atto contemplativo, e però potenziali, quando nulla ci può esser d' eterno, che sia in potenza. La qual censura quanto sia ingiusta, scorgesi anche dal decimo della « Politeia », dove Platone fa, che le idee nascano da atti della divina mente. Che anzi lo stesso Platone non ci sembra andare del tutto immune dalla stessa colpa d' Aristotele, di non avere abbastanza distinto l' atto dalla specie , termine dell' atto (1). Per ovviare dunque l' inconveniente di non ammettere come eterne tali specie che in sè contenessero del potenziale, Aristotele pose questo principio, che « « in quelle cose che sono scevre di materia l' intelligente e l' oggetto inteso sono un medesimo » », [...OMISSIS...] (2). Ma che vuol dire « scevre di materia »? Non altro, nel linguaggio d' Aristotele, se non senza potenza. Quel principio dunque viene a significare: « Nelle cose dove non c' è potenza, ma tutto atto, l' intelligibile deve essere intelligente; chè altramente quello conterrebbe della potenza contro l' ipotesi ». Donde si conferma quanto abbiamo di sopra toccato, che Aristotele non vede atto puro se non nell' ordine intelligibile, e dentro a questo, nell' intellezione , di guisa che « atto puro del tutto ultimato »e « intellezione » è il medesimo, e quello non è già un genere, ma una cosa con questa specie ultimata. E non basta che le specie sieno attuate e divenute intellezioni: le specie che appartengono al genere della sostanza precedono alle altre in dignità per una maggiore attualità: l' altre che appartengono al genere degli accidenti, esistono per le prime. Le sole specie sostanziali dunque, ossia quell' intellezione che ha per oggetto o atto ultimato la quiddità [...OMISSIS...] (3), è la più attuale di tutte. Ma questo non basta ancora per arrivare a quella specie che sussiste da sè, secondo Aristotele, cioè alla mente . Che anzi egli è obbligato di fare, e questo è degno di osservarsi, il cammino contrario. Poichè non qualunque intellezione, che abbia un oggetto speciale o singolare, è mente, ma dee averli tutti in potenza. Conviene qui dunque che Aristotele retroceda alla potenza, non a una potenza corporea, ma pure ad una potenza, ed ecco come egli lo fa. I generi sono materia delle specie, specie in potenza (1). Essendo, specialmente certi generi , quelli « « che Platone avea celebrati, e considerati come idee fondamentali » », si compiace Aristotele di ribassarli sotto le specie. Ma ben presto n' ha bisogno egli stesso e li rialza. Infatti, Aristotele s' accorge che tutta la scienza viene da certi principŒ, e questi hanno per fondamento gli universali, e i principŒ primi hanno per fondamento gli universali della massima estensione. I principŒ primi dunque non vengono dalle specie, anzi da' sommi generi, e da ciò che è più universale ancora de' generi, l' essere. Alla mente d' Aristotele si presentano dunque, come abbiamo veduto, i generi e gli universalissimi da due aspetti, e ne trae due conclusioni opposte. Quando considera i generi qualità comuni delle cose (2), dice contro Platone, che non possono esistere separati dalle sostanze singolari. Da questi universali esclude la sostanza in atto, poichè la sostanza collocata nel primo luogo tra le categorie è la sostanza in potenza, ed è anch' essa una certa qualità, [...OMISSIS...] (3). Altre volte invece considera i generi universalissimi, cioè le nature in questi significate, come intelligibili e anzi primi intelligibili ; e sotto questo novo aspetto, esistono nella mente non come qualità comuni delle menti, ma come atti di ciascuna mente, e questi atti sono primi principŒ . Ma tutti cotesti atti o principŒ si riducono ad uno, cioè a quello di contraddizione, e questo è fondato nell' essere puro indeterminato, universalissimo, che è in potenza tutte le cose. Ora l' intellezione che ha quest' oggetto è appunto la mente . Questa mente è atto perchè è intellezione, ma è ancora potenza perchè ha un oggetto che è in potenza tutte le cose. Così dice che la mente è de' principŒ [...OMISSIS...] (1), e in essa ripone la divina natura. Poichè se il divino esiste, dice, dee certamente riporsi nella natura separata ed immobile (2). La specie sostanziale dunque, presa come forma reale delle cose, è la quiddità (3), la natura delle cose, e il principio di ogni generazione e movimento (4). La generazione poi tende alla specie sostanziale come a suo fine (5). Tutto si move dunque da una specie sostanziale ad un' altra specie sostanziale. Operando così la natura, l' ultima e più eccellente e divina specie che perviene a produrre, secondo Aristotele, si è l' anima, e in questa la mente: tale è il fine dell' operare della natura. Questa gran produzione dell' anima appartiene a quell' efficienza naturale, che Aristotele chiama generazione , e che riguarda la produzione d' una sostanza nova: ella si distingue dalle altre tre maniere di permutazioni naturali, che producono solamente delle specie accidentali, che non riguardano la categoria della sostanza, ma alcuna delle altre nove. Ora Aristotele pone questa differenza tra le produzioni sostanziali , e le produzioni accidentali della natura, che non può esser prodotta una nova sostanza , se non esiste già prima una sostanza della medesima specie in atto; laddove gli accidenti nuovi delle cose possono esser prodotti quantunque precedentemente non esistessero che in potenza, perchè gli accidenti, il quanto e il quale , non si producono mai in separato dalla sostanza, ma insieme con essa (1). Da qui procede che ab aeterno, secondo Aristotele, doveano esistere delle menti: perchè altrimenti non se ne sarebbero mai generate di nuove. Pervenuta dunque la natura, per mezzo della sua più eccellente operazione, cioè della generazione, a produrre questo ultimo suo atto, puro da materia corporea, che dicesi anima e mente , alla natura non resta altro che fare, ma in quest' ultima sua specie, come in termine della sua fatica, riposa. Ma qui appunto è già con ciò posta in essere una nuova causa d' operare, e questa è l' anima stessa intellettuale, dotata di diverse potenze, e che dà luogo a nuova serie di operazioni. A queste e ai loro prodotti dà il nome di effezioni [...OMISSIS...] , per distinguerle dalle generazioni, e le distingue secondo le potenze dell' anima. In qualche luogo ne fa tre classi: quelle che vengono dall' arte, quelle che dalla forza, e quelle che dal pensiero (2). Altrove dice che « « ogni pensiero [...OMISSIS...] o è pratico, o fattivo, o speculativo » » (3). Il pensiero fattivo è quello che produce qualche opera al di fuori come quello dell' architetto che fabbrica la casa, o del poeta che compone un carme. [...OMISSIS...] Or dunque quel pensiero che, movendo altre potenze, produce un' opera esterna, è detto da Aristotele fattivo : quel pensiero poi la cui azione non esce dal subietto pensante o è speculativo se è una pura contemplazione che non esca dalla mente, o è pratico , se c' entra la volontà, come nelle operazioni morali ed eudemonologiche. [...OMISSIS...] Ora, come tutta l' attività della natura è, secondo Aristotele, annessa alla specie come forma reale, così tutta l' attività dell' anima intellettiva, che è l' altra causa da Aristotele spesso compresa sotto la denominazione di arte, è del pari la specie come idea, ossia mezzo del conoscere. [...OMISSIS...] . E reca questo esempio tratto dall' arte medica: [...OMISSIS...] . L' arte ancora osserva la stessa legge ontologica della natura, che « « quello che agisce sia un ente in atto (qual è la specie) che opera su ciò che è ente in potenza traendolo all' atto » (5) ». Dichiara poi come il pensiero produca un effetto esterno come la sanità o l' edificio. Dice che egli trascorre tutta la serie dei mezzi fino che ne trova uno che è in suo potere e che è poi causa naturale degli altri. Così, a ragion d' esempio, il pensiero del medico arriverà alle fregagioni che è in suo potere di fare sul corpo dell' infermo. Conosciuto questo, mette in atto le sue forze fisiche: eseguite le fregagioni, queste da sè promuovono il calore, il calore produce l' equilibrio degli umori e dell' interne forze: e questo la sanità. Conchiude che è impossibile che l' arte faccia nulla, se non preesiste qualche cosa naturalmente (6). In quest' operare poi dell' arte distingue il primo movimento, che viene dal principio e dalla specie e lo chiama intellezione , quello poi che viene dall' ultima intellezione, come nell' esempio addotto le fregagioni, lo chiama effezione (1). La specie dunque tanto nella natura quanto nell' arte è il principio dell' attività e de' movimenti. Ma se tutte le specie nell' anima sono acquisite, come l' anima sarà un principio operante? Aristotele risponde che la stessa anima intellettiva è una specie (2). E dice la mente, come abbiamo più volte detto, « la specie delle specie ». Ma poichè il pensiero speculativo è il principio e il fondamento del pratico e del fattivo, e quindi di tutta l' attività dell' anima intellettiva, gioverà che, richiamando le cose dette, e svolgendole in parte maggiormente, cerchiamo di dare la maggior luce alla teoria aristotelica intorno all' intelligibile ed al divino. Perocchè con questo sviluppo l' anima si provvede di specie determinate, di cui si compongono le arti, e ogni specie è nuovo principio d' azione. Dalle cose vedute fin qui sembra che in Aristotele compariscano su questo argomento due dottrine opposte. Noi possiamo compendiare la prima in questo modo: « i corpi hanno le specie sensibili in potenza ; quando essi affettano un essere vivente, un animale, suscitano nella sensibilità dell' animale le specie sensibili in atto . Queste specie sensibili nell' animale hanno le specie intelligibili in potenza . Quando l' animale di cui si tratta, abbia un' anima intellettiva, le specie intelligibili che sono in potenza nella sua sensibilità, si suscitano in atto nel suo intendimento ». Queste formole hanno un' apparenza di rigore e di chiarezza: ma quando si vogliano spiegare in altre parole, s' oscurano. La espressione in potenza può intendersi in due modi: quindi due dottrine. O le specie sensibili sono in potenza ne' corpi così fattamente, che il senso, che le riceve in atto, non faccia altro che separarle dalla materia: e in tal caso esse sono veramente ne' corpi, unite colla materia. O le specie sensibili non sono punto nè poco ne' corpi, ma coll' azione de' corpi sull' organo sensorio del vivente si suscitano in esso; e in tal caso ne' corpi c' è soltanto una forza bruta ed insensata, che occasiona però le sensazioni nel subietto senziente. Una simile alternativa si faccia rispetto alle specie intelligibili: e si avranno le due dottrine che dicevamo. Ora egli pare che Aristotele or pieghi all' una ed ora all' altra. La prima intanto sembra cozzare con certe verità da Aristotele stesso insegnate. Questo filosofo accorda veramente ai corpi la condizione di sostanza realmente individua (1), ma nello stesso tempo sente la difficoltà d' una tale concessione. - La materia corporea non ha unità. - Lo vede; e risponde che il corpo riceve l' unità dalla specie o forma, con che ammette veramente inesistere ne' corpi bruti talune specie . - Ma che specie sono coteste? Non intelligibili. Forse sensibili? Nè pure essenzialmente, chè un corpo di minima grandezza non è sensibile. Non è dunque inerente all' essenza del corpo l' avere forme sensibili, non essendogli necessario l' avere una certa grandezza. Aristotele ricorre alla sua diletta espressione: « « gli è essenziale averle in potenza, chè il corpo piccolo può farsi grande » ». Vana risposta; il corpo grande, in quanto è grande, non è un corpo, ma un aggregato di corpi de' quali ciascuno non è sensibile. - Di nuovo: un corpo grande, che è uno fenomenalmente, avrà forme sensibili ? Nè pure, almeno fino a che agendo nel subietto senziente non vi produca le sensazioni: le specie sensibili non possono essere che passioni del senziente, come le chiama lo stesso Aristotele (2): le forme sensibili son dunque nel senziente e non nel corpo. Replica che in questo sono in atto, ne' corpi in potenza, perchè l' azione di questi le suscita (3). Sia, ma in tal caso si vuol dire non già che ne' corpi ci sieno specie sensibili , ma soltanto una certa forza e virtù d' eccitarle nel subietto senziente: e a questa virtù si dà la denominazione impropria di specie sensibili in potenza. Parliamo dunque chiaro: ne' corpi non ci sono in nessun modo forme sensibili, nè pure in potenza; queste sono in potenza nello stesso subietto senziente prima che ci sieno eccitate; eccitate poi, sono nel medesimo in atto. Poichè dove le specie sensibili sono in potenza, ivi solo s' intende che possano essere eccitate e attuate. Il che, si noti, procede dai principŒ stessi d' Aristotele, il quale molto acutamente dice: « « La natura si fa nel medesimo, poichè nello stesso genere della potenza » », e poco appresso: « « poichè sempre da ciò che è in potenza, si fa l' ente in atto da un atto esistente (1) » », e un atto dello stesso genere e specie (2). Ora, il corpo materiale non avendo nulla di sensitivo in sè, non può avere un atto nell' ordine sensitivo, non avendo una potenza che sia nella stessa specie, nè nello stesso genere della sensazione. E veramente un corpo esterno operante sui nostri sensori altro non fa che cagionare un certo movimento o spostamento di molecole, e questo movimento locale è in effetto nello stesso genere e specie della potenza che egli ha di moversi localmente: la sensazione all' incontro non è effetto di cotesto corpo esterno, ma del principio sensitivo che in potenza trovasi nello stesso genere e specie dell' atto della sensazione particolare, perchè l' anima sensitiva è ella stessa un sentimento (3). La natura corporea dunque ed inanimata non ha specie sensibili (4): ma queste, se specie si voglion chiamare, appartengono ad un' altra natura, a quella del corpo animato, termine dell' anima sensitiva. Pure il corpo esterno si sente come forza che immuta, relativamente alla disposizione nello spazio, il sentito dotato d' estensione: e questa forza si compone e quasi si veste del sentito, e di queste due cose di diversa natura, se ne fa una nella percezione dello spirito. Indi l' illusione di credere, che le specie sensibili appartengano ai corpi esterni. E poichè la loro forza si cangia, per la diversa collocazione e aggregazione degli elementi, perciò sembra che alcune di queste specie rimangano in potenza, altre poi sorgano all' atto. Ora su queste specie, supposte ne' corpi esterni, sembra che Aristotele fabbrichi una teoria, considerandole come il bene a cui tende la natura inanimata. E come tutto il bene ha ragion di fine , e la causa finale è divina , anche le cose animate tendono al divino col loro appetito. Ma tutta questa dottrina s' appoggia sopra un falso supposto. E Aristotele stesso pare in qualche luogo ammetterla, in altri pari abbandonarla, e applicarsi alla seconda dottrina da noi sopra accennata: anzi noi crediamo che quest' ultima più ragionevole sia veramente quella sola d' Aristotele, benchè le sue maniere ambigue lascino luogo a dubitarne. E` dunque del pari falso, che quelle che Aristotele chiama specie sensibili sieno in potenza intelligibili . Infatti, si può fare un ragionamento del tutto simile al precedente: che nelle specie sensibili non c' è affatto nulla dell' intelligibile; e però questo non ci può essere nè pure in potenza; stante che la potenza e l' atto conviene che siano della stessa specie. Aristotele confessa ad un tempo e che l' intelligibile è l' essere delle cose, e che l' essere delle cose non è punto nè poco offerto allo spirito dalle sensazioni. Veniamo dunque alla seconda dottrina : prendiamo l' espressione « essere in potenza », non come « materia e subietto atto ad uscire all' atto », ma come qualunque causa occasionale. La dottrina indicata si cangerà in quest' altra: [...OMISSIS...] . In questa dottrina i corpi esterni sono cause occasionali delle specie sensibili, e le specie sensibili cause occasionali delle intelligibili. E queste cause occasionali sono di quella classe, che noi chiamiamo materiali o terminative , perchè altro non fanno che mutare la materia, o termine dell' atto, senza avere nessuna azione nè sulla potenza che produce l' atto, nè sull' atto medesimo. Ora che questa dottrina si presentasse alla mente d' Aristotele, parmi si provi dai luoghi seguenti: « « Diciamo l' anima stessa essere in un certo modo tutte le cose che sono » ». - Queste cose, come dice appresso, sono le sensibili e le intelligibili , a' quali due generi riduce tutto: ora, riconoscendo che tanto le cose sensibili quanto le intelligibili sono nell' anima non solo in atto, ma ben anco in potenza: ne riconosce con ciò la distinzione originale, di modo che fin da principio essendo distinte, non possono venire le une dalle altre. Oltre di che, se sono nell' anima in potenza ed in atto, di conseguente non sono ne' corpi bruti. Continua dunque: « « Poichè quelle cose che sono, o sono intelligibili o sono sensibili » ». - Riducendo tutto a questi due generi, dove restano i corpi bruti? Si vedrà. - [...OMISSIS...] Se dunque quello che è in potenza e quello che è in atto deve essere della stessa specie, conviene che ci sia nell' anima un primo sentito che sia in potenza tutti gli altri sentiti, e un primo inteso che sia in potenza tutti gli altri intesi. Ora tale è il sentimento fondamentale , e l' essere ideale , che noi abbiamo posti come costitutivi dell' anima umana. Aristotele dunque qui è nel vero. Continua poi mostrando come rimangano le cose corporee fuori dell' anima così: [...OMISSIS...] . - Sulle quali parole conviene osservare, che la parola « pietra » può significare l' idea della pietra, la pietra ideale, e la pietra reale. Oltre di che la « forma della pietra »ha anch' essa due significati, poichè per forma ora s' intende da Aristotele la stessa cosa ideale composta di materia e di forma, ora la sola forma, che è l' atto sostanziale e immanente della cosa, astrazion fatta dalla sua materia, anche ideale (2). Si può dunque intendere il passo citato in vari modi; e tra gli altri in questi due, che nell' anima sia la sola forma , rimanendo fuori di essa il composto di materia e di forma: o che nell' anima sia la forma , rimanendo esclusa dall' anima la sola materia. In quest' ultimo senso fu inteso da' commentatori. Ma ciò involge l' assurdo, che la stessa identica forma sia separata ed unita alla materia, separata nell' anima, unita al di fuori dell' anima. Ora che la stessa cosa identica, una di numero, sia ad un tempo separata ed unita alla materia, è contradditorio. Convien dunque intendere che altro sia la specie della pietra nella mente, ed altro sia la forma o atto sostanziale della pietra materiale; quella che contiene forma e materia ideale, fa conoscer la pietra reale, e nella pietra anche la sua forma reale. Ma Aristotele stesso sembra che rimanga preso nell' equivoco della parola «eidos», che egli applica ugualmente alla forma reale della materia reale, e alla specie intellettiva. Non distingue mai chiaramente queste due cose totalmente diverse, se non colle espressioni di potenza e di atto , che non possono convenire; poichè la specie intellettiva ha nella mente tanto l' essere suo potenziale, quanto l' attuale, onde non può averlo al di fuori. Che se Aristotele consentisse a riconoscere l' infinita differenza, che passa tra la specie intellettiva della cosa (e in questa specie tra la forma ideale e la materia ideale) e la cosa reale (e in questa tra la materia reale, e la forma reale di cui si compone, la qual forma reale, riguardo alla pietra, altro non è che i suoi confini nell' estensione): con ciò ei darebbe la mano a Platone, che nelle cose corporee non vede se non una similitudine e una cotale imagine dell' idea. Questo è dunque il passo in cui Aristotele cade e contraddice alle verità da lui stesso vedute. « « Laonde l' anima, prosegue, è come la mano: chè la mano è l' istrumento degli strumenti, e l' intelletto la specie delle specie, e il senso medesimamente la specie de' sensibili » » (1). Vedesi che anche qui per Aristotele (nè pur l' anima intellettiva) non è il subietto , ma uno strumento del subietto. Il qual luogo s' illustra con quest' altro: [...OMISSIS...] . Dal qual luogo si raccoglie che l' anima è strumento degli strumenti, come la mano, perchè essa è strumento dell' uomo, ed ella stessa usa come di suo strumento la scienza, che comprende tutti gl' intelligibili. E per la stessa guisa è specie indeterminata delle specie determinate. Anche delle specie sensibili? Così parve agli scoliasti doversi intendere quel luogo, come spiegazione di ciò che dice così di frequente, che « « l' anima senza i fantasmi nulla intende » » (1). Nè noi ripugniamo, osservando solo che se la mente è specie delle specie sensibili, già con questo s' ha, che le specie intelligibili sieno poste dalla mente là, dove sono le specie sensibili o i fantasmi; e in tal caso le specie intelligibili non sono nè pure in potenza ne' fantasmi, se non forse in un modo passivo o ricettivo, ma la mente li ha prima in potenza, e poi li attua all' occasione de' fantasmi. Perchè la mente è data dalla natura, dice Aristotele, ed ella è la specie intelligibile delle specie sensibili. Onde anche dice, che « « l' intellettivo intende le specie ne' fantasmi » » (2). Ora questo «to noetikon» è quel principio stesso nell' anima che chiama anche «to epistemonikon,» quel primo sapere indeterminato che è insito nell' anima e che costituisce la mente. Dice anche più espressamente che i sensibili « « non sono intelligibili, e che la mente non intende gli enti di fuori senza la sensazione, ma insieme con questa » » (3). Onde nè le specie intellettive sono i fantasmi, nè qualche cosa che sia veramente in essi, anzi qualche cosa che la mente vede in essi, cavandolo da sè stessa (4). Sebbene dunque gl' intelligibili non siano nei sensibili (benchè impropriamente lo dica Aristotele) e questi non siano specie, cioè oggetti; tuttavia s' avvera che « « chi nulla sente, nulla può imparare o intendere » » (5), perchè i sensibili sono quelli a cui l' intendimento applica l' essere ideale, e con questo prima li percepisce, e poi dai percepiti intellettivamente astrae gl' intelligibili puri, come abbiamo mostrato nell' « Ideologia ». Nè c' è bisogno per questo, che i sensibili siano vere specie, ma quelli che ricevono nell' anima intellettiva la specie della mente, e così s' intendono; sono dunque, come diceva Platone, non già le specie, ma la realizzazione delle specie; queste sono la loro parte intelligibile, e l' iniziamento del loro essere, essi sono il termine d' un tal essere. O conviene considerarli in questa relazione, o rinunziare a parlare di essi. Nè si sottraggono alla specie per essere trascorrevoli e rimutabili; perchè c' è anche la specie immutabile del mutabile. Concludiamo dunque, che il divino non è sparso nel mondo materiale; e che Aristotele fa uso di vane metafore, quando dice che tutta la natura, tendendo a prendere qualche forma appetisce il divino: il divino non è, e non può essere che nell' ordine dell' intelligenza. Anche secondo Aristotele questa non ci sarebbe, se ci fosse solo il sensibile, essendo ella d' altra natura, e conviene che preceda in atto ogni sensibile, perchè il sensibile è mutabile di continuo e relativo ed essa, eterna ed assoluta; e se essa non s' unisce nell' anima al sensibile come forma, il sensibile non sarebbe mai conosciuto, non essendo conoscibile per sè. Dopo aver detto che non può esserci altro che l' anima, che dia unità agli elementi corporei, e che ciò che contiene [...OMISSIS...] , checchè egli sia, è più eccellente del resto, soggiunge: [...OMISSIS...] , parole su cui insiste lo scoliaste Filipono, come concludenti a provare che, secondo Aristotele, la mente ha un' esistenza separata, e sua propria (2). Suppone altresì Aristotele che esista qualche cosa d' eterno e d' intellettivo con esistenza sua propria, per ispiegare la generazione degli animali. [...OMISSIS...] . Ammette dunque come eterna causa finale della generazione il bello e il divino , che è per sè intelligibile, e prima sostanza. E perchè la generazione è una tendenza a queste cose che sono eterne, non potendo l' animale terrestre essere eterno nell' individuo, s' eterna, come può, nella specie , [...OMISSIS...] . Pone ancora il principio, che sia « « cosa migliore per ciò che è più eccellente il separarsi da ciò che è deteriore » », [...OMISSIS...] , e che perciò quello che è migliore, tende sempre a separarsi realmente e non solamente di concetto da ciò che è inferiore, e a costituirsi da sè così separato; di che deduce, che in tutti gli animali ne' quali è possibile, il principio maschile e motore [...OMISSIS...] tende a costituirsi diviso dal principio femminile. Dal qual principio medesimo si ha la conseguenza, che la mente e Iddio sarebbero in uno stato d' imperfezione se non esistessero da sè, ma avessero bisogno d' inesistere in altro o ad altro congiunti. Ma quello che mi pare decisivo per riconoscere, che Aristotele ammette che la natura della mente è separata non solo di concetto, ma realmente dai corpi e dai sensibili che non sono senza i corpi, si è, che egli insegna, che l' atto della mente non comunica con alcun corpo. [...OMISSIS...] . Dunque nè pur l' anima in quant' è atto del corpo; ed avendo definito l' anima « un atto del corpo »carattere, che essendo generico è comune ad ogni specie di anime, ne viene la conseguenza, che quantunque l' atto della mente non comunichi con alcun corpo, ma da sè solo sostanzialmente sussista, tuttavia quando la mente, essendo data all' anima come uno strumento, viene dall' anima adoperata a percepire ed intendere, essa anima abbia bisogno del corpo. Onde alle citate parole Aristotele si continua così: [...OMISSIS...] . Onde per l' uso che fa l' anima della mente imagina un corpo etereo e divino, che si separa dal rimanente e sta colla mente congiunto. Veramente egli pare che Aristotele non possa concepire la mente senza un qualche corporeo involucro, o non possa almeno mantenersi a lungo costante in questo pensiero; può forse salvarsi da questo totale materialismo, se, come noi dicemmo, s' intenda, che l' anima, che è atto del corpo, n' abbia bisogno per far uso della mente. A questo conducono anche tutti que' luoghi, dove dopo aver insegnato che l' atto è anteriore alla potenza di concetto e di assenza [...OMISSIS...] , dice che « « necessariamente deve presussistere la ragione e la notizia alla notizia » », [...OMISSIS...] (1), e cioè nelle opere della natura deve preesistere la specie e nell' acquisto delle notizie, ce ne deve essere sempre una precedente. Non di meno ove si tratta della generazione di cose composte di materia e di forma, la specie ossia l' atto operante non è separato, onde dice parlando dell' uomo che « « un tale nascimento avviene per la specie , poichè colui che genera è tale » » (2), cioè ha quella specie, è in quell' atto. Ma nell' arte la specie operante è senza materia, e dice che alcune cose si fanno a caso a quel modo che le fa l' arte (3). Comechessia di ciò che opera la natura, pare non potersi dubitare che la mente, ossia l' intellezione sia, secondo Aristotele, una sostanza da sè, senza abbisognare d' altro subietto, e in essa tutti gl' intelligibili. Se dunque negl' intelligibili è contenuta la divina natura, qual unità possono questi ricevere? O sarà diviso il divino, secondo che nelle varie menti sono divisi gl' intelligibili? A questa questione che già prima ci avevamo proposta, ora dobbiamo rispondere. Che Aristotele non desse unità al divino, il brano seguente lo fa sospettare: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo esclude la grandezza, e le parti estese dalla mente: e tuttavia a torto, per quanto a me pare, se n' indusse che Aristotele volesse lasciare la mente sparsa per modo che nulla più fosse se non una successione di staccati pensieri (2). Acciocchè dunque si veda in che modo crediamo noi che Aristotele trovasse l' unità nell' ordine degl' intelligibili, distinguiamo queste tre cose, la mente , l' intellezione , gl' intelligibili , e cerchiamo che cosa egli dica dell' unità della mente, dell' unità dell' intellezione e dell' unità degl' intelligibili. Noi vedremo queste tre unità rientrare in fine in una sola e verace unità. Poichè fino a tanto che Aristotele considera queste tre cose in separato l' una dall' altra, ne parla come fossero tre, ma quando le considera unite, ne fa una sola e medesima sostanza, altro non essendo per lui l' intellezione che la stessa mente in atto, e gli stessi intelligibili in atto. Ma cominciamo da questi ultimi e vediamo se siano al tutto così divisi tra sè, che non abbiano vincolo alcuno. Primieramente Aristotele distingue gl' intellegibili in due classi: 1 gli universali (3), e 2 i primi principŒ. Gli universali, secondo lui, sono intelligibili medii tra' due estremi, cioè tra i singolari e i supremi principŒ . Aristotele in luoghi diversi li considera ora in relazione ai singolari , ora in relazione ai primi principŒ del ragionamento, e così riesce, senz' avvertirlo egli medesimo, a conclusioni diverse. Considerandoli in relazione ai singolari, Aristotele insegna che gli universali sono indeterminati (4), e hanno natura di materia, cioè di potenzialità relativamente alle specie e alle definizioni (5), e non sono l' essere delle cose, ma il loro modo di essere; l' essere stesso della cosa è l' essenza sostanziale di questa (1). Ma Aristotele, benchè voglia con quest' essenza sostanziale designare il singolare, ossia l' individuo reale, non ci arriva, chè la sua mente corre a un universale ch' egli prende per singolare, cioè alla specie: egli si sforza costantemente di dimostrare che « « l' essenze degli enti non istanno ne' generi » », e così crede di combattere Platone. Ma quando viene a indicare in che consista l' ente stesso, ora ve lo descrive come un individuo reale , ora scappandogli questo di mano, vi parla come fosse la specie piena , o l' individuo vago , ora come fosse la specie astratta . Questi tre modi dell' individuo, che è la sostanza prima d' Aristotele «protai usiai» (2) si permutano ne' suoi ragionamenti, il che genera somma oscurità e confusione (3). Spesso dunque sembra non s' accorga che la specie stessa è universale, e la considera piuttosto come un elemento degli enti singolari (1); e quando se n' accorge, pare che si piaccia di chiamarla, in vece che specie, genere ultimo [...OMISSIS...] . I generi poi li considera come universali, e specie in potenza. E appunto perchè i generi, ossia, come egli esclusivamente li chiama, gli universali non sono che entità potenziali, perciò non possono sussistere separati, ma solo insiti nelle specie; laddove le specie , almeno alcune, riconosce dover sussistere separate da ogni materia, e certamente, nel loro atto di menti e d' intellezioni, come diremo. Poichè, oltre gli argomenti che abbiamo più sopra arrecati, in questo appunto egli trova la ragione per la quale alcuni degli enti dell' universo sono corruttibili, altri poi incorruttibili e sempiterni. « « Poichè, dice, se »(i principŒ de' corruttibili e degli incorruttibili) « sono i medesimi, in che modo questi »(enti) « sono incorruttibili, quelli poi corruttibili e per qual cagione? » » (2). E risponde che la ragione della corruzione nasce dall' unione della specie o ragione e della materia: [...OMISSIS...] . E prosegue a dire che per ciò stesso non si dà definizione nè dimostrazione delle singolari sostanze sensibili, perchè hanno materia. Onde « « tutti gl' individui di esse sono corruttibili » », [...OMISSIS...] . Ora egli è indubitato che Aristotele riconosce esistere degli incorruttibili, de' sempiterni e questi immobili, giacchè lo stesso movimento locale, sebbene non importi corruzione, importa trasmutazione e materia «kata topon.» Convien dunque che qualche cosa ci sia di separato dalla materia. [...OMISSIS...] Da per tutto in queste dottrine s' incontrano perplessità e contraddizioni almeno apparenti. Da una parte i generi non sono elementi componenti gli enti, laddove la specie è uno dei due componenti integrali degli enti: di che parrebbe che la specie non potesse esistere separata e i generi sì. Dall' altra gl' intelligibili, che comprendono e i generi e l' ente e l' uno, non esistono separati, ma se non sono elementi, inesistono però inizialmente negli enti già composti de' due loro elementi, la materia e la specie o nelle specie stesse (2). E` dunque da considerarsi, che la questione che si fa: « se possano esistere separate le specie o i generi », riguarda la materia: cioè si domanda con essa « se possono esistere senza materia ». Ora una tale questione non può farsi che delle specie, poichè o queste possono sussistere senza materia, o no. Se non possono sussistere, molto meno i generi che delle specie si predicano, e così sono un loro elemento iniziale. Se sì, la questione è finita, perchè i generi sono già nelle specie. Onde invece di domandare: « se i generi possano esistere senza materia », converrebbe oggimai fare una questione al tutto diversa e domandare « se possano esistere divisi dalle specie »(1). Ammette dunque Aristotele o non ammette qualche natura separata dalla materia? E questa è specie o genere? - Che la ammetta, dopo quello che abbiamo detto, pare dimostrato, e noi non ne dubitiamo. Ma il difficile a determinare si è: che cosa sia questa natura immateriale. Per uscire da questa perplessità conviene rimovere altre ambiguità del linguaggio aristotelico, troppo povero per la potenza analitica d' una tal mente. Prima di tutto dunque si distinguano accuratamente due significati in cui sono presi i vocaboli specie e genere . Talora s' intende sotto il nome specie o genere la natura significata da queste parole: talora poi la proprietà che ha questa natura d' essere partecipata da più singolari, onde si chiama comune, o universale (2). Ora il proprio ed unico significato delle parole specie e genere , secondo l' uso moderno, è quello di significare non la natura semplicemente indicata con esse, ma la natura in quant' è comune o universale. Per esempio il vocabolo uomo significa: 1 la natura umana; 2 la suscettività che ha questa natura di trovarsi realizzata in molti individui. Ora solo in questo secondo significato da' moderni si dice specie . Ma gli antichi lo prendevano ora nel primo, ora nel secondo significato. Così animale significa: 1 o la natura animale; 2 o di più la suscettività che ha questa natura di essere in molte specie , e solo in questo secondo significato è propriamente genere secondo l' uso moderno, che gli antichi ancora non avevano determinato. Quando dunque Aristotele considera l' intelligibile come una natura , senz' altra relazione, allora non trova impossibile che esista da sè (cioè alcuni degl' intelligibili) senza materia; ma quando lo considera come atto ad essere realizzato in molti individui, dal che acquista la propria significazione di specie e di genere, allora lo trova impossibile. Da questi due aspetti diversi sotto cui Aristotele considera la cosa stessa, mi pare che derivi quella duplicità di dottrina, che fu già osservata da molti eruditi moderni in Aristotele. In fatti la difficoltà, principio delle altre, che trova Aristotele ad ammettere le idee di Platone, si riduce a questa: « « Tali idee sono comuni: ma tutto ciò che è comune è indeterminato: ora nulla d' indeterminato può esistere in sè: non possono dunque coteste idee che sono specie o generi e però indeterminati, esistere come enti da sè » » (1). Tentò dunque Aristotele di sostituire alle idee di Platone un' altra maniera d' intelligibili, che potessero sussistere da sè, senza quell' inconveniente. In che guisa? Conveniva trovare degli intelligibili determinati (2). E poichè quello che è indeterminato è la materia, gli parve che non ci fosse a ciò bisogno di materia, anzi, che questa fosse d' impedimento a rendere gl' intelligibili determinati. In fatti, le specie sono quelle che determinano la materia e che la fanno essere « « questo qualche cosa » » «tode ti». Ora fin a tanto che la specie informa la materia, ne risulta un composto determinato a cagione che tale è la limitazione d' ogni materia, che non può ricevere se non una certa maniera di atti, e con questi soli si determina. Ma non così quando la specie stessa si divide dalla materia: quella allora è indeterminata perchè, sufficiente a determinare una data materia, non è determinata ella medesima, sia perchè può esser partecipata da più materie, sia perchè può appartenere a più generi. Come si potrà dunque fare a spingere questa specie separata fino all' ultima sua determinazione? L' indeterminazione è una potenzialità. Converrà dunque spingerla al suo atto ma nell' ordine dell' intelligenza, non dovendosi più unire colla materia. Ora la mente spinge quella natura intellettiva, che è nella specie, a un atto intelligibile ulteriore, quando da molte specie ne cava de' generi, e da questi generi de' principŒ, e da tutti i generi insieme trae quell' intelligibile che è sopra tutti i generi, il quale è l' ente, e da questo poi toglie il principio supremo e universale di tutti i principŒ, che è quello di contraddizione. Ed ecco un principio semplicissimo che non ha più nulla d' indeterminato: ossia un primo intelligibile, l' essere da cui quel principio si prende. L' essere dunque è l' ultimo atto degl' intelligibili, atto puro, e quest' atto intende essenzialmente, secondo il principio che « « ogni intelligibile privo di materia, cioè di potenzialità, è di natura sua intelligente » » (1): e però sussiste ed è la mente prima ed essenziale d' Aristotele. Aristotele si propone dunque per l' esposizione di un tale sistema di seguire questo metodo: 1 di esporre i passi che fa l' intendimento umano per giungere colla riflessione agli ultimi principŒ, e questa è la parte storica del suo lavoro; 2 di dimostrare a quali condizioni, con quali mezzi l' intendimento può fare questo suo viaggio, e questa è la parte teoretica . La parte storica si trova specialmente nell' ultimo capo del libro secondo degli « Analitici posteriori », e n' abbiamo già recati i testi: la parte teoretica si trova principalmente nel terzo libro dell' Anima (capitoli quarto e quinto), di cui pure abbiamo fatta l' analisi. La storia del modo con cui l' anima intellettiva procede fino agli ultimi intelligibili, è questa: l' anima ha un' attività e un movimento intellettuale suo proprio: prima riceve la sensazione: questo è di tutti gli animali. Ma l' anima d' alcuni non va oltre: in altri la cosa sentita rimane [...OMISSIS...] : quest' uno che rimane nell' anima [...OMISSIS...] è una memoria , e dalla memoria di tali cose si fa la ragione di esse [...OMISSIS...] . Dalla memoria ripetuta della stessa cosa si genera l' esperienza , [...OMISSIS...] . Dall' esperienza poi, cioè da tutto ciò che è stato depositato nell' anima e che è l' universale, cioè dall' uno fuori dei molti, che in tutti i precedenti restati nell' anima giace uno e il medesimo, si fa il principio dell' arte e della scienza [...OMISSIS...] (1). Quest' è la storia del movimento del pensiero: veniamo alla teoria. Aristotele distingue primieramente la sensazione dall' ente a cui la sensazione si riferisce: poichè dice: « « si sente il singolare, ma la sensazione è dell' universale » » (2). Se dunque si sente il singolare, il senso non dà l' universale: ma è l' anima quella che in occasione del senso, con un' altra sua facoltà diversa da quella del senso, apprende l' universale, e riferisce la sensazione a un universale, onde in questo senso la sensazione è dell' universale, cioè l' anima intellettiva universalizza il singolare che è il solo dato dal senso. Ma come fa quest' operazione? Che cosa le bisogna per poterla fare? Certamente, risponde Aristotele « « un abito che abbia virtù di far conoscere » » [...OMISSIS...] , che il Bessarione traduce « notificans habitus », ma non abiti determinati, esclusi da lui poco appresso. Quest' abito ingenito, che ha virtù di far conoscere, e ciò che altrove Aristotele chiama lo scientifico dell' anima, [...OMISSIS...] , e che nella « Psicologia » dice « « come un abito a guisa di luce » » [...OMISSIS...] . E` dunque da tener fermo il principio aristotelico, che in ogni ordine di cose l' atto precede sempre alla potenza, e che questa non potrebbe mai uscire al suo atto, se non preesistesse un' altra cosa in atto, che operando in essa l' attuasse. Onde anche nell' ordine delle operazioni intellettive ci deve essere, secondo Aristotele, un atto primo d' intelletto, che tragga in atto ciò che è in potenza ad essere inteso. [...OMISSIS...] . Niuna similitudine più acconcia di questa: la luce è tutt' i colori de' corpi in potenza: ma i corpi sono la causa occasionale per la quale i colori della luce si manifestano in atto: e tuttavia è la luce quella che mette i colori in atto ricevutane l' occasione da' corpi (4). Infatti, Aristotele riconosce che nella stessa mente umana da una parte ci devono essere tutte le cognizioni in potenza, dall' altra ci dee essere un atto, che tragga all' atto quelle cognizioni in potenza all' occasione delle sensazioni. Noi abbiamo già detto e in parte provato, che Aristotele intende, per la mente insita nell' uomo per natura, l' essere in universale . Ma come questo può essere ad un tempo potenza ed atto? Veniamo a dichiararlo. Primieramente non si perda di vista che i concetti di potenza ed atto sono relativi; e che quello che è atto rispetto ad una data cosa in potenza, può esser potenza rispetto ad un atto inferiore. Così ogni intelligibile è atto rispetto al sensibile , secondo la maniera di parlare d' Aristotele, ed è potenza rispetto ad un atto ulteriore che è l' intellezione . Ora la mente innata d' Aristotele è composta d' intellezione e d' intelligibile: poichè queste due cose non ne fanno realmente che una (1) e questa una è la mente: ma tuttavia queste due cose sono realmente indivisibili l' una dall' altra, e secondo il concetto diverse. Perciò distinguendosi nella stessa mente due elementi da cui risulta, si può benissimo senza contraddizione trovare in essa qualche cosa che sia in potenza e qualche cosa che sia in atto. Ora secondo Aristotele l' intelligibile in rispetto all' intellezione è potenza, e questa è atto rispetto a quello. Ed è per questo appunto che, partendo dal principio che « l' atto dee sempre precedere la potenza », negò che le idee platoniche sussistessero per sè stesse, e vi sostituì delle intellezioni, onde dice: [...OMISSIS...] . La scienza dunque, le idee, ossia gl' intelligibili sono potenza relativamente al subietto attualmente intendente, e molto più all' intellezione attuale e presente (3). Essendo dunque composta la mente aristotelica d' intelligibile e d' intellezione, ed essendo quello potenza rispetto a questa, e questa atto rispetto a quello, ne verrà che l' intelligibile dato per natura sia la mente in potenza d' Aristotele, e l' intellezione o l' intendente sia la mente in atto. Poichè veramente Aristotele non fa di queste, due menti , come inesattamente fu detto, ma due differenze nella stessa mente, come espressamente egli dice, [...OMISSIS...] (1). Rimane dunque a vedere, essendoci una mente in atto e però un intelligibile in atto dato all' uomo per natura, col quale egli si forma tutti gli altri intelligibili, che cosa sia quest' intelligibile proprio della mente, e se lo ammettere che sia l' essere in universale concordi con tutte l' altre dottrine d' Aristotele, o colla massima parte di esse. Aristotele dice costantemente che l' oggetto della mente sono i principŒ, [...OMISSIS...] (2). Ora i principŒ sono anteriori ad ogni dimostrazione e ad ogni scienza dimostrativa (3), e si devono preconoscere acciocchè sia possibile il ragionamento. Ma sotto la denominazione di principŒ Aristotele intende due cose: 1 le percezioni de' singolari e idee specifiche che si cavano da quelle; 2 le ultime regole delle scienze e delle arti. Dice dunque che « la mente è degli estremi » [...OMISSIS...] per una parte e per l' altra (cioè tanto nel giudicare che nell' agire). [...OMISSIS...] . Distingue dunque una mente acquisita coll' uso, e una mente innata che è una natura. [...OMISSIS...] . La mente acquisita per natura, cioè per via della mente innata, sono dunque gli intelligibili acquisiti, i percepiti (singolari), le specie, i generi fino gli ultimi e i principŒ dell' arte e della scienza, che tutti si formano per quella induzione che descrive sulla fine degli « Analitici ». Ma qual è quella natura che è causa di tutto ciò? Dev' essere certamente « la mente in atto », perchè se non precede l' atto, secondo Aristotele, nulla si può ridurre dalla potenza all' atto; onde riconosce davanti a tutto « « un principio della scienza con cui si conoscono gli stessi termini primi ed indimostrabili » » (1), e a questo principio dà appunto il nome di mente, [...OMISSIS...] . Dovendo dunque l' intelligibile, che costituisce la mente in atto d' Aristotele, trovarsi nei principŒ , poichè questi sono l' oggetto della mente, e quella si chiama anche da lui come vedemmo « il principio de' principŒ »; è da sapersi che Aristotele, tra l' altre distinzioni che fa de' principŒ, fa pure questa, che li divide in due classi, chiamando quei della prima « «ex on,» ex quibus , » quei della seconda « «peri ho,» circa quod , » che noi potremmo chiamare principŒ formali e principŒ materiati . Ora questi secondi sono proprŒ «hai de peri ho idiai,» di ciascun genere, e perciò sono molti; i primi all' incontro, cioè i formali, sono comuni a tutti i generi «hai ex on koinai» (3). Ora tra tutti i principŒ comuni è dichiarato da Aristotele comunissimo e supremo il principio di contraddizione «to pan phanai, he apophanai» (4). Si confronti dunque che cosa dica Aristotele di questo principio, e che cosa dica della mente, e si vedrà che la mente innata e attuale si riduce all' intuizione di quel principio o de' suoi termini. Infatti Aristotele chiama la mente: « « principio della scienza » », e ancora « « principio de' principŒ » »: e alla stessa maniera chiama il principio di contraddizione. Aristotele pone la mente anteriore ad ogni altra cognizione e necessaria a formarsi quest' ultima; ed egualmente insegna che il principio di contraddizione è anteriore a tutto e che senz' esso non si dà cognizione possibile. [...OMISSIS...] E tosto dice che questo è il principio di contraddizione, che egli esprime con queste formole: [...OMISSIS...] . Di che conchiude, che « « questo è per natura il principio di tutti gli altri assiomi » », [...OMISSIS...] (3). Ora così appunto chiama la mente il principio di tutti i principŒ, [...OMISSIS...] (4). E anche intorno a questa dice egualmente che non è possibile alcun errore, e sempre è vera come la scienza che ne deriva, [...OMISSIS...] (5), il che non direbbe, se colla parola mente intendesse di parlare di una mera facoltà subiettiva, e non d' un oggetto inteso, perocchè a questo solo conviene l' essere vero e falso e all' intellezione che forma con esso una cosa. Siamo dunque arrivati a trovare il primo principio che costituisce la potenza conoscitiva in atto, secondo Aristotele. Ma dobbiamo ancora appurarlo: perocchè il principio di contraddizione, venendo espresso in una proposizione (1), ha qualche cosa di completo e quasi di artefatto e però non può ancora essere ingenito nell' anima in questa forma di proposizione; i termini della proposizione si conoscono come suoi elementi, si devono conoscere anteriormente alla proposizione (2). Ora quella che conosce i termini estremi è la mente, come abbiamo veduto (3). Secondo il nostro filosofo pertanto ogni genere è fondamento di principŒ diversi, e in ogni genere uno solo è il principio supremo (4). Ma sopra tutti i generi è l' essere puro, e questo è fondamento ai principŒ comunissimi e universalissimi, ossia gli assiomi: « « Poichè questi sono in tutti gli essenti, ma non in un singolar genere a parte dagli altri. E tutti ne usano perchè sono dell' ente come ente [...OMISSIS...] e ogni genere è ente » » (5). Ora tra questi principŒ il notissimo e certissimo e quello che deve avere ognuno, acciocchè possa conoscere qualunque cosa, è il principio di contraddizione (6). Questo dunque è un principio dell' ente, non è composto d' altri elementi, non ha altri termini che l' ente , o per dir meglio l' essere . Il che si vede pigliando la sua formola più semplice che è « « essere o non essere » », «einai he me einai» (7). Ora il negativo «me einai» si conosce, secondo Aristotele, pel positivo «einai,» e posteriormente a questo (.). Dunque il solo essere resta il primo e per sè conosciuto dalla mente, più noto e certo di tutte l' altre notizie, intorno al quale non si può commettere errore, e senza il quale non si può conoscere il principio di contraddizione, il quale è necessario che preceda ogni altra cognizione ottenuta per mezzo dell' induzione, e per ciò stesso la cognizione de' generi che Aristotele suol chiamare assolutamente gli universali . Acciocchè dunque ci sia nell' uomo la mente in atto, che tragga in atto gli universali che sono potenzialmente, secondo l' espressione aristotelica, ne' sensibili, è necessario che preceda nell' uomo « l' intellezione dell' essere »comunissimo a tutti i generi. Dal vedere adunque che l' essere non costituisce alcun genere, ma è in tutti, Aristotele si convinse che oltre la natura , divisa in enti particolari che si riducono in generi, doveva esistere qualche altra cosa al di là e superiore alla natura , e riprese quei naturalisti che tutto racchiudevano in questa: [...OMISSIS...] . C' è dunque indubitatamente qualche cosa per Aristotele di separato da ogni materia corporea e di superiore a tutta la natura e questo è l' ente puro, e questo non è l' ente indeterminato, il quale ha bisogno dell' essenza per esistere, ma l' ente che è ad un tempo la propria essenza (2). In un luogo della « Metafisica » reca una norma per rilevare ciò che c' è di separato realmente, e ciò che si separa solo di concetto; poichè dice: [...OMISSIS...] . I concetti non sono ad un tempo, cioè si pensano colla mente separati gli uni dagli altri: questo fa che ci sia distinzione di concetto, ma non è una distinzione reale, perchè l' un concetto viene dall' altro. Arreca in esempio le linee: di linee nulla si compone, non sono specie che informino qualche ente come sarebbe l' anima, nè sono materia come sarebbe il corpo. Sono dunque concetti che vengono da altri concetti, cioè dal concetto del corpo solido, [...OMISSIS...] , e tuttavia si pensano in separato, [...OMISSIS...] , e si pensano come elementi del corpo e però sono precedenti di concetto [...OMISSIS...] . Così l' uomo è bianco per apposizione della bianchezza, nè per questo la bianchezza ha un essere precedente, nè l' uomo ha un essere posteriore, poichè la bianchezza « « non può essere separata, ma è sempre insieme col composto » » (2). Distingue dunque Aristotele manifestamente due specie d' intelligibili , gli uni che si fanno «to logo,» separandoli appunto dalla materia, e questi sono puri concetti, o ragioni, o, come li chiama, « « concetti fattizŒ » », «plasmatias ho logos» (3); altri poi che possono essere separati, come essenze sussistenti e intelligibili per sè. I primi sono relativi ai corpi e ai sensibili e però non possono sussistere fuori di questi altro che come concetti o ragioni della mente (4); gli altri hanno un essere assoluto, e però separati da ogni altra cosa conservano quest' essere, e apparisce anzi più eccellente, onde eccedono e vincono, secondo l' espressione aristotelica difficile da rendersi nella nostra lingua «to einai hyperballei». Questa distinzione degl' intelligibili in due classi è tolta da Platone stesso, come abbiamo veduto. Ma Aristotele quantunque riconosca che quelli della prima classe uniti alla materia non siano punto intelligibili, ma così appartengano al senso, e diventino poi tali per opera dell' intendimento che li separa, e li considera separati, quasi fingendoli tali; tuttavia nega contro Platone, almeno inteso come l' intesero alcuni de' suoi discepoli, che esistano per sè ab aeterno. Ma riguardo ai secondi Aristotele ammette che esistano precedentemente e per sè, non però allo stato di pure idee, ma come intellezioni, ovvero enti intellettivi, e di questi si deve principalmente intendere quello che dice che [...OMISSIS...] . Ma tutti questi si riducono all' essere (riconosciuto da Aristotele pel primo universale) (2) e però dice che « « a quel modo che ciascuna cosa ha dell' essere, in quello stesso ha della verità » » (3). Dall' essere dunque, che è la verità, viene il lume all' intendimento (4), e per mezzo di questo, all' occasione delle sensazioni si vedono gli altri universali. Poichè non avendo l' anima nostra che l' intuizione dell' essere al tutto indeterminato « « la speculazione della verità per noi parte è difficile, parte facile » »: facile coglierne una parte avendone il lume per natura, difficile raggiungerla tutta essendo il lume naturale assai poco. La causa dunque di questa difficoltà, dice, non è nelle cose, ma in noi, [...OMISSIS...] . Quindi dobbiamo cavare le notizie universali coll' induzione, non perchè queste sieno ne' particolari sensibili, ma perchè, essendoci nell' anima l' essere, questi hanno nell' essere la loro ragione , e questa ragione è distinta dai sensibili stessi: così gl' intelligibili dei sensibili si distinguono da essi unicamente per la ragione , non perchè questa ragione costituisca altri sensibili ideali ed eterni, diversi dai sussistenti medesimi (6). Essendo dunque tali universali relativi ai sensibili particolari, benchè questi non li contengano, pure senza questi non si possono avere. [...OMISSIS...] . Dice che gli astratti non sono separati in quanto ciascuno è questo quale, [...OMISSIS...] il che è lo stesso che dire in quanto sono una determinata natura non in quanto sono universali, e la prova si è che niuno può dire in qual genere inesista un astratto, se non si riferisce al senso: per esempio niun può dire in qual genere di cose inesista il colore, se non si riferisce ai colori percepiti col senso [...OMISSIS...] . L' universale dunque come universale non si trae dal senso, e da' sensibili è realmente separato, ma la natura , che nell' universale s' intende, è ne' sensibili, e non da questi separata: distinzione che fecero anche gli scolastici distinguendo l' « intentio universalitatis » e la natura che soggiace a quell' intenzione di universalità (2). Ora onde nasce quest' universalità che non è nelle cose reali e sensibili? Ogni cosa, secondo Aristotele, procede da ciò che è primo nella serie e che ha la natura di cui si tratta più compiutamente, e quest' è causa degli altri, [...OMISSIS...] (3). Come dunque del vero è causa il verissimo [...OMISSIS...] , così dell' universale è causa l' universalissimo. Ora come il verissimo è l' essere, siccome vedemmo, così l' universalissimo è pure l' essere nella sua massima estensione. E` ben da considerarsi che Aristotele pone sempre i sensibili e gl' intelligibili come due nature separate e realmente distinte (4): che gl' intelligibili non si formano propriamente, ma solo si vedono, manifestandosi, [...OMISSIS...] (5) e che la mente non fa gl' intelligibili, ma anzi è mossa al suo atto, cioè all' intellezione, dall' intelligibile, [...OMISSIS...] (6): l' intelligibile dunque che move la mente al suo atto non è l' effetto di questo atto. Ma molti intelligibili si manifestano all' occasione delle sensazioni, benchè essi non sono sentiti. Ora le specie intelligibili de' sensibili non sono realmente separate, ma sono ne' sensibili in potenza. Se dunque quello che move la mente a contemplare gl' intelligibili in atto, non può essere alcun intelligibile in potenza, perchè fino a che è in potenza, non opera e non è ancora, e Aristotele insegna che solo ciò che è in atto trae in atto quello che non è tale: converrà dire che oltre gl' intelligibili in atto nella mente umana, che all' occasione delle sensazioni riduca in atto gl' intelligibili in potenza. E questo appunto risulta dai vari luoghi d' Aristotele che abbiamo allegati, e da quelli che allegheremo. E primieramente si consideri questo: [...OMISSIS...] : di maniera che tra i sensibili e gl' intelligibili non pone che una proporzione, e nulla di comune e di simile. Come dunque il sensibile agirà nella mente? Questa è la difficoltà che si fa lo stesso Aristotele: [...OMISSIS...] . Poichè se essa è intelligibile, patirà forse da se stessa, posto che l' intendere sia patire dall' intelligibile? (2). A queste difficoltà risponde: 1 Che la mente è essa stessa gl' intelligibili in potenza, ed essa è pure quella che li trae in atto, poichè collo stesso atto dell' intendere sono gl' intelligibili posti in atto «hoper symbainei» (l' intendere) «epi tu nu» (1). 2 L' ente in potenza e in atto è l' ente medesimo (2). Ma quando la mente è venuta all' atto dell' intendere, allora gl' intelligibili in atto non sono diversi da lei, ma sono ella stessa in atto, o certo il termine di quest' atto. [...OMISSIS...] . 3 Perciò la mente si divide così che prima che esca all' atto dell' intendere, ella è come una tavoletta in cui non c' è nulla di scritto in atto, ma ella stessa è quella che poi scrive su questa stessa tavoletta, cioè in sè, uscendo al suo atto. [...OMISSIS...] . La mente umana dunque parte è in potenza, parte in atto: in potenza è la tavoletta vuota, in atto è quella che scrive su questa tavoletta. Errarono dunque grandemente tutti quelli che intesero questo luogo d' Aristotele, come se venisse a dire che è il senso quello che scrive nella mente, quando chiaramente dice che è la sola mente quella che operando scrive in sè stessa gl' intelligibili. 4 E così la mente è intelligibile, come gl' intelligibili, [...OMISSIS...] , cioè è intelligibile pel suo atto, poichè l' atto suo è l' intelligibile. 5 Soggiunge Aristotele: [...OMISSIS...] , cioè la causa onde avviene che l' intelligenza non sia in tutte le cose (5). Risponde: [...OMISSIS...] . Ma come inesistono in potenza gl' intelligibili nelle cose materiali? - Si dicono in potenza, non perchè sieno tali nelle cose materiali, ma perchè queste si considerano nella loro relazione colla mente: considerate da questa intieramente divise, gl' intelligibili non sono in esse nè in potenza nè in atto. Ma in relazione colla mente, quegl' intelligibili si dicono essere nelle cose materiali, in potenza, poichè la mente intende quelle cose materiali spoglie della materie (1), e però la mente stessa è la loro potenza: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo si osservi, che viene supposta qui la distinzione delle due materie corporea e ideale. Poichè mentre altrove chiama materia « ciò che è potenza », qui dice la mente « potenza ma senza materia », il che viene a dire: senza materia corporea, ma tuttavia con materia ideale, ossia potenza degl' intelligibili, [...OMISSIS...] . 6 Ma perchè la mente è potenza di quegl' intelligibili che si riferiscono agli enti materiati? Non potrebbe essere potenza loro, se non fosse senza materia, [...OMISSIS...] , e perciò se non avesse qualche atto. Ora dice appunto Aristotele che « « in essa è l' intelligibile » », [...OMISSIS...] . Avendo dunque od essendo l' intelligibile in atto, ella ha la potenza di rendere intelligibili altre cose cioè le materiali, mettendo in atto quegl' intelligibili, che ad esse si riferiscono. Poichè è da considerare attentamente quello che avea detto prima, cioè che « « l' intelligibile è uno solo di specie » » [...OMISSIS...] . Quest' intelligibile uno di specie è quello che inesiste nella mente, e la costituisce in atto, e la rende atta [...OMISSIS...] a ridurre in atto gl' intelligibili relativi ai sensibili. Che cosa viene a dire che « l' intelligibile è uno di specie »? Quando più cose sono uno di specie, allora in ciascuna di esse conviene che ci sia la specie identica. Se dunque gl' intelligibili sono tutti un solo di specie, conviene, che la stessa specie intelligibile sia in ciascuno. C' è dunque un intelligibile che informa tutti gli altri: ora questo non può essere che quello che essendo comune a tutti è il più universale, e questo è indubitatamente « l' idea dell' essere ». Quest' idea dunque è la specie per sè intelligibile, la mente in atto, e quella che è in potenza tutti gli altri intelligibili: perchè la specie presa da sè è in potenza tutti gl' individui ch' ella poi informa. Così egli è ad un tempo atto e potenza; atto però, in quanto c' è l' intellezione che in quest' oggetto finisce; potenza, in quanto come oggetto comune e universale riceve tutte le determinazioni che lo rendono gli altri intelligibili, ond' è, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Si conferma tutto questo da ciò che dice Aristotele sull' impossibilità, che gli elementi e le cause sieno una serie infinita, ma è uopo arrivare ad una prima materia e ad una prima specie (2) e, in ogni ordine di cose, ad una prima causa. Convien dunque che ci sia una prima specie che produca le altre; e questo è l' intelligibile comunissimo, uno di specie, ossia la Mente. Ma questa prima specie , che non può essere generata, non è come le idee di Platone, puri oggetti (secondo che ad Aristotele piace di rappresentarle), ma è un atto, una prima intellezione che ha per termine l' essere: anzi la mente stessa è chiamata termine da Aristotele, [...OMISSIS...] (1), il che conferma quello che dicevamo, che Aristotele usa mente in un senso oggettivo. Ma consideriamo bene come accada ad Aristotele, che nelle sue mani il primo intelligibile, la prima specie, l' essere, diventi mente in atto rispetto a sè, in potenza rispetto agli altri intelligibili. Per vederlo con chiarezza conviene che andiamo indietro, e che ci richiamiamo il principio della filosofia d' Aristotele in quanto ella si divide, o pretende dividersi da quella di Platone. Aristotele dunque parte da questo principio: « « Le sole sostanze sussistono per sè e separate realmente l' una dall' altra » ». Per conoscere se una cosa sussista in sè con indipendenza da ogni altra, conviene vedere se sia sostanza. Per vedere se sia sostanza conviene conoscere i caratteri proprŒ della sostanza. Questi caratteri sono i seguenti: 1 La sostanza (2) non si predica di alcun subietto, nè inesiste in alcun altro subietto: ma di essa si predicano l' altre cose, o in essa inesistono come in loro subietto (3). Di che segue che la sostanza; 2 E` sempre singolare , indivisibile, una di numero, [...OMISSIS...] . 3 Laonde la sostanza è sempre questo chè determinato [...OMISSIS...] (4). 4 Le sostanze hanno ancora questo carattere di non aver nulla a sè di contrario, [...OMISSIS...] . Ma avverte che questo carattere coll' esser comune alle ousie seconde, cioè ai generi e alle specie (1), è anche in altre cose come nel quanto. 5 Una sostanza non è più o meno sostanza d' un' altra. 6 La sostanza non è capace di più e meno, cioè quello che essa è non si può dire ora essere più, ora meno (2). 7 Il settimo carattere che assegna Aristotele alla sostanza, e che dice ad essa spettare soprammodo, si è ch' essa « « una e la medesima di numero sia suscettiva di ricevere in sè i contrarŒ » », [...OMISSIS...] (3). Ben si vede che Aristotele, coll' assegnare questi caratteri alla sostanza, limitava il suo pensiero a quelle sostanze, che sono in qualche modo mutabili, e suscettive d' accidenti. Ma quando egli ha bisogno di ricorrere alla prima causa motrice, ch' egli riconosce per sostanza prima, allora la rende immutabile, e non punto suscettiva d' accidenti contrarŒ, onde nega a quest' ultima il settimo carattere. Stabiliti dunque questi caratteri costitutivi della sostanza e posto per principio che non può esistere per sè, se non la sostanza (4), egli si fa a combattere le idee di Platone, in quanto essendo generi , e predicabili, e avendo contrarŒ, mancano dei caratteri della sostanza. Ma con questo non nega che esistano degl' intelligibili separati realmente, purchè abbiano le condizioni della sostanza, ed anzi li ammette. Trova impossibile ridurre la specie alla materia , chè materia e specie hanno tra loro non contrarietà ma opposizione come l' atto alla potenza, e però come a lui par necessario ammettere una materia prima ab aeterno (non ammettendo la creazione), così trova ugualmente necessario ammettere una prima specie , un primo intelligibile. Solamente egli riconosce che non può esistere la materia separata da qualunque specie, perchè rimarrebbe mera potenza senz' atto; ma la specie sì, perchè è atto, ed ammette da sè sola i caratteri della sostanza. Riconosce ancora che possono esistere cotesti caratteri della sostanza in una prima causa motrice, e in una prima causa finale (1). Se non che queste tre cause vanno poi a ridursi in una, perchè la prima causa finale dee essere un primo intelligibile, e però specie , e questa un primo appetibile e però fine , e questo, appunto perchè appetibile, movente, e quindi principio del movimento . E in generale stabilisce questo principio, che se « « alcuna delle cause non ha contrario, ella conosce se stessa, ed è in atto e separata » », cioè sostanza prima (2). Di qui dunque procede, che i generi, che si riducono alle dieci categorie, non possano esistere da sè soli separati dalle sostanze di cui si predicano, o che hanno in sè, o in cui sono, e per la stessa ragione assai meno l' uno , e quello che si converte coll' uno , cioè l' ente , perchè l' ente è più universale ancora e più comune de' generi, e si predica di tutto e in molte maniere (3). Ma l' intellezione all' opposto o la mente che ha l' ente per oggetto è singolare, e niente vieta che sia sostanza, come dicemmo. E se questa prima intellezione deve essere in potenza tutti gl' intelligibili e in atto niuno di essi, conviene che abbia unicamente l' essere per oggetto, poichè, secondo la dottrina d' Aristotele, l' essere è o in atto o in potenza. Come atto tutte le cose sono essere (4). Come potenza l' essere è in potenza tutte le cose. Aristotele dice, che gli universali, in quanto sono universali, sono la scienza in potenza, perchè l' atto compiuto della mente apprende l' oggetto determinato (5). Se dunque gli universali, come universali , non danno che una cognizione potenza, ne verrà, che la cognizione totalmente potenza sarà l' universalissimo , cioè l' essere: la potenza è materia, l' essere dunque sarà la materia della cognizione, la materia ideale (1): la potenza della cognizione passando all' atto diventa tutte le cognizioni, l' essere dunque è in potenza tutti gl' intelligibili: ma la mente in potenza d' Aristotele è appunto quella che non è nessuno degl' intelligibili, ma diventa tutti: la mente potenziale dunque d' Aristotele è l' essere ideale indeterminato, come la potenza in atto è l' intuizione continua di quest' essere; la potenza è il subietto, secondo Aristotele, onde il genere è il subietto delle specie, e così l' essere è il subietto di tutti gl' intelligibili, e questo subietto è ancora la mente in potenza; l' essere è il possibile e la mente d' Aristotele non è altro che il possibile [...OMISSIS...] ; la mente non ha passione alcuna, è immista e semplice, e così pure l' essere è una tavola in cui niente è ancora scritto, e così l' essere che non è ancora niente in atto, è il luogo di tutte le forme, e così l' essere è quello in cui sono poi tutti gl' intelligibili in atto, [...OMISSIS...] . [...OMISSIS...] . L' essere dunque in potenza, secondo Aristotele, è tutte le cose in potenza. Acciocchè dunque la mente sia tutte le cose in potenza, conviene che sia l' intuizione dell' essere, l' essere intuìto nella sua potenzialità. Ciò poi che è in potenza, da Aristotele, come vedemmo, è chiamato materia: l' essere dunque in quanto è intelligibile è la materia di tutti gl' intelligibili (3): ma materia degl' intelligibili è anche chiamata la mente [...OMISSIS...] : l' essere intuìto adunque nella sua potenzialità universale è la mente in potenza d' Aristotele e non può essere altro, perchè altro non sono le cose in potenza secondo la dottrina del filosofo di Stagira. Ora perchè l' uno e l' essere sono il medesimo, secondo Aristotele, e si predica l' uno come l' ente di tutte le cose (1): perciò quello che abbiamo detto dell' essere come oggetto essenziale dell' intuizione primitiva, possiamo confermare con altre dottrine aristoteliche intorno all' uno. Aristotele considera l' uno sotto due aspetti, in quant' è nelle cose e in sè stesso (2). Rispetto alle cose, queste o sono uno per accidente, o per sè. Lasciando noi da parte la considerazione delle cose che sono uno per accidente, considerazione puramente dialettica (e Aristotele suol sempre mescolare le considerazioni dialettiche colle ontologiche, onde riesce il suo discorso intricato e come un prunaio); vediamo che cosa dica dell' essere le cose uno per sè. Considera l' unità che viene alle cose dalla loro esistenza individuale, e quella che loro viene dalle specie e da' generi: e questa è quella che importa al nostro discorso, che dagli universali (i generi) dee sollevarsi all' universalissimo, all' essere, ossia all' uno stesso. Dice dunque che si dice qualche cosa essere una, quando « « il subietto sia indifferente di specie »(3) ». La materia, come vedemmo, è il subietto per Aristotele. Ma come egli ammette due materie, cioè la corporea, o più generalmente reale, e l' ideale, così ammette pure due subietti . Ma poichè non sempre distingue chiaramente questi due subietti, indi l' oscurità del parlare. Quando contrappone la materia alla specie , allora si dee intendere necessariamente d' un subietto corporeo o reale. Ma qui « il subietto indifferente di specie »è il reale o l' ideale? Il contesto sembra indicare che sia il reale, in quanto è suscettivo dell' una o dell' altra specie, e però a queste è indifferente. [...OMISSIS...] . Qui chiama apertamente subietto il genere, cioè l' universale, e lo dice materia [...OMISSIS...] . Il subietto dunque qui è la materia ideale, giacchè il genere è appunto per Aristotele la materia delle specie, [...OMISSIS...] (5). Il subietto ideale dunque è tanto più subietto, quant' è più universale, perchè quant' è più universale, è a maggior ragione materia ideale (1). Il subietto reale dunque e il subietto ideale hanno un' opposta natura: poichè quanto più la cosa pensata s' avvicina ad essere singolare , tanto più s' avvicina ad esser materia e subietto reale ; e quanto più si rende universale, tanto più diventa subietto ideale. Così il subietto reale non è propriamente che il singolare individuo; l' ultimo è quello che è massimamente subietto ideale e di conseguente l' universalissimo , cioè l' essere e l' uno (2). Veniamo all' uno in sè, cioè all' essenza dell' uno [...OMISSIS...] . L' uno nel suo essere, secondo Aristotele, è il mezzo del conoscere. Questa sentenza è notabilissima. [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un uno, ossia un indivisibile in ciascun genere, che serva di misura per le cose che sono in ciascun genere, e questa prima misura è il principium quo della cognizione delle cose contenute in ciascun genere, non ci sarà un uno superiore che misura e con cui si conoscono i generi stessi? Aristotele lo ammette e lo chiama « « uno d' analogia » ». [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un' unità superiore a quella de' generi, questo è un universale più ampio de' generi; ma sopra i generi non c' è di più universale che l' essere e l' uno, che è il medesimo. L' unità analogica dunque d' Aristotele è l' essere che raccoglie in sè i generi, ed è il fondamento delle proporzioni che le cose d' un genere hanno colle cose d' un altro genere: le proporzioni poi nascono da' numeri, de' quali l' uno è il principio [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque Aristotele quell' uno che è nell' universale, e che chiama «tohen kath' holu» (2). Ora tra gli universali universalissimo è l' essere, e l' essere è l' uno stesso; onde quest' è il medesimo che l' uno per essenza, [...OMISSIS...] che è principio del numero come numero [...OMISSIS...] (3); il numero poi è fondamento alla proporzione e analogia, onde il «tohen kata analogian» (4). [...OMISSIS...] Ecco dunque il principio con cui si conosce, l' uno: ma l' uno non differisce dall' ente; l' ente dunque è, secondo Aristotele, il principio con cui si conoscono tutte le cose. E infatti il conoscere, come pure il sentire, è descritto da Aristotele come un misurare. [...OMISSIS...] . Il che mirabilmente conviene all' essere indeterminato il quale sotto un aspetto è misura di tutte le cose, perchè con esso tutte si conoscono; sotto un altro è misurato dalle cose sensibili, perchè queste lo determinano e pongono in lui un quanto di sapere determinato. Onde dice Aristotele che nell' acquisto del sapere, « « ci accade come se un' altra cosa ci misurasse, e così conoscessimo quanto siamo grandi con questo che tante volte ci è stato applicato il cubito » » (7). Nel qual luogo Aristotele confonde il noi coll' essere : poichè dagli oggetti esterni non siamo misurati propriamente noi, ma l' essere che intuiamo: chè noi certo non siamo tanto grandi da poter essere misurati da tutti gli enti che percepiamo, ed avanzarne, ma l' essere universale, sì. Pure anche noi partecipiamo della grandezza della scienza che è in noi, e però in altro senso si può dire che questa ci misuri (1). Ma più esattamente parla Aristotele poco appresso: [...OMISSIS...] . Dice in qualche modo , perchè in un altro modo è il contrario, dovendosi anche qui ricorrere per ispiegare questi due modi, all' estensione e alla comprensione delle idee, al contenente ed al contenuto: il contenuto (gli oggetti reali o le determinazioni) è come una misura che s' applica al contenente, cioè all' essere, e lo misura; il contenente, cioè l' essere, è come una misura che s' applica al contenuto, cioè agli oggetti ed alle determinazioni, e li misura. Colla prima misura si rileva il quanto d' idealità è realizzato; colla seconda misura si rileva il quanto d' idealità non è ancora realizzato, ma rimane quello scibile che non è ancora scienza [...OMISSIS...] se non in potenza. L' essere dunque o l' uno è il principio con cui si conoscono tutte le cose quasi con una misura. E infatti la mente d' Aristotele con cui si conosce, è detta da lui uno e principio; quest' uno è il principio della dimostrazione e della scienza. [...OMISSIS...] . La mente dunque è quell' uno con cui si ha la dimostrazione e la scienza; ma quest' uno, come vedemmo, è il termine del principio di contraddizione, cioè l' essere: col qual essere l' anima afferma questo è, questo non è [...OMISSIS...] (4): l' essere dunque è l' uno nella scienza. E però la mente nel senso oggettivo è pure una: chè, come c' è un solo e indivisibile sensitivo nell' anima con cui ella sente più cose (1), così c' è pure un unico e indivisibile scientifico con cui sa più cose, e questo è l' essere. Poichè Aristotele ragiona sempre dell' intendimento in un modo analogo a quello del senso. Poniamo attenzione a ciò che egli dice circa quel principio col quale si sentono tutti i sensibili, potendo questo non poco giovarci a intendere quel principio col quale s' intendono tutti gli intelligibili. Si fa dunque la domanda Aristotele, se si sentano i diversi sensibili con qualche uno e indivisibile che sia nell' anima, di modo che, a ragion d' esempio, di quella parte dell' anima con cui sente il dolce, e di quella con cui sente il bianco, risulti nell' anima un uno con cui senta l' un e l' altro [...OMISSIS...] . C' è dunque secondo Aristotele un sensitivo nell' anima che è uno ed indivisibile, e questo in atto, «kat' energeian,» col quale si hanno sensazioni di tutti i generi: ma questo rimanendo nella radice uno, emette degli atti ulteriori pei quali si divide in atto e così diventa altro da quel di prima, senza che quell' uno di prima radicale cessi [...OMISSIS...] . Ora a questo modo stesso Aristotele concepisce la mente. Essa è una e indivisibile, e quest' è lo scientifico [...OMISSIS...] ed è indivisibile in atto; ma quando essa diventa tutti gl' intelligibili, allora ella si divide e diventa divisibile in atto. Ora quand' è una e indivisibile in atto, ella è tutti gl' intelligibili in potenza, e tutti gl' intelligibili in potenza non sono che l' intelligibile universalissimo, l' essere, come vedemmo: quando diventa quest' intelligibili ella si divide, conservando l' uno radicale, e diventa altra. Il primo scientifico adunque è in atto, il che equivale a dire, è intuizione in quanto è uno e indivisibile (mente in atto); ma è anche in potenza riguardo agli atti ulteriori, e in potenza di dividersi, diventando le intellezioni de' singoli intelligibili. Il che è più facile ad intendersi della mente che del senso, perchè in quella l' universale si distingue dal singolare, laddove in questo non c' è che il singolare. E perciò Aristotele stesso è obbligato di ricorrere all' universale natura, alla specie, al genere, e in generale alla ragione per ispiegare come un unico sensitivo possa sentire diverse sensazioni e di vario genere. Il che è degno di tutta l' attenzione. Prosegue dunque in questo modo: [...OMISSIS...] . Questa parola ragione , «logos,» ci richiama alla distinzione aristotelica tra le cose « « separate di ragione e le cose separate di sostanza o di grandezza »(2) ». Una cosa separata solamente di ragione , non vuol dire altro se non che la mente la considera divisa dal suo tutto reale. Questa ragione della cosa dunque è veramente separata nella mente, benchè non sia tale nella realità. La ragione dunque è nell' anima (3) ed è altra cosa dalla realità esterna, vi è generata dalla mente in atto, che ha « « i principŒ di tutte le intellezioni »(4) », principŒ che tutti si riducono, come vedemmo, a quello di contraddizione, e la scienza si compone di ragioni (1). Ma si osservi che per Aristotele il dire: « « separata di ragione » », e il dire: « « separata di essere, «to einai» » », è perfettamente sinonimo. Agli esempi recati di sopra si può aggiungere questo: [...OMISSIS...] ; il che è lo stesso di quello che dice in appresso dell' intelligibile e dell' intellezione (3). Vuol dire manifestamente che, nell' atto della sensazione e nell' atto dell' intellezione, il sensibile in quanto sensibile, e l' intelligibile in quanto intelligibile, è essenzialmente necessario al senziente e all' intelligente, sicchè l' atto di sentire mancherebbe d' una parte di sè se gli mancasse il sensibile, e l' atto dell' intendere se gli mancassero gl' intelligibili: sono dunque una cosa il senziente e il sensibile in atto, e l' intelligente e l' intelligibile in atto; ma differiscono di ragione : questa ragione è detta essere da Aristotele; l' essere dunque è universalmente l' oggetto intelligibile primo, costituente la ragione delle cose. Ma uno e il medesimo essere, come insegna lo stesso Aristotele, è potenza ed è atto, e ciò tanto nell' ordine sensibile, quanto nell' ordine intelligibile. L' essere potenza è chiamato materia da Aristotele, il quale però distingue la materia intelligibile dalla materia sensibile (4). Ora la mente, che diventa tutte le cose, è la materia intelligibile, e però è l' essere in potenza, ossia indeterminato [...OMISSIS...] (5). In due maniere dunque gl' intelligibili, secondo Aristotele, acquistano ordine ed unità: in una maniera subiettiva e in una maniera obiettiva. Subiettivamente, pel primo atto, ossia per la prima intellezione, che essendo una riduce molti in atto (all' occasione delle sensazioni), in un modo simile a quello che ha dichiarato parlando del senso. C' è dunque un' intellezione, che è attualmente uno «hen kat' energeian,» e che conservando la sua indivisibilità radicale, si divide poi secondo le ragioni delle cose, e con questi atti ulteriori diventa gl' intelligibili «polla kat' energeian», e ciò perchè la potenza e l' atto sono il medesimo ente (6). Onde quell' atto che è potenza relativamente agl' intelligibili generici e speciali conserva l' unità, mentre questi la dividono, quasi direi come rami d' uno stess' albero, o raggi che emanano da uno stesso punto luminoso. Sono anche uno obiettivamente, perchè l' essere in potenza essendo lo stesso che l' essere in atto, la mente in potenza che è, come dicevamo, l' essere in potenza, è potenzialmente tutti gli oggetti, cioè tutti gl' intelligibili generici e specifici. Che l' essere dunque sia il lume ossia l' obietto essenziale della mente, è manifesto. Il che si conferma ancora, come abbiamo già toccato, da quello che dice Aristotele, ente e non ente significare, nel più proprio modo, il vero ed il falso (1), che secondo questo filosofo altrove non risiede che nella mente (2). Ora gli enti o sono incomposti [...OMISSIS...] o composti [...OMISSIS...] . Rispetto ai primi, cioè a quelli che non si compongono dal nostro intendimento coll' attribuire un predicato ad un subietto « « il vero è il toccare e il dire »(3) ». Suppone che l' anima tocchi immediatamente questi intelligibili incomposti: con questo, che Aristotele dice tocco , e noi chiamiamo intuizione, l' anima non s' inganna mai: « « Poichè, soggiunge, non ha luogo l' ingannarsi circa la quiddità se non per accidente (4) e similmente circa le ousie incomposte » » (le specie e i generi), e ciò perchè tutte queste essenze sono essere , e l' essere nè si fa nè si corrompe: [...OMISSIS...] . Il che spiega S. Tommaso così: [...OMISSIS...] . Onde Aristotele conchiude che il vero relativamente ai semplici intelligibili non è altro che l' intenderli, [...OMISSIS...] : il falso o l' inganno non c' è, ma solo l' ignoranza. Quest' ignoranza tuttavia, avverte Aristotele, non è come la cecità, nella quale manca il sensitivo, perocchè resta sempre l' intellettivo [...OMISSIS...] , che è la potenza d' intendere con un atto primo (mente in potenza ed in atto) (3). L' essere dunque, semplicemente preso (4), non ha origine da cos' alcuna precedente, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e questo qualche cosa precedente non esiste fuori dell' essere. L' essere dunque dee esistere, e dee altresì esistere nell' anima, acciocchè questa intenda: l' anima, come neppure nessun' altra cosa, non lo produce, e dee essere in atto: è dunque quello che fa ad un tempo l' attualità della mente, e la sua potenzialità di conoscere i generi dell' essere. Veniamo agli enti composti dalla mente che a un subietto attribuisce un predicato. Dice che alcune cose sono sempre composte ed è impossibile il dividerle: altre sempre divise, ed è impossibile unirle: queste sono le cose necessarie. Altre talora sono unite, talora divise, e sono le contingenti. [...OMISSIS...] . Componendo, la mente fa uno del predicato e del subietto, [...OMISSIS...] (2). Anche le cose che sono in sè divisibili e molteplici, come lo spazio e il tempo, la mente le unifica, e in due modi, obbiettivamente per l' unità della specie colla quale le pensa, e subiettivamente per l' unità di sè stessa. Poichè, dice Aristotele « « non l' indivisibile secondo il quanto ella intende, ma l' indivisibile di specie in un tempo indivisibile e coll' indivisibile dell' anima » (3) ». Sul qual luogo si potrebbe così ragionare: L' anima unisce i più in uno, perchè ella intende l' indivisibile di specie. Ma ella unisce in uno tutte le cose. Convien dunque che intenda anche un indivisibile di specie che comprenda tutte le cose: ora questa specie che tutto rende indivisibile, non può essere altra che quella dell' essere. Dunque la potenza che ha l' anima di unire e dividere, per via di predicazione, nasce dall' intuizione che ha dell' essere. Colloca dunque Aristotele nell' anima qualche cosa di uno , tanto nell' ordine sensuale, quanto nell' ordine intellettuale: quest' uno che è nell' anima può esistere in più modi, e questi modi nell' ordine del senso sono i varŒ sensibili, nell' ordine dell' intendimento sono i varŒ intelligibili; e quest' uno è il mezzo unico con cui si sente, ovvero con cui si conosce, [...OMISSIS...] . Quest' uno poi che è nell' anima e che contiene tutti i sensibili, e così pure quest' altro uno che è nell' anima e che contiene tutti gl' intelligibili, li contiene non in atto, ma in potenza, e questa potenza, riferendola ai diversi intelligibili, come il punto del circolo ai diversi raggi, benchè sia uno di numero, tuttavia è moltiplice di ragione, ossia, come Aristotele s' esprime, d' essere, [...OMISSIS...] . Il centro dunque, ossia l' ultimo termine degl' intelligibili nell' anima, è tutti gl' intelligibili in potenza, ed è uno di numero, perchè in sè è una cosa sola, ed è uno d' analogia [...OMISSIS...] , perchè a lui si riferiscono gli intelligibili diversi (2). Ora l' analogia è fondata, come abbiam più sopra osservato, nel numero in sè considerato, e questo si riduce all' uno, e l' uno s' identifica coll' essere. Si conferma dunque quello che disopra abbiamo osservato, che l' uno per analogia, che non è altro che l' essere, è posto da Aristotele nell' anima come mente, sotto un aspetto in atto, sotto un altro in potenza. Tutti i sensibili dunque sono potenzialmente in un primo sensitivo dell' anima (sentimento fondamentale), tutti gli intelligibili sono in un primo intellettivo dell' anima pure potenzialmente (essere indeterminato). Così ricapitola Aristotele stesso la sua teoria: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque è la mente Aristotelica? [...OMISSIS...] gli enti stessi intelligibili. Che cosa è la mente in potenza? gli enti intelligibili in potenza. Questi enti intelligibili in potenza sono uno, costituiscono una perfetta unità, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] . Che cosa sono gli enti in potenza ridotti ad unità? Certo non altro che « l' ente universale in potenza, ossia l' ente indeterminato ». Questo dunque costituisce la mente in potenza d' Aristotele in senso obiettivo (4). Per ciò stesso questa mente è dal nostro filosofo chiamata « « lo scientifico dell' anima » » «to epistemonikon». Anche questa parola ha un senso obiettivo; tant' è vero che essa esprime gli obietti del sapere in potenza, e ridotti ad uno, «to episteton». Ora che è quell' ente saputo che in potenza abbracci tutti gli enti saputi? Non altro certamente che l' essere possibile . Ma se la mente fosse solamente questa, sarebbe mera potenza, e la mera potenza non può sussistere separata, secondo Aristotele. E` dunque necessario, che la mente non sia solamente in potenza; ma dee aver altresì qualche atto. Quest' atto è l' intellezione : così è costituita la mente in senso subiettivo. L' intelligibile dunque e l' intellezione formano la mente aristotelica una di numero, ma composta di due elementi distinti di concetto: l' uno, cioè l' intellezione, la fa esser atto, col quale ella è capace di ridurre in atto tutti gli intelligibili determinati; l' altro la costituisce potenza capace di divenire ella stessa tutti questi intelligibili: poichè lo sciente è in atto, e la scienza relativamente è in potenza (1). Questa mente dunque è quel principio (2), che Aristotele riconosce necessario in ogni serie di cause, anche nelle specie (causa formale): conviene in ogni cosa fermarsi, «anagke stenai» (3): se non c' è un primo, non c' è il resto (4): senza di ciò si distrugge la possibilità dell' intendere (5): pei principŒ si conosce tutto il resto (6): chi sa il più generale, sa in potenza tutto (7). Da tutte queste considerazioni adunque possiamo, come ci sembra, senza temerità conchiudere: 1 Che tutti gli intelligibili hanno la loro unità in un primo intelligibile, che li accoglie tutti in sè, in potenza, e questo primo intelligibile, fondo e materia di tutti gli altri, è l' essere ideale indeterminato ; 2 Che la mente obiettiva è questo stesso essere o intelligibile primo, e però è ella stessa in potenza tutti gl' intelligibili; 3 Che la mente in senso subiettivo è una prima intellezione che ha per oggetto quell' essere ideale indeterminato, ed è la mente in atto, che fa tutti gli altri intelligibili, quando si distinguono nell' essere, quasi su tavola liscia, su cui si scrivono; 4 Che le determinazioni del primo intelligibile, il quale sembra moltiplicarsi secondo le varietà delle determinazioni stesse, vengono dal sentimento; 5 Che c' è nell' uomo il primo sentimento naturale e fondamentale, il quale è uno ed ha tutti i sentimenti speciali in potenza; 6 Che il principio senziente, e l' intelligente, cioè il principio dell' intellezione, s' identificano nell' uomo; 7 Che il primo sentimento dato all' uomo per natura termina nell' estensione, e specialmente, nell' estensione corporea, e che quest' estensione corporea mutando i suoi termini, la figura e il luogo, occasiona le specie sensibili , che sono appunto figure di essi diversamente tracciate nel sentimento primo che le abbraccia tutte come fondo e radice, ossia senso comune . . Che queste specie sensibili diventano altrettante determinazioni dell' essere ideale e indeterminato, e vedute così dal principio intelligente e mente subiettiva, danno luogo ad altrettante specie intelligibili . Tutti gli intelligibili dunque sono contenuti e unificati dal primo, l' essere. La loro moltiplicità poi non viene dall' intelligibile stesso, che è una specie sola; ma dalle relazioni diverse con un elemento straniero, cioè col sentimento. Ora il sentimento stesso è uno; ma si moltiplica anch' esso per un elemento straniero che è la materia corporea diffusa nell' estensione in cui termina: questo è dunque la prima causa della moltiplicità. Tutte le intellezioni del pari sono contenute e unificate dalla prima, cioè da quella che ha per termine il primo intelligibile. Siccome poi, a questo, come ad atto purissimo e perfetto, tende per istinto tutta la natura potenziale, così egli acquista la relazione di Causa finale e di Primo motore. Conchiude dunque, che il Primo motore è unico non solo di specie, ma anche di numero; che dalla sua unicità viene l' esser uno anche all' Universo, [...OMISSIS...] . Finalmente la mente è una tanto in senso obiettivo, perchè in questo senso è ella stessa il primo intelligibile, che contiene tutti gli altri, quanto in senso subiettivo, perchè in questo senso ella è la prima intellezione, e il principio di tutte l' altre. Quest' è dunque l' unità che Aristotele attribuisce al divino. Ma questo non toglie nè la generazione, nè la pluralità delle menti. In quanto alla generazione, la natura, certe nature, certi corpi tendono e pervengono a quel loro ultimo atto, a quell' ultima specie, che si chiama mente. Quest' ultima specie riesce così perfetta, che non ha più bisogno della potenza corporea che l' ha prodotta, ma essa stessa è in sè sostanza singolare, e però opera con qualche sua attività indipendentemente dal corpo, e, questo perendo, continua a sussistere. Ma perchè in un corpo si svolga questo novo atto e specie sostanziale, si esige che già ci sia prima in atto la mente nel genitore del nuovo essere intellettivo. E poichè l' attività della generazione viene dalla specie , convien dire che, secondo i principŒ aristotelici, la mente che esiste nel generatore, sia quella specie, quell' atto sostanziale, che nella generazione operando, susciti nel generato la mente preesistente in potenza ne' semi. Ma come avvenga questo mistero della generazione della mente, in niun luogo Aristotele lo spiega, nè di spiegarlo si propone. Dice bensì, come vedemmo, che sola la mente nella generazione umana viene dal di fuori, e in questa generazione fa intervenire gl' influssi degli astri, secondo le tradizionali camitiche superstizioni. Il quale influsso complica via più la questione, non potendosi determinare precisamente in che esso consista. Lasciando però da parte per un poco gli astri, ecco in che modo non dissonante da' principi aristotelici si potrebbe intendere, che la mente s' aggiungesse dal di fuori. Abbiamo veduto che Aristotele prende la mente in un senso ora subiettivo , ed ora obiettivo . Non fa dunque maraviglia che pronunci due sentenze opposte quando tratta della generazione della mente: poichè da una parte la fa venire mediante la generazione umana: [...OMISSIS...] . Dall' altra poi dice che la mente s' aggiunge dal di fuori. Le quali due sentenze si conciliano per la subordinazione delle cause. In fatti, domandare « se la mente venga all' uomo dal di fuori »è una questione diversa dall' altra « se l' uomo colla generazione la comunichi al corpo, che si genera uomo ». La prima è anteriore e riguarda tutti gli uomini, i generanti ed i generati. E infatti Aristotele stesso distingue queste due questioni, trattando nel primo libro « Della generazione degli animali », come per la congiunzione dei sessi nasca la generazione; nel seguente, poi proponendosi di dimostrare perchè così avvenga, e due sieno i sessi, e quali le cause ulteriori (2), così descrive in breve le ultime cause moventi e finali: [...OMISSIS...] . Spiega dunque Aristotele la generazione come un effetto di quella tendenza al Bene, al maggior bene possibile, che egli, come vedemmo, attribuisce a tutti gli enti della natura, i quali tutti tendono a diventare puro atto, pura intellezione; ma tutti non possono tanto, a cagione della materia o potenzialità diversa, che secondo Aristotele costituisce il subietto e il fondo di tutta la natura, e che è di diversi generi (4), diversità che desume dal grado di atto e di specie, maggiore o minore, a cui ogni materia può pervenire nel suo movimento ascendente. Continua dunque a spiegare gli effetti di questa causa della generazione così: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo, come in tant' altri, si scorge manifestamente che sotto il nome di divino non intende qualche cosa di singolare e di personale, ma ogni bene, relativo a ciascun ente, sia questo anche sensibile e generabile, e proporzionatamente si può dire lo stesso del vegetabile e del minerale. Ma riconosce nulladimeno che l' ultimo grado del bene a cui un ente possa pervenire, è la mente. Quando poi viene a descrivere come ella comparisce in atto nel bambino, sembra che distingua la facoltà soggettiva di conoscere dalla mente. E in generale stabilisce prima che il generante produce un suo simile. [...OMISSIS...] . L' anima intellettiva dunque si svolge dal seme; ma la mente? Questa la distingue, e dice che sola avviene dal di fuori e sola è divina, [...OMISSIS...] (4), dove chiaramente restringe il divino in senso proprio alla mente. Pare dunque che per mente intenda l' oggetto e per l' anima intellettiva il soggetto. [...OMISSIS...] . E qui si vede come riponga l' anima intellettiva tra quei principŒ che hanno bisogno d' organo corporale, consonando a quello che così spesso insegna, che non si può esercitare la facoltà di pensare senza fantasmi: onde par che inclini al sensismo, se non anche al materialismo. [...OMISSIS...] . La mente dunque non è computata da Aristotele tra le potenze soggettive dell' anima; è dunque l' oggetto del conoscere, l' intelligibile primo, l' essere indeterminato, come più sopra abbiamo dichiarato. Ma come avviene all' anima dal di fuori? Certamente come tutte le altre specie avvengono agli enti generabili, cioè mediante quell' appetito universale verso il Bene, quella tendenza d' uscire all' atto, che Aristotele pone in tutti, con questa differenza però, che mentre negli altri casi conseguono una specie, che è inseparabile da essi e così formano un composto indivisibile di materia e di forma; in questo conseguono una specie che mente si dice, che è separabile da essi essendo ente da sè, e anche unita ad essi, rimane immune da materia corporale, non è un elemento proprio e indivisibile di essi, ma un istrumento di cui essi fanno uso. A questo riesce indubitamente la teoria d' Aristotele. Ma perciò appunto, se Aristotele avesse posto ben mente alle conseguenze, si sarebbe accorto che la parola specie ha due significati diversissimi, e che è di tutt' altra natura la specie nel senso d' idea o lume della mente, e la specie nel senso, com' egli suol usarla, di atto sostanziale o di forma reale, benchè nè pure quest' ultima denominazione è propria; e che quindi avea ragione Platone distinguendo le idee, contenenti le essenze delle cose sensibili, dagli atti o forme di queste che non possono considerarsi che come imagini o imitazioni di quelle, e anche questo dietro l' analisi delle percezioni, che noi abbiamo di esse. Laonde quando dice, che « « l' arte è il principio e la specie di ciò che si fa, ma in un altro »(1) », gli rimaneva a cercare come la forma di una cosa reale, che è pure inseparabile dalla cosa reale, potesse essere in un altro e rimanere la medesima. Ma egli ci dice, come vedemmo, che è la stessa di specie e non di numero. Ma « la specie identica di specie »è una logomachia, ed è una contraddizione, poichè la specie identica di specie non è che la specie identica di numero, chè qualunque differenza avessero le specie tra loro costituirebbero un genere e non potrebbero più specie aver di comune la specie. D' altra parte la domanda è questa: « la specie idea, è identica coll' atto reale della cosa »? Il dire che è identica di specie suppone che quest' atto reale sia la stessa specie: suppone dunque quello stesso che si domanda. Quindi le stesse contraddizioni, che abbiamo già indicate nel nostro filosofo, ma confermiamole con un' altra. Prendiamo una specie reale, e questa sia l' anima. Egli vi dice che « « niuna anima può essere in un altro, se non in quello di cui ella è, nè ci può essere niuna parte » » di questo « « se non è partecipe dell' anima, se non equivocamente, come l' occhio d' un corpo morto »(2) ». La forma reale dell' anima non può essere se non in quel corpo che l' ha: ma la forma dell' arte è in un altro. Dunque la forma dell' arte ossia l' idea, e la forma della cosa reale, sono forme o specie dette così equivocamente. Non c' era dunque bisogno di censurare Platone perchè dicesse questo appunto, che l' essenza delle cose sensibili non si dice dell' idea, e anche delle cose reali, se non equivocamente (3), dovendo Aristotele stesso ritornare per un' altra via e senz' accorgersi a questo placito di Platone. Ma torniamo all' unità della mente. Come in ciascun essere, che la possiede, la mente sia una, com' ella sia una subiettivamente riducendosi in un atto d' intellezione, e come sia una anche obiettivamente, riducendosi in un solo primo intelligibile, fu detto di sopra. Ma rimane a domandare se sia una assolutamente, se ella sia un solo individuo reale. E che le menti umane sieno tante, quanti sono gli uomini, non pare a dubitarsi. Ma si può dubitare se quest' ultimo atto a cui tutti gli enti a ciò idonei tendono (che è il divino), sia uno di numero a tutti risplendente; e se si considera, come abbiamo osservato, che sembra al tutto ripugnante che l' ultimo atto di molte nature della stessa specie riesca ad essere identico di numero, parrà impossibile ad ammettersi, che un tale atto si riduca in fine ad essere uno di numero, e si dovrà dirlo uno di specie. Ma se gli atti ultimi (giacchè come atti ce li presenta Aristotele) di molti enti sono tanti di numero quanti gli enti, eppure della stessa specie ; oltre quegli atti distinti c' è dunque una specie comune , e questa una di numero. In tal caso si tornerebbe a distinguere, contro la sentenza d' Aristotele, la specie dall' atto impropriamente detto specie. Ma non potrebbe esserci una specie che, essendo una di numero, e avente una propria sussistenza fosse mente, e senza moltiplicarsi in sè stessa fosse presente in molti individui? Noi dimostreremo a suo luogo che questo non è impossibile; ma niuna traccia di ciò, almeno che sia chiara, in Aristotele. Sembra nondimeno indubitato che secondo Aristotele esista una Mente eterna, sussistente e di numero veramente unica: e si potrebbe dire che è la stessa specie sussistente. Ma come questo derivi dal ragionamento aristotelico è difficile a mostrarsi. Poichè l' argomento della necessità d' un Primo motore, al modo aristotelico, almeno se s' intende superficialmente, sembra condurre a un Primo motore uno di specie e non di numero. E veramente ogni cosa tende al Bene, ma questo Bene è diverso per ogni genere d' enti, e anche per ciascun individuo: trattasi dunque d' un bene indeterminato e moltiplice, anzi al sommo generico. E un bene generico non può sussistere da sè stesso, perchè non è un bene ancora in atto ma in potenza. Egli è vero che, al fine che un uomo sia generato, deve esistere un uomo in atto, perchè l' atto precede sempre la potenza, ma Aristotele ammette un circolo eterno e infinito di generazioni: questa causa dunque che è sempre esistita, secondo lui, basta a spiegare la generazione della mente umana, e non è necessario che il seme appetisca la Mente suprema, essendo sufficiente che appetisca, se così si vuol parlare, una mente uguale di specie a quella del suo generatore che è la sua causa motrice. Ma, come abbiamo detto, Aristotele s' accorge che questo stesso non basta, e riconosce il bisogno che lo stesso generatore e tutta la catena infinita de' generanti e de' generati sia spiegata, assegnandole una causa superiore: poichè la stessa anima umana non è intellettiva se non aspira e tende col suo appetito a una specie più sublime e del tutto incorporea, che dal corpo non può ricevere, e che non può essere nel corpo nè pure in potenza, perchè è propria natura ed essenza di quella non aver nè potere ricevere in sè potenza di sorta alcuna, e d' essere sempre assolutamente immutabile ed eterna. Poichè, come vedemmo, è immutabile principio d' Aristotele, che « ciò che è in potenza non può essere eterno », e che « le cose eterne sono antecedenti alle corruttibili ». Di che consegue, che « nè pure può essere eterno ciò che passa dalla potenza all' atto, chè talora sarebbe in potenza e talora in atto ». Quindi la mente non può essere in potenza nel seme, [...OMISSIS...] . Dunque l' appetito tendente alla specie è nel corpo e in tutti gli enti naturali, ma l' ultimo oggetto a cui tende quest' appetito, e che solo da alcuni enti viene raggiunto, cioè la mente, non è nel corpo, nè in niuno degli oggetti corruttibili nè in atto nè in potenza, ma è del tutto fuori dell' universa natura. Così riconobbe il bisogno d' una suprema Mente sempre in atto, pura d' ogni potenzialità, ultima specie, che alcune nature giungono a toccare e diventano, toccandola, intellettive; eccelso scopo della scienza per sè appetibile (1) e della vita contemplativa, l' ultima e la più nobile vita, l' ultimo e il più nobile atto dell' anima più nobile di tutte, che è l' anima intellettiva, a cui le stesse virtù morali e tutte l' altre cose, come mezzi al fine, sono ordinate (2), e per dir tutto, l' oggetto della beatitudine (3). Ora quest' ultimo oggetto è indubitatamente l' essere, ma l' essere vivente ed assoluto. Ma è difficile dire se, e quanto, il concetto d' Aristotele si avvicini al vero. Dice dunque, che « « le sostanze sono le prime degli enti e che se tutte fossero corruttibili, sarebbero corruttibili tutte le cose »(4) ». Ma questo è impossibile perchè il moto e il tempo furono sempre (5). Ma il moto e il tempo che ne consegue, addimandano un' operante cioè una sostanza in continuo eterno moto. Ma se c' è un eterno moto, dunque anche un eterno Motore, e questo immobile, per non perderci nel ricorso all' infinito (6). Ora non c' è che l' intelligibile che possa movere, restando immobile, poichè l' intelligibile è desiderabile o eligibile (1). Conviene dunque che ci sia una sostanza prima dell' intelligibile, e semplice e in atto immanente (2), e questa è il Bene ultimo e sommo. « « E` dunque, conchiude, di necessità ente: ed esser necessario è esser bene e così è principio »(3) ». Spiega quindi in che senso si prenda qui esser necessario , cioè nel senso, non di poter essere e non essere, ma d' esser assolutamente, semplicemente, [...OMISSIS...] . La Mente suprema dunque, secondo Aristotele, è l' essere necessario, quello che semplicemente è, e, come in appresso lo nomina, quello che massimamente è, [...OMISSIS...] (4). Il primo intelligibile dunque è l' essere necessario, ciò che semplicemente e massimamente è: quest' è intelligente se stesso ed è Dio; e mediante la partecipazione o intuizione d' un tale intelligibile si formano le altre menti, che perciò sono divine. Tutto ciò Aristotele dichiara così: dopo aver detto che dall' essere necessario e intelligibile primo dipende il cielo e la natura, continua così: [...OMISSIS...] . L' ottimo, secondo Aristotele, è l' atto della contemplazione: ora, dice che quest' atto in noi non dura se non piccol tempo, ma nel primo intelligibile sempre e immutabile: lo stesso atto è anche attuale diletto, e anche questo a noi è solo momentaneo. Dal qual luogo pare che una delle due: o l' atto nostro della contemplazione è lo stesso atto divino identico di numero, o è almeno uguale di specie. Ma se uguale di specie, c' è dunque una specie comune anteriore alla mente divina e alla nostra, il che ripugna ad altri principŒ d' Aristotele, come dicemmo. [...OMISSIS...] . Qui si noti come aduni la sensazione, al suo solito, coll' intellezione, quasi un primo ed imperfetto conoscere, o almeno come una prima attualità che conduce ad una maggiore, giacchè considera tutto sotto il concetto generico d' attualità, partendo dal principio « ciò che è maggiormente attuale è più perfetto e dilettevole », considerando l' intellezione dell' ottimo, come l' attualità massima. [...OMISSIS...] . Aveva detto prima, che l' ente necessario, assoluto e massimo è la prima sostanza, e il primo intelligibile: era passato a dire, che il tenore della sua vita è l' attuale eterna contemplazione, puro diletto, la quale non è a noi che per qualche istante. Questa contemplazione è l' intellezione ottima e massima, cioè avente per oggetto l' ottimo, e quello che è in massimo grado. Ora, come dall' intelligibile primo è passato all' intellezione? Questo egli spiega così: « « La mente intende sè stessa coll' assumere l' intelligibile »(2) ». Ma come entra qui la mente, prima non nominata? Egli la definisce così: « « La mente è il subietto suscettivo dell' intelligibile e dell' essenza » » [...OMISSIS...] . Ora questo non può essere, che l' Essere stesso necessario considerato subiettivamente. E in fatto dice, che « « la mente stessa si fa intelligibile col toccare e coll' intendere, di maniera che sia un medesimo la mente e l' intelligibile »(3) ». Dunque l' Essere necessario si può considerare sotto tre aspetti, o come subietto [...OMISSIS...] , e dicesi mente; o come atto, e dicesi intellezione, [...OMISSIS...] ; o come oggetto, e dicesi primo intelligibile o prima essenza, [...OMISSIS...] . Ma è sempre lo stesso Essere, e come mente « «opera avendo », [...OMISSIS...] », cioè non ha bisogno uscire di sè per cercare il suo termine, poichè egli stesso è il termine del suo atto. La quale triplice relazione dell' Essere, non malamente si chiamerebbe la trinità aristotelica . Continua dopo di ciò Aristotele: « « Laonde questo » » cioè quello che opera avendo « « sembra essere più di quello » » più del subietto suscettivo dell' intelligibile « « il che come qualità divina la mente possiede; e la contemplazione è il dilettosissimo e l' ottimo. Se dunque Iddio si trova sempre » » in quest' atto di contemplazione « « come noi qualche volta, è cosa ammiranda, e se più ancora, più ancora ammiranda. Ma così egli si sta. E anche la vita per fermo inesiste, chè l' atto della Mente è pur vita: quegli poi è atto. Atto per sè è la vita ottima ed eterna di lui. Onde diciamo, che Iddio è un vivente, [...OMISSIS...] (4) eterno, ottimo. Laonde e la vita, e il sempre continuo ed eterno in Dio inesiste. Poichè questo stesso è Dio »(5) ». Sono queste le più magnifiche parole, o certo tra le più magnifiche, che siano state pronunciate intorno a Dio da un filosofo gentile. Ma il nesso accennato in esse, tra la Mente divina e l' umana, è un punto oscuro in tanta luce. Talora dice chiaramente che la mente non è cosa umana, e non umano ma divino il diletto della contemplazione. [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si raccoglie, che la mente è bensì nell' uomo, però non è l' uomo ma cosa divina. Pure tosto appresso dice che essa anzi è ciascuno di noi, secondo il principio dato altrove, che l' elemento più eccellente e dominante in un composto costituisce la forma e la sostanza del medesimo (2). E questo è forse l' unico, o certo uno de' rarissimi luoghi d' Aristotele, dove il filosofo accenni veramente alla persona umana, benchè gliene mancasse il vocabolo (3). [...OMISSIS...] Coi quali luoghi non si può ancora decidere se, nella sentenza d' Aristotele, la mente sia una per Iddio o per gli Dei e per gli uomini, o siano più menti di numero. Da una parte dice, che è cosa non umana, ma divina; dall' altra, essa costituisce l' uomo stesso, e ciò che d' eccellentissimo e di dominante in lui si trova. Cerchiamo dunque degli altri luoghi del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . E si sforza di provare che agli Dei disconviene l' azione, e che non resta loro altro che la contemplazione. [...OMISSIS...] Ognuno sente come il linguaggio d' Aristotele, a questi passi stretti, vacilla e zoppica ora da una parte, ora dall' altra. La mente contemplatrice è di tutti gli Dei; ma, di nuovo, noi dimandiamo, è ella una di numero o di specie? Dipoi rispetto agli uomini, ci dice esser beatissimo quell' atto che è cognatissimo all' atto contemplativo di Dio, [...OMISSIS...] . Se è cognatissimo, sarà uguale di specie, ma diverso di numero. Ma no, perchè « « ogni vita beata è degli Dei » » [...OMISSIS...] . Dunque anche la vita beata che consiste nell' atto contemplativo dell' uomo, sarà degli Dei, identica di numero, ma esistente nell' uomo. Questo s' accorda con ciò che disse prima che una tal vita non è umana, ma divina, a cui sembrava alludere colle parole dette poco innanzi; che la vita della mente è separata dal rimanente, [...OMISSIS...] . Ma sente di non poter sostenere una tal sentenza; che gli rimane dunque? Di rattaccarsi a Platone, di ricorrere per rifugio alle sue espressioni: ed eccovi che v' introduce la partecipazione [...OMISSIS...] (3), questa parola solenne di Platone, che altrove diceva di non intendere (4), e finalmente ricadendo del tutto nella dottrina del suo maestro e usurpandone il linguaggio, vi parla della mente contemplatrice dell' uomo come di un simulacro della divina [...OMISSIS...] (5). Che se l' umana è simulacro , la divina dunque è esemplare : l' esemplare dunque è qualche cosa di più d' una poetica metafora, come lo chiamava altrove in tuon di beffa. Va più avanti, e vi dice degli altri animali che non hanno niuna comunione nel contemplare, [...OMISSIS...] (6). Riconosce dunque una specie comune negli atti contemplativi. Ma la specie comune è anteriore a quelli che ne partecipano, non essendo che un elemento di essi (1): ammette dunque una specie anteriore agli Dei ed agli uomini: quest' è un ammettere più di Platone stesso. Che se prendiamo la cosa dall' altro verso e consideriamo la mente come una sostanza separata e per sè sussistente che, essendo Dio, inesista negli dei e negli uomini, noi diamo di cozzo in un' altra sentenza d' Aristotele, cioè che una sostanza non possa essere composta da più sostanze in atto; sentenza della quale si serve per dimostrare, che le idee di Platone non possono essere sostanze, perchè in tal caso più sostanze in atto entrerebbero a comporre una sostanza sola (2). L' argomento si può rivolgere con più efficacia contro di lui, se pur vuole, che la sostanza divina entri in composizione col corpo e coll' anima dell' uomo, rimanendo sostanza in atto, essendo la vita della mente separata e da sè, come egli dice. Che un' idea , un oggetto, come vuole Platone, possa esser partecipata da più subietti in virtù della mente, questo s' intende. Ma sostituendo Aristotele l' atto contemplativo subiettivo e sostanziale all' idea , non s' intende più, come quest' atto possa essere comunicato a più subietti, senza che o ciascuno d' essi diventi due invece d' uno, o tutti i subietti diventino un subietto solo, ciò che si potrebbe chiamare un panteismo aristotelico (3). Nell' opera morale a Eudemo, che contiene la dottrina d' Aristotele, e in parte è tessuta di brani delle sue opere, s' incontra un luogo, che complica maggiormente la difficoltà, e che noi qui riferiremo, perchè, sia d' Aristotele stesso o d' un suo discepolo, dimostra uno sforzo di riparare a quella lacuna immensa che lascia la dottrina aristotelica. Avendo Aristotele tolto a Dio ogni azione sul mondo e lasciatogli solo l' essere appetibile, molti avvenimenti, come osservammo, rimanevano privi di causa sufficiente: l' appetito universale della natura non basta a spiegarli. Aristotele ricorse dunque al caso e alla fortuna, cioè, come egli stesso confessa, non a cause, ma a privazioni di cause. Nel luogo accennato si osserva appunto che a certi uomini accadono prosperi avvenimenti fuori dell' aspettazione e senz' averci pensato. Di più lo stesso pensare e lo stesso volere dipende come da un primo principio, che non è nè il pensare nè il volere dell' uomo. Poichè chi può aver mosso l' uomo a pensare e a consultare? un pensiero e una deliberazione anteriore? ma e a questa che cosa lo mosse? Conviene dunque dire, per non andare all' infinito, che il primo movimento del pensiero e del consiglio non venga all' uomo dal proprio pensiero o dal proprio consiglio, ma da una causa anteriore, che determina nell' uomo quella serie di pensieri e di consigli, dietro a' quali vennero i prosperi successi (1). Ora qual è dunque questa prima causa? [...OMISSIS...] Le quali parole tentano, come dicevamo, di empire una lacuna del sistema aristotelico, e sono una confessione del suo intrinseco difetto. Poichè in esse si abbandona lo stesso sistema, e si ricorre al divino entusiasmo di Platone come ad un puntello straniero. Infatti: 1 Aristotele aveva dichiarata divinissima la mente, e in questa racchiuso il divino: ma qui si ricorre ad un principio superiore alla stessa mente, [...OMISSIS...] . 2 Avea detto che Iddio non move che come primo intelligibile ed appetibile (2), ma qui move e determina lo stesso pensiero verso l' intelligibile, e però sembra un principio cieco, anteriore all' intelligibile stesso. Tuttavia quando dice che alcuni sono spinti ad operare rettamente «alogoi ontes,» si può intendere non privi dell' intuizione dell' intelligibile, ma privi del raziocinio; benchè la ragione , in altri luoghi d' Aristotele, apparisca come oggetto essenziale dell' intelligenza; ma i varŒ sensi della parola ragione possono forse conciliare l' apparente contraddizione. E se paragona tali uomini mossi dal divino entusiasmo a' ciechi (3), può intendersi della mancanza di consapevolezza, per la quale non si rendono conto della ragione da cui sono mossi. Interpretando dunque a questo modo il brano che esaminiamo, che cosa è il divino che move tutte cose in noi, come Dio nel mondo, [...OMISSIS...] ? E` un principio diverso dalla ragione, [...OMISSIS...] . E` migliore anche della scienza [...OMISSIS...] : vince anche la mente in eccellenza e la volontà, [...OMISSIS...] . E` Dio stesso, [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che la mente sia qui presa in senso subiettivo, e che nomini Dio lo stesso oggetto intelligibile. Così si può rendere coerente, in qualche modo, tutto questo luogo coll' altre dottrine aristoteliche. Di che risulta, che Aristotele pone Iddio nell' universo [...OMISSIS...] , e lo pone pure nell' anima intellettiva, come principio primo d' ogni suo movimento, [...OMISSIS...] . E questo conferma quello che abbiamo provato più sopra, essere Aristotele lontanissimo dal sistema di que' superficiali de' nostri tempi, che non ripongono nell' anima intellettiva niun oggetto insito, e da' sensisti, che la cognizione traggon da' sensi. Dal che è tanto lontano Aristotele, che anzi separa la natura del sensibile e quella dell' intelligibile d' uno spazio infinito, onde l' una non può passar mai ad esser l' altra. Poichè ripone la natura del sensibile nella sfera delle cose naturali, quella poi dell' intelligibile nella sfera delle divine ed immutabili. A queste poi assegna il principato, non solo nell' universo ma anche nell' uomo, e il fine stesso dell' uomo e della virtù. E l' uomo più che s' allontana dalle cose sensibili, più ottiene questo suo fine. Ritorna anche qui, quasi involontariamente e per la violenza che gli fa il vero, a Platone. [...OMISSIS...] . Ciò dunque a cui l' anima deve tendere è di sottrarsi alla sensazione, e affissarsi nel più alto oggetto della contemplazione, Iddio. Dalle quali cose tutte si può raccogliere, che circa la natura divina e l' origine della mente umana da questa, Aristotele parla oscuramente, e da sè stesso s' ingombra il cammino nel quale incèspica. Poichè volendo combattere il sistema di Platone, da una parte è costretto ad ammettere il divino ultimato, la specie ultimata, Dio stesso nella natura, il che conduce ad una sorte di panteismo (1); per la composizione poi della specie divina colla materia (2), da un' altra, venuto a certi passi, è ripulso da un tale ardito pensiero, e torna a confessare, che la mente umana e le specie ultimate della natura non sono più, come Platone diceva, che un cotal simulacro di Dio. Finalmente cade talora in un terzo sistema , ed è forse il più frequente, ma di cui non si rende conto, di considerare cioè Iddio come una natura comune e dispersa nella natura, di cui una cosa più o meno partecipi, il che conduce ad una specie comune , che sarebbe necessariamente un' idea di Platone, ma senza trovare più una sostanza o mente reale in cui risieda, perchè specie comune alla prima e all' altre menti e però anteriore a tutte, il che cozza con tutti que' principŒ, coi quali Aristotele prese a combattere le idee platoniche. Ma ciò che non abbandona mai Aristotele in tutti questi diversi sistemi, a cui, secondo il bisogno e di fuga, s' appiglia, sembra questo che in nessuna maniera si può spiegare l' umana intelligenza senza farla derivare da una qualunque comunicazione di Dio stesso (3). Come abbiamo già osservato, fortissimo è il raziocinio d' Aristotele quant' è alla forma, ma la sua dottrina rimane imperfetta quant' è alla materia, avendo egli accettato, senza sufficiente esame, taluni elementi con cui compone il suo sistema da due fonti irrazionali, cioè dal senso e dall' autorità superstiziosa del gentilesimo (1). Mirabile certo fu il lavoro che con materiali così imperfetti seppe comporne, quasi stupendo mosaico, il che soprammodo apparisce a chi considera, come egli dalle superstizioni tradizionali intorno agli astri pervenne a trarre un' ingegnosa dottrina per ispiegare, in qualche maniera, i moti della natura, e le generazioni e concezioni sublunari. Ma indubitatamente s' aiuta in questo lavoro non del tutto filosofico con un parlare traslato. A ragion d' esempio quando prova che il cielo è finito (2) e poi dice, che « « al di fuori del cielo non c' è, nè ci può essere, nè corpo, nè luogo, nè vacuo, nè tempo »(3) »; e che ivi è il luogo dove abita Iddio (4): in niuna maniera si può intendere il significato proprio, perchè se il cielo è finito, convien che al di là rimanga ancora dell' estensione o vacua o piena. Conviene dunque o riconoscere un somigliante discorso come una semplice ripetizione di volgari credenze, e così Aristotele lo presenta quando ce lo dichiara relativo alla fede umana, [...OMISSIS...] (5), o intenderlo in senso traslato, quasi voglia dire che Iddio non occupa spazio, e però è fuori di tutto l' universo materiale ed esteso, e così par che lo prenda lo stesso Aristotele quando ci fa sopra una teoria filosofica; e così lo spiega il suo commentatore Simplicio. Ma se questo Dio è veramente incorporeo, come poi trova necessario che a lui sia congiunto e acconciato un corpo immortale? (6) E se sta sopra il cielo, come costituisce poi le menti degli uomini e la specie pura a cui tende tutta la natura? Questo miscuglio di materialismo e di spiritualismo rimane in Aristotele come rottami di fabbriche diverse di cui si serve per costruire una fabbrica nova, rimane come un sincretismo, monumento della limitazione dei più forti intelletti umani. Considerata la dottrina dalla sola parte spirituale, ci si trova un' ingegnosa unità, ma ben tosto questa s' infrange irruendo in essa la parte materiale. Così gli esseri intellettivi hanno per oggetto loro o specie, in cui contemplano il Bene eterno, Iddio immobile, l' essere per sè; ed operano per questo fine. Laonde in quegli enti che non operassero per un fine, e questo immobile, non ci potrebbe essere la mente (1). Ma la mente è il luogo delle specie pure di materia, e le specie pure di materia sono immobili ed anteriori alle specie unite alla materia: poichè le specie sono la causa formale delle cose, causa incorruttibile ed eterna (2). Ora se tutte le cose dipendono dalle loro cause formali, e queste non ci sarebbero se non ci fossero le menti, consegue che tutte le cose ricevono continuamente l' essere e il vivere loro dalla prima ed eterna divina mente, verso cui tutte aspirano; non a dir vero come da un Dio creatore, ma come da un Dio che somministra a tutto le forme, e però condizione e termine di tutto. Onde dice che « « Iddio sembra essere un certo principio di tutte le cause; e un tale principio o solo l' ha Iddio, o principalmente » (3) ». E dice principalmente, perchè anche la mente nell' uomo è dichiarata da lui « « principio de' principŒ » » e « « luogo di tutte le forme » ». [...OMISSIS...] Infatti, dice, non ci può essere una serie di cause all' infinito, ma in ciascuno de' quattro generi convien fermarsi ad un principio, anche nell' ordine delle specie (5). Laonde se non c' è un primo non c' è niuna causa (1). Tra tutte le cause poi la prima è la finale: onde la nobilissima scienza, a cui l' altre tutte devon servire, è quella del fine e del bene [...OMISSIS...] , poichè tutte le cose sono in grazia di questo, [...OMISSIS...] (2). E` impossibile che ci sia una catena infinita di cause finali; poichè la causa finale è un termine, in grazia di cui sono tutte le altre cose: questo termine non si troverebbe mai, osserva Aristotele, se la serie fosse infinita, e quindi non ci sarebbe il Bene (3): non ci sarebbe la mente, poichè quei che l' hanno, operano per un fine (4), nè ci sarebbe l' intendere, poichè non si può intendere senza fermarsi in uno intelligibile, [...OMISSIS...] (5). Ma del pari non ci potrebbe esser nè pure la generazione, perchè anche la generazione tende ad un fine, ad una specie sostanziale, ed è media tra l' ente e il non ente: convien dunque che ci sia un primo sempiterno e incorruttibile da cui parta e a cui tenda incessantemente (6). Poichè la natura opera come l' arte mediante la specie insita in essa, e ciò che ha questa specie in potenza tende di pervenire all' atto come a suo fine (7). Così Aristotele facendo che anche gli animali e le stesse cose insensibili cerchino un atto finale, e il fine ultimo essendo l' ultima specie, Iddio, da Dio, a cui tendono (.), deriva tutta l' azione, la vita, la forma dalla natura. Ma come si derivi quest' azione non lo dice chiaramente. Al primo cielo, che contiene tutti gli altri, conviene certamente che dia un' anima dotata d' intelligenza e d' appetito (1), che sono le cause del moto locale secondo Aristotele (2). Ma come poi il cielo, contemplando il motore immobile ed appetendolo, si volga in giro, qui sta appunto il salto del sistema aristotelico, il punto dove si discontinua, non potendosi vedere che abbia a fare il moto circolare nello spazio colla contemplazione dell' eterno bello e dell' eterno buono: sono due parti eterogenee che non si continuano, nè accostate si rammarginano. Forse che essendo l' atto della mente eterna un continuo rivolgersi sopra sè stesso, [...OMISSIS...] (3), abbia Aristotele, a imitazione di Platone, voluto significare che l' anima del cielo, risolvendosi in una continua riflessione sopra di sè ad imitazione della prima mente rapisse in circolo il corpo celeste da essa informato, e col moto locale rappresentasse l' interno circolo del pensiero; e per questo pare che attribuisca al cielo il volgersi in giro ragionevolmente, [...OMISSIS...] (4). L' arabo commentatore e il primo suo traduttore Michele Scoto spiegarono il movimento de' cieli non per l' appetito di tutto il corpo celeste a cui nulla, come ad essere divino, potea mancare, ma per l' appetito delle sue parti (5), stranissimo pensiero, esprima o no la mente d' Aristotele. Trovato dunque un movimento perpetuo circolare e uniforme dell' ultimo cielo, Aristotele da questo deriva come da prima causa la conservazione delle cose naturali e l' uniforme esistenza: ma sotto il moto del primo cielo pone poi quelli delle altre sfere e degli astri; moti diversi e non uniformi, e a questi movimenti attribuisce la prima causa della generazione e della corruzione (1). Queste sfere e questi astri si movono come il primo cielo per la contemplazione e l' appetito del proprio Dio, motori immobili, menti eterne, benchè inferiori alla prima, senza potersi dire in che consista questa inferiorità di natura. E da un luogo del secondo libro « Della Generazione e della Corruzione » più chiaramente s' intende in che consista la censura che fa alle idee di Platone. Egli osserva che Platone pone due cause, le forme e i partecipanti , ma queste due sole, dice, non bastano a spiegare la generazione e la corruzione. Poichè se le forme da sè generassero, sarebbero cause necessarie, e perchè dunque non generano sempre, ma or sì ed ora no? (2). Ci vuole dunque per terza la causa del moto, che pretende essere stata omessa da Platone, sebbene a torto, come vedemmo (3). Non nega dunque le specie platoniche, ma le dichiara insufficienti a portare da sè l' effetto, e vuole che s' aggiunga la causa del moto (4). Ma qual è la prima causa del moto secondo Aristotele? L' intelligibile, il desiderabile: una prima specie e ad un tempo intellezione divina, che niente opera per sè; ma che, essendo appetita dal primo cielo, questo di conseguenza si muove in circolo. Nell' origine dunque del primo movimento Aristotele pone l' efficacia di movere in un' idea, e non introduce un terzo principio, ma alla stessa idea o specie prima dà ad un tempo la qualità di specie, di motore e di fine, unificando in essa le tre cause. Dal che non va certo lontano Platone, come vedemmo. Nè Platone certamente nega che il moto una volta generato si comunichi per contatto e per continuazione di parti. Ad ogni modo al pensiero d' Aristotele sembra questo, che le tre cause riunite originariamente in Dio si dividano discendendo alle cose mondiali. Laonde per ispiegare la generazione degli enti sublunari trova necessario non solo un motore immobile, ma anche un motore eternamente mosso, e questo duplice, l' uno di moto uniforme, come quello del primo cielo che conserva l' uniformità della natura, l' altro di moti varŒ come quelli dell' altre sfere e dei varŒ astri. E infatti nell' esempio che adduce per dimostrare che le cause delle cose generabili devono esser tre, queste cause sono già divise, traendo un tale esempio dalla medicina, dove dice che oltre la specie della sanità e oltre il partecipante che tien luogo di materia, c' è il medico che applica la specie al partecipante come causa motrice; e così, aggiunge, dicasi dell' altre cose che operano per una forza, cioè come cause efficienti (1). La quale osservazione niun meno di Platone negherebbe; quando questi fa Iddio non solo motore, ma anche creatore, e al modo appunto d' un sapientissimo artefice (Demiurgo). Del rimanente, questo resta di solido nella dottrina aristotelica circa le cause rimote della generazione: l' aver egli veduto che niente c' è nell' universo corporeo che stia in quiete, come ne' tempi moderni osservò il Leibnizio, ma tutto si move, e che senza questo perpetuo movimento non si potrebbero spiegare i fenomeni della natura. Chè per verità tutto s' adunerebbe in una massa inerte e morta. Nell' uomo, Aristotele attingendo al concetto che se n' erano formato i filosofi che lo precedettero, vide la riproduzione in piccolo dell' universo (2). Anzi sarebbe forse più esatto il dire, che concepirono l' universo sul disegno dell' uomo, anzichè l' uomo su quello dell' universo. Pose dunque anche nell' uomo (ed è evidentemente un' imitazione del « Timeo » di Platone, per quanto Aristotele voglia farci credere il contrario) un Movente immobile, e quest' è la Mente oggettiva; il Motore Mosso, e questo è l' Appetito; e finalmente la parte mossa e non motrice (3). Nell' uomo dunque ci sono tutti i motori, e comparativamente anche negli altri animali; benchè egli esiti nell' attribuir loro la parte divina (1). Infatti se la parte divina non è che la mente obiettiva, i bruti ne sono privi, ma se divina è la specie , tutte le cose ne sono partecipi, sebbene, essendo in esse la specie alla materia congiunta, riman cieca, intelligibile, ma non intelligenza: sistema pieno certamente di difficoltà, che non poteano del tutto sfuggire all' ingegno d' Aristotele, e però il suo frequente esitare, come dicevamo (2). A malgrado di questo il giro de' cieli è necessario, perchè gli animali dipendono dalle cose materiali e corporee, che sfuggono alla sua volontà e al suo appetito. E inoltre è necessario secondo Aristotele per ispiegare le generazioni spontanee e casuali, alle quali dà per cagioni il movimento del tempo , che dai giri celesti proviene, e il calore (3). Dal calore ancora fa dipendere l' assimilamento delle parti componenti il corpo umano, non però la specie , che appartiene al seme (4): e questo calore non è già quello del fuoco, ma è un calor vitale, che si svolge mediante il celere giro de' cieli e degli astri (5), giacchè questi veementissimi movimenti e soffregamenti (6) producendo calore e luce eccitano e danno un interior moto a tutta la natura (7): nè questo calore è guari diverso da quello spirito calido che è mezzano tra l' anima intellettiva ed il corpo e propria sede probabilmente dell' anima sensitiva e dell' appetito (.). Laonde alla posizione degli astri più o meno vicini alla terra nei loro corsi, attribuisce molta influenza sul riuscire o perfetta o imperfetta la generazione umana (9). Se ora raccogliamo tutte le cose esposte sin qui e cerchiamo di riunire i brani del sistema aristotelico sparso nelle diverse sue opere, possiamo conchiudere, che Aristotele non giunse a dare al suo sistema una perfetta unità e a ridurre l' universalità delle cose a un unico principio: ma che egli ammette una dualità primitiva ed eterna. I due principŒ eterni che costituiscono questa dualità sono la materia e la forma ; potenza l' una, l' altra atto. Alla forma si riduce la privazione. Alla potenza del suo ingegno è dovuto, se egli a malgrado de' due principŒ da lui ammessi come primordiali, seppe cansare il manicheismo (1), in cui urtarono alcuni neo7platonici, ingegni tanto inferiori allo Stagirita. Il suo errore si tempera anche con questo, che egli non fa uguali i due principŒ eterni da lui posti, ma riconosce che la materia dipende eternamente dalla forma, onde la materia senza di questa non è qualche cosa, di maniera che la forma è causa della materia, [...OMISSIS...] (2), l' atto è causa della potenza, sicchè infine tutto quello che è, è atto, [...OMISSIS...] (3). Il che è lo stesso che ammettere una specie di creazione eterna e continua. Non attribuendo dunque un essere suo proprio alla materia, rimane che l' ente sia specie o forma , e certamente forma universale. Di che deduce che l' ente, la natura dell' ente è eterna, non può nascere, e non può distruggersi, poichè per nascere o per distruggersi ci sarebbe bisogno di qualche altra causa e questa ancora sarebbe essere [...OMISSIS...] (4). Questa specie dunque, cioè l' essere, è necessaria. Ora da ciò che è necessario dipende tutto ciò che è contingente, onde è chiamato da Aristotele il principio dell' esistere di tutte le cose [...OMISSIS...] (1). Ancora, se l' essere stesso è necessario ed eterno, dunque è atto purissimo, poichè niente di ciò che è materiale e potenziale è eterno, ma corruttibile [...OMISSIS...] . E ciò perchè un subietto in potenza ammette de' contrarŒ cioè è suscettivo d' avere una specie o la sua contraria, d' aver un certo atto e di non averlo: ora ciò che può essere e non essere è corruttibile e non eterno (2). E in vero di contrario semplicemente all' essere non è che il nulla; non c' è dunque qualche cosa che sia contrario all' essere. Se dunque l' essere è necessario ed eterno e atto puro senza potenza, egli non ha bisogno per esistere d' alcuna materia o potenza: è dunque da sè puro e separato. E infatti Aristotele prova la necessità che ci sia un tale principio, di cui l' essenza stessa sia atto, [...OMISSIS...] (3). E atto appunto è l' essenza dell' essere. L' essere dunque, considerato in sè solo, è puro atto. Ma l' essere si mescola anche colla materia. Indi i diversi enti. E poichè si predica l' essere di tutti questi enti, sembra che l' essere sia un predicato universale: ond' anche l' essere e l' uno furono chiamati primi generi [...OMISSIS...] (4), anteriori e più universali delle categorie (5). Ma, considerato l' essere come genere e come universale, nega Aristotele che possa avere un' esistenza separata, chè niun universale, dice, può esistere separatamente (6). Come dunque avea detto prima l' essere non appartenere ai corruttibili, essere puro atto, principio all' essere di tutte le cose? Convien osservare che Aristotele non chiama genere l' ente, se non o come una denominazione che gli avevano data altri filosofi, dimostrando quali inconvenienti nascerebbero dal così chiamarlo, ovvero talora lo chiama forse genere in un senso differentissimo da quello nel quale dice genere le categorie, chè nel senso di queste nega che possa convenire all' essere l' appellazione di genere [...OMISSIS...] (1). La ragione che adduce per negare all' essere il nome di genere è notevolissima. Il genere è essenzialmente limitato e imperfetto, egli non entra nella definizione se non come materia (2), non contiene l' atto specifico se non in potenza, quindi non si può predicare della differenza (3): tutto ciò non è applicabile all' essere ; poi l' essere abbraccia tutto, tanto in potenza quanto in atto; si predica del genere, della specie, della differenza, dell' individuo (4), poichè tutte queste cose sono, l' essere è tutte ad un tempo. Non è dunque l' essere essenzialmente limitato e incompleto come il genere; che anzi la limitazione è per lui accidentale e non sua propria, che quant' è meno limitato, tant' è più veramente essere. Di qui accade che mentre il genere, se gli s' aggiunge qualche cosa d' ulteriore, cessa d' essere genere, l' essere all' incontro non cessa d' esser essere , ma raggiunge più pienamente con ciò la sua stessa essenza. Niuna maraviglia dunque, se la natura dell' essere da una parte si consideri puramente in sè, e in tanto si trovi principio di tutte le cose ed atto per sè essente; e dall' altra si trovi predicato universalissimo de' generi, delle specie e degli individui (secondo una maniera puramente dialettica di predicare), e che in questo secondo modo si neghi potere esistere separato, poichè in questo modo è divenuto essere limitato, quando per sè e come essere è illimitato. Dissi che l' essere si predica in una maniera puramente dialettica, perchè assolutamente non si predica; chè l' essere assolutamente preso come predicato involgerebbe contraddizione. In fatti di che si predicherebbe? Certo di sè stesso, perchè del nulla non si può predicare. Ora insegna Aristotele che la prima essenza (l' essenza singolare) non si predica del subietto nè è nel subietto [...OMISSIS...] (5), il che è quanto dire, che il subietto non si predica del subietto e non è nel subietto. Ma il subietto è doppio, secondo Aristotele, poichè subietto è la materia prima suscettiva d' ogni atto e de' contrarŒ, e quest' è l' essere indeterminato (6), l' essere in potenza, e è subietto anche l' essere determinato ed ultimato e quest' è l' essenza prima. Ora i veri predicabili dell' essenza sono le specie e i generi essenziali, ed indicano una qualità, un modo, una determinazione dell' essenza [...OMISSIS...] (7). La parola essenza dunque ( «usia» da «einai»), dico l' essenza sostanziale, è presa da Aristotele come l' ente, «to on», al modo di Platone, Nel settimo dei « Metafisici » lungamente si trattiene a provare, che l' ousia è la causa dell' essere delle cose, poichè «he usia arche kai aitia tis estin» (1) ed è causa «tu einai». Ma qui l' essere si considera in relazione cogli elementi materiali di cui la cosa si compone: questi elementi, come i materiali della casa, cessano d' aver un' esistenza propria e diventano la casa, a cagione della forma della casa. La forma dunque o essenza della casa è causa per la quale la casa è, sia nell' idea, sia nella realtà: la materia della casa è il subietto indeterminato che non è ancora qualche cosa: vi s' aggiunge un' essenza sostanziale o forma, per esempio quella della casa, o d' un letto, e allora quella è questo qualche cosa speciale. Così l' essenza sostanziale è la causa dell' essere delle cose. Ma trattasi qui sempre di cose finite e materiali. Ora l' essenza stessa si può concepire in due modi, in un modo indeterminato e così è l' essere puro indeterminato il quale non sussiste ancora se non soltanto nella mente (2); o dopo che gli furono attribuite tutte le sue determinazioni (predicabili dell' essere puro), e così è l' essere determinato che può sussistere in sè medesimo. Ma primieramente l' unione della qualità essenziale col subietto è doppia, cioè: 1 è tale in natura; 2 è pronunciata dall' intendimento. Se l' intendimento pronuncia l' unità qual è in natura, c' è il vero nell' intendimento, altramente il falso (3). Ora l' intendimento non può eseguire quest' atto di predicazione, se non avendo precedentemente fatti quest' altri atti: 1 concepito da una parte il subietto , l' essere indeterminato, dall' altra la qualità essenziale che si tratta di attribuirgli; 2 concepito il subietto vestito delle qualità essenziali. Quindi l' atto della predicazione suppone tre idee nella mente: 1 l' idea del subietto, essere in universale; 2 l' idea della qualità essenziale che lo determina; 3 l' idea del subietto determinato. Queste sono tre idee, e non c' entra ancor nulla della realità, che s' aggiunge coll' affermazione o assenso dell' animo (1). L' idea del subietto è l' idea dell' essere indeterminato. L' idea della qualità , divisa ancora dal subietto, è un puro predicabile, e fa ufficio di differenza tra l' essere indeterminato e primo subietto, e l' essere determinato. L' idea del subietto determinato , vestito della qualità essenziale, è l' idea completa , l' essere ideale determinato, dove già il subietto ed il predicato sono idealmente congiunti. Tutto questo è nel mondo ideale. Aristotele non fa espressamente tutte queste distinzioni, e sopra tutto non distingue la predicazione ideale dalla reale e affermativa. Sotto il nome di specie essenziale ( ousia categorica) egli intende talora la qualità dell' essenza , [...OMISSIS...] divisa e astratta dall' essenza; talora poi intende il tutto ideale cioè l' essenza vestita della qualità essenziale. Variando dunque di significato la parola specie (e proporzionatamente si dica il medesimo della parola genere ), si trovano nel nostro filosofo dottrine apparentemente contraddittorie (2). Ma rimane che l' essere (e quando si dice essere si dice atto, chè senza qualche atto non si può intendere l' essere in potenza) sia sempre attribuito da Aristotele alle specie che si riducono in generi, e che fuori di queste non si riconosca alcun essere, di che sembra a prima giunta, che non ammetta l' esistenza dell' essere separato e da sè esistente. Così chiama le categorie « generi dell' ente ». E dice che come dicendo un uomo non s' aggiunge nulla ad uomo , così l' essere non aggiunge nulla alla quiddità, o al quale, o al quanto, e che l' essere uno è il medesimo che l' essere quella cosa che si nomina, senza che col dirla una, le si aggiunga altro (1). L' essere dunque, secondo Aristotele, non aggiunge nulla alle categorie (potenza ed atto) (2) ma che le segue tutte ed è tutt' esse (3); l' essere dunque non è una natura che stia da sè, ma è sparso e diviso tra tutte le nature degli enti e si coagguaglia a tutte. A questa parte, che è chiara in Aristotele, si sono tenuti gli scoliasti e i commentatori. Ma tutto questo vale dell' essere considerato come predicabile. Aristotele lo considera anche come atto in se stesso determinato, ossia come specie. E quantunque dica che il solo composto di materia e di forma è assolutamente separabile «choriston haplos» (1), tuttavia qui parla degli elementi di questo composto, che non sono certamente separabili, cioè la materia, o la forma di questo composto. Pure soggiunge, che riguardo alle essenze, che sono secondo ragione, altre sono separabili, altre non sono (2), e sembra che parli di quella stessa separazione assoluta. D' altra parte dice che tutti gli enti che non hanno materia sono semplicemente enti determinati (3). Se sono dunque enti determinati [...OMISSIS...] , perchè non potranno sussistere? Aristotele insegna che la materia ha bisogno della forma per essere qualche cosa, ma in nessuna maniera insegna che la forma abbia bisogno della materia per essere qualche cosa: solamente osserva che la forma, acciocchè sussista separata, conviene che sia ultimata e non in potenza, come sono i generi e gli universali. Quello dunque che assolutamente nega Aristotele, si è solo che non può sussistere da sè l' ente indeterminato e però non può sussistere l' essere da sè come universale, come genere comune: non c' è, dice, l' uno o l' ente, nel quale siano gli enti determinati come in loro genere, di maniera che l' uno e l' ente come generi sieno le cause alle essenze determinate d' essere uno, o d' esser ente, [...OMISSIS...] . In questo sistema dunque non può sussistere da sè nessun ente, nessuna quiddità, nessuna specie che non sia pienamente determinata; se non è determinata può sussistere soltanto nella mente, separata dalla materia corporea; ma se la specie, l' essere, è pienamente determinata, ancorchè non abbia materia corporea, allora è un singolare e niente vieta che da sè sussista, e così sussiste secondo Aristotele la mente e Dio. [...OMISSIS...] . E che cos' è quest' ascendere di specie in specie fino all' ultima specie, se non andare da una specie a cui resta qualche materia e potenzialità, e non è ultimata, fino a trovare una specie che non abbia materia alcuna e sia puro atto? Poichè dice, che non c' è nulla d' eterno che sia in potenza o che abbia materia [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque che ci debbono essere specie sussistenti da sè ed eterne altrettanto che Platone; soltanto vuole che esse sieno ultimate, cioè venute all' ultimo loro atto, e quest' atto l' hanno quando sieno non solo intelligibili, ma intelligenti; poichè dice, che lo sciente è più in atto della scienza e il mosso del moto (2). Avendo dunque fatto consistere l' ultimazione della specie nell' essere questa non solo intelligibile ma intelligente, trasformandola così in una mente, Aristotele non si curò più di sapere, se l' oggetto di questa mente fosse determinato o indeterminato, e concedette che anche gl' indeterminati come i generi e gli universali fossero in questa mente così subiettivamente determinata, ed anzi fossero tutti questa mente medesima. Anzi domandando a se stesso quali intelligibili convenissero meglio alla mente suprema, trovò che gli universalissimi, cioè l' essere e l' uno , che chiamò «prota te physei» (3) e i principŒ , che sono lo stesso essere ed uno nelle loro applicazioni, ond' anco disse, che la mente era de' principŒ [...OMISSIS...] , e essa stessa principio del principio [...OMISSIS...] (4). Essendo dunque l' intelligibile intelligente, e il primo intelligibile essendo l' essere , questo è in senso obiettivo ad un tempo e subiettivo la mente d' Aristotele. Per la stessa ragione poi per cui Aristotele disse che la prima filosofia trattava dell' ente come ente, e di conseguente della mente e de' primi intelligibili, e de' principŒ di cui la mente è il primo; disse anche che trattava delle cause, poichè nella mente suprema finivano tutte le cause, essendo essa prima causa finale, e quindi prima causa motrice, e di conseguente causa delle specie, e di conseguente ancora causa della materia, la quale non è qualche cosa se non per la specie (5). Ma gioverà indicare altresì da che fosse indotto Aristotele a considerare l' ente puro come l' oggetto degnissimo della prima mente, formante con questa una medesima cosa. Dice dunque che l' ente e l' uno, che non è che un carattere dell' ente, si riputeranno meglio d' ogni altra natura contenere tutti gli enti [...OMISSIS...] , come quelli che sono per natura primi [...OMISSIS...] (1). Questa proprietà, di contenere il tutto, l' attribuisce appunto a Dio, che perciò colloca come in sua sede sopra l' ultimo cielo, rappresentandolo così come contenente (2). Ora l' essere ha appunto questa prerogativa, che in esso tutto si veda contenuto: e però tutte le specie sono in lui, ond' anco la mente è detta da Aristotele « il luogo delle specie ». Ma come l' ente contiene le specie? Aristotele, come abbiamo veduto, dà all' Ente, o mente suprema, la sola cognizione di se stesso, e sembra che gli tolga quella del mondo. Parmi dunque che il nostro filosofo faccia che la mente divina contenga tutte le specie, appunto come l' essere puro (determinato solo a se stesso, e attuato nel principio subiettivo dell' intellezione) contiene le specie di tutte le cose finite, come il circolo contiene tutte le figure poligone che possono essere in esso descritte. Le contiene perchè è maggiore di esse, ed ha in un modo eminente tutto ciò che è in esse; ma non le contiene colle loro determinazioni e co' loro limiti, che le impiccioliscono (3). Onde dunque, secondo Aristotele, l' origine delle specie finite? - Dalla tendenza, crediamo noi, che egli dà alla materia, o anzi alle diverse materie, di che il mondo si compone. Tendendo ciascuna all' atto ed alla propria perfezione (4), esse tendono di continuo ad assomigliarsi all' ultima e perfettissima essenza che ha l' atto completo. Ma non potendo raggiungerla, tutte vi si avvicinano in diversi modi e gradi, secondo il proprio nativo potere, nascente dalla specie che già hanno e che tende a riprodursi con eterno circolo. Rimanendo dunque le nature materiali in questo continuo conato a diversi punti della scala, senza arrivare nessuna di esse al sommo, accade che si vestano di specie varie, che non adeguan la prima, ma tengano tutte qualche cosa di essa. Così le specie limitate, che informano gli enti naturali e corruttibili ed anche gli incorruttibili come gli astri, in moto perpetuo, non nascono di nuovo, ma non fanno che riprodursi, perchè tutte le specie sostanziali sono ab aeterno in natura, non già separate ma unite colla materia (1). Ed ecco il perchè la mente umana non può trovare in se stessa queste specie, ma le abbisogni cavarle per via d' induzione dalla natura. La mente umana è la stessa mente divina (se identica di numero o solo di specie difficilmente si può definire) (2), e però in sè non ha che i primi intelligibili (1). Essendo essa congiunta ad un corpo sensibile, dal sentimento raccoglie le specie e i generi, valendosi di quel lume che la forma, cioè dell' essere, a cui si riducono appunto i due primi intelligibili l' ente e l' uno, e i principŒ in questi stessi contenuti. Si opporrà che in questo sistema l' uomo verrebbe a sapere più di Dio, perchè essendo Dio la mente separata e non avendo questa che i primi intelligibili, l' uomo all' incontro accogliendo anche le specie finite delle cose naturali, conosce queste oltre di quelli. A questa difficoltà, di cui abbiamo già toccato prima leggermente, dobbiamo far qui più compiuta risposta. Osserva Aristotele, che quel divino che è nell' uomo, è cosa più eccellente del composto, che si fa da esso e dall' altre parti inferiori dell' uomo, [...OMISSIS...] , e che di tanto altresì l' atto puro di questo divino, cioè della mente, si vantaggia dall' atto d' ogni altra virtù, [...OMISSIS...] (2). Ora l' uomo essendo composto e dovendo attendere a tant' altre operazioni, è distolto dalla continua contemplazione; all' incontro gli dei, cioè le menti separate, vi permangono sempre e così godono d' una perpetua e continua beatitudine (3). Iddio dunque è mente perfettamente teoretica ossia contemplativa, di cui l' uomo non gode che momentaneamente. Poichè la perfezione è riposta da Aristotele in due cose: 1 che subiettivamente altro non ci sia che atto di contemplazione; e 2 che oggettivamente sia l' ottimo , il quale ottimo è l' essere puro. Le notizie dunque delle cose inferiori non aggiungono, ma col loro miscuglio diminuiscono, secondo Aristotele, l' oggetto ottimo, che ogni cosa in sè contiene in un modo eminente; come le azioni diverse dall' atto contemplativo, se si mescolano a questo, ne deteriorano la natura. Poichè, come queste azioni, non avendo il fine in se stesse, non hanno valore che di mezzi conducenti alla contemplazione, ultimo fine di tutto ciò che esiste (1): così le notizie inferiori, riguardanti le cose limitate, non hanno altro pregio che quello di mezzo ad attuare la mente e far meglio conoscere l' ottimo intelligibile, che è bastante a se stesso, non ammettendo la felicità nulla d' imperfetto [...OMISSIS...] (2). Come dunque il mezzo è superfluo, quando c' è il fine; e le armature della fabbrica sono un ingombro quando la fabbrica è compiuta, e si rimovono; così la natura divina nella sua ultima perfezione, rimane scevra da ogni altra notizia, eccetto quella dell' ottimo, che, come si diceva, è l' essere puro, ossia di se stessa (3). Laonde quella mente che s' è fatta tutte le cose [...OMISSIS...] perisce, cioè periscono tutte le cognizioni tratte dalla natura per induzione (essendo ella stessa tutte queste cose [...OMISSIS...] ) (4) e senza di queste niente più intende [...OMISSIS...] (5), ma rimane la mente pura, eterna contemplatrice di se stessa, cioè dell' essere, principio e fine di tutto (1). Questa mente pura, che si dice una parte dell' anima umana, è di natura separata dal rimanente dell' anima (2), e viene dal di fuori (3); onde non pare che Aristotele conservasse all' anima dopo la morte dell' uomo la sua individualità, rimanendo solo la natura divina in essa inesistente (4). A questa risposta s' aggiunge, che, essendo la mente divina, e l' uomo, in quanto è mente, essendo Dio, come lo chiama Aristotele, questo Dio inesistente nell' uomo, anzi in tutti gli uomini, conosce necessariamente in questa sua forma umana anche tutto ciò che conoscono gli uomini, cioè le forme di tutte le cose, in quanto sono pure essenze, prive di materia, generi e specie. Onde, come Dio puro da ogni veste, non conosce che l' ottimo, ma come Dio nell' uomo conosce le essenze determinate, che sono e non sono (5), e però in qualche modo cessano col cessare del composto, rimanendo sempre in altri composti ed hanno una base eterna nell' essere puro ideale, in cui eminentemente si contengono, e che rimane immutabile oggetto della mente, non avendo l' essere contrarŒ di sorte, che fuori dell' essere non c' è nulla (6). Poichè sebbene Aristotele trovi necessario, che la natura divina esista anche allo stato di purità segregata da ogni materia, senza il qual ultimo atto non potrebbero essere gli altri atti, tuttavia egli fa che anche esista in istato di imperfezione, cioè legata colla materia, ossia colla potenzialità, e tendente di continuo a liberarsene, uscendo al suo atto purissimo: dove non s' intende più certamente che cosa pensar si debba, come osservammo, dell' individualità e della personalità di questa divina natura, salvo che chiaramente ammette una pluralità di dei, benchè altri abbiano tentato di difenderlo da un tale politeismo (1). Ma difficilmente, ammettendosi per legittimo il libro XI de' « Metafisici », si può dire che ivi non faccia che esporre l' altrui opinioni, quando egli pur dimostra la necessità, che ogni astro abbia una mente separata, ossia un Dio immoto intelligibile, appetendo il quale si mova colle sue sfere, nascendo indi la causa della generazione, senza di che questa rimarrebbe inesplicabile, salvo però che tutti cotesti Dei sono inferiori al supremo perchè appetiti da' singoli astri, quando il Dio sommo è l' appetito di tutta l' università delle cose (2). Aristotele dunque non solo vuole, che la natura divina «to agathon kai to ariston» esista nel Motore supremo, che paragona al duce: ma vuole che inesista ancora nell' universo e ne formi l' ordine e la connessione, [...OMISSIS...] , come d' un' armata. In quanto la detta natura è il duce, intanto è qualche cosa di separato e da sè, [...OMISSIS...] . Dice poi, che il ben essere dell' armata è nell' ordine, ma che il duce è più e meglio del suo ordine, [...OMISSIS...] , perchè il duce è il fine (1). Cerchiamo dunque di nuovo qual sia la relazione che pone Aristotele tra l' essere assoluto e separato, e gli altri enti composti di materia e di forma, e com' egli unisca il reale all' ideale; poichè sta qui tutta la spiegazione che dà Aristotele dell' esistenza e della natura del mondo, e della sua dipendenza dall' Essere supremo puro e separato. Stabilisce dunque, che l' essenza sostanziale non c' è se non in quegli enti che ammettono una definizione (2), e sono i composti di materia e di forma, di genere e di differenza, non potendosi definire la sola materia, chè non è un qualche cosa, nè la forma da sè, che è un semplice. Egli dice questo senza distinguere l' ente reale dall' ideale, il che prova che considera come identica e comune la forma ideale e la reale (3), salvo che quest' ultima è unita alla materia, e la prima n' è separata, esistente però nella mente, e non da sè. Dipoi dice, che il domandare: « « perchè questo sia qualche cosa » » [...OMISSIS...] , è sempre un domandare: « « perchè altro inesista in un altro » » [...OMISSIS...] (4). Così espone la ricerca della causa formale, che è la causa dell' essere delle cose, [...OMISSIS...] (5). Secondo lui dunque la materia è qualche cosa, perchè inesiste nella forma. Questa maniera di parlare ritorna spesso in Aristotele e sempre senza distinzione di ciò che è reale o ideale, di maniera che il genere, secondo lui, esiste nella specie, come pure la materia reale inesiste e sussiste nella specie (6). Ora la materia inesistendo nella specie riceve da questa insieme coll' esistenza l' unità , e un' unità essenziale, che determina la cosa ad essere quello che è, di maniera che le pietre e i mattoni, che sono gli elementi della casa, non sono più pietre e mattoni ma sono casa, quando hanno ricevuta questa specie o forma (1). Ma quest' unità e questa quiddità degli enti finiti è forse data loro dall' ultima specie cioè da Dio? Aristotele insegna espressamente di no, ma distinguendo la causa motrice dalla causa formale delle cose finite dice: 1 che ogni ente che vien generato o prodotto è generato o prodotto da un altro che ha già quella specie finita che comunica; 2 ma che l' ente generante o producente è mosso a generare e comunicare la propria forma dal Primo motore o piuttosto dai Primi motori (2). Così agli Dei attribuisce la causa del movimento come fine ultimo, ad assomigliarsi al quale tendono di continuo gli enti finiti, ma a questi stessi già vestiti di forma, ossia di atto, attribuisce la comunicazione della propria forma o specie a quelli che ancora non l' hanno e la possono da essi ricevere. Onde insegna costantemente che tutte le cose sono generate da altre aventi la stessa essenza specifica (3), sia che la cosa tutta intera abbia la stessa essenza, sia che l' identità d' essenza cominci da una parte della stessa (4). E quest' ente sinonimo che, avendo la specie, ne produce un altro colla stessa specie, può essere tanto nella mente, come accade nelle produzioni dell' arti, quanto nella natura, come accade nelle produzioni naturali (1). E qui c' è una prova decisiva di quello che dicevamo, che Aristotele fa la specie nella mente identica di natura alla specie che informa le cose reali, perchè dice le opere dell' arte formate dalla specie nella mente dell' artista allo stesso modo come le opere della natura dalla specie che è nel loro generante. Ed essendo identica questa specie, fa che come da questa nella natura vengono le cose generate, e nella mente le cose prodotte dall' artista, così da questa pure nella mente vengano i ragionamenti (2). Dalla stessa specie vengono queste tre cose; la teoria è comune, la specie la stessa: altrimenti il ragionamento aristotelico sarebbe un gioco di parole. La specie dunque contiene in sè i singoli enti, ed è la ragione del loro essere ossia sussistere e della loro unità (3), di maniera che niun ente della natura può esser generato e prodotto se non preesista la sua materia e la sua forma [...OMISSIS...] (4): gli elementi inesistenti appartengono alla materia, la specie poi non è un elemento, ma un principio, una causa dell' ente (5). Non è dunque il primo motore che dà la forma e l' unità alle singole cose, ma è la specie loro preesistente, [...OMISSIS...] . Come dunque dice che «to agathon kai ariston» oltre avere un' esistenza separata, è ancora la connessione [...OMISSIS...] del mondo? Conviene che il bene e l' ottimo, in quant' è connessione del mondo, sia qualche cosa che leghi e contenga tutte le singole forme, che sono diverse da esso: e a queste condizioni la detta connessione non può esser fatta che dall' essere puro, che non essendo le forme, contiene tuttavia tutte le forme. E infatti come la materia è nella specie (1), così le specie sono contenute nel genere, che costituisce l' unità e identità delle cose che differiscono d' essenza ossia di specie (2); i generi poi sono contenuti nell' essere, che si dice anche, insieme coll' uno, primo genere; poichè ogni differenza tra le cose deve fondarsi in una identità (1), e quest' è l' essere a tutte comune, e che tutte contiene. Se dunque le specie degli enti naturali sono eternamente in questi, e quelli che le hanno in atto perpetuamente colla generazione e produzione le suscitano in altri che non le hanno; e se non sono perciò, nè provengono dal primo Motore che è il Buono e l' Ottimo, il quale solamente cagiona il moto per l' efficienza del naturale appetito; e se tuttavia questo Buono e Ottimo costituisce la connessione di tutti gli enti naturali [...OMISSIS...] distribuiti come un' armata: che altro rimane a dire, se non che questo Buono e Ottimo sia l' essere puro , secondo il quale s' identificano tutte le cose, ed è il principio identico delle loro differenze (2)? In questo senso dunque il Dio d' Aristotele contiene le cose tutte, e però le colloca al di là dell' ultimo cielo, quasi una sostanza che fascia il mondo (3). E certamente niuna figura più adattata d' una sfera a indicare un contenente, che non si mescola punto colle cose contenute, poichè ciò che è nella sfera, non è la sfera, nè prodotto necessariamente dalla sfera, ma è soltanto contenuto in essa, e da essa, per così dire, informato dell' unità. Così dice l' essere «periechein ta onta panta» (4). E per questo appunto Aristotele fa una scienza unica e prima di tutti gli enti, trattando questa di un solo oggetto cioè dell' essere come essere (5), e la dice scienza universale, [...OMISSIS...] (6). E se l' essere produce la connessione dell' universo, sì perchè, in quant' è comune, è tutte le cose, e sì perchè, in quanto sussiste separato e da sè, costituisce l' appetibile a cui tutte le cose tendono: egli è manifesto che questo divino, questo Bene, si considera da Aristotele come scevro da ogni specie finita , e nel primo modo separato di concetto, [...OMISSIS...] , nel secondo separato anche di fatto, [...OMISSIS...] , da ogni materia. Infatti in questo secondo aspetto Aristotele non dà a Dio altro, che il concetto di fine , di estremo, di termine a cui tendono tutte le entità finite più o meno, senza raggiungerlo pienamente giammai (1). Ora il concetto di fine non inchiude la cosa che tende al fine, e questa cosa tendente al fine è la forma nella materia, o sia l' ente composto di materia e di forma. Onde siccome Aristotele dichiarò che Iddio come fine ultimo, a cui ogni natura finita tende, contiene tutto lo spazio che costituisce il Mondo, quasi d' intorno fasciandolo, così pure dichiarò che come fine ultimo contiene tutto il tempo, maggiore del tempo, ossia eterno (2). Poichè il tempo, o piuttosto la vita, tende, da parte sua, a perpetuarsi, e non ama cessare giammai: ma non potendo raggiungere l' eternità la imita come può mediante il continuo circolo delle generazioni (3). E infatti non si potrebbe spiegare l' indefinita lunghezza [...OMISSIS...] se non si suppone sottostare una durata eterna, e il concetto stesso di successione perisce senza quello di durata (4). Per questo dice Aristotele che l' essere e il vivere degli enti naturali pende da tali cose eterne (5). Allo stesso modo quello che può essere e non essere pende da ciò che necessariamente è (6), poichè ogni cosa tendendo a durare e ad accrescersi, aspira a rimovere la possibilità della sua distruzione, benchè mai non ci arrivi. L' essere separato dunque, il Dio d' Aristotele, non ha in sè le specie finite, ripugnanti alla sua perfezione, è del tutto uniforme, puro, semplicissimo; e perciò, il che conferma la nostra interpretazione, non eccita che un solo movimento uniforme e continuo, quello del primo cielo, e anche questo non l' eccita operando, ma l' azione sta tutta nelle nature finite, cioè nell' appetito del cielo supremo. Ma questo movimento (associato però al movimento obliquo e vario degli astri) produce diversi effetti per la diversità degli enti, e dell' appetito vario di questi. Onde nel libro « De Mundo », che espone la dottrina di Aristotele, si dice che da Dio vengono tutte le idee o forme delle cose [...OMISSIS...] in conseguenza del semplice movimento del corpo a lui più vicino, cioè del primo cielo (7). [...OMISSIS...] (1). Egli è dunque manifesto, che il Dio d' Aristotele differisce da quello di Platone in questo, che il platonico ha tutte le idee delle cose, e ha la potenza d' operare fuori di sè, creando ad esse, come ad un esemplare, e disponendo il mondo: laddove l' Aristotelico privo di questa potenza non produce il mondo alla guisa d' un artefice, e le specie stesse delle cose non sono in Dio, ma nè tampoco la causa efficiente o la forza, [...OMISSIS...] (1): quando le specie o forme delle cose mondiali sono e sono sempre state ab eterno nelle cose stesse: e il Dio Aristotelico non è che l' ottimo intelligibile, appetito da tutta la natura, che tende ad avvicinarsi alla sua attualità perfetta, appetito in primo luogo e in un modo immediato dal primo cielo, che rivolgendosi eternamente con un moto circolare ed uniforme impelle i corpi contigui, e di contiguo in contiguo il moto si propaga all' universo, ma ogni cosa lo riceve secondo la propria natura (2). Onde 1 c' è il primo appetibile, o causa finale, Iddio; 2 c' è la natura, materia e forma, sospesa al primo appetibile in virtù del proprio appetito; 3 c' è insita in questa natura, distinta in più enti tutti composti di materia e di forma, la forza [...OMISSIS...] , causa efficiente di tutte le trasmutazioni che è lo stesso appetito, il quale ora è annesso alla forma, come nelle produzioni per via di seme e nelle produzioni artistiche, ora è annesso alla materia come nelle produzioni «ex automatu» (1); 4 c' è il primo eccitamento di questa forza, che è il movimento del cielo supremo, dal quale cominciano tutte le altre quattro maniere di moti e di trasformazioni naturali, eccitamento e impulso che è ricevuto da ciascuno degli enti, secondo l' indole della sua natura e virtù [...OMISSIS...] , e che dà così a ciascuno la sua propria e conveniente facilità di moversi, [...OMISSIS...] . Ora, se il Dio aristotelico non ha in sè le forme finite degli enti naturali, e a queste non le comunica, ma esse già sono ab aeterno negli enti della natura e si trasmutano, ricevuto l' impulso e il moto da' cieli, e se tuttavia il Dio aristotelico è mente, è intelligibile primo, facilmente si raccoglie che cosa sia questo Dio. Poichè Aristotele stesso continuamente insegna che, rimosse le specie, quello che rimane non è altro che l' ente e l' uno che è l' indivisibile carattere dell' ente [...OMISSIS...] (2). E però Aristotele non riprende Platone per aver detto che l' ente e l' uno sia causa delle essenze e dell' essere di tutte le cose, ma per non avere spiegato come questa causazione si facesse, cioè per non aver conosciuto, com' egli crede, che l' ente e l' uno influiva come fine appetito da tutte le cose, in grazia del quale sono e operano (3). La forma dunque, che è il divino e il primo dei tre principŒ aristotelici, è una se si dice in un modo universale e per analogia, ma è moltiplice secondo gli enti diversi. Ora ogni forma è essere, [...OMISSIS...] ma la materia sola non è essere, chè riceve l' essere dalla forma. L' essere adunque è quello che costituisce la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo (4). L' essere è la forma delle forme. Ma l' essere (lo stesso dicasi dell' uno in quanto si converte coll' ente) si può considerare in tre modi: 1 In universale, come primo genere (5), e allora è indeterminato, e non essendo egli stesso finito e ultimato, non ha virtù di esistere separato e da sè, ma solo separato di concetto nella mente, e però non è propriamente essenza: così preso, è anzi la materia universale; 2 Come una natura esistente in tutte le cose singolari, singolare in ciascuna, benchè non sia niuna di esse (1); 3 Finalmente come la prima sostanza, a cui convenga la denominazione di «cinai ti» senza uscire da se stesso, poichè il «ti» che lo determina lo prende in se stesso, cioè è la purissima attualità (2). E veramente per Aristotele ciò a cui conviene, prima che ad ogni altra cosa, la parola di essere e d' ente è l' essenza sostanziale, chiamata da lui «proton on» (3) e per l' essenza sostanziale tutti gli accidenti partecipano dell' essere: essa dunque è propriamente l' essere determinato, com' anco l' uno stesso (4). Se poi si fa che l' essenza sostanziale sia l' atto purissimo, scevro da ogni potenzialità e limitazione, ella è Dio; e in questo senso si può dire che l' essere per Aristotele sia Dio. Posciachè dunque l' essenza o l' essere determinato (5) è ad un tempo e in primo luogo la prima sostanza separata, e così costituisce il punto a cui l' universo è sospeso, ed esso è ancora sparso nell' universo e diviso nelle essenze sostanziali finite, che partecipano della prima, formando nell' uno e nell' altro modo l' unità e la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo: perciò Aristotele ad una scienza sola commise di trattare dell' essere come essere, chiamandola ora teologia, ed ora filosofia prima. Poichè dice: 1 Che la filosofia tratta dell' ente come ente in universale, [...OMISSIS...] , e che l' ente non potrebbe essere oggetto d' una sola scienza, se l' ente si prendesse sotto diversi significati, formante più generi e non secondo qualche cosa di comune [...OMISSIS...] (1). 2 Che negli essenti c' è un principio, [...OMISSIS...] , intorno al quale non si può prendere abbaglio, ed è quello di contraddizione che si riduce all' ente (2). 3 Che ogni scienza ha per oggetto la quiddità , [...OMISSIS...] , e che usa di questo come principio della scienza [...OMISSIS...] (3), di che procede che la scienza dell' ente come ente ha per suo proprio oggetto la quiddità dell' ente. 4 Che le altre scienze trattano della quiddità in un genere parziale di entità (4), e trattano dell' ente unito alla sua materia, come il fisico, o dell' ente astratto da quel genere di materia (5): ma la filosofia tratta della quiddità dell' ente in sè non ristretto ad alcun genere parziale, e dell' ente non astratto, ma separabile realmente, e non di solo concetto, da ogni materia. 5 Quest' ente separato è dunque oggetto della stessa scienza che tratta dell' ente in universale, dell' ente come ente, [...OMISSIS...] . E tuttavia questa scienza che tratta del più onorabile degli enti, cioè di Dio, trattando dell' essere come essere, è universale. [...OMISSIS...] E` dunque manifesto che l' essere come essere ha un' esistenza separata da ogni altra cosa, [...OMISSIS...] e non solo di concetto, come gli oggetti matematici, ma di fatto; questo è Dio: è sostanza singolare, [...OMISSIS...] ; e l' onorabilissimo tra gli enti, [...OMISSIS...] , e però la prima o l' ultima delle scienze si chiama «theologike». Ma l' essere come essere, e però «to theion», inesiste anche in tutti gli enti della natura «en tois usin» come loro essenza e causa formale, o specie; epperò tutte le specie e le categorie, a cui come in classi si riducono, formano un solo genere supremo, e però un oggetto solo d' una sola scienza, [...OMISSIS...] : e questa scienza perciò, trattando di ciò che è universalissimo, è veramente universale, [...OMISSIS...] , perchè non solo tratta dell' essere in sè, ma ancora di ciò che si contiene nell' essere, [...OMISSIS...] (2), cioè di tutto ciò che è. Ma non esisterebbe questa scienza, se le essenze o specie delle cose non si potessero riferire all' essere come essere separato e per sè sussistente, che essendo uno costituisce il fondo di tutte, poichè non potendo le specie degli enti mondiali sussistere separate, rimarrebbero molti divisi in molti generi, e da sè non esisterebbero che gli enti naturali composti di materia e di forma, oggetto della fisica, [...OMISSIS...] . All' incontro esistendo l' ente come ente, come un' altra natura diversa, e questa sostanza separata dagli enti composti di materia e di forma, ci deve essere pure una scienza diversa dalla fisica, e questa deve essere anteriore alla fisica, e anteriormente universale, [...OMISSIS...] . Anteriore e più universale, perchè il principio è la causa di tutti gli enti naturali, chè essendo principio non può esser principio di se stesso ma di questi, [...OMISSIS...] . Poichè dell' essere si predicano due cose l' avere e il sussistere, [...OMISSIS...] : sussiste anche in sè, ma non si direbbe avere sè, ma avere qualche altra cosa, e quest' è la materia. Cercandosi dunque la causa perchè esista la materia, trovasi che questa causa è la specie o essenza specifica (1). Ora di questa essenza specifica, essendo semplice, non si può più cercare la causa allo stesso modo, cioè come si cerca la causa della materia, ma in altro (2). In qual modo? Certamente riferendo le essenze specifiche alla prima essenza, a cui tutta la materia tende per l' innato appetito e ne prende quella parte che può, e questa parte è il suo atto, la sua essenza specifica. Laonde quando si domanda « la causa dell' essere delle cose finite », l' essere qui è preso per sussistere , e il sussistere delle cose è in ciascuna di esse e non separabile. Ora questo sussistere delle cose sta nell' unione della materia colla forma, ma, poichè questa è quella che determina la cosa, è pur questa che la fa sussistere quella che è, e perciò, dice Aristotele, la forma o essenza è la causa dell' essere, cioè del sussistere delle cose (3), ed è principio non elemento di esse (4). Ma se si domanda poi « la causa per la quale la forma si sia unita alla materia », conviene ricorrere, come dicevamo, alla prima forma o essenza, cioè all' essere, come essere e separato, il quale come appetito dalla natura è causa motrice e finale. [...OMISSIS...] Il primo Motore dunque coll' essere appetito trae la materia al suo atto, cioè alla forma; e questa forma è puro essere separata dalla materia, onde dice [...OMISSIS...] (2). E prima avea detto: [...OMISSIS...] , cioè dagli elementi materiali. Poichè gli elementi materiali prima di essere uniti dalla specie o essenza specifica non hanno nome, nè sono qualche cosa [...OMISSIS...] : ma quando sono contenuti dalla specie, quest' uno che ne risulta riceve il nome della specie, per esempio casa , e così la specie casa è divenuta questa casa reale [...OMISSIS...] (5): non è che essa stessa sia stata con ciò generata, ma essa è stata causa per la quale gli elementi materiali divennero un chè determinato ricevente un nome, il nome della stessa specie: ond' essa è divenuta un altro, cioè la casa reale, composta. Laonde tosto appresso Aristotele si fa la questione « se dunque le essenze specifiche de' composti corruttibili preesistevano ad essi separate », e ancora nol decide; ma esclude dall' esistere, così separate e da sè, le specie artistiche, dicendo che fors' anco esse non sono essenze specifiche, nè alcun' altra cosa è essenza specifica, di quelle che non sussistono ne' composti naturali: chè taluno, dice, porrà la solesto si raccoglie come Aristotele faccia derivare le essenze specifiche limitate , cioè le essenze dei corruttibili, dall' Essere attualissimo, Iddio. 1 Esse non esistono che in natura, sono la stessa natura determinata delle cose corruttibili, [...OMISSIS...] , e perciò non esistono nell' Essere attualissimo se non in un modo eminente; 2 La natura è materia e forma, queste due cose costituiscono il medesimo ente, [...OMISSIS...] . 3 Ma la materia non potrebbe avere la forma se non tendesse ad attuarsi, cioè ad acquistare più che può di quell' attualità che nella sua massima e pienissima perfezione è appunto l' essere attualissimo: tende dunque a quest' essere, ma non può raggiungerlo pel difetto della materia: quest' essere dunque come causa dell' appetito di tutte le materie è la causa movente, che fa passare la materia alla forma, [...OMISSIS...] . Il difetto poi, ossia la limitazione de' diversi generi di materia, è la causa per la quale la essenza o forma , a cui ciascuna materia perviene, o sia limitata, più o meno avanzata, più o meno onorabile, e tenga più o meno dell' essere attualissimo senza raggiungerlo mai (1). Non essendovi dunque nell' essere attualissimo materia alcuna, non ci può essere questa causa di limitazione, e però non ci possono essere le forme o essenze specifiche così limitate, quali sono nella natura; ma egli è una sola essenza, l' essenza per sè, illimitata. 4 Essendoci poi stato ab aeterno quest' appetito nella natura, pure ab aeterno furono in essa tutte le forme o essenze delle cose corruttibili. Queste dunque non si generano, ma sono eterne tanto nell' essere attualissimo, prima e perfetta essenza, dove sono indistinte e in modo eminente, quanto negli enti naturali dove sono distinte. Ma gli enti naturali si generano, e quindi le essenze compariscono nei nuovi generati e diventano «tode»; diventano questi enti, che sono qualche cosa e hanno un nome appunto perchè hanno quelle specie. Così dalla tendenza della natura all' essere attualissimo Aristotele deriva ugualmente: 1 Le forme naturali e reali; 2 Le forme artistiche e ideali, delle quali parla in un modo vacillante, prendendole talora per vere specie operanti (1) talora poi negando che sieno essenze specifiche; 3 I principŒ del ragionamento e la serie delle conseguenze (entità ideali) che deriva da essi la mente (operazioni dialettiche) (2); e considerando queste tre maniere di cose sotto lo stesso aspetto, come derivate cioè dall' essere attualissimo mediante l' appetito naturale, egli mescola il discorso dell' una col discorso dell' altra, e cava indifferentemente gli esempŒ della sua teoria ora dall' ordine della generazione naturale, ora da quello delle produzioni artistiche, ora dalle logiche distinzioni ed astrazioni: il che cagiona una gran confusione e difficoltà di seguire il filosofo nostro, almen fino a tanto che non s' è conosciuto il suo principio e la sua maniera dialettica di riporre in una stessa classe le entità più disparate. Negando dunque a Platone che le essenze delle cose corruttibili sieno idee separate da queste, perchè pretende che in tal caso si raddoppierebbero inutilmente le essenze (3), e sostenendo che tali essenze sono soltanto nelle cose unite colla materia, e identiche nella mente separate da questa; egli tiene un medesimo discorso e fa una sola teoria delle essenze specifiche naturali, delle essenze artistiche, delle logiche, delle astratte di ogni maniera: tutte nascendo alla materia naturale, come atti di questa per la tendenza ch' ella ha ed ha sempre avuto di spingersi all' essere attualissimo, fine ultimo d' ogni movimento. Onde in generale l' atto, o specie de' corruttibili, per Aristotele è ciò che si predica d' una materia (1) e il predicato non esiste senza il subietto. Per vedere quante diversità di forme egli distingua ugualmente nell' ordine delle cose reali e delle ideali senza distinzione e tutte sommettendole alla stessa teoria, basta leggere il capitolo secondo nell' ottavo libro dei « Metafisici ». Nel capitolo seguente dice, che talora non si può distinguere se la parola ousia significa il composto di materia e di forma, o la sola forma, il solo atto. E arreca in esempŒ di composti la casa, la linea, l' animale, la sillaba, la soglia della porta; dove tanto la forma quanto la materia sono reali o ideali, o astratti e puramente dialettici, mescolando tutto insieme. La stessa confusione dunque nell' essere attualissimo, il quale ora comparisce come ideale, da cui la mente umana trae i suoi principŒ logici, e mediante questi tutte le sue idee; ora come reale, da cui l' artista ne trae le sue specie, la natura le sue forme. Apparisce però costantemente che le specie sono contenenti, e la materia è contenuta, onde il cercare la causa d' un ente composto di materia e di forma, cioè cercare la causa del suo essere (reale), è lo stesso che cercare ciò in cui è contenuta la sua materia: onde in questa ricerca ciò di cui si cerca la causa deve avere meno estensione di concetto della causa formale che si cerca, per esempio: « « la causa, perchè esiste un uomo, è una data specie d' animale »(2) », cercare perchè un uomo è un uomo, è cercar nulla, non cercandosi con ciò in che l' uomo sia contenuto. Di che viene che l' essere universalissimo (e lo stesso si dica dell' uno) contenga tutte le cose e sia la causa formale di tutte le forme, ma niuna di esse. Laonde dice Aristotele, che l' assegnare l' uno per causa formale dell' essere reale delle cose è vero, ma l' uno comune, non proprio delle singole specie e generi (1). L' essere attualissimo adunque è ideale e reale ad un tempo, di maniera che la cosa e la scienza è in esso il medesimo, entrambi in atto, [...OMISSIS...] (2). E già vedemmo come Aristotele anche nella mente pratica pose il reale che la rende operativa (3). Ma l' essere attualissimo non è mente pratica, ma solo mente teoretica, il che unisce ancor più, anzi identifica il pensato col pensante (4), la cosa coll' idea. Onde quest' è una delle principali censure che Aristotele fa a quelli che posero le idee come essenze eterne, che condussero la loro ricerca piuttosto logicamente che ontologicamente, e quindi si fermarono agli universali (5). L' essere dunque attualissimo, e però separato e da sè, è per Aristotele mente contemplatrice, contemplatrice di sè stessa, e di null' altro, cioè dell' essere, e così presa, e separata da ogni altra cosa, è quello che è: « « separata, dice, è solo ciò che è » » [...OMISSIS...] A quest' essere, puro atto, atto che sta nel puro contemplare l' essere senza differenze, tende incessantemente la natura potenziale, ossia la materia. Questa è atta ad arrivare col suo conato a gradi diversi: il primo è quello delle specie degli enti inanimati ; il secondo è quello delle specie di vegetabili , il cui complesso, e il cui nesso è la vita o anima vegetativa; il terzo è quello delle specie sensibili , il cui complesso e il cui nesso è la vita o anima sensitiva che costituisce l' animale; il quarto grado è quello delle specie intellettive , il cui complesso e il cui nesso è l' anima intellettiva. Ogni ente mondiale è costituito da una sola specie sostanziale che gli dà l' essere (1), e perciò non può esistere separata, determinandosi dalla materia o potenza che col suo appetito verso l' essere prende più o meno dell' atto, e così è piuttosto una specie che un' altra (2), [...OMISSIS...] . Aristotele dunque pone una vera identità tra la specie nella cosa e la specie nella mente, salvochè questa è considerata separatamente dalla materia. Quest' istinto della materia è non di meno cieco, poichè, sebbene tenda, come a suo fine, all' essenza suprema ed assoluta, tuttavia tende ad essa come all' atto , non come all' intelligibile . E però non ci sembra che abbia colto il vero sentimento del nostro filosofo lo Starckio quando suppose che in tutta la natura inesistesse la mente fattrice (4), o piuttosto, come la chiama Aristotele, il pensiero fattore, [...OMISSIS...] (1), e che questa mente sia quella che dà a tutte le cose della natura le loro forme. Che anzi, come abbiamo notato già prima, falsamente lo Starckio suppone che tutte queste forme sieno già precedentemente in Dio, quando è la sola potestà della materia che le determina, raggiungendo più o meno dell' essere. Poichè tutte sono essere [...OMISSIS...] , ma più e meno, secondo che l' atto loro è più avanzato ed ultimato, perchè aver più atto è, per Aristotele, aver più essere. E più atto conseguono dei vegetali gli animali e gl' intellettivi degli animali. Ma convien distinguere diverse maniere di atti. Concepita la materia prima senz' atto (per un' astrazione della mente, non perchè ella sia mai così esistita), essa tende all' atto, al suo più prossimo atto, che per Aristotele, come pure pe' suoi predecessori, è quello degli elementi materiali, per esempio del fuoco: le materie prime sono diverse, e quindi la diversità de' primi elementi. Ora questi sono in potenza alla composizione: componendosi in varie maniere diventano altri enti, che acquistano l' unità da un nuovo atto sostanziale, specie od essenza specifica: e gli elementi hanno ragione di materia. Questo stesso si rinnova co' nuovi enti, che pure, ogni qualvolta si rendono elementi d' altri enti, ricevono il concetto di materia (1), quantunque sieno atto rispetto agli elementi precedenti, o alla materia prima. Ora il movimento di qualunque specie, ma specialmente quello della materia che passa all' acquisto della sua forma, è una prima maniera di atto detto da Aristotele « atto dell' imperfetto » [...OMISSIS...] (2). Quando poi la materia è pervenuta all' acquisto della sua forma sostanziale, cessa il movimento, e questa forma sostanziale non più movimento, ma riposo, è una seconda maniera di atto: atto perfetto «he haplos energeia», ed è chiamato da Aristotele «entelecheia» (3) che vale perfezione (da «enteleches») e si potrebbe tradurre specie finiente o finita , rispondente al «to peras,» e al «to peperasmenon» di Platone e de' Pitagorici. Ma quando l' ente è costituito ed esistente per l' essenza o entelechía che lo fa esistere, ancora egli può uscire ad altri atti, senza perdere la sua costituzione e la sua identità. E questi sono un secondo genere d' atti perfetti, ossia d' atti del perfetto [...OMISSIS...] (4), e anche questi si chiamano «entelecheia» da Aristotele. Aristotele assegna espressamente questi due sensi alla parola entelechía , di maniera che fa maraviglia, come gli eruditi abbiano trovata tanta difficoltà ad assegnare il preciso valore di questa parola, e si sieno divisi in tante diverse opinioni (5). [...OMISSIS...] Di che si vede che Aristotele distingue l' entelechía prima, [...OMISSIS...] dall' entelechía seconda, cioè l' atto primo dell' ente ch' è l' essenza , e l' atto secondo che è la sua operazione. E chiama l' essenza specifica e sostanziale entelechía prima, perchè l' essenza è il fine (2) a cui tende la materia che acquista un' esistenza determinata, diventa un ente. Chiama poi entelechía seconda l' atto secondo o l' operazione dell' ente. Apparisce dunque che la parola entelechía abbraccia ogni atto fuorchè l' atto dell' imperfetto, e però la parola «energeia,» che s' applica a tutti gli atti anche a quello dell' imperfetto, ha un significato più esteso della parola «entelecheia». Nello stesso tempo la parola «energeia» esprimendo puramente l' atto, qualunque sia, senz' altro concetto aggiunto, s' adatta meglio al Primo motore della parola «entelecheia» che ha unito il concetto di quell' essenza che è il fine a cui tende ciò che è in potenza (3), [...OMISSIS...] (4). La natura dunque tende sempre più all' atto, e giunge più avanti, secondo i diversi generi di materia, e così acquista atti diversi, e ciò ab aeterno, perchè tutti gli atti specifici degli enti naturali sono eterni, e gli esistenti ne producono altri ed altri per generazione o per arte. Ma la pura mente non è cosa che si formi passando dalla potenza all' atto, perchè la sua natura è di essere atto puro, e però Aristotele la fa venire all' uomo dal di fuori, benchè non ne spieghi il modo. Poichè sebbene ammetta un Primo motore unico, tuttavia, come vedemmo, lo descrive come atto puro di contemplazione; e questo concetto non esclude l' esistenza di altri atti puri di contemplazione. Secondo che intese questa dottrina d' Aristotele l' arabo commentatore, ci sarebbe una mente sola di numero (1), comune a tutti gli uomini: il che avrebbe un significato, quando s' intendesse della mente in senso oggettivo, ma in senso subiettivo è impossibile. Laonde parmi probabile che Aristotele ammettesse appunto una mente sola di numero in senso obiettivo, e che questa fosse la primissima essenza presente a tutte le intelligenze; ma che ponesse poi molti questi subietti intelligenti, quanti sono gli Dei aristotelici e gli uomini, che ricevono e usano della mente, e che di questi subietti intellettivi si debbano intendere tutti quei luoghi aristotelici, ne' quali non parla della mente come prima ed assoluta essenza, ma come mente subiettiva. E nel vero il nostro filosofo chiama la mente in senso assoluto ed obiettivo essenza eterna ed immobile, e dice che è tale quand' è separata da ogni materia (2). Dice ancora che « « il bene si dice in tanti modi, in quanti l' ente » » e l' ente si dice in tutti i modi categorici, e così il bene. Onde venendo alla prima categoria, quella della sostanza, dice che il bene sostanza « « è la Mente e Dio » », [...OMISSIS...] (3), dove prende la Mente e Dio come sinonimi, indicanti ugualmente il bene sostanza: e, facendo che l' ente e il bene abbiano uguali predicati, è manifesto, che ne fa la cosa medesima, onde il bene è l' ente come appetibile, e questo in quant' è sostanza è Dio, e la Mente. L' essere dunque non già indeterminato, sotto il qual aspetto sarebbe materia (4), ma come sostanza prima è la Mente, o Dio. Questa certamente non ha soltanto un' esistenza obiettiva, ma verso di sè anche subiettiva: altramente non sarebbe «noesis,» e vivente «he gar nu energeia, zoe» (5). Pure verso di noi ella non ha che un' esistenza obiettiva; perchè è causa prima motrice e finale solo come intelligibile e bene desiderato (6), senz' alcuna sua operazione (7). Onde Averroes s' ingannò in questo che non distinse il rispetto obiettivo dal subiettivo della mente aristotelica, quello essendo comune a tutti gli uomini, questo diverso in Dio e diverso in ciascun uomo. E l' obiettività della mente fu anche cagione a Platone delle sue idee, di cui Aristotele ritenne il principio modificandolo. Ma ora dobbiamo vedere come in ciascun uomo nasca la mente subiettiva. Aristotele concepisce lo spirito umano secondo il principio di Platone (1), come un ente che riflette in sè il mondo, che ha però una perfetta correlazione col mondo stesso, cioè coi diversi generi di cose che lo compongono. Ma nell' assegnare questi generi di cose, nè l' uno nè l' altro filosofo si curò di distinguere in tali generi con diligenza quella parte che è produzione dello spirito stesso, a ragion d' esempio, i sensibili come sensibili, da quella che ha un' esistenza propria, indipendente dallo spirito umano. Distinse dunque Aristotele nello spirito umano la virtù sensitiva che risponde al genere de' sensibili, dalla virtù dotata di ragione che risponde al genere degl' intelligibili; che sono i due sommi generi in cui ripartì tutte le cose. Ora in questa virtù dell' anima, di cui è propria la ragione, distinse quella facoltà, che può errare, in due: estimazione ed opinione [...OMISSIS...] (2); e quella facoltà, che non può errare, in cinque: arte, scienza, prudenza, sapienza e mente, [...OMISSIS...] . Ma i quattro primi di questi abiti fanno uso della dimostrazione , e questa suppone avanti di sè de' principŒ : quegli abiti dunque non dànno i principŒ, perchè anzi li suppongono e partono da essi dimostrando: rimane dunque che la mente sia quella sola che contiene i principŒ (3). La mente dunque in senso subiettivo ha per oggetti i principŒ, non in forma di giudizŒ o di proposizioni, ma come vedemmo, nei primi loro termini che non ammettono definizione (1). Ora come dall' uomo si conoscono i principŒ, cioè i primi termini? Risponde: coll' induzione , [...OMISSIS...] . Ma vediamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque fa l' induzione aristotelica, che conduce lo spirito umano ai primi termini che sono l' essere, l' uno, il bene, tutti lo stesso sotto altri aspetti, [...OMISSIS...] ? Essa è una facoltà che ha l' anima umana di raccogliere le specie sparse nella natura (per mezzo de' sensibili, nel modo che abbiamo spiegato), le quali separate da ogni materia anche sensibile sono tutte per sè ente [...OMISSIS...] ; una facoltà di trovare in queste stesse specie ciò che v' è di più universale, i generi fino all' universalissimo, al genere sommo, all' ente: indi il principio della scienza [...OMISSIS...] , il quale è «peri to on» (3) onde conchiude [...OMISSIS...] (4). Se dunque la mente è de' primi , e questi sono conosciuti dall' uomo coll' induzione , è dunque da dire che la mente subiettiva sia nell' uomo non ingenita, ma acquisita, innalzandosi lo spirito umano coll' uso dell' induzione sino alla mente eterna ed obbiettiva? Ed è da intendersi così che la mente vien all' uomo dal di fuori? Di maniera che anche nell' uomo da principio non ci sia inserito dalla natura se non quella «dynamin kritiken» (5), che Aristotele dà a tutti gli animali, sebbene varia ne' diversi animali, e nell' uomo più eccellente che in tutti gli altri? - Confesso che se ne può dubitare ed io stesso sono stato su di ciò lungamente dubbioso; ma mi sono in fine risoluto a credere che Aristotele, non descrivendo nel secondo degli « Analitici posteriori » se non l' origine del principio della scienza, parla quivi della cognizione riflessa dei primi e non nega perciò l' intuizione immediata del primissimo; e di questa mia opinione il lettore ha già udite le ragioni. Piuttosto è da dirsi che Aristotele ammetta due specie d' induzione: l' una è quella che riguarda una collezione d' individui di cui dice «he gar epagoge dia panton» (1) e questa non dà nulla di assolutamente necessario e di universale, poichè è impossibile fare esperimento di tutti gl' individui possibili; l' altra è quella, che apprende l' universale, l' essenza necessaria. In fatti questa coglie «to kat' eidos adiaphoron» (2). Ora come potrebbe l' uomo sapere ciò che sia nelle cose indifferente secondo la specie , se non conoscesse immediatamente la specie? la quale per sè presa, cioè scevra di materia, è assolutamente universale, chiamata dallo stesso Aristotele «proton en te psyche katholu» (3). Oltre di che è costante principio d' Aristotele che l' atto sia anteriore alla potenza (4), onde lo spirito umano non potrebbe passare all' atto della scienza che appartiene all' ordine della riflessione, se non fosse già prima in un atto intellettivo, non avesse in sè attualmente un intelligibile. Poichè è per propria virtù che lo spirito s' innalza alla mente obbiettiva, giacchè l' Eterno motore, che è questa mente, nulla opera, ma solo si lascia vedere. Conviene dunque che ci sia in atto l' energia che lo veda, poichè la potenza non passa mai all' atto da se stessa, e al di fuori non ha stimolo sufficiente, chè le sensazioni sono intelligibili in potenza e non in atto. Onde Aristotele stesso pone questo principio assoluto, che la ragione deve preesistere, [...OMISSIS...] (5). Se non ci fosse dunque nell' uomo per natura una cognizione prima attuale, non potrebbe raccogliere dalle sensazioni le forme delle cose e da queste universalizzando pervenire ai primi, universalissimi. Ma quello che toglie ogni dubbio è l' avere lo stesso Aristotele applicato questo principio ontologico della necessità d' un atto anteriore allo spirito umano, e aver insegnato, che come in tutta la natura conveniva che precedesse l' atto, così del pari non potersi spiegare come lo spirito umano potesse ridurre in atto gl' intelligibili in potenza, cioè le specie sparse nella natura, s' egli stesso non avesse una mente in atto, e poichè la mente è de' primi, non avesse in atto il primo intelligibile (1). E in fatti l' uomo produce a sè l' intelligibile col toccare e coll' intendere, [...OMISSIS...] (2): ora come farà l' atto d' intendere senza alcun intelligibile? Di più, tutti gl' intelligibili sono nel primo, cioè nell' ente: come dunque potrebbe conoscere gl' intelligibili se non conosce l' ente che li contiene? Per questo dice, che il principio deve essere una intellezione [...OMISSIS...] (3). Senza l' intellezione non ci potrebbero essere che intelligibili in potenza. Se dunque non ci fosse nell' uomo un' intellezione in atto, mancherebbe il principio, e l' uomo non potrebbe toccare gl' intelligibili in potenza e così ridurli all' atto. Ma come può esserci la mente in atto? Dice Aristotele, che conviene che l' intelligibile in atto dia movimento alla mente [...OMISSIS...] (4). Niuna delle cose della natura intelligibile in atto: ma le cose naturali, cioè le loro forme, sono rese intelligibili in atto dall' uomo stesso. L' uomo dunque non può essere mosso all' atto primo del suo intendere da queste cose. Da che dunque? Da ciò che è intelligibile in atto, cioè dagli eterni motori: a questi appartengono i primi [...OMISSIS...] . Questi dunque, che si trovano per induzione, non sono dati allo spirito umano dall' induzione che parte da' sensibili, ma immediatamente dall' Essere e Mente assoluta: essi sono i più noti per natura, rispetto poi a noi sono resi più noti dall' induzione (5): sono quelli che, nello stesso tempo, rendono possibile l' induzione stessa. Aristotele inoltre pone nell' uomo la mente come un' essenza eterna separata da tutte l' altre facoltà (6). Ma non si dà un' essenza eterna che non sia in atto: la mente dunque anche nell' uomo deve essere in atto (7), ed è in atto se intende sempre «ta prota». Laonde anche nell' universo, oltre esserci gli atti che vengono dalla potenza, c' è l' atto puro, ed eternamente vi si conserva, e quest' è la mente umana. Questa mente, in quant' è obbiettiva, è il primo intelligibile, Iddio; in quant' è subiettiva, è l' anima umana che tocca quel primo intelligibile di continuo, onde la chiama «synechestate» (1). E però l' uomo, se vive conformato alla mente, dice Aristotele, che è più che uomo; vive d' una vita divina (2). Questa mente che l' uomo ha immediatamente dall' intuizione del Primo motore (3) appartiene a quella che Aristotele chiama mente contemplativa. Ma il pensiero contemplativo d' Aristotele «dianoia theoretike» si estende troppo più, perchè abbraccia ogni atto di contemplazione che abbia per oggetto i puri intelligibili e non solo «ta prota». La mente dunque nell' uomo in senso obiettivo è identica alla Mente suprema; ma n' è diversa in senso subiettivo, in quanto che il subietto è l' atto stesso d' ogni anima intuente la forma dell' Essere. Così si spiega come Aristotele chiami or divina, ora anche Dio la mente nell' uomo, la faccia eterna, e quella che contiene il tempo e tutta la vita temporanea, e la chiami il fine di questa, come pure quella che contiene lo spazio , e come, con una maniera figurata tolta da' Pitagorici, collochi queste menti al di fuori di tutto il mondo cioè dell' ultima sfera, oltre la quale nega che ci sia più nè luogo nè spazio: [...OMISSIS...] . E alludendo a questa voce che viene da «aei» sempre quasi voglia dire sempiternità , prosegue a dire Aristotele: [...OMISSIS...] L' incorporeo dunque, impassibile ed eterno, quello che, come dice in appresso, è tutto, primo, e sommo al sommo (1), e che è il divino [...OMISSIS...] , questo è il fine dell' Universo [...OMISSIS...] , cioè l' ultimo atto a cui tende tutto l' Universo, e questo gode dell' ottima vita [...OMISSIS...] , la quale è la contemplativa, atto purissimo, [...OMISSIS...] (2). Essendo dunque quest' ultimo atto intellettivo, fine dell' universo, la Mente, questa ha un' esistenza fuori dell' universo mobile , ma è legata coll' universo rimanendo immobile, poichè esiste in tutti gl' intelligenti e nell' anime umane. Così, sebbene l' immobile sia congiunto col mobile, e quello che continuamente perisce coll' incorruttibile, tuttavia questo costituisce un genere diverso da quello, e poichè ogni scienza ha per oggetto un genere, l' universo mobile sarà oggetto della fisica , e l' immobile d' una scienza anteriore chiamata prima filosofia , perchè tratta de' primi che tutti si trovano nell' ente come ente. Chiama poi questa divina natura non solo fine del mondo (3) [...OMISSIS...] e primo [...OMISSIS...] (perchè il fine è anteriore di concetto e di essenza alle cose che tendono al fine), e contenente tutto il tempo delle cose periture, [...OMISSIS...] (perchè non si può concepire il tempo che è il numero del movimento, [...OMISSIS...] (4), senza presupporre una durata immobile ed eterna (5), la quale è propria dell' essere come puro essere); ma la dice anche tutto , [...OMISSIS...] , dove si scopre il panteismo aristotelico. E questo la dice non più considerandola come fine universale, ma come fine particolare di ciascun ente, come specie, forma o essenza specifica. Poichè tutte le forme , come vedemmo, sono essere, e però eterne e divine; ma non allo stesso modo dell' essere primo , perchè sono l' essere limitato, onde alcune cose hanno più, altre meno di essere e di vita, e questo tanto di essere e di vita si dice che viene dall' Essere primo prendendosi l' essere in senso assoluto, come essere; giacchè da ciò che è primo ed eccellentissimo in ogni genere Aristotele fa venir quello che è meno eccellente in quel genere, considerando la natura nell' anteriore e nel posteriore come identica. Le forme tutte dunque o specie sono quelle che chiama «analloiota, apathe,» e altrove «hapla, asyntheta, ameres» (1), e che ripone tutte sopra il Cielo, dove i Pitagorici riponeano i numeri, per indicare che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Non essendo dunque la materia un chè, se non per la causa formale, e però l' essere delle cose essendo la forma o essenza specifica, e i nomi che si danno alle cose indicando le forme specifiche (2), tutto ciò che è qualche cosa, e di cui si parla, è forma; e però la natura dell' essere è detta «pan». Così la natura divina è tutte le cose dell' universo (3), e non fa maraviglia d' incontrare presso Aristotele una pluralità di Dei, essendovi una pluralità di forme e quindi di enti, benchè l' Ente primo ed assoluto sia uno e tutto, e si possa quindi chiamare l' unitutto. Così parlando delle antiche favole, egli non le riprende per aver posta una moltitudine di Dei, ma solo per aver fatti gli Dei simili agli enti naturali composti di materia e di forma, il che, dice, ripugna alla divinità. [...OMISSIS...] : il che è, secondo lui, quella parte di verità, che ci rimase dalle antiche memorie perite negli sconvolgimenti in cui più volte le arti e la filosofia sono perite e rinate (1). Vedesi chiaramente che il punto oscuro della filosofia Aristotelica è questo appunto, come Iddio, cioè il Dio supremo, abbia una natura identica a quella della mente umana, e di tutte le forme degli enti mondiali; e quindi e le menti , e le forme sieno veramente divine. Questo fu cagione che Aristotele fosse sempre accusato dagli antichi o di politeismo o di contraddizione (2). Aristotele censura appunto Platone di questo, che avendo sostituito la parola partecipazione a quella d' imitazione usata da' Pitagorici, nè questi nè quegli cercarono poi come gli enti s' informassero per via d' imitazione o di partecipazione delle specie (3). E accusa oltracciò Platone di non aver fatto uso se non di due cause, la materiale e la formale, quanto a torto l' abbiamo veduto, e d' aver fatto dipendere dagli elementi delle idee, che sono elementi di tutte le cose, il bene o mal essere di ciascun ente (4), quasi che non avesse fatto venire alle cose tutte ogni bene dal Bene essenziale, in che ripose l' essenza di Dio. Poco appresso poi confessa che posero in qualche modo anche la causa finale delle azioni, delle trasmutazioni e de' movimenti, e restringe la sua censura a dire, che la causa finale da lor posta non era atta a spiegare l' esistenza stessa e la produzione delle cose, ma solo le accidentali loro mutazioni (5). - Come dunque pretende Aristotele d' aver completata questa dottrina della causa finale? - Coll' aver posto l' attività istintiva nella natura, che non ebbe cominciamento, e aver fatto che questa attività, tendendo al fine , cioè all' ultimo e perfetto atto, conseguisse gli atti primi propri di ciascun ente, i quali atti primi egli disse essere le essenze specifiche. Accusa dunque Platone d' aver posta una materia e una forma inattiva, le quali essendo prive d' ogni principio di movimento non possono spiegare come gli enti si formino, e formati si generino (1). E crede che nulla si spiegherebbe se non si collocasse il principio del moto nelle specie stesse (2) e nella materia tendente alla forma. Riconosce nondimeno, oltre questo principio del movimento che è nella natura, la necessità d' un' altra causa, che è la finale, che per sè stessa nulla opera, ma è intesa, e appetita, e questa è in questo modo la causa delle stesse essenze o specie, la prima di tutte le cause, la causa delle cause, distrutta la quale tutto è distrutto, [...OMISSIS...] (3). Ora che cos' è che distrutto che sia, non rimane più nulla del resto? Aristotele dice, che quest' è l' Ente, e l' Uno (4), e lo stesso dicasi del Bene che coll' ente si converte. Qui c' è dunque in altre parole la dottrina di Platone, che faceva l' uno causa delle idee , e le idee cause dei sensibili (5), salvochè Aristotele non vuole che esistano idee de' sensibili separate ed immobili, ma solo in essi come loro forme e così aventi in sè, insieme colla materia, il principio del movimento (onde fa operative le forme anche nella mente dell' artefice per essere coerente a se stesso nel porre le forme attive); e fuori de' sensibili non pone che l' atto puro a cui tende come a fine la materia prima e ab aeterno s' informa (6), e tende la materia informata, quando è mossa da altri enti naturali già informati ossia in atto, a generarsi in altre forme. Quest' atto puro dunque corrisponde all' Uno di Platone, ma egli è motore come desiderato, e non è già l' essere indeterminato, ma l' essere, essenza, determinato, onde lo dice anche « « causa (formale) di se stesso » », [...OMISSIS...] (1). Ma quante difficoltà non involge questa maniera aristotelica di spiegare la partecipazione dell' essere ossia delle forme? - L' abbiamo veduto: replichiamolo, e aggiungiamo ancora altre difficoltà. - Il fine è l' intelligibile e l' appetibile: ma come dare alla materia bruta senza senso e senza intelligenza un appetito verso l' intelligibile e l' appetibile? (2) Non basta il distinguere il bene apparente dal bene vero: perchè anche quel primo deve apparire per essere appetito, e non può apparire a chi non solo è privo dell' intelligenza, ma anche del senso (3). - Di poi come identificare le forme delle cose inanimate o delle sensibili colle idee? Ed è pur necessaria questa identificazione nel sistema aristotelico, nel quale tutte le forme sono eterne e divine, e basta che si dividano, anche questo non si sa come, dalla materia, affinchè sieno per se intelligibili. Su di che già vedemmo che lo stesso Aristotele vacilla, e talora chiama la forma reale « « lo schema dell' idea » » (1), così ponendo tra essa e l' idea una distinzione simile a quella di Platone. - Ancora : come la forma nella mente dell' artefice può operare e non essere un puro esemplare, come vuole Platone? Anche rispetto a questo placito, necessario al suo sistema, affine di rendere le forme operative, vedemmo Aristotele esitante, e talora ritrarne il piede, ora dare alla specie la mente (subiettiva) per spiegarne l' azione, ora aggiungervi la forza, [...OMISSIS...] , ora mettere in dubbio che tali specie sieno veramente essenze. - In quarto luogo , o le specie delle cose naturali sono identiche colla prima e suprema essenza, il Motore immobile, o sono di diversa natura. Se sono identiche, essendo tutte una specie sola senza differenze, perchè si suppone che sieno molte e varie? Se sono diverse, perchè non si assegnano le cause delle loro differenze? E poi, come in tal caso compariscono? come comparisce una nuova natura diversa da quella del Primo motore, che non può dividersi in parti nè versarsi nella natura perchè non ha parti nè attività alcuna? come col solo appetirsi una cosa, s' acquista in parte quella cosa? E` per una virtù imitativa o appetitiva? Questo non si spiega, e in ogni caso, per imitazione (giacchè si ritornerebbe all' imitazione de' Pitagorici) non si prende nulla di reale dalla cosa imitata, ma s' assomiglia a quella, in modo che ciò che ha l' una solo convenga nella specie o nell' idea medesima. La similitudine in fatti è fondata soltanto in un comune concetto ossia in un universale , e non nella trasfusione di qualche parte della natura reale d' una in altra cosa (2). Ma in tal caso eccoci tornati agli universali per ispiegare la partecipazione delle forme , cioè ritornati al sistema di Platone. Di più Aristotele riconosce che molte cose reali diverse di numero sono identiche di specie, e molte specie identiche di genere, e tutt' i generi identici in quanto all' essere. Che cosa moltiplica di numero gli enti della stessa specie? La materia, risponde Aristotele. Ottimamente. Ma la forma che è in ciascuno, cioè la loro specie sostanziale (per fermarci a questa), tostochè è nella mente separata dalla materia, è una sola. Se è una sola, come può conservare la sua identità, moltiplicandosi gli enti reali che ne partecipano, ed essendo in ciascuno di essi? Poichè Aristotele dice: [...OMISSIS...] . Se dunque riconosce che nel concetto sono i medesimi, è dunque distinta la specie nella mente, che è il concetto e che è uno e comune, dalle specie reali che sono più e proprie di ciascun ente. Ci hanno dunque due maniere di specie, e le specie reali o imiteranno o parteciperanno delle specie mentali: siamo dunque ricondotti di novo alle specie platoniche, di cui i sensibili non sono che imagini: e la specie nella mente dell' artefice non sarà operativa, ma direttiva, e all' artefice converrà dare una potenza di imitarla nella sua opera distinta dalla specie, nè si potrà dire, che la specie della sanità nella mente del medico sia la sanità nell' ammalato (2), tanto più che Aristotele stesso è obbligato a confessare che la specie nella mente dell' artefice nulla patisce: che se nulla patisce, dunque nulla opera, perchè chi passa ad operare, patisce. Sia pure che gli universali esistano solo nella mente, il che Platone non contende. Rimane solo a penetrare l' intima unione che ha la mente dotata degli universali colle cose reali, a intendere che queste senza di quella non sono quali a noi appariscono. Se appariscono c' è entrata già la mente: ed essi nella mente nostra si ultimano appunto colla partecipazione che quivi essi fanno degli universali. Il che tanto più sarebbe stato facile ad Aristotele di vedere, in quanto ch' egli ama considerare gli universali come predicabili (e il predicare è un' operazione della mente), e fa che l' essere e sapersi, e il nominarsi delle cose venga dalla predicazione delle specie (3). Ma il nodo più duro a sciogliere nella dottrina d' Aristotele è quello della mente stessa che contiene gli universali. Poichè questa stessa è ella una o più? E se una, è una di specie o anche di numero? E se è una mente sola di specie, ma molte di numero, anche le menti dunque hanno una specie comune , l' idea della mente, che dev' essere anteriore alla mente, perchè distrutta la mente non è distrutta con questo la sua specie e possibilità, ma sì viceversa. Ora, che la mente sia una per Aristotele, pare indubitato; se poi la faccia una di numero o di specie, noi cercheremo in appresso. Agli argomenti che abbiamo addotti per provare che Aristotele ammette una sola natura mentale, aggiungiamo i seguenti: 1 Aristotele dice, che senza ammettere una moltiplicità di materie, non si potrebbe spiegare la moltiplicità degli enti, perchè la mente è una, [...OMISSIS...] : onde se essendo unica la mente ci fosse stata una sola materia senza differenze intrinseche, da queste due cause non s' avrebbe potuto avere, che un ente solo (1). Il quale argomento non avrebbe valore se ci potessero essere più menti o di numero o di specie diverse. In fatti più menti diverse di numero colla stessa materia avrebbero cagionato almeno più individui: più menti diverse di specie anche diverse specie di enti. Attribuisce dunque puramente alla diversità delle materie, e quindi alla diversa forza e natura del loro appetito il giungere a forme diverse . Tutte queste dunque non possono essere che una limitata imitazione della prima ed unica mente, secondo la diversità delle materie aventi varie potenze e capacità di giungere all' atto. 2 Aristotele ammette tre sole sostanze: due sensibili, delle quali l' una, quella de' cieli, incorruttibile, l' altra, la terrestre, corruttibile, la terza è la sostanza immobile: le due prime sono l' oggetto della fisica perchè hanno movimento, l' ultima della filosofia prima, perchè immobile e non avente alcun principio comune colle due prime (2). A quest' ultima appartiene la mente. Non è dunque distinta di natura la mente suprema, e quella dell' altre intelligenze: egualmente si contano come la terza sostanza. Questo ben dimostra per lo meno che Aristotele era lontano dall' intendere quanto la natura divina si dipartisse dalla natura finita della mente umana, colla quale non può nè manco aver nulla di comune nè specie nè genere. Nello stesso tempo apparisce come questa comunità o identità di sostanza, ch' egli dà alla mente divina ed alle umane, riguardi la mente in senso obiettivo. Poichè a quella scienza che tratta della sostanza immobile, cioè della mente, altrove attribuisce per oggetto « l' ente come ente ». La mente dunque è l' ente, cioè l' oggetto primo del conoscere; e si divaria soltanto pe' diversi subietti, a cui è unita, come meglio diremo in appresso. 3 Finaente in atto non può esser che una di numero. Poichè questo è uno de' suoi più costanti principŒ che tutto ciò che è moltiplice di numero ed uno solo di specie ha materia, [...OMISSIS...] , col qual principio vuol anco provare che un solo è il Primo motore e un solo il cielo ch' ei move. Ora la mente in atto è priva al tutto di materia. C' è dunque una sola mente in atto? (1). Dal qual luogo si trae certamente questa conseguenza, che la mente è, e non può esser altro che una specie sussistente avente il finimento di sè in se medesima. Ma come si concilia l' esistenza di questo supremo Motore unico di numero, coi motori inferiori, che sono anch' essi menti pure intelligibili ed appetibili, che eccitano i movimenti diversi alle sfere ed agli astri? Si dovrà probabilmente dire, che sono altrettante specie diverse, ciascuna sussistente ed una di numero. Ma in tal caso non avranno comune il genere? Non si può evitare: ed egli pare che, secondo Aristotele, il convenire solamente nel genere non impedisca che la specie subordinata possa esser una di numero, ultimata e sussistente senza materia: poichè la specie, essendo atto, non ha materia. In questo caso la specie non determina e informa alcun subietto materiale, ma è ella stessa la propria forma ed essenza. Tale credo la sentenza d' Aristotele. Ma con ciò non si sfugge ancora la difficoltà. E nel vero ammesso un genere comune, non sarà questo anteriore alle menti, secondo il principio dello stesso Aristotele che [...OMISSIS...] ? (1). Aristotele dirà forse, se non nell' ipotesi che il comune sia separabile ed abbia un' esistenza da sè, non se esiste soltanto nella mente: e dico forse, perchè in certi luoghi par che ammetta quel principio del comune qualunque sia. In fatti, tutto ciò in cui si può osservare una natura comune e una natura propria, tolta quella, questa non si concepisce più, sia la natura comune separabile o no. Ma si ammetta l' eccezione, s' urta in un altro scoglio. Se più sono le menti, ciascuna è una specie, ed hanno un' idea generica comune, in tal caso dov' è quest' idea? Nelle menti stesse, perchè non esiste separata. Se nelle menti soltanto, dunque quest' idea si moltiplica come le menti, avendo ciascuna la propria. Se ciascuna mente vedesse la stessa idea, quest' idea unica dovrebbe esistere separata dalle menti molteplici, contro il supposto. Se molte idee generiche uguali sono nelle menti, queste stesse idee hanno tra di loro qualche cosa di comune. Se hanno qualche cosa di comune, ritorna lo stesso ragionamento, che ci conduce ad una serie d' idee all' infinito, cioè all' assurdo. Non c' è verso d' uscirne: a meno che non si faccia ritorno al sistema di Platone che fa le idee separate dalle menti umane e create, ma esistenti tutte nella mente del sommo Artefice. Ora Aristotele non ci può ritornare senza rinunzia al proprio sistema, anche per un' altra ragione. Secondo lui, è indegno di Dio, che questi conosca le cose umane: appartiene alla sua perfezione che il suo oggetto sia puramente l' ottimo, cioè se stesso. D' altra parte, non essendo da lui create l' altre cose esistenti, ma a lui coeterne, operanti col proprio impulso, benchè con questo tendenti a lui; egli non potrebbe avere le idee distinte delle cose che sono al tutto così fuori di lui. Vediamo nondimeno dove ci conduca questo strano e insufficiente, ma ingegnoso sistema. C' è una serie d' intelligibili tutti eterni: il primo di questa serie è Dio, gli altri sono sparsi per tutto l' universo e lo compongono. Il primo intelligibile separato e sussistente contiene gli altri non distinti, ma in un modo eminente: è l' essere, e nell' essere si contiene ogni cosa che è. Gli intelligibili che sono nell' universo lo costituiscono, perchè tali intelligibili sono le forme , senza le quali non sarebbe l' universo; chè le forme danno alla materia l' essere qualche cosa, e però sono cause del suo essere (1). Gl' intelligibili uniti alla materia non sono intelligibili per sè. La materia è potenza, l' intelligibile è atto. Ma fino a che la materia è potenza, l' intelligibile non è puro atto, e però non è intelligibile se non potenzialmente. L' atto puro è per sè intelligibile. Come tutti gli enti tendono all' atto, tutti tendono a divenire intelligibili per sè. Vi riescono quelli soli che arrivano col loro movimento ad uscire dalla loro potenzialità, il che è quanto dire riescono a spogliarsi totalmente della materia, e allora sono costituiti in atto puro, separato ed immobile. Quando l' intelligibile è divenuto in questo modo puro atto, allora non è solo intelligibile per sè, ma anche intelligente (2). La ragione poi per la quale non tutti gli enti arrivano a quest' atto puro è perchè la materia ossia la potenzialità prossima è diversa: il liquor seminale è la materia prossima che ha la virtù, ricevendo il movimento de' generanti, di pervenire a quell' atto che costituisce l' anima umana, di cui la parte più elevata è la mente. Ho detto che l' intelligibili sparsi nella natura, quando giungono a liberarsi dalla materia e divenire atto puro, diventano intelligibili in atto e intelligenze. Questa sentenza deve esser ricevuta entro certi confini. Aristotele riduce gl' intelligibili ossia le specie alle dieci categorie. Ma avverte, che la sola specie sostanziale può essere spinta ad un atto che si costituisca da sè, e che meriti il nome di entelechía, ossia specie che ha il proprio finimento in se medesima (3), quando le altre specie non sono che per la sostanza e però hanno un' esistenza accidentale che talora Aristotele paragona al non ente (4). Laonde le sole specie sostanziali sono eterne nella natura, e se una di esse non ci fosse stata ab aeterno, o si potesse distruggere, non potrebbe più essere rinnovata (5). All' incontro le specie accidentali non è necessario che sieno eterne in atto nel mondo, bastando che ci sieno in potenza, per esservi poi attuate dalla specie sostanziale in cui sono. Quindi ancora la specie sostanziale è il massimo intelligibile (6). Quando dunque una specie sostanziale perviene ad un atto puro in cui si libera dalla materia, allora diventa intelligibile e intelligenza, e questo accade nella generazione umana rispetto all' anima che è la specie del corpo, anzi solo rispetto a quella parte dell' anima che è del tutto pura da ogni contagione di materia, e quest' è la mente umana. Per arrivare a quest' atto ella deve spingersi fino all' intuizione dell' essere formato, che è la mente obiettiva. In fatti tutte le cose si conoscono coll' essere e col non essere (1); ma il non essere non è che la remozione dell' essere ed è a quello posteriore tanto in sè, quanto nella nostra cognizione. Ed essendo l' essere e il non essere i due termini del principio di cognizione, perciò nulla possiamo conoscere senza questo principio, da cui il vero ed il falso (2). Di questi primi termini dunque, secondo Aristotele, è la mente. La mente umana dunque è la più eccellente tra le specie sostanziali che quaggiù si trovino, la quale, uscendo dalla potenza all' atto, giunse fino a toccare il primo e supremo intelligibile, l' essere, giacchè la mente conosce toccando, [...OMISSIS...] (3). E però la mente è fine dell' universo, e termine dell' ente che la possiede (4). La mente obiettiva dunque viene all' uomo dal di fuori ed è comune a tutte le menti; la subiettiva poi è nella natura, e si svolge da una specie in potenza che perviene fino all' atto della pura intuizione. Ma questa è una specie sostanziale , in cui le specie accidentali inesistono. Queste non sono necessarie alla sussistenza di quella: ma solamente possono essere in quella. Gl' intelligibili, che la mente umana va acquistando sono appunto queste sue specie accidentali; e come la specie sostanziale ha tutte le accidentali in potenza, così pure la mente umana ha in potenza tutti gl' intelligibili sparsi nella natura, e però convenientemente ella si chiama, «topos eidon», e «eidos eidon» (5). Quindi la mente dà connessione e unità alla natura raccogliendo in sè in potenza e alcune volte in atto tutte le forme dalla natura, ond' è chiamata «aion syneches» e «taxis» (6), pensiero che Aristotele prese da Anassagora (7). Ma pretende Aristotele che Anassagora non conoscesse la mente se non come causa motrice, e d' aver egli perfezionata la teoria coll' averla conosciuta per causa finale, con che solo s' evita che la natura del mondo sia come una serie d' episodi staccati, come la fanno i sistemi precedenti, [...OMISSIS...] (1). Ed ora ci sembra di potere stabilire la principale differenza tra la mente suprema e l' altre menti. La mente in senso obiettivo è a tutte le menti identica e comune. Ma questa mente obiettiva è in se stessa anche subiettiva, di maniera che l' essere inteso, e l' essere intelligente è il medesimo: quest' è la mente suprema che in eterno contempla se stessa. All' incontro rispetto all' altre menti l' obbietto non è il medesimo che il subietto; ma il subietto è posto dalla natura dell' universo che passa dalla potenza a quell' ultimo atto, pel quale contempla la mente obiettiva. Questo mi sembra essere dichiarato da Aristotele stesso nel libro XII, 9 de' « Metafisici ». Lo scopo di questo capo è dimostrare che la dottrina d' Anassagora non è sufficiente, cioè non basta porre la mente, come faceva questo filosofo nella natura, qual causa del mondo e della sua connessione, [...OMISSIS...] , ma che conveniva oltracciò ammetterla separata e indipendente da tutta la natura, come causa finale , a cui tende incessantemente la stessa natura. « « Sembra, dice, che tra gli apparenti ci sia uno divinissimo » » (2): questo divinissimo degli apparenti è la mente d' Anassagora insita nella natura, benchè immista. Mostra dunque che qualunque mente si ponga nella natura, ella sarà imperfetta e insufficiente. Poichè si prenderanno per mente, o sia per divinissimo, le specie di cui ogni ente anche inanimato è fornito? In tal caso questo divinissimo sarà dormiente: non intenderà nulla; e allora come può essere cosa oltremodo eccellente? (3). Si prenderà per divinissimo la mente umana? In tal caso abbiamo una mente che intende, ma il cui oggetto essenziale non è identico con essa. Dunque ella sarà di sua natura in potenza, e passerà all' atto per la virtù del suo oggetto: dipende dunque da questo, e questo è ad essa superiore se le dà l' atto: essa non è ancor dunque l' essenza ottima (1). [...OMISSIS...] . Il che pure è detto contro Anassagora che unendo la mente a tutta la natura, faceva che conoscesse tutte le cose naturali (3) e anche il male. Dalle quali cose conchiude Aristotele che la Mente suprema e perfettissima deve: 1 esser sempre nell' atto della contemplazione; 2 quest' atto deve avere per oggetto l' ottimo; 3 quest' ottimo deve esser ella stessa. [...OMISSIS...] All' incontro la mente umana, che è l' ultimo atto, l' ultima specie sostanziale a cui può giungere la natura: 1 Nascendo per un passaggio di ciò che è in potenza a ciò che è in atto, non è ella stessa il proprio oggetto, l' oggetto [...OMISSIS...] , la mente obiettiva, e però questa le viene dal di fuori, come quella che essendo eternamente scevra di materia, non può venire dalla natura; 2 Quindi la mente subiettiva dell' uomo è unita a un altro più eccellente di sè, [...OMISSIS...] abitualmente, e però si chiama da Aristotele abito, [...OMISSIS...] (5), e quindi ha bisogno d' uscire all' atto della contemplazione, rispetto al quale è in potenza (6); 3 Quindi accade che per poco tempo (1), e con fatica (2) la mente subiettiva dell' uomo si mantenga nell' atto della contemplazione, laddove la mente perfetta contempla se stessa immobile tutta l' eternità, [...OMISSIS...] (3); 4 La mente umana uscita dalla natura come specie sostanziale pervenuta allo stato d' entelechia , non avrà per suo oggetto solamente l' ottimo, ma altre cose ancora che sono le specie della natura, le quali ella acquista coll' induzione, separandole dalla materia, che così diventano sue proprie specie accidentali, ond' ella è detta specie delle specie. E qui ha luogo la distinzione tra la mente fattrice , [...OMISSIS...] , e la mente fattibile , ossia in potenza ad esser fatta, [...OMISSIS...] , di cui parla Aristotele nel III, 5 dell' « Anima », e finalmente la mente passiva, [...OMISSIS...] , che non si deve confondere colle due prime, benchè la brevità, con cui ne parla Aristotele, non nominandola che una sola volta, abbia fatto credere universalmente ai commentatori, che la mente in potenza e la mente passiva sia la medesima. Ma se si distinguono, la dottrina acquista chiarezza. In fatti supponendo che l' anima umana in cui è la mente sia giunta all' intuizione dell' essere (Mente suprema, in senso obbiettivo); 1 Quest' intuizione o vista dell' essere è la mente attiva , perchè vedendo l' essere conviene che per la stessa ragione l' occhio dell' anima veda tutto ciò che le si presenta come essere. La mente subiettiva dunque dell' uomo è attiva alla foggia degli abiti. 2 L' essere stesso intuito, è quello che può essere variamente determinato e circoscritto, e quindi può divenire tutte l' altre specie, e questo è la mente in potenza . 3 Queste due menti esistono nell' uomo tostochè è costituito. Ma quando la mente in potenza, cioè l' essere , viene determinato mediante i sentimenti, e la mente in atto cioè la vista intellettiva e subiettiva dell' anima vede le specie ne' sensibili, allora ella acquista tali nuove specie, e queste costituiscono la mente passiva . Quindi la sola mente passiva perisce, secondo Aristotele, colla morte dell' uomo, e non si conserva la memoria delle specie acquistate, perchè queste si vedono nelle sensazioni e nelle immagini che sono sottratte all' anima insieme all' organo corporale di cui abbisognano (1). All' incontro non perisce nè la mente attiva, nè la mente in potenza, benchè rimangano senz' azione, e ciò perchè sono la stessa mente innata. E veramente, che quando Aristotele nomina come peritura [...OMISSIS...] , intenda le specie acquistate coll' uso dei sensi per induzione, vedesi chiaramente dall' unirla alla memoria , che suppone tali specie già acquistate. All' incontro che la mente tanto fattrice quanto fattibile ossia in potenza, si conservi separata dal corpo, si può provare così. Tutti i commentatori sono d' accordo nell' ammettere immortale la mente fattrice od agente: basta dunque per noi provare che sia immortale anche la mente fattibile, ossia in potenza. Questo poi si prova dalla qualità che attribuisce Aristotele d' impassibile , e però priva di memoria, [...OMISSIS...] , tanto alla mente fattrice, quanto alla mente in potenza. Ora nel III, 4 dell' «Anima » cerca come si produca il conoscere [...OMISSIS...] . Cercare come si produca il conoscere è lo stesso che cercare come si produca la mente passiva . Ma per dichiarare questo, conviene: 1 stabilire qual sia la mente anteriormente al conoscere; 2 qual sia la mente dopo acquistato il conoscere. La mente anteriormente al conoscere non è solamente la mente fattrice che fa il conoscere, ma anche la mente fattibile cioè in potenza a conoscere. Dice dunque che questa mente, che non ha ancora ricevuto le specie « deve essere impassibile, suscettiva delle specie, e che sia queste specie in potenza »(2). Qui parla chiaramente della mente ancora in potenza. E dice che questa è la mente d' Anassagora senza mistura di sorta, [...OMISSIS...] . Onde dice, che la sua natura è puramente il possibile (3), non avendo ancora niuna delle specie naturali in atto, ma solo il possibile, che è quanto dire l' essere possibile , che la rende capace di ricevere tali specie. Questa è quella mente, con cui l' anima pensa e percepisce, [...OMISSIS...] : onde evidentemerice e fattibile , e che è una stessa ed identica mente, anteriore all' acquisto delle specie naturali, che poi formano la mente passiva . Questa mente dunque fattrice e fattibile non si mescola al corpo, e però non ha bisogno del corpo per sussistere, e non è ancora le forme se non in potenza, [...OMISSIS...] , onde la chiama il luogo delle forme (1). E prova che questa mente in potenza è separata di natura dal corpo per la differenza che passa tra essa e il senso, il quale dipendendo dall' organo s' istupidisce se sente qualche cosa di troppo forte, la mente all' opposto s' avvalora col fortemente conoscere (2), perchè è ella stessa l' intelligibile in potenza, e diventa poi l' intelligibile in atto. Si fa ancora la domanda perchè la mente non pensi sempre, e l' attribuisce all' essere le specie unite colla materia, onde il pensiero intermittente, di cui parla Aristotele, è quello che si riferisce alle cose sensibili e materiali. Intorno a queste, dice, non pensa sempre perchè ell' ha bisogno di fare un' operazione per arrivare a pensare queste specie, ha bisogno di separare le specie dalla materia perchè la mente se le approprŒ (3). Ma per ciò che riguarda la mente stessa, ella si intende sempre e tuttavia alla condizione dell' altre cose: poichè tutte le cose s' intendono a condizione che siano senza materia, semplici, immiste. Ora la mente è tale per sè e, appunto perchè tale, rende anche l' altre cose scevre di materia e così intelligibili (4). Dunque ella si conosce sempre, e questa mente conosciuta è la mente in senso obiettivo, il possibile, [...OMISSIS...] . C' è dunque sempre un atto nella mente, ed è con quest' atto primo e sostanziale che fa tutto il resto, [...OMISSIS...] , ed è come abito a guisa del lume, [...OMISSIS...] . Poichè come il lume, essendo in atto, rende colori in atto i colori che sono in potenza (5), così la mente fa delle specie che sono ne' sensibili e nelle cose materiali. La mente in potenza dunque si riferisce a queste specie, ma ella in se stessa è in atto, e però rispetto a sè è mente teoretica o contemplativa, di cui si può dire che l' intelligente e l' inteso sia il medesimo, [...OMISSIS...] . E` dunque la stessa mente quella che è in atto e quella che è in potenza: poichè è in atto rispetto a se stessa ed è in potenza rispetto alle specie che sono unite colla materia negli enti naturali (1). Aristotele si fa delle obbiezioni, che servono non poco a render chiara la sua mente, alle quali dà certe risposte, di cui non fu bene intesa generalmente la forza. Avea detto, che la mente è semplice, impassibile, e non ha nulla di comune coll' altre cose, [...OMISSIS...] , secondo la sentenza d' Anassagora: come dunque ella intende, domanda, se pensare è un certo patire, chè, solamente in quanto c' è qualche cosa di comune in ambedue i termini, l' uno sembra agire e l' altro patire? (2). Oltre ciò, essendo l' intelligibile uno di specie, o che è ella stessa la mente questo intelligibile o che questo intelligibile è diverso da essa e si trova nelle cose naturali. Se è ella stessa l' intelligibile, convien dire, che quando intende l' altre cose, ella stessa sia nell' altre cose, il che è assurdo: se poi l' intelligibile è diverso da lei, in tal caso ella sarà mista e dovrà semplificarsi prima d' essere intelligibile (3). Risponde Aristotele a queste difficoltà, che l' intelligibile è nella mente stessa, [...OMISSIS...] , e che l' intelligibile, essendo al tutto privo di materia, non può rendere mista la mente; che si dice, che la mente intendendo patisce, unicamente perchè l' intelligibile è in essa in potenza, e quando esce all' atto è ella medesima (4). Onde tra ciò che sembra agire, cioè l' intelligibile, e ciò che sembra patire, cioè la mente, non solo c' è qualche cosa di comune, ma c' è identità, che è l' identica mente quella che è in potenza, e quella che poi è in atto. Non patisce dunque dalle cose esterne, ma da se stessa (dalla mente in senso obiettivo), se questo si vuol dir patire: e da questo non procede, che la mente subiettiva sia nelle cose esterne, poichè nelle cose c' è la materia, e però in esse l' intelligibile è solo in potenza. Se quest' intelligibile nelle cose è una specie sostanziale tale, che giunga a spogliarsi della potenza e divenire entelechia, come nella generazione umana, in tal caso egli diventa mente, e questa mente o entelechia è « « la potenza priva di materia di tutte l' altre specie che sono nelle cose » » [...OMISSIS...] (1). Dal qual luogo vedesi la connessione che pone Aristotele tra la mente umana, e le specie che sono negli enti composti di materia e di forma. Una di queste specie sostanziali diventa mente ed ha in potenza tutte le altre. All' occasione delle sensazioni, le altre specie che ha in se stessa in potenza, si attuano, e così s' arrichisce di cognizioni. Le specie dunque nelle cose sono identiche a quelle nella mente (2), e sono contenute nella mente come in una specie maggiore che è in atto, quasi accidenti della medesima, i quali possono essere in potenza e passare all' atto: « « l' intelligibile dunque propriamente è uno di specie » », [...OMISSIS...] , il che è quanto dire, è una specie sola, che abbraccia l' altre come sue attuazioni accidentali, e questo intelligibile unico è la mente, che «to auto esti to noun kai to noumenon». Così è perfettamente congiunta la mente colla natura delle cose mondiali: il che tuttavia non rimove le gravi difficoltà, che abbiamo già indicate. La mente dunque è di natura sua teoretica cioè contemplatrice; questa mente poi quando si considera in relazione all' altre specie che sono miste di materia e di forma, dicesi da una parte fattrice o agente in quanto ha virtù d' attuare in sè le specie naturali scevre di materia, all' occasione delle sensazioni, e dicesi mente in potenza , in quanto ha queste stesse specie in potenza; dicesi poi mente passiva , in quanto ha attuate già in sè queste specie e le conserva in atto, la qual conservazione dicesi memoria: e questa è quella che perisce, rimanendo la mente teoretica, e anche la fattrice e la fattibile, ma senza più operare, mancando le sensazioni, onde dice «kai aneu tutu uden noei». Questa mente passiva poi è atto, quando le cognizioni sono acquistate, ma quest' atto non è continuo, ma abituale, e però ritiene ancora della potenza; può però passare alla contemplazione per un certo tempo e in que' momenti ella stessa è mente contemplativa (3). La prima mente dunque, fondamento dell' altre, è contemplatrice o teoretica. Ma che cosa contempla? Aristotele risponde: il principio, senza il quale non si può conoscere nessun' altra cosa, e questo è l' essere. Questo dunque, e ciò che in lui si trova, «taa prota», è il più noto per natura, ma, dice, non il più noto rispetto a noi; con che non vuol negare, come abbiamo osservato, che si conosca da noi anteriormente a tutte l' altre cose, ma nol conosciamo da prima colla mente passiva e riflessa, e quindi quella cognizione immediata, priva di coscienza, non ci soddisfa, non pare cognizione nostra, e non è cognizione scientifica (1). Questo principio dunque di contemplazione che ha l' anima dell' eterna e prima essenza rispetto alle specie mondiali è l' attività conoscitiva, e così acquista la denominazione di mente fattrice, e poichè queste forme le ha in se stessa virtualmente comprese nel suo oggetto essenziale, acquista pure la denominazione di mente in potenza, o quando le ha già ottenute in atto, acquista finalmente quella di mente passiva o patetica. Tutto il sapere dell' uomo, quello che lo rende atto a far uso delle cose mondiali, ed a riflettere anche sopra se stesso, sta in quest' ultima, e però Aristotele s' applica a dichiarare la formazione della mente passiva, e di questa dice che nella vecchiezza perviene alla sua maturità (2). Osserva dunque che sebbene la mente sia la specie eccellentissima di tutte pervenuta a costituirsi come atto, entelechia, tuttavia ci sono delle altre specie sostanziali nella natura che arrivano ad attuarsi per via di generazione, il cui atto però non essendo ultimo, non hanno la natura di menti. Questi atti costituiscono una certa gerarchia di basso in altro, e i loro principŒ moventi sono quattro, [...OMISSIS...] (3), cioè il vegetativo o nutritivo (4), l' appetitivo (5), il sensitivo, il motivo di luogo. Le quali specie sostanziali sono così connesse tra loro, che sebbene possano attuarsi in diversi enti, tuttavia le susseguenti non possono trovarsi scompagnate dalle precedenti. Nell' uomo poi nel quale c' è la specie ultima cioè la mente, conviene che ci sieno pure quelle quattro specie anteriori e d' inferiore eccellenza, e nascendo la generazione dall' imperfetto al perfetto, dalla potenza all' atto, conviene altresì che ultima sia la mente a comparire in atto, e che questa anche possa sopravvivere alle altre: chè questa è il fine di quelle, e il fine altresì di tutta la natura (1): ma esistendo la mente nell' uomo, questa deve ridurre in se stessa in atto le specie della natura e così rendersi mente patetica. Per questo appunto accade, che tutte quelle quattro specie sostanziali, il vegetale, l' appetitivo, il sensitivo, il motivo di luogo, sieno parti della stessa anima di cui è la mente. La mente essendo nella stessa anima, e in senso subiettivo formando un chè uno col sensitivo, raccoglie da questo gli intelligibili, al sensitivo poi serve e la parte vegetale e l' appetitiva. Come poi la mente raccolga tali intelligibili per induzione, fu da noi veduto. La mente subiettiva dunque nell' uomo, essendo diversa da' suoi proprŒ intelligibili, ha bisogno d' acquistarseli, nel modo detto, laddove la mente suprema, essendo ella stessa come subietto il suo proprio intelligibile, non ha punto bisogno di ciò. E dico i suoi proprŒ intelligibili ; perchè la mente umana, uscita dalla natura, si tiene, fino che l' uomo vive, subiettivamente radicata nella natura per mezzo dell' altre parti dell' anima, e così è naturalmente ordinata a raccogliere tutte le specie naturali, che ha in sè e di cui è essa il contenente, cioè a dire ad attuarle in sè medesima. Iddio all' incontro è pienamente beato di se medesimo, e quest' unico intelligibile continuamente e perfettamente da lui contemplato è tanto eccellente che tutte le specie mondiali lo deteriorerebbero se vi si mescolassero, come mescolandosi l' imperfetto col perfetto questo si deteriora. Ma la mente umana, secondo Aristotele, non attinge il sommo intelligibile, se non con languidissimo sguardo. « « Poichè, dice, come gli occhi della nottola sono al lume del giorno, così la mente dell' anima nostra a quelle cose che per loro natura sono manifestissime fra tutte »(2) », e alla sua vita naturale ha bisogno di conoscere le specie della natura, e per questa via non solo acquistarsi le scienze naturali, ma ben anco rendere a se stessa più note quelle cose, che per natura sono manifestissime, ma a noi visibili appena: « « poichè l' apprendere ha luogo così in tutti, mediante le cose che sono meno note, a quelle che sono più note »(3) », e ciò per difetto del nostro occhio e non per difetto d' evidenza nelle cose (4). Quando poi Aristotele parla della mente data all' anima come strumento col quale possa formarsi la scienza, non può intendere che della mente insita nella costituzione dell' uomo; quando parla della mente pienamente generata soltanto nella vecchiaia, è evidente che egli intende della mente acquisita o patetica (1): onde conviene che quella si distingua da questa: della prima dice che è de' soli principŒ, che riduce egli stesso a un primo intelligibile, della seconda dice che è di tutti gl' intelligibili, [...OMISSIS...] la prima ha per oggetto «ta te physei phanerotata», la seconda «panta noei»: la prima è lo strumento dell' anima [...OMISSIS...] , la seconda è l' effetto prodotto dall' uso d' un tale strumento ed è ella stessa tutte le specie naturali in atto: la prima è la tavoletta su cui si scrive, la seconda è le cose scritte (2): anche la tavoletta è in atto come tavoletta, ma non è ancora le cose scritte, così la mente è la prima e l' ultima (3). Adunque tra il primo stato della mente, priva delle specie mondiali e fornita solo d' un primo atto che contiene in potenza tutti gli altri, e che perciò è «dynamei ta eide,» e l' ultimo stato in cui ha acquistate queste specie in atto, c' è la disciplina [...OMISSIS...] , che è come la generazione nelle cose naturali, media tra una entelechia e l' altra. L' atto poi con cui si fa questa disciplina è il pensiero, [...OMISSIS...] , che è pratico, o fattivo o teoretico (4). Il pensiero pratico è il principio delle azioni umane, e circa lui più abiti si distinguono ne' libri morali (5): al pensiero fattivo appartiene l' arte (6): l' uno e l' altro di questi pensieri non sono delle cose necessarie, ma delle contingenti (7); ma l' arte è sempre del vero, la pratica poi del bene e del male (.). Oltre l' arte, versa intorno al vero la prudenza e la sapienza (9), ma i due abiti che hanno per oggetto il vero necessario sono la scienza e la mente . Questa somministra a quella i principŒ; quella movendo da questi principŒ ragiona, cioè deduce le conseguenze, e dimostra, chè la scienza è una cognizione dimostrata (1), laddove la mente è una cognizione intuitiva de' principŒ. Questi principŒ si raccolgono coll' induzione (2), ma questi non si potrebbero raccogliere se non ci fosse prima il luogo dove raccoglierli [...OMISSIS...] , la tavoletta, [...OMISSIS...] , dove scriverli. Questo luogo è in atto come luogo, e questa tavoletta è in atto come tavoletta, e tale è la mente in atto, che Aristotele dice essere data all' uomo da Dio stesso, come uno strumento con cui procacciarsi coll' induzione e col raziocinio tutte le specie della natura (3). Questa raccolta delle specie naturali fatta dall' anima coll' organo della mente, per via dell' induzione e del raziocinio, dopo aver prodotte le scienze naturali, perviene alla filosofia prima, cioè alla dottrina de' principŒ: ritorna dunque ond' è cominciata, e poichè questi stessi principŒ si chiamano mente da Aristotele, perciò il principio e il fine dell' opera è la mente, ma il principio è la mente insita per natura nell' anima, e il fine è la stessa mente convalidata dal lungo esercizio (4). L' una e l' altra è de' principŒ; ma la prima è intuizione de' principŒ senza riflessione, la seconda de' principŒ conosciuti con riflessione e consapevolezza; la prima ha un solo principio in atto e gli altri in potenza, il più universale di tutti, l' essere; la seconda ha molti principŒ in atto, e non solo i primi, ma per principŒ Aristotele intende anche tutte le essenze specifiche prive di materia, che sono principŒ degli enti naturali composti di materia e di forma (5). Distingue dunque la mente in due, [...OMISSIS...] . Il qual luogo, non dee già intendersi che la mente sia lo stesso senso de' singolari, ma che sia un senso che raccoglie le specie ultime , che noi chiamiamo specie piene, o le specie astratte (non generi ancora) (2). Per riassumere adunque, gl' intelligibili sono sparsi nella natura mondiale, congiunti alla materia, cioè alla potenzialità, che è quanto dire non pervenuti all' ultimo atto, che da intelligibili in potenza li renderebbe intelligenze. Ma cotesti intelligibili sparsi nella natura sono limitati più o meno, e niuno di essi è intelligibile illimitatamente e pienamente. La natura dunque mancherebbe del suo comignolo e la serie degl' intelligibili mancherebbe del suo primo, se non ci fosse uno intelligibile in atto perfetto e illimitato senz' alcuna potenzialità di sorte. Questo intelligibile primo non può a meno d' esistere necessariamente, perchè ciò che è perfetto atto, è, per la stessa definizione, esistente, essendo il medesimo atto ed essere: ed esiste separato e da sè, appunto perchè non dipende da alcuna potenza e materia. Egli non è la natura, per la stessa definizione, essendo « « la natura ciò che ha potenza e movimento » ». Quest' intelligibile puro e perciò pura intelligenza è Dio, e non può avere altra natura ed essenza che quella dell' essere puro , poichè se qualche altra cosa gli s' aggiungesse sarebbe dipendente, e avrebbe potenzialità e materia o limitazione. Fino a che la natura non giunge a toccare questo puro intelligibile, niente in essa e è condizione dell' intelligenza, ossia della mente, d' essere un atto privo al tutto di materia (3), e quest' atto non essendo che Iddio, la natura deve pervenire a toccare Iddio, acciocchè s' approprŒ quell' atto purissimo e attualmente intelligibile , e così anch' essa diventi intelligenza, poichè coll' avere in sè ciò che è attualmente intelligibile non può a meno d' intendere. Essendo quest' intelligibile per sè l' essere , la mente è formata dall' essere. Ora quest' ultimo atto della natura c' è sempre stato (1), e per mezzo della generazione umana si perpetua. Ma l' anima umana non tocca quest' atto che imperfettamente, e non essendo ella stessa quest' intelligibile in atto, da lui dipende come da un principio maggiore, e si distingue colla sua subiettività dal suo obietto essenziale, che le serve di strumento agli altri suoi atti. Così Aristotele dice, che Iddio ci dà la mente (2). Infatti conoscendo l' essere si possono conoscere tutte l' altre cose in esso contenute, ma senza l' essere, niente si può conoscere, perchè tutto è essere. Laonde Aristotele fa dipendere le verità dalla prima, come gli esseri dal primo essere. [...OMISSIS...] E qui già si scorge meglio la conciliazione tra ciò che dice dell' universale e ciò che dice del singolare. Poichè dopo avere esaltato questo sopra di quello e aver detto che in questo solo si deve cercare l' atto compiuto, involgendo quello imperfezione e potenza, sembra che in alcuni luoghi cangi il discorso e magnifichi sopra tutto l' universale. La conciliazione è questa. Iddio primo principio è l' essere sussistente. Questo è subiettivamente singolare. Ma l' uomo lo tocca obiettivamente, come primo ed assoluto intelligibile e questo tocco forma la mente innata: il tocco però è debolissimo e dà una languidissima e abituale notizia dell' essere, non sufficiente all' uomo nella sua vita terrena. L' essere così conosciuto è la mente in senso obiettivo e lo strumento, ovvero organo dato all' uomo con cui conoscere l' altre cose (1). Con questo dunque l' uomo dee acquistarsi la scienza propria di lui, cioè dee raccogliere gl' intelligibili sparsi nella natura (2). I quali intelligibili separati dalla materia (3), sono gli universali; e senza questi non si dà scienza (4). Questi poi sono l' essere delle cose; «to ydati einai» è la pura specie sostanziale dell' acqua, «to megethei einai» è la specie pura della grandezza, e così via (5). Raccogliendo dunque le specie, raccoglie l' essere sparso nella natura. Ma come in molti enti reali inesiste una specie comune, così in molte specie inesiste un genere comune, e in tutti i generi poi trova comune l' essere stesso. L' essere dunque nella natura è comunissimo, se non che è più ristretto nelle specie, più esteso ne' generi, più comprensivo in quelle, meno comprensivo in questi. Ora Platone, come l' intende Aristotele, avea detto che quest' essere comunissimo esiste da sè separato dalla natura, e che gli enti della natura ne partecipano e così sono (6). Aristotele si oppone a questo, e dice che l' essere comunissimo non può esistere separato, e nè pure è un genere (7). Ma cangia piuttosto le parole che la cosa: poichè qual principio sostituisce? L' essere stesso, non più comunissimo, ma singolare e sussistente, al quale aspirando come a fine tutte le diverse materie della natura, giungono a parteciparne limitatamente qual più qual meno. C' è dunque l' Essere primo singolare, ma preso questo per obietto dalla mente umana ed applicato alla natura diventa comunissimo per la ragione che questa mente riporta e identifica con esso lui tutto l' essere limitato che è sparso nella natura, cioè le specie. Queste sono essere come quello, ma si distinguono per la loro limitazione: così suppone che ci sia in fondo a tutto un essere solo immateriale, il quale sia limitato e illimitato ad un tempo, ma in quant' è illimitato sia Dio, in quant' è limitato sia unito colla materia e sia natura (1), allo stesso modo come suppone che la specie nella materia e la specie separata sia una e la stessa, ma in quant' è nella materia non è intelligenza, in quant' è separata è Intelligenza o Mente. Se dunque si considera l' essere come attualissimo in se stesso, egli è singolare, prima causa finale fuori della natura; se si considera come meno attuato, è in tutti gli esseri della natura, e in essi è ancor singolare: ma raccolto l' essere che è ne' molteplici della natura dalla mente, è universale perchè ne' molti inesistente (2). Trovando dunque la mente l' Essere assoluto, questo in quant' è sussistente, è singolare fuori della natura, ma riportato da essa mente e riscontrato alla natura, come misura comune di tutte le cose, è comunissimo . E però l' uomo che trae la scienza dalla natura, nulla può sapere senza l' ente comunissimo, e la prima filosofia che tratta dell' essere come essere, il dee considerare ad un tempo, dice Aristotele, e come singolare e primo, e come comunissimo. Osserva dunque Aristotele che la parola ente ha un primo significato, dal quale tutti gli altri derivano, e al quale tutti si riferiscono, e che perciò la scienza che tratta dell' ente deve riportare tutto ciò che dice a questo primo significato, come a un solo principio (3). L' essere dunque si considera da Aristotele come una sola natura, [...OMISSIS...] . Qual è dunque il primo e proprio significato di ente? Quello di essenza sostanziale , risponde Aristotele, chè tutte l' altre entità espresse nell' altre categorie sono posteriori ad essa (4). Di questa dunque dee propriamente trattare quella scienza che ha per oggetto l' essere come essere, e anche d' ogni altra entità, ma ad essa riferendola (5). Se l' essere dunque in questo senso primo e proprio, cioè l' essenza sostanziale è l' oggetto precipuo della filosofia prima, si prende qui l' essere ancora come un genere , sia come il genere universalissimo, sia come il genere dell' essenza sostanziale (6), d' altra parte la scienza non può far di meno dell' universale, e la filosofia prima ha lo stesso oggetto della dialettica (1). Come dunque sembra negare che l' essere sia universale? (2). Conviene osservare come Aristotele concepisca l' universale; il concetto, che s' è formato dell' universale, è inerente alla espressione greca «kath' holu», che è come dire « ciò che si dice di tutto » onde è preso dalla predicazione e non dall' intuizione . Ora il medesimo essere non si predica di tutte le cose, e però «me tauto epi panton,» perchè l' essere d' una cosa non è il medesimo di quello dell' altra, ma varia secondo la specie. [...OMISSIS...] . Ciò che si predica di tali cose in un modo anteriore e posteriore (4), è il genere: il genere dunque non c' è propriamente fuori delle specie. Or come l' essere si predica in un modo anteriore della sostanza, e in un modo posteriore degli accidenti, non è dunque un genere comune a quella e a questi. Ma non si predicherà dunque in comune di tutte le sostanze, o anche di queste si predicherà in un modo anteriore e posteriore? Secondo Aristotele l' essere si predica in un modo anteriore della essenza attualissima, cioè di Dio, e in un modo posteriore dell' altre essenze naturali composte d' atto e di potenza: e perciò non c' è null' altro fuorchè Dio, e le sostanze naturali: non c' è un universale comune. Ma dopo di ciò torna la perplessità, [...OMISSIS...] . Ma egli stesso s' accorge che questo è un tornare agli universali; laonde soggiunge che: [...OMISSIS...] . Il fondo di questa questione « se i principŒ degli enti siano gli universali o i singolari »nasce da questo. Nelle idee c' è da notarsi l' estensione e la comprensione (2). Se si considerano le idee dalla parte dell' estensione, cioè dalla maggiore universalità, le più universali contengono le meno universali, e però quelle sono principŒ di queste. Se si considerano dalla parte della comprensione, ciò che è più comprensivo contiene quello che è meno comprensivo, e però i più comprensivi ossia meno universali sono i principŒ de' più universali (3). Quali dunque sono i principŒ degli enti, universali o singolari? (4). Tale in sostanza è la difficoltà che Aristotele chiama « « difficilissima di tutte e insieme necessarissima » » [...OMISSIS...] (5): egli la presenta sotto molti aspetti, e la fa comparire come questioni diverse (6); ma in nessun luogo ne dà una chiara e diretta soluzione: convien raccogliere a fatica quella sentenza ch' egli avrà probabilmente insegnata apertamente nella scuola. Noi non dubitiamo, che sia quella che abbiamo già data, e che ripeteremo in altre parole. Ci sono delle cose che si predicano d' altre, e queste devono avere un subietto di cui si predicano, e che egli stesso non si predica. Il subietto e il predicato sono relativi, e l' uno non istà senza l' altro, onde suppongono una composizione di materia, - subietto - e di forma - predicato - (1). Parliamo delle sole forme o essenze sostanziali, alle quali le accidentali si riducono (2). Le forme o essenze sostanziali, oltre essere nella natura, esistono anche separate nella mente. Le forme dunque si possono considerare sotto due rispetti: 1 in se stesse, pure da materia, e sotto questo aspetto ciascuna è perfettamente una ; e 2 o congiunte nella materia, nel quale aspetto una sola forma veste più materie, ed essa è da Aristotele rassomigliata al maschio che feconda più femine (3). Stabilisce dunque Aristotele l' unità dell' essenza sostanziale , giacchè essendo essa puro essere, e l' essere essendo indiviso dall' uno, anch' essa è una, e singolare in se stessa e pienamente determinata (specie piena?) (4). Ed è così che l' uomo intende, perchè c' è l' uno in più enti naturali (5), cioè la specie sostanziale che è una e singolare e che rimane nell' anima fornita di mente, in occasione della sensazione (6). Onde a questa specie attribuisce ad un tempo d' esser uno , e d' esser universale. [...OMISSIS...] Ma s' osservi attentamente, che Aristotele usa, senz' accorgersi, in due significati diversi «to katholu:» poichè talora lo considera manifestamente come un predicato , e allora dice, che non può esistere separatamente, perchè suppone un subietto; talora poi lo considera come quell' essenza sostanziale che, essendo una, è causa a più cose di essere, e di essere uno (1), e a questa concede l' esistere separata (2). In tal caso non è più il predicato d' un altro subietto, ma è l' essere della cosa stessa. Tutte le altre cose accidentali si predicano di questa specie sostanziale, e sotto questo aspetto, ella diventa subietto, ma ella stessa si predica della materia (3), e sotto questo aspetto ella stessa diventa predicato, e predicato universale, perchè si può predicare di più materie, rimanendo ella una ed identica. Ma la materia non esiste se non per lei e però non è un subietto indipendente da lei: ella dunque è antecedente al subietto materia, e in quant' è antecedente non è predicato, perchè il predicato è relativo e contemporaneo ed anzi posteriore al subietto (4). Sotto questi diversi aspetti, ne' quali si può riguardare la specie sostanziale, disputa lungamente e ritorna spesso Aristotele, opponendo ragioni a ragioni, e non venendo mai a una netta e del tutto esplicita conclusione. Del rimanente, la conclusione si è che Aristotele tiene costantemente divise le specie , sparse nella natura, dalla specie massima divisa da essa totalmente: eterne quelle e questa, ma quelle dipendenti da questa, perchè poste in atto dall' appetito insito nella materia o potenza, che costituisce la natura e s' avvicina a quella, ma imperfettamente (1). Essendo le specie che sono sparse nella natura determinate, distinte ab eterno, inconfusibili, esse formano come una serie, e non hanno altra unità se non quella del numero (2). Ora, come ciascun numero ha unità, perchè si concepisce come contenuto nell' uno; così le diverse specie della natura hanno unità, perchè contenute nella specie massima, cioè nell' essere, che è una. Infatti non esisterebbe un numero se non fosse concepito come uno, non fosse informato dall' unità: così le specie non avrebbero nè continuazione nè unità, se tutte non fossero contenute nell' essere. E poichè la mente in senso obiettivo è l' essere, perciò Aristotele or dice della mente suprema che forma la continuità e l' unità delle cose e de' tempi, ora lo stesso dice della mente nell' uomo (3). E quest' è la ragione, per la quale Aristotele ora parla d' un principio solo, e or tosto appresso converte il discorso di singolare in plurale parlando di più principŒ (4). La ragione si è che «he de noesis, ta noemata» l' intellezione, essendo una, è insieme obiettivamente molti intelligibili, come un numero è uno ed è insieme molte unità, [...OMISSIS...] e lo stesso che dell' intellezione, che è l' atto, è a dir della mente che è la potenza, [...OMISSIS...] . Se dunque considera l' essere come contenente, Aristotele parla d' un principio solo, se considera l' essere come contenuto, ne parla come fosse più principŒ. E` ancora l' uno formale de' Pitagorici e di Platone. Ancora i principŒ, dice, sono i medesimi secondo la loro ragione «he to ana logon». Questa ragione comune è la contenente, l' essere in cui tutti si risolvono. Di che procede che dove si trova l' uno, ivi si trovi il primo, e dove il primo ivi anche l' universale. Infatti ne' soli enti della natura non si trova il primo universale, [...OMISSIS...] (5). E veramente essendo gli enti in numero finito, il comune che è in essi, è comune bensì a quel numero di enti esistenti, ma non è universale , estendendosi questa parola a un numero infinito d' individui. Quindi a ragione Aristotele ne cerca il fondamento nell' Essere supremo. [...OMISSIS...] . Fa dipendere dunque l' esistenza dell' universale dall' esistenza del primo ente. Non basta dunque per Aristotele, acciocchè ci sia l' universale, che colla mente s' astraggano le specie dalla natura: questo fa anche il matematico; ma le entità che ne cava non sono separabili e indipendenti dalla materia, e però non danno il vero e puro universale, nè costituir possono una scienza universale (2). La scienza universale dee trattare « « dell' ente come ente, e della quiddità, e degli universali inesistenti nell' ente come ente » », [...OMISSIS...] (3). Secondo Aristotele adunque l' universale si riduce all' essere come essere, e l' essere come essere non esiste separato nella natura, ma esistono delle specie unite alla materia, le quali non sono universali, se non sono contenute nell' essere. Questo deve esister dunque come causa suprema separata dalla natura, e come cosa divina. E qui di novo si alterna in Aristotele il discorso in singolare e il discorso in plurale per la ragione detta. [...OMISSIS...] . Ma tra le cause eterne quella che è separata e di tutte le altre più divina è la finale (5), e la causa finale ultima e separata è il Bene, ossia il Dio supremo. La prima filosofia dunque, che è universale e tratta degli universali altrettanto che la dialettica (6), ma più profondamente, tratta specialmente di Dio e del Bene (7), e perciò si chiama teologia. Per trovare dunque il fondo della dottrina aristotelica, conviene investigare com' egli assegni alla filosofia prima, quale unico oggetto: 1 il trattare del supremo essere, certamente singolare, essendo attualissimo, senz' alcuna potenzialità, e quindi incapace di essere in modi diversi; 2 e il trattare dell' universale . Come Dio e l' universale sono unico oggetto? Ecco quello che Aristotele non dice che oscuramente, e dove sta pure il nodo della dottrina. Quante sono le essenze, dice, tante sono le parti della filosofia (1). L' essenza di cui tratta la filosofia prima, è l' immobile e separata dalla natura. Ma d' altra parte, l' oggetto di questa filosofia è l' essere come essere. Dunque l' essere come essere è quell' essenza immobile e perfetta a cui appartiene il nome di Dio. Ma anche le specie ossia i generi delle cose naturali sono essere, [...OMISSIS...] . La filosofia dunque tratta d' un' essenza che contiene le specie, come il circolo contiene il poligono, e però tratta anche delle specie e de' generi diversi, e de' contrarŒ e delle negazioni, non per parti, come fanno le scienze speciali, ma in quanto sono essere. [...OMISSIS...] La filosofia prima dunque è scienza universale, perchè tratta dell' essere non solo in quanto è essenza sussistente, ma in quanto è universale. Laonde riferendo le opinioni intorno a quella scienza a cui s' appartiene il nome di sapienza, le assegna questi caratteri: 1 che in essa si conoscano in qualche modo tutte le cose; 2 e le più difficili; 3 e le più certe; 4 e che con essa si possa conoscere ed assegnare le cause; 5 e che sia tale che si cerchi per sè stessa, cioè unicamente per saperla, e non per altro. Ora questi cinque caratteri si riscontrano nella scienza che tratta dell' universalissimo che è l' essere come essere. [...OMISSIS...] ; dove esclude manifestamente dalla scienza più sublime il conoscimento degli enti singolari, riponendola nel conoscimento di quell' universale che tutti li contiene. [...OMISSIS...] . E continua a provare che in quegli che sa l' universalissimo o gli universalissimi si riscontrano anche gli altri quattro caratteri del sapiente: [...OMISSIS...] . Si osservi su questo luogo importante, che dalla prima e suprema scienza vengono sempre esclusi i subietti, e certamente vuol dire la materia considerata come subietto degli enti naturali. Per aver questa scienza, non fa bisogno conoscere i singolari enti numericamente distinti in natura, [...OMISSIS...] . I subietti materiali non si conoscono per se stessi, ma quello che li fa conoscere è l' universale oggetto della prima scienza, [...OMISSIS...] . In fatti, esclusa la materia, non ci rimane che la specie pura, che è già un universale, in quanto essendo unica può unirsi a più materie, e così esser causa formale di più enti distinti numericamente. Ma questa scienza suprema non si ferma a questo primo universale, bensì va agli ultimi che sono l' ente e l' uno, ond' ha per oggetto, «ta malista katholu», e questi Aristotele li dice i più rimoti da' sensi, [...OMISSIS...] . Ora questi universalissimi e da' sensi remotissimi, che si riducono all' essere, sono ciò che è massimamente scibile, [...OMISSIS...] . Ora ciò che è massimamente scibile non riceve l' essere scibile da altri, ma è per sè scibile; e in ciascun genere, secondo Aristotele, ciò che è massimo è quello che dà agli altri della propria natura. Così ciò che è massimamente scibile, dà all' altre cose scibili l' essere scibili; ciò che è scibile per sè, dà all' altre cose scibili d' esser scibili per partecipazione. [...OMISSIS...] . L' universalissimo dunque, cioè quello che è massimamente scibile e remotissimo da' sensi, deve esser conosciuto dall' uomo prima, acciocchè questi possa poi raccogliere da' sensi la scienza sua propria per induzione, e quello perciò è la mente in atto, [...OMISSIS...] (1). Di poi l' universalissimo o gli universalissimi che sono ciò che è scibile al sommo grado, è anche quello che contiene « « i primi che cadano nel pensiero e le cause » », [...OMISSIS...] . Certamente conviene anche qui lasciar da parte la causa materiale, perchè non merita nè pure a vero dire la denominazione di causa, avendo ella stessa bisogno d' una causa per esistere, cioè della forma, e non essendo essere, ma solamente una cotal potenza all' essere. Riguardo all' altre tre, se la specie è la causa prima e immediata degli enti naturali (2), l' universalissimo sarà la causa ultima di quest' ordine, la specie di tutte le specie, il che ci ricaccia alla dottrina di Platone, che l' uno sia la forma o causa formale delle specie. Ma in quest' universalissimo la cui scienza è chiamata da Aristotele «theia ton epistemon» e «ton theion», e «theiotate kai timiotate», c' è anche il Bene, la causa finale, e propriamente tra le cause finali l' ultima, [...OMISSIS...] . Ora questa è anche l' ultima causa motrice, [...OMISSIS...] (3), e questa immobile, appunto perchè è l' intelligibile per sè, e appetibile perchè intelligibile, [...OMISSIS...] (4). Ora questa è l' una delle tre essenze sostanziali ammesse da Aristotele, l' essenza sostanziale immobile, [...OMISSIS...] (5). Se dunque tutto ciò è l' universale anzi l' universalissimo; convien dire, che Aristotele prenda indubitatamente in altro senso l' universale, quando dice che « « nessuno degli universali esiste separato dai singolari » » (6), e che gli universali non sono essenze sostanziali, e non indicano essere, ma semplicemente modo di essere (7). Parmi che i luoghi frequenti in cui s' esprime in questo modo, e rifiuta le idee separate di Platone, abbian fatto gabbo ai commentatori, e impedito che s' intendesse pienamente la sentenza aristotelica. E` dunque da osservare attentamente, che Aristotele prende qui l' universale in senso di qualità comune agli enti, e nega che ciò che è comune agli enti possa essere la loro essenza, e nega questo per la stessa ragione, anche de' comunissimi, l' ente e l' uno, [...OMISSIS...] . Non nega dunque che l' essenza, oltre che inesistere nell' ente (composto [...OMISSIS...] ) di cui ella è essenza, esista anche in sè stessa: anzi questa è la costante dottrina ch' egli professa: [...OMISSIS...] . E per essenze incomposte [...OMISSIS...] intende tutte le specie, separate che sieno dalla materia, le quali sono puro ente, ente determinato. Ma quest' esistenza separata che dà all' essenza, questo inesistere in sè stessa, intende che sia soltanto nella mente umana, e che una sola essenza esista al tutto separata e da sè, e questa, come dicevamo, è la stessa mente. Accorda dunque a Platone che la specie esista eternamente in atto, ma solo nell' ente di cui è specie unita colla materia, e nella mente umana come incomposta. Ma gli nega, che questa sia ù una, ed è quella che dà l' unità alla materia; considerata poi nelle cose in ciascuna di esse è unica di nuovo. Ma il pensiero, paragonando queste cose tra loro, trova il comune : quest' è una vista del pensiero, e non è cosa che appartenga nè all' essenza separata, nè all' essenza propria de' singoli enti dov' è unita con materie diverse. Nè si può dire tampoco che la specie separata, e la specie negli enti sia una specie comune (il che condurrebbe all' infinito), perchè la specie separata è anteriore, e la specie negli enti è posteriore, e tra l' anteriore e il posteriore non c' è il comune: questo non essendoci che tra gli uguali. E veramente egli stabilisce, che comune non si può dire, se non ciò che si trova simultaneamente ne' molti (1). Ma l' uno , a ragion d' esempio, si dice bensì dei molti, ma non simultaneamente (2), perchè si concepisce l' essenza dell' uno anteriormente ai molti, e dei molti si predica posteriormente: ora tra ciò che è anteriore e ciò che è posteriore non c' è il comune, secondo Aristotele (3). Conchiude dunque « « esser cosa evidente che niuno degli universali esiste separato fuori de' singolari » » (4), pigliando la parola « universale » per comune . Egli dichiara ancor meglio il suo pensiero con quello che dice immediatamente in appresso: [...OMISSIS...] . Ammette dunque che la specie abbia un' esistenza separata, come un' essenza determinata, ma ciò che trova a riprendere nel sistema platonico si è d' aver fatto che questa essenza, che in quanto è separata è un individuo, ella stessa si trovi in molti, quando solamente si trova in ciascuno. Che cosa dunque sostituisce per ispiegare la partecipazione della specie a molte materie? Sostituisce la priorità e la posteriorità, e abolisce il comune. Dice, che la specie ha un' esistenza anteriore e così è una e individua; ha un' esistenza posteriore e così è ancora una e individua in ciascuna materia che la riceve; che la specie non ha dunque un' esistenza comune , e che questo comune non è che una relazione che aggiunge il pensiero. Vuole dunque, che l' essenza sostanziale rimanga sempre singolare o che si consideri in se stessa (esistente nella mente), o che si consideri negli enti che ella informa: vuole di più che l' uno o l' altro modo di essere appartenga alla stessa singolare essenza (1), e riprende Platone, come se avesse detto, esserci per ogni ente della natura due essenze, l' una separata ed eterna, l' altra sensibile che esiste per partecipazione di quella prima, poichè « « un' essenza non può comporsi di più essenze » » (2). Riconosce non di meno con Platone stesso la necessità, che indipendentemente da ogni materia, e quindi fuori della natura, esistano delle essenze sostanziali. Ma riprende Platone per aver confuse queste essenze separate dalla natura con quelle che sono nella natura, ed eterne colla natura stessa (3). Platone non conobbe, viene a dire, quali sieno le essenze separate al tutto dalla natura, e non potendo dire quali sono, prese gli enti della natura, e aggiungendovi il vocabolo stesso , per esempio dicendo: « « l' uomo stesso, il cavallo stesso » » [...OMISSIS...] , pretese così d' aver trovato l' essenza eterna, separata dalla natura, dell' uomo e del cavallo (4). Aristotele si dà tutta la cura di distinguere interamente le specie che sono nella natura e da questa passano nella mente umana, dalle specie che stanno fuori della stessa natura, intorno alle quali vuole che si faccia un discorso a parte (1). Queste essenze dunque separate dalla natura sono quelle che dice lontanissime da' sensi, per sè stesse i primi e più intelligibili, nelle quali è immedesimata la scienza e la cosa. Esse non vengono in composizione con alcuna cosa della natura, non sono le specie degli enti naturali (2), sono perfettamente singolari, esistono in atto, e non avendo potenza non si possono concepire con modi diversi, non ammettono contrari. In se stesse considerate adunque nega che tali essenze sieno universali . I principŒ supremi del ragionamento appartengono a queste essenze. Tra le quali ce n' è una ultima perfettissima che è il principio immobile del moto, e la causa finale di tutte le cose naturali. Tutte le cose tendendo all' atto tendono all' ultimo atto, che è pure il fine, ottimo e remoto, del loro movimento. Da quest' unità di tendenza nascono le loro qualità comuni ; ma anteriormente a queste c' è la radice materiale delle cose propria di ciascuna, distinta e contrapposta al fine ultimo, e di questa radice materiale non c' è una ragione comune (3). La prima causa dunque non è propriamente l' essere comune ; ma questo deriva dalla prima causa; e in questo senso anche questa causa dicesi universale . Di che la prima filosofia, appunto perchè tratta del primo, dice Aristotele, è anche universale, [...OMISSIS...] . Fa dunque dipendere l' universale dal primo , e dice che questo è l' ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] (6). Quest' è semplice, attualissimo, non ammette contrarŒ, perchè non ha potenza di sorte: questo non costituisce propriamente le specie degli enti naturali, ma bensì il loro comune principio, di cui dice: « « C' è negli esistenti un certo principio, circa il quale non si può mentire » » (1). Ma la parola ente , che talora si prende per essenza sostanziale , che sola è davvero ente, secondo Aristotele, si adopera anche come un predicato universale accomunato a tutte le categorie. Quando dunque Aristotele combatte que' filosofi, che usano dell' ente e dell' uno come generi (2), allora egli s' appiglia a questo secondo e più esteso significato, e mostra che l' ente e l' uno non possono esser generi , perchè si predicano delle stesse differenze (3). Dice ancora, che se l' ente e l' uno fossero essenze sostanziali, tutti gli enti sarebbero essenze sostanziali, e non ci sarebbero gli accidentali, raccolti nelle nove categorie susseguenti alla sostanza, laddove «hekaston de to genos on» (4). Ma quando per ente intende la sola essenza sostanziale, allora l' ammette separato, ed anche universale. E della scienza, che tratta di esso, cioè della prima filosofia dice: « « La scienza è da per tutto propriamente del primo , e da cui dipendono l' altre cose, e per cui si dicono » » (5). Poichè dunque la prima scienza è dell' ente come ente, deve trattare del primo ente. Che se questo è la « « sostanza, conviene per certo che il filosofo abbia i principŒ e le cause delle sostanze » » (6). Ora il principio e la causa, secondo Aristotele, deve poter avere un' esistenza separabile (1), e così tra le essenze sostanziali ce ne deve essere una prima che sia al maggior grado essenza sostanziale, alla quale le altre sieno posteriori, come la cosa di cui il principio è principio, al principio, e la scienza di quella deve essere anteriore alla scienza di quest' altre (2). Ma questa prima essenza sostanziale, priva d' ogni materia, è conseguentemente il primo intelligibile. E quantunque ogni specie sia anche numericamente una, tuttavia la sua unità dicesi specifica (3), e quest' unità della specie è l' uno primo causa o principio, pel quale le essenze sono uno, il che è pur la dottrina di Platone (4). La prima essenza sostanziale dunque, una di specie, è anche separabile. [...OMISSIS...] Quello che è puro ente è appunto una causa che ha questi caratteri, perchè egli è anteriore ai contrari, e però non può aver contrari in sè, se è puro ente, non essendovi nulla fuori dell' ente (6). La prima essenza sostanziale dunque, separata e principio e causa di tutte le altre essenze sostanziali, è il puro ente, eterno, incorruttibile. Ma l' ente essendo uno di specie ne viene che egli, oltre esistere numericamente uno e primo e senza contrarŒ in se stesso, possa anche, senza perdere l' unità di specie, esistere nella materia, secondo che questa ha virtù di riceverne: e così accade che sia principio delle essenze sostanziali nella natura, e che si divida in generi (7), benchè egli in sè, puro d' ogni materia, non sia genere. E però la prima scienza, dice, tratta anche de' generi dell' ente, con tutte le sue differenze e contrarietà, che li costituiscono, in quanto tutte queste cose si derivano e si riportano al primo ente (1). E però il filosofo tratta di tutte le cose in relazione all' ente come ente, tratta cioè dell' ente, e di tutte le sue passioni (2). Dopo aver dunque detto che la prima filosofia tratta della prima essenza sostanziale separata e però principio e causa che non ha nè può avere in sè contrarŒ; domanda come questa si può trovare da noi, per qual via si può arrivarci, considerando sì la natura, che la cognizione nostra propria che ci formiamo per via d' induzione. [...OMISSIS...] Dal qual luogo mi sembra poter raccogliere che il progresso della ragione umana, col qual giunge alla prima causa, sia questo, secondo Aristotele: la ragione raccogliendo per induzione il comune perviene al comunissimo : quest' è l' essere svestito delle differenze: da questo salendo ancora, intende la necessità che ci sia l' Essere separato al tutto, prima causa dell' essere nelle cose; e ciò perchè essendo l' essere comune ci vuole un' unica causa che spieghi questa comunanza od universalità: convenendo ricorrere al primo uno, per ispiegare l' uno ne' più. Di qui assegna per oggetto della prima filosofia non solo l' essere separato, ma l' essere comune: [...OMISSIS...] . E dopo aver detto che tutto ciò che si riferisce al genere medicativo o salutare spetta alla medicina, continua dicendo, che in egual modo ciò che si riduce all' ente come ente spetta alla prima filosofia. [...OMISSIS...] La ragione poi, per la quale Aristotele dice, che il pensiero umano concepisce che esista fuori de' singolari un principio unicamente, perchè trova che c' è qualche cosa d' universale che si predica di tutte le cose, si è primieramente quella di Platone, che l' universale non può essere ne' singolari, perchè eccede da ciascuno e da tutti. Di poi perchè nell' universale si rinviene il necessario . [...OMISSIS...] . E ciò perchè l' universale abbraccia in potenza tutti i contrarŒ: onde se una cosa è in qualunque sia modo, deve di necessità essere, acciocchè abbia quel modo (4). [...OMISSIS...] . E così la prima necessità è una causa che rende necessarie l' altre cose che non sono tali per sè. [...OMISSIS...] , Tali sono i primi, [...OMISSIS...] , cioè l' ente e l' uno universalissimi da cui viene la dimostrazione (6). Questi universalissimi dunque non possono essere altramente in più modi o diversamente da quel che sono (7): non hanno dunque in sè stessi potenza alcuna. Quando dunque in altri luoghi dice che l' universale è sempre potenza, l' intende in altro modo e non intende l' universale in sè: nè intende i primi universali: ma intende l' universale delle cose finite : i generi delle cose finite, e non l' ente e l' uno, benchè li chiami primi generi. Ma altrove nega che sieno generi, ed è quando pone la questione diversamente, benchè non si spieghi chiaro: dico quando intende di domandare: « se l' ente e l' uno sieno generi delle essenze naturali ». Alla questione così posta risponde di no: chè non sono divisibili in ispecie: stantechè il genere che si divide in ispecie non si predica delle loro differenze, e l' ente e l' uno si predicano delle differenze: ma si dividono bensì in generi, cioè nelle dieci categorie, o piuttosto l' ente e l' uno esistono ne' vari generi come di conseguenza, [...OMISSIS...] (1). Poichè Aristotele distingue l' essere per sè, e il sussistere dell' essere, e aver l' essere, [...OMISSIS...] , e questo non è senza materia, benchè l' essere per sè sia da ogni materia purissimo (2). Il primo necessario adunque giace nel semplice ed universalissimo: questi sono i primi che tutti si riducono ad un primissimo, l' essere , il quale è il primo tra le cose scibili e verissimo, da cui procede all' altre cose l' essere scibili e l' essere vere; e questo essendo separato da ogni materia è intelligibile e intellezione ad un tempo: atto purissimo, causa finale, verso a cui tutti gli enti mondiali sono portati per un loro proprio impeto, [...OMISSIS...] , in tutt' essi insito per natura (3): questo è l' Essere necessario, il principio da cui pende il cielo e la terra (4), Iddio. Questo è il principio di tutte le cause, [...OMISSIS...] (5), e unisce in sè tutti i caratteri del principio, essendo egli il primo , pel quale o sono, o si generano, o si conoscono le cose (6). In quanto sono, egli è la forma delle forme, perchè Mente, [...OMISSIS...] (1): in quanto si generano, egli è il principio immobile del moto, perchè atto purissimo: in quanto si conoscono, egli è il primo intelligibile, da cui i principŒ del ragionamento, e quindi stesso il principio dell' Arte: dall' essere poi intelligibile procede che sia anche la causa finale, il desiderato dalle intelligenze, l' ottimo, il fine dell' Universo. Dopo di ciò s' intende come, secondo la mente d' Aristotele, convenga rispondere alla difficoltà che egli fa incessantemente intorno al definire il proprio oggetto della prima filosofia. Questa, dice, deve trattare indubitatamente de' principŒ e delle cause. Ma questi principŒ sono essi singolari o universali? [...OMISSIS...] Ci ha dunque da amendue i lati difficoltà: ci ha difficoltà ugualmente a dire che i principŒ sieno singolari, come a dire che sieno universali. Aristotele scioglie questo nodo al modo che vedemmo: riconosce tutto ciò, che è privo di materia, come un' essenza o specie singolare ed una, e, se trattasi della specie prima, come esistente di necessità separata, [...OMISSIS...] , poichè il primo necessario semplicemente è, [...OMISSIS...] (3). Ma questo che in sè stesso è attualissimo e non ha modi nè possibilità di contrari; se si considera rispetto alla natura e nella natura, non è nessuno degli enti naturali, ma è tutti gli enti naturali in potenza. Poichè « « l' universale, dice, è un certo tutto; comprendendo l' universale i molti come parti »(4) »: e quindi la prima filosofia appunto perchè ha per oggetto il primo e il comunissimo, tratta di tutte le cose, [...OMISSIS...] . Il Primo dunque cioè l' essere attualissimo in sè, è anche comunissimo rispetto al mondo, e però è la potenzialità del mondo, che esiste per questo, che gli atti, a cui questa potenzialità trapassa naturalmente, sono variamente limitati e non sciolti al tutto dalla stessa potenzialità, onde le specie mondiali: per il che l' essere intransmutabile (e veramente anche nel mondo l' essere è incorruttibile, e intransmutabile), è detto da Aristotele «pan,» e questo è il divino del mondo, [...OMISSIS...] (1). Ma sebbene l' essere comunissimo sia la causa e il principio formalissimo di tutti gli enti naturali, non è la loro essenza sostanziale, o la loro quiddità, che in tal caso sarebbero tutti un ente solo, perchè l' essere comunissimo è un solo, nè è separabile dagli enti naturali, non potendo esistere separato come comune (2), ma soltanto come singolare. Lo stesso essere dunque, uno di specie (3) perchè specie, è considerato da Aristotele sotto due riguardi o come atto purissimo o come potenza. Come atto purissimo è il primo ente, Dio. Come potenza è l' essere comunissimo, non sostanza, e non separato dalla natura (4). Ora ciò che è in atto e ciò che è in potenza, dice Aristotele, appartiene allo stesso genere. Ogni scienza ha per suo oggetto un genere. La filosofia prima dunque ha per oggetto l' ente come ente, sia questo considerato in atto o in potenza. Tratta dunque di Dio e dell' essere comunissimo: e riducendosi all' essere come essere tutte le cause, c' è una scienza sola di tutte le cause non meno nell' ordine della mente, cioè nell' ordine logico, che nell' ordine fisico cioè nell' ordine della natura (1). Non ho fatto menzione fin qui del frammento che ci rimane della « Metafisica » di Teofrasto, coll' intenzione di darne qui in fine un breve sunto. Per quanto a noi pare, il discepolo non s' è scostato molto dal suo maestro, e ci sembra piuttosto un compendiatore e un interprete d' Aristotele, che un filosofo che abbia voluto stabilire un' altra dottrina. In questo prezioso frammento sono proposte le principali questioni, ed esposte le difficoltà per scioglierle: ma la soluzione di esse o manca, o è indicata appena in poche e non sempre chiare parole: nel che pure non va lontano dalla maniera nella quale sono scritti i « Metafisici » aristotelici. Comincia da quelli che al modo d' Aristotele chiama «ta prota». Dice che, secondo la sentenza d' alcuni, i primi non possono esser raggiunti da' sensi, sono intelligibili, diversi da ciò che è nella natura perchè immobili e immutabili. Laonde la teoria di questi è la più eccellente e maggiore. Ciò posto, espone per ordine le diverse questioni intorno ai primi , alle quali si riduce quella che Aristotele chiama prima filosofia. Ripassiamole brevemente. Comincia da questa questione: « Se gl' intelligibili abbiano un certo consenso e quasi una società colle cose della natura, o no ». Quest' è in fatti la questione di tutte principale e difficile, il poter conoscere ed assegnare il nesso tra il mondo e i primi , tra la natura reale e l' ideale: a questa principalmente si volse la greca filosofia: noi abbiamo veduto quanto Aristotele vi si travagliò. Da diversi luoghi dello Stagirita si raccoglie che tra i migliori filosofi, cioè tra quelli che ammettevano la mente, c' era dissensione circa la soluzione da darsi: due erano le sentenze principali, quella d' Anassagora e quella di Platone: e tra queste prendeva il suo posto Aristotele. Anassagora aveva unita la mente alla natura, Platone separò al tutto dalla natura le idee delle cose naturali, come essenze da sè esistenti. Aristotele concesse a Platone che ci sia una specie separata, la mente; negò che le specie intelligibili delle cose, benchè eterne e semplici, esistessero separate e da sè, ma solo unite perpetuamente colla materia e costituenti la natura. Del pari concesse ad Anassagora che la mente fosse nella natura, perchè c' erano le specie intelligibili, una delle quali si costituiva da sè, e diveniva mente umana; ma negò contro di lui che altra mente non esistesse, e pose la mente divina o più menti divine separate dalla natura e da ogni contagione con essa. Disse poi che il nesso tra questa mente separata e la natura consisteva nell' esser ella sostanza per priorità, e per posteriorità così chiamarsi la mente umana e tutte l' altre essenze sostanziali. Al che sembra conforme la risposta che soggiunge Teofrasto alla proposta questione: [...OMISSIS...] Ammessa dunque l' esistenza eterna de' primi intelligibili e la loro società colla natura, viene la seconda questione: « « Qual sia la natura di questi intelligibili » ». Fa qui menzione di due sentenze, l' una che ammette essere i detti intelligibili nelle sole entità matematiche, che sono punti, linee, figure, ecc.: l' altra essere il numero, che alcuni, dice, fecero « « il primo e al sommo principale » ». E trova l' una e l' altra insostenibile, perchè tali cose non presentano sufficiente cognazione co' sensibili, che valgano a darne spiegazione, non potendo somministrare a' sensibili nè la vita, nè il movimento. Di che conchiude che convien ricorrere « « a un' altra essenza antecedente e più prestante » » lasciando però in dubbio « « s' ella sia una di numero o di specie o di genere » », dove si vede la perpetua esitazione aristotelica, di cui abbiamo fatto menzione. Riconosce però che quella essenza, sebbene esistente in più subietti, deve esistere avanti tutto in un primo . Così pure Aristotele che pone il divino negli enti naturali, e in certe essenze o menti separate, ma primieramente nella Mente suprema principio del moto, principio unico di numero, ma specie egli stesso. Ecco come Teofrasto compendia questa dottrina: [...OMISSIS...] . E venendo a indicare la connessione di questo principio coi sensibili, la trova nell' essere esso causa di moto, ma causa immobile, onde esige un altro, che, desiderando quello, si mova il primo, e questo è il primo motore naturale - il primo Cielo. [...OMISSIS...] Qui propone diverse questioni sul natural desiderio che move da prima i cieli: e dice che il primo movimento è massimamente quello del pensiero, da cui l' appetito: domanda perchè solamente quelli che si movono in giro siano mossi da questo desiderio, e non le cose mobili che occupano la parte media del mondo. Domanda se questo avvenga per impotenza del primo, che non può trapassare, e dice che sarebbe assurdo: e pare lo attribuisca all' esser quel primo incomprensibile alle nature inferiori e non composto, quando queste sono composte; in una parola « « all' impotenza che hanno queste di ricever di più » ». Domanda in appresso se i principŒ sieno informi e indeterminati, ovvero già finiti e aventi la forma, come dice, si insegna nel « Timeo ». E inclinando a questa seconda sentenza soggiunge: « « Poichè l' ordine, e il finimento sono al sommo familiari alle cose eccellentissime » ». Ma oltre le sentenze di quelli che reputano tutti i principŒ essere formali, e di quelli che ammettono solamente principŒ materiali, Teofrasto accenna la terza di quelli che vogliono essercene degli uni e degli altri, e « « in amendue asseriscono consistere la perfezione, facendosi ogni sostanza dai contrari » ». Ma che ci sieno dei principŒ materiali pare non doversi ammettere; poichè se il cielo e l' altre cose sono determinate con ordine, ragione, forme, forze, e circuiti: come non ci sarà nulla di tutto ciò ne' principŒ? Conviene d' altra parte che ci sieno nella natura le specie, acciocchè si possano ridurre le cose naturali alla prima causa, in grazia di cui esse operano. Reca quindi la questione: « Se i principŒ sieno in moto o in quiete »: e mostra che colla quiete può stare un' azione immanente, e questa come cosa più onorabile appartiene a' principŒ, non il movimento che è de' sensibili: dice finalmente riferirsi da taluno il movimento « alla mente e a Dio »come primo motore. Cercando poi come si divida l' ente in materia e forma, dice, che questo accade per la natura dell' ente che è uno in potenza ed in atto, e di qui anche la ragione, perchè l' universo consti di contrari, e gli enti differiscano tra loro. Le differenze si riscontrano nello stesso sapere umano: gli universali, altri sono specie, altri generi. « « Ciò che diciamo propriamente appartenere alla scienza è d' intuire il medesimo ne' molti, o secondo un rispetto universale e comune, o secondo una qualche cosa singolare. - Il fine poi da entrambi questi rispetti. Ci sono anche alcune cose che sono fine degli universali: poichè qui sta la causa » ». E dice che il medesimo è medesimo o di essenza sostanziale, o di numero, o di specie, o di genere, o d' analogia: e questi sono altrettanti modi o generi di sapere, ciascuno de' quali ha qualche cosa di principale e di massimo : e questo c' è ne' primi , negli intelligibili , ne' mobili : da questo principio adunque in ciascun genere si dee discendere colla specolazione alle cose inferiori. Il che ben dimostra come il sistema aristotelico difficilmente possa ridursi all' unità di un solo principio: ond' anche gli scappano molte cose, che prive d' ogni ragione rimangono abbandonate al caso, a cui Teofrasto, fedele al suo maestro, ne lascia una gran parte. Confessa ingenuamente trovare cosa molto difficile il definire, che cosa sia lo stesso sapere: gli universali sembrano non bastare perchè si predicano in molti modi: i sensibili non costituiscono alcun sapere senza gli universali. Come e di quali cose investigare le cause tanto de' sensibili quanto degl' intelligibili, o conduce al dubbio o involge in un discorso assai oscuro. Certo tanto rispetto agli uni quanto rispetto agli altri nella ricerca delle cause non si può andare all' infinito: lo stesso sensibile e lo stesso intelligibile è come un principio: l' uno principio nostro, l' altro principio assolutamente, ovvero questo fine , quello a noi principio . Vuole dunque che per noi sia principio il sensibile, ma quello che è principio assolutamente e che è anche fine sia l' intelligibile. Pare dunque che queste due cose le divida assolutamente tra loro, assegni loro due principŒ irreducibili. Nello stesso tempo però riconosce che non possiamo partire da' sensibili per arrivare ai principŒ assoluti se non per mezzo della causa . Non è dunque da' soli sensi che noi caviamo la cognizione, ma dee precedere la cognizione della causa, e con questa, come mezzo del conoscere, possiamo da' sensibili ascendere ai primi : il che conferma quello che noi abbiamo osservato dell' induzione aristotelica, che suppone, acciocchè possa aver luogo, un intelligibile primo abitualmente esistente nell' anima. E` dunque notabile questo luogo di Teofrasto: [...OMISSIS...] . Ancora due altre sentenze di Aristotele si possono confermare con questo prezioso frammento del suo discepolo: l' una che le forme della natura non si potrebbero spiegare senza supporre l' esistenza di Dio, l' altra che esse vengono da Dio come desiderato, come fine a cui si slancia la natura, il quale slancio è appunto la forma di cui ciascun ente naturale si veste.

Principio supremo della metodica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ed ella è appunto questa mirabile connessione del senso e dell' intendimento, che riesce sommamente difficile a intendersi a molti, ond' avviene, che rifiutino la nostra filosofia, perchè non pervengono a superare questa non piccola difficoltà. Desidereremmo assai, che costoro meditassero molto sull' unità e identità del soggetto sensitivo e intellettivo; compresa la quale, ogni difficoltà disparisce. Perocchè colui, che giunge colla sua mente a vedere questa identità, vede ancora incontanente come il soggetto (lo spirito umano) possa trovare nel senso la determinazione di di quell' ente che vede e afferma coll' intendimento. Ma di queste cose abbiamo parlato altrove e non dobbiamo ripeterci di continuo. Quello adunque, che l' intendimento percepisce nella prima sua e più imperfetta percezione di un oggetto, si è l' azione, che un ente diverso dal soggetto fa nel soggetto, ma nulla più; non pensa al modo di quest' azione, che vien fatta nel senso; e rimanendo questo modo fuori dell' attenzione intellettiva, rimane pur fuori della cognizione dell' oggetto ogni sua qualità o proprietà speciale. Il soggetto sa solamente, che ci è un ente agente, e sente , ma non sa , come agisca. Ben avviene più tardi, che il soggetto stimolato da' suoi bisogni vien ponendo la sua attenzione non pur sull' ente agente, ma sul modo ancora col quale agisce; ed è allora che egli perfeziona la percezione sua dell' ente, la quale diventa gradatamente più positiva. In fatti è dall' osservazione sul modo , onde un ente agisce sopra di noi e dagli effetti, che egli in noi produce, che noi veniamo rilevando le sue proprietà e qualità e tutta la sua condizione. Or questo appunto è il travaglio successivo dello spirito. Qui comincia quell' arte di osservare, che uscendo dalla culla del bambino si fa gigante nello spirito di un Galileo, e rivela ogni dì all' uomo novi segreti della natura. Questa è la prima maniera, onde cresce la percezione; cresce e si perfeziona a misura, che l' attenzione dello spirito si applica a tutte le parti delle sensazioni e tutte l' una dopo l' altra le trasporta, per così dire, dal senso nell' intendimento: voglio dire tutte, l' una dopo l' altra, le percepisce intellettivamente, le afferma distintamente con questa parola interiore. Ma l' attenzione intellettiva dopo di ciò non può osservare, se non ciò che il senso le porge. Ecco un' altra sua limitazione: ecco la seconda maniera di progresso, che è dato alla percezione: questa acquista un campo sempre maggiore, quanto maggiori sono le sensazioni, che le presentano la materia, ossia il termine della sua operazione. E l' oggetto percepito dal bambino la prima volta gli si varia d' innanzi al percepirlo, ch' egli fa altre e altre volte. Cioè, sebbene il bambino percepisca sempre quell' oggetto agente su di sè e producentevi la sensazione, tuttavia nol percepisce agente allo stesso modo nè allo stesso grado, nol percepisce producente la sola prima sensazione, ma altra e altre successivamente. Da principio adunque percepisce una semplice forza, che gli produce, poniamo, una data sensazione, per esempio, al tocco della mano; ma poi egli soffre molte e molte sensazioni, che gli discoprono molte azioni venienti da degli agenti da sè; diversi da sè; e poi anche infine trova (mediante l' identità dello spazio (1)) che tutte quelle sensazioni gli vengono da un agente unico, o che egli prende per unico, cioè da un corpo. Così da principio egli colle sensazioni del tatto, dell' odorato, dell' udito e del gusto percepirà altrettante forze e perciò enti diversi; ma ben presto egli verrà poscia accorgendosi e persuadendosi, che tutti quegli enti non sono, che un corpo solo, da cui tutte quelle azioni diverse su lui promanano, e così perfezionerà la sua percezione di quel corpo. Successivamente egli farà anche un altro lavoro col suo spirito, cioè metterà in armonia la vista col tatto. Da prima colla vista non percepirà se non un oggetto solo, una forza sola; conciossiachè tutti gli oggetti veduti sono insieme nel suo occhio, formanti una sola tavola variopinta. Ma ben presto mediante l' esercizio del tatto e dell' occhio associati imparerà a prendere i diversi colori, che nel suo spirito gli si presentano, siccome segni di soggetti distinti, non superficiali, ma solidi: e così viene a percepire coll' occhio, mediante un giudizio, i corpi esteriori. Le percezioni de' corpi esteriori adunque, che costituiscono il primo ordine d' intellezioni, si compiono mediante le seguenti operazioni dello spirito: 1 Lo spirito a ciascuna sensazione s' avvede dell' esistenza d' un agente, oggetto alla contemplazione dell' anima, nel che sta l' essenza della percezione intellettiva. 2 Lo spirito unisce molte sensazioni de' quattro sensi, il tatto, l' odorato, il gusto e l' udito, delle quali ciascuna separatamente l' avevano fatto accorto dell' esistenza d' un agente, in modo che già le attribuisce a un agente solo, comune fonte di esse: così percepisce il corpo, cioè si forma l' idea comune del corpo. 3 Lo spirito distingue nella sensazione unica della vista i diversi colori, che impara a riconoscere per segni di quei corpi stessi tattili, a cui già imparò a riferire molte sensazioni di diversi sensi. Questi sono lavori distinti dello spirito, ma il loro effetto è sempre la percezione intellettiva e perciò non costituiscono diversi ordini d' intellezioni, ma un ordine solo, il primo: è sempre la percezione stessa che lo spirito in tutti questi lavori ripete e migliora (1). Ma lo spirito rimanendosi dentro la sfera del primo ordine d' intellezioni fa ancora diversi altri lavori. E veramente la memoria imaginaria, che rimane nello spirito o si riproduce, delle sensazioni avute, non si può dire che appartenga a un altro ordine d' intellezioni, perchè non varia l' oggetto, il termine, la materia dell' operazione, ma solamente varia la potenza dello spirito operante intorno alla stessa materia. Poichè la percezione, di cui io mi ricordo o che in me riproduco coll' imaginazione, è sempre la stessa quanto al conoscere: io conosco con queste operazioni l' identico oggetto della mente, e non un altro. Parimenti l' associarsi di più percezioni, o memorie imaginarie di percezioni, è un lavoro, che non eccede il primo ordine d' intellezioni, quando trattasi d' una associazione di semplice coesistenza nello spirito, senza che l' intendimento operi alcuna analisi o sintesi tra esse. In terzo luogo gl' istinti e in generale tutta l' attività spontanea, che già si mette in moto nello spirito in conseguenza delle percezioni e delle loro memorie e imaginarie riproduzioni, sono operazioni, che non eccedono ancora i confini del primo ordine d' intellezioni, del primo stadio, in cui si trova l' umana intelligenza. In quarto luogo appartengono a questo stesso stadio ancora le idee specifiche piene, ma imperfette (1). Intendiamo per idee specifiche7piene7imperfette le cose stesse da noi percepite, considerate meramente come possibili, senza aggiungervi il pensiero della loro reale sussistenza. Se io ho percepito una melagrana, mi resta poi la memoria della mia percezione. La memoria della melagrana da me ieri veduta, toccata, assaporata, percepita intellettivamente è più che una semplice idea di essa; perocchè l' oggetto del mio pensiero non è semplicemente l' imagine di quella melagrana considerata come un tipo, una possibilità di melagrane; ma è quell' imagine riferita alla melagrana di ieri, è l' imagine propria di essa; io con quella memoria non penso solo all' imagine, ma penso alla cosa reale. Ma se io dimenticassi interamente la melagrana di ieri, e tuttavia contemplassi nella mia fantasia un' imagine di melagrana, imagine rimastami dalla percezione avutane, ma che io non riferisco più alla percezione, perocchè suppongo essermene del tutto dimenticato; in tal caso la imagine, che io contemplo col mio intendimento, non fa che rappresentarmi una melagrana possibile, non questa o quella, non alcuna melagrana reale. Or l' oggetto di un tal pensiero, che io fo, è un idea, che io chiamo specifica piena7imperfetta. Io chiamo quest' idea specifica , perchè non è legata ad alcun individuo reale, ma è tipo d' infiniti individui possibili: ella determina dunque una classe o specie d' individui. Chiamo quell' idea specifica7piena , perchè io suppongo, che ella conservi tutte le qualità, anche accidentali, della melagrana da me altre volte percepite, sicchè ella non è un' idea astratta, ma una idea che rappresenta individui forniti di tutte le loro particolarità. Finalmente chiamo quell' idea specifica7piena7imperfetta , perchè quel tipo non mi rappresenta la melagrana perfettissima, ma una melagrana, qual era quella che io ho percepita con tutti i suoi difetti o imperfezioni, che avesse potuto avere. Il passaggio, che fa l' intendimento dalla percezione all' idea specifica7piena7imperfetta, chiamasi universalizzazione . Questo passaggio è facilissimo; perocchè sono le percezioni atti dello spirito passaggeri, e però, tosto che l' oggetto vien sottratto al senso esterno, la percezione cessa. Nondimeno ella anche cessando lascia nello spirito umano due vestigi o effetti di sè: l' imagine della cosa percepita, la quale può essere suscitata nel senso nostro fantastico o da noi stessi o da accidente straniero, e la memoria della percezione avuta. I quali due effetti della percezione sono per se diversi, e quantunque fin a tanto che coesistono nello spirito si possa facilmente prender l' una per l' altra, tuttavia al cessar della memoria rimanendo l' imagine, o al cessar della imagine la memoria, o all' illanguidirsi dell' una più che dell' altra, si trovano nello spirito tra se separate. Molto più si separano e si distinguono, quando il fanciullo riceve delle altre percezioni della cosa stessa; perocchè allora l' imagine è la medesima, quando all' opposto ogni percezione ha la sua memoria distinta. Ancora, se il fanciullo riceve percezioni d' altre cose, ma similissime, come sarebbe d' altri aranci non distinguibili tra di loro se non per molta attenzione sulle piccole differenze, di cui il fanciullo nel primo tempo non cura, le memorie tuttavia si moltiplicano, e l' imagine è sempre una sola, alla quale si riscontrano gli oggetti. Per le quali cose facilissimamente avviene, che l' imagine nello spirito si distingua dalle memorie delle percezioni avute, nel quale stato di distinzione ella si fa tosto fondamento all' idea specifica piena imperfetta di cui parliamo, perocchè lo spirito vede incontanente e naturalmente nell' imagine da lui posseduta il ritratto d' una cosa non sussistente, ma possibile. Riassumendo adunque, alle intellezioni del primo ordine appartengono le percezioni, le memorie delle percezioni (le imagini da sè sole prese non sono intellezioni, ma sensazioni interiori), le idee specifiche imperfette aventi per base l' imagine, le associazioni varie di percezioni e memorie e idee specifiche imperfette, e finalmente gl' istinti e operazioni volontarie, che conseguono quel primo grado di sviluppo intellettivo. Il quale sviluppo intellettivo, quando poi comincia nel bambino? Non vi ha forse un istante di vita, nel quale il bambino non abbia delle sensazioni accidentali almeno interne (1), sensazioni che cominciano fin nell' utero materno? Ora s' accompagna egli l' operazione dell' intendimento a tutte le sensazioni, anche alle prime? Inclino a credere di no. Già dissi che le sensazioni semplici non traggono a sè l' attività dell' intendimento; la sensazione, che finisce in sè, è acquetamento piuttosto che suscitamento di nova attività. Quelle sole eccitano l' attenzione intellettiva, nel seno delle quali sorge il sentimento d' un bisogno , certo d' un bisogno d' altre sensazioni. Vero è che questi bisogni fisici, che eccitano l' attività intellettiva del bambino, devono sorgere assai presto, e con essi l' inquietudine e il tentativo di soddisfarli, il quale durerà anche esso qualche tempo prima di riuscire all' intento di chiamare in aiuto l' intelligenza, e io congetturo, che il momento nel quale l' intelligenza si apre alle sue operazioni sia segnato dal primo riso del fanciullo (1). Con questa ineffabile espressione della sua gioia, egli pare, che il bambino saluti l' alba del giorno, che a lui traluce. L' anima sua ragionevole rallegrasi della verità, che ritrova, e a se stringe quasi di slancio. Ah che il primo atto dell' intendimento deve pur essere all' anima umana un grande istante, un istante solenne, il sentimento d' una nova vita ed immensa, la scoperta della propria immortalità! E` egli possibile, che un avvenimento sì stupendo e sì repente nel bambino (quantunque l' adulto non possa formarsene alcuna idea) non si manifesti al di fuori con segni di esuberante letizia? Avete dunque ragione voi, o madri, che aspettate con sì gran desiderio, che provocate, che accogliete con sì gran tremito dei vostri visceri il primo sorridere dei vostri figliuoli. Ah! voi sole siete le interpreti veritiere di quella prima parola infantile, che in forma di riso si espande sulle labbra, e negli occhi, e in tutto il volto di quel piccolo essere intelligente; voi sole ne intendete il mistero; intendete che egli da quell' ora vi conosce, e vi parla; e voi, il primo oggetto dell' intelligenza umana, sapete voi sole rispondere a quel linguaggio d' amore, e rendervi, quasi direi, imagini e tipo della verità, che è intelligibile, e che luce per sè medesima (2). Laonde ammettendo questa conghiettura ne verrebbe che fino dalla prima infanzia del bambino dovrebbe distinguersi due età ben definite. I L' età dello sviluppo meramente sensitivo, che comincia dal primo esistere, e II L' età del primo grado di sviluppo intellettivo, che comincia dal primo riso del fanciullo. Nella prima età come non vi sono nel fanciullo che sentimenti e bisogni animali, così non vi è che un' attività animale (1). Quest' attività parte è congenita nell' animale, e io gli ho dato nome di istinto vitale nell' Opera che ho pubblicato col titolo d' « Antropologia », a cui mi convien rimettere il lettore, che abbia vaghezza di conoscere più addentro questa materia. Ivi anche vedrà come dall' istinto vitale nasca l' istinto sensuale , altro ramo dell' animale attività, di cui noi qui parliamo. Sarebbe difficile il definire se le prime operazioni dell' istinto sensuale comincino nell' utero materno, o appena che l' animale si trova al contatto dell' atmosfera, o qualche tempo dopo (1). Sembra per altro che forse il primo eccitamento a esercitare l' istinto sensuale nasca dal bisogno di nutrirsi (2). La respirazione, questa interna e lenta combustione, che comincia a farsi in lui appena uscito alla luce, consuma l' ossigeno e il carbonio, di cui ha bisogno il suo sangue; di che nasce in lui il bisogno di ripararne le perdite col cibo. Parimente le continue perdite che fa il suo corpo mediante la traspirazione, e altre separazioni, gli producono il bisogno di nutrizione. Il movimento de' labbri, co' quali egli s' attacca al seno materno, è dunque uno de' primi atti del suo istinto sensuale (3). L' istinto sensuale adunque ne' primi suoi atti è mosso dal dolore , anzichè tirato dal piacere, prendendo la parola dolore per ogni specie di molestia, per ogni penoso bisogno. I bisogni penosi rimangono sempre, anche in appresso, stimoli efficacissimi alle operazioni dell' istinto sensuale; ma ben presto questo istinto non è più nel suo primitivo stato; riceve delle modificazioni dalle esperienze che fa; chè, come ho già osservato (1), l' operare di una qualsiasi facoltà dell' uomo, oltre gli atti passaggeri, produce sempre dopo di essi un effetto stabile nell' uomo, uno stato e condizione nova, specialmente della facoltà usata. L' istinto sensuale adunque, che nel primo suo apparire non è mosso che dal dolore, ben tosto viene attratto anche dal piacere; il piacere diventa per lui un bisogno. Dopo dunque che il bambino si procacciò delle sensazioni coll' occasione di soddisfare ai più penosi suoi bisogni, e che trovò queste piacevoli (giacchè la natura benefica aggiunse per sopra più il piacere al soddisfacimento dei bisogni), cerca delle sensazioni per due motivi, per evitare la pena, e anche unicamente per godere. Da questi fonti nasce quel bisogno di sentire che accompagna poi l' uomo per tutta la sua vita, e che divien sì vario, potente e ben anco capriccioso e sregolato. Io ho già accennato che non poco sospetto, che vi abbia una comunicazione tra le anime stesse mediante le sensazioni. Questo sarebbe un fatto degno da verificarsi meglio colle più accurate osservazioni. In tanto mi sia lecito dir di più, sempre in via di conghiettura, che io inclino anche a credere, che non solo il soggetto insieme colle sensazioni, che riceve da una persona, provi un sentimento, che è effetto immediato dell' anima intelligente, che opera nelle sensazioni cagionate, ma che una simile comunicazione avvenga pure tra l' anime meramente sensitive. Quando il gatto giovanetto gioca colla pallottola di carta, o colla fettuccia appesa, io stento a credere, ch' egli vi cerchi solo il mutare delle sue sensazioni materiali, ma anzi sospetto, che egli istintivamente vi cerchi qualche cosa di animale, di vivo, di cosa che si muova da sè; e che egli invecchiando non gioca più, disingannato, perchè oggimai ha imparato a distinguere meglio ciò che è animato da ciò che è inanimato. Mad. Necker fa a questo proposito un' assai fina osservazione sui bambini: ella rende ragione appunto del perchè i bambini s' annoiino dei loro giocarelli, dicendo, che ciò nasce quando hanno esauriti tutti i nuovi aspetti e abbattimenti; giacchè fino che trovano casi nuovi par loro di vedere un moto spontaneo, un' anima nelle cose materiali; ma quando non possono cavar più niente di nuovo, allora la cosa a' lor occhi è morta, e non ha più niuno interesse (1). A questa stessa tendenza verso le cose animate si deve forse attribuire l' attrazione, che esercitano sopra certi animali le cose brillanti: dell' allodola dicesi, che s' appressa allo specchio, dell' usignuolo a tutto ciò che luce, e le gazze si sa che hanno l' istinto di rubare e di nascondere i gioielli (2). Ma lasciando questi ed altrettali fatti, nei quali gli animali s' ingannano nell' aspettar di trovare un animale in ciò che si muove, o che dà delle cangianti sensazioni, egli è indubitato, che vi ha tra gli animali della stessa specie una tutto speciale domestichezza somiglievole all' amicizia. Quanto piacer non provano a giocolar tra loro i cagnolini, i gatti, ecc.? Molti animali vi sono a mandre, a truppe, quasi famiglie e tribù e popoli. Tutto ciò che riguarda la convivenza per cagione della generazione e l' allevamento de' figliuoli pare, che supponga questo principio della comunicazione delle anime. Intanto si può mettere tra i fatti al tutto certi, che le sensazioni, che gli animali si cagionano tra loro, sono tali sensazioni, quali non possono avere da nessuno degli oggetti inanimati. L' affezione che i genitori di tutte le specie mostrano pei loro nati, è un istinto, che troverebbe facilmente la sua spiegazione nella supposizione, che ho avanzata. Una certa affinità sensuale si trova ben anche tra animali di specie diversa: il cane, il cavallo, l' elefante, ecc., prendono fra di loro una scambievole affezione: all' uomo poi si legano con stretti vincoli di domestichezza e fedele servitù molti animali. Al principio stesso di un' azione secreta, scambievole delle anime convien forse attribuire anche le avversioni, e inimicizie di certi animali verso cert' altri, come del gatto verso il topo, ecc.. Or poi data questa comunicazione delle anime sensitive, ella deve aver luogo anche nel fanciullo; ma non penso che ella giochi prima della comunicazione dell' anima intellettiva: nel primo riso adunque parmi, che l' una e l' altra incominci. Un altro principio d' operare appartenente alla sola animalità (benchè un somigliante principio si trovi poi anche nell' ordine dell' intelligenza) si è quello dell' imitazione. Noi crediamo d' averne data sufficiente spiegazione (1). Solo qui aggiungeremo, che i sentimenti animastici (2) rendono ancora più facile e chiara la data spiegazione: l' un' anima sente la sua compagna in un dato stato, a ragion d' esempio in quello di gioia (3): dalla naturale benevolenza nasce la simpatia, cioè il comporsi ai medesimi sentimenti: dalla simpatia l' istinto d' imitazione . La simpatia in tal caso è la operazione passiva, l' imitazione la sua attiva corrispondente. Fra i piaceri, che prova l' animale, e di cui ben presto diviene avido, ci ha quello dell' agire . L' attività porta molti speciali piaceri fisici, giacchè il solo acceleramento della circolazione sanguigna accresce la vita e il suo sentimento. Ma oltre i parziali piaceri fisici, che tengono dietro all' azione conveniente, vi ha un piacere inerente all' azione stessa; perocchè a chi più opera, par di più vivere. Laonde il piacere d' agire nasce e cresce dall' esperienza fino a un certo grado nell' animale, e diviene alle occasioni uno dei principii de' suoi movimenti. Finalmente anche le potenze animali si vestono dell' abitudine . La natura fisica è piena di ordine, ma quest' ordine stesso subisce alcune modificazioni in conseguenza delle abitudini. L' abitudine oltre di ciò facilita certe operazioni e le rende più piacevoli a chi le fa; rende per conseguenza più molesta l' interruzione o la privazione di esse; quindi nascono de' gusti e degli istinti d' abitudine, che in questa maniera diviene nell' animale e nell' infante un nuovo principio di attività. Riassumendo adunque quelle attività del fanciullo, che appartengono all' ordine dell' animalità, esse sono le seguenti: 1 l' istinto nascente dal bisogno di evitare uno stato doloroso; questo è l' istinto nel suo stato primitivo (1); 2 l' istinto nascente dal bisogno di sentire semplicemente e di godere sensazioni piacevoli; 3 l' istinto verso le cose animate, onde si genera la simpatia ; 4 l' istinto d' imitazione nascente dalla simpatia; 5 l' istinto e bisogno di agire semplicemente pel piacere, che trova nell' esercitare le sue forze; 6 l' abitudine. Nella seconda età l' intelligenza comincia il suo movimento: le percezioni e le idee imaginali si formano: e quindi una nuova attività si deve sviluppare: perocchè da ogni passività, l' abbiam detto tante volte, nasce nell' uomo un' attività: dall' intendere dunque deve scaturire un' attività razionale, il moto della volontà. Il primo moto della volontà consiste in quelle volizioni, che abbiamo dette affettive (2), in cui il soggetto sensitivo e volitivo vuole l' oggetto percepito senz' averlo giudicato bono, ma solamente per averlo sentito piacevole: volizioni misteriose e altrettanto difficili a ben intendersi, quanto è difficile la percezione intellettiva. Ma quantunque sappiamo, che pochi sieno quelli, che si formino un chiaro concetto di questa maniera di volizioni, e molti quelli, che sono presti a negarcene l' esistenza; tuttavia noi siamo costretti ad ammetterle appellando a que' pochi, che meditando penetreranno la natura di quelle volizioni, e della loro verace esistenza non dubiteranno. Ora si osservi, che coll' apparire l' attività intellettuale non cessa l' attività sensuale, ma lo sviluppo del fanciullo si complica, e si rende assai più difficile a descriversi per la mutua influenza delle operazioni sensuali e intellettive e per la moltiplicità de' loro atti. Ciò non ostante dobbiamo tentare una breve descrizione di ciò, che avviene nell' uomo in questa sua seconda età. Nell' età prima le prime sensazioni furono di cose inanimate e solamente più tardi ebbe il bambino i sentimenti animastici, di cui abbiamo parlato. Ma nella seconda età, in cui si mette in movimento l' intelligenza avviene l' opposto: il primo passo della facoltà conoscitiva sembra quello, come abbiamo detto, che reca l' uomo a percepire cose animate: percepisce l' anima della madre sul suo volto, e tosto simigliantemente nell' altre cose tutte cerca la vita e l' anima: di maniera che è da credere, che ben tardi il bambino giunga a persuadersi a pieno di questa gran maraviglia, che esistano degli enti inanimati (1). Ora come le sensazioni animastiche producono di lor natura nel bambino l' affezione fisica , e quindi la simpatia; così le percezioni animastiche eccitano immediatamente la benevolenza , che è già una volizione affettiva abituale ed incipiente. Infatti la benevolenza, questo affetto razionale, non si può concepire se non si suppone un essere animato, verso cui si eserciti: perocchè tutto ciò che è inanimato, se veramente lo concepiamo per tale e non associamo al suo concetto imaginariamente qualche elemento di vita, ci può ben essere caro per l' utilità, ma non possiamo amarlo o avergli quell' affetto, che benevolenza si chiama. Ora il bambino pieno di affetto e di benevolenza la trasfonde per così dire verso tutte le cose, e questo è nuova prova di ciò, che dicevamo parere a lui le cose tutte vive e intelligenti. Quando la fanciullina slanciatasi al collo della madre, dopo averla baciata con mille carezze se ne parte e va a baciare e carezzare la tavola o la scranna, ella non accarezza certo questi esseri come inanimati, ma più tosto versa in essi per così dire quell' affetto che ha verso alle cose animate senza fermarsi a considerare che quelle animate non sono. Sì, l' amore della creatura senziente e ragionevole suppone per la sua essenza un oggetto pure senziente e ragionevole, sia questo vero o creduto tale. Ecco quali sieno le prime volizioni affettive. E come la natura pose prima l' affezione sensitiva qual disposizione e principio dell' affezione intellettiva che sola è vero amore; così a fine di disporre l' affezione sensitiva pose nel tenero fanciullo una fisica giocondità degli organi riboccanti di vita, e colmi, per così dire, di piacere, quale disposizione acconcissima all' affezione sensitiva. Laonde tutto si lega e dà mano al mirabilissimo congegno della creatura umana. L' anima sensitiva già piena di dolcezza è convenevolmente disposta a ben sentire un' altra anima pure sensitiva ed affezionarvisi, nell' uomo quella naturale affezione è tosto ritrovata dalla volontà, la quale se ne compiace, e vi genera quasi in proprio nido l' amore, fonte d' altra gioia razionale, che alla primitiva animale si mesce, e con dolce circolo via meglio dispone l' uomo ad affezionarsi e ad amare (1). Certo a questi primi albori dell' intelligenza umana non v' ha nell' uomo nè merito, nè libertà, nè coscienza. Ma chi, attentamente considerando, potrà disconoscere, che vi ha già una moralità? Che cosa è la moralità se non l' atto o l' atteggiamento di una volontà intelligente verso degli esseri pure intelligenti? Se la volontà dà il suo affetto a questi esseri, cioè li ama quanto essi esigono, ella è certamente buona; ma se piglia verso ad essi un contegno di avversione e di odio, ella è cattiva. Le osservazioni adunque sulla naturale benevolenza de' bambini confermano quanto ho affermato nel « Trattato della Coscienza » sull' esistenza d' una moralità anteriore alla coscienza, come pure le teorie ivi esposte illuminano mirabilmente quanto si ritrae dal diligente osservare ciò che avviene nell' età prime. Ma vi ha di più. All' età propria delle volizioni affettive si può assegnare lo spazio di sei mesi. Dopo questa età sembra che nasca un vero giudizio sulla bontà delle cose, il quale dà luogo incontanente alle volizioni apprezzative (1). Egli è difficile a conoscere quando il fanciullo pronunzi un vero giudizio interno trattandosi di cose piacevoli fisicamente ai suoi sensi, perchè essendogli questo piacere comunicato dai sensi stessi, non vi ha necessità d' una operazione dell' intendimento per metterlo in atto. Ma trattandosi di un diletto che nasce da una cosa intesa, egli è uopo che intervenga un' operazione dello intelletto, acciocchè quel diletto si manifesti. Ora dopo sei o sette mesi si rileva già nel fanciullo l' ammirazione verso le cose belle , e però indubitatamente il suo intelletto apprezza le cose in sè, e la sua volontà dietro a un tale apprezzamento fa delle volizioni che apprezzative nominiamo. In questo caso fa una nuova comparsa la moralità , e propriamente qui comincia la stima pratica degli oggetti distinta dalla percezione verso di essi; mentre nelle volizioni affettive la stima pratica era colla prima percezione immedesimata (2). Qui splende anche il disinteresse, che accompagna sempre una stima pratica, che ha per suo regolo la giustizia. Ma veggiamo tutto ciò ne' fatti, e chi ce li raccoglie e testimonia sia la benemerita autrice dell' « Educazione progressiva » che abbiamo più volte citata, e a cui molte altre volte ricorreremo per attignervi e osservazioni diligenti e riflessioni assennate. [...OMISSIS...] Il Cristianesimo accoglie tra le sue braccia amorose il bambino, che entra in questo mondo, e chiude pietosamente gli occhi suoi, quando ne esce. Consolanti non meno che saluberrimi dogmi della Chiesa Cattolica sono i seguenti: 1 GESU` Cristo salva gli uomini mediante una occulta potenza, che esercita sul loro spirito, e che lo ammigliora, la quale si chiama grazia ; 2 Questa grazia fu annessa a certi riti esteriori, di cui è depositaria la Chiesa Cattolica, i quali si chiamano Sacramenti ; 3 Il primo di questi Sacramenti è il battesimo, nel quale l' uomo viene rigenerato , cioè riceve il principio d' una vita morale d' un ordine superiore o sia soprannaturale; 4 La Chiesa Cattolica, oltre la potestà di amministrare questi Sacramenti, ha quella altresì di benedire cose e persone, aggiungendo Dio alle benedizioni della Chiesa le benedizioni proprie, cioè delle grazie e dei favori; 5 La Chiesa prega ne' suoi membri, quando questi in comunione colla Chiesa pregano secondo lo spirito della Chiesa, e tali orazioni sono efficaci; 6 Dio ascolta sempre le preghiere ed accoglie le offerte fatte dagli uomini di buona volontà. Posti questi preziosi dogmi, ne viene, che, se il bambino nelle due prime età non è ancora atto a fare da sè atti di religione, è però ufficio de' suoi genitori il fare molti atti religiosi per lui, derivando da Dio al loro fanciullo, già rinato col battesimo, grazie sempre maggiori, valendosi de' beneficii ed aiuti lasciati agli uomini in terra dal Salvatore. La Religione adunque previene il fanciullo, fa per lui molto, prima che egli possa far nulla per essa. Felici i genitori ricchi di fede! Felice il bambino che cotali gli ha sortiti! Comunemente si crede, che il fanciullo abbia una volontà debole, come la sua natura fisica, e che coll' età si fortifichi l' uso della sua propria volontà. Questa opinione nasce, perchè si considera l' uso libero della volontà, il quale manca da prima interamente nel fanciullo, e quando ha in lui avuto cominciamento esso va stendendosi a gradi: sicchè la libertà sottomette o può sottomettere al suo impero un circolo ognor maggiore di cose. All' incontro nel bambino la volontà opera spontaneamente ed è di questi atti spontanei della volontà, che noi diciamo essere essi più forti, cioè più decisi ed abbandonati nel fanciullo, che in uomo già sviluppato. [...OMISSIS...] Noi non possiamo misurare il grado d' intensità de' piaceri e de' voleri del bambino, perchè la misura di ciò, che proviamo, è la nostra coscienza, la quale non è formata nel bambino; e ci riesce estremamente difficile l' intendere quel misterioso stato di un essere, nel quale vi sia dolore e piacere e niuno conoscimento, niuna coscienza di essi. Pure tale è il modo di essere delle bestie, e molte volte è anco il modo d' essere del sentimento umano (2). Le ragioni poi ond' è che i sentimenti, le volizioni affettive de' bambini sono caldissimi e impetuosissimi, sono due: la prima si è, che gli oggetti di tali volizioni sono semplici, onde la volontà tutta con quanto ha di forza si butta in essi. Già ho osservato, che di natura sua la volontà è infinitamente suscettiva e mobile: or di più aggiungo, che è di una grandissima violenza fornita ove le sue forze non sieno divise e distratte in più oggetti, e questi la tirino a movimenti contrarŒ in modo, che si collidano. Questo dà ancora ragione del perchè la plebe si muova di più impeto che le persone coltivate: massimamente i sentimenti dei contadini, quando pur insorgono in essi, li ho osservati oltremodo forti, o siano essi dolorosi, ovvero aggradevoli. Lo stesso carattere di volizioni decise e calde si manifesta ne' popoli antichi: è in essi vita, entusiasmo, passione appunto alla similitudine de' fanciulli. La seconda ragione della vivezza degli affetti e volizioni fanciullesche si è, che elle si portano immediatamente nell' oggetto percepito; quando gli adulti concepiscono gli oggetti astrattamente e fanno, per così dire, passare l' atto della volontà per una lunga serie di idee generali prima, che pervenga a coglier l' oggetto. Ma mi riserbo altrove lo sviluppare questa ragione degna di essere meditata. Vero è che i sentimenti e le volizioni prime ed ardenti, che dimostrano i bambini, sono facilmente rimutabili nelle contrarie: ma questo non prova, che non sieno vivaci; prova solo, che son celeri, e che la natura de' loro oggetti, per lo più tenui e leggeri, non permette loro una durata consistente, come quella che è labile e volubile. Se dunque il sentimento e la volizione del fanciullo ha tanto più d' intensità e di pienezza, quant' è minore lo sviluppo del suo intendimento, volendo allora il fanciullo con tutto se stesso, tutto il nerbo del suo volere applicando a pochi e semplicissimi oggetti; egli è manifesto, che le madri debbono cavar profitto di questa condizione dell' animo infantile, occupandosi nelle prime età assai più di educare il sentimento e la volontà che la ragione. Conviene dunque fare in modo che l' animo del bambino si empisca per tempo di quella benevolenza, alla quale è sì felicemente formato da natura. Questa benevolenza, quest' affetto universale nasce, come ho toccato, in seno alla giocondità e alla gioia, che si convien mantenere il più che si può nell' animo del bambolino (1). La qual gioia poi non dee essere procellosa, ma calma, abituale e serena. Il conservare la serenità nel fanciullo non giova solamente a formare il suo animo alla dolcezza ed alla benevolenza; ma ben ancora ai progressi del suo intendimento; il quale non può fare le sue operazioni in modo ben ordinato e perfetto, se non si trovi in uno stato sereno e tranquillo, in cui solo il fanciullo può raccogliere la sua attenzione. Il qual documento è tanto più rilevante, quanto più facilmente il fanciullo è soggetto alla distrazione cioè alla mobilità estrema de' suoi organi, de' suoi sentimenti e de' suoi pensieri. Ottimamente osserva M. Necker, [...OMISSIS...] . Le maraviglie della forza unitiva nell' animale, di questo agente che nascendo dall' unità del soggetto produce degli effetti, che emulano quelli della ragione, furono da noi descritte nell' « Antropologia ». Una delle proprietà di questa forza si è quella di far giocare contemporaneamente più potenze nell' animale, passive ed attive, e averne un risultamento unico: tali sono i prodotti dell' istinto di simpatia, di quello d' imitazione e d' altre animali operazioni, nelle quali il moltiplice vedesi ridotto ad unità, l' esteso ad una mirabile semplicità: quindi tutto ciò che sente ed opera l' animale in ciascun istante è mirabilmente ordinato: egli sente ed opera moltissime cose, che per lui sono una cosa sola. Or egli è vero che anche le operazioni dell' intendimento umano ricevono dall' unità perfetta del soggetto sensitivo7intellettivo una loro unità: egli è vero che la forza unitiva domina non meno nell' ordine del senso che in quello dell' intelligenza; anzi ella di questi due ordini ne fa un solo, appunto perchè è forza di un soggetto, nel quale il sentire e l' intendere ugualmente hanno la loro origine. Ma tra quelle operazioni dell' animale e queste dell' intelligente vi ha una gran differenza: quelle avendo l' unità soggettiva hanno tutto ciò che possono avere: queste all' incontro esigono di più un' unità oggettiva , nè senza questa si possono dire ordinate ed unite. La ragione di questa differenza si è che l' ordine animale non si riferisce ad alcun oggetto, e quando le operazioni sono unificate, tutto è unificato. Ma l' ordine intellettivo non consiste in mere operazioni, ma nel possesso di oggetti non solo estranei al soggetto, ma contrapposti al soggetto. Non basta dunque che le operazioni intellettive sieno unificate: l' unità che si domanda è quella de' loro oggetti; e questi nella seconda età del fanciullo sono del tutto slegati per se stessi; giacchè il fanciullo non pensò ancora i rapporti che hanno fra loro: e da' quali vengono uniti e armonizzati. Questa sembrami una di quelle osservazioni che non si debbono trascurare, perchè possono dare non poco lume a chi dirige l' educazione del bambino. L' importanza sua si vedrà, ove si voglia considerare qual sia l' istruzione che solo si può dare al fanciullo nella sua seconda età, e che corrisponde al primo ordine delle sue intellezioni. Ma prima di trattare di questa così elementare istruzione, giova che osservi qui una volta per sempre, che quand' io cerco la qualità d' istruzione che può darsi al fanciullo rispondente al primo ordine d' intellezioni, non intendo d' affermare, col proporre un tal quesito, che quest' istruzione gli si deva dare solo in quel breve periodo, nel quale le intellezioni di primo ordine da se stesse si sviluppano. Intendo solo di stabilire qual sia quella istruzione che si può dare sicuramente in ogni tempo della vita, perchè non chiede nelle facoltà intellettive che il primo grado di sviluppo. Così si deve pure avvertire degli ordini superiori. L' istruzione di un ordine qualsiasi è sempre opportuna nelle età superiori ed è solo inopportuna nelle età inferiori. Dico dunque che alle intellezioni di primo ordine sconnesse risponde l' osservazione sensibile7esteriore sconnessa anch' essa: osservazione pura senza alcuna giunta di ragionamento. L' istruzione di primo ordine consiste adunque nel fare osservare al fanciullo co' suoi propri sensi gli oggetti esterni, e nel fargliene prendere degli sperimenti . Ecco un grande scopo: seguendo la stessa natura formare del fanciullo un osservatore e uno sperimentatore : dirigere soavemente, costantemente, sagacemente la sua attenzione senza però mai forzarla o contrariarla. E` la natura, che conduce il bambino a osservar tutto, a far prove e sperimenti su tutto; ma tutte queste prove e le percezioni che ne riceve sono tra loro slegate, disordinate. Il primo ufficio dunque dell' arte dell' educare consiste: nel « regolare le osservazioni e gli sperimenti fanciulleschi ». Queste osservazioni e questi sperimenti conducono il fanciullo a percepire e a perfezionare le sue percezioni. La percezione, che dalla natura è stata messa a fondamento di tutta la gran piramide dell' umano sapere, dev' essere anche quella che costituisce il fondamento di tutta l' umana educazione. Ora la percezione, l' abbiamo detto, si perfeziona in ragione del numero delle sensazioni, che l' uomo ha dal medesimo oggetto, della vivezza di queste sensazioni, del loro ordine e della loro associazione, e sopra tutto dell' attenzione, che lo spirito pone alle medesime e nelle più minute parti degli oggetti. Ecco un vasto campo, in cui si dee esercitare il fanciullo, campo che non eccede tuttavia il primo gradino dell' insegnamento. Avendosi già nella sfera dell' animalità qualche cosa di complesso e di legato, la natura, che prepara questa materia così bene ordinata all' intendimento infantile, insegna già all' educatore a far presto quello che dee fare: questi dee imitar la natura. Ma quanta pazienza e quanto senno non esige tutto ciò nell' educatore! Esige, che l' adulto s' inchini a quelle cose che per lui non hanno più interesse, ma che pur ne ripiglieranno un nuovo e grandissimo, s' egli avrà cuore e mente. Questa è la dote, che manca nella maggior parte degli educatori; onde di mal animo s' inducono ad accompagnarsi alle operazioni e sperienze fanciullesche; ed anzi sturbano spesso il fanciullo innocente nel suo lavoro di un placido osservare e sperimentare (perchè a osservare e sperimentare si riducono veramente tutti i giocarelli e movimenti fanciulleschi e il gusto che il fanciullo ne prende): essi non ne intendono la sapienza; e vorrebbero occupare il bambino in altre operazioni proprie di sè adulti, nelle quali essi trovassero pur piacere ed importanza. Al qual proposito molte volte io ho considerato e domandato meco stesso, perchè il divino Maestro non abbia mai nulla ripreso nei bambini, e anzi per così dir tutto lodato, quando alla severità de' savi umani sembra pure quella prima età piena di leggerezza, e vuota di serie occupazioni. Non pare, che tale la giudicasse Gesù Cristo. Anzi egli sembra che questi vedesse nelle esercitazioni fanciullesche tutt' altro che un perditempo, un far nulla; ma più tosto un' attività grandissima del loro intendimento, avido, aspirante a conoscere, ad abbracciarsi col vero, un' avidità, per la quale « « l' anima semplicetta che sa nulla » » e che è pur fatta per sapere, buttasi con impeto sul mondo sensibile, per rapirne ovechessia cognizioni e notizie, incessantemente osservando, e in mille maniere esperimentando questi e quegli oggetti, quanti pe' sensi gli si presentano (1). Convien dunque con una somma pazienza farsi compagno al fanciullo in questo gravissimo e continuo studio dell' innocente sua età; ed aiutarlo in esso regolandolo. Non è mio intendimento di determinar qui quale potrebbe esser l' ordine , nel quale venissero posti sotto i sensi al fanciullo gli oggetti sensibili; mi basta di osservare che è buono studiarsi un ordine, e che da un ordine, e più ancora da un ordine buono posto dalla sapienza dell' educatore nelle percezioni del fanciullo, se n' avrebbe di buone conseguenze, le quali preludessero e accelerassero il suo futuro sviluppo. Toccherò solo d' alcuni avvisi, i quali mi sembrano poter dare buono indirizzo a' savi educatori ed educatrici della prima età del fanciullo. Il primo si è di porre, al possibile, regolarità nella vita del bambino. [...OMISSIS...] Or questa regolarità di vita continua ad essere sommamente vantaggiosa anche nelle seguenti età dell' infanzia. Al fanciulletto convien certamente dare in abbondanza oggetti da vedere, da toccare, da farvi intorno prove, esperimenti, in una parola da percepire, e da percepir sempre meglio. Ora a ciò si scelgano quelli che più attraggono la sua attenzione, cioè gli oggetti che possono soddisfare i suoi bisogni, le sue voglie, dargli piacere: perciocchè son questi gli stimoli della sua attenzione. Ancora gioverà di presentare al fanciullo degli oggetti semplici, regolari e ordinati, facendogli vedere per esempio i sette colori della luce l' uno dopo l' altro, come pure il bianco ed il nero, e ancor meglio i colori armonici, nel succedersi dei quali egli troverà gran piacere (2), facendogli parimente udire i sette suoni, prima da sè l' un dopo l' altro, poi gradatamente ne' loro salti armonici e ne' loro accordi; per trastullarsi poi dandogli de' solidi regolari, alle cui forme e misure proporzionate egli avvezzi l' occhio e la mano, e le si scolpiscano nell' imaginazione, ecc.. Dopo di ciò, ma molto dopo, si potrebbe avvezzare il bambino a più colori, a più suoni, a più figure armonicamente disposte; ma sempre gradatamente, non passando ad un altro gioco, se non quando comincia a mostrar noia del primo. Chi non vede che ricevendo nel suo spirito tante imagini ben ordinate, queste, oltre altri vantaggi, prestar debbano acconcia materia alle sue future riflessioni, e agevolare le operazioni intellettive ch' egli è chiamato a fare in appresso? Senonchè il suo animo stesso ne risentirebbe uno squisito vantaggio morale, conformandosi insensibilmente all' ordine ed educandosi al bello. L' intelligenza del fanciullo si apre col riso che segna il principio della seconda età. Come l' opera della prima età del bambino era quella di svegliarsi alla vita e di trarre in comunicazione i propri sensi cogli stimoli e corpi stranieri al proprio; così l' opera che il bambino dovette compiere nella seconda età, si fu quella, quanto all' ordine sensibile, di mettere in armonia le sensazioni del tatto con quelle della vista, e quanto all' ordine intelligibile di dare il primo movimento all' intendimento, mediante le percezioni e le idee imaginali. Egli non arriva ad apprender interamente l' uso della mano e a regolare i movimenti di essa in conformità delle cose vedute, se non in otto mesi all' incirca; ed ha già quasi un anno, allorquando si fa a ciampicare i primi passi ed a balbutire i primi suoni articolati, che sono segni d' una età nuova che gli spunta insieme col secondo anno di sua esistenza. Gli comincia dunque la terza età col linguaggio: l' apprendimento de' segni delle cose è veramente un nuovo e gran passo dell' umana intelligenza: la prima parola che intende e che pronuncia il fanciullo, è un' epoca importante di tutta la sua vita: di questa età sono proprie le intellezioni di second' ordine. Prima di entrare a parlare di queste, io voglio anche qui avere avvertito che, come l' istruzione che appartiene al primo ordine non dee cessare collo spirare della seconda età, ma continuarsi in progresso; così simigliantemente l' istruzione del second' ordine, benchè propria della terza età, riesce sempre utile, e talora necessaria in tutte le età successive. Quando l' attenzione del fanciullo si volge a contemplare le intellezioni del primo ordine ch' egli s' è già procacciate mediante lo sviluppo della prima età, i pensieri che nascono da questa contemplazione si chiamano intellezioni di second' ordine. Le intellezioni del second' ordine sono i rapporti che passano tra le intellezioni del primo ordine. Ma si noti bene, questi sono i rapporti primi e immediati, non già i rapporti de' rapporti. Per conoscere adunque quali sieno le intellezioni del second' ordine, tutta la difficoltà consiste nel ben distinguere quali sieno i rapporti immediati tra le prime intellezioni, separando questi rapporti da tutti quelli che si trovano da poi tra i rapporti primitivi. Conviene adunque osservare che non tutte le intellezioni, che il fanciullo si procaccia nella terza età, sono intellezioni di second' ordine; perocchè sebbene sia impossibile ch' egli si procacci delle intellezioni proprie delle età avvenire, tuttavia è possibile ch' egli si formi di quelle che appartengono alla età precedente. Ch' egli non possa formarsi delle intellezioni proprie delle età avvenire è tanto chiaro, quanto è chiaro ch' egli non può pensare a que' pensieri ch' egli non ha formati; e quant' è chiaro perciò, che le intellezioni di second' ordine non possano in nessuna maniera aver luogo nel fanciullo, che non ha quelle di prim' ordine; perocchè quelle non sono che il pensiero di queste. Che poi durante la terza età si possa formare delle intellezioni proprie dell' età precedente, ed anzi ch' egli le si formi effettivamente, s' intende, quando si abbia fermato chiaramente questo principio, che « l' attività dell' uomo non si muove se non eccitata da stimoli, e solo in tanto, e non più, in quanto questi hanno la potenza di eccitarla ». Di qui avviene, che di ogni passo dello sviluppo intellettivo si dee cercare una ragion sufficiente non già nella supposta attività interiore del fanciullo, ma in un eccitante esteriore. Io ho dimostrato nell' Ideologia essere un errore quello di alcuni, che imaginano esistere nel bambino una attività atta a fare tutto ciò, a cui si estendono le potenze del bambino. Questi non osservano la natura, ma la inventano. A provare quanto sia gratuita la loro supposizione basta il fatto seguente. Di tutte le potenze che si mettono in movimento nell' infanzia, la più attiva di tutte è quella dell' imaginazione. Se vi potesse esser dunque potenza, a cui dovessimo attribuire un movimento indipendente dagli stimoli, sarebbe fuor di dubbio l' imaginazione. Ora il fatto di cui parlo prova il contrario; cioè dimostra costantemente, che l' imaginazione infantile tanto suscettiva alle impressioni è inetta a inventare da sè stessa. [...OMISSIS...] Ora gli stimoli, che eccitano l' attività intellettiva nella prima età, abbiam detto, che non sono altro che i primi bisogni fisici i quali danno moto a tutta l' attività dell' uomo per averne aiuto a soddisfarsi e però muovere anco a ciò l' attività intellettiva, che fa allora quel primo passo, che solo può fare. Ora poi que' bisogni son pochi e soddisfatti nient' altro esigono; onde quelli non ispingono l' intendimento umano a tutte le percezioni ed idee imaginali ecc., che aver potrebbe, ma solo alle necessarie. A ragion d' esempio il sentimento fondamentale e l' idea dell' essere in universale è una materia all' attenzione intellettiva che non manca mai; e pure l' attenzione intellettiva non si porta su quella materia, quando anzi la meditazione, che l' uomo fa sopra il sentimento fondamentale e sopra l' essere in universale, è delle ultime, e come si suol dire delle più difficili. Onde ciò? Non certo perchè considerate le riflessioni da sè l' una sia più difficile a farsi dell' altra: chè non v' è ragione a dir ciò. Ma l' uom riflette tardissimo a questi oggetti, perchè tardissimo ne ha lo stimolo: niente per lungo tempo a ciò lo muove, niun bisogno ne ha, niun desiderio, e non farà mai operazione alcuna senza ragione sufficiente. Ho già osservato altrove (2) che quando l' uomo riflette sopra le riflessioni precedenti, l' atto del riflettere può cadere sopra due cose diverse, cioè sopra gli oggetti conosciuti colle precedenti riflessioni, o sopra le intellezioni stesse, cioè le operazioni dello spirito. Ogni intellezione adunque presta una doppia materia alle riflessioni susseguenti, gli oggetti conosciuti e gli atti, con cui si sono conosciuti. Ora sebbene questa materia sia data al nostro spirito nello stesso tempo, tuttavia le riflessioni, che fa lo spirito sopra gli oggetti conosciuti, sembrano molto più facili, e si fanno molto prima delle riflessioni dello spirito sopra gli atti, co' quali si sono conosciuti. Insomma lo spirito riflette piuttosto sulle proprie cognizioni, che non sopra se stesso conoscente, e sopra i suoi atti conoscitivi. La ragione di ciò è quella che dicevamo: a lui si presentano più presto e più efficaci gli stimoli, che traggono a riflettere sugli oggetti da lui conosciuti, che non siano gli stimoli che rivolgano la sua attenzione sopra se stesso e i suoi atti. Ora non può toccare la sua perfezione il metodo pedagogico, finattantochè non si avrà diligentemente determinato quali intellezioni competano alle età diverse del fanciullo per cagione, che in quella età sola esse hanno la materia e lo stimolo necessario a produrle; e quali intellezioni parimenti competano alle età diverse, per ragione che in quella sola età esse hanno lo stimolo necessario a produrle, quantunque la materia l' avessero già anche in età precedente. Sono adunque due gli sviluppi delle intellezioni umane. Alcune non si formano prima, perchè prima manca loro la materia . Alcune non si formano prima, perchè manca allo spirito lo stimolo , ond' egli non volge la sua attenzione alla materia, che pur avrebbe, e però non le forma. Quelle, a cui manca la materia , sono del tutto impossibili a formarsi. Quelle, a cui manca lo stimolo , non sono veramente impossibili, ma tuttavia non si formano per l' assenza dello stimolo. Il metodo pedagogico sarà dunque perfetto solo allora che: 1 Non esigerà mai, che il fanciullo faccia delle intellezioni prima d' avergliene dato la materia . 2 Non esigerà mai che il fanciullo faccia delle intellezioni, alle quali gli manca lo stimolo . Le materie vengono date successivamente, e questa successione è quella, che forma gli ordini diversi delle intellezioni. Gli stimoli pure vengono dati successivamente, e sono quelli che rendono possibili in ciascun ordine quelle intellezioni, di cui il fanciullo ha già la materia. Ma già ritorniamo a considerare le intellezioni del second' ordine, e prima dimandiamo quale sia lo stimolo, che muove ad esse l' attenzione umana. Riman dunque ancora ad acquistarsi dall' uomo dopo la prima età un gran numero delle intellezioni del primo ordine, le quali egli acquista nelle età succedenti. Onde molte intellezioni, che nella seconda età si sollevano nella umana mente, sono ancora di quelle di primo ordine. Lo stimolo e l' aiuto, onde l' attività dell' intendimento umano passa a formare le intellezioni del second' ordine, è il linguaggio o vocale o composto d' altri segni quali si vogliano. Conviene attendere alla natura di questo stimolo. Acciocchè l' intendimento umano passasse dalle intellezioni di primo ordine a quelle di second' ordine, non basta mica ch' egli torni a mettere l' attenzione su quelle prime; per quante volte egli pensasse alle intellezioni avute, egli non formerebbe delle intellezioni nuove, ma solo risveglierebbe la memoria delle anteriori; se nuovamente contemplandole non traesse delle altre cognizioni, in una parola, se non venisse a conoscere i rapporti , che hanno tra esse; i quali rapporti non poteva scorgerli nel primo ordine d' intellezioni. Ora il linguaggio, che il fanciullo ode dalla società, fa appunto questo: 1 Muove l' intendimento umano a riflettere sulle prime intellezioni; 2 E riflettendo a cavarne cognizioni nuove, cioè le cognizioni di rapporti, che legano insieme le cose conosciute nel primo ordine, le quali cognizioni de' rapporti sono appunto le intellezioni di second' ordine. Noi dobbiamo vedere brevemente, onde venga al linguaggio tanta efficacia. Convien premettere che vi hanno delle predisposizioni nella natura, che inclina l' uomo a parlare. Tutto ciò, che passa nel sentimento dell' uomo, dà un cotal guizzo agli organi della voce, che porta l' uomo, e l' animale in genere, a mandar fuori istintivamente de' suoni. Ma le cognizioni danno all' uomo de' sentimenti, e le voci, che questi producono, sono quelle, che formano la materia del linguaggio (1). Il produrre adunque dei suoni di seguito alle cognizioni è una necessità naturale, un bisogno per l' uomo, quantunque questi suoni non siano ancora linguaggio, come diceva, ma solo materia al linguaggio. Un' altra predisposizione al linguaggio posta dalla natura nell' uomo si è la simpatia e l' istinto d' imitazione (2), onde egli è inclinato a ripetere i suoni uditi; inclinazione, che in grado minore trovasi pure in molti animali (3). Ripetere però i suoni uditi non è ancora parlare, ma solo eseguire la parte materiale del linguaggio. Una terza predisposizione al linguaggio nasce dallo sviluppo intellettivo, che ebbe il bambino durante il breve tempo della sua seconda età. Sono stati i bisogni fisici, che trassero all' atto, come abbiam veduto, l' intendimento, invocandolo qual ausiliare al soddisfacimento delle loro tendenze. L' intendimento accorse, fece tutto quello, che egli potè, e non potè far di più che percepire, universalizzare (4), e volere le cose percepite. Ora i bisogni continuano, e provocano di continuo l' aiuto dell' intendimento: egli è sempre in atteggiamento di far quanto può in lor soccorso, e può far più di prima. Anco nell' ordine unicamente animale, per la forza sintetica (1), l' uomo cerca d' aiutarsi con tutto ciò, che gli sta da presso, cose e persone, fonti a lui di sensazioni. L' uomo adunque volgendo l' attenzione sua intellettiva a tutte le cose sensibili, che lo circondano, per giovarsene, egli la mette, quest' attenzione, anco al linguaggio che ode, e che non è da principio per lui se non una serie di sensazioni dell' udito. Ma egli ben presto si accorge, che può trarre da questi suoni, uditi e scambiati, dei grandi vantaggi, e farsi ubbidire dalle persone, cioè prestar soccorso: ond' è, ch' egli pone tutta l' attenzione ad apprendere come può usarne per giungere a questo suo fine. In questa maniera il linguaggio diviene nuovo stimolo, occasione ed aiuto all' attenzione intellettiva del bambino. Ma veggiamo quali siano le intellezioni nuove, a cui si solleva il fanciullo mediante il linguaggio che egli sente, e gli vien comunicato dalla società (2). Queste intellezioni sono di due maniere. Alcune sono intellezioni di primo ordine, che il fanciullo prima d' ora aver non poteva, perchè mancava lo stimolo necessario alla sua attenzione, acciocchè questa si volgesse a formarsele. Altre sono intellezioni di second' ordine, che il fanciullo non potea aver prima d' ora, perchè gli mancava non solo lo stimolo, ma ben anco la materia. Il fanciullo da prima per la forza unitiva lega insieme la sensazione, che a lui produce un nome, che vien pronunciato, colla sensazione dell' oggetto che quel nome significa (1), sicchè al risuonar di quel nome si risveglia in lui subito la percezione avuta di quell' oggetto o l' idea imaginale. Questo fatto dimostra che il linguaggio deve dare al fanciullo un' attitudine maggiore a richiamarsi le memorie e le idee che ebbe delle cose (2). Quando egli non avesse quest' aiuto del linguaggio, le dette memorie ed idee non si potrebbero in lui risuscitare se non per due cagioni: 1 per ricadergli sotto i sensi le cose stesse o loro parti; 2 o per qualche accidentale movimento delle fibre del suo cervello. Ma il linguaggio l' aiuta non poco in ciò: perocchè o al sentire d' una parola o al rivenirgli alla mente, gli tornano insieme le memorie e le idee degli oggetti. Divien dunque il linguaggio una specie di memoria artifiziale, e giova ad accrescergli l' uso della facoltà della reminiscenza . Le cose assenti adunque, che non potrebbero tornare alla mente del fanciullo se non per accidente, vengono richiamate facilmente coll' uso del linguaggio, e sembra che solo per l' uso del linguaggio egli si possa formare il pensiero dell' assenza delle cose. Conciossiachè le memorie delle percezioni gli mostrano le cose nel luogo e nel tempo, nel quale le percepì, e quindi come presenti; le idee imaginali gli mostrano la cosa possibile. Ma il linguaggio l' avvisa anche che la cosa da lui altre volte percepita esiste tuttavia, ma non è presente. Si accorge allora, che può esistere la cosa stessa tanto alla presenza de' suoi sensi quanto fuori della sua presenza, in luogo nel quale non cade sotto i suoi sensi: il che è già un gran passo; perocchè con questa operazione egli s' avvede che la sostanza dell' oggetto non è l' attività da lui sentita, è qualche cosa che sussiste, eziandio che non sia da lui sentita (1). Questo passo poi spinge lo spirito alla cognizione delle cose invisibili. Or poi le cose assenti sono in numero infinitamente maggiore delle presenti; e però considerato il linguaggio anche sotto questo solo rispetto, egli apre la via al fanciullo d' accrescersi molto più del doppio le sue prime cognizioni. Ma un passo maggiore egli fa quando per l' aiuto che gli presta il linguaggio passa alle intellezioni di second' ordine. Per vedere come ciò avvenga e per trovare le diverse maniere di queste intellezioni di second' ordine dobbiamo analizzare l' operazione che fa il fanciullo quando perviene a segnare le intellezioni coi vocaboli. Da prima il vocabolo non è che una sensazione, la quale egli unisce con delle imagini mediante la seconda funzione della forza unitiva (1), ond' avviene che al prodursi di quella sensazione del suono si risveglino nel bambino le imagini a quelle congiunte. Di poi nasce viceversa, che avendo il bambino già congiunto imagine e suono, al rinnovarglisi la sensazione che risponde all' imagine sia inchinato a completare il sentimento pronunciando il suono che n' è l' altra parte per la quarta funzione della forza unitiva (2). Nasce in terzo luogo che il bambino che vien soccorso alle sue grida unisca il sentimento attivo del suo gridare colle sensazioni passive del soccorso, e però usi quelle istintivamente, perchè per lui le grida diventano una cosa sola colle piacevoli sensazioni che subito gli si porgono, unione che si effettua in ogni animale per la stessa funzione quarta della forza unitiva. In queste tre operazioni non gioca ancora che la sola animalità. Passiamo a considerare il vocabolo come stimolo d' operazioni intellettuali. Ma ben presto il vocabolo è una sensazione che s' associa colla percezione intellettiva , in presenza della quale si pronuncia, e serve ad eccitare su di questa una maggiore attenzione, a rendere più viva la percezione. In questo stato il vocabolo è una parte della percezione stessa complessa ossia accompagnata da diverse sensazioni. Qui gioca l' intelligenza, ma ancor quella di primo ordine; il vocabolo non è percepito egli stesso se non come un elemento sensibile che entra nella percezione. Il vocabolo s' attacca, in primo luogo, a memorie di percezioni e serve a richiamare il pensiero degli oggetti assenti altra volta percepiti: gioca ancora l' intelligenza di prim' ordine, ma un grado più di prima. Il vocabolo qui è una sensazione che richiama una percezione, nella quale esso non entra, e diventa anco in breve tempo una percezione che richiama un' altra percezione. In secondo luogo, il vocabolo s' associa a idee imaginali , di maniera che serve a richiamar queste. In questo caso il vocabolo è una sensazione o anco una percezione, al ricever della quale il bambino volge la sua attenzione intellettiva a quell' idea, e con tanta celerità e unità di azione, che gli sembra di vedere l' idea nel vocabolo, tosto che l' ode. I vocaboli, che richiamano la mente o alle percezioni passate o alle idee imaginali, non si può dire che facciano fare all' intendimento di quelle riflessioni, le quali costituiscono un ordine nuovo d' intellezioni, ma solo di quelle colle quali l' intendimento rivede le intellezioni di primo ordine. Vero è, che passando un rapporto tra il vocabolo e la idea imaginale o la memoria della percezione avuta, questo rapporto appartiene alle intellezioni del secondo ordine, che fu da noi definito « intellezioni, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine ». Ma si deve osservare che il vocabolo può richiamarci l' idea imaginale, senza che noi concepiamo intellettivamente il rapporto tra esso e l' idea; bastando, che vi abbia un nesso fisico, ond' avviene, che l' attenzione scossa dal suono si volga all' idea. Vi ha ancora una terza operazione, che il vocabolo fa fare alla mente, senza però che con essa la mente si formi delle intellezioni di secondo ordine. L' operazione, di cui parlo, somiglia nei suoi effetti all' astrazione, ma non è l' astrazione, quantunque l' astrazione le venga tosto appresso. Quando adunque il bambino sente a nominare con un vocabolo delle cose simili, per esempio, a dir « cavallo »ogni qual volta passa un tale animale per via, non astrae incontanente le note comuni del cavallo (quali egli è in caso di notare); ma crede che il cavallo che passa sia il medesimo di quello che altra volta egli vide e sentì nominare cavallo, perchè non osserva ancora le differenze del cavallo, che vede, e del cavallo che ha veduto. Quel vocabolo adunque gli richiama la percezione e l' idea imaginale del cavallo altre volte veduto: lo prende pel medesimo cavallo veduto altre volte (1). Ora chi sottilmente non considera questa operazione del bambino, vedendo, che il bambino, ad ogni cavallo che passa per via, pronuncia il vocabolo cavallo, crederà facilmente, ch' egli abbia già astratta la specie cavallina da' cavalli individui; ma egli s' ingannerebbe, fino a tanto che non si assicuri, che il bambino abbia notata colla sua mente qualche differenza tra cavalli successivamente da lui veduti, per la quale egli abbia conosciuto, che l' uno non è l' altro, e che ciò non ostante l' uno e l' altro sono cavalli, cioè hanno un che d' uguale, onde portano un egual nome (2). Esercitano adunque tre uffizj i vocaboli, senza che tuttavia si producano ancora con essi delle intellezioni di second' ordine. La produzione di queste è il quarto dei loro uffizi e principalmente l' astrazione, che noi dobbiamo diligentemente analizzare. I soli nomi propri, nell' accettazione degli uomini, segnano percezioni o memorie di percezioni avute: tutti gli altri vocaboli segnano degli universali. Tuttavia i pronomi dimostrativi questo, quello ecc., uniti al nome comune lo applicano, o restringono a significare percezioni cioè oggetti reali percepiti. Se si esamina il resto dei vocaboli che compongono una lingua, lasciati da parte i nomi propri, non se ne trova nemmeno uno che sia istituito o che si adoperi a significare idee imaginali . Quando adunque abbiamo detto che uno dei primi usi che fa il bambino del vocabolo si è quello di richiamare nella sua mente le idee imaginali, allora parlammo d' un uso proprio del solo bambino diverso dall' uso che fanno del vocabolo gli altri uomini, e ciò perchè il bambino non conosce ancora il preciso valore e l' uso comune del vocabolo. E che la cosa sia così, si conoscerà osservando, che sarebbe inutile del tutto inventare dei vocaboli a significare idee imaginali. Perocchè le idee imaginali sono infinite; e differiscono l' una dall' altra per distinzioni così minute, che niente importa agli uomini il notarle, e sarebbero anzi di grandissimo ingombro alla speditezza del parlare e del pensare. Primieramente le percezioni d' una stessa cosa variano nell' uomo stesso, secondo che l' uomo percepisce più o meno della cosa: come le percezioni variano le imagini, e le idee imaginali, che a quelle s' appoggiano. Egli è dunque impossibile l' avere per ciascuna di queste idee un vocabolo. In secondo luogo variano tali idee nei diversi uomini. Laonde se un uomo significar volesse coi vocaboli le proprie idee imaginali, non potrebbe egli essere acconciamente inteso dagli altri uomini, che non hanno quelle idee appunto. In terzo luogo basta considerare quello che dicea Platone « che ogni cosa reale e finita si muta, si strugge e si rigenera di continuo ». Poniamo un cavallo: egli è diverso da sè stesso ogni po' di tempo che trascorra: egli porge dunque una nuova idea imaginale: basterebbe che a quel cavallo incanutisse un sol fiocco di pelo, o s' allungassero d' una linea gli orecchi, perchè dovesse avere un nome nuovo il suo tipo, la sua idea piena. E` dunque impossibile che i vocaboli significhino tali idee imaginali o piene: sebbene il bambino, che non n' ha altre per avventura nella mente, le rinfreschi al suono del vocabolo, per l' analogia che esse hanno colle idee astratte, a significare le quali adoperano i vocaboli gli altri uomini. Non essendo le idee piene contrassegnate da vocaboli, rimangono inosservate: ed i filosofi stessi saltano di piedi pari dalle percezioni alle idee astratte senza accorgersi delle idee piene , che stanno tra le une e le altre, come noi facemmo osservare (1). Convien dunque considerare che non v' ha nè pur un sol vocabolo nella lingua (eccetto i nomi propri, i pronomi dimostrativi, e alcuni avverbi di luogo e di tempo) che non esprima idee astratte (2). Quegli adunque che parlano al bambino, provocano del continuo la sua attenzione a collocarsi non pure in un universale , ma in un astratto , e questa è quell' operazione per lui nuovissima, che lo porta alle intellezioni di secondo ordine, e che noi dobbiamo con somma accuratezza ora esaminare. Quando il bambino sente le tante volte chiamare cane il cane di casa, e sente chiamarlo cane oggi e domani, quand' era piccino e mangiava latte, e quando divenne grande e mangiava pane, quando aveva la coda e gli orecchi, e or che ha mozza quella e questi, e sente chiamar cani tutta la canatteria della strada, sieno cani grandi o piccioli, o di un pelame o d' un altro, e fermi o correnti, e placidi o rabbuffati; allora viene un tempo nel quale la sua mente in tanta varietà di oggetti fissa quell' unica cosa, per la quale a tutti il medesimo nome di cane si addice. Egli in una parola astrae a forza di udire la parola stessa applicata sì diversamente ciò che forma l' elemento comune dei cani (la canina natura) e adopra questo elemento comune (che è un' astrazione) a distinguere poi gli oggetti, a' quali il nome di cane dar si convenga. Non è già che egli sappia rendersi conto di questa sua operazione, o ch' egli si sia formato un concetto giusto della nota distintiva de' cani. Egli ha fatto quest' operazione senza rendersene conto, e si è formato un concetto qualunque di ciò che distingue la specie de' cani dall' altre specie d' animali, o di ciò almeno che egli crede che formi questa distinzione. Gli errori che può prendere giudicando qual sia la nota distintiva del cane, non tolgono punto la verità di ciò che noi diciamo, non impediscono che egli abbia effettuato veramente l' operazione mentale dell' astrarre, eziandio che l' elemento da lui astratto non esista, e sia finto dalla sua imaginazione, o non sia quello che costituisce la natura de' cani. Anzi da prima il bambino non astrae mai quel preciso elemento, a cui dall' uso comune è affisso il vocabolo, ma suole sempre astrarre un elemento più comune, o sia più generico (1). Questi errori si correggono dal bambino collo scoprire nuove differenze che lo fanno accorto avere egli dato al vocabolo un significato troppo esteso verso quello che gli danno gli altri uomini; egli allora restringe questo significato, e restringe insieme l' astrazione che gli annette, e ciò determinando meglio il carattere o elemento astratto, da generico rendendolo specifico, o da un genere più lato formando un genere meno esteso. Convien dunque assicurarsi che il fanciullo, nell' uso de' vocaboli, sia giunto a conoscere che in più oggetti v' ha un elemento comune, e che prende nella sua mente questo elemento, qualunque esso sia, come segno a distinguere quali sieno le cose, a cui quelle denominazioni convengono. Allora solamente lo si può dir pervenuto all' operazione delle prime astrazioni, che sono intellezioni di second' ordine. Se sono presenti più cavalli e a ciascuno di essi dà il nome di cavallo , egli è certo che ha fatta già l' astrazione; perocchè non può essere che prenda l' uno per l' altro. Se dà lo stesso nome anco a cose successivamente a lui presenti, ma disparatissime, come al cane o a un uccello, è ugualmente certo che la sua mente già pervenne all' astrarre, non essendo possibile ch' egli prenda l' una per l' altra, che creda quelle diverse cose una cosa medesima: conosce adunque pluralità d' individui e identità in qualche cosa di essi, che lo persuade a dar loro lo stesso nome. Medesimamente, i nomi plurali delle cose mostrano che la sua mente giunse all' operazione di astrarre (1). In questa mirabile operazione adunque, a cui la mente viene mossa dal bisogno d' intendere e viene aiutata dalla contemporaneità del suono cane colla presenza de' cani e cogli atti de' parlanti, il bambino fa quanto segue: 1 Nelle moltissime idee imaginali ch' egli si è formato in veggendo e sentendo tanti e sì diversi cani, soggiacenti a tante modificazioni (e ad ogni cane modificato risponde un' idea imaginale), egli trascura del tutto di badare alle differenze, e concentra la sua attenzione nella somiglianza, in ciò che tutte quelle idee hanno di comune; 2 Divenuto oggetto del suo esclusivo pensiero quell' elemento comune, egli se ne serve di segno a cui conoscere quali sieno gli oggetti ch' egli deve richiamarsi alla mente ogni qualvolta ode il suono cane (1). E qui si noti, ch' egli non congiunge già il suono cane unicamente con quell' elemento, ma l' unisce con tutti gli oggetti in cui egli ravvisa quell' elemento. Quell' elemento adunque è già astratto nella mente del fanciullo, ma non è ancora nominato . La parola cane non indica meramente quell' astratto, ma indica tutti gli oggetti dove quell' astratto dimora: la parola cane non si può intendere senza che la mente si sia formato l' astratto che ella suppone e che la determina; e tuttavia non si può dire che cane sia un nome astratto, ma un nome comune . Da questo si scorge che gli astratti hanno due forme nella mente: l' una innominata, fondamento dei nomi comuni; l' altra nominata mediante i nomi astratti. Chi dice bianco sostantivamente dice un nome comune , che suppone nella mente l' astratto, ma non lo nomina, perocchè il sostantivo bianco non dice altro se non « un oggetto bianco »: la bianchezza è unita all' oggetto, ma la mente ha l' idea astratta di bianchezza, e se ne serve per intendere la parola bianco . Chi dice bianchezza , dice un nome astratto, pronuncia non più l' oggetto in cui si trova la bianchezza, ma questa qualità sola precisa dall' oggetto, considerata da sè. Quindi al fanciullo riesce prima intelligibile il vocabolo bianco , che quel di bianchezza, benchè questo secondo lo intenda ben presto dopo aver inteso il primo. Per intendere tuttavia il secondo, cioè il vocabolo bianchezza, la mente del fanciullo deve fare un' operazione di più. Nel vocabolo bianco , l' astratto è nella mente, ma vi è unito all' oggetto (sebbene sempre astratto da questo): nel vocabolo bianchezza, l' astratto è affatto diviso dall' oggetto, è divenuto un oggetto mentale egli stesso direttamente espresso nella parola: quando si dice bianco, si dice un oggetto che, oltre la bianchezza , ha delle altre qualità alle quali non si pone una speciale attenzione, ma si sa però che vi sono in generale e che vi devono essere, acciocchè l' oggetto sussista; quando si dice bianchezza , questa qualità semplice esclude qualsiasi altro pensiero. La bianchezza esprime dunque un modo d' astrazione più perfetto del sostantivo bianco . L' astratto può esser preso da ciò che è accidentale nella cosa: tale è quello di bianchezza; e può esser preso da ciò che è sostanziale nella cosa: tale è quello di corporeità . Talora il nome astratto manca nella lingua, e non vi ha che il nome comune; a ragion d' esempio, nella lingua italiana vi ha il nome cane , e manca quello di canità . La mancanza di questi nomi astratti dimostra che sono posteriori ai nomi comuni. Si può provare anche con altri argomenti che i nomi astratti sono stati inventati dopo i comuni: un argomento è quello che somministra l' etimologia; infatti ogni astratto sembra derivato dal comune; bianchezza, per esempio, viene da bianco . Gli antichissimi scrittori ci offrono un' altra prova di ciò che affermiamo. Le lingue che usano sono un acconcio specchio dello sviluppo delle menti nei loro tempi: e si può dirittamente indurre dallo stato di quelle il grado di sviluppo di queste. Negli scrittori antichi orientali, come pure nei greci filosofi, e specialmente in Platone, si suole usare il nome comune sostantivato per indicare l' astratto: si dice il simile , il dissimile, il giusto , il bello, il santo, ecc., per dire la simiglianza , la dissomiglianza, la giustizia, la bellezza, la santità, ecc. (1). Vedesi da ciò chiaramente che quelle parole furono le prime usate, e che quando la mente che si sviluppava, ebbe bisogno di esprimere l' astratto diviso da ogni concreto, invece d' inventare vocaboli nuovi, trasportò quegli che già aveva a significare queste astrazioni: il che è legge costante nelle nazioni, quando queste vanno innanzi col loro intellettivo sviluppo, di maniera che la lingua primitiva loro più non basta; prima di risolversi a coniare nuovi vocaboli, si appigliano al partito di alterare e distendere le significazioni dei vocaboli antichi (2). Or quando il fanciullo si è formato un astratto, egli ha il fondamento di una classe, in cui ridurre gli oggetti. Quando egli è giunto a formarsi, per es., l' idea di ciò che è comune tra gli oggetti che sono denominati cani, allora egli non vede un solo di questi oggetti che non lo collochi subito nella classe dei cani. Senza quell' astrazione egli non poteva fare questa classificazione. La classificazione adunque delle cose è un' operazione della mente che vien dopo l' astrazione, la quale ne è il fondamento; e che però appartiene alle intellezioni di un ordine più elevato del secondo, al quale appartengono le astrazioni , di cui parliamo. Ma chi bene osserva, tuttavia conoscerà che vi hanno certe prime classificazioni, le quali si fanno contemporaneamente e con un medesimo atto dello spirito. Elle non sono distinte, ma implicite. Quando lo spirito s' accorge, mediante la ripetizione che ode farsi del nome cane, che in molti cani vi ha un elemento comune; allora con questo accorgersi fa ad un tempo due cose: 1 osserva in tutti quegli oggetti l' elemento comune, e 2 lo astrae , togliendolo a segno della classe degli oggetti chiamati cani . Ora il riconoscere in tutti quegli oggetti uno stesso elemento è già un cotale classificarli, il che finisce di fare contrassegnandoli con un nome. Laonde quantunque sia vero che un uomo, che ha già formati gli astratti, quando egli vede un oggetto nuovo e lo classifica, fa un' operazione posteriore, che appartiene ad un ordine di intellezioni più elevato di quello delle astrazioni medesime, che danno la base alla sua classificazione; tuttavia non può negarsi che nell' opera dell' astrarre v' abbia qualche cosa che s' assomiglia al classificare. Al second' ordine d' intellezioni appartiene ancora la cognizione dell' esistenza di Dio. Iddio però, con quest' ordine d' intellezioni, non si conosce che come compimento necessario dell' essere e come causa del tutto per una funzione dello spirito che noi nominammo integrazione . Egli è incredibile con quanta facilità e prontezza il nostro spirito s' accorga che tutto ciò che cade sotto i sensi è contingente, e che questo non può stare senza qualche cosa di necessario che gli dia l' origine. Ben pochi sanno rendersi conto esplicito di questa elevazione subitanea della mente (1); ma ella non è men vera: ogni popolo e in ogni sua età riconobbe la necessaria esistenza di un Dio, cioè di un ente necessario, prima causa del tutto, come cosa del tutto patente: l' uomo più idiota vede un tal vero come un vero evidente, non ne cerca la ragione, la sua persuasione è immediata; e chi gli domandasse conto di una tale sua credenza sarebbe a lui occasione di maraviglia, e fors' anche di scherno o di riso, come scempio o beffardo. Quindi è che anco i fanciulli intendono facilissimamente il vocabolo Dio come significante un ente massimo cagione del tutto, ed assentono assai volentieri a chi ne afferma loro l' esistenza. Il qual assenso dei bambini non reputisi ch' egli abbia natura d' una mera credenza gratuita alla parola di chi loro parla. No; in questo fatto essi non credono ciecamente, ma veggono. Se ciò non fosse, per lo meno si maraviglierebbero grandemente del concetto di Dio che gli si vuole imprimere, e questo concetto non riescirebbe loro tanto naturale e tanto facile a riceversi, che, appena concepitolo, già credono che Dio esista. Tuttavia non potrebbero i fanciulli accorgersi da sè della divina esistenza senza il linguaggio. Essendo Iddio invisibile, senza una parola che fermasse la loro attenzione, non potrebbero fissarne il concetto. Ma che cosa è la cognizione di Dio ne' bambini? - Ella è una concezione ed una credenza . - Dico una credenza per distinguerla dalla percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esiste, perchè ne sente in sè l' azione, egli n' ha la percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esista senza sentirne sopra di sè l' azione, benchè ne abbia certo argomento razionale, egli n' ha la credenza . Alle facoltà passive rispondono altrettante facoltà attive (1): allo sviluppo di quelle un grado proporzionale di sviluppo di queste. Quando adunque si abbia ben definita la natura e l' estensione dello sviluppo, che in una data età del fanciullo prese il senso e l' intelletto, si può indurre qual sia la natura ed estensione dell' istinto e della volontà. Se il conoscere il grado di estensione di queste prime facoltà passive è necessario per attemprarvi e commisurarvi l' istruzione da dare al fanciullo; il conoscere il grado di estensione presa da queste facoltà attive è ancora più importante, perocchè è cognizione necessaria per attemprarvi e commisurarvi l' educazione pratica da dare al fanciullo; la quale non può far uso che di quella parte di attività che in esso è già desta e messa in movimento (1). Ora nella terza età il fanciullo, mediante il linguaggio e i bisogni e gl' istinti nuovamente appariti in conseguenza dello sviluppo delle due età precedenti: 1 Accrebbe immensamente e perfezionò le sue percezioni, memorie di percezioni e idee imaginali. - A ciò risponde una estensione corrispondente dell' istinto e di volizioni affettive e apprezzative . 2 In ogni età l' uomo concepisce anche le cose assenti. - Questo dà luogo alla passione del desiderio . Egli è vero che anco verso le cose presenti può esservi il desiderio di goderle, se sono buone; ma io credo probabile che il desiderio di godere le cose presenti venga nell' uomo ben tardi, supplendovi da principio l' appetito e l' istinto naturale , che inclina l' animale ad esse. La memoria delle percezioni avute non è propriamente una concezione di oggetti assenti, e può cagionar solo nel primo tempo un cotal sentimento spiacevole, che la percezione sia passata, ma desiderio no: perchè per esso solo non si ha il pensiero che la percezione possa rinnovarsi. - Ove all' incontro in noi si susciti il pensiero di un oggetto buono e assente, tosto dietro a questo pensiero tiene la spontaneità della volontà col desiderio di esso. - La terza età dunque è altresì quella, nella quale ha la sua nascita il desiderio. 3 Ma un' attività maggiore si suscita nella volontà in virtù delle prime astrazioni. Come l' intendimento applica esclusivamente la sua attenzione ad un elemento comune a più oggetti, così se questo elemento è buono, la volontà lo vuole: se è cattivo, lo abborrisce. - Ora ella è immensa la differenza tra quelle volizioni che hanno per oggetto un individuo sussistente tutto quant' è, o anco una specie7piena d' individui (2), e quelle volizioni che hanno per oggetto un elemento comune a più individui, un astratto. Nel primo caso, la volontà ama un oggetto buono ( bonum ), nel secondo caso, la volontà ama la ragione degli oggetti buoni ( rationem boni ), la loro bontà. Le volizioni che hanno per termine solamente un oggetto buono determinato, si acquetano in esso, e però l' efficienza loro finisce tosto. All' incontro, le volizioni che hanno per termine un elemento comune, nel quale sta la ragione, per la quale quel genere di oggetti son buoni, non si acqueta nel loro oggetto che è un astratto insufficiente ad appagare, ma si serve di questo astratto, primo termine della volizione, come d' un segno al quale conoscere gli oggetti buoni, e discernerli dai cattivi. Quivi dunque l' attività della volontà trova uno spazio immenso dove spiegarsi, perocchè quell' elemento buono che vuole, si realizza in infiniti oggetti, dei quali l' uomo, qui pervenuto, va in cerca senza posa. Indi è che altrove mostrai, la facoltà di astrarre essere quella che somministra all' uomo le regole, colle quali egli giunge a discernere e rinvenire i beni (1). 4 Fra gli astratti primi v' ha la quantità sia continua , sia intensiva delle cose sensibili. Onde avviene che per mezzo di questo astratto il fanciullo conosce ciò che è più grande da ciò che è più piccolo (2), e ciò che produce, a ragion d' esempio, più piacere da ciò che ne produce di meno. Questa conoscenza del quanto delle cose dà luogo in lui ad una nuova classe di volizioni, cioè alle volizioni appreziative (3) ed alle elezioni; che già in quest' età cominciano (4). Un altro de' primi astratti , che separa il fanciullo dalle cose, sommamente importante al suo sviluppo, si è quello dell' animalità . Se il fanciullo potesse riflettere sopra il proprio sentire, e pensare, egli avrebbe dell' anima propria un' immediata percezione; la quale sarebbe un' intellezione di prim' ordine, perciò più elementare di quella che si ha dell' anima considerata come causa di movimento degli esseri animati. - Ma sebben l' anima7sentimento sia oggetto d' una intellezione di prim' ordine, tuttavia egli è ancor troppo difficile a farsi una tale intellezione pel fanciullo; perocchè alla sua attenzione manca lo stimolo, che la diriga sul proprio sentimento e su questo la fermi. La sua attenzione è come un figliuolo che scappa sempre di casa; gli oggetti de' suoi bisogni, e le esterne sensazioni tra le quali il suono dei vocaboli, lo trae dall' interno dell' uomo al di fuori. Nè giungerebbe tuttavia ad argomentare da' movimenti degli animali l' esistenza d' un principio di moto nell' animale, se la lingua non gl' insegnasse a fermarsi dal tutto ad una parte della cosa, dal complesso al suo elemento; nell' animale adunque pensa, mediante la lingua, il carattere della mobilità, e quindi l' astratto dell' animalità, ossia l' animale . Questo fa sì che egli distingua non solo un grande ed un piccolo nelle cose, ma ben anco una differenza di dignità ; egli può oggimai stimare col suo giudizio pratico che gli oggetti animali sono assai più degli oggetti non animali e preferir quegli a questi per una maggiore entità. 6 Finalmente la cognizione dell' esistenza di Dio, come complemento degli enti, eleva l' attività del suo cuore all' oggetto il più sublime e lo mette già in comunicazione col cielo. Ogni idea nuova nel fanciullo è una gioia: per ogni adito, che gli s' apra davanti, la sua intelligenza irruisce precipitosa. Come il primo atto di conoscimento scioglie le labbra del bambino al riso, così si manifesta in lui con molti atti d' esultanza il piacere d' intendere il linguaggio materno, e appena può pronunciare i vocaboli, egli è difficile il farlo più tacere, perchè sarebbe contrariar la natura privandolo dell' uso della loquela, che equivale per lui al nuovo uso da lui acquistato della intelligenza, che è il meglio di sè. Di questa innata e nobilissima inclinazione deve l' istitutore giovarsi: non deve rintuzzarla, chè sarebbe ingiuria fatta al lume divino che nell' anima umana risplende; egli deve saviamente occuparla e dirigerla. Pur questa è arte difficilissima. Gli errori, che si sogliono commettere in questa parte, si riducono a quattro: 1 Talora l' attività intellettiva del fanciullo riesce noiosa e importuna, e però si vuol comprimerla coll' autorità, negandole un pascolo sufficiente. 2 Talora si aggrava la memoria materiale del bambino obbligando l' intelligenza al digiuno: cosa molestissima e gravissima a quel piccolo essere intelligente, che a null' altro aspira che all' intendere: epperò cosa crudele ed inumana. 3 Talora si dà all' intelligenza un pascolo, che non è ad essa adattato, cioè le si propone da fare delle intellezioni d' un ordine superiore a quello, al quale è pervenuta; nel qual caso le è assolutamente impossibile intender nulla, eccetto che parole. Talora anche le intellezioni, che da essa si richieggono, sarebbero alla sua levatura, ma non può farle, perchè la sua attenzione intellettiva non ha lo stimolo, che ad esse la richiami. 4 Finalmente quand' anco si proponessero alla giovane intelligenza disposte assai bene per gradi tutte le intellezioni che da essa si esigono, nè si lasciassero mancare ad essa gli stimoli, si pecca tuttavia, perchè si trapassa da una all' altra cosa senza essersi prima certificati, se quella prima cosa sia stata capita, se la intelligenza del fanciullo segua veramente i passi dell' istruzione; in una parola senza lasciare al fanciullo il tempo necessario a penetrare la cosa, a imprimersela, a riaversi da quel cotale sbigottimento, che mette in lui ogni idea nuova. Queste osservazioni si debbono rammentare in principio di tutti quei capitoli, ne' quali tratteremo dell' istruzione da darsi ai fanciulli nelle loro singole età, ossia ne' successivi periodi della loro età, segnati dai singoli ordini d' intellezioni. Ma quanto non è egli facile dimenticarle? Dobbiamo ora indicare quale debba essere l' istruzione da darsi al fanciullo rispondente al secondo ordine d' intellezioni. Ma prima osserviamo, che in quest' età la mente del fanciullo non ricava ancora tutto il frutto, che le verrà appresso, dalla regolarità colla quale abbiamo accennato doverglisi presentare le cose da percepire ed intendere. Tuttavia tal ordine produce un effetto buono, quantunque difficile ad osservarsi, sulla mente e sull' animo stesso del fanciullo. Nell' uomo vi ha un' unità soggettiva , cioè vi ha un ultimo sentimento unico. Ora, ogni sensazione, percezione od idea porta un suo cotale effetto buono o cattivo in quell' ultimo sentimento. Indi avviene, che ogni qualvolta le sensazioni, le percezioni e le idee sono bene armoniate, ne risulta un miglioramento al fondo dell' uomo, sul qual fondo operano tutte insieme e vi producono un effetto unico, che tiene dell' ordine della sua causa. Sebbene adunque il fanciullo non conosca ancora l' ordine, che è nelle sue sensazioni e intellezioni, tuttavia egli per una legge della sua costituzione ne ricava vantaggio. Or le materie d' istruzione consentanee a questa terza età del fanciullo si deducono dallo stato della sua intelligenza, che noi abbiamo investigato e descritto. Risulta che la prima materia d' istruzione in quest' età deve essere la lingua. Sarà adunque un grandissimo guadagno, se in questo periodo s' insegnerà al fanciullo a nominare il più gran numero possibile d' oggetti, e a parlar bene dentro al circolo delle sue cognizioni. Questa parte era quasi trascurata interamente, e solo adesso sembra doversi sperare assai dalla bellissima invenzione delle scuole infantili. Anco rallegrami il vedere, che si cominciano a scrivere dei libri con questo intendimento d' insegnare ai fanciulli a nominare con proprietà le cose; dei quali libri bastimi avere accennato il citato « Manuale » di Vitale Rosi (1). E nondimeno dissi che conviene insegnare la lingua al fanciullo entro il circolo delle sue cognizioni, cioè in misura conforme alla portata del suo ingegno. La lingua, che si usa coi fanciulli della nostra età, deve esprimere intellezioni di primo e second' ordine, ma non più. Di sua natura la lingua esprime le intellezioni di tutti gli ordini, epperciò è istrumento attissimo allo sviluppamento dell' intelletto in tutte le età della vita umana; ma v' ha una parte di lingua che si conviene e proporziona alla terza età, e solo di questa lingua si deve far uso col nostro fanciullo; perocchè quel di più che si usa sarebbe a lui inintelligibile, graverebbe la sua memoria lasciando vuoto e sterile il suo ingegno; il che sarebbe il secondo ed il terzo degli errori che noi abbiamo poco innanzi accennati. Impari adunque il fanciullo a nominare le percezioni sue, tutti gli astratti che si possono cavare immediatamente dagli oggetti sensibili, le cose assenti, le invisibili e i concetti venutigli dalla sua facoltà d' integrare. Egli è certo che fino da quest' età il fanciullo può imparare due o tre lingue udendole, e senza soverchio aggravio. Se ciò si fa per modo che la favella materna sia la principale, e che ciò che impara delle altre sia una cotal sopraggiunta, un tale esercizio delle due lingue sarà un guadagno di tempo, un passo innanzi fatto dal fanciullo (1). La lingua si deve insegnare al fanciullo con un doppio esercizio naturale e artifiziale . Quanto all' esercizio naturale, in esso si adopera tutte le parti del discorso, e non ve n' ha pur una che sia per sè superiore al secondo grado dell' umana intelligenza, eccetto alcune congiunzioni, perocchè tutte possono esprimere sentimenti, percezioni e astratti di prima astrazione, e i movimenti dell' animo. I sentimenti vengono espressi colle interiezioni, le quali propriamente non sono segni. Le percezioni coi nomi propri, cogli avverbi di luogo e di tempo, coi pronomi personali io, tu , ecc. e dimostrativi questo, quello , ecc.. Gli astratti con tutti gli altri nomi, cogl' infiniti dei verbi, coi participii e certe congiunzioni. I movimenti dell' animo sono indicati dalle inflessioni dei verbi, dalle preposizioni e da certe congiunzioni. L' esercizio naturale col quale s' insegna al fanciullo la lingua, dovrebbe essere ordinato secondo le seguenti regole: 1 Tutto ciò che si parla al fanciullo, come si disse, non dovrebbe superare la portata del suo sviluppo. 2 Non dovrebbe udire il fanciullo, se non una lingua perfetta, parole proprie ed acconce, ottima pronuncia e soprattutto con esatta ortografia. 3 Chi parla al fanciullo dovrebbe parlargli con forme e atteggiamenti di dignità e virtù. Se così si facesse, il fanciullo guadagnerebbe un tempo immenso: nè solo si accelererebbe il suo sviluppo intellettuale, ma ben anco si porrebbero i fondamenti della sua buona riuscita morale. In Italia, noi dobbiamo perdere un tempo prezioso per disimparare nelle scuole quella lingua, che abbiamo appresa nelle nostre case; dopo ciò ancora non appariamo bene l' italiana favella sì perchè l' imbratto del vernacolo che ci ha lordati fin da bambini, e divenuto a noi naturale, difficilmente si può più tergere dal nostro spirito intieramente, e sì perchè i nostri stessi maestri, ai quali la lingua buona è arte e la cattiva natura, non possono darci quel che non hanno. La sola ortografia ci fa logorare gran tempo ad apprenderla; e pure noi la potremmo aver tutta viva negli orecchi, quando fossimo stati avvezzi fino da bambinelli a udir battere colla lingua da chi ci parlava i raddoppiamenti delle lettere dove van posti. Colla lingua è che noi formiamo le idee, e perfezione di lingua è perfezione di pensiero. Tutto poi quello che è ordinato, decente, quello che giova a pensare con facilità e con rettezza produce nelle anime nostre delle disposizioni preziosissime alle morale virtù. Finalmente qual vantaggio a questa bella parte del mondo, se l' Italia divenisse tutta d' una sola favella! Che divisioni fra suoi popoli con ciò solo non si torrebbero! Che maggior fratellanza non crescerebbe tra noi! Che aumento alla carità della patria comune! Laonde mi fa maraviglia come nelle grandi famiglie, in cui si vuol pure dare a' figliuoli la più fina educazione, non si pensi a far sì che succhino, per così dire, col latte una favella pura e nobile, e che le infantili orecchie non odano se non cose buone dette egregiamente. Tale dovrebbe essere il privilegio dei più ricchi; non quello di sdegnare che i loro figliuoli usino alle pubbliche scuole, ma quello che vengano a queste scuole più ben disposti, più sviluppati degli altri, e già in possesso di quella lingua che gli altri debbono faticare ad apprendere. Quanto giustamente in tal modo la sapienza de' genitori, unita a' loro mezzi, otterrebbe il primato nelle scuole a' loro figliuoli! E a questi sopravanzerebbe poi sempre gran tempo, nel quale apprendere una moltitudine di cognizioni assai utili che conserverebbe loro un posto di giusta superiorità agli altri lor simili. E per dire una parola anco dell' esercizio artificiale della lingua da farsi fare al fanciullo, oltre il doversi egli avvertire d' ogni cosa che non dica rettamente, dovrebbe consistere in questa sua età unicamente a fargli apprendere quanto più estesamente sia possibile la materia della lingua. Quanto alla forma della lingua egli non è ancora da ciò; perocchè la forma della lingua, cioè la grammatica, esige delle intellezioni d' un ordine molto superiore al secondo. Ma quanto alla materia, conviene insegnargli a nominar bene tutte le cose, e prima quelle che s' ha d' attorno, poscia le più lontane; onde acquisterà grande ricchezza di favella e perciò stesso grande facilità e proprietà di parlare, che è quanto dire di pensare, e a suo tempo anche di scrivere. A quest' uso può servire grandemente il « Manuale di scuola preparatoria » ed altri libri fatti sullo stesso pensiero. Quest' è dunque il tempo nel quale si può esercitare il giovane a distinguere coi loro nomi tutte le cose sensibili. Il nome , questa è la parte fondamentale della lingua: gli esercizi non si possono ancora stendere ai verbi se non agl' infiniti ed ai participŒ che sono veri nomi che segnano i primi l' azione e i secondi l' agente (1). E qui cade in acconcio tornare a dire alcuna cosa sull' ordine delle astrazioni, per le quali si dee condurre la mente del fanciullo. Vi sono molte astrazioni innominate. A queste non si deve pensar di condurre la mente del fanciullo, perocchè non si può aiutarla col linguaggio, e non avendo in questo dei nomi, è segno manifesto che i popoli non hanno stimato necessario che fossero nominate; come pure è segno che son di quelle che si sottraggono alla osservazione. Ma tra gli astratti nominati dal linguaggio ve ne sono di varia maniera: alcuni sono astratti d' astratti: questi non sono acconci alla mente del nostro fanciullo, che non è arrivata più su dei primi astratti: il nostro fanciullo non potrebbe mai intendere il significato della parola legge, giustizia ecc.. Gli astratti adunque, a cui il nostro fanciullo arriva, sono quelli somministrati dalle cose sensibili. Ma le cose sensibili stesse sono nominate con varŒ nomi comuni indicanti diverso grado di astrazione. I nomi più comuni nominano le cose per un elemento comune a maggior numero di oggetti, e i nomi meno comuni nominano le cose stesse per un elemento comune a minor numero di oggetti: quelli dunque contengono un' astrazione maggiore di questi. Per esempio, volendo nominare un cavallo io posso nominarlo in tre modi, dicendo « questa cosa; questo animale; questo cavallo ». Io gli applico tre nomi che egualmente ben si affanno a quell' oggetto; ma quando gli applico il nome di cosa , io l' appello con un nome comune a un maggior numero di oggetti, che non sia quando gli applico il nome di animale ; e applicandogli quest' ultimo io l' appello con un nome più comune di quello di cavallo . E ciò non ostante il nome cavallo è ancor comune e non proprio: indica un' astrazione, che ha per fondamento la specie astratta , sotto la quale sarebbe un altro astratto, che non ha nome (la specie piena imperfetta), o più altri (1), prima di venire al nome proprio, per esempio, a quello di Rondello, di Vegliantino o di Brigliadoro. Domandasi adunque, se negli esercizŒ artificiali da farsi fare al fanciullo sia più consentaneo alla natura il fargli nominare le cose prima per li nomi più comuni e poi per li meno comuni o viceversa? Noi abbiamo già dichiarato più sopra il nostro sentimento che qui vogliamo rinforzare e chiarire con alcune osservazioni. Ma prima si noti bene, che qui non parlasi degli esercizŒ naturali del parlare, che in questi non devesi attendere ad altro ordine, che a quello del bisogno, che presentano naturalmente le circostanze. In secondo luogo si rifletta, che il nome quant' è più comune, e perciò l' idea più generale, tanto più facilmente si apprende dal fanciullo. Per convincersene basta osservare, come il fanciullo e il volgo, cioè la parte degli uomini meno sviluppata, soglia chiamare gli oggetti co' vocaboli i più comuni, dicendo questa cosa , quella cosa ecc. per dire: questo balocco, quel carruccio, quel giubbone ecc.. Nelle lingue antiche l' uso dei nomi generici, invece che degli specifici, è più frequente che nelle nostre, appunto perchè il mondo antico era meno sviluppato del moderno. Osservisi solamente nella lingua latina, quant' uso solevasi fare della parola res : ella s' applicava a tutto (2). Un' altra osservazione ci convincerà del medesimo. Perchè è un pregio così difficile e così lodato la proprietà dello stile? Perchè è difficile il nominare le cose col vocabolo significante la specie più stretta, e si suole, il più, nominarle largamente col genere. Si dirà forse, che la maggior facilità, che hanno i bambini d' apprendere e di usare i nomi più comuni nasce, perchè questi s' applicano a un maggior numero di oggetti, e però più frequentemente sono da loro uditi. - Ma riman sempre a domandare, perchè si faccia dagli adulti stessi un uso sì frequente de' nomi generici, quando fosse loro più facile l' usare gli specifici, che certamente sono più propri e più acconci al ben favellare? Egli è adunque certo, che più le idee sono generali, più la mente umana le trova a sè conformi e famigliari, purchè però si tratti degli astratti immediati, cioè di quelli, che segnano un elemento comune delle cose sensibili, che vengono da noi percepite. Non sarebbe il medesimo, quando si parlasse di quegli astratti che si formano con una operazione della mente eseguita sopra precedenti astrazioni, e che noi abbiamo detto astratti di astratti (1). Il discendere adunque nel nominare le cose dal nome più generale al meno è un esercizio utilissimo al fanciullo: percorsa molte volte questa scala in varŒ generi di cose, le idee si trovano nella sua mente ordinate; egli ha ricevuta una materia acconcissima alle susseguenti sue riflessioni: la sua mente riesce giusta e logica. Ma conviene osservare le avvertenze sopraindicate; e oltre quelle alcune altre: eccone un cenno. Converrebbe che l' educatore avesse una tavola delle classi più o meno estese, nelle quali si possono dividere le cose tutte concepite: questa dovrebbe essere il fondamento della sua logica: ne porremo qui uno schema: [...OMISSIS...] All' esercizio di cui parliamo non appartengono i nomi indicanti le idee elementari dell' essere (benchè de' più facili) nè quegli indicanti le categorie, nè quelli esprimenti de' generi mentali o nominali: ma solo i vocaboli significanti l' universale, i generi reali, le specie astratte , e le semi7astratte , come pure i sussistenti (nomi proprii). Ora, poichè le specie semi7astratte possono essere innumerabili, rimane a vedere qual norma si deve stabilire per scegliere le più acconce al fanciullo. Qui non vi ha dubbio, che la norma consiste « nello scegliere quelle, che più interessano il fanciullo », e più l' interessano quelle, che hanno più relazione co' suoi bisogni e istinti, e che prima e più vivamente colpiscono i suoi sensi esterni. Conviene dunque, che l' educatore sottilmente consideri lo sviluppo di questi bisogni e istinti del fanciullo e la priorità e la vivacità delle sensazioni, affin di vedere quali sieno quelle qualità accidentali, che più interessino nelle cose il fanciullo; e che secondo una tale gradazione meni per mano la mente del giovanetto a conoscere in ciascuna cosa le specie semi7astratte. E di più conviene osservare, che queste semi7astrazioni devono essere operate non sulle cose, ma sui concetti delle cose, che stanno nella mente del fanciullo: altramente nulla egli ne intenderà. Ora i concetti, che delle cose si forma il fanciullo sono in se stessi giusti (sbagliando solo nell' applicar loro le parole) ma imperfetti; e però si vanno successivamente rimutando e perfezionando. Per esempio: il fanciullo da principio si forma il concetto del vegetabile dal vederlo piantato in terra, dal color verde, dalla forma più comune delle piante, dalla freschezza e umidità delle foglie, ecc.: tutto ciò non è il concetto d' un filosofo, nè si deve pretendere. Devesi dunque prendere quel concetto infantile o per dir meglio proprio di ciascuna età, e rattaccare ad esso la classificazione de' vegetabili. L' astratto specifico del vegetabile per la mente del nostro infante sarà dunque « ciò che è piantato in terra e che cresce ». L' astratto specifico all' incontro del vegetabile stesso per la mente del filosofo sarà « un corpo organizzato privo di senso e di contrattilità, che si sviluppa da un germe ammettendo e assimilando a se, date le esterne condizioni opportune, delle molecole straniere ». Or la classificazione de' vegetali, per la quale si deve far correre la mente del fanciullo, non deve mica essere concepita su questa definizione, che il fanciullo non può conoscere, ma deve essere foggiata sul concetto proprio della mente del fanciullo. Laonde se si classificassero le piante da' semi e germi, non sarebbe questa maniera opportuna; non vuolsi classificar ciò che germina , ma semplicemente ciò, che è piantato in terra e cresce . Di più le qualità astratte, che fondano le classi diverse, devono essere tali, che non pur non trapassino l' ordine delle intellezioni, al quale trovasi a gioco la mente del fanciullo, ma s' abbiano anche in sè lo stimolo , che possa scuotere e tirare la sua attenzione; che è la seconda condizione richiesta, come dicevamo, acciocchè il fanciullo possa intendere quello che noi gli vogliamo insegnare. Il quale stimolo nel caso nostro sono i caratteri sensibili, e tra questi i più grossi e appariscenti: caratteri stampati nel suo senso, nella sua imaginazione, nella sua memoria. I quali caratteri consistenti in qualità sensibili avvicinano il concetto astratto al concetto pieno (universale, non astratto); e però formano quelli, che noi chiamiamo semi7astratti, che sono acconcissimi alle menti de' fanciulli. Tutta la classificazione delle rose che noi abbiamo già recata in esempio è fondata in questi semi7astratti, cioè non è che una classificazione, che ha per idea massima un' idea specifica7semi7astratta (l' idea specifica della rosa). Che anzi se ben si considera tutte le classificazioni, che si possono fare delle cose insensitive (il che è quanto dire tutte le fisiche discipline) hanno per idea massima un' idea specifica astratta, cioè l' idea della sostanza corporea. Tutta l' infinita scala di suddivisioni della sostanza corporea non è che una scala d' idee specifiche semi7astratte, che discende fino al primo gradino, che è l' idea piena (idea dell' individuo universale, ma non astratto), col quale finisce il mondo ideale. Fuori al tutto di esso rimane la sussistenza delle cose, che costituisce il mondo reale. Di che si può conchiudere, che l' ordine, col quale si deve procedere col fanciullo nominando le cose co' nomi più e meno comuni, risguarda, la maggior parte, quella classificazione che dall' idea specifica astratta discende per le semi7astratte fino al sussistente. Una delle cose difficili, che al senno dell' educatore spetta di determinare si è « che cosa in ciascuna età il fanciullo faccia da se stesso e che cosa deva fare l' educatore intorno a lui ». Egli è certo, che la natura nel bambino ha un' azione benefica, la quale deve rispettare l' educatore e ben guardarsi dall' interrompere o dal turbarla. Ora, ella è cosa veramente ardua il conoscere quest' azione della natura e la sapienza dei suoi fini, e pochi sono quelli, che sentano intimamente con quanta religione quest' azione voglia essere rispettata. Si vuole sempre far troppo; la nostra presunzione ci conduce a formarci delle opinioni con precipitazione; e sicuri di noi stessi crediamo di potere con tutta facilità far meglio, che la natura stessa non faccia, insegnare e emendare a bacchetta questa gran madre. La natura che opera nel fanciullo produce incessantemente colle spontanee sue operazioni calma, seremntà, ordine, sviluppo ordinato di tutte le facoltà . A ottenere questi effetti, di cui essa natura ha il segreto, assai sovente è corto l' intendimento dell' educatore; e colla sua azione positiva ottiene il contrario, cioè agitazione, turbazione, disordine, ravviluppo, confusione negli atti delle facoltà, le quali l' una sull' altra s' impediscono e offendono. Questa considerazione importante somministra delle regole generali d' educazione infantile: eccone alcune che, quantunque già note, pur non sono mai abbastanza ripetute. 1 Non toccare il bambino, quando trovasi tranquillo e contento nel suo stato. 2 Per evitare, che sia sturbato nella sua serenità, farlo conversare più colle cose, che colle persone; giacchè quelle prime non sono indiscrete e non intervengono a mutare e alterare l' azione naturale del bambino, come sogliono far queste. 3 Le persone accorrano ad aiutare il bambino, quando è stanco delle cose. 4 Le persone, che trattano il bambino, sieno sinceramente cordiali e benevole (1). 5 Non agitino troppo il bambino nè fisicamente, nè moralmente con troppe carezze o eccitandolo a soverchia gioia; piuttosto lascino che egli giochi con cose passive anzichè attive. Non so se la regola d' educazione inglese di parlar sempre basso a' bambini sia bona. Vedo, che la voce bassa è meno eccitante; ma parmi, che il principio di non sturbare e urtare il bambino sia di soverchio applicato, parmi che si voglia andar al di là della natura stessa in questa parte. Io credo all' incontro, che sarebbe utilissimo l' osservare quest' altre regole « fare in modo che il fanciullo udisse sempre a parlare con voce dolce, ben intonata e ben modulata, trascorra pure per tutti i tuoni ». La voce del fanciullo è fatta acuta da natura, perchè dovrà nuocergli il tuono alto? E` l' aspro, l' ingrato, il falso, lo scordato, il troppo forte che può turbarlo e distrarlo e inasprirlo: non il tuono naturale e mediocre, qualunque egli sia. Anzi io credo dover essere al fanciullo vantaggioso esercizio, come ho toccato innanzi, fargli udire tutti i suoni per ordine, e ordinatamente le loro consonanze. Egli è però certo, che tutta l' educazione non deve essere negativa: l' educatore o l' educatrice deve intervenire anche positivamente. Primieramente tutti quelli, che non vogliono adulare la natura umana, la riconoscono in parte difettosa: ella manifesta assai per tempo delle disposizioni maligne. Di poi la volontà dell' uomo da prima si piega spontaneamente dietro le disposizioni naturali benigne e maligne, onde mostra anch' ella un misto di bene e di male. Non v' ha dubbio, che l' arte deve accorrere ad emendare i difetti della natura e della volontà: a prevenirli: ad allontanare le tentazioni: ad avvicinare le occasioni della virtù. La divina Providenza col far nascere l' uomo nel seno della società, lo consegna a' suoi simili, acciocchè essi lo aiutino nella sua debolezza, dirigano nella ignoranza, correggano nelle sue difettose tendenze. Non vi ha dunque dubbio, che l' educazione deve avere la sua parte positiva; ma qual è questa parte, quanto ella si estende? Qual è la parte positiva dell' educazione in ciascuna delle età dell' uomo? Ecco de' nuovi problemi d' immensa difficoltà a risolversi: de' problemi, che nella pratica ricevono infinite diverse soluzioni secondo le circostanze dell' allievo, circostanze esse stesse difficili a raccogliersi e certificarsi. Si può dire in generale, che la parte positiva dell' educazione intellettuale e morale deve essere minima nella prima età e venirsi estendendo sempre più nelle età successive: ma quale è la legge, secondo la quale si rende sempre maggiore la parte positiva? In una parola quali sono i suoi confini nelle singole età? Ecco ciò che, moltiplicandosi le esperienze e le osservazioni, le quali grazie al cielo si cominciano già a fare (ed è pur tempo, che si tolga ad applicare alla pedagogia l' arte dell' osservare e dell' esperimentare), si potrà giungere a determinare. Intanto contentandoci noi d' additarne la via (perchè di più confessiamo ingenuamente di non sapere), porremo innanzi un principio evidente da se stesso e su questo poi condurremo il ragionamento. Adunque, evidente cosa è, che non si deve pretendere o esigere dal fanciullo l' impossibile, ma ciò solamente, ch' egli può dare. Convien dunque sapere, che cosa il fanciullo possa dare in ciascuna età: ecco il difficile a determinare. Il signor Naville conobbe che qui stava il nodo della questione, trattandosi di educare le facoltà intellettive del fanciullo (1); ma la stessa questione va ugualmente applicata alle facoltà attive e morali. Devesi sempre sapere che cosa possiamo pretendere, che il fanciullo ci dia colla sua volontà, e non esigere da lui di più, ciò che sarebbe ingiustizia. Ora quanto all' intendimento, tutto lo scopo di quest' opera mira a determinare con precisione i passi che fa l' intendimento del fanciullo, affine di venire a conoscere che cosa in ogni età si possa da lui pretendere. La volontà poi tiene dietro ne' suoi passi all' intendimento. Sarebbe dunque cosa irragionevole il pretendere dal fanciullo, che egli volesse un bene che ancor non conosce; o fuggisse un male che pure non conosce. E pure è questo che si pretende il più delle volte dagli educatori: questi vogliono che il fanciullo pensi come essi, che voglia come essi, operi come essi; o per dir meglio vogliono che il fanciullo pensi, voglia, e operi com' essi veggono che si deve pensare, volere, e operare. L' ingiustizia di codesti educatori nasce dalla loro ignoranza. Essi si sono fatte delle regole di operare, e pretendono, che il bambino abbia le stesse regole. Quando non possono pretendere ciò per l' enormità dell' assurdo, allora tutt' al più si riducono a dire, che il bambino non ha punto regole di operare, perchè non è ancora arrivato all' uso della ragione. Così vanno da un estremo all' altro. E infatti il bambino non ha certo le regole di operare dell' adulto, e il pretenderlo è una grossolana ingiustizia. Ma è parimenti un errore il supporre, che il bambino sia sfornito al tutto di regole . Egli ha le sue; e convien dirigerlo non colle nostre ma colle sue. Vero è ch' egli mostra di nulla intendere quando gli proponiamo le regole nostre; ma s' indurrebbe da questo a torto l' assenza di regole nella sua mente: è nostro il torto che non le conosciamo, che non le sappiamo in lui osservare e rilevare: egli non le ha certo in forma astratta; ma ben presto la sua mente gli porge tali regole, la formazione delle quali è ciò che dovrebbe fare l' oggetto dello studio dei pedagogici; ed è ciò in pari tempo che fu fin qui al tutto dimenticato: non si sospettò neppure che tali regole si formassero nelle prime età dell' infanzia. Già abbiamo veduto, che fino dal primo ordine delle sue intellezioni il bambino percepisce l' essere sensitivo e intelligente; come pure percepisce l' oggetto bello agli occhi suoi. Ecco qua la culla delle due prime norme del suo operare: dietro a queste norme dirige le sue affezioni: l' essere sensitivo7intellettivo è tosto da lui amato, l' oggetto bello è da lui ammirato. Egli distribuisce adunque la sua benevolenza e la sua ammirazione dietro a' primi lumi del suo intendimento: l' atto morale nasce incontanente dietro l' atto intellettivo. Gioverà qui anco osservare che questi due effetti della ammirazione e della benevolenza sono meno distinti nel bambino che non paia. Infatti ciò che egli ama propriamente si è il bello; è quello che egli ammira . L' ammira e perciò l' ama: l' ammirazione è quella prima stima, nella quale ha sua culla l' amore. Accordo bene che egli trova una reale differenza tra il volto di sua madre, e un bottone che luce; ma questa differenza non è reale e specifica, se non nella supposizione da noi fatta, che v' abbia qualche operazione delle anime fra di loro, mediante i corpi animati. Per altro noi già vedemmo, che il bambino dà l' anima anche al bottone che luce e a tutte le cose; e però non solo ammira, ma ama anche il bottone. Tanto è vero, che il fanciullo ama ciò che prima ammira, che nella lingua infantile bello significa lo stesso che amabile; e brutto significa lo stesso che disamabile. Queste due parole hanno un' estesissima significazione presso i fanciullini. Lo stesso rimane provato dall' osservazione già fatta prima d' ora, che la compassione ne' bambini si spiega verso le cose belle agli occhi loro, e il loro cuore indurisce, ove si tratti di cose che loro sembrano deformi (1). Nella seconda età le norme dietro le quali il bambino dirige i suoi affetti prendono per lui un' altra forma. Avendo sonato a' suoi orecchi le voci di bello e di brutto, di bene e di male ecc.; egli non segue più co' suoi affetti i soli oggetti buoni e belli, ma già un qualche tipo di bontà e di bellezza si è formato nella sua mente, egli vagheggia quest' astrazione, egli per essa intende e pone amore anco a degli oggetti buoni e belli assenti, li desidera, impara a cercarli; e il contrario si dica dei cattivi. Vero è, che questa sua regola astratta, questo primo tipo del bene è ancor prossimo all' oggetto: da prima non è che il suono del vocabolo associato a diversi oggetti, della cui percezione ha memoria, e di cui ritien l' imagine, ma un po' alla volta diventa una vera idea semi7astratta; cioè composta dalle idee imaginali degli oggetti veduti. Quest' idea semi7astratta, tipo della bellezza e della bontà, è la più prossima delle idee dopo le imaginali agli oggetti: è con una regola così vicina, che non ha che a fare un passo per giungere all' oggetto. Quindi gli affetti, che sono da essa diretti, ritengono ancor molto del primo foco, dell' originale impetuosità de' primissimi (1). Nè il bambino mette fin qui in gioco molti mezzi per giungere all' oggetto bramato, ma si slancia direttamente verso di quello. Or questo tipo ideale del bene, che il fanciullo si forma già fino dal secondo ordine delle sue intellezioni, questa regola del suo operare è diversa in quanto alla forma dalla regola presentatagli dalla natura stessa durante il primo ordine delle sue intellezioni; ma nel fondo è la medesima. Era il bello e il buono ciò, che il fanciullo ammirava e amava, tanto nell' un tempo che nell' altro; ma prima amava e ammirava gli oggetti belli e buoni; dipoi cominciò ad amare il bello e il buono negli oggetti. Il bello e il buono si presentò in novella forma alla sua cognizione: ma la volontà ebbe sempre a suo scopo l' oggetto stesso. Ora questo stesso oggetto, questo buono e questo bello, che forma l' oggetto de' primi affetti del neonato, continua ad esser pure l' oggetto costante degli affetti umani in tutta la vita dell' uomo, nel tempo del suo maggior vigore e sviluppo intellettuale, e quando invecchiando declinano le sue facoltà; egli è l' oggetto, a cui l' uomo volge l' ultimo sospiro morendo e che spera di rinvenire nella eternità. Ma se nel suo fondo l' oggetto è identico, non è identico però il modo, nel quale l' uomo lo concepisce; e quindi gli atti della volontà si modificano anche essi a tenore della forma, nella quale l' intendimento le presenta il bello ed il buono. Questa forma emigra in ogni ordine d' intellezioni. Ma come, oltre quel progresso, che consiste nel passaggio da una intellezione all' altra, avvi un progresso, che si fa entro ciascun ordine d' intellezioni, il qual secondo progresso esige pure non poco tempo; così anco il tipo del bene regolatore della volontà conserva la forza propria d' un dato ordine d' intellezioni, si amplifica e si perfeziona. Il seguire queste mutazioni di forma d' un ordine all' altro, come pure i gradi di perfezione entro l' ordine stesso, è l' arduo lavoro proposto alla meditazione degli istitutori della gioventù. Perocchè questi devono in ogni età del fanciullo servirsi di quel tipo che egli ha in mente, per guidarlo sulla strada della virtù: ed è questo, che essi possono e devono esigere da lui nè più nè meno, ch' egli sia virtuoso secondo quella regola di virtù, che in lui si trova formata dalla natura e non secondo un' altra. Il non esigere dal tenero fanciullo nessuna pratica di virtù è lassismo pedagogico, che nasce da ignoranza; l' esigere che il fanciullo sia virtuoso secondo una regola, che egli ancor non vede, è un rigorismo, un assurdo, una tirannia pedagogica: questa trae dietro di sè la violenza, il mal umore, l' ira cieca del precettore, la sola cosa che impari da lui lo sgraziato discepolo. Il fanciullo devesi dunque sempre considerare come un essere morale, perchè è sempre tale, ma devesi investigare in pari tempo qual sia in ciascuna sua età la forma e la natura della sua moralità: e questo è quel segreto, che non si rapisce alla natura fanciullesca, se non con immensi studi, lunghe osservazioni e profonde meditazioni. Giunti noi al second' ordine d' intellezioni del bambino, abbiamo anco indicato qual possa essere la forma della sua moralità. Egli ha un' idea del bene già divisa dagli oggetti sussistenti, benchè questi or l' uno or l' altro s' associno continuamente ad essa. Quest' idea non solo è divisa dagli oggetti sussistenti, come sono tutte le idee imaginali, ma essa differisce anche da queste. Perocchè le idee imaginali fanno conoscere l' oggetto fedelmente tal quale egli apparì ai sensi; ma l' idea del bene non esprime le parti indifferenti e male dell' oggetto, ma solamente l' elemento buono; come l' idea del male, lasciate pure le parti indifferenti o buone dell' oggetto, non ritiene che l' elemento malo. Quest' idea del bene o del male non è adunque solamente universale, come sono tutte le idee imaginali; ma ell' ha anco dell' astratto in quanto che non richiama l' attenzione se non ad una determinazione, ad una qualità sola dell' oggetto, lasciate le altre. Ma che cosa è il bene e che cosa è il male per un bambino, il quale non eccede nel suo sviluppo il second' ordine d' intellezioni? L' astrazione, che ha esercitata questo fanciullo per giungere a formarsi quelle sue idee di bene e di male, non la potè esercitare se non sulle percezioni delle cose sensibili e sulle loro idee imaginali: perocchè non vi era altro nel suo spirito, che fosse idoneo a trarre a sè l' attenzione. Il linguaggio pure, che gli fu strumento ad eseguire questa grand' opera d' estrarre dagli oggetti percepiti, imaginati, ideati l' elemento buono e il cattivo, guidò sempre la sua attenzione agli oggetti sensibili, perocchè fu di questi, che sentì dirsi dalla madre o dalla nutrice « questo è buono, questo non è buono, questo è malo ». Il bene ed il male adunque, di cui ha l' idea il nostro bambino, è un bene ed un male presentatogli dai sensi. Questo bene e questo male ha in sè un elemento soggettivo ed un elemento oggettivo . L' elemento oggettivo appartiene all' intelletto, ed è quel bello e quell' ammirato, che ammira ed ama tanto il fanciullo. Come ho detto, pare, che l' osservazione più accurata dimostri, che il fanciullo da principio giudichi tutto animato. Ma questo giudizio, col quale il fanciullo giudica animata ogni cosa, non si deve confondere colla congettura che ho fatto di sopra, cioè, che ciò che è veramente animato eserciti sul fanciullo un' azione veniente dall' anima, benchè per mezzo del corpo e fondentesi sull' altr' anima, benchè pure per mezzo del corpo. Se quest' azione, a cui finora i filosofi non hanno fatto attenzione, è un fatto che si verifichi ed accerti, l' effetto di quest' azione nel bambino è un sentimento , e non dee confondersi col giudizio , che fa il fanciullo stesso. Questo può essere erroneo; il sentimento è sempre reale; il fanciullo può operare dietro il sentimento e dietro il giudizio . Il sentimento , fin che non viene percepito dall' intelletto, non ha che una esistenza soggettiva. Vi avrebbe dunque nel bene percepito dal fanciullo un elemento soggettivo doppio, cioè la sensazione corporea e il sentimento animastico . Trovata così l' analisi del bene del fanciullo nasce la domanda, se nell' idea che il fanciullo si fa del bene entri non meno l' elemento oggettivo che il doppio elemento soggettivo. Questa domanda è importante per lo scopo di determinare qual sia lo stato della mente e dell' anima del nostro bambino rispetto al bene. A rispondervi conviene richiamarci alla mente due principii da noi posti: 1 Che i primi stimoli che tirano a sè l' attenzione del bambino sono gli esterni; verso gli esterni oggetti ella va sempre spontanea e non si ripiega sul soggetto se non tardi, costrettavi da cause speciali. 2 Che nelle prime percezioni il soggetto intellettivo non fa che affermare un' entità, ma non le qualità o determinazioni di quelle entità, le quali determinazioni s' appaga d' averle nel sentimento; e sol dopo, un po' alla volta, secondo i bisogni che il movono, egli posa la sua attenzione anche sulle determinazioni sensibili dell' ente. Ora egli è certo che trattandosi di formarsi un' idea di bene, è necessario che quest' idea sia preceduta da delle percezioni del bene; perocchè ogni idea di bene è idea7concetto (1). Le percezioni adunque su cui vien lavorata l' idea del bene (per quantunque questa sia imperfetta) non debbono essere delle pure percezioni, nelle quali si afferma solo l' essere, ma delle percezioni già alquanto perfezionate, in cui si afferma ancora il bene. Ma l' affermare il bene, l' affermare un ente buono è affermare un oggetto; e l' affermare un oggetto senza più è operazione infinitamente più facile e più spontanea allo spirito che non sia l' affermare sè soggetto, cangiando così il soggetto in oggetto dell' intelletto. Fino a questa terza età niente può spingere l' uomo a far prendere alla propria attività un giro così opposto al naturale, niente ricaccia quell' attività intellettiva che ha preso a moversi in linea retta, la ricaccia, dico, indietro sui suoi passi, la fa ricadere sopra se stessa, nel seno di quel soggetto da cui emana. Noi parleremo più innanzi della cognizion di noi stessi e mostreremo quanto tardi ella si manifesti nel bambino. Non avendo adunque il bambino ancora di se stesso notizia, egli non può attribuire a sè l' elemento soggettivo. Ma posto ciò, non potrà egli tuttavia percepirlo? Egli lo percepisce certamente, altramente non potrebbe estrarre l' idea del bene dalla percezione; ma egli non lo riconosce come soggettivo ; lo percepisce come un semplice oggetto . Di qui avviene che gli stessi suoi piaceri, i suoi stessi dolori, che in quanto sono sentimenti esistono nel soggetto in quanto sono osservati e percepiti dall' intendimento del bambino sono oggetti, sono qualità e proprietà degli enti reali che l' intelletto suo percepisce. Onde tutti gli affetti di ammirazione e di benevolenza, di abborrimento e di odio che si manifestano nel bambino non risguardano già i propri piaceri e i propri dolori; ma risguardano gli oggetti piacevoli e i dolorosi: egli vede in questi la sede di quel piacere e di quel dolore che esperimenta. Sebbene adunque ciò che sente il bambino sia in lui pel senso; tuttavia ciò che sente è fuori di lui per l' intelletto; e vi vuole un lungo tempo prima che l' intelletto restituisca al soggetto i suoi piaceri. Quello poi che nasce de' piaceri e de' dolori nasce ugualmente di tutte le sensazioni che l' uomo ha mediante gli organi esterni. L' intelletto che ha per legge di concepire ogni cosa oggettivamente, vede le prime sensazioni, cioè il colore, il sapore, l' odore ecc. negli oggetti da lui affermati colla prima sua percezione, affermati con questa percezione in conseguenza della azione esercitata da essi nel suo senso. Tale è la ragione onde il comune degli uomini risguarda come qualità de' corpi le accennate modificazioni del proprio sentimento, e convien che intervenga una profonda ed assidua meditazione filosofica per disingannarli a pieno, e spogliare le forze esterne delle vesti usurpate, di cui si coprirono fino dalla nostra infanzia, si abbellirono, e per così dire rimpolparono e rinsanguinarono. E veramente quelle forze denudate in tal modo dall' inesorabile pensiero del filosofo si rimangono aridi scheletri, e quasi volevo dire tenui, impercettibili spiriti e nulla più. Da queste osservazioni nasce la singolare conseguenza, che il bambino, che nel suo essere di animale opera al tutto soggettivamente, nel suo essere di uomo cominci ad operare dietro a de' motivi oggettivi, assai prima che il suo intelletto e la sua volontà conosca ed ami ciò che è soggettivo, ciò che si riferisce a sè stesso. Perchè le cose stesse sensibili, che al soggetto propriamente appartengono, quella piccola intelligenza non le vede come tali, ma come altrettanti oggetti li contempla e li ama o li abborrisce. Quindi fu giustamente osservato ne' bambini un mirabile disinteresse anche in quelle cose che fanno tratti dal piacere e dal dolore; ed a torto si pretende da alcuni incapaci di osservare la natura umana, che l' amor proprio sia il primo degli affetti che si manifesta (1). Un' autrice, che noi abbiamo citata sovente, con gran finezza dice che il bambino [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo raccogliere da tutto ciò qual sia la virtù morale del bambino, diciamo che questa consiste tutta nella sua benevolenza, perchè questa benevolenza è oggettiva e però imparziale, fornita di disinteresse, preceduta dalla stima dell' oggetto da lui amato: insomma è quella benevolenza stessa, a cui si riduce finalmente la virtù dell' uomo in qualsiasi altra età, perocchè esser buono è lo stesso che amare (1). Di qui si scorge che la differenza della virtù del bambino e di quella dell' adulto (prescidendo dal merito) non istà nell' essere l' una benevolenza e l' altra no: chè l' una e l' altra è ugualmente benevolenza; ma consiste nell' oggetto diverso di questa benevolenza: perocchè l' oggetto della benevolenza si amplifica in ragione dell' età e del progresso della cognizione. Ora, oggetto della benevolenza, lo dicemmo già, non è che il bene. Qual è dunque il bene che può esser noto al bambino non arrivato più in là del second' ordine delle sue intellezioni? Se queste intellezioni non han per oggetto che le cose sensibili, egli è chiaro che egli amerà ciò che i suoi sensi gli rappresentano come bello e come amabile, il cibo, la luce, il volto ridente d' un altro essere umano: questi e somiglianti sono gli elementi da cui trae quel concetto di bene, che dirige poscia tutti i suoi affetti. Egli dunque ritrova e riconosce il bene in tutto ciò, da cui gli vengono delle sensazioni aggradevoli, e tutto ciò l' ama con effusione di cuore imparzialmente. Ecco la sua regola morale: non è certamente la nostra, ma ella è vera per lui, è l' unica che egli possa avere: se noi non lo disturbiamo ne' suoi interni movimenti, egli la segue con semplicità e con ogni fedeltà: egli è giusto ne' suoi atti benchè non lo sappia: la sua moralità già esiste, quantunque non se ne sia formato ancora alcuna coscienza. Il bambino che giunge col suo intendimento alle intellezioni di second' ordine potrebbe guastare la sua moralità in due modi: 1 Formandosi delle regole false del bene e del male; 2 Non dirigendo i suoi affetti e le sue operazioni fedelmente a seconda delle regole del bene e del male ch' egli si è rettamente fatte. Supponendo che il fanciullo operasse da se stesso senza l' influenza d' altre persone, egli non potrebbe formarsi delle regole false, se non a condizione che nelle sue prime percezioni apprendesse gli oggetti buoni per cattivi, e gli oggetti cattivi per buoni: conciossiachè è da queste sue percezioni, ch' egli trae poscia i concetti del bene e del male, che gli servon di regola. Ora questo è impossibile: conciossiachè le percezioni seguono le sensazioni, e queste non ricevono in sè errore (1). Ma il bambino non fa tutto questo da se stesso: i concetti sono astrazioni e però egli se li forma coll' uso del linguaggio che riceve dalla società. Egli è vero che chi gli parla da principio non può ingannarlo del tutto; perocchè se gli si dicesse sempre che è bene quello che i suoi sensi gli presentano per male, egli finirebbe col persuadersi che il vocabolo bene significasse male, e che il vocabolo male significasse bene; il che non sarebbe errore di cosa, ma sol mutazione di vocaboli. Ma se nel primo imparar della lingua il bambino non può essere ingannato, perchè non potrà egli sottostare all' inganno tosto che ha già conosciuto alcuni vocaboli? Poniamo che al vocabolo bene aggiunga pure il significato d' un giusto concetto (benchè sempre ristretto agli elementi del bene de' quali egli ha sperienza): e lo stesso dicasi del vocabolo male . Ora non può egli cominciare qui tosto a soggiacere alle altrui delusioni? (1) Se altri gli dice che è male quello che è bene, quando egli già intende il vocabolo male, non finirà egli a persuadersi che l' oggetto di cui gli si parla è male? Il suo senso gli dice il contrario: sia pure: ma in questa età è egli vero che creda solo al proprio senso, alla esperienza propria? Egli è certo che oltre le facoltà del senso e dell' intelligenza si risveglia assai per tempo nel bambino la facoltà della persuasione (2) di cui una funzione è la credenza volontaria, la volontaria adesione a ciò che altri ci afferma. Non solo noi possiamo credere arbitrariamente a ciò che altri ci dice, ma noi n' abbiamo altresì l' inclinazione, ed è principalmente per questa inclinazione che riescono tanto dannosi a' fanciulli i mali discorsi: fossero questi anco di cose prave, a cui il fanciullo non sente ancora alcun malo eccitamento, egli tuttavia con facilità vi aderisce pel solo bisogno di credere, di uniformarsi all' altrui sentimento. Ora una tale tendenza già si manifesta assai visibilmente nel bambino il più tenero, ed ella anzi lo aiuta mirabilmente ad apprendere con facilità il linguaggio materno. Di qui ne viene la conseguenza, che la veracità nelle educatrici o negli educatori è una dote necessaria fin dalle prime parole, ch' essi rivolgono ai fanciulli tenerissimi. E veramente se questi educatori non dicono costantemente bene a ciò che è bene pel fanciullo, questi troverà una discrepanza tra ciò che sente col suo senso, e ciò che gli viene affermato dalle persone. Indi le sue due facoltà del sentire e del credere sono poste in contradizione fra di loro, e non vi ha nulla che più ritardi e imbarazzi lo sviluppo del fanciullo di quello che il porre le sue facoltà in lotta tra di loro, sicchè l' una distrugga quello che l' altra tenta di edificare. Il povero infante non sa più a cui attenersi; non sa se sia la facoltà del senso che lo inganni, o la facoltà della credenza ; confuso la mente, egli non ha più l' agio di formarsi delle opinioni ben ferme sul merito delle cose, e fino che non si delibera per l' una facoltà o per l' altra, egli è in uno stato d' inutile incertezza, e violenza: lungi dal fare de' passi innanzi, perde anzi per molto tempo la disposizione della tranquillità, della chiarezza, dell' ordine che gli è indispensabile per avanzarsi nella sua via. Quando poi si deliberi verso l' una delle due opposte facoltà, egli non crederà mai alla prescelta fermamente, ma in modo vacillante; di che formerà un carattere debole, senza profonde impressioni, grandi e semplici sentimenti, decisa attività che nasce da quelle e da questi. Che se prestasse fede all' altrui voce rinnegando il proprio sentimento, egli perde in questo una guida sicura e potrebbesi quindi prevedere che il bambino riuscirà almen uomo leggiero. Se poi s' attiene al sentimento proprio rinunziando all' altrui autorità, egli semina con ciò solo in sè medesimo la diffidenza verso de' suoi simili, e dopo una gioventù indocile egli raccoglierà nell' età più adulta i frutti della disunione, dell' egoismo, d' una inesplicabile malignità. Parlare adunque al bambino col linguaggio il più preciso, il il più verace, il più conforme a' migliori suoi sentimenti dee essere un' avvertenza importante per l' educazione di questa età. Il fanciullo che ingannato dalle altrui parole si forma de' concetti imperfetti o falsi del bene, egli certamente si forma con ciò delle regole false od imperfette della sua morale. Tuttavia non si potrebbe riconoscere immoralità nel fanciullo che cede in tal modo all' inganno: egli non dispregia con ciò, nè fa torto volontariamente, nè odia: si attiene ad una delle due potenze nell' impossibilità di attenersi ad entrambe: la scelta non è dovuta al suo arbitrio, ma alla prevalenza dell' inclinazione verso una delle due potenze. Tuttavia hassi a distinguere l' immoralità dalla disposizione alla immoralità: i falsi concetti e le false regole del fanciullo non costituiscono immoralità, sono bensì una disposizione alla immoralità pel tempo avvenire. Noi ci proponevamo oltracciò un' altra questione, se il bambino pervenuto al second' ordine d' intellezioni seguita sempre le regole del bene e del male, o talora volontariamente se ne allontani. Ora a questo rispondiamo ch' egli le seguita fedelmente, e che non potrebbe allontanarsene senza pervenire al terzo grado d' intellezioni. Perocchè dopo essersi formata la regola del bene e del male per allontanarsene egli dovrebbe giudicare praticamente, che è male ciò che quella regola gli mostra esser bene, il che suppone una nuova riflessione, della quale parleremo nella Sezione seguente. Non conviene perder di vista che ogni bontà morale si riduce alla benevolenza, e che ogni male morale non è che odio, ovvero limite imposto alla benevolenza. Ora due sono gli uffizi dell' educatore relativamente alla benevolenza del fanciullo: 1 il farla nascere, 2 l' ordinarla convenientemente (1). Non è meno importante il primo del secondo di questi due uffizi: perocchè la mole di benevolenza che sorge nell' animo umano è la materia, onde si compone la virtù (2): colui che ha un gran sentimento di benevolenza diverrà assai facilmente un uomo virtuoso. Noi faremo dunque qualche riflessione primieramente sulla maniera di far crescere la benevolenza nel fanciullo, e poi sulla maniera di ordinarla. Nella prima e nella seconda età il fanciullo che non possedeva ancora nè linguaggio nè concetti astratti, non potea ricevere il sentimento della benevolenza se non dalle aggradevoli sensazioni che gli oggetti esterni gli procuravano; perciò abbiamo già detto che il mantenere il bambino in uno stato di tranquillità, di serenità e di gioia abituale apre il suo cuore a sentimenti benevoli. Ma ora nella terza età conviene che l' educatore si giovi anco del linguaggio ad ottener questo fine, ed egli può assai agevolmente giovarsene attesa la facoltà della persuasione, che nel bambino assai per tempo si manifesta non solamente colla funzione della percezione, ma ancora con quella della fede . Le persone dunque che educano o che semplicemente parlano al bambino potranno usare a tal fine la regola di lodare generalmente le cose buone e ben di rado biasimare le cose cattive, ma di queste piuttosto tacersi; il che è quanto dire far un grand' uso delle parole bello, buono, bene , ecc. e fare un uso assai scarso delle parole contrarie brutto, cattivo, male, ecc.. Sarebbe poi errore gravissimo l' applicare quest' ultime parole a persone (1). Così udendo il bambino a lodare come buone e belle tutte le cose e niente a biasimare, farà sì, che i suoi affetti di benevolenza che seguono indubitatamente i suoi pensieri, si svolgano più prontamente e più ampiamente che non gli affetti contrarŒ di malevolenza: egli verso tutto ciò che lo circonda profonderà il suo amore e la sua gratitudine. Ed è poi difficile per non dire impossibile che v' abbia tal cosa, la quale non si possa da qualche lato presentare come buona e bella al fanciullo e fargliela amare. Quando il fanciullo comincia intendere i segni convenzionali delle parole, egli comincia ad intendere ancora i segni naturali de' gesti e degli atteggiamenti. La lingua naturale aiuta il fanciullo ad apprendere la convenzionale e viceversa: le due lingue sono apprese insieme come una cosa sola (1). Quando i gesti e gli atteggiamenti esprimono degli affetti, egli al veder quelli sente questi, sia per un' operazione animastica, sia perchè l' istinto d' imitazione il conduca a riprodurre in sè quegli atteggiamenti stessi che sono dalla natura associati a quegli stessi affetti, sia che l' una e l' altra di queste due cagioni entrino a formare quella mirabile simpatia , che si osserva ne' fanciulli. Ma nella terza età non fa solamente tutto ciò, ma per lui i gesti e gli atteggiamenti gli sono de' veri segni che gli appalesano l' interno delle persone colle quali egli usa. Mi si permetta di riferire ancora le altrui osservazioni. [...OMISSIS...] . Questi fatti si debbono mettere a profitto. Conviene che anche colle lingue naturali si comunichi al bambino pensieri di bontà e di rispetto: egli apprenderà la maniera di concepirli, se tutto ciò che vede d' intorno di sè glieli mostra e glieli comunica. Quindi medesimo apparisce il danno che alla tenera anima del bambino risulta dai segni esterni dell' ira, del livore, dell' odio, della malignità, della derisione ecc.. Sono altrettante parole seduttrici, dove egli attinge una ineffabile malizia. Dannosi sono parimenti al bambino i terrori e le paure incussegli o con parole o con atti: ma di questo fu già parlato da tanti che è inutile il fermarvisi. Solo farò un' osservazione. Ho già detto che nell' educazione conviene aver per maestra la natura. Or se noi osserviamo la natura, noi troveremo ch' essa inclina sempre il bambino alla speranza ed ai pensieri gai; e che all' incontro l' allontana da' timori e da' pensieri mesti. Non avviene mai che il bambino si componga da se stesso delle imaginazioni cupe, tristi, dolorose: ma sì egli va fantasticando cose belle, liete, ridenti. Non appartiene solamente questo fare al bambino: ella è una legge costante di tutta la natura umana: e ci torneremo sopra. Ora ci basta di chiedere: Perchè non aiutiam dunque gli avviamenti di questa natura? Perchè non ci facciam dunque discepoli alla providenza che ha costituita la natura? Perchè vorremo impaurire o rattristare quell' animo che questa spinge al coraggio ed alla allegrezza? Ma non è egli anche il timore un affetto posto dalla natura nel seno dell' anima umana? Perchè dunque ve l' ha posto? Per contenere, anche mediante il timore d' una forza superiore, l' uomo ne' suoi doveri, e perchè l' uomo mediante il timore abbia il sentimento della propria debolezza comparata a ciò che vi ha di possente fuor di lui, che è il Creatore, ovvero degli enti che fanno la volontà del Creatore. Ora, il nostro bambino non ha bisogno d' un timore procuratogli, giacchè nè potrebbe ancora riconoscere il timore come ministro della giustizia divina, nè quel timore fantastico che pazzamente gli si cagionasse avrebbe il carattere d' un timor morale, ma unicamente d' un timor cieco atto a conturbare e non a raddrizzare la sua riflessione. Quanto poi al sentimento della propria debolezza, egli lo ha troppo; nè il timor riverenziale verso l' essere supremo può suscitarsi in lui altramente che dall' idea di quest' essere ottimo massimo; e non da altro. Escluso dunque ogni timore fantastico e procurato al nostro tenero fanciullo, rimane tuttavia a cercare se giovi l' adoperar con lui alcuna resistenza a' suoi voleri, e caso che sì, in qual misura ella debba essere. Or per rispondere alcuna cosa a questa questione, in primo luogo non v' ha dubbio, che ove qualche cosa possa nuocere alla sua salute corporale, questo non gli si dee concedere: glielo si dee però diniegare in modo da cagionargli la minor pena possibile; e però il miglior precetto consiste a predisporre le cose in modo che tali voglie in lui non insorgano. Queste voglie non sono morali ma fisiche, ed è perciò appunto che sarebbe cosa ingiusta che noi non procurassimo tutte le vie per eluderle senza sua pena. Ma oltre di questo disordine fisico possono benissimo manifestarsi delle disposizioni contrarie alla morale. Prendendo noi a parlare della resistenza che dobbiam fare a queste, verremo a rispondere alla seconda questione propostaci « in qual modo si possa ordinar la benevolenza del nostro bambino ». Ora, una delle prime disposizioni anti7morali che si manifestano nel bambino è l' impazienza; benchè questa stessa trae più forza dall' abitudine che da altro. L' esercizio di pazienza che può convenire anco al bambino non si dee trascurare, ma dee farsi con somma delicatezza; ed ecco una madre che ne suggerisce il modo. [...OMISSIS...] Qui la pazienza non è un sofferir fisico (ciò che si dee sempre allontanar dal fanciullo), ma è un sofferir morale, se pure è sofferire; è di più una scuola in cui guadagna l' intendimento e l' animo del fanciullo. Egli aspetta di buona voglia, e questo è già un gran bene: egli comincia con ciò ad ordinare la sua benevolenza. Il senso di natura sua è impaziente (1): l' aspettare pazientemente è sempre un esercizio d' intelligenza. L' impazienza che proviene dal senso all' uomo non è ella stessa un male morale, ma è una mala disposizione alla moralità, che di buon tempo conviene addestrarsi a superare. L' ira si trova pure nel senso, e in quanto si trova nel senso è anch' essa nulla più che una mala disposizione. Questa si dee prevenire nel bambino acciocchè non nasca, e ne abbiam parlato. Queste passioni e delle altre, di cui parleremo in appresso, si appalesano fino dalla prima infanzia, nella quale età l' operar sensuale può assaissimo: e però esigono una resistenza sapiente assai più morale che fisica. Le passioni poi influiscono immensamente sulla volontà, e questa sull' intendimento; onde avviene che l' intendimento giudichi per bene quello che è favorevole alle passioni, e per male quello che è ad esse contrario. Se dunque sono insorte le passioni nel bambino ed egli perciò non si trova più in uno stato di tranquillità, avviene ch' egli falsifichi i suoi concetti. Perocchè egli non prende più a misura del bene il natural suo sentimento e il sano istinto; ma un sentimento passionato e un istinto guasto. La falsità di questi concetti sul bene e sul male delle cose passa per vero inosservata; ma que' concetti intanto sono le regole dell' operar del bambino, e per conseguente egli ama falsamente, ed odia ciò che dovrebbe amare. Tali semi di falsità nell' intendimento e di traviamento nel cuore sono minuti come quello della senapa, ma crescono occultamente in un grande arbusto: n' escono di que' giovani il cui freddo e cattivo carattere è inesplicabile: n' escono degli uomini pessimi e incorreggibili. In somma la sorte degli uomini dipende sovente da quegl' ignorati cominciamenti. Come dunque convien talor prevenire, talor far resistenza alla passione; così giova correggere i falsi concetti del bambino. Grand' errore è l' adularlo, come pur si fa per voglia di dargli piacere; grand' errore è confermare i suoi concetti se falsi; noi dobbiamo anzi sostituirgliene di migliori: e sopratutto guerreggiare in lui que' concetti che lo portano all' odio, quelli co' quali egli giudica sfavorevolmente delle cose. Noi dobbiamo mostrargli il lato buono delle cose; e sebbene egli non intenda a quest' età se non il bene e il male sensibile oggettivizzato, tuttavia noi possiamo anco dirgli buone quelle cose che hanno un effetto buono in futuro; il che è un facilitargli l' atto intellettivo, col quale un tempo giungerà a conoscere la verità del nostro giudizio. Noi possiamo far ciò giovandoci della sua facoltà di credere, come abbiam detto. L' impazienza e l' ira, che hanno la loro culla nell' animalità e fino che rimangono in questa non sono più che disposizioni anti7morali, ben facilmente tirano a sè l' assenso della volontà, e allor tosto si cangiano in atti ed abiti immorali. Una passione che pur s' origina nel senso animale, ma che passa prontamente nell' ordine dell' intendimento, si è l' avversione che in odio si trasmuta. Io non credo che a quest' età possa aver luogo nell' animo umano l' invidia che è dolore del bene altrui. Il fatto che narra S. Agostino del bambino suggente il latte e risguardante con biechi occhi il suo collattaneo (fatto che si rinnova non di rado) mostra un' apparenza d' invidia; ma io tuttavia lo dichiarerei una semplice avversione. Suole anche nelle bestie avvenire il simile: due cani che mangiano ad una scodella ringhiano e si mordono. Non può dirsi che il movimento nasca dal dispiacere che l' un cane ha del bene dell' altro, ma piuttosto nasce, io crederei, dall' apprendere il compagno come impedimento e diminuzione del suo ben proprio. L' animale non per intelligenza ch' egli abbia, ma per la forza unitiva del suo sentimento può benissimo apprendere il cibo che scema alla presenza dell' altro cane, e odiare questa diminuzione di cibo, e con essa insieme l' altro cane che ad essa congiunge nella sua fantasia. La quale operazione animale somigliantemente avviene nel bambino, ma sopraggiungendosi poi il giudizio dell' intelletto, o anche solo l' atto della volontà, in vero odio si cangia. Ora questi accidenti sono da prevenire con diligenza nei bambini, perocchè eglino difficilmente possono sostenere la gravezza della tentazione, nè hanno armi a difendersene. Nata poi qualche avversione, conviene impiegare tutte le vie acciocchè se ne purghino le loro anime, e si potrà, quando si usi il bambino, o la persona qualsiasi, oggetto della malevolenza, a procurare all' odiatore i piaceri ch' egli brama; nel qual caso essa perderà l' odievolezza e il bambino l' odio. Uno de' fenomeni difficili a spiegarsi nel bambino (ed è un fatto proprio dell' umanità) si è come essendo egli di sua natura benevolo, tuttavia un po' alla volta venga limitando i suoi affetti ad un circolo determinato di persone e di cose. Egli par certo che il neonato sia indifferente all' una od all' altra persona; almeno egli è certo che s' affeziona a qualsiasi lo aiuti ne' suoi bisogni e lo accarezzi. Indi è ch' egli prende talora affetto alla nutrice più che alla madre ove con quella abbia più di consuetudine che con questa, e da quella, non da questa, riceva i materni servigi. Nè il neonato sceglie da se stesso la nutrice, ma egli l' ama quale gli venga data: e in capo a sei settimane sorride imparzialmente a quel volto femmineo che prima a lui ride. Ella è dunque universale la disposizione che ha il bambino alla benevolenza prima che questa si attui, ma attuata in lui la benevolenza, ella prende tosto una forma limitata ed esclusiva. Al bambino d' un anno le persone nuove già fanno sinistra impressione, e questo adombramento, che egli prende dagli sconosciuti, va aumentandosi fino a un certo tempo coll' età: egli divien rispettoso, ritroso, ruspo, ispido agli stranieri, e gli bisogna buon tempo a dimesticarvisi. Come si può egli spiegare un tal fenomeno? Io credo che più cause concorrano a produrlo, ed è forse difficile il conoscerle tutte. Primieramente gli affetti razionali prendono legge dall' intendimento che propone loro gli oggetti. Ora nella sfera della intelligenza si dee por mente al fenomeno dell' attenzione. L' attenzione è un concentramento delle forze sparse, e da prima allentate dello spirito, le quali così tutte unite si applicano ad un punto solo, ad un oggetto solo. E quando lo spirito raccoglie così la sua attenzione in un solo oggetto, egli non è più per gli altri, le sue forze sottratte loro o non gli danno più di essi contezza, o glie la danno ben languida. Or l' accentramento delle forze, che avviene nell' intendimento, avviene somigliantemente nella volontà. Le virtù di questa potenza fino a tanto che rimangono lente e dissolute sono indifferenti all' uno ed all' altro oggetto e disposte ad applicarsi a qualsiasi; ma tosto che sono richiamate ed applicate ad uno o ad una data periferia d' oggetti, a tutti gli altri fuori di quella rimangono nulle; perocchè la quantità disponibile per così dire della benevolenza della volontà è già in determinati oggetti esaurita. E questa spiegazione basterebbe se si trattasse di dar ragione solamente del perchè l' animo del bambino affezionato ad un dato circolo di persone e di cose si mostrasse a tutte le cose nuove freddo ed indifferente. Ma nel fenomeno che noi vogliamo spiegare si mostra un altro accidente. Il bambino nella terza età e in alcune delle susseguenti non è solo senza affezione per le persone non più vedute, ma egli riman sorpreso e intimorito al loro comparire, si arretra da esse se l' avvicinano, si mostra loro turbato, corrucciato, ostile. E perchè mai tutto ciò? Tentiamo d' indicare alcune delle principali cagioni che noi crediamo influire a produrlo, senza assicurarci tuttavia di rilevarle tutte. Mi sembra probabile che quando l' animo umano non ha più della benevolenza da distribuire, gli rimangono gli affetti contrari del timore, della malevolenza, dell' odio estremamente suscettibili (1). Quando il bambino vede de' suoi simili e non ha amore da donare ad essi, questi suoi simili rimangono per lui degli esseri misteriosi, da cui non aspetta bene, e de' quali teme la forza: non essendo agl' occhi suoi abbelliti del suo amore, conciossiachè l' amore è quello che a noi abbellisce e indolcia gli oggetti, quegli esseri tornan molesti al suo pensiero che rimane nell' incertezza sulla loro favorevole o avversa natura. Fu già osservato da altri, che al comparir nella mente del fanciullo un' idea nuova, nasce in lui un cotale sbigottimento. Se un' idea nuova fa quest' effetto, una percezione nuova deve farlo anche più, quando un tale effetto non venga eliso o coperto da un altro affetto maggiore di benevolenza. S' aggiunga un' altra legge psicologica, quella per la quale « è sempre molesto all' uomo il tornare indietro sia co' suoi pensieri, sia co' suoi affetti, il disfare cioè gli atti delle sue potenze intellettive ed affettive per doverli rifare in altro modo ». Se si vuole averne la prova in qualche sperimento fatto sui fanciulli basta raccontar loro qualche storiella: essi la gustano sommamente: ma guai se voi mutate qualche menoma circostanza, o anco semplicemente vi aggiungete nel contarla loro la seconda volta! essi tosto vi correggeranno: vogliono assolutamente la stessa scena. E perchè? perchè avendo quella scena viva nelle loro menti, essi ripugnano a guastare o a cancellare quel bel quadretto imaginario per ridipingerlo. Or quel che avviene ne' fanciulli rispetto alla fantasia ed all' intendimento avviene somigliantemente in essi rispetto alla volontà. Non sono i fanciulli come gli adulti: questi riserbano sempre indietro qualche parte de' loro affetti per poterli collocare poi in quegli oggetti nuovi che li meriteranno: ma i fanciulli all' incontro senza pensare al futuro, concetto che ancor non hanno, ne' primi oggetti versano tutto il tesoro del loro cuore. Ho già osservato la veemenza e la semplicità delle affezioni e passioni fanciullesche. Ciò posto, egli è manifesto che quando si presenta loro una persona nuova hanno un naturale invito ad amarla; ma tuttavia nol posson fare se non a condizione di tirare indietro dell' amore già distribuito, e darne una parte a quella persona. Or questo invito è loro molestissimo per due ragioni; la prima perchè dovrebbero disfare un atto di benevolenza già fatto, riducendolo a più breve misura; la seconda, imperocchè in qual maniera potrebbero essi ritirar l' amore posto alle cose amate? Non sarebbe egli un far torto a queste? In qual maniera cominciar a disamar quelle a cui hanno dato tutto il loro amore? Che demerito si hanno? Che colpa? Insorge appunto ne' bambini un sentimento simile, ma opposto, a quello della gelosia. Come la persona gelosa soffre e s' irrita al timore che altri gli rubi o scemi l' amor dell' amante; così il bambino che è l' amante teme che altri gli rubi o scemi al suo cuore quell' amore che egli pone alla persona amata, e alla quale non lo vuol torre. Quest' affetto del bambino non si attacca solamente alle persone, ma a tutte le cose che lo circondano. Indi è che le mutazioni d' oggetti o di ordine nella loro vita riescono talora al bambino grandemente moleste, e gli mettono del mal umore. Una terza cagione che si lega a questa seconda ha parte nel fenomeno che noi cerchiamo di spiegare. Il bambino ha l' istinto primieramente di evitare il dolore, in secondo luogo di godersi in calma il proprio benessere; la sua natura è piena di piacere perchè piena di vita e di sensibilità. Oltracciò, quando ha distribuiti tutti i suoi affetti alle persone e alle cose tra cui si trova, ha tracciato in ciò stesso la sfera della sua felicità. Quivi ritrova tutti i suoi beni, nè pensa che ve ne possano essere altri. Qual meraviglia adunque ch' egli possa esser geloso di questo suo cotal dominio? Un essere nuovo che gli si presenti già gli sconcia quel tutt' insieme che forma il suo stato, e che percepisce come una cosa sola: già gli rompe quel cotal suo paradiso infantile a cui è attaccato e che non vuol vedere mutarsi, come non vuole che gli si muti niun accidente della novella che gli si narra. A questa ragione è affine l' istinto che hanno i fanciulli, e l' idea che ben tosto loro nasce della proprietà. Tutte le cose che li circondano diventano per la forza unitiva del loro sentimento altrettante parti di sè stessi: il levargliene alcuna è uno squarcio fatto nel loro sentimento. Questo fenomeno si manifesta anco negli animali perchè tutto si compie mediante la forza unitiva, che anco nella natura animale si trova; ed ha le apparenze di pensiero ed amore della proprietà, sebben non sia tale. Nondimeno l' idea della proprietà sopraggiunge, come dicevo. Mad. Neker de Saussure racconta di aver veduta una bambina di diciotto mesi che piangeva se alcuno toccava al passeggio il panierino della sua bona . [...OMISSIS...] Finalmente, una quarta ragione e più profonda non dubito aver gran parte nella limitazione che si mette a certa età nella benevolenza de' bambini: questa è l' indole dell' amore che ha per oggetti individui sussistenti. E in vero due forme comuni ad ogni ente sono l' idealità, principio dell' universalità, e la realità, principio della particolarità. A queste due forme dell' ente corrispondono in noi due potenze, cioè l' intelletto che intuisce ogni idealità, e il sentimento che costituisce ogni realità. La realità del sentimento viene poi affermata dal giudizio che è una terza potenza. Nell' ordine intellettivo adunque l' intelletto dà allo spirito nostro l' idea, e il giudizio dà allo spirito nostro la cosa (res) . La volontà poi co' suoi affetti si porta in entrambi questi oggetti, nell' idea e nella cosa; le due forme dell' essere possono ugualmente esser termine alla nostra volontà. Or poi, se noi amiamo un oggetto qualsiasi per le eccellenti sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. Se poi noi amiamo un oggetto per se stesso, e non meramente per le sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella sua forma reale. L' idea essendo principio d' universalità, come abbiam detto, anche il nostro amore nel primo caso è universale , di maniera che è pronto a volgersi a qualsiasi oggetto, dove ritrovi le stesse qualità e doti che sole esso cura. Il reale all' incontro essendo principio di particolarità, anche il nostro amore nel secondo caso è particolare ed esclusivo, di maniera che egli rifiuta un altro oggetto unicamente perchè è un altro, eziandio che avesse le stesse buone qualità del primo. Questo secondo amore è il principio della restrizione e limitazione della benevolenza; ed ha una natura anti7morale ove non termini nel divino. L' amore di noi stessi è di questa seconda specie: noi ci amiamo non già per le belle qualità che abbiamo, ma perchè siamo noi. L' amore de' genitori verso de' figliuoli è pure della stessa natura. Qual padre o qual madre soffrirebbe che il suo brutto e malvagio figliuolo gli fosse mutato in un angelo di bellezza e di bontà? Vuole il suo e l' ama sopra tutti gli altri personalmente. L' amor fisico è un terzo esempio d' amori di questa specie: gli amanti non vogliono amar altro che la identica persona cui consecraronsi, e vogliono essere amati nello stesso modo: indi la gelosia, cioè il timore che l' amor individuale personale dell' amante gli sia distratto da un amor ideale, cioè dai pregi che si trovano in altre persone. Ora ne' bambini l' amore che termina ne' pregi della cosa o persona (idealità) è intimamente congiunto all' amore che termina nella cosa stessa o persona sussistente; e degenera facilmente in un amore ove quest' ultimo elemento (amor dell' individuo reale) prevale e domina. A recare una prova di quel che voglio dire mi varrà il seguente fatto, narrazione d' una sagace osservatrice: [...OMISSIS...] Ogni madre, ognuno che di continuo ha sotto gli occhi dei bambini potrà testimoniare altri fatti simili, in cui il loro amore non termina a delle belle qualità delle persone, ma alla realità della persona stessa. Vero è che un tale amore nasce anch' egli in origine dall' amor ideale e universale, cioè dall' amore di qualità amabili o vere o supposte; perchè il cuore umano non può cominciare ad amar nulla se non sub specie boni , ma posteriormente degenera quell' amore e si corrompe: alle belle qualità si sostituisce la persona o la cosa dove quelle belle qualità o doti si son vedute o si costumano di vedere; da prima si crede che sieno così proprie di quella persona o cosa che non possano esistere altrove, ma in essa solamente; di poi si amano le belle qualità ancor più perchè sono in quella persona o cosa amata che se fossero tutt' altrove: e finalmente si ama la persona o la cosa sola per se medesima, foss' anco priva delle qualità che prima si amarono in essa, e le qualità medesime non si amano più se si rinvengono altrove collocate. Qui l' amore è divenuto sommamente immorale. Or poi si noti bene: quando io parlai dell' amore che ha per oggetto l' idealità, non parlavo tuttavia d' un amore che escludesse la realità. Se questo amore escludesse la realità, sarebbe un amore incipiente più tosto che formato: esso è l' amore che fu denominato platonico, e che non ha luogo ne' bambini e nè pure nel popolo: ma solo ne' filosofi naturali che giungono alle idee, ma non possono trapassarle, ossia compirle. Questa maniera d' amor filosofico, a cui veramente si riduce il meglio della naturale virtù, non entra ora nel nostro discorso. L' amor nostro che fu da noi descritto, dicemmo aver per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. L' idea dunque, cioè il bene veduto nell' idea, è la regola secondo la quale si amano i sussistenti: questi si amano certamente, ma non meramente perchè sussistono, ma perchè sussistono con quelle doti e pregi che ce li rendono amabili. L' altra specie d' amore all' opposto, di cui parliamo, ama i sussistenti senza più; dimenticando le doti amabili, talor anco ad esclusione di queste. Ora, io so bene che questi soli preamboli ch' io fo a ciò che vo' dire, fanno in pure udendoli agghiacciare il cuore delle madri, delle spose, de' padri e de' mariti; ma io pur debbo dire il vero e a tutto anteporre la dignità dell' umana natura, la quale ampiamente ricatta il valor d' ogni affetto che per essa perdere si dovesse. Tuttavia parrò men crudele, ove s' aspetti il compimento di questo discorso. Esaminando dunque il valor morale de' due amori da noi distinti, convien fare le seguenti riflessioni. Il sentimento è ciò in cui consiste la realità. Un essere reale come tale, cioè in quanto è sentimento, non cerca che il reale, non ha attrazione ad altro, non inclina a congiungersi se non col suo simile, cioè con altro essere reale. Tutte queste tendenze, e se si vogliono così chiamare affezioni, sebben cieche, tuttavia finchè non eccedono la sfera del sentimento, non sono riprovevoli, ma più tosto in se sole considerate non hanno alcun prezzo morale, non appartengono nè a virtù nè a vizio, non son merito nè demerito; benchè abbiano un valore eudemonologico. Ma quando l' uomo intelligente, la persona morale dà loro un prezzo, allora esse diventano materia di moralità: se il prezzo loro dato dall' intendimento è giusto, la persona che le ha giudicate fece un atto di virtù; se è ingiusto, fece un atto riprovevole. Ora qual è il giusto prezzo che si dee dare a quelle affezioni? Nullo, per se stesse considerate: considerate però in quanto sono elementi di felicità, esse hanno un prezzo allor quando diventano premio della virtù. In questa loro relazione diventano giuste ed appetibili anco dalla persona morale. Ma quanto non è grande il pericolo che si stimino per se stesse indipendentemente da questa relazione ch' esse hanno colla virtù! - Ecco uno de' primarŒ fonti della depravazione umana. Lasciando dunque da parte le affezioni meramente sensuali e sentimentali, parliamo della moralità dell' amore razionale avente per oggetto il reale. Primieramente, il reale finito considerato da se solo senza veruna dote non si può concepire: egli è nulla, non presenta veruna base al nostro amore. Il solo reale infinito può come tale essere amato: egli solo E`. In secondo luogo, l' amare i reali finiti secondo il merito delle loro buone doti e qualità è certamente giusto. Ma in tal caso abbiamo l' amore di seconda specie illuminato dall' idea: un amore che non è esclusivo, ma che si espande a tutti gli oggetti, dove trova le stesse doti e qualità: un amore che non è immobile, ma che cresce e diminuisce secondo che crescono o diminuiscono quelle doti o qualità: finalmente un amore che non è eccessivo , ma compartito a misura de' pregi stessi. L' amore che ha per oggetto il reale di natura sua esaurisce tutte le proprie forze nel suo oggetto. In terzo luogo, tra l' amore del reale per sè e l' amore dell' ideale nel reale, avvi l' amore di beneficenza e l' amore di gratitudine; i quali sono pure regolati dall' idea . L' amore di beneficenza è quello che ama di produrre negli oggetti suoi le belle qualità e doti che si propone. Lo scopo adunque di questo amore è morale; perchè ama non propriamente il reale per se solo, ma la realizzazione delle qualità e doti e pregi che meritano d' esser amati (1). L' amore di gratitudine ama la beneficenza della persona amata, e però termina ne' suoi pregi. Ella brama ancora di restituire i beneficŒ ricevuti; ed anche questo sentimento è morale, perchè o vuol produrre nella persona benefica qualche pregio e suo perfezionamento, e in tal caso si riduce all' amore di beneficenza, o vuol darle qualche bene eudemonologico ed egli ancora è morale, perchè un bene eudemonologico dato per gratitudine è un bene dato in merito e premio dell' altrui buon' azione da chi l' ha ricevuta (2). In tutti questi casi l' amor del reale non manca, ma regolato dall' idea è l' amor sempre dell' idea realizzata, e però si riman libero, non rinserrato, non cieco, non esclusivo. Noi abbiam veduto fin qui quali sieno le cagioni che ristringano il cuore del bambino e limitino la sua benevolenza. Una importantissima regola di educazione sarà per tanto la seguente. « Usare tutti que' mezzi pe' quali la benevolenza del fanciullo rimangasi libera, illuminata, non esclusiva, ma universale ». La scienza pedagogica, quanto spetta all' infanzia, avrà toccato la cima, quando sarà giunta a determinare quali sieno tutti questi mezzi, sì negativi pe' quali al fanciullo si sottraggono tutte le occasioni di limitare i suoi affetti, sì positivi pe' quali si ottiene che il fanciullo distribuisca i suoi affetti con universalità e giustizia. Noi direm solo alle madri, alle nutrici, ai genitori che se in conseguenza di questa dottrina pare loro di perdere qualche cosa del desiderato amore de' loro bamboli, essi s' ingannano così credendo. Il risultamento non ne sarà che di cangiare un amore ingiusto con un altro amore giusto, un amore impetuoso sì ma perituro, con un amore pacato ma eterno, qualche carezza infantile con un rispetto profondo, il quale nell' istesso tempo che darà a' loro nati quella dignità morale che è l' altissimo bene dell' uomo, darà ad essi stessi sicurtà pienissima di attendere da' figli ogni efficace aiuto e sostegno in qualsivoglia vicenda della vita, in ogni loro età, e memoria ed onoranza oltre il sepolcro. Ma il principale tra tutti i mezzi positivi co' quali si possa mantenere e rendere universale e sapiente la benevolenza nell' uomo fin dall' ugne tenerelle, si è quello di volgere fin dall' infanzia il corso del suo cuore verso la prima sua origine, il Creatore. Iddio comprendente in sè tutto l' essere, dove ogni cosa, che è, è Iddio amante di tutte cose, perchè tutte le ha fatte e le fa, raccoglie in sè tutto il bene, a cui tenda ogni cuore; e nell' amore divino vi ha perciò implicito l' amore ordinato ad ogni cosa. Laonde egli è a questo fuoco che s' accende la benevolenza, e s' espande immensamente e si ordina tutt' insieme. Veramente invano volle Rousseau far credere che il culto della deità non foss' opera da lingua che chiama babbo e mamma. Anzi il tenero infante, quasi più vicino all' origine sua, egli pare che vi si rivolga con trasporto, che la ricerchi con ansietà, che la ritrovi più rattamente dell' adulto medesimo; ed appartiene assai più a Dio che all' uomo il comunicarsi all' anima semplicetta che sa nulla e che pure intende il suo fattore. Laonde avvenne quel che dovea: ed il sofista ginevrino del secolo scorso trovò di questo, nella sua stessa patria, pienissima confutazione (1). Già vedemmo che nella terza età il fanciullo, comincia a concepire l' idea di Dio: dunque egli può altresì volgergli amore, o più tosto non può non farlo. Se poi consideriamo che per tutti quegli che ammettono l' esistenza di Dio, Iddio è il nodo che stringe insieme l' universo, la ragione delle cose, il principio e il fine di tutto, il bene di ogni bene, il bene essenziale: chi non vede che questa idea di Dio per chi non vuol esser ateo o inconseguente dev' esser pur quella che domina, che ordina, che dirige tutte le altre? Chi non vede che da essa sola può prendere la sua unità, il suo principio, ogni sua luce l' educazione umana, e non men quella de' fanciulli che degli adulti, degl' individui che delle società, delle nazioni che dell' umanità intera (2)? Se dunque abbiam già fatto conoscere al nostro fanciullo il valore di questa voce Dio, insegniamogli tosto anche a indirizzare a lui tutti i suoi teneri affetti. Ho già detto che dando l' uomo a Dio tutti i suoi affetti non li toglie alle altre cose, perocchè queste in Dio stesso si riscontrano. Non fa altro che santificarli, impedire che trasmodino, renderli ad un tempo e più sublimi e perenni. Io voglio qui dire una parola alle madri ed a' padri cristiani: agli altri genitori la parola che dirò è inintelligibile e per ciò stesso insopportabile: chiudano dunque qui gli orecchi quanti non hanno ne' lor sentimenti tanta elevatezza, quanta è quella che nelle madri e ne' padri veramente cristiani non infonde la natura, ma la parola dell' Altissimo. A' piedi di questi è lucerna la legge di Dio: e però essi non s' atterriscono a consultarla. Veggano dunque in qual maniera questa legge determini gli affetti de' loro figlioli sì verso di essi che verso l' Essere supremo. Che cosa ordina la legge di Dio verso l' Essere supremo? - L' amore: eccone le parole: « « Amerai il Signor Dio tuo di tutto il cuor tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(1). » Che cosa ordina la legge di Dio a' figliuoli verso i genitori? - L' onore: eccone ancora le parole: « « Onora il padre tuo e la madre tua, acciocchè sii longevo sulla terra che il Signore Iddio tuo ti darà »(2) ». Perchè riserba l' amore a Dio e comanda l' onore a' genitori? Che cosa significa questa distribuzione d' affetti? Questa distribuzione d' affetti che fa la divina legge è direttamente opposta alla distribuzione che ne fa la natura; giacchè la grazia si trova in opposizione continua colla natura, essendo quella più ampia di questa nelle sue vedute e ne' suoi affetti, e contornandosi questa di limiti, cui quella rompe e trasporta. La natura dunque inclina l' uomo ad amare i suoi genitori; non tanto ad amare l' invisibile Creatore, ma più tosto ad onorarlo . Ma volle forse la legge divina condannare o l' amor naturale verso de' genitori, o l' onore verso la Divinità? - No certamente: ella volle soltanto impedire che le inclinazioni naturali non trasmodino e degenerino in corruzione. A tal fine all' onore verso Dio suggerito dalla naturale ragione congiunse e contrappose il precetto dell' amore ; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose il precetto dell' onore . Di più, all' onore verso Dio congiunse e contrappose l' onore verso i genitori; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose l' amore verso Dio. Così gli affetti naturali, contrabilanciati dai precetti divini, possono conservarsi senza eccedere e pervertirsi. Si consideri che ciò che è naturale non ha bisogno d' essere comandato, ma solo regolato . I genitori possono starsene pienamente tranquilli sull' affetto de' loro figli: la natura glielo garantisce: basta solamente ch' essi stessi colla loro rea condotta non vi pongano impedimento. Ma s' arricordino ancora (parlo sempre a' genitori cristiani) che relativamente all' amore della loro prole non è già che questo scarseggi, ma che da una parte ecceda, dall' altra che degeneri in tenerezze sterili, le quali, appunto perchè effetto dell' istinto, cedono poi a un altro istinto maggiore, l' egoismo. Contro al primo di questi due pericoli che rende l' amore de' loro figlioli immorale si guarentiranno, facendo che nel cuore de' loro fanciulli Iddio abbia un posto maggiore di essi, memori delle parole del Redentore: « « Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me »(1) », e le altre che dimostrano come nella collisione iddio va preferito a' genitori: « « Se taluno viene a me e non odia il padre suo e la madre.... non può essere mio discepolo »(2) ». Contro al secondo pericolo si guarentiranno pure, se esigeranno dal fanciullo il debito onore alla loro autorità, fonte d' un amor rispettoso, di ubbidienza e di efficaci servigi: perocchè la legge di Dio tutto questo racchiude (3), ed è buon cambio verso a sensuali tenerezze. L' amore dunque verso i genitori vien migliorato inserendo in esso l' onore comandato dalla legge di Dio: questo determina qual debba essere la qualità e il modo di quell' amore: di che gravità, di che efficacia. Al modo stesso l' onore verso Dio vien migliorato e determinato dal comando che in esso dee esistere l' amore : non dee essere dunque nè un amore puramente esterno e materiale, nè un onore procedente da timor servile d' un' immensa potenza, ma si vuol essere un onore amoroso, pieno di confidente speranza: è il culto in ispirito e verità de' veri adoratori che, vogliosi di fare la volontà divina, trovano questa stessa in tutto ciò che fanno a vantaggio de' loro genitori, come pure di tutti gli altri uomini. Mi sia dunque permesso di dire che ogni usurpazione torna in danno di chi la fa; così i genitori cristiani, i quali più amano la loro prole, debbono vegliare su di se stessi (e forse niuno loro fin qui lo disse!), acciocchè non forse usurpando essi quel finale affetto che i figliuoli debbon dare a Dio solo, essi perdano anche quel legittimo che loro è dovuto e che a loro la divina legge tribuisce. Ma ritorniamo su' nostri passi. Il culto del bambino non può andare che dietro i passi che vien facendo in lui la cognizione dell' Essere supremo. Noi abbiamo accennato quale ella possa essere a questa età. Il culto che corrisponde alla medesima dee essere semplicissimo: affetti di amore e parole che lo esprimano. L' adorazione vien dopo: è un sentimento e un concetto più complesso: lo stesso dicasi dell' ossequio e del rendimento di grazie: essi appartengono alle età avvenire. Anco io crederei importante di dar tempo, acciocchè si sviluppi sufficientemente la grande idea di Dio nella mente dell' infante, prima di circondarla d' altre idee accessorie e d' altre religiose dottrine. Conviene che lo spirito del fanciullo si concentri nella maestà dell' Essere supremo; e quando egli è giunto a sentirla altamente questa maestà, quando il pensiero di Dio e de' suoi attributi domina in lui, allora tutte le altre idee religiose trovano in quell' idea una saldissima base su cui elle si edificano, un centro intorno a cui si aggruppano: la religione allora cresce, per così dire, quasi tempio augusto nell' animo dell' uomo. L' ordine delle intellezioni segna un' epoca fissa della mente: colla prima intellezione d' un dato ordine che faccia il fanciullo, egli entra in un nuovo stato intellettivo: gli si è aperto innanzi un campo immenso dove potrebbe spaziare senza trovare un confine, quando anche egli fosse limitato a quell' ordine a cui è arrivato, e non gli fosse dato di ascendere ad uno maggiore. Ma quando si voglia determinare il tempo preciso in cui la mente passa da un ordine all' altro, allora s' incontra un' estrema difficoltà. Primieramente non tutti i fanciulli fanno questi passaggi intellettivi agli stessi momenti. Di poi, anche trattandosi di determinare questi momenti in un determinato fanciullo, la cosa riuscirebbe difficilissima; perocchè e non si può accertare che il passaggio nasca sotto i nostri occhi, ed anco ove nascesse mentre il fanciullo forma l' oggetto della nostra attuale osservazione, egli facilmente ci sfuggirebbe, sia perchè quel primo atto d' un ordine superiore verrebbe fatto dal fanciullo in un modo sfuggevole, sia ancora perchè costa molto più di tempo e di sagacità all' istitutore l' analizzare gli atti della mente fanciullesca, che non costi al fanciullo il porli e il farli celeremente gli uni agli altri succedere. Sarebbe dunque impossibile il determinare in un trattato del Metodo, a qual tempo precisamente ciascuna età del fanciullo comincia, a qual finisce. E tuttavia non è inutile, anzi stimiamo assai vantaggioso, il determinare questi periodi per approssimazione. La qual opera rimane ancora cosa difficile, e noi non possiamo tentarla che su quella poca esperienza che abbiam presa de' giovani. Speriamo tuttavia che l' esperienza altrui verrà in progresso di tempo correggendo e perfezionando il nostro tentativo, forse il primo di questo genere. Diremo qual principio abbiam seguito e quale intendiam seguire nel compartimento delle età. Non avvenendo in tutti i fanciulli il passaggio d' un ordine all' altro d' intellezioni nello stesso momento, noi abbiamo preso a determinare questo passaggio, quel tempo entro il quale suole avvenire nel più de' fanciulli, e per accertarci sempre che questo sia avvenuto, abbiamo voluto averne un segno certo in qualche atto intellettivo che comunemente fanno i fanciulli, e che indubitatamente appartiene ad un ordine d' intellezioni. Così a segnare il principio della seconda età, abbiam presa la fine delle sei settimane; perocchè questo è il tempo in cui solitamente i bambini sorridono alle madri, primo segno certo di loro intelligenza. A segnare il principio della terza età, abbiamo preso la fine d' un anno; perocchè i bambini sulla fine dell' anno sogliono cominciare a parlare, e il parlare è un atto che appartiene certamente al second' ordine d' intellezioni. Ora medesimamente prenderemo la fine del second' anno a segnare il principio della quarta età di cui ci proponiamo a parlare in questa sezione, perchè nel terz' anno i bambini possono comunemente cominciare a leggere; e il leggere è indubitatamente un atto intellettivo appartenente al terz' ordine d' intellezioni. Da questa maniera che noi usiamo nel dividere le età, si vede: 1 che noi prendiamo gli ordini d' intellezioni per regola, secondo la quale compartire le età diverse; 2 che questa regola non è applicabile a determinare il tempo se non per approssimazione. Quando dunque diciamo che col secondo anno comincia la terza età del fanciullo e col terzo la quarta, non intendiamo mica di sostenere che avanti il secondo anno non abbia fatto il fanciullo nessuna intellezione di second' ordine, ma solamente che quelle sono da noi trascurate, perchè non osservabili ne' fanciulli comunemente. Così parimenti, quando facciamo cominciar la quarta età dal terz' anno, non vogliamo sostenere che non possa il fanciullo aver fatto anco prima di questo tempo qualche intellezione di terz' ordine; ma cominciamo al terz' anno a parlare di quest' ordine d' intellezioni, perchè cominciano allora queste intellezioni ad apparire comunemente ne' fanciulli non equivoche nè sfuggevoli di soverchio. Questa è avvertenza che vogliamo aver data una volta per sempre; la quale il lettore applicherà a tutte le età successive della vita che ancor ci restano da percorrere. Laonde quando anche il fanciullo passasse il terzo anno senza ascendere ad un nuovo ordine d' intellezioni, non continuerebbesi men tuttavia lo sviluppo di tutte le sue facoltà, quantunque limitate a non muoversi fuori del confine segnatole dal second' ordine d' intellezioni. In ciascuno degli ordini precedenti: 1 si aumenterebbe il numero delle intellezioni; 2 le intellezioni stesse si perfezionerebbero, ripetendosi e ricalcandosi nello spirito, traendo in atto una maggiore attenzione dal fondo di questo, e fondendosi nel sentimento universale che sempre esse cagionano, e che è principio di nuova attività. Questi due progressi del numero e della perfezione delle intellezioni avvengono entro ciascun ordine delle medesime, e non si debbono perdere giammai di veduta da chi vuol tenere dietro allo sviluppamento umano. Ma noi vogliamo averlo detto qui una volta, acciocchè il lettor lo applichi in ogni età a tutte le intellezioni degli ordini precedenti. A paro colle facoltà passive dell' intendimento procedono pure le facoltà attive della volontà: e con quelle e con queste va di conserva lo sviluppo di tutte le facoltà animali, che tutte si vanno vestendo d' abitudini diverse di forza e di qualità. Come le intellezioni di second' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti delle intellezioni del primo ordine tra loro, o coi sentimenti che l' uomo ha anteriormente al second' ordine (1); così parimenti le intellezioni del terz' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti che hanno le intellezioni di second' ordine tra loro, o tutto ciò che v' ha nell' uomo di pensiero e di sentimento precedentemente a loro. Le intellezioni dunque del second' ordine si dividono in due classi: I Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine tra loro. II Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine coi sentimenti che sono nell' uomo. Le intellezioni del terzo ordine essendo quelle che fa lo spirito mediante una riflessione sulle intellezioni del second' ordine, si complicano alquanto di più; e si dividono nelle classi seguenti: I Classe delle intellezioni di terz' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti (1) delle intellezioni (2) di second' ordine tra loro. A. - Rapporti della prima classe delle intellezioni di second' ordine tra loro. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni di second' ordine fra loro. C. - Rapporti tra le intellezioni della prima classe, e le intellezioni della seconda classe, sempre di second' ordine. II Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine colle intellezioni di prim' ordine. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni di secondo ordine colle intellezioni del primo ordine. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni del secondo ordine colle intellezioni di prim' ordine. III Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine coi sentimenti ad esse precedenti. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni del secondo ordine coi sentimenti antecedenti. B. - Rapporti della seconda classe d' intellezioni del second' ordine coi sentimenti antecedenti. Questo specchio dimostra che tutte le classi delle intellezioni di terz' ordine già crescono al numero di sette; il che non è piccola prova dell' immensità dell' umano pensiero, e del labirinto ch' egli è a volerlo percorrere e rilevarne il disegno. E posciachè ci recherebbe troppo a lungo il dar qui un esempio di ciascuna delle sette classi, mi restringerò a porgerne uno solamente dell' ultima, dove gli atti dello spirito umano più che nell' altre si complicano. Se io ricevo le diverse sensazioni che una rosa può darmi mediante i diversi miei organi, io insieme colle sensazioni mi formo di essa la percezione intellettiva (1 ordine d' intellezioni). Ora, se dopo di ciò di notte sentomi ferire le nari da un odore di rosa, io da quest' odore posso argomentare all' esistenza della rosa in vicinanza al mio naso: argomentazione che fo in riflettendo sul rapporto che la sensazione odorosa ha colla passata mia percezion della rosa: e che perciò appartiene alle intellezioni di second' ordine (2 classe). Ora poi se io continuo a riflettere su questa rosa, di cui ho argomentato l' esistenza, e riflettendo di nuovo argomento meco medesimo che « se qui v' ha una rosa, son certo che in essa vi hanno anco delle spine, le quali mi cagioneranno dolore, se colle dita io la stringo »; io formerò con ciò delle intellezioni di terz' ordine, e tra le intellezioni di terz' ordine una di quelle dell' ultima classe, perchè congiungo mediante la riflessione la rosa invisibile (intellezione di second' ordine) con un mio sentimento, cioè il dolore. Ora, se noi volessimo tener dietro a tutte le classi in cui si divide il terz' ordine d' intellezioni, e più ancora gli ordini successivi, saremmo infiniti. Omettiamo adunque, per non dipartirci dallo scopo di quest' opera, un lavoro sì vasto, benchè utilissimo, lasciandolo agli avvenire, e cerchiamo di prescriverci quinc' innanzi un piano più semplice ma regolare nell' esposizione de' gradi di sviluppo intellettivo che di mano in mano fa l' uomo, a cui possiamo riscontrare quel metodo che più s' avviene. In prima, in ciascuno degli ordini d' intellezioni, di cui avremo a parlare in appresso, cominceremo dal divisare diligentemente le varie classi nelle quali quell' ordine si parte, affine di presentare agli occhi del lettore una cotal tavola, dove rilevi e l' estensione di quell' ordine ed i confini e la varia complicatezza di ciascuna delle intellezioni che gli appartiene. Dopo di ciò, lasciando da parte quest' abbozzo di maggiori ricerche, noi prenderemo a considerare tutte in corpo le intellezioni di quell' ordine, seguendo il seguente progresso. In prima parleremo delle operazioni dello spirito colle quali si formano le intellezioni di quell' ordine di cui si tratta: di poi parleremo degli oggetti di quelle operazioni, cioè delle cose che noi per esse siam venuti a conoscere. Ora poi, quanto agli oggetti conosciuti, questi o sono idee elementari (1) comuni a tutte le conoscenze, ovvero sono conoscenze appartenenti all' una o all' altra delle tre nostre supreme categorie, in cui consideriamo partite tutte le cose che cadono nel pensiero o che sono. Riassumendo adunque, lo schema seguente presenterà agli occhi de' lettori il metodo che noi terremo trattando di ciascun ordine d' intellezioni, e giova non poco averlo presente, quasi carta geografica, affin di conoscere il cammino che noi facciamo. A. Operazioni, colle quali lo spirito si forma le intellezioni d' un dato ordine. B. Oggetti di quelle operazioni intellettive. I Comuni o idee elementari. II Categorici, cioè: 1 Reali e ideali; 2 Morali. In quest' età del fanciullo adunque le operazioni, alle quali la mente sua si fa idonea, sono i giudizi sintetici (1). E veramente essendosi formato il fanciullo nella terza età degli astratti di cose sensibili, per esempio, del colore, del sapore, o almeno certamente del bene e del male sensibile; egli è in caso di servirsi di questi astratti come di altrettanti predicati che aggiunge ad un soggetto, e perciò egli è nel caso, al cadergli sotto gli occhi d' un cibo, di dire: « Questo è buono »; ovvero: « questo è cattivo ». Si noti qui bene il progresso della mente fanciullesca. Io ho confutati i giudizi sintetici a priori di Kant (2); ma nello stesso tempo ho ammesso anch' io un giudizio sintetico a priori , ma un solo: quello che ho chiamato la sintesi primitiva o la percezione. Ho dichiarato a priori questo giudizio primissimo, col quale l' uomo dice seco stesso: « qualche cosa esiste », perchè in esso il predicato è l' esistenza , che non viene dall' esperienza, ma che è intuito con un atto interiore dello spirito. Questo giudizio sintetico a priori è l' operazione corrispondente al prim' ordine d' intellezioni. Ma tostochè lo spirito ha percepite le cose, egli esercita sulle sue percezioni e sulle memorie delle medesime de' giudizi analitici (1), cioè scompone le sue percezioni e memorie delle medesime. Veramente la scomposizione delle percezioni nasce in due modi: il primo nel modo naturale, onde avviene che la mente contempli la sola idea della cosa senza attendere al giudizio sulla sua sussistenza. Questa scomposizione dell' idea dal giudizio sulla sussistenza, che avviene naturalmente, non è un giudizio analitico; perchè nulla si giudica con essa: la sussistenza e l' idea sono cose eterogenee che si dividono da sè: lo spirito non fa che limitare la sua attenzione piuttosto all' una che all' altra di quelle due cose già per natura disparate. Il secondo modo di scomposizione si fa artificialmente sulle idee imaginali, traendosi da queste un loro elemento, e questa operazione è un vero giudizio analitico, perocchè è una vera scomposizione d' un' idea sola in più. Ed è il linguaggio quello che aiuta la mente, come abbiam veduto, a ciò fare; e sotto questo aspetto compete alle lingue la denominazione di metodi analitici data loro da Condillac. Tal è l' operazione che corrisponde al second' ordine d' intellezioni. Vedesi da ciò che con tale operazione appartenente al second' ordine la mente umana acquista de' nuovi predicati . Da principio essa non avea che quello innato nello spirito dell' esistenza, il quale gli servì a fare i primi suoi giudizi sintetici. Questi diedero materia ai giudizi analitici che susseguirono. I giudizi analitici fornirono alla mente de' nuovi predicati che, potendo esser congiunti ad altri e altri soggetti, diedero possibilità alla mente di fare dei nuovi giudizi sintetici. Perocchè se io già so, a ragion d' esempio, che cosa sia il bene e il male sensibile, al vedere un cibo del tutto simile nell' apparenza a quello che altre volte tornò gradevole al mio palato, io posso unire il predicato buono coll' oggetto da me veduto, pronunziando il seguente giudizio sintetico: « questo è buono », ovvero: « ciò che veggo è buono ». Non si dee mica qui confondere il giudizio sintetico, pel quale io dico: « questo è buono »colla semplice apprensione sensibile che si manifesta anche nell' animale, attesa l' associazione che nasce in lui delle varie sensazioni. Se il cane trema d' allegrezza al solo vedere presente il cibo che pure non può prendere ancora, non fa egli un giudizio: solo la vista del cibo gli desta il fantasma del grato sapore altre volte da lui provato e gli suscita l' affezione e l' azione corrispondente (1). Giudizio non si dà, se non in un essere il quale intuisca il predicato da sè solo (astratto), e poi lo congiunga al soggetto, cioè a dire vegga lo stesso predicato in un soggetto. Appartiene adunque al terzo ordine d' intellezioni la seconda fila de' giudizi sintetici. E prima di passar oltre non dee riuscire inutile l' accennare qui la legge universale cui seguita lo sviluppo dello spirito umano, la quale si è la seguente: « I giudizi sintetici ed i giudizi analitici si avvicendano per siffatto modo che se noi disponiamo in una serie i diversi ordini d' intellezioni, i numeri dispari dei medesimi sono formati da altrettante file di giudizi sintetici, e i numeri pari sono formati da altrettante file di giudizi analitici ». E che la cosa debba riuscire a questo è per sè manifesto: conciossiachè non si può scomporre se non quello che hassi prima composto. Laonde alla composizione dee susseguire la scomposizione, e alla scomposizione dee susseguire la ricomposizione, e così di mano in mano sempre procedendo. Questi ordini d' intellezioni adunque, i quali si formano mediante composizioni ovvero sintesi, danno allo spirito de' nuovi soggetti da analizzare, e quegli ordini d' intellezioni che formansi mediante scomposizioni o analisi, arricchiscono la mente di sempre nuovi predicati che sono atti ad essere sintesizzati, cioè uniti ad altri soggetti. E tuttavia oltre i giudizi sintetici proprŒ della quarta età del fanciullo, continua il fanciullo ad esercitare anche l' analisi . Già abbiamo notato che le operazioni dello spirito che cominciano nelle età inferiori continuano poi nelle superiori senz' interruzione, aumentando i loro prodotti di numero e di perfezione, il che complica sempre più lo sviluppo dello intendimento umano. Tuttavia si dee aggiungere, che all' analisi e all' astrazione vien data in ogni età nuova materia, perchè l' analisi del pensiero scompone tutto e continuamente, e perciò anche quello che è stato prima scomposto. Avvi certamente rispetto ai pensieri quella stessa divisibilità all' infinito, che si ravvisa nella scomposizione della materia, ond' è che sono vani gli sforzi di tutti quei logici che hanno voluto ridurre tutto lo scibile ad idee assolutamente elementari. Di qui poi scaturisce un' altra conseguenza ed è, che sebbene l' analisi appartenga al second' ordine d' intellezioni, tuttavia certi suoi prodotti sono proprŒ del terzo, e innanzi questo non si potrebbero avere, e lo stesso può ripetersi d' ogni altro ordine d' intellezioni superiore, di maniera che ad ogni ordine intellettivo l' analisi contribuisce qualche cosa del proprio lavoro. Le prime astrazioni che si fanno dal bambino sono le qualità sensibili degli enti, cioè il buono sensibile, il male sensibile, ecc.. Queste qualità non sono finalmente che effetti prodotti dagli enti nella nostra facoltà di sentire. Egli è naturale che il bambino da principio non può mettere la sua attenzione che in quel che sente, giacchè ciò che non sente non esiste ancora per lui. Ma tostochè egli giunge a mettere tra di loro in armonia le sensazioni de' suoi varŒ organi e a ricever l' una di esse come annunzio d' un' altra, ad aspettar questa, perchè gli è venuta prima quella, ecc., egli con ciò un po' alla volta giunge a porre la sua attenzione anche sulle azioni degli enti e ad astrarre queste da essi, sempre mediante il linguaggio, cioè mediante i verbi che segnano appunto l' azione delle cose. Mi si permetta qui d' aggiungere ancora le osservazioni d' una madre sulla maniera onde il bambino, mediante il linguaggio, giunge a formarsi gli astratti delle azioni. [...OMISSIS...] Queste osservazioni sono piene di verità, e di sagacità non comune. I giudizi sintetici di questa età sogliono essere la conseguenza d' un raziocinio catatetico , che si forma nella mente del fanciullo. A ragion d' esempio, quando il fanciullo giudica buono il cibo che vede prepararglisi, egli concepisce nella sua menticina un discorso, che, se potesse essere espresso in proposizioni, prenderebbe questa forma. « Ciò che veggo adesso è uguale a ciò che ho veduto altra volta, ma ciò che ho veduto altra volta era buono al mio palato e al mio stomaco; dunque ciò che vedo è buono al mio palato e al mio stomaco ». E` ben lontano il nostro fanciullo da poter esprimere tali proposizioni, ma la sostanza di esse passa indubitatamente pel suo spirito. Or poi, se il bambino della età accennata può fare dei raziocinŒ catatetici, e così salire al terz' ordine d' intellezioni; egli non potrebbe però ancora concepirne di ipotetici, o di disgiuntivi , perocchè i raziocinŒ di queste due forme esigono la maggiore composta di due predicati confrontati insieme, dei quali l' uno suppone l' altro, o l' uno esclude l' altro. Ora egli ha bensì de' predicati , ma per confrontarli tra loro e trovarne il rapporto dovrebbe salire ad un ordine più elevato d' intellezioni, come vedremo nelle sezioni seguenti. Or quali sono dunque gli oggetti, che l' uomo viene a conoscere colle operazioni indicate del terz' ordine? - Noi parleremo di alcune classi principali di tali oggetti, e prima dei reali, poi degl' ideali, e finalmente de' morali. Cominciamo dai primi. Fra gli oggetti reali dobbiamo in prima esaminare il progresso che fa lo spirito ne' concepimenti di collezioni. Gli astratti , e le idee collettive furono confuse insieme da' sensisti, e dagli Scozzesi, ma differiscono tra loro interamente (2): gli astratti sono il fondamento delle collezioni, ma non sono le collezioni. Io non potrei avere l' idea collettiva d' una mandra di pecore, se non avessi prima l' idea astratta della pecora, in cui ciascuna pecora della mandra conviene; perocchè la collezione non è che una moltitudine di cose sotto un certo rispetto uguali. Vediamo dunque per quali passi lo spirito si forma i concetti delle collezioni. Al primo vedere di più cose, che fa il fanciullo, o al primo sentirle contemporaneamente, egli non si forma già l' idea di collezioni, nè di pluralità, nè di differenze. Concedendo che il suo intendimento si mova alla percezione , e concedendo però che quelle sensazioni non rimangano meri fenomeni sensibili; non ne viene ancora che l' intendimento acquisti alla prima i concetti indicati di moltiplicità ecc.. Ciò che soltanto si può osservare si è questo, che, allorquando il fanciullo vede due cose a sè presenti, egli ha una percezione diversa d' allora che vede una cosa sola. Da ciò ne viene che il fanciullo distingua nel primo caso due oggetti, nel secondo un solo; egli non distingue se non due percezioni diverse, di cui non sa ancora farne l' analisi; la moltiplicità è tale per chi sa distinguere e separare le unità che la compongono; ma quando queste unità si percepiscono a un tratto e, come diceva la Scuola, « per modum unius », la mente allora non concepisce alcuna collezione. La diversità tra la percezione di un oggetto, e la percezione di più oggetti fu ciò che trasse in inganno Bonnet, al quale parve d' avere un fondamento per dire, che « « le idee di collezioni si formano dall' azione degli oggetti sensibili sui nostri organi, come si formavano pure, a suo credere, le idee semplici »(1) ». All' incontro concedendo noi, che l' impressione che ricevono gli organi del bambino alla vista d' un branco di pecore sia grandemente diversa da quella, che riceve dalla vista di una pecora, neghiamo al tutto che la diversità consista nell' essere quella un' impressione rispondente ad un' idea collettiva, e questa un' impressione rispondente ad un' idea di cosa unica: anzi esse sono due impressioni semplici, l' una più variegata dell' altra, ma che non dà allo spirito ancora alcuna vera idea di collezione. Si vede in questo errore di Bonnet, che questo filosofo non conobbe la vera natura delle idee collettive, nè credette necessario d' investigarla; ma osservata la differenza dell' impressione che fanno le collezioni di cose dall' impressione delle cose singole, ne dedusse che in questa differenza d' impressione consistesse appunto la natura dell' idea collettiva. Nè il sistema de' sensisti poteva difendere la mente dall' errore preso da Bonnet; perocchè in questo sistema non essendo essenzialmente separata la sensazione dall' intellezione, era impossibile l' accorgersi, che l' intendimento non percepisse ad un tratto quanto vi ha nella sensazione, ma soltanto un poco alla volta. Noi abbiamo veduto (1) che l' intendimento da principio non percepisce che la forza del corpo, dove ravvisa l' ente; e che solamente da poi colloca la sua attenzione sulle qualità sensibili dell' ente, le quali per buona pezza rimangono nel senso, sentite bensì dal soggetto, ma al soggetto ignote. Di più abbiamo veduto che l' intendimento con ogni suo atto percepisce il menomo possibile; cioè a dire percepisce solamente quel tanto dell' oggetto sensibile, che è costretto a percepire dal suo bisogno, che è lo stimolo che lo fruga e sveglia a' suoi atti; e nulla affatto di più. Quando anche adunque le due sensazioni di una collezione di cose e d' una cosa sola potessero prestare la materia all' intendimento per giungere a comporci l' idea di collezione e l' idea di cosa unica, non ne verrebbe mica di conseguenza che l' intendimento anche si componesse, di fatto e tosto, tali idee; ma anzi solamente allora, che nasce al soggetto intellettivo il bisogno di esse e non prima. E in ogni caso rimane al filosofo il dovere di descrivere tutto il processo delle operazioni che va facendo l' intendimento, quando dalla materia datagli da' sensi giunge effettivamente a lavorarsi e comporsi quelle idee. Egli è dunque questo che a noi conviene ora investigare. Egli è certo intanto che l' analisi d' idea di una collezione somministra per risultamento: 1 che questa idea suppone, che chi la ha sappia che cosa sia unità; 2 che sappia che più unità sono insieme adunate nello stesso spazio; per restringerci ora a questa specie di collezioni, come quelle, che sono più facili. Questa seconda notizia ne racchiude poi un' altra, cioè l' uguaglianza sotto un certo rispetto delle unità componenti la collezione; conciossiachè se più cose fossero in tutto e per tutto differenti tra loro, niuna collezione più formerebbero (1). Ora non è già a credersi, che il concetto dell' unità nella forma astratta, che vien significata nella parola, si formi assai presto nella mente del fanciullo. L' uno ideale esiste implicitamente nell' ente , che è il lume naturale della mente, e perciò il fanciullo lo suppone e l' adopera; ma senza porvi sopra attenzione, appunto perchè non ha bisogno d' un' astrazione così elevata. Nondimeno, allorquando egli sente a nominare (ed è ancor qui il linguaggio che aiuta la sua mente) un oggetto, due oggetti, ecc., egli arriva dopo qualche tempo ad accorgersi, che i due oggetti sono l' oggetto stesso ripetuto. Il fare coll' intendimento il giudizio seguente: « Questi oggetti, che io vedo sono due », è un' operazione complicata. Noi possiamo considerarla primieramente come un' analisi di quell' unica impressione sensibile, nella quale gli si rappresentano i due oggetti. La mente ritorna sopra questa impressione, la percepisce, e in essa distingue un oggetto dall' altro. Ma a far questo conviene che la mente abbia sentito a pronunciare il nome comune de' due oggetti, supponiamo il nome pera ; conviene, che abbia sentito ad applicar questo nome all' uno e all' altro oggetto, e che abbia compreso, che questo nome significa ciò che quelli oggetti hanno di comune; conviene, che la qualità comune de' due oggetti l' abbia nella sua mente legata a quel nome, e perciò stesso astratta dagl' individui. Nè si può dire, che perciò l' intendimento sia giunto ancora a formare il giudizio: « Questi oggetti sono due ». Conciossiachè la qualità comune, che restò nella mente legata al nome, non suppone alcuna dualità perchè è unica, e l' esser venuta da più oggetti non induce la necessità che anche la pluralità di questi oggetti sia restata nella mente, potendo aver ciascuno di essi deposto nella mente l' elemento comune senza che la mente li abbia considerati insieme, e abbia notato il rapporto numerico che hanno tra loro. Ma quando il fanciullo da una parte ha la qualità comune nella mente sua legata al nome, poniamo di pera , e dall' altra sente ripetersi agli orecchi la parola una pera, due pere, e vede questi oggetti presenti, allora egli finisce coll' assegnare un senso alle parole uno e due , e a fermare la sua attenzione sull' unità e sulla qualità delle pere. Laonde se noi consideriamo questo processo di operazioni, colle quali la mente giunge a concepire la dualità degli oggetti, noi facilmente ci accorgeremo che non può il fanciullo giungere a tanto se non arrivato al terz' ordine d' intellezioni. E infatti la qualità astratta appartiene al second' ordine, come abbiamo veduto. Il riflettere al rapporto numerico che hanno due oggetti partecipanti la stessa qualità astratta, esige manifestamente una riflessione di più, cioè un' intellezione di terz' ordine. Ma qui gioverà, che seguitando il discorso accenniamo ancora il modo, pel quale la mente passa a concepire gli altri numeri superiori al due; il che sebbene ella faccia sollevandosi ad ordini d' intellezioni sempre maggiori, onde il discorso apparterrebbe alle sezioni seguenti, tuttavia l' unir qui tutto ciò, che spetta alla cognizione dei numeri, renderà la dottrina più lucida. Egli è dunque evidente, che pei numeri tre, quattro, cinque e tutti gli altri maggiori, hassi a fare un ragionamento in parte simile a quello, che abbiam fatto per ispiegare la concezione del due. Sono sempre necessarie le parole, che fissino nella mente il rapporto numerico, cioè la trinità delle cose, la quaternità ecc.. Di più egli è impossibile il passare a numerare tre oggetti senza numerarne prima due, come è impossibile giungere al concetto dei quattro, se prima non si è formato il concetto dei tre. Questo dimostra che ciascun numero appartiene ad un ordine d' intellezioni superiore (1); di guisa che la mente è costretta a salire per tanti ordini d' intellezioni, quanti sono i numeri di cui ella giunge a formarsi una distinta idea. E dico una distinta idea, perocchè non è mica da credere che l' uomo abbia un' idea distinta di ogni numero che egli pronuncia colla sua bocca. E chi è mai che abbia una idea distinta di un milione, e anche solo del numero mille? Io credo per lo contrario che convenga discendere a un numero sommamente piccolo per trovar quello di cui gli uomini, anche dotti, abbiano un' idea distinta propria, e non aiutata da qualche formola generale. E infatti io credo impossibile, che l' uomo avesse pur nel linguaggio i nomi di numeri altissimi, quando egli non avesse altra via di concepirli se non quella che abbiamo accennata, di analizzare cioè la percezione, ch' egli riceve dalle collezioni, numerando le unità in esse distinte, e però notando il rapporto della seconda unità colla prima, della terza colle due prime, della quarta colle tre prime, e così trascorrendo tutti gli ordini delle collezioni a cui i numeri appartengono. In vece la mente, come diciamo, s' aiuta con delle formole generali; che se non le danno l' idea propria e distinta d' un dato numero, le danno almeno un' idea di rapporto del numero ignoto con un numero noto, e la cognizione di questi rapporti determinanti i numeri è sufficiente per avere implicitamente l' idea del numero, perchè si ha gli elementi coll' uso dei quali possiamo trovare il numero stesso. Mi spiego. Se io non conosco per se stesso il numero mille, ma so però ch' egli è dieci volte il cento, nella cognizione del dieci e del cento io ho implicitamente la cognizione del mille. Che se io non conosco il numero cento, ma so però ch' egli è dieci volte il dieci, io nella cognizione del dieci e del suo rapporto al cento ho implicitamente la cognizione del numero cento. Che se di nuovo io non conosco il dieci per se stesso, ma so però che è due volte il cinque, io nella cognizione del due e del cinque e del loro rapporto col dieci ho implicitamente la cognizione del dieci. Che se finalmente non conoscessi nè pure il cinque, ma sapessi però che è un numero che si compone di due volte il due più l' uno; io nella cognizione dell' uno e del due, e del loro rapporto col cinque avrei implicitamente la cognizione del cinque. Or dunque, se io conoscessi l' uno e il due, e i rapporti detti cogli accennati numeri, direi che la cognizione dell' uno e del due è propria e distinta; e la cognizione degli altri non è una cognizione distinta e propria, ma è una cognizione implicita ed espressa in formole . Da questo esempio si vedrà facilmente che ad acquistarsi la cognizione de' numeri mediante formole, la mente giunge assai più celeremente che non sia ad acquistarsi la cognizione propria e distinta de' singoli numeri; giacchè nel descritto modo la mente giunge al mille con quattro passi, con quattr' ordini di riflessione, là dove per acquistarsi la cognizione propria e distinta del mille dovrebbe impiegare mille passi, superare mille ordini di riflessioni; cosa quasi all' uomo impossibile. Ora la scienza de' rapporti de' numeri è l' aritmetica, ed essa perciò è quella che spiana la via per la quale il fanciullo possa più facilmente giungere molto avanti nella cognizione de' numeri. Si domanderà forse qual sia la prima formola che trova naturalmente il fanciullo per avanzarsi nella scala numerica, e a qual ordine appartenga: ecco ciò che a me ne pare. Ritorniamo alla nostra percezione collettiva: il fanciullo vegga un drappello di trentadue soldati; e sia già pervenuto alla cognizione dell' uno e del due. La maniera più semplice colla quale possa giungere, se non ancora a contarli, almeno a trascorrerli, a dividerli l' uno dall' altro, sarà la seguente. La percezione sua del drappello da principio è unica. Ma egli è già atto a fissare l' attenzione sopra un soldato solo. Egli può accorgersi allora che quel drappello non è un soldato solo, perchè vede, oltre il soldato da lui distintamente osservato nella sua percezione, esister ancora qualche cos' altro ch' egli chiama due. Ma questo due è più simile alla percezione totale che all' unico soldato ch' egli mise da parte: può dunque ripetere la stessa operazione e cavar dalla frotta, che restagli, un altro soldato: egli può ripetere la stessa cosa fino che ha fatto passare ad una parte i soldati tutti. Dopo di ciò egli non sa ancora il numero de' soldati; ma gli ha trascorsi uno per uno: ha avuto sempre sotto gli occhi due corpi; ma ha capito che il numerare uno e due si può ripetere quante volte egli voglia: questa è una cognizione nuova per lui ed importante. Se egli volesse qui continuare a riflettere, potrebbe formare due coppie di soldati, e poi due altre di queste coppie, e così procedendo trovare il rapporto del due col trentadue, o sia avere l' idea del trentadue tutto espresso col solo numero due, la qual sua formola sarebbe 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 equivalente a trentadue. Quindi facilmente si vede come il numero due sia un passo immenso per la mente fanciullesca; giacchè questo numero è la base di tutta la numerazione e l' aritmetica primitiva; non potendovi esser numero alcuno che non sia un composto di uno e di due, presi questi numeri e i loro composti una o due volte. E questa importanza del numero due nelle umane cognizioni spiega, se non erro, perchè nelle lingue antichissime v' abbia una terminazione a posta pel duale , nè si confonda il duale col plurale, come si fa nelle lingue moderne. Egli è vero che il duale delle lingue antichissime si applica, il più, a quegli oggetti che sono due in natura come gli occhi, le labbra, le mani, i piedi, le macine, ecc.; ma ciò appunto dimostra la speciale attenzione che fece la mente primitiva sulle cose doppie, e come avendo potuto notare in esse il due, poi con questo ebbe aperto il campo a tutti gli altri numeri che indefinitamente li comprese sotto una sola terminazione plurale. Un altro prodotto delle operazioni intellettive del fanciullo in questa età sono i primi principŒ definiti che acquista la sua mente, de' quali si serve per giudicare. Conviene conoscere chiaramente che cosa sia un principio o sia una regola di giudicare: egli non è altro che « un' idea che viene applicata mediante un giudizio (1) ». Quando io al vedere un oggetto, giudico che è « una pianta »; io applico l' idea della pianta all' oggetto che veggo; e il mio giudizio non è che una proposizione colla quale io affermo che « ho riscontrato nell' oggetto veduto ciò che contemplavo in quella idea ». L' idea dunque della pianta è la regola che seguo in formando questo mio giudizio. Ciò conosciuto, apparisce che vi sono altrettanti principŒ quante idee (2): e che l' essere più ampŒ o più ristretti i principŒ non dipende se non dalla maggiore o minore ampiezza che hanno le idee che vengono applicate. L' uomo, la natura umana è formata da un' idea sola (intuizione dell' essere). Se non ne avesse alcuna non sarebbe un essere intelligente, conciossiachè l' atto caratteristico dell' intelligenza è il giudizio, e il giudizio non è che l' applicazione di un' idea. Quando adunque l' uomo comincia ad usare dell' intelligenza formando i suoi primi giudizŒ, egli non può farli che dietro l' unica idea che ha, quella di esistenza, ondechè prima di giudicare qualsiasi altra cosa, giudica che la cosa esista, ne pronuncia l' esistenza. Allorquando pronuncia intellettivamente l' esistenza d' una realtà applicandole l' idea (percezione intellettiva) quest' idea gli serve di principio . Fino adunque dai primi atti intellettivi l' uomo ha nella mente sua un principio secondo cui giudica; perchè ogni giudizio suppone una regola che si applica in giudicando. Tuttavia questo principio, secondo il quale l' uomo giudica che le realtà esistano (percepisce), è un principio indefinito e illimitato; perchè si applica egualmente a tutte le realtà sensibili; e questa sua indefinitezza è quella che la distingue da' principŒ definiti che, secondo me, non compariscono nel fanciullo, se non quando questi è giunto al terz' ordine delle sue intellezioni. E veramente nel primo ordine d' intellezioni non ci sono che percezioni e idee imaginali. Le percezioni non possono servire di principio per la loro particolarità, e lo stesso dicasi delle memorie di esse. Le idee imaginali potrebbero, essendo universali; ma non trovandosi più individui del tutto uguali, non hanno un' applicazione possibile. Oltre di che applicare quelle idee non si possono, se non ripetendosi le percezioni avute: or queste non hanno mai bisogno di quelle idee per loro regola, quando anzi esse sono il loro effetto. Il second' ordine poi somministra delle idee astratte, ma non fa più che somministrare queste alla mente, e preparargliele per le operazioni del terz' ordine d' intellezioni. E veramente, quando la mente applica a giudicar delle cose quelle idee ch' ella si procacciò nel second' ordine d' intellezioni, allora ella fa appunto di quelle operazioni colle quali si eleva al terz' ordine. Ora, questi principŒ sono definiti, perocchè le idee astratte e semi7astratte, che il second' ordine somministra, hanno tutte una limitazione, non abbracciano l' essere in tutta la sua estensione, ma diviso, e da certi confini più o meno estesi circoscritto. Le idee astratte di cibo, di cane, ecc., non si applicano a tutti gli esseri; ma servono solo a riconoscere tutti quegli enti che sono cibi, tutti quelli che sono cani, ecc. (1). Quelle idee adunque diventano principŒ più ristretti che non l' idea dell' essere in universale, nella loro applicazione. Dai principŒ che dirigono i giudizi teoretici, passiamo ai principŒ morali e pratici che dirigono le azioni del fanciullo. E` un errore il credere, che il bambino non abbia regole di moralità, un errore compreso nel pregiudizio comune e oltremodo antico, ch' egli non abbia uso di ragione, la qual ragione si fa dal volgo comparire nell' uomo tutt' all' improviso e quasi per incanto all' età di sett' anni. Tutto ciò che diciamo in quest' opera tende a distruggere questo tristo errore popolare. E quanto alle regole della moralità, noi abbiamo veduto che appariscono nel bambino fino dal second' ordine delle sue intellezioni. Queste regole primissime si riducono a due, e le abbiamo formolate così: 1 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita ammirazione ». 2 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita benevolenza ». Non è già che il bambino abbia idea del merito; ma sente la necessità, uscente dalla sua natura intelligente e morale, di ammirare e di amare quella cosa bella, animata e intelligente, che per le sue sensazioni egli percepisce, e colla quale vitalmente comunica. Qual modificazione soffrono queste regole intrinseche alla natura morale del fanciullo, quando questi giunge al terz' ordine d' intellezioni? Cessano esse? Perdono esse di forza? Se ne sopraggiungono delle altre? La natura morale dell' uomo non può perdere le sue regole primitive; sentirà ella sempre il bisogno di ammirare e di amare ciò che è bello, animato e intelligente: e ci vorrà una violenza, qualche cosa che la pervertisca, acciocchè ella cessi dal farlo. Ma egli è vero però, che al fianco di quelle regole primitive ne insorgono delle altre nell' animo umano. Ogni età, ogni ordine di intellezione ha le sue regole; il fine, l' essenza loro è la medesima, tendono tutte a prescrivere la stima e l' amore a ciò che è bello, animato e intelligente: ma esse conducono l' uomo a questo fine comune per diverse strade, gli parlano con un linguaggio sempre nuovo, conveniente al nuovo stato della sua mente: l' uomo crede di far guadagno di sempre novelle massime morali, quando infatti ella è sempre la stessa massima, immutabile, eterna, che prende nuove forme nel suo spirito che fa di sè nuove manifestazioni. Noi dobbiamo dunque tener dietro a queste manifestazioni, a queste espressioni sempre nuove del dovere morale che nella mente dell' uomo s' ingenerano ad ogni nuovo ordine d' intellezioni; ed è questo che noi vogliamo ora fare nel terzo di questi ordini. Quali sono dunque le regole morali del bambino giunto al terz' ordine d' intellezioni? Nel secondo l' ammirazione e la benevolenza è già nata in lui: queste volizioni, effetti delle regole primitive, al terz' ordine si cangiano esse stesse in regole morali. Le regole morali adunque pel nostro bambino al terz' ordine d' intellezioni sono le seguenti: Ciò che è conforme alla mia ammirazione è bene. Ciò che è conforme alla mia benevolenza è bene. Ciò che è contrario all' una e all' altra è male. Ciò che non è nè conforme nè contrario alla mia ammirazione e alla mia benevolenza, è indifferente. Queste regole morali che segue il bambino nella sua quarta età differiscono non poco dalle regole primissime ch' egli segue nella età anteriore. Noi abbiamo già veduto, che le persone che governano il bambino possono influire assaissimo sullo sviluppare e sul dirigere la sua ammirazione e la sua benevolenza; con questa influenza da loro esercitata con tutti i loro atti e con tutte le loro parole, possono restringere o allargare la benevolenza infantile, possono dar luogo nell' animo dell' infante alla malevolenza, ispirargli dell' avversione per certi oggetti, della propensione per certi altri; ed abbiamo mostrato quanto giovi, quanto sia necessario tener lontano da quell' animo la percezione e opinione del male, cioè del brutto, e dar opera perchè il semplice cuore s' empisca di benevolenza e di ammirazione, sicchè questi affetti conservino la maggior possibile universalità. Io credo che possa influir questo immensamente sul far prendere all' uomo un corso di vita morale e virtuoso, e giovi a prevenire le passioni a quell' età che sogliono dar all' uomo il più fiero assalto. Ma la felice influenza di quella primissima educazione morale si manifesta già tosto nell' età intellettiva susseguente. Perocchè da essa dipende che le regole morali, che si forma il fanciullo nell' età rispondente al terz' ordine, sieno vere o false, sieno conformi o diformi dalla natura delle cose, lo ingannino o lo dirigano rettamente. E in vero se queste regole sono le sopra accennate « Ciò che è conforme alla mia ammirazione o benevolenza, è bene; ciò che si oppone alla mia ammirazione o alla mia benevolenza è male ecc. »; egli è evidente che queste regole sono vere o false, rette o torte, secondochè la benevolenza e l' ammirazione del bambino è ben formata e ben ordinata; o vero mal formata e mal ordinata. La condizione dunque delle regole morali, ch' egli si forma, dipende dalla composizione che ha preso il suo animo nella precedente età. Si vede di qui l' importanza di procurare, che la prima forma, che prende l' animo suo, la prima mole di stima e di benevolenza che in lui si pone, sia tutta pura e naturale, non contraffatta, non alterata dall' arte, non avvelenata dall' ignoranza e dalla malizia; perocchè se le stesse regole morali del suo operare vengono contraffatte e falsificate dalla prima mala forma che prenda l' animo suo, come potrà camminar diritto quel fanciullo che ha dinanzi agli occhi delle regole false? Eziandio che volesse andar bene, non potrebbe. Si declama sovente dai genitori e dagl' istitutori sulla perversa indole de' fanciulli. Eh! quest' indole non è sempre in essi necessità fisica; qualche cosa d' innato: ella prende questa apparenza, perchè non si vede il lavoro occulto che è venuto formandosi di continuo nelle loro piccole menti, onde si è bel bello immensamente falsato il loro pensare: esistono nelle loro testicciuole dei principŒ falsi che essi seguono fedelmente anche prima di saperli esprimere, e di cui nessuno saprebbe spiegare l' origine: nessuno infatti gli ha forse loro insegnati; ma il loro spirito che non resta mai ozioso, e che si va sempre lavorando dei principŒ, osservando anche in ciò le sue leggi indeclinabili, venne pur componendosi e rassodandosi certe persuasioni profondamente false, che dirigono poi segretamente il fanciullo e cagionano gli atti, atti suoi, fino i più capricciosi ed inesplicabili; conciossiachè esse sono i soli fanali che mandano nell' animo suo quella luce fallace, alla quale camminando gli è forza aberrare. Nel nostro fanciullo non si può ancor parlare di libertà: le sue azioni appartengono alla spontaneità . Mirabili sono le leggi, colle quali opera la spontaneità sia meramente animale, sia intellettiva e morale: noi le abbiamo esposte nell' « Antropologia ». Fra le volizioni spontanee si distinguono le affettive , le apprezzative , e le appreziative . Nella seconda età, in conseguenza del primo ordine d' intellezioni, già cominciano nel fanciullo tanto le volizioni affettive quanto le apprezzative. Nella terza età in conseguenza del second' ordine d' intellezioni cominciano nel fanciullo le volizioni apprezzative in un modo più esplicato. Nella quarta età continuano a svilupparsi i due predetti generi di volizioni; ma non per anco comparisce il terzo genere, cioè le appreziative, perocchè avendo queste bisogno di paragone tra due o più oggetti, non si possono formare fino a tanto che non si è giunti non solo a numerare due oggetti, ciò che si fa nel terz' ordine d' intellezioni, ma ben anco a raffrontarli tra loro, e trovare le differenze, ciò che spetta al quart' ordine, come vedremo. L' aumento delle volizioni affettive e apprezzative che succede nel fanciullo, porta in lui una spontaneità sempre maggiore, una sempre maggior mole di attività effettiva. Questa spontaneità poi non essendo temperata e diretta dalla libertà colla quale l' uomo comanda a se stesso, si spiega in modo che lascia vedere l' indole e le leggi sue proprie. Io ho mostrato che le leggi principali della spontaneità sono due: 1 l' aver ella bisogno di uno stimolo, acciocchè venga suscitata all' azione; 2 suscitata poi, il produrre ella un' azione maggiore di quella che sarebbe proporzionata allo stimolo stesso (1). Questa soprabbondanza d' azione, parte è messa dall' attività dello spirito, parte dalla legge d' inerzia, per la quale « ciò che è già in moto si continua nel suo moto fino che questo non venga da altra forza distrutto ». Questa legge può osservarsi nell' attività de' fanciulli. Cercando noi sempre di raccogliere i fatti, e di sottoporli agli occhi del lettore come i soli documenti fededegni di quanto avanziamo, recheremo anche quello che venne osservato da chi non pensava certamente di venire in appoggio delle nostre dottrine. [...OMISSIS...] Un altro carattere dell' attività del nostro bambino è la sconnessione de' suoi atti volitivi, e delle sue azioni esterne che vengono in conseguenza di quella (1). Quando sia ammesso il principio che ogni attività nell' uomo viene da una passività precedente, e che in conseguenza tutta l' attività volitiva seguita le concezioni dell' intelletto, quella sconnessione di movimenti ed azioni esterne è spiegata appunto dalla sconnessione delle sue idee. Nella seconda età le concezioni che eccitano e dirigono l' attività intellettiva (2) sono le percezioni, ciascuna delle quali è indipendente dall' altra. Tuttavia la sconnessione di quell' attività non dà tanto negli occhi, perchè l' attività messa in moto nel fanciullo è ancor poca, ed il bambino giunge all' oggetto della sua attività immediatamente. Nella terza età l' attività del bambino si muove anco dietro gli astratti. Questi primi astratti sono tra loro divisi; e però anche l' attività riesce sconnessa, e tratta di qua e di là quasi da mille centri diversi. Comincia poi la sconnessione ad apparir maggiormente quando l' attività che si muove è maggiore. L' attività in questa età non giunge, come nella precedente, immediatamente al suo termine, l' oggetto reale che cerca, ma con un passo in mezzo, cioè colla mediazione dell' idea astratta. Nella quarta età ancor più cresce la mole d' attività che gioca nel fanciullo, e non v' ha tuttavia niente che la notifichi; conciossiachè i principŒ secondo i quali ella opera sono infiniti, cioè altrettanti quante le idee che vengono da lui applicate. Andando innanzi col suo sviluppo, queste idee si raggrupperanno, questi principŒ si renderanno lentamente più generali, ed allora anche l' attività dell' uomo verrà da se stessa e quasi per incanto ordinandosi, raccogliendosi e avvicinandosi sempre più all' unità. Intanto all' adulto riesce molesta quella versatilità fanciullesca, non l' intende, e vuole imporre al fanciullo di quelle regole che ottimamente presiedono ad una attività unita, ma che sono inutili ed inapplicabili ad un essere che non ha un' effettività sola, ma molte scucite l' una dall' altra, ciascuna delle quali non è suscettibile di quelle regole, e tutte insieme non esistono, perocchè l' una non sa dell' altra: indi una delle maggiori difficoltà dell' educazione (1). Vedremo più tardi come nell' attività del fanciullo irruisca la fantasia, e n' accresca la versatilità. All' attività sconnessa del fanciullo appartengono quei giochi dove avvi gran movimento e una successione d' impressioni sconnesse, ma sempre nuove. L' inclinazione ad esercitarsi in tutti i possibili movimenti si spiega anco cogl' istinti animali. Il movimento è piacevole e salubre all' animale, e i movimenti ch' egli fa non sono certo diretti da alcun principio di ragione, che in lui non si trova, ma ciascuno ha la sua ragione e determinazione nelle leggi dell' animalità. A que' movimenti che sembrano fatti a caso e unicamente per diletto, noi attribuiamo il nome di giochi, gli consideriamo in un aspetto burlevole, quasi tendano a far ridere. Tuttavia per l' animale non sono già scherzi più quelli che il prender cibo: tutto ciò che si riferisce al sentimento del riso, è a lui straniero. Ma il disordine capriccioso di que' gesti e moti ha per noi quel turpicolo improvviso che cagiona il riso. Vi ha il turpicolo in que' movimenti raffrontati a' movimenti ordinati della ragione, e vi ha l' improvviso ed inaspettato per la loro continua novità e apparente stranezza. Quello che è singolare si è che il fanciullo trova ben presto qualche cosa di bernesco ne' proprŒ giochi: egli ve lo trova di mano in mano che si sviluppa in lui la ragione; e divien per lui una nova cagione di diletto. Ride di ciò che fa egli stesso e che vede fare agli altri fanciulli: tuttavia egli non ride propriamente di se stesso, perocchè mai di sè non si ride. E` il segnale ch' egli riconosce della frivolità, della sconcezza nei suoi atti; e di questo segnale dee cavar profitto l' istitutore: egli dee coltivare e perfezionare la conoscenza che il fanciullo si forma da sè del poco accordo che passa fra i suoi trastulli e la sua dignità di essere ragionevole: e giovandosi di questa cognizione dee condurlo ad un contegno composto e regolato. Egli è dunque un errore l' applaudire a ciò che v' ha di ridicolo nelle azioni fanciullesche: i movimenti naturali possono essere permessi fino che la natura animale li produce, quasi direi all' insaputa della ragione: ma tosto che la ragione interviene e li giudica come piccole turpitudini, allora debbono incominciare a cessare; debbono rendersi cagione di un cotal sentimento di pudore. L' istitutore dee sempre allora aggiungersi alla ragione per darle forza, e mantenere le sue parti. Ai giochi di moto disordinato debbono succedere gli esercizi ordinati dell' arte ginnastica. I giochi poi che consistono in abbattimenti di casi sempre nuovi non sono conosciuti dalle bestie; essi sono proprŒ del solo uomo, il quale vi trova il diletto di appagare la sua curiosità, la voglia di percepire e di sapere le cose sotto tutti i loro possibili aspetti. Ho già detto che questi possono essere assai utili allo sviluppo dell' intendimento, se l' istitutore ne saprà profittare; e nelle sue mani si cangeranno in vere e ben ordinate e dilettevoli istruzioni di matematica. L' attività morale del fanciullo a questa età si spiega principalmente sotto le due forme, quella di diritto di proprietà e quella di ubbidienza . L' una e l' altra di queste due forme sono l' effetto della benevolenza e dell' ammirazione del fanciullo. Al primo ordine d' intellezioni egli non possedeva ancora, nè ubbidiva; ma ammirava ed amava. Egli aveva percepito degli esseri intelligenti e belli oggetti della sua affezione e della sua ammirazione, co' quali comunicava per mezzo della simpatia e dell' istinto d' imitazione; ma dei quali non intendeva ancora nè i pensieri, nè i voleri; si noti che la simpatia e l' istinto d' imitazione, che si manifestano nell' ordine dell' animalità, sono comuni anche all' ordine dell' intelligenza; di maniera che vi ha anche una simpatia ed un istinto d' imitazione intellettivo. Queste leggi comuni ai due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo, sono quelle che mirabilmente si legano tra loro; e fanno sì che l' uno all' altro si continui, quasi direi, senza che se ne vegga la commessura (1). Ora tostochè il fanciullo apprezzò ed amò un oggetto, egli concepisce il sentimento della proprietà, cioè quell' oggetto acquista una cotale unione spirituale con lui, e da lui staccandolo se ne risente, come se gli si dividesse una parte di se stesso (1). Percepisce ancora le cose delle persone a lui care unitamente con queste, e però gli ripugna il veder trasportare gli oggetti da queste usate, non altramente che se essi oggetti formassero parte delle stesse persone. Da principio questo fatto ha per cagione la forza unitiva dell' animale (onde anche fra le bestie si notano de' fenomeni simili); poscia serve all' inclinazione della natura animale la volontà (volizioni affettive); in appresso l' intendimento percepisce anch' egli il vantaggio di contemplare le cose belle, e gliene duole se vengono sottratte alla sua contemplazione; in quarto luogo finalmente (e certo molto più tardi) l' intendimento perviene a conoscere gli usi delle cose e ad apprezzarle anche per questi; dietro al quale apprezzamento la volontà si affeziona ad esse di un nuovo amore men nobile del primo, dell' amor interessato. Di questi elementi viene successivamente componendosi a parte materiale del diritto di proprietà: la parte formale non può essergli aggiunta che dal dovere, dalla legge morale. Se nel primo ordine d' intellezioni il bambino percepisce il bello, nel secondo, in occasione di rimanerne privo, prova il doloroso sentimento della privazione; nel terzo astraendo le azioni delle cose comincia a pregiarle pe' loro usi, o almeno a ciò si va disponendo. Dallo stesso fonte dell' ammirazione e della benevolenza nasce come dicevo l' ubbidienza del fanciullo. L' ubbidienza non è in lui che il desiderio, la volontà di uniformare se stesso agli enti intellettivi divenuti oggetti de' suoi affetti. Da principio, come dicevo, egli si uniforma loro come può, cioè colla simpatia e colla imitazione animale intellettiva. Ma col second' ordine d' intellezioni imparando il linguaggio, egli acquista un nuovo mezzo di comunicazione della sua colle anime da lui stimate e care. Gli si comunica una nuova luce: vede dentro a quelle anime: discuopre in esse pensieri e volontà: trova con ciò nuovi lati, da cui poter se stesso a loro uniformare e acconciare. Queste scoperte egli le fa col linguaggio, che comincia ad apprendere col second' ordine delle sue intellezioni e continua cogli altri. Giunto dunque al terz' ordine già in possesso del linguaggio, di questa chiave dell' interno de' suoi simili, vede coll' uso di esso le loro opinioni ed i loro voleri. Conosciuti questi tosto incomincia a manifestarsi nel fanciullo la credulità e l' ubbidienza. La credulità non è altro in lui che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse opinioni che hanno le persone colle quali usa. La ubbidienza parimente da principio non è altro che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse volontà pure delle persone colle quali usa. In questa loro prima apparizione la credulità e l' ubbidienza del bambino nascono dunque dal bisogno, ch' egli sente di rendersi uniforme colle persone da lui conosciute. Questo bisogno di uniformità che sentono tra loro le anime tosto che si conoscono, è veramente cosa profonda, misteriosa: per darne una soddisfacente ragione converrebbe scendere nel religioso segreto dell' ontologica dottrina. Non è questo che possiam noi fare adesso: basterà che constatiamo bene i fatti. « Il primo fatto si è, che il bambino dà segni di stima e di affetto a qualsiasi persona che da principio gli sorrida »: egli allora è giusto, non avvi presso lui accettazione di persone, è un giudice, dinanzi al quale i nomi de' piaggiatori rimanendo celati, giudica con integrità « secundum allegata et probata »: la sua tendenza ad esser rispettoso e benevole è universale. Dunque nell' essere intelligente, nel fondo della natura, trovasi una cotale necessità primitiva di dare stima ed amore a qualsivoglia essere intelligente ch' egli conosca. Questo è il gran fatto sul quale come sopra saldissima base sta fondata tutta la moralità: rimetto il lettore alla teoria che noi n' abbiamo data (1). Se da questa necessità primitiva nascono gli affetti che il bambino dà alle persone conosciute; da questi affetti nasce pure la necessità di essere con esse perfettamente d' accordo. Si suol dire che « l' amore o trova simili le persone amate o le fa ». Si dee aggiungere con egual verità che « l' amore fa simile chi ama alla persona amata ». La ragione ne è manifesta: l' amore vuole unione, vuole unione sì stretta che tende ad una cotale immedesimazione. Ora l' unione che vuole l' amore, l' immedesimazione a cui tende non può aver luogo, se non mediante conformità di opinioni, per la quale uniformità due menti sono unite in una sentenza, e conformità di voleri, per la quale due cuori sono uniti nel medesimo voto, hanno il medesimo bene, il medesimo male, godono insieme quello, soffrono insieme questo, si muovono con un passo solo a quello e si rimuovono pure con un medesimo passo da questo. Ripeto che qui ci covano dei misteri, nei quali non voglio io ora entrare, ma dico solo che il fatto sta così; me n' appello a tutti, perchè non vi ha creatura umana, la quale non ami. Se noi vogliamo dare a questo fatto una espressione diretta e se vogliasi così chiamarla scientifica, potrà annunciarsi in questo modo: « Quando un essere intelligente e volitivo ne percepisce un altro qualunque, gli effetti che in lui naturalmente si manifestano sono i sentimenti della stima e dell' amore ». Questa è la prima parte del fatto: la seconda parte è quest' altra: « Quando un essere intelligente che n' abbia percepito un altro, cedendo alla legge della sua natura abbia ammesso in sè i sentimenti della stima e dell' amore, questi sentimenti portano in lui una morale necessità di uniformare le proprie credenze alle credenze (1) dell' ente conosciuto e i propri voleri ai voleri pure del medesimo, tosto che venga a conoscere quali sieno queste credenze e questi voleri »(2). L' idea di essere ingannato non può venire al fanciullo se non dall' esperienza; come pure dalla sola esperienza gli può venire l' idea che dall' aderire all' altrui volontà gl' incolga alcun male. Lo stesso concetto dell' errore o del male è posteriore a tutto ciò nella mente del fanciullo. Rimangono adunque in lui le due sole tendenze della credulità e dell' ubbidienza tutte semplici, da nessun sospetto turbate o represse, e però nella loro maggior forza: ecco il primitivo fondamento della facilità colla quale il bambino crede e ubbidisce: son tendenze naturali dell' essere intelligente, a cui il fanciullo cede, perchè niente si oppone alla sua spontaneità. Veniamo ora all' istruzione e all' educazione morale, che risponde all' ordine d' intellezioni fin qui esposto. Già il lettore ha inteso prima d' ora, che cosa noi intendiamo per « istruzione rispondente a un ordine d' intellezioni ». Nondimeno mi si permetta il metterlo oggimai in espressi termini, affine di togliere ogni equivoco od obbiezione al metodo che proponiamo. L' istruzione adunque rispondente ad un dato ordine d' intellezioni abbraccia tre parti bene distinte, le quali sono: 1 Quella istruzione che serve per accrescere alla mente del discepolo il numero e la perfezione delle intellezioni degli ordini precedenti. 2 Quella istruzione che serve per far passare la mente del discepolo dall' ordine d' intellezioni in cui si trova, a quello che gli è prossimamente superiore. 3 Quella istruzione che serve a esercitare e perfezionare il discepolo nella dottrina appartenente all' ordine nel quale la sua mente ha già posto il piede. La distinzione importante di queste tre parti basta a rimuovere il timore, che il metodo nostro potesse rallentare i progressi della mente umana: anzi non fa che indicare la via più diretta, più spedita, più soave, per la quale ad essa mente conviene naturalmente procedere. Quindi facilmente si può inferire, come la lingua e lo stile, che usano le persone che istruiscono il fanciulletto, dee variare ad ogni ordine di sue intellezioni. Perocchè nella lingua e nelle varie parti, di cui ella si compone, cade ben sovente il bisogno di usare un ordine di intellezioni assai grande; onde non tutti i vocaboli d' una lingua possono essere usati col fanciulletto ad ogni sua età; ma anzi quelle che non si possono classificare nelle tre parti indicate dell' istruzione a lui conveniente cioè o tra le intellezioni degli ordini anteriori, o tra quelle dell' ordine prossimo a cui può salire col primo passo della sua mente, o tra quelle di questo medesimo ordine a cui è già salito, sono vocaboli del tutto perduti, inintelligibili al fanciullo, e però attissimi a confonderlo, a turbare il progresso delle sue idee come le pietre turbano i passi di chi cammina, ed a rendergli però assai più malagevole l' intelligenza di quei vocaboli, che pur sono alla sua portata. Noi abbiamo veduto che al second' ordine d' intellezioni il bambino può intendere i nomi (1), al terzo i verbi, non però le declinazioni di quelli, le coniugazioni di questi, che troppe altre riflessioni esigono sui nessi delle cose: intende dunque il nome indeclinato e il verbo nel suo infinito e ne' participi, forme nelle quali il verbo è ancor nome ma esprimente azione. Chi dunque è arrivato al terz' ordine non potrà intendere se non quei vocaboli e quelle forme, le quali non suppongono che un solo ordine di più, quello a cui la mente dee sollevarsi, e nel caso nostro è il quarto. Si dovrà dunque cercare di comporre il discorso che si fa a' bambini di queste voci e forme per quanto è possibile; ed allora la comunicazione tra noi adulti ed essi sarà trovata, sarà apertissima. Lo stesso dicasi dello stile , lo stesso pure de' concetti che si esprimono nel discorso: conviene che o quello o questi non contengano intellezioni, se non tutt' al più di quart' ordine, e tali che si possano rannodare alle prime intellezioni degli ordini precedenti che sono già nella mente del fanciullo. Conviene che il fanciullo in ogni sua età operi . L' attività del fanciullo, abbiamo veduto, che è di tre specie: corporale, intellettuale, morale. Egli ha bisogno di tutte e tre queste specie di attività, colle quali si sviluppa, ma debbono essere guidate come conviene. Quanto alla quantità d' azione , non dee già esser soppressa l' azione naturale del fanciullo, nè eccitata; ma soltanto moderata quand' essa, eccedendo, recherebbe un danno alla sanità del fanciullo. Quanto alla qualità , dee essere alimentata quella, e non altra, che è proporzionata all' ordine delle sue intellezioni; e il difficile consiste appunto nel trovare giustamente quale ella sia. Quanto alla regolarità, si dee introdurre in essa due ordini: 1 L' ordine tra una specie e l' altra, che subordina e fa servire l' attività corporale alla intellettiva, e l' attività corporale non meno che l' attività intellettiva alla morale. 2 L' ordine entro ciascuna specie, in modo che in ciascuna attività si trovi quella uniformità, costanza, regolarità, e, per dire ancor meglio con una sola parola, ragionevolezza , che è possibile. L' ammaestrare e guidare in queste cose il fanciullo è veramente un educarlo. Sebbene, tosto che il bambino sa un po' favellare, potrebbe essere posto alla lettura; tuttavia io stimo da preferirsi il trattenerlo ancora nella scuola preparatoria dell' esercizio orale. Nell' esercizio orale si distinguono due parti, cioè la parte intellettiva e la parte meccanica . L' esercizio che si fa fare al fanciullo deve riguardare l' una e l' altra. Io ho già raccomandato, che fin dal secondo grado d' intellezioni si faccia fare al bambino l' esercizio di nominare più cose che sia possibile (1). Questo esercizio appartiene alla parte intellettiva, ed esso deve continuare ora e per molte ancora delle intellezioni che devono venire. Mentre poi allora non si poteva fare che co' nomi , in questa età e nelle susseguenti si può fare anco coi verbi (1) e coll' altre parti del discorso, osservando delle regole simili alle accennate. Ma ora egli è tempo di cominciare insieme anche l' esercizio meccanico e alternarlo all' intellettivo, e questo estenderlo via più. Questo esercizio meccanico è quello di rettificare la pronuncia de' bambini, e insegnar loro l' uso perfetto degli organi della favella. E in vero, dopo che i fanciulli hanno imparato qualcosa a parlare, la prima operazione è quella di rettificar bene i suoni che pronunciano, giacchè essi dapprima vi commettono molti difetti e imperfezioni; balbettano, smozzicano parole, strozzano suoni, scilinguano, ecc.. Onde innanzi di venire a farli leggere o scrivere si rendano perfetti nella pronuncia, facendo loro vincere le difficoltà delle sillabe più difficili. Al quale intendimento già si pose mente da' benemeriti promotori delle scuole infantili anco in Italia, e si conobbe che a tal fine è uopo far pronunciare « « nettamente e giustamente tutti i suoni elementari, di cui si compongono le parole intere (2) » ». Io credo che gioverebbe cominciare questo esercizio dal far emettere i toni musicali , prima secondo la scala naturale, di poi per li salti; i quali saranno già mezzi impressi nello spirito del bambino, se gli si fecero udire nelle età precedenti (3). A questo esercizio può tener dietro o intromettersi quello della pronuncia de' suoni vocali e articolati della favella. L' ordine nel quale si devono far pronunciare al fanciullo nostro i suoni elementari, parmi dover esser quello stesso, nel quale poi egli deve imparare a leggerli e scriverli. Ora a me sembra che devasi cominciare dalle vocali, e poi dai composti di vocali, appresso dalle sillabe che ciascuna altra lettera dell' alfabeto fa con ciascuna vocale, poi le sillabe di tre lettere, e così di mano in mano (1). Perfezionata la pronuncia di tutte le lettere, sillabe e parole, giova passare alla parte intellettuale dell' esercizio orale. Il far apprendere al fanciullo a nominare gli oggetti, come abbiamo detto, appartiene alla parte intellettiva. Appartiene pure a questa parte il fargli analizzare i suoni. Nel « Manuale » dell' Aporti ve n' ha un bell' esempio (2), solamente che non parmi che sia ancor tempo di parlare al nostro bambino di dittonghi o trittonghi, ma solo di pluralità di suoni; anzi parmi del tutto impossibile ch' egli intenda che cosa sia dittongo e trittongo, quando l' idea di due o tre suoni gli è facilissima (3). Così sarebbe impossibile, a mio parere, il fargli capire che l' ia in abbia è dittongo e non l' è in ubbi7a , e l' esempio recato dall' Aporti della voce ai così isolato non mostra che deva essere dittongo piuttosto che due semplici suoni, potendosi egualmente pronunciare ài, aì , ne' quali casi è dittongo, e à7ì separando le sillabe, nel qual caso non è dittongo, ma semplicemente doppio suono. Oltracciò, volendosi porre per base dell' educazione il procedere rigorosamente logico, parmi che non si deva dire che le consonanti divise dalle vocali abbiano un suono. Esse non sono suoni, ma cominciamenti o finimenti di suoni (1), i quali cominciamenti e finimenti non esistono senza i suoni stessi, come non esiste il punto senza la linea, o la linea senza la superficie, o la superficie senza il solido. Ciò posto, non parmi giusto che quando il maestro pronuncia la sillaba bi , e poi domanda al fanciullo: Quanti suoni avete udito? gli si faccia rispondere come nel « Manuale » dell' Aporti: Due suoni. Anzi egli deve rispondere: un suono solo; come risponderà da sè sicuramente, perchè quella sillaba è un suono solo. Bensì che, avutane questa risposta, gli si deve pronunciare prima i e poi bi, e domandargli se sono lo stesso suono. Egli risponderà che bi è un suono diverso da i . Allora gli si domanderà dove stia la diversità, se nel principio o nella fine del suono. - Nel principio. - E il suono ib è lo stesso suono di i, e di bi? - Anzi diverso. - Ma in che è diverso da i; nel principio o nella fine? - Nella fine. - E da bi? - Nel principio. E questo esercizio si deve continuare per tutte le sillabe. Conviene esercitare il bambino a scomporre le parole ne' loro suoni, cioè nelle loro sillabe, e nel riconoscere e notare le differenze loro (1). Questo esercizio orale sarà utilissima preparazione alla scuola di lettura che verrà appresso, e gioverà grandemente allo studio intellettivo del fanciullo (2). Giova ancora in questa età fargli numerare le cose uguali, acciocchè egli ascendendo per la scala dei numeri, si ecciti ad ascendere per le intellezioni di vari ordini. Nel che però egli da principio sembra mostrare più speditezza che non parrebbe doverne avere da ciò che per noi fu detto innanzi, che ogni numero è un ordine nuovo d' intellezioni. Ma la ragione di questa speditezza si è la formola semplicissima che egli tosto apprende per passare da un numero all' altro. Questa formola consiste nell' aggiungere sempre un' unità alle cose numerate. Egli ripete dunque la stessa operazione, e la segna con un numero nuovo. Quando dice uno e uno due, due e uno tre, tre e uno quattro, e così via, non ha mica per questo la distinta cognizione del due, del tre, ecc. che nomina e che distingue colle operazioni replicate; ma senza badare alla somma accumulata, egli vi aggiunge ogni volta l' unità, e poi vi dà un altro nome. Ciò non di meno anche questo solo è un esercizio utile al bambino; e a tal fine sarebbe da dargli prima due oggetti uguali, pallottole od altro, poi tre, poi quattro, ecc., lasciandoglieli a suo trastullo fino che si scorge esser egli venuto in possesso del numero che gli si vuol far apprendere. Altri esercizi sono indicati nel « Manuale » per le scuole infantili (1). A questa età ancora giova il mostrare al fanciullo le cose per imagini. Egli le ama, e se ne rallegra sommamente (2). Tra gli altri vantaggi, che cavar si potrebbe dall' uso delle imagini, vi sarebbe quello di disporre il fanciullo alla scuola di lettura e di scrittura che deve susseguire ben tosto. Sembra che la prima scrittura fosse per imagini: queste poi si raccorciarono in geroglifici: la scrittura letterale fu probabilmente l' ultima ad essere inventata. Fu già proposto di tenere il medesimo andamento col bambino; ma il difficile sta nel trovare imagini che, rattratte, si potessero convertire in altrettante lettere dell' alfabeto. Ancor più difficile riesce, se si esige che il nome dell' imagine porti nella prima sillaba il nome della lettera stessa, il che incredibilmente facilita ai bambini la lettura. Nondimeno io mi sono ingegnato di mettere insieme un sì fatto alfabeto ad uso delle scuole de' Fratelli della Carità, e delle Suore della Providenza, al quale rimetto il lettore (1). La moralità nei bambini fu giudicata diversamente: la più parte degli uomini non ve ne trova alcuna: alcuni osservatori sagaci vi scoprono una moralità, ma si dividono poi nel giudicarla; altri la vogliono bona e tutta bona; altri malvagia e malvagia per intiero. La ragione, onde i più non vedono moralità nell' età prime, si è perchè sono adulti quelli che ve la cercano, e vi cercano la moralità dell' adulto. Quello che abbiamo detto, crediamo che sia sufficiente a dimostrare che il bambino ha la sua propria moralità. Che nel bambino poi appariscano per tempo de' vestigi manifesti di un principio di errore e di disordine morale, questo è quello che hanno riconosciuto sempre tutti i savŒ uomini che hanno considerata la natura umana senza sistemi precedenti; egli è altresì uno de' dogmi più profondi e più maravigliosi del cristianesimo. Noi ci riserbiamo a dire su di ciò ancora una parola, quando il bambino comincerà ad operare con scelta; fin qui egli ubbidisce ad una spontaneità che lo determina, mediante la preponderanza de' gradi di sua benevolenza, determinati questi pure da ragioni esteriori (1). Noi vogliamo dunque restringerci per ora ad osservare la moralità del bambino in se stessa; non in ciò che potrebbe contenere di guasto radicale. Gli amici de' fanciulli, che attentamente gli osservarono, credettero di dover notare una grande incostanza nella loro moralità, nella quale non si potesse trovare, per poco, nulla di fisso. Ecco come ne giudica una madre, che avrebbe pur voluto dire il meglio del mondo delle care creature che sono i bimbi: [...OMISSIS...] . In fatti certi atti del bambino a questa età dimostrerebbero un estremo egoismo, e certi altri un estremo disinteresse. Onde quest' apparente contraddizione? Per rispondere a ciò conviene entrare in un mistero dell' età infantile; e non so se nessuno vi sia penetrato. Ecco la porta per la quale io vorrei farvi entrare il mio lettore. Il bambino ha il sentimento di se stesso, ma non l' idea , non la cognizione; egli non può percepire intellettivamente se stesso, se non pervenuto a un ordine più elevato d' intellezioni: questo è quello che noi dimostreremo nella sezione seguente, e che preghiamo intanto il lettore di qui concederci per postulato (2). Ora, in tutto il tempo che passa prima che il bambino percepisca intellettivamente se stesso, egli non può colla sua volontà riferire al SE conosciuto il bene ed il male; perchè il SE conosciuto non esiste ancora. Questa è la ragione degli atti sommamente disinteressati del bambino: il suo operare è ancor tutto oggettivo, il soggetto non esiste ancora pel suo intelletto e per la sua volontà. Ma onde dunque avviene che moltissimi altri atti del bambino appariscono pieni d' egoismo? Primieramente, nel tempo stesso che opera l' attività intellettiva nel bambino, opera in una sfera inferiore l' attività animale . Ora l' attività animale ha tutte le apparenze dell' egoismo sebbene non le si possa applicare questa parola (1), che venendo dall' ego, significa l' amor proprio di un soggetto che conosce se stesso, perchè l' io è appunto un soggetto che si conosce (2). In secondo luogo, quantunque il bambino non percepisca se stesso, tuttavia egli prova ed anche percepisce intellettivamente piaceri e dolori; ma questi non avendo un soggetto a cui riferirli, li riferisce agli oggetti che glieli cagionano; alla percezione e imagine di essi sì fattamente li associa, che nel suo concetto diventano una cosa sola con essi. Egli vuole dunque gli oggetti: il suo operare è sempre oggettivo: ma questi oggetti sono composti, come d' un loro elemento, di piaceri e dolori che sarebber suoi proprŒ, s' egli lo sapesse. Convien dunque distinguere i piaceri e i dolori percepiti in se stessi, senza il soggetto e imaginati essere nell' oggetto, da' piaceri e da' dolori riferiti allo stesso soggetto. L' operare in quant' è morale, prende forma dalla concezione e dall' intenzione di chi opera. Se dunque l' intenzione del bambino concepisce i dolori e i piaceri che prova negli oggetti che percepisce, egli opera dietro un principio oggettivo; ma l' apparenza che mostra il suo operare è tutta soggettiva; perocchè veramente egli va in traccia continuamente degli oggetti piacevoli, e rifugge dai dolorosi. Ora quest' apparenza soggettiva siamo noi che l' aggiungiamo alle azioni del bambino; perocchè siamo noi che le riferiamo al bambino soggetto, il che non fa il bambino stesso. Noi facciamo delle azioni del bambino quel che facciamo delle azioni nostre: riferiamo queste a noi stessi, perchè ci abbiam percepiti e continuamente ci percipiamo. Applichiamo dunque per analogia all' operar del bambino, quanto avviene nell' operar dell' adulto; ecco il solito errore: la fonte delle tante contraddizioni che ci sembrano scorgere nelle infantili azioni. Quanto è stato detto intorno alla misura ed alla qualità della resistenza, che si deve fare al bambino nell' età precedente, è necessario applicarsi anche alla presente, ed a quelle che verranno appresso. Esercizio moderato di pazienza, rettificazione di concetti, purgazione delle malevolenze, rimozione de' limiti alla benevolenza sono i quattro scopi che si dee prefiggere la resistenza e il rigore da usarsi col nostro fanciullo. Quanto più egli cresce, è altresì capace di sostenere una medicina più forte. Perocchè, posto il principio importantissimo che noi trattando con lui « dobbiamo applicare i suoi principŒ morali e non i nostri, cui egli non intenderebbe »ne viene di conseguente che quanto più i suoi principŒ si amplificano, tanto maggior appiglio noi abbiamo da influire su di lui e pretender da lui più di prima. Dico anche pretender da lui più di prima; perocchè « noi non possiamo pretendere dal fanciullo se non che egli sia coerente a suoi principŒ »noi non possiamo esigere se non che egli abbia la moralità sua propria e non altra; e solo quando egli se ne dispensa, noi abbiamo il diritto e il dovere di richiamarvelo, anco coll' aggiungere il dolore a tutte quelle azioni che disconvengono da' principŒ morali a lui noti, acciocchè egli sia aiutato anco dall' istinto del dolore a fuggire quelle azioni, la cui dolcezza lo inganna. E questo aumento di resistenza suol rendersi necessario per questo appunto, che crescendo in età si disviluppano nel bambino per varie cagioni diverse malevolenze e ritrosità; le quali si vogliono levare via tostochè nascono, scuoprendole con occhio sagace, acciocchè non invecchino e si distendano. Si deve proseguire in questa età il culto a quel modo che fu da noi dichiarato nella sezione precedente. Ma dopo qualche tempo che gli si nominò Dio e glielo si fece conoscere come un personaggio amabilissimo, il sommo bene; si dee per tempo fargli conoscere Iddio7umanato e Maria sua madre, e fargliene invocare i nomi spessissimo e, per quanto si può, ad ogni bisogno per soccorso, ad ogni azione per aiuto, ad ogni cagione di letizia per rendimento di grazie. Egli è incredibile quanto quest' esercizio gioverà a perfezionare nella mente del bambino l' idea di Dio, a far nascere la religione nel suo cuore, a rinforzarlo in tutte le sue disposizioni ed abitudini virtuose. Finalmente non si trascurino di procacciare al bambino quelle grazie, di cui abbiamo parlato alla prima età. Tutte le operazioni proprie degli ordini precedenti continuano a ripetersi, a complicarsi, a produrre dei nuovi concetti nell' intendimento, delle nuove affezioni nella volontà. Ci basta di averne avvertito il lettore: avvertenza che deve valere anco per gli ordini successivi; conciossiacchè in tutta la vita dell' uomo avviene che in qualsivoglia età continua ad operare tutta l' efficienza degli ordini d' intellezioni precedenti. Passando adunque noi senza più al quart' ordine, quali sono esse le intellezioni di quest' ordine? Troppo lungo sarebbe il farne una classificazione distintamente ragguagliata: noi però abbiamo indicata la via da tenersi, quando far si volesse, là dove abbiamo classificate distintamente le intellezioni del terz' ordine. All' uopo nostro basterà dunque che facciamo osservare, che tutte le intellezioni di quest' ordine si possono ridurre a due ampie classi. I Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine tra loro. II Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine colle intellezioni degli ordini precedenti. Ognuno intende da ciò che è detto, quale immensa classificazione simile a un labirinto ne uscirebbe dove si volessero suddividere queste due gran classi (1). E pure il quart' ordine delle riflessioni non è ancora nulla verso a quegli ordini tanto più elevati, a' quali perviene la mente degli uomini adulti e assai più ancora de' sapienti. Come l' operazione propria della mente, quand' è già in possesso delle intellezioni di second' ordine, si è la sintesi ; così l' operazione propria della mente stessa giunta a possedere le intellezioni di terz' ordine si è l' analisi giusta la legge da noi stabilita che « di tutti gli ordini dispari delle intellezioni è propria operazione il giudizio sintetico , e di tutti gli ordini pari è propria operazione il giudizio analitico ». Non sarà inutile che noi cominciamo dal vedere la differenza che passa tra i giudizi analitici al secondo ordine e i giudizi analitici al quart' ordine. I giudizi analitici al second' ordine sono delle pure astrazioni ; ma i giudizi analitici al quart' ordine sono delle scomposizioni elementari . La differenza tra queste due maniere di giudizi analitici è immensa: ecco dove consista. Nell' astrazione la mente non fa se non fermare la sua attenzione sopra una parte della sua concezione e trascurare tutto il rimanente. Così avendo io ricevute delle percezioni di corpi, io posso fermare la mia astrazione al colore, e così far di questo un essere astratto. Nella scomposizione elementare all' incontro la mente prende colla sua attenzione tutto intiero l' oggetto da lei concepito, e lo divide in parti. Così dopo d' aver giudicato che il tale oggetto è « un corpo colorato »io posso dividere in quest' oggetto la sostanza dall' accidente, e dire « quest' oggetto si compone di due parti, cioè della sostanza e dell' accidente, del colore ». Nell' astrazione recata ad esempio io ho pensato al colore e nulla più; quando ho giudicato che un dato oggetto sia un corpo colorito (sintesi al terzo grado), ho dovuto pensare ad un tempo il colore astratto e l' oggetto sussistente nel quale io lo ponevo. Se io ora dico che quest' oggetto ha due parti, io pongo medesimamente la mia attenzione tanto sulla sostanza quanto sull' accidente e di più ne riconosco la loro relazione . Lo studio poi di questa relazione diviene nel mio intendimento fonte inesausta di cognizioni, che mi si accrescono in appresso per tutta la vita. Fino a tanto che io percepisco degli enti individualmente sussistenti (primo ordine) non potevo fare alcun confronto fra loro e nol potevo pure, quand' io astraevo da essi le loro qualità (second' ordine): perocchè io mi fermavo a queste, astratte e divise dagli enti, e gli enti stessi in una tale operazione mi sfuggivano: riunendo agli enti le qualità astratte (terz' ordine) io riponevo gli enti interi sotto la mia propria attenzione. Solo pervenuto a questo grado il lavoro della mia mente, io avendo presenti e le qualità astratte e gli enti stessi sono in caso di confrontare le une cogli altri e conoscere col PARAGONE la scambievole loro natura. La fecondissima operazione del PARAGONARE le cose (operazione che dà alla mente un lume sfolgorantissimo) non può cominciare che al quart' ordine d' intellezioni (1). Il paragone non si può eseguire se non a questo tempo, anche perchè solo al terz' ordine l' uomo conosce la dualità. Nè solo mediante il paragone , al quart' ordine si distingue la sostanza e l' accidente , l' ente ed il modo dell' essere nella cosa stessa; ma si comincia altresì ad analizzare anche il grado, onde l' ente partecipa del predicato che noi gli attribuiamo; onde possiamo distinguere la gradazione nella quale due corpi, a ragion d' esempio, partecipano del color rosso o di altra qualità ossia predicabile (1). Si comincia adunque in questa età ad analizzare non solo l' ente; ma i modi, i predicabili stessi dell' ente. Come nell' ordine antecedente delle intellezioni continuò l' operazione dell' analisi, così egli è evidente che nell' ordine presente vi ha luogo alla sintesi: giacchè questa trova la materia preparata da quella. Uno dei prodotti dell' analisi del terz' ordine si fu quello dei concetti astratti delle azioni: le azioni dopo essersi astratte si applicano, si predicano degli enti e così si formano dei giudizi sintetici. Una somigliante sintesi si forma tanto rispetto agli oggetti reali, come se io al solo vedere il fuoco gli attribuisco l' azione del riscaldare; come rispetto agli oggetti meramente ideali, come se io imaginassi un ente qualsiasi e gli applicassi la proprietà riscaldatrice. Questo prova che la specie di sintesi, che nasce in questa età, estende immensamente il potere dell' imaginazione intellettiva (ideazione) rendendo possibile allo spirito l' attribuire a degli enti creatisi con essa delle attività che o non sono comprese nel loro concetto o se sono, sono però anco distinte da essi nella loro mentale esistenza. Questa osservazione è importante; perocchè spiega lo slancio che suol prendere l' imaginazione del fanciullo quand' egli giunge ai tre anni. A questa età par che incominci la mente a concepire qualche raziocinio ipotetico o almeno la proposizione maggiore di esso. Già nell' età precedente il fanciullo conobbe il numero due. Sembra dunque che di due cose egli potrebbe a questa età ravvisare la relazione che viene espressa nella maggiore del sillogismo ipotetico; cioè l' esser una d' esse condizione dell' altra. Tanto più, che nel sentimento le due cose stanno già legate e condizionate attesa la forza unitiva del soggetto. Laonde la mente non ha che ad analizzare, per così dire, il proprio sentimento per conoscere il condizionante ed il condizionato (1), analisi però che prima del quart' ordine sicuramente non può eseguirsi. Imperocchè deve la mente: 1 percepire il sentimento; 2 disgiungere le due cose legate tra loro (terz' ordine); 3 osservare che data l' una vi è l' altra, tolta l' una l' altra pure è tolta; dopo di tutto ciò solamente ella può dire: « se la tal cosa è (od avviene o si fa) è pure l' altra ecc. »che è la maggiore del sillogismo ipotetico. Il sillogismo ipotetico dilata immensamente l' attività volontaria; perocchè solamente quando nella mente cominciano a formarsi le ipotesi, possono aver luogo le volizioni condizionate, distinte dalle assolute; come pure le velleità d' ogni genere; avanti questo tempo non ha il fanciullo velleità; egli vuole semplicemente e però fortemente. Che se la condizione posta alle volizioni diminuisce la forza di queste, il che è perdita di energia, vi ha però un compenso in questo che le rende più regolate, dirette da maggior lume di ragione; cominciano a legarsi insieme, a subordinarsi; indicibile profitto per lo sviluppo della moralità. Nell' età precedente si giunse a conoscere il numero due. Era necessario conoscere uno e due oggetti prima di poterli paragonare insieme e trovarne le differenze . Ora, come il paragone è operazione che comincia all' età del quart' ordine, così pure in questa età solamente si può avere il prodotto mentale delle differenze delle cose. Ciò che abbiamo detto addietro basterebbe solo a mostrare che ella è cosa assai più facile il conoscere le somiglianze di quello che sia conoscere le differenze delle cose. Ma chi ha seguito il progresso dello sviluppo intellettivo nel bambino, da noi descritto fin qui, e l' analisi delle operazioni della sua mente e de' prodotti di questa, si sarà convinto ancor più colle sue proprie riflessioni di questa verità importante e contraria al comun pregiudizio de' filosofi, che suppongono trovarsi le simiglianze e le differenze coll' operazione stessa. Questo pregiudizio nasce dal non considerare che ciò che è simile in più oggetti si può appercepire e notare dalla mente in due modi, o come una qualità semplice (più generalmente un predicabile ), o come una qualità che noi sappiamo trovarsi in più oggetti e renderli simili (1). Ora, a conoscere il simile in questo secondo modo, certo che egli è necessaria l' operazione stessa che si usa a conoscere il differente ; ma tutt' altro avviene se trattasi di conoscere il simile nel primo modo. Questo primo modo è semplicissimo, ed appartiene al secondo ordine d' intellezioni, perocchè non consiste in altro se non in collocare la nostra attenzione intellettiva in una qualità di una o più cose, trascurando di attendere a tutte le altre parti delle medesime, e lo stesso loro numero; perocchè in questa operazione non si fa se non ripetere la stessa attenzione alla qualità identica in ciascuno degli oggetti che passano sotto l' occhio, senza tener menomamente conto del loro numero e senza paragonarli. All' incontro la differenza non si può scuoprire in nessun modo, se non si mettono a paragone e non si noti in che cosa entrambi divariano. Il numero tre è il proprio di quest' ordine, giacchè la mente del fanciullo nell' ordine precedente è pervenuta a conoscere distintamente il due. Come poi ella è giunta a conoscere il due coll' aggiungere l' uno all' uno; operazione che ella può poi ripetere, e la conduce alla numerazione, senza tuttavia farle conoscere i numeri maggiori distintamente, ma solo in confuso; così or può giungere alla cognizione del tre, sia coll' aggiungere l' uno al due, o coll' aggiungere il due all' uno, operazione anco questa seconda, che imparatala a far dal fanciullo, gli diventa presto una formola generale salendo nella scala de' numeri col ripetere l' aggiunta del due: onde conosce i numeri mediante una relazione di più. Cresce la cognizione delle collezioni delle cose di pari colla scienza de' numeri. Il nostro bambino potrà avere oggimai un' idea distinta delle collezioni composte di due e di quelle composte di tre oggetti; ma di quelle composte di un maggior numero non avrà che un' idea confusa. Discernerà bensì i molti ed i pochi , giacchè avendo l' idea confusa di collezioni numerose, e l' idea chiara del paio e del ternario, potrà conoscere facilmente che vi hanno delle collezioni superiori alle collezioni da lui chiaramente conosciute. Prima di questo tempo non poteva il fanciullo aver il concetto del mezzo , ma ora può averlo appunto perchè oggimai può conoscere due cose, l' una delle quali condizionata all' altra. Egli diviene anco questo incremento grandissimo alla sua attività, la quale non solo istintivamente come faceva prima, ma anco per calcolo intellettivo, potrà di qui in avanti subordinare un mezzo all' ottenimento di un fine. Egli non saprebbe tuttavia sottordinare l' uno all' altro una serie di mezzi: a far ciò egli dee fare delle riflessioni appartenenti ad un ordine superiore. I filosofi non hanno mai esaminata accuratamente la questione, per quanto io sappia, dell' età in cui l' uomo percepisca se stesso. Essi hanno comunemente ritenuto per cosa chiara e non bisognevole di dimostrazione, che l' uomo percepisca se stesso fino da' primi istanti di sua esistenza, e che non potrebbe percepir le cose senza aver prima percepito se stesso. Ma queste supposizioni gratuite non reggono all' osservazione esatta del fatto importante di cui si tratta. Il fatto anzi dimostra che l' uomo percepisce e intende molte altre cose prima di percepire ed intendere se stesso, e che egli non conosce il vero valore del monosillabo IO prima di essere giunto al quarto o al quint' ordine d' intellezioni. Di più l' osservazione dà un altro risultato, e questo si è che la conoscenza che l' uomo si forma dell' IO varia nelle diverse età di grado e di forma; e che questa parola IO perciò (come tante altre) pronunciata dall' uomo ad una età ha un significato diverso da quello che riceve pronunciata dall' uomo in un' altra età (1). Egli è necessario che qui noi ne diciamo alcuna cosa. A tal fine non possiamo a meno di ripigliare brevemente l' analisi dell' IO, sebbene da noi data altrove (2). L' IO esprime l' ente umano che parla (3) e che nomina se stesso come esistente, come operante. Ora, l' ente umano è primieramente composto di due principŒ: 1 il principio animale; 2 il principio spirituale. Questi due principŒ sono però connessi in modo che il primo è legato al secondo, e il secondo esercita la sua forza e il suo imperio sopra il primo, di maniera che tutti e due si riducono ad un principio solo supremo, che è il principio intelligente; ma tale che ha virtù anco sopra il principio animale a lui congiunto. Questo principio supremo colle parti inferiori a lui congiunte è l' uomo , ma non è ancora l' IO. I due principŒ indicati sono due sentimenti, e perciò l' uomo non manca mai di sentimento: egli stesso è un sentimento intellettivo7volitivo che dispone di un altro sentimento sensitivo7istintivo. Ma questo sentimento7uomo non è l' IO, perocchè l' IO non è un sentimento, è una coscienza. Or, come dunque e quando si forma l' uomo quella coscienza di sè stesso che egli poi esprime col monosillabo IO? Esporrò prima una ragione assai plausibile, la quale potrebbe far credere l' uomo si dovesse far tosto quella coscienza, anzi non potesse andarne senza. Da prima egli è certo, come ho provato nella « Ideologia », che in lui si manifesta l' essere ideale. Quando dico che si manifesta in lui l' essere ideale, allora dico che l' essere ideale si manifesta in un sentimento sostanziale, il quale sentimento è egli. Sono dunque uniti il sentimento sostanziale e l' essere che risplende in quello. Ciò posto, egli parrebbe che questa unione bastasse a fare sì che il soggetto percepisca se stesso; se pure è vero ciò che altrove affermai, che « « il sentimento è come la scena sulla quale gli oggetti ci compariscono e ci si rendono visibili » » (1). Non cancello quest' ultima sentenza. Egli è certo che niente può essere da noi intellettivamente percepito, se non ciò che opera nel nostro sentimento sostanziale. Laonde accordo che il sentimento stesso essendo ciò in cui si veggono le cose che si veggono dall' intendimento, egli stesso può essere veduto senza bisogno che un altro sentimento ce lo presenti. Ma primieramente si deve distinguere nel sentimento sostanziale l' atto con cui questo sentimento vede l' essere dagli altri atti di lui. Ora l' atto con cui vede l' essere, non può mai essere quello con cui vede se stesso; ed anzi egli è un atto che esclude la visione di se stesso. In quanto adunque il sentimento direttamente si porta nell' essere, egli è incognito a se stesso. Ora qui si noti bene: l' uomo, e soprattutto l' IO, è essenzialmente quel principio che vede l' essere; è il sentimento sostanziale intelligente. Escluso da sè questo sentimento, l' uomo più non esiste; l' uomo non ha la coscienza di se stesso fino che non ha la coscienza di essere intelligente. Acciocchè dunque arrivi a formarsi una tale coscienza, conviene che il sentimento sostanziale non vegga semplicemente l' essere, ma vegga se stesso veggente l' essere (1). Ora, a tal fatto non basta che egli sia presente sulla scena dove si veggon le cose; ma conviene di più, che con un atto nuovo che cava da sè, egli applichi l' essere che vede a se stesso veggente l' essere, e che mediante questa applicazione dell' essere, illumini e vegga se stesso nell' essere. Convien dunque che cavi da sè un atto nuovo, non datogli dalla natura, ma mosso dalla sua spontaneità suscitata da qualche bisogno o stimolo: ecco la grand' opera che a far gli rimane se vuol percepire se stesso. Se dunque tutto ciò che cade nel suo sentimento è in luogo da poter essere da lui veduto, e il sentimento stesso veggente l' essere (se stesso) gode di questo vantaggio; si dee però aggiungere, che questa visione o percezione non può essere effettuata, se non a condizione d' un atto nuovo uscente dall' intimo del soggetto, che è un atto della forza dell' attenzione, la quale si concentra e ripiega sopra l' oggetto che vuol vedere, pel quale ripiegamento lo spirito (il sentimento sostanziale) guarda se stesso veggente l' essere, unitamente all' essere veduto e in questo contenuto quasi come in suo genere. Ora, quest' atto del conoscimento di sè, così implicato, sarà egli più facile degli atti co' quali lo spirito conosce le altre cose? Il sentimento7uomo opera conoscendo; e conosce prima le cose di cui abbisogna; ora egli non abbisogna punto di conoscere se stesso per operare, abbisogna di conoscere altre cose le quali egli non ha, e vuole avere ed operare per averle, e per operare conoscerle; se stesso non cerca, perchè si ha, ma cerca quelle cose le quali completino se stesso, sovvengano a ciò che gli manca, alle sue deficienze e limitazioni; l' uomo è un essere incompleto; se bastasse a se stesso, nulla cercherebbe, non ci sarebbe in lui attività di moto, ma solo attività di stato. Le sue stesse sensazioni piacevoli e dolorose non le concepisce se non annesse agli oggetti esterni, e in questi le suppone esistenti. L' uomo adunque non può essere richiamato a ritorcere la sua attenzione a se stesso che dal linguaggio. Ma il linguaggio stesso non viene appreso dal bambino tutto ad un tratto; egli deve passare per più ordini d' intellezioni prima di capire tutte le parti del discorso. Vedemmo già che al second' ordine d' intellezioni egli non apprende che i nomi sostantivi, e per meglio dire sostantivati; e che solo nel terz' ordine egli giunge a formarsi l' idea astratta delle azioni delle cose. Solo adunque al terz' ordine egli può nominare le proprie azioni; ma queste nulla più che oggettivamente, come le azioni di tutte le altre cose. Egli ha bensì il sentimento delle proprie azioni che è una cotale estensione del suo sentimento sostanziale, ma nulla più. Le azioni sue sono esterne, cadono sotto i suoi sensi, come le azioni degli altri; se stesso all' incontro è interiore, è un principio invisibile che produce quelle. Egli conosce adunque le proprie azioni prima di sapere che sono sue proprie, prima di riferirle a se stesso col suo intendimento; perocchè se stesso nel suo intendimento ancora non esiste. Giunge bensì nella terza età ad attribuire le azioni ad un ente, ma non ad osservare fra gli enti quello che è egli stesso. Nel quart' ordine d' intellezioni, e non prima certamente, ma forse di poi, egli può percepire se stesso come principio operante, mediante il linguaggio; egli cioè può ritrarre la propria attenzione dal di fuori sul proprio sentimento operante, accorgendosi per tal modo che certe azioni hanno per causa quel sentimento che lo costituisce, a differenza di certe altre che non sono da quel sentimento prodotte. La prima adunque ed elementare cognizione di se stesso che abbia l' uomo, consiste nella percezione di « SE operante »(1), intendendo la parola SE pel sentimento sostanziale, che forma l' uomo dallo stesso uomo percepito. Questo sentimento operante può essere benissimo espresso colla voce IO; ma questa voce non avrebbe ancora tutto il significato che le compete, e che le viene poscia dagli uomini sviluppati attribuito. L' IO non si pronuncia mai solo, ma con qualche verbo espresso o sott' inteso (2), il che è manifesta prova della legittimità del modo onde ne abbiamo spiegato l' origine. E` dunque questo primo IO « il sentimento sostanziale operante che percepisce se stesso e che si esprime ». Ma con una riflessione maggiore, che l' uomo poi faccia sopra se stesso, egli viene a conoscere l' identità di sè parlante e di sè parlato; ed allora l' IO riceve una significazione più completa, venendo a significare « il soggetto umano operante (il sentimento sostanziale operante) che percepisce se stesso come operante, che come tale si esprime, e che sa che egli, che parla, è identico a lui parlato ». Questo significato del monosillabo IO non può essere attribuito se non dall' uomo giunto almeno al quint' ordine d' intellezioni. Tanti e così difficili elementi racchiusi in questo monosillabo spiegano il perchè tardi e con difficoltà egli s' intenda. [...OMISSIS...] Ho già detto che ne' popoli antichi si trova una gradazione d' intelligenza simile a quella che si osserva ne' bambini e che le lingue antiche ne conservano le vestigia. Anche qui non manca la traccia dell' infanzia delle nazioni, se si osserva che quanto le lingue sono più antiche, tanto meno gli uomini introdotti a parlare usano del pronome personale IO, come pure del TU. Questa è la ragione per la quale le lingue orientali amano di far parlare i personaggi in terza persona anzichè nella prima (1). Che se noi rivolgiamo l' attenzione a' bambini, potremo facilmente notare la difficoltà che essi provano a rettamente usare i pronomi personali io e tu . In vece delle mie proprie osservazioni, io assai volentieri accolgo le altrui quando sono dalle mie confermate, perocchè adducendo io l' altrui testimonio, niun potrà dire che io piego l' osservazione al servigio del mio sistema. Una donna adunque, la quale non aveva certamente in mira di venirmi in aiuto, quando osservava e quando scriveva, una donna di cui riferisco sempre volentieri le osservazioni, perchè solitamente vere e sagaci, scrive tutt' al mio uopo così: [...OMISSIS...] . A questa sola età può cominciare a formarsi nella mente del fanciullo il concetto del tempo. Questo concetto incomincia a formarsi non già col raffrontare le tre parti del tempo, il presente, il passato e il futuro; ma solo col raffrontarne due, il presente col passato, ovvero il presente col futuro. A tanto può arrivare il fanciullo al quart' ordine delle sue intellezioni. Al terz' ordine egli ha un' idea accurata del numero due, al quarto può paragonare le due cose distinte e vederne le differenze. Distinguere il tempo presente dal tempo passato, ovvero distinguere il tempo presente dal tempo futuro, questa può essere operazione appartenente al quart' ordine: distinguere tutti e tre i tempi raffrontandoli tra loro prima del quint' ordine è assolutamente impossibile. Di più si noti, che non parliamo già del tempo interamente astratto dagli avvenimenti, ma del tempo considerato come una qualità, un predicabile di questi. Che un avvenimento cessi d' esistere quando un altro incomincia, o che un avvenimento ad un altro succeda, questo rimane nella ritentiva del bambino come un fatto anche solo per la forza unitiva dell' animalità. Di poi gli avvenimenti s' incatenano mediante associazione d' idee. Questo non è ancora il concetto del tempo negli avvenimenti. Egli è uopo che il bambino noti un avvenimento che fu ieri, e lo distingua con quello che accade oggi, mettendolo con questo in paragone; ovvero distingua quel d' oggi da quello che sarà domani; acciocchè si possa dire che egli s' è formato il concetto del tempo presente e del passato, o del presente e del futuro. Ora primieramente questo tempo è un predicabile degli avvenimenti che non cade sotto i sensi, è una limitazione dell' esistenza sopra sensibile delle cose. Egli è dunque necessario alla mente il linguaggio, acciocchè ella possa fermarvisi e ritenerla. Oltrecciò la forza dell' attenzione nel bambino è ancor poco sviluppata, e quel poco d' effettività che ha messo fuori vien tutta assorbita dagli oggetti presenti, nuovi per essa e però interessanti; sicchè non ne rimane guari per ciò che è passato e per ciò che ha da venire. Indi è che l' osservazione mostra che assai tardi i fanciulli distinguono bene i tempi. [...OMISSIS...] Un' altra prova della difficoltà che trova il fanciullo in notar bene i tempi vedesi manifestamente nella gradazione con cui apprende il linguaggio, specchio del suo concepire. Egli per molto tempo adopera il verbo all' infinito , e ben tardi esprime con esso i diversi tempi. Lo stesso si trova in alcune lingue di popoli assai addietro nella coltura intellettiva. Anche nelle lingue antichissime il verbo ha pochi tempi (2), e questi non ben determinati, ma di un uso incerto. Tutte le idee già moltiplicatesi nel fanciullo diventano ben presto principŒ secondo i quali egli giudica ed opera come abbiamo veduto. Solamente che un' idea, acciocchè acquisti forma e valor di principio, dee rimanersi qualche tempo nella mente umana, e il ridurla all' applicazione è affatto appartenente a un ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel dell' idea. Laonde nel quart' ordine d' intellezioni si cangiano in principŒ le idee avute al terz' ordine. Ora vedemmo che fra le idee del terz' ordine vi hanno quelle che appartengono alle azioni. I principŒ di più rilevanza adunque, che il bambino acquista al quart' ordine delle sue intellezioni, consistono in quelli che egli si trae dalle idee delle azioni. Quando egli ha conosciuto le azioni delle cose, e veduto replicarsi molte volte sempre le stesse, allora comincia già a concepire qual sia il modo costante del loro operare, ed è in istato di prevedere che cosa un dato oggetto a lui presente opererà, quali forze egli spiegherà, quali effetti si produrranno da quella cagione. Per tal modo egli vien ponendo un confine alla potenza de' diversi oggetti che conosce, e non aspetta più da essi se non certe determinate operazioni, e dove quegli oggetti gliene producano d' insolite, egli se ne maraviglia come di cosa straniera alla sua credenza ed alla sua aspettazione. Prima che il fanciullo unisca a certe cose certe azioni, la sua credulità è senza limiti: niente a lui sembra impossibile. Quando il fanciullo vede che sua madre parla, come fosse informata di ciò che egli ha fatto lontano dagli occhi suoi, o quando la sua bona gli dice che il dito mignolo la ebbe informata di qualche sua scappatella, perchè non se ne maraviglia egli? Perchè non ha ancora fissato bene la limitazione de' corpi di essere in un luogo solo, nè la limitazione de' sensi di non poter sentire a certa distanza, nè la limitazione dell' operare del dito mignolo di non poter nè sapere ne comunicare altrui le cose. A me stesso sono rimaste più memorie della mia infanzia che provano quanto lentamente i fanciulli mettano de' limiti all' operare delle cose. Mio zio Ambrogio, che ha preso tanta cura della mia infanzia, era di persona assai grande, ed io ancor bambino riputava che niente potesse resistere alle sue forze. [...OMISSIS...] E` dunque l' esperienza quella, che nella mente del fanciullo va ponendo i limiti all' operare delle cose, e prima che il fanciullo trovi questi limiti nella sperienza, egli non li pone loro da sè, ma crede tutto possibile, la sua credulità è illimitata. Nell' aderire alle parole altrui, molto fa la benevolenza verso di chi gli parla, come abbiamo veduto, ma non potrebbe mai la benevolenza muovere il suo intendimento a dar fede a ciò che egli credesse assurdo. Egli non crede dunque assurdo che gli oggetti abbiano certe virtù e facoltà che noi adulti sappiamo che non hanno, fino a tanto che anch' egli non abbia trovato nel fatto medesimo la non esistenza di quelle attribuzioni. Tutto ciò è degno di essere meditato, potendosene trarre di grandi conseguenze a conferma delle dottrine ideologiche e antropologiche. E veramente due cose rimangono a spiegare nella credulità che nel bambino precede l' esperienza: 1 perchè creda egli tutto possibile; 2 come o perchè l' esperienza venga limitandogli questa possibilità. Niuna teoria ideologica può rispondere adequatamente alla prima di queste due domande, eccetto quella che pone l' essere ideale indeterminato innato nell' uomo; il quale essere contiene e mostra in sè la possibilità universale. Sino a tanto dunque che il bambino non ha altra regola de' suoi giudizŒ, se non quella che porta innata della mera e nuda possibilità, egli giudicherà tutto possibile, crederà tutto, eccetto solo quello che egli credesse intrinsecamente ossia metafisicamente impossibile, a cui nè pure il fanciullo dà mai l' assenso. Senza di ciò niente egli potrebbe giudicar possibile, nè giudicherebbe. Anche questo fatto adunque, cogl' innumerevoli altri che ho qua e là riferito, viene a confermare la teoria filosofica da me proposta, e sarebbe tempo che, per onor d' Italia, non si vedesse più quindi innanzi stampato e ristampato presso di noi, che quella teoria non è sorretta da prove d' esperienza, e si sostien solo mediante un argomento per esclusione, dove riman dubbioso se non sieno forse bene enumerate tutte le parti (1). Per rispondere alla seconda questione, converrebbe rammentare ciò che ho detto altrove sull' origine e sulla forza del principio d' analogia (2). Quando l' uomo vede seguire costantemente per lungo tempo un dato effetto, egli si forma la persuasione che sarà sempre così, e però se l' avvenimento è periodico, come il levarsi del sole, predice al venir dell' epoca, che quell' avvenimento avrà luogo. La ragione di ciò si è che la mente concepisce la causa dell' avvenimento, concepisce che l' avvenimento non può star solo, che egli deve essere l' effetto in ultimo di qualche sostanza o di più sostanze, e ha l' intima nozione della stabilità delle sostanze. Vedendo il costante ordine della natura, non dubita di giudicarlo perenne, facendo interamente senza accorgersi quest' argomento: « ciò che avviene in quest' universo è l' effetto di qualche cosa di costante; dunque continuerà ad avvenire ». Qualche cosa di simile vien facendo l' uomo, cominciando nell' età infantile e seguitando lungamente durante tutto il suo sviluppo, nel comporsi « i principŒ, le opinioni e credenze sull' operare delle cose ». Veggendo avvenir gli effetti allo stesso modo sempre, certi eventi manifestarsi sempre dati certi oggetti, certi altri non manifestarsi; egli lega le azioni agli oggetti, agli enti, e finisce col formarsi certe persuasioni le quali, formolate, direbbero: « questo ente ha la virtù di portare questi effetti e non altri »; « la potenza di quest' ente si stende solo fin qui, ha questi limiti, quest' indole, questa forma, queste leggi, ecc. ». Ogni qual volta l' uomo si è formato uno o l' altro di questi principŒ, egli ha ristretto con ciò la sfera della sua credulità; perocchè ove altri gli raccontasse cosa che contradice a que' principŒ formatisi intorno all' operare degli esseri, egli la prenderà per impossibile e non la crederà. Così se io dirò che un ragno camminava nell' aria senza attenersi ad alcun filo, non me lo crederà colui che si fosse fabbricato in mente il principio « che un animale privo dell' ale non ha la potenza di spaziare libero nell' aria » (1). E qui chi non vede il filo per condurre una storia, che riuscirebbe importantissima, della credulità ed incredulità umana? Questa storia ha gli stessi periodi negl' individui e nell' umanità intera. Il bambino comincia dal creder tutto ciò che non è agli occhi suoi contradicente (perocchè nè pure il bambino unisce mai il sì col no , ma ne sente la ripugnanza): e poi si forma delle opinioni che limitano il potere delle cose che percepisce. Queste opinioni per certe cagioni segrete, che non abbiam qui tempo di rilevare, restano incompiute; è lavoro ancora sul telaio, per così dire: nella mente non vi ha ancora niente di ben conchiuso, di ben fermato. Ma si conchiudono, si fermano poi gradatamente, e la fermezza e saldatura di tali opinioni nasce allor quando non solo si conosce che un dato ente « ha una determinata potenza e un determinato modo di operare », ma di più si conchiude che « esso non ha niun altro modo di operare, niun altro grado di potenza, eccetto quello che si è a noi costantemente manifestato ». Questa parte negativa delle opinioni sull' operare degli enti è quella che chiude e ferma l' opinione. Perocchè, fino a tanto che io credo bensì di aver rilevato, che un dato ente va fornito di una data potenza e di un dato modo d' operare, ma non vi aggiungo il giudizio, che esso non ha alcun' altra potenza, alcun altro modo, resta sempre la mia mente disposta ad accettare qualche nuova scoperta intorno quell' ente, e rallargare la potenza che l' opinione formatami intorno a lui gli attribuisce, e perciò a modificare e ad amplificare la mia opinione stessa. Ma quando la mia opinione è già chiusa, quando sono venuto in una persuasione assoluta e non provvisoria (1) che « un dato ente, cioè una data specie di enti non abbia altra maniera e grado di potenza », allora non presterò più fede a chi mi raccontasse un avvenimento, il quale supponesse in quell' ente una maniera diversa di operare, un grado di potenza maggiore. Ma se io stesso, co' miei proprŒ sensi, verificassi il fatto, e non avessi alcun effugio col quale il potessi o negare o spiegare altramente, in tal caso infrangerei la mia opinione, e me ne creerei un' altra tutta nuova circa l' efficienza di quest' oggetto. Ora tre cose si rappresentan qui curiose ed utilissime ad investigarsi: 1 che cosa determini l' epoca nella quale avviene che l' uomo chiuda le sue opinioni sull' efficienza delle cose; 2 quale sia il grado di fermezza onde quelle opinioni si suggellano e chiudono; 3 come e quando questo lavoro proceda con ragione, quando poi irragionevolmente. In quanto al primo quesito, egli è certo che nè i singoli individui, nè i singoli popoli vanno innanzi collo stesso passo; e però le operazioni proprie della natura umana, come son quelle di cui parliamo, sebbene si facciano in tutti gl' individui umani egualmente, tuttavia non si fanno tutte agli stessi tempi; e il medesimo si dica dello sviluppamento de' popoli. Il determinare poi tutte le circostanze e cagioni per le quali in un individuo (lo stesso dicasi di un popolo) cada in un certo tempo e proprio in quest' anno, in questo giorno, in questo istante, ella è cosa impossibile; giacchè infinite sono le circostanze minutissime che influiscono nell' umana mente. Tuttavia difficile ma bella ricerca sarebbe sottomettere tali avvenimenti a certe leggi determinate, alle quali per fermo ubbidiscono; cosa però che trascenderebbe i confini di quest' opera. Quanto alla seconda questione, cioè al grado di forza onde l' opinione intorno all' impotenza delle cose si suggella e si chiude, questa è più o meno forte alle diverse età ed ai diversi individui. Diremo in generale che quanto un uomo cresce in età, tanto più quella sua opinione si rinforza, e dura più fatica a risolversi di romperla per formarsene una nuova. Onde è difficile che i vecchi prendano opinioni nuove non che in filosofia razionale, ma nè pure in fisica; massime se sono chiusi in piccola società, e variino poco le cose che li circondano, e il tenore di lor vita sia uniforme. Questo fatto come pure tanti altri dipendono dalla legge generale, « che quanto più lungamente e frequentemente l' uomo osserva le medesime operazioni de' medesimi enti e non mai altre, tanto più si persuade che il potere di quegli enti sia limitato a quelle, e non possano di più, nè in altro modo ». Di che si può spiegare quello che l' esperienza dimostra che « l' uomo comincia la sua vita con una universale credulità, la quale va grado grado diminuendosi sempre più cogli anni, e dando luogo negli animi anzi ad un principio d' incredulità, che tante volte diviene nelle età più mature dominante » (1). Toccando ora della terza questione, cioè della ragionevolezza ed irragionevolezza della credulità e dell' incredulità dell' uomo, si può dire in generale: 1 Che la credulità del bambino è sempre ragionevole, perocchè il bambino non ha veruna ragione di discredere, ed ella in lui non è altro se non l' affermazione della possibilità assoluta, unica possibilità ancor da lui conosciuta. Ora anche quello che è fisicamente impossibile, non è impossibile metafisicamente, ed affermando questa maniera di possibilità assoluta, il bambino dice la verità. Se dunque altri gli afferma di poter volare, egli crede di non essere ingannato; perchè vede la cosa possibile, e non è ancora in caso di misurare le facoltà reali di chi a lui parla; onde non gli rimane che di crederle sulla sua parola. 2 Che l' incredulità, che spontaneamente nasce nell' adulto il quale non sia bistorto dalle passioni, è pure ragionevole, perocchè ella non afferma l' impossibilità assoluta, ma unicamente l' impossibilità fisica, ed anche questa con consenso provvisorio . Così, quando l' uomo non crede che un bue spazŒ per l' aria come un' aquila, egli non intende negare la possibilità assoluta della cosa, ma afferma che la facoltà del bue conosciuta da lui con replicate esperienze non è tale e tanta che possa vincere il suo peso. 3 Comincia l' irragionevolezza e l' errore ogni qual volta l' uomo viene seco stesso ad affermare che ciò che è fisicamente impossibile, sia impossibile per assoluto, passaggio che succede per una esagerazione colpevole e interessata. E in quest' errore non al popolo, ma ai soli scienziati è riserbato di stramazzare; buon avviso che dà loro la natura, se ascoltar lo volessero, per non ingalluzzire di soverchio e poco stimar gli altri uomini, a cui resta in retaggio non la scienza sistematica, ma il buon senso. 4 Un altro errore avviene quando il giudizio dell' uomo sull' impossibilità fisica è definitivo e non provvisorio. Anche questa è esagerazione, è un arbitrio che fa l' uomo passionato o cocciuto. E veramente l' esperienza esteriore molte volte non è completa, e rimangono occulte nelle cose delle facoltà e delle forze che non si presentano se non per caso e rompono i nostri giudizŒ, i quali s' ingannano mettendo certi limiti assoluti alla natura. Noi abbiamo veduto che la benevolenza inchina il cuore del bambino alla credulità. Simigliantemente la malevolenza piega l' adulto all' incredulità. Ma come quella non sarebbe possibile, se la possibilità non avesse un fondamento nell' intelletto del bambino; così non potrebbe l' uomo dalla sua malevolenza e durezza di cuore esser reso a credere e ad assentire al vero più tardo del giusto; se questa sua tardezza a credere non trovasse un cotal fondamento vero o supposto nell' intelletto: e questo fondamento è « l' impossibilità fisica dedotta dall' esperienza », la quale si cangia dall' arbitrio umano ora in impossibilità assoluta, ora in impossibilità fisica bensì ma non meramente probabile e provvisoria, ma certa e definitiva; onde ricusa ogni ulteriore esperimento, e chiude la finestra alla luce che vorrebbe istruirlo meglio ed illuminargli la mente. Ora egli è certo che la limitazione dell' operare che noi apponiamo alle cose non è del tutto certa sin a tanto che ella si fonda in una esperienza ed osservazione imperfetta, e non sorretta da altri principŒ di ragione. Abbiamo già detto che la legge d' analogia non induce certezza, ma solo probabilità (1): onde le conclusioni che si cavano da questa legge debbono poter essere sempre riformate, mediante nuove scoperte o nuovi ragionamenti: e se noi volessimo quelle conclusioni irreformabili, sconciamente c' inganneremo. Intanto, se noi osserviamo quello che avviene nella massa degli uomini, noi troviamo che questi ben per tempo si formano di queste conclusioni e principŒ; ma che crescendo la loro esperienza e la loro scienza, li rompono per formarsene di nuovi più ampŒ e più giusti, i quali s' avvicinano sempre più alla verità e in parte anco alla ragione. Questa vicenda di formarsi de' principŒ od opinioni chiuse o fermate sull' operare delle cose, e poi d' infrangerle per formarsene delle altre, si ripete più volte in una vita che progredisca continuamente avanti nello studio e nella scienza della natura. L' uomo, all' incontro, la coltura del quale sia stazionaria, non fa che indurare sempre più quelle opinioni o principŒ che si è formato da prima. Le opinioni già formate, quanto più sono indurite e quanto più sono ristrette, portano un' incredulità maggiore. Vi ha dunque un' incredulità che nasce dall' ignoranza, cioè da opinioni sull' operare degli enti troppo anguste e troppo ferme. Se io voglio persuadere ad un boscaiolo che il sole sta e la terra si move, che la terra ha la forma di palla rotonda abitata da tutti i lati ed altre simili verità naturali, egli crede buona pezza che io lo corbelli, e se io pur mi mostro seriamente di ciò persuaso, egli tuttavia scuote il capo e non mi dà retta. Egli dunque pena oltremodo a credere certe cose del tutto vere, che sono credute dai dotti: l' incredulità dunque del rozzo è sotto un aspetto maggiore assai che non sia quella dello scienziato. Comincia dunque l' uomo con una credulità universale circa le azioni degli enti, e giunge ben presto ad una specie d' incredulità , cioè tostochè egli ha potuto chiudere e saldare bene le sue prime opinioni sull' operare della natura. Ma queste prime opinioni col procedere della scienza vengono rettificate e rallargate, onde prende lo spirito umano un nuovo corso che dalla rozza incredulità lo spinge soavemente di nuovo verso la credulità primitiva data dalla natura al bambino, restituita in parte ad esso da una cognizione più ampia delle forze della natura. Allargandosi questa credulità colla scienza, può essere ella stessa portata fuori de' giusti confini, e si son veduti degli uomini che la passavano per sapienti, creder tutto possibile alla natura, esagerare le forze di questa, e quando niuna osservazione, niuna esperienza veniva loro in sostegno, anzi tutte le osservazioni e tutte le sperienze lor contrariando, dire tuttavia: « Chi può conoscere tutti i segreti naturali? Chi può provare che delle occulte virtù non esistano nel seno della natura, le quali produr possano fenomeni i più straordinarŒ, i quali non si sono mai veduti avvenire »? Questi sono pienamente ritornati colla lor scienza alla credulità universale dell' infanzia. Basti qui una parola, magnetismo animale , per convincere il lettore, che tutto fu creduto possibile da certi uomini alle forze segrete riposte nella materia o comechesia in quest' universo. Come poi v' ebber molti che credettero fermamente esser condotti da una scienza accumulata con lunghe vigilie a dover credere tutto possibile, niente impossibile alla natura; così degli altri, colla stessa presunzione di dottrina, puntarono i piedi e le ginocchia a mantenere impossibile al tutto quello che trapassava le opinioni che essi si erano formate sulla potenza degli enti. L' incredulità religiosa si giovò ora di quel primo errore, ora di questo secondo a sostenersi, come ella credeva. V' ebbero degl' increduli i quali negarono i miracoli, perchè non si può sapere, dissero, quanto si estendano le forze della natura, e però quelli che noi crediamo fatti miracolosi possono esser fatti naturali. V' ebbero ancora degl' increduli i quali negarono i miracoli per la ragione contraria, cioè perchè i fatti che noi crediamo miracolosi superano, dicono, le forze della natura da essi troppo ben conosciute, nè trovano altre possibilità fuori di queste. Giunge fin alla lepidezza l' indicibilmente presuntuosa ignoranza da capo a piedi broccata e rabescata di pedanteria grammaticale e filologica erudizione dei così detti biblici razionali della Germania, i quali escludono francamente dalla Bibbia ciò che essi dichiarano impossibile, misurandolo da quelle regole di possibilità che si sono formati a loro arbitrio (1). Fino a tanto che il bambino si dirige secondo gli impulsi della natura, egli è determinato dalla sua spontaneità; nè può nascere alcun combattimento morale nel suo spirito. Proverà talora il dolor fisico, combatterà, per così dire, colla natura delle cose, dovrà esercitare la scelta tra quelle cose piacevoli e dolorose o tra quelle che sono più o meno piacevoli, ma in tutto questo combattimento non entrano motivi morali: egli non crede di dover niente alla natura se non in ragione della sua bontà o bellezza: e la bontà o bellezza della natura è infatti la misura della sua benevolenza ed ammirazione: come la sua benevolenza e la sua ammirazione sono la misura e la regola delle sue azioni. Ma tostochè egli giunge a conoscere mediante il linguaggio la volontà di un altr' essere intelligente, della madre o d' altra femina che ha cura di lui, da prima egli s' inchina ed uniforma ad essa e sente di doverlo fare conoscendo che quell' essere intelligente è degno della sua benevolenza e lo merita più, quanto più gli presta egli il primo di amore e di servigi (1). Questo è ciò che nasce al terz' ordine d' intellezioni. Di poi avviene, che egli talora ritrovi la volontà conosciuta della persona amata (volontà che è divenuta per lui come una legge positiva) collidersi colle altre sue inclinazioni o colla soddisfazione de' suoi bisogni. Qui comincia la prima lotta morale in lui: questo è uno stato nuovo dell' anima. Si noti bene la natura morale di questa lotta. Alloraquando egli giudicava le cose che il circondavano secondo la loro piacevolezza e bellezza, o asprezza e deformità, egli non avea da far altro che da metterle in ordine nelle affezioni del suo cuore: quali in alto e quali in basso, quali ne' posti intermedŒ. Egli esercitava con se la sua moralità: distribuiva la sua benevolenza e la sua ammirazione secondo il merito delle cose. Questa distribuzione poteva benissimo falsificarsi, come abbiam veduto, per degli inganni tesi al suo giudizio dalla falsità delle persone che lo attorniavano: ma finalmente le false opinioni da lui concepite che dirigevano la sua stima, non gli potevano cagionar un rimorso; perocchè egli se le formava dietro quelle apparenze a cui egli riputava dover aderire, dietro quelle parole alle quali egli riputava dover prestar fede. Ma quando egli venne a conoscere la volontà di una persona, allora nel suo spirito è entrato un elemento nuovo che dee necessariamente in breve sconcertarlo. La volontà di una persona è qualche cosa di opposto alla natura delle cose: nella natura vi è la necessità , nella volontà tutto è libero e contingente: la natura è costante, immutabile, la volontà variabile di continuo: le diverse parti della natura, i diversi esseri che la compongono tengono un ordine fisso tra loro, ma non si saprebbe come allogarvi in mezzo la volontà libera, qual posto darle, questa è una cosa nuova, che non ha con essi alcuna omogeneità, alcuna somiglianza: l' esigenza degli esseri è sempre la stessa, ma l' altrui volontà esige ora più ora meno, ora vuole una cosa, ora la sua contraria, ora si volge a cosa facile e piacevole, ora a cosa ardua e dolorosa. Sebben dunque il bambino sia inclinato parte ad uniformarsi all' altrui volontà e parte (come vedremo) a piegare l' altrui volontà alla propria; tuttavia in breve egli si trova posto ad un duro cimento, sente che o dee posporre l' ordine soggettivo7oggettivo degli enti della natura (1), o discordare dalla volontà della persona che lo governa. Che cosa nasce adunque nel bambino in sì grave frangente? Come si risolve in tanta lotta morale? lotta cioè di due doveri che si disputano la sua volontà. Primieramente se la sua attività animale lo determina ad operare irresistibilmente ed istantaneamente, può avvenir benissimo ch' egli in questo atto dimentichi la volontà della persona ch' egli sa di dover amare e stimare, e poi dimentichi pure tranquillamente quant' è passato. Ma se quella volontà gli sta presente ed egli sceglie di mancarle, non può farlo senza pena; e questo dimostra ch' egli la colloca in cima a' suoi doveri, e che la considera come la principale sua legge. Questa pena o incipiente rimorso è la culla della sua coscienza morale; nasce la coscienza in quell' ora appunto, nella quale il bambino sa d' aver violata l' altrui cara volontà, d' aver fallato contro di essa; di averla posposta ad altre cose, alle quali l' avrebbe dovuta anteporre e dalle quali egli fu sedotto. L' osservò già una madre. [...OMISSIS...] La moralità dunque del quarto ordine si manifesta colla coscienza; ma sarebbe un errore il credere, che questa moralità si potesse esprimere acconciamente colla formola « segui la tua coscienza ». La coscienza non è ancora una regola di operare, ma semplicemente una consapevolezza di operar male o di avere operato male e non più. Le formole adunque del quart' ordine d' intellezioni (non che quest' ordine abbia ancor formole ma ha il contenuto delle formole, che si forman più tardi), le formole dico, o sieno i principŒ morali del quart' ordine, sono i seguenti: Primo. Si dee preferire l' accordo della propria volontà con quella degli altri esseri intelligenti a tutte l' altre soddisfazioni. Secondo. Se v' ha collisione, si dee sacrificare ogni altra soddisfazione per mantenere l' accordo della propria colle altrui volontà (2). Tutti e due questi principŒ racchiudono un gran passo, che fa il bambino nel campo della moralità. Il primo è notevole pel nobile sentimento onde s' accorge, che in un accordo della sua coll' altrui volontà deve stare il sommo bene, a cui gli altri debbono cedere. Il secondo è pure oltremodo notabile per l' elemento del sacrifizio , che s' introduce nell' ordine morale; e della virtù della fortezza necessaria a compirlo. Noi ritorneremo necessariamente altre volte sopra le immense conseguenze, che apportar debbono nel mondo morale del fanciullo due sì gravi e dignitosi principŒ. Un essere assoluto vien conosciuto necessario già al second' ordine d' intellezioni. Al battezzato secondo le dottrine profonde del cristianesimo è stato dato anco il sentimento di quest' essere assoluto, la percezione o sia cognizione positiva di esso. Consideriamo prima i progressi della cognizione naturale di Dio, a cui poscia aggiungeremo quanto spetta alla comunicazione soprannaturale. La cognizione naturale di Dio è sempre ideale negativa (1), perchè l' uomo non percepisce con essa Iddio ma solo induce per argomentazione, che oltre a tutti i limiti deve avervi qualche cosa d' illimitato , sebbene questo illimitato non sappia che cosa sia (2). Ora una tale cognizione, semplice come ella è, è tuttavia suscettiva di un successivo incremento. Questo è quello che dobbiamo ora mostrare cercando in quale stato una tale cognizione si possa trovare nella quinta età del fanciullo, o sia al quart' ordine della sua intelligenza a cui siamo pervenuti. Appena il bambino percepì un ente reale, la madre, non deesi già credere, che a quest' ente egli ponga dei limiti: per lui quello da prima è l' unico ente, tutto l' ente. Non sente, è vero, l' entità tutta, ma egli ve la suppone o certo non gliela nega (3). Tuttavia il suo senso è pur limitato: tutto ciò che vede e sente è circondato da limitazioni. Lo spezzamento, la moltiplicità degli esseri è là per contraddire al suo pensiero e per dirgli: tu erri, se ci credi tutto l' ente. Le parole della madre finiscono per disingannarlo: non solo esse spezzano via più e quasi tritano dinanzi al suo pensiero l' entità delle cose; ma col solenne vocabolo Dio , ch' egli sente a pronunciare, viene finalmente a persuadersi che tutto l' ente c' è, ma non è nulla di ciò che gli è finora apparito. Ecco la prima concezione di un Dio distinto dalla natura che si forma nella mente infantile. In questa concezione il bambino non si arresta certamente alla idealità: egli afferma una realità; ma questa realità non l' ha percepita, non sa che sia; sa solo che risponde appieno alla idealità universale che risplende nel suo spirito. Una concezione di tal fatta è così semplice, che non ammette analisi di sorta alcuna fino che restasi in tale stato; ma ben presto ella si muove e si sviluppa, ed eccone il modo. Niente della divina realità percepisce il bambino, onde la percezione non può completare la sua cognizione di Dio, nè dare a lui materia di farvi sopra delle analisi e delle sintesi, che è il modo onde si sviluppa la cognizione umana riguardante le cose naturali. Tuttavia questi progressi della cognizione naturale aiutano indirettamente anche la concezione della divinità. La ragione di ciò si è, che quanto più si conosce dell' essere naturale e limitato, tanto più si conosce altresì dell' essere universale; e quindi si ascende in qualche modo alla cognizione dell' assoluto per la remozione dei limiti. L' assoluto in fatti ha necessariamente relazione col relativo, e però quanto più si conosce dell' ente relativo, tanto più si conosce della relazione che ha con esso l' assoluto, e si può formarsi di questo una cognizione consistente appunto in queste relazioni. Egli è vero che se io tolgo i limiti alle perfezioni a me note delle creature, poniamo alla potenza di operare, alla sapienza, alla bontà, io non so più che cosa ne avrò per risultamento, non so in che cosa queste perfezioni mi si convertiranno, non ne ho la minima idea; ma sia qualsivoglia la trasformazione che esse prendono, e che io ignoro, so però che io non avrò perduto nulla d' esse, che avrò ancora tutto il bene loro indicibilmente e inconcepibilmente migliorato, e questo è già per me un grande aumento di cognizione, benchè consistente tutta in relazioni di una cosa incognita con cose cognite, senza che di quella cosa incognita io abbia percepito o sentito di più di prima. Al secondo ordine d' intellezioni il bambino apprende a parlare: al terzo ordine il nome di Dio che gli suona all' orecchio lo rende già accorto non solo dell' esistenza sua distinta da quella della natura, ma in Dio stesso pone l' intelligenza e la bontà che ha cominciato a conoscere nella madre, intelligenza e bontà assoluta a cui egli può già dare ammirazione e benevolenza infinita, che si cangia ben tosto in adorazione s' egli viene aiutato da una religiosa istituzione. Al terz' ordine egli apprende del pari che la madre ha una volontà; e al quarto egli trasporta la volontà della madre in Dio, e come la sua benevolenza lo inclina ad accordare e piegare la volontà propria a quella della madre, così lo inclina pure ad accordare e piegare la volontà propria a quella di Dio. [...OMISSIS...] Al quarto ordine d' intellezioni adunque l' idea di Dio può essere divenuta nella mente del bambino quella di una volontà suprema, ottima, a cui egli dee pienamente sottomettersi. Già abbiamo veduto come la natura intelligente che dirige il bambino gli abbia fatto intimamente sentire quanto rispetto meriti l' altrui volontà, come la volontà intelligente sia migliore di tutte l' altre cose, ed egli debba rinunziare a tutte per non mettersi con essa in discordia. Certo, che questo sentimento che nel bambino si manifesta verso la volontà della madre o d' altre persone a lui care, viene molto aiutato e rinforzato dal non conoscere egli ancora distintamente i limiti di quelle volontà e dall' attribuir loro una dignità maggiore ancora di quella che esse realmente abbiano, a cui egli è spinto dall' universalità dell' essere che contempla, all' ampiezza della quale crede a prima giunta che rispondano le realità che percepisce. Ma ad ogni modo la volontà divina pienamente soddisfa al bisogno che egli ha di trovare anche una volontà assoluta, piena, universale, e però egli è inclinatissimo a conformarsi alla volontà divina, e tostochè egli intenda, troverà la cosa così naturale, così giusta, così necessaria che non ne domanderà mai un perchè al mondo; piuttosto mostrerà gran desiderio di sapere qual sia la volontà di Dio, in tutte le cose anche le più minute, se pure la religione che ha naturalmente in cuore è stata in esso fomentata e coltivata. Così a questa età la mente del bambino anche naturalmente si dispone a riconoscere Iddio qual supremo legislatore. Il Cristianesimo ci apre un arcano: egli ci assicura, che l' anima dell' infante, che viene battezzato subisce una segreta ma potentissima operazione, per la quale egli viene sollevato all' ordine soprannaturale, vien posto in comunicazione con Dio. L' effetto di ciò è quello che abbiamo accennato, un intimo sentimento della realità di Dio. Questo colorisce, per così dire, ed incarna la cognizione naturale di Dio rendendola positiva, ne accelera i progressi, le dà vita, onde si fa operativa nell' uomo e feconda del più sublime morale ammiglioramento. I genitori cristiani debbono esultare di questo tesoro divino che sta nascosto nell' anima del loro bambino ed adorarlo: debbono custodirlo e svilupparlo; debbono finalmente non solo cavar profitto dalla grazia de' sacramenti, ma da quella che possono ottenere al figliuolo offerendolo all' Altissimo, pregando per lui, usando de' sacramentali, a cui è aggiunta una virtù benefica per la potestà della Chiesa di GESU` Cristo. Lo sviluppo della grazia si fa colla virtù e colla cognizione. Quanto alla virtù, è la dilezione e i suoi frutti che si debbono fin da principio seminare e coltivare nell' animo infantile. Quanto alla cognizione, è la cognizione di Cristo, che risponde all' infusione della grazia battesimale e s' acquista coll' udire la parola di Dio stesso. Il bambino a questà età dee imparare a conoscere Cristo non solo come Dio umanato, ma come maestro degli uomini, avente una volontà, a cui tutti debbono conformare la propria: ecco venuto il tempo, in cui si può aprire il Vangelo d' innanzi alla giovane intelligenza. Dallo sviluppo intellettivo del quart' ordine passiamo a quello dell' attività umana, che gli risponde. Converrebbe, a trattare la materia compiutamente, parlare a parte dell' attività razionale e dell' attività animale del bambino; ma questo ci condurrebbe troppo a lungo senza immediato vantaggio al nostro scopo. Scorciando adunque, come abbiam fatto nelle Sezioni precedenti, considereremo solo i punti risalienti per così dire dell' attività del nostro bambino, le note caratteristiche, i tratti che debbono essere più diligentemente osservati dall' istitutore. Cominciamo dunque dall' osservare che: Le volizioni appreziative sono quelle, che nascono dal paragone di due oggetti buoni o cattivi, dei quali apprezziamo l' uno più o meno dell' altro. Ora vedemmo, che solo al quart' ordine comincia il paragone; dunque al quart' ordine solamente può farsi quell' atto della volontà che SCEGLIE tra due cose paragonate. Ad un ordine precedente cioè al terzo si può bensì apprezzare , il che non importa paragone, ma non appreziare , il che esige preferenza, e antecedentemente paragone. Se si considera, che al second' ordine si formano gli astratti e però nasce l' amore ad essi, e nel primo si percepiscono i soli sussistenti e questi solo si possono amare, sarà facile lo stabilire e marcare il progresso corrispondente della volontà in questi quattro ordini: progresso che presenta il seguente schema: [...OMISSIS...] La sola volizione appreziativa non basterebbe ancora a poter dichiarare un bambino pervenuto all' uso della sua libertà . Io ho già mostrato, che se l' appreziazione e la scelta conseguente cade sopra cose, che appartengono all' ordine materiale o anco a cose semplicemente intellettuali, vi può essere scelta nell' uomo e tuttavia non ancora libertà. Questa incomincia a manifestarsi la prima volta che l' uomo dee paragonare l' ordine morale agli altri ordini inferiori; la prima volta che dee scegliere tra l' adempimento del proprio dovere e il proprio piacere, o sia la soddisfazione dell' istinto suo accidentale (1). Ma questa prima volta viene appunto al quart' ordine delle intellezioni. La collisione tra le cose attraenti per lui e il suo dovere ha luogo, tostochè egli conosce una volontà positiva, che sia in opposizione colle sue inclinazioni naturali. Ora questa volontà gli è conosciuta al quart' ordine. Noi abbiamo veduto che egli l' apprezza, l' apprezza grandemente; sente che ella è qualche cosa di più sublime di tutte l' altre cose; ed il rispetto, ch' egli è inclinato a dare alla volontà d' un essere conoscente da lui conosciuto, è sì grande, che se per qualsivoglia motivo, sedotto dalla tentazione, egli lo pospone ad un altro bene qualsivoglia, egli ne prova amaro rimorso, e non può vivere senza tornare in pace e in concordia con quella volontà. La mancanza di questa osservazione della natura del bambino ha condotto Rousseau ad una sentenza trista ed ingiuriosa all' umanità, colla quale egli vuole stabilire, che da principio non si debbono adoperare de' mezzi morali, ma la forza ; perchè a lui sembra l' idea del dovere troppo superiore alla infantile capacità. Quanto non è smentito il sistema dal fatto! Quanto la presunzione de' sofisti non ha disumanata l' umanità! Convien bene che il secol presente le riconquisti la dignità perduta palmo a palmo, e questo egli fa ogni dì coll' invitto potere che dà al vero una osservazione accurata de' fatti umani. E` l' osservazione più imparziale, che ci mostra nel fanciullo questo vero mirabile e consolante, che egli « ubbidisce al dovere morale prima di ubbidire alla forza »ubbidisce a quello prima di conoscer questa. Consideriamo anche qui la cosa coll' occhio semplice e sagace di una madre, che sa spiare sì bene nell' anima de' suoi nati, sì bene osservarli ed intenderli. [...OMISSIS...] Giunto adunque a questa età intellettiva il bambino sceglie tra il bene e il male morale, entra in possesso della sua libertà. Vedesi poi da questa prima apparizione del suo libero operare, ch' esso suppone qualche grado di fortezza, colla quale l' uomo che si mette dalla banda della bontà morale, combatte e vince l' allettamento contrario. Questa morale fortezza, che altrove abbiamo chiamata forza pratica , da principio si mostra alla sfuggita e si dilegua sovente innanzi ad una difficoltà un po' maggiore; ma anch' ella s' accresce, o sia trova dei rinforzi e degli amminicoli, che la sostengono: ella dunque soggiace ad un progresso e ad un cotale sviluppamento nell' animo del bambino. Se la credulità e la docilità del bambino fossero sempre cimentate col prescrivergli cose false, irragionevoli o di cui egli non potesse mai intendere una ragione, la sua virtù nascente rimarrebbesi facilmente soffocata nella culla. Nascerebbe dentro di lui il più angoscioso e desolante contrasto. Quella volontà esterna che gli apparì come cosa divina, d' infinita reverenza degna, gli si cangerebbe dinanzi in cosa misteriosa, inesplicabile, inconcepibilmente maligna. Tutto confuso da prima, ignorando se gli convenga dare ascolto all' invitamento della natura, che gli fa vedere tostamente nella prima volontà, che gli appare, una dignità somma, ovvero alla propria esperienza, che non gliela mostra, se non come cieca e disordinata; egli finirebbe con una morale disperazione e depravazione dello stesso suo cuore. Ma non permette la provvidenza, che gli uomini, che educano figliuoli, sieno nè pienamente cattivi, nè pienamente irragionevoli. Quello per tanto, che le loro volontà hanno in sè di bono, di ordinato, di ragionevole, di amoroso, è l' elemento benefico, che rinforza nel bambino quei due primi semi di virtù messi in lui da natura, la credulità voglio dire e la docilità. Il bambino si rende più rispettoso, a chi tratta con lui, più facile a credergli, più pieghevole ad obbedirgli; più che egli può vedere di utilità e di verità in quanto gli vien detto od imposto. Quell' educatore adunque sarà il più atto a rinforzare nel fanciullo le abitudini di credulità e docilità, il quale porrà più nelle sue parole, narrazioni e comandi di quella verità, che possa essere conosciuta per tale dal fanciullo, e donde possa trarre delle conseguenze; e più di quella utilità, ch' egli possa in se stesso osservare e sperimentare. Nel vero, quando il fanciullo si è formato una credenza vera e ne ha tirato delle conseguenze, egli si rende più docile e desideroso di udire altre cose da' suoi maestri; perocchè egli vede che tutto quello, che sa, lo deve all' aver creduto le prime volte. Questo fatto venne già notato: [...OMISSIS...] . Credenza dunque produce credenza; ubbidienza produce ubbidienza nel fanciullo, quando la madre o l' istitutrice insegna e comanda convenevolmente. Tuttavia nè la convenevolezza sapiente degli ammaestramenti e de' comandi, nè la tendenza a credere e ad ubbidire rinforzata dall' amore del sapere dedottone e dai vantaggi ritratti dalla docilità, bastano a far sì che le volontà degl' istitutori non vengono ben sovente in collisione pericolosa colle altre propensioni inferiori del fanciullo. Da prima, quando il fanciullo sì trova in sì aspro cimento, e pur egli non vorrebbe mancare a quello che sente essere il suo dovere: l' aderir cioè alla volontà altrui col sacrifizio di ogni cosa: e fino a tanto che questa volontà gli si mantiene presente all' animo; egli non potrebbe farlo senza provarne i più amari rimorsi. Ma egli vien facilmente sedotto quando la gravità della tentazione e la lusinga dell' oggetto vietato distacca interamente la sua attenzione dalla volontà, che gli è legge, e quasi gliela cuopre per un istante, sicchè egli più non la vede, vede solo l' oggetto lusinghevole: allora è caduto il misero irreparabilmente. Quel momento passa come il lampo e torna ben sovente e la vista della legge e il rimorso che egli cerca di occultare e di sopprimere, sebbene in vano. Ma il bambino tutto mette in opera per giungere a ciò che brama ed evitare tuttavia la miseranda sventura che gli minaccia di operare contro l' altrui volontà. E quindi è, che se da principio egli inclina a conformare la volontà propria all' altrui, quando poi insorge la passione e s' apre l' interno combattimento, egli cerca di tirare la volontà altrui a conformarsi alla propria, cercando nell' uno o nell' altro modo di conservare l' accordo delle due volontà, che pur non vorrebbe rompere, sebbene tentatone. Laonde egli è in questa età e non prima che comincia a manifestarsi nei bambini quella mirabile voglia, che hanno d' influire sulle volontà altrui, al che fare spiegano per tempo una destrezza tanto maravigliosa, una finezza, una penetrazione istintiva sì sorprendente (1). Venendo ora a descrivere qual sia l' istruzione conveniente al quart' ordine d' intellezioni, non ripeterò quelle cose, che ho dette in occasione di parlare degli ordini precedenti, molte delle quali anche a questo ed a' susseguenti si appartengono. Che anzi seguendo il metodo tenuto fin qui, toccherò anco in occasione di quest' ordine, certi principŒ pedagogici, che debbono essere ricordati in ciascun ordine de' vegnenti. I quali, in questo di cui trattiamo, cominciano a rendersi manifestamente necessarŒ, sebbene la loro necessità si faccia anche più stretta ne' susseguenti. Uno di questi principŒ universali, che debbono reggere non solo le prime ma anche le ultime scuole della gioventù, è quello di « considerare il linguaggio come lo strumento universale dato dalla natura allo sviluppo intellettivo dell' uomo », e però di porre la più accurata diligenza a far sì che questo grande istrumento serva al suo fine; che le parole e le idee si leghino accuratamente insieme; che l' uomo infine sia istituito sempre più nella lingua, ma in modo che i suoi progressi nella lingua sieno veri progressi nelle idee, nelle cognizioni. Questo gran principio fu conosciuto nell' antichità: fu proclamato nei tempi moderni ed anco in Italia nostra; e tuttavia non fu ancora ridotto alla pratica con quella diligenza e costanza ch' egli si merita. Uno di quelli che meglio tra di noi ne intesero l' importanza si fu il Taverna, il quale raccomandandolo in un discorso, che disse in Piacenza, giustamente affermò che [...OMISSIS...] Noi abbiamo pur veduto, che il bambino prima del linguaggio è legato ai sussistenti; non può staccarsi col pensiero da essi e prendere il volo per le immense vie delle astrazioni. Chi più sottilmente considera trova pure che tutti gli errori della mente, tutte le teorie perniciose, tutti gl' inganni tesi da' sofisti agl' individui e ai popoli hanno la loro origine dal significato improprio e vago delle parole. Dunque al fanciullo una cognizione profonda della lingua insegnagli la proprietà del dire non ad ornamento, ma a rettitudine, a verità e a utilità; è il mezzo migliore di munire il suo intendimento contro gli abbagli e le illusioni; di renderlo uomo di un senso squisito, d' una fina logica, d' un erudizione accurata e certa. Prendasi la cosa in tutta la sua estensione, e sarà facile vedere che noi punto non esageriamo. Ma pur troppo non esistono ancora libri acconci: non esiste ancora un vocabolario, che contenga la grande proprietà delle parole e che sia per conseguenza necessaria una cotale enciclopedia di cognizioni. Dico la grande proprietà , perocchè vi ha una piccola proprietà, quella dei dialetti o quella di un breve tempo piuttosto che di un lungo. La proprietà di cui io parlo è più costante: ella non è formata nè da una piccola popolazione, nè da un uso momentaneo: ma sì da un uso nazionale e talora umanitario, durevole a' secoli e talora a molti secoli sopravvivente nelle vitali radici delle parole alle lingue stesse perite (1). Dee continuarsi nel quart' ordine e ne' susseguenti l' esercizio dell' attività esterna, secondo le regole che n' abbiam dato; come pure l' ammaestramento per via d' immagini e medesimamente dicasi di rappresentazioni. Una raccolta d' immagini e di rappresentazioni drammatiche, adattate allo sviluppo graduato dell' infante, sarebbe un opera grande, degna del sapiente, di chi ama il genere umano. Quello pure che abbiam chiamato esercizio orale deve proseguirsi aggiungendovi anco quello della memoria. Si comincerà da sentenze morali esprimenti non più che la moralità proporzionata al bambino nostro, cioè quella che non esprima mai formole morali superiori all' ordine d' intellezioni, a cui egli è arrivato; o tutt' al più ad un ordine immediamente maggiore. Un libro che raccogliesse queste sentenze distribuite sagacemente secondo gli ordini d' intellezioni, che costituir debbono altrettanti gradi d' insegnamento, sarebbe pur desiderabile e necessario che si componesse. Ugualmente utile sarebbe un libro di poesie distribuite secondo i gradi stessi, per l' esercizio di memoria a' fanciulli. La musica poi non dovrebbe venire in soccorso come semplice diletto sensuale, no. Troppo altro è la tendenza del fanciullo che ha pur l' apparenza d' essere così leggero, così ubbidiente alle sue sensazioni: lo si creda, egli è intelligente e cerca da per tutto nelle sue sensazioni stesse intelligenza, e poi l' affetto e il diletto che gli nascono da essa purissimi. Laonde fermamente io credo che la musica sarebbe utilissima all' educazione; ma solo allora che l' istitutore si servisse di essa a vestire di affetto o quelle sentenze morali, o quelle rappresentazioni pure morali, che il fanciullo già conosce ed intende, sicchè non si rimanesse una musica cieca, o dominante, soffocante il pensiero; ma una musica serva della parola già comunicata al fanciullo; una musica, a cui il fanciullo presta gli orecchi come ad amica ed affettuosa interprete delle più nobili concezioni, che già sono entrate nell' animo suo, ma che ancor vi sono intirizzite e per così dire senza calore. Ma qual mai sapiente troverà questa musica? Quale l' adoprerà con tanta sobrietà, con sì coraggioso sacrificio, che nè cerchi in essa una bellezza meramente sensuale, nè bellezza superiore alla capacità del bambino? Chi sarà che intenda o che pregi una musica che non esprima che un pensier fanciullesco e che non la vesta che di fanciullesche parole? Chi m' assicura che questo stesso mio avviso non si fraintenda? e che volendolo seguire non se ne abusi? Si dee oltracciò continuare l' esercizio orale anche in questa età come un cotal preludio alla scuola di lettura e di scrittura, accrescendosene la parte intellettiva. Se nelle età precedenti l' esercizio orale riguardava i nomi ed i verbi, in questo può riguardare le particelle o i nessi de' nomi tra loro, de' verbi tra loro e de' nomi co' verbi. Questo è veramente un insegnare a parlare, se si fa bene. Vi sono delle idee, de' pensieri che sebbene alla portata della mente fanciullesca, tuttavia riescono sommamente difficili ad esprimersi al fanciullo. Conviene prima indicargli qual sia il pensiero che si vuole esprimere, e poi fargli trovare la forma più propria e più efficace di parlare. Ma non potrebbe questo esercizio riuscir bene, se prima qualche sapiente non abbia raccolti in un libro molti pensieri proprŒ di ciascun ordine d' intellezioni; e in pari tempo la maniera di vestirli acconciamente di parole. Dove questo libro fosse fatto, non sarebbe difficile condurre il fanciullo nostro graduatamente da' pensieri e dalla lingua propria d' un ordine inferiore a' pensieri ed alla lingua propria d' un ordine d' intellezione superiore. Dico non solo da' pensieri, ma anco dalla lingua; perocchè uno stesso pensiero può essere espresso variamente e in un modo sempre acconcio; ma proprio d' un ordine d' intellezione e non d' un altro. Vi sono delle costruzioni difficili a' fanciulli; e perchè mai sono difficili? Perchè appartengono ad un ordine d' idee superiore al loro. Si dovrebbero adunque dall' uom grande, che componesse il libro da noi desiderato, classificare secondo le età anche le costruzioni e i modi di dire diversi; e di questi pure ammaestrare il fanciullo graduatamente (1). Qual perizia di esprimersi acconciamente non acquisterebbe in tal modo il fanciullo! Quanta facilità di pensare pari alla sua perizia nell' uso del linguaggio, mezzo universale dello sviluppamento intellettivo! Quanto tempo guadagnato nelle scuole! Con che facilità non iscriverà poi i suoi concetti quegli che li sa così propriamente ed acconciamente parlare! Oltracciò, in questa età si dee già cominciare la scuola di lettura e di scritto. Le parole pronunciate, le lingue sono segni delle idee; le parole scritte, le scritture sono segni delle parole (1). La scrittura adunque appartiene all' ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel del linguaggio, e però al terzo. Ma noi abbiamo osservato che il linguaggio stesso abbraccia più ordini nelle varie sue parti, e che i verbi, che ne sono parte sì principale, non s' intendono che col terz' ordine. Convien adunque lasciare un po' di tempo al fanciullo, acciocchè intenda sufficientemente la lingua parlata; onde io consiglierei a differire la scuola della lettura fino ch' egli sarà bene avanzato nel quart' ordine intellettivo, che solitamente risponde alla seconda metà del terz' anno. Questo respiro poi che si lascia prima di cominciare a mostrare al bambino le lettere, viene da lui utilissimamente occupato nell' esercizio orale, che lo rende perfetto nel meccanismo della pronunciazione, lo arrichisce di una maggior estensione di lingua, e sopratutto gli dà occasione d' esercitare l' intendimento: ed entra poi nella scuola di lettura e di scritto ottimamente disposto e capace di gran progresso. Questo studio poi di lettura e di scritto (che non vanno disgiunti, come vedemmo) non dee punto essere affrettato; ma anzi lento, conciossiachè dee aversi in veduta di continuo, che non è la sola lettura e la sola scrittura che si voglia insegnare al fanciullo; ma, insieme con queste, cose molto maggiori, assai più elevate. Oltrecchè si dee vedere che niuna scuola sia puramente materiale; ma un continuo esercizio di tutte le sue facoltà, principalissimamente della sua intelligenza; e che sia di più una scuola morale. Furono altamente proclamati in Italia questi principŒ da degli uomini che la onorano per bel cuore e per una mente elevata (1). Ora, io credo che l' insegnamento della lettura e dello scritto vadano assai bene accoppiati insieme, o alternati, quasi due parti d' uno studio solo più tosto che due studi. L' uno e l' altro infatti appartiene allo stesso ordine d' intellezioni, perocchè chi scrive non fa che aggiungere l' azione delle mani a disegnare quel carattere che già conosce, onde non ha debito d' aggiungere conoscenza, ma solo azione esterna, che va tanto bene unita all' azione intellettuale, colla quale l' unì quasi individualmente la natura stessa. Laonde se dopo che io avrò mostrata al fanciullo la lettera a e insegnatogliene il suono, lo farò disegnare questa figura colle sue stesse mani, egli dopo disegnatala non la dimenticherà mai più senz' altro, perocchè, come osservò Rousseau, [...OMISSIS...] . L' azione, il far loro fare le cose è dunque il migliore mezzo per farle loro apprendere e per saldarle nella loro memoria. Tuttavia tutto lo studio di lettura come quello di scritto importa sopratutto che sia graduato; e che si abbia continuamente in vista l' una e l' altra parte, cioè la meccanica e la intellettuale; rivolgendosi poi entrambi acconciamente al progresso morale. Egli è evidente che come la lingua giova mirabilmente ad analizzare il discorso del pensiero , così la lettura giova ad analizzare le parole scomponendole ne' suoni elementari di cui constano; e lo scritto finalmente giova ad analizzare le lettere stesse, elementi delle parole, notandosi ciascuna parte di cui le lettere si compongono. Vi ha dunque un progresso d' analisi, di cui deve fare uso il savio institutore. Vi ha parimente una direzione diversa dell' attenzione. Fino a tanto che si parla e nulla più, l' attenzione nostra va a finire nel pensiero che si vuole esprimere, e i segni del pensiero, la lingua non riceve che una attenzione sfuggevole e relativa; ma quando si legge, allora l' attenzione si ferma al suono delle parole, e la figura impressa che abbiam sott' occhio non trattiene la nostra attenzione che un istante quanto basta, perchè appuntandosi, per così dire, in quella possa slanciarsi al suo termine, che è il suono della parola. Finalmente, quando si scrive , l' attenzione si ferma alle lettere che si debbono figurare e disegnare colla mano, e che divengono il termine della nostra azione. Il termine adunque delle nostre azioni intellettive è dove si ferma e posa l' attenzione, dove questa porta la sua luce lasciando nelle tenebre il resto, a quella guisa che un fanale non illumina i luoghi, ne' quali egli passa velocissimamente, se non per brevissimo istante. Anche questa legge dell' attenzione umana è da notarsi con diligenza dall' istitutore; perocchè ella, se ben considera, gli dà in mano il modo da governare e temperare l' attenzione del fanciullo a suo grado. Vi ha dunque bisogno di un metodo di lettura e di scritto uniti in un libro solo, e diviso per gradi; altro lavoro da farsi da' cultori della grand' arte dell' educare, di cui abbiam però ben avviati dei tentativi nobilissimi. Un somigliante libro si dovrebbe comporre per insegnare graduatamente l' aritmetica a' fanciulli. Noi abbiamo veduto, a ragione d' esempio, che al quart' ordine d' intellezioni, a cui siam pervenuti, il fanciullo può formarsi una distinta idea del numero tre. Come dunque l' aritmetica dell' età precedente dovea fermarsi a mostrare le proprietà dell' uno e del due, così l' aritmetica di questa dee trattenersi nelle proprietà relative dell' uno, del due e del tre, e loro varie unioni, esprimendo queste in modo che non faccia bisogno d' altro che di quello di questi tre numeri in prima, e poi gradatamente de' loro varŒ composti. Oltre tutte le cognizioni descritte, che si possono dare al fanciullo di questa età, si dee oggimai pensare ad introdurre anche un bell' ordine nelle sue cognizioni. Questo studio di ordinare le cognizioni del fanciullo deve cominciare tostochè la sua mente sia capace di ricevere l' ordinamento delle proprie idee, cioè di ridurre le proprie idee a certi principŒ o idee principali. Ora noi già vedemmo che nell' età precedente a questa cominciarono nella mente umana ad operare dei principŒ definiti, i quali di età in età vanno continuamente ricevendo incremento e perfezione. Questi principŒ si debbono far servire da noi quasi come altrettanti cappŒ in cui le idee s' annodano. E però, se al terz' ordine d' intellezioni questi principŒ incominciano, al quarto si possono già adoperare dal savio istitutore a vantaggio del suo discepolo, purchè egli badi anche qui a mantenere fedelmente quella gran regola dell' educare che noi continuamente raccomandiamo, « di non adoperare a collegare le idee del fanciullo, se non que' soli principŒ che il fanciullo ha già ricevuti nella sua mente, perocchè l' usarne degli altri sarebbe un volere da lui l' impossibile ». E tuttavia grand' arte si dee porre oltracciò ad ottenere quello che noi vogliamo, cioè il progresso intellettuale e morale; e le idee, che comunemente si hanno sulla maniera di dar ordine alle cognizioni infantili, sogliono essere troppo incomplete ed insufficienti; onde crediamo pregio dell' opera il dichiarare qual sia l' ordine che si dee cercar d' introdur nella mente dei fanciulli e dei giovani, acciocchè egli riesca il più possibile vantaggioso. Il savio istitutore cercherà di procurare tre vantaggi al discepolo, cioè: 1 Di aiutare la sua memoria, il che si ottiene promovendo l' associazione delle sue idee; 2 Di unificare, quant' è possibile, i suoi pensieri; 3 Di procacciare che quest' unità data a' suoi pensieri non sia arbitraria, ma fondata nella verità, nell' ordine universale delle cose, perocchè egli è questo che dà all' unità de' pensieri un' importanza morale. Queste tre cose sono ben diverse tra loro, ed è necessario notarne accuratamente le differenze. Esse sogliono confondersi insieme, e talun crede che il dar ordine all' umana mente tutto consista unicamente in far nascere il maggior numero possibile d' ideali associazioni; altri va più avanti, ma crede poi d' aver fatto ogni cosa quando sia pervenuto a fare che il fanciullo raggomitoli, per così dire, le sue idee intorno ad un' idea principale, o le annodi ad un dato principio, senza darsi pensiero della scelta dell' idea o del principio a cui si devono legare, creando così nelle menti un cotale ordine più fattizio che vero, più rappresentante le opinioni fallaci degli uomini, che la reale natura, l' immutabile verità. Si consideri adunque attentamente, che la memoria e la reminiscenza si aiuta con qualsivoglia associazione d' idee, ma non da qualsivoglia associazione d' idee viene l' ordine delle idee stesse; che anzi l' associazione che si forma per analogia affatto accidentale e minuta tra idee disparate è quella appunto, che forma il carattere leggero, mutabile, capriccioso, del tutto anti7logico delle menti: il delirio stesso si alimenta di una rapida e strana associazione d' idee: la frivolità de' fanciulli ha la stessa origine. Si dee dunque anzi cercare una associazione assennata che una associazione frivola, e già questo solo non è un affare leggiero. Gioverà dunque per ispianare la strada, che qui passiamo in revista le principali specie d' associazioni d' idee, ossia le ragioni diverse, per le quali si formano naturalmente di esse altrettanti gruppi. La prima ragione si è la forza unitiva dell' animale , la quale ha un gran numero di funzioni e produce dei fenomeni innumerabili (1). Ora lo spirito intelligente si lascia a principio volgere dall' animalità, e però quando la forza unitiva animale unisce due sentimenti, esso vede pure unite le idee o intellezioni, che a quei sentimenti rispondono. A questa forza unitiva appartiene, come funzione principale nella materia che trattiamo, la fantasia o immaginazione animale, la quale suole accozzare insieme quelle immagini, che in essa comparvero una volta unite per continuità nello spazio, o per successione nel tempo, o per similitudini nell' impressione, o per qualche analogia talor lontanissima. Una porzione che si risvegli dell' immagine in questi modi complessa, tosto si suscitano e fanno presenti tutte le altre parti; quello che io dico delle immagini complesse cioè risultanti di più immagini come che sia insieme congiunte si deve dire parimenti di tutte le altre funzioni della forza unitiva. Questa fa sì che l' animale muova con un atto solo istintivo non una ma un gruppo intero di facoltà. Questo gruppo di facoltà si muove talmente accordato, che basta un atto di una, che l' animale sia spinto a fare, e tosto egli fa insieme gli atti di tutte le altre. L' intelligenza poi nell' uomo riceve da tali atti la sua materia, ond' avviene che l' atto d' una facoltà sola basta a far nascere la reminiscenza di una intera condizione o stato di corpo e di tutte quelle cose che a essa condizione e stato si riferiscono. La ragione di questa congiunzione di più immagini, sensazioni, istinti, atti di varie facoltà animali è tutta nell' unità del soggetto, in cui tutte le potenze e i loro atti si radicano. La seconda ragione è la forza unitiva dell' ente animale7intellettivo (uomo). Mediante questa forza unitiva umana l' ordine dell' intelligenza va di consenso coll' ordine dell' animalità: un movimento in questo difficilmente si fa isolato e solo, senza che nascano de' movimenti anche nell' ordine intellettuale, e così viceversa; difficilmente l' uomo agisce come intelligenza, senza che col medesimo atto egli non sollevi de' tasti, per così dire, anche nell' ordine animale (2). La terza ragione è l' incatenamento, che hanno veramente le idee e i pensieri tra di loro: la inesistenza di un' idea elementare in un' altra più sintetica o quella di una conseguenza nel suo principio. Questa congiunzione e associazione è assai diversa dalle due prime come si vedrà dai seguenti esempŒ. Io riveggo una persona e tosto mi si rappresenta all' anima il campanile della chiesa della sua parrocchia: qui vi ha un' associazione d' immagini, che potranno unirsi e richiamarsi nella fantasia anco d' un essere meramente sensitivo: qui ebbe luogo adunque la prima ragione d' associazione. All' incontro, al rivedere di quella persona ciò che subitamente mi si affaccia alla mente si è la dimostrazione di un bel teorema di matematica, che da essa ho già udito esporre. Qui viene in campo la seconda ragione dell' unità del soggetto animale7intellettivo: perocchè l' associazione consiste fra delle sensazioni animali, quali sono le imagini della persona, dei suoi discorsi ecc. e delle intellezioni, quali sono le idee che formano quella dimostrazione: l' unione dei due ordini animale e intellettuale ha qui il suo fondamento nella unità del soggetto uomo. Lo stesso sarebbe se dal rammentarmi quella verità matematica mi si affacciasse all' anima il volto o anche solo il nome del maestro che me la insegnò; solo che qui vi sarebbe il passaggio contrario dall' ordine dell' intelletto a quello del senso, mentre nel primo caso il passaggio era da questo a quello. Ora si osservi bene, che in tutti questi casi non vi ha nessun intrinseco rapporto tra le due cose che si associano nella mente nostra. E veramente una persona ed un campanile non hanno insieme la più piccola somiglianza: così pure una persona e un teorema matematico son cose sì disparate, di sì diversa natura, che per se stesse non pur non s' inchiudono, e non si assomigliano; ma anzi l' una sta nell' ordine delle cose reali, l' altra in quello delle ideali: sono cioè separate da una distinzione categorica. Non così sarebbe se al venirmi in mente di un principio tosto mi si affacciasse al pensiero altresì quelle conseguenze che prese insieme formano la dimostrazione del teorema. In questo caso le idee chiamano le idee, i pensieri chiamano i pensieri. E` un lavoro che accade tutto nell' ordine dell' intelligenza. E il lavoro potrebbe pure avvenire nell' ordine dell' intelligenza, quand' anco la materia del lavoro fosse sensibile. Così se alla vista di un uomo, io tosto rammento che egli è un essere composto di corpo e d' anima, v' ha un' associazione di pensieri, perocchè tra il pensiero dell' uomo e quella delle sue parti passa una relazione intrinseca e intellettuale, quantunque il pensiero dell' uomo ivi fosse somministrato da' sensi o dall' imaginazione in occasione di vedere un uomo o d' imaginarlo veduto. Ora egli è chiaro tuttavia, che quando non si volesse ottenere che un fine solo, quello di facilitare la reminiscenza del fanciullo senza scelta nelle idee, qualunque di queste tre specie d' associazioni sarebbe acconcia: è chiaro che l' arte della memoria artificiale si potrebbe ugualmente fondare sulla prima, sulla seconda o sulla terza specie di associazioni, o su tutte e tre. Ma questo non basta, come abbiamo detto, pel progresso morale del fanciullo. Questo progresso esige più cose: esige 1 che il fanciullo impari la connessione che hanno le idee tra loro; 2 che acquisti facilità di passare, mediante queste connessioni che diventano nella sua mente altrettanti principŒ generali di pensare e di ragionare, di passare dall' una all' altra non per opera semplicemente della reminiscenza, ma per l' uso del proprio ragionamento; 3 che questo passaggio sia esercitato da lui liberamente, e non in virtù di qualche istinto necessario e casuale, sicchè il fanciullo acquisti talmente la signoria delle proprie cognizioni e de' proprŒ pensieri, ch' egli le abbia alla mano quando le vuole. Ora questi vantaggi non si ottengono, se non promovendo nel fanciullo la terza specie di associazioni fondata nella relazione intrinseca delle idee e delle cose conosciute. Che se noi consideriamo che ogni rapporto d' idee o di cose conosciute noi l' apprendiamo mediante un' unica intellezione, facilmente potremmo ridurre tali rapporti ad una sola formola, dicendo che « ogni associazione intellettiva consiste in vedere in una intellezione complessa le intellezioni elementari, e in passare dalle intellezioni elementari alla complessa ». Le intellezioni complesse sono: 1 le classificazioni maggiori delle cose nelle quali si comprendono le classificazioni minori come elementari; 2 le idee di cose composte, nelle quali si comprendono le idee delle parti delle cose come idee elementari; 3 e più generalmente ancora i principŒ ne' quali si contengono, come intellezioni elementari, le conseguenze (1). Convien dunque che il savio istitutore sappia accortamente osservare, e con delle opportune interrogazioni e sperienze scoprire quali sieno in ogni età del fanciullo le classificazioni ch' egli si forma, le idee d' oggetti moltiplici ed i principŒ; e partendo da questi dati, che già nella mente del fanciullo si trovano, dee farlo discendere gradatamente dalla massima classificazione che egli ha in mente alle minori, e da queste ascendere a quella; gli oggetti complessi a lui cogniti dee farglieli analizzare, e dalle parti lor già trovate rivenir al tutto; finalmente da principŒ (ma s' intenda bene, da suoi principŒ e non da altri) menarlo alle conseguenze, e dalle conseguenze restituirlo ai principŒ. Egli è chiaro che con tali esercizŒ si vanno mirabilmente ordinando i pensieri del fanciullo, perocchè si riassumono le cose continuamente alla loro classe suprema, s' imparano a veder le parti bensì delle cose, ma nel loro tutto unificate, e ai sommi principŒ si appendono per così dire le innumerevoli conseguenze. E chi non vede che per tal modo il fanciullo viene acquistando la cognizione dei nessi che naturalmente adunano le idee, e per quelli prende agevolezza di trascorrere in esse colla mente? e che di più egli acquista balìa de' proprŒ pensieri? Perocchè l' uomo che abbia presente alla mente una classe molto estesa di cose è già padrone, s' egli pur vuole, di passare alla considerazione delle classi minori, il che non potrebbe fare, se non l' avesse. E così chi conosce il tutto ha potestà di conoscere le parti, come chi possiede un dato principio è fatto libero, a cagione dell' estensione virtuale d' esso, di spaziare a sua voglia pel campo delle conseguenze. Sicchè può dirsi a tutta verità che « la riflessione libera in ciascun uomo si estende solo a quel tanto a cui s' estendono le sue attuali complesse intellezioni ». Il darsi poi maggior cura di questa associazione intellettiva non è già un lasciar del tutto da parte le altre due maniere d' intellezioni venienti dalla forza unitiva dell' animale e dalla forza unitiva dell' uomo, ma è un dar ordine a queste stesse, un sommetterle alla ragione, il far sì che l' uomo ne divenga padrone e ne possa a suo vantaggio liberamente disporre. E nel vero l' ordine delle idee e dei pensieri aiutano moltissimo anche la reminiscenza fantastica, nello stesso tempo che la regola e la fa utile a se stesso. E perchè mai è più facile imparare a mente un discorso che abbia senso, che non un ammasso di parole sconnesse al tutto e gittate a caso? Il rammentare la successione di que' suoni è operazione fantastica; ma se quelli rendono un sentimento, l' ordine delle idee rende tosto assai più facile quella operazione stessa sebben fantastica. Viceversa poi l' associazione animale aiuta la reminiscenza delle idee, e per ciò anche quella del loro ordine, perocchè l' ordine delle idee è formato da altre idee di connessione, le quali possono pure esser legate a de' segni sensibili, e così i segni sensibili possono risvegliar nella mente l' ordine che si desidera. Ma questo stesso effetto non si ottiene meramente dalla natura abbandonata a se stessa, ma dall' arte. Conviene che preceda una mente la quale, avendo le idee in se stessa ordinate, ordini altresì i suoni a quelle corrispondenti. Allora questi suoni o segni sensibili così ordinati giovan benissimo o a comunicare altrui lo stesso ordine d' idee, o a richiamare in mente a se medesimo le idee ordinate. E questo è il fatto dell' invenzione dei linguaggi e delle scritture, e la ragione del vantaggio immenso che recano ai progressi dell' umano intendimento. Per altro, l' associazione che si fonda nell' ordine delle idee è la sola che possa servire alla moralità. Abbiam veduto che le due prime maniere d' associazioni hanno il loro fondamento nella forza unitiva del soggetto: è l' unità del soggetto che le produce. La terza, all' incontro, ha la sua ragione nell' oggetto stesso, il che è quanto dire nella verità. Questa sola osservazione basta per intendere che solamente quest' ultima specie di associazione ha uno stretto rapporto colla moralità: ella prepara la via a questa, perocchè la virtù non consiste in altro se non nella ricognizione volontaria dell' ordine oggettivo (1). Ma l' ordine oggettivo dee essere riconosciuto compiutamente dalla volontà, e quant' è più compiutamente, più egli divien morale, più vi ha di virtù nell' uomo. Questo vuol dire che l' educazione dee tendere a far sì: 1 che le idee e i pensieri si congiungano nel bambino secondo i loro nessi naturali e veri, e non secondo nessi arbitrarŒ e falsi; 2 che questo annodamento delle idee sia il più compiuto possibile. Si vedrà facilmente quanto questa dottrina consuoni al principio supremo dell' educazione da me altrove proposto ed enunciato così: « « Si conduca l' uomo ad assimilare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non si voglia conformare le cose fuori di lui alle causali affezioni dello spirito suo »(2) ». Ho mostrato ancora come l' educazione dee abbracciare la mente, il cuore e la vita dell' uomo (3). Ora il cuore, cioè la volontà cogli affetti dee rispondere alla mente, la vita rispondere al cuore. Se la mente dunque si conforma all' ordine oggettivo delle cose, se si ha in esso il tranquillo lume del vero, non il falso e confuso delle opinioni e pregiudizŒ, il cuore avrà il tipo su cui, per così dire, stamparsi, e la vita non sarà che una continua imagine del cuore. Se la vita dee essere un' incessante produzione del bene universale , nel cuore prima dee esservi la universale carità; e questa non può esservi nel cuore, se nella mente non v' ha la disposizione a non escludere niuna cognizione, ad abbracciarle tutte. L' universalità della mente imparziale produce l' universalità del cuore benevolo , e l' universalità del cuore benevolo produce l' universalità della vita buona . Si dee dunque educare la mente del fanciullo a riconoscere tutti i nessi delle cose ch' egli può riconoscere in ciascuna età, voglio dire a riconoscere tutto l' ordine oggettivo di cui è capace; al che fare è necessario che i nessi delle cose si dispongano nella sua mente non già a caso, ma essi stessi ordinati; cioè prima i più rilevanti e poscia i meno. Come uno è l' essere e tre sono le categorie , così vi ha pure un' unità suprema nelle cose; e vi hanno tre maniere di unioni. L' unità suprema è formata dall' idea di Dio essere essenziale. L' unità di Dio dee dunque rendersi dominante nella mente del fanciullo: a Dio come a creatore, a conservatore, a fonte di ogni bontà dee rivocarsi dalla mente del fanciullo tutte le cose: ma dee farsi sempre coll' idea propria di quell' età in cui il fanciullo si trova. Nel primo e second' ordine d' intellezioni egli concepisce Iddio come complemento dell' essere: lo concepisce tutt' insieme reale7intellettivo7buono. Il riferire e rifondere le cose in Dio colla maggior generalità possibile di parole è dunque la maniera più facile e il primo grado del far sentire e intendere ai fanciulli la dominazione dell' idea di Dio quasi assorbente tutte le altre. Al terz' ordine rimane la stessa idea di Dio, ma non assorbe più le altre; queste si distinguono da essa, e distinguendosi ingrandiscono quella: un segreto sentimento di adorazione può già qui aver luogo: un annullamento, un sacrificio di tutte le altre cose a Dio è il secondo grado, il secondo modo di subordinare ciò che è contingente all' Essere supremo. Al quart' ordine si manifesta Iddio come volontà. Cioè dopo essersi distinto Dio dalle creature, si distingue in Dio stesso l' ottima volontà dalla sua natura7intellettiva. La conformazione de' proprŒ voleri, senza esclusione d' alcuno, alla volontà divina; la subordinazione dovuta di tutte le volontà a quella sola; è un principio che di nuovo unifica nell' idea di Dio le altre idee: è il terzo grado, il terzo modo di fare intendere e appercepire il nesso fra tutte le altre cose e l' Essere supremo. Al quint' ordine si cominciano a conoscere alcuni dei divini precetti, e l' accettarli con assoluta devozione è un quarto modo di riferir tutto a Dio. Finalmente al sesto si comincia a conoscer Iddio come intelligenza o superna ragione, allora solamente in Dio sono distinte le tre forme del suo essere: la morale, l' ideale e la reale; che prima indistintamente si raccoglievano nell' idea dell' assoluto. Qui s' apre un quinto modo di legar tutte le cose con Dio, rifondendo in esso le ragioni delle cose tutte, e in tutte adorando l' eterna sapienza. Queste cinque maniere di ordinare le cose create sotto l' unità suprema del Creatore, e di porre così l' ordine principalissimo e naturalissimo nella mente, nel cuore e nella vita debbono esser studiate grandemente dal savio e cristiano educatore. Lo sviluppare poi questi cinque gradi successivi e specie diverse di religioso insegnamento; il rinvenire gli spedienti necessarŒ e le industrie per le quali si possono applicare ai fanciulli, e farli pervenire successivamente al loro spirito, sarebbe pure argomento d' un libro importantissimo e necessario alla solida educazione. Venendo ora a quella ordinazione che derivar si dee alle cognizioni del fanciullo in ciascuna sua età dalle categorie dell' essere, come queste sono tre, così tre sono i principŒ d' ordine e di unificazione. Cominciamo dall' idealità . L' essere ideale universale è quello che unifica questa categoria di cose. Sarà dunque assai bene che si faccia considerare al fanciullo in tutte le cose l' entità; e che gli si mostrino i modi dell' entità che rendono le cose diverse come semplici limitazioni, o anco, se si vuole, atti di quella: e che si faccia così il fanciullo discendere dalla classe massima alle minime delle cose. Ma e quali saranno i gradini di questa scala? - Diversi nelle diverse età. Per rilevarli dovrà il savio istitutore rilevare, con riflettere sulle parole del fanciullo facendol parlare, quali sieno le classi delle cose ch' egli in ciascuna età è pervenuto a formarsi: certamente queste classi avranno per base delle idee semi7astratte, come abbiamo veduto; ma queste stesse idee semi7astratte variano secondo lo sviluppo del fanciullo, ed ora costituiscono classi più larghe, ora meno. Ad ogni modo (rilevati quali sieno i semi7astratti su quali il fanciullo classifica le cose) converrà ordinarglieli, fargli vedere qual sia più larga, quale più stretta, quale si contenga nell' altra, quale sia contenuta: in una parola, i gradini per discendere dall' entità ideale alle altre più determinate devono essere quelli che già esistono nella mente del fanciullo, o i prossimi ad essi, a' quali il fanciullo faccia agevolmente, con tale occasione, il passaggio. Come si possono ora ordinare i pensieri del fanciullo rispetto alla realità? Gli enti reali si appercepiscono dall' uomo come sussistenti e come agenti. Quanto alla sussistenza, sono gli elementi materiali che si debbono far trovare al fanciullo, anche qui menandolo dalla cosa più composta alla meno, per esempio, dal mondo alle sue parti maggiori, dalle sue parti maggiori alle minori, e così di mano in mano. Ma anche in questo esercizio si dee seguire una regola somigliante: cioè non parlare se non di quelle parti che il fanciullo già conosce: per esempio, dalla casa si potrà farlo discendere all' idea delle stanze, dall' idea delle stanze all' idea de' siti diversi che si possono in una stanza stessa assegnare, o simile. Assai per tempo si può il fanciullo condurre fino alla cognizione de' principŒ chimici, al che molto gioverebbe l' orto botanico, il gabinetto di storia naturale, distribuiti a suo uso, ed altri simili aiuti. Tutti gli enti poi si possono rattaccare all' idea dell' universo, e ultimamente a quella di Dio come essenzial sussistenza. Quanto poi all' operare delle cose, si dee rilevare parimente quali sieno i principŒ definiti che il fanciullo è giunto a formarsi sulle forze e le attività delle cose; e moderare l' insegnamento in modo di far sempre uso di quelli. I principŒ d' azione, le forze, le cause vengono gradatamente a concepirsi, a disegnarsi via meglio nella mente del fanciullo. Or l' istitutore tostochè s' accorge che un dato principio è già composto nello spirito del suo allievo, egli dee impossessarsene per aggruppare intorno a lui molte idee; facendone fare al fanciullo una frequente applicazione a quante più cose gli sia possibile. In tal modo que' principŒ diventano modi preziosi che collegano le idee divise, e danno alla mente ordine, luce, potenza. Molte di queste unioni diventano assai utili allo stesso sviluppo morale, come, a ragione d' esempio, quella per la quale il fanciullo giunge a conoscere che tutti gli uomini vengono da una causa sola, da un solo padre, e non costituiscono per ciò che una sola famiglia. Veniamo alla terza categoria, quella della moralità . Noi siamo venuti sponendo i principŒ morali che si forma il fanciullo in ciascuno de' quattro primi ordini d' intellezioni. E` conforme alla sapienza dell' istitutore il fondare su quelli le sue lezioni morali, unica maniera di farsi intendere dal tenero suo alunno; a quei principŒ egli dee richiamare del continuo le azioni, deve far fare al fanciullo un' applicazione continua di essi: in tal modo le idee delle azioni si unificano, perocchè si sollevano alle loro cause. Veniamo ora all' educazione. Nell' esporre l' educazione che risponde al quart' ordine d' intellezione, seguiremo il metodo tenuto fin qui, di dar cioè alcuni di que' documenti i quali servir debbono non pure per questa età di cui parliamo, ma ben anco per tutte le altre avvenire. Cominciamo dalla necessità che le parole degli istitutori sieno appieno veraci. Già osservammo che la credulità del fanciullo è un effetto della sua benevolenza. L' abusarne adunque dalla parte degli adulti è un atto di turpe ingratitudine. Veramente all' irriflessione e all' egoismo degli adulti questa proposizione è del tutto incomprensibile: l' ignoranza e la debolezza del fanciullo, l' averlo nelle loro mani senza ch' egli possa difendersi, nè tampoco perorar la sua causa, sembrano loro de' titoli sufficienti a poter disconoscere il tenero loro fratello, e a credersi in possesso del diritto per fare di esso e ad esso bene e male, come loro attalenta. Vedemmo ancora che la benevolenza spontanea del fanciullo è cosa morale, che è un dovere che la natura stessa insegna ad esercitare. Chi abusa dunque della credulità fanciullesca, che è conseguenza della benevolenza, egli profana una cosa sacra, dispregia l' elemento morale e divino che dona la maggior sua dignità all' anima intelligente. Vedemmo che la benevolenza del fanciullo, oltre doversi rispettare altamente come cosa morale, deesi ancora coltivarla con bello studio, e questa coltura, volta a dirigere la benevolenza infantile in modo ch' ella conservi e cresca il suo pregio morale, dee, perchè ottenga il suo fine, mantenere ad essa benevolenza l' universalità, sicchè il fanciullo ami tutte le persone, e tutto nel debito ordine. All' universalità poi della benevolenza serve di fondamento e quasi di traccia l' ordine de' pensieri che abbiamo raccomandato introdursi nella mente del fanciulletto, di mano in mano ch' egli se ne rende capace. Ora quest' ordine bellissimo de' pensieri non è che la VERITA` nella sua pienezza e luce maggiore, perocchè la verità è da se stessa ordinata, e nella mente ove è il disordine è anche la falsità. Di qui vedesi adunque che attenzione, che diligenza, che probità si richiegga ne' genitori e istitutori del fanciullo! Quanto debbano questi, se sono savŒ, misurar tutte le loro parole, per non introdurre nella mente del fanciullo niente di falso, niun errore volgare, niun pregiudizio, non un' opinione esagerata, non una stima parziale. Ma chi d' altra parte si persuaderà, se non sarà virtuosissimo e al tutto sapiente, che sommamente importa tener l' animo del fanciullo vergine e puro da ogni pregiudizio nazionale, gentilizio, della condizione e dello stato? Pure ella è questa la maniera di allevare i fanciulli colle maggiori disposizioni alla virtù, alla sapienza e alla felicità. Felici quelli che venendo in questo mondo, riceveranno sortiti loro dalla Provvidenza tali educatori! Oltre il danno che i fanciulli ricevono gravissimo da ogni seme di falsità che s' introduca nelle lor menti, la mancanza di sincerità e di verità nei loro educatori rallenta altresì lo sviluppo del fanciullo. Abbiamo pur veduto che il fanciullo accresce il grado della sua credulità e docilità, quando l' esperienza gli dimostra che quello che ha creduto serve alla sua mente di punto d' appoggio ad altri ragionamenti. Ove possa vedere che questo punto d' appoggio gli manchi, sia fallace; in luogo di aver cagione di accrescere la sua credulità, dee anzi diminuirla. Niente ancora di più pernicioso di questa diffidenza che in tal modo si semina nell' animo del fanciullo! [...OMISSIS...] Il pericolo che v' ha d' abusare della credulità del fanciullo, v' ha del pari d' abusare della sua ubbidienza e docilità. L' educazione dee avere per somma legge il far sì che tutto sia retto nel fanciullo, la mente, il cuore, la vita. La mente del fanciullo si mantiene retta procacciando l' ordine universale delle idee (1): il cuore si mantiene del pari retto all' universalità ordinata della benevolenza, e la vita riceve e conserva la sua rettitudine con delle azioni sempre ordinate e ragionevoli, rispondenti a quel perfettissimo ordine de' pensieri e delle affezioni. Il fare che il fanciullo operi irragionevolmente od a caso, per non dir male, il fargli contrarre delle abitudini non fondate nè nella natura, nè nella ragione; è uno storcere i suoi affetti ed i suoi pensieri: perocchè il disordine della vita si comunica al cuore e alla mente: queste tre cose tra di loro intimamente e pienamente comunicano. Grand' errore adunque è il far servire il fanciullo al proprio trastullo, anzi che al suo vero vantaggio: l' adoperarlo come un mezzo e non rispettare in lui la dignità di fine: e pure quanti pochi genitori vanno puri da questo peccato! Pur troppo l' idea d' avere nel figliolo una proprietà è la prima che entri nel loro spirito: le leggi gentilesche contribuirono a rinforzare questo pregiudizio nelle menti, nè l' autorità del cristianesimo valse ancora a convellerlo interamente dalle menti, nè dai costumi. E dal non saper comandare rettamente, dal non saper dirigere le azioni del fanciullo secondo la ragione del suo stesso profitto, nasce facilmente il guasto della coscienza del fanciullo. I doveri dei genitori e degl' istitutori relativamente alla formazione della coscienza del bambino sono gravissimi e difficilissimi ad adempirsi: di questo dobbiamo dunque noi ora parlare: riprendiam da principio il ragionamento. Al riso del volto umano il bambino risponde col primo atto d' intelligenza, che è un atto ad un tempo di sua benevolenza. Questa benevolenza, abbiam noi osservato esser cosa morale. Di che si vede l' altissimo senno della Provvidenza, la quale nelle viscere materne pose un amore ineffabile che servir deve di acconcissimo stimolo alla razionalità ed alla moralità dell' uomo tosto che entra in questo mondo. Si vede ancora che gli atti della materna tenerezza, lungi dal nuocere al fanciullo, sono quelli che gli parlano, lo educano da principio, invitandolo e traendolo al conoscimento d' un' altra intelligenza buona a cui non può a meno di dare tanta stima e affetto maggiore, quanto maggiormente amorosa e bona a lui si mostra. Ma ben presto nasce il pericolo che il fanciullo esaurisca tosto la sua benevolenza in pochi oggetti; e però dee provvedersi, come dicemmo, che il suo cuore a niuna intelligenza dotata di bontà si chiuda, e più ancora che a niuna opponga alcun sentimento di malevolenza. Viene il tempo, ed è quello del terz' ordine d' intellezioni, che il fanciullo pel linguaggio apprende che gli enti intellettivi che come buoni ed amabili a lui splendettero ne' primi istanti, hanno una propria volontà, e il primo suo movimento si è quello che lo porta a conformarsi ad essa, a vivere in essa, senza nulla pensare di sè. Anche questo è un atto eminentemente morale. Ma qui pure si osservi che l' inclinazione di ubbidire, di conformarsi alla volontà altrui, nasce dalla credenza che s' è formata in lui che questa volontà sia buona, perchè è buono l' ente di cui ella è. Perciò la sua spontanea obbedienza è maggiore, quant' è maggiore la sua benevolenza e la stima verso l' ente intellettivo a cui ubbidisce, e la sua benevolenza e stima è maggiore, quanto maggiore è la bontà da lui appercepita nell' ente medesimo. Ora si considerino i mezzi che ha il bambino di misurare la bontà degli enti intelligenti che trattano con lui. Egli non può fondare il suo giudizio se non sui dati che la sua età gli somministra; e se quello corrisponde a questi dati, è giusto e retto; perocchè la giustezza e la rettitudine morale è sempre relativa al soggetto, cioè è relativa al modo onde l' oggetto viene dal soggetto appercepito. Ora, gli unici dati che quella tenera età somministra, non risultano che da quella immediata comunicazione delle anime, di cui abbiamo parlato, che si fa tra il bambino e le persone che il trattano per mezzo delle dimostrazioni sensibili, risi, baci, carezze, sensibili piaceri a lui procurati, servigi a lui prestati. Quanto adunque più amorosamente egli viene trattato, anche più di bontà appercepisce nell' ente che il tratta, e giustamente egli risponde colla sua benevolenza ed ubbidienza. Questo spiega primieramente il perchè l' ubbidienza del fanciullo non sia la medesima verso tutte le persone, ma anzi, somma per certe, e per altre quasi nulla: spiega perchè egli mostri di sentire un gran rimorso quando disubbidisce, poniamo, alla madre, e piccolissimo o nullo quando ad altri; e perchè la volontà della madre diventi la sua regola costante, e non così quella di altri. Questo fatto viene rilevato appunto da una madre molto stimabile colla solita sua finezza. [...OMISSIS...] Di qui si giustificano, per dirlo di passaggio, le fluttuazioni apparenti della moralità infantile: essendo questa fondata nelle affezioni, ella dee parer mobile siccome queste nelle sue apparizioni, non cessando tuttavia d' avere il suo pregio morale, e un principio stabile qual è quello di stimare ed amare la bontà degli enti. Ma vediamo oggimai i doveri degl' istitutori verso la coscienza incipiente del fanciullo. In prima abbiamo detto che se essi ottengono di mantenere nell' animo del fanciullo una benevolenza universale (2) ed ordinata, questa universale e ordinata benevolenza è ottima regola di moralità data e mantenuta al fanciullo: perocchè egli secondo quella pacificamente dirige e contiene i suoi affetti e le sue operazioni. Non vi ha però ancora in esso alcun principio di coscienza morale. E` venuto al quart' ordine delle sue intellezioni, che avendo già conosciuta una volontà positiva l' apprezzò e conobbe ch' ella dovea essere oggimai la sua regola, anteponendola a' suoi stessi piaceri fisici. Ma questa volontà stessa egli non può giudicare se sia bona per l' intrinseca sua ragionevolezza, ma la giudica buona per l' opinione formatasi che l' ente a cui ella appartiene sia buono. Or quando nasce collisione tra la volontà altrui e le sue tendenze fisiche, allora nel giudizio di preferenza dell' una all' altra, nella tentazione e nella caduta, spunta il primo albore della coscienza nell' animo suo, mediante il rimorso sentito o almen presentito. I doveri adunque degli educatori relativamente alla coscienza incipiente del fanciullo, consistono nel manifestare al fanciullo sempre una volontà buona relativamente a lui; perocchè dovendo la lor volontà esser sua regola, egli avrà in essa una regola bona se sarà bona, e sarà da lui apprezzata e amata se sarà tale ch' egli sia in caso, coi piccoli mezzi di conoscere ch' egli ha, di conoscerla per bona e stimabile. Si dee dunque da noi esaminare questi due punti importanti, si dee rispondere a questi due quesiti: 1 In qual maniera la volontà degli educatori, regola della moralità del fanciullo nel quart' ordine d' intellezioni, può esser bona; 2 in qual maniera può esser bona relativamente a lui, cioè può esser bona d' una bontà riconoscibile al fanciullo stesso, ond' egli possa proporsela da se stesso a regola di sua condotta. Abbiam già detto che il fanciullo, quando da principio conosce, mediante il linguaggio, che i suoi genitori o educatori hanno una volontà positiva degna di tutto il suo rispetto e di tutta la sua affezione, egli non è in caso di giudicare della sua bontà da ragioni intrinseche, cioè dalla natura ragionevole o no, giusta o no, delle cose volute e comandategli. Questo però non dispensa gli educatori dal comandare al fanciullo cose ragionevoli sempre, oneste e giuste. Perocchè sebbene non hanno da temere in lui un censore od un giudice, tuttavia hanno da rispettare una creatura intelligente; e debbono tener l' occhio alla coscienza che già sta per nascere in quel piccolo essere umano, e la quale non riuscirebbe sincera e al tutto conforme alla verità, se si fossero fatte credere al bambino buone le cose cattive, e così falsati anticipatamente i suoi giudizi morali e fattegli contrarre funeste abitudini. Posto adunque che in tutto ciò che viene comandato al fanciullo nulla vi sia d' inonesto, d' ingiusto, d' eccessivo, di appassionato, rimane ancora a vedere come la volontà espressa de' genitori dee farsi conoscere per bona al fanciullo stesso. Anche qui conviene por l' occhio unicamente ai pochi mezzi di conoscerla e giudicarla per bona che ha il fanciullo; e non pretendere ch' egli a riconoscerla tale adoperi que' mezzi che il suo intendimento ancora non ha. In prima adunque non si può sperare ch' egli intenda l' intrinseca ragionevolezza delle cose che a lui vengono comandate: questo è del tutto superiore al suo sviluppo. Converrà dunque ricorrere ai dati estrinseci, su' quali giudica il fanciullo; e questi sono i due seguenti: 1 Il fanciullo giudicherà bone le cose che gli vengono comandate e che sono l' espressione della volontà della madre in generale o degli educatori, se le cose comandate vanno d' accordo colla sua spontaneità naturale; 2 Se le cose comandate sono indifferenti alla sua spontaneità naturale, cioè nè seconde, nè contrarie, egli le reputerà ancor bone in virtù dell' idea di ente bono, stimabile ed amabile, che s' è fatta naturalmente dell' ente che gliele manifesta; 3 Stante poi quest' opinione di bontà dell' ente che da lui vuole quelle cose, se queste a lui sono moleste, da prima egli tuttavia ha la persuasione di dover anteporle alle sue stesse soddisfazioni sensibili, preferendo a tutto il non disgustare la stimata ed amata persona. Che se quelle cose fossero a lui gravemente moleste e continue e la sua stima e benevolenza verso l' ente che gliele comanda non venisse alimentata da niuna amorevolezza, potrebbe la cosa venire a tal termine da distruggere nell' animo suo la conceputa opinione di bontà dell' ente: sebbene alla piena distruzione di questa sua cara opinione non verrebbe mai che difficilmente. Se poi il comando duro e contrario al suo sentire e volere vien fatto di rado, e come un accidente, nella pienezza della stima e della benevolenza del fanciullo nasce il terribile combattimento che dicevamo, nel quale o la sua virtù rovina, ovvero uscendone vincitrice vie più si fortifica. Prima però di cadere, egli usa tutte le industrie per declinare dalla prova, per conciliare, se gli vien fatto, i due suoi bisogni, il fisico ed il morale, per piegare, voglio dire, la volontà del suo superiore alla propria, riducendola a ritirare o modificare il comando; e questa voglia d' influire è propria di questa età, si manifesta cioè al quart' ordine d' intellezioni. Ora egli è chiaro, che circa il comandare cose o piacevoli o indifferenti per sè al fanciullo non vi ha difficoltà, nè altro dovere che questo che tali cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo. Ma la difficoltà comincia dove si tratti di comandare cose di lor natura contrarie alla propensione e alla volontà spontanea del fanciullo. Intorno a queste cose il dovere della madre, della bona e di qualsiasi altro governatore del fanciullo non si limita a ben considerare che le cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo; ma oltracciò, fra le utili ed acconciate, debbono le necessarie essere scelte con sommo avvedimento e con somma prudenza. E cominciando dalla voglia d' influire che ha il fanciullo nella volontà de' suoi maestri, non conviene inutilmente oppugnarla, anzi, ogni qual volta ragionevolmente si può, convien piegarsi e compiacerle, acciocchè il fanciullo esperimenti anche in questo la bontà di chi lo tratta, opponendosi tuttavia qualche volta opportunamente, acciocchè egli esperimenti ancora che il cedere non è mai debolezza, ma solo amore (1). Non è certo necessario di dire che la è cosa inumana il pretendere dal fanciullo cose eccessivamente dure, e il trattarlo costantemente in modo sì aspro da annientare nel suo cuore il concetto di boni che si fece naturalmente di noi: i mali trattamenti continuati in tal modo possono dare all' animo suo una tempra di durezza e inclinarlo fino dalla culla alla tristezza e alla crudeltà, chiudendolo all' amore. Ma sarà mai permesso di cimentare la sua tenera virtù? Sì certamente, come abbiamo detto anco prima, ma qui appunto dee consistere tutto l' avvedimento e la sagacità dell' educatore nel misurare il grado della tentazione. Sempre lo si dee fare quando l' utilità o la necessità lo esiga; ma anche allora conviene che la tentazione non superi le sue forze; quanto sarà più grande la sua stima e la sua benevolenza effettiva, tanto avrà egli più di forze da resistere al cimento. La lotta si forma tra la stima ed affezione della persona amata e il desiderio di qualche soddisfazione sensibile: quel tanto, del quale quella vince questa, è la misura della sua forza morale di cui si può disporre. Qual sagacità non si richiede nel rilevarne acconciamente la misura! Ben può essere sovvenuto nel conflitto sia con carezze, sia con regali, sia con presentargli il più che si possa inzuccherata la pillola che gli si dee far trangugiare: e tutto ciò non conviensi omettere a questa età, dove abbisogni. E dico dove abbisogni, perocchè dove no, convien lasciarlo combattere alquanto e trionfar da se stesso. Egli è divenuto con ciò migliore: la sua virtù così si consolida, la sua forza pratica salutarmente si spiega. Ma il mezzo più importante di non falsare la coscienza, che già comincia a sbocciare nel fanciullo, quello senza il quale non si arriverà giammai a mantenere la sua coscienza del tutto pura, verace, perfetta, consiste nel fargli conoscere che anche in Dio esiste una volontà, e che questa volontà è altissima, suprema sopra tutte le altre volontà, a cui bisogna dare ubbidienza pienissima, conformandovisi in tutto, foss' anco con patire ogni cosa e con posporre a quella ogni altra volontà. Non si dee già pretendere ch' egli concepisca la volontà divina come sapiente, no, di questo non è capace: ma egli la concepisce assai facilmente come volontà di un ente supremo, assoluto ed ottimo, di cui la volontà è pure altissima, assolutamente rispettabile, e sopra ogni pensare ottima. Questa bontà della volontà divina, il bambino non è da prima nè pur capace ancora d' intenderla dagli effetti: ma la intende pel concetto che s' è formato di Dio, concetto all' uom naturale, perocchè è naturale all' uomo il concepire l' illimitato e l' assoluto prima d' intendere queste parole e sapere esprimere con esse il suo intendimento: e però falsamente si procederebbe volendo persuadergli ciò con ragioni; conviene solo presentargli alla mente l' esistenza di un essere oltremodo grande e bono, avente una volontà oltremodo pure grande e bona; perocchè basta che gli si presentino questi concetti alla mente senza prove, ed ella, la mente, immediatamente gli accoglie ed assente loro senza la menoma dubitazione, trovandoli essenzialmente veri, atteso un brevissimo argomento ch' ella spontaneamente fa, e mossa dalle intime leggi della sua natura produce a sè, tuttochè non ci rifletta poi sopra, nè lo si sappia dire, nè esprimere altrui con parole (1). E la via di comunicare al fanciullo così grandi pensieri è quella prima di tutto del linguaggio naturale ed efficacissimo che viene inteso da quella mirabile facoltà di partecipare dell' altrui sentire e intendere, che simpatia fu chiamata. [...OMISSIS...] Non si dee tuttavia omettere di vestire poi anco di parole acconce questi sentimenti, che colla loro comunicazione intima l' anime si trasmettono. Nè meno si dee poscia trapassare di far conoscere la bontà e la grandezza divina dagli effetti; ma senza ragionamento, solo affermando che tutte le cose vengono da Dio, che da Dio vengono tutti i beni, ch' egli è il fonte d' ogni bontà delle persone (2). Laonde il ringraziamento è l' atto di culto che più conviene a quest' età: conviene farlo fare al fanciullo il più frequente che si possa; ed è bella la piccola orazione che Mad. Hamilton propone da suggerirsi a un fanciullo quando egli riceve qualche favore dalle persone: [...OMISSIS...] . Con tali esercizi si conduce lo spirito del fanciullo a conoscere sempre più la prima causa del tutto, il fonte universale de' beni, a distinguerla dalle cause seconde e preferirla a tutte le persone umane per buone che queste gli si presentino: e quel che è più a mettersi in diretta comunicazione con essa. Quando l' essere perfettissimo si è reso così vicino al fanciullo, fu conosciuto qual principio di tutti i beni; non v' ha allora più pericolo che la volontà degli uomini prenda nel suo cuore un posto più elevato della volontà di Dio . Questa diventa la regola suprema , e quella la regola subordinata : ecco ciò che massimamente importa, acciocchè la coscienza non sia falsata nella sua formazione: ecco il desiderio, il grande studio de' genitori veramente cristiani, e che vogliono educare a Dio i cari pegni consegnati loro da Dio. Chi volesse fare una classificazione delle intellezioni di quint' ordine potrà farla agevolmente, partendo dal principio che « le intellezioni di un dato ordine sono i rapporti, che trova la mente fra le intellezioni degli ordini inferiori sui quali ella si riflette »; e attenendosi alla maniera di procedere, colla quale noi abbiamo data la classificazione degli ordini precedenti. Oltre a questo, prima d' istituire il ragionamento sopra un dato ordine d' intellezioni conviene aver presente che le intellezioni di un dato ordine non sono egualmente facili a formarsi, nè si formano tutte ad una data età; ma quelle sole alle quali viene diretta l' attenzione della mente: e l' attenzione della mente non si muove e dirige, se non punta da certi stimoli di bisogni, che si manifestano, alcuni costantemente a certe età ed altri a caso ora più presto ora meno, dipendendo dalle accidentali circostanze. E` finalmente necessario anche aver presente ciò che già dicevamo, che nel tempo stesso che la mente lavora intorno ad un dato ordine d' intellezioni, non istà ella oziosa rispetto alle intellezioni degli ordini inferiori; ma continua a rifornirsi meglio di queste, sempre in modo corrispondente e proporzionato ai nuovi stimoli de' bisogni, che a ciò far la sollecitano. Veniamo dunque ora ad esporre alcuni cenni anche sullo sviluppo, che fa la mente di sè col quint' ordine d' intellezioni, ordine che suole apparire già assai marcato nel quart' anno del fanciullo. L' operazione propria del quint' ordine è la terza specie di sintesi. La prima specie si fu la percezione (prim' ordine): la seconda specie si fu la predicazione delle qualità delle cose (terz' ordine): quale è ora la terza specie? Questa viene preparata dall' analisi precedente. L' analisi del quart' ordine noi l' abbiamo fatta consistere nella scomposizione elementare , per la quale la mente trova un soggetto risultare da due elementi, una cosa di cui viene predicata qualche cosa, e una cosa che si predica. Coll' abbracciare la mente questi due elementi come parti costituenti una stessa cosa, ella ha già cominciato a paragonarli insieme; e perciò abbiamo detto che l' operazione del paragone comincia nello spirito umano coll' analisi propria del quart' ordine. Ma chi ben riflette, questo cotal paragone è piuttosto virtualmente compreso in quell' analisi, che attualmente. Mi spiego. L' operazione, colla quale lo spirito in un soggetto, che gli sta presente, nota due cose, poniamo la sostanza e l' accidente, non consiste attualmente in un espresso paragone di quella con questo; ma bensì implicitamente s' accorge, che la sostanza non è l' accidente, nè l' accidente la sostanza; benchè sappia, che tutte e due quelle parti appartengono ad un solo oggetto. Or l' accorgersi che la sostanza non è l' accidente contiene, dicevamo noi, implicitamente il paragone, che scopre la relazione di differenza e di opposizione tra quelle due parti: ma questo paragone non è l' operazione, con cui si scompone e distingue sostanza ed accidente, ma da quella operazione è supposto ed implicito in essa. E qui deesi notare con somma attenzione appunto un fatto importante dello spirito umano, la doppia maniera cioè, colla quale egli fa le sue operazioni. Queste operazioni talora egli le fa espressamente e spiegatamente ed allora sono facili ad osservarsi: costituiscono la forma specifica della sua attività, e in questa forma l' attività termina e quasi direi si configura. Altre volte egli fa le stesse operazioni, ma in un modo sfuggevolissimo e non per terminare e riposare in esse, ma unicamente, acciocchè gli servano di via o scala ad altre operazioni, a cui intende come a fine: e mentre queste scolpisce con diligenza, perchè le vuole per se stesse, quell' altre solo le abbozza rapidissimamente per quel tanto, che gli bisognano a farsi il passaggio alle ultime, a cui vuol pervenire. Ora, se nella scomposizione elementare vi ha un cotal paragone, questo non è fatto dallo spirito, che alla sfuggita e imperfettamente, quanto solo gli si rende necessario mezzo a conoscere, che due sono le parti, gli elementi onde risulta il soggetto e non uno: il che si conosce sapendo solo in generale, che l' un non è l' altro, senza bisogno che si sappiano anco determinare le differenze che li dispaiano. E quantunque il sapere, che l' uno elemento non è l' altro, involga la vista d' una relazione, cioè della relazione di diversità, tuttavia la relazione stessa non si vede astratta in sè: veggonsi le due parti, ma il pensiero non s' affissa nella stessa dualità. Ciò premesso, si potrà intendere che cosa sia la sintesi di terza specie, che è l' operazione propria dello spirito al quint' ordine d' intellezioni. Verificato coll' analisi del quart' ordine, che esistono due cose diverse, che ne formano una sola; viene nel quint' ordine la sintesi a discoprire i rapporti, che hanno tra di loro quei due elementi. La terza specie di sintesi adunque consiste, « nella determinazione della relazione che hanno fra di loro due cose che ne formano una sola ». Da questa definizione si vede che in una tale sintesi il paragone comparisce in forma espressa e spiccata, e non ischiacciato e per accidente come sta dentro l' analisi precedente: vedesi pure che il frutto prodotto dal paragone, la relazione (1), si manifesta anch' essa determinata e non in un modo come prima al tutto generale ed imperfetto. Le relazioni poi non solo legano i predicati co' subbietti, ma ben anco due cose quali si vogliano, le quali si riscontrino insieme e fra di lor si trovi passar qualche nesso da formarne lo spirito una unità, un pensiero complesso. Quanto a' predicati ed a' subbietti la mente qui può discoprire con qual legge tra loro si leghino in un oggetto: se per accidente, o per necessità, o per l' essenza medesima: di guisa che la loro distinzione sia concettuale e non veridica. Se gli oggetti son due può vederli in un pensiero complesso sia pel nesso delle somiglianze e delle differenze (2), sia per quello delle cause e dell' effetto, sia per altra relazione qual si voglia. I giudizi analitici, che fa lo spirito umano al quint' ordine, sono di seconda specie od anco di prima. La materia di questa analisi vien preparata dalle sintesi precedenti cioè dalle sintesi, che si fanno al quart' ordine o prima. Questo s' intenderà facilmente, quando si ritiene, che in ogni ordine oltre l' operazione propria di esso, si continuano a eseguire altre operazioni, che per la loro natura spetterebbero agli ordini precedenti, ma per circostanze speciali vengono differite a quell' ordine, al quale giunto lo spirito le eseguisce. A ragione d' esempio, il predicare una cosa d' un' altra è quella operazione sintetica, che appartiene al terz' ordine, perchè ivi una tal sintesi comincia ad apparire. Ma egli è evidente, che lo spirito giunto al terz' ordine non può predicare una cosa di un' altra se non a condizione che: 1 egli abbia il concetto della cosa che predica; 2 e il concetto di quella di cui la predica. Laonde questa operazione non può aver luogo al terz' ordine ogni qualvolta a quello stadio il predicato non è ancor formato nella mente umana, o non è formato il soggetto. Tale sarebbe trattandosi di predicare un' azione d' un agente. Noi abbiamo veduto che gli astratti di azioni non sono ancora formati prima del terz' ordine; anzi non si possono formare se non nel terz' ordine. Indi avviene che i giudizi e tutte le operazioni intellettive intorno le azioni e gli agenti sieno ritardate d' un ordine: di maniera che al terz' ordine si hanno le azioni astrattamente prese; solo al quarto si può eseguire la sintesi per la quale esse si predicano di un soggetto agente e che solo al quinto finalmente si possa analizzare l' agente cioè dividere l' agente dall' atto suo, considerar l' agente e l' azione come parti o elementi d' un solo soggetto, il che è l' analisi elementare propria del quart' ordine, ma che per accidente vien protratta e differita dallo spirito fino al quinto. Ora quest' analisi di seconda specie, ma appartenente al quint' ordine, è una operazione d' infinita importanza al progresso sì intellettivo che morale del fanciullo. L' attribuire un' azione a un soggetto non è ancor che riconoscere un fatto per se solo sterile: in una tale sintesi io non ho in veduta altro che di porre in un ente l' azione. Ma se dopo avere io unito l' azione e il soggetto e così formatone un tutto solo, l' agente, di nuovo considero l' agente e distinguo in lui l' azione e il soggetto come due elementi d' un solo tutto; io con ciò m' apro il campo a trovare la relazione tra quell' azione e quel soggetto, ogni relazione. Non mi mancherà che un passo per venire a conchiudere una verità importantissima nell' orbe della moralità, cioè che all' agente appartiene il prezzo dell' azione, e però che « io dovrò stimare tanto più il soggetto quant' è più stimabile l' azione ». Questo passo lo farò all' ordine seguente: nel sesto comincerà dunque nella mente del fanciullo l' idea distinta dell' imputabilità delle azioni, e nel quinto già si prepara alla formazione d' una sì grande idea il cammino. Al quint' ordine sembra pure potersi attribuire l' operazione del sillogismo disgiuntivo, o almeno la formazione della maggiore di questo sillogismo. La maggiore del sillogismo disgiuntivo può ridursi a questa formola « delle due sole maniere, in cui può essere (o farsi o avvenire) una cosa, essa cosa dee essere (farsi od avvenire) nell' una o nell' altra ». Ora per concepirsi questa proposizione si esige aver prima l' idea complessa delle due maniere, nelle quali una data cosa può essere, o farsi o avvenire, aver di più osservata la relazione di opposizione, che hanno quelle due maniere, sicchè l' una esclude l' altra (1). Ma noi abbiamo veduto che solo al quint' ordine lo spirito umano giunge a distinguere due cose in un solo concetto, e a notarne la relazione fra di esse, mediante la terza specie di sintesi. Laonde egli pare, che prima del quint' ordine l' intendimento umano non possa in modo alcuno concepire la proposizione maggiore del sillogismo, che dicesi disgiuntivo. La necessità poi, ond' avviene che la cosa non possa essere se non nell' uno de' due modi, ora è metafisica, ora fisica, ora meramente positiva o sia libero7fisica. Che ogni cosa sia o non sia, è un' alternativa di necessità metafisica, e lo stesso dicasi delle proposizioni, nelle quali le due parti sono formate dal sì e dal no (principio di contraddizione). Che traendo una palla da un sacchetto debba uscire una di quelle due, che vi si posero, è necessità fisica. Che il fanciullo per una data sua azione debba trarre o premio o castigo è necessità libero7fisica; cioè fisica, ma condizionata alla volontà del suo istitutore, che gli promise il premio e gli minacciò la pena. Il fanciullo porta nella sua mente la cognizione della necessità metafisica, sicchè egli non opererebbe mai contro il principio di contraddizione; ma nè il sa enunciare così presto, nè analizzare, nè intendere, se gli vien detto in una distinta proposizione. La necessità dell' alternativa libero7fisica è quella che più facilmente egli intende in un modo esplicito, e poi la fisica: ultimamente la metafisica. Egli è da condursi di proposito per questa gradazione di proposizioni disgiuntive. Le proposizioni disgiuntive di più di due membri appartengono agli ordini susseguenti. In quest' ordine può il fanciullo acquistare distinta idea del numero quattro. Quando dico che il fanciullo può acquistare di questo numero una distinta idea, intendo ch' egli può acquistare la cognizione di tutte le relazioni del numero quattro co' numeri precedenti: nello studio di queste relazioni si contiene l' aritmetica propria di questa età. Egli può altresì aggiungere qualche maggior grado di luce al concetto alquanto confuso che ha già de' numeri maggiori; perocchè, in possesso del numero quattro, ha dei nuovi modi co' quali pervenire ad essi coll' aggiungere al quattro successivamente un predicato. Ciò che ho detto parlando del numero tre all' ordine precedente, parmi sufficiente a fare intendere tutto ciò che dal fanciullo si può esigere in opera di aritmetica, pervenuto che sia a questo stadio; ed eziandio ciò che si possa da lui pretendere in ciascuno degli ordini successivi. Il nostro fanciullo cominciò già a formarsi delle collezioni di cose; e nel quint' ordine procede innanzi nella formazione di tali collezioni: quelle che risultano da tre oggetti gli sono già facili, e le concepisce distintamente. Ma in quanto al progresso del suo spirito in quest' opera del formarsi delle collezioni di cose, noi rimettiamo al lettore la cura di accompagnare i passi del fanciullo in questo e negli ordini successivi, contenti come siamo d' aver segnato l' età in cui l' opera delle collezioni incomincia e la legge secondo la quale procede. In quella vece vogliam qui notare un' operazione nuova e importante, che a questa età incomincia a fare il fanciullo, e questa si è di distribuire le cose in cert' ordine secondo un loro valore vero o supposto, assoluto o relativo. Al quart' ordine egli cominciò a notare colla sua mente le differenze delle cose. Veramente da principio non bada « che alle differenze numeriche o totali, e delle altre non cura »: queste appena si possono dire differenze. Ma tosto dopo ne nota delle altre, e quest' altre differenze sono la base di collezioni diverse ch' egli va facendo: una collezione sola non ha bisogno di conoscimento di differenze, ma due collezioni sì. Dopo l' età delle collezioni adunque, e dopo l' età delle differenze, segue l' età dell' ordine nel quale pone più collezioni fra loro, ovvero gl' individui che entrano in ciascuna collezione. Per anteporre una cosa ad un' altra, od una collezione ad un' altra, non basta conoscere semplicemente la differenza loro in generale, ma convien riflettere di più, che quella differenza fa sì che l' una debba essere preferita all' altra, che l' una abbia più valore dell' altra; la differenza come un mero fatto comincia ad essere distintamente conosciuta al quart' ordine d' intellezioni; la conseguenza che se ne trae a vantaggio d' una delle due cose differenti e a scapito dell' altra, non si ha se non al quint' ordine. Col quint' ordine d' intellezioni il fanciullo può giugnere a distinguere i tre tempi delle cose; cioè può osservare gli avvenimenti passati e distinguerli da' presenti, e i presenti dai futuri. Questo risulta da ciò che abbiam detto innanzi sul progresso della mente infantile nel notare il tempo nelle cose. Dopo che il fanciullo paragonò e distinse l' avvenimento presente coll' avvenimento passato, dopo che paragonò del pari l' avvenimento presente con un avvenimento ch' egli prevede o s' imagina in futuro; egli è in caso altresì di paragonare l' avvenimento passato coll' avvenimento che dee avvenire; e così concepire lo stesso avvenimento vestito delle tre forme del tempo. A questa età egli comincia altresì a formarsi (sempre mediante le parole) un' idea del tempo astratta dagli avvenimenti. L' astrazione del passato, del presente e dell' avvenire trova il suo fondamento negli avvenimenti concepiti sotto due tempi, il che egli fa nell' età precedente. Per altro non concepisce il fanciullo da prima il passato in genere, ma prima un passato determinato da un grande avvenimento: il dopo la pappa, o il passato di ieri diviso dall' oggi pel tramonto del sole o pel sonno, sono i primi passati determinati ch' egli conosca. Laonde non solo si dee parlare al fanciullo del tempo con queste gradazioni; ma ben anco servirsi sempre di avvenimenti che facciano nell' animo suo grandi impressioni e vi lascino delle tracce durevoli quasi di altrettante epoche, aiutato dalle quali egli fissi il pensiero all' avanti e al dopo di essi, e così egli osservi il tempo nelle varie sue forme. Ho già mostrato che il pieno significato del monosillabo IO non può intendersi dal fanciullo, se egli non sia giunto al quint' ordine almeno del suo sviluppo intellettivo. Al prim' ordine egli non percepisce che degli oggetti esterni. Supponiamo che al secondo egli percepisca le azioni. In tal caso solamente al terzo, e non certamente prima, le applicherà ad un agente; ma egli non saprà ancora di essere egli stesso questo agente, perocchè tra gli agenti egli non ha ancora trovato se stesso. Venuto a questo punto, egli non può parlare di sè che in terza persona; ed è quello che abbiamo veduto avvenire di fatto ne' fanciulli prima che giungano ad intendere il monosillabo IO, ed anco negli adulti, se per ispeciali circostanze non giungono oltre ad un certo grado d' intellettuale sviluppo. Nel quart' ordine solamente, ordine in cui comincia l' intendimento a notare distintamente le differenze delle cose, potrà venire a distinguere (sempre eccitato dal linguaggio che è spronato ad intendere da' proprŒ bisogni e da una naturale tendenza a conoscere) tra gli agenti se stesso dagli altri: il che è quanto dire sarà condotto a percepire intellettivamente il proprio sentimento fondamentale, sentimento7uomo come autore di quelle date azioni. Questa non è che una percezione, egli è vero, e come tale apparterrebbe al prim' ordine d' intellezioni; ma non si fa a quel tempo, come dicemmo, per mancanza del bisogno che stimoli a farla. Questo bisogno or si manifesta nella necessità di attribuire le azioni al suo autore, e però di attribuire al sentimento fondamentale, che l' uomo prova, certe azioni le quali perciò appunto si dicono sue proprie. Ora l' uomo non può attribuire quelle azioni al sentimento fondamentale che egli prova, se non a condizione di percepire prima intellettivamente quel sentimento. Quindi si muove l' uomo a riflettere sopra se stesso, cioè sopra quel sentimento fondamentale che appunto lo costituisce. Non prima adunque del quart' ordine, se non anco di poi, l' uomo comincia ad intendere il monosillabo IO come significante quel sentimento sostanziale che prova e percepisce come autore d' azione. Ma questo, già lo dicemmo, non è il pieno significato del monosillabo IO. Questo monosillabo esprime di più l' identità fra il conoscente e pronunciante l' IO, e il sentimento sostanziale operante che esprime chi pronuncia l' IO. Ora egli è chiaro che questa identità non si può intendere se non dopo d' aver percepito intellettivamente quel sentimento sostanziale7operante: e però non prima del quint' ordine. Non basta: al quint' ordine d' un altro grado s' accresce nell' uomo la cognizione di se stesso. Essendo pervenuto già prima, cioè nel quart' ordine, a percepire il sentimento fondamentale attribuendogli delle azioni, ed avendo altresì col quart' ordine stesso concepite le azioni in due tempi, nel passato e nel presente, o anco nel presente e nel futuro; egli giunge al quint' ordine ad osservare che il principio agente sentito e percepito è il medesimo ne' due tempi, là dove le azioni di questo principio nel passato e nel presente sono diverse. L' IDENTITA` dell' IO nel mezzo della varietà delle azioni e de' tempi, è una cognizione che qui nasce e che si rinforza a poco a poco, mediante continue esperienze, e accresce infinitamente la cognizione di se medesimo. Egli è vero che questa identità non viene espressamente e distintamente concepita e pronunciata; ma ella viene implicitamente sentita e percepita in modo che « l' uomo da questo punto non fa più nulla che la smentisca, non opera più in contraddizione di essa ». Il principio morale che risplendette fin qui nel nostro bambino come stella che mostrava il cammino alla sua attività individuale, si fu « il rispetto dovuto alla natura e alla volontà intelligente che gli si fece conoscere ». Questo principio, resosi in lui operativo, prese in lui quattro forme, le quali furono: 1 benevolenza; 2 consentimento; 3 credulità; 4 obbedienza. In fatti il fanciullo naturalmente ama, prende i medesimi sentimenti di quelli coi quali egli conversa, crede alle loro parole e ubbidisce alle loro volontà. Egli è indubitatamente aiutato a far ciò da degli istinti; perocchè l' inclinazione ad amare, la simpatia, la tendenza a ricevere senza sforzo di contraddizione, e la spontaneità che si lascia movere senza resistere, sono possenti aiuti all' adempimento del suo dovere morale, e per essi Iddio provvide che questo dovere sia reso facilissimo e dolce ad un essere che non avrebbe ancor le forze di sostenere un combattimento. Ma quest' istinti ed altri, sì animali che umani, non costituiscono però la moralità: la qual tutta pende, come dicevamo, da quella luce intellettiva che gli dimostra qual cosa dignitosa e alta ella sia un' intelligenza che a lui si scopre benevola, e il volere di essa. Già al quart' ordine d' intellezioni egli pone tanta stima ed affetto, e intende di dovergliene porre, alla volontà intellettiva che a lui si manifesta, che è persuasissimo di dover sottomettere ad essa tutti gl' istinti della sua propria sensualità; e se egli rimane vinto da questi, già arrossisce, si nasconde, e il rimorso non gli dà più pace. Questo sentimento del rimorso è importantissimo ad osservarsi, ed egli segna l' apparizione del quint' ordine d' intellezioni nel fanciullo. Perocchè il quarto è quello in cui, conosciuta una volontà intelligente, intende che tutto dee uniformarsi a quella, gli costi ciò che si vuole. Quando poi, operando, infrange questa norma morale da lui ben conosciuta e n' ha sentito il rimprovero della sinderesi, egli ha fatto un passo innanzi: è venuto al quint' ordine. Tuttavia il rimorso al quint' ordine non ha del tutto la stessa natura del rimorso quale si manifesta nel sesto e negli altri maggiori. Egli è uopo che noi facciamo qui ben notare questa differenza, perocchè ella ci conduce meglio a stabilire le norme o principŒ morali, che si formano nell' anima all' ordine quinto d' intellezioni. Il rimorso, prima di concepire una volontà positiva d' un altro essere intelligente, non si può dare (1), perocchè nel fanciullo prima di questo tempo non vi ha combattimento morale: il suo operare del tutto spontaneo non trova ostacoli morali. Egli è per questo che, secondo noi, il rimorso del fanciullo dimostra ch' egli è già pervenuto al quint' ordine. Per altro, il rimorso che si manifesta al quint' ordine è così diverso dal rimorso che si manifesta negli ordini successivi, che quella prima apparizione di rimorso non esige nè pure una chiara notizia dell' imputabilità, quando negli ordini che vengono appresso il rimorso stesso è un effetto dell' imputazione che il fanciullo già fa espressamente a sè, nel suo interno giudicato, dell' opera mala da lui commessa. E nel vero, al quint' ordine il fanciullo non ha ancora finito di concepire chiaramente se stesso, come vedemmo, perocchè quantunque sia pervenuto a conoscere che alcune azioni appartengono al sentimento sostanziale da lui provato, tuttavia egli non sa trovare questo sentimento sostanziale, non sa dove metterlo; il che è quanto dire non sa conoscere che il giudicante, il parlante, l' imputante è appunto quel sentimento che imputa a se stesso quelle azioni male. Di più, la relazione fra le azioni fatte a sè, che le ha fatte, nel quint' ordine la sente in generale, ma ancora non ne conosce la qualità, il che dee fare all' ordine seguente; al quale perciò si spetta la imputazione propriamente detta. Mancando adunque questi elementi che entrano come cause e parti integranti del rimorso razionale che si ravvisa negli adulti che peccano; quale rimane il sentimento di rimorso che dicemmo apparir nel fanciullo pervenuto al quint' ordine? Che cosa è questo rimorso? Merita egli questo nome? E lo si merita nello stesso senso nel quale si dà al rimorso già pienamente formato? L' uomo, prima ancora di avere una coscienza formata di se stesso, ha una sufficiente notizia degli altri per sentirne una qualche esigenza morale. L' esigenza degli esseri è l' obbligazione morale che si manifesta colla sua virtù immediatamente all' anima intelligente prima ancora d' aver preso la forma di legge (1). Or se il bambino sente la detta esigenza ancor prima di riflettere a se stesso, ne dee venire per conseguenza, ch' egli provi un corrispondente orrore e dolore, ogni qualvolta pone l' azione contraria all' esigenza delle cose. Questo è un principio di sentimento morale, che in lui si suscita allo stesso modo, come in lui nasce il sentimento dell' esigenza degli enti; e che è indipendente da un espresso giudizio d' imputazione col quale giudichi e condanni se stesso qual reo. Fra l' azione ch' egli pone e concepisce, e le cose di cui egli sente l' esigenza (poniamo la rispettabilità delle intelligenze e lor volontà) sorge una disarmonia di fatto: nell' anima sua, in questo sentimento sostanziale, accade una lotta, ed essendo ella tutta sentimento, impaurisce al trovarsi nell' arena di un siffatto combattimento. Questo è un cotale rimorso, che ha luogo nell' anima come un fatto necessario e non volontario, e come un sentimento che nasce a quel modo, onde il dolore d' una ferita: perocchè anche l' anima, anche la parte morale dell' anima, ha le sue leggi fisiche e inalterabili come quelle de' corpi; ed egli è un errore il credere che tutto ciò che avviene nel regno della moralità dipenda solamente dall' arbitrio, o sia così tenue come un' idea; o così vago e sfuggevole come accidentali affezioni. L' anima nel suo essere morale può ricevere adunque delle ferite e dolorarne prima ancora di conoscere se stessa, di riflettere sulla propria personalità; e questo è il rimorso che sorge al quint' ordine d' intellezioni. Questo rimorso appartiene al senso morale , e non propriamente alla coscienza morale ; ma quando l' uomo giunge nel suo sviluppo intellettivo un ordine più su, incontanente egli, errando, soggiace a un rimorso, che appartiene ed è l' effetto della consapevolezza del suo mal operare. Non è già, che quel primitivo rimorso si formi in noi senza l' opera dell' intelligenza, no certo. Ma l' intelligenza nol produce direttamente; ella non fa un espresso giudizio di condanna, dal timore del quale nasca l' interno dolore, che rimorso si chiama: l' intelligenza non fa che conoscere il male che viene operato: onde il sentimento di quell' essere, che conosce il male, si raccapriccia, allorchè si muove a farlo cedendo alla tentazione. All' incontro il rimorso al sest' ordine acquista un nuovo elemento, quello dell' imputazione. Al sest' ordine l' uomo conosce l' IO, come un sentimento sostanziale operante, conoscente, giudicante e proferente se stesso. Non solo a quest' IO egli attribuisce le azioni già prima conosciute cattive come ad autore, ma ben anco gliele imputa; cioè intende che quell' IO autore di quelle azioni ree ne riceve deterioramento; onde viene il demerito e il biasimo. L' uomo che in questo stato giudica e condanna se stesso, soggiace sotto il peso di questa sentenza, come sotto un nuovo male; ed indi una nuova amarezza si aggiunge al suo rimorso; il quale diventa con ciò anco figlio della sua coscienza morale. Il rimorso dunque coll' atto dell' imputazione si amplifica, s' integra, acquista un elemento nuovo, non è più sensione morale , ma ben anco vero rimprovero o biasimo morale. Vero è, che quando al rimorso immediato e di fatto, per così dire, si sopraggiunge quest' altro come rimproccio e sgridata di interno giudice o superiore, il primo non si muta, ma con questo s' unisce a pungere il cuore del peccatore con doppio aculeo. Anzi quel primo fa la via a questo secondo. Perocchè ben sovente la ragione s' avvede del fallo e 'l riconosce, e il rinfaccia al suo soggetto mossa e desta dal pungolo naturale: sicchè l' uom s' accorge e si riprende d' avere errato, perchè lo scorge a ciò il sentire il mal essere e la doglia della sua natura morale: del che cercando la ragione trovala nel fallo commesso. Laonde non a torto chiamasi e l' un e l' altro di questi due dolori, che insieme si mescolano, rimorso ; e il secondo può considerarsi come il compimento e quasi una nuova forma dell' altro. Che, se dividere si dovessero, potrebbero dirsi il primo rimorso della sinderesi , perchè nasce da' principŒ morali, che sono in noi, da noi violati; il secondo rimorso della coscienza , perchè nasce dal giudizio con cui imputiamo a noi stessi il fallo commesso: il primo è un rapporto reale (una disarmonia) tra l' IO sentimento operante e l' esigenza degli esseri da lui appresa: il secondo è un rapporto reale tra l' IO sentimento operante e la sentenza di condanna di sè da lui proferita: quantunque nel primo non vi sia ancora coscienzia morale, tuttavia vi ha qualche cosa che stimola la coscienza e la provoca, e puossi chiamare l' albòre della coscienza. Da questo si conchiuda, che il gran principio morale: « segui la coscienza »al quint' ordine d' intellezioni non è ancor formato nell' uomo: egli segue ancora de' principŒ morali anteriori a questo della coscienza. Quali sono adunque i principŒ morali al quint' ordine? Qual è a questo tempo la nuova forma, che prende la moralità nell' animo umano? Ecco quello che dobbiamo ora investigare. Il rimorso, che a questa età si manifesta, sebbene imperfetto, produce l' istinto morale di fuggire il male e di fare il bene. Ciò nasce, tostochè quel rimorso si può prevedere o presentire prima di operare. Ma questo istinto non è ancora una vera formola morale: egli solamente dà luogo ben presto ad una massima esprimente piuttosto un dettame di prudenza, che una morale obbligazione. Ora ciò che noi cerchiamo sono le formole, i principŒ morali proprŒ di questa età. A fine di discoprirli rimettiamoci sulla via dello sviluppo morale, rammentandoci quale sia stata l' apparizione della moralità al quart' ordine. Noi vedemmo che al quart' ordine la moralità si manifestò all' uomo come un dovere « di uniformarsi alla volontà degli esseri intelligenti conosciuti, costasse qualsiasi sacrificio ». In questo principio compariva una specie di collisione tra il bene eudemonologico e il ben morale, tra il bene soggettivo e l' oggettivo e sentivasi la necessità morale di sacrificar questo a quello. Ma, notisi attentamente, il bene soggettivo in tale stato non si percepiva oggettivamente, perchè l' uomo non avea per ancora la coscienza di sè stesso. Era dunque il soggetto uomo, qual soggetto morale, che da una parte sentendo il dolore e il piacere, dall' altra veggendo il dovere, non dava retta a quello, ma decideva semplicemente, che questo era dovere, era tutto. L' identità del soggetto sensitivo ed intellettivo è solamente quella, che può spiegare come esso soggetto potesse dedicarsi e consacrarsi a quanto prescriveva l' intelletto, trapassato il senso, non consideratolo , come se non esistesse, non giudicatolo, non messolo a confronto. La necessità di seguire il dettame del retto è assoluta; e però l' uomo decideva a favore di questo senza tampoco sentire voce in contrario: pativa il senso, strideva dilacerato, ma l' IO intellettivo tenea gli orecchi turati: unicamente inteso a ciò che il dovere da lui volea. Per questo modo, non per confronto alcuno « la volontà dell' essere intellettivo », nella quale vedeasi il dovere, era posta in cima a tutte le cose nella morale propria del quart' ordine d' intellezioni. Nel quinto cominciano le collisioni de' doveri che mutano forma alla precedente teoria morale. Dico le collisioni dei doveri, e non già la collisione tra quello che è dovere, e quello che non è dovere ma piacere. Questa specie di collisione non muta propriamente la teoria morale; sebbene influisca nella morale pratica, perocchè l' uomo tostochè ha posto attenzione alle voci del senso, che rifugge d' esser sacrificato al dovere, è già entrato in una nuova condizione morale; una nuova tentazione lo assale: egli ha bisogno di nuova fortezza. Questa osservazione e attenzione che l' uom pone col suo intelletto alla pena, che costa il dovere ad adempirsi, accresce la morale d' un precetto, quasi direi, di fianco, il quale vien poi formulato così « sii forte contro la tentazione »; non risguarda questo la forma del dovere finale, anzi la suppone, perocchè dicendo « sii forte contro la tentazione », non si esprime, ma si ammette per istabilito quel dovere, nel mantenimento del quale dobbiamo esser forti. Tuttavia giova assegnare a questo quint' ordine anco questo precetto, che comanda « la morale fortezza ». Toccato ciò di passaggio, dicevamo, che in questa quinta età si manifesta da prima una qualche collision di doveri; ed è questa collisione, che muta le formole morali dell' obbligazione. « La volontà dell' essere intellettivo dee rispettarsi », questa è la formola del quart' ordine. Ma più volontà intellettive ugualmente si manifestino, e non tutte d' accordo: ecco la collisione di doveri. A quale di queste volontà intellettive si dovrà dare la preferenza? Ecco il nuovo problema morale che si presenta a sciogliere all' animo del fanciullo giunto al quint' ordine. Egli è costretto dalla necessità morale di operare a farsene qualche soluzione: e questa soluzione diventa per lui un nuovo principio morale, una nuova formola contenente la sua obbligazione. Prima di vedere come egli debba risolversi un tanto dubbio, veggiamo come questo dubbio debba apparirgli appunto a questa età e non prima. In prima a questa età, egli dee aver già trattato con più persone, ed è impossibile che tutte in tutto sieno andate perfettamente d' accordo e d' un pari passo nel beneficarlo, nell' istruirlo, nel comandargli. Oltracchè già conobbe, che avvi un Essere supremo, ed una suprema volontà ottima e perfettissima, e giunse a distinguere, in qualche modo, da questa volontà ottima le altre volontà limitate nella bontà. In secondo luogo, al quint' ordine non solo egli cominciò a distinguere le differenze delle cose, ma a collocare in un certo ordine di dignità più cose tra loro, almeno due. Quest' ordine fra gli oggetti da lui contemplati non esisteva in lui prima del quint' ordine; e perciò prima egli nè pur poteva collocare nel debito ordine le volontà intellettive che gli si rappresentavano come rispettabili; ma doveva dirigersi a favore dell' una o dell' altra più tosto per azione istintiva e spontanea, che per una preferenza razionale. Ma nel quint' ordine oggimai può farlo. Come dunque lo farà egli? Egli è indubitato, che egli intenderà di dover preferire a tutte le altre la più bona, la più benefica, come quella che è più degna. La bontà e dignità intrinseca dell' intelligenza fu quella, che rivelò da principio al fanciullo, quanto l' intelligenza e la volontà intelligente sia essenzialmente amabile e rispettabile. Egli è chiaro, che i diversi gradi, ne' quali la bontà intellettiva gli si manifesta, debbono essere quelli medesimamente che gli determinano e prescrivono i gradi del suo amore e del suo rispetto. Questa regola dei gradi della bontà, i quali rendono più degne le volontà degli esseri intelligenti, è piena, assoluta, immutabile. Nella bontà si comprende l' intelligenza, giacchè l' intelligenza è condizione e principio della bontà, è bona d' una sua specie di bontà nobile sommamente, vi si comprende la sapienza, ma sopra tutto vi si comprende la beneficenza volontaria. Ma ciò che varia si è l' applicazione di questa regola. Ciò che varia sono i mezzi a disposizione del fanciullo, coi quali egli misura quella bontà e i suoi gradi. Il fanciullo è soggetto ad ingannarsi nel giudicare il grado di bontà e di dignità delle volontà contrarie, che a sè il vogliono uniformare; ma il suo giudizio erroneo in se stesso, può essere diritto rispettivamente a lui. Questo giudizio è sempre diritto ogni qual volta egli fa entrare nel calcolo tutti i gradi di bontà a lui conoscibili: in una parola egli dee misurare non tutta la bontà delle volontà intelligenti, ma tutta quella porzione di questa bontà, che a lui si comunica e manifesta. Tuttavia può accadere benissimo, che questo giudizio, che egli porta all' età presente, sia parziale ed ingiusto; ed ecco in che modo. Quando da principio il bambino saluta una intelligenza, che percepisce diversa da sè, egli fa un atto di giustizia: l' animo suo per anco senza colore si moverebbe agevolmente benevolo verso qualsiasi altra intelligenza, che in luogo di quella gli fosse apparita. Ma ben tosto si affeziona a quelle persone, che con lui più dimesticamente trattano e più dolcemente soccorrono ai suoi bisogni; e questa affezione può diventare parziale ed esclusiva, come abbiamo veduto. Una semplice affezione fisica non è certamente per sè rea; ma da quella può esser mosso l' intendimento ad un falso giudizio; ed in tal caso avvi reità morale; perocchè l' intelletto ubbidisce e consente in tal caso non al vero, a cui solo dee arrendersi, ma alle suggestioni della volontà, che il corrompe. Se dunque la benevolenza del bambino s' è lasciata divenire esclusiva e ristrettiva fin da principio, se i ristringimenti di quella naturale benevolenza sono degenerati in gelosia, invidia, malevolenza ed altre ree affezioni; se tutte queste non sono mere sensioni, ma vere volizioni, egli è entrato già nell' animo del fanciullo furtivamente il fatal veleno della nequizia; e l' intendimento non è più che un giudice corrotto, l' animo non è più che la sede della menzogna. Con queste segrete operazioni si prepara nell' infanzia la pravità sconfortante dell' adolescente, la corruttela sfrenata del giovane, i delitti dell' adulto a se stesso e alla società spietato e nemico. L' altrui bontà adunque si manifesta in due modi al fanciullo: si manifesta al sentire ed all' intendere di lui. Al sentire consegue un amore sensibile e tenero, il quale è naturale e non dannevole, se riguarda quelle persone, che usano più con lui e più lo beneficano; all' intendere consegue un amore appreziativo , il quale dee essere tenuto immune dall' influenza dell' amore sensibile . Se questo è la misura di quello, evvi falsità di giudizio, errore, immoralità. Se questo si sta bensì a canto dell' amore appreziativo, ma senza alterare l' appreziazione, non nuoce. L' appreziazione, dove sta tutto il morale come il suo germe, è sana e senza difetto. La possibilità di questa deviazione dal retto tramite nel fanciullo nostro a questa età s' intenderà considerando, che le sue volizioni appreziative già cominciarono prima d' ora; che egli si è formato gli astratti di azione e della bontà ed eccellenza delle azioni; ch' egli di più può attribuirle al soggetto; onde per le azioni loro può de' soggetti portar giudizio. Questo giudizio è retto, se non giudica arbitrariamente a danno di quelli, di cui non conosce la reità, e giudica a favore di tutti gli elementi del bene, che egli può conoscere, e conosce; benchè quegli elementi non tutti gli senta e gli esperimenti. Già son divenute in lui due cose distinte, l' esperimento del bene, e la cognizione del bene: su questa dee formare il suo giudizio, non già su quello. E qui notiamo una cosa. Tostochè il bambino conosce un' intelligenza, egli se ne forma una cotale idea illimitata, ed infinita della sua stimabilità ed amabilità. Ma poi quest' amabilità gli si va limitando sia per provare degli effetti dolorosi da quell' intelligenza, sia per un amore parzialmente collocato in una intelligenza finita e però tolto alle altre, sia per pregiudizi ed errori imbevuti, sia per altre cagioni. Queste limitazioni son tanto oneste quanto son vere, e se son vere non tolgono mai all' intelligenza la sua amabilità essenziale. Gli effetti benefici di quell' intelligenza non sono gli amati e gli apprezzati; ma sono solamente parte dei dati, sui quali apprezza ed ama l' intelligenza, da cui provengono, e della quale le attestano il prezzo. Sicchè l' appreziazione è sempre oggettiva, finisce nelle nature intelligenti; non è soggettiva, non riguarda gli effetti buoni, che sperimenta il soggetto. Ciò posto, egli avviene, che, qualora si conoscesse una intelligenza maggiore e migliore, come è la suprema, più apprezzar si dovrebbe, eziandiochè non se ne esperimentassero gli effetti. Onde diciamo, che è la potenza della bontà, più tosto che gli effetti della bontà che amar si debbono; è la dignità dell' essere intelligente, più tosto che i suoi accidentali beneficŒ, l' oggetto in cui termina l' atto morale dell' appreziazione. E tuttavia riman fermo, che quella quantità di bontà, che si esperimenta, è anch' ella un mezzo a dover conoscere la dignità ed eccellenza dell' ente intellettivo beneficante. Vedesi dunque qual sia il principio morale del fanciullo a questa età: quale la parte immutabile della sua morale, quale la parte mutabile. Il principio, e la parte immutabile della morale del fanciullo della quinta età si è questo: « Stima gli esseri intelligenti secondo il grado della loro dignità ». Dico « della loro dignità »e non « della loro bontà »unicamente per significare, che ciò, che si fa oggetto della stima morale, non sono gli effetti della bontà, ma la causa di questi effetti; la quale ha una cotale intrinseca bontà, che dignità ed eccellenza si può acconciamente nominare. Il principio, a cui il nostro fanciullo è pervenuto (benchè nol sappia enunciare), è così perfetto e compiuto, che non gli sfuggirà più dalle mani, vivesse egli quanto si vuole, e soggiacesse a qualsivoglia sviluppo maggiore. Egli non muta, chi ben osservi; ma completa e finisce i principŒ morali precedenti. Ma, salvato questo principio, rimane ancora una parte mutabile nella morale del nostro fanciullo, e questa si trova tutta nell' applicazione, ch' egli dee fare di quel principio. Egli è chiaro, che per applicare quel principio dee prima determinare i gradi « di dignità »di cui sono forniti gli esseri intellettivi da lui conosciuti. Ora, come ho detto prima, variano nelle mani del fanciullo « i dati », sui quali egli dee portar quel giudizio. Indi è che procedendo coll' età sarà sempre più al caso di giudicare con verità maggiore, quali siano i gradi di dignità, che godono gli esseri intellettivi, che egli deve onorare, e l' uno all' altro preferire, e nascerà di qui una modificazione successiva nelle forme della sua morale. Quell' epoca, nella quale il fanciullo comincia ad accorgersi, che egli deve paragonare insieme le diverse intelligenze a lui note e le diverse loro volontà, acciocchè nella collisione de' suoi doveri verso di esse preferir possa la più degna; è ragguardevolissima nella sua vita morale, e ben merita che noi vi ci fermiamo a farvi sopra alcune riflessioni. Primieramente si deve osservare, che questa è l' epoca, nella quale il suo spirito passa da de' principŒ morali concreti a de' principŒ morali astratti ossia ideali. Questo è un passaggio d' infinita importanza: rendiamo chiaro il nostro concetto. Che un essere intelligente al primo percepire e conoscere un altro essere intelligente si rallegri e si attui alla stima ed alla benevolenza verso di quello; questa è certamente cosa morale. Che un essere intelligente del pari, in cui questa stima e questa affezione è nata, inchini e si pieghi a uniformar se stesso ai sentimenti, ai pensieri, ed alle volontà di un altro essere intelligente, tosto che venga a conoscere questi sentimenti, pensieri e volontà; anche questa è cosa tutta morale: perocchè morale è ogni atto, che faccia una volontà intellettiva verso un essere del pari intellettivo. Ma la moralità in questo primo suo stadio, sebben cosa buona per sè, ella è tuttavia spontanea e non libera: la volontà si muove soavemente per quell' umano istinto, che è fondato nell' essenza dell' anima, senza bisogno di alcuna deliberazione antecedente. Di più, allorquando il fanciullo esercita gl' indicati offici morali verso gli esseri intelligenti, egli sente certamente la necessità morale di operar così, sente l' esigenza di quegli esseri da lui percepiti; ma questa esigenza non la separa da essi, non la astrae formandosene un concetto distinto e molto meno la formula in parole: no, quella esigenza è qualche cosa di reale7ideale, che fa sentire in lui la sua forza: la natura delle intelligenze che si comunicano è un effetto reale, la concezione che vi pone del suo il fanciullo è un qualche cosa d' ideale: dall' effetto reale e dall' idea unitavi ne sorte quello che io dico « principio morale concreto »; il quale è un sentimento morale7intellettivo, secondo il quale l' uomo opera per lo istinto morale, che da quello procede. Ma si muta interamente la cosa, quando il fanciullo non potendo uniformarsi contemporaneamente a due volontà intelligenti contrarie fra loro, deve scegliere la più degna fra di esse e a quella tenersi. Questa scelta può certamente esser fatta dalla natura, mediante la spontaneità, quando non si trattasse che di beni meramente soggettivi (1), o di sensioni. Ancora ella si può fare per qualche tempo in virtù del senso morale, perocchè l' esigenza morale che opera nell' anima intellettivo7morale come una cotal forza spirituale previene da una parte e fa sentire al fanciullo il bisogno di tenersi da questa sotto pena di contrariare la sua natura morale. Io non saprei determinare certamente, quanto possa durare questo tempo; ma per quantunque duri, deve finalmente spuntare quel momento, nel quale non si tratterà più di un' affezione ricevuta, ma di un' appreziazione di enti intellettivi, massime dopo che in virtù del linguaggio si poterono astrarre dagli enti le nozioni espresse colle parole buono, bello ecc., bontà e bellezza ecc.. Questi astratti sono necessarii a poter giungere a formare tra due o più enti un vero paragone, e rilevare quale di essi abbia più di dignità morale (2). Formate adunque queste concezioni astratte, si può col loro mezzo conoscere, quale di più enti tenga in se più di bontà, più di bellezza ecc., in una parola più di entità o dignità. Quando da prima il fanciullo è pervenuto a giudicare gli enti in questo modo, egli è chiaro, che gli enti stessi, e le loro azioni su di lui, hanno cessato di essere la sua suprema norma morale: perocchè egli si è formato già una norma più elevata, colla quale egli giudica gli enti stessi e le loro azioni. Questa norma è appunto la nozione astratta della bontà della bellezza ecc., in una parola, della dignità dell' ente. Si paragonino ora le due norme. - La prima crea l' ente stesso intellettivo, che comunicava sè stesso e la sua esigenza morale al fanciullo; la seconda è un' idea astratta di bontà, o sia di dignità, che misura i gradi di quella esigenza morale. La prima dunque era una norma, che potea dirsi concreta , perocchè era qualche cosa di reale, che si faceva sentire, e a cui l' ente, che la sentiva, aggiungeva quell' elemento ideale, che è necessario a compiere la percezione intellettiva: la seconda è una mera idea senza concrezione alcuna di reale, una nozione astratta, che si comunica alla sola mente, e non al sentimento. Nel primo stadio morale del fanciullo la norma ossia la legge non aveva ancora un' esistenza a sè; ma era immedesimata cogli enti, verso i quali la morale si esercita. Nel secondo stadio, una cotal legge esiste indipendentemente dagli enti, oggetti della moralità: esiste nel mondo ideale, nel mondo delle possibilità: quando anco nessun ente sussistesse, la norma di cui parliamo si concepirebbe egualmente come necessaria, eterna, riferentesi a degli enti possibili pure eterni, senza alcun bisogno di enti reali. Nel primo stadio gli elementi dell' atto morale sono due soli: 1 quegli, che opera il bene e il male; 2 e l' oggetto, verso cui il bene e il male viene operato. - Nel secondo stadio tutti e tre gli elementi della morale sono a pieno sviluppati e distinti: 1 vi è, chi opera il bene o il male; 2 vi è l' oggetto, verso cui si opera; 3 vi è finalmente la norma o regola, secondo la quale si opera. - Solamente in quest' ultimo caso la moralità s' è resa completa, ha spiegate interamente le sue forme, che prima teneva raccolte come una rosa, che tiene ancor piegata alcuna sua foglia entro il calice. Il passaggio delle norme concrete alle norme astratte della morale è un grande sviluppamento della natura morale nell' uomo, quand' egli si considera semplicemente come sviluppo. Ma giova egli, o pure nuoce alla bontà morale dell' uomo? Che egli apra all' uomo una porta, per la quale entrando possa ascendere ad un grado maggiore di perfezione morale, e che questa sia l' intenzione della natura, non avvi dubbio di sorta. La vocazione dunque dell' uomo, dell' umanità, diviene da quell' ora più augusta: tutto sta che egli vi risponda degnamente. Ma gli è egli agevole l' entrare nel nuovo arringo, e il percorrerlo con felicità? La bontà morale, a cui è chiamato dall' istante, ch' egli è venuto in possesso delle norme astratte , è ella egualmente facile, come quella che gli era destinata in quell' età, in cui le sue norme di operare sono ancora concrete? Sarebbe un adulare vanamente l' umana natura il sostenere, che questa nuova specie di moralità più eccellente, che nasce dal seguitare le norme astratte, sia più facile di quella, le cui norme sono concrete. Di tanto è più difficile all' uomo l' esser buono in questo secondo stadio della sua vita morale, di quanto è maggiore quella bontà, che a lui si richiede, acciocchè egli sia buono e non cattivo. Assegniamo qualche ragione di questa cresciuta difficoltà. Primieramente nel primo stadio della moralità egli era diretto dalla natura, maestra sicura e soave: la sua spontaneità lo conduceva, e questa sapeva sempre dove piegare, non altrimente che sanno i due bacini della bilancia, dove un solo scrupolo più nell' un che nell' altro li dilibri. All' incontro nel secondo stadio l' uomo non può venir tosto all' azione cedendo all' impulso morale della natura, ma per operar bene deve fare un atto di più; deve prima di operare applicare la nozione astratta e giudicare sul valor relativo degli enti. Già il dover fare un atto di più per porre un' azione, è una difficoltà maggiore. S' aggiunge, che quest' atto deve essere imparziale; giudicando un essere migliore di un altro, convien dar peso solamente a ciò che si conosce di lui, e a tutto ciò, che si conosce: le affezioni già prese, le sensioni si debbono contare per nulla, cioè per solo quello che indicano di bontà all' intendimento. Quanto è difficile, che questo giudice si rimanga incorrotto e del tutto imparziale, quando l' uomo, che usa dell' intelletto, non è solo intelletto, ma è pieno di bisogni sensitivi ed animali, per soddisfare ai quali amerebbe sempre chiamare a' suoi servigi lo stesso intendimento, voglio dire il giudizio dell' intendimento? Se l' uomo avesse una natura perfetta, una natura senza mescolamento di alcun elemento di male, le sensioni e gl' istinti da esse nascenti si conterrebbero nella loro sfera, produrrebbero forse delle azioni senza intervento dell' intelletto (almeno se l' attività propria di questo, la volontà, non si opponesse loro): ma non darebbero la leva all' intelletto stesso, non attenterebbero di muoverlo ad un giudizio precipitoso, temerario e falso. Le due potenze dell' affezione e della volontà opererebbero da sè a fianco l' una dell' altra. In tal modo non verrebbe mai sedotto il giudizio dell' intendimento umano, e però non vi avrebbe immoralità. Ma il fatto avviene pure spesso in contrario: l' uomo sente, e, schiavo delle sue sensioni, non s' accontenta di esse; vuol fare servir loro l' intendimento, e così piega la sua ragione a pronunciare, prima d' aver esaminato, prima d' avere veduto il vero, a favore di quelle. Venendo il giudizio così pressato a pronunciare, quando la causa non è resa ancor chiara, egli per non errare conviene che sia fornito d' una grande forza pratica tutta a favore della verità e della virtù (1). Questa può nascere ed esser coltivata dalla prima infanzia, prima ancora del tempo della lotta; ma dove ciò non sia stato fatto, viene pel fanciullo l' età, in cui da una parte ha una norma astratta, un' idea, secondo la quale deve giudicare; dall' altra ha già le passioni invigorite, che vogliono farlo giudicare per esse; quella gli mostra la via, ma nol move; queste il movono, ma gli nascondono la vera via; nè egli ha virtù naturale di resistere a' costoro inviti. E ciò spiega la somma difficoltà, che si osserva ne' fanciulli a mantenere una costante veracità nelle loro parole. Osserva M. Necker de Saussure che « « ogni azione, dalla quale non risulta immediatamente patimento a nessuno, pare innocente al fanciullo »(1) ». La ragione di questo fatto si è, che per conoscere colpevole un' azione che non fa dolore a nessuno, il fanciullo dee usare di una norma ideale, là dove per conoscere colpevole un' azione che reca dolore, egli non ha bisogno di far uso, che di una norma concreta. Ora una norma ideale è sfuggevole all' attenzione, e fa su di lui poca impressione; là dove una norma concreta il muove efficacemente. Applichiamo questo principio generale al caso particolare della veracità. Ecco il fatto. [...OMISSIS...] Questo fatto dimostra la poca efficacia, che ha la norma astratta della veracità sull' animo de' fanciulli. Quando la veracità va d' accordo colla simpatia, cioè col bene che si fa altrui per istinto, allora è conservata: è il caso nel quale il fanciullo si dimostra sì schietto, sì ingenuo. Se la veracità non è combattuta dalle tendenze simpatiche, benchè non la sia favorita da esse, ancora conserva qualche forza sul fanciullo: egli ben intende, che le parole debbono significare altrui quello che si pensa, che questa è cosa convenuta tra gli uomini, che chi apre la bocca a parlare con questo solo si obbliga a stare a quella convenzione, ed usare le parole per esprimere il vero. Ma tutto ciò si oscura nella mente infantile o almeno perde di forza nella sua volontà, quando un' affezione simpatica, una sensione qualsiasi viene in collisione colla norma della veracità. Molte volte allor nasce, che vi siano due norme morali in collisione tra loro, l' una concreta, quella della benevolenza; l' altra astratta, quella della veracità. La prima prevale alla seconda, benchè la seconda sia in se stessa assai più autorevole della prima. La veracità ha due ragioni, che la raccomandano. L' una l' utilità generale del genere umano; l' altra l' intrinseco prezzo, la necessità intrinseca della veracità: e questa seconda è la ragione diretta ed intrinseca. L' utilità del genere umano è compresa nel principio della benevolenza già noto al fanciullo; ma quella utilità egli non sa calcolarla: e dove anco la sapesse in qualche modo, trovandola in collisione con una utilità presente e sensibile, quella forse, generale e ideale come sarebbe nella sua mente, cederebbe a questa minore, ma concreta ed istante. Appena il fanciullo alla nostra età imparò a subordinare uno o due mezzi ad un fine; e il calcolo dell' utilità universale, veniente da una costante veracità, suppone la subordinazione e coordinazione d' un gran numero, e d' una grande serie di mezzi al fine di quella generale utilità. Il concepire immediatamente la necessità intrinseca di essere veraci non è guari difficile; e come dicemmo, ogni fanciullo, quando è tranquillo e non sedotto dalle passioni, la vede e la conosce. Ma questa conoscenza non ha virtù di muovere la volontà, quando questa è preoccupata dall' affezione agli esseri reali: l' attenzione del fanciullo si occupa tutta della cosa che ama, e volontariamente dimentica, per dir meglio non considera quella necessità della veracità, che pure gli sta immobilmente presente, benchè egli volga di continuo l' occhio altrove per non vederla. Se noi vogliamo dedurre il dovere della veracità nelle parole potremo dedurlo nel modo seguente: « Chi prende a parlare altrui, promette tacitamente a quelli, co' quali parla, di dir loro la verità usando le parole per quel che corrono. Quegli ai quali parla acquistano con ciò il diritto di non essere ingannati. Il diritto di non essere ingannati è di gran prezzo per l' essere intelligente, che abborrisce che gli si faccia inganno, eziandio allora che egli non si fa scrupolo d' ingannare altrui. Laonde il fanciullo stesso si adonta contro colui che l' inganna mentendogli, con che dimostra di sentire assai bene, che l' inganno è un' ingiuria per un essere ragionevole; è una violazione della dignità dell' essere intelligente, il cui altissimo bene si è il vero, e il cui proprio male si è il falso. Dunque il mentire è peccato e la veracità è dovere ». Da questa deduzione del dovere della veracità s' intende che egli esige per essere inteso, che prima sia ben inteso come « il possesso della verità sia un gran bene, e carissimo all' essere intelligente »; e come per quest' essere sia un male il falso e un' ingiuria l' inganno. Che tutto ciò s' intenda dal fanciullo è innegabile; ma del pari è innegabile, che ciò ha poca efficacia sulla sua volontà. Di che la ragione si è che la verità è un essere ideale, di cui sebbene intenda il prezzo, tuttavia non lo intende per modo che grandemente il muova; nè il può a lungo contemplare colla sua mente sempre naturalmente occupata di cose reali. Alla verità , a quest' idea sublime, il fanciullo dà degli sguardi momentanei; ma non vi si ferma: la usa di mezzo, ma non la contempla mai fissamente e direttamente come fine, come oggetto: è troppo comune, troppo chiara, troppo evidente, troppo antica per lui a poterlo interessare, occupare di sè: questa è l' opera dell' età avvenire, della mente esercitata, del cuore sublimato da un lungo esercizio di virtù. E qui soffermiamoci a levare la nostra riflessione su tutte le cose dette, che n' avremo un risultamento importantissimo al fine di conoscere la qualità e l' indole dello sviluppo delle facoltà morali nel fanciullo. La morale soggiacque nel suo spirito a tre modificazioni sostanziali, prese successivamente tre forme; ma la forma, che successe, non distrusse l' antecedente, la completò; la seconda completò la prima, la terza le altre due. La prima forma, di cui parliamo, avea per oggetto e per norma insieme l' essere intelligente reale e produceva l' immediata benevolenza. Volendo vestirla di un' espressione, ella suonerebbe così: « riconosci praticamente gli esseri morali per quello che sono »(rispetto a te). La seconda forma avea per oggetto la volontà degli esseri intelligenti reali, la volontà buona, e la sua espressione sarebbe questa: « uniformati alla buona volontà degli esseri intelligenti ». La terza forma in fine ebbe per termine la nozione ideale, l' idea come norma delle azioni. Quando l' uomo dice seco medesimo: io debbo preferire tra più esseri intelligenti e tra più volontà la migliore; egli allora non s' attacca nè a questo, nè a quell' essere reale; ma all' ordine mostratogli nell' idea: sicchè quest' idea viene ascoltata a preferenza di qualsiasi invito e attraimento, che potessero esercitare sopra di lui gli esseri reali. Questa forma di moralità potrebbe dunque venire espressa così: « fa ciò, che ti mostra dover tu fare la nozione o idea delle cose, colla quale si misura e pesa il valore delle cose stesse ». Le tre forme della morale da noi qui accennate sono quelle che sogliam dire le tre categorie della morale: tutti i precetti ad una di esse tre si riducono. La prima ha per fondamento l' essere reale, la seconda l' essere morale, la terza l' essere ideale: questi sono i tre modi, ne' quali l' essere sussiste. Il fanciullo dunque al quint' ordine d' intellezioni tocca si può dire tutta la morale; perocchè tutte le forme di questa si sono a lui disvelate. Chi poi bramasse intendere qualche cosa di più intorno a questa parte ontologica dell' Etica, può vedere il nostro « Trattato della coscienza (1) ». Iddio si è già cominciato a conoscere dal fanciullo come natura ottima e come volontà ottima. Questa cognizione si sviluppa e perfeziona via più nel fanciullo, quando questi si conduca a conoscere le opere di Dio ed i suoi precetti . Ma, oltre questo perfezionamento della notizia di Dio nella mente fanciullesca, in quest' ordine d' intellezioni può manifestarsi Iddio al fanciullo come giudice e rimuneratore del bene e del male. Già di molto s' estende il pensiero del fanciullo se egli giunge a sapere, che, chi è contrario a Dio, è perduto, chi è amico suo, è salvato, destinato alla beatitudine: chi disubbidisce alla sua volontà, è punito in un modo terribile, chi l' ubbidisce, è premiato in un modo ineffabile. Questa idea di rimunerazione ben impressa e tenuta viva nella mente fanciullesca è un faro di salute nelle tempeste delle tentazioni: tutti gli attributi di Dio vi sono compresi, la potenza, la sapienza, la giustizia, la bontà, l' esser egli unico bene, il bene essenziale, il compimento di tutto ciò che è finito, la sussistenza stessa del finito. All' anima umana è convenientissima una tale notizia: annunziatagliela l' accetta avidamente, l' ammette come propria, come già conosciuta e a lei famigliare: la luce della sua verità è tale, che esclude qualsiasi possibile opposizione od esitazione. Alcune altre cose spettanti allo sviluppo intellettivo del fanciullo al quint' ordine saranno inserite in questo capitolo per la stretta connessione, che esse hanno collo sviluppo delle sue facoltà attive e morali, che ora prendiamo a sporre. Vi ha un tempo della vita del fanciullo, nel quale l' imaginazione prende uno sviluppo rapido ed immenso: questo suol essere il terzo o il quarto anno (1), al quale tempo suol appartenere il quint' ordine d' intellezioni. Questo fatto del subito slancio che prende l' imaginazione, la quale dopo qualche tempo perde nuovamente di sua attività, dee essere da noi spiegato: e le ragioni di esso ritrovansi appunto nelle speciali condizioni dello spirito pervenuto al quint' ordine d' intellezioni. Fino dai primi istanti della vita del fanciullo la facoltà di ristaurare nell' interno le sensazioni ricevute cogli organi esteriori è certo sommamente pronta e vivace. Ma la sua prontezza e vivacità non si stende che a lui, nè mostra perciò al di fuori i suoi effetti per le seguenti ragioni. Le sensazioni che riceve il bambino alla giornata sono ancor poche ed uniformi. Queste si risuscitano bensì nella sua imaginativa, in questo senso interiore, date alcune circostanze, indicazioni o stimoli, che sieno atti a rinfrescare nel cervello le sensazioni avute. Ma il fanciullo non gode ancora di alcun uso della sua libertà, nè ha imparato a maneggiare quella potenza che ha d' imaginare; nè conosce alcun bisogno, alcun fine che a ciò lo tragga. Egli si rimane adunque al tutto passivo; e quelle sensazioni, che nella sua fantasia si suscitano e rinnovellano, si suscitano e rinnovellano tutte a caso, e secondo impreveduti accidenti. Indi è, che non si dà nel rivenire delle sue imagini alcuna composizione nuova; si ripetono fedelmente le sensioni avute e non più. Di che manca tutta quella immensa ricchezza, che l' imaginativa acquista dalla composizione d' imagini, varia all' infinito. Questi limiti, che restringono da prima l' imaginazione infantile, si tolgono via ben presto. Le sensazioni si moltiplicano, si connnettono, si ripetono e tutte vivissime. Col sentire si suscita nel fanciullo il desiderio di sentir maggiormente, la voglia di procacciarsi sensazioni esterne ed interne. Egli viene apprendendo l' arte di muovere egli stesso internamente i nervicciuoli destinati al sentire interno della fantasia, e così a suscitarsi le imagini. Quest' attività prima spontanea s' accresce ben presto coll' apparizione della libertà nel fanciullo. Ma tutto ciò non sarebbe ancor bastevole a spiegare quel periodo, d' altra parte breve e sfuggevole, nel quale l' imaginazione è per così dire la fata del paese, arbitra di tutto ciò che vi nasce e che vi apparisce. A rilevar la cagione di tal fenomeno si consideri: 1 Che l' uomo non potrebbe colla sua imaginazione crearsi degli avvenimenti, comporsi delle favole, de' miti, se non a condizione di aver già appreso dall' esperienza come gli esseri della natura sogliono operare, il che è quanto dire dopo essersi formato de' principŒ definiti circa l' operare delle cose. 2 Che non potrebbe tampoco fare tutto ciò liberamente, se i principŒ da lui formatisi circa l' operare delle cose fossero così definiti e legati alla realità, ch' egli non potesse più nulla aggiungere alla natura, non pensare più nulla di nuovo, se non ciò che fosse al tutto verisimile. Si esige adunque, affinchè l' imaginazione abbia il suo maggiore sfogo, una qualche cognizione dell' operare delle cose che compongono l' universo; ma non una cognizione perfetta, anzi manchevole, vaga, da molte parti indeterminata. Trovandosi in tale stato d' imperfezione la cognizione intorno all' operar delle cose; la mente del fanciullo ne sa abbastanza per fingere delle cose sull' esempio di quelle che avvengono realmente in natura; ma ne sa ancora bastevolmente poco per trovare verosimile tutto ciò che non è metafisicamente impossibile: la verisimiglianza ha per lui ancora ampiissimi confini, l' inverisimiglianza gli ha angustissimi. Già abbiamo veduto che, da principio, il fanciullo non ha altra regola nella sua mente per misurare l' impossibile in natura, se non l' assurdo metafisico; perciò egli è disposto a credere possibile, a credere vero e reale tutto ciò che non contiene in sè intrinseca contradizione e questa stessa a lui visibile; perocchè non sempre la coglie. La possibilità fisica adunque, per lui altrettanto estesa quanto la possibilità metafisica, è immensa, non ha confini; e questo è il teatro della sua fantasia. Ma questa potenza intrinseca non può giocolare sur un tanto teatro, se non ne apparò prima l' arte; cioè se non ha qualche cognizione delle cose esteriori e del loro operare, ch' egli dee pur fingere e in qualche modo simulare. Ora quest' arte l' appara tostochè, percepite le cose esterne, comincia ad osservarne le loro azioni, a formarsene degli astratti, a notarne alcuni grossolani lineamenti e confini; i quali limitassero bensì un poco per lui la sfera della possibilità fisica, ma non tanto ch' ella non restasse ancora infinitamente più estesa della reale. Ora questo stato dello spirito del fanciullo è appunto quello, che risponde al quinto e al sest' ordine d' intellezioni. Da principio l' operar della natura per lui non ha limiti, ma nè pur quasi esiste: perocchè non avendo percepito che alcuni esseri, egli non vede che quegli soli, che a lui richiama e ripete la fantasia, che da se stessa si muove. Quando poi egli è già in possesso di alcune idee astratte delle azioni e si è formati alcuni tipi grossolani dell' operar delle cose, il che comincia egli a fare al quart' ordine, egli è in possesso di tutte e due le condizioni necessarie alla massima attività della sua imaginazione, perocchè d' una parte: 1 egli sa fingere delle cose e de' fatti; perchè ha già delle idee astratte che a ciò lo dirigono e de' tipi ricevuti dall' esperienza; 2 e in questo lavoro non è angustiato e ristretto dalle misere leggi della verisimiglianza, leggi che ancor non conosce; e però spazia larghissimamente colla sua imaginazione, senza trovare ostacolo, per i campi di un mondo fantastico e dilettevolissimi senza confini. Ma questo stato felice, in cui la sua fantasia e sa muoversi e nel muoversi non trova alcun ostacolo che la trattenga, alcuna legge che la restringa, non dura a vero dire gran tempo. Perocchè l' avvolgersi continuo colle cose reali della natura e le nuove osservazioni, ch' egli fa di continuo sul loro operare, lo rende accorto de' confini più precisi, entro a cui son racchiuse le nature nelle loro azioni: i tipi dell' operare delle cose, che egli s' era formato in mente e che erano incerti abbozzi, e più cotali scarabocchi ovvero geroglifici che accurati disegni, vanno ricevendo più distinti contorni, si disegnano con più esattezza, si colorano con più chiaroscuri, ricevono fin anco gli ultimi tocchi, che li rende similissimi alla realità. Ogni passo, che egli fa in questa scienza, ogni linea ch' egli aggiunga al disegno, che s' è formato in mente, e colla quale via meglio il determina, fa perdere immensamente alla sua imaginativa, svela per chimeriche innumerevoli sue creazioni, condanna per grossolane, puerili, assurde infinite invenzioni, che prima nella sua semplice ingenuità a lui parevano le cose più vere, le più care, fino le più importanti. Così l' età sopravvegnente porta via continuamente molti idoli fantastici, che più non piacciono, quando se ne vede troppo patentemente la falsità. [...OMISSIS...] Ma non passano molti anni, che le novelle vostre non gli piacciono più: voi dovete acconciarle con più industria, acciocchè gli riescano interessanti: viene ben presto il tempo che egli vuol delle vere storie (2). Il periodo d' una straordinaria quantità d' azioni della fantasia, che si vede nell' infanzia al terzo e quart' anno, cioè al quinto e sesto ordine d' intellezioni, vedesi del pari nella vita dell' umanità. I tempi favolosi si trovano nelle storie di tutti i popoli: l' Oriente, la Grecia, il Settentrione hanno le loro favole: a tutte le storie sono preceduti i poeti. Questo periodo mitico è più o meno lungo, secondo che l' infanzia delle nazioni è più o meno prolungata. Le favole non si possono più sostenere presso que' popoli, nei quali la cognizione precisa delle cose reali ha reso impossibile la loro illusione. Allor quando alla mitologia greca si pretese di sostituire nella letteratura le streghe e gli spettri del Nord, si dava indizio di conoscere, che il mondo non poteva più comportare in alcun modo le bambolaggini greche; ma poi per errore credevasi di soddisfare alle sue nuove esigenze col presentargli delle nuove bambolaggini, le boreali. Non poteva riuscire il tentativo, nè riuscì: il mondo cristiano ha oggimai bisogno di schiettissima verità . Sarebbe tuttavia erroneo il credere, che con questo nome di verità s' intendesse solamente la realità; questa non è che una parte di quella: la verità abbraccia di più: ha la sua storia e la sua poesia; e son vere ugualmente. Ben avviene che i popoli, che occupano interamente la loro attività in interessi reali e in cose positive, divengono alienissimi da tutte le generali teorie, e da quanto v' ha di grande nel mondo ideale. Questi vanno all' eccesso contrario: legano del tutto la loro fantasia, perocchè a questa non rimane più a innovar cosa alcuna, condannata, per somma grazia, a solo ristampare le realità. Non è già che alla imaginativa di tali popoli manchin le forze; ma queste forze sono legate del tutto. Perocchè la potenza d' imaginare non può produr nulla, che abbia qualche interesse per l' uomo, se non sia tale, che rechi qualche illusione; che possa almen essere conosciuto per tutto simile al vero. Ma non dà alcun valore che al reale, poichè al reale tanto s' affissa, che lo ha sempre presente, nè crede che altro vi sia che il reale; questi trova puerile tutto ciò che reale non è, e ride, o almeno non cura nè anche quello, di chi dubita se sia reale. Ognuno vede quanto al ritratto, che noi facciamo di tali popoli, rassomigliano gli Americani degli Stati7Uniti. Ma tutto ciò, che abbiamo detto, non ispiega ancora certi fenomeni dell' animo del fanciullo al tempo, in cui la sua imaginazione prende quel rigoglio di cui abbiamo parlato. Uno di questi fenomeni si è, che entro quel periodo il fanciullo trae ben sovente più piacere dall' imaginario che dal reale. [...OMISSIS...] Le quali parole nel tempo stesso che descrivono con evidenza il giuoco dell' imaginazione puerile, toccano anco delle cagioni che entrano a produrlo. E certo il piacere di operare da sè, di vagheggiare le proprie creature, dell' averne sempre di nuove e fresche, e tutte atte ad illudere in quell' età per la ragione detta di sopra; valgono in parte a spiegare come il fanciullo così avidamente si dia a chimerizzare e fantasticare. Ma perchè non si vede un somigliante giuoco nelle bestie? Hanno pur anche esse l' imaginativa e provano piacere delle rinnovellate imagini: ma come ottimamente venne osservato, tratte una volta in inganno dall' imaginazione, per esempio delle uve di Zeusi, non ne vogliono sapere di vantaggio di simiglianti illusioni tutte proprie dell' uomo. Vero è, che l' attività, che dispiega l' uomo imaginando, non è solo sensuale, ma intellettuale altresì; giacchè l' imaginazione vien diretta e guidata dalle idee astratte, ciascuna delle quali è un cotal tipo non finito, sul quale innumerevoli cose possono esser create e foggiate, ed è ciò che rende sì vasto l' imaginar dell' uomo sopra quel delle bestie. Tuttavia quest' attività intellettuale che s' accompagna all' attività dell' imaginazione, e cresce tanto e l' ampiezza e il diletto dell' operare di questa; in che modo potrebbe ella esser fonte di tai piaceri, se non fosser piacevoli gli stessi oggetti, ch' ella presenta? Dunque non è solo l' attività come attività la cagione perchè il fanciullo si diletta degli imaginati oggetti, ma è qualche cosa ancora di dilettoso, che in questi egli ritrova e gusta: e che può esser la cosa che così lo attrae? Se non è la realtà dell' oggetto, che, come vedemmo, egli ritrova soverchiamente angusta e povera, che il diletti, non può esser altro che la stessa entità metafisica della cosa: cioè a dire egli si diletta dell' oggetto come oggetto, poco poi calendogli che esso sia reale o non sia; egli contempla e gusta la natura, la essenza delle cose; di questa è incantato e preso. Questa è una contemplazione dilettevole sì, ma disinteressata; una contemplazione tanto più nobile quanto è più segregata dalla fredda realità. Egli è l' istinto d' imparare a conoscere l' entità delle cose, che lo muove, che lo trattiene a contemplare internamente nel proprio spirito, senza darsi gran pena della cosa al di fuori: egli è rapito dal bisogno che prova il suo intendimento di suggere per così dire l' essere, più essere che egli possa, i gradi, l' ordine intimo, le forme di quest' essere, che sono appunto l' essenza delle cose limitate, di cibarsene come del suo nobilissimo cibo, celeste, vitale. L' oggettivo, l' ente in sè (non reale, non ideale, ma astratto da questi primordiali suoi modi) è quello ch' io chiamo il mondo metafisico. A quest' età il fanciullo apre le sue ali e vola ad esso senza schermi. La mente si compiace nell' aderirvi come la bocca del bambino al seno materno. Egli è per questa stessa ragione, che fino al tempo nostro, benchè sì ricco oggimai di esperienza, avidamente son letti i romanzi. Ma v' ha forse alcun, che li legga, perchè egli creda, che le cose siano avvenute, come essi le narrano? Sarebbe troppa semplicità. Chi li legge vuol vedere in essi come sia la natura umana, come ella operi. Vuol imparare a conoscere il cuore umano, vuol contemplare l' indole delle passioni, le pieghe di questo cuore, che palpitando in tanti individui diversi è finalmente in tutti il medesimo. Allo stesso modo gli uomini guardano il figurino, affine di conoscere l' usanza corrente; a nessuno poi importa che la pinta imagine sia per avventura Madame tale o Monsieur tale, le quali realtà riuscirebbero così frivole, così importune, così lontane da quel che cercasi, che farebbero noia anzichè piacere. Il desiderio di conoscere le cose in sè stesse nella loro oggettiva essenza, anzichè nell' accidentale loro realità, è lo stesso che il desiderio del sapere; perocchè il sapere tutto a questo si riduce nella formale sua parte; nè il sapere più o meno delle cose reali e positive rende per sè l' uomo più savio e più dotto. E questo è uno degli istinti più forti dell' umana natura: l' anima si precipita nell' entità oggettiva come nel suo bene, tostochè ella possa, tostochè si veda aperta una via per pigliarsene qualche parte, foss' anco un briciolo. Da questa tendenza poi efficacissima, che porta l' anima intelligente a contemplar le cose, come sono in se stesse, non come sono nel mondo reale, moltissimi fenomeni dell' umana vita ricevono facile spiegazione, e bastimi fare qui cenno soltanto di quello, che più da vicino s' attiene al nostro discorso. Quest' è la facilità, la prontezza, la necessità, che ha lo spirito di passare da una cosa simile ad un' altra, cioè a far si che una cosa gli serva di segno o d' indizio d' un' altra. Non importa che la somiglianza sia poca, che il segno sia imperfetto, che meriti piuttosto nome d' indizio che di ritratto: la mente non fermasi a quell' oggetto rozzo e reale, come negli esempi di sopra accennati all' uomo di cera o di carta: pensa immediatamente all' uomo vero, ma notisi bene, dico l' uomo vero, non dico il reale; perocchè al fanciullo niente gl' importa di sapere che esso sussista; gl' importa solo di pensare, di contemplarsi quell' uomo, di cui nel suo spirito ha già ricevuto l' idea, e nella idea appunto l' essenza. Tanto egli è vero che questo passaggio spontaneo da cose così distinte tra loro, com' è un po' di cera e di carta, da un uomo, accade per la forza dell' istinto, che sprona del continuo la mente a ricorrere alle cose in se stesse; che un tal passaggio, chi ben lo considera, riguarda sempre una cosa esterna e materiale, dalla quale si passa ad una cosa interna ed oggettiva. E quand' anco avvenisse che da una cosa esterna si passi in un' altra pure esterna, sempre però ciò si effettua per questo modo; che egli dalla cosa esterna passi prima a contemplare quella, che egli ha nella mente, e poscia da questa cosa interna viene all' altra esterna. Questa osservazione medesima dimostra la possibilità delle lingue. Si noti, che la maggior parte de' suoni, che formano una lingua, segnano le cose come sono nella loro natura e non nella loro sussistenza. Or come sarebbe possibile, che all' udire i suoni delle parole il fanciullo fosse tratto a pensare alle cose, colle quali essi hanno una cotale analogia, se non fosse già inclinato da natura a correre colla mente alle cose in se stesse, prendendone occasione da checchessia gli si presenti? - Chi vide la scuola de' sordomuti, e la incredibile facilità, onde intendono le cose mediante de' segni, si convincerà della cosa stessa. Non fa già bisogno, che i maestri gli dicano innanzi, che i gesti, che adoperano con esso loro, sono de' segni: questo sempre viene presupposto, questo lo sanno da sè, glielo dice la natura: la natura è quella che li avvia a considerare tutte le esterne cose, e non soltanto i gesti dei maestri, come de' segni di altre cose, cioè della natura, dell' essenza delle cose. Se la natura non lo dicesse loro, niun potrebbe farglielo intendere: perocchè il concetto che una cosa sia segno, e sopratutto segno convenzionale d' un' altra, è in sè stesso così difficile a snodarsi, così gratuito a stabilirsi, dirò anche così strano e mirabile; quando si considera la cosa colla mente e non coll' istinto, che non potrebbe essere mai ricevuto, ammesso, ritenuto costantemente; come pure senza alcuno sforzo, fanno, e ogni giorno i bambini, gli idioti, i muti. E` che l' uomo non può fermarsi al reale; è che egli tosto che può farlo, fugge da esso come la freccia dall' arco, per cogliere e infiggersi nella natura delle cose, oggetto della sua intellettuale contemplazione: è per questo ch' egli, lungi dal trovar difficile il pensiero, che una cosa sia segno dell' altra, trova anzi impossibile il non considerare tutte le cose reali per segni. Questo spiega le lingue, i geroglifici, le scritture, le mimiche, i simboli, i miti, le arti tutte d' imitazione, l' antichissimo linguaggio enigmatico, la sapienza parabolica de' primi uomini, l' aver Iddio ammaestrati gli uomini sempre per segni, per figure: l' interpretarsi per segni ogni cosa che avviene, sia falsamente ed arbitrariamente siccome fanno gli auspici, gli aruspici, i fatidici, gl' indovini presso tutti i popoli, in tutti i tempi; sia veramente come fanno gli ispirati incominciando da' primi profeti, a cui Dio parlava per visioni e per segni, fino ai Padri della Chiesa e agli interpreti delle Sante Scritture, che negli stessi fatti più semplici del Vangelo leggono quasi direi significati de' morali documenti e de' profondi misteri (1). La tendenza, che porta l' uomo alla contemplazione delle cose in se stesse è essenzialmente morale; appunto perchè ella è essenzialmente oggettiva (2), e del soggetto interamente obliviosa. Se dunque l' imaginazione, che si spiega nel fanciullo, non producesse altro effetto che questo, fosse solo un aumento di contemplazione intellettiva delle cose nel loro essere metafisico; indubitatamente, che ella gioverebbe alla bontà morale, senzachè da essa venisse a questa alcun danno. E così sarebbe, se l' umano istinto , che segretamente dirige le potenze alle loro operazioni, avesse per suo mobile solo l' accennato, voglio dire la tendenza dell' intelletto ad affissarsi nell' entità delle cose, senza più. Ma egli ha un altro mobile tuttavia, e questo è il piacere che ritrae dalla realità. Convien riflettere, che l' uomo è un essere reale, e che perciò ci tende ancora a dei godimenti reali. Benchè adunque il suo intelletto si compiaccia nella luce della verità, nella visione delle essenze; tuttavia vi ha in lui un' altra tendenza a lato di quella, la tendenza cioè che lo porta verso a tutti quei beni reali, che gli posson dare diletto. Due adunque sono i mobili dell' istinto umano: l' uno ci porta verso l' entità in se considerata, l' altro verso l' entità reale . Questi due mobili dirigono segretamente lo spirito nostro nelle sue operazioni per una strada opposta. La tendenza del tutto intellettiva a fissarsi nella cosa in se considerata ci stacca dalla realità, che le riesce del tutto inutile; la tendenza a godere della realità a questa ci rimena. Indi avviene, che quando il fanciullo immagina viene bene spesso da lui contemplato come una natura di cose in se, non curando la ricerca, se sia reale o no. Quando prevale in lui questa prima tendenza, egli parte dal reale come da un simbolo, e finisce nell' essenza della cosa come nel simboleggiato. L' essenza qui è il fine del movimento dello spirito, la cosa contingente e reale non ne è che il principio e l' occasione. Ma se nel reale egli concepisca qualche cosa di dilettevole, e indi venga a giocare la seconda tendenza, allora avviene nello spirito del fanciullo il contrario: cioè che quanto egli imagina facilmente lo crede cosa reale. In questo caso lo spirito di lui fa un contrario viaggio; egli parte dall' imaginario e viene al reale: la imaginazione è il principio del movimento, la credenza alla realità ne è il termine. Ognuno s' avvede, che con queste parole noi abbiamo discoperto la sorgente di molti errori infantili. Perocchè come la mente, che dal reale partendo, si dava all' entità in se, trova ed aderisce al vero; così la mente, che parte dall' immaginato e dall' entità in sè contemplata, e viene a vedervi dentro il reale, trova il falso ed a questo s' abbraccia. Vero è, che nella stessa imaginazione si ha un principio di reale, perchè è il sentimento che soffre, ed il sentimento è un reale, nè può essere modificato che da qualche reale azione. Ora quando noi soffriamo qualche azione nel sentimento nostro concludiamo, che un reale esiste; nè a torto fin qui: perocchè l' error nostro comincia solo allora, che noi vogliamo determinare, che cosa sia questo agente reale, e giudichiamo dover essere quello appunto che ci apparisce. Questa illusione è perfetta ne' sogni, nei quali non dubitiamo punto della realità delle cose, che ci si rappresentano, perchè la loro rappresentazione, cioè la loro azione nel sentimento nostro è perfetta. Nella veglia stessa se l' imagine è viva e presente, ci illude e a mal grado del ragionamento, che vorrebbe trarci d' inganno, noi sofferiamo una commozione tutta simile a quella della realità. [...OMISSIS...] In questi fatti non ha luogo la volontà libera del fanciullo: le imagini e i sentimenti di paura sono delle realità, e le realità muovono la persuasione, inducono il nostro spirito a credere ad esse. Quand' anco il fanciullo sapesse speculativamente, a non dubitarne, che i suoi timori non hanno alcun fondamento, che quegli spettri non sussistono; tuttavia sussiste l' impressione e la reale commozione del sentimento in lui: egli soffre ad ogni modo l' impressione d' una realità. Avvi ancora una tendenza a credere, che gli oggetti sieno in se stessi, come sì vivamente gli appaiono: questa tendenza che suppone in ciò che apparisce un ente, è figlia dell' intendimento, che dovunque non può vedere cosa alcuna se non a condizione, che vi vegga degli enti. Onde lo spirito li suppone anche dove non sono, perocchè gli è il modo più facile di concepirne qualche cosa, di cui ha voglia: altramente dovrebbe sospendere l' atto suo per un tempo assai lungo, fino allora che abbia scoperto il vero ente a cui rattaccar que' fenomeni. Per quantunque in questo modo nascano degli errori nella mente infantile, tuttavia essi non sono ancora quella classe di errori che noi vogliamo qui designare come funesti alla moralità. Nè pure appartengono alla classe degli errori funesti, quelli che nascono da altre leggi pure dell' intendimento, le quali noi abbiamo disegnate di sopra. Abbiamo detto cioè che l' intendimento in ciò che percepisce « non solo percepisce necessariamente un ente, ma ancora suppone sempre che l' ente percepito sia il più perfetto ed assoluto, che egli possa concepire stante la qualità e quantità delle sue cognizioni ». Questa gran legge dell' intendimento riceve una modificazione nella sua applicazione secondo lo stato dello spirito fornito più o meno di sperienze e di cognizioni, come vedemmo; sicchè lo spirito al tutto vuoto del neonato suppone nel primo ente, che gli sorride e che percepisce, l' illimitato, perocchè il supporre ciò non gli è conteso dalle altre sue cognizioni, che ancora non ha. Ma dal momento che altre cognizioni acquista, non può più supporre illimitazione dell' ente percepito, perchè una tale illimitazione cadrebbe in contraddizione colle cognizioni avute. Tuttavia la sua supposizione è sempre al maggior vantaggio possibile degli enti che percepisce; non mettendo egli confini a questi, se non è costretto dalla necessità dell' esperienza e delle cognizioni in lui crescenti. Egli dunque prende degli errori anche per questa via, per la quale si lascia condurre « dal principio d' integrazione » e li prende di nuovo per la voglia di conchiudere qualche cosa, pel bisogno d' intendere. Conciossiachè se egli potesse non supporre niente, tutto percepire ; sostenere gli atti del suo intendimento che aspirano all' assoluto, fino che non è ben chiaro di questo, cioè del dove sia da collocarsi: eviterebbe egli questi errori. Ma tuttavia anche questi errori, che vannosi poi da se stessi correggendo di mano in mano che cresce l' età, non sono degli errori funesti alla morale bontà. Gli errori funesti tra quelli, a cui dà occasione l' attività fantastica, son quelli che si prendono da fanciullo, quand' egli aggiunge fede alla realità delle sue imaginazioni, non violentato a ciò dalla forza reale di esse, nè condotto da un principio intellettivo d' integrazione, ma unicamente spinto dal desiderio, che egli stesso ha, che quegli oggetti fantastici sieno reali, quatunque nol siano. Non è, che il fanciullo tessa tutto da se stesso a se questo inganno, egli propriamente non imagina nulla nè bene nè male: nè vuole ingannarsi: nè sa che fare di creazioni sue proprie. Ma se poi queste in lui si eccitano da oggetti esterni, che agiscono sopra di lui, allora può andarne ingannato primieramente ne' due modi detti, e poscia nel terzo. « I fanciulli abbandonati a se stessi (ecco il fatto assai bene osservato) possono aver paura d' un oggetto reale, d' un negro, d' uno spazzacammino, delle maschere, e rinfrescarsene la memoria con ispavento; ma ben poche chimere si foggiano da se stessi. Di rado una idea li preoccupa senza che sia stata lor suggerita ». Questo fatto dimostra che essi son fatti per la verità e non per le illusioni. Alle illusioni adunque sono cacciati dall' azione d' incitamenti esterni. Ma alle illusioni libere, a quegli errori, che noi dichiariamo moralmente funesti, non si danno se non ispinti dai loro desiderii e dai loro affetti. Questi riguardano o il tempo passato, o il futuro; e dirigono l' imaginazione loro per modo « che le cose passate e le future non le imaginino, se non quanto possono dar loro piacere ». A questo fine egli è necessario che sia loro formato il concetto del tempo, concetto che aiuta appunto per questo l' attività d' imaginare, la quale spazia nelle cose già avvenute, ed in quelle che si aspettano, ed egli è al quart' ordine, come vedemmo, che il fanciullo si forma la concezione de' due tempi, e al quinto quello de' tre tempi, il presente, il passato, il futuro: onde vedesi ragione, perchè all' età in cui è pervenuto il nostro fanciullo, comincino le sue illusioni volontarie. Queste derivano dal prendere per segreto conduttore della sua memoria e della sua imaginazione il piacere ed il dolore. Mosso da questo principio egli è tutto memoria, tutto imaginativa per le cose che gli piacciono, smemorato e senza fantasia per quelle che gli dispiacciono. Ecco delle osservazioni: [...OMISSIS...] Le speranze imaginarie della giovane età cominciano nel fanciullo col formarsi in lui il concetto del tempo avvenire, e aiutano meglio la formazione di questo concetto: perchè quelle speranze segnano dei punti nel futuro, come i diletti da lui goduti, assai più che i dolori stessi obbliati, li segnano nel passato. Or che lo spirito del fanciullo contempli a preferenza le imagini liete del passato, e le imagini liete dell' avvenire, non istà ancora qui il male: questo è natura. Ma che egli dia corpo a queste imagini, che egli spinto dall' amor de' piaceri voglia credere reale quello che non è tale, questo è l' errore che nasce da un mal principio, da un animo che ha cominciato già a torcere dalla morale rettitudine. Se si considera attentamente, come si sogliono guastare i fanciulli delle grandi famiglie, si troverà per lo più divenire il guasto da questo che si promuove nella loro mente la formazione di un mondo fantastico, a cui essi dan fede, e in cui credono d' occupare un posto del pari imaginario; dal qual posto movendo i lor pensieri e le loro azioni commettono dei continui torti alle persone reali del mondo reale, e fanno continui abusi delle cose pure reali. Poveri fanciulli! Tutti sono falsati i loro pensieri, i loro giudizi, i loro affetti, le loro abitudini: l' imaginazione li tradì, ma l' imaginazione non fu che la maga, di cui i genitori, gli amici, gl' istitutori, la turba di quanti hanno da far con essi si servono a gara per illuderli e perderli (1). La specie di errori immorali, di cui parliamo, mostrasi in un' ampiezza molto maggiore nella storia dell' infanzia de' popoli. Questi non si accontentano di crearsi una moltitudine di fantasmi; ma li fecero altrettanti esseri reali: l' idolatria n' è la prova. E l' idolatria non fu solo presso i popoli antichi o fra selvaggi; ma non fu detto a torto che nel mezzo stesso dei popoli cristiani e civili avvi una cotale idolatria; perocchè dovunque sono delle eccedenti passioni, queste non finiscono di reclamare dall' imaginazione degli idoli, a cui dian fede, a cui si prostrino adoratori: di reclamare che essa dilati i confini del mondo reale e lo metamorfosi, o ne crei un altro dentro di quelli, qual loro più piace che sia. Convien ben poco aver osservata la sformata vaghezza d' illudersi, che fanno gli uomini, per non riconoscere la verità lampante di ciò che diciamo. Ella si scorge per tutto. Nella società; e voi trovate che gli uomini vogliono essere ingannati di dolci parole, e si inimicano a quelli, che sinceri e schietti d' ingannarli ricusano. Nella letteratura e nelle arti; e v' ha pure chi ancor piange la mitologia, o tratta d' inventarne una nuova. Nella storia; e non la si vuol mai pura, nè la si crede, se per esser creduta non si fa raccomandare da qualche favola che ella accoglie (1). Ne' fatti e nelle parole è il medesimo; vi ha sempre una forza, che spinge occultamente a dar sussistenza a quell' amato imaginario, che non ne ha veruna. Per questo Platone si era messo in apprensione de' poeti; e non volea che nell' educazione de' giovinetti s' adoperassero se non i lirici, che inneggiavano alla divinità o cantavano la virtù e la lode de' virtuosi (2). Ma qui deve farsi una importantissima riflessione. Quegli errori occasionati dallo sviluppo della fantasia, che io ho indicato come funesti alla moralità del fanciullo nell' articolo precedente, cangiano di natura, se essi si considerano nell' età, in cui l' uomo non ha ancora la coscienza di se stesso, il concetto dell' Io, e poi nell' età susseguente alla formazione di questa coscienza, di questo concetto. Fino a tanto che l' uomo non intende il monosillabo Io, l' uomo è un sentimento sostanziale, che opera colle leggi della sua spontaneità: queste leggi sono inerenti alla sua natura, si consideri essa nello stato d' integrità o pure in quello di naturale corruzione. Ma da quel punto che l' uomo ha percepito sè stesso, incontanente in lui avviene un cangiamento immenso relativamente al suo operare libero e morale. E nel vero un soggetto che non percepisse intellettualmente se stesso, non può fare se stesso oggetto e fine del suo operare volontario. Perocchè la volontà è quella, che opera tendendo ad un oggetto conosciuto dall' intelletto; ora se l' uomo non si è ancora reso oggetto del proprio intendimento, egli non può nè pure essere oggetto della propria volontà. Innanzi adunque a quel tempo, nel quale l' uomo si forma la coscienza di se stesso, l' intelligenza dell' Io; egli opera bensì soggettivamente ma non rende mai se stesso soggetto termine fisso delle sue operazioni. Ma tosto, che egli si è formata la coscienza di sè, egli può mettere questo sè a segno e scopo fisso del suo volere e del suo operare. Qual immenso rivolgimento di cose non vi ha qui nel mondo morale del fanciullo! L' egoismo non può cominciare prima che l' uomo abbia inteso se stesso. Dalla notizia adunque dell' Io comincia la possibilità del vero egoismo (1). Egli è vero che anche prima della coscienza di sè possono cadere nell' uomo de' falli morali, ma questi, come dicevo, d' altra natura. Perocchè que' falli non potevano consistere se non in questo, che la spontaneità dell' operar soggettivo ci conducesse colla sua violenza ad operare contro l' esigenza degli oggetti. Ora questo sarebbe certamente un fallo, ma questo fallo sarebbe indiretto e negativo piuttosto che una trasgressione diretta e positiva. Mi spiego: Se io ho due oggetti innanzi e pospongo il più degno al meno degno, io posso far ciò per due modi; il primo perchè un istinto cieco mi sproni ad operare con tal veemenza e prontezza, che io fo torto a quell' oggetto più degno non perchè l' odii, od ami di più il men degno; ma unicamente perchè mi strascina il torrente dell' operare spontaneo e cieco, che opera senza por mente agli oggetti; anzi distraendomi dal raffrontarne e giudicarne il prezzo; il secondo perchè io liberamente antepongo e sceglio il piacere o bene che trovo nel men degno al valore intrinseco del più degno. Nel primo caso io pecco, ma indirettamente e negativamente, più per debolezza e corruzione di mia natura che per malizia. Nel secondo pecco direttamente, positivamente, maliziosamente. Ora, dico io, questo secondo modo di peccare suppone quasi sempre la coscienza di me; egli è un modo di peccare che almeno per lo più nasce dall' egoismo. Perocchè se io scelgo volontariamente fra un piacere o un bene del soggetto e il mio dovere, egli è mestieri che io abbia reso quel piacere soggettivo, o quel bene, che io preferisco, oggetto del mio proprio intendimento, che n' abbia però non già il mero sentimento generatore dell' istinto, ma propriamente la cognizione, onde spunta la volontà; e se il piacere o bene, che scelgo, mi è intimo; se egli consiste in qualche ingrandimento di me stesso, se in una parola appartiene al mio sentimento sostanziale (ciò che sono io stesso), debbo anco avere la coscienza mia propria per concepirlo; la quale in ogni caso mi nasce, o mi si forma nell' atto stesso dell' elezione. Così avviene, che per la coscienza di se stesso l' uomo possa introdurre nella sua perversione l' elemento il più funesto di tutti, l' egoismo, pel quale l' uomo mette per fine dell' operare se stesso, e a se stesso sacrifica tutto il resto. L' egoismo , che consiste a porre per fine se stesso, e che comincia a questa età, riceve anch' esso due gradi. L' uno è quel, che nasce dal dimenticare gli altri e non pensare che a se; l' altro è quel che pensa benissimo agli interessi altrui, ma per sacrificarli ai proprŒ. Ognuno vede che questo secondo grado è assai più malvagio del primo. Il primo di questi gradi nasce e cresce per lo più nel seno dell' ignoranza, è proprio delle persone volgari. [...OMISSIS...] Questa specie d' egoismo è quello, che traversa e impedisce nel mondo i più nobili progetti e quando questi debbono essere discussi in un' assemblea, molte volte sorge l' uno o l' altro individuo, il quale fa opposizione ad un bene sommo, mosso il più da minuto interesse: la ragione più frivola, un inconveniente, che si annienta se si confronta col bene della cosa proposta, basta per farla andare a monte. Direbbesi che ne' piccoli paesi, dove le passioni dovrebbero essere eccitate, e si ha da fare con un minor numero di votanti, i progetti di pubblico vantaggio dovrebbero meglio riuscire: non è vero; quello che non fa la violenza della passione, il fa in quella vece l' egoismo dell' ignoranza. Nei fanciulli si manifesta questa specie di egoismo ogni qual volta hanno da fare con persona che niente loro ricusa: questo trovare d' essere soddisfatti ad ogni loro richiesta fa sì che essi non siano mai condotti a riflettere sulla molestia, che altrui cagionano e pensino solo al proprio piacere. Sofia nelle lettere di M. Guizot ne è un esempio ammirabilmente dipinto. Il secondo grado di egoismo non comincia a quest' età: essa è una reità più matura. Moltiplice è poi la rea prole dell' egoismo. L' egoismo fa sì che l' uomo giudichi con misura diversa sè stesso e le cose proprie, e gli altri e le cose altrui. Questa è si funesta cosa, che è la forma di tutti i mali morali; di guisa che non sarà perduta mai qualsiasi vigilanza, qualsivoglia industria per guardarne il fanciullo: poichè, se l' educatore pervenisse a conservare nel fanciullo sempre, in ogni cosa, anche nelle minime, la rettitudine dell' anima, e l' imparzialità del giudizio, egli n' avrebbe fatto in breve tempo un uomo perfetto. Del pari gli artifizi fanciulleschi, le piccole ma frequenti menzogne dell' età infantile, prendono un carattere più grave, quando dall' egoismo già formato procedono. Quanto grande non è l' errore di quelli, che giudicano i fanciulli dai soli fatti esterni materialmente presi! Un fatto medesimo, una stessa finzione, una stessa menzogna in due fanciulli diversi può avere una gravità morale infinitamente diversa! La perspicacia, il discernimento degli spiriti, ecco la prima dote del savio educatore. Al quint' ordine ancora si manifesta l' apatia o noia morale, malattia pericolosissima ne' fanciulli. Vedemmo, che all' ordine antecedente, cioè al quarto, si sveglia nel fanciullo la voglia d' influire sulle volontà altrui; voglia nascente dal combattimento tra la volontà propria che il fanciullo non vorrebbe sacrificare, e l' altrui, che sente di dover pure rispettare e preferire alla propria (1). Ma il dovere influire sulla volontà altrui per tirarla e conciliarla alla propria è già una molestia pel fanciullo, un legame; e non può sostenerlo, se non a forza della sua benevolenza e del suo morale sentimento. Ora, intervengono dei momenti nei quali la benevolenza nel cuore del fanciullo rimane inoperosa, attesochè il fanciullo è distratto in altro, e il morale sentimento è in lui lasso ed inerte. In questi momenti è deplorabile lo stato del fanciullo. L' altrui volontà gli è di noia, ogni regola gli è un restringimento angustioso. Egli allora è colto da un mostruoso capriccio: s' intesta, e trova un diletto proprio ad usare tutta la sua attività fisica: gli sembra di sentirsi più grande ribellandosi alla legge, usando senza freno della sua naturale libertà. A tutti quelli che hanno trattato a lungo coi fanciulli, non sarà sfuggita questa pericolosa malattia morale. Un' autrice spiega l' ostinazione d' un fanciullo che imparando a leggere diceva sempre b7a7u, bu, nè voleva ripetere b7a7u bau, in questa maniera: [...OMISSIS...] . Ora, sebben questo gusto della libertà sfrenata, assoluta, questa vaghezza di bravar tutto, fin la legge, non si manifesti di subito, se non dopo l' età in cui è comparsa la voglia d' influire su gli altri; tuttavia potrebbe anco prima apparire. Ma ella suppone l' apatia o noia morale, per la quale la benevolenza verso gli altri è raffreddatasi, e non brilla più all' intendimento la bellezza e venerabilità della volontà d' un essere intelligente. Qual parte possa avere in tali fenomeni, talora improvisi e momentanei, l' azione dell' angelo delle tenebre è cosa segreta e nascosta all' umana investigazione; ben pare difficile lo spiegarli colle sole leggi ordinarie, secondo le quali opera l' umana natura. Che se l' egoismo è già nato nel cuore umano, la malattia, di cui parliamo, prende anch' essa tosto da questo un carattere più grave e maligno. Ma se l' aver trovato se stesso col proprio intendimento, il che è quanto dire l' essersi formato la coscienza di sè, è da una parte come l' aver trovato uno scoglio, contro cui può rompersi la morale bontà; così d' altra parte egli è ancora come l' aver trovato un passaggio, pel quale può distendersi un' immensa e fortunata navigazione. E veramente la consapevolezza della propria dignità morale non è possibile, fino a tanto che l' uomo non siasi formata la coscienza di se medesimo. Ella è questa coscienza che fa sì, che l' uomo possa giudicare se medesimo, possa imputare a se stesso le azioni, intendere l' imputazione, che gli vien fatta dagli altri, la lode, il biasimo, il premio ed il gastigo. Chi non vede che passo incalcolabile è questo! Quanti mezzi nuovi alla moralità! Qual forma novella di moralità, dacchè incomincia qui l' uomo a poter riflettere sul proprio operare, attribuirlo a se, e sentire, che, se è buono, gli aggiunge dignità, se è malo, lo degrada ed invilisce! Fra i vantaggi morali poi, che viene traendo l' uomo dalla coscienza di se stesso, si è quello della memoria delle cose passate e del calcolo delle future. La coscienza di se stesso importa la coscienza della propria identità ne' vari tempi; la cognizione della varietà de' tempi e dell' identità di se stesso sono relative, e vanno perciò innanzi di pari passo. [...OMISSIS...] Egli è ben degno di osservarsi nel fanciullo, per quali gradi perviene a conoscere, come diciamo, se stesso, la propria unità, la propria identità. Vi ha un tempo, nel quale egli conosce già quella degli altri, senza conoscere ancora l' identità di sè stesso; per la ragione che abbiamo detto, che l' attenzione sua prima se ne va al di fuori, e poi si ripiega sopra se stessa. In questo tempo egli deve portare un diverso giudizio degli altri e di sè: giudizio che parrebbe ingiusto; di quelli che dicevano fatti a due misure, e che pure non è tale. Egli giudica in questo caso diversamente degli altri e di sè, non per riprovevole parzialità, ma unicamente perchè diversamente conosce gli altri e sè stesso; negli altri ha già conosciuto la medesimezza in più tempi, quando di sè non l' ha ancor percepita: non ha percepito sè stesso in un tempo solo alla volta; e però in un tempo giudicò di sè come se fosse un personaggio diverso da quello che si giudicò in altro tempo. Udiamo ancora le altrui osservazioni: [...OMISSIS...] . Basta dunque un solo fatto, ed il fanciullo giudica degli altri, che sono boni o che sono cattivi: di sè non giudica nulla di stabile, ma soltanto al momento, che opera, giudica della sua azione. Questo dimostra manifestamente quel periodo di tempo, durevole alquanto nella vita infantile, nel quale il fanciullo è pervenuto a conoscere la medesimezza o identità degli altri in più tempi; onde di essi, come di soggetti unici, porta un solo definito giudizio; e tuttavia non ha ancora posto mente sulla medesimezza o identità di se stesso in più tempi, ma giudica solo le proprie azioni presenti, e fa però de' giudizi vari come varia la qualità delle azioni, senza indurre niuna sentenza universale e definitiva a dannazione, o a favore di sè medesimo. E dissi, che questo periodo di tempo è alquanto durevole nella vita infantile. - Tanto è vero che si manifesta anche nell' infanzia delle nazioni, e nel popolo minuto, che in gran parte non esce di fanciullezza. Onde avviene, che una nazione giudica così severamente dei difetti dell' altra, se non perchè la considera come un individuo, e da alcune azioni particolari trae la condanna di tutto il corpo? Onde l' entusiasmo popolare, sia contro le persone, oggetto del suo odio, nelle quali non vi è bene alcuno, sia a favore delle persone, oggetto del suo amore, nelle quali non vi è alcun difetto?

Psicologia Vol.II

641953
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Imperciocchè, siccome l' anima naturalmente progredisce alle sue operazioni, simigliantemente l' ingegno degli uomini, che si applicano a meditare su di sè stessi, tiene questo naturale andamento e progresso (e lo dimostra la storia della filosofia) di attendere prima ad investigare che cosa sia l' anima, e poscia com' ella si modifichi, che faccia, come lo faccia. Ma corre questa notabilissima differenza tra il progredire dell' anima al suo spontaneo svolgimento nella vita dell' uomo, e il progredire della scienza psicologica per le varie età della vita dell' umano genere, che l' anima, per quantunque si svolga fino agli ultimi atti, non abbandona mai sè medesima, rimanendosi gli atti anche estremi congiunti necessariamente alla radice che li produce; laddove la considerazione e l' attenzione del filosofo, che s' allontana per lungo cammino dal primo argomento, dimentica in fine, per una cotale sua limitazione e stanchezza, la meta onde mosse, la quale è quella stessa a cui dovrebbe pur ritornare. E questa obblivione è il decadere della filosofia, che, abbandonate le essenze delle cose sì avidamente e generosamente cercate al cominciamento, non s' occupa oggimai più che delle loro efficienze e dei loro effetti, i quali, separati dalla loro prima e sostanziale cagione, si rimangono fenomeni vani, apparenze inesplicabili. Il qual fatto rende manifesto il perchè, dopo essere stati periodi fiorentissimi di filosofia profonda, nei quali risplendettero a tutta la terra ingegni nobilissimi, ardimentosi, sublimi, rapiti di divino entusiasmo nella contemplazione del vero, varcando i secoli, accada quello che nel primo aspetto parrebbe impossibile ad avvenire; cioè che lo stesso progresso adduca altri periodi di tempo, ove la filosofia, erede di tanti monumenti, di tante antiche verità, appaia nulladimeno al tutto superficiale, materiale, priva della sua vita, senza una favilla di genio che la riscaldi. E in sì tapino aspetto cenciosa e smemorata, orgogliosa non meno, noi la vedemmo nel secolo XVIII andarsene per le nostre contrade. Al quale miserevole termine, benchè più cause insieme concorse la riducessero, tuttavia prima e profonda causa ci pare quella psicologica che noi accennavamo, di cui le altre sono per avventura effetti e cause seconde. Ci pare che ciò non sia stato per manco di naturali ingegni, compartiti da natura ad ogni secolo con equa mano; anzi, che gli ingegni abbondassero ben lo dimostrano i grandi svolgimenti sociali, allora compiuti, e le naturali scienze, le arti e i commerci fiorentissimi; ma sì per la legge di quel mentale progresso che accennavamo, il quale nell' umanità di generazione in generazione trascorre una serie dei pensieri così ordinata, che il primo anello si ferma alla natura delle cose, e gli altri di mano in mano riguardano le operazioni e gli atti delle diverse nature; di maniera che gli ultimi dal primo lontanissimi, occupando intieramente di sè le menti, le distolgono dagli anteriori, e soprattutto allontanano l' attenzione dal primo di tutta la serie generatore; pel quale allontanamento, rotta la catena delle scientifiche verità, trovasi l' umana scienza esser divenuta, nè ben si vede il perchè, superficiale ed ignobile; e il perchè misterioso è questo, appunto, che gli ultimi veri, le estreme conclusioni non hanno valore, nè stabilità, nè ragione, tostochè al principio immobile non si attengono, cioè alla natura ed all' essenza delle cose. E che alla filosofia del secolo precedente mancasse cotesta fermissima base, ella stessa lo confessava con vanto di sua vergogna. Di niuna cosa si gloriavano più quei filosofi che di « non voler entrare a discutere l' essenza delle cose », pronunciando con presuntuosissima ed orgogliosissima modestia che « l' essenza delle cose è inescogitabile ». La qual massima è il vero principio, il fonte di ogni sapere superficiale (1). Ma quel vanissimo periodo di superficialità filosofica, il che viene anche a dire di materialità e di sensismo, siane lode a Dio, è ora passato, o certo si sta in sul passare; e già ciascheduno sente il bisogno di rannodare la infranta catena, e raggiungerne gli anelli saldamente fra loro dagli ultimi sino al primo. Ad aiutare il quale utilissimo e necessarissimo lavoro, noi abbiamo posto, come meglio potemmo, l' ingegno; e però alla parte moderna della Psicologia che ci resta ad esporre, trattante dello sviluppo dell' anima, noi anteponemmo la parte antica dell' essenza, quasi del tutto dimenticata nei trattati comuni, rifacendola però e ristorandola in modo, se non ci fallì il consiglio, che non dovesse offendere il gusto dei nostri contemporanei. Di che qual vantaggio raccolga la scienza e qual perfezione ella ne acquisti, apparirà nel progresso; ora, senza più poniamo sotto gli occhi dei lettori la principale divisione di questa seconda parte, nella quale entriamo, delle psicologiche ricerche che ci siamo proposti. Volendo noi accuratamente descrivere lo sviluppo dell' anima umana e porgerne la dottrina, due questioni ampie del pari e del pari necessarie ci si presentano: Quali atti, potenze, funzioni, abiti, produca di sè l' anima umana. Quali leggi ella segua in questo suo continuo produrre ed operare. Delle quali ricerche, la prima addimanda un ragionare analitico , perchè ella intende a spezzare, quasi direbbesi, l' essenza dell' anima in tutte le sue diverse attività, ove ella si rifonde; la seconda poi esige una via sintetica , perocchè ella vuole adunare sotto certe leggi universali le maniere del diverso operare, in cui l' anima continuamente si espande, riducendo così la moltitudine infinita degli atti suoi alla semplicità delle norme prescritte loro da natura, dalle quali essi mai non deviano. Di che si scorge che tutta la materia che noi abbiamo alle mani, si distribuisce da sè stessa in due sezioni, la prima delle quali, movendo dall' essenza dell' anima, procede alle sue svariatissime operazioni, quando la seconda muove anzi dalle operazioni di lei per ricondurle tutte nella fine a quell' unità medesima di essenza, ond' elle uscirono, ed in cui riposando si giacciono. Poniamo mano alla prima ricerca delle attività dell' anima umana. Noi ci proponiamo in essa non pure di annoverare quasi storicamente coteste attività, ma più ancora di dedurle, di farle scaturire dalla essenza del soggetto, a cui elle appartengono. Laonde il nostro lavoro di nuovo si biparte in due questioni: « qual sia il modo nel quale le diverse attività sono contenute nell' essenza dell' anima, e da lei si distinguono »; e « quali elle sieno, come queste attività si possano enumerare e classificare ». Dissero gli antichi che le potenze dell' anima non si conoscono che pei suoi atti (1). Anzi si levarono alla sentenza più generale, che [...OMISSIS...] : principio dialettico ed ontologico nobilissimo (2). Quindi l' errore da noi notato di quei filosofi che, parlando dell' anima, dalle potenze, siccome da cosa cognita, incominciarono, invece di muovere dall' osservazione degli atti (3). Perchè dunque, ci si dirà, avete voi tolto in prima d' ogni altra cosa a parlare dell' essenza dell' anima? Rispondo esser vero che gli atti vengono alla nostra cognizione prima delle potenze, tuttavia non prima dell' essenza. Perocchè insieme cogli atti si conosce l' essenza, che negli atti indivisa rimane. Che se l' atto e l' essenza si conoscono ad un tempo, nulladimeno queste due notizie tengono fra sè un ordine logico, pel quale l' essenza è prima conosciuta, e in essa e per essa gli atti accidentali. Veramente è una illusione il credere che si possa conoscere l' atto, senza conoscere in qualche modo l' ente di cui egli è atto, cioè senza riferirlo al suo subbietto. Conciossiachè niun atto possiamo noi percepire, nè conoscere se non come una entità, e però, o dobbiamo pigliare lui stesso per un ente, una sostanza, ovvero dobbiamo pensare qualche cosa d' altro, in cui e per cui egli sia: il che altrove abbiamo dichiarato (1). Noi dunque ci giovammo degli atti, in cui esce l' essenza dell' anima, come di occasione ad acquistare il conoscimento di essa essenza; ma di questa, come di primo e naturale fondamento ad ogni altra cognizione psicologica, dovemmo prima di tutto parlare. Il che dimostra vie più il difetto di quei trattati psicologici, che, od omettono al tutto di ragionare, o ragionano assai leggermente dell' essenza dell' anima come di cosa poco importante ed inutile; ovvero anche dichiarano apertamente non sapere che pronunciarne. Ai loro autori manca oltracciò il principio onde dedurre razionalmente le umane potenze e facoltà; laonde essi non possono altro che venirne facendo una cotale enumerazione empirica, arbitraria, casuale, senza deduzione; non possono mostrarne il nesso e l' unità, che loro si deriva dalla comune origine; non giustificarne il numero; non additarne le intime relazioni, senza le quali cose non si dà una scienza dell' anima. Ancora, come potranno cotesti trattatisti risolvere l' apparente contraddizione fra la semplicità dell' anima e la moltitudine di sue potenze ed operazioni? Riesce facile all' opposto il risolverla, ove si sappia che la essenza dell' anima si sta unicamente nell' essere ella primo principio di sue operazioni; e di più, che un principio reale può avere un' unica attività idonea a produrre più effetti. Ma noi sappiamo ancora che un ente, un' entità o più entità, possono inesistere in un altro ente, qualora questo secondo sia di natura spirituale, al contrario di quanto accade nelle reciproche relazioni dei corpi, la cui natura è di essere impenetrabili. Abbiamo trovato questa verità ontologica importantissima, considerando immediatamente il fatto con quella osservazione intellettiva, che sola somministra i primi dati della scienza. Dalla quale poi ce n' è venuta la dottrina dell' individualità, perocchè un principio s' individua in virtù delle relazioni attive, passive, ricettive, che egli mantiene con ciò che ha in sè di straniero, e più generalmente con ciò che è suo termine. I quali veri discoperti, ci condussero a disaminare quali termini e quali entità straniere inesistano nell' anima semplicissima, e la costituiscano in gran parte coll' individuarla; trovate le quali entità ed accuratamente descritte ed annoverate, elle ci spiegano siccome avvenga che l' unica virtù dell' anima riferita ad esse, che sono più, si vada moltiplicando, e così apparendo anch' ella molteplice nei suoi atti ed effetti, senza nulladimeno cessar mai di essere unica in sè stessa, cioè nel principio che ne forma l' essenza. Laonde nella medesima essenza dell' anima rinvenimmo tutti gli elementi, che occasionano e spartono le attività di lei, tutti i germi di sue potenze. Perocchè noi vedemmo che nell' anima umana trovano loro sede permanente queste entità da lei diverse, e a lei in diverse intime relazioni connesse: 1 l' essere ideale , unito a lei per via d' intuizione; 2 l' animalità , a lei copulata per una fondamentale ed immanente percezione. Nell' animalità medesima distinguemmo più elementi: 1 un principio sensitivo , che contiene anch' esso altre entità straniere, a cui egli si lega con sue proprie relazioni; 2 l' esteso corporeo , contenuto nel detto principio colla relazione immanente di sensilità; 3 la materia , ossia una virtù che non agisce immediatamente sul principio sensitivo, ma sull' esteso corporeo, e violentemente lo immuta, onde mediatamente si fa sentire allo stesso principio sensitivo. Ed ecco qui nel seno dell' essenza dell' anima tutte le radici della umana attività; ecco la ragione di tutte le varie potenze e facoltà; le quali per quelle loro radici sono distinte e determinate a dover essere piuttosto queste che quelle, tante, e non una di più, non una di meno. Tale è la deduzione delle potenze umane dalla stessa essenza dell' anima; l' essenza perscrutata a fondo somministra dunque il principio della loro legittima deduzione. Ma qui, prima d' innoltrarci più avanti, posciachè lo sviluppo dell' anima è un cotal movimento che la conduce da uno stato ad un altro, ciò che in essa si giace in potenza uscendo al suo atto, appare dover essere necessario ed utile il chiarire le stesse nozioni di potenza e di atto , e ancor prima quelle di materia e di forma , provvedendo altresì che l' imperfezione del linguaggio filosofico non c' impedisca il passo, siccome sterpo che trova il piè tra via, o non trattenga la mente di chi prende con noi il faticoso e pure ameno viaggio di queste investigazioni, dal tenere la diritta via, senza che, trasviata dagli equivoci, si smarrisca per avventura a destra od a sinistra. La parola atto significa ogni entità; e sotto questo aspetto ella non si può definire, ma si deve supporre conosciuta (1); però non significa l' entità mera, ma con di più la relazione mentale alla potenza . Ora, la mente è condotta a questa distinzione fra atto e potenza dall' esperienza che ella prende delle cose contingenti, colle quali trovasi in comunicazione. Toglie dunque questa distinzione dalle realità finite, che cadono sotto ai sentimenti, la trova nel sentimento stesso, il quale è realità. Di che apparisce che l' uomo non potrebbe mai dedurre a priori cotale distinzione dall' « essere ideale », che egli intuisce per natura senz' altro aiuto; perocchè l' essere ideale, dall' uomo intuìto, fa conoscere l' essere puro , non per sè solo il modo dell' essere, non l' ordine che l' essere interiormente contiene; il quale ordine appartiene del tutto alla realità , che si esperimenta nel sentimento (2). Di qui è che l' ordine interiore dell' essere non si rivela mai tutto all' uomo; perocchè l' uomo, essendo un reale limitato, non comunica se non con una parte della realità, e con essa in modo limitato (3). E questo è ciò che limita essenzialmente la cognizione umana, e che impone al filosofo di proporre le dottrine ontologiche, che meditando raccoglie, colla modestia che si addice all' essere umano, « cioè non pretendendo di descrivere a fondo tutto l' essere e tutto l' ordine dell' essere, ma sapendo e confessando di non abbracciare col suo pensiero più di una particella di quest' ordine immenso, quella che fu data a conoscere alla umana intelligenza ». La quale modestia è religioso dovere di ogni uomo, come uomo; quanto più dell' individuo umano, per quanto si voglia fornito di eccellente intelletto, il quale deve pur credere, se non folleggia, di rimanersi ancora colle sue investigazioni molto al di qua dal segno, a cui può giungere l' intendimento della sua specie? Consapevoli noi adunque di raccogliere quei soli elementi dell' ordine dell' essere, che sono presentati al nostro conoscere in quella limitata porzione di realità , che ci è data quaggiù a percepire e sperimentare, e anche ciò quanto le forze della nostra individuale intelligenza lo consentono; dobbiamo di questi, quasi frammenti di dottrina, comporre quella ontologia imperfetta, che sola all' uomo e a noi particolarmente è conceduta. Ora, la realità comunicataci sta compresa nel sentimento nostro; dove, come dicemmo altrove (1), quasi sopra scena apertale innanzi, può la mente cogliere gli esseri reali; e tutti quelli che su questa scena del sentimento non si rappresentano, ella non può in modo alcuno percepire, nè riconoscere come sieno fatti. Conviene dunque che ci domandiamo: quali sono quelle realtà che si comunicano a noi nella realtà nostra? Già noi trovammo che esse si riducono a tre, le quali sono i corpi, l' anima in quanto è sensitiva in modo corporeo, e la stessa anima nostra in quanto è intellettiva. Ecco le uniche realità a noi percettibili . Oltre di queste tuttavia noi abbiamo ancora l' idealità che è intuibile, ed è il mezzo col quale conosciamo per via di percezione le dette realità . Come dunque tutte le nozioni ontologiche che riguardano l' ordine dell' essere , così medesimamente le nozioni di materia e di forma , di potenza e di atto , noi dobbiamo cavarle dall' esperienza che abbiamo della materia, del sentimento animale e del sentimento intellettivo; le quali realità, essendo tutte finite e contingenti, dar non ci possono che nozioni appartenenti all' ordine dell' essere finito e contingente; che di conseguenza non si adeguano all' essere infinito se non per un cotal modo di analogia, che altrove più chiaramente dichiareremo. Prendiamo ad esaminare le condizioni di quell' ente che si chiama corpo; il che noi faremo accennando e rimettendo pel di più i lettori all' Antropologia , dove ampiamente se ne ragiona. Ma primieramente s' avverta che noi dobbiamo considerare il corpo tale quale a noi immediatamente si rappresenta; perocchè questo solo significa il vocabolo corpo , e non altro. Che se pur vogliamo col raziocinio argomentare che ciò che noi percepiamo supponga qualche altra virtù antecedente o entità, causa del percepito, conviene ricordare che noi abbiamo riserbato a questo immediato principio del corpo, che non cade nella percezione, ma sembra nascondersi quasi giocolatore dietro alla parete, la denominazione di principio corporeo (1). Non dunque da questo essere occulto, ma dal corpo percettibile noi dobbiamo cavare le nozioni ontologiche, che andiamo cercando. Nell' Antropologia fu distinto il sensifero , che è la causa prossima delle sensioni corporee, dal sentito o sensibile, che è il termine esteso e proprio del sentimento. Ma ivi si raccolse sotto la denominazione di sensifero tanto quella virtù, che produce immediatamente il sentito nel sentimento fondamentale, quanto quella virtù che, operando nel sentito fondamentale, lo immuta e così occasiona la sensazione. Dovendo ora noi spingere l' analisi più innanzi, ci è necessario distinguere queste due virtù (che pur si riducono alla stessa attività che opera in due modi, come vedremo) mediante due vocaboli, e però riserbando la denominazione di sensifero alla virtù che soggiace al sentito del sentimento fondamentale, chiameremo forza esterna quella che altera il sentimento fondamentale medesimo, provocandovi la sensazione passeggera. Ora, dichiarata così la maniera di parlare che seguiremo in appresso, diciamo che la percezione del corpo ci somministra tre entità strettamente connesse: 1 un sentito esteso; 2 un' attività, che concorre a produrre immediatamente quell' esteso sentito nell' anima, ossia il sensifero; 3 una forza straniera, che con violenza immuta il sentito esteso. Il concetto di sentito esteso, unito a quello di sensifero, è propriamente il concetto di corporeità , laddove il concetto di agente, che immuta il sentito, è il concetto di materialità . Il sentito esteso si percepisce come una cotal proprietà del sensifero, e con esso forma il nostro proprio corpo; se non che noi non gli imponiamo il vocabolo di corpo, se non quando siamo giunti a conoscere la sua solidità; e non ne conosciamo la solidità, se non aggiungendo all' esperienza soggettiva del sentito esteso i dati dell' esperienza extra7soggettiva , per la quale percepiamo i confini del nostro proprio corpo mediante le sensazioni superficiali (1). Ma in ogni esperienza extra7soggettiva , oltre percepire il nostro corpo, noi percepiamo anche la forza straniera, ossia la materia; perocchè sentiamo un impulso che muta il nostro sentimento corporeo, di maniera che nello stesso luogo dove nasce la nuova sensazione, ivi appunto percepiamo un agente estraneo al nostro sentire, il quale non si fa conoscere per alcun' altra proprietà che per questa virtù d' immutare il nostro sentito. Di più, ben presto ci accorgiamo che il sensifero, immediata causa del sentito in noi, ha la virtù di immutare con violenza qualche altra parte del sensifero, e così qualche altra parte del nostro sentito medesimo; di che concludiamo che il nostro proprio corpo è materiale , ossia che ha la stessa proprietà della forza straniera di operare con violenza. Ma pur questa non parrà una rigorosa dimostrazione della identità della forza straniera e del sensifero, potendo concepirsi nello stesso luogo due entità diverse, il sensifero e la forza straniera, e spettare al primo la produzione del sentito, alla seconda l' immutazione violenta del sensifero; fra le quali entità la sapienza creatrice avesse posto una armonia di operare così ammirabile, da manifestarsi entrambe nel luogo medesimo, simultaneamente, con certe leggi. Perocchè, quantunque il sensifero producendo il sentito si dimostri essere un agente sul principio senziente, che è l' anima, tuttavia la sua azione è grandemente diversa da quella che viene esercitata sull' agente stesso, e lo fa operare sull' anima in modo diverso. Pare adunque che qui intervenga una serie di quattro termini: l' anima , che al suo modo è passiva; il sentito , che è prodotto nell' anima; il sensifero , che lo produce; una forza straniera , che immuta il sensifero, la quale si manifesta ora nel luogo stesso dov' è il sentito e il sensifero, ora in luogo diverso. Dai quali quattro elementi noi certo raccogliamo ogni concetto di corpo e di materia, che abbiano gli uomini. Cerchiamo, adunque, se fra il sensifero e la forza straniera vi sia o no quella identità di sostanza che parrebbe, considerando l' identità del luogo che occupano, e non parrebbe, considerando la diversità dell' effetto. Acciocchè la ricerca proceda con ordine, nè lasci indietro difficoltà atte a intralciare il ragionamento, o turbare l' attenzione di chi con noi ragiona, cominciamo a ben notare la differenza fra l' anima ed il sensifero. Primieramente l' azione dell' anima, movente il proprio corpo, deve essere immediata almeno su qualche parte di esso, perocchè si deve trovare un luogo nel corpo nostro, dove il primo moto venga comunicato. Infatti, supponendo anche che noi moviamo la mano mediante il movimento dei nervi, che per essa si allungano, e che il movimento impresso a questi nervi si comunichi longitudinalmente, conviene in fine ricorrere ad una o più estremità nervose, alle quali da prima il moto sia comunicato dalla stessa anima. In secondo luogo, si consideri che l' azione dell' anima sul corpo non ha per suo termine immediato il sentito , ma il sensifero , ossia la forza che produce il sentito. Poichè il sentito stesso non si cangia, se non cangiandosi, ossia movendosi, la virtù o forza che immediatamente lo produce; giacchè il sentito , essendo passivo, suppone un sensifero che con azione immanente o transeunte lo produca. Ma il sensifero si dà a noi a percepire in tre modi: Quale immediata cagione del sentito, e come tale agisce immediatamente sull' anima, senza alcuna violenza, perchè la violenza è quando l' azione, che si fa sull' anima, è in opposizione all' azione spontanea dell' anima stessa, e nel sentito l' anima concorre anzi con quella prima spontaneità, che abbiamo chiamata istinto vitale (1). Quale ricevente l' azione dell' anima, che lo immuta. Infatti, quando l' anima, a ragion d' esempio, colla fantasia produce a sè stessa un' interna sensione, ossia immagine, allora essa opera sul sensifero e lo modifica in modo che le produca quell' immagine, o che cessando di produrre un' immagine ne produca un' altra; e in tutte quelle azioni, colle quali l' anima produce a sè stessa nuovi sentimenti corporei, o li cangia (il che ella fa col movimento del proprio corpo), l' anima, immutando il sensifero, immuta il sentito dal sensifero immediatamente in essa prodotto (2). Il quale fatto pure accade senza violenza rispetto a ciò che riguarda l' azione immediata dell' anima, perocchè il mutamento, che avviene nel sensifero, lungi d' essere opposto all' azione spontanea dell' anima, è ad essa conforme. Ora che questo sensifero, immutato dalla azione immediata dell' anima, sia identico al primo è manifesto; perocchè egli è quello appunto che produce immediatamente i sentiti dall' anima. O quale ricevente l' impulso d' una forza esterna, che lo immuta con violenza, senza che l' anima da principio vi concorra colla sua spontaneità; la quale, essendo sempre attiva, se non concorre alla azione, già per questo solo le è opposta (3). Ora qui, in questi due ultimi casi, già noi scorgiamo la differenza che passa fra l' anima ed il sensifero , essendo quella attiva, e questo passivo. Vediamo ancora la differenza che passa fra l' anima e la forza straniera; poichè, quantunque tanto l' anima, quanto la forza straniera abbiano virtù d' immutare il sensifero, tuttavia questa è azione violenta , e quella spontanea; il che è quanto dire che l' anima umana nel primo caso ha la coscienza di essere ella che opera; nel secondo ha la coscienza di essere passiva da un agente diverso al tutto da lei. Ora, se si considera che il sensifero, che produce immediatamente il sentito, viene immutato da due agenti, l' uno dei quali è l' anima, e l' altro è una forza totalmente all' anima straniera, s' intende primieramente non essere ripugnante che questa stessa forza straniera abbia un principio spirituale; giacchè anche l' anima è un principio spirituale, e tuttavia ella ha virtù di operare e di mutare il sensifero producente il sentito, senza che a ciò ponga ostacolo l' estensione del sentito, la quale estensione ha di natura sua l' esistere nel semplice (1). Ma dell' operare dell' anima noi conosciamo non solo il termine che vediamo esteso, ma ancora il principio che riconosciamo semplice; laddove noi non conosciamo la forza straniera che nel suo termine, e non ne percepiamo il principio, conciossiachè non la percepiamo che nel sentito , il quale rimane da lei mutato. Percependo adunque questa forza nel suo effetto, che è l' immutazione del sensifero, causa immediata del sentito, non possiamo determinare la natura del suo principio stando alla sola percezione che noi ne abbiamo; cioè non possiamo affermare che ella sia spirituale, ma possiamo bensì affermare che non ripugna che sia. Lasciando dunque da parte per ora la questione: « che cosa sia in sè stesso il principio di questa forza immutante il sensifero, causa immediata del sentito », passiamo all' altra: « se si possa provare l' identità di questa forza straniera colla forza immediatamente sensifera ». Noi abbiamo osservato che ciò che è immediatamente sensifero, in quanto egli è tale e non in quello che può essere in sè stesso, presenta l' estensione commisurata perfettamente a quella del sentito, che produce nell' anima (2); il che di nuovo prova che il sensifero, come precisamente tale, non è l' anima, la quale è semplice. Ora lo stesso argomento prova altresì che anche la forza esterna, che immuta ciò che è immediatamente sensifero, deve avere l' estensione ed una estensione medesima, anzi identica a quella del sensifero immediato; ancora prova che neppure la forza esterna, in quanto è precisamente tale, è spirito. Ma l' identità dell' estensione non è propriamente l' identità della forza, poichè la identità della forza non si può desumere che dall' identità dell' effetto; e qui l' effetto è diverso, poichè l' effetto del sensifero immediato è quello di produrre il sentito, laddove l' effetto della forza esterna è quello di mutare il sensifero. Converrebbe dunque giungere a dimostrare che anche la forza esterna ha virtù di produrre immediatamente il sentito, ed allora solo si sarebbe trovata la dimostrazione della cercata identità. Ma per questa via non si va molto innanzi. Vero è bensì che, se una parte del mio proprio corpo agisce sopra un' altra parte, sorge una sensazione in un modo del tutto simile a quella che sarebbe prodotta da un corpo esterno, ossia dalla forza straniera. Chiamo mio proprio corpo, come è chiaro, quello dove sento, dove è continuamente prodotto un sentito (fondamentale). Dunque nello stesso luogo dov' è il sentito, vi è una forza che produce lo stesso effetto della forza esterna, cioè che immuta ciò che è immediatamente sensifero. Possiamo dunque intanto raccogliere che questa forza è della stessa natura della forza esterna, giacchè abbiamo detto che la natura identica di tali forze si desume dall' identità degli effetti. Un altro effetto identico si trova ancora in queste due forze, ed è che tanto il mio corpo, quanto il corpo esterno, producono effetti eguali sopra un terzo corpo esterno. Ma circa l' identità del sensifero e di questa forza straniera e violenta rimane sempre il dubbio, che dicevamo prima, non forse nello stesso luogo dov' è il sentito vi fossero contemporaneamente due forze diverse, l' una sensifera, l' altra immutante il sensifero, e che questa seconda fosse identica alla forza esterna, e non la prima. Conviene dunque prendere un' altra via a dimostrare che è identica la forza sensifera e la forza immutante il sensifero; non provando tutto ciò se non l' identità dello spazio che occupano, e la inesistenza della stessa forza straniera nel sentito. Andiamone in cerca. Tutta l' azione dell' anima sensitiva ha per suo principio formale il sentito; comincia dunque nel sentito; quella stessa spontaneità con cui concorre a sentire, è quella che ha virtù d' immutare il sensifero (1). Ritenuto adunque che la sua azione non può eccedere il sensifero, perchè non può eccedere il sentito, a cui quello inerisce come causa prossima o formale, converrà vedere se l' anima possa anche mutare immediatamente la forza straniera od esterna. Perocchè se l' anima coll' immutare il sensifero immuta anche la forza straniera, converrà dire che il sensifero e la forza straniera sono identici, cioè sono attività d' un medesimo subbietto. Ora così appunto avviene; perocchè l' anima non muta mai il proprio sentito, se non per via di movimento prodotto nelle parti del corpo. Ma il movimento è un fenomeno appartenente alla forza straniera. Se dunque l' effetto dell' anima non può eccedere il sensifero, e tuttavia ella immuta la forza straniera, convien dire che la forza straniera e il sensifero sieno identici, ossia appartengano allo stesso subbietto sostanziale. Questa prova è fondata sul principio che, « se l' effetto di un' azione, determinato e limitato ad una entità, apparisce anche in un' altra entità, conviene dire che le due entità sono identiche di sostanza » (1). Un altro argomento, appoggiato allo stesso principio, si trae dal considerare che s' intende bensì come la forza esterna, nella quale non si conosce né sentito, nè sensifero, possa produrre il movimento, che non è che uno spostamento della stessa forza esterna, ma non s' intende poi come ella possa agire sul sensifero, senza supporre che il sensifero formi una stessa sostanza colla forza straniera. Infatti, l' immaginare che la forza straniera produca due azioni così diverse come sono: I spostare un' altra forza esterna (moto); II e immutare il sensifero; sarebbe confondere in uno due concetti di forze affatto diverse, e quindi un mutare il concetto della mera forza straniera, e moltiplicare questa in due forze, le quali si debbono escludere anche pel principio che vieta moltiplicare gli enti senza necessità. Conviene dunque dire che la forza esterna in questi due effetti così diversi operi sopra una stessa sostanza, e però il sensifero e la forza esterna siano identici di natura. Un terzo argomento ci è somministrato dalla vita dei primi elementi, che noi crediamo di aver munita di sufficientissime prove. La quale ammessa, toglie via dalla radice la difficoltà; perocchè non vi è più una forza meramente straniera, ma ogni forza straniera è divenuta sensifera. E questa stessa conseguenza sembra una nuova prova di quella nostra sentenza. Ma supponendo il contrario, supponendo che una parte della materia non sia animata, è ancora argomento, atto a provare l' identità del sensifero e della forza straniera, il fatto dell' animazione che in questa ipotesi la materia bruta riceve; scorgendosi che quella stessa forza straniera, che prima non presentava altri fenomeni che quelli dello spostamento di un' altra porzione di simile forza, diviene ella stessa sensifera. E che sia ella stessa quella che diviene sensifera, si deduce da questo, che quando la forza bruta immuta ed altera il sensifero per mezzo di un certo contatto, ben presto il sentito si distende a lei; e poichè dov' è il sentito, ivi è il sensifero, quindi dove è la forza bruta, appariscono pure i fenomeni del sensifero. E` vero che hoc post hoc, ergo propter hoc , non è valido argomento; ma se si unisce questo argomento al primo, e si considera che la forza bruta diviene così in potere dell' anima, la dimostrazione riesce rigorosa. Un quarto argomento si può trarre dalla natura del contatto . Se due forze estese fossero semplicemente di posizione contigue, non si potrebbe ancor dire esservi fra esse contatto. Il concetto del contatto suppone un' azione reciproca delle due forze, la quale, trattandosi di forze brute, si manifesta col fenomeno della coesione. Ma se si applica una forza bruta ad un nervo, l' effetto di questa coesione, od anche impulso, è la sensazione . Sia pure che la sensazione nasca per un movimento intestino dell' organo sensorio, ma questo movimento non potrebbe nascere, se il movimento della forza bruta non fosse passato nel sensifero, il quale così produce l' alterazione nel sentito. Se dunque il sensifero comunica colla forza bruta per via di moto, e ne riceve l' azione, uopo è che sia anch' egli un esteso capace di moto e di impulsione; al che si riduce appunto il concetto della forza bruta, ossia straniera. Questi argomenti provano l' identità di sostanza fra la forza straniera (materia) e il sensifero, il quale ha concetto di corpo animato, laddove la forza bruta non presenta che il concetto di corpo inanimato. Ora qui, dopo aver veduto il rapporto d' identità che ha quello che è immediatamente sensifero, con quello che da prima si presenta alla nostra esperienza come pura forza straniera o bruta, vediamo come tanto il sensifero , quanto la forza bruta , siano, quasi direi, vestiti del sentito; sicchè il sentito si mescoli col sensifero, e se ne abbia il concetto di corpo, e colla forza bruta, e se ne abbia il concetto di materia . Quanto al sensifero, è manifesto come egli debba apparire vestito di sensazione, dappoichè, essendo il sensifero l' immediata e prossima cagione del sentito, egli è presente dovunque v' è il sentito medesimo, e da lui indiviso e termine dell' atto dell' agente che lo produce. Ma riesce alquanto più difficile intendere come questa unione intima ed individua nasca fra il sentito e la forza straniera o bruta; il qual nesso non è mai considerato abbastanza. Primieramente questo avviene perchè l' anima, immutando il sensifero, lo immuta là appunto dov' egli è, cioè nello stesso luogo che tiene il sentito (1). Questa identità di luogo fa sì che il sensifero appaia necessariamente vestito dell' estensione stessa, e delle qualità del sentito. Ora, alla forza straniera e bruta, che produce le sensazioni, s' unisce individualmente il sentito per una ragione simile, e di esso si veste. Perocchè, quando l' immutazione del sentito viene da un principio straniero all' anima, allora questa forza non si sente che dov' è il sentito, che ella immuta. Quindi è pel luogo stesso, in cui ella agisce, che il sentito si unisce a lei; ed ecco la cagione, per la quale noi attribuiamo alla materia esterna il colore, il sapore, il gusto e tutte le qualità seconde, che a dir vero sono nostre proprie sensazioni, o per dir meglio, sono il nostro sentito. Ma in questo sentito, manifestandosi la forza straniera, del sentito e di lei facciamo una cosa, poichè percepiamo le due entità coll' atto stesso e nell' identica estensione. Quando poi i corpi esteriori cessano dall' agire sui nostri corpi, noi non li possiamo immaginare se non a quel modo nel quale ci comparvero nell' atto del percepirli; perocchè la percezione di essi è l' unica nostra maniera originale ed immediata di conoscerli. Quindi ad essi, anche separati dai nostri sensi, diamo le qualità sensibili, delle quali noi li abbiamo investiti nell' atto della percezione; poichè la memoria di essi non è che la memoria della percezione. Quando i corpi esterni sono già staccati e separati dal nostro sentito, non più nell' atto di agire in esso, noi allora li consideriamo come agenti in potenza . Ora, come li immaginiamo noi separati? Che cosa vuol dire separati dal nostro sentito? Vuol dire esistenti in altro luogo diverso da quello in cui esiste il nostro sentito; il che accade per cagione del movimento, come abbiamo dichiarato nell' Ideologia e nell' Antropologia. E tuttavia, quantunque noi li pensiamo esistenti non più nel luogo del sentito , ma in altro spazio, immaginiamo però che abbiano portato seco il nostro medesimo sentito, per la ragione detta, che nel primo percepirli occupavano lo stesso luogo del sentito, e ne abbiamo percepita la forza insieme con questo, con un atto solo di percezione. Ma perocchè il considerarli in potenza ad agire su di noi, e il considerarli vestiti e accompagnati dal sentito è cosa contradittoria, perciò i filosofi col ragionamento spogliano giustamente i corpi7materiali delle qualità sensibili in atto, e non le lasciano loro che in potenza; concepiscono cioè i corpi come agenti, atti a modificare il nostro sentimento in modo da produrre le sensazioni, ma non già aventi seco il colore giallo o verde, il sapore agro o dolce, il suono acuto o grave, ecc.. E tuttavia è difficilissimo a fare questa separazione colla mente nostra; perocchè la potenza non è determinata e conosciuta se non dall' atto che essa produce, onde è necessario che noi riferiamo sempre la potenza materiale alla sensazione, ossia al sentito, se vogliamo pure formarcene un concetto determinato; riferir poi la potenza di modificare il sentito al sentito medesimo non possiamo, se non pensando la potenza congiunta a questo nell' atto di modificarlo, e però in quel modo stesso nel quale noi l' abbiamo da principio percepita e conosciuta come tale; il qual modo importa che la potenza sia in atto, unita individualmente al sentito per l' identità del luogo. Quindi ci tornano sempre i corpi a riuscire colorati, sonori, saporosi e delle altre maniere di sentito rivestiti od accompagnati, anche quando noi ce li immaginiamo chiusi in un armadio, dove non entra raggio di luce, né da essi può venire a noi alcuna sensazione; e il filosofo stesso difficilmente si libera da una cotale immaginazione. Ma in appresso, facendoci la riflessione conoscere che queste qualità non possono essere annesse ai corpi separati dal nostro sentito, si ritorna colla ragione a concepirli da esso divisi, e così l' uomo si forma finalmente il concetto d' una materia7bruta, inanimata, priva di sentito (1). Nè basta; il sentito è opposto al senziente, ma si trova nel senziente, altrimenti non sarebbe sentito. Ma la forza corporea esterna che modifica il sentito, quando è separata da questo, è meramente in potenza d' agire, non è nè sentito, nè senziente; ella rimane dunque una mera potenza . Quindi se si osserva attentamente il ragionare degli uomini intorno ai corpi, facilmente si scorge che essi usano alternativamente di due concetti di essi, senza accorgersene; talora parlano della materia come di cosa inanimata, a cui non danno punto di ciò che appartiene a sensazione; altre volte attribuiscono al corpo sensibili qualità, come fosse sentito in atto, senza pensare che il sentito è nel senziente, e che se si dà ad un ente il sentito, forza è dargli ancora un principio senziente. Ma la mera potenza è un concetto, che non racchiude alcuna relazione se non all' atto o effetto che ella produce, relazione esterna a lei; dunque la potenza da sè sola non racchiude l' atto del proprio sussistere . Ora niuna cosa si può concepire dall' intelletto, se non si concepisce l' atto pel quale ella sussiste, pel principio di cognizione . Dovendo dunque l' intendimento concepire una potenza di modificare il sentito, e non potendo egli dare a questa potenza nè l' atto onde sussiste il sentito, perchè separata da questo, nè l' atto onde sussiste il senziente, perchè aliena affatto dall' attività senziente; trovasi obbligato di supporre nella potenza di modificare il sentito un atto suo proprio, altrimenti non la potrebbe concepire. Ma questo atto non si conosce punto, nè egli è termine di alcuna percezione, altrimenti non si avrebbe più il concetto della potenza, ma d' un atto; dunque l' atto è meramente supposto in virtù della legge dello stesso intelletto; nè questa supposizione è tuttavia senza ragione o meramente soggettiva; anzi si fa per logica necessità, cioè pel principio di cognizione , come dicevamo (1); pure quell' atto di sussistere rimane una cosa del tutto incognita, di cui non si sa altro che l' esistenza. Ebbene, questo atto così concepito per via di supposizione, è la sostanza materiale , la cui esistenza riesce certa per logica necessità, ma la sua natura rimane occulta. Tuttavia l' uomo determina questo occulto da lui scoperto, in modo da non poterlo confondere con altra entità, mediante la sua relazione; perocchè egli sa che una tale sostanza, o atto di sussistenza, è il soggetto di quella potenza che immuta il sentito come sensifero, e che immuta il sensifero come forza straniera; essendo il sensifero e la forza straniera potenze, che convengono nella medesima sostanza, come fu dimostrato. Il principio di sostanza può prendere anche questa enunciazione, più comoda al nostro presente ragionamento: « Un atto, che passa in un ente, non può essere concepito senza un altro atto fisicamente anteriore che non passa; e questo atto che non passa è la sostanza, per la quale esiste l' atto che passa ». L' atto, che non passa in un ente, chiamasi anche atto primo, ed è l' atto per cui tutto l' ente (l' essenza piena) sussiste. L' atto che passa dicesi atto secondo. Come conosciamo l' atto che passa? Percependo l' effetto che egli produce in noi, il quale effetto ci si presenta come passivo. Così il sentito, che esperimentiamo in noi stessi, è una passività nostra, un modo nostro che ci viene imposto, il quale suppone l' atto che ci produce quella passività, o che c' impone quel modo; e tale atto è il sensifero. Ma il sensifero, come tale, esprimendo un atto che passa, ed essendo pure un atto che passa quello della forza straniera che immuta il sensifero, e quello che immuta la forza straniera, tutti questi tre atti non si possono concepire se non supponendo un atto primo, che è la sostanza; i ragionamenti poi, che prima abbiamo fatto, dimostrano che tutti e tre quegli atti appartengono ad una medesima sostanza; la quale è la sostanza dei corpi. Solamente qui conviene avvertire, che non si deve già credere che la mente passi dal sentito al sensifero, dal sensifero alla forza straniera, da questa ad un' altra forza straniera, e finalmente a trovare la sostanza per via di raziocinio; no, anzi con un solo atto semplicissimo, quale è la percezione , ella abbraccia contemporaneamente tutti questi termini, e comincia a conoscerli ed a conoscere il corpo, solo quando li ha abbracciati tutti e non prima, siccome abbiamo dichiarato nel Nuovo Saggio , ed altrove (1). La sostanza materiale, ossia l' atto primo, è adunque un quid incognito, di cui non si conoscono che gli atti secondi (il sentito, il sensifero, e la forza straniera). Ma l' atto primo, l' ente materiale supposto a tutta ragione dalla mente, non essendo per noi determinato che dai suoi atti secondi, noi lo pensiamo individualmente con questi unito. E poichè l' effetto di questi atti secondi sono i sentiti, il cui modo è l' estensione, perciò noi uniamo individualmente questi effetti, benchè prodotti in un altro ente, cioè nel senziente ossia anima, agli atti secondi, e quindi anche alla sostanza materiale; la quale ci riesce così estesa e fornita di tutte le qualità sensibili. Ma qui è da considerarsi bene la differenza fra l' estensione e le sensazioni . Noi abbiamo definita l' estensione « « il modo del sentimento corporeo »(1) »; tale infatti ce la presenta l' osservazione, che ne coglie il concetto alla sua origine, « « giacchè la vera natura degli oggetti del nostro pensiero non si rileva, se non risalendo alla prima origine della formazione dei loro concetti » ». Quindi anche l' estensione misurata appartiene al sentimento, e da questo non si divide che per astrazione. Come dunque l' abbiamo noi posta fra le qualità primarie del corpo, cioè fra quelle che ce ne somministrano l' essenziale concetto? (2). E` da confessare che se noi spogliassimo il concetto di corpo da ogni sentito, noi con questo stesso lo spoglieremmo anche della sua estensione; perocchè la sua estensione non si pensa che come il modo del sentito, e però come sentita. Ma in tal caso ci svanirebbe affatto di mano il concetto di corpo e di materia, quale tutti gli uomini lo si formano ed esprimono con quei vocaboli. Noi all' incontro ci proponemmo sempre « di parlare delle cose, quali l' uomo le percepisce e le esprime »; giacchè, dovendo usare i vocaboli comuni, e quelli esprimendo le cose concepite dal senso comune degli uomini, che si fonda sulla percezione, qualora noi volessimo adoperare quei vocaboli a significare altro, ne falseremmo il significato, e introdurremmo equivoci senza fine, e questioni in cui non ci sarebbe più possibilità d' intenderci. Quindi noi già definimmo il corpo « « la causa prossima delle sensazioni e il subbietto delle qualità sensibili »(3) ». Secondo questa definizione il corpo è il sensifero, identico, come abbiamo veduto, alla forza straniera. Ora al sensifero, come causa prossima delle nostre sensazioni, benchè si spogli delle qualità sensibili, forza è attribuire la estensione; perocchè noi lo consideriamo per tutto là, dove è il sentito; ma il sentito è esteso, dunque la sua causa prossima deve essere « una virtù che, quanto al suo atto, si diffonde nella estensione medesima del sentito, essendo l' attivo dov' è il passivo ». Questa è la dimostrazione da noi data dell' estensione del corpo (4). Si opporrà che il sensifero, non essendo proprio la sostanza, ma un atto della sostanza, che si conosce a cagione del suo termine, e corpo essendo un nome sostantivo, cioè esprimente sostanza, non si può attribuire al corpo (sostanza) quell' attributo che appartiene al termine della sua azione sensifera. A cui noi rispondiamo, che noi pigliamo il sensifero come sostanza, pel bisogno che abbiamo di far ciò volendolo concepire; il che non ci autorizza ad aggiungere, nè a togliere nulla al sensifero. L' aggiunta non è, non deve essere se non puramente il mezzo di conoscere, deve essere puramente quanto a noi basta per arrivare a percepire intellettivamente il sensifero come ente . Ci rimane dunque il concetto di corpo, quale ce lo dà la percezione e quale viene nominato dalla parola, tutto racchiuso nel sensifero; al quale, come vedemmo, appartiene il concetto di « forza operante nella estensione, e però estesa ». Ma se dopo di ciò noi colla riflessione vogliamo salire più su, troveremo benissimo che l' ente subbietto della virtù sensifera, considerato in sè stesso e non come lo percepiamo, potrebbe essere un ente inesteso; e ciò anzi s' induce al vedere che l' estensione appartiene originariamente al sentito e al senziente, e però all' inesteso (1). Ma in tal caso noi non avremmo già più in mano il concetto di corpo, ma di altra cosa che non percepiamo, e che nominammo principio corporeo . Fin qui abbiamo sufficientemente dichiarato che cosa sia corpo , tale quale la percezione ce lo somministra, come sensifero e come forza straniera. Abbiamo veduto come questa forza, o si manifesti come sensifera o come straniera, si dà a percepire a noi per estesa nel termine della sua operazione; e come è per questa estensione che chiamasi corpo (sensifero), o materia bruta (forza straniera). Abbiamo veduto come questa forza estesa venga rivestita delle qualità sensibili, e propriamente del sentito. Abbiamo veduto finalmente come la meditazione filosofica salga dal corpo ad un principio corporeo , che è la cagione incognita producente il corpo, quale da noi si percepisce. Possiamo dopo di tutto ciò passare a dichiarare come nascano i concetti opposti di forma e di materia , i quali non sono alieni dal senso comune, e di cui i più antichi filosofi, generalizzandoli, fecero sì grande uso nelle loro filosofie. A far questo convenevolmente ci bisogna primieramente osservare in che modo diverso noi vestiamo il corpo (secondo il concetto datoci dalla percezione) di estensione e di sentito . L' estensione misurata, noi abbiamo detto, è il modo del sentito; e questo modo vi è sempre, benchè ne variano i limiti, e quindi la figura e la grandezza; ma lo stesso sentimento varia oltracciò specificamente, varia del tutto, perocchè il colore è cosa specificamente diversa dal sapore, e nella medesima specie di sensazione, per esempio nella sensazione del vedere, il sentito può variare frequentemente, senza che varii il modo dell' estensione (1), giacchè una stessa superficie può presentare successivamente colori e gradazioni diverse all' infinito. Se dunque noi prendiamo l' estensione misurata in genere, questa è cosa invariabile nella sensazione corporea; cioè ogni sensazione corporea ha sempre qualche estensione. La quale costanza dell' estensione, nella variabilità di tutte le altre note o caratteri del sentito, fa sì che noi ravvisiamo nell' estensione qualche cosa di permanente, un esteso permanente. E poichè l' atto onde una cosa sussiste, ossia la sostanza, si considera permanente relativamente agli atti suoi accidentali, quindi noi attribuiamo al corpo l' estensione, come qualità a lui essenziale e precedente a tutte le qualità variabili in esso. Nominando dunque forza, o forza corporea, tanto il sensifero, quanto la forza straniera, che abbiamo dimostrati identici, diremo che « una forza estesa »è ciò che v' è di permanente e di sostanziale nei corpi. Non si dimentichi però mai che, quando diciamo la forza estesa essere la sostanza dei corpi, la mente nostra ci suppone l' atto primo necessario alla sussistenza della « detta forza estesa », e l' immedesima colla forza estesa, perchè altro ella non vuole che percepire questa forza estesa, e non cercare ciò che esser vi possa oltre di essa. Quindi il principio corporeo non è la sostanza corporea, di cui tutti gli uomini parlano pronunciando il nome sostantivo corpo , ma è un principio incognito al di là di questa sostanza. Conviene adunque qui, prima d' inoltrarci, considerare attentamente in che modo l' uomo si formi il concetto delle varie sostanze, che egli percepisce. Essendo la percezione un' azione, che viene esercitata in noi esseri suscettivi di riceverla, cioè di sentirla e d' intenderla, questa azione in noi è la prima cosa che conosciamo dell' agente, e perciò in quella ci fermiamo colla mente, perchè anteriormente ad essa nulla percepiamo; quindi l' azione percepita diviene base, atto primo, della sostanza che pensiamo; il che è quanto dire, noi erigiamo quell' azione in un ente, supponendovi il mero atto del sussistere, che è la sostanza; il quale atto certamente non manca, perchè di fatto quell' azione sussiste. L' azione prima adunque, l' azione percepita nel senso e pensata come sussistente, tale è il concetto umano delle sostanze (1); e questo concetto è vero, benchè limitato, non ascendendosi con esso all' atto assolutamente primo, il quale è a noi impercettibile, ma solo all' atto primo relativamente a noi, che è quello che percepiamo, il quale indubitatamente sussiste, e come a tale poniamo un nome sostantivo. Ciò che percepiamo, in una parola, è l' agente in atto, e questo atto può essere atto secondo rispetto all' agente in potenza, ma rispetto a noi è primo, e però è a noi l' agente stesso. La ricerca poi degli atti anteriori alle sostanze percepite appartiene alla Filosofia trascendentale, ossia alla Teosofia. Veniamo al concetto di materia prima . Il sensifero e la forza straniera appariscono a noi vestiti: 1 di estensione limitata; 2 di limiti a questa estensione, ossia di figura; 3 di quelle qualità sensibili, che dicemmo secondarie. Queste qualità sensibili non si percepiscono mai che in una figura; la figura non si percepisce mai che nell' estensione; l' estensione limitata poi ci si presenta siccome indivisibile dal sensifero e dalla forza straniera, in modo che noi non possiamo in alcuna maniera nè percepire, nè pensare il sensifero o la forza straniera senza una qualche estensione, per guisa che nella stessa immediata percezione vi è sempre ed invariabilmente l' estensione; mentre può variare la figura e le altre qualità sensibili. Appartenendo dunque l' estensione limitata (in generale) invariabilmente a ciò che di primo pensiamo e percepiamo, ed essendo l' essenza sostanziale appunto « ciò che di primo pensiamo », noi, come si è detto, dichiariamo il sensifero e la forza estesa un' essenza sostanziale, di cui la figura e le altre qualità sensibili siano accidenti, e quell' essenza sostanziale la chiamiamo corpo. Ma quantunque questi accidenti sieno variabili, alcuni di essi accompagnano sempre il corpo. Ond' è che l' essenza sostanziale del corpo non esiste mai sola; e acciocchè possiamo pensarla da sè, dobbiamo farla divenire un oggetto di nostra mente, dal quale separiamo tali accidenti. L' essenza sostanziale del corpo non è adunque separata che nell' idea nostra, è un astratto che non può essere realizzato se non a condizione d' essere vestito di certi accidenti. Quindi si dice che « l' essenza sostanziale del corpo ha in potenza i suoi accidenti »; il che è quanto dire che « una tale idea, quando viene realizzata, può e deve essere vestita di accidenti, benchè non debba essere vestita di tutti i possibili, ma solo di alcuni ». Ma se il corpo è « una forza estesa », non si può ben conoscerne la natura, se non si conosce quella dell' estensione. Ora tale è la natura dell' estensione che colla immaginazione si può dividere in parti; onde la forza, che è vestita d' una parte di questa estensione, è al tutto separata dalla forza, che è vestita di un' altra parte contigua alla prima o no; il che vuol dire che le forze corporee non operano punto l' una nell' altra, ma nella propria estensione, senza eccedere un punto da quella. Quindi « l' essenza sostanziale del corpo »ha la proprietà pure essenziale di essere divisibile in parti; di modo che ella non ha per sè unità, poichè il suo principio agente non si vede, non è il corpo, e se esiste, appartiene alla filosofia trascendentale, come dicemmo, ma è anzi l' azione percepita da noi nel suo termine; questo termine adunque, che è l' azione da noi percepita, è essenzialmente divisibile in modo che quell' entità che si mostra attiva in una parte, in una estensione, non è identica di numero (ma solo di qualità) a quella entità, che si mostra attiva in un' altra parte, in un' altra estensione. Ora qui abbiamo tutti i dati, dai quali possiamo raccogliere il concetto di materia prima. Se noi spogliamo la forza corporea di ogni estensione, ella ci si annulla, non operando oggimai più in luogo alcuno (1): ella dunque non può essere la materia prima, perchè la materia prima non è il niente (2). Di poi la materia prima non può essere la mera estensione, perchè questa per sè non si divide; ma si divide solo per immaginazione, laddove la materia è subbietto di reale divisione. In terzo luogo la materia prima, da Dio creata e realmente esistente, non può essere infinita; nuova prova che essa non è l' estensione, la quale si percepisce naturalmente immensurabile e così infinita, come pure si concepisce immobile e non in potenza ad alcuna figura; ed è soltanto la mente che disegna le figure nella pura estensione con dei segni immaginari, i quali non sono l' estensione stessa. In quarto luogo la materia prima non ha confini determinati, perocchè in tal caso avrebbe figura; ma è tuttavia un ente reale concepito dalla mente, astrazione fatta dai suoi confini; ha dunque confini e figure in potenza. In quinto luogo la materia prima ha parti sostanziali e reali in potenza; cioè può essere divisa in parti indefinite, ciascuna delle quali è materia nel concetto eguale, in realtà diversa; e ciò a cagione della qualità estesa, che è il suo modo di essere; il qual modo è in potenza a qualunque dimensione (1), figura, forma e moltiplicità (2). Dal che concludiamo: Che il concetto della materia prima è un concetto astratto, che nondimeno dimostra alla mente un primo elemento dei corpi ancora indeterminato, appartenente alla loro realità, ma che non può sussistere se non aggiungendovi le determinazioni. Dove si noti che l' astrazione fa due uffici: I) fa pensare qualche elemento realizzabile, ma privo delle sue determinazioni ( astrazione tetica ); II) fa pensare altresì un quid non realizzabile, come allorquando separa di quelle cose, le quali non si possono al tutto separare, senza che ciò che rimane sia del tutto inconcepibile, come sarebbe il centro del circolo senza la circonferenza, la forza corporea senza alcuna estensione neppur generica, ecc. ( astrazione ipotetica ). Questa seconda specie di astratti, se vogliamo ridurla ad una formula generale, si può definire così: « astratti, nei quali l' astrazione ha tolto via anche la potenza di ricevere le determinazioni necessarie a divenire reali ». Ora, il concetto della materia prima non si ha coll' uso di questa seconda astrazione, ma della prima. Quindi: La materia prima è una forza estesa, la quale è in potenza: 1) ad avere una quantità determinata di estensione; 2) ad avere una determinata figura; 3) ad essere divisa in parti, ciascuna delle quali ha la sua quantità determinata e la sua figura; 4) ad avere un determinato sensibile. Ancora, la materia prima è la sostanza dei corpi , e in questo senso ha ragione Aristotele attribuendole il nome di sostanza; e le determinazioni della quantità, figura, numerosità quantitativa e sensibilità, sono altrettante condizioni, alle quali ella può avere l' atto del sussistere. Le quali condizioni, insieme prese, costituiscono la forma del corpo. Ora queste determinazioni possono variare, ma ad ogni modo le une o le altre sono necessarie. In quanto sono necessarie, costituiscono la forma sostanziale del corpo unitamente all' atto della sostanza. Cioè l' estensione determinata o quantità, la figura e il sensibile, in quanto terminano e perfezionano l' atto che le fa sussistere, che è l' atto della sostanza materiale dal quale ricevono unità, in tanto si dicono forma sostanziale dei corpi (1). In quanto poi sono variabili, in tanto costituiscono altrettante forme accidentali o accidenti; e come tali, non si considerano nell' unità della sostanza che le fa sussistere, ma separate le une dalle altre coll' astrazione (2). I diversi elementi della natura corporea hanno un ordine fra loro, e l' ordine è questo: 1 vi è la forza, il cui modo essenziale è la quantità estensiva. La forza non si può considerare divisa dalla quantità estensiva se non per via dell' astrazione di secondo genere, cioè ella in tal caso rimane un assurdo, poichè è la forza, e pur le manca l' elemento necessario a costituirla, è la forza in potenza, e la forza in potenza non è la forza da noi concepita, la quale è in atto; 2 la quantità estensiva ha dei confini, i quali le determinano una figura; la figura adunque è nell' estensione, come i limiti sono nel limitato; 3 la figura non si presenta a noi senza qualche sentito, e quantunque coll' astrazione si possa prescindere da ogni sentito, tuttavia non si può prescindere da un sentito in genere; sicchè la figura astratta non è già una figura senza sentito, ma una figura che « si pensa come possibile a sentirsi, senza determinare qual sia questo sentito che racchiude, poichè può racchiuderne separatamente diversi ». Quando dunque si pensa l' astratto della forza, si pensa insieme l' estensione, ma questa si lascia indeterminata; e questo è il concetto di materia prima dei corpi. Quando si pensa l' astratto minore della forza con una estensione o quantità estensiva determinata, si pensa insieme la figura, ma questa si lascia indeterminata; e questa è la materia con una sua dimensione (materia non prima). Quando si pensa l' astratto ancor minore della materia con quantità determinata e con figura, si pensa insieme il sentito, ma si lascia indeterminato qual sia la qualità, o quali sieno le qualità sensibili che vi si appongono. Quando finalmente si pensa la materia con quantità, figura e sentito determinato, allora si pensa il corpo formato, la materia insieme alla forma, la specie piena , l' idea universale, ma non astratta del corpo (1). Il corpo stesso poi reale si percepisce intellettivamente, quando si unisce la percezione sensitiva all' idea che a lei corrisponde, cioè alla specie piena. Ciò che si pensa anteriormente alle sue determinazioni si dice il subbietto delle determinazioni; quindi la materia prima è il primo subbietto di tutte le determinazioni corporee; la quantità estensiva si prende come subbietto dialettico della figura; la figura come subbietto dialettico delle qualità sensibili. Ma si osservi bene che il ragionamento umano percorre due vie opposte, o per meglio dire, percorre la stessa via in due direzioni, va e viene. Quando va, procede per l' ordine naturale e comune, e questa è una direzione analitica dal tutto alle parti; quando ritorna, procede coll' ordine scientifico o dotto, e questa è una direzione sintetica dalle parti al tutto; questo ritorno della mente suppone quella prima andata, la sintesi dotta suppone l' analisi volgare. Quando dalla materia prima si discende fino al corpo reale, dalle parti si ritorna al tutto; lo spirito prima di fare il cammino in questo senso dovette farlo nel senso contrario, dal tutto alle parti; ed in tal processo si cangia l' ordine dei predicati e dei subbietti. Prima dunque si ha il sentito, poscia la sua figura, poscia la sua quantità. Quindi si predica la figura del sentito e la quantità della figura, ossia si dice che la figura è un modo del sentito, la quantità estensiva un modo della figura. Ma la materia, essendo la causa prossima attuale del sentito, non si può predicare; ma di lei si deve predicare tutto ciò che si predica del sentito, che è il termine del suo atto, in cui ella si percepisce; e perciò rimane sempre che della materia si predichi la figura, e la quantità, e il sentito come suo effetto. Onde in ogni direzione in che vada la mente, la materia ha sempre ragione di primo subbietto, ossia di sostanza; non può essere mai predicata, ma solo subbiettata. Dalle cose dette apparisce che la materia è l' atto, nel quale e pel quale esistono i corpi (1), cioè l' atto, pel quale e nel quale sussistono le qualità corporee; è ciò che primo s' intende col pensiero, quando si concepiscono i corpi. Ma poichè questo atto non può essere realizzato nudo e solo da tutte le qualità corporee, che in lui si concepiscono essere potenzialmente, perciò v' è qualche cosa che lo perfeziona, e sono queste qualità corporee determinate, le quali si chiamano forma . Ma poichè alcune sono variabili, perciò in quanto esse sono al tutto necessarie a poter pensare la materia realizzata, esse si chiamano forma sostanziale del corpo, perchè anch' esse concorrono a costituire quell' atto, pel quale il corpo si può concepire come idoneo ad essere realizzato; e in questo senso si dice che la forma è anch' essa sostanza, cioè entra a formare parte della sostanza. In quanto poi queste qualità sono variabili, sicchè ciò che è necessario alla sussistenza d' un corpo rimane indeterminato, perchè basta che delle dette qualità ve ne sia l' una o l' altra, in tanto diconsi forme accidentali . Ma posciachè si possono concepire dei corpi forniti di tutte le qualità sì sostanziali e sì accidentali, a cui nulla manchi acciocchè sieno realizzati, e tuttavia possono essere realizzati con grandezze maggiori e minori, e anche può ripetersi la stessa grandezza un numero qualunque di volte; perciò dicesi che la quantità continua o discreta della materia non è determinata nè dal concetto di materia , nè da quello di forma , ma da quello di realizzazione; la quale dipende dall' arbitrio dell' Autore, che realizza i corpi. La ragione prima adunque, onde tutto ciò che v' è in un corpo si concepisce come sussistente, si è la materia, che perciò riceve per la prima il nome di sostanza e di primo subbietto; quindi essa è anche il subbietto della forma sostanziale, come questa è il subbietto degli accidenti. La realizzazione poi non ha la sua ragione nel corpo, ma nella causa creatrice; e non è subbietto del corpo, ma quella che fa sussistere il subbietto. Ora che abbiamo svolto il concetto di materia prima , e veduto che questa si trova nei corpi, nei quali la perfezione di questa materia e gli ultimi atti di essa si chiamano forma , possiamo dimostrare (avvegnachè ciò risulta anche dalle cose dette nella prima parte) che nell' anima una tale materia non si rinviene. Ma per evitare le questioni di parole, e porgere altresì una chiave per intendere i maggiori filosofi sanamente, gioverà che prima accenniamo come quei filosofi non sempre parlano della materia prima con precisione, nè fissarono accuratamente il suo concetto, come noi abbiamo tentato di fare, adoperando il vocabolo di materia o di materia prima in varie significazioni; onde avvenne che incorsero in apparenti contraddizioni, ed agitarono fra loro caldissime ed inutili questioni. E primieramente quasi tutti confusero la materia prima colla realità sussistente , da cui noi l' abbiamo distinta. Così accadde a Platone, facendo che il quanto sia una dipendenza o conseguenza della materia, laddove il quanto non si trova punto inchiuso nel concetto di materia, ma è posto dalla realizzazione di essa, ed è determinato dall' arbitrio del realizzatore. Così pure accadde ad Aristotele, il quale pose la materia essere il principio dell' individuazione; il qual principio noi dimostrammo doversi anzi porre nella realità sussistente (1), che è sempre pienamente determinata. Come noi abbiamo veduto, se dal concetto di materia leviamo ogni pensiero di estensione in genere, quel concetto non esprime più cosa alcuna; noi allora consideriamo la forza coll' astrazione ipotetica e non più colla tetica. Quindi anche S. Tommaso insegna che, qualora si astragga da ogni estensione, si astrae con ciò stesso da ogni materia. Consideriamo le sue parole: [...OMISSIS...] Noi abbiamo veduto che v' è una materia prima , che è « la forza che opera nell' estensione », la quale è in potenza: 1 all' estensione determinata o quantità, che può essere una o più, e quindi ancora numerizzabile; 2 alla figura; 3 alle qualità sensibili. Che cosa sono le specie matematiche? Sono le figure e i loro termini, la superficie, la linea, il punto. Le specie matematiche non sono adunque la materia prima , ma una materia già ridotta all' atto della quantità e della figura, e però in parte informata; solamente che si prescinde dal considerare le qualità sensibili, alle quali è in potenza; ed appunto perchè è in potenza, si chiama ancora materia . Questa è la materia matematica degli Scolastici. Quando dicono adunque che nel concetto della materia matematica si astrae dalla materia sensibile, tanto individuale, quanto comune, intendono che si astrae dalla potenza alle qualità sensibili, tanto considerate come reali, quanto considerate come ideali. Quando poi dicono che si astrae dalla materia intelligibile individuale , intendono per materia intelligibile individuale la quantità determinata e figura (con ciò che appartiene alla figura) realizzata; ma questo dicono in modo improprio, poichè gli Scolastici stessi già posero che l' individuo non si concepisce dall' intelletto, onde incoerentemente alla propria dottrina ponevano una materia, che fosse intelligibile insieme ed individuale . Ma essi davano il nome d' intelligibile a questa materia, perchè la quantità e la figura, astratta dal sensibile, è puramente oggetto dell' intelletto; non vedendo poi che, come tale, non è mai individuale, se non si fissa arbitrariamente ad un luogo dello spazio. Tuttavia, perchè ciò che è nell' intelletto possiamo riscontrarlo nella realità, non è del tutto vana una tale denominazione. Dicendo poi che il concetto di materia matematica non astrae dalla materia intelligibile7comune, vengono a dire che la quantità e la figura è considerata dai matematici non solo astrattamente dalle qualità sensibili, ma ben anche senza riferirla a un corpo reale, come possibile a realizzarsi. Ora vediamo quel che segue: [...OMISSIS...] . Ed ecco qui come, se si prescinde dalla estensione e da ogni quantità continua, già siamo fuori da ogni materia; il concetto di materia ci svanisce al tutto dalle mani, ed altro non ci rimane che alcuni astratti ultimi, i quali possono essere realizzati nella materia o fuori di essa. Vi è dunque qualche cosa di anteriore alla materia, vi è qualche cosa di atto e di potenza attiva (2). Il concetto dunque della materia non comincia nella nostra mente, se non allora che si pensa ad « una potenza sensifera nell' estensione ». Ma questo concetto non fu ritenuto sempre, come dicevamo. Onde, quando alcuni Scolastici dicono della materia che « talis potentia non est ad operationem, sed ad esse (3) », invece di dire ad formam , allora allargano il concetto della materia in modo che la materia già può appartenere ad ogni creatura, perchè ogni creatura anche spirituale, prima di essere, ha la potenza ad esse , il che equivale a dire: potenza di ricevere la sussistenza. Secondo questo principio inteso letteralmente, la materia si converte nella « cosa possibile », che è l' idea; il che non conviene di fare, poichè si ha idea non meno delle forme che della materia, come abbiamo detto di sopra. Di che alcuni Scolastici fecero che tutte le cose, tanto visibili, quanto invisibili, tanto mobili, quanto immobili, tanto corporee, quanto incorporee, sieno composte di materia e di forma; ma, come assai bene osserva S. Tommaso, questo è un prendere la parola materia in due significazioni, e non nella sua propria e vera significazione (1). Quelli che prendono la materia come sinonimo di « ciò che è in potenza », escludendo dal suo concetto ogni relazione coll' estensione, ne fanno di necessità un ente, da cui è già astratta la stessa materia, e perciò rimane indivisibile, come osserva lo stesso S. Tommaso, il quale scrive: [...OMISSIS...] , dove per quantità conviene intendere non una particolare quantità determinata, ma qualunque sia. I filosofi accennati non si accorsero che il concetto di materia dimostra all' intelletto tal cosa, che ha relazione coll' estensione; e però con una soverchia astrazione, togliendo via questa relazione, distrussero il concetto di materia, non restando loro in mano che il concetto di cosa immateriale ed indivisibile, che precede a quello della materia. Vi furono altri, i quali non abolirono intieramente la relazione coll' estensione, accordando alla materia di poter essere mossa nello spazio; ma le tolsero la facoltà di muovere e la dissero inerte. Ebbero questi ragione? La cagione logica, che condusse costoro a un tal pensiero, si fu che posero la loro attenzione ai fenomeni della mole materiale , la quale si presenta a noi come un mobile, un' entità ben diversa dal sensifero. Ora, essendo la mole materiale talora in moto, talora in quiete, dedussero rettamente che dunque il moto non le è essenziale, che esso non entra nel suo concetto, che la materia riceve il moto da un altro principio attivo da essa diverso. E certo è indubitato che niun corpo muove sè medesimo, onde il principio del moto si deve trovare altrove. Ma i fenomeni extrasoggettivi del moto non sono i primi che ci si presentino nel concetto di corpo; come vedemmo, il primo fenomeno è il sentito, dove abbiamo la percezione intellettiva del sensifero, il concetto del quale è quello di un' attività sull' anima nostra, che si espande nell' estensione del sentito. Questa attività dunque, che produce il sentito, è indubitabile, ed è prima nel concetto del corpo; perciò è quella che costituisce l' essenza conoscibile e nominabile di lui. Ora questa attività medesima è anche il subbietto del moto, il quale moto altro non è se non « la manifestazione del sensifero in un sentito, che occupa una estensione successivamente diversa ». Sotto questo aspetto è dunque vero che il sensifero è passivo, cioè atto a ricevere il moto ed a trasmetterlo, non a darlo. Dove dunque troveremo noi il principio del moto? Primieramente noi lo troviamo nell' anima, la quale muta di luogo il sensifero. Noi intendiamo altresì che fuori dell' anima umana deve esservi qualche altro principio che lo produca; ce lo dimostra il fenomeno dell' attrazione. Noi intendiamo in terzo luogo che questo principio del moto, fuori dell' anima umana, non può essere la mole, nè la forza straniera; perocchè se questa non riceve il moto, non lo può trasmettere ad un' altra forza; ella deve dunque aver ricevuto già in sè stessa il moto, e non produrlo, non esserne il principio. Sarà dunque principio del moto quello che noi abbiamo denominato principio corporeo? Per rispondere a ciò dobbiamo esaminare quale è il concetto di principio corporeo. Noi abbiamo dedotto questo concetto dal vedere che il sentito , come pure la forza sensifera che in esso noi percepiamo, non è che il termine di un' azione, che viene fatta nell' anima nostra, e l' agente è incognito quale è in sè stesso, cioè nel suo principio, non conoscendolo noi che dall' azione viva nel suo termine. Ignorando dunque il principio di questa azione, noi gli abbiamo dato il nome di principio corporeo . Ora secondo questo concetto, noi sappiamo che il principio corporeo è il principio di quell' azione, che chiamammo sensifero , denominandola come un ente pel bisogno di concepirla intellettivamente. Ma questa azione sull' anima non è ancora il moto, la cui natura consiste nello spostare il sensifero. Dunque non possiamo neppure affermare che sia il principio corporeo . Noi non vogliamo qui parlare della facoltà di trasmettere il moto, che costituisce propriamente la forza straniera e la mole; la quale facoltà si deve indubitatamente attribuire al principio corporeo, come a suo subbietto. Ciò che qui cerchiamo unicamente si è il principio del moto. Ora l' opinione che abbiamo esposta nella prima parte, che ogni elemento materiale sia termine di un principio senziente, colloca un principio di moto nella natura; spiega i movimenti naturali dei corpi, senza bisogno di fare intervenire Iddio quasi causa seconda; e concilia la grande questione agitata sempre sull' inerzia e sull' attività della materia. Perocchè alcuni filosofi, ponendo mente al concetto di materia, trovarono ripugnante con essa l' essere causa di moto; e questi, secondo noi, hanno piena ragione; altri, vedendo che tutta la natura si muove, e che non solo ci si presentano i fenomeni dell' urto meccanico dei corpi, ma quelli delle attrazioni, dell' espansione, dell' elasticità, ecc., ripugnanti di ricorrere ad un' azione immediata di Dio per ispiegarli, nè sapendo a quale altra causa appigliarsi, fecero la materia attiva; senza avvedersi che l' attribuirle tale attività cozza col concetto, che di essa ci porge la percezione; e tuttavia avevano ragione in questo, che riconoscevano sparso in tutta la natura un principio di spontaneo moto. Il che conferma l' opinione indicata dell' animazione della materia, come quella che spiega con somma facilità e senza assurdo tutti i fenomeni naturali (1). La ragione per cui il concetto di materia (e neppur quello di forma del corpo) non ci somministra il principio del moto, si è che il concetto di materia e di corpo noi l' abbiamo dalla percezione, e la percezione ci mostra l' atto nel suo termine (il sentito), e non il suo principio. Questo termine (il sentito) è esteso, e quando questa estensione sentita si sposta, allora vi è il moto; ma questo spostamento del termine non è nel termine stesso, perchè il termine si percepisce quando è già costituito, e non prima, perchè prima non è termine, non è sentito. All' incontro l' azione che sposta il termine, trasportandolo da un luogo ad un altro, è un' azione anteriore alla costituzione del termine (al sentito), e quindi non cade sotto la percezione. Ora, se noi consideriamo che il termine (il sentito), da cui solo caviamo il concetto di mole, di corpo, di materia, e anche di forza straniera, perchè è quello solo di cui abbiamo esperienza, è tal cosa cui noi sentiamo nello spirito nostro, nel principio senziente; non possiamo dubitare che lo stesso spirito non concorra insieme col sensifero a produrlo, giacchè il principio senziente riceve l' azione nel modo suo proprio, che è quello di essere principio attivo. Ma in che concorre a ciò il principio senziente? Certo vi concorre in tutto, cioè in entrambi gli elementi, che sono: 1 il sensibile; 2 il suo modo, cioè l' estensione; concorre a produrre il sensibile, perchè dove non è principio senziente, ivi non può essere sentimento; concorre a produrre il suo modo, cioè l' estensione, perocchè l' estensione, ossia il continuo, non può essere che nel semplice. Che cosa dunque può fare il sensifero? Certo non altro se non suscitare lo spirito a produrre il sentito col suo modo, cioè coll' estensione. Ma questo è il concetto trascendente del sensifero, concetto che dimostra il sensifero nel suo principio, nel principio corporeo. Questo dunque giova a spiegare come si genera la materia ed il suo concetto, ma non è il concetto della materia. Vedesi pertanto che la materia, quale ci viene data dalla percezione (concetto comune o volgare), involge non poco del soggettivo; e che conviene tenersi in guardia per non ragionare di lei, come se il detto concetto della materia avesse una verità anche fuori della percezione. Esso è vero, ma nella percezione. Se noi cerchiamo che cosa sia la materia al di là della percezione, la materia ci sfugge; non parliamo più di quello, di cui parla tutto il mondo, che parla sempre della materia quale è percepita. Così anche i sensi non illudono, se la ragione riconosce in essi quello che ci danno e non più; ma se noi pretendiamo che i sensi ci somministrino quello che non sono nati a somministrarci, incontanente cadiamo nell' inganno; e non sono già i sensi, ma la ragione che erra, giudicando al di là di ciò che portano i dati sensibili. In secondo luogo giova assai meditare sul concetto trascendente della materia, o per dir meglio sul concetto trascendente di quella entità, che risponde al concetto comune di materia; perocchè intendiamo per esso quanto sieno connesse l' una coll' altra le cose della natura, e nel caso nostro lo spirito e il principio corporeo; e come dalla loro connessione e mutua azione vengano prodotte alcune entità (1), le quali noi concependo isolatamente, le consideriamo come enti o sostanze; e con ragione, perchè con ciò non pronunciamo sulla loro natura, ma altro non diciamo se non che esse sono « quell' atto primo che noi percepiamo, nel quale e pel quale sussistono molti atti secondi »; giacchè « la sostanza è l' atto primo, che fa sussistere la cosa ». Onde questa parola di sostanza ha due significazioni: l' una trascendente, che esprime quell' atto che è assolutamente primo, e fa sussistere tutte le cose; e in questo significato la parola sostanza non conviene che a Dio; l' altra comune, che esprime « quell' atto dell' entità da noi percepita, che è primo nella percezione nostra »; e in questo significato relativo a noi, noi distinguiamo più sostanze, che possiamo acconciamente chiamare sostanze relative e non assolute; in tal senso anche la materia è sostanza. Finalmente la distinzione dei due concetti, cioè del concetto di materia e del concetto trascendente, a quello corrispondente, giova oltremodo a spiegare come nacquero le diverse sentenze dei filosofi sulla materia, ed a conciliarle insieme. Ora che abbiamo chiarito il concetto di materia e di materia prima, ci è facile dimostrare che l' anima umana è scevra interamente di ogni materia. Infatti il concetto di materia, per riassumere il detto, risulta da più elementi. Esso: 1) ci presenta un' attività in atto nel suo termine , e non nel suo principio; 2) ci presenta un' estensione, una mole, come modo di questa attività in atto nel suo termine; 3) ci presenta mobilità, cioé attitudine a ricevere il moto e a trasmetterlo, non attitudine a produrlo; perchè il ricevere e trasmettere il moto appartiene al termine; il produrlo, al principio dell' attività. Ora tutte queste cose ripugnano all' anima. E veramente l' anima, come noi l' abbiamo definita, « è il principio senziente, razionale e attivo, secondo il sentimento e la razionalità ». Ora questa definizione pone non solo una differenza, ma una vera opposizione fra il concetto dell' anima e quello della materia. L' anima è il principio dell' atto, e la materia non ha ragione che di termine . L' anima come principio è inestesa, e la materia ha per sua propria ed essenziale condizione l' estensione, la mole. L' anima come principio è movente, ma non è mobile; è principio di moto, ma ella stessa è immobile. Dunque l' anima esclude da sè tutti gli elementi, che entrano a costituire il concetto della materia. Forse a primo aspetto non s' intenderà come l' anima sia immobile . Ma per intenderlo basta considerare attentamente che ogni cosa mossa ha ragione di termine , perchè il movimento è il termine dell' azione movente. In secondo luogo, il moto non si fa che nell' estensione. Ma l' anima non è nell' estensione, nè come continuo solido, nè come le linee e i punti, che altro non sono se non i confini astratti del solido, e perciò al solido appartengono. Infatti il solido, e perciò anche i suoi confini, non esistono che nel semplice, onde l' anima è detta dai maggiori filosofi contenente il continuo, e non da lui contenuta (1). Onde come il continuo solido è nell' anima senza che esso sia l' anima, essendo anzi in opposizione con essa, come il termine è in opposizione col principio, e l' obbietto col soggetto (e ciò per quella connessione e comunicazione di sostanze, che costituisce il sintesismo della natura); così si può ben dire che il moto avvenga in quel continuo che è nell' anima, ma non mai nell' anima stessa, che ha in sè il continuo, suo termine. Si opporrà che, trasportando il corpo da un luogo nell' altro, si trasporta anche l' anima. Ma ciò non è vero; l' anima non si trasporta; altro non nasce che una nuova sua relazione fra il suo corpo e il luogo dal corpo occupato; perchè è questo che si cangia e non l' anima. Ma trovandosi il corpo dell' anima in relazioni con altri oggetti esteriori e con altro spazio, sembra che l' anima sia trasportata insieme col suo corpo, mentre non si è mosso altro che il sentito dell' anima, e non il principio senziente. Perocchè tutto il sentito, che sopravviene all' anima pel movimento, è nell' anima come il sentito che è passato via; dove per sentito si avverta bene che s' intende anche il luogo del proprio corpo, e che l' anima d' altra parte è presente a tutto lo spazio (2). La nozione adunque di materia importa un' attività considerata nel termine della sua azione. E poichè il termine dell' azione e ciò che viene fatto e non ciò che fa , quindi la materia ha in sè il concetto di potenza passiva e non di potenza attiva (1). Ma il concetto di materia non importa solo l' attività giacente nel suo termine, ma questo termine considerato come ente, un ente termine. Poichè l' intendimento non concepisce nulla se non come ente, pel principio di cognizione. E l' ente si aggiunge a ciò che primo di una entità si percepisce. Se si percepisce dunque un' entità termine, e niente di anteriore, il concetto nostro ha per oggetto un ente7termine; e in questo ente7termine ciò che si concepisce come primo atto dell' ente, contenente tutto il resto che in quello si può distinguere, dicesi atto, o sostanza, o subbietto. In due modi adunque noi percepiamo gli enti: come principio e come termine. Noi percepiamo gli enti come termine, quando noi siamo passivi e riceviamo nel nostro sentimento la loro attività; allora noi percepiamo l' attività in noi come nel termine dell' azione, e desumiamo la natura dell' ente percepito dalla natura del termine dell' azione di lui, unica cosa da noi percepita. Questo è ciò che avviene nella percezione dei corpi. L' ente poi, che percepiamo come principio di attività, altro non è che noi stessi, l' anima; essa si percepisce come un proprio sentimento, nel quale ciò che pensiamo come primo atto, in cui sussiste tutto il resto che in esso si distingue, è la sostanza, il subbietto. L' anima umana, dunque, è un ente7principio. Vero è che, oltracciò, l' anima percepisce sè stessa anche come termine, appunto perchè percependosi come sentimento, il che involge una passività, intende che la sua stessa esistenza deve avere una causa; e così si solleva al pensiero del Creatore. Ma ella si percepisce tuttavia anche come principio attivo; ed è sotto questo aspetto che il suo concetto ha opposizione col concetto del corpo, il quale si percepisce unicamente come ente7termine, e non come ente7principio. La considerazione adunque della materia fatta sotto la guida dell' esperienza, cioè della percezione, colla quale il nostro intendimento è posto in comunicazione con essa, e quindi ne ha il concetto, ci dimostra quale sia l' ordine intrinseco dell' essere nell' entità corporea. Noi vediamo che in tale entità, che corpo e materia si dice, vi è un atto anteriore agli altri, sul quale si fondano gli altri, un atto senza di cui non ci è possibile pensare gli altri; e il quale noi possiamo ben pensare senza gli altri, benchè dobbiamo insieme sottintendere che, venendo realizzato, egli s' accompagni con altri, e questi in parte variabili. Ora questo atto primo concepito è la sostanza, e gli altri, che hanno quel primo come loro subbietto, noi li pensiamo di poi e li chiamiamo sostanziali , in quanto sono al tutto necessari alla sussistenza di quel primo, benchè non al concetto di lui (e questi atti nella loro unità diconsi forma sostanziale ); li chiamiamo poi accidentali in quanto non sono necessari, in quella parte cioè nella quale essi possono variare, senza che venga meno la sostanza, nè gli atti sostanziali; e sono le forme accidentali o accidenti . A cui s' aggiungono certe determinazioni estrinseche venienti dalla realità e non dall' idea dell' ente. Tale è dunque l' ordine intrinseco dell' ente materiale, che in esso si distinguono coll' intendimento: Un atto primo, sostanza, senza del quale non s' intendono gli altri atti, e al quale si riferisce la denominazione di ente . Atti o forme sostanziali, che hanno per subbietto che li regge la sostanza, ma che sono necessari al concetto compiuto dell' ente. Atti o forme accidentali, che hanno per subbietto le forme sostanziali. Determinazioni non comprese nella idea specifica7piena dell' ente, ma venienti dalla sua realità . Il primo atto adunque, che si concepisce nell' oggetto della percezione, è la sostanza. Ma questo primo atto talora ha ragione di principio , talora ha ragione di termine . Di più talora quel primo atto (s' intenda sempre primo, rispetto all' ordine intrinseco dell' entità percepita, o concepita) ci si presenta come essenzialmente e unicamente principio; talora ci si presenta come essenzialmente ed unicamente termine dell' atto medesimo, di cui ci rimane occulto il principio; talora come avente in sè i due rispetti di termine d' un atto e di principio di un altro atto. Quindi tre specie di sostanze, l' una delle quali è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di principio; l' altra è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di termine; la terza è atto primo (nell' oggetto concepito), che ha ragione di termine rispetto ad un atto precedente a sè (che è perciò una sostanza diversa da sè), ed ha ragione di principio rispetto all' atto proprio e agli atti susseguenti, dei quali soli essa è atto primo ed atto7principio. L' essere atto, essenzialmente ed unicamente principio, appartiene a Dio solo; l' essere atto primo, essenzialmente ed unicamente termine, appartiene alla sostanza materiale; l' essere atto primo, termine rispetto ad un' attività precedente a sè e principio rispetto all' atto del proprio sussistere e agli atti secondi, appartiene alle creature spirituali, e quindi all' anima umana. E` bene notare che questa è classificazione di sostanze, ossia di atti primi (intendendo per primo quello che nel concetto di un ente, noi, secondo l' ordine logico, prima degli altri concepiamo); e non è classificazione degli atti in generale. Se non si pone mente a ciò, si farà l' obbiezione che anche i corpi sono principii di loro operazioni. Ora non è così, perchè in tutte le apparenti operazioni dei corpi si considera sempre il termine; onde abbiamo provata già innanzi l' inerzia della materia. Le mutazioni dei corpi adunque non sono operazioni della sostanza corporea, ma modificazioni di essa; onde l' attività si percepisce sempre nel suo termine, e mai nel suo principio. Noi abbiamo detto che l' anima si può considerare come termine di un' azione precedente a sè (del Creatore); ciò ha bisogno di spiegazione. Altro è il dire che l' anima sia termine di un' azione precedente a sè, altro è il dire che questa azione, giacente e operante nel suo termine, sia l' anima. Il dir questo sarebbe errore manifestissimo. Il che non solo si scorge dall' assurdo che ne verrebbe, giacchè in tal caso l' azione creatrice sarebbe l' anima; ma si prova anche direttamente, com' è dovere del filosofo, dalla percezione dell' anima, confrontata colla percezione che abbiamo della materia. I corpi si percepiscono come effetti immediati di un' azione straniera nell' anima; il concetto di essi adunque risulta dalla loro azione in un altro ente che si percepisce; quindi è che si percepiscono, in quanto l' attività loro è nel suo termine, nelle passività dell' anima. Ma questa attività dei corpi nell' anima, come in loro termine, non è il principio che li fa sussistere come enti in sè stessi, il quale principio noi non percepiamo. All' incontro l' anima non si percepisce come agente in un altro ente diverso da sè, ma come essente in sè; si percepisce adunque tutta intera fino nel principio della sua attività. L' azione dunque, di cui ella è termine, è cosa straniera a quel principio che si chiama anima, ed a questo anteriore. Ciò che è principio di un atto non può essere termine dello stesso atto, ma di un atto precedente. Dunque il concetto dell' anima è quello di essere principio; e non è termine rispetto allo stesso suo atto primo (sostanziale), ma è termine rispetto ad un altro atto diverso da lei, che non si percepisce. Abbiamo veduto quale sia l' ordine intrinseco dell' ente che si chiama corpo. In quest' ordine abbiamo distinto: 1 la materia, primo subbietto delle altre qualità, o sostanza; 2 la forma sostanziale ecc.. Ma nell' anima umana non v' è materia. Non vi sarà dunque alcuna distinzione fra la sostanza e la forma sostanziale dell' anima? Come in ogni questione, così in questa conviene prima ben intendersi sul valore delle parole, cioè conviene definirle accuratamente, e quindi procedere conseguenti alla data definizione. Che cosa dunque si intende per forma sostanziale? Per forma sostanziale noi intendiamo « un atto perfezionante un altro atto, per modo che da questa perfezione, che il nuovo atto riceve, viene denominato con un nome sostantivo ». Così la materia non si chiama col vocabolo sostantivo corpo , se non concepita con quelle determinazioni che si concepiscono necessariamente nei corpi, come sarebbe una data grandezza, una data figura, ecc.. Ciò posto, è da notarsi che « l' atto perfezionante un altro atto »può concepirsi in due modi; cioè in modo che « l' atto perfezionante dia perfezione e finimento ad un atto, nel quale e pel quale egli stesso esiste », come accade pure della materia, nella quale, come in subbietto, e per la quale sussiste la sua determinazione, cioè la sua grandezza, la sua figura, che la compie e perfeziona. Ovvero l' atto perfezionante può intendersi in modo che dia perfezione ad un altro atto, pel quale e nel quale egli non esiste, ma sia un atto diverso da quello, in cui e per cui esso esiste; e così l' anima si concepisce essere forma del corpo extrasoggettivo, in quanto che il corpo animato presenta all' osservazione esterna i fenomeni della vita, che si hanno come una sua perfezione (relativa a noi). Considerato poi il corpo soggettivamente, esso risulta: 1 da un' azione di un agente nell' anima; 2 dalla natura dell' effetto che questo produce nell' anima, che è il sentito ed il suo modo, cioè l' estensione. E poichè questi effetti avvengono nell' anima e per la natura essenzialmente sentimentale dell' anima, quindi ancora l' anima è quella che si modifica, in modo da presentare in sè stessa tali sentimenti. Quando dunque il pensiero dell' uomo prende questi sentimenti e li unisce all' agente, cioè al sensifero, questo riceve dall' anima le qualità sensibili colla loro estensione; e quindi è ancora l' anima, che col suo atto veste il corpo (il termine dell' agente) di ciò a cui s' aggiunge il vocabolo sostanziale corpo; e perciò è l' anima, anche sotto questo aspetto, che dà alla materia la sua forma sostanziale. Dico che dà alla materia la sua forma sostanziale, perchè in questa operazione la forma sostanziale del corpo è piuttosto un effetto dell' anima e il termine interno della sua operazione, e però non è l' anima stessa che sia la forma sostanziale del corpo. Se si considera dunque l' anima come perfezionante e informante il corpo, ella è forma sostanziale non di sè, ma d' un altro ente, cioè del corpo; ed in sè stessa considerata, piuttosto che forma sostanziale si deve chiamare sostanza senza più (1). Si dirà che l' anima ha per sua essenza di essere forma o entelechia del corpo. Sebbene noi abbiamo già dichiarato come ciò si debba intendere nella prima parte, tuttavia conviene che, a dissipare l' obbiezione, qui si aggiunga qualche cosa. Se per corpo s' intende un ente diverso dall' anima, in tal caso non si può dire che l' essenza dell' anima consista nell' essere forma del corpo, perchè l' azione o la relazione di due enti non costituisce mai l' essenza, nè la sostanza di niuno di essi. Questa relazione può bensì conseguire necessariamente alla sostanza di uno d' entrambi questi enti; ma ciò che consegue alla sostanza, non è sostanza. Dico che consegue alla sostanza, perocchè le sostanze sono così fra loro unite e quasi costipate nella natura dell' universo che le une colle altre si sostengono e producono, sicchè diventano condizioni reciproche della loro esistenza; e queste conseguenze noi le chiamiamo conseguenti sintetici delle sostanze . Ma se noi consideriamo la sostanza dell' anima in sè e non in questi suoi conseguenti sintetici , in tal caso noi dobbiamo primieramente distinguere fra l' anima meramente sensitiva dei bruti e l' anima umana. E in quanto all' anima sensitiva, ella deve avere certamente, oltre il principio, anche il termine (sentito7esteso) del suo atto; ma la sua sostanza non istà in questo termine, ma nel principio; e questo termine non è che condizione di sua esistenza e ragione della sua individuazione. Che se questo termine si vuole tuttavia chiamare forma dell' anima, in quanto perfeziona l' atto pel quale ella è e lo individua, non ne viene però che l' informante sia la materia; perocchè ciò che informa ha ragione di principio e di atto, quando è essenziale alla materia essere termine. Ma la materia, intesa come sensifero, è occasione suscitatrice della forma , cioè del sentito fondamentale che individua l' anima, e che è dove si svolge e dimora il principio senziente. Il sentito adunque può dirsi forma sostanziale dell' anima, ma non la materia; perocchè egli non riceve la perfezione sua dal principio, ma piuttosto la dà al principio, al contrario di ciò che fa la materia, che è quanto d' imperfettissimo e di sommamente indeterminato (1) si può pensare nei corpi. Onde in ogni modo la nozione di materia non può convenire all' anima. Tanto più ciò s' intenderà, quando si considera che lo stesso termine dell' anima è in essa come in suo principio, come dichiareremo più ampiamente in appresso. Onde nell' anima dei bruti vi è sostanza e forma sostanziale indivise, in modo che non si può pensare l' una senza l' altra, ma non vi è materia. Se poi si parla dell' anima umana sensitiva ed intellettiva ad un tempo, noi vedemmo che la sua essenza sta nell' essere un principio razionale, e che lo stesso principio sensitivo riceve natura di termine a tal principio, in quanto è unito al principio razionale con naturale e continua percezione. Onde rispetto all' anima razionale si possono fare tutte le riflessioni, che facemmo rispetto all' anima meramente sensitiva per escludere da essa la materia; oltre agli argomenti particolari, che provano l' intelletto essere immune da ogni materia, per la ripugnanza che passa fra i caratteri essenziali di questa e i caratteri essenziali di quello. Per le quali cose convien dire che se nell' anima si distingue la sostanza dalla forma sostanziale, ad ogni modo la sostanza dell' anima non ha ragione di materia, ma di atto7principio, benchè in questo atto7principio si possa distinguere qualche cosa che lo perfezioni e individui, e che ha ragione di termine, rimanendo però l' anima anche in questo suo termine essenzialmente principio; e questa perfezione e termine si può chiamare forma sostanziale. Sotto la parola atto noi intendiamo qualsivoglia entità . Tuttavia la parola atto esprime l' entità con di più una relazione, cioè colla relazione a potenza , onde è necessario ricorrere al concetto di potenza acciocchè sia dichiarata pienamente la nozione di atto. E` nondimeno da osservarsi che la nozione di atto involge la relazione con quella di potenza, talora in un modo positivo, e talora in un modo negativo. La involge in un modo positivo , contrapponendosi la potenza all' atto , quasi che la potenza non sia ella stessa un atto. La involge poi in un modo negativo , escludendo la potenza dall' atto, come quando si parla di un atto, a cui non risponde alcuna potenza. Noi abbiamo detto che l' ordine intrinseco dell' ente non si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' esperienza di quegli enti, che cadono nel nostro sentimento, i quali sono i corpi e l' anima propria. Abbiamo quindi posta la nostra attenzione su questi enti per conoscerne l' intrinseco loro ordine, ovvero come essi siano internamente costruiti e quasi organati. Noi rilevammo, da questa attenta osservazione, che ogni ente ci presenta una unità, ma che la mente in questo uno discerne più elementi con tale ordine fra loro, che taluno si concepisce anteriormente a tal altro, di modo che questo non si può pensare esistente se non insieme con quello che nell' ordine logico lo precede; onde questo secondo si dice che esiste nel primo e pel primo. Il primo poi di tutti, che si può concepire da sè innanzi agli altri, si dice che contiene gli altri, li sorregge e li fa esistere; e a lui si dà il nome di sostanza . Ma fra quegli elementi (che diciamo anche entità) non tutti e in egual modo sono necessari a pensare l' ente, e a denominarlo con un nome sostantivo. Quegli elementi o entità, che possono variare senza toglierci il concetto dell' ente, e senza aver bisogno di mutare all' ente il nome sostantivo che gli abbiamo dato, furono da noi chiamati forme accidentali o accidenti . Gli accidenti dunque sono certe attualità o entità non necessarie al concetto dell' ente, le quali però lo perfezionano; ovvero sono le privazioni di tali attualità o entità, che soggiacciono a variazioni. Ma anche queste attualità accidentali non si possono concepire senza la sostanza e la forma sostanziale dell' ente, onde si dice che esistono nella sostanza e per la sostanza. Di qui avviene che si possa concepire l' ente, ora fornito di queste attualità, ed ora privo di esse. Quando noi concepiamo l' ente privo di tali attualità, allora noi vediamo ad un tempo che egli può averle, e che, avendole, rimane lo stesso ente; e questo è considerare l' ente come una potenza . Diciamo ancora che quelle attualità esistono nell' ente in potenza e non in atto, volendo con ciò significare che quell' ente è suscettivo di tali attualità, benchè non le abbia. La potenza adunque è quella relazione, che la mente concepisce in un ente colle sue attualità accidentali, o colle variazioni e privazioni di esse. Dal quale concetto scaturiscono più conseguenze. E in primo luogo si scorge che non vi può essere potenza, la quale sia mera potenza senza alcun atto, poichè la potenzialità d' un ente suppone sempre l' ente, e quindi l' atto ond' egli esiste come sostanza e come forma sostanziale. In secondo luogo si vede che l' atto precede, assolutamente parlando, alla potenza, giacchè la sostanza è un primo atto, e la forma sostanziale ne è la sua perfezione necessaria a costituirlo; e la potenza non è, come dicevamo, se non la relazione che concepisce la mente fra quel primo atto e gli atti accidentali, e loro variazioni e privazioni. In terzo luogo è manifesto che ogni potenza è congiunta ad un atto, e che non forma un ente diverso da quello dell' atto a cui aderisce. All' incontro gli atti possono dipendere e ricevere la loro esistenza da altri atti a loro precedenti, in modo che questi atti precedenti costituiscano enti diversi. Di che si scorge perchè S. Tommaso con molta acutezza insegni che [...OMISSIS...] (1). Ora, se noi seguitiamo a considerare l' interna costruzione degli enti, che cadono sotto la nostra esperienza, facilmente conosceremo che le potenzialità, di cui parliamo, hanno tre modi; di che nasce la divisione delle potenze in tre classi. Poichè talora vediamo che un ente può riceverne in sè un altro senza confondersi con lui, come, a ragion d' esempio, gli oggetti conosciuti sono nell' anima che li conosce; e questa potenzialità dà luogo ad una classe, che chiameremo di potenze recettive (2). Talora un ente, ricevendo l' azione d' un altro ente, ne rimane in qualche cosa modificato, e questa sua passività dà luogo ad un' altra classe, quella di potenze passive (1). Finalmente l' ente stesso può porre degli atti che gli sono accidentali, e così gli si attribuisce quella relazione, che noi chiamiamo potenze attive . Ben si noti che tutto ciò che si dice degli atti in potenza, si dice, in senso contrario, anche della loro privazione, onde il poter essere privato di tali attualità prende forma di potenze negative . Dappertutto dove vi è una sostanza (unita all' idea), vi è un ente, perchè la sostanza è il primo atto che concepiamo, il quale fa sussistere gli altri nel modo detto. Ora le sostanze, e conseguentemente gli enti, furono da noi distinti in due classi, chiamate degli enti7principio e degli enti termine . Gli enti7termine sono quelli che non si concepiscono come senzienti; tale è la materia. Gli enti7principio sono quelli che si concepiscono come senzienti; tale è l' anima e tutte le intelligenze. Tanto gli enti7principio, quanto gli enti7termine sono sostanze, perchè si concepisce in essi un primo atto, pel quale esistono tutti gli altri atti (attivi e passivi) in essi discernibili col pensiero. Questi atti distinti (attivi e passivi) dalla sostanza, altri sono necessari (forme sostanziali), altri accidentali (forme accidentali). Essendovi dunque tanto negli enti7principio, quanto negli enti7termine atti accidentali, si distingue in essi la potenza dall' atto . Di più possono cadere, tanto in enti che appartengono alla classe degli enti7principio, quanto in enti che appartengono alla classe di enti7termine, delle potenze ricettive, attive e passive; e quindi possono soggiacere ad uno sviluppo, cioè a modificazioni e attualità che li perfezionino, come pure, al contrario, che li deteriorino (privazioni, potenze negative). Ma è da osservarsi che l' ente7principio conserva la sua natura di principio in tutto il suo sviluppo; e parimente l' ente7termine conserva la sua natura di termine in tutto il suo sviluppo, poichè l' essere principio o termine appartiene alla sua essenza, che non può variare senza cessare di essere quell' ente che era prima, e divenirne un altro. Dalle cose dette apparisce manifesto come anche nell' anima umana, oltre l' atto , vi sia la potenza . Anzi, dandosi in essa molti atti accidentali, conviene che molte sieno le potenze, che ad essi si riferiscono. Le quali potenze dovendo noi trar fuori e diligentemente descrivere, come ci siamo proposti a principio, ci conviene prima d' ogni altra cosa investigare in che modo nell' anima sì gli atti che le potenze possano essere contenute. Gravissima e difficile questione, come sono tutte quelle che considerano l' interna costruzione dell' ente, si trova esser questa: « come gli atti accidentali sieno contenuti potenzialmente nell' ente ». Conviene anche qui che noi cominciamo dalla lunga. In prima, si rammenti che, quando noi parliamo di un ente per riconoscerne la natura e l' interna costituzione, l' ente, di cui parliamo, è quello che esiste innanzi alla mente nostra, e non alcun altro; poichè se non l' avessimo concepito, non potremmo riflettere su di lui, nè parlarne; chè altra cosa è l' esistenza d' un ente non concepito, ed altra l' esistenza d' un ente concepito, essendovi in questo secondo di più la concezione nostra, l' opera del nostro spirito. In secondo luogo si rammenti ancora che noi conosciamo in diversa guisa l' ente e il modo dell' ente, ossia il suo ordine intrinseco. Poichè, come abbiamo detto, l' ente lo conosciamo per un naturale intuito; il suo ordine intrinseco poi lo raccogliamo a posteriori, dall' esperienza, percependone la realità. In terzo luogo si avverta bene alla regola, non mai abbastanza ripetuta, colla quale si distingue ciò che v' è di oggettivo e ciò che v' è di soggettivo nell' ente da noi percepito, la quale si è: « tutto ciò che riguarda l' ente, e che è somministrato dall' intuito, è oggettivo essenzialmente; e tutto ciò che riguarda l' ordine intrinseco dell' ente, e ci viene dall' esperienza, è soggettivo ». Il quale principio si potrebbe fraintendere; lo si fraintenderebbe, se si volesse inferirne che tutto ciò che è soggettivo nel nostro conoscere fosse falso; poichè in tal caso niente vi sarebbe più di vero intorno al soggetto. All' incontro, tutto ciò che sappiamo del soggetto e sue pertinenze è vero, allorquando non pretendiamo che il soggetto e sue pertinenze siano l' oggetto. E così ciò che sappiamo soggettivamente è pur vero, se noi l' affermiamo soggettivamente, come sarebbe falso, se noi affermassimo a noi stessi di conoscerlo oggettivamente. E tuttavia il vero nasce sempre dall' oggetto come da sua causa formale, a quel modo che dall' oggetto nasce ogni cognizione, sì fattamente che il solo soggetto, e tutto ciò che è soggettivo, non sarebbe neppure conosciuto, nè come soggetto, nè come soggettivo, senza il lume dell' oggetto. A ragion d' esempio, quando dico: « Io soggetto esisto », allora affermo l' esistenza del soggetto Io. Ora l' esistenza è oggettiva, benchè la cosa cui ella si riferisce sia il soggetto; e ciò vale tanto rispetto all' esistenza possibile, quanto rispetto all' esistenza reale. Che se io non annettessi al soggetto nè l' esistenza possibile, nè la reale, il soggetto rimarrebbe cosa sconosciuta al tutto, e quindi per me essere intelligente non esisterebbe in modo alcuno. Di che procede questa conseguenza, che non solo a noi uomini, ma ad ogni altra intelligenza altresì, esiste la realità solamente in tanto, in quanto è conosciuta; poichè l' atto stesso del conoscere è quello che aggiunge al reale soggettivo l' idea, cioè l' essere oggettivo che si chiama esistenza, e quindi altresì egli è quello che vi aggiunge la verità, perchè la verità non è altro se non ciò che è (1). Premesse queste cose, veniamo alla nostra questione: « in che modo gli atti accidentali sieno contenuti virtualmente nell' essenza dell' anima ». E` chiaro che è una di quelle questioni che riguardano l' ordine intrinseco dell' ente, e che perciò non si possono sciogliere se non ricorrendo all' esperienza del fatto. Tutto ciò che si può dire di più, riducesi a dimostrare che nel fatto non vi è contraddizione o assurdo; poichè questo appunto avviene talora, che il fatto ci apparisca a prima giunta pregno di elementi ripugnanti fra loro. Nel caso nostro l' apparente contraddizione non manca, e sta in questo che, mentre l' anima da una parte è un ente solo e semplice, dall' altra presenta pluralità di atti e di potenze. A quello che noi abbiamo detto su di ciò nella prima parte, è ora d' aggiungere altre considerazioni. Lume ci viene in sì arduo argomento dal principio ontologico annunziato, che « le sostanze, di cui si compone l' universo, stanno tutte coerenti e costipate insieme, così fattamente che l' una sorregge l' altra, e la fa essere quasi informandola, senza però che niuna di esse perda la propria distinzione e si confonda coll' altra ». Di che nasce una legge di continuità fra le sostanze, tale però che non distrugge la loro specifica distinzione. Ne deriva altresì quello che abbiamo chiamato sintesismo della natura. A ragion d' esempio, la natura dell' anima sensitiva non si può concepire senza ammettervi un esteso, che è il sentito o il sensifero, onde ci viene il concetto di corpo. Eppure l' anima è sostanza al tutto diversa dall' esteso e dal corpo. Alla sua volta il sentito esteso non si può intendere, nè concepire, se non si suppone che egli esista nel semplice, onde riceve l' unità; eppure di nuovo l' esteso corporeo è sostanza al tutto diversa dall' anima. Sono dunque due sostanze, l' una delle quali sorregge e fa esistere l' altra, niuna delle quali si concepisce senza l' altra; eppure l' una è dall' altra differentissima. Se noi parliamo dell' anima razionale troviamo la stessa legge. E` impossibile concepire un' intelligenza senza un oggetto primitivo (1). Ora l' oggetto essenziale dell' intelligenza è l' essere in universale, al quale non conviene a dir vero la denominazione di sostanza, perchè è più di sostanza. Quindi fra la sostanza dell' anima razionale e l' oggetto che la informa vi è una infinita distanza di natura, sicchè si rimangono cose al tutto inconfusibili; ad ogni modo l' anima razionale non è se non in virtù di quest' altra cosa, che non è lei, e che in lei a suo modo dimora; e l' essere in universale non di meno, benchè si possa intendere senza l' anima umana od altra intelligenza contingente, tuttavia, essendo essenzialmente intelligibile, l' intelligibilità stessa, non si può concepire se non in quanto per l' essenza sua propria è inteso; onde deducemmo a priori l' esistenza di Dio, cioè d' una realità intelligente, che non ha natura diversa dallo stesso essere intelligibile, anche se quella si distingua da questo per intima relazione (2). Se noi dunque consideriamo questa coerenza ontologica delle sostanze, onde risulta il creato, riceverà lume maggiore quanto abbiamo detto, venendocene la seguente classificazione: Talora due sostanze si sorreggono e si attuano reciprocamente, in modo che una di esse ha ragione di principio, la quale si dice sostanza7principio, e l' altra ha ragione di solo termine, la quale si dice sostanza7termine. Che queste sieno due specie di sostanze diverse apparisce da ciò, che l' idea prima di ciascuna di esse è non solo diversa dall' idea prima dell' altra, con cui tiene sintetica relazione, ma ben anche opposta; il che si riscontra nelle due sostanze di anima e di corpo. Talora la sostanza è sorretta ed attuata da un termine, che, come dicevamo, non è propriamente sostanza; il che si avvera nell' anima intellettiva, il cui termine è l' essere ideale, per essenza oggetto. Ora nella concezione dell' essere noi non troviamo già un atto diverso da lui, anzi chiaramente intendiamo che l' atto, con cui è l' essere, non può essere che l' essere stesso; quindi in questa elevata regione cessa quella comunicazione di più sostanze che, quasi facendo l' una puntello all' altra, si sorreggono a vicenda, ed altro non v' è che l' essere a tutte le sostanze superiore. L' anima intellettiva, adunque, s' appoggia a questo essere, e così appoggiata, per così dire, ella esiste. Dalla quale ispezione, per noi fatta nell' interno delle sostanze contingenti affine di scorgervi l' ordine della loro costituzione, ci scaturisce un' altra classificazione di esse, che rientra nella prima, ma che è degna di essere distintamente accennata. Alcune sono extrasoggettive, non hanno che un' esistenza relativa ad altre sostanze finite. Il che si riconosce vero, qualora tengasi presente che noi dobbiamo parlare della sostanza secondo quel concetto che ce ne presta la percezione, al quale s' appoggia l' imposizione dei vocaboli di cui usiamo. Ora nel concetto della sostanza corporea o materiale, sostanza7termine, escludendosi qualunque principio sensitivo, rimane escluso anche l' atto di una soggettiva e propria esistenza, e non rimane a tale sostanza che l' esistenza relativa ad un principio senziente, non percependosi ella che come sentita. E` solo l' intendimento nostro che le aggiunge l' atto dell' esistere in modo assoluto; ma già notammo che lo fa, perchè altrimenti non potrebbe concepirla; nè intende egli con ciò di mutarne la natura o di aggiungervi cosa straniera; sicchè l' atto dell' esistenza subbiettiva, che vi deve certamente essere, non è più cosa che appartenga alla realità corporea da noi percepita, ma è supposto virtualmente dal pensiero per necessità del conoscere, è un atto non specificato e non specificante, sul quale riflettendo poi, si può indurre che appartenga a qualche altro ente fuori del corpo, in una parola a ciò che abbiamo chiamato principio corporeo. Alcune sono soggetti perché sono principŒ; e il principio, quantunque abbia col termine suo una relazione sintetica, tuttavia si concepisce avanti il termine, e quindi la sua esistenza reale non è fisicamente relativa a cose precedenti a lui, ma solo a cose che a lui conseguono. Tali sono le anime sensitive. Tuttavia queste non hanno ancora una suità, ad esse non compete il sè , e però neppure propriamente il suo , nè loro si addice in proprio alcun pronome personale. Ma l' uomo pensa e parla di loro, come avessero un' esistenza in sè, e loro applica i pronomi personali. Il che egli fa di nuovo, non a fine di trasnaturarle, ma di concepirle; non vuole con ciò attribuir loro la propria suità, ma quel modo oggettivo e soggettivo di essere, senza il quale egli nulla concepisce. Perocchè questo modo suppone che « l' ente abbia un atto suo proprio, sia in sè stesso qualche cosa, e però abbia un sè , una personalità ». Infatti non si dà essere completo, se non è persona; la persona è condizione ontologica dell' essere. Onde le anime meramente sensitive sono soggetti, ma soggetti incompiuti; e però non hanno tutta quella realità, che è necessaria a costituire un ente reale. Alcune finalmente sono soggetti perfetti, perchè hanno il sè , e quindi si può a tutta ragione dire di esse che hanno un' esistenza in sè; queste sono le sostanze intellettive, le quali sono enti7principio e non dipendono da niuna sostanza contingente, nè antecedente, nè conseguente ad esse; ma dipendono soltanto dall' essere eterno e divino. Queste sole hanno la suità, e possono dire Io a quel modo che abbiamo spiegato; ed esistendo un Io, esiste una vera causa, onde sono veri agenti, dotati di libertà. L' atto, con cui queste sostanze esistono, è indipendente da ogni sostanza creata; esse possono quindi sovrastare a tutte, ed operare in modo da non essere necessitate dall' azione di alcuna creatura; intendasi sempre in quanto sono pure intelligenze, e non legate all' essere sensitivo o corporeo, come accade dell' uomo, essere misto di sensitività corporea e d' intelligenza. Classificate così le sostanze secondo l' intrinseco loro ordine, giusta il quale sono costruite, noi possiamo finalmente riprendere la questione propostaci: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza dell' anima umana », la quale dipende dall' altra più generale: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza delle sostanze ». E la risposta generale a questa questione nasce dalle cose dette, e si può esprimere così: « Posciachè le diverse sostanze contingenti sono reciprocamente così unite che l' una sorregge l' altra e la fa esistere, basta concepire una mutazione in questa unione ontologica, acciocchè si concepisca altresì come le sostanze debbano riuscire variamente modificate, e queste modificazioni sono gli atti accidentali di esse ». Gli atti accidentali adunque delle sostanze dipendono dalle connessioni ontologiche , che esse hanno fra loro, e quindi si può dire che siano ad esse estrinseci. In questo modo l' unità della sostanza è mantenuta nella moltiplicità e varietà dei suoi atti, e così è sciolto uno dei più difficili problemi dell' Ontologia. Perocchè tale è la natura di quell' atto, che si chiama sostanza contingente , che egli si congiunge ad un' altra sostanza, e per questa congiunzione sussiste. Onde, quantunque non si ponga alcuna mutazione nell' atto stesso della sostanza in sè considerato, tuttavia se si cangia il contatto ontologico che ella ha con ciò che è diverso da lei, ella acquista un altro modo, viene ad essere attuata diversamente. Sicchè, quantunque il cangiamento non istia nelle sostanze, ma nella diversa loro congiunzione ontologica, tuttavia ne risulta un cangiamento nella sostanza, in quanto che la sua attualità dipende dal modo di quella congiunzione. Vediamo adunque in quante maniere si può concepire variata tale congiunzione. In prima si può pensare tale congiunzione affatto distrutta; e in tale supposto si annullano le stesse sostanze sintesizzanti. Così se noi separiamo il senziente dal sentito, si annulla l' anima sensitiva, poichè non è più anima sensitiva dove è spento affatto ogni sentimento ed ogni possibilità di sentire. Se noi separiamo il sentito dal senziente, si annulla la sostanza corporea e materiale; poichè non troviamo più nè estensione, nè forza sensifera, nè forza esterna, che immuta la sensifera, nè qualità sensibili, che sono gli elementi costituenti il concetto di corpo. Se noi separiamo l' anima intellettiva dall' essere ideale, quella già non è più, perchè ciò che nulla affatto intende non è in alcun modo anima intellettiva. Ma se noi separiamo l' essere ideale dall' anima, noi intendiamo tuttavia che egli deve essere inteso per essenza, e quindi non si annulla, perchè è indipendente dall' anima e da ogni altra sostanza mondiale, ma suppone un reale che abbia con esso lui un' identica esistenza. In secondo luogo possiamo concepire che la sostanza congiunta ad un' altra, a cui dà l' attualità, si cangi, o venendole sostituita un' altra, o venendole aggiunta un' altra, ovvero congiungendosi con lei un' altra parte sostanziale, come accade trattandosi di materie le cui parti sono sostanze numericamente separate, benchè della stessa natura. Il primo di questi casi è impossibile; perocchè se la sostanza che dà l' attualità ad un' altra, si cangiasse interamente, anche la sostanza che riceve l' attualità non sarebbe più, ricevendo ella la sua natura e formale esistenza dalla congiunzione con quella. Così se l' anima non avesse per suo termine il sentito corporeo, ma un essere intelligente, non sarebbe più anima. Il secondo caso, in cui trattasi che ad una sostanza se ne aggiunga un' altra della stessa specie, è possibile, ed è possibile in più modi. Qui trattasi di sostanza corporea e materiale, e però di porzioni diverse della stessa sostanza. Si considerino le diverse specie di animali bruti. Propriamente parlando, tutti gli animali non intelligenti costituiscono una sola specie, sono sostanze specificamente eguali, concependosi in tutti un primo atto eguale di esistere, che consiste nell' unione del principio senziente col sentito armonicamente eccitato. Ora gli animali appariscono di tante maniere diverse, perchè varia la quantità del sentito, dell' eccitamento e dell' armonia, colla quale il principio senziente è eccitato, che sono i tre elementi della sostanzialità degli animali. Questa variazione adunque nella connessione fra le due sostanze (anima e corpo) non cangia propriamente la sostanza, ma la mette più o meno in atto, onde si hanno animali più o meno perfetti, senza tuttavia che si possa dire che queste varietà sieno accidenti passeggieri, perchè si è cangiato sostanzialmente e stabilmente il sentito; onde il senso comune le considera come specie diverse. Che se si volessero chiamare varietà, converrebbe in tal caso distinguere due specie di varietà, chiamando le prime varietà costitutive , e le seconde consecutive o passeggiere, che sono accidenti rispetto alle prime. Se ad un animale si aggiungesse un senso nuovo (il che è possibile a concepirsi negli animali imperfetti, benchè non credo che si possa affermare possibile nei perfetti, se parlasi di sensi corporei), in tal caso seguirebbe in lui una mutazione costitutiva e stabile a cagione dell' unione d' un nuovo sentito, il quale differirebbe dai precedenti non pure per la quantità, ma ben anche per la qualità della congiunzione. Dalla quantità e dalla qualità, che può variare nelle sostanze congiunte ontologicamente ad altre, nasce altresì il concetto di quelle che si chiamano parti integrali d' un tutto; poichè l' uomo, a cui fu recisa una gamba, sofferse un cangiamento costitutivo e stabile, in quanto che non gli aderisce più una parte di quella sostanza, che a lui doveva aderire secondo il suo tipo ideale; eppure l' essenza dell' uomo rimase intatta, poichè non si cangiò nulla di ciò che cade nell' idea prima di uomo, cangiò bensì la congiunzione ontologica per la quale l' uomo sussiste. Finalmente la congiunzione ontologica talora non muta in modo che l' una delle due sostanze si cangi stabilmente, ma muta solo in questo, che l' una si unisce più o meno, o in diversa guisa alla sua compagna, e ciò per modo passeggiero e variabile, onde nascono quei cangiamenti accidentali, che sono gli accidenti comuni, a cui le sostanze create soggiacciono. Applicando tutto ciò all' anima umana, due sono gli elementi che la informano, il sentito corporeo (sostanza corporea), in quanto l' anima è sensitiva, e l' essere ideale, in quanto è intellettiva. Che l' anima umana sia sensitiva in un modo perfetto risultante dall' organismo umano, questa sembra una predisposizione necessaria all' intelligenza, come abbiamo veduto. Ma l' organismo umano che è il sentito, benchè debba avere una data conformazione acciocchè l' anima sia sensitiva al modo umano, cioè a quel modo al quale si aggiunge l' intelligenza, tuttavia quella conformazione non è tanto determinata che non possa menomamente variare. Quindi le diversità del sesso, delle età, dei temperamenti, dello stato diverso di salute, della maggiore o minore perfezione dell' organismo, ecc., le quali diversità: 1) parte sono stabili, e appartenenti perciò alle varietà o accidenti costitutivi secondo natura , come il sesso; 2) parte sono mutazioni di parti integrali , come accade nei mostri, a cui manca qualche parte o qualche parte si è aggiunta; e questa è un' altra classe di varietà o accidenti costitutivi contro natura; 3) parte non sono che di qualità , come la maggiore o minore robustezza, o il colore nero o bianco della carnagione. Ora poi, essendo la costituzione animale una predisposizione necessaria alla razionalità, in quanto che l' uomo riceve dall' animalità la materia della cognizione e le segnature secondo le quali ragiona, e quindi anche l' attitudine a ragionare con più o meno di perfezione, dipendente dalla facilità di avere, richiamare, mantenere, o mescolare a sua voglia le segnature sensibili delle cose; risultano nella facoltà ragionatrice ed affettrice altrettante varietà, quante sono le varietà indicate spettanti all' animalità umana. Che se poi l' essere, dall' uomo intuìto, acquistasse una realità, il suo stato intellettivo si cangerebbe sostanzialmente; ed è il passaggio che fa l' uomo dallo stato naturale allo stato soprannaturale; il quale argomento appartiene alla Teologia. A questo cangiamento però, risguardante la forma soprasostanziale dell' uomo, seguita un cangiamento relativo nella sua facoltà ragionante e nello stesso suo corpo, per l' attività che ha la parte intellettiva sulla parte animale, di che parlammo. Ma queste varietà secondo, o contro, o sopra natura, integrali o qualificative, che in qualche senso accidentali si dicono, cioè nel senso che non si racchiudono nell' idea di uomo, riguardano tutte varietà di stato , e non sono atti transeunti , dei quali noi dobbiamo parlare. La materia corporea, avendo ragione di termine, è necessariamente inerte; perciò non si avvera rispetto a lei che vi sia passaggio dalla potenza all' atto; ma tutte le mutazioni di lei procedono dal di fuori; ella è meramente passiva; onde non ha che atti passivi, che non sono propriamente atti, ma passioni. Le passioni poi dell' ente corporeo riguardano sempre la quantità, e quindi cagionano mutamento nella pluralità, nelle forme, nelle località dei corpi, ecc.. L' essere sensitivo pare che abbia degli atti accidentali, e così si possono chiamare. Ma se si considera attentamente come egli è costituito, si scorge che questi atti non hanno la loro ragione sufficiente in lui, ma nella sostanza che lo sorregge e lo attua, che è la sostanza corporea. L' essere egli adunque sorretto ed attuato diversamente, è ciò che cangia il modo accidentale della sua attività. Poichè egli è un' attività, giacchè, come vedemmo, è un ente7principio. Ma questa attività è sostenuta, informata ed attuata dal suo termine, cioè dal sentito; onde al cangiarsi di questo, quell' attività diventa maggiore o minore, e spiegasi in diverse guise, ma senza che muti la legge o il tema della medesima. A ragion d' esempio, se noi teniamo aperti gli occhi sopra una superficie, sulla quale trapassino diverse figure variamente colorate e disposte, la ragione della mutazione successiva giace al tutto fuori dell' occhio; l' attività dell' occhio inteso a riguardare rimane la medesima, benchè cangino quelle rappresentazioni; l' occhio vede sempre colla stessa virtù, collo stesso atto; pur egli pare che cangi l' atto visivo, ma non cangia da parte sua, sì bene è il termine che cangia. E tuttavia questo termine dell' atto dello sguardo è necessario al vedere, ed è ciò che fa che l' occhio veda attuando la visione. Onde secondo il cangiare della superficie veduta, cangia di conseguente anche l' atto dell' occhio, ma restando immutabile il suo tema, cioè il principio veggente e la legge del vederla. Ora è indubitato che se sulla superficie rimirata dall' occhio diminuisce il numero delle figure e s' impiccioliscono, l' occhio vede meno cose di prima, e se cessano affatto quelle rappresentazioni, l' occhio non vede più che una superficie uniforme. Ma se questa superficie visibile all' occhio andasse restringendosi, anche l' atto del vedere diminuirebbe, e se la superficie visibile sparisse del tutto, l' atto del vedere insieme con lei cesserebbe, non rimanendo più visione alcuna. Il che nasce perchè l' atto visivo non dipende unicamente da sè, ma è condizionato al suo termine, onde l' attività visiva non aumenta, nè cala, nè cessa per sua propria deficienza, ma per deficienza del termine che l' attua ed informa. Così ogni principio sensitivo, risultando da questa duplicità di sostanze, cessa col cessare della sostanza che gli presta il servigio di forma e di termine, e muta col mutare di questa sostanza, non che egli muti o cessi per propria deficienza, o per ispontaneo accrescimento e diminuzione di attività. Nè si opponga che da ciò verrebbe la conseguenza che il senziente fosse unicamente passivo, e perciò che rimarrebbero inesplicati tutti quei fenomeni animali, dove si manifesta l' azione del principio sensitivo sul corpo, come, per esempio, la circolazione del sangue; perocchè tutti questi movimenti hanno la loro ragione appunto nell' attività primitiva del principio senziente, la quale attività è sempre agente sul suo termine, secondo la legge stessa e secondo lo stesso tema. Onde se un' irritazione, poniamo un veemente dolore, cagiona aumento di circolazione, il che significa, secondo noi, crescimento di azione nel principio senziente, non nasce già questo perchè il principio senziente abbia da sè medesimo aumentata la propria attività, ma unicamente perchè l' attività, che egli aveva prima, trovò un altro termine che maggiormente l' attuò ed informò, e quindi potè spiegarsi a quel modo. Così se dinnanzi ai raggi del sole io pongo qualche corpo opaco, e poi vi sostituisco uno diafano, i raggi del sole percuotono il corpo loro opposto colla stessa loro legge, colla stessa celerità e veemenza; ma nel primo caso s' arrestano e danno indietro, e nell' altro trapassano, non perchè essi stessi abbiano modificato la propria attività, ma perchè la loro propria attività nel modo dello spiegarsi è condizionata a quei corpi di diversa natura, che incontrano nella loro via. Gli atti accidentali dell' uomo sono sensitivi ed intellettivi . E in quanto sono sensitivi, si spiegano al modo detto. In quanto poi sono intellettivi, non si possono spiegare se non ricorrendo al termine loro proprio, che è l' idea che attua l' attività intellettiva, l' oggetto, l' essere in universale. L' essere in universale è semplicissimo e per sè stesso immutabile; onde l' intelletto, come tale, è pure immutabile nell' ordine della natura, e non suscettibile che di una mutazione soprannaturale, quando l' essere ideale gli si realizza dinnanzi; il che non accade che nell' ordine della grazia e della gloria, fatto superiore all' umana filosofia. E` vero che si può dubitare se lo stesso essere ideale risplenda di egual luce a tutti gli intelletti umani; ad ogni modo io inclinerei a dedurre la primitiva diversità degli ingegni dall' ordine razionale, anzichè dal solo ordine intellettivo. L' ordine razionale comincia colla percezione fondamentale e il suo sviluppo, tostochè l' uomo percepisce le realità esteriori nell' idealità. Gli atti delle percezioni dipendono adunque dalle realità, che cadono nel suo sentimento; e quindi si spiegano anch' essi ricorrendo alla varietà del termine della percezione e all' attività razionale primitiva, per la quale l' anima è sempre tesa e per così dire inarcata verso il termine percettibile, che gli si presenta nel sentimento, senza bisogno di riporre alcuna mutazione spontanea cominciante in questa stessa attività primitiva. I bisogni poi determinano la riflessione dell' uomo, e questi atti riflessi rimangono spiegati allo stesso modo, perocchè i bisogni si fanno sentire dapprima nell' animalità. Solamente quando l' uomo è giunto all' uso della propria libertà (1), si presenta in lui un genere di atti affatto nuovo, la cui spiegazione sembra richiedere che l' agente si muova siffattamente da sè, che il passare dalla potenza all' atto non dipenda dal termine, ma dal principio operante. E qui sta appunto la difficoltà maggiore, nello spiegare cioè come quegli atti accidentali non tolgano l' unità del principio agente. La quale difficoltà è tanta che colui, che pur giunge ad intendere lo scioglimento di questa specie di mistero filosofico, trova somma difficoltà ad aprire il suo pensiero in parole per modo da farsi altrui ben intendere. Il che tuttavia noi tenteremo di fare. In prima si ricordi che la libertà (parliamo di libertà bilaterale) è la facoltà di eleggere fra due volizioni (2). Di poi si consideri come non vi ha luogo a vera libertà bilaterale se non nell' ordine morale, quando si tratta di eleggere fra una volizione consentanea alla legge e la sua contraria; perocchè fuori di questo caso non vi è ragione che possa indurre l' uomo a posporre il bene al male soggettivo, o il maggior bene al minore bene soggettivo (3). Ma qualora si tratta di porre a confronto l' ordine soggettivo coll' ordine oggettivo7morale, allora s' intende come possa essere che l' uomo anteponga il minor bene oggettivo7morale al maggiore fra i beni soggettivi; ovvero anche faccia il contrario, anteponendo il bene soggettivo a qualsivoglia gran bene oggettivo7morale. La ragione di ciò si è che l' ordine soggettivo e l' ordine oggettivo7morale non appartengono alla stessa categoria, nè i gradi loro si possono confrontare o commisurare insieme; onde niente hanno di comune, nè la specie, nè il genere, e però neppure vera somiglianza, nè manco vera analogia. Quindi se si considera il bene morale puramente tale (il quale si scorge nella necessità dell' obbligazione morale), egli non ha forza per sè solo di staccare l' uomo dal bene soggettivo, col quale venisse in collisione, se l' uomo stesso non vi pone della sua forza, e a favor suo non si determina; nel che consiste appunto la libertà. L' ordine morale adunque, ossia l' ideale7morale (la legge), è il termine dell' attività morale, come il bene soggettivo è il termine dell' attività reale. Essendo questi due termini categoricamente distinti, anche le due attività che sorreggono ed attuano, sono categoricamente distinte, e ciascuna di esse varia i suoi atti accidentali secondo le mutazioni del proprio termine. Ma poichè l' anima ha questo doppio termine, ella ha una doppia attività categoricamente distinta, i cui termini non potendosi commisurare insieme, quando vengono in collisione, non possono determinarla a spiegare piuttosto l' una che l' altra, onde ella stessa deve entrare in campo e decidersi; e in questo, per dirlo di nuovo, sta la libertà. Ora tutta la difficoltà consiste nello spiegare come l' anima, essendo unica, abbia queste due attività sì distinte, e possa liberamente aderire piuttosto all' una che all' altra, senza essere da niuna di esse determinata. Ora, che l' anima umana, essendo unica, abbia due termini, non è assurdo, poichè la duplicità sta nei termini e non nel principio; che in lei si suscitino due attività, è conseguente alla duplicità del termine, poichè abbiamo detto che il termine aderente attua il principio a cui aderisce; essendo dunque i termini categoricamente distinti, devono suscitare nell' anima due attività categoricamente distinte. Ma il difficile sta primieramente a spiegare come queste due attività, essendo categoricamente diverse, possono avere un unico principio, cioè l' anima. A tal uopo conviene considerare che le categorie conseguono alle forme dell' essere. Noi abbiamo detto che l' essere identico è in tre forme o modi, cioè nel modo reale, ideale e morale . Nell' essere dunque, nell' unità dell' essere convengono le tre categorie, benchè distinte fra loro assai più che genere da genere, ed incomunicabili. Trovato il nesso, ossia la sede unica delle categorie, dove vi è un' unità semplicissima con una trinità distintissima, si potrà intendere ancora come l' essere, che si comunica all' anima sotto la categoria reale e sotto la morale, possa mantenere nell' anima l' unità e non distruggerla, solo che si concepisca nell' anima anteriormente all' attività reale ed all' attività morale, e contemporaneamente una attività che riguarda l' essere nella sua unità; e questa attività si prova di fatto essere nell' anima, solo considerandosi l' intelligenza che ha per termine l' essere. Poichè, quantunque questa facoltà abbia per termine l' essere sotto la forma ideale, tuttavia ella ha prima ancora per oggetto l' essere puro , non potendosi comunicare colla forma ideale dell' essere senza comunicare coll' essere stesso, che in questa forma si manifesta. Onde anche nell' anima vi è unità e trinità di efficienza, vestigio manifestissimo della divina Trinità. In quanto adunque l' anima comunica coll' essere, ella ha un' unica attività, dove si unificano tutte le altre anche categoricamente distinte, siccome sono le due attività, reale e morale, di cui parlavamo. Non è dunque assurdo che come l' essere, essendo unico e semplicissimo, tuttavia ha tre forme, così l' anima, a cui l' essere si comunica, benchè semplicissima, abbia nell' unità sua tre attività categoricamente distinte. Ma rimane sempre a spiegare come quella attività unica che risponde all' essere, nella quale si unificano le due attività reale e morale, che rispondono alle due categorie dell' essere, possa determinarsi da sè stessa a preferire gli oggetti dell' una agli oggetti dell' altra quando vengono in collisione, per modo che non possa abbracciare gli uni e gli altri ad un tempo. A giungerne a capo (ed è l' intento di tutto il nostro ragionamento), conviene considerare che nell' essere intero, completo, assoluto, le sue forme non possono venir mai in collisione fra loro (1). E come la forma reale ha ragione di principio, la forma ideale di mezzo, e la forma morale di fine, così l' ordine di questo essere è tale, che la forma morale sta alle altre quasi loro compimento e perfezionamento. Quindi anche dove l' essere è partecipato con limitazione, la forma morale ha questo di proprio, che non può mai perdere la ragione di fine e di perfezione, che ne forma il concetto. Qualora dunque ella fosse posposta alle altre, e fatta servire siccome mezzo, o al tutto negletta, vi sarebbe disordine, cioè distruzione dell' ordine intrinseco e naturale dell' essere; vi sarebbe intestina lotta nell' essere medesimo, tendente a distruggerlo, poichè l' essere non può esistere se non coll' ordine suo proprio. Quindi l' anima, o una intelligenza qualunque avente a suo termine l' essere colle sue categorie, deve necessariamente nel suo primo atto serbare quell' ordine che gli somministra l' essere, il quale la sostiene e la attua colla comunicazione di sè stesso. Di che seguita che, qualora l' anima (non guasta ancora) operasse secondo questa sua prima attività così ben ordinata, nelle sue operazioni conserverebbe un ordine del tutto analogo e corrispondente all' ordine dell' essere stesso; e dall' ordine dell' essere sarebbe determinata ad operare con morale perfezione. Si deve dunque supporre che vi sia nell' anima una spontaneità di moralmente operare, cioè di tenersi sempre al bene morale, senza mai sacrificarlo al bene reale. Con ciò si restringe la nostra questione, poichè ella si riduce a spiegare come l' anima possa abbandonare l' ordine morale per correr dietro al bene semplicemente reale o soggettivo, cioè come sia possibile il peccato; perocchè spiegato questo, rimane spiegata altresì la libertà e gli atti suoi accidentali. E` dunque da considerarsi che l' anima, in quanto possiede l' attività reale, è mobilissima, cioè basta qualunque bene e qualunque male, quantunque piccolo egli sia, per determinarla all' operazione (1). E fino a tanto che questa operazione non si oppone all' ordine morale, ella opera secondo la spontaneità propria della sua attività reale. Ma allorquando l' operazione si oppone all' ordine morale, allora vengono in collisione dinnanzi a lei due attività, che la determinano in senso contrario, ciascuna delle quali, se fosse sola, basterebbe a farla operare, ma essendo l' una in opposizione dell' altra, quale vincerà? L' attività morale è superiore in quanto all' eccellenza e all' ampiezza del termine che la produce, poichè il suo termine è l' essere nel suo completamento e nella sua ultima perfezione, la quale abbraccia tutto. Onde se quest' ordine morale operasse nell' anima con quella efficacia di cui sarebbe capace, dovrebbe prodursi una spontaneità sempre mai prevalente. Ma questo ordine, benchè sia il termine dell' anima, non opera su di lei con sì piena efficacia. Quindi è che ella intende bensì la dignità di lui e la necessità assoluta di preferirlo, ma non ritrae indi la forza necessaria a reprimere la spontaneità dell' attività reale. Tuttavia ella può riuscire a ciò, ma ad una condizione, che da sè stessa si unisca più strettamente al termine morale che la informa e la attua, e così cresca la forza salutare di questo termine su di lei, onde ella stessa s' avvigorisca moralmente. Di ciò fare ella ne vede la necessità, come dicemmo; e il vederne la necessità non la determina certamente, ma la avvisa che, se ella vuole, può determinarsi da quella parte; dico se ella vuole, cioè se ella cresce il vigore della sua spontaneità morale con istringersi più intimamente al termine morale, con che riceve aumento di forza (2). Così il vedere la necessità morale , questo speciale termine della sua intelligenza, è il fonte della sua libertà, perchè sa per esso di potere e di dovere, benchè non sia determinata a volere. L' intelligenza adunque è il fonte della libertà, poichè l' intelligenza rappresenta all' anima l' ordine morale e la sua necessità suprema; le rappresenta che da quest' ordine le può venire quella forza che non ha, e che dipende da lei l' avere. Come dunque le altre attività dell' anima si determinano ai loro atti dagli oggetti o termini loro, che le attuano e le sorreggono, perchè tali oggetti sono determinati, così la libertà è determinata dal suo oggetto; ma questo oggetto, che è quello dell' intelligenza, abbracciando le due parti opposte, il reale e il morale, non la determina all' uno di essi; ma trovando l' anima in questo oggetto la possibilità di far prevalere il morale, perchè gliene viene rivelata l' eccellenza suprema, ed anche la necessità, e finalmente la potenza illimitatamente attuabile, ella rimane capace di determinarsi da sè stessa dalla parte migliore, o di cedere alla peggiore. Concludiamo: ogni sostanza reale, quando per la congiunzione ontologica sostiene ed attua un' altra sostanza, le dà un' attività determinata; ma l' essere ideale, congiunto ontologicamente con un' altra sostanza (l' anima), non le dà un' attività determinata, ma solo la potenza di determinarsi. Ma le potenze, che si rinvengono nell' anima, sono esse distinte dall' essenza dell' anima? In primo luogo si distingua fra la potenzialità generale dell' anima e le potenze speciali . Ora noi dobbiamo parlare della potenzialità dell' anima in genere, e cercare come ella si distingua dall' essenza dell' anima; perocchè della distinzione delle potenze fra loro parleremo nei libri seguenti. La potenzialità dunque dell' anima si concepisce dai filosofi in due modi: I - Come il principio dell' anima separato dal suo termine; e questa nozione rappresenta al pensiero un principio informe, il quale non è più anima, nè cosa dell' anima, perchè non ha alcun atto proprio dell' anima, neppur quello di suo principio, chè non è più se si stacca dal suo termine. Che se questa potenzialità si considera in relazione col suo termine, e non da lui separata, in tal caso cessa di essere potenzialità, perchè è atto primo, è l' anima (1). II - O come il principio dell' anima informato dal suo termine, ma da un termine, come già dicemmo, variabile . - Ora questa variabilità, che è la causa delle potenzialità, spetta al termine dell' anima e non al principio, che è l' anima stessa, la quale dal suo termine viene diversamente attuata. Onde questa, che è la vera potenzialità, rimane distinta dall' essenza dell' anima, la quale si potrebbe concepire anche se il termine non variasse giammai. A ragion d' esempio, non si può concepire anima sensitiva senza un sentito , ma questo sentito può essere vario in mille modi, e variare da un modo all' altro. Quindi ciò che si esige a concepire l' anima (a pensare la sua essenza) è un esteso sentito, ma senza bisogno di determinare la qualità di questo sentito esteso. Nel concetto dell' anima adunque, in cui si pensa l' essenza e non più, rimane indeterminato il sentito. In quanto adunque l' anima ha un sentito esteso qualunque, ella si concepisce nella sua essenza; in quanto l' anima può avere l' uno o l' altro sentito, si concepisce nella sua potenzialità . La potenzialità dunque è diversa dall' essenza dell' anima. Lo stesso ragionamento si può fare dell' oggetto, che è termine dell' anima intellettiva, solamente che l' anima intellettiva ha un oggetto determinato, che è l' essere in universale; e la variabilità non cade in lui propriamente, come quello che è immutabile, ma nelle realità, che in lui e per lui si conoscono (2). Ma perchè i termini dell' anima sono variabili? La ragione si è perchè i termini suoi sono limitati; giacchè in ogni limitato si può concepire variazione, e più e meno. Se all' incontro esistesse un ente, il cui termine fosse tutto l' essere e conseguentemente tutto l' ordine dell' essere, questo ente non avrebbe potenzialità di sorte alcuna, ma sarebbe puro atto. Perocchè tutto l' essere con tutto il suo ordine è perfettamente uno ed immutabile; il che si prova all' uso dei matematici, per l' assurdo che ne verrebbe dal supporre il contrario. Infatti supponiamo che nascesse variazione nel tutto. Ogni variazione appartiene all' ordine dell' essere. Dunque il termine dell' ente non era tutto l' essere con tutto il suo ordine, contro il supposto; perocchè dall' ordine mancava quella variazione, che ne è seguita. Quindi Iddio solo di necessità non può avere alcuna potenzialità, ma egli è atto puro; perocchè il suo termine è tutto l' essere con tutto l' ordine dell' essere, perocchè è sè stesso. Quindi ancora ciò che si concepisce in Dio come potenza, non può distinguersi dalla sua essenza senza errore. Deriva ancora da ciò quest' altra conseguenza, che se si concepisce una potenza che sia la stessa essenza dell' essere, anche gli atti, che si attribuiscono a questa potenza, debbono identificarsi coll' essenza dell' essere, dovendo essere un atto solo, che abbia per termine tutto l' essere nella sua perfetta unità e semplicità (1). E tuttavia l' essenza dell' anima è il fonte delle sue potenze, poichè consistendo l' essenza dell' anima nella natura di principio , il quale viene attuato dal suo termine, è chiaro che è il principio , cioè l' anima , che, attuata diversamente dai diversi termini, fa tutti quei diversi generi di atti, a cui si riferiscono le potenze; onde l' anima è dichiarata dal sommo filosofo italiano il principio degli atti, ma il principio remoto, laddove le potenze il principio prossimo (2). Rimane che parliamo degli abiti, e che dimostriamo come la loro moltiplicità non nuoccia all' unità dell' anima, a quel modo che abbiamo dimostrato questo stesso della moltiplicità degli atti e delle potenze. E la via ci è aperta da quello stesso che abbiamo fin qui ragionato. Ma per procedere più chiaramente, cominciamo dal definire che cosa s' intenda per abito, fissandone bene la natura. L' abito , in generale, è una certa disposizione acquisita ed accidentale dell' anima, per la quale ella è posta in uno stato migliore o peggiore, ed è più atta ad operare in un dato modo (1). Quindi la parola abito riceve due significati principali: o si considera relativamente all' essenza dell' anima, o relativamente alle sue potenze. Se l' abito si considera relativamente all' essenza dell' anima, egli è quello che aggiunge qualche cosa in meglio od in peggio allo stato naturale di lei, e perciò pone l' anima in uno stato migliore o peggiore di quel che ella avrebbe priva di lui. Se poi si considera relativamente alle potenze dell' anima, l' abito è una disposizione che dà loro maggior facilità di operare in un dato modo, ordinato o disordinato, buono o cattivo. Ad esempio del primo di questi due significati, recheremo la condizione dell' anima resa moralmente migliore da un atto di virtù o dall' acquisto di un merito, ovvero resa peggiore da un peccato o dalla commissione di una colpa. Ad esempio del secondo, valgano tutte le arti, le quali altro non sono che disposizioni acquistate di operare facilmente in un dato modo, per produrre ciò che l' arte intende produrre. Ora, se ben si considera, non sarà difficile accorgersi che l' abito in entrambi i significati conviene propriamente all' anima intellettiva e morale, e che all' anima sensitiva non conviene, in senso proprio, se non nel secondo significato. La ragione di ciò si è che l' anima meramente sensitiva, non avendo alcuna personalità, nè essendo causa delle proprie azioni, nè avendo alcuna norma ideale da seguire, non è suscettiva se non della perfezione naturale di fatto. Onde un' anima sensitiva può essere più o meno perfettamente naturata di un' altra, ed anche la stessa anima può acquistare e perdere, ma ella acquista e perde della natura, e non dell' abito che la rende migliore o peggiore. A ragion d' esempio, se un' anima sensitiva ha un termine maggiore, più molteplice, più organato a conservare la vita, più eccitante, quell' anima è maggiormente attuata; ma questa maggiore attuazione è della stessa indole dell' attuazione naturale; onde si deve dire che la sua natura è cresciuta o diminuita, non che ella è migliorata o peggiorata, se non in un cotal senso traslato, in quanto si riferisce dall' uomo alla idea archetipa di quell' animale. Così pure un corpo se è più grande, non è che sia migliore, o che abbia un abito; soltanto egli ha più quantità di materia. All' incontro le potenze dell' anima sensitiva possono avere degli abiti, intendendo la parola abito nel secondo significato, cioè come una disposizione della potenza ad operare in un dato modo. L' anima razionale poi, avendo una norma ideale da seguitare, non è solamente suscettiva di avere più o meno attività naturale, ma ben anche di essere migliore o peggiore, secondo che è più o meno conformata alla sua norma, dalla conformazione alla quale ella riceve dignità, merito, diritto al bene eudemonologico; il che non appartiene alla sua natura propriamente, poichè è una relazione con cosa diversa da lei; e perciò appunto si dice abito, perchè ella acquista una condizione migliore o peggiore in virtù di tale relazione, la quale relazione è migliore o peggiore; onde la bontà o malvagità della relazione si riflette sull' anima. Ove ancora rimane chiarito come l' anima possa avere degli abiti soprannaturali, se si congiunge a lei Iddio, il quale, non essendo oggetto naturale, non appartiene alla natura dell' anima, ma è cosa che le viene dal di fuori, benchè in qualche modo questa maniera di abiti aggiunga all' essenza dell' anima ciò che niun altro abito le aggiunge, quasi una nuova natura. Venendo ora a parlare degli abiti nel secondo significato, cioè come disposizioni delle potenze ad operare in un dato modo, conviene circa la loro natura più cose osservare. E primieramente è da osservare che la classificazione degli abiti delle potenze deve seguire necessariamente la classificazione delle potenze. Ora le potenze sono di due maniere: altre hanno uno scopo solo, altre poi, superiori, sono ordinate a reggere e a dar ordine alle inferiori. Quindi anche gli abiti o perfezionano la potenza rispetto al suo proprio scopo, o perfezionano l' ordine fra le potenze, disponendo bene ed avvalorando quelle che debbono reggere le altre. Quantunque poi l' abito di sua natura perfezioni la potenza, tuttavia talora produce indirettamente un danno ed un disordine nel soggetto; e ciò avviene quando l' abito perfeziona quelle potenze, che debbono essere dirette e subordinate, dando loro una forza e prontezza di agire maggiore di quella che non abbia la potenza ordinatrice; nel quale caso la potenza perfezionata dall' abito rimane sbrigliata, e adduce il disordine, e talora la distruzione dell' ente. Vediamo ora come gli abiti si producano; al che ci fa strada l' aver veduto come si producano e costituiscano le potenze e i loro atti accidentali. Noi abbiamo detto che gli atti accidentali nascono pel cangiamento accidentale del termine che informa l' ente; questi atti secondi suppongono l' atto primo, cioè l' ente stesso informato. Ora nell' ente informato vi è principio e termine; e il termine è quello che suscita l' attività del principio, qualora il termine si cangia accidentalmente in modo da suscitare l' atto accidentale e secondo. Ora, benchè questo atto sia transeunte, tuttavia, anche cessando, lascia nel principio un resto di attualità; onde il principio più attuato si fa più pronto; perciò è più energico a rispondere ad un nuovo eccitamento che egli riceva dal termine, che s' immuta per la seconda volta nel modo stesso in cui si è immutato la prima, quando suscitò la prima volta l' atto accidentale. Secondo questa legge apparisce come la frequenza degli atti, quanto è maggiore, debba produrre un abito maggiore, benchè l' abito incominci pure col primo atto accidentale. Forse si dirà non potersi capire come il principio di un ente debba rimanere più attuoso quando cessa l' atto accidentale, posciachè il cessare di questo atto involge che sia tolto il termine che lo suscitò. Che se la cosa fosse tuttavia così, non sarebbe più vero che l' attualità nel principio di un ente dipenda, come si supponeva, dall' azione e dall' inerenza del termine; ma si dovrebbe cercare un' altra cagione della maggiore o minore attuosità del principio, indipendente da quella che gli viene dal termine, se, anche cessato questo, egli resta più attuoso. Al che rispondiamo che quando cessa l' atto transeunte, non cessa del tutto l' inerenza del termine. E ciò si vede sì negli atti delle facoltà sensitive, come in quelli delle facoltà razionali. E veramente in quanto alle facoltà sensitive, dopo avuta una percezione esterna o provato un sentimento passivo od attivo, rimane nel senso il vestigio dell' una e dell' altro. Infatti è cosa indubitata che il principio sensitivo conserva nel suo sentito una modificazione prodotta dall' azione dei corpi esteriori sul corpo da lui avvivato, anche quando essi hanno cessato di agire; è indubitato che una passione qualsiasi o una inclinazione istintiva rimane, anche dopo cessata un' azione nel nostro sentito. E queste modificazioni permanenti sono la cagione degli abiti, o piuttosto sono la stessa attività abituale del principio sensitivo. Il che meglio s' intenderà, quando si consideri che l' attività del principio sensitivo è più ampia ed estesa che non sembri, non terminando ella già nella sola sensazione, nel solo sentito, ma operando sul sensifero. Ad ogni mutazione del sentito, ella sorge ad operare sul sensifero, per accomodarlo a sè siffattamente da trovarsi il meglio che ella possa; di che le viene la sua virtù organizzatrice. Quindi, dopo avere ella provate certe sensazioni, e, coll' attività per esse in sè suscitata, avere accomodato a sè medesima il sensifero nel modo più opportuno che per lei si possa, ella è rispettivamente migliorata di condizione. Il che via più si scorge, se si considera la legge dell' istinto sensuale , che è una parte di sua attività. Poichè il principio senziente prima d' aver provato una piacevole sensazione, non può volgere la sua attività a produrla a sè stesso; ma quando l' ha provata, allora mette tutte le sue forze a ritenerla; e non potendo ritenerla del tutto, perchè gli è tolto lo stimolo esterno che la suscita, egli la ritiene in parte, accomodando, più che egli può, ad essa il proprio sensifero, che non gli è tolto; onde si rimane in conato e tensione per riprodurla tostochè egli possa; e però allorquando gliene torna l' occasione, coll' essergli applicato nuovamente lo stimolo esterno, egli è già pronto ed avido di cooperare subitamente con esso a riavere lo stesso piacere; e ad essere in tale attività maggiore lo aiuta, come dicevamo, il sensifero da lui ritenuto in quell' atteggiamento che fa bisogno per esserne così attuato, od averlo pronto all' effetto. Poichè la piacevole sensazione non sorge già per la sola opera dello stimolo esterno; ma intervengono principalmente a suscitarla i movimenti del sensifero, i quali pure dipendono da quella disposizione dell' anima, che sorge durante l' atto accidentale, e che, cessato, non cessa interamente, non cessando il sensifero da rimanersi attuato al bisogno, quantunque cessi lo stimolo esteriore. Della qual dottrina è conferma il vedere che gli abiti sensitivi cessano, ove il corpo umano e però il sensifero sia mal disposto, come cessa la stessa attività sensitiva, se quello le venga disorganizzato e distrutto. Così adunque si spiegano gli abiti delle facoltà sensitive e tutto lo sviluppo dell' istinto sensuale, che appartiene principalmente ad un' attività abituale. Quanto poi agli abiti delle facoltà razionali, essi si spiegano in un modo somigliante, per via di quel termine che rimane quasi infisso nell' anima, anche cessati i sentimenti corporei che occasionano il ragionamento. E veramente nell' ordine della razionalità vi è: Un termine costante e immutabile, il quale è l' essere indeterminato nella sua forma ideale. Di poi vi sono le percezioni, le quali sono atti transeunti. Ma posciachè esse lasciano nel sentimento, come abbiamo detto, dei vestigi, degli istinti suscitatori d' immagini e di altri sentimenti attivi e passivi, in questi vestigi e rimasugli si contiene lo stimolo agli atti dell' intelligenza, coi quali si suscita l' attività dei concetti, ecc.. Il linguaggio pure appartiene all' ordine sensibile, in quanto si compone di suoni e di altre sensazioni, le quali lasciano i loro vestigi del pari nella sensitività interiore. Cogli abiti adunque delle facoltà sensitive e cogli istintivi movimenti si spiega come la potenza razionale sia suscitata e tratta a molti suoi atti dal sensibile, anche quando niuno stimolo esterno opera nella sensitività. In terzo luogo avviene dell' attività razionale quel medesimo che della sensitiva; dopo fatto un atto, ella ritiene la propensione a ripeterlo, e ciò a cagione che rimane qualche cosa dell' oggetto nell' intelligenza. Questo s' intende quando si considera che l' oggetto della ragione è il sensibile, considerato come ente. L' ente appartenendo unicamente all' intelligenza, ella ne ritiene il concetto (ideale), anche passato l' atto del percepirlo. Ma due cose qui rimangono da investigare: Se il concetto ideale possa rimanere, senza che vi sia alcun vestigio sensibile a cui riferirlo. Se possa rimanere la percezione dell' esistenza reale dell' ente concepito. Quanto al primo, noi teniamo che il concetto determinato di un ente non si possa pensare attualmente, senza che egli si riferisca a qualche vestigio della realità. Tuttavia, durante questo vestigio è certo che l' attività intellettiva acquista degli abiti rispetto a lui. Contro la prima parte di questa nostra posizione nulla prova il fatto degli astratti , i quali non sembrano riferirsi a nessun vestigio di realità; poichè, se ben si considera, essi si appoggiano e si riferiscono pure a qualche elemento di vestigio, benchè non all' intero vestigio. Laonde pare che la mente possa pensare attualmente gli astratti, solo allora che ella venga a ciò aiutata da qualche vestigio di loro realità. Quanto poi alla persuasione della loro sussistenza esperimentata in passato, si richiede qualche prova a convincersi che un ente, di cui si esperimentò la sussistenza in passato, sussista anche in presente, ed ogni prova involge qualche percezione di realità. Del pari ad essere persuaso di avere percepito in passato un sussistente (cioè ad averne memoria), sembra indispensabile l' aiuto di qualche sensibile vestigio, giacchè il sensibile talora è la materia propria della cognizione razionale, talora è lo stimolo al suo atto, come si dirà a suo luogo. Quindi è che gli abiti delle singole potenze razionali dovrebbero interamente cessare, se venisse tolto all' anima ogni sentito corporeo, e non gliene fosse dato alcun altro, che avesse con quello alcuna relazione. Non procede però da questo che cessino interamente gli abiti remoti del principio razionale, perocchè l' anima separata conserva, come abbiamo detto, il principio dello spazio, che è il principio remoto del corpo, e questo principio può essere subbietto di abiti remoti, reliquie degli atti del vivente. Conosciuta così la natura degli abiti, e come essi sieno attività mantenute dai termini dell' anima che suscitano gli atti e le potenze, è chiaro che neppure la loro moltiplicità pregiudica all' unità dell' anima; conciossiachè la moltiplicità non dipende dall' anima, ma dai suoi termini; e le diverse sue attività si riducono all' identico principio, che astrattamente si può concepire come una cotale attività per sè indeterminata, che variamente si attua secondo il variare dei termini suoi. Il quale pure, unito ai suoi termini, ha un' attività propria, perchè egli è sostanza dai suoi termini distinta; e però cresce di attuosità e di tensione; ma diviso interamente dai suoi termini già non è concepibile, e per ciò stesso neppure possibile. E` ammesso da tutti che l' anima è il principio di tutte le sue operazioni e di tutte le potenze; ma alcuni dicono che il subbietto delle potenze, che hanno bisogno di organo corporale, è il composto, e non l' anima sola (1). Il che è vero sotto un aspetto, cioè in quanto che l' anima non potrebbe avere una speciale sensazione, se non fosse fornita del corpo organico; le sensazioni speciali adunque (e lo stesso dicasi d' ogni altro atto, a cui abbisognano organi corporei) non si hanno dall' anima per un' attività sua propria, e non in lei suscitata. Ma noi abbiamo dimostrato che gli atti, le potenze e gli abiti, dipendono dalla stessa legge, cioè « sono attività suscitate nell' anima da entità diverse dall' anima, ma ontologicamente a lei unite come forma e termine ». Di che avviene che il composto non possa essere il soggetto nè delle potenze, nè degli atti, nè degli abiti, perchè ciò che nel composto non è l' anima, ha ragione di termine e non di principio, e il soggetto ha sempre ragione di principio (1); ma l' anima sola, appunto perchè ella è in egual modo il principio di tutte queste sue attività. Solamente che alcune hanno bisogno di un termine, ed altre di un altro termine. Così la potenza intellettiva deve avere per termine l' essere ideale, le potenze sensitive il corpo colle sue mutazioni, e le potenze razionali l' uno e l' altro annodati. Dissero gli antichi la Filosofia andar contenta di pochi giudici (1). E a fine di cessare da lei la moltitudine, i maggiori savi in segreto affidavano ad orecchi sceltissimi di provati discepoli il più sincero frutto di loro meditazioni. Noi all' opposto amiamo il popolo, parliamo a tutto il genere umano; quello che crediamo poter dire a un uomo, ci rallegriamo che sia detto a tutti. E ciò nonostante, il solo giudizio di pochi ci appaga; chè gli uditori o i lettori hanno tutti diritto di giudicare, a condizione che sappiano; ma i più non sanno, e questi provvederebbero alla propria dignità e all' avanzamento della scienza, se udissero tacendo. Perocchè anche gl' ingegnosi, che non ebbero voglia od agio di cercare il fondo delle questioni, distratti dai negozi della vita o da altri studi, ovvero che non credettero necessario impiegarvi diligente meditazione (volgare pregiudizio e comune consuetudine!), e però non giunsero a produrre a sè stessi una chiara ed intima persuasione della verità, profitterebbero meglio al decoro proprio ed a quello della filosofia, astenendosi dall' infrascarla e confonderla con imperfetti ragionamenti. E tuttavia molti di questa medesima schiera, invece di fare ingombro, potrebbero esserle di gran pro, qualora fra noi una critica severa castigasse gli scrittori troppo confidenti ed incuriosi, e una novella educazione, rendendo viva e gagliarda la morale nazionale (come oggimai pare indubitato che avverrà), accrescesse la dignità degli scrittori, e facesse loro sentire onesta vergogna di scrivere quanto non ebbero maturamente pensato e lungamente meditato. La qual vergogna nobilissima chi è ora che senta? Chi dimostra persuasione che all' ufficio dello scrittore debba presiedere la coscienza? O almeno quanto pochi stimano essere un dovere morale il ben pesare, prima di comunicarle al pubblico, le proprie opinioni, e ridurle a quella chiarezza e certezza, che possono ricevere da pazienza di assiduo studio, e il non confondere con concetti indigesti le menti altrui? Laonde io non mi prenderei meraviglia, se udissi condannare, con quella sicurtà che sogliono, non tutti per grazia del Cielo, ma pure alcuni dei nostri connazionali, le questioni svolte nel libro precedente siccome inutili, difficili, e però fastidiose; quasicchè le verità, che riguardano l' umanità ed altri esseri, si potessero rendere facili o difficili a nostra volontà; o convenisse meglio appagarsi di quella superficialità di scienza, che è dottrina mentita e presuntuosissima, anzichè adoperarvi fatica ed amore, e farsi discepoli alla natura, disposti di seguitarla coraggiosamente, quanto ci basta la lena, per tutto dove ella si avvolge fino addentro ai suoi più cupi recessi. Il che se fosse, lasciando noi giacere cotesti Italiani in su quei loro morbidi origlieri, e cantarci eziandio fra la veglia e il sonno il « pochi compagni avrai », noi riprenderemo il filo interrotto del nostro ragionare, sordi al dileggio, e così ci verremo continuando: Fin qui, o miei generosi lettori, noi svolgemmo la distinzione fra l' essenza dell' anima e le sue potenze o attività, e vedemmo come quella sia unico principio, queste sieno molteplici; di che ci diede ragione una bellissima legge ontologica della comunicazione degli esseri, per la quale molti e diversi possono comunicare con uno, e suscitare in lui medesimo diverse attività relative alla loro varietà. Il che non toglie l' unità del principio; chè egli si rimane sempre un primo ed unico atto, che abbraccia virtualmente gli atti secondi e molteplici; così essendo fatto l' ordine dell' essere, che quelle entità che sono molteplici considerate in sè stesse, sono une, considerate nel loro comune principio. Ora poi ci rimane a distinguere le attività dell' anima fra loro, deducendole dall' essenza, cioè dimostrando come di mano in mano vengano fluendo da quell' atto primo, uno ed ampissimo, che in virtù le contiene. Al quale intento rammentiamoci che l' anima non si può dividere realmente, senza distruggersi. E tuttavia, noi lo vedemmo, ella ha una costituzione sì fatta che le bisognano due entità per esistere, l' una principio , e questa è ella stessa; l' altra termine , il quale non è dessa, ma sì è suscitatrice di sua attività, condizione senza la quale ella stessa non è. Quindi se il principio si stacca da ogni suo termine, ci svanisce in nulla; ma unito al suo termine, egli è qualche cosa di ben distinto da questo; ha un' attività sua propria, benchè ella sia suscitata dal termine quasi causa della forma. Altra è dunque l' attività suscitata dal termine, che pone in essere il principio; altra è l' attività di questo principio già posto in essere. Le potenze sono determinate dal termine, e variano secondo il variare di esso; gli abiti procedono, come da loro fonte, dall' attività propria del principio già costituito. Ora quali sieno le leggi, secondo le quali l' attività propria del principio cresca, diminuisca, si modifichi indipendentemente dal termine, questo, noi dicemmo, non si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' attenta osservazione. L' osservazione poi ci attesta che il principio ha tal virtù, per la quale egli si sforza di tenere a sè unito il termine suo, e di conservarlo in quell' atteggiamento e in quella disposizione che più gli piace, od anche di modificarlo alquanto per atteggiarlo così, ed anche stringerlo a sè con più intenso legame; i quali sono quattro modi diversi, in cui il principio, ossia l' essenza dell' anima, spiega la sua attività. E da questi modi nascono gli abiti, pei quali le potenze operano più facilmente , più prontamente , più efficacemente e più dilettosamente . Poichè, quando l' anima esercita qualche sua attività, sente diletto; chè ogni attività è in lei essenzialmente sensibile e dilettevole, in quanto è attività; e l' esercizio dell' attività è attività anch' esso, e però anch' esso è dilettevole. Ora, cessato l' atto accidentale, rimane nell' anima un resto del provato sentimento; la quale ritentiva del sentimento dilettevole cresce l' attività, che intende a riprodurlo rinnovando l' atto accidentale; questa propensione attiva è appunto l' abito. Come poi perdura nell' anima quel rimasuglio di sentimento provato nell' esercizio dell' attività? Per l' attività propria dell' anima stessa, che tiene seco unito, come dicevamo, e a sè stringe, quanto mai può, quel termine che le suscitò l' atto dilettoso; e lo tiene nell' atteggiamento convenevole a riprodurlo, ed anche l' aiuta a mettersi in tale atteggiamento, che sono i quattro modi detti, in cui il principio, cioè l' essenza dell' anima, è attiva. Nè osta a ciò, parlandosi dell' anima sensitiva, la cessazione dello stimolo esterno, che suscita la sensazione attuale. Perocchè non è lo stimolo esterno che immediatamente la suscita, ma il corpo vivente, che è termine costante dell' anima; onde, cessato lo stimolo esterno, cessa è vero la sensazione attuale, ma non cessa la disposizione del corpo animato, mantenuto dall' anima in quell' atteggiamento e mobilità necessaria a riavere prontamente e vivacemente la sensazione, tostochè lo stimolo esteriore si raccosti. Oltre di che rimangono i vestigi nella fantasia, in cui l' anima coll' aiuto degli interni movimenti casuali, che accadono nel corpo vivo dove tutto è movimento, risuscita facilmente le immagini; le quali pure appartengono agli atti accidentali della sensitività, e prestano all' anima razionale nuovo ossia variato termine, come fanno le sensazioni. Ma l' anima razionale stessa ritiene i rimasugli degli atti suoi, che costituiscono la memoria, anche cessati quegli atti accidentali. Onde i rimasugli sensibili e intelligibili, che restano nell' anima dopo gli atti accidentali, sono accrescimento del suo termine e aumento in lei di attività abituale. Quando poi l' anima razionale è pervenuta ad aver presente attualmente un fine, allora ella è fatta arbitra di molti atti sensitivi e intellettivi, che le valgono di mezzi a quel fine, onde può muoversi da sè, e accostarsi e stringersi più al suo termine, e applicare a sè gli stimoli esteriori. Il termine adunque dell' anima può ricevere cangiamento o modificazione da due parti: dal principio stesso, che è l' essenza dell' anima, e da una causa diversa dall' anima. Il cangiamento del termine si può concepire in diversi modi. Può concepirsi diviso intieramente dal suo principio, e in tal caso non è più termine. Può concepirsi che sia tolto un termine e sostituito un altro specificamente diverso, e in tal caso l' essenza dell' anima è cangiata, l' anima non è più quella di prima. Può concepirsi che il termine sia specificamente ingrandito, e in tal caso l' essenza dell' anima è quella medesima, ma ingrandita anch' essa. Ma ora noi mettiamo da parte questi cangiamenti concepibili, per parlare di quelli che non pur si possono concepire, ma avvengono ogni dì come l' esperienza ci attesta. Circa questi è da dire: Che il termine dell' anima in parte è costante e invariabile, e specifica l' anima umana, ne determina la natura. La parte invariabile del termine è duplice: a ) un esteso sentito, dove vi è continuo cangiamento di parti, causa del sentimento di eccitazione, e vi è organismo determinato; b ) l' essere ideale indeterminato. Che il termine dell' anima in parte è variabile. La quale variabilità consiste: a ) rispetto al corpo, nel cangiamento dell' estensione, del movimento intestino, causa dell' eccitamento, e dell' organismo, causa della perpetuità della vita; b ) rispetto all' essere ideale, la mutazione è soltanto dalla parte dell' anima, in quanto questa vede in lui i reali percepiti nel senso, e ne cava la dottrina della realità, onde così si arricchisce il suo oggetto, non cangiandosi in sè stesso, perocchè è l' anima che vede in esso ciò che prima non ci vedeva. Ora tutti questi cangiamenti danno luogo agli atti accidentali, i quali, cessando, lasciano gli abiti nell' anima. Gli atti accidentali adunque nascono pei cangiamenti che avvengono nei termini dell' anima, senza che si mutino questi termini specificamente. Ma questi cangiamenti, o avvengono in virtù dell' attività propria dell' anima, nel quale caso sono atti attivi , o avvengono in virtù d' una causa straniera all' anima, nel qual caso sono atti passivi . Gli abiti nascono da quel rimasuglio di attività, che resta nell' anima al cessare degli atti accidentali. Le potenze , finalmente, nascono dalla specifica diversità dei termini, accoppiata all' attività dell' anima stessa. Alla sentenza che l' attività dell' anima sorge in virtù dell' azione del termine, consegue che nell' ordine logico si concepisce prima nell' anima la passività e la ricettività , poscia l' attività . Dico nell' ordine logico , poichè non sempre nell' ordine cronologico è posteriore l' attività alla passività. Si distinguano dunque gli atti secondi e accidentali dall' atto primo, che mette in essere l' anima stessa. Negli atti secondi l' osservazione dimostra che la passività precede nell' anima l' attività, non solo nell' ordine logico, ma anche nel cronologico; giacchè prima l' anima sente e riceve, e poscia si muove ed opera. Ma questo non è possibile che avvenga rispetto all' atto primo, che è quello pel quale l' anima esiste, giacchè prima d' esistere ella non può essere passiva; ond' è forza che rispetto all' atto primo la passività e l' attività sieno contemporanee. Ma posciachè si vede che la relazione, che hanno fra loro la passività e l' attività nell' atto primo, è simile a quella di causa ed effetto, sicchè l' atto primo sorge in virtù dell' azione del termine; quindi si dice che nell' ordine logico precede la passività e l' attività sussegue, quantunque fino a che non vi è l' attività, non vi è l' ente. Nascendo dunque l' attività dalla passività, rimane a cercarsi se le potenze passive si possano dire specificamente distinte dalle attive. Stando a quello che abbiamo detto, che le potenze si distinguono secondo la distinzione specifica dei termini, propriamente parlando, la passività e l' attività non costituiscono potenze diverse, ma piuttosto diverse facoltà o funzioni della stessa potenza; perocchè l' attività è una continuazione di quel movimento che incomincia nella passività, quasi come la linea è continuazione del punto (1). Infatti il termine è nel principio come agente; quindi il principio appare passivo, ma nello stesso tempo è sorto all' atto ed alla sua operazione, e così si fa attivo, così è divenuto principio individuato. Quando poi il principio è già posto in essere, egli può da prima essere passivo al suo modo, e successivamente attivo; onde non v' è difficoltà a concepire che nel processo degli atti secondi una cotale passività preceda l' attività non solo logicamente, ma anche cronologicamente. Essendo dunque nella passività il cominciamento dell' attività dell' anima, onde nasce lo spontaneo o libero movimento del principio attivo costituente l' anima, la facoltà passiva e l' attiva, che le corrisponde, costituiscono una sola potenza, avente un solo termine, distinta però in due facoltà pel diverso modo ond' ella si esercita. Dove conviene aver presente che nell' intelletto in luogo di passività vi è ricettività , poichè il termine non è nè in tutto, nè in parte prodotto dall' attività del principio; che egli è di natura sua immutabile, inalterabile, onde fra lui e l' anima non v' è propriamente relazione di azione e passione, ma di presenza e d' intuizione. Tale è l' essere ideale; laddove il sentito riceve natura di sentito dallo stesso principio senziente, come abbiamo dichiarato, e però dal principio stesso egli è posto e costituito come tale, cioè come sentito. Si distinguono adunque le potenze come si distinguono i termini dell' anima umana, con questa sola avvertenza che i termini primieramente informano l' anima, cioè le danno il suo primo atto; di poi, modificandosi senza perdere la propria natura specifica, suscitano ed occasionano gli atti secondi. Ora l' attività dell' anima, considerata rispettivamente a questi atti secondi, si chiama potenza . Di che deriva ciò che abbiamo altrove detto, cioè che v' è nell' anima un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alla sua natura, perchè ne mette in atto l' essenza; e vi è un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alle sue potenze, cioè alle potenze di sentire e d' intendere. Ma se la diversità dei termini è fondamento alla diversità delle potenze, noi non potremo classificare a rigor filosofico le potenze, senza indagare come i termini diversifichino specificamente fra loro. Entriamo in questa ricerca. I termini sono entità agenti nell' anima; il cercare come essi diversifichino fra loro è questione che riguarda l' ordine intrinseco dell' essere, il quale, noi abbiamo detto, non si può inventare, nè discoprire a priori, ma si deve rilevare quale egli è dall' attenta osservazione; e tanto lo conosceremo, quanto l' osservazione ci aiuta, nè un capello di più; onde dobbiamo restarci contenti a ciò che ci dà l' osservazione, se non vogliamo comporre la filosofia di vani deliramenti. Ora, tutto ciò che dall' osservazione si raccoglie circa l' ordine primitivo dell' essere, viene a questo; che qualsivoglia entità, che noi possiamo pensare, si riduce in una di queste tre categorie: 1 o ella è sentimento , oppure cosa che cade nel sentimento, per esempio la forza che immuta il sentimento; 2 o ella è idea; 3 o ella è ordine fra il sentimento e l' idea. In ciascuna delle quali categorie noi troviamo l' essere identico; e in quanto egli appartiene al sentimento, lo chiamiamo essere reale; in quanto appartiene all' idea lo chiamiamo essere ideale; in quanto appartiene all' ordine completo fra l' essere reale e l' ideale, lo chiamiamo essere morale . Riducendosi adunque a tre categorie tutte le entità possibili, forza è che anche i termini dell' anima, che sono entità, si riducano prima di tutto a questi tre modi dell' essere. Di che potremmo agevolmente scorgere che la trinità dell' anima deve apparire sì nella sua essenza , e sì nelle sue potenze; e ciò senza impedimento dell' unità, poichè in tutti questi tre modi vi è l' essere uno ed identico, non partito, ma intero. Solamente è degno di considerarsi che l' essere morale, risultando dall' unione dei due primi, nell' ordine logico sembra ai due primi posteriore. Ma è da distinguere l' ente finito dall' ente assoluto. In questo l' essere morale non è posteriore, perocchè il completamento e la perfezione è essenziale all' ente assoluto. Ogni ente finito e intelligente all' apposto è costituito dall' essere sotto forma di realità, e dall' essere sotto la forma di idealità; ma non è necessario che vi concorra attualmente l' essere sotto la forma di moralità. Tuttavia, laddove si trovano unite le due forme di realità e di idealità, non può mancare una ordinazione fra loro; perocchè l' essere sotto questi due modi tende necessariamente a completarsi e congiungersi seco stesso, facendone risultare la terza forma, che è la forma morale in atto. Donde, se negli esseri intelligenti finiti non vi è necessariamente l' ordine morale in atto, che è ciò che si dice anche bene morale , non può tuttavia mancare la potenza di conseguirlo, ed anche la tendenza , e finalmente la necessità , acciocchè sia perfetto. Dico che non può mancare la potenza, perchè questa è annessa alla compresenza dell' essere reale ed ideale; poichè l' essere reale e ideale, come termini dell' anima, suscitano in lei due potenze. Ora queste, congiunte insieme nell' unità dell' anima, fanno luogo prima ad una terza potenza, cioè alla ragione , e poi questa alla potenza morale. Perocchè la ragione congiunge l' ideale col reale, appercependo questo nel lume di quello; e quindi ella vede quale sia l' ordine dell' essere, a cui l' anima, aderendo con tutta la sua razionale attività, si fa moralmente buona, o a quell' ordine contrastando, si fa malvagia. Ma l' anima non possiede a principio questa potenza se non virtualmente, perchè ella non ha l' ordine dell' essere presente per natura, ma soltanto ha l' essere nella sua forma ideale e in parte nella sua forma reale altresì. Onde nell' anima la potenza morale è posteriore e solamente virtuale. Conviene dopo di ciò considerare in che maniera l' essere reale e l' essere ideale concorrano a costituire l' anima; perocchè non vi concorrono al modo stesso. La differenza sta qui, che l' essere reale è principio e termine dell' anima; e in quanto è principio, egli costituisce l' essenza stessa dell' anima; all' incontro l' essere ideale non è principio, ma soltanto termine; ond' egli non costituisce l' essenza dell' anima, ma concorre a produrla siccome causa formale, o, se più piace, causa della forma, in quanto suscita in essa l' atto dell' intelligenza. Dal sapere poi che l' essere reale rispetto all' anima è di due guise, cioè principio e termine, si chiarisce via meglio come si generi l' atto dell' essere morale, perocchè l' essere morale si radica nell' essere reale in quanto egli è principio, e non in quanto egli è termine; chè la moralità ha propriamente ragione di principio e non di termine, consistendo nel compiacersi che fa un intelligente dell' essere conosciuto, in quanto è essere; nel quale compiacimento consiste l' ordine compiuto fra il reale e l' ideale. Ma quest' ordine deve essere prima presentato all' uomo dalla ragione, quale oggetto della sua attività razionale, cioè della volontà, e così costituisce il termine della potenza morale. Ora l' ordine morale nasce così: L' essere reale intelligente conosce nell' ideale l' essere sotto tutte le forme, e proporzionatamente se ne compiace. Perchè se ne compiace? Perchè lo conosce, o, che è il medesimo, lo trova nell' ideale; onde per mezzo dell' ideale si compiace dell' essere, in quanto è essere sotto tutte le forme. Questo compiacersi è l' ordine morale nell' anima, è il bene. Raccogliendo ora quanto abbiamo detto in questo capitolo, intenderemo facilmente che, essendo due i termini attuati nell' anima, due altresì debbono essere le potenze primitive, cioè la sensitività e l' intelligenza; ed essendovi un terzo termine solo virtualmente compreso nei due primi, deve esservi una terza potenza virtuale, la quale è quella della moralità. Al che aggiungendo ciò che abbiamo veduto nel capitolo precedente, cioè che ogni potenza incomincia dall' essere passiva o recettiva, e passa all' essere attiva, le due potenze della sensitività e dell' intelligenza avranno ciascuna due facoltà: la facoltà passiva e la facoltà attiva. Quanto poi alla potenza morale, non avendo termine in atto, ma solo in virtù, cioè dovendosi produrre questo termine dagli atti delle altre due potenze, o, per dir meglio, dell' anima stessa razionale che le dirige; ella non può avere passività, e quindi si rimane potenza puramente attiva; giacchè la passività, che a lei si riferisce, non è altro che quella delle potenze che la producono. E` dunque necessario distinguere due sorta di potenze nell' anima, le attuali e le virtuali , intendendosi per attuali quelle, di cui l' anima reca seco il termine nella propria natura; e per virtuali quelle, di cui l' anima non reca seco stessa il termine, ma lo produce ella medesima operando. Vero è che anche le potenze che chiamiamo attuali, fino a che si stanno immerse nell' essenza dell' anima non si distinguono, unificandosi nell' unità del principio, in cui si giacciono come quiescenti; o certo almeno non si possono distinguere come potenze, il cui concetto involge una relazione a diversi generi di atti accidentali, che sono ordinate a produrre. Ma quando gli atti accidentali nascono, quando s' immuta quel termine che è già nell' anima senza cangiare la specifica sua natura, allora appariscono le potenze, che si dicono attuali. Ora, come due sono i termini propri dell' anima umana, il sentito e l' inteso , così due sono le potenze attuali e primitive, il senso e l' intelletto , dotata ciascuna di facoltà passiva ed attiva; il senso della facoltà attiva dell' istinto, l' intelletto della facoltà attiva della volontà. Ma posti nell' anima il sentito e l' inteso, in cui terminano le due potenze del senso e dell' intelletto, sorge il termine di una nuova potenza, il quale si è l' accoppiamento del sentito e dell' inteso; pel quale accoppiamento « il sentito si conosce nell' inteso », cioè nell' idea, e conseguentemente si può volere ed amare, in quanto è conosciuto; quindi una potenza derivata, che è la ragione , il cui officio è quello di apprendere l' unità dell' ente, ossia l' identità del medesimo ente nel sentito e nell' inteso, ossia nella realità e nell' idea, come pure nell' ordine suo. Ora questa potenza, benchè sia conseguente alle due prime, e perciò si possa chiamare derivata , non è tuttavia nella natura dell' uomo solamente in virtù, ma è in atto; perocchè, come abbiamo veduto, nell' anima umana vi è una prima percezione fondamentale della propria animalità, in cui consiste l' unione dell' anima intellettiva col corpo, onde risulta il composto umano; e questa prima e fondamentale percezione è l' atto primo, pel quale la ragione esiste. Ma non basta avere nell' anima il reale e l' ideale, termini del senso e dell' intelletto; non basta neppure avere il loro accoppiamento logico, termine della ragione, a far sì che sia posta in atto la potenza morale . All' esistenza di questa è uopo che almeno esista la percezione di un essere intellettivo, a cui si possa porre tanto affetto, quanto egli si merita; il che viene a dire che lo si possa stimare ed amare per sè, non quale semplice mezzo a noi stessi, il che niente vieta di fare cogli esseri bruti. Ora in questa misura giusta della nostra stima comincia la moralità. La natura poi della moralità inchiude certa relazione a tutto l' essere, perocchè ella è quell' atto che lo compie e perfeziona, e quindi non può avere per oggetto se non l' essere intelligente che ha ragione di fine, ed ha ragione di fine perchè attinge l' infinito (1). L' uomo adunque, benchè senta, non percepisce però, nè conosce per natura alcun essere intelligente, e neppure sè stesso; giacchè la propria animalità, di cui ha la naturale percezione, non è sè stesso. Il perchè gli manca il termine della potenza morale, e se lo deve procacciare coll' uso di sua ragione. Onde la potenza morale giustamente da noi si chiama non pure conseguente e derivata , ma ben anche virtuale , non trovandosi nell' umana natura se non la virtù di produrre il termine di questa potenza, e così metterla in essere. Lo stesso è a dirsi della libertà bilaterale, che consegue all' ordine morale, come abbiamo dichiarato. Lo stesso della riflessione , che suppone dinnanzi la percezione, ed è una funzione della ragione. Dal che si raccoglie che le potenze, come pure le facoltà e le funzioni, nascono l' una dall' altra, allorquando le potenze, e facoltà, e funzioni precedenti cogli atti loro accidentali danno un prodotto, che diviene termine anch' esso dell' attività dell' anima; e termine variabile, onde l' attività, che a questo suo variare si riferisce, acquista ragione di potenza, di facoltà o di funzione. E qui stimiamo opportuno, prima di dire alcuna cosa delle potenze speciali, di porre sotto gli occhi del lettore una tavola sinottica delle potenze attuali, derivate e virtuali, acciocchè egli, considerandola, se ne rappresenti il complesso, e possa più comodamente seguirci nel viaggio che siamo per fare. Uno dei termini dell' anima umana, noi abbiamo detto, è il sentito esteso. A questo termine si riferisce la sensitività corporea. Ma non è a credersi che ogni sensitività dell' umana natura finisca qui; la sensitività corporea non è che una sensitività speciale. Si richiami alla mente che l' anima ha natura di principio, il quale non si può concepire senza concepire insieme il suo termine correlativo, di maniera che un principio senza termine è un assurdo, perciò nulla. Ma se noi concepiamo il principio unito al suo termine, abbiamo tosto il concetto di cosa, che ha la sua propria esistenza distinta essenzialmente dal termine a cui va unita, e quindi che è fornita di attività sua propria. La natura di questa attività è quella di essere sentimento, onde noi abbiamo anche definita l' anima umana un sentimento sostanziale . Ora un sentimento non si può concepire senza quei due quasi poli, che noi abbiamo nominati senziente e sentito . Se dunque l' anima umana da una parte è essenzialmente sentimento, e dall' altra ha natura di principio e non di termine, conviene dire che è essenzialmente sentita come principio, e non come avente natura di termine. Ma poichè il sentito, come tale, ha natura di termine, perciò nel principio sentito s' identificano il principio ed il termine; il che viene a dire che quell' anima stessa che sente è quella che è sentita nel suo termine, sicchè il principio, nel termine sentito, diventa sentito anch' egli, il che è quanto dire, s' individua. Si debbono adunque distinguere due maniere di sentire, quella che spetta al principio del sentimento, e quella che spetta al termine. Il principio è sensibile in altra maniera da quella in cui è sensibile il termine. Ciò che si sente è propriamente il termine, ma nel termine si trova il principio; sicchè questo viene ad essere sentito unicamente perchè aderisce e giace nel termine, la cui essenza è di essere sentito. Quindi l' anima, cioè il principio, non ha già una sensibilità propria, ma mutuata dal suo termine. Eppure il suo termine, in quanto è suo termine proprio e non straniero, è prodotto da lei stessa, appunto perchè ella ne è il principio. Ma se si considera l' anima in quel momento, nel quale ella non ha ancora prodotto il suo termine, ella è cosa del tutto insensibile, e non è anima. E quantunque quel momento si possa e si debba concepire colla mente, perchè infatti appartiene all' ordine dell' essere, tuttavia sarebbe un errore il credere che quel momento fosse un istante di tempo diverso da quello, in cui l' anima è naturata e individuata per avere prodotto il suo termine. Perocchè l' anima si natura in un solo istante, di guisa che l' anima, che produce il termine, e l' anima, che ha prodotto il termine, non si dividono per alcuna mora di tempo; ma in quel medesimo istante in cui il termine è prodotto, in quello l' anima è producente; sicchè nel prodotto si sente l' anima producente. Il principio adunque dell' atto che produce, e il compimento dello stesso atto, cadono nel medesimo istante senza pausa di sorte alcuna; e tuttavia questi sono due momenti ontologici distinguibili alla mente, la quale negli enti vede un' azione intrinseca, e in questa azione un ordine, e in questo ordine un prima e un poi diverso affatto dal prima e dal poi del tempo, non cronologico in una parola, ma ontologico. Tornando dunque al nostro proposito, quando l' anima è già formata, ella sente il principio ed il termine; ma la maniera, con cui è sensibile il principio senziente, differisce oltremodo dalla maniera, in cui è sensibile il termine sentito. Poichè: Il principio senziente non è sensibile in sè come semplicemente producente, ma pel sentito e nel sentito da lui prodotto; laddove il sentito è sentito, e perciò sensibile per sua propria essenza. Il senziente è sensibile egualmente in ogni sentito, perciò si può dire senso universale; laddove vari sono i sentiti che si escludono a vicenda, la cui sensibilità può dirsi senso speciale . Il senziente come tale è sempre identico, quantunque varii il sentito; perchè, avendo natura di principio, egli è come il vertice di un angolo uno e semplice, quantunque le due linee che lo formano sieno più o meno divergenti, e più o meno lunghe. E tuttavia il senziente si sente coi suoi nessi ai diversi sentiti, e così l' anima sente le sue potenze, funzioni, facoltà, atti, ecc.. A questa maniera, con cui l' anima sente sè stessa e tutto ciò che ella fa, noi diamo il nome di sensitività psichica . Rimane che noi diciamo qualche cosa delle sensitività speciali. Nell' anima umana noi possiamo concepirne quattro, almeno come possibili, che chiameremo corporea, pneumatica, ideologica, teorica . La sensitività corporea e l' ideologica non ammettono alcun dubbio; la pneumatica e la teorica non sono egualmente evidenti a tutti. La natura della sensitività speciale esige che il sentito sia un' entità diversa da quella del senziente. Quindi in ogni sensitività speciale vi è un' alterità , cioè l' anima sente un diverso da sè. Quest' alterità è carattere comune a tutte le sensitività speciali possibili. Ma ella si manifesta in due modi, come passività e come mera ricettività . La passività si riscontra nella sensitività corporea e nella pneumatica; la ricettività nella sensitività ideologica e nella teorica . Conviene accuratamente distinguere la passività e la ricettività , che sono i due modi pei quali l' anima sente e percepisce l' alterità, cioè un' entità diversa dalla propria. Ecco il doppio carattere che le distingue: Nella ricettività la cosa ricevuta non soffre alcuna modificazione dall' anima che la riceve, perchè è immutabile; come una moneta d' oro, che si mette in una borsa, non cangia natura, nè cessa di essere quella di prima perchè fu ivi collocata. Così l' essere ideale è nell' anima umana (1). All' incontro nella passività l' entità, che agisce nell' anima, prende qualche cosa dalla natura e dall' attività del paziente, cioè dell' anima stessa, che contribuisce a dare a quell' entità il suo essere. Così l' esteso sentito riceve dall' anima l' estensione (2) e la forza straniera che lo cangia, benchè, contro la tendenza dell' anima, produce l' effetto coll' aiuto di questa, che è suscitata a terminare spontaneamente il suo atto in un' altra estensione. Nella ricettività l' anima non è, propriamente parlando, modificata, solo acquista ciò che non aveva prima. Così la borsa, in cui si mette la moneta d' oro, non cangia natura, ma la borsa vale più piena che vuota. E se pigliamo un' asta e vi attacchiamo un ferro a forma di dardo, l' asta primitiva non è cangiata, nè modificata; ma ne è uscito uno strumento nuovo, a cui si dà nuovo nome ed ha nuova virtù. E così coll' aggiungersi l' essere ideale ad un principio senziente, il principio propriamente non s' è modificato; ma acquistò quel che non aveva prima, e da anima sensitiva divenne anima razionale. All' incontro la passività modifica propriamente l' anima, come accade nel senso corporeo. Intanto, se il sentito è posto in atto dall' anima stessa, ella fa più che ricevere, opera; e l' operazione di lei si riduce al concetto generale della modificazione. Di poi quando le viene cangiato il sentito, ella ha nuovamente bisogno di concorrere a ciò, e per un poco può ripugnare; ora il ripugnare, e poi l' essere indotta ad una operazione, è già una modificazione del soggetto operante. All' essere ideale l' anima non può opporre resistenza di sorte alcuna; neppure può cooperare a formarlo; deve dunque unicamente ricevere senza più, poichè rispetto a lui, ella non è prima che egli sia venuto in essa, e però non può opporsi a lui, perchè prima di essere non può operare. Dunque niente in questo fatto interviene nell' anima che abbia natura di modificazione; ma soltanto di nuovo acquisto da parte dell' anima, e di creazione da parte di quella virtù, che pone in lei l' essere ideale. Alla passione risponde dunque il fare; alla ricezione risponde il dare . Gli Scolastici confusero talora questi due modi, il che introdusse nelle loro dottrine qualche vena di sensismo , venendo tratti a parlare dell' intelletto come fosse una potenza interamente passiva, quando è ricettiva, e quindi ad assomigliarlo troppo al senso. La sensitività corporea ha per termine l' esteso e le sue passioni e modificazioni, cioè il movimento intestino dell' esteso sentito e l' organizzazione, ossia un dato collocamento delle parti, e quindi l' armonia dei movimenti sensibili. L' esteso sentito suppone il continuo , ed un solo continuo (1); perocchè se fossero due, i due sentiti non avrebbero alcuna attinenza, nè comunicazione fra loro. E poichè dove è il sentito, ivi è il senziente, perciò anche i senzienti sarebbero due, pari ai continui, senza attinenza, nè comunicazione fra loro. Ma se le parti del continuo si muovono con certa legge, senza cessare d' essere continue, nasce l' eccitamento del senziente, e la sensazione viva rispondente al moto intestino delle parti sentite. I quali moti e le corrispondenti sensioni possono essere molti in uno stesso tempo e in luoghi diversi; e la ragione si è che essi sono congiunti dal continuo sentito unico, in cui nascono, e quindi dall' unicità e semplicità del principio senziente. L' attenzione attuale e riflessa dell' uomo si reca assai più facilmente sulle sensioni eccitate, che rispondono ai movimenti intestini locali, che non sia al sentimento universale ed uniforme di tutto il continuo; indi a noi pare di sentire contemporaneamente in più luoghi separati, quando il vero si è che sentiamo un unico esteso continuo in modo non uniforme, in certe parti di esso più vivamente e variamente, a cagione dei minimi moti, come dicevamo, che ivi si suscitano. Il sentito esteso fondamentale è limitato , ma per sè solo non è figurato , giacchè a percepire la figura è necessario distinguere le linee o le superfici, che la circondano e formano; e queste non sono distinte nel sentimento fondamentale, nè possono distinguersi se non colla percezione di qualche cosa al di là dei suoi confini (2). Ora il sentimento fondamentale non va al di là dei confini del suo esteso, e perciò neppure distingue i confini dell' esteso, oltre i quali cessa il sentimento. Per intendere la differenza che passa fra i confini segnati con una linea o superficie percepita , dai confini determinati dalla cessazione del sentimento, si può recare un esempio tolto dalla visione. Se io guardo la tavola quadrata alla quale sto scrivendo, distinguo le linee con cui la tavola finisce; e le distinguo perchè coll' occhio abbraccio anche ciò che va al di là di quelle linee, un resto della stanza. Ma se io, tenendo gli occhi aperti, voglio vedere i confini della mia visione, cioè dello specchio visivo, io non posso vederli nè precisarli, molto meno confrontare lo specchio visivo con altro spazio maggiore, perchè oltre lo specchio visivo non si estende la visione, ma cessa; onde mi è impossibile il dire che lo specchio, a cui si stende la mia visione, sia piuttosto rotondo che quadrato, o d' altra figura, se pretendo desumere questa figura dalla sola visione e non dal raziocinio. Ora poi, come le sensioni speciali nascano dall' eccitamento del sentimento fondamentale fu da noi altrove ragionato. Ma è da confessare che la filosofia non è ancora giunta a conoscere la ragione di tutte le varietà singolarissime delle sensioni, e neppure a classificarle ed enumerarle compiutamente. Noi le abbiamo distinte in figurate e non figurate . Le figurate le abbiamo anche chiamate superficiali , perchè costituiscono la superficie o parte della superficie del corpo nostro e dei corpi al nostro esteriori, quali sono quelle del tatto, della visione, ecc.. Le non figurate furono quasi dimenticate dai psicologi, con più attenzione le considerarono i fisiologi. E` necessario osservare che il sentito figurato non si sente in noi, cioè non si sente riferendolo a noi, ma si sente in sè stesso come una superficie; la quale certo non è in noi come una superficie piccola sarebbe in una grande, anzi per sè non ha luogo, o, se si vuole, ella stessa è il suo luogo. Così lo specchio visivo non è già in un altro spazio più grande di lui, poichè egli è tutto lo spazio che si vede, nè più nè meno. Il luogo, in cui sono le sensazioni, si viene adunque formando, quando si considera una parte della sensazione superficiale in relazione a tutta intera la superficie sentita; ovvero quando più superfici sentite si pongono insieme colla immaginativa, formandosene una superficie sola, se non sentita, almeno immaginata o intesa, a quel modo che abbiamo detto formarsi da noi per via di moto il concetto dello spazio illimitato (1). Ma della località delle sensioni abbiamo ragionato nell' Antropologia . Qui solamente vogliamo osservare che da questa proprietà delle sensazioni figurate e superficiali, di non avere per sè altro spazio in cui sieno che sè stesse, s' intende come il senso interiore della fantasia può riprodurle; giacchè quelle sensioni non hanno per sè rapporto locale al nostro corpo, cioè esse non ci appaiono nè come collocate alla superficie del nostro corpo, nè come collocate nell' interno del nostro corpo; ma, come dicevamo, in sè medesime. Quindi niente osta che ai movimenti, per esempio, di quella parte del nostro cervello, che è l' organo della fantasia, risponda l' apparizione d' un campanile e d' una chiesa; giacchè il sentito non è già il cervello, quale anatomicamente lo conosciamo, ma è ciò che ci apparisce; e non apparisce già nel cervello che non si vede, anzi non ha altra località che quella, che nell' immagine stessa o nella visione apparisce. Come dunque, si dirà, percepiamo noi la superficie del corpo nostro? Come sappiamo che la superficie del corpo umano, che ci apparisce, è la superficie del corpo nostro e non dell' altrui? - Certo, la sola sensione superficiale non ce lo dice; ma lo sappiamo dalla sensione superficiale in rapporto con altre sensioni; per esempio, se io sono toccato da un corpo straniero ho una sensione sola, ma se io tocco me stesso ho due sensioni, che riferisco allo stesso luogo; di che conchiudo che io non sono solamente il toccato, ma anche il toccante. Così se io vedo un corpo, e quando questo corpo è toccato da un altro corpo qualunque in un punto da me veduto, provo una sensazione tattile, conchiudo che il corpo che vedo è il mio. Ma anche di ciò più a lungo fu ragionato nell' Antropologia . Ora la ragione delle diverse maniere di sensione, come dicevo, non fu ancora investigata. Il principio generale da cui dedurla, si può nondimeno raccogliere da tutta la nostra teoria dei sentimenti corporei, ed annunziare così: « Essendo il movimento intestino che avviene nel continuo sentito, se non la causa, almeno il fenomeno extrasoggettivo correlativo alle sensioni, alla varietà nelle sensioni deve rispondere altrettanta varietà in esso movimento; e questa varietà del movimento se non è, può almeno rappresentare la ragione di quella varietà delle sensioni ». Per applicare un tal principio conviene enumerare tutte le varietà, che si possono concepire nell' intestino movimento del continuo sentito e dei vari organi; e di poi, coll' aiuto dell' esperienza, ricercare quale sia la varietà di sensione, che corrisponde a ciascuna di quelle varietà. Quest' opera appartiene ai futuri progressi della filosofia; noi, che siamo ben lontani dal poterla intraprendere, ci contenteremo di soggiungere solamente qualche cenno, che aprirà forse la via al grande studio da porsi nell' applicazione del detto principio. Il moto intestino riesce diverso primieramente, secondo che è diversa l' organizzazione. Che anzi la diversa maniera di organizzazione non solo occasiona diversità nei movimenti intestini, ma prima ancora fa luogo ad una diversità nel sentimento fondamentale, e ciò in più maniere. A ragione d' esempio, in quelle parti del corpo sensibile dove la tessitura è più fina e compatta, è mestieri che si trovi accumulato maggior sentimento fondamentale che non in altro spazio di eguale grandezza, dove la tessitura è più larga e porosa, e meno compatta. La stessa grandezza totale del corpo animale sensibile determina l' estensione del sentimento fondamentale, e questa è varia siccome quella. Il moto intestino, che produce le sensioni acquisite, varia altresì secondo che nelle diverse parti del corpo animale varia il moto intestino fondamentale, prodotto dall' istinto vitale e dall' istinto sensuale. Che anzi l' operare stesso di questi istinti riceve di nuovo la legge dall' organizzazione. Ad ogni modo si può dire che il moto intestino, che risponde alle sensioni acquisite, trova la ragione di tutte le sue variazioni in queste tre cagioni: 1 nella varia organizzazione del corpo e delle singole sue parti; 2 nella varia attività dell' istinto animale; 3 nella varietà degli stimoli suscitatori di quei moti. Ma il movimento intestino, di cui parliamo, è un fenomeno meramente extrasoggettivo? o è anche un fenomeno soggettivo? - Per rispondere con chiarezza, descriviamo il fatto. Le sensioni dei colori e dei suoni seguitano ad un tremare od oscillare del nervo ottico e del nervo acustico; questo tremare od oscillare è il movimento intestino, di cui parliamo; i colori ed i suoni sono le sensioni. Ora in queste sembra che non si percepisca punto nè poco l' oscillare o il tremare dei nervi sensorii. Dunque il movimento intestino, di cui parliamo, è fuori della sensione, non è il sentito; dunque egli è extrasoggettivo. Ma come sappiamo noi che avvenga quel tremore nel nervo ottico ed acustico? - Noi lo sappiamo per ragionamento. Tuttavia non è assurdo l' immaginare che quel tremore potesse essere materia all' osservazione esterna; e certo quando noi immaginiamo un tremare ed un oscillare, noi parliamo di cosa che conosciamo per via di osservazione esterna; poichè se nessun tremore avessimo mai veduto od esperimentato, non potremmo immaginare che tremassero i nervi della vista o dell' udito. Questo tremore, adunque, è fenomeno della natura di quelli che cadono sotto la vista e gli altri organi esteriori. Applichiamo perciò l' occhio a riguardare i movimenti oscillatorii di una molla a spira. In tal caso qui abbiamo un' altra sensione visiva, nella quale il sentito è la detta molla col suo movimento. Ma un movimento simile ad esso è appunto il movimento intestino del nervo ottico, a cui rispose la prima sensazione del colore. Ora questo movimento intestino, che rispetto alla prima sensione abbiamo veduto essere extrasoggettivo, rispetto a questa seconda sensione è divenuto soggettivo, perchè ne forma il sentito medesimo. Ogni movimento intestino adunque, a cui risponde una sensione, è cosa extrasoggettiva relativamente a quella sensione; ma può divenire stimolo ad una seconda sensione, che lo prende per suo termine. E qui è da riflettersi che circa la seconda sensione si può fare lo stesso ragionamento, che si fece circa la prima; poichè se la seconda sensione ebbe a suo termine il movimento intestino della prima, non ebbe già a suo termine il proprio movimento intestino, che può divenire termine ad una terza sensione. Così l' occhio, che vedesse il movimento frequente che fa la molla a spira accorciandosi ed allungandosi, o vedesse anche il tremore dell' altrui nervo ottico, non vedrebbe perciò il tremore suscitato nel nervo ottico del suo proprio occhio, a cui risponde la sua propria sensione. Si può dunque andare all' infinito colla serie delle sensioni, rimanendo sempre vera in generale questa proposizione, che « il movimento intestino di ciascuna sensione non è il sentito della stessa, ma può avere natura di sentito per la successiva; e però essere cosa extrasoggettiva rispetto alla prima, e soggettiva rispetto alla seconda ». Qui si deve bene considerare come il movimento possa appartenere al sentito. Il movimento nel sentito non è già un' unica e semplice sensione; è una successione di sensioni eccitate nello stesso esteso sentito. Posciachè dunque con un organo, poniamo coll' occhio, noi percepiamo un movimento, per esempio vediamo cadere una stella filante, è necessario supporre che il nostro organo sia organizzato di un complesso di parti, ciascuna delle quali si possa muovere liberamente indipendente dall' altra, e così egli sia quasi un complesso di organi distinti. Tale infatti noi abbiamo descritta la costruzione del nervo ottico, non come un nervo solo, ma come un fascicolo di filamenti, quasi piccoli tubi, ciascuno dei quali può tremare dentro e fuori con diversa frequenza, e così occasionare un diverso colore e diversi colori successivi, secondo i successivi tremori dei vari filamenti (1). Ed ecco come la diversa organizzazione rende diversa la maniera di sentire, giacchè se l' occhio non fosse così fabbricato, che i minutissimi fili componenti il cordone non si potessero muovere ciascuno a parte con proprio moto, ma si dovessero muovere tutti insieme con uno stesso metro e nello stesso tempo, non si avrebbero le varietà dei colori, nè la sensazione del movimento. I vari colori e i vari suoni rispondono al numero dei tremiti o delle oscillazioni dei nervi, che a loro presiedono. Ora è chiaro che la prontezza e celerità, colla quale si muovono alcune parti del corpo nostro più che altre, dipende: 1 dalla loro organizzazione speciale, che contribuisce a renderle più pronte e celeri al moto; 2 dall' attività maggiore dell' istinto animale, che in esse si manifesta. Onde, di nuovo, la diversa organizzazione e la diversa azione conseguente dell' istinto rappresentano la ragione dei diversi sensorii. Ma quale rapporto ha mai il numero dei tremiti con la sensazione del suono, quale similitudine? - Nessuna; e perciò dicemmo che quello è un fenomeno extrasoggettivo rispetto a questo, che è soggettivo, d' indole tutta diversa. Pure, se si ammette che il sentimento sia annesso agli atomi della materia, non è più difficile il concepire che il movimento intestino, che non toglie la continuità, debba non già spostare il sentito, perchè ha per natura d' esser continuo e però senza parti sensibili, bensì alterarlo, producendovi quella eccitazione, che altrove abbiamo descritta, e che dipende dalle primitive leggi dell' istinto vitale, la cui ragione ultima si perde nell' abisso della creazione. La grandezza adunque del corpo sensibile, la sua forma, la forma dei singoli organi, la diversità dei tessuti, la diversità delle molecole le une incartocciate nelle altre, e quindi di ordini diversi sempre più intimi, la loro diversa minutezza, la diversa loro figura, i loro diversi contatti, la loro speciale mobilità, le varie direzioni in cui si muovono, la comunicazione varia del loro moto, il moto più o meno propagabile, la celerità e frequenza dei movimenti, ed altre simili varietà che si possono riscontrare nei corpi animali e nelle loro parti, sono le circostanze che vanno studiate in relazione alle varie maniere di sensioni, e ai modi e gradi che in ogni maniera si riscontrano; le quali circostanze rappresentano la ragione di tutte queste varietà e modificazioni. La seconda sensitività speciale, da noi distinta, fu quella che chiamammo sensitività pneumatica . Intendiamo per questa specie la facoltà di sentire gli spiriti altrui, o di ricevere da essi un sentimento, che ce li rappresenti. Questa facoltà è così poco studiata che sembrerà quasi cosa nuova; tuttavia l' osservazione mi rende probabile la sua esistenza. E` però da osservarsi che, essendo l' uomo un essere misto, la sensitività sua non può mai avere a termine immediato uno spirito puro; ma io credo che un' anima senta l' altrui anima od altro spirito coll' intermezzo del corpo e nel corpo. Infatti è certo che un corpo animato dà sensioni d' indole affatto diversa da quelle che dà un corpo inanimato. Io mi ricordo di aver letto in qualche opera del Conte de Maistre un tratto eloquente e assai fine su quel misterioso e recondito, che è nel bacio e nei sentimenti che esso produce. Pare che in tali comunicazioni vi sia qualche cosa di vivo e di spirituale, che non si possa attribuire alla sola materia. Nell' amore e nell' amicizia sembra che, nell' affezione e nell' unione dei corpi, le due anime stesse si sentano e si comunichino. Anche mi pare che questa comunicazione spirituale non si debba restringere fra esseri della stessa natura; gli angeli stessi potrebbero in qualche maniera rendersi sensibili agli uomini, operando nei corpi in modo loro conveniente. L' argomento è fecondo e meriterebbe di essere accuratamente studiato. Lasciandolo noi all' investigazione dei filosofi che ci succederanno, vogliamo qui arrestarci un poco a considerare che merito abbiano i lavori di Gall e Spurzheim, al lume delle cose fin qui ragionate. Il principio, onde muove la dottrina dei mentovati fisiologi, si è che « il cervello non è un organo unico, nel quale nascano tutte le operazioni dell' intendimento, ma un complesso di sistemi nervosi, ossia di organi distinti, a ciascuno dei quali appartenga la produzione d' una speciale facoltà ». In questo principio e nella dottrina che ne derivano i loro autori, conviene distinguere una parte vera, che rimane solida base alla frenologia, ed una parte falsa, associata con essa dall' ignoranza delle più importanti ed evidenti verità psicologiche. Le osservazioni, a cui appellano i detti autori, suffragano alla parte vera; la parte falsa che le associano, lungi dall' essere il risultato di accurate osservazioni sulla forma del cervello e delle sue parti, altro non è che il prodotto della immaginazione e dell' arbitrio, che s' intromette di continuo nei lavori di questa classe di studiosi della natura. Ecco a che si riduce la parte vera. L' anima è un principio unico, ma ella ha più termini. Uno di essi è l' esteso, che suscita nell' anima la sensitività corporea in generale. Ora è un fatto che in questo termine esteso si distinguono varii organi, i quali sono cagione che la sensitività corporea variamente modificata si sparta in diversi modi di sentire, che si considerano poi come altrettante facoltà. Quindi niente vieta che il cervello, considerato prima come un organo solo, si riconosca essere un aggregato di varii organi, ciascuno dei quali presieda ad un ramo della sensitività corporea, purchè non si creda che ciascun organo sia indipendente dagli altri, che sia un esteso continuo dagli altri diviso; giacchè è cosa indubitabile, come abbiamo veduto, che il termine di un' anima è un continuo solo, le cui parti sono variamente organate, e si muovono con tanta armonia che al movimento speciale d' una di esse concorrono tutte le altre. Questo e non altro può essere il fondamento della Frenologia , e quindi appariscono gli errori che vi hanno mescolato Gall, Spurzheim ed altri frenologi; i quali errori sono principalmente i seguenti: I errore . - Essi confondono l' ordine della sensitività coll' ordine dell' intelligenza. Le funzioni dei diversi organi, di cui si compone il cervello, possono riguardarsi come altrettante facoltà della sensitività, non mai dell' intelligenza. Ciò che produsse questa confusione si fu che, prestando la sensitività materia all' intelligenza, per ogni ramo nuovo di sensitività si spiega in un modo nuovo l' intelligenza, ricevendo nuova materia. II errore . - Essi non avvertono, o per dir meglio, taluno d' essi non avverte che, anche stando nell' ordine della sensitività, questa potenza non è produzione del mero organo, il quale non è altro che il termine del principio senziente, che si chiama anima; e la potenza di sentire nasce dall' unione del principio e del termine, dell' anima e dell' organo, e non da quest' ultimo solamente; anzi la potenza è del principio e non del termine, dell' anima, non dell' organo; perocchè il principio è il soggetto di tutti gli atti della potenza, e però della potenza stessa. III errore . - Da questa seconda confusione dell' organo col principio senziente, associata coll' altra confusione dell' ordine della sensitività coll' ordine dell' intelligenza, scaturì il falso concetto che si fecero alcuni frenologi dell' intendimento umano. Essi pretesero che come il cervello è un aggregato di organi, così l' intendimento umano fosse il complesso di una moltitudine di atti differentissimi. Se avessero attentamente considerato che colui che intende, benchè faccia molti e vari atti, è sempre il medesimo soggetto, essi avrebbero riconosciuto l' unità e la semplicità dell' intelligenza, come facoltà d' un soggetto unico e semplicissimo. L' intendimento fa bensì molti atti e grandemente diversi fra loro, ma egli non è l' aggregato dei propri atti; ne è l' autore, la causa, il principio unico, ai quali logicamente e, rispetto ai più, anche cronologicamente è anteriore. IV errore . - Quindi può conoscersi quanto sia insulso il vanto che cotesti fisiologi si danno, di avere notomizzata l' intelligenza, parendo loro che col portare il coltello sulla massa encefalica, l' abbiano proprio inserito nell' intelligenza stessa! E` poi chiaro che tali fisiologi, i quali confondono le cose più disparate, non possono essere atti a formare una retta classificazione delle facoltà dello spirito umano. Onde quando Spurzheim, per esempio, divide le facoltà dell' anima e dello spirito in affettive ed intellettive , egli non s' accorge che vi sono delle facoltà affettive, che sono intellettive; perocchè il soggetto intelligente ha degli affetti, che gli vengono dall' intelligenza. Quando poi, dopo aver diviso le facoltà affettive in inclinazioni ed in sentimenti , riduce le inclinazioni al numero preciso di nove, che, con vocaboli da fare spiritare i cani, chiama l' abitavità , l' affezionività , la combattività , la distruttività , la construttività , la mangiatività , e la secretività , e vuol dire l' inclinazione ad abitare, ad affezionarsi, a combattere, a distruggere, a costruire, a cibare, a segregare umori; egli dimentica tutte le inclinazioni intellettive e morali. Di più, egli non annovera le inclinazioni primitive dell' anima, ma solamente alcuni effetti , che vengono prodotti nell' animale dal concorso di molte inclinazioni e facoltà primitive. A ragion d' esempio, l' inclinazione ad avere un' abitazione e a fabbricarsela non è una facoltà primitiva, ma è il risultato di vari bisogni che sente l' animale, ai quali si muove istintivamente a soddisfare; e così può dirsi di ognuna di quelle inclinazioni. Venendo ai sentimenti dell' anima, Spurzheim pretende che sieno dodici in punto, quattro dei quali comuni all' uomo e alle bestie, e sono quelli dell' amor proprio , dell' approvazione , della circospezione e della benevolenza . Ma egli non s' avvede che in questi quattro sentimenti ha luogo l' intelligenza, e però al solo uomo convengono; laddove nelle bestie vi sono bensì delle affezioni corrispondenti, che simulano questi affetti, ma sono veramente tutt' altro. Ora appartiene pure alla sagacità del filosofo rilevarne la profonda ed essenziale distinzione, senza lasciarsi così grossamente illudere dall' apparente somiglianza fenomenale. Gli otto sentimenti propri dell' uomo, secondo il medesimo autore, sono quelli della venerazione , della speranza , della soprannaturalità , della giustizia; dai quali egli fa derivare le nozioni religiose e morali della perseveranza , dell' arguzia , ossia del motteggio, dell' idealità e dell' imitazione. Ma oltrechè questi sentimenti non sono gli unici, anch' essi sono tutt' altro che sentimenti primitivi; sono per lo più risultanti dall' uso di più facoltà primitive, loro produzioni ed effetti. Così l' uomo arguto e motteggiatore non trae il suo spirito arguto che da un certo temperamento e da una certa mistura di varie facoltà. S' aggiunga che qualcuno di essi, come l' imitazione , è un istinto manifestamente comune agli animali bruti, e più che in ogni altro essere manifesta la sua forza nelle scimmie (1). La stessa imperfezione si scorge nella classificazione delle facoltà intellettive, che lo Spurzheim divide in tre ordini: 1 le funzioni dei sensi esterni; 2 le facoltà percettive; 3 le facoltà riflessive . Ora le prime non appartengono all' intelligenza, ma alla sensitività corporea, che è tutt' altro. Egli divide le facoltà percettive in due gruppi, nel primo dei quali colloca quelle che riguardano la percezione degli individui , nel secondo quelle che riguardano la percezione delle relazioni degli oggetti e loro fenomeni. Mette dunque nel primo gruppo le facoltà dell' individualità , della configurazione , dell' estensione , del peso e del colorito . Ma queste cose, separate le une dalle altre appartengono all' astrazione e non alla percezione, la quale si riferisce sempre all' oggetto fornito di tutte le sue proprietà percettibili, secondo la natura delle diverse percezioni. Nel secondo gruppo egli colloca le facoltà del luogo , del numero , dell' ordine , dei fenomeni , del tempo , della melodia e del linguaggio artificiale; le quali, lungi dall' appartenere alla mera percezione, sono anch' esse altrettante funzioni dell' astrazione e del ragionamento, effetti di più facoltà primitive e secondarie, che operano e cospirano insieme a produrli. A ragion d' esempio, la facoltà del linguaggio, lungi dall' essere una facoltà primitiva, è un effetto oltremodo complesso di quasi tutte le facoltà umane, sieno quelle dei sensi esterni o quelle dell' istinto animale, sieno quelle del giudizio, del raziocinio, ecc.. Il terzo ordine delle facoltà intellettive, che è quello della riflessione, viene diviso da Spurzheim nelle sole facoltà del paragone e della causalità . Ogni filosofo, che abbia un po' meditato sullo spirito umano, può conoscere agevolmente l' insufficienza d' una tale classificazione. Oltre a ciò non esiste una facoltà primitiva della causalità, ma solo una legge ontologica, a cui ubbidisce l' intelletto, che cerca la causa di ogni contingente. Conviene adunque conchiudere: Che il cervello è un aggregato di vari organi, ma insieme armonicamente connessi in un solo continuo. Che ciascuno di essi ha delle funzioni speciali, ma solo nell' ordine della sensitività. Che nell' uomo alle diverse funzioni della sensitività corporea e al loro diverso sviluppo risponde un diverso sviluppo d' intelligenza, la quale riceve dalla sensitività la materia di sue operazioni; ma che nulla di ciò avviene nelle bestie, alle quali non è data intelligenza alcuna, ma una sensitività che simula coi suoi effetti istintivi l' intelligenza. Che le diverse funzioni della sensitività corporea, che rispondono ai diversi organi del cervello, sono funzioni primitive ed immediate, quali sono quelle del vedere, dell' udire, dell' assaporare, ecc.; alle quali succedono corrispondenti facoltà attive, come, a ragion d' esempio, alla funzione dell' udito la facoltà dei suoni vocali (non quella del linguaggio, che appartiene all' intelligenza). L' enumerazione accurata di queste funzioni primitive e immediate della sensitività corporea in relazione cogli organi del cervello, è appunto ciò che rimane a fare al frenologo. Questo lavoro è appena abbozzato; pochissime sono le proposizioni provate fino ad ora coll' osservazione, e, per indicarne una che pare ridotta a grande probabilità, citerò quella di Gall che « il cervelletto sia l' organo dell' amore fisico ». L' amore fisico infatti è una funzione primitiva della sensitività corporea. Non basta; quando si dice che un organo presiede a una funzione o a un ramo della sensitività, conviene guardarsi dal credere che egli solo basti a produrre le sensioni corrispondenti; anzi se si separa dagli altri organi, non si ha più l' effetto. Conviene adunque che il frenologo stabilisca oltracciò, moltiplicando le osservazioni e i più sagaci esperimenti, la connessione necessaria che ciascun organo ha cogli altri acciocchè possa produrre l' effetto; e più generalmente conviene che stabilisca non tanto quale sia l' organo di una data funzione della sensitività, quanto « quale sia l' apparato di organi, che è ordinato a produrla ». Di più, dopo avere dimostrato quale è l' organo speciale delle funzioni, quale l' apparato di organi che concorre a produrre effettivamente l' effetto, conviene che ricerchi finalmente: « quale sia la connessione di ogni apparato con tutto il sistema nervoso e con tutta intera la fabbrica dell' animale ». Ecco davvero un gran campo coltivato bensì dai moderni fisiologi, donde si potranno tuttavia cogliere ancora nuovi ed abbondanti frutti di solide cognizioni. La terza specie di sensitività è l' ideologica. Noi siamo consapevoli d' intuire le idee. Ora non potremmo essere consapevoli di questa nostra intuizione, se non sentissimo che siamo noi gli intuenti. Noi dunque abbiamo il sentimento di noi stessi come intuenti. Sembrerà che questa maniera di sentire si confonda colla sensitività psichica; e si può veramente concepire come un ramo di questa. Perocchè nell' una e nell' altra l' anima sente come principio; ma in quella che abbiamo chiamata psichica, l' anima sente come principio nel termine esteso , nell' ideologica sente nell' idea; giacchè i due termini dell' anima sono l' esteso e l' idea, e il principio sente nel termine. Laonde i termini essendo due, di natura disgiuntissima, il principio medesimo ha un doppio sentimento. Dove è da notarsi che il sentimento che ha l' anima, in quanto termina nell' idea, è un sentimento oggettivato, sicchè l' anima, che pure è soggetto, sente sè stessa oggettivamente, quasi perdendo nella pura intuizione la sua propria individualità. Dove giace il misterioso punto di congiunzione fra l' ordine soggettivo e l' oggettivo, fra il senso e l' intelligenza; di che ci promettiamo di poter parlare più compiutamente nella Teosofia . L' idea stessa non è tuttavia il proprio termine della sensitività ideologica, poichè ella è solo il termine dell' intuizione . La differenza fra il termine proprio del sentimento e dell' intuizione è capitale. Il termine proprio del sentimento deve essere qualche cosa che appartiene al senziente; il termine dell' intuizione è qualche cosa che s' intuisce come un diverso dal senziente, qualche cosa che è puramente in sè. Ora l' anima, che vede l' idea, sente sè stessa nell' essere ideale; e questa è la speciale sensitività ideologica, di cui parliamo. L' anima poi col sentirsi in possesso dell' idea si sente intelligente, nobilitata, e piglia un istinto intellettuale e razionale , che è la parte attiva della sensitività ideologica. Finalmente io chiamo sensitività teorica quella che Iddio produce nell' anima col darlesi a percepire. Iddio non si concede ad altra potenza che a quella dell' intelletto, qualora questa potenza si definisca in generale « la potenza dell' essere ». Questa sola ha una capacità infinita, perchè l' essere è infinito (1). Abbiamo veduto che l' essere è uno, ma in tre forme. Quindi se la potenza dell' intelletto si considera rispetto all' essere, anch' ella è una; ma se la si considera rispetto alle forme, ella pure veste tre forme, apparisce come tre potenze. Sotto la forma ideale, l' essere intuìto è il lume dell' anima, e a questa solamente si riferisce l' intelletto naturale all' uomo, che anche chiamiamo spesso intelletto semplicemente. Sotto la forma reale, l' essere contingente è limitato, non è l' essere ideale infinito realizzato. Ora, separato dall' essere ideale che è il lume, egli si rimane oscuro, non è più oggetto di alcuna potenza intellettiva. Ma unito al lume, unito all' essere ideale, anche l' essere reale si rende conoscibile, e diviene oggetto della potenza speciale della ragione . Ed appunto perchè il contingente reale non è conoscibile per sè stesso, ma ha bisogno che gli sia applicato l' essere ideale da un atto intelligente, perciò l' apprensione dell' essere reale contingente non si attribuisce alla semplice potenza dell' intelletto, ma a quella della ragione. All' incontro, se l' essere ideale infinito si manifesta realizzato, allora l' intelletto apprende lo stesso essere infinito anche come reale, indivisibile per sua natura dall' ideale, e se ne ha la percezione di Dio, che non si può avere per natura, come sognando asseriscono gli antichi e i moderni platonici. Ora questo, considerato rispettivamente alla realità, è un senso intellettuale7soprannaturale. Si dirà: come si possono avverare rispetto a Dio le due condizioni del senso, che l' agente resta mutato e che l' anima pure s' immuti? Rispondo: Iddio non è mutabile, in sè stesso niente egli patisce dall' anima a cui si comunica. Non di meno è da considerarsi che l' anima non comprende totalmente Iddio; perciò altro è Dio in sè stesso, illimitato, incomprensibile, altro è quella misura o grado qualitativo, nel quale la realità di Dio si comunica all' anima. Questo grado qualitativo è determinato dall' anima stessa, che colla sua limitazione lo forma; la limitazione poi viene dalla misura limitata nella quale Iddio si comunica. Onde si può dire che Iddio in quanto è limitatamente percepito dall' anima, in tanto viene limitato dall' anima, che ne è come il recipiente; misura o limite, che non cade punto nello stesso Dio, ma nel rapporto di connessione fra Dio e l' anima, pel quale Iddio si fa oggetto prossimo e immediato della percezione. Quanto poi alla modificazione che riceve l' anima dalla realità di Dio a lei comunicata, ella nasce dall' azione della realità di Dio nell' anima, a cui conseguono altri meravigliosi effetti. Poichè l' oggetto dell' intelletto è naturale scopo all' affetto razionale, che sta in seno alla natura umana, e della volizione primitiva, che tende al bene in universale. Onde conviene che l' affetto e la volontà, trovando un tanto oggetto, si rinforzino, si sublimino, si trasnaturino; e che l' anima riceva una potenza tanto diversa dalle altre, quanto è diverso Iddio dagli altri oggetti, cioè infinitamente. Questo è ciò che i teologi chiamano lume di grazia e di gloria . Poichè, come ogni termine specificatamente diverso suscita una nuova potenza, così è uopo che ne susciti una nuovissima quell' oggetto, che differisce da tutti gli altri non solo di specie, di genere, di categoria, ma addirittura di essere. L' intelletto umano, adunque, colla percezione della divina sostanza mantiene bensì la stessa radice, ma riceve una nuova attività, più diversa da quella che aveva prima, che non sia una potenza qualunque da qualunque altra. E qui non è tanto difficile lo spiegare come l' anima possa ricevere l' azione della divina essenza, quanto come la divina essenza possa agire nell' anima. Ma a noi basterà dire in generale che Iddio agisce nelle creature a quel modo che le creature sono in lui; perocchè è scritto che [...OMISSIS...] . Onde per agire nelle creature egli non ha bisogno di uscire colla sua azione da sè stesso. Perocchè quell' azione, che in Dio è la divina essenza, niente vieta che fuori di Dio rechi un effetto limitato. Conciossiachè le nature contingenti hanno un' esistenza relativa a sè stesse, nè Iddio, creandole od operando in esse, toglie la loro soggettività ed individualità, anzi la forma. Ora quell' atto che non distrugge i soggetti e gli individui, ma che dopo averli creati dà loro ciò che vuole, non ha mestieri d' essere limitato in sè stesso, come è limitato nel suo termine relativo. Ma questo è argomento, che appartiene alla Teologia; e noi avremo occasione di parlarne, a Dio piacendo, nella Teosofia . Ora, dopo aver noi parlato del senso dell' anima come potenza passiva, dovremmo parlare di lui come potenza attiva, cioè dell' istinto; ma ci vien meglio rimettere questa trattazione a quel libro, che espone le leggi che presiedono all' attività dell' anima, per non ripetere più volte le stesse cose. L' intelletto, in generale, è la potenza dell' essere come essere, ossia dell' essenza dell' essere. A nessun intelletto creato è naturale l' apprendere l' essenza dell' essere sotto la forma reale, bensì sotto l' ideale. L' essere nella sua trina forma non è noto naturalmente che a sè stesso. Dell' intelletto umano, in quanto è formato dall' essere ideale, ragiona a sufficienza l' Ideologia . In quanto poi gli è dato l' essere nella sua forma reale, è divenuto potenza soprannaturale, di cui tratta l' Antropologia soprannaturale . Che se si considera che nell' intelletto, a cui l' essere sia comunicato anche sotto la forma reale, deve trovarsi quella perfetta armonia e reciproca convenienza fra l' essere ideale e il reale, che costituisce l' essere morale, avente ragione di compimento, di perfezione, di bene; nasce un terzo rispetto, sotto cui si può considerare l' umano intelletto od ogni altro quale si voglia; la cui trattazione compiuta spetta all' Agatologia . Noi qui toccheremo una questione importante. Abbiamo detto, in qualche luogo, non essere assurdo che si concepisca un soggetto meramente intellettivo, non affettivo o volitivo; il che è vero, se si considera la cosa da parte del soggetto. Si avrà nondimeno una conclusione contraria, se la si riguarda da parte dell' oggetto. Di vero l' essere ha questo di essenziale, di essere bene; perciò egli non può essere conosciuto se non come bene. Il conoscerlo poi come bene importa un affetto o inclinazione a lui. Come dunque l' essere nella sua condizione di lume crea l' intelletto, quasi causa formale dell' anima (o, se meglio si vuole, causa della causa formale, causa dell' illuminazione dell' anima), così lo stesso essere nella sua condizione essenziale di bene crea la volontà primitiva, come causa finale che attua il primo affetto, la prima volizione volta all' essere in universale. E come l' intelletto è la potenza ricettiva, così la volontà è la potenza attiva che gli corrisponde. Ora, posciachè l' intelletto ha per oggetto essenziale l' essere ideale, il quale è in sè stesso immutabile, perciò esso non è suscettivo di alcuno sviluppo; ed ha natura piuttosto di atto immanente che di potenza . Solamente può essere perfezionato, accresciuto, sublimato coll' ordine soprannaturale, a quel modo che dicemmo, svelandosi l' essere essenziale nella sua realità. Vero è che l' essere ideale s' intuisce anche variamente determinato e limitato; e perciò gli Scolastici attribuiscono all' intelletto l' intuizione di queste idee, e così gli danno uno sviluppo. E dove la cosa sia prima chiara, niente vieta che si adoperi la parola intelletto a significare in generale « la potenza di intuire le idee ». Qualora però si consideri che la determinazione e la limitazione dell' essere ideale non si può avere senza la percezione delle realità contingenti e i vestigi di lei che rimangono nell' anima, si vedrà esser più esatto l' attribuire alla ragione anche l' intuizione delle idee determinate, come quella che non è intuizione semplice, ma contiene nel suo seno l' applicazione dell' essere ideale alla realità, opera della ragione. Allo stesso modo si può dire che la volontà primitiva ed universale non ha ragione di potenza, ma di atto immanente, principio e base della potenza; onde meglio che volontà primitiva a noi pare di doverla chiamare volizione primitiva. Per queste ragioni non aggiungiamo qui la tavola sinottica della potenza dell' intelletto. La potenza della ragione risulta nell' anima, principio comune del senso e dell' intelletto, quale conseguenza del sentito e dell' inteso, poichè lo stesso principio comune li unisce nell' unione percettiva , che è quella per la quale esso principio comune apprende il reale nell' ideale come nella sua essenza. Di che si trae che la potenza della ragione piuttosto che soggettiva è il soggetto stesso operante, al quale però l' idea prescrive la legge. Si trae ancora che la ragione, quanto all' ordine logico, è una potenza posteriore alle due potenze del senso e dell' intelletto, da cui risulta; non però quanto all' ordine cronologico, perocchè tosto che è l' uomo, è la ragione; il che si prova così. L' uomo è un soggetto unico composto di anima intellettiva e di corpo animale. Ma l' unione dell' anima intellettiva col corpo animale si fa per via d' una prima ed immanente percezione. Ora la prima e immanente percezione è l' atto primo della ragione, quell' atto pel quale la ragione esiste. Dunque l' esistenza dell' uomo e l' esistenza della ragione sono contemporanee. Che se la ragione è tostochè esiste l' uomo, e se prima che esista l' uomo, non esiste nè il senso corporeo, nè l' intelligenza, dunque queste facoltà primitive non sono nell' uomo anteriori di tempo all' esistenza della ragione, benchè questa risulti da quelle quasi come una conseguenza dai suoi principŒ. Vero è che il senso, o, per dir meglio, l' animale può esistere innanzi all' uomo; ma perciò appunto noi parliamo del senso e dell' intelligenza, in quanto sono propri dell' uomo. Come poi si dia priorità nell' ordine logico, senza che ne consegua necessariamente priorità di tempo, merita d' essere considerato dal filosofo. Ne abbiamo più esempi: per addurne uno dei più degni d' attenzione, accenneremo quello del sillogismo, dove l' unione dei due primi termini, ossia la conseguenza, non è posteriore ad essi di tempo nell' umana mente, benchè risulti da essi. Infatti, finchè la mente non vide il rapporto dei due termini, non c' è ancora sillogismo, nè il primo termine si può chiamar primo, nè il secondo secondo, nè c' è maggiore o minore; e tostochè ella vide la conseguenza, trovò altresì incontanente che una nozione è primo termine e un' altra è secondo; e così trovò la maggiore e la minore. Lo stesso accade, se vogliamo discendere a un caso particolare, nella percezione dei corpi, la quale, benchè paia fatta per un cotal ragionamento, pure è del tutto immediata (1), perchè ella stessa forma il suo oggetto (2). Dal qual vero importante, che « in un medesimo ente vi sono elementi che tengono fra loro una relazione di priorità e di posteriorità, e non tuttavia alcuna priorità e posteriorità di tempo », nasce un bellissimo principio ontologico, cioè che « nel seno dell' ente vi è un' azione continua, immanente »; col quale principio si riforma e corregge il concetto volgare dell' ente; poichè l' uomo, pigliandone sempre l' esempio dalla materia, suol concepire l' ente come cosa immobile e morta, non sapendo egli immaginarsi altra azione che quella del movimento locale e dell' atto transeunte. Ora qui non trattasi di azione che passa e che si fa per parti, benchè una parte sia passata e l' altra debba avvenire; ma v' è nel seno all' ente un' azione che si fa tutta continuamente, per la quale si mette in essere lo stesso ente e lo si fa permanere; onde, se non fosse fatta tutta, l' ente non sarebbe, e se non fosse continua, non permarrebbe, e tuttavia ella ha in sè un suo proprio ordine, analogo a quello della successione delle cose nel tempo, alla quale si potrebbe applicare cogli Scolastici l' appellazione di evo . Dal qual fatto deve prendersi anche la spiegazione della memoria, che suppone che ciò che è successivo in sè stesso diventi contemporaneo, rimanendo presente tutta la successione, nella quale stava il tempo. E la memoria è facoltà della ragione, perchè non potrebbe esistere senza che qualche sentimento non segnasse nell' essere ideale le entità particolari successive. Ma sulla memoria dovremo tornare in appresso, quando parleremo dell' unità dell' uomo, e del modo onde da quella unità escono le sue attività molteplici. Il fine adunque, a cui è ordinata la potenza della ragione, si è quello di mettere l' essere intelligente in comunicazione colla realità delle cose. Infatti l' uomo, in quanto è intelligente, per natura sua non comunica che coll' idealità, che costituisce il lume dell' intelligenza. La realità poi o è infinita e necessaria, o è finita e contingente. Nella pura idealità non si trova nè la realità infinita, nè la realità finita; perciò l' intelligente, che intuisce l' idealità pura, non comunica per sua natura con niuna realità. La realità dunque deve essere data all' intelligenza umana, perchè non è a questa essenziale. Ma come le può esser data? La realità infinita, Iddio, non le può venire che da una graziosa comunicazione di Dio stesso; e se le vien data, ella è intelligibile per sè stessa, giacchè è la stessa essenza dell' essere ideale7reale. Dunque ella non ha bisogno d' altra potenza per essere intesa che del solo intelletto, che intuisce l' idealità; solamente che questo viene perfezionato e sublimato, reso percettore dell' assoluta realità. La realità finita e contingente non è intelligibile per sè stessa, perchè è priva dell' essenza dell' essere. Affinchè adunque la realità finita si comunichi all' intelligenza, conviene che l' intelligenza stessa la renda intelligibile. Ora con questa operazione, che fa l' intelligenza, si costituisce una potenza nuova diversa dall' intelletto, la quale si chiama ragione . Di vero, altro è intuire ciò che è intelligibile, e altro rendere intelligibile ciò che intelligibile non è. Queste sono due maniere di atti specificamente diversi, di cui sono specificamente diversi gli oggetti formali. Ora le potenze si distinguono secondo la distinzione degli atti e dei termini formali. Dunque la ragione è potenza diversa dall' intelletto. Come poi la realità contingente, che non è l' essenza dell' essere, possa rendersi intelligibile, noi l' abbiamo svolto altrove. Ma ricapitolando diremo: Che la prima condizione a rendere intelligibile la realità contingente si è che questa sia accessibile all' essere intellettivo. La seconda, che l' essere intellettivo aggiunga alla realità l' idealità, cioè l' essenza, di queste due cose costituendo un ente, oggetto dell' intendimento. Ma quando e come può accadere che la realità contingente diventi accessibile all' ente intellettivo? - La realità accessibile all' ente intellettivo è la realità dell' ente stesso intellettivo, poichè questo è un reale. Che poi la realità dell' ente intellettivo debba riuscire accessibile a sè stesso è manifesto, poichè non è lungi da lui, ma è lui stesso. E questa realità non è morta, ma viva, perchè è sentimento. Onde il dire che un ente intuisce l' essere ideale viene quanto a dire che un sentimento è congiunto all' essere ideale. Il sentimento, dunque, e l' essere ideale sono congiunti per natura, e costituiscono un unico intelligente. Ma l' essere ideale è l' intelligibilità stessa di tutte le cose. Dunque il sentimento è reso intelligibile per l' intima unione che ha coll' intelligibilità, fondata in natura; unione tale che di lui e della sua intelligibilità risulta un solo ente, il quale dicesi intellettivo. E qui si debbono fare diverse considerazioni. Primieramente io diceva che la realità dell' essere intellettivo è un sentimento. Non si creda che da ciò nasca che l' essere intellettivo non possa percepire altro che la realità propria. Poichè, quantunque sia vero che « la percezione intellettiva non si estende fuori del sentimento proprio », tuttavia è evidente che deve abbracciare anche tutte le modificazioni di questo sentimento; e di più non è a dimenticarsi quell' osservazione ontologica, da noi fatta di frequente, che l' azione di un ente si manifesta in un altro ente, senza confondersi coll' azione dell' ente in cui si manifesta; onde avviene la distinzione dei due concetti di attività e di passività. Se dunque accade che nel nostro sentimento proprio si manifesti l' azione di un altro ente, forza è che noi percepiamo anche questo altro ente percependone l' azione, appunto per la ragione che percepiamo il nostro proprio sentimento e quanto accade in esso. Nè osta il dire che il percepire l' azione d' un ente non è il percepire l' ente, attesa la legge immutabile della percezione che « non si percepiscono le azioni degli enti, senza concepire gli enti a cui appartengono ». Che anzi, propriamente parlando, « altro mai non si concepisce ed intende che l' ente e ciò che nell' ente accade », poichè il solo ente è oggetto dell' intelligenza. Ed è perciò appunto che le realità contingenti non sono intelligibili per sè stesse, perchè non sono enti, ma sono azioni di un altro ente o, se si vuol meglio, termini delle sue azioni; di maniera che lo stesso sentimento nostro sostanziale non è ente per sè, ma è propriamente il termine dell' azione di un ente che ci rimane nascosto. Onde anche per intendere questo nostro sentimento, come pure tutte le realità contingenti che cadono in esso, noi dobbiamo supplirvi l' ente con un atto della nostra intelligenza, ed è così che noi le completiamo e le rendiamo intelligibili. Similmente le azioni che fanno in noi gli enti diversi da noi, noi le intendiamo coll' aggiungervi l' ente, cioè unendole ad un ente di cui sono azioni. In secondo luogo si scorge dallo stesso principio, onde nasca l' autorità, che ha presso ogni uomo la deposizione della propria coscienza . Questa non è, a dir vero, la prima percezione intellettiva del proprio sentimento, ma è la riflessione su questa e sulle altre percezioni. Ora, se colla prima e naturale percezione l' uomo conosce la propria animalità, colla percezione della percezione, ossia colla percezione del percipiente che è la prima riflessione, l' uomo rende intelligibile e percepisce sè stesso come intelligente, fino a formarsi l' io nel modo che abbiamo descritto. Ma se la prima percezione non fosse naturale, e in essa non si fondassero le altre percezioni, che l' uomo acquista successivamente di sè modificato, le deposizioni della coscienza non avrebbero quell' autorità che hanno in tutti gli uomini; i quali sono persuasi che esse sieno infallibili ed evidenti. E tale persuasione nasce, perchè la prima congiunzione del sentimento e dell' idea è un fatto della natura stessa; nel qual fatto l' uomo percepisce abitualmente il proprio sentimento; e la percezione non dubita mai di sè stessa, anzi la persuasione ne è il suo naturale finimento: tale è il testimonio della coscienza, che è sempre una percezione della percezione. In terzo luogo possiamo qui chiarire facilmente come nasca, e di che natura sia la riflessione . Questa nasce evidentemente dall' attività del soggetto razionale . Ora noi abbiamo veduto come il soggetto razionale sia posto in essere. Egli è posto in essere colla percezione intellettiva fondamentale , per la quale l' ente intelligente è individualmente unito al sentimento animale, nella quale unione l' uomo è costituito. Senza di ciò il soggetto, ossia principio razionale, non esisterebbe. Ma posto che egli esiste, ha un' attività sua propria, indipendente, in quanto al modo, dal termine; giacchè, come abbiamo veduto, l' attività di ogni principio esiste bensì pel termine, ma opera alla sua maniera, la qual maniera noi dobbiamo dedurre dall' osservazione. Ora l' attività del principio razionale si può chiamare generalmente attenzione , benchè questa parola non si usi con tanta generalità di significato, adoperandosi solitamente ad esprimere « l' attività intellettiva libera o di elezione, di cui si suol avere coscienza, che si applica e si concentra in un oggetto determinato ». Ma considerando noi che la virtù intellettiva, che si applica liberamente ad un oggetto scelto, non differisce da quella che si applica istintivamente a quell' oggetto, che dapprima si presenta allo spirito, noi crediamo che convenga pigliare il vocabolo attenzione intellettiva a significare in generale « la virtù dello spirito, che si applica anche senza una speciale concentrazione, anche istintivamente, ad un oggetto qualsiasi ». Così presa, diviene un primo atto di attenzione anche l' intuizione dell' essere; un atto di attenzione si acchiude anche nella percezione. Ma dopo di ciò l' attenzione seguita a dirigersi e concentrarsi con varie leggi, ora secondo l' istinto guidato dai bisogni, ora per elezione spontanea, ora anche per elezione libera fra oggetti che sono presenti allo spirito. E questa è la propria virtù del principio di poter concentrarsi sopra più oggetti, o sopra uno o una sola parte di esso, ritraendosi alquanto dagli altri o anche interamente. Si ritenga qui, adunque, che questa è legge propria dell' attività del principio o soggetto razionale di concentrarsi in un oggetto, o parte di oggetto qualsiasi, fra quelli che stanno presenti allo spirito. Come dunque accade che lo spirito possa riflettere sulle sue proprie operazioni? Stabilito che tutte le operazioni passive od attive dello spirito sono sentimento, e che ogni sentimento dell' uomo è oggetto d' una percezione naturale, si manifesta incontanente come nasca la riflessione. Poichè questa non è, come abbiamo detto, che una percezione delle percezioni e degli atti precedenti; percezioni ed atti che sono sentimento, e però capaci d' essere percepiti. Che se rimane così spiegato come l' uomo possa riflettere sugli atti del proprio spirito, ancor più facilmente si spiega com' egli possa riflettere sugli oggetti di questi atti; giacchè tali oggetti sono uniti alle percezioni e ne costituiscono il termine, di cui gli atti sono i principŒ. E` dunque percettibile il termine, come il principio degli atti intellettivi, i quali non sono senza quei due estremi; e per la forza di concentrazione lo spirito può applicare la sua attenzione agli uni o agli altri, ai principŒ o ai termini esclusivamente (1). In quarto luogo è spiegato altresì come il principio razionale possa operare sulla realità e sulla stessa materia. Poichè noi abbiamo veduto che il principio razionale è un reale egli stesso, cioè un principio di sentimento, il quale rende intelligibile sè stesso, attesa la naturale unione che egli ha coll' essere ideale, che è l' intelligibilità di tutte le cose; e percependo sè stesso, percepisce altri reali, che in esso suscitano degli effetti. Ora l' essere reale, ossia il sentimento sostanziale, ha un principio attivo, col quale può modificare sè stesso e reagire altresì su ciò che in lui agisce. Che se questo essere reale percepisce e quindi conosce sè stesso e i suoi diversi stati, per questa condizione di sè egli impara altresì a conoscere come debba muovere e adoperare la sua propria attività, per venire a capo di modificare sè stesso e le altre cose seco annesse. Se dunque il principio razionale sa come debba operare, e in pari tempo è egli stesso la virtù operativa, chiaro è che il medesimo principio razionale sarà attivo a sua volontà su di sè stesso e sui reali, che si continuano a lui, in virtù dell' azione che essi esercitano in lui, ed egli in essi. Fin qui noi abbiamo parlato dell' origine e della natura della percezione e della riflessione , che sono le due facoltà della ragione. Gioverà che aggiungiamo una breve analisi dell' una e dell' altra. La percezione ha tre gradi, che noi chiameremo apprensione, affermazione e persuasione . Nell' apprensione (intellettiva) della realità si contengono virtualmente l' affermazione e la persuasione; e a questo primo grado si ferma la percezione fondamentale della nostra animalità. Infatti l' uomo nei primi istanti di sua esistenza non afferma espressamente la propria animalità, ma molto tempo dopo, quando incomincia a far uso di un qualche linguaggio; e così si concilia colla dottrina della percezione fondamentale l' altra opinione per noi espressa, che l' uomo percepisca prima le cose esterne, e molto dopo, sè stesso colle cose sue. Noi dicevamo questo, riferendo il nostro pensiero all' affermazione espressa , che è il secondo grado della percezione, quello che la compie e trae dietro sè la persuasione distinta . Dobbiamo anche dire che la sola affermazione forma il nerbo della mente, il quale però nell' apprensione si trova in un cotal modo implicito e virtuale. La persuasione poi, anzichè un atto, è un abito dello spirito, ed è distinta ed attuale quando è prodotta dall' affermazione; allora ella è l' affermazione stessa, che abitualmente rimane nello spirito. Alla percezione tien dietro la facoltà dell' universalizzazione , ossia delle idee specifiche7piene , intorno alla quale ragionammo abbastanza nel « Nuovo Saggio (1) ». Venendo ora alla riflessione, noi abbiamo già posto il principio dell' analisi che si deve fare di essa. Il qual principio si è che lo spirito razionale ha virtù di dirigere la sua attenzione su gli oggetti percepiti, di restringerla a pochi e di estenderla a molti, o a tutti, o ad una parte di essi anche realmente non divisibile, e di concentrarla in un solo punto, per così dire, accrescendone l' intensione. Prima però di venire all' analisi è da rammentare che la riflessione, essendo sempre percezione di percezione, ha per sua legge di raffrontare l' oggetto, su cui riflette, coll' essere universale (2), ond' ella cava i principŒ trascendenti. Dal che avviene che la facoltà della riflessione non operi già per modo di semplice riflessione. In questo caso ella non aumenterebbe gli oggetti del conoscere; altro non farebbe che rivederli, riguardarli di nuovo. Ora il semplice riguardarli di nuovo non è ciò che si chiama filosoficamente riflettere; non è altro che un attuare nuovamente l' attenzione, dopo che questa rimise dall' atto suo e divenne abituale. Questo atto nuovo dell' attenzione, se si tratta di cose abitualmente conosciute, non è dunque la riflessione , ma la reminiscenza . Se poi si ripete la stessa percezione esterna avuta altre volte, neppur questa è riflessione, ma solo ripetizione della percezione. La riflessione si deve dunque distinguere accuratamente dalla memoria , che è il deposito delle cognizioni abituali, dalla reminiscenza , che è l' attuale avvertenza di quelle, e dalla percezione ripetuta . E la distinzione principale sta in questo, che nè la memoria, nè la reminiscenza, nè la percezione ripetuta aumenta il sapere dell' uomo; laddove la riflessione sì. E lo aumenta, perchè, come dicevamo, la riflessione nel percepire la percezione la rapporta sempre e confronta all' essere ideale, e ne discopre le relazioni, che si cangiano in altrettanti principŒ. Di qui nasce che la riflessione si debba dividere in parziale e totale . Chiamo parziale quella riflessione, che tende a discoprire i rapporti che dividono od uniscono gli oggetti, sui quali ella cade, senza però ch' ella tenda ad avere per risultamento del suo operare i rapporti degli oggetti collo stesso essere universale ed essenziale. Chiamo totale quella riflessione, che discopre e pronuncia i rapporti dei suoi oggetti coll' essere universale ed essenziale. La riflessione ricorre sempre all' essere universale, essenziale, ideale, senza di che non potrebbe scoprire niuna cosa nuova; ma talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che hanno fra di loro, e si dice parziale; talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che questi hanno coll' essere stesso, e si dice totale . La ragione di queste denominazioni non si trae dal diverso mezzo di conoscere, poichè la riflessione usa sempre dello stesso mezzo, che è l' essere ideale; ma si trae dal diverso risultato che se ne ha; il quale è parziale, se si ferma ai rapporti degli oggetti parziali fra loro, ed è totale, se finisce collo stabilire i rapporti che ha l' essere stesso, l' essere universale, cogli oggetti, benchè parziali. I rapporti dell' essere universale sono sempre universali, e però abbracciano in qualche modo tutto lo scibile; all' incontro i rapporti degli oggetti parziali fra loro sono parziali, e non costituiscono che una parte dello scibile. Dalla natura della riflessione parziale si traggono i diversi ordini della riflessione, cioè si trae la ragione che spiega perchè, dopo aver io riflettuto sulla percezione, posso riflettere sulla mia riflessione, facendo un secondo atto di riflessione, e con una terza riflessione posso ripiegarmi sulla seconda, e con una quarta sulla terza, e così via, ricavando sempre qualche cognizione nuova, ogniqualvolta mi elevo ad un ordine maggiore di riflessione. Ora, che la possibilità di questi diversi ordini di riflessione proceda dall' essere parziale la riflessione, si vede da questo, che se io colla prima riflessione esaurissi lo scibile, non potrei più conoscere nulla di nuovo colla seconda e colle susseguenti, e dovrei limitarmi a ripetere l' atto della prima. E quanto importantissima cosa sia lo studio di questi diversi ordini di riflessioni, solo può intenderla colui, il quale abbia saputo scorgere che indi si trae il principio supremo del metodo (1); il principio altresì che deve reggere una storia filosofica delle scienze, il principio d' una storia dell' umanità, ed infinite altre conseguenze di sommo momento nel governo morale e politico degli uomini. Ma in quella riflessione, che abbiamo detta totale , cessano gli ordini molteplici, poichè, giunta alle somme e più complesse verità, quella via resta chiusa a nuovi discoprimenti. Così se io sono pervenuto a intuire colla mente qualche supremo principio, posso bensì riflettendo trovarne le applicazioni, il che è un ricadere alla riflessione parziale, ma non posso sollevarmi più su colla riflessione totale, alla quale non rimane che di replicare l' atto, onde contempla quel principio già rinvenuto; quindi la contemplazione . Ma qualunque sia l' ordine della riflessione, i modi coi quali ella opera, riescono i medesimi. E posciachè ella si volge a trovare i rapporti , e questi ora sono tali che dividono fra di loro le cose, quali sono le differenze, le opposizioni, ecc.; ora sono tali, che le uniscono e legano insieme, quali sono le eguaglianze, le similitudini, le correlazioni, le analogie, ecc.; perciò i due modi, nei quali opera la riflessione parziale, sono primieramente l' analisi e la sintesi . L' analisi divide, e la sintesi unisce; ma qui si tratta sempre di oggetti conosciuti. La riflessione parziale talora non solo trova il rapporto fra gli oggetti conosciuti, ma nello stesso tempo produce ella stessa colla sua attività uno dei termini del rapporto. E questo ella suol farlo sempre coll' uso e coll' applicazione dell' idea dell' essere, ma in due modi diversi, o deducendolo o fingendolo; ai quali due modi noi diamo il titolo di fede razionale e di creazione razionale . Onde analisi, sintesi, fede e creazione razionale sono i quattro modi nei quali opera la riflessione; di ciascuno dei quali faremo qualche cenno. L' analisi, che spezza e divide gli oggetti conosciuti, è materiale o formale . Si dice analisi materiale quella, per la quale le parti dell' oggetto diviso riescono tutte della medesima natura e condizione logica, pigliandosi la similitudine dalla divisione, di cui è suscettibile la materia, che si suppone uniforme, le cui parti perciò non differiscono di natura, ma solo di grandezza; tale è l' analisi chimica, la divisione numerica, ecc.. Si dice all' opposto analisi formale quella, in cui le parti che si hanno coll' oggetto dalla mente diviso, variano di natura, come se si dividesse un genere in molte specie, dove il genere ha una natura logica diversa da quella della specie, e ciascuna specie ha diversa natura dalle altre. Di che si vede che la facoltà di astrarre appartiene all' analisi formale. La sintesi riceve una classificazione consimile, poichè può essere anch' essa materiale o formale , secondochè si uniscono parti della stessa natura, come accade nella somma o moltiplicazione numerica, o in un tutto formato per giusta posizione; ovvero si uniscono parti di diversa natura, come accade nel giudizio, in cui la mente unisce il predicato col soggetto. Il subbietto dunque dell' analisi e della sintesi materiale è la quantità; il subbietto dell' analisi e della sintesi formale è la qualità, la modalità, o la relazione. Ma rispetto alla sintesi formale, la cui forma generale è il giudizio , è da riflettersi che si modifica non poco, aumentandosi gli ordini della riflessione. Poichè, se dopo aver io fatto diversi giudizi con una sintesi appartenente al primo ordine di riflessione, io m' innalzo ad un' altra sintesi appartenente ad un ordine superiore di riflessione, trovando il nesso dei due giudizi fra loro, mi vien data tosto la forma del sillogismo; nella qual forma apparisce come la riflessione sia produttiva di nuova cognizione, giacchè i giudizi che unisco sono due, e il sillogismo, che me ne risulta, ne ha tre; il che è quanto dire che colla riflessione io ho guadagnato un giudizio di più, che è la conclusione del sillogismo stesso. E` manifesto che se io m' innalzo ancora ad altri ordini di riflessione sintesizzando, posso confrontare i sillogismi stessi coi giudizi, e i sillogismi fra loro, e cavarne altre conclusioni; il che mi produce il ragionamento . Ma qui non si deve tralasciare una osservazione, ed è che in ogni analisi interviene sempre qualche specie di sintesi; perocchè per trovare le differenze e le opposizioni, mediante le quali separiamo una cosa dall' altra, dobbiamo prima di tutto confrontare e paragonare le cose, che poscia distinguiamo e separiamo; e il confronto è una specie di sintesi, un primo grado di sintesi. Quindi è che la distinzione dell' analisi dalla sintesi ha luogo piuttosto nel risultato della riflessione che non nella stessa operazione del riflettere , la cui forma propria è sempre sintetica. E questa è la ragione, per la quale noi abbiamo collocato il giudizio e il raziocinio nella classe delle sintesi anzichè delle analisi, quantunque il risultato non sempre sintesizzi, ma riesca talora analitico. Infatti, quando i giudizi sono negativi, o quando è negativa la conclusione del sillogismo, il risultato suol essere analitico e dividente; ma la forma è sempre sintetica. Il che apparirà vie più chiaro a coloro, i quali sanno che la mente umana concepisce ciò che è negativo sotto una forma positiva, il nulla come un qualche cosa, e che la negazione è un' affermazione in quanto alla forma. Onde il predicato negativo fa sintesi col soggetto, quando si vuole separare e distinguere; la qual legge del pensiero condusse gli algebristi a sommare tanto le quantità positive, quanto le negative, con una stessa operazione, che chiamarono appunto somma , equivalente a unione o sintesi. Ma passiamo a quelle operazioni della riflessione, nelle quali questa facoltà discopre o finge uno dei due termini della sua analisi o della sua sintesi; le quali operazioni abbiamo detto essere due, la fede razionale e la creazione razionale . Allorquando la mente umana riflette sopra un oggetto percepito, raffrontandolo all' essenza dell' essere, e, mediante questo raffronto, trova che l' esistenza sua è condizionata ad un altro ente, che ella non ha mai percepito, di maniera che ripugna all' essenza dell' essere che l' oggetto percepito esista solo, mentre pure esiste; allora nasce in lei la fede razionale, che è quanto dire « la persuasione ragionevole che esista quell' altro termine, benchè non l' abbia mai percepito, nè conosca punto nè poco il suo modo di essere ». Questa è quella funzione, che abbiamo chiamata integrazione . A ragion d' esempio, Leibnizio, raffrontando gli esseri reali creati coll' essenza dell' essere, trova che nell' ordine dell' essere stesso giace la legge di continuità . Di poi vede nelle cose naturali, conosciute al suo tempo, mancante un anello della catena. Egli crede all' esistenza di questo anello ancora incognito, e così predice la scoperta dei zoofiti , che ebbe luogo posteriormente. Pur ora Le7Verrier scoperse in modo simile, quasi direi a priori, l' esistenza del suo pianeta, che vide, come acconciamente disse Arago, non nella lente del suo telescopio, ma sulla punta della sua penna. Dal confronto degli enti reali coll' essenza dell' essere erano già conosciuti i due principŒ di causa e di analogia . Questi produssero quella scoperta. Le7Verrier ragionò seco stesso che alcune irregolarità nel movimento dei pianeti conosciuti dovevano avere una causa, pel principio di causa. Notò che altre irregolarità e perturbazioni venivano spiegate per la mutua attrazione di tali astri. Conchiuse che le irregolarità, che rimanevano senza causa, dovevano per analogia essere prodotte dall' attrazione d' un pianeta incognito. Applicò il calcolo a trovarne la posizione, e il calcolo gliela diede. Il pianeta fu scoperto nel luogo indicato. Un ragionamento pari conduce dall' essere contingente al necessario, che non si percepisce. L' essere contingente ripugna che esista solo, senza l' essere necessario; il che è quanto un fare questo sillogismo: « Il contingente esiste, ossia è un ente. Ma l' ente non è mai solamente contingente. Dunque, perchè il contingente sia ente com' è, è uopo che esista il necessario ». Così tutto il genere umano ascende per una spontanea integrazione a credere con ragione l' esistenza dell' Ente supremo. Anche la fede positiva alle cose divine si riduce alla fede razionale, quando si supponga prima la fede razionale dell' esistenza di Dio. Poichè così si ragiona: « Se quest' uomo non fosse inviato da Dio ad annunziare la verità, egli non opererebbe tali cose, che suppongono l' intervento di Dio. Ma quest' uomo prodigioso esiste, ed annunzia queste cose divine. Dunque queste cose divine sono vere, perchè la loro verità è condizione necessaria all' esistenza e alla predicazione di quest' uomo ». In altre parole: « La verità delle cose divine, che quest' uomo annunzia, è la ragione necessaria a spiegare come e perchè quest' uomo faccia quelle opere che fa ». Le cose che quest' uomo annunzia nessuno le ha vedute; ma si debbono credere per la detta forma di raziocinio, che chiamiamo integrazione , vale a dire perchè ciò che si percepisce non potrebbe essere, se non fosse altresì ciò che quest' uomo annunzia e che non si percepisce. Con un argomento della stessa natura il cieco crede all' esistenza dei colori. Questi colori che io non percepisco, egli dice, esistono, perchè vi è uno degno di fede, che io percepisco. Se i colori non esistessero, non potrebbe esistere quest' uomo degno di fede. Ma quest' uomo degno di fede esiste; dunque anche i colori esistono. Dai quali esempi si scorge: Che l' argomento dell' integrazione è fondato nell' ordine intrinseco e necessario dell' essere , che si suole esprimere in forme di principŒ ontologici; il quale ordine nella contemplazione naturale dell' essere si rinviene, e per esso s' intende che una data parte dell' essere, che si percepisce, non sarebbe come è, se non ve ne fosse un' altra, che non si percepisce. Che la fede razionale, di cui parliamo, riguarda le entità che noi non abbiamo mai percepite, ossia che non ci furono mai comunicate nella loro realizzazione, e di cui perciò non conosciamo positivamente la natura, la quale solo per via di percezione o di similitudine coi percepiti a noi si fa nota (1). Che dunque s' avrà a dire della fede , che noi prestiamo ad un uomo, il quale ci attesta l' esistenza d' una cosa, di cui abbiamo altre volte percepita l' essenza realizzata? Appartiene una tale credenza alla fede razionale ? Per esempio, se noi prestiamo fede ai viaggiatori, che ci dicono avere scoperto nell' interno dell' Africa un nuovo fiume, è questa l' operazione che noi chiamiamo fede razionale ? Conviene, a farvi risposta, osservare che le conoscenze umane si partono in due grandi classi: quella delle essenze delle cose e quella delle sussistenze , che sono il realizzamento delle essenze. Ora, quando viaggiatori degni di fede ci dicono avere scoperto quel nuovo fiume, rispetto all' essenza del fiume nulla di nuovo ci attestano; perchè noi sapevamo già che cosa è un fiume, avendone tanti percepiti coi sensi nostri. In quanto all' essenza dunque essi non sono testimoni , ma semplici monitori o eccitatori della nostra attenzione, che tosto pensa a un fiume, cioè all' essenza d' una cosa a noi nota. Quanto poi alla sussistenza di quel fiume nell' interno dell' Africa, essi sono veri testimoni, e noi prestiamo loro una fede razionale . Ma in questa fede razionale, che riguarda la sussistenza e non l' essenza delle cose narrate, non interviene integrazione; perchè l' operazione dell' integrare è volta a contemplare l' essenza dell' essere , senza riguardo alla sussistenza. Gli esempi addotti delle scoperte di Leibnizio e di Le7Verrier riguardano la sussistenza; ma il modo di ragionare è il medesimo, e per dichiarare questo modo furono addotti. L' integrazione adunque è una specie della fede razionale; ma questa abbraccia altre specie ancora. Dalla fede razionale si diparte la creazione razionale . Come la fede dal condizionato percepito argomenta alla condizione, così la creazione assume o finge qualche cosa, di cui ha percepita altre volte l' essenza, ma di cui non crede veramente alla sussistenza. La quale assunzione o finzione si fa dall' attività dell' umana intelligenza per cagioni diverse, non sempre razionali. Quindi ella riceve tre forme, divenendo ora facoltà delle ipotesi , ora facoltà delle personificazioni , ora facoltà dell' errore . L' ipotesi, se è ben fatta, ha del razionale e si avvicina molto all' integrazione, ma se ne distingue per queste differenze: Nell' integrazione si trova un termine, la cui essenza non fu da noi percepita; laddove ciò che si assume per ipotesi è sempre cosa, la cui essenza fu percepita. Nell' integrazione l' argomento induce necessità, laddove nell' ipotesi esso è congetturale. Nell' integrazione il termine non percepito è unico ed esclude tutti gli altri, laddove nell' ipotesi il termine, che si assume per spiegare i fatti, non esclude gli altri, giacchè i fatti, che si prendono a spiegare, possono di solito essere spiegati con più ipotesi. La personificazione non è razionale; ha un' origine istintiva, e l' uomo se ne serve quasi di simbolo per eccitare in sè stesso il sentimento, anzichè per accrescere il proprio sapere. La facoltà dell' errore , finalmente, è un' affermazione arbitraria che nega la verità, e però non è punto razionale, anzi ha una relazione di contrarietà alla ragione. E` manifesto che l' attività dell' anima nella creazione razionale appartiene a quella soprabbondanza di attività, che spiega il principio (il soggetto, l' anima), quando egli è posto in essere dal termine, e che non viene precisamente dal termine stesso. Ci rimane a parlare della riflessione totale , che è quella, come vedemmo, che cerca i rapporti dell' essere universale, e non si ferma a quelli degli enti particolari. Ora la riflessione totale abbraccia un gruppo di quattro facoltà, che noi denomineremo: 1 facoltà dei principŒ , 2 facoltà degli archetipi , 3 facoltà del metodo , 4 facoltà della cognizione assoluta o trascendentale . I principŒ presi in senso assoluto, come noi li prendiamo, sono proposizioni che hanno un valore universale, e non hanno altre ragioni superiori a sè stesse; quindi essi sono la stessa idea dell' essere considerata nella sua applicazione al ragionamento, dove ella spiega la sua maggiore potenza (1). Come l' essere illustra la mente, così anche dirige l' attività umana; quindi presiede non meno alla ragione teorica che alla ragione pratica , e all' una e all' altra somministra i principŒ direttivi. Se l' essere non fosse essenzialmente ordinato e quasi organato, egli non potrebbe produrre in sè i principŒ dell' umano ragionamento, i quali tutti esprimono il suo ordine. Perocchè, se ben si considera l' officio che prestano i principii alla mente, si scorge che « ogni principio altro non fa che mostrare alla mente come l' ente debba essere, acciocchè sia ente »; per esempio, il principio di cognizione dice: « Il pensiero non è, se non ha per oggetto l' ente »; il che viene a dire che l' entità, che si chiama pensiero, non sarebbe un' entità o semplicemente non sarebbe, se non avesse l' ente per oggetto. Descrive dunque come deve essere l' entità pensiero , ossia descrive l' ordine di questa entità. Il principio di sostanza dice: « Non è l' accidente senza la sostanza ». Descrive adunque il modo o l' ordine dell' entità accidente, acciocchè egli sia entità. Il principio di causa dice: « Ogni avvenimento deve avere una causa ». Descrive dunque come possa essere un avvenimento, ossia quale debba essere l' ordine necessario dell' entità significata colla parola avvenimento. E così si può procedere trascorrendo gli altri principii; ciascuno esprime come debba essere l' ente, acciocchè sia; e questo è un esprimere il suo ordine intrinseco e necessario. L' ordine suppone sempre una moltiplicità unificata; quindi si può considerare l' unità nella moltiplicità, come pure la moltiplicità nell' unità. Da questi due aspetti si deducono due serie di principŒ della ragione teoretica, i primi dei quali indicano come l' unità si possa moltiplicare, i secondi come la moltiplicità si possa unificare. Ai primi, oltre i tre enumerati di cognizione, di sostanza e di causa, si riducono i principii d' individuo sostanziale , di soggetto , di persona , di assoluto , i quali dicono: « l' ente non sarebbe, se non vi fossero individui sostanziali; l' ente non sarebbe, se non vi fossero soggetti; l' ente non sarebbe, se non vi fossero persone; l' ente non sarebbe, se non vi fosse l' assoluto ». I quali principii si possono anche tradurre in queste altre formule: « Se vi è moltiplicità di enti, dunque vi debbono essere individui sostanziali »; questo è quello che chiamo principio di individui sostanziali . « Se vi sono individui sostanziali, dunque si sono individui soggetti (senzienti) »; questo è quello che chiamo principio di soggetto . « Se vi sono soggetti, dunque vi sono persone »; questo è quello che chiamo principio di persona . « Se vi è un ente, dunque vi è l' ente assoluto »; questo è quello che chiamo principio dell' assoluto , dal quale si trae la cognizione trascendentale ed assoluta. Dal considerarsi poi i rapporti della moltiplicità coll' unità nascono altri principii della ragione teoretica, come sarebbe: « Il tutto è maggiore della sua parte »; « Due cose eguali ad una terza sono eguali tra di loro », ecc.. E per toccare anche di quei principii, che presiedono e dirigono la ragione pratica, diremo che questa ha i due atti della contemplazione e dell' azione . Alla contemplazione presiede il principio della bellezza; all' azione poi quello della legge morale. La facoltà degli archetipi è quella che spinge col pensiero qualunque essenza conosciuta all' ultima sua perfezione possibile, determinando come ella deve essere, acciocchè sia perfettissima; questo è il fonte delle scienze deontologiche (1). E` questa un' opera nobilissima della riflessione, che, paragonando le specie imperfette delle cose, date all' uomo dalla percezione, coll' essere, trova quanto le loro essenze possono ricevere in sè dell' ordine dell' essere stesso. Questa facoltà rende sublimi gl' ingegni, fu meravigliosa in Platone, e gli procacciò il titolo di divino. Niuno può essere uomo grande che non la possegga in alto grado, perocchè le magnanime azioni dei grandi si realizzano sempre, copiando l' eccelso ideale, che nella mente loro vivo contemplano. La facoltà del metodo nasce dalla riflessione, allorquando ella si eleva su tutti gli ordini speciali di riflessione per ordinarli convenientemente fra loro; e però è una cotal riflessione universale, che abbraccia con uno sguardo tutte le possibili riflessioni, cioè un numero di riflessioni indefinito. Finalmente la facoltà della cognizione assoluta o trascendentale è pur ella frutto della riflessione totale, quando, prendendo quante cognizioni ella vuole e raffrontandole all' essenza dell' essere, distingue ciò che vi è in esse di soggettivo e di fenomenale da ciò che è la cosa conosciuta in sè stessa, senza quel che riceve dall' atto del nostro conoscere; e prova che nel fare quest' atto di separazione niente vi si intramette più di relativo al soggetto, come si può vedere dal dialogo intitolato il Moschini . Dopo aver noi considerata l' anima rispetto a ciò che patisce e che riceve, e indi dedotte quelle potenze che chiamammo passive e ricettive, dobbiamo considerarla rispetto a ciò che ella agisce, e indi dedurre le sue potenze attive. Conviene non dimenticare giammai ciò che abbiamo detto dell' interna costituzione dell' anima. L' anima, noi dicemmo, ha natura di principio; ma questo principio non è concepibile se non a condizione che abbia i suoi termini, chè principii e termini sono correlativi e sintesizzanti. Ora, in quanto il principio è affetto dal suo termine, è ricevente o passivo . Ma questa ricettività e passività involge un grado d' attività propria dello stesso principio; e così l' attività nei soggetti creati viene in parte dalla ricettività e passività, e in parte è anch' essa condizione di questa. Dato dunque che una volta sia posto in essere il principio (l' essere del quale sta, come dicevamo, nell' unione col suo termine), l' attività del principio non si limita a ricevere ed a patire, ma è tale che opera sul suo termine stesso, se pure il termine è atto a ricevere la sua azione ed a restarne immutato. Perocchè, se la natura del termine fosse di essere puro atto, ogni passività o ricettività sarebbe esclusa per la sua essenza; il che s' avvera di Dio e delle cose divine. Allora l' attività del soggetto si spiega nel soggetto stesso, allontanandosi o avvicinandosi al termine, modificando la propria unione con esso. Ora, posciachè i termini primitivi dell' anima umana sono due, il sentito e l' inteso, verso all' uno dei quali ella è passiva, verso all' altro ricettiva; due sono pure le sue attività di assai diversa natura: l' una si chiama istinto , ed è quella che nasce dalla sensitività, l' altra chiamasi volontà , ed è quella che nasce dall' intelligenza. Il termine dell' istinto è mutabile, e però l' attività istintiva, operando su di lui, lo immuta; ma il termine della volontà, in quanto è lo stesso di quello della pura intelligenza, è immutabile, perchè è cosa divina (le idee); e però l' attività, che nasce da questa, limitasi ad essere più o meno ricettiva, ovvero ripiegasi sull' anima stessa, mutando questa anzichè il termine oggetto dell' intelligenza. L' istinto adunque è il movimento della sensitività. E poichè la sensitività accompagna tutte le potenze e le operazioni anche razionali dell' anima, perciò l' istinto si stende amplissimamente, accompagnandosi a tutte le parti dell' uomo. Onde colui che volesse compiutamente descriverne la diramazione, dovrebbe derivare le speciali attività di questa potenza, classificando e diramando tutte le altre, e dimostrando che ciascuna ha il suo proprio e speciale istinto. L' istinto di sua natura è potenza cieca. Ma poichè anche le potenze razionali e morali hanno i loro istinti, perciò conviene distinguere quell' istinto, che è cieco interamente nel suo moto e nel suo termine, da quello che è cieco solamente nel suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, ovvero che è cieco solamente nel suo moto, ma non nel conato e nel suo termine. Infatti, se si considera il moto istintivo della volontà, vedesi che parte da un lume e termina in un oggetto conosciuto. Ma in quanto il moto della volontà si fa per inclinazione naturale e spontanea, senza deliberazione o decreto, come talora avviene, in tanto quel moto è cieco, e solo per questo dicesi che quel movimento è istintivo. E per dare un esempio anche di quell' istinto, che è cieco nel suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, indicheremo gli atti onde acquistiamo le prime nostre cognizioni, i quali tendono ad acquistare quel lume di cognizione, che dapprima non hanno. Poichè quando si muove il soggetto all' acquisto delle sue prime cognizioni, egli non le ha ancora, e però non può muoversi ad esse se non ciecamente, trattovi dal sentimento e dall' attività sua nativa, onde il principio di tal moto è cieco, benchè il termine sia la cognizione dove è luce. E` dunque mestieri distinguere primieramente queste due branche: l' istinto interamente cieco, che non si associa ad alcuna cognizione, nè nel suo principio, nè nel suo termine, e questo è l' istinto animale (che anche nell' uomo si ha, perchè anche l' uomo è animale); e l' istinto cieco bensì nel suo moto, ma tale che si associa a qualche cognizione, onde prende le mosse, o dove finisce, e questo è l' istinto umano . Se noi poniamo mente alle varie operazioni dell' istinto animale, potremo forse ridurle acconciamente a sei classi. Lasciando quel primo atto, col quale l' anima unendosi al suo termine pone sè stessa, in cui risiede virtualmente tutta l' attività istintiva, il principio dell' istinto , e non enumerando se non le conseguenti sue operazioni: L' istinto concorre alla produzione dei sentimenti animali accidentali. L' istinto ha virtù di riprodurre i sentimenti, quando questi hanno perduta la loro attualità e lasciate nello spirito solo le vestigie, le inclinazioni abituali; la quale operazione non si suol fare se non coll' aiuto delle facoltà istintive seguenti. L' istinto ha virtù di associare i sentimenti e unificarli a cagione dell' unità dell' anima; e questa è quella che chiamammo forza sintetica dell' animale, cagione di tante meraviglie, simulatrice della ragione, di che abbiamo lungamente parlato nell' Antropologia (1). Dall' associazione di più sentimenti nell' unità dell' anima ridondano in questa certe modificazioni generali, che chiamiamo affezioni , le quali sono quasi sentimenti di mezzo fra i sentimenti singolari e le passioni . Sono dunque queste affezioni i principŒ generatori delle passioni, poichè quando quelle si completano e lasciano nell' anima un' abituale inclinazione a riprodursi , allora ricevono questo nome di passioni. E le passioni sono la quinta manifestazione della potenza istintiva. Finalmente, la sesta manifestazione della potenza istintiva animale si è l' attività, con cui quella potenza modifica il sensifero, producendo in esso dei movimenti corrispondenti all' atteggiarsi attivamente di esso istinto. Accenniamo qualche cosa di queste due ultime manifestazioni, le passioni e gli atteggiamenti spontanei che prende l' istinto. Le passioni non sono meramente animali. Anzi nell' uomo si debbono diligentemente separare le animali dalle razionali. E le une e le altre ricevono acconciamente quella divisione, che troviamo in Platone, di passioni cioè proprie del concupiscibile , e di passioni proprie dell' irascibile . Intendesi per concupiscibile l' inclinazione, che trae verso il bene, e che ritrae dal male. Per irascibile poi quella subita vigoria, che si condensa e quasi s' aggruppa nell' anima, quando questa trova un esterno impedimento alla sua tendenza (1), colla quale pugna ed urta per rimuoverlo e vincerlo, e sfogare la sua tendenza concupiscibile. Ma restringendoci ora alle passioni animali, quelle del concupiscibile tendono ad avere il gradevole ed evitare il disgradevole, chè nè altro bene ha l' animale, nè altro male; e quelle dell' irascibile sono ordinate a sforzare e superare la difficoltà, che incontrano le tendenze del concupiscibile a spiegarsi compiutamente. Onde propriamente l' irascibile non è che una attività dello stesso concupiscibile , il quale s' adonta e s' arma contro gli impedimenti stranieri, che non lo distruggono o snervano, ma solo si oppongono per arrestarlo. Non conviene adunque accomunare cogli animali l' amore , che è passione razionale e nobile, in luogo di cui è nei bruti l' affezione unitiva , che si suddivide nella tendenza generativa , e in quel gruppo di passioni che si raccolgono nella tendenza all' aggregazione , la quale abbraccia l' istinto, che fa stare e andare insieme i bruti della stessa specie, che pone fra le specie diverse simpatie o antipatie, che aggiunge i nati alla madre, che produce l' affezione che lega all' uomo alcuni bruti, la domesticità, ecc.. Il simile è a dirsi dell' odio , che esprime propriamente una passione razionale, a cui risponde nell' animalità l' avversione , l' antipatia , ecc.. Anche il desiderio e l' abborrimento non sono passioni animali, ma razionali; nell' animalità in quella vece si manifestano varie tendenze specificate da vari loro termini, come la voracità , la fame , ecc.. Il gaudio pure è proprio dell' intelligenza, a cui risponde nell' animalità qualche sentimento, che non ha nome proprio e ben definito; perocchè non tutte le passioni animali trovano nel linguaggio una propria espressione. Di che avviene che lo stesso vocabolo si usi sovente in diverso significato, ora a indicare una passione meramente animale, ed ora a indicare la passione corrispondente, che si manifesta nell' essere razionale, come è delle due parole tristezza ed allegrezza , ecc.. E questa scarsezza e povertà di linguaggio è anch' essa cagione, che inclina la mente poco vigile a confondere l' ordine sensitivo coll' ordine razionale. Fra le passioni animali si può annoverare altresì la proprietà , che è quella che affeziona l' animale a certe cose inanimate; ed apparisce identica nell' uomo, se non che l' uomo gode anche della cognizione della sua proprietà, e questo godimento aggiunge un elemento razionale al sentimento della proprietà. Di più, l' uomo, attesa la sua facoltà morale, innalza il sentimento della proprietà all' ordine del diritto, del quale il sentimento di proprietà non è altro che la materia (1). Benchè le parole ira, ferocia, paura, aspettazione , ecc., si applichino sovente tanto ai bruti quanto all' uomo, tuttavia sembrano più proprie dei primi che del secondo; all' incontro le parole sdegno, timore, audacia, speranza, disperazione esprimono manifestamente affetti e passioni razionali; e se si trovano applicate ai bruti dagli scrittori, si fa per un cotal traslato e per quella inclinazione, che gli uomini hanno, di accomunare la vita intellettiva e la ragione, che possiedono essi, a tutti gli enti che percepiscono, massime se questi appalesano di quei fenomeni che si producono anche dall' intelligenza, benchè possano essere prodotti da altra cagione. Nell' uomo adunque vi sono le passioni animali, perchè anch' egli è animale; ma queste nell' uomo ricevono dalla razionalità un carattere proprio, che le nobilita e le specifica. Di più le passioni animali, che nelle bestie non sono mosse che dagli stimoli e dalle leggi del senso corporeo, nell' uomo sono suscitate talora dalla razionalità stessa, per l' influenza che l' anima razionale esercita nell' animalità. Così se noi consideriamo la tristezza come passione animale, si potrà definire « quel sentimento disgradevole che prova l' animale, rallentandosi il corso del sangue in alcuni visceri, e indebolendosi l' attività del sistema nervoso ». Ma questo sentimento, che nell' animale non può prodursi che da una causa fisica o sensuale, la quale rallenti la circolazione e tolga il suo vigore all' organismo nervoso, nell' uomo sarà prodotto ora da questa causa medesima, ora da una notizia che funesta lo spirito; il che è quanto dire dalla potenza razionale. Le passioni animali adunque nell' uomo differiscono da quello che sono nei bruti per due cagioni: Perchè, supposto che abbiano la stessa cagione producente che hanno nei bruti, vi si associa l' intelligenza a modificarle. Così la tristezza che arreca una malattia ad una bestia, è diversa da quella che arreca ad un uomo, il quale conosce la sua infermità; e questa cognizione gli accresce afflizione. E al contrario, con dei motivi somministratigli dalla ragione egli può allenire e alleggerire anche fisicamente quella tristezza. Perchè le passioni stesse animali possono nell' uomo essere mosse da una cagione razionale, come già dicevamo. Ma nell' uomo, oltracciò, si spiegano delle passioni nuove, delle quali non v' è traccia nei bruti; perocchè i movimenti della potenza razionale producono effetti nuovi, sentimenti che non possono in alcun modo essere suscitati dal mero istinto animale. I quali sentimenti propri dell' uomo sembrano talora che sieno puramente razionali, ossia che dimorino entro la sfera dell' intelligenza; talora poi sembra che ne partecipi anche l' animalità. In questo caso l' animalità riceve un' affezione, che nel bruto non può manifestarsi, perchè vi manca la causa producente, la quale non è altro che l' intelligenza. Io non voglio già decidere con ciò la questione: « Se nell' uomo vi siano affezioni così pure che non prenda parte ad esse in alcun modo l' animalità, o se vi sia sempre del misto »; questa questione sottile sarà sciolta da altri. A me basta di stabilire che nell' uomo si manifestano alcune passioni interamente nuove, che non possono essere prodotte dall' istinto animale, e che hanno per unica causa l' intelligenza: passioni intellettive rispetto alla loro causa, benchè forse non sieno mai puramente intellettive per sè stesse. Nel numero di queste non intendo assolutamente collocare le passioni simpatiche , come la compassione, ecc.; dico solo che se nei bruti si manifesta qualche cosa che rassomiglia ad esse, questa cosa si può sempre ridurre a passioni e sentimenti individuali; perchè il bruto non si muove, finalmente, se non in virtù delle sue proprie sensioni, l' opposto dell' uomo, che partecipa delle passioni altrui col solo conoscerle, poichè, conosciute, egli può rappresentarle a sè stesso nell' immaginazione, e così entrarne a parte; onde la compassione è certamente passione razionale nella sua causa ed anche in sè stessa. Che se si ravvisa qualche cosa somigliante nei bruti, ciò può ridursi all' affezione unitiva , a quella che riguarda l' aggregazione , ecc.. I fonti delle passioni comuni ai bruti sono l' aggradevole ed il difficile; nell' uomo a cagione della razionalità si trovano due altri fonti, e sono il rapido moto dell' animo e il grande ; poichè l' animo, che passa rapidamente da uno stato intellettivo ad un altro opposto, non solo accresce la vivezza dell' atto sensitivo colla rapidità, il che accade anche nel senso animale, ma produce nuovi ed improvvisi sentimenti, quali sono il riso , la sorpresa , ecc.. Ancora, solo l' uomo colla sua ragione rendesi suscettibile del sentimento del grande, il quale produce vari effetti, come la meraviglia , lo stupore , l' estasi , ecc.; passioni tutte umane, di cui le bestie interamente son prive. Veniamo ora a ragionare brevemente della sesta manifestazione dell' istinto animale, che fu da noi collocata nella virtù che ha il sentimento di atteggiare sè stesso , modificando il sensifero. Per intendere che cosa noi vogliamo dire con questa virtù del sentimento, conviene richiamarsi alla mente che noi conosciamo il sentimento in due modi, mediante il sentimento stesso immediatamente, di cui siamo consapevoli (soggettivamente), e mediante fenomeni da lui prodotti e da noi sentiti, ma che non sono lui stesso (extra7soggettivamente). Così altro è il sentimento del dolore, altro sono i movimenti che il dolore cagiona nel corpo, i quali possono essere da noi veduti senza sentire il dolore. Il dolore è il sentimento soggettivo, i movimenti sono i fenomeni extra7soggettivi da lui prodotti. Questi indicano quello, ma hanno natura totalmente diversa; e se i fenomeni extra7soggettivi si conoscono per via d' altri sentimenti, questi sentimenti non hanno a far niente con quello di cui si parla; e, come sentimenti, hanno anch' essi la loro parte soggettiva e l' extra7soggettiva. Ciò tutto fu dichiarato nell' Antropologia , a cui deve ricorrere il lettore, che ama di seguire i nostri ragionamenti. Supposto dunque che sia stata ben distinta la parte soggettiva del sentimento dall' extra7soggettiva, tosto sarà inteso come il sentimento soggettivo sia cosa immune affatto dallo spazio e però semplicissima, giacchè nel concetto del piacere, del dolore e di ogni altro sentimento puramente soggettivo, niuno può trovare il concetto di alcuna estensione, la quale non è che il termine di alcuni sentimenti, non il sentimento stesso. Ciò non di meno i fenomeni extra7soggettivi hanno una simultaneità e una correlazione coi soggettivi. Noi abbiamo detto che fra gli uni e gli altri non passa la relazione di causa immediata e di effetto immediato, perchè sono al tutto dissimili. Tuttavia al cangiarsi del fenomeno soggettivo cangiansi i fenomeni extra7soggettivi; il che fa credere che il cangiarsi del fenomeno soggettivo, se non è causa immediata, possa almeno essere causa mediata di tali cangiamenti. E considerata la cosa solamente rispetto alla dissimilitudine delle due serie di fenomeni, rimane tuttavia incerto; diviene certo, allorchè si considera che il sentimento soggettivo termina nell' esteso, come abbiamo detto, e che l' esteso è già egli stesso, in un senso, extra7soggettivo, benchè individualmente unito al soggetto, ed appartiene anche al fenomeno extra7soggettivo del sensifero, con esso identico di sostanza. Laonde, quantunque il sentimento (soggettivo) non sia causa immediata e prossima dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero, tuttavia egli è causa della mutazione del proprio termine immediato (l' esteso), il quale termine è poi anche subbietto dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero. Rimane adunque che il sentimento (il soggettivo) sia causa rimota e mediata della modificazione dei fenomeni extra7soggettivi, ossia causa della causa di questa modificazione. Ben fermato tutto ciò, dico che « il soggetto, che è il principio del sentimento, ha per sua propria legge di adoperare ed atteggiare il sentimento in modo da trovarsi il meglio possibile, e quindi anche il meno male possibile ». Ora questa virtù e attività del principio senziente, che atteggia e modifica il sentimento, è cagione che succedano delle modificazioni nei fenomeni extra7soggettivi. Le facoltà, che si riferiscono a queste modificazioni, sono quattro principali: La facoltà locomotrice . Per questa l' animale cammina e fa vario uso di tutti i suoi organi. La facoltà formatrice o plastica. Per questa l' animale si natura, si nutrisce, ecc.. Noi dichiareremo meglio come ciò avvenga e secondo quali leggi nel quinto libro. La facoltà delle abitudini sensitive . Questa facoltà è la stessa virtù di atteggiarsi piuttosto in un modo che in un altro, la quale esercitandosi si sviluppa, si modifica, riceve nuove disposizioni, nuove condizioni del suo operare, e quindi nuove spontaneità. La facoltà che ha l' istinto animale di alterarsi e guastarsi . Questa facoltà, a cui appartengono i fenomeni morbosi, è sempre, come le altre tre precedenti, la stessa facoltà o virtù generale che ha il sentimento di atteggiarsi variamente, secondo le varie condizioni che gli sono poste dagli stimoli che agiscono su di lui, dalle abitudini, ecc.. Onde, qualora questi stimoli lo pongono in certe condizioni, egli è necessitato, sempre dalla medesima legge della sua spontaneità, a produrre i mentovati fenomeni morbosi, di cui parleremo in appresso. Continuiamo ora a parlare dell' istinto umano, il quale, sebbene sia cieco come istinto, tuttavia si associa a qualche cognizione, onde procede od in cui finisce. L' istinto umano si manifesta anch' egli con affezioni razionali, le quali producono una condizione passiva dello spirito, che si chiama passione razionale , e una condizione attiva , che costituisce gli abiti . Delle passioni razionali basta il poco che ne abbiamo detto. Quanto agli abiti , essendo l' abito « una disposizione della potenza ad agire in un dato modo », essi si dividono, primieramente, come si dividono le potenze o facoltà che modificano ed attuano. Le potenze e facoltà umane e intellettive, se si vogliono classificare dai loro effetti, si possono ridurre a due gruppi: il gruppo di quelle che producono effetti entro il soggetto, migliorandolo o deteriorandolo, e il gruppo di quelle che producono effetti fuori del soggetto (extra7soggettivi), quali sono quelle che cagionano i movimenti dei corpi. Quindi due gruppi di abiti: gli abiti che aderiscono a quelle facoltà che producono i loro effetti entro il soggetto, e gli abiti di quelle facoltà che producono i loro effetti fuori del soggetto. Le facoltà, che producono i loro effetti entro il soggetto, si riducono alla potenza morale , e qui si hanno gli abiti morali , che sono le virtù ed i vizi; e alla potenza razionale in quanto opera nel soggetto, e quindi gli abiti razionali della memoria , delle scienze , della prudenza , ecc.. Ma in quanto la potenza razionale muove i corpi, e quindi produce effetti extra7soggettivi, ella dà luogo al secondo gruppo di facoltà, onde nascono gli abiti delle arti meccaniche e liberali , quelli dei movimenti viziosi del proprio corpo , ecc.. Fin qui noi abbiamo toccate le principali diramazioni dell' istinto razionale, classificandole secondo i modi del suo operare . Un' altra classificazione ce ne riesce, qualora noi cerchiamo i suoi molteplici rami, pigliando a considerare i diversi oggetti , a cui l' istinto si riferisce. Ora, per intendere la natura di ogni istinto conviene investigare quale sia il suo principio, quale il principio comune di tutte le tante sue diramazioni. Se l' istinto non avesse un principio unico, il quale, restando sempre il medesimo, prendesse diverse forme di operare, non si potrebbero significare coll' epiteto generico d' istintive le funzioni animali e razionali, da noi enumerate e classificate. Quale è adunque il principio dell' istinto? quale l' intima e immutabile sua natura? L' istinto indica un modo di operare del soggetto, ossia una legge, secondo la quale egli opera. Cercare questa legge è cercare il principio e la natura dell' istinto. Questa legge, secondo la quale operando un soggetto, dicesi che opera istintivamente, noi l' abbiamo accennata parlando dell' istinto animale, e attribuendogli « la virtù di atteggiarsi nel modo più aggradevole ». Basta dunque che noi rendiamo più generale quella nostra osservazione, che non la limitiamo ai soggetti animali, ma la estendiamo a tutti i soggetti anche intellettivi e razionali, ed avremo trovato l' unico principio dell' istinto. Infatti noi abbiamo già stabilito che un soggetto qualsiasi è un sentimento sostanziale. Di più, abbiamo stabilito che ogni sentimento ha un' attività sua propria. In terzo luogo, abbiamo pure dimostrato che questa attività pone continuamente il sentimento, di cui ella è principio, nello stato più aggradevole che le sia possibile, e ciò perchè l' atto, che atteggia così il sentimento, è naturale e proprio di quella attività, giacchè ogni attività non sarebbe attività, se non avesse il suo atto naturale, col quale ella si pone ed è quello che è. Ma l' attività di un sentimento può talora essere dipendente e passiva da qualche cosa di straniero a lei; il che avviene in tutte le attività finite. Queste attività, questi principŒ senzienti sono dipendenti dalla natura del loro termine, il quale si muta per qualche cagione o forza straniera. Ora la qualità e quantità di questo termine straniero al principio senziente e le sue mutazioni sono talvolta favorevoli all' attualità del principio, e talvolta sfavorevoli. Sono favorevoli, quando aiutano il principio senziente a spiegare un' attività maggiore; sfavorevoli, quando comprimono la naturale sua attività, e la impediscono dallo spiegare tutto l' atto suo naturale. L' attività del principio allora lotta coll' impedimento; e qui si vede quale sia la nozione generalissima, che noi ci dobbiamo fare dello stato aggradevole o disgradevole di un sentimento. Un sentimento disgradevole, molesto, doloroso è quello in cui il principio senziente è impedito dalla condizione del suo termine a spiegare tutto quanto l' atto suo naturale. Un sentimento aggradevole è allora che il suo principio a suo agio spiega tutta quella attività che gli è possibile secondo la condizione del suo termine, senza che niente lo contrarii o impedisca. L' attività dunque del principio senziente, posta in atto, è essenzialmente piacere; quanto questa attività si fa più attuale, si spiega di più, tanto il piacere è maggiore; l' essenza dunque del sentimento è il piacere, e il dolore non è che ciò che diminuisce con forza e violenza il sentimento, lo comprime, lo limita. Se dunque il principio senziente ha per suo proprio atto naturale di spiegare il sentimento maggiore possibile, data la condizione del termine, egli lo deve fare spontaneamente; e ciò equivale a dire che lo fa con quell' atto stesso pel quale egli esiste, pel quale egli è principio senziente. Questo è il principio di ogni istinto. Esso si trova nella natura di ogni sentimento sostanziale, di ogni soggetto, è l' attività propria del soggetto. Perchè, a ragion d' esempio, si manifesta nell' animale l' istinto del cibo? perchè questo istinto lo muove a fare tutti i movimenti che egli fa per procacciarselo? La ragione si è che questi movimenti sono altrettanti sforzi del principio senziente per istar meglio, per avere uno stato di sentimento più compiuto, più aggradevole. Non conviene coll' immaginazione fermarsi a ciò che apparisce all' esterno, quando il lupo, poniamo, mangia la pecora. I movimenti del lupo, che appariscono ai nostri occhi extra7soggettivamente, non sono che conseguenze dell' operazione interna e soggettiva, che avviene nel lupo. Conviene che il nostro pensiero entri a considerare i sentimenti animali, che il lupo prova successivamente in questa sua impresa; questi interni sentimenti del lupo sono le cause dei suoi movimenti esteriori; tutto ciò che fa il lupo, lo fa nel suo interno, nel suo sentimento; quando dico lupo che fa qualche cosa, altro non dico che principio senziente operante, atteggiante il suo sentimento nel modo più aggradevole. Se appariscono, in conseguenza di quell' interno lavoro, dei movimenti all' esterno, essi non sono che conseguenze relative alla nostra facoltà visiva, e in generale alla nostra sensitività speciale. Noi parliamo di questi esterni fenomeni della sensitività nostra speciale, quasi che il lupo li producesse direttamente e immediatamente. Tutt' altro: l' azione del lupo comincia, prosegue e finisce nel suo sentimento; quell' azione del lupo muta il termine del proprio sentimento (corpo soggettivo); tale mutazione dà alla nostra vista i movimenti del corpo del lupo (fenomeni extra7soggettivi). Col mutare che fa il lupo i termini del proprio sentimento, e mediante questi termini mutati, agisce anche sui corpi esteriori (sulla pecora); e ciò che accade nei corpi esteriori, ha nuove relazioni colla nostra sensitività visiva o tattile, di modo che noi abbiamo nuovi fenomeni, i movimenti e mutazioni che accadono nel corpo della pecora a noi sensibile. Ma per dirlo di nuovo, la vera forza agente, la causa prima di tutto ciò è il principio senziente del lupo, che atteggia successivamente in varie guise il suo sentimento, fino che arriva a compire l' opera della propria nutrizione. Tale è il lavoro dell' istinto. Se noi consideriamo un atto dell' istinto razionale, troveremo che si fa secondo la stessa legge. Perchè sentiamo naturale diletto a considerare la verità? Perchè il nostro principio razionale7senziente ha per suo atto naturale e dilettevole l' apprensione e contemplazione del vero; e però noi spontaneamente procuriamo di apprenderlo il meglio che noi possiamo, e goderne. E` sempre il soggetto, che atteggia nel modo più piacevole sè stesso, il proprio sentimento soggettivo. Noi collocammo l' istinto nel novero delle facoltà. Ma vogliamo avvertito che egli è piuttosto un modo di operare di diverse facoltà che una facoltà determinata; è una legge, come abbiamo detto, che governa l' attività del soggetto e che lo costituisce. La volontà è la parte attiva del soggetto intelligente, e si può definire « quella virtù, che ha il soggetto, di aderire ad una entità conosciuta ». Questa adesione si fa per via d' interno riconoscimento . Ma dobbiamo dichiarare che cosa intendiamo per questa parola riconoscimento volontario . In senso rigoroso riconoscere suppone il conoscere precedente, e un conoscere che faccia equazione, dirò così, col riconoscere, sicchè l' oggetto della ricognizione rimanga tale quale nella cognizione si trova. Questo accade talvolta, e allora la ricognizione volontaria è vera, giusta, morale, perchè la volontà, riconoscendo l' entità conosciuta, non ne altera il pregio, ma se ne compiace in quella sola misura, che la cognizione diretta le prescrive. All' incontro, avviene altre volte che la volontà, invece di aderire semplicemente all' entità conosciuta, cresce a sè stessa o diminuisce ad arbitrio i gradi dell' essere, che ha quella entità; e però la stima più o meno di quel che vale, la riconosce per quel che non è, non per quello che è; ella suppone che quella entità sia diversa da quello che pur è nella cognizione diretta, e però all' entità, propostale dalla cognizione diretta, un' altra ne sostituisce, fingendola e creandola per l' energia di arbitrio, che ella possiede. Questo non è certamente puro e semplice riconoscere, ma è prima di tutto un contraffare e immaginare ciò che poscia si vuol riconoscere. Il riconoscere adunque, rigorosamente parlando, esprime l' atto della volontà, quando è retto e verace; quando poi è torto e menzognero, allora l' atto della volontà è prima un fingere, e poscia un riconoscere ciò che fu finto. Ma per cagione di brevità talora noi pigliamo la parola riconoscere per indicare la prima attività volontaria, sia ella retta o torta. Riconoscere adunque semplicemente e riconoscere fingendo , sono i due modi nei quali si manifesta l' attività volitiva. Che cosa è dunque questo atto della volontà, che chiamiamo riconoscere, sia egli retto o torto? E` un compiacersi che fa il soggetto intellettivo dell' entità conosciuta. - Onde avviene che il soggetto intelligente si compiaccia dell' entità conosciuta? - Avviene di qui, che l' entità conosciuta, e però ogni entità, è il suo proprio oggetto, quello che gli fa fare l' atto suo proprio. L' atto proprio di un soggetto è quello che lo fa essere ciò che è; ora ogni soggetto ama di essere, che l' atto di essere di un soggetto vivo è piacere, è l' essenza del piacere. Dunque, appunto perchè il soggetto intelligente tende ad essere e pone sè stesso, perchè l' essere è il suo proprio bene, quindi colla stessa energia, con cui il soggetto intelligente è, colla stessa tende ad essere più che possa, ad aumentare la propria esistenza, ad ingrandire e dilatare l' atto della medesima, e quindi a compiacersi degli oggetti di questo atto, coi quali esso si spiega, si accresce e si perfeziona. Dunque ogni entità conosciuta è bene al soggetto conoscente, ed è tanto più bene, quanto quella entità ha più gradi di essere. Ma non essendo l' uomo un soggetto puramente intellettivo, ma dotato ancora di sensitività corporea e razionale, avviene che egli non operi sempre secondo l' inclinazione e la legge dell' intelligenza, ma secondo quella della sensitività animale o razionale. Quando l' inclinazione di questa doppia sensitività prevale all' inclinazione della mera intelligenza, che fa allora l' uomo? Non amando rinunziare all' inclinazione dell' intelligenza, seduce ed inganna sè stesso, e si persuade che il bene, presentatogli dal sentimento animale o razionale, sia maggiore di quello che è, maggiore di quello che la cognizione diretta gli dice; e così finge, contraffà l' oggetto della cognizione diretta, lo distrugge in parte o nasconde a sè stesso, in parte aggiunge coll' immaginazione e crea in esso quel bene che non vi è. Questa è la facoltà che ha l' uomo di mentire e di peccare. Non è già che egli sia costretto o necessitato a far ciò; ma egli può farlo, e però talora lo fa; questo è propriamente l' arbitrio della volontà. Quando adunque la ricognizione è torta e menzognera, allora ella è tale perchè precede a lei un sentimento e un affetto, che torce e seduce la volontà riconoscitrice. Ma se il riconoscere semplicemente, o il riconoscere fingendo, è il primitivo atto della volontà, gli effetti della volontà si fermano e finiscono in esso? No, ma il riconoscimento ha un' efficacia reale, che tira dopo di sè varie sequele nell' uomo. Queste primieramente sono di due maniere, i decreti della volontà e gli affetti (1). Qualora la cosa riconosciuta dalla volontà sia qualche bene che l' uomo ancora non ha, allora seguita un decreto volontario, col quale la volontà si propone di procacciarselo, e quindi di mettere in uso i mezzi necessari per arrivare a tal fine. A ragion d' esempio, un ferito vuole la guarigione; egli prima riconosce la guarigione della sua ferita per una entità buona; quindi decreta di applicare i rimedi, e in conseguenza di questo decreto muove le mani e li applica. Questo movimento esterno delle mani e del suo corpo viene in conseguenza del decreto, il quale ha virtù di muovere la forza animale locomotrice. Ma talora la cosa riconosciuta dalla volontà per un bene già si possiede, e non si tratta che di goderne maggiormente. Allora l' effetto immediato del riconoscimento suol essere l' affezione sensibile , che si muove spontanea, e che non è altro se non aumento e perfezione di quel piacere, che già contiene il riconoscimento del bene posseduto. A questi affetti spontanei tengono dietro dei movimenti corporei che li aiutano, i quali si manifestano extra7soggettivamente agli spettatori; e sono quei gesti esterni e quelle esterne azioni, che naturalmente dimostrano la gioia o il dolore, o gli altri affetti internamente concepiti. Quantunque poi il riconoscimento di un bene conosciuto, più o meno abituale, più o meno attuale, si continui in forma di affetto istintivamente, tuttavia può intervenire anche il decreto, che fa la volontà, di suscitare tali affetti; col quale decreto l' uomo può rendere il riconoscimento attuale, o può dargli maggiore attualità che istintivamente esso non avrebbe. Così i movimenti, che avvengono nel corpo, possono procedere dalla volontà per due vie, per quella del decreto e per quella dell' affetto . Si possono adunque distinguere tre specie di atti della volontà: 1 gli atti istintivi , che sono gli affetti spontanei, compresa in essi la ricognizione spontanea che ne è il principio, e i movimenti conseguenti del corpo; 2 i decreti che determinano l' acquisto di un bene che non si ha, e l' uso dei mezzi per acquistarlo; ovvero determinano gli atti per accrescere il godimento attuale del bene che già si ha, e questi decreti si sogliono chiamare atti eliciti; 3 e finalmente i movimenti delle potenze stabiliti coi decreti, i quali atti si sogliono chiamare atti imperati . Gli atti eliciti e gli atti imperati sono sempre assentiti dalla volontà; ma gli atti istintivi sono assentiti solo allora che la volontà, potendo impedirli, fa il decreto di non impedirli; sicchè l' assenso suppone sempre il decreto. Tuttavia il decreto di non impedire gli atti spontanei può essere prossimo o remoto; è prossimo, se si decreta di non volere impedire quegli atti; è remoto, se si decreta di non volere impedire la causa di quegli atti, riputandosi che chi vuole la causa, voglia l' effetto. Tutti gli atti della volontà si chiamano volizioni. Gli atti istintivi, non mossi da alcun decreto, sono volizioni senza scelta. La scelta cade sempre nell' ordine dei decreti, perocchè quando si pronuncia internamente un decreto, allora si sceglie sempre fra il volere e non volere la cosa. Questa scelta talora è così libera che viene determinata dall' energia stessa della volontà e non dagli oggetti, ed allora v' è quella che si chiama libertà bilaterale , e che è necessaria al merito morale proprio degli uomini viatori. Quali sieno le condizioni della libertà bilaterale nel suo esercizio, fu da noi ragionato nell' Antropologia ed altrove. Ogniqualvolta l' ingegno umano si volge allo studio delle cose naturali, prende piede il metodo analitico; di che la ragione è questa, che la materia si conosce dall' uomo per la sua divisibilità, per le sue parti e loro diversi accozzamenti ed aspetti, ed apparenze sensibili; almeno tale è la cognizione che cercano di essa le naturali scienze, le quali non vanno più in là della percezione , che è tutto il loro fondamento. Il quale esercizio d' analisi giova sommamente ad addestrare l' ingegno, e a renderlo più spedito in opera di scienze. Ma poichè l' uomo è limitato, qualora s' appiglia ad un metodo parziale e se ne invaghisce, dimentica facilmente e non più apprezza gli altri, pur buoni anch' essi e necessari alla perfezione del sapere. Oltre di che, l' uomo propende agli estremi; e però, datosi al ragionare analitico e colti dei bei frutti, tosto immagina e si persuade che quel solo metodo basti a tutto, e che l' analisi sia l' unico fonte di ogni sapienza. E tuttavia questo eccesso di confidenza che gli uomini mettono nell' analisi, in quei secoli nei quali le scienze naturali pigliano il sopravvento, non è senza qualche vantaggio all' educazione dello spirito, che non può mai accingersi felicemente alla sintesi scientifica, se l' analisi prima non sia perfezionata e, se fosse possibile, esaurita. Ora l' analisi non si spingerebbe forse mai tanto innanzi, qualora la mente si applicasse a due lavori ad un tempo, volesse percorrere due vie, e parte ragionare analizzando, parte sintesizzando. Sono già ben due secoli che l' umano ingegno analizza; perchè sono oltre due secoli che le scienze fisiche e materiali acquistarono maggioranza sulle intellettuali e morali. Onde queste provarono i funesti effetti di quel metodo analitico, che, quando prevale a segno da escludere la sintesi, è insufficiente a rinvenire certe verità, e, se vuol fare quel che non può, partorisce errori. E le verità, a cui vien meno l' analisi scompagnata dalla sintesi, sono appunto molte di quelle che hanno per loro oggetto la natura e le leggi degli spiriti, i quali, semplici come sono, non si lasciano dividere in parti materiali. Per fermo, lo studio delle nature spirituali non può procedere innanzi utilmente colla sola analisi, e molto meno con un' analisi materiale. Laonde la prostrazione, in cui dopo la Scolastica caddero le scienze che riguardano gli spiriti, si deve riputare appunto a queste due cause: 1 ad essere state trattate esclusivamente per via d' analisi, dimenticata la sintesi; 2 ad essere state trattate con quella specie d' analisi, la quale ben si conviene alla materia, che è molteplice, ma non allo spirito, che è semplice e uno. Se noi consideriamo la storia della filosofia dello spirito, da Condillac fino a tutta la scuola scozzese, senza voler trovare in questi ultimi filosofi il materialismo, osserveremo che è perduta in essi l' unità dello spirito umano, il quale è divenuto una mera aggregazione di facoltà quasi iuxta positae : si parla di principŒ d' azione, di fatti di prim' ordine; del principio ond' escono le facoltà e in cui rientrano, del principio7sostanza, o non se ne parla, o assai leggermente, quasi fosse un' accessorio, o un non so che di appiccicato, quand' egli, ed egli solo, è pure lo spirito. Se questi filosofi, così procedendo, decapitarono, per così dire, le scienze psicologiche, si fu perchè fecero un uso esclusivo dell' analisi, avendo il loro spirito perduto quasi l' uso della sintesi. Ma i Frenologi, che ad essi successero, produssero dei lavori guasti di gravissimi errori, a cagione che non solo applicarono allo spirito il solo metodo analitico, escluso il sintetico, ma vi applicarono quel metodo analitico materiale, che ai soli corpi conviene, quasi pretendendo che l' aggregazione delle facoltà, di cui i precedenti filosofi avevano fatta constare l' anima, altro non fosse che l' aggregazione degli organi ben distinti, di cui si compone il cervello. Per questo, non senza ragione, un autore recente mise a confronto gli autori della scuola scozzese coi Frenologi, e trovò gli uni e gli altri peccare in questo, d' aver messo in obblìo l' unità del soggetto, squarciatolo in facoltà distinte o in organi, su cui non più la mente esercita la sua analisi, ma il coltello anatomico le sue incisioni (1). Niuno imputerà a noi che siamo avversi all' analisi; noi ripetiamo che non si dà una sintesi veramente scientifica, una sintesi verace, se l' analisi prima non fu in qualche modo esaurita. Che se noi abbiamo cominciato l' opera presente con una ricerca eminentemente sintetica, « quale sia la natura dell' anima », ciò ci fu lecito, dopo avere lungamente analizzato nei lavori precedenti quanto nell' anima si può osservare di atti e di facoltà. E noi abbiamo tutto ciò analizzato con quell' analisi che conviene solo allo spirito, la quale non lo tagliuzza in parti separate, anzi considera le singole parti senza schiantarle dall' unica radice in cui vivono, si muovono e sono, che è la sostanza dell' anima stessa. Ora poi, dopo aver noi meditato su quella prima questione sintetica, « quale sia la natura dell' anima umana », da questo ceppo delle facoltà tutte o delle funzioni movendo, abbiamo distinte ed enumerate queste facoltà e funzioni; il che fu un tornare all' analisi. Ma compiuto anche questo lavoro, derivate le facoltà umane dal loro principio, ci conviene che a quel principio medesimo le riconduciamo, acciocchè vi attingano le leggi del suo e del loro operare. Per questo noi abbiamo apposto l' epiteto di sintetici ai tre libri seguenti, che trattano delle leggi secondo le quali operano le potenze dello spirito umano, perocchè queste leggi derivano dalla natura intima dello spirito, e sono sequele a quell' atto primo e sostanziale, pel quale e nel quale lo spirito è quello che è, o, meglio ancora, a quell' atto che è lo stesso spirito. Oltre di che la dottrina delle leggi, che governano l' attività dello spirito, deve dirsi sintetica anche per questo, che ogni legge che si stabilisca, altro non è finalmente che una grande sintesi, a cui si conducono innumerevoli atti, che si fanno allo stesso modo; il qual modo identico, che essi tengono, è appunto il segno e la sostanza della legge. Come poi nel precedente libro, dove fu nostro intendimento enumerare e descrivere le speciali potenze dell' anima, lo abbiamo fatto incominciando a derivarle e raccoglierle dall' essenza stessa di lei, così ora ci è uopo di additare, prima d' ogni altra cosa, la sorgente unica di tutte le leggi che segue lo spirito e le sue attività, negli atti in cui si svolgono, la quale è pure l' essenza medesima dell' anima; al che poniamo tosto mano. Riprendiamo adunque la natura umana quale l' abbiamo descritta; ricapitoliamo tutti gli elementi che la compongono, e nella natura di questi cerchiamo le leggi che presiedono al suo operare, pel quale ella si svolge e perfeziona. A tale intento prima di tutto consideriamo da capo la definizione dell' uomo. L' uomo è « un soggetto animale, intellettivo e volitivo ». Questa definizione può essere compendiata in quest' altra: « un soggetto razionale ». La prima definizione ha il vantaggio d' indicare le potenze primitive dell' uomo. Infatti l' intelligenza è potenza primitiva , laddove la ragione è potenza risultante , come abbiamo veduto. Per questo noi preferimmo dire che l' uomo è un soggetto intellettivo piuttosto che un soggetto ragionevole. Che se in quella prima definizione avessimo posto ragionevole o razionale in luogo d' intellettivo, non ci era più permesso di far entrare nella definizione l' animalità, come quella che sarebbe stata già compresa nella razionalità; e così non avremmo ottenuto l' intento di dare una definizione, in cui fossero distintamente accennate le potenze primitive. A malgrado di ciò, ritrattando ora la questione, troviamo più perfetta l' altra definizione testè recata: « l' uomo è un soggetto razionale »; perchè, dato che la parola razionale sia precedentemente dichiarata, il che noi facemmo, questa definizione, oltre il pregio della brevità, gode dei vantaggi seguenti: 1 Quantunque l' intelligenza sia potenza primitiva, tuttavia non è quella che costituisce la natura dell' uomo; di maniera che colla sola intelligenza sarebbe posto in essere un soggetto intellettivo, ma non ancora l' uomo; fino a tanto adunque che il nostro pensiero si ferma all' intelligenza, l' uomo è in via di formarsi, ma non è ancora formato; l' attività che pone l' uomo è la ragione. 2 La ragione, essendo quell' attività in cui conviene e si annette l' intelligenza coll' animalità, esprime acconciamente l' unità del soggetto umano e il vincolo primordiale delle sue potenze. Vero è che nella definizione, « l' uomo è un soggetto animale, intellettivo e volitivo », la parola soggetto indica sufficientemente l' unità dell' essere umano; ma la definizione, « l' uomo è un soggetto razionale », oltre esprimere l' unità dell' uomo, indica altresì il come questa unità si formi, in virtù cioè della ragione, che congiunge in sè stessa l' intelletto ed il senso (1). Ora, affinchè questo nesso meraviglioso dell' animalità coll' intellettualità riceva quella luce che ci bisogna per dedurne le leggi che segue operando l' umana natura, dobbiamo renderci presente all' attenzione della mente la dottrina ontologica delle relazioni essenziali agli enti, le quali si dicono essenziali perchè entrano a costituirli. E prima non si dimentichi che gli enti, dei quali noi parliamo, sono quelli che cadono nei nostri concepimenti, poichè se non li concepissimo, non ne potremmo pur parlare. Ora questi enti, i quali cadono nel nostro concepire, hanno in sè delle relazioni così essenziali che, senza di esse, non sarebbero quello che sono. Quindi essi cangiano di natura nella nostra mente, secondo che il nostro pensiero li considera con alcune di queste relazioni essenziali ovvero con altre; perocchè se da un ente concepito si toglie una sua relazione essenziale, egli è già per questo solo incontanente un altro ente, e viene espresso con un altro vocabolo; e se una ve ne si aggiunge, egli di nuovo non è più quell' ente, ma un altro; appunto perchè si tratta qui di relazioni essenziali, che fanno parte dell' essenza dell' ente, ossia dell' ente stesso. Questa avvertenza riuscirà chiara a quelli che già conoscono la nostra dottrina del sintesismo dell' essere. Ora dobbiamo applicarla alle diverse entità, che entrano nella costituzione dell' anima umana, la natura delle quali e il loro intimo nesso ci è bisogno conoscere per dedurne le leggi. Se noi consideriamo l' ente dotato di estensione, facilmente ci accorgiamo che il concetto dell' estensione risulta da una relazione essenziale fra le parti, che possiamo assegnare col nostro pensiero in un dato continuo, o fra punti che possiamo in esso a voglia nostra concepire. La relazione essenziale fra le parti, di cui parliamo, consiste in questo, che una parte sia fuori dell' altra. La relazione essenziale fra i punti assegnabili consiste in questo, che fra un punto e l' altro sia un dato continuo, maggiore o minore, sicchè i punti non si possano toccar mai. Il concetto dell' ente esteso risulta da queste relazioni; e però l' estensione involge relazione possibile di parte estesa a parte estesa, e di punti a punti, la cui relazione è la distanza. Ma se all' incontro noi consideriamo la relazione del continuo col principio senziente, questa relazione è del tutto diversa; non è relazione di parte a parte o di punto a punto, poichè il principio senziente non è nè una parte estesa, nè un punto matematico. Questa relazione fra l' esteso e il principio senziente fu da noi chiamata relazione di sensilità . E` evidente che questa relazione è inestesa, appunto perchè non è relazione di parte a parte o di punto a punto, la qual sola forma l' estensione. Dunque noi conchiudemmo che il principio senziente apprende l' esteso in un modo inesteso. Quando poi diciamo che il principio senziente apprende l' esteso, noi veniamo a dire che l' esteso è nel principio senziente. Ma l' esteso non è nel principio senziente come una parte è in un' altra parte maggiore; dunque l' esteso non è nel principio senziente con quella relazione che costituisce l' estensione; dunque l' esteso è nel principio senziente in un altro modo, cioè in un modo inesteso. Questo stesso si prova con un altro argomento così. Che cosa vuol dire un ente essere nell' altro in un modo esteso? Vuol dire essere nell' altro secondo la legge dell' estensione. E quale è questa legge? E` che un ente sia in un altro come un' estensione minore è in un' estensione maggiore, come la parte di un corpo è nel tutto. La parte di un corpo è nel tutto in modo che ella è fuori delle altre parti, di maniera che niun corpo, propriamente parlando, è contenuto in un altro corpo, benchè possa essere da un altro corpo circondato, appunto perchè questa è la proprietà dell' estensione, che ogni sua parte sia fuori dell' altra; la quale proprietà, quando si considera nei corpi che godono dell' estensione, chiamasi impenetrabilità . All' incontro, se si considera come l' esteso sensibile sia nella sensazione o nella percezione sensitiva, è chiaro che non vi è nel detto modo, perchè non si trovano due estensioni, l' una delle quali minore compresa nell' altra maggiore, ma tutta intera l' estensione trovasi presente al principio senziente e percipiente, il quale non è già una estensione maggiore che comprenda la minore, ma anzi è cosa diversa dall' estensione, di cui l' estensione è il termine; dunque l' esteso non è nel principio senziente secondo il modo che prescrive la legge dell' estensione, ma vi è in un modo inesteso. Tutto ciò viene dato dalla semplice osservazione; è un fatto innegabile; basta dargli attenzione per riconoscerlo. Se si vuole ancora un' altra prova di questo vero, o un altro indizio a cui riconoscere questo fatto, si mediti ciò che sono per dire. La frase, « un corpo ne contiene un altro, un esteso contiene un altro di lui minore », è impropria e, rigorosamente parlando, falsa, appunto perchè l' estensione e ciò che gode dell' estensione è impenetrabile, come dicemmo; una parte non può essere dentro l' altra senza distruggere la sua propria estensione. Ora, se l' esteso fosse contenuto nel principio senziente come un esteso è nell' altro, conseguirebbe che l' esteso non sarebbe mai contenuto nel principio senziente, ma il principio senziente non farebbe che circondarlo, che stargli a lato. In questo caso il principio senziente non potrebbe mai sentire l' esteso, perchè l' esteso si rimarrebbe sempre fuori di lui, come accade di ogni esteso rispetto ad un altro esteso; e ciò perchè l' esteso non può sentire l' esteso. Ma il principio senziente sente l' esteso, tutto l' esteso; dunque è necessario che l' esteso sia nel principio senziente secondo un' altra relazione, secondo un' altra legge, diversa da quella dell' estensione, il che è quanto dire in un modo inesteso. Di più, se il principio senziente avesse estensione e percepisse gli estesi, ricevendoli nella sua propria estensione, allora o l' estensione del principio senziente sarebbe la medesima di quella degli estesi che egli sente, o sarebbe diversa. Se fosse la medesima, il principio senziente non sentirebbe che sè stesso e niuna nuova sensione a lui s' aggiungerebbe mai; se fosse diversa, aggiungendosi una estensione a quella del principio senziente, la nuova estensione per essere sentita dovrebbe diventare ella stessa principio senziente; altro assurdo manifesto, perchè nella sensione e percezione sensitiva altro è il senziente, altro è il sentito. Finalmente, se il principio senziente fosse esteso, ogni parte della sua estensione non potrebbe sentire che una parte estesa della sua propria dimensione. Ma per quantunque minime fossero le parti che si assegnassero col pensiero, si potrebbero sempre diminuire ancora, e ciò indefinitamente, di maniera che le parti minime non si potrebbero mai rinvenire, perchè nell' esteso non vi sono parti assolutamente minime; onde non si troverebbero mai le parti senzienti, giacchè ogni parte non potrebbe essere sentita tutta intiera dalla sua parte corrispondente, giacchè questa stessa avendo altre parti, ciascuna di esse non sentirebbe tutta la parte intiera, onde sarebbe impossibile determinare una parte che tutta sentisse tutta un' altra parte; mancherebbe adunque il principio senziente atto a sentire tutto un esteso, per piccolo che egli fosse (1). Per la stessa ragione mancherebbe anche l' esteso sentito, perchè non vi sarebbe un senziente capace di sentirlo come esteso. Che se si supponga il principio senziente essere un punto matematico, questo ad ogni modo non potrebbe sentire più che un punto matematico, perchè l' esteso o il punto non ha alcuna esistenza, nè azione fuori di sè stesso, e perciò non sentirebbe l' esteso. Anzi l' esteso stesso non sarebbe al tutto, giacchè fuori del principio senziente ei non può essere. Infatti se nell' esteso ogni parte è fuori dell' altra, ogni parte, e, per dir meglio, ogni minimo esteso esiste fuori dell' altro. Se esiste fuori dell' altro, la sua esistenza e la sua essenza è limitata a sè, e non ha alcuna relazione propria ed essenziale coll' altra. Ma ogni minimo esteso è una unione di estesi ancora più piccoli, e ciò all' indefinito; gli ultimi estesi adunque non sono reperibili, e così l' estensione va a svanire. Se dunque l' estensione suppone parti possibili coesistenti, se suppone continuità, la quale senza alcuna interruzione abbia un' esistenza unica simultanea, conviene che vi sia un principio semplice, che possa abbracciare simultaneamente tutte le parti possibili; sicchè non rimanga già la sola esistenza delle singole parti, ma di esse tutte si formi un' esistenza sola, un ente solo; tale essendo la natura del continuo, che in esso si possano assegnare parti con esistenza individuale ed indipendente, e che tuttavia egli non abbia queste parti, in quanto è continuo. La ragione dunque del continuo, proprietà dell' estensione, non si trova nell' esistenza individuale delle singole parti, ma in un principio semplice loro superiore, che dà loro un' esistenza unica per tutte, e che, abbracciandole tutte, le abolisce, cessando esse d' essere parti di continuo per essere solamente continuo. Ora questo fa il principio senziente, al quale è presente il continuo senza parti, benchè in esso si possano assegnare parti innumerevoli. Per questo noi dicemmo che l' esteso non può esistere che nel semplice (1). Quello che c' importa qui di raccogliere dai sopra esposti ragionamenti si è che della natura dell' estensione e dei corpi si può ragionare in due modi, e quindi anche averne due concetti. Poichè si può considerare la natura dell' estensione dei corpi: Sotto la relazione essenziale all' estensione , la quale consiste in questo, che una parte sia fuori dell' altra. Colla quale considerazione il pensiero non esce dall' estensione o da ciò che è esteso; non fa che considerarla in sè stessa, paragona una sua parte ad un' altra. Sotto la relazione pure essenziale di sensilità . Colla quale considerazione si paragona l' estensione o l' esteso col principio senziente, e la si trova condizionata a lui e in lui inestistente. Il comune degli uomini considerano l' estensione e l' esteso sotto la prima relazione, ed in essa pongono la sua essenza; il filosofo deve considerarla sotto la seconda, ed intendere che anche la seconda entra a costituirne l' essenza, e quindi che l' estensione ha un nesso essenziale col principio senziente, che non è lei. Questi nessi tra due enti, essenziali ad entrambi, sono il fondamento del sintesismo ontologico , e la chiave della filosofia più elevata. Ora si deve osservare che la prima relazione essenziale non è già distrutta dalla seconda, che anzi la seconda suppone la prima. E veramente, qualora l' estensione continua o l' esteso continuo si considera come esistente nel principio senziente, non avviene che si confonda col principio senziente, a cui è anzi opposto siccome suo termine. Questo termine adunque è un ente in sè stesso, costituito di maniera che esso si può concepire non uscendo di lui, non aggiungendovi cosa alcuna; e però è una sostanza, perocchè « sostanza è ciò che ha quanto gli abbisogna d' avere per essere concepito, e che però esiste in sè stesso ». Si noti bene: acciocchè una cosa sia una sostanza non è necessario che ella non abbia una causa, o un principio che la costituisca; ma basta che possa essere concepita da sè; più brevemente, « sostanza è ciò che ha un concetto suo proprio ». Se non che la parola sostanza involge di più una relazione coll' accidente , come accade nella sostanza corporea, che ammette vari accidenti, i quali in essa e per essa esistono, e non hanno un concetto separato ed indipendente, non potendosi concepire esistente un accidente corporeo, se prima non si concepisce un corpo, un esteso, in cui egli sia; al quale si dà appunto perciò la denominazione di sostanza . Si chiama dunque sostanza « un ente (ossia ciò che ha un concetto proprio) considerato in relazione con altre entità, che in lui e per lui esistono »; e questa è la definizione più completa della sostanza. Si dirà che se l' esteso continuo ha per sua relazione essenziale l' esistere nel principio senziente, pare che esso non si possa concepire senza ricorrere al principio senziente in cui esiste, perchè tutto ciò che è essenziale entra nel concetto d' un ente. Ma qui si avverta primieramente che per questo appunto dicemmo che, coll' aggiungere una relazione essenziale o col sottrarla, mutasi l' ente nel nostro concetto, cangiandosi essenzialmente; giacchè abbiamo premesso che gli enti, di cui parliamo, sono quelli che concepiamo; ma la parte essenziale che vi si aggiunge, non muta la prima. Di poi si consideri che il concetto di esteso continuo, quantunque non si consideri in esso il principio senziente, tuttavia presenta in sè ciò che la semplicità di questo principio produce, che è la continuità ; di modo che è ragionando sulla natura di questa continuità che in appresso s' induce la necessità d' un principio senziente. Ma questa induzione, benchè si fondi sul primo concetto dell' esteso, tuttavia appartiene ad un ragionamento posteriore alla concezione di lui; il quale non è necessario alla concezione dell' ente, che col primo concetto , come dicemmo, si pone. Fin qui noi parlammo promiscuamente della estensione e dell' esteso, perchè il nostro ragionamento valeva per l' una e per l' altro. Ora, prima di procedere a parlare dell' unità, che il principio senziente dà al suo termine, giova, per ragione di chiarezza e per rimuovere ogni dubbio dalla mente di chi toglie a ragionare con noi, che distinguiamo l' estensione dall' esteso . Per estensione noi intendiamo il medesimo che spazio considerato indipendentemente dai corpi; e per esteso noi intendiamo il corpo che occupa una parte dello spazio, ossia della estensione. L' estensione, ossia lo spazio pieno o vuoto, occupato o non occupato dai corpi, esiste egualmente, e non è certamente un nulla, come taluno si dà a credere; conciossiacchè il nulla non può essere occupato da una cosa alcuna, nè nel nulla si possono assegnare parti col pensiero, come si può nello spazio. Ora questo spazio è immenso (1), immobile, indivisibile, ossia continuo ed immodificabile; ed è solamente il corpo che è misurabile, mobile, divisibile, modificabile; ma il corpo, sia o non sia in un dato spazio, non modifica punto lo spazio, ossia l' estensione; questa rimane quella che era prima. Noi ammettiamo che lo spazio puro sia un termine della percezione fondamentale dell' anima. Questo spazio primitivo non è una forma nel senso di Kant, quasi una legge dell' operare e una produzione dell' anima stessa, ma è il termine, distinto dall' anima, di una naturale percezione. Questo termine però ha successivamente due stati: il primitivo , privo di qualsivoglia distinzione o relazione quantitativa, o d' altra natura (spazio puro indistinto); e il riflesso , che è lavorato dalla riflessione della mente, che paragona lo spazio primitivo, percepito anche intellettivamente, colle varie dimensioni dei corpi e colle possibilità di tali dimensioni (idea di spazio puro distinto, ossia riportato ai corpi). Questo spazio riflesso, puro, ma distinto, con relazioni quantitative, è di altro genere, è l' idea di spazio interminabile , di cui abbiamo dichiarata l' origine nel Nuovo Saggio (1). Noi ammettiamo che uno dei termini del sentimento fondamentale è un corpo esteso, e però anche un' estensione distinta, limitata quant' è il corpo. Ma avendo l' animale virtù di muoversi, e il muoversi non essendo altro che trasportare il corpo in un' altra parte dello spazio, qualora rimanga un vestigio dello spazio precedentemente occupato, lo spazio distinto rimane ingrandito nel principio senziente in proporzione del movimento e della ritentiva del medesimo. Accadendo poi questo moto nell' uomo, il quale, dotato com' è d' intelligenza, ha il concetto del possibile, l' uomo intende la possibilità di moltiplicarsi e di estendersi lo spazio del suo corpo e di altro corpo all' indefinito mediante il moto, e così si forma il concetto dello spazio riflesso, distinto, puro od immenso (2). Questo concetto adunque manca all' animale che non ha concetti, e nell' uomo è acquisito; quando lo spazio indistinto della percezione sensitiva e razionale è innato. L' istinto poi del moto suppone bensì la percezione fondamentale dello spazio immenso distinto, ma non l' idea dello spazio distinto, perchè quell' istinto non è che il sentimento corporeo avente uno spazio limitato, benchè non ne senta i confini esteriori, e tendente ad atteggiarsi nel modo più agiato e piacevole, senza che l' animale senta, prima di recarvisi, come pieno e distinto, il nuovo spazio in cui colla sua attività si trasporta; ma lo sente distinto, cioè occupato ossia occupabile, solamente allora che vi si è già trasportato, se pure ha modo di conservare in sè i vestigi dello spazio precedente. Lo spazio adunque annesso al proprio corpo è lo spazio distinto perchè occupato, ma non è segnato da confini, che non si possono distinguere, perchè non si sente ancora nulla di corporeo fuori dello spazio sentito che lo limiti; lo spazio adunque del proprio corpo è assolutamente limitato, ma l' animale non ne ha la misura, perchè la misura suppone una relazione con altra quantità estesa, la quale manca ancora prima che esso animale eserciti la sua virtù locomotiva, e ne riceva nuove sensioni. Ora poi, essendo il mero spazio immodificabile ed immobile, egli non ha accidenti; e però, quantunque convenga a lui il nome di ente , perchè il suo concetto, dopo che l' uomo se lo procacciò, è sufficiente a sè stesso e non ha bisogno di corpo, tuttavia a lui non compete il nome di sostanza , perchè il concetto di questa è relativo ad altre entità, che nell' ente e per l' ente esistono, cioè agli accidenti. Dove di nuovo si vede essere una affermazione gratuita quella che « « non si dieno altri enti se non sostanze ed accidenti », » affermazione che appartiene ad una Ontologia materiale e falsa (1). Che poi lo spazio sia un ente e non sia un nulla, si vede da questo stesso che egli è termine, insieme colla forza corporea o senza questa, del sentimento. Ma perchè ciò che si muta è solamente questa forza ed egli si rimane immobile, conviene dire che egli sia un ente, che ha solo l' atto primo con cui è nel principio senziente, e come termine lo informa; ma non ha altra attività, nè atti secondi; perciò appunto non ha accidenti; onde alcuni, che nulla riconoscono se non vedono accidenti ed atti secondi, cadono nell' errore di dichiararlo un nulla. Per altro quando si considera lo spazio puro, l' estensione, come termine immediato dello spirito, egli si considera nell' atto stesso di costituirsi, non avendo altra attività che quella che dimostra come naturale termine del principio senziente; laddove il concetto del corpo (dell' esteso), quale termine del principio senziente, involge di più una passività che ha natura corporea, sì rispetto allo spirito di cui è termine, e sì rispetto ad altre virtù o forze esteriori, che lo muovono e lo modificano indipendentemente dallo spirito nostro. Laonde, se ad acquistare il concetto di spazio distinto, ossia di qualche spazio, basta all' uomo l' astrarre dal corpo, ad acquistare il pieno concetto di corpo è necessaria l' esperienza, che dimostri essere il corpo un ente che agisce nello spirito, su cui lo spirito reagisce modificandolo, e su cui finalmente altre forze e virtù straniere pure agiscono e producono in esso movimenti e modificazioni. Da tutte queste notizie, raccolte dall' esperienza, lo spirito umano conchiude quale forza sia quella che si distende nell' estensione, e che si chiama corpo (1). Noi possiamo ora dalle cose dette avere un corollario importante, cioè che quella unità che si trova nell' estensione e nell' esteso corporeo, viene costituita dalla unità e semplicità del principio senziente, ossia dall' anima. E veramente la sola unità, che si scorge nell' estensione e nell' esteso, consiste nella continuità . Se leviamo la continuità, se colla mente la spezziamo successivamente, lo spazio ed il corpo ci si moltiplica sempre più, e questa moltiplicazione non ha alcun fine, perchè il continuo ci rimane sempre; per questa via dunque della divisione e moltiplicazione all' infinito non si trova mai uno spazio ed un corpo senza continuo, e l' immaginarlo è un assurdo. Se poi noi leviamo il continuo d' un tratto e non successivamente, ogni estensione ed ogni corpo fenomenale è perito (1). Ora noi vedemmo che la continuità dell' esteso non si può concepire se non a condizione di un ente, il quale, identico, sia contemporaneamente in tutte le parti assegnabili del continuo; e questo è ciò che si può affermare dello spirito, quando si considera il continuo come termine indiviso e indivisibile di lui. Se dunque l' unica semplicità del mondo materiale consiste nella continuità, e se questa ha tal concetto, tal natura che fuori del principio senziente non può stare, anzi ripugna il pensarla, dunque la semplicità e l' unità del mondo materiale risulta da questa sua essenziale condizione e relazione, che egli è termine del principio senziente animale, o, che è il medesimo, dell' anima sensitiva. E qui mi affido che coloro, i quali avranno inteso tutto questo ragionamento, non faranno l' obbiezione che « l' essere due corpi contigui o disgiunti è condizione dei corpi stessi e non del sentimento », poichè, dicendo ciò, mostrerebbero di non avere considerato: Che l' estensione immobile è il fondamento del continuo anche nei corpi, i quali non sono che forze diffuse nella estensione, e questa ha la sua sede nel principio senziente. Che la contiguità dei corpi non è nulla rispetto agli stessi corpi singoli, ciascuno dei quali non ha in sè nulla della relazione di vicinanza o contiguità coll' altro; e però questa relazione è estranea al loro concetto, ed altro non è che una relazione, che ciascuno di essi ha col termine del principio senziente, cioè coll' estensione immobile ed immodificabile; e però la loro contiguità è relazione col principio senziente, il quale li sente nello spazio, da cui esso principio, come da termine suo proprio, è informato. Dato un ente, il cui concetto escluda la possibilità d' una successione, quell' ente dicesi eterno. Tali sono le idee (1), tale è l' essere necessario, Iddio. E si noti che a poter dirsi un ente eterno, egli non solo deve escludere di fatto la successione, ma ben anche la possibilità di lei, di maniera che il pensare che in esso sia successione equivale ad un distruggerlo. Così un atomo materiale immobile è privo di successione, ma egli potrebbe averla, perchè si potrebbero pensare in lui delle mutazioni, senza annullarne il concetto; perciò egli non è delle cose eterne. Successione importa mutazione; onde ciò che è eterno è altresì immutabile. Per la stessa ragione ciò che ha cominciato ad essere, oppure solo che si può pensare senza ripugnanza aver egli incominciato, non è eterno. Poichè se una cosa può cominciare, niente vieta che si pensi un' altra cosa, che cominci ad essere prima o dopo di quella, o che ella stessa finisca dopo avere cominciato; è dunque tosto possibile il pensare che quella cosa sia il termine di una serie successiva, ammetta successione; il che si deve dire anche dello spazio, il cui concetto ammette benissimo il cominciamento, senza che con questa concezione lo si annulli. Si consideri adunque attentamente il concetto della successione , giacchè esso è necessario a quello del tempo. La successione suppone una serie di più avvenimenti. Ora ciascuno di questi avvenimenti non forma la successione od il tempo, ma tutti insieme contribuiscono a formarla. Che se in ciascun avvenimento non consiste il tempo, dunque il tempo è fuori degli avvenimenti, perchè ogni avvenimento è essenzialmente singolare, e nella sua singolarità è compito, di modo che il concetto di lui non domanda e non ha alcuna relazione essenziale con un altro avvenimento. All' incontro il tempo consiste essenzialmente nella relazione di più avvenimenti fra loro. Ora, se questa relazione, che costituisce il tempo, non si trova negli avvenimenti, dove si troverà? Noi rispondiamo che questa relazione realizzata si trova prima nel principio senziente , il quale apprende più avvenimenti, e questi disposti in ordine successivo. E` questo un fatto che non si può rilevare che coll' osservazione interiore; ma possiamo poi analizzarlo e, meditando la sua natura, cercare le condizioni, alle quali il principio senziente può apprendere più avvenimenti successivi, per esempio, più modificazioni sue proprie. Acciocchè il principio senziente apprenda come suo termine più avvenimenti successivi, appare necessario che essi, rimanendo in qualche modo in lui, si rendano contemporanei; perocchè se dopo averne appreso uno, questo passasse del tutto e ne venisse un altro, nel principio senziente comparirebbero gli avvenimenti singolari come sono in sè stessi; ma la relazione di successione fra loro non sarebbe appresa, ella non esisterebbe in lui più che negli avvenimenti, e sopravvenendo il pensiero, questo non troverebbe alcuna successione. E` ben da osservarsi che il pensiero piglia le cose come sono, come gli vengono date dal sentimento, e non le cangia (1); dunque è uopo che la successione esista avanti il pensiero, nello stesso sentimento, acciocchè ella possa essere pensata. Ciò che fa il pensiero si è di concepire quella successione come possibile , e, come tale, rendere indefinita quella successione finita che gli presenta il sentimento; il che egli fa coll' idea di possibilità, come abbiamo altrove dichiarato; (2) ma rimane sempre che il sentimento gli debba aver prima presentata nella propria realità una successione finita. Il che s' intenderà meglio, ove si consideri che neppure la memoria sarebbe, senza l' aiuto di sentimenti, i quali notassero le cose nell' idea dell' essere. Perocchè è certo che, se cessasse ogni sentimento all' anima intellettiva, in lei cesserebbe ogni memoria di avvenimenti o di cose reali, non restandole presente altro che l' essere ideale senza determinazione o disuguaglianza di sorte, perchè nulla sarebbe che disegnasse in quello le cose speciali e reali. Tutto ciò che potrebbe restare sarebbero certe attitudini, potenzialità, abiti dell' anima, impotenti di passare all' atto. Ma perchè si vegga più chiaro quale parte abbia nella costituzione del tempo il pensiero, e quale il sentimento, conviene investigare più addentro il fatto della memoria, facoltà che appartiene all' ordine dell' intelligenza, e propriamente alla potenza della ragione. Parleremo adunque qui della memoria; la quale ha due funzioni principali, l' una chiamata ritentiva , che ha per ufficio di conservare le notizie, l' altra chiamata reminiscenza , che ha per ufficio di rivocarle all' attenzione riflessiva della mente, qualora l' uomo ne abbisogni. Non indugiamo su questa seconda, ma ci conviene trattenerci sulla prima, la quale è o inconsapevole o consapevole. La ritentiva inconsapevole è quella che gli antichi chiamavano l' abito della memoria, pel quale le notizie rimangono in noi, senza che noi vi diamo attenzione riflessa. La ritentiva consapevole è quella attività, per la quale abbiamo presente alla riflessione ed alla coscienza la notizia, sia per avercela richiamata coll' atto della reminiscenza, sia perchè ci abbiamo continuamente riflesso. Diciamo, adunque, che un evento passato acciocchè sia presente alla nostra coscienza: Ha bisogno d' un vestigio restato nell' immaginazione, o comecchessia nel sentimento dell' evento. Ora quel vestigio non è l' evento a cui noi pensiamo, e che è già passato, ma è un cotal segno di lui. Conviene dunque che oltracciò s' aggiunga una propria virtù del pensiero, colla quale la mente nostra possa andare dal segno alla cosa segnata, possa, aiutandosi col vestigio rimasto, trasportarsi all' evento che già non è più, e così finire l' atto del pensiero nel passato, come in suo termine. Ora questo non è così agevole a spiegare. Noi l' abbiamo fatto altrove; qui in aiuto dei lettori ci riassumeremo. Primieramente si abbia presente che la mera concezione dell' evento non è nè passata, nè futura; è presente nell' idea. Questa concezione adunque non dà cognizione dell' evento che nella sua natura e nella sua possibilità; qui non entra ancora il tempo, il quale è una relazione propria degli enti reali, e non delle pure idee. Ma per questo appunto che la concezione, la possibilità dell' evento è cosa immune dal tempo, perciò ella può applicarsi ad ogni tempo; io posso pensare l' evento tanto possibile ad essere avvenuto, quanto ad avvenire. Conviene dunque investigare come dalla cognizione dell' evento possibile l' uomo passi alla cognizione dell' evento reale, il quale è sito in un dato punto del tempo. Ora l' ente reale non si conosce se non per via di sentimento; quindi di nuovo è evidente la necessità del sentimento, acciocchè si possa pensare il tempo dell' evento. Ma il sentimento della percezione, colla quale noi fummo presenti all' evento, va a cessare. Vero; pure conviene osservare che la percezione si compie mediante un giudizio, ed anzi essendo accompagnata da riflessioni, come accade nell' uomo adulto, ella è accompagnata da più giudizi. Questi giudizi danno allo spirito delle notizie dell' evento; vediamo quali sieno tali giudizi e tali notizie. Il giudizio proprio della percezione è che l' evento, il fatto, l' ente di cui si tratta, sussista. Lo spirito così acquista la notizia della sussistenza di quella entità, parola che abbraccia ogni ente, ogni evento, fatto od azione. A questo giudizio se ne accompagnano molti altri, che determinano l' entità colle relazioni di contemporaneità, che egli ha con altri. Perocchè quell' entità non si percepisce sola, ma con essa se ne percepiscono molte che la circondano, coesistenti ad essa. Il che apporta allo spirito altre notizie, cioè altrettante quanti sono i giudizi, coi quali si affermò che quella entità coesiste con qualche altra. Non basta; fra le entità, che coesistono con quella di cui si tratta, alcune incominciano dopo che ella è già incominciata, ovvero erano incominciate prima, e mentre esse duravano, ella incominciò. Altre entità finirono prima di essa, ovvero continuarono a durare dopo che essa cessò. Nell' atto adunque della percezione, o per dir meglio delle molte percezioni contemporanee e dei giudizi riflessi che le accompagnano, lo spirito acquista la notizia dell' ordine cronologico, in cui cominciarono le entità contemporanee. Ora, poichè tutta la vita è una serie continua di percezioni e di riflessioni, di giudizi e di notizie cronologiche, perciò consegue che queste notizie rimanendo nello spirito, questo venga a conoscere l' ordine cronologico delle entità, ossia degli eventi percepiti. Tutto adunque si riduce a spiegare come queste notizie si conservino nello spirito, perocchè, dato che esse si conservino, lo spirito già sa quale evento è preceduto, e quale è susseguito, e se un dato evento ne ebbe pochi o molti davanti a lui; il che è quanto dire conosce la successione ed il tempo; e poco alla volta s' incammina a misurarlo più o meno accuratamente colla periodicità. Vediamo adunque come si conservano le notizie cronologiche degli eventi, che acquistiamo in occasione delle percezioni contemporanee. Dico delle percezioni contemporanee, perocchè è sempre un evento contemporaneo quello che segna il cominciare ed il finire di un altro; il quale pure segna il cominciare ed il finire degli eventi contemporanei a sè, e così successivamente. Che cosa sono adunque queste notizie cronologiche? Sono altrettante affermazioni, giudizi, persuasioni. Ora che è un' affermazione? Un atto del principio razionale. Se questo atto non cessasse mai, conseguentemente la notizia che produce allo spirito non cesserebbe del pari, ma sarebbe sempre presente allo spirito; per esempio, la notizia che prima che il sole cadesse, giunse a noi un amico lontano, rimanendo sempre attuata l' affermazione pronunciata da noi al venire dell' amico, rimarrebbe pur ella sempre presente al nostro spirito. Si consideri che in questa supposizione della presenza immobile di tale notizia davanti al nostro spirito, l' oggetto della notizia non varierebbe mai per volger di tempo, sarebbe sempre quello; noi sapremmo sempre egualmente ciò che sapevamo al primo pronunciare di quel giudizio, cioè che « quell' amico giunse a noi innanzi sera »; questi due avvenimenti della venuta dell' amico e del cadere del sole, nella detta notizia sarebbero sempre collocati l' uno prima e l' altro dopo. Questo è adunque un fatto importantissimo da tenersi ben fermo, che l' oggetto di una notizia, durante la notizia, non si muta col volger del tempo, ma rimane identico; trattasi sempre di amico e di sera, quantunque passino anche dei secoli. Ora questa identità dell' oggetto di una notizia si conserva non solo nell' ipotesi che quella notizia duri in essere innanzi allo spirito, ma ben anche se, dopo essere cessata, noi possiamo richiamarla al pensiero. Perocchè, quantunque sia vero che il nostro spirito, volgendo di nuovo il pensiero a quella notizia, farebbe un atto nuovo diverso dal primo, tuttavia l' oggetto di quell' atto nuovo sarebbe identico coll' oggetto dell' atto antico e cessato, e l' identità dell' oggetto è ciò che costituisce l' identità della notizia; questo non si avvera solo rispetto alle notizie cronologiche, ma rispetto a tutte le notizie di qualsiasi maniera. Se io penso mille volte a questa verità, che « due e due fanno quattro », io fo mille atti diversi, ma l' oggetto di tutti questi atti è il medesimo sempre, e però è identica la notizia. Se io penso mille volte che « fu al mondo Alessandro, figliolo di Filippo », di nuovo fo mille atti, ma l' oggetto è sempre uno; con ciascuno di quegli atti penso sempre il medesimo Alessandro, il medesimo Filippo, e penso questo padre e quello figliolo; la molteplicità dei miei atti non moltiplica i miei oggetti. Ciò vale adunque tanto se l' oggetto della notizia è necessario, come la verità geometrica « due e due fanno quattro », quanto se l' oggetto è contingente, come la verità dell' esistenza di Alessandro, figliolo di Filippo. Il che vuol dire che l' oggetto della notizia è immune dal tempo, perocchè il tempo che trascorre e gli eventi che si succedono, non lo cangiano; ma si noti, è immune dal tempo come oggetto di notizia, ma non è immune dal tempo in sè stesso; perchè il contingente soggiace al tempo, ed infatti tra Filippo ed Alessandro vi fu successione, e quindi tempo. Deve dunque conchiudersi che il pensiero apprende il tempo, ma non temporalmente; apprende ciò che è temporaneo, ma fuori del tempo; simigliantemente appunto a ciò che abbiamo detto dell' esteso, che è appreso dallo spirito in un modo inesteso. Se dunque l' oggetto della notizia è temporaneo, e pure, in quanto è divenuto oggetto di una notizia dello spirito, non soggiace più al tempo, e quindi lo spirito l' apprende fuori del tempo, dove l' apprenderà egli? E` forza concludere che il pensiero apprende il tempo e il temporaneo nell' eterno; perocchè esclusa la possibilità del tempo, come abbiamo detto, rimane l' eternità. Il che come sia si spiega, qualora si rifletta che nell' essere ideale , che è necessario ed eterno, si vede, presupposto il sentimento, anche il contingente ed il successivo, e la realità stessa come possibile a sussistere (idea della realità); ed è poi l' affermazione, che, congiungendo questa realità coll' essenza della cosa, pronuncia la sussistenza; onde quantunque volte la pronuncia, pronuncia sempre la realità della stessa essenza, e quindi sempre la stessa cosa identica. Di che si fa chiaro che il pensiero, il giudizio, l' affermazione, col ripetersi, non mutano il loro oggetto, ma lo colgono e pongono innanzi alla mente in un modo eterno e immutabile. Ora poi, qui noi abbiamo introdotto due ipotesi, l' una che il giudizio, che produce innanzi allo spirito la notizia cronologica degli enti in occasione delle percezioni, lasci questa notizia durare nello spirito quasi in deposito; l' altra che la riproduca, dopo essere ella svanita; e nell' una e nell' altra egualmente conchiudemmo che la successione di più enti, conosciuta una volta, si può conoscere egualmente anche molte, senza che a ciò faccia ostacolo il trascorrere del tempo. Ma per non lasciare indietro nulla, che turbar possa la mente di quelli che ci accompagnano in queste ricerche, domanderemo « quale delle due ipotesi sia conforme al fatto ». La seconda è preferita comunemente, perchè l' esperienza dimostra che molte notizie si dimenticano e poi si richiamano colla reminiscenza, onde non pare che di continuo si conservino nello spirito. Eppure ella soggiace a non leggiere difficoltà; primieramente se esse non si conservassero, almeno languidamente, non si potrebbe spiegare il loro richiamo; perocchè dove e come lo spirito le rinverrebbe perdute? Non può dirsi per associazione di esse con altre notizie presenti, giacchè se sono affatto perdute, l' associazione non può esistere; non per gioco d' istinto, giacchè l' istinto suppone il senso di cui esso non è che il movimento, e però suppone ancora le notizie conservate in qualche modo nel sentimento; e poi molte volte si richiamano non istintivamente, ma per decreto di volontà, tostochè piaccia. D' altra parte è indubitato che noi perdiamo la coscienza di quelle notizie, e poi di nuovo la riprendiamo. Tutte queste difficoltà svaniscono per colui che conosce la teoria della coscienza; questi intenderà facilmente come le notizie acquistate possano rimanere nello spirito nostro presenti, attuali, vive, e tuttavia spoglie al tutto di coscienza. Fu già da noi dimostrato che « niun atto dello spirito è conosciuto a sè stesso », a cagione che l' atto è sempre diretto a conoscere il proprio oggetto, e non sè stesso. Fa dunque bisogno un altro atto riflesso sul primo, pel quale l' atto primo divenga oggetto, acciocchè si conosca, acciocchè si sappia di conoscere. Conviene dunque appigliarsi alla prima ipotesi; conviene dire che non basta avere una notizia, ma di più conviene averla sempre in noi conservata, perchè ce ne rendiamo consapevoli. Non è dunque assurdo il dire che le notizie, una volta ricevute nello spirito, vi rimangano, e che quello che cessa sia l' atto dell' attenzione (1) che lo spirito pone in esse, e della riflessione , senza i quali atti non è coscienza di cosa alcuna che sia nello spirito. Riprendiamo ora il corso del nostro ragionamento. Il pensiero conosce la successione in un modo nel quale non entra successione alcuna, a condizione però che la successione una volta gli sia offerta nella percezione e nei giudizi riflessi, che si fanno in sua compagnia. Ora noi abbiamo detto che la percezione e i giudizi concomitanti offrono la successione al pensiero, perchè durante la percezione d' una entità se ne percepiscono altre, che incominciano o che finiscono; e queste percezioni si succedono, lasciando di mano in mano nello spirito le notizie cronologiche degli eventi. Ma questo suppone la durata della percezione. Infatti non si potrebbe concepire successione di avvenimenti, se fra l' uno e l' altro non fosse una durata. Ora il durare suppone ciò che dura, per esempio, la percezione stessa; la durata è propria di ciò che esiste, e niente all' incontro può esistere in un istante, il quale non ha durata alcuna; l' istante non è che il principio e il termine della durazione. Dunque la successione di eventi, cioè del loro cominciare e del loro finire, suppone la durata d' un ente, nella quale durata, quasi sopra termometro, sieno segnati tutti gli istanti in cui cominciano o terminano gli avvenimenti, che in quella si mutano e si succedono. Il tempo dunque si può definire in sè stesso: « la relazione fra la durata e la successione ». Ma i concetti della durata e della successione sono correlativi, per modo che l' una non si conosce, nè può esistere senza l' altra. Poichè come non si dà successione senza che fra l' uno e l' altro avvenimento, che è sempre un cominciare ed un finire, passi qualche durata, così la durata non s' intende se non mediante la possibilità che vi sia una certa successione di avvenimenti, a cui si riferisca (1). Conviene dunque occuparsi a meditare che cosa sia la durata , e prima di tutto quella del pensiero, poi quella della percezione intellettiva, in appresso quella del sentimento, e finalmente quella dell' ente materiale; e quando il nostro intendimento, meditando, sarà soddisfatto, allora sarà per noi spiegata sufficientemente la natura del tempo. Ora la durata del pensiero consiste nell' identità dell' oggetto. Noi abbiamo veduto che ogni oggetto della notizia intellettiva, come tale, è immutabile; sicchè ove il pensiero si volga ad un altro oggetto, egli è incontanente un altro pensiero, non più quel di prima. Ma finchè lo spirito non si volge ad un altro oggetto, questo essendo immutabile, rimane pure immutabile il pensiero. Non mancando dunque mai l' oggetto che determina un dato pensiero ad essere quello che è, perchè l' oggetto di una notizia è eterno, ed essendo possibile il pensiero tutte le volte che vi sia l' oggetto; ne consegue che la durata del pensiero sia una partecipazione dell' eternità del suo oggetto. Se non che, per la limitazione del soggetto pensante, il pensiero cessa e finisce, benchè rimanga l' ente che era suo oggetto; e questo cessare è appunto l' istante, che termina la sua durata. Ora poi la notizia che un evento precedette un altro è ricevuta dallo spirito mediante la percezione. Come adunque si spiega la durata della percezione? - La percezione non può durare, se non dura il sentimento a cui si riferisce (2); nè il sentimento può durare, se non dura l' ente senziente e l' ente sentito. Conviene dunque spiegare la durata dell' ente sentito, oggetto della percezione. Come si spiega la durata degli enti? La sussistenza d' un ente contingente altro non è che la realizzazione della sua idea. Questa realizzazione è fatta dalla prima causa delle cose, è la creazione. Ora la causa suprema è necessaria ed eterna, e l' idea è pure necessaria ed eterna. La maniera con la quale la causa suprema crea, ossia realizza gli enti contingenti, è per via d' intendimento, è un atto della ragione pratica di Dio, del suo pensiero operante. Iddio fa sussistere le cose con un atto analogo a quello, col quale l' uomo le pensa sussistenti. Il pensiero dell' uomo, come abbiamo veduto, da parte dell' oggetto cognito (benchè contingente) ossia della notizia , è immutabile ed eterno; ma cessa per deficienza del soggetto pensante. All' incontro, l' oggetto immediato del pensiero di Dio è pure eterno, ma è egualmente eterno ed indeficiente il soggetto pensante, cioè Dio. Quindi le cose create possono durare a volontà di Dio; e questa volontà infatti è senza pentimento; onde gli enti, una volta creati, non cessano più in eterno, perchè sono l' opera di Dio. All' incontro le loro azioni e passioni, avendo per oggetto e causa prossima gli enti stessi contingenti e deficienti, vengono a cessare, incominciano, terminano, ricominciano con una incessante vicenda e successione. Conviene dunque dire che la durata è una partecipazione dell' eternità di Dio, e la successione è l' effetto della limitazione e deficienza delle creature. Ora il tempo è appunto questa successione riportata, e quasi segnata graduatamente su quella durata. Così è chiaro come le entità durino e si succedano , e come la loro durata si misuri col numero, ossia colle serie delle successive azioni degli enti (1). Dichiarata così la natura del tempo, riprendiamo la nostra questione, la quale si era se il tempo è nelle cose materiali, se è nel sentimento, e finalmente se è il solo pensiero che lo forma. Da ciò che fu detto chiaramente si deduce che il tempo non può essere nelle cose materiali, perocchè la loro unità, e però la loro durata, è dovuta al principio senziente in cui sono, e non la hanno in proprio; onde il rapporto fra la successione e la durata non è cosa che possa esistere in alcuna parte assegnabile della materia, come materia, perchè non si dà parte senza estensione continua, e questa non è propria della materia come materia. Oltracciò, mettendo da parte quelle mutazioni fenomenali, che appariscono nella materia a cagione della sua relazione col principio senziente, e pigliando la materia nel suo puro concetto, niuna mutazione si concepisce in lei possibile se non quella del moto, il quale è una relazione con lo spazio. Ma lo spazio, il continuo, non appartiene alla pura materia; dunque in essa, puramente in essa, è impossibile concepire mutazione, e però nemmeno successione. Di più la materia non ha moltiplicità, perocchè ciascuna porzione della materia è una e rimane una, finendo in sè stessa senza potersi sommare con un' altra porzione, dalla quale ha esistenza intieramente separata, nè v' è realità comune fra esse. Certo, se nell' ente materiale vi fosse un principio semplice, questo potrebbe portare nel suo seno una cotal successione di svolgimenti, la quale avrebbe un nesso fisico col principio immutabile e durevole dell' ente, ed in tal caso il tempo vi sarebbe quasi realizzato; ma rimosso dalla materia corporea il sentimento, che non appartiene al suo concetto, ella non ha più, per dirlo di nuovo, nè semplicità, nè unità alcuna. Che se si ammette un principio corporeo , questo non può essere corpo, nè materia, di cui anzi è il principio; e però, supponendo che avesse in sè il tempo, non l' avrebbe però ancora l' ente meramente materiale. Ritorniamo adunque all' ente sensitivo, dove trovasi appunto un principio semplice, fonte di diverse sensioni e modificazioni, attività e passività. In questo si concepisce una durata appartenente ad esso principio, che rimane identico; si concepisce del pari una successione nelle sue sensioni particolari; si concepisce finalmente un nesso fisico tra la durata del principio e la successione delle sue passioni ed azioni, perchè queste sono contenute virtualmente in quello; da quello, poste certe condizioni, scaturiscono; e a quello, come a soggetto, appartengono. Ora questi tre elementi, durata, successione, nesso fra loro, compiscono il concetto del tempo. Il tempo dunque esiste nella natura del sentimento. Ma qualora si prenda a dar ragione di tutto ciò, la mente incontra dei nodi difficili, ed è meraviglia se ella non vacilla e tentenna. Giova che qui noi tocchiamo queste difficoltà, oltrepassando le quali, il ragionamento nostro non potrebbe indurre piena persuasione di verità. Gli atti transeunti e successivi d' un principio senziente, quando cessano, o lasciano nel principio stesso vestigio di sè o non ne lasciano. Se non lasciano vestigio alcuno, non può rimanere nel principio successione di atti in un modo contemporaneo, com' è pur necessario, acciocchè si abbia il tempo. Perocchè, come vedemmo, questo importa successione; e successione non v' è, se ella non può esistere tutta insieme, però contemporaneamente, se non v' è ciò che unisce i suoi anelli. Se poi gli atti successivi passando lasciano vestigi di sè nel principio senziente, questi vestigi non sono gli atti stessi; onde non sarebbe più la successione degli atti che il principio senziente mantiene in sè, ma la successione dei loro vestigi; e il tempo dovrebbe crearsi mediante questi. Ma che cos' è la successione dei vestigi? La successione dei vestigi non è già la loro durata, perocchè nella semplice durata non v' è successione. La successione dei vestigi non è che il loro cominciare l' uno prima dell' altro, come pure il loro finire, se finissero; ma noi supponemmo che rimangano permanenti. Ora, il cominciare di ogni vestigio passa in un istante e non lascia nulla di sè; rimane il vestigio che dura, ma non l' istante del suo cominciare. Se dunque il cominciare prima e poi dei vestigi, che forma la successione, altro non è che una serie d' istanti, il precedente dei quali non è più quando viene il susseguente, convien dire che la successione non rimanga, non sia raccolta da un ente che l' abbia presente; perocchè il principio senziente non ritiene i diversi cominciari dei suoi vestigi, i quali cominciari trapassano per la loro natura essenzialmente istantanea. Dunque si trova la stessa difficoltà ad intendere come il principio senziente possa raccogliere in sè tutta la successione dei vestigi, che lasciano gli atti suoi, e come possa raccogliere e ritenere in sè quella dei suoi atti passeggeri. E` dunque uopo cercare un' altra via a superare questa difficoltà. Noi la troveremo meditando la natura della durata . Il concetto, che noi ne abbiamo dato, si fu che « ella è una partecipazione dell' eternità ». Come l' ente ideale è immune affatto da tempo, così la sua realizzazione partecipa di questa immunità, benchè in modo limitato perchè di più non può; e questa è la durata. La durata dunque suppone identità . Come l' essenza d' un ente è identica in qualunque istante la si considera, così l' ente reale e semplice è del pari identico in qualunque istante egli opera e patisce. Ciò posto, se n' ha per conseguenza che quell' identico principio senziente che fa un atto, è quegli pure che fa tutti gli altri successivi. Essendo egli identico, è dunque presente a tutti gli atti che fa; è dunque presente a tutta la successione, senza che egli stesso soggiaccia a successione, oppure sia un anello di lei. Considerando in questo modo il principio senziente, s' intende assai chiaro come egli raccolga in sè la successione dei suoi atti egualmente che quella dei vestigi che lasciano in lui; benchè i termini della successione degli atti e dei vestigi trascorrano in modo che l' uno non è presente all' altro, come è necessario acciocchè formino successione. Conviene dunque ammettere che il principio sia fuori del tempo, acciocchè possa accogliere in sè la successione, e così mettere in essere il tempo; onde di nuovo dobbiamo dire che « il tempo non può esistere se non in ciò che non ha tempo, come suo termine ». Tutta la difficoltà, dunque, anche qui si riduce a pervenire colla mente a persuadersi che il principio senziente (come ogni altro ente semplice) non soggiace al tempo, ma propriamente è nell' eternità, o, come sogliamo anche dire, appartiene al mondo metafisico. Tutto questo ragionamento, a nostro vedere, è inattaccabile, a meno che non si voglia impugnare la durata del principio senziente, cioè la sua identità rispetto a tutti i suoi atti successivi. Supponiamo dunque che s' impugni; noi dovremo sostenerla, e quando l' avremo provata con invitti argomenti, allora sarà assicurata la nostra conclusione; qui conviene puntare il ragionamento. La prima prova, che noi daremo della durata identica del principio senziente, sarà quella che dimostra in generale la necessità della durata degli enti. Infatti, supponiamo che un ente non avesse alcuna durata; è chiaro che non esisterebbe più, perchè l' esistenza istantanea è assurda in sè stessa, nulla essendo l' istante se non il principio od il fine di una durata. Ma se un ente dura, per poco che duri, egli deve essere identico finchè dura, altrimenti non sarebbe durata la sua, ma successione di enti eguali, ciascuno dei quali fosse per un istante. Il che, per replicarlo, è manifestamente cosa assurda a pensarsi, sì perchè niuno di quegli enti sarebbe, giacchè nell' istante stesso in cui fu, nell' istante medesimo cessò, non fu; ora fu e non fu è contraddizione. Di più quegli enti non potrebbero formare successione, perchè fra l' uno e l' altro non vi sarebbe durata alcuna, la quale non può essere, come dicevamo, senza la possibilità almeno d' un ente durante. Una seconda prova, speciale alla durata del principio senziente, si trae da questo fatto, che gli atti successivi d' un animale sono ben sovente ordinati; il che dimostra che vi è una identità nella causa che li produsse, l' istinto animale. Che se non vi fosse una causa unica di tutti, ma ciascun atto avesse una causa diversa, un principio senziente diverso che li producesse, non vi sarebbe più una ragione dell' ordine che hanno fra loro, e dell' unicità dello scopo a cui tendono ben sovente; perocchè ogni principio non potrebbe operare che un atto solo, senza alcun legame cogli altri. Converrebbe adunque ricorrere o ad un' armonia prestabilita, o all' azione immediata di Dio medesimo, per spiegare le azioni e le passioni dell' animale; il che non può ammettersi per innumerevoli assurdi che escono da tali sistemi. Terza prova: tolta la durata degli enti identici, non sarebbe possibile neppure che esistessero nuove azioni di enti, perchè l' azione è un atto secondo, che suppone il primo dell' esistenza, e quindi almeno due istanti con intervallo di qualche durata, perocchè altrimenti non sarebbero due. Quarta prova finalmente: nell' uomo la coscienza depone l' identità del principio senziente rispetto ai suoi atti. Ora la riflessione del pensiero, non alterando punto le cose dall' esser loro, come già dimostrammo, ma solo facendole conoscere quali sono, è testimonio fededegno che il principio senziente dura numericamente il medesimo. Dunque non è assurdo che il principio senziente abbia una durata , il che è quanto dire si conservi identico rispetto a tutti i suoi atti successivi; ed anzi ciò si deve al tutto ammettere; ora in lui si genera quella relazione che poi tempo si chiama. Conchiudesi che l' unità della successione degli atti, modificazioni, passioni, cominciamenti e terminazioni, è dovuta ad un principio semplice che ha durata, cioè che è identicamente presente a tutti i termini della successione; senza di che vi sarebbero i singolari anelli, non mai la successione, e però neppure il tempo; nè i detti anelli avrebbero ragione di anelli. Per la ragione medesima che il principio razionale è un ente semplice, il quale fa più atti successivi, di cui è causa e soggetto durevole identicamente il medesimo, anche nel principio razionale vi sono tutte le condizioni richieste all' esistenza del tempo. Convien dunque conchiudere: Che se lo spazio e l' esteso ricevono la loro unità dal principio senziente animale , la successione all' incontro, il tempo ed il temporaneo ricevono la loro unità da un principio senziente di qualunque maniera egli sia, o animale o razionale . Che lo spazio è un concetto conseguente a quello dell' ente animale ; ma il tempo è conseguente all' ente reale senza più, tostochè esso divenga soggetto di mutazioni, perchè all' ente appartiene l' identità , ossia la durata , in mezzo alle permutazioni a cui si stende. Che il concetto di tempo non si riscontra in quello di spazio puro o di materia, dove può pensarsi la durata, ma non la successione, e però neppure il rapporto fra durata e successione. Quindi si deve distinguere: Il tempo reale , cioè il tempo in quanto esiste realmente nel nesso, che vi è tra un principio identico e la successione delle sue modificazioni. Il tempo reale7conosciuto , che è il tempo presente al pensiero che lo apprende. Il tempo ideale , che è il concetto, ossia la mera possibilità di un nesso fra la durata e la successione. Noi dobbiamo ora dimostrare come il principio razionale congiunga e unifichi l' idea ed il sentimento. Ma poichè il sentimento è di tre specie, animale, intellettivo e razionale , così di ciascuno di essi dovremo, a parte, dimostrare come possa coll' idea congiungersi. Di più, nel sentimento vi sono due elementi, il senziente e il sentito, ciascuno dei quali può nell' idea conoscersi. Divideremo adunque le questioni così: Come il sentito esteso e la successione degli eventi si percepiscano dal principio intellettivo, che così prende il nome di razionale. Come si percepisca intellettivamente il principio senziente animale. Come si percepiscano il principio intellettuale, a cui è termine l' idea stessa, ed il principio razionale. Come si percepiscano le diverse affezioni del principio razionale. Noi abbiamo veduto che l' estensione e l' esteso non comunica col principio senziente per via d' estensione, a quella guisa cioè che un esteso potrebbe essere in qualche modo contenuto in un altro esteso; che anzi, se l' estensione e l' esteso non avesse che questa proprietà dell' estensione, non potrebbe avere nessun nesso col principio senziente, il quale è inesteso. Ma l' estensione e l' esteso è anche sensibile, e però, mediante la relazione di sensilità , egli è ricevuto e contenuto nel principio senziente. La qual relazione però è prodotta dalla stessa natura ed attività del principio senziente, di cui tale è la natura che egli si congiunge alle cose a lui appropriate per via di sentimento; onde quel che è esteso egli lo rende sentito . Questa relazione di sensilità è più elevata della relazione di estensione; e come l' entità più elevata, avente più gradi di essere, abbraccia l' entità meno elevata avente meno gradi di essere, e abbracciandola la nobilita comunicandole del proprio, così il concetto di esteso è abbracciato e contenuto nel concetto di sentito , e non viceversa; e l' esteso stesso divenendo sentito, ossia considerato come tale, si eleva nella scala dell' essere un gradino più su. Ora, più elevato di ogni entità è lo stesso essere , il quale è l' oggetto dell' intendimento; e quindi il concetto di essere abbraccia tutte le entità inferiori, qualunque sieno i gradi d' essere di cui quelle godano. Quindi le cose tutte si mettono in congiunzione coll' intendimento per una relazione essenziale di entità . Ma le cose non possono essere percepite dall' intendimento, se prima non hanno la condizione e relazione di sentito (1), perocchè l' uomo non percepisce intellettivamente se non ciò che cade nel suo sentimento (2). Dunque l' esteso è nel sentito, e il sentito è nell' ente intuìto dall' intendimento. Conviene riflettere che l' essere ideale comprende la realità possibile , il che è quanto dire l' essenza delle cose reali; quindi, allorquando al principio, che vede l' ente, è contrapposto un sentito7esteso, forza è che lo veda nell' ente come partecipe dell' essere, e così lo percepisca, come abbiamo spiegato innanzi più estesamente. Ora, quando il principio che vede l' ente, vede anche l' entità partecipata dal sentito, allora quel principio, che prima chiamavasi semplicemente intellettivo, incomincia a chiamarsi razionale. Il principio razionale , adunque, percepisce il sentito nella sua qualità di ente, il che è quanto dire congiunge in uno ciò che vede nell' idea (essere) e ciò che sente; e così il sentito diviene un ente all' intelligenza, un suo oggetto. Che se niuna intelligenza percepisse il sentito, questo non avrebbe il concetto di ente, ma solo di sentito, perchè il concetto di ente lo riceve dalla sua relazione coll' essenza dell' ente, la quale essenza dimora nella mente suprema e in tutte le menti inferiori, a cui quella prima la comunica, così creandole. Chiamo poi questa relazione essenziale , appunto perchè ella entra a costituire il sentito7esteso come ente; il che è un dargli un grado maggiore di entità, anzi è un dargli quell' ultimo atto, nel quale è quello che è. L' ente sentito, adunque, esiste come ente nella mente; ma l' uomo, che ne parla, attribuisce giustamente la condizione di ente a lui stesso; perchè l' uomo non parla delle cose se non in quella guisa che sono nella sua mente; e la cosa stessa, che è nella mente, è ente, ed è ente diverso sostanzialmente dalla mente, che, ponendolo, lo percepisce. Per la stessa semplicità dell' idea e della notizia, per la quale ella è immune dallo spazio e dal tempo, si spiega come la mente possa concepire gli eventi successivi, passati e futuri, come vedemmo (1). Era necessario indicare qui la questione, perchè nostro intendimento si è dimostrare come il principio razionale è il principio che dà unità a tutte le operazioni umane. Ma la questione fu già da noi risoluta, e, ricapitolando, qui ci basterà dire che è la riflessione quella che, ripiegandosi sul sentito7ente, trova che a lui deve inesistere un principio senziente per la ragione detta, che il solo sentito esteso non avrebbe quella unità che egli ha, qualora non vi fosse alcun principio senziente. Ma non siamo noi ancora principŒ senzienti? non ce lo dice la coscienza? Sì, la coscienza ci dice indubitatamente che in noi è un principio senziente, un principio intellettivo e un principio razionale, in cui si unisce quello a questo. Ora la coscienza stessa è una riflessione sul sentimento nostro proprio. Ma si conosce il sentimento nostro proprio immediatamente per via di percezione, senza bisogno di riflessione. Sì, ma altra cosa è percepire il sentimento proprio, altro è distinguere in esso il principio , distinguerlo dico, accuratamente dal termine . Noi percepiamo questo principio entro il sentimento; ma per averne un concetto separato e distinto dobbiamo ricorrere alla riflessione. Ora la riflessione lo trova, considerando appunto la natura del sentimento. Tutto adunque si riduce a dichiarare la natura della riflessione e in che modo ella proceda. La riflessione si definisce « « la facoltà di applicare l' idea dell' essere alle nostre cognizioni e loro oggetti »(1) ». Ora, per ispiegare questa operazione dello spirito, conviene attentamente considerare la natura dell' idea dell' essere, che è il mezzo sì della percezione e sì della riflessione . La difficoltà, che si presenta, è questa: « Se nel percepire un ente io ho adoperata l' idea dell' essere legandola col sentito, come posso io più, dopo di ciò, applicare la stessa idea dell' essere alla percezione e al suo oggetto, e cavarne da questa nuova applicazione (che è appunto la riflessione) altre notizie? ». La risposta si deve desumere dall' osservazione accurata del fatto. Questo fatto osservato attentamente ci dimostra che la cosa avviene appunto così; dunque dobbiamo concludere, senza replica, che ella così può avvenire. L' idea dell' essere può sempre venire dalla mente applicata a sè stessa, ovvero a qualsivoglia cognizione, in cui ella è già contenuta. Questo fatto ammirabile non si può negare o impugnare; ma si può analizzare e cavarne conseguenze utili a farci meglio conoscere l' indole dell' idea medesima. Ecco quali sono: Se l' idea dell' essere quantunque la leghiamo nella percezione, tuttavia ci rimane nello stesso tempo libera a poterla usare nuovamente, applicarla di nuovo alla percezione che la contiene, conviene dire che ella è affatto immune da ogni passività , e che il vedere in lei qualche cosa non la lega propriamente, non la coarta a quella cosa, sì che ella non ci sia pronta come prima ai nostri bisogni, ai nostri usi. Il poter noi adoperare sempre l' idea dell' essere come fosse sciolta, e come fosse la prima volta che noi l' adoperiamo, dimostra che ella identicamente la stessa è sempre presente a tutti gli atti del nostro spirito, agli atti di percezione, di riflessione, ecc.; e l' esser presente nella sua identità a molti atti prova ch' ella è semplice , e come semplice sta incontro al molteplice e in sè l' accoglie; e l' esser presente a molti atti successivi dello spirito dimostra che ella non soggiace al tempo, ch' ella è eterna , come dicevamo di sopra. Infatti, questa è la proprietà di ciò che è eterno, che « esso, identico, sia presente a molte entità successive ». Ora quando io intuisco l' essere, egli è presente allo spirito intuente; quand' io rifletto sopra l' essere da me intuìto, allora l' essere stesso è presente all' atto della mia riflessione; lo stesso essere identico è dunque presente quale oggetto al primo atto dello spirito e al secondo, all' intuizione ed alla riflessione; è unico l' essere, ma ha relazione a due atti; in quanto ha relazione all' atto intuitivo, si mostra allo spirito senza distinzione; in quanto ha relazione all' atto riflesso, si mostra allo spirito con quelle distinzioni e condizioni, che l' analisi e la sintesi (due modi di operare della riflessione) vi ritrova. Il mostrarsi nel secondo modo non toglie l' essersi mostrato nel primo. E` dunque la semplicità e la eternità dell' ente che spiega la riflessione; senza quelle due doti questa sarebbe impossibile. Ciò che si conosce per via di riflessione è diverso da ciò che si conosce per via di intuizione o di percezione; cioè si conosce in diverso modo, con diversi gradi, ecc.. Dunque nella riflessione l' ente non fa che comunicare allo spirito una maggiore notizia di sè stesso, ovvero una notizia di diverso modo. La notizia dello spirito si deve dunque distinguere dall' idea dell' ente in sè stessa considerata, che la produce; quella ha qualche cosa di limitato e di soggettivo, questo è illimitato e tutto oggettivo, o per dir meglio, oggetto. Questo oggetto è sempre in tutte le notizie , sia che le abbiamo per via d' intuizione, o di percezione, o di ragionamento, cioè di riflessione; ma è in quelle varie notizie in diverse guise (1). Dallo stesso fatto si deduce e conferma la verità che l' essere viene dato, per così dire, a prestito alle cose finite, per la necessità che abbiamo di conoscerle, e l' impossibilità di conoscerle se non sono prima divenute enti, cioè se non sono copulate dalla mente coll' ente. L' essenza dunque dell' ente non si confonde, non s' immedesima colle realità sensibili, ma soltanto si congiunge con esse e così le rende intelligibili. Il qual vero distrugge il panteismo dalla radice, perchè dimostra che l' essenza, che si vede nell' idea, rimane sempre inconfusibile colla realità, finchè si tratta di cose finite; il quale è un corollario importantissimo. Niuna meraviglia adunque, se noi, dopo aver percepito intellettivamente il sentito7animale, possiamo applicargli l' idea dell' essere, e così colla riflessione cavarne il concetto del principio senziente. Noi possiamo sciogliere questa operazione nel ragionamento seguente: il sentito è un esteso7continuo; ma questa entità non potrebbe essere, se non avesse un principio semplice in cui fosse. Io rilevo questo vero raffrontando il sentito esteso all' essere , che gli attribuisco; perocchè, sapendo per natura che cosa è essere, io so che non può mai contrariare a sè stesso, cioè l' essere non può essere non essere pel principio di cognizione . Ma il sentito esteso non sarebbe sentito esteso, se non avesse un principio semplice; dunque, ecc.. Niuna meraviglia ancora se, dopo aver intuìta l' idea, noi possiamo cavare il concetto del principio intuente, applicando l' essere all' intuizione in un modo somigliante. Perocchè possiam dire: l' idea intuìta ha questa entità di essere idea intuìta; ma ella non avrebbe questa entità se non ci fosse un principio intuente; dunque, non potendo questa entità essere e non essere, debbo ammettere un principio intuente. Finalmente niuna meraviglia se, riflettendo sul sentito7esteso percepito intellettualmente, troviamo la necessità dell' esistenza del principio razionale; perchè, non ammettendo questo principio, non sarebbe vero che avessimo percepito intellettivamente il sentito7esteso. Ma non può ad un tempo esser vero che l' abbiamo e non l' abbiamo percepito, per la natura dell' essere (noto per natura), che esclude la contraddizione; dunque il principio razionale esiste. Che se si vuole che io giunga ad affermare il principio senziente, l' intellettuale ed il razionale, anche per via di semplice astrazione o di analisi, queste stesse operazioni si fanno, come ho dimostrato altrove, per una applicazione segreta e sfuggevole dell' idea dell' essere (1). Dalle cose fin qui ragionate si raccoglie: Che il principio senziente7animale non si riferisce che all' esteso. Che il principio intellettivo non si riferisce che all' idea. Che il principio razionale si riferisce egualmente all' esteso7sentito, colla percezione, e colla riflessione all' idea e al principio senziente ed intellettivo, e finalmente a sè stesso; onde è quello che tutto lega ed abbraccia quanto cade nell' uomo, e a tutto si estende. Che dunque l' unità dell' uomo è nel principio razionale. Finalmente che l' uomo, non essendo uomo se non perchè è un essere unico, egli è tale pel principio razionale; nel quale perciò, come in propria sede, si compie e pienamente si natura l' umanità. Riassunta così la dottrina dell' umana natura, e veduto com' ella si compia nel principio razionale, dove giace l' unità dell' uomo, noi dobbiamo volgere il pensiero all' attività, che dal principio umano deriva, affine d' investigarne e meditarne le leggi. Ma prima è necessario che noi sceveriamo quelle attività che si mescolano coll' attività umana, e che non sono lei; perocchè il confonderle intralcierebbe i nostri ragionamenti, e la confusione dei concetti ci menerebbe necessariamente all' errore. Da ciò che noi abbiamo detto risulta che cinque attività si fanno nell' uomo manifeste, delle quali una sola è propria dell' uomo. Poichè: Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza dell' estensione, termine del principio senziente7animale, che in questo principio giace quasi in sua sede, ma che non è questo principio. Tale attività nulladimeno è immanente e non produce atti secondi, onde non ha ragione di sostanza, ma solo di entità. Non ne abbiamo investigato la causa, ma ci siamo contentati d' osservare che essa ha una relazione essenziale con un principio senziente, sicchè il pensarla fuori di esso è assurdo. Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza di un' attività corporea che si manifesta nell' estensione, e in questa diviene termine del principio senziente7animale. In quanto è estesa, ella ha pure una relazione essenziale col principio senziente, cioè non può che avere la sua sede in esso, e ripugna il pensarla fuori di esso. Ma questa attività, che si manifesta nell' estensione, non è l' estensione, e non è neppure il principio senziente. Questa attività corporea non ha solo l' atto primo col quale esiste, ma ha ancora degli atti secondi, non presentandosi già al principio senziente come un termine immobile ed immutabile, ma con movimento e variate apparenze. La causa prossima di lei, straniera al principio senziente, fu da noi detta principio corporeo , il quale, quando fa sentire la sua azione nell' anima, prende nome di virtù sensifera; ma noi non siamo entrati ad investigare la natura di quel principio, secondo ciò che può essere o non essere in sè stesso. Rispetto poi alla causa onde i corpi si muovono secondo la legge dell' attrazione, e, quali termini del nostro principio senziente, cangiano di posizione e di aspetto, fu collocata, almeno con argomenti di grande probabilità, nell' animazione degli elementi. Quindi: 1) Talora l' attività stessa del principio senziente immuta e muove il suo termine. 2) Talora il termine corporeo d' un principio senziente viene immutato da un principio ch' egli non percepisce, e che probabilmente è un altro principio senziente. Lasciamo le leggi del movimento meccanico, che altronde deriva. Noi abbiamo riconosciuta in terzo luogo l' attività del principio senziente7animale. Questa attività è quella che costituisce l' animale. Risulta, da quanto abbiamo detto, che ella ha virtù d' immutare il sentito7esteso. Risulta ancora che il principio razionale percepisce il sentimento come entità, e quindi può agire in esso, ma questo non distrugge l' attività del principio senziente; onde, benchè nel sentimento possa agire l' attività del principio razionale e secondo certe leggi possa immutarlo, tuttavia rimane l' attività del principio senziente, che è elemento essenziale al sentimento. E che niente si muti nel sentimento colla semplice percezione, noi l' abbiamo veduto dove dimostrammo che la percezione non altera o contraffà gli oggetti percepiti. Ma il principio razionale non può agire immediatamente sul sentito, benchè lo percepisca, perchè lo percepisce essenzialmente nel principio senziente, e perciò come costituito da questo. Il principio razionale adunque deve immutare e muovere il principio senziente, acciocchè questo immuti ciò che egli costituisce, che è l' esteso sentito. Quindi si trovano due attività, che operano nello stesso sentito: l' una (il principio senziente) in un modo immediato, l' altra (il principio razionale) in un modo mediato, cioè movendo il principio senziente; le quali talora pugnano insieme, e così sorge la lotta della concupiscenza. Oltracciò, come l' attività del principio senziente è limitata e non è la sola che entri a costituire e a muovere l' esteso sentito, concorrendo anche altre attività, come la forza sensifera ed altri principŒ senzienti; così il principio senziente talora è concorde, talora discorde colle attività straniere, che hanno virtù di costituire o d' immutare i corpi; e quando è discorde, talora prevale, talora è vinto, secondo il grado di forza che spiegano i principŒ opposti, e così sorge la lotta delle malattie. Medesimamente avviene che il principio razionale può essere in discordia colle dette attività, e confederato al principio senziente lottante, od anche coll' attività dei principŒ stranieri, quando questi leghino e spossessino il principio senziente, impedendolo di piegarsi all' attività del principio razionale, e a questa servire. Ma se l' opposizione al principio razionale non nasce dall' agente straniero, ma dallo stesso principio senziente, in tal caso vi è difetto nella percezione primitiva, che è il vincolo dell' anima razionale col corpo animale; ed è perciò che il principio razionale non ha le piene e naturali sue forze, non può farsi ubbidire dal suo inferiore (1). Noi abbiamo riconosciuta in quarto luogo l' attività intellettiva, che consiste nell' intuizione dell' essere, la quale non ha e non può avere verso l' essere alcuna reazione. Finalmente abbiamo riconosciuta e lungamente descritta l' attività del principio razionale. Ora le prime tre attività non sono propriamente attività dell' uomo, e la prova ne è che talora si oppongono all' uomo. Se fossero attività dell' uomo, non potrebbero giammai opporsi all' attività razionale, che è l' umana. Tuttavia esse aiutano alla costituzione dell' uomo: la prima, quella dell' estensione, come condizione alla quale egli può percepire i corpi; la seconda e la terza, cioè la virtù sensifera ed il principio senziente, come strumenti del principio razionale: quella cioè come strumento mediato, questo come strumento immediato (1). Che se non sempre il principio razionale può far uso di questi suoi strumenti, reggendone e dominandone la potenza, ne vedemmo pur ora il perchè, che a queste due ragioni riducesi: I - La debolezza e imperfezione del principio razionale, che non può dominare la forza del principio senziente7animale, attesa l' imperfezione della percezione fondamentale. II - La debolezza del principio senziente, a cui non è ben congiunto e armonizzato il principio sensifero, da cui dipende. Se le tre prime attività non sono proprie dell' uomo, saranno esse proprie dell' uomo le altre due? Sì, quando si considerino nel loro nesso, pel quale esse non ne compongono che una sola, la razionale. Infatti l' attività intellettiva, la semplice intuizione dell' essere, è quell' atto primo che costituisce un principio intellettivo, ma non è ancora principio completo degli atti secondi , nei quali l' attività dell' anima si manifesta. E parlando noi dell' attività dell' anima affine di esporre le leggi del suo operare, cerchiamo la causa degli atti secondi e non ci fermiamo all' atto primo, che finisce tutto in sè stesso. Se dunque si considera il principio razionale, si vede che in esso vi è sempre l' atto del principio intellettivo, poichè egli non potrebbe percepire un ente reale, se non intuisse prima l' essere ideale. Quel soggetto adunque, che intuisce l' essere ideale e che, in quanto a ciò, si chiama principio intellettivo, è quello stesso che percepisce l' ente reale, e, in quanto a ciò, si chiama razionale. L' intuizione dell' essere ideale non esaurisce l' attività del soggetto; dunque l' intuizione dell' ideale è un atto del soggetto, ma non è tutto il soggetto stesso, tutto l' uomo. Perocchè un soggetto è posto da quell' atto primo, che abbraccia in sè potenzialmente tutti gli atti secondi. L' intuizione poi dell' essere ideale si può anche considerare come condizione necessaria agli atti del principio razionale. E qui si scorge un' ammirabile analogia fra l' ordine animale e l' ordine intellettuale. Nell' ordine animale vi è l' apprensione dello spazio, quale condizione all' apprensione del corpo. Nell' ordine intellettuale vi è l' intuizione dell' essere ideale, quale condizione preliminare alla percezione dell' essere reale. Quindi lo spazio puro è un bel simbolo dell' essere ideale indeterminato: in quello si percepiscono sensitivamente i corpi, in questo si percepiscono intellettivamente gli enti reali. Appartiene all' Ontologia la questione: « Se tali simboli, sparsi nella natura sensibile, di ciò che accade nella natura intelligente, siano conseguenze necessarie all' ordine intrinseco dell' essere, o un effetto dell' arbitrio sapientissimo del Creatore ». Ma torniamo a noi. Come dovremo dunque definire il principio razionale, acciocchè nella definizione si comprenda pienamente l' atto primo del soggetto umano colle sue forme diverse? - Noi lo definiremo: « Il principio razionale è la virtù di apprendere l' essere come essere, sotto le sue tre forme; la quale virtù è tutta in atto rispetto alla forma ideale; parte in atto e parte in potenza rispetto alla forma reale (essendo ella in atto rispetto al sentimento animale fondamentale, di cui vi è la percezione, e in potenza rispetto ai diversi termini di esso, che successivamente si mutano), ed è in potenza rispetto all' essere morale ». Quindi nel principio razionale , che è reso unico dall' unità dell' essere, si comprende il principio intellettivo come la prima forma del suo atto; e si contengono in radice i tre ordini supremi delle umane potenze e facoltà, cioè l' ordine delle potenze e facoltà che si riferiscono all' idea, l' ordine di quelle che si riferiscono alle cose (reali), e l' ordine di quelle che si riferiscono al bene morale7eudemonologico. Il principio razionale adunque ha un solo ed unico oggetto, l' essere; ma come l' essere è in tre forme, così l' atto primo del principio razionale è pure in tre forme rispettive, salvo che riguardo alla terza egli è da principio in potenza e non in atto; il che è possibile a concepire, poichè avendo l' atto delle due prime forme, dal rapporto di quelle esce poi necessariamente la terza (1). Dalle quali cose tutte si raccoglie che, come le potenze dello spirito si diversificano secondo le relazioni che ha il principio razionale con altre attività ed entità inferiori, così pure le leggi , che quelle varie potenze osservano operando, si debbono rinvenire nella natura di tali relazioni. Ora, posciachè legge della natura si chiama quel modo costante che dimostrano le operazioni degli enti, a preparare la via all' esposizione di quelle leggi non basta che abbiamo trovato nel principio razionale il fonte di tutte le operazioni umane e di tutte le leggi, ma è uopo altresì che premettiamo la teoria delle operazioni degli enti in generale; è uopo che presentiamo un concetto accurato dell' operare . Perocchè allora la mente, arricchita di questo accurato e bene analizzato concetto, potrà intendere la necessità di quei modi costanti che nelle operazioni si scorgono, ai quali si dà appunto il nome di leggi . Il quale argomento appartiene veramente all' Ontologia ed alla Cosmologia; ma mancandoci tuttavia sufficienti trattati di queste scienze, a cui ricorrere, noi dobbiamo, siccome abbiamo fatto altre volte, trascorrere in esse, pigliandoci dalle dottrine a loro spettanti quanto ce ne abbisogna. Incominciamo dunque dallo svolgere il concetto di operazione, dimostrandone quella possibilità che è ammessa dal senso comune senza alcuna difficoltà nè meraviglia, ma pure si fece sempre un grande inciampo alla filosofia. Allora quando noi concepiamo un ente determinato, concepiamo ad un tempo un atto , cioè l' atto del suo esistere. Questo atto è semplice, e dura quanto l' ente; perciò è uno degli atti che si dicono immanenti. Concepire un ente e concepire l' atto del suo esistere è egli il medesimo? L' atto dell' esistere dell' ente non differisce dall' ente, se non per certe relazioni che vi aggiunge la mente nostra. Quando diciamo atto , noi vi aggiungiamo una relazione colla potenza, a cui il concetto dell' atto è correlativo per opposizione. Quando diciamo ente , concepiamo l' atto compito ed ultimato, laddove quando diciamo atto di essere , noi concepiamo, ovvero immaginiamo di concepire tutta la via per la quale l' ente fu naturato; e nell' atto stesso distinguiamo un cotal principio (atto iniziale), un mezzo e un fine, in cui si riposa compiuto e assoluto. Quindi certe sentenze dei filosofi, come quella: in actu actus nondum est actus , e simili. Di più l' atto stesso dell' essere noi lo concepiamo preceduto o susseguito necessariamente da certi altri atti immanenti, come diremo in appresso. Quando poi l' ente è costituito con tutti i suoi atti immanenti a lui necessari, allora noi pensiamo, traendo il pensiero dall' esperienza, che l' ente, che ha già l' atto compito di esistere, passi ad altri atti, che si dicono anche sue azioni ed operazioni. Ora l' atto dell' esistere ed anche gli atti immanenti che lo accompagnano, si sogliono chiamare atti primi , e i susseguenti si sogliono chiamare atti secondi transeunti . La natura dell' atto transeunte consiste nel passaggio che fa l' ente da uno stato all' altro, sia che avvenga in un solo istante, sia che duri alquanto in un continuo moto. Il carattere adunque dell' atto transeunte è il passaggio , è il moto senza quiete. L' atto immanente è quello che dura coll' ente finchè non sopravviene sostanziale mutazione; e fra gli atti immanenti il primo è certamente quello che abbiamo indicato, l' atto dell' esistere. Tuttavia, oltre l' atto pel quale un dato ente esiste, noi troviamo degli altri atti immanenti, i quali si possono dividere in due classi. I - Gli atti immanenti che precedono (non già nell' ordine cronologico, ma nell' ordine intrinseco della naturazione) all' atto dell' essere. Così, a ragion d' esempio, noi vedemmo che l' atto dell' essere della natura umana, che è quello del principio razionale, risulta da due atti precedenti (quasi come da sua forma e da sua materia): cioè dall' atto intellettivo e dall' atto del sentimento animale fondamentale, i quali pure sono immanenti. II - Gli atti immanenti che susseguono all' atto dell' essere, ma che sono a lui indivisibilmente congiunti, come gli accidenti stabili di una sostanza, poniamo gli abiti. Sono adunque di tre classi gli atti immanenti: 1 quelli che precedono nell' ente all' atto dell' essere; 2 l' atto dell' essere; 3 quelli che susseguono all' atto dell' essere con istabile durata. Oltre di ciò l' analisi e l' astrazione scompongono talora un atto in più per diverse relazioni con cui lo considerano; e quindi gli atti immanenti si moltiplicano nel linguaggio e nella concezione umana. Fu in Italia che cominciarono a levarsi gli ingegni alle più difficili questioni, fu in questa terra, patria della dialettica. Quivi s' intese da prima che ciò che tutto il mondo ammetteva, cioè le operazioni degli enti, come atti transeunti, non era così facile a spiegarsi, come ad ammettersi; non era facile a conciliarsi con altre verità somministrate dal pensiero umano, quando pure la verità non può avere scissura in sè medesima, nè contraddizione. La difficoltà, che corse agli occhi dei più antichi filosofi italici, attaccava il concetto volgare degli atti transeunti, secondo il quale « l' atto transeunte dura qualche tempo in mutazione continua ». Veramente questo concetto di mutazione continua involgeva insuperabili difficoltà, le quali, svolte dall' illustre scuola italiana di Elea con polso di sottilissima dialettica, sollevarono a tumulto tutto intero il campo della filosofia; nè la lotta, riaccesa più volte, cessò mai per decisiva vittoria, ma sempre per isfinitezza dei combattenti. A me pare che quegli argomenti abbiano qualche cosa di solido. Io ne trarrò profitto, adducendone cinque contro la continuità dell' atto. Se un ente durante il suo atto transeunte si cangia continuamente, niuno dei suoi stati, che prende successivamente cangiandosi, ha durata di sorte alcuna. Ma ciò che non dura non è. Dunque nessuno dei suoi stati successivi è. Dunque il concetto di mutazione continua è assurdo. Se tutto insieme preso l' atto transeunte ha una qualche durata, nella quale l' ente muta di stato continuamente, il numero di questi stati successivi, che egli prende, non esiste, perchè non esiste un numero di istanti, si prenda qualsiasi numero, che insieme presi formino una durata (1). Se non esiste il numero degli stati che deve percorrere, è assurdo il pensare che li possa percorrere; perocchè se percorre degli stati diversi, questi debbono avere un numero determinato, giacchè non si dà in natura che ciò che è determinato. Dunque la mutazione continua involge assurdo. Dunque ella è impossibile. Che se taluno dicesse che una durata è divisibile attualmente all' infinito, sicchè possa esservi un numero infinito (cosa certamente assurda, e tuttavia affermata da uomini grandi quanto era un Leibnizio!), in tal caso noi domanderemo se ciascuna parte di questo numero infinito di parti, in cui si pretende potere sciogliersi la durata, dura qualche poco o non dura punto; perocchè fra questi due partiti non vi è nulla di mezzo. Ora se ciascuna parte dura, in tal caso a percorrere un infinito numero di durate, per minime che sieno, si esige un tempo infinito, e però l' atto transeunte non si compirebbe giammai; il quale è uno degli argomenti di Zenone contro il moto continuo (2). Se poi ciascuna parte della durata non dura punto, ma è un istante, in tal caso l' atto transeunte non potrebbe avere durata alcuna contro l' ipotesi, perocchè infiniti istanti, ciascuno dei quali ha una durata eguale a zero, sommati insieme, non danno che una durata pure eguale a zero. Se i corpi si movessero di moto continuo, non si potrebbero muovere giammai con diverse celerità. Perocchè supponendo che un corpo non si fermi in nessun luogo, egli deve passare da un luogo all' altro colla celerità massima; giacchè non si può concepire una celerità maggiore di quella che, senza posa alcuna, passa di luogo a luogo, non perdendo nel suo passaggio neppure un tempo minimo. Io trarrò questo argomento dal tempo, che impiega il moto a comunicarsi a tutte le parti d' un corpo. Che ad avvenire questa comunicazione si esiga tempo e non si faccia in istante, è indubitato presso tutti i fisici. Questa è la ragione, poniamo, perchè la palla vibrata da uno schioppo fora un' asse. Essendo assai grande la celerità della palla, ella rompe la coesione delle parti del legno, nelle quali batte, in un tempo più breve di quello che si esige acciocchè il moto si comunichi a tutto l' asse, il quale perciò resta al suo posto. Stabilito questo fatto indubitato, se ne trae due argomenti, che provano egualmente che il moto non è continuo. Il primo di questi argomenti si è che, se il moto si comunicasse senza fare nessuna posata in nessuno dei luoghi pei quali trascorre, il tempo totale che v' impiegherebbe dovrebbe essere nullo, perchè la somma di tanti zeri non produce che zero. Infatti l' istante non dura, e però ha una durata .uguale . 0. Questo argomento somiglia al precedente; e però mi contento di considerarlo come una conferma di quello. Ma il secondo è argomento nuovo, ed è questo. Un corpo che suppongo perfettamente duro, ricevendo da un altro corpo in moto, pure perfettamente duro, l' impulso al moto, non si muove fino a tanto che questo impulso non si sia comunicato successivamente a tutte le sue parti; e perchè questa comunicazione sia fatta, si esige, come abbiamo veduto, un certo tempo maggiore o minore, secondo la grandezza dei due corpi e la celerità del corpo impellente. Durante questo tempo il corpo duro, che riceve l' impulso, fa ostacolo al corpo in moto che lo dà. Dunque egli lo arresta durante quel breve tempo; trascorso il qual tempo, tutti e due i corpi, l' urtante e l' urtato, si mettono in viaggio secondo le leggi del moto. Dunque qui abbiamo un caso, in cui avviene indubitatamente che fra mezzo al moto del primo corpo, che sembra continuo, vi è una posata; vi è dunque moto, poi quiete durevole qualche tempo, poi di nuovo moto. Ma secondo la legge dell' inerzia quando una volta un corpo è in quiete, rimane in quiete, se non sopravviene una nuova causa di moto. Il fatto da noi indicato si oppone a questa legge; dunque è da dirsi che vi è una specie di posata e di quiete, la quale si compone benissimo con quel moto che si stima continuo, e a cui si applica la legge dell' inerzia (1). Di più, se il corpo urtato non può muoversi se non dopo che l' impulso si è propagato a tutte le sue parti, e se la propagazione dell' impulso non si ferma in nessun punto, come si suppone da quelli che credono il moto dover essere continuo, il moto sarebbe impossibile. Perocchè l' impulso, che si comunicasse ad un punto in un istante, o produrrebbe subito il movimento, o il moto, trovando un ostacolo a spiegarsi, rimarrebbe eliso e spento. All' incontro è necessario che nelle singole parti e punti del corpo l' impulso si conservi vivo, per tutto quel tempo che si richiede acciocchè tutte le parti acquistino lo stesso impulso, e così possano muoversi di conserva. Dunque ciascuna parte del corpo che riceve la spinta, prima di cominciare effettivamente a muoversi, aspetta un certo tempo, finito il quale, il moto incomincia. Dunque la comunicazione del moto stesso e non dell' impulso (2) si fa a ciascuna parte del corpo spinto in un dato tempo, e non in un istante. Ma tutti i corpi, per minimi che sieno, hanno dell' esteso continuo; dunque in tutti deve succedere lo stesso fatto, che il moto non si comunica a nessun corpo in un istante, ma con un intervallo di quiete. Come si risponde a questi argomenti? - Essi, secondo il veder nostro, sono insolubili e contengono altrettante dimostrazioni che l' atto transeunte non si fa per mutazione continua, ma per istanti, fra l' uno e l' altro dei quali vi è qualche durata. Noi abbiamo già dimostrato altrove la stessa cosa, quando negammo che il movimento reale sia continuo (1), benchè sia continuo fenomenalmente. La difficoltà a concepire come il movimento del reale, ossia la mutazione dell' atto transeunte, non sia continua, è immensa per le menti non esercitate alle speculazioni filosofiche, perocchè gli uomini sono propensi a credere al fenomeno dei loro sensi così fattamente, che non sanno pensare possibile se non ciò che loro apparisce sensibilmente. Quindi non sarà punto strano, nè inaspettato per noi che escano molti a così parlarci: « L' osservazione ci dimostra che il movimento è continuo, e contro l' osservazione del fatto non si può andare, come voi stesso di continuo predicate ». Ai quali è difficilissimo fare intendere come l' osservazione non possa decidere la presente questione, che tratta di cosa posta al di là di ogni osservazione sensibile, non provando questa più dell' apparente; ed è pur manifesto che al senso nostro sfugge ogni grandezza minore di una certa data misura. E quando anche si persuadesse loro che l' osservazione nulla può dire di quelle grandezze di spazio, di tempo o di moto, la cui piccolezza è tanta, come pure deve essere nel caso nostro, che niuna sensitività umana è valevole a percepirla (2), o certo niuna avvertenza della mente è sufficiente a considerarla nel senso, quando questo ce la desse; ancora sarebbero presti a domandarci: « Ma come si può concepire un' atto transeunte o un movimento reale, che si fa ad intervalli? ». La quale domanda già non è più tolta dall' osservazione, ma dal ragionamento, che considera la possibilità degli insensibili. A cui basterebbe rispondere che niente dimostra l' impossibilità di ciò, quand' anche non si sappia spiegare il modo come la cosa avvenga; ed essendovi due sentenze opposte, dell' una delle quali l' assurdità si dimostra, dell' altra non si dimostra, conviene attenersi alla seconda rifiutando la prima. Basterebbe, dico; e tuttavia non persuaderebbe molti, che hanno poca forza di fede a ciò che la ragione dimostra. A soccorso di questa cotal debolezza d' animo nel dare l' assenso semplice e fermo alle dimostrazioni speculative, a cui le apparenze sensibili fanno contrasto, noi dimostreremo prima direttamente che il senso della vista, a cui principalmente si crede, quando dà, o sembra, testimonianza della continuità del moto d' un corpo (e si può agli altri sensi applicare un ragionamento simile), non attesta propriamente, e non può attestare la continuità del moto. E veramente è un fatto riconosciuto da tutti i fisici e dato dall' esperienza, che la sensazione visiva ha una durata nel sensorio ottico, e non passa in un istante. Se questo non fosse un vero d' indubitabile esperienza, si potrebbe dimostrare la necessità che così fosse, considerando che una sensazione, che non avesse durata alcuna, non sarebbe. Ma non abbiamo bisogno d' una tal prova di ragione. Tuttavia, quantunque ogni sensazione ottica duri qualche tempo, essendone assai piccola la durata, il comune degli uomini la crede istantanea. Posto dunque questo vero, che ogni sensazione ottica ha una piccola durata, ne viene per indeclinabile conseguenza che l' occhio non può testimoniare punto nè poco il movimento continuo, perchè non può testimoniare ciò che non vede. E di vero, il movimento continuo è un continuo cangiamento di luoghi, in ciascuno dei quali il corpo non fa fermata alcuna. Per essere adunque veduto il movimento continuo, l' occhio dovrebbe avere una successione di sensazioni diverse, ciascuna delle quali non avesse durata alcuna. Ma il fatto non va così; che anzi l' occhio altro non prova, quando l' uomo crede di vedere un corpo che si muove continuamente, se non una serie di sensazioni l' una continua all' altra (o con intervallo insensibile), ciascuna delle quali dura qualche poco di tempo. Dunque anche il moto fenomenale, cioè sensibile agli occhi, si riduce in una serie di stati del mobile, ciascuno dei quali dura alquanto. Quella dunque che sbaglia è l' avvertenza della mente, quando, trascurando di osservare quelle minime durate, suppone che l' una segua all' altra senza alcuna interruzione (1). Da questi principŒ muovendo, gli studiosi della natura giunsero ad inventare delle ingegnose macchinette, colle quali fecero apparire all' occhio che un corpo si muova, unicamente col rappresentare successivamente alla vista un certo numero di corpi, ciascuno dei quali apparisca di egual forma in luogo così vicino all' altro che paia l' altro, passato innanzi di una menoma distanza. L' uomo, al vedere tutti questi corpi uguali successivamente presentarsi all' occhio in luoghi vicinissimi, li prende per un corpo solo, che si muova con continuo moto. E con questo artificio si compose qualsiasi moto apparente lineare, circolare, ecc., quando pure il corpo, che apparentemente si muove, non è un corpo identico, ma un complesso di più corpi eguali che si vedono in luoghi diversi, rappresentanti quel moto appunto che si crede continuo. Ora questo esperimento solo è sufficiente a rispondere anche alla domanda, benchè indiscreta: « Come sia possibile che un corpo passi da un luogo all' altro, senza che si muova continuamente passando per tutti gli spazi di mezzo ». Poichè è soddisfatto a tale istanza, quando si dimostra la possibilità che il moto sembri continuo a chi lo vede, senza essere tale; e la possibilità è dimostrata, se si prova avvenire così di fatto in un solo caso. Tuttavia io ne recherò un altro dei molti, che mi somministrerebbe la fisica e principalmente l' astronomia; ed ecco qual' è. Quando la persona passa davanti ad uno specchio, il moto dell' immagine risponde al moto della persona, e l' uno e l' altro pare continuo. Ora come si fa il moto apparente dell' immagine? Forse col passare qualche cosa da un luogo all' altro? Niente di ciò; quell' apparenza si produce per via di raggi sempre nuovi di luce, che dipingono sullo specchio immagini sempre nuove, ossia fisicamente diverse, svanite le precedenti; eppure pare sempre che l' identica immagine sia quella che cammini e passi. Dunque il fenomeno della continuità del moto si può spiegare, senza che sia assolutamente necessario che tutti i punti di un dato corpo che si muove, tocchino tutti i punti intermedi dello spazio, per cui passa o sembra passare. Forse un tempo si potrà invocare a favore di questa dottrina l' intermittenza della luce sospettata da alcuni fisici, se non ancora dimostrata a pieno; intanto mi proporrò un' ultima obbiezione. Gli esempi, che avete addotti, dimostrano benissimo che può nascere il fenomeno del moto continuo senza che in verità sia tale, per via di sostituzione successiva di più corpi eguali, o di più operazioni eguali. Ora, vorreste voi che i corpi che si muovono, non conservino la loro identità, come appunto diceva Leibnizio, il quale supponeva che il pieno e il vacuo dello spazio si facesse da una materia immobile, costituente l' infinito spazio, la quale quasi direi s' indurava successivamente, e così dava mostra che fosse un corpo identico che si muovesse? Rispondo che per quanto aliena paia una tale supposizione dal comune pensare, perchè il comune pensare si ferma al fenomeno e non entra a cercarne le ragioni e le cause, ella non fu mai nè dimostrata assurda, nè tampoco falsa nel fatto. E` questione metafisica, che, qualunque soluzione le si dia, lascia le cose fisiche quali sono; e però difficilmente potrà dimostrarsi o falsa o vera con fisici argomenti. Ma senza esaminare la supposizione leibniziana, io domando se è ben definito in che consista l' identità di un corpo. Ella è questione più ardua a sciogliersi che non paia. Io qui la tratterò brevemente, ma in maniera sufficiente all' intento. Nel corpo si distinguono due cose, l' estensione e la forza. Ora quando un corpo si muove, è certo che l' estensione è mutata, perchè cangia di luogo, ed un luogo non è mai identico ad un altro, essendo un luogo fuori dell' altro. Ciò che impedirà intendere questo vero, sarà il pregiudizio che il corpo abbia un' estensione sua propria, che egli porti seco, quasi che l' estensione si possa portare da un luogo all' altro, o l' estensione del corpo e quella del luogo che occupa sieno due estensioni, e non un' unica e semplicissima estensione. In questo credere fa gabbo al pensiero la misura o quantità dell' estensione, che è sempre conservata identica dal corpo; mentre muta l' estensione stessa, prendendone egli sempre un' altra, benchè di eguale misura di quella che aveva prima. Ora, essendo le diverse estensioni, in cui il corpo successivamente si espande, in tutto eguali di grandezza e di qualità uniforme, sorge assai facilmente l' illusione che sia una estensione stessa aderente al corpo, che venga dal corpo seco portata. L' identità dunque del corpo non può consistere che nell' altro elemento, nella forza corporea. Ora questa non è altro che il termine di un atto di quell' occulto agente, che abbiamo chiamato principio corporeo , il quale non può essere che semplice. In che consiste l' identità del termine di un atto? In questo, che egli sia eguale in tutto; è una identità specifica quella che in esso si cerca in relazione all' atto, perchè il termine è costituito da questa relazione essenziale. Così se io fiuto cento volte l' odore di rosa, benchè gli atti sieno numericamente diversi, essi hanno però un termine specificamente identico, perchè è sempre la stessa sensazione dell' odore di rosa in cui terminano, supponendo questa sensazione invariabile; io non ho in tutti questi atti altra sensazione che quella dell' odore di rosa, che si riferisce a più atti. Ora, se il principio corporeo attuasse il corpo con intermittenza, egli che essendo semplice può abbracciare ad un tempo tutto lo spazio, come abbiamo veduto avvenire del principio senziente, lo potrebbe far comparire successivamente in luoghi vicinissimi, a tale che paressero continui e non interrotti, e così il corpo parrebbe muoversi con movimento continuo, benchè non sarebbe. E tuttavia egli sarebbe lo stesso corpo, perchè termine eguale in tutto degli atti intermittenti di esso principio corporeo semplice; onde la diversità individuale che esservi potesse, sarebbe affatto indiscernibile. Che se non ci bastasse il mantenere ciascun corpo tanta identità specifica, e si volesse una identità numerica, non ce ne mancherebbe la via. Perocchè potrebbe considerarsi la forza sensifera come una virtù identica del principio corporeo, la quale operasse con intermittenza non osservabile ai sensi. Concludiamo: gli atti transeunti si formano in un istante, o sono un composto di atti minori, che si formano in altrettanti istanti vicinissimi, tra i quali passa una minima durata non osservabile all' uomo in modo alcuno. A spiegare il concetto dell' atto transeunte, anzi pure a formarcelo accurato, altre difficoltà non poche si rappresentano alla mente dello speculatore. Ma queste ci verranno innanzi tra via, ed allora ci studieremo di vincerle, giacchè il trarle fuori ad una ad una lenterebbe il corso del nostro ragionare, ansioso di pervenire là dove tende. Qui dunque è uopo che consideriamo il nesso dell' atto transeunte, secondo il concetto poco fa stabilito, coll' atto immanente. Noi abbiamo posto questo concetto in un passaggio , ossia in una mutazione, che si fa in un istante. Tenuto questo concetto e la dottrina dell' istante e della durata , si ha una definizione dell' atto transeunte, che dimostra ottimamente la sua relazione essenziale coll' atto immanente; perocchè la definizione dell' atto transeunte riesce a questa: « L' atto transeunte è sempre il cominciamento o il fine di un atto immanente »; ossia « l' atto transeunte non è che il cominciare o il finire dell' atto che dura ». Dalla quale definizione si trae un corollario importantissimo, che qui noi non vogliamo lasciare inosservato, come quello di cui abbisogniamo in progresso, a procedere con piena chiarezza e distinzione di pensieri. Il corollario si è quello dell' esistenza di Dio, dimostrata dalla sola esistenza di atti transeunti. La dimostrazione, che a noi sembra invitta, si può condurre così: Se si danno atti transeunti, si danno altresì atti immanenti, perchè quelli non sono che il principio o il termine di questi. Ma nessun atto immanente può essere causa del proprio termine, perchè nessun atto può essere causa del proprio non atto, ossia della cessazione di sè stesso. Neppure l' atto immanente può essere causa del proprio cominciamento, perchè nessun atto può dare a sè stesso l' esistenza, che sarebbe un operare prima che fosse. Ora l' atto transeunte ha pure bisogno di avere una causa, perchè esso è mutazione, è passaggio; e ciò pel principio di causa (1); nè questa causa può essere egli stesso, per la ragione addotta che ciò che non è non può dare a sè l' esistenza. Se dunque l' atto transeunte non è cagionato dall' atto immanente di cui è cominciamento o fine, converrà che vi sia un' altro atto immanente che lo cagioni. Ma questo atto immanente, che cagiona l' atto transeunte, o avrà cominciamento egli stesso, nel qual caso sarebbe cagionato da un atto transeunte, o non avrà principio di sorte alcuna, è però neppur fine. Se esso è cagionato da un atto transeunte, converrà ascendere ad un altro atto immanente, e per non andare al progresso di cause all' infinito (nel qual caso nessun atto sarebbe prodotto, perchè ci vorrebbe un tempo infinito a produrlo, e un tempo infinito non è mai trascorso) converrà fermarsi ad un atto immanente, che non abbia nè principio, nè fine. Se poi esso non è cagionato da un atto transeunte, già nuovamente abbiamo un atto immanente senza principio e senza fine. Esiste dunque un atto immanente senza principio e senza fine; e questi è Dio. Dunque se esistono degli atti transeunti, esiste necessariamente Iddio (2). Questa dimostrazione dell' esistenza di Dio ha il vantaggio che conduce a dimostrare direttamente che Dio è un atto immanente , ed un atto purissimo. Ora tale verità è fecondissima, e principio onde scaturisce tutta la dottrina intorno alla divina natura, come deve mostrare la Teologia Naturale. Ella fra le altre verità di cui va gravida, contiene una dimostrazione, che non so se fino ad ora sia stata trovata. Per accennarla brevemente si può condurre per via delle seguenti proposizioni. Tutti gli atti immanenti, che hanno cominciamento e fine, sono mescolati e connessi con atti transeunti, che sono appunto il loro cominciamento e il loro fine. Tali atti immanenti, che hanno cominciamento da un atto transeunte, non possono essere cagione di questo atto transeunte. Questo atto transeunte adunque, che dà cominciamento ad un atto immanente, deve essere cagionato da un atto immanente, il quale non abbia cominciamento nè fine, nè sia mescolato con niun atto transeunte. Dunque questo atto immanente, che, come vedemmo, dicesi Dio, producendo quell' atto transeunte, che dà principio ad un atto immanente, deve operare in modo che produca quell' atto transeunte fuori di sè, senza che in sè nasca perciò alcun passaggio, alcuna mutazione, ossia alcun atto transeunte. Ma questa maniera di operare dicesi creazione , rispetto all' atto transeunte prodotto, quale principio di atto immanente. Dunque si dà necessariamente la creazione, ossia la creazione è necessaria a spiegare l' esistenza del mondo, che è un complesso di atti immanenti e transeunti legati insieme. Il sagace lettore intenderà, io non dubito, che questa dimostrazione equivale a qualsivoglia delle dimostrazioni di Euclide (1). Passiamo ora ad un' altra difficoltà, che si presenta nel concetto dell' atto transeunte. Gli atti transeunti non possono essere che atti venienti da atti immanenti; perocchè ciò che è, è immanente, avendo noi veduto che un ente senza alcuna durata è un assurdo, giacchè l' istante è il limite della durata, e perciò suppone la durata, nè sta da sè, come il punto matematico è il limite della linea, che non istà da sè. Ora un atto immanente, che produce un atto transeunte, o lo produce con un atto eterno, immanente anch' esso, ed allora egli non è il soggetto dell' atto transeunte prodotto, il che si avvera solo nella creazione, come vedemmo; ovvero produce un atto transeunte, di cui egli è il soggetto, di modo che l' atto transeunte è un atto suo proprio; per esempio, l' atto con cui il principio senziente acquista una nuova sensazione, o l' atto con cui il principio razionale fa un pensiero, sono atti transeunti, il cui soggetto è il principio senziente o il principio razionale. Questi atti transeunti modificano il soggetto che li fa, producono in esso qualche cosa di nuovo; e nella loro spiegazione si presenta appunto la difficoltà accennata, la quale è questa. Se un ente, atto immanente, diviene soggetto di atti transeunti, il che è quanto dire modifica sè stesso, conviene assegnare una ragione sufficiente, una causa di questa modificazione, pel principio di causa. L' ente stesso, cioè lo stesso atto immanente, non contiene la ragione sufficiente, ossia la causa piena di questa novità; perchè se la contenesse, l' atto prodotto sarebbe immanente e non transeunte, cioè sarebbe sempre stato nell' atto immanente. Infatti posta la causa piena , l' effetto esiste. Ma l' atto immanente era prima che l' atto transeunte comparisse; dunque l' atto immanente non è causa piena degli atti transeunti, che in lui, come altrettanti suoi accidenti, si manifestano. Questa è una nuova prova che l' atto immanente, soggetto dell' atto transeunte, non può esserne la piena causa, che si deve aggiungere a quella che abbiamo data prima. La conseguenza di ciò si è che niun ente è veramente e rigorosamente semovente; ma deve concorrere al suo movimento, cioè alla sua immutazione, qualche agente straniero. Per evitare questa conseguenza, che pareva loro una difficoltà, molti antichi filosofi posero l' essenza dell' anima nel movimento (1); ma oltre non essere il movimento sostanza e aver bisogno d' una sostanza che ne sia il soggetto, e d' una causa, se nel movimento consistesse l' essenza dell' anima, questo movimento dovrebbe essere sempre uguale; perocchè se variasse, già si dovrebbe ricorrere all' intervento di un' altra causa per spiegare tale variazione. Onde Aristotele conchiude che all' anima spetta piuttosto la quiete che il moto (1). Egli osserva che tali filosofi vennero a questa sentenza, perchè non sapevano concepire come ciò che muove possa non essere in moto egli stesso (2); e contro di essi, dopo aver provato che l' anima non si muove per sè (3), conchiude: [...OMISSIS...] (4). Ma questa sentenza incontra non poche difficoltà, perocchè, o la parola movimento s' intende in senso proprio, cioè per movimento locale proprio dei corpi, e in tal caso è facile provare che l' anima ne va immune perchè semplice e spirituale, e che quindi può muovere i corpi senza che ella si muova, giacchè ella è principio, ed i corpi sono il suo termine, e in questo termine è lo spazio, il luogo ed il moto. Ovvero si dà alla parola movimento una più estesa significazione, quella dell' atto transeunte, della mutazione, dell' accadere qualche cosa di nuovo; il che pure fa Aristotele sovente. Onde non potendo negarsi che le potenze dell' anima escano in atti transeunti, nota Aristotele che Democrito, che dava all' anima il moto, confondeva la potenza dell' anima, a cui il moto conviene, coll' anima (1) a cui non conviene. Ma se le potenze altro non sono che attività dell' anima, giacenti nella sua stessa essenza, forz' è ben dire che l' anima stessa rimanga modificata dagli atti di sue potenze, non solo quando queste sono in atto, ma anche dopo il loro atto, restando in essa l' abito come quasi un rimasuglio dell' atto. Poichè, quantunque l' anima abbia natura di principio , tuttavia questo principio riceve o perde di sua attività; e così nasce in lui qualche mutazione, e in questa in senso metaforico qualche moto, chè alla fine, di tutti gli atti delle potenze l' anima è il soggetto, e il soggetto si modifica pei suoi atti transeunti. E` vero che Aristotele dice che l' anima è atto (l' atto del corpo vivo), ma non può negare che questo atto primo è potenza ad altri atti transeunti, e però non è atto puro ed immutabile, ma passa dalla potenza all' atto (2). Se dunque la parola movimento si piglia per ogni passaggio dalla potenza all' atto, nel quale passaggio sta appunto la natura dell' atto transeunte, conviene dire che fra la sentenza di quei filosofi, che ponevano l' essenza dell' anima nel moto, e la sentenza di Aristotele che nega all' anima ogni moto, giaccia la sentenza media e vera; cioè che « l' anima, come ogni altro ente che non sia il primo, è un atto immanente, soggetto di atti transeunti, ma non causa piena di questi »(1); perchè se ella fosse causa piena, gli atti non potrebbero cessar mai, durante la causa, e così sarebbero immanenti; come accade in Dio dell' atto creatore, che è atto eterno, che non ha e non pone in Dio mutazione o passaggio di sorte. Altrimenti l' anima sarebbe un semovente , il concetto del quale ripugna, come abbiamo detto. Se dunque niun ente può essere un vero semovente, cioè una causa piena dei propri atti transeunti, rimane a cercare ancora come questi nascano, quale sia la loro causa completa. A tal fine dobbiamo richiamare quello che abbiamo detto, che l' anima ha natura di principio, e il concetto di principio involge quello di atto. Ma il principio non esiste senza il suo termine, ed è dal suo termine che riceve la sua attualità ed attività. L' anima sensitiva ha per suo termine lo spazio ed il corpo. L' anima razionale ha per suo termine l' ente. Ora se si muta il termine, si muta conseguentemente l' attualità e l' attività del principio. Conviene adunque cercare la cagione degli atti transeunti, che accadono nell' anima nella mutazione dei suoi termini, come noi abbiamo già fatto prima. Perocchè il principio è essenzialmente atto, e però è indifferente ai suoi termini, nè gli vien meno l' attività giammai, per qualsivoglia termine gli sia dato; che, anzi, secondo il termine, più o meno attivato. Questa dottrina, che viene somministrata dall' osservazione interna, spiega in che modo nell' anima vi possa essere della potenza, quantunque ella sia essenzialmente atto, perchè è principio; il che parrebbe contraddizione. Ma se si pone che l' atto stesso riceve più o meno entità, secondo la natura dei termini che gli sono dati, da una parte si scorge che ella rimane sempre puro atto, benchè maggiore o minore, nè mai, propriamente parlando, ha unito seco un quid della sua essenza che sia potenza; dall' altra, essendo capace d' incremento e di diminuzione, dicesi che ella è in potenza a questo incremento di sè o a questa diminuzione. E così rimane spiegato il vero concetto della potenza , come una negazione di atto , e non come un che positivo, che costituisca una parte sostanziale dell' ente principio. Vero è che fra l' essere dato un termine ad un principio e l' essergli al tutto negato, vi è uno stato di mezzo, il quale consiste nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso, ed il combattimento fra lui e il suo termine; ma di questo parleremo altrove. Ora, dunque, noi possiamo conchiudere che la ragione degli atti transeunti non si deve mai cercare negli enti principio, ma negli enti termine. Conviene adunque esaminare con somma diligenza quali sieno le forze, o virtù, o cause che mutano gli enti termine, e come queste operino; ed in tal caso solamente sarà spiegato come gli atti transeunti siano possibili, appunto perchè sarà dichiarato il modo come si formano. Ma perchè questo modo non è unico nei diversi enti, così noi dobbiamo discendere alle singole maniere di enti e di loro atti transeunti, come faremo nel seguente capitolo. Le quali cose tutte noi abbiamo creduto dover premettere a spiegare il movimento del principio razionale. Perocchè la condizione di questo movimento non riesce ben chiara nel concetto della mente: 1 se non si conosce la natura del movimento in genere di tutti gli enti, e specialmente di quelli che sono soggetti di atti transeunti; 2 se non si confronta il movimento del principio razionale a quello, secondo cui si muovono gli altri agenti della natura. Delle quali due cose la prima fu fatta nel capitolo precedente, la seconda noi togliamo a fare ora. All' uomo non è dato per natura altro spazio pieno, ossia distinto mediante il corpo che vi si espande, che quello del sentimento fondamentale. I confini di questo spazio a principio non si sentono, ma si trovano mediante le sensazioni superficiali. Nè questi confini si potrebbero percepire, senza che si sentisse qualche spazio di là da questi confini medesimi (1). Qui dobbiamo fermarci, perchè questo ha già bisogno di spiegazione all' intento nostro presente: Come si può sentire qualche cosa al di là del corpo nostro? Noi abbiamo, è vero, la percezione dello spazio illimitato, ma questo spazio è indistinto, cioè non ha ancora alcuna relazione coi corpi, che lo empiscono o lo possono empire; non basta dunque a spiegare come noi acquistiamo la cognizione dello spazio distinto, che eccede i confini del nostro corpo, cioè la relazione fra il nostro corpo e lo spazio immenso. La soluzione della difficoltà si deve ritrarre dalla distinzione delle due maniere di sentire, la soggettiva e l' extrasoggettiva . Il soggetto si spande nel sentimento fondamentale corporeo come padrone, come in cosa propria, a sè unita quasi una parte, una continuazione di sè stesso; egli agisce in esso, e ne ha bisogno come d' una condizione essenziale di sè stesso. Qui non compariscono confini lineari o superficiali, è un sentimento solido, fuori del quale nulla si sente di corporeo, nulla si può sentire; perciò non ha relazioni sensibili con niun corpo straniero. Ma la sensazione extrasoggettiva è di tutt' altra natura; ella accusa una forza straniera a quella del sentito; la quale forza produce una violenza (benchè talora piacevole) al sentimento fondamentale. La forza straniera agisce nell' estensione stessa del sentimento, nel sentito fondamentale, ed allora questa estensione si disegna e figura. Ora conviene bene intendere la natura di questi confini superficiali, che acquista così il nostro sentito fondamentale. Prima di tutto, allorquando il nostro tatto è affetto da un corpo straniero, si distingue che quel corpo è straniero, perchè si sente che l' azione di lui non è quella del principio senziente, anzi questo è in essa; si sente che l' agente straniero non è sentito in sè stesso, ma solamente ne è sentito l' effetto e il termine della sua azione, perchè il sentimento che se ne ha non è quello d' un solido, ma d' una superficie; si sente dunque il termine della sua azione, ma non lui stesso, a differenza di quanto accade nel sentito fondamentale, il quale non è un termine superficiale di azione che si senta, ma lo stesso agente in tutto lo spazio solido, in cui si espande come agente. Ma poichè il termine dell' azione straniera è nel nostro sentito fondamentale, che ne riceve l' azione, perciò la stessa superficie sensibile, che è il termine dell' azione straniera, si percepisce come confine del sentimento fondamentale, distinguendosi in questo quella superficie da tutto il rimanente del sentimento fondamentale, e diventando così quella superficie termine a due agenti, allo straniero e al proprio, che è il sentito fondamentale (in quanto è sensifero). Questo accade per via del tatto (prescindendo noi ora dalla vista e dagli altri sensi), il quale è la propria misura dei corpi (1). Quindi se il corpo nostro fosse immobile, noi col tatto non potremmo conoscere simultaneamente la superficie di un corpo straniero maggiore di quella del nostro, che la commisura. Per ispiegare, adunque, come noi possiamo percepire un corpo maggiore del nostro, si deve fare intervenire il movimento, sia nei corpi esteriori, sia nel nostro proprio. Quanto ai corpi esteriori, se diversi corpi agiscono successivamente sulla stessa parte del corpo nostro, in tal caso quei corpi o sono perfettamente eguali di estensione, di forma ecc., o hanno qualche varietà fra loro. Se sono perfettamente eguali, e si applicano successivamente alla stessa parte del corpo nostro, noi senza l' aiuto di altri sensi, col solo tatto non potremmo distinguere se l' agente è un solo e medesimo corpo, una stessa virtù che opera con replicati atti, ovvero se più. Ma qualora i corpi variassero di estensione e di figura, noi li prenderemmo per corpi diversi; e ciò non in virtù del solo principio senziente e della ritentiva propria di lui (di che ora prescindo, non bisognandomi di entrare in questione così sottile), ma per la ritentiva razionale. Perocchè, paragonando l' una superficie sensibile e sensifera all' altra, le troveremmo diverse, e così ci rimarrebbe nell' animo la notizia di più superfici, poniamo che fossero dieci e di un palmo quadrato di estensione, ma di varia figura ciascuna. Con questo solo noi comincieremmo a concepire una estensione maggiore della corrispondente nel corpo nostro; perocchè la superficie, in quanto appartiene al nostro sentimento fondamentale, non la possiamo moltiplicare giammai, sentendo noi che è sempre quella stessa. Un solo palmo, adunque, di estensione superficiale del corpo nostro è il campo, per così dire, dove possiamo sentire un palmo di estensione della forza esteriore, moltiplicato quanto si voglia, secondo il numero delle sensazioni di figura diversa, che si ripetono e moltiplicano successivamente. Veniamo al movimento del corpo nostro. E` certo che movendosi il nostro corpo, e ricevendo sempre nuove diverse sensazioni dei corpi circostanti, diversi di figura e d' attività, possiamo colla ritentiva razionale acquistare la notizia di uno spazio esteso più e più, senza limite assegnabile. Ma il difficile è qui lo spiegare il movimento del corpo nostro. Non abbiamo noi detto che il principio senziente ed il principio razionale sono immobili quanto a moto locale? Come adunque possiamo poi muovere il corpo nostro soggettivo? che cosa è questo movimento? Conviene riflettere che il nostro corpo noi lo percepiamo in due modi: nel modo extrasoggettivo , come ogni altro corpo, in quanto ha anch' egli la virtù sensifera, onde è visibile, tattile, ecc., e nel modo soggettivo , nel quale secondo modo è il sentito del sentimento fondamentale. Ora il corpo nostro extrasoggettivo non entra nel sentimento fondamentale, anzi non è che la virtù sensifera a lui straniera ed opposta. Supponiamo adunque di non averlo percepito extrasoggettivamente, ma solo soggettivamente; in tal caso egli non ha più moto. Infatti noi abbiamo già dimostrato nell' Ideologia che il moto nostro non è sensibile (1); ma se il nostro sentimento fondamentale non sente alcun moto, dunque il moto non cade in lui, essendo egli essenzialmente sentimento, e non cadendo nel sentimento ciò che non è sensibile. Si dirà che quando noi stessi moviamo il corpo nostro, per esempio camminando e saltando, allora noi sentiamo lo sforzo che facciamo per muoverci. Verissimo; ma lo sforzo, che noi facciamo per muoverci, non è già il moto, ma la causa del moto. Nel sentimento fondamentale adunque non cade moto di traslazione da luogo a luogo, benchè vi si trovi la forza e la causa del moto. Quindi il moto di traslazione non è che un cangiamento che si fa extra il soggetto, è un cangiamento nel corpo extra7soggettivo, una mutazione nella forza sensifera; ma non punto nel sentimento fondamentale, che si rimane immobile. Ma pure quando il corpo extrasoggettivo si trasporta per guisa che mediante l' esperienza extrasoggettiva si vede il nostro aver mutato di luogo, di che ci accorgiamo per la diversa relazione che prende coi corpi circostanti, allora il sentimento nostro fondamentale, e quindi il corpo soggettivo, è ancora presente agli stessi fenomeni extrasoggettivi, che dà il corpo nostro trasportato, sicchè il corpo nostro soggettivo non ha cangiato di relazione col corpo nostro extrasoggettivo. Se dunque il corpo nostro extrasoggettivo occupa un altro spazio, si suol dire che quest' altro spazio lo occupi anche il corpo soggettivo, e così sia stato trasportato anch' esso, si sia mosso. Questa osservazione è appunto quella che indusse Aristotele a dare all' anima quella specie di moto, ch' egli chiama per accidente , e che paragona al moto del colore, che non si muove come colore, ma come aderente ad un corpo che si muove. Ma questo, come abbiamo detto, è un errore, perchè, ritornando noi al sentito fondamentale, è evidente che il moto o dovrebbe essere sentito, e però cadere in esso sentimento, o non essere moto del sentimento; perocchè il sentimento è racchiuso in sè stesso per la sua propria essenza, e il mutarsi delle cose fuori di lui non è un muoversi che faccia egli stesso. Onde convien dire che il movimento locale è un fenomeno al tutto extrasoggettivo, cioè tale che si rivela colla sola esperienza extrasoggettiva, e non un fenomeno soggettivo, che si sperimenti come accidente del soggetto stesso o del suo sentito fondamentale. Ora i fenomeni extrasoggettivi sono prodotti dalla forza sensifera; onde si può ben dire bensì che col movimento del nostro proprio corpo si cangi il rapporto fra il nostro sentimento fondamentale e la forza sensifera sparsa nella natura, per esempio, nei corpi esterni, ma non che si cangi o muova lo stesso sentimento. Ma nel sentimento fondamentale si sentono, per l' azione del sensifero, le superfici di esso sentimento fondamentale, e queste pure si muovono. - A questa obbiezione rispondo: 1 che le superfici si sentono quando la forza sensifera attualmente è applicata al nostro corpo, e durante quest' azione non vi è movimento locale delle superfici; 2 quando poi la forza sensifera non agisce più sul nostro tatto, e il corpo nostro si trasporta da un luogo all' altro, allora la mutazione non istà in altro se non nell' essersi mutato il rapporto fra la forza sensifera e il sentimento fondamentale, come dicevamo. Ma lo stesso corpo nostro si vede quando viene trasportato. - Rispondo che l' esperienza della vista è del tutto extrasoggettiva. Ciò che si vede si è il corpo nostro in quanto cade sotto l' esperienza extrasoggettiva, e nel corpo extrasoggettivamente considerato accordammo già che si dà il moto; ma un tal corpo non è il sentito fondamentale, bensì cosa tutta diversa da esso. Ma nella superficie stessa del corpo nostro si sente il moto, qualora una sensazione particolare trascorra da un punto all' altro di essa superficie. - Rispondo che questa sensazione trascorrente è prodotta dalla virtù sensifera, e però appartiene al corpo percepito come un extrasoggettivo; e in quest' ordine di percezioni si dà il moto. Ma nel sentimento fondamentale7animale voi avete distinto un principio senziente semplice ed un termine esteso. Di più, nel termine esteso voi avete riconosciuto la condizione di sentito e ben anche quella di sensifero . Dunque sia pure accordato che al principio senziente, come ad un semplice ed incorporeo, non competa il moto, ma al termine esteso deve convenire il moto per due ragioni: 1 perchè è esteso, ed un esteso può essere trasportato da un luogo all' altro; 2 perchè in quello stesso esteso vi è il sensifero, al quale voi pure accordate il moto. Rispondo che in quanto il termine del sentimento fondamentale ha seco la virtù sensifera, in tanto egli non è termine del sentimento fondamentale, ma è quella virtù che può immutarne il termine, ossia costituirlo in altro modo da quello che è. Mi spiego. Il sentito fondamentale, come meramente sentito, è nel principio senziente allo stesso modo con cui abbiamo veduto che in lui è l' esteso, come contenuto nel contenente, e fra il principio senziente e l' esteso vi è una perfetta unione, di modo che formano un unico sentimento. All' incontro, la forza sensifera non è in questo modo nel principio senziente, ma ella non fa che operare nell' esteso, termine del sentimento e immutarlo. Onde il principio senziente non è unito stabilmente colla forza sensifera, nè da lei riceve direttamente l' azione, ma la riceve indirettamente, perchè gli si cangia il sentito da una forza diversa dalla propria. Di più, quando la forza sensifera agisce attualmente nell' esteso, termine del sentimento, allora ella non presenta in sè movimento di luogo a luogo, ma solo azione nello stesso sentito, termine del senziente. Quanto poi alla seconda obbiezione che, essendo il sentito nel sentimento fondamentale esteso, è atto a muoversi, rispondo che non ogni esteso è atto al moto. Così lo spazio stesso infinito non è atto al moto, come vedemmo, anzi è essenzialmente immobile. Acciocchè vi sia possibilità di movimento è necessario che, oltre lo spazio occupato dall' esteso, vi sia un altro spazio in cui egli si possa trasportare. Ma noi abbiamo veduto che l' esteso proprio del sentito fondamentale è un esteso in cui non cadono confini, e che solamente quando si percepiscono i confini superficiali, per poterli percepire è necessario percepire un altro spazio di là da essi. All' incontro il sentito fondamentale è di tal natura che di là da esso, cioè dal suo sentito, non si percepisce alcun' altra estensione, finisce tutta l' estensione in sè; perciò non è possibile che egli sia soggetto ad un movimento suo proprio, perchè non ha altro spazio ove recarsi che quello che egli occupa. Acciocchè dunque si concepisca una mutazione di luogo, conviene uscire da lui ed entrare nel mondo extrasoggettivo. Conosciuti da noi i fenomeni di questo mondo extrasoggettivo, allora ci sembra che il sentito fondamentale si muova; ma questo moto non consiste in altro, come dicevamo, se non nella mutazione del rapporto fra l' esteso sentito del sentimento fondamentale e il mondo extra7soggettivo. Il rapporto poi fra l' esteso fondamentale e il mondo extrasoggettivo non è rapporto di luogo a luogo, di esteso ad esteso, ma di esteso a sentimento; è dunque una relazione inestesa di sensilità che viene cangiata, e propriamente una relazione fra la causa, l' agente nel sentimento (il sensifero), ed il sentimento. All' incontro il movimento è il cangiamento del rapporto fra esteso ed esteso. Ma se tutto intero il sentito fondamentale non ha moto di traslazione, non si trasporta di luogo a luogo, almeno non si potrà negare che l' esteso del sentimento fondamentale potrà essere accresciuto e diminuito; il che importa una specie di moto per estensione o per restringimento. Rispondo che il sentito fondamentale può essere accresciuto e diminuito; ma questo non si fa per via di moto, ma per via di naturazione; il sentito comincia ad essere in un' estensione maggiore, o cessa di essere in una parte di essa. Questo non è moto locale, ma una specie di creazione o cessazione di una nuova parte estesa7sentita. Ma il sentimento fondamentale non è uniforme. Se una parte dunque di esso si sente più di un' altra o in modo diverso, ella potrà muoversi di luogo entro l' esteso sentito7fondamentale. Rispondo che se questo si vuole chiamare movimento, egli è il solo movimento che si può ammettere nel sentimento fondamentale. Ma conviene spiegarlo, e spiegandolo ben si comprenderà che vero movimento non è, quando si prescinda da ogni azione del sensifero, che vi si possa mescolare. Infatti, noi abbiamo posto che se le particelle corporee, a cui termina il sentimento fondamentale, si muovono senza perdere la loro continuità, il sentimento acquista un eccitamento, cioè una vivezza maggiore e varia. Ora dicendo movimento delle particelle corporee, si dice primieramente un fenomeno extra7soggettivo. Il fenomeno soggettivo corrispondente ad esso è la detta maggior vivezza e varietà nel sentimento. La questione adunque sta in sapere se questa mutazione nel fenomeno soggettivo si possa chiamare moto. Ma: 1 il movimento di ciascuna particella sentita non è sensibile, come abbiamo veduto, perchè il movimento del sentito non cade nel sentito, e però è del tutto extra7soggettivo; 2 il movimento di due o più particelle, che si muovono senza perdere la continuità, altra mutazione, quanto all' estensione, non produce nel sentito, se non che questo si aumenta da una parte e si diminuisce dall' altra; il che non è movimento, come abbiamo pure veduto; 3 finalmente se le particelle costituiscono un organo, e i movimenti intestini delle particelle si succedono in modo che prima si muovano quelle della prima fila, poi quelle della seconda, e così di seguito, in tal caso essendovi una successione di moti, deve esservi una successione di eccitamenti distribuiti nelle varie parti dell' organo. Allora il movimento eccitato produce il fenomeno del movimento interno, perchè pare che la stessa sensazione corra da un estremo all' altro dell' organo, che è tutto sentito pel sentimento di continuità. E questo è appunto il movimento unico che si può concepire nel sentito fondamentale, il quale è movimento soggettivo, attesa la ritentiva animale, che conserva il vestigio della sensazione precedente, e ancor più attesa la ritentiva razionale, che conserva la memoria delle sensazioni avute e le confronta. Ma si consideri non di meno che la sensazione non è numericamente la stessa, perchè cessando l' una viene l' altra, onde pare piuttosto una serie di sensazioni che rappresentano il movimento, a quella maniera appunto come l' immagine dello specchio si muove, benchè niun corpo identico si trasferisca da un luogo all' altro sullo specchio (1). E poichè qui si tratta di movimento fenomenale, cioè giacente nel sentimento, nulla ripugna che esso abbia una specie di continuità, in quanto il sentito è continuo, e la nuova sensazione può cominciare dove finisce la prima, o mescolare i loro estremi. Laonde rispetto al principio senziente, ossia all' anima sensitiva, rimane provato che ella è immune da qualsivoglia movimento. Quando poi noi al sentito fondamentale nel modo detto e al principio senziente neghiamo il moto locale , non si creda per questo che noi gli accordiamo la quiete . No, non si può assegnare la quiete a ciò in cui non può cadere il moto, perchè quella è relativa a questo; ma piuttosto è vero il dire che non v' è nè moto, nè quiete, come là dove non vi è estensione, neppure può esservi il punto, che è il termine della estensione. Dalle quali cose tutte possiamo raccogliere: Che lo spazio, non avendo atti secondi e transeunti, non richiede di spiegare il modo del suo operare. Che il corpo presenta due attività, il sentito e il sensifero . Che il sentito non ha propriamente moto locale, e che la sua azione dipende dall' essere dato al senziente e quasi posto in lui; e questa specie di azione non può venire, originalmente, se non dal Creatore autore del sentimento, onde, come già dicemmo altrove, l' animato non si forma, ma è dato in natura (1). Che non rimane più a spiegarsi se non l' azione del sensifero, causa di movimento. Ora questa, dipendendo come da causa dal principio corporeo, e il principio corporeo non cadendo sotto la nostra percezione, è impossibile a noi l' indicare come egli operi con atti secondi, sieno immanenti o sieno transeunti. Ma il solo sapere che il movimento, e quindi il conato al movimento (2), ossia la forza corporea, dipende dal principio sensitivo e da un agente sconosciuto, basta per conchiudere che il corpo non passa ai suoi atti transeunti da sè solo; che anzi egli riceve il moto e la forza dal principio sensitivo , come riceve l' esistenza dal principio corporeo , che può anch' egli esser principio di moto, qualunque poi sia la maniera occulta nella quale lo produca. Ora, poichè la forza si considera nei corpi come atto immanente e il moto come atto transeunte, gioverà che indichiamo il rapporto di questa forza corporea col moto. Abbiamo detto che nel sentito7esteso non è la cagione del movimento extra7soggettivo; o se c' era, in quanto è divenuta sentito7esteso, ella ha perduto la sua natura di forza, dominata dal principio senziente; conviene dunque considerare la forza come distinta dal sentito, determinandola dai suoi effetti. Questi effetti sono: Comunicazione del moto . - Nella percussione di un corpo nell' altro il corpo percosso e libero si muove nella direzione del primo. Questo effetto si riduce all' impenetrabilità e all' inerzia . Non potendo un corpo penetrar l' altro, ed il moto dovendosi conservare per l' inerzia, l' uno cede il posto all' altro con una velocità che sta in proporzione diretta della quantità di moto del corpo urtante, e indiretta della massa del corpo urtato. Ma questo fatto non riguarda l' incominciamento del moto, ma la comunicazione del moto che già esiste. Conservazione del moto . - Per l' inerzia un corpo in moto continua a muoversi nella stessa direzione. Questo effetto suppone che la causa del moto perseveri; ma questa causa non può essere il corpo stesso, perchè egli è indifferente alla quiete e al moto; deve essere adunque una forza incorporea diversa dal corpo che opera nel corpo. Attrazione . - Questa non è altro che un conato di muoversi d' un corpo verso l' altro, un conato permanente. La permanenza di questo conato indica una causa di moto diversa nell' operare dalla causa della conservazione del moto. Perocchè il fatto della causa che conserva il moto, è questo: due corpi di eguale massa, mossi con eguale celerità l' uno incontro all' altro nella stessa linea, quando giungono a percuotersi, si fermano distruggendosi i moti, sicchè resta la stessa quantità di moto nella stessa direzione. Questi due corpi, ridotti così alla quiete, si stanno al contatto, senza che rimanga in essi neppure il conato di muoversi nelle direzioni che precedentemente avevano, sicchè non gravitano l' uno incontro l' altro. All' incontro la causa dell' attrazione produce in essi una pressione dell' uno nell' altro tendente a penetrarsi. L' esperienza dunque dimostra che nella natura del moto concorrono tre cause di moto: Una causa che produce semplicemente il moto , cioè che fa passare il corpo dalla quiete al moto e viceversa. Una causa che presiede alla conservazione e alla comunicazione del moto da un corpo all' altro. Una causa che produce il conato costante di muoversi di un corpo verso l' altro, fenomeni dell' attrazione. La prima e la terza causa trovano, secondo noi, una spiegazione sufficiente nell' attività motrice del principio senziente annesso agli elementi della materia, e nelle leggi secondo le quali opera quell' attività. La seconda suppone un altro principio straniero ai corpi, quel principio stesso che li costituisce e, costituendoli, impone loro le leggi dell' inerzia. Secondo queste leggi il moto in una direzione rimane annullato da altrettanto moto in direzione opposta. Il conato, che hanno i corpi a penetrarsi, in tal caso cessa col cessare del movimento, perchè nasce da questo e non dalla forza causa di lui, la quale è cessata. Tutte le leggi della conservazione e della comunicazione del moto sono conseguenti a questa prima. La forza producente il moto non rimane estinta anche dopo averlo prodotto; e se questa causa è annessa ai corpi, come nell' attrazione, il conato, che per essa hanno i corpi a penetrarsi, non cessa col cessare del movimento, perchè non è prodotto da questo, ma questo stesso è un effetto di quella forza che non muta la sua natura di forza. Nella conservazione del moto semplice ad ogni tempuscolo si rinnova il moto; ma non s' aggiunge alcun nuovo conato a quello che nasce dal moto stesso. Onde il moto riesce uniforme . Nell' effetto dell' attrazione ad ogni tempuscolo si rinnova il conato al moto, che produce nuovo moto, ed il corpo già si muove per la conservazione del moto precedente, onde se ne ha un moto accelerato, come il quadrato dei tempuscoli . A produrre adunque il moto accelerato concorrono due principŒ: 1 il principio della produzione del moto; 2 il principio della sua conservazione. Ma poichè l' impenetrabilità distrugge il moto e il conato veniente dal moto, ma non il conato costante che precede il moto, ed è causa della sua produzione; quindi se due corpi eguali si muovono in direzione opposta con eguale moto, senza attrazione, venuti al contatto, cessa ogni loro moto e ogni conato che potesse venire dal moto, che è sempre un conato istantaneo, durante cioè quel solo tempuscolo che è necessario ad estinguersi il moto. Quando all' incontro due corpi si avvicinano per via di attrazione, allora al loro contatto cessa bensì tutto il loro moto (posto che sieno eguali di massa), quantunque cresciuto per via secondo il quadrato dei tempuscoli; ma non cessa il conato costante , col quale tendono di penetrarsi o almeno (il che mi pare detto con più verità) di toccarsi in tutti i loro punti, di accentrarsi. E` dunque evidente che vi sono due virtù che operano nei corpi: 1 una causa costante di moto già prodotto; 2 una causa costante di conato al moto da prodursi. Noi dicemmo che la causa del moto è certamente distinta dal corpo, perchè dall' essenza del corpo rimane escluso il moto. Ma della causa del conato al moto si potrà dire il medesimo? E` da confessarsi che la causa di questo conato, che si chiama anche attrazione o forza viva , deve operare incessantemente nei corpi, perchè tutti i corpi si attraggono (lasciando da parte i così detti imponderabili, pei quali la questione è ancora indecisa). Ma che non entri un tal conato a formare l' essenza dei corpi è facile a dimostrarsi, quando si considera che ciascun corpo ha tutta la propria essenza in sè stesso, è finito in sè stesso, niente di ciò che è fuori di lui gli appartiene. Ma l' attrazione è diretta dalla relazione di un corpo coll' altro. E` dunque necessario che la causa dell' attrazione non sia un corpo, ma un agente capace di abbracciare la relazione di più corpi fra loro. Questo sembra una nuova conferma dell' opinione che tal virtù possa essere un principio senziente, unito a tutti gli atomi corporei; perocchè questa opinione toglierebbe affatto la difficoltà. Ed essendo provato dall' esperienza che il principio senziente può essere causa di moto, l' ipotesi, se ella è tale, ha le due condizioni volute da Newton, che ella sia cosa esistente in natura, ed abbia la virtù sufficiente da produrre l' effetto. Ad ogni modo rimane dimostrato che la materia per sè stessa è inerte, ed ha bisogno di ricevere il moto senza tenere in sè facoltà di produrlo. All' incontro il principio senziente ha un' attività propria ed è causa dei suoi atti. Ma poichè niuna causa degli atti transeunti è causa piena, chè se fosse piena, ella produrrebbe atti immanenti quanto lei stessa, perciò è da cercare come possa il principio senziente porre gli atti suoi transeunti. Noi abbiamo detto che l' attività del principio senziente si suscita dai suoi termini, ma che, suscitata che sia, ella è propria di lui, diretta nel suo operare da sue proprie leggi. L' attività dunque del principio senziente ha due parti, e però da due cagioni possono sorgere in esso degli atti transeunti: Dalla mutazione del suo termine, il quale è il sentito corporeo; mutazione che non viene da lui, ma da cagioni straniere. Dove è da rammentarsi dell' opinione su accennata, che ogni particella di materia abbia seco congiunto un sentimento; il che agevola ad intendere come il termine d' un principio senziente si possa ingrandire coll' unirsi sentimento a sentimento, posta la legge che dove il sentito è continuo, il senziente è unico, a quella guisa come due punti matematici, che convengono, formano un punto solo, nè più, nè meno. E per lo stesso modo spiegasi il diminuirsi del termine sentito, collo staccarsi fra di loro gli estesi e perdere la loro continuità. Onde qui s' intende come il principio senziente sembra uscire ad un nuovo atto transeunte, quando propriamente egli rimane il medesimo, ma solamente il suo termine si amplia o si impicciolisce. E poichè nell' aggiungersi di un sentito esteso ad un altro noi non possiamo osservare che due mutazioni: 1 la mutazione soggettiva, quando i due sentiti si sono già uniti per apposizione, la quale è spiegata per ciò che è detto; 2 la mutazione extrasoggettiva del movimento dei due estesi, che erano discosti o si avvicinarono fino ad opporsi, della causa del qual movimento ragionammo innanzi; - perciò ogni mutazione, che nel detto fatto è riconoscibile, non può esigere da noi altra spiegazione. Dalla mutazione, che produce nel proprio termine l' attività stessa del principio senziente. A spiegare questa conviene considerare che il principio senziente, posto in essere, ha un atto determinato dalla sua natura; ma talora quest' atto gli è in parte impedito da cause straniere; onde quando sono tolte via queste cause impedienti, egli spiega interamente il suo atto. Questa esplicazione del suo atto naturale è ciò che si prende per un suo atto transeunte, e si stima una mutazione in lui avvenuta; ma, propriamente parlando, è lo stesso atto primo, la stessa sua natura, che prima stavasi a disagio perchè legata da agenti avversi, e che poscia si pone nell' atteggiamento suo proprio, conveniente, naturale. Così tutto l' atto transeunte nel principio senziente non si riduce propriamente ad una attività nuova, ma alla primitiva, ed il nuovo sta negli agenti impedienti rimossi da lui, che così resta quello che è, quello che deve essere per sua natura. Dichiariamo meglio questo concetto dell' atto transeunte del principio senziente. In prima abbiamo supposto che il principio senziente sia posto nell' atto suo primo ed immanente, che lo costituisce quell' ente che è. Come ciò avvenga noi l' abbiamo spiegato; dipende dal suo termine e dalle condizioni di questo; gli atti secondi e transeunti non entrano in questo per nulla, essi vengono in appresso, perchè sono atti del principio già naturato. Ma esso principio è posto in essere diversamente: 1 secondo l' estensione maggiore o minore del suo termine sentito; 2 secondo i movimenti intestini ed eccitatori del sentimento. Se è posto in essere solamente per via di un' estensione continua, senza che in essa siano movimenti eccitatori, in tal caso la sua attività si restringe a sentire l' esteso, che gli è dato per termine. Ma se è posto in essere anche per via di movimenti eccitatori, in tal caso egli ha un altro atto. Perocchè il sentimento eccitato è un atto, il quale, come ogni atto, ha durevolezza, cioè forza di conservarsi ed altresì di spiegarsi, secondo la sua propria natura, pel principio posto che « ogni attività, ogni atto primo ha uno stato naturale; ed è quello in cui esso è nel più perfetto modo e più pienamente che possa essere ». Ora il sentimento eccitato può essere contrariato alla sua piena e perfetta naturazione ed esplicazione; ed è questo che abbiamo detto innanzi, che « fra l' esser dato un termine ad un principio e l' essergli negato vi è uno stato di mezzo, il quale consiste nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso ed il combattimento ». Quando dunque un movimento intestino ed eccitatore incomincia nel termine del sentimento, se quel movimento è consentaneo alla perfetta eccitazione, il principio senziente ha l' attività di conservarlo e di continuarlo (1); ma questa attività, che perpetua (quando non si trovino ostacoli) il movimento, non è cosa nuova, ma la stessa attività che era prima del sentimento eccitato, che ha virtù di conservarsi e durare qual è. Ma non ogni movimento intestino nell' esteso sentito è opportuno all' esplicazione dell' atto naturale del principio senziente eccitato. Perchè quest' atto: 1) Esige un movimento armonico ed uno. 2) Esige un movimento che rientri in sè a guisa di circolo, altrimenti non potrebbe perpetuarsi. 3) Esige un movimento il più frequente possibile, salve le due prime condizioni. 4) Esige che si conservi il contatto ed altresì la gravitazione dell' una verso l' altra delle molecole, ma in un determinato modo, sicchè non impedisca le tre sopra esposte condizioni. Ora l' atto primo del sentimento eccitato è una virtù, la cui energia, benchè limitata, dovendosi collocare nel suo atteggiamento più piacevole, più perfetto, più naturale, influisce a far sì che il movimento eccitatore del sentito abbia le quattro condizioni accennate. Ma a questo intento non può talora riuscire per un contrasto di forze e virtù avversarie. A ragione d' esempio: Se si accostasse al contatto dell' esteso sentito un altro esteso assai piccolo, e perciò atto a porsi sufficientemente al contatto del primo per formare una continuazione; ma tuttavia questo altro esteso che s' accosta, avendo un' organizzazione sua propria ed essendo dominato da un altro principio senziente eccitato, si agitasse per moti intestini consentanei all' azione del suo proprio senziente, ma disarmonici coi movimenti intestini dell' esteso sentito a cui si congiunge; dovrebbe di necessità nascere una guerra a morte fra i due principŒ senzienti, che cercano rapire nel proprio turbine gli atomi corporei scambievoli; e così forse accade nel fatto dei veleni e delle scomposizioni e ricomposizioni chimiche, che essi producono nel corpo vivente. Se ad un sentito, nel cui seno si perpetuano i movimenti eccitatori propri del suo principio senziente, si accosta un esteso piccolo quanto deve essere, ma dove non vi sono movimenti, o movimenti vincibili; il principio senziente eccitato deve, per assimilarlo al proprio sentito, cagionare anche in esso i movimenti eccitatori opportuni, rapendolo nel proprio vortice, dividendolo quindi nelle sue minime parti, e compartendolo come esige l' organizzazione propria del suo sentito, nella quale nascono i movimenti, e che si forma coi movimenti medesimi. In tutto ciò il principio senziente non fa dunque che spiegare il suo primo atto, atteggiarlo come deve essere per natura, e lo fa con un atto immanente e continuo, che è quello che lo costituisce in essere, dapprima impedito e raggruppato unicamente perchè gli manca occasione di stendersi, o ne ha impedimento dalla condizione del termine, a cui è legato e condizionato. La quale teoria spiega tutti i movimenti dell' istinto, che altro non sono infine che movimenti del sentimento fondamentale per costituirsi nella sua composizione ed atteggiamento più comodo e piacevole, cioè più naturale (1). Venendo ora alla spiegazione degli atti transeunti del principio razionale, questo ha più attività, come vedemmo; cioè: Ha l' attività intellettiva, la quale ha per suo atto primo immanente l' intuizione dell' essere, il cui termine è l' essere ideale. Ha l' attività percettiva, la quale sta in percepire l' ente reale. - Questa attività ha per suo atto immanente la percezione del proprio sentimento fondamentale, ed ha poi molti atti transeunti, i quali sono spiegati anch' essi col solo sapere che nascono in occasione che viene modificato il sentito fondamentale, il quale essendo naturalmente percepito, conviene di necessità che sieno percepite anche le sue modificazioni. Ha l' attività della riflessione. - La spiegazione degli atti transeunti della riflessione fu da noi data, almeno in parte. Ella muove dallo stesso principio, che « l' atto transeunte è l' attività stessa dell' atto primo, a cui viene data occasione di spiegarsi e atteggiarsi nel modo suo più naturale ». Perocchè la riflessione è mossa ai suoi atti transeunti: a ) Dall' istinto animale, gli atti del quale sono atti transeunti del sentimento fondamentale7animale, il quale essendo percepito per natura dall' uomo, sono percepiti del pari tutti i movimenti istintivi. Quando dunque l' animalità dell' uomo si agita e muove per soddisfare qualche suo bisogno, la percezione razionale accompagna tutti questi movimenti e queste azioni. Allora l' uomo, essendo un principio unico, il principio razionale, messo a parte dei bisogni della sua animalità, si sforza con tutte le forze che ha, anche colle forze razionali, di conseguire la soddisfazione desiderata (1). Ora questo lo obbliga a fissare la sua attenzione ai mezzi ed ai fini; il che è un riflettere sulle proprie percezioni. Tutta quest' opera dell' intendimento è sempre mossa dal principio accennato, che « il sentimento soggettivo si atteggia nel modo più comodo e più piacevole ». La riflessione è l' attenzione, il cui atto ferisce tutti i termini a lei proporzionati; ma l' inquietudine, il bisogno, ecc., sono termini nuovi a lei dati; ella trova così quasi nuove porte onde uscire, a quella guisa che l' acqua contenuta in un recipiente, tostochè si apre un foro, spiccia da quello non per alcuna virtù, ma per la stessa gravitazione e pressione che esercitava nel recipiente, compressa e ritenuta prima dalle pareti continue del recipiente medesimo. b ) Dall' istinto razionale in un modo simile. Piglisi l' esempio della curiosità. All' aspetto di un avvenimento insolito si susciterà spontaneamente il desiderio di conoscere perchè quella causa, che prima produceva un effetto, ora ne produce un altro, ingannando l' aspettazione. La riflessione vi si porta sopra, e non è quieta se non trova la soluzione del nodo, e ciò perchè « quando alla mente si affaccia un' apparente contraddizione, allora il suo atto razionale non è compito e quieto se non l' ha tolta via, perchè l' essere è il termine del pensiero, e l' essere è privo di contraddizione; onde il pensiero non è quieto se non toglie via la contraddizione, e così restituisce il suo termine ». Lo stesso si dica di una questione, di un nodo scientifico qualsiasi. Il presentarsi questo nuovo oggetto all' intelligenza è aprire un varco all' atto della riflessione, che lo vuole compiutamente afferrare. c ) Da un decreto della volontà, che, propostosi un fine, muove di necessità la riflessione a cercarne i mezzi, perchè altrimenti l' atto della volontà rimarrebbe rannicchiato e mozzo contro il bisogno della sua attività primitiva. L' attività volontaria e pratica si può spiegare anche in altri modi. - Ma il principio razionale passa sempre a questa specie di atti transeunti, che diconsi volontari, per gli oggetti nuovi che gli sono dati dalle altre potenze, i quali oggetti nuovi, essendo termini nuovi, chiamano e provocano l' evoluzione di attività nuove, sempre per lo stesso principio, che « l' atto primo e immanente dell' anima, qualora riceve nuovi termini, non ha più uno stato soddisfacente, ma naturalmente spiega la sua attività, prima rattenuta e solo in conato per l' ostacolo ossia la mancanza di ragione a dispiegarsi ». Finalmente vi è la libertà bilaterale, e gli atti transeunti di questa sono, come vedemmo, i più difficili a spiegarsi. - Perocchè nasce questa difficoltà: se l' atto primo e immanente dell' anima si spiega naturalmente quando riceve nuovi termini, e l' esplicazione dell' attività primitiva è questa stessa attività, che per legge di natura si ammoda allo stato suo più comodo e più conveniente; dunque gli atti transeunti sono necessari, sono determinati dalla natura dell' atto primo e immanente, e dalla qualità dei termini che loro sono applicati. Ma in tal caso non c' è più libertà bilaterale o d' indifferenza. - Quando si considera questa potenza della libertà bilaterale, pare doversi dire che ella si muova dal soggetto stesso, indipendentemente affatto dai termini che gli sono dati; e in tal caso si ricade in quella difficoltà che cerchiamo di rimuovere con sì lunghi discorsi, senza rimuovere la quale rimane inesplicato l' atto transeunte, il quale o ha la causa piena nel suo soggetto (atto immanente), ed allora deve coesistere col soggetto e non essere più atto transeunte, ma immanente anch' esso; o non ha la causa piena nel suo soggetto, ed allora dipende dai termini del soggetto stesso (perocchè ogni eccitamento dato al soggetto da un agente straniero è un termine anch' esso) e porta necessità; ovvero nasce dal soggetto senza che si possa trovare la causa piena, ed allora si urta contro il principio di causa. Questa difficoltà in apparenza gravissima è quella appunto, se ben si considera, che condusse tanti filosofi, anche fra i più perspicaci, a negare la libertà. Ma a torto; essi non investigarono abbastanza la natura di questa potenza; e quanti avranno ben meditato come noi l' abbiamo descritta nell' « Antropologia (1) », troveranno la via aperta per dileguare ogni ombra di sì terribile difficoltà; ecco in qual modo. Conviene determinare prima di tutto con precisione quale sia il termine ossia l' oggetto proprio della libertà. Questo termine noi abbiamo trovato essere « la scelta fra due volizioni contrarie »(2). Ora l' essenza della libertà non consiste nello scegliere ovvero non scegliere; ma consiste nel modo di scegliere, cioè scegliendo, nello scegliere piuttosto l' una che l' altra delle due volizioni. Quando dunque si presentano all' animo due volizioni da scegliere, se non si fa l' atto della scelta, non vi è l' atto della volontà; e se si fa, vi è quest' atto. Anche posto, dunque, che l' uomo sia determinato a fare la scelta, o sia determinato a non farla, posto anche che a fare questo atto sia mosso da una spontanea necessità; questa necessità, che lo muove a fare l' atto della scelta, non lo spoglia della sua libertà, purchè facendo questo atto, egli rimanga libero a scegliere piuttosto una volizione che l' altra. Quando adunque sono all' animo dell' uomo presenti le due volilizioni fra cui deve scegliere, sia pure che egli si muova a questo atto transeunte dal nuovo termine, che è dato alla sua attività immanente, il quale termine sono le due volizioni contrarie eleggibili e il bisogno di eleggere, e che egli si muova necessariamente a fare quest' atto (3); non si muove per questo necessariamente a farlo piuttosto in un modo che nell' altro, cioè a scegliere piuttosto l' una che l' altra delle volizioni eleggibili; egli può scegliere quella che vuole delle due, e però è libero, perfettamente libero. Questa libertà non appartiene adunque a quella parte di attività, che viene dal termine, ma a quella parte di attività, che appartiene al principio già costituito e attuato. Si dirà: qual' è la ragione sufficiente, che spiega come venga scelta l' una volizione piuttosto che l' altra? La domanda mostrerebbe non aversi ancora ben inteso la forza della definizione da noi data della libertà bilaterale. Poichè se « la libertà è la facoltà di scegliere fra due volizioni », l' atto di questa facoltà è la scelta; è appunto la facoltà di determinarsi piuttosto all' una che all' altra delle due volizioni; non è già la facoltà delle volizioni stesse, ma di eleggerne una fra loro. La ragione dunque della scelta è la stessa facoltà, la stessa attività del principio eleggente, la quale, quando viene mossa dalla presenza del suo termine, esce all' atto suo, cioè sceglie fra esse. Ella viene tratta all' atto suo necessariamente come le altre potenze, completandosi la causa mediante il nuovo termine, che le si aggiunge, che sono le due volizioni; ma è tratta necessariamente all' atto libero, che è l' atto suo proprio, e quell' atto suo proprio è appunto la detta elezione. Ridotte all' unità tutte le potenze dell' anima, cioè all' essenza dell' anima stessa, e vinte le difficoltà ontologiche, che impedivano la spiegazione dei suoi atti transeunti ossia delle sue operazioni, indagata nello stesso tempo la natura di questi atti, la loro ragione, il modo nel quale appariscono e scompariscono; lice ora a noi di entrare sicuri nell' argomento che ci siamo proposti, cioè nell' esposizione delle leggi, che tengono le diverse operazioni dell' anima. E posciachè l' anima è unica e semplice, riducendosi finalmente tutte le sue azioni al principio razionale , nel quale propriamente consiste l' essenza ultimata ed intera dell' anima stessa; perciò quando ci riuscisse di esporre convenevolmente le leggi, secondo le quali opera e patisce il principio razionale , noi avremmo sciolta la nostra promessa, ottenuto il nostro intento. Ma nell' uomo, tuttavia, cadono due principŒ di azione, l' uno dei quali è l' uomo, l' altro è nell' uomo. Quello è il principio razionale, questo il principio animale. Quando si dice l' uomo essere composto di corpo e di anima, si deve intendere di un corpo animato , e di un' anima razionale , non facendo la divisione dell' uomo col mettere la materia bruta da una parte, e l' anima sensitiva e razionale dall' altra. L' anima intellettiva è la forma di un corpo sensitivo, non d' una materia nuda (1). Il che non distrugge l' unità dell' anima, anzi la conferma, perocchè questa è anche principio supremo del sentimento, in quanto lo percepisce come entità. Il che nello stesso tempo spiega, come abbiamo già detto, perchè talora si manifesti nell' uomo un' attività sensitiva ribelle al principio razionale ed umano, giacchè la percezione fondamentale non distrugge l' attività sensitiva, benchè sia nata a dominarla. Altrimenti non potrebbe esservi contraddizione e lotta fra l' animalità e la ragione, senza che fossero due anime. Dedicheremo adunque il seguente quarto libro all' esposizione delle leggi secondo cui opera l' uomo, cioè il principio, razionale , che ha in sè anche il sentimento sotto la relazione essenziale di entità; ed il quinto libro, che viene appresso, all' esposizione delle leggi secondo le quali opera il principio animale per sè considerato, cioè sotto la relazione essenziale di sensilità; il quale non è l' uomo, ma è nell' uomo. Trattando poi del principio sensitivo, parleremo insieme, per quanto è necessario, anche dell' attività da lui diversa, che in lui si manifesta ed a lui talora contrasta, cioè della virtù sensifera. Dirittura logica e sentimento cristiano sono i due caratteri del popolo d' Italia. Laonde ogniqualvolta gli scrittori furono logici e religiosi, piacquero alla nazione; quelli che si dipartirono dal retto ragionare e dalla fede, anche se perspicacissimi d' ingegno e ricchissimi di erudizione, furono ripresi o dimentichi dalla pubblica opinione. E qui sta la vera ragione perchè l' Italia fiorisse nelle scienze naturali alla scuola dell' immortale Galileo, e paresse vecchia, oziosa e lenta all' invito di quegli efficacissimi ingegni del secolo XVI, che professarono la filosofia. Non poteva mancare la logica alle scienze matematiche, e la voce del grande Fiorentino non la lasciava più venir meno alle fisiche. Nè lo studio della natura, affidato al rigoroso raziocinio, poteva collidersi colla religione. Sciaguratamente le metafisiche investigazioni non sono di tal natura che, come le matematiche fanno, obblighino gli ingegni o a tenere la via del legittimo raziocinio, o ad essere subitamente convinti di errore. Nè il cielo donò un Galilei alla filosofia; nè le dottrine di questa sono indifferenti alle passioni ed ai vizi degli uomini; nè quelli che presero a far da filosofi nel secolo di Leone, ne andarono sufficientemente liberi, nè cansarono tampoco la maligna influenza dell' eresia settentrionale. Quindi il genio dell' Italia ripudiò i sofisti, talora trasmodando arse gli empi. Così questa terra si rimase deserta di filosofia, senza la quale non potè essere nazione. Perocchè se le altre genti d' altro sangue, d' altro ingegno, educate a più anguste tradizioni e a men sublimi sventure, poterono unirsi e conseguire spiriti nazionali quasi per un istinto, senza avanzata coltura di scienza; l' italica gente non potè, non potrà venire a tanto che colla guida d' una verace filosofia. Chè l' italica stirpe deve primieramente venire collegata da principŒ intellettuali, che, logici essendo, sono religiosi altresì; ed è vana speranza il presumere che senza questo primo, altri vincoli possano rendere unanimi i popoli della nostra penisola. Imperocchè se religione e logica sono forse i soli sentimenti rimasti comuni alla italica famiglia, è palese quanto sicura efficacia il fiorire della filosofia debba dimostrare in Italia a collegare gli Italiani condiscepoli nella scuola della verità, e a svolgere dai visceri della nazione quei due potentissimi germi di buoni ordini civili, a renderci altresì tutti consci che le menti nostre convengono nella medesima rettitudine, i nostri animi nella stessa credenza, la comune nostra ambizione nel fastigio del cristiano pontificato. Così ne uscirà la concordia degli Italiani dall' intima loro indole e natura, lo stesso vero, lo stesso Iddio intervenendo a mediatori; e quella sarà concordia di tempra saldissima e perenne, atta a progredire, a compirsi da sè medesima in ogni altra civile bisogna, incominciando questa santissima concordia colà stesso dove risiede l' uomo, dove l' uomo è signore, nella ragione, dove solo egli è nobilmente servo, nel culto del Creatore. La geometria e la fisica, coltivate dagli Italiani, di tanto amore non sono state più che un felicissimo tirocinio. E parmi che l' altissima Provvidenza tenesse così lunga pezza gli Italiani occupati esclusivamente nelle scienze matematiche e nelle fisiche, quasi in utilissimo tirocinio alle più elevate ed importanti, che sono le filosofiche e le civili, a cui pure mirabilmente apparecchiano gli ingegni quelle lettere ed arti belle, che invano c' invidiano le altre nazioni. Onde saviamente Platone ricusava le sue divine lezioni a quelli che nella geometria non gli venissero già ammaestrati; ed opportuno ornamento della filosofica scuola, corteggio della stessa filosofia, sono le grazie decenti di Socrate; le quali allora appaiono aggraziatissime e decentissime quando imparano a filosofare. Niuno dica che la logica delle scienze naturali sia una cotal arte loro propria, diversa da quella che addomandano le metafisiche, perocchè non vi è che una logica, una sola arte del pensiero, come una sola è la verità. Pel quale errore, appresso alcuni nostri valentissimi coltivatori delle scienze che chiamano rigorose, venne in dispregio la metafisica, quasi questa rifiutasse quell' esattissimo ragionare, che dalle scienze delle nude quantità non può quasi mai scompagnarsi. E non a torto la spregerebbero, se avessero ragione quei malavveduti, i quali, presumendo conoscere tutte le cose per via d' un cotale loro quasi divino afflato, mi diedero biasimo e mala voce dell' avere io desiderato che finalmente anche la filosofia italiana ubbidisse fedele nel suo procedere alle comuni leggi dell' umano pensiero, incominciando dalle osservazioni e dalla verificazione dei fatti, e di questi tessendo esattissimi raziocinŒ. Ma non posso io ricredermi perciò del metodo, direi quasi sperimentale, che io mi studiai raccomandare ai nostri, che a voler esser filosofi già incominciano, e che nelle filosofiche investigazioni, per quanto ho saputo, mantenni; nè io ne conosco un altro che metodo si possa appellare, poichè quel divino intuito dove ogni cosa, sì creata come increata, pare ad alcuni contemplare e immediatamente dalla voce stessa del nume raccogliere, io lo lascio assai volentieri ai sacerdoti degli antichi oracoli o agli ubbriachi dell' acqua di Aganippe, continuando a bramare che loro sia vietato severamente l' ingresso nel tempio della filosofia. Senza la qual legge gli Italiani non diventeranno mai filosofi, contenti di essere piuttosto naturalmente poeti. E però intitolai questo libro: « Leggi secondo le quali opera il principio razionale », pigliando anche qui ad imitare gli studiosi della natura, i quali, raccogliendo i fatti simili, notano accuratamente e sagacemente ciò che vi è d' identico in essi, e così discoprono i modi costanti dell' operare della causa spesso occulta, e li appellano leggi . Imperocchè quelle che essi chiamano leggi di natura non sono che identità e costanza di effetti, che appariscono nella reciproca azione e passione delle sostanze corporee componenti il mondo. I quali studiosi da ciò che negli effetti scorgono sempre eguali, ragionevolmente inducono il modo dell' operare; e quindi argomentando che la causa sia così formata, o naturata, o disposta, che ella non possa altramente che in quella guisa adoperare. La quale necessità di fare mai sempre allo stesso modo giustamente appellano legge, perchè « legge indica necessità determinante l' operazione », benchè quella necessità, a cui si dà tal nome, ora sia fisica ed ora morale. E prima s' impose quella parola alla necessità morale, di poi si trasportò alla fisica. Così noi dobbiamo fare nello studio delle operazioni e degli effetti dipendenti dalle cause invisibili e spirituali. La via dialettica del pensiero vuole essere la medesima: in prima diligentissimamente osservare e raccogliere le operazioni del principio razionale, di poi notarvi colla maggiore diligenza ciò che in esse apparisce identico; in appresso indurre la costante maniera dell' operare dalla causa; finalmente conchiudere che a questa immutabile costanza e uniformità di operazione deve rispondere una necessità, che obblighi la causa a conformare sempre in quella guisa le sue operazioni, la quale necessità, che legge si chiama, non può avere altrove radice che nella natura stessa della sostanza o causa operante; conciossiacchè la natura e la sostanza sono gli atti immutabili e immanenti rispetto alle azioni ed agli effetti loro passeggeri. Ma ora, posciachè le leggi che noi dobbiamo raccogliere saranno molte, affine di dare ordine al nostro lavoro ci converrà in prima considerarne i fonti principali, i principali elementi onde risultano le operazioni del principio razionale, sui quali cader deve la nostra osservazione; e questi elementi così accuratamente distinti già ci porgeranno una prima classificazione generale delle leggi, che ci proponiamo di ricercare. [...OMISSIS...] (1). Ora nella scuola jonia questo fu un gran passo, l' avere trovato Anassagora, ovvero Ermotimo, l' uno e l' altro di Clazomene, che l' intelletto doveva essere semplicissimo; ma, come osserva Aristotele, rimaneva ancora a discoprire in che modo l' intelletto conosca, rimaneva a trovare il mezzo del conoscere ed a spiegare, oltracciò, da quali cagioni l' intelletto al tutto semplice potesse essere mosso a conoscere specialmente il corporeo. Questi erano i quesiti di suprema importanza, e neppure Aristotele, nè alcuno antico potè rispondervi adeguatamente. Poichè, restringendoci al quesito che riguarda il mezzo di conoscere, Aristotele applicò allo spirito principŒ ontologici troppo angusti, non cavati dagli enti tutti, ma esclusivamente dall' ente materiale. Ora, come egli vide che nella natura materiale vi è una materia ed una forma, quella passiva e questa attiva, quella che diventa tutto, cioè tutti gli speciali enti corporei, questa che fa tutto, cioè che configurando la materia mette in essere quegli enti; credette che lo stesso dovesse valere altresì per ispiegare la costituzione dell' intelletto. [...OMISSIS...] . Così Aristotele accorda ad Anassagora che vi sia un intelletto non misto e immateriale; ma questo - dice - è la scienza stessa in atto , anteriormente al quale vi è nell' anima una cotal materia di tutte le cognizioni. E in tal guisa egli credeva aver superata la difficoltà mossa alla dottrina di Anassagora, che ammettendo un intelletto solo immateriale, non si potesse più spiegare come questo conoscesse, e onde fosse mosso a conoscere le cose materiali. Ma più osservazioni si hanno a fare sul ragionamento aristotelico: Primieramente quel ragionamento pecca contro le regole del buon metodo. Perocchè da principio suppone che nell' universa natura tutto sia composto di forma e di materia, senza dimostrare una proposizione così universale, ricorrendo all' esperienza e all' esperienza delle sole cose materiali. Di poi conchiude che così deve essere anche nell' anima, mentre avrebbe dovuto contentarsi di osservare se così è di fatto, senza imporre canoni preliminari alla natura dell' anima e leggi a priori, sempre arbitrarie e fallaci. Di poi dicendo che l' intelletto possibile diviene tutte le cose, cioè tutte le cognizioni, rende soggettive le cognizioni; le quali tutte non sarebbero più altro che l' anima stessa variamente modificata, e però sarebbero contingenti, ecc. come l' anima, meri sentimenti dell' anima, senza virtù di attestare un oggetto distinto dall' anima. Qualora poi le ultime parole si debbano tradurre con Michele Soffiano ed altri interpreti: « Idem autem est scientia, quae actu est, quod res ipsa », ne verrebbe che come tutte le notizie sono l' anima modificata e attuata, così tutte le cose sarebbero l' anima, che è il panpsichismo di molti filosofi tedeschi. Se l' intelletto agente è causa, efficienza, principio operante come opera l' arte o l' abito, in tal caso non è interamente in atto. Il nostro filosofo veniva bensì ad assegnare col suo intelletto possibile la causa materiale delle cognizioni, di cui Anassagora non aveva parlato, ma la causa efficiente7piena di esse, nè la causa istrumentale non la spiega a sufficienza col suo intelletto agente. L' abito ha bisogno di un eccitamento per uscire all' atto, specialmente se deve essere determinato a produrre dalla materia piuttosto una cosa che un' altra, per esempio, dalla pietra piuttosto la statua di Apollo che quella di Ercole. Così pure l' arte ha bisogno di strumenti per produrre la statua. Aristotele incontra sulla via la bella similitudine del lume, che avrebbe potuto raddrizzare i suoi pensieri, ma egli ne usa troppo male. Poichè i colori in potenza, che egli introduce, non sono colori, ed i colori in atto sono il lume stesso modificato e spezzato. Oltracciò, altro è l' occhio che vede, altro il lume che fa vedere; all' incontro l' intelletto, che è l' occhio, in Aristotele è confuso col lume che fa vedere, l' oggetto col soggetto . Questa grande distinzione, adunque, dell' oggetto e del soggetto è quella che mancò alla filosofia aristotelica, e quella sola che poteva compire ciò che aveva lasciato Anassagora da ricercarsi agli avvenire. Noi abbiamo dimostrato quale sia il lume della mente; abbiamo detto che questo lume è l' idea dell' essere , e questo il mezzo del conoscere . L' intelletto umano adunque, sebbene sia immisto, come lo voleva Anassagora, tuttavia ha una dualità, e così è tolta la difficoltà che Aristotele muoveva all' illustre filosofo di Clazomene, perchè gli è dato un mezzo di conoscere. Nello stesso tempo è dimostrata erronea la maniera con cui Aristotele credeva poterla vincere. E perchè si vedano le differenze fra la via da noi tenuta a superare quella difficoltà e l' aristotelica, si consideri: Che Aristotele, componendo l' anima intellettiva di una materia e di una forma a similitudine della natura materiale, la faceva risultare da due elementi, ciascuno dei quali era parte sostanziale dell' anima intellettiva, e più sostanziale ancora la forma che la materia; laddove noi non facciamo l' essere ideale parte sostanziale dell' anima, ma solamente oggetto che le si dà a vedere, e così la pone in atto ed in essere, senza confondere sè stesso con quella, lasciando solamente in quella la cognizione; onde l' anima intellettiva si rimane per noi del tutto immista, quantunque sia congiunta con altra cosa da sè diversa, che la illumina. Che Aristotele fa che l' anima risulti da una forma simile a quelle dell' essere reale, che è una realità anch' essa, è l' atto della realità; laddove noi diciamo che l' essere ideale informa bensì l' anima, ma in tutt' altro modo, conservando il suo proprio essere al tutto diverso da quello dell' anima, e solo dandosi all' anima a conoscere (1) e le forme o cause informanti di questo genere le chiamiamo oggettive ; colla loro presenza nello spirito, essendo essenzialmente lume, esse gli danno quell' atto d' intuizione che si potrebbe anche chiamare in qualche modo una forma soggettiva , nel quale aspetto le forme oggettive sono cause delle forme soggettive . Che Aristotele dà all' anima intellettiva qualche cosa, che risponde alla materia dei corpi, onde dice che diviene tutte le cose. Noi, nulla di ciò. L' anima rimane sempre principio semplicissimo. Ed ella non si compone propriamente di forma e di materia, ma di atto e di potenza; perocchè ella è atto prima di essere potenza; ed è potenza non per sè, ma pel cangiamento dei termini suoi, come abbiamo spiegato. Gli Aristotelici possono replicare: « Come in tal caso fate voi nascere le cognizioni speciali? ». Rispondiamo: l' anima razionale è quella che apprende l' ente; l' ente poi è ideale e reale . E` dato all' anima l' ente ideale per natura, e questa forma dell' ente è essenzialmente illimitata. Le è dato pure per natura un ente reale , limitato nel sentimento fondamentale animale , il quale è percepito da lei razionalmente, perchè compreso già al suo modo nell' ente ideale , che tutto comprende. Il rapporto fra l' ente reale7limitato e l' ente ideale7illimitato costituisce i concetti , ossia le idee speciali e le generiche. Ma nè l' ente ideale, nè l' ente reale dall' anima percepito per natura, è l' anima stessa; ma è cosa a lei congiunta per quella relazione sua propria, che chiamammo, per distinguerla da ogni altra, di razionalità . In tal modo le difficoltà aristoteliche affatto svaniscono, senza rompere perciò agli scogli, a cui ruppe il filosofo di Stagira. Costituita l' anima e dichiarata la possibilità del suo operare e del suo svilupparsi, abbiamo aperta la via a classificare acconciamente le leggi, che ella tiene nel suo operare. Poichè da due fonti sgorgano e quasi zampillano le attività di lei, come di ogni altro ente finito, cioè dal suo termine e dal principio; il termine poi è doppio, l' Ente ed il Mondo (il reale finito). Quindi tre radici delle leggi: l' Ente, il Mondo e l' attività propria del principio razionale. Le leggi adunque dell' operare del principio razionale rimangono da sè stesse classificate in tre nobilissimi generi, i quali sono quelli delle Leggi Ontologiche , delle Leggi Cosmologiche , e delle Leggi Psicologiche . Noi incominceremo dal ragionare delle leggi, che la natura dell' oggetto impone al principio razionale nel suo operare, cioè dalle Ontologiche, le quali non possono mancare giammai, qualunque sia l' ente intorno a cui versi come ad oggetto l' operare dell' anima. Ora poi, operando il principio razionale in due maniere, l' una speculativa che non produce effetto fuori della mente, l' altra pratica che produce effetto fuori della mente; si vogliono da noi considerare tanto le leggi ontologiche, che l' oggetto impone alla ragione speculativa, quanto quelle che egli impone alla ragione pratica. E prima è da considerare la suprema e generalissima, la quale è il principio di cognizione . Di vero tutte le altre leggi sono contenute e riassunte nel principio di cognizione, il quale si formula così: « « Il termine del pensiero è l' ente »(1) ». Il che viene a dire: « il pensiero è così fatto che ha per legge primitiva di sua natura di avere a termine l' ente, di modo che o ha l' ente a suo termine, ovvero non è ». L' ente, considerato sotto questo aspetto, è dunque la condizione a cui è legata l' esistenza del pensiero, che è l' operazione speculativa della ragione. Quindi procede che le qualità e le doti essenziali all' ente sono altrettante condizioni del pensare, e però altrettante leggi del pensiero; il che è quanto dire che ogni pensiero per esistere deve avere un termine, dotato di tutte quelle qualità e doti che ha l' ente. Ma qui si avverta che quando noi parliamo in generale di leggi del pensiero, non intendiamo che tali leggi debbano essere osservate da ogni atto speciale del pensiero, diviso da tutti gli altri suoi atti per opera di astrazione; ma consideriamo il pensiero complesso e totale, risultante dalla somma degli atti singoli e parziali, che in ciascun tempo agita l' uomo nella sua mente. A ragion d' esempio, l' uomo pensa una linea reale: questo è un atto particolare. Ma egli non può pensare una linea reale senza pensare una superficie, di cui ella sia termine. Se io dunque dicessi che è legge del pensiero, applicato all' estensione corporea, il dover pensare superfici o solidi, non mi si potrebbe opporre che egli pensa anche linee e punti, trovandoli per astrazione nelle superfici e nei solidi che percepisce; perchè l' atto speciale, col quale pensa il punto astratto o la linea astratta, non è un atto che stia da sè solo, ma è simultaneo e condizionato al pensiero della superficie o del solido, nel quale l' uomo vede la linea ed il punto; onde si avvera che nel complessivo pensiero dell' estensione corporea non manca la superficie od il solido, il che adempie la legge del pensiero. Laonde, quando noi diciamo esser legge del pensiero il cogliere l' ente colle qualità che lo costituiscono ente, non intendiamo che per astrazione non si possa pensare qualche qualità dell' ente divisa dall' altra, benchè da sè non possa stare; ma intendiamo che questo astratto non può essere pensato se non pensiamo prima l' ente, sapendo che egli appartiene all' ente ed è nell' ente; e però nel pensiero complessivo della mente umana si avvera che « l' ente è pensato colle essenziali sue condizioni », a segno tale che se all' uomo fosse dato dal senso un accidente dell' ente, per esempio, il colore e non più, l' anima per pensarlo vi deve ad ogni modo aggiungere la sostanza che non gli è data, appunto perchè l' accidente non sarebbe ente senza la detta sostanza, come abbiamo mostrato altrove (1). Questo vale a dileguare l' obbiezione contro il principio di cognizione, che potrebbe muoversi dal vedere che il pensiero astratto si ferma in accidenti, che, presi da sè soli, non hanno la proprietà dell' ente; il pensiero astratto è una parte del pensiero, non il pensiero intero; quello non istà mai solo nella mente, senza che questo in qualche modo vi sia pure. Ma noi dobbiamo ora aggiungere un' altra osservazione importantissima. Perocchè, avendo il pensiero molte specie di atti, non tutte apprendono l' ente allo stesso modo e colla stessa pienezza. A tal fine noi dobbiamo esporre più divisatamente l' efficacia del principio di cognizione nel dar forma alle umane intellezioni. Questa efficacia si può dunque risolvere nelle due seguenti proposizioni: « L' intendimento umano non può pensare cosa alcuna, che abbia proprietà contrarie a quelle che sono essenziali all' ente ». In virtù di questa legge lo spirito umano non può pensare che una cosa sia e non sia allo stesso tempo, perchè l' ente non ha in sè contraddizione. Il principio di contraddizione dunque, espresso dai greci così: [...OMISSIS...] , trae di qui l' origine. Taluno dirà: si pensa il nulla, si pensa la negazione. Ora il nulla è opposto all' ente, che dice qualche cosa; dunque non è necessario che l' ente sia sempre l' oggetto del pensiero. - Rispondo vero essere che il nulla è contrario all' ente; ma, se ben si considera, il nulla come nulla non si pensa, nè si può pensare. Quando dunque l' uomo pensa il nulla, egli veramente pensa una relazione dell' ente contingente, una relazione che l' ente ha col pensiero e con sè stesso, per la qual relazione si considera che l' ente o è, nel qual caso è pensabile, o non è, nel qual caso non è pensabile. Ora il non è altro non significa se non due atti combinati nel pensiero stesso, coll' uno dei quali si pensa l' ente, coll' altro si toglie via l' ente, e col torlo via si abolisce l' oggetto del pensiero. Ora poi che il nulla pensato non sia propriamente il nulla, ma una relazione dell' ente, ciascuno si potrà persuadere considerando i tanti ragionamenti che fanno i matematici intorno al nulla, e le diverse specie di nulla che essi stabiliscono, come dichiarò assai sottilmente Giuseppe Torelli nel suo bel libro De nihilo geometrico . Lo stesso si può rilevare dalle maniere di parlare degli ascetici, le quali sono tutt' altro che false, quando dicono, a ragion d' esempio, che l' uomo è un nulla, che tutto è nulla fuor di Dio. Una persona spirituale soleva fare questa orazione: « Mio Dio, io sono un nulla peccatore, deh fate che io diventi un nulla innocente! ». Io trovo di mirabile verità ed esattezza questa orazione, nella quale ben si vede che il nulla, di cui in essa si parla, non è il puro nulla, il quale non è capace di colpa o di innocenza, ma bensì una relazione dell' uomo, che è nulla da sè stesso senza il Creatore, perchè senza il Creatore egli cessa di essere. « L' intendimento umano benchè abbia sempre per oggetto l' ente, tuttavia non è necessitato a pensare in egual modo tutte le proprietà dell' ente, ma alcune è obbligato a pensarle attualmente, altre poi virtualmente. Queste egli è obbligato a non negarle, lasciando a sè stesso aperta la via di farne ricerca. Ciò che deve pensare attualmente è l' essenza ideale ; le proprietà poi e le relazioni, che appartengono all' ente come reale, e che sono virtualmente comprese nell' ideale, benchè necessarie alla costituzione dell' ente stesso pensato, l' intendimento umano non è obbligato per legge del suo pensiero a considerarle attualmente, ma solo a non negarle, rimanendogli esse materia a successiva investigazione ». La qual legge importantissima rende possibili le diverse maniere di intellezione proprie dell' uomo, e a ciascuna di esse assegna sue leggi speciali. Vediamo a quali leggi ontologiche ciascuna maniera d' intellezione ubbidisca. Le maniere principali delle intellezioni umane sono: 1 l' intuizione; 2 la percezione; 3 la riflessione, la quale si esercita per via di astrazione e per via d' integrazione, onde ella si divide in: a ) riflessione astraente, b ) riflessione integrante. L' intuizione avendo per oggetto l' ente ideale, vedesi che questo atto del pensiero si stende all' ente, in quanto è nella sua forma ideale, prescindendo al tutto dalle altre due forme, la realità e la moralità. Ora qui si deve considerare un principio ontologico di non lieve momento, ed è che « quantunque l' ente sia in tre modi, tuttavia in ciascuno di essi è compiuto, perchè ciascuno abbraccia tutto l' ente alla sua guisa ». Onde l' intuizione abbraccia tutto l' ente, e non può dirsi che ad un atto, che si riferisce a tutto l' ente, manchi nulla di ciò che esige il pensiero, conciossiacchè il pensiero non esige altro se non di avere per suo oggetto l' ente. Di più essendo l' ente sotto la forma ideale semplice ed impartibile, sotto questa forma egli non può essere dato all' intendimento che tutto o niente . All' incontro l' ente sotto la forma reale, essendo partibile e moltiplicabile, può essergli dato parzialmente, nel qual caso non può essere pensato solo, perchè mancante di una sua parte, non ente compiuto (1). Ma posto che l' intendimento umano abbia già tutto l' ente nella forma ideale, a lui non manca più l' oggetto compiuto ed intero, che gli è necessario, posto il quale, possono essere pensate anche le parti del reale; poichè queste non tolgono l' ente ideale, ma solo aggiungono qualche altro termine al pensiero. Il pensiero adunque è possibile tosto che è a lui dato tutto l' ente sotto la forma ideale, e perciò noi dicemmo che l' essere ideale è quello che forma il pensiero, e costituisce la potenza di pensare. A spiegare dunque la percezione , che è quell' operazione del principio razionale che apprende l' ente reale , uopo è che preceda l' intuizione dell' essere ideale, lume e mezzo di conoscere ogni reale. Questo vero non è veduto che da quelli che meditano profondamente la natura della percezione. Molti si persuadono che quando l' uomo percepisce un reale, per esempio un corpo, l' oggetto del suo percepire sia un particolare e non più; non arrivano mai a sciogliere l' oggetto percepito nei suoi elementi della possibilità e della realità , della idea , in cui si vede l' essenza conoscibile del corpo, e dell' apprensione contemporanea, colla quale se ne afferma la realità. Chi vuol vedere quanto sia vero che la mente nostra non percepisce un corpo senza recarsi col suo atto in entrambi quegli elementi, domandi a sè stesso: so io quello che ho percepito? Risponderà: io lo so; fu un corpo rotondo, di grandezza pari a una melagrana, giallo, lucido, duro, una palla d' avorio. Tale è il concetto del corpo che ho percepito. - Ma in questo concetto, badi egli bene, si acclude la sussistenza del corpo? - No, perchè fino a tanto che io penso unicamente questo concetto del corpo, quale viene espresso nella definizione che ne ho data, io non so ancora per questo solo che egli sussista - Dunque, io conchiudo, il sapere che quel corpo sussiste realmente è cosa diversa dall' averne il concetto. Ma colla percezione si acquistano entrambe queste due cognizioni, quella del concetto e quella della sussistenza reale del corpo. Dunque ogni percezione è duplice, risultante da due atti dello spirito, i quali si fanno ad un tempo, e sono l' intuizione del concetto e la persuasione della sussistenza; nè si può andare persuasi che una cosa esiste se non se ne ha il concetto, di maniera che nell' ordine logico il concetto precede alla persuasione che sussista ciò che nel concetto e pel concetto si conosce. Un' altra maniera di convincersi della stessa verità si è il considerare che di ogni cosa contingente che io percepisca, ne conosco subito la possibilità; di maniera che interrogato: « la tal cosa è ella possibile? » io tosto rispondo: « e come no? ella esiste, dunque è possibile ». Ora come so io che ciò che esiste è possibile? dove tolgo io il concetto della possibilità? Non lo derivo certo da altro che dal concetto che ho della cosa; perocchè il concetto mi dà notizia dell' essenza conoscibile della cosa, ma non mi dice che ella sussista; dunque, io concludo, la cosa contemplata nel suo concetto potrebbe tanto sussistere, quanto non sussistere; dunque per sapere se ella sussiste, mi bisogna qualche altro indizio, e nella percezione questo indizio è il senso di essa. La possibilità s' acchiude nel concetto puro della cosa, in quanto che quel concetto non la dimostra necessariamente sussistente. Ora questo concetto è l' essere ideale della cosa. Se nella percezione adunque io non pensassi l' essere ideale della cosa, non ne conoscerei la possibilità. L' origine dunque del pensiero della possibilità suppone che in ogni percezione oltre la realità della cosa percepita, io ne intuisca il concetto ideale (1). Ma che è il concetto ideale di un ente? Non altro che il concetto universale dell' essere, limitato e determinato dall' azione della cosa in noi, cioè dal sentimento che la cosa in noi produce. Perocchè, quando io dico: « il concetto di una palla d' avorio », dico nè più nè meno: « il concetto di un essere determinato dalle qualità sensibili di quella palla ». Ogni percezione adunque di un ente racchiude l' intuizione dell' essere ideale di lui, ed ogni essere ideale suppone l' intuizione dell' essere ideale indeterminato ed universale . Dunque la percezione non può spiegarsi, se non si suppone che l' anima intuisca prima di tutto l' essere ideale per sè stesso. Di che ancora si scorge come l' oggetto della percezione, benchè sia un reale limitato, tuttavia è ancora l' ente, senza che niente gli manchi di quanto gli è essenziale, come vuole il principio di cognizione. Se il reale limitato si separasse dall' ideale, egli non avrebbe più tutte le condizioni e qualità di ente, perchè da sè solo non può esistere, non ha in sè la ragione della propria esistenza, anzi dividendolo dall' ideale, lo si divide dalla propria essenza. Ma quando il reale è unito all' ideale, allora egli ha ricevuto la sua essenza ed è ente completo; perciò può essere percepito. Rimane tuttavia a chiarire come la percezione sia così limitata. Perchè non si percepisce addirittura tutta la realità? qual' è la ragione, per la quale l' intendimento nella percezione apprende questa parte della realità dell' ente, ed esclude ogni altra? - Rispondo che la porzione del reale che si percepisce, non è presa ad arbitrio dall' intendimento, ma gli è somministrata dal sentimento. I sentimenti individuali sono divisi per modo che ciò che è nell' uno, non è nell' altro, e sono fra di loro incomunicabili. Il principio razionale rimane dunque nella percezione limitato dal sentimento; il che lo diamo come un fatto innegabile, spettando alla Teosofia investigarne la ragione. Ma se anche l' ente reale per sè stesso è illimitato, percependolo limitato, mancherà sempre qualche qualità essenziale o necessaria all' ente reale; e se l' ente reale limitato non ha con sè la ragione per cui sussiste, si potrà egli concepire sussistente? - Tutto ciò che gli manca è già supposto ed ammesso virtualmente e indistintamente nell' essere ideale, che con esso lui si congiunge, e in questo trova la sua essenza; ciò che gli manca di realità per essere completo nel pensiero che si fa di lui, non viene escluso, ma lasciato indietro, quasi direi, come fanno i matematici nello scrivere una serie indefinita, che, dopo scritti alcuni termini, pongono un eccetera, col quale non esprimono ciò che manca, ma lo indicano e lo suppongono. Così nella percezione dell' ente reale limitato non sono negate, ma lasciate in cifra quelle condizioni che sono indispensabili alla sua sussistenza, quelle relazioni o essenziali o almeno necessarie, che egli ha con altri enti limitati o coll' illimitato; il che diviene poscia materia, come dicemmo, della riflessione ontologica e teosofica. Quindi si confuta l' errore di quei filosofi panideisti , i quali pretendono che l' uomo nella sua prima intellezione debba percepire tutto ciò che poscia trova colla riflessione; essi non distinguono acconciamente fra l' essere ideale e l' essere reale, li confondono insieme, e pretendono che anche Tutto il Reale cada nella prima naturale intellezione, e quindi in ogni percezione, quando il vero si è che non ci cade se non Tutto l' Ideale , al quale confrontandosi poi il reale limitato e parziale, la riflessione trova ciò che gli manca (1). Esponiamo ora dunque la legge della riflessione. La riflessione è quella facoltà che ritorna sulla percezione o sul suo oggetto, ed astrae od integra. In quanto alla riflessione astraente conviene distinguere tre accidenti: 1) Vi è un' astrazione simulata, che non è propriamente altro che percezione imperfetta, e trova il suo fondamento nell' imperfezione del senso; questo accidente ha ingannato gli Aristotelici condotti ad attribuire al senso l' universale, quasi un suo accidente. 2) Vi è un' astrazione che altro non fa se non dividere la parte ideale dalla parte reale dell' oggetto della percezione, la quale chiamasi universalizzazione , e si fa talora naturalmente senz' atto positivo, cessando l' atto dell' affermazione, e perdendosene la memoria (1). 3) Vi è finalmente un' astrazione che si esercita sull' idea della cosa, e solo di conseguente sul reale in quanto corrisponde all' idea (forma realizzata). Con essa si limita l' attenzione ad una parte dell' ente concepito e percepito, senza però abolire nella mente le altre parti, a cui soltanto non si dà attenzione. Parliamo del primo accidente. - Gli Aristotelici avevano osservato che le nozioni dei bambini e dei rozzi sono assai generali. Osservarono pure che un oggetto, presentato in distanza all' organo sensorio, occulta alcune sue differenze; per esempio, un uomo fermo in lontananza non si distingue da una colonna, non apprendendo il senso le parti minori, che differenziano l' uomo. Quindi conchiusero che il senso presentava prima le qualità più comuni e poi le proprie; e che l' intelletto seguace al senso, prima concepiva l' universale e poscia il particolare. Questa era un' illusione sensistica; ma era almeno un' illusione sottile ben più di tante altre che presero i moderni, un' illusione che caratterizza l' indole dell' ingegno aristotelico. Parmi prezzo dell' opera che io qui la esponga colle parole di un italiano filosofo, professore dell' Università Padovana nel cinquecento, il Zimara. Agitando la questione « qual sia il primo cognito », egli dice così: [...OMISSIS...] L' illusione sensistica, che qui si contiene, nasce da questo, che i sensisti tutti parlano sempre delle cose sentite7cognite e non delle meramente sentite; onde in ciò che cade sotto il senso trovano il comune ed il proprio, e non esitano a dire che gli enti sensibili hanno degli accidenti universali e comuni, più e meno. All' incontro, dove non si voglia ingannarsi, conviene prendere il sentito e spogliarlo di tutto ciò che gli ebbe aggiunto l' atto di conoscere e di percepire; ed allora non ci resta più niente di universale e di comune, parole che esprimono unicamente la relazione che ha il sentito colle idee; non ci resta più che il particolare. Onde nel senso è tanto particolare il tutto, quanto la parte, tanto l' animale, quanto l' uomo. E sia che l' occhio veda l' oggetto lontano e confuso, in cui non distingua parti, sia che lo veda vicino con distinzione di parti, altro egli non ha mai che una sensazione particolare, nel primo caso una sensazione diversa che nel secondo, ma sempre una sensazione. E` la ragione quella che confronta i due sentiti, quando li ha già appresi, quando sono divenuti cogniti, contenuti e misurati nell' idea; e in questi sentiti7cogniti si può certamente trovare la parte comune e la parte propria, e vedere che alla prima sensazione risponde il comune ed alla seconda anche il proprio. Ora che la cosa proceda così si può provare con più argomenti, oltre al principale dell' osservare e contemplare la cosa in sè stessa. Eccone alcuni in aggiunta a quelli che abbiamo dati altrove (2). Il senso in un oggetto vicino non percepisce prima il tutto e poscia le parti, ma il tutto colle sue parti ad un tempo; perocchè nella visione e nell' immagine di un uomo sono tutte le parti dell' uomo. E pure il principio razionale pone attenzione prima al tutto che alle parti, ed ha bisogno di speciale attenzione a ben percepire le parti di cui il tutto risulta. Dunque è proprietà dell' attenzione razionale di abbracciare prima il tutto, e poscia le parti. Così i bambini, che danno a tutti gli uomini il nome di padre, e a tutte le femmine quello di madre, percepiscono benissimo col senso le immagini distinte degli uomini, che loro si danno a vedere, e meglio anche degli adulti per la finezza dei loro sensi; ma tuttavia la loro attenzione razionale da prima si appiglia a ciò che hanno di comune gli uomini, trascurando il resto che pure hanno percepito col senso egualmente; onde pare che non l' abbiano sentito, quando è solo che colla mente non lo considerano. Il bambino fissa la sua attenzione alle qualità sensibili più comuni, benchè senta anche le altre, coll' aiuto dei vocaboli, che sono lo strumento della ragione e non del senso. Che se egli non acquistasse cotesto istrumento del pensiero, pel quale egli può fissare l' elemento comune trascurando il resto, non arriverebbe mai ad eseguire tale astrazione. Il che è così vero che gli stessi Aristotelici ebbero sottilmente osservato che se vi sono nei sensibili delle note comuni ed universali, che non sieno segnate con un vocabolo, il bambino non vi si ferma, e tali universali innominati non sono già per lui più noti o noti prima dei particolari. Dalla quale bella osservazione, tutta all' uopo nostro, quei filosofi non cavarono il lume che avrebbero potuto. [...OMISSIS...] ; il che si attribuisce dagli Aristotelici al fare tali generi meno impressione nel senso, ma questo non lo provano, e spesso non è; quando è d' altra parte manifesto che non furono quei generi nominati, perchè meno necessari alla vita umana, e però non essendo contrassegnati di vocabolo, difficilmente si prendono coll' intelletto. E` falso che nel bambino vi sia quell' astrazione che gli Aristotelici e i sensisti tutti suppongono; l' astrazione succede alle prime operazioni del bambino, quando prende a riflettere. L' astrarre è un dividere il comune, che si chiama astratto , dal proprio. Lungi che il bambino colla sua prima operazione divida e astragga, anzi unisce e sintetizza, cioè unisce l' universalissimo, l' idea dell' essere, al concreto che cade sotto i suoi sensi. Infatti le parole paternità, maternità, umanità, che esprimono astratti, sono inintelligibili per molto tempo al bambino. Nè le parole padre e madre significano per lui il comune, l' astratto, ma primieramente gli individui reali da lui percepiti, che udì connotare di tali nomi; ed è un errore il credere che queste parole significhino al bambino quello che a noi. Ora, a percepire tali individui egli dovette unirvi l' universale che ha in sè; onde l' oggetto significato da tali parole, benchè particolare, è associato all' universale, nel quale è veduto dalla mente. Quando poi ai sensi del bambino appariscono altri uomini, egli non si ferma colla sua mente a notare le differenze che pure esistono nella sensazione, ma o li prende per quelli stessi di prima, e perciò dà loro gli stessi nomi, i più facili a scorrergli sulle labbra; ovvero dà loro gli stessi nomi, perchè a quei nomi ha legato il pensiero di certe qualità più apparenti, che hanno fermata la sua attenzione nei primi uomini e nelle prime donne da lui conosciute; onde poniamo, per modo d' esempio, che nei primi uomini la sua attenzione abbia fissata la barba, e nelle prime donne la cuffia; quando egli vede un uomo lo chiama padre per voler dire « quell' ente che ha la barba »; e quando vede una donna, la chiama madre, per voler dire « quella donna che ha la cuffia »; e lo stesso vale, se si prende a scopo fisso dell' attenzione bimbesca, in luogo di un segno così speciale, la conformazione generale e totale del corpo dell' uomo e della donna. Egli, in questo supposto, dice padre « quell' ente che ha quella configurazione totale maschile, trascurate le minute differenze »; e dice madre « quell' ente che ha quella configurazione totale femminile, trascurate le minute differenze »; nè conosce ancora il vero significato di padre o di madre. Qui non vi è astrazione se non apparente, ma vi è sintesi, perchè: 1 vi è l' unione dell' ente ideale con quella configurazione sensibile, o con quella marca sensibile più appariscente; 2 vi è la determinazione di un individuo, di un ente mediante quella configurazione o quella marca, che serve di segno a distinguerlo dagli altri. - Ma, si dice, questa configurazione o marca sensibile è comune. - No, si risponde, a principio pel bambino non è comune, è un sentito particolare, che prende a segno e connotato dell' ente, e che perciò restringe all' attenzione e determina l' universale, non lo forma. Ora colla stessa marca si contrassegnano più individui successivamente con atti particolari dello spirito; solamente in appresso, mediante la riflessione, quando la mente indotta dal bisogno che ne ha, osserva anche le differenze più speciali, allora discopre che quella marca , che da principio le servì di mezzo a restringere e particolarizzare l' universale, e a nominare gli individui, è ella stessa comune ed universale, considerata in relazione con quelle differenze, delle quali, dopo averle percepite, si serve a restringere e particolarizzare di nuovo quegli enti che hanno tutti quella marca , venendo così cotal marca ravvisata per comune a molti individui. Onde è falsa, è apparente l' astrazione primitiva, che i sensisti attribuiscono al senso, quasi che questo percepisca il comune, e la ragione si pigli tosto bell' e fatto il comune dal senso. Veniamo al secondo accidente dell' astrazione, che è l' universalizzazione. Quella maniera di astrazione, che propriamente ha il nome di universalizzazione , non fa che scomporre la percezione intellettiva, ponendo da una parte l' essere ideale , dall' altra il sentito, ossia il reale . Dove nasce questa difficoltà: « Il reale se si considera nella sua pienezza, reale infinito, è al tutto indivisibile rispetto a sè dall' ideale, perchè l' uno e l' altro non sono che un solo essere; se poi si parla del reale finito e contingente, il reale diviso dall' ideale non è ente compiuto, e quindi è inescogitabile. Come dunque l' astrazione può dividerli? ». Si risponde che il reale infinito, non essendo dato all' uomo, quando l' uomo astrae l' ideale e lo separa dal reale infinito per via d' un giudizio, crede di fare quello che non fa, crede di dividere quello che non divide, giacchè in tal caso l' oggetto della sua riflessione astraente non è il vero reale infinito, ma è un concetto negativo ed analogico, che nella mente umana tien luogo del reale infinito. All' incontro un comprensore celeste che apprende il reale infinito, non si proverebbe giammai a separare con un giudizio astrattivo l' ideale dal reale, come un uomo non tenterebbe mai colla sua mente di fare un assurdo, se lo conoscesse per assurdo. Con che rimane confutata la dottrina dei pseudomistici, i quali pretendono che l' oggetto dell' intuito naturale dell' uomo sia Dio stesso, che contiene la realità infinita, ma poscia per via di astrazione da quel reale infinito l' uomo tragga l' essere ideale; sistema che, oltre a contraddire al senso comune, involge molti altri assurdi e conseguenze sovvertitrici del Cristianesimo. Tuttavia per non uscire qui dalla confutazione diretta, che accennavamo della predetta setta dei pseudomistici, è da considerare primieramente il fatto che l' uomo, sia per via d' astrazione, sia in altro modo, intuisce effettivamente l' ideale senza il reale (fatto neppur negato dagli avversari). Ora se l' uomo vedesse per natura il reale assoluto ed infinito, cioè Iddio, dovrebbe vedere insieme due cose: 1 che l' ideale è nel seno del reale; 2 che il considerarlo per via di un giudizio come separato dal reale è assurdo. Ma è manifesto che l' uomo, com' è al presente, non vede quest' assurdo, e però pensa all' ideale senza pensare al reale, senza trovare in ciò alcuno inconveniente; il che dimostra che egli non apprende per natura il reale assoluto, come vogliono quei pseudomistici. Vero è che l' ideale è per sè concepibile, perchè racchiude tutto l' essere, benchè sotto una sola forma; ma altra è la ragione per la quale s' intuisce l' ideale, altra è la ragione per la quale lo si pensa e giudica solo e staccato dal reale, senza trovarci assurdo; la ragione perchè si concepisce l' ideale è che esso ha tutto ciò che si esige per essere concepibile; la ragione perchè si può pensare e giudicare solo, senza accorgersi dell' assurdo che vi è nell' ammetterlo così solitario, si è che non si apprende il reale infinito, e quindi neppure il nesso necessario e d' identità che ha coll' ideale, e però l' assurdo rimane celato. Quanto poi al reale finito, all' universalizzazione che si esercita sull' oggetto finito della percezione, è da avvertirsi che, dividendosi quest' oggetto nei suoi due elementi: 1 l' ideale, 2 il reale finito; solo il primo di esso rimane concepibile perchè ente, ma il secondo rimane inconcepito, rimane un mero sentito; con tale divisione è disfatto l' oggetto reale, non rimane più che il reale senza la condizione di oggetto; ed è un' illusione il credere che il reale si concepisca a parte, perocchè se ci sforziamo di concepirlo a parte, pure col concepirlo l' abbiamo mescolato e legato coll' idea, che lo completa come ente; e quindi è falso che lo concepiamo a parte. Ma come ne parliamo adunque? come parliamo di lui unito e separato? - Noi parliamo di lui unito all' idea e lo vediamo altresì separabile, cioè annullantesi quale oggetto di cognizione, perchè intendiamo che egli non è l' idea; e questa cognizione negativa basta a poterne parlare, senza che ci sia necessario perciò di concepirlo come un oggetto della conoscenza attualmente separato. Possiamo anche intendere che separato egli non è ente compiuto, e questa è ancora una cognizione negativa, che non ha bisogno per aversi di percezione o di concezione positiva. Le quali cognizioni negative noi le prendiamo contemplando il reale nell' idea e all' idea paragonandolo, perocchè la separabilità di ciò che pensiamo unito è pensabile, come è pensabile l' annullamento di un oggetto pensato. Terzo accidente dell' astrazione - Astrazione propriamente detta. Finalmente il terzo accidente della riflessione astraente, che merita il proprio nome di astrazione, è quando noi, riflettendo sopra qualche concetto, separiamo in esso più elementi o relazioni; per esempio, quando noi dal concetto di un ente finito astraiamo la sostanza dall' accidente, o l' accidente dalla sostanza, ecc.. I prodotti di questa astrazione, l' accidente, poniamo, o la sostanza, presi in separato l' uno dall' altro, non sono enti, e però non possono essere oggetti del pensiero, ma parti di enti, ossia enti imperfetti (entità). Come dunque si pensano? Non col pensiero complesso, ma col pensiero parziale, con quella maniera di astrazione che si esercita sull' idea, tali parti od elementi non si dividono intieramente dal concetto, ma nel concetto stesso si contemplano, restringendo a ciascuno di essi una speciale attenzione dello spirito. Ma nello spirito il concetto intero, su cui si riflette, rimane; e la sua unità e semplicità è quella che rende possibile il considerare ciascuna parte; di maniera che se allo spirito fosse tolto il concetto intero, le sue parti pure sarebbero tolte, e lo spirito non potrebbe più affissare nell' una o nell' altra di esse la sua attenzione, perchè non sarebbero. L' atto dunque di questa maniera di astrazione non può trovarsi solo nello spirito; egli non è un pensiero intero e compiuto, per dirlo di nuovo, ma è parte di un pensiero, che conviene ravvisarsi nel suo tutto; l' ente è l' oggetto del pensiero complessivo, non d' una parte del pensiero o d' un atto speciale che si aggiunge necessariamente ad un altro, perchè questo atto speciale, non stando da sè, non è da sè solo pensiero. Vero è che l' uomo, quando ha posto attenzione a qualche parte elementare dell' ente, che vede nell' idea, e la ha contrassegnata con un vocabolo, allora se la cangia spesso in un vero ente; ma questo è ancora una sua illusione, un errore che egli prende, perchè ad un elemento, che non è ente, egli aggiunge arbitrariamente col suo pensiero ciò che gli manca senza pure accorgersene, come faceva, a ragion d' esempio, Hume, quando pretendeva che l' universo potesse essere composto d' accidenti; nel che era necessitato a tramutare gli accidenti in sostanze, senza volerlo nè saperlo (1). La quale illusione accade spessissimo, onde gli uomini cangiano in enti le astrazioni, le personificano, ecc.. E quindi un' altra classe di errori, quando, applicando tali astratti agli enti reali, immaginano che anche in questi enti sia diviso e separato quello che è diviso nell' astrazione. Abbiamo poi dimostrato che questa maniera di astrazione ha le sue proprie leggi venienti dall' idea dell' essere, ond' è che questa idea necessariamente precede tutte le astrazioni, perchè le dirige (2); e però ella non può essere formata coll' astrazione. E` un nuovo argomento che distrugge l' errore dei sensisti , come pure quello dei pseudomistici loro confratelli; i primi dei quali si danno a credere che l' idea dell' essere si possa cavare per astrazione dai sentiti reali; i secondi poi, con maggiore assurdo, pretendono che si cavi dall' essere reale assoluto, intuìto per natura dallo spirito umano. I quali ultimi non considerano che l' astrazione, di cui parliamo, non si esercita che sull' idea sola, e però l' idea deve aversi prima nell' ordine logico; nè considerano che l' idea dell' essere è quella che dirige l' astrazione nelle sue operazioni, senza la qual direzione ella s' andrebbe a caso contro il fatto. Che se ricorressero alla seconda maniera di astrarre, noi l' abbiamo esclusa di sopra. Ritengasi adunque: Che l' intendimento percepisce le realità finite, che non sono enti per sè sole compiuti, nell' essere ideale che dà loro il compimento. Che egli non apprende tuttavia attualmente le loro relazioni essenziali o necessarie coll' essere reale compiuto; ma senza negarle le lascia da parte come un' appendice da svolgersi poscia. E questo svolgimento è appunto l' opera, che fa la riflessione sopravveniente. Ella ritorna sul reale percepito e lo raffronta coll' essere ideale, che è il tipo di ogni realità; quindi discopre ciò che manca al reale conosciuto per via di percezione; per esempio, ella rileva che è contingente e che ha una relazione col necessario, trova che è limitato e che non potrebbe essere se non vi fosse un illimitato, ecc., e così via dicendo (1). Come dunque la riflessione astraente confronta le idee degli enti fra loro per fissare il più comune, applicando i risultati di questo confronto agli enti stessi, così la riflessione integrante confronta le idee degli enti coll' idea dell' essere in universale, e trova le relazioni ontologiche, cioè le relazioni che gli enti finiti tengono colla essenza dell' essere stesso. Nel sistema dei pseudomistici questa operazione integrante della riflessione è abolita; perocchè essi pretendono che la riflessione non iscopra mai niente di nuovo, essendo data all' uomo la pienezza dell' essere reale nel suo naturale intuito, onde per essi non può restare altra riflessione che l' astraente. Ma questo si oppone al senso comune ed alla coscienza di ciascheduno, perocchè ciascuno ben sa che colla riflessione si discoprono nuove verità, e così crescono le scienze; al che fare non è uopo, come quei filosofi falsamente pretendono, che quelle verità siano già nell' oggetto dell' intuito, ma basta che l' oggetto dell' intuito sia l' essere ideale, il quale, contenendo tutto l' essere a suo modo, è regola universale a giudicare del reale, conoscerne l' ordine e le relazioni, e trovare ciò che gli manca al compimento; perocchè da questi giudizi intorno al reale nascono le cognizioni acquisite e le scienze tutte. Questo arbitrario e stravagante sistema, che dal buon senno degli Italiani sarà, io credo, sempre ripulso, muove da due supposizioni false egualmente: 1 l' una che non possa essere oggetto della mente l' ente sotto la sola sua forma ideale; il che si oppone evidentemente al fatto, giacchè la mente che pensa ad un ente possibile , non ha una necessità al mondo di pensare insieme alla sua realità; 2 l' altra che senza che la mente apprendesse il reale assoluto, la riflessione non potrebbe trovare le verità scientifiche intorno agli esseri determinati e reali; il che pure è falso, perchè, come provammo, nell' essere ideale ella ha già la regola suprema per tutti i giudizi circa i reali sentiti, essendo anche i reali virtualmente (e però nel modo ideale) compresi nell' ideale. Ignorano altresì costoro che il reale è nel sentimento, e l' uomo non lo percepisce se non riportandolo all' idea; ed aggiungono a loro pro certi ragionamenti teologici, che ben dimostrano in teologia non veder essi più addentro che in filosofia (1). Esposta così la legge universale e suprema dell' umano pensiero, la quale dice: « l' ente è il termine essenziale del pensiero », ed applicata alle diverse maniere d' intellezioni, è uopo che ne deriviamo le leggi speciali. Il che facilmente ci verrà fatto considerando quali siano le speciali doti dell' ente, ciascuna delle quali imprime un carattere proprio alla cognizione umana per forma, che contribuisce non poco a farcene intendere l' intima natura, per quanto al bisogno nostro è richiesto. Ora le precipue qualità dell' ente (e ad esse noi ci restringiamo) sono che: 1 è oggetto, 2 è possibile; 3 è atto primo; 4 è uno; 5 è durevole; 6 è finito o infinito. Da ciascuna di queste qualità procede una legge speciale, che determina la natura dell' atto cogitativo. Cominciamo dal considerare la prima, che si enuncia così: « il termine del pensiero è l' oggetto ». Si crede comunemente che tutte le potenze abbiano un oggetto; il vero però si è che tutte hanno un termine , e il solo intendimento ha un oggetto. Ma l' uomo intende tutto e non parla se non di quello che intende; quindi egli cangia i termini delle potenze in altrettanti oggetti, pur solo col pensarli, col percepirli; i termini adunque delle potenze non intellettive si chiamano oggetti posteriormente, in quanto sono in relazione col pensiero. Vediamo che voglia dire essere oggetto . Il termine d' una potenza è oggetto, quando esso è così in sè stesso che non riceve nessuna modificazione, nè passiva nè attiva, dalla potenza a cui è termine; e l' atto della potenza lo contiene, e per questo solo ella se ne arricchisce e ne cava suo pro, senza punto, come si diceva, modificarlo (1). Di più, la potenza per avere un oggetto deve essere tale che ella possegga quel suo termine per ciò che è in sè stesso, e non per ciò che opera in lei. Sono adunque tre le condizioni dell' oggetto: 1 è immodificabile e tuttavia unito in un modo suo proprio alla potenza; 2 si unisce e comunica in modo che l' effetto di questa unione e comunicazione non è che la potenza apprenda l' azione di lui, ma apprenda lui stesso e se ne giovi; 3 la potenza che lo apprende, non apprende con lui sè stessa, ma lui solo; onde egli resta sempre separato dalla potenza in virtù dell' atto stesso dell' unione e dell' apprensione, il quale atto lo oppone anzi alla potenza, di che gli viene il nome di obiectum . Queste tre condizioni sublimissime non si riscontrano in nessuno dei termini delle altre potenze, ma solo in quello dell' intendimento, che è l' ente. Poichè i termini di tutte le altre potenze: 1 sono passivi da esse e ricevono modificazioni; 2 sono anche attivi e producono modificazioni nella potenza; onde ciò che riceve la potenza non è che l' azione di un ente, non l' ente stesso; 3 talora sono le modificazioni di essa potenza; per esempio, le sensazioni, termini del sentire, non sono altro che le modificazioni del sentimento fondamentale; 4 si uniscono colla potenza in modo da confondersi con essa, di cui diventano o una cotal continuazione, o un' attualità, ecc.; e però non rimangono separati da essa nell' atto dell' unione, nè ad essa contrapposti, ma la potenza, apprendendo il suo termine, apprende in pari tempo sè stessa modificata, e quindi non lascia sè stessa per applicarsi tutta a cosa diversa da sè. Ora se ben si considera, si vedrà che l' oggettività è condizione così essenziale dell' ente che, in quanto non è oggetto, non è ente, tutt' al più sarà un rudimento dell' ente concepito per astrazione, non possibile ad esistere tutto solo. E veramente si attenda bene che cosa contenga il concetto di ente . Il concetto di ente non contiene alcuna relazione di un ente con un altro, anzi la esclude come un soprappiù; dice la cosa in sè , non la cosa agente in un' altra . Ma la cosa è in sè , solo a condizione che sia in una mente; perocchè se si parla di corpo non concepito da alcuna mente, quel corpo non ha questa condizione di essere in sè qualche cosa, perchè non ha alcuna suità. Lo stesso è a dirsi di un essere meramente sensitivo, a cui manca il sè . L' essere dunque in sè non è altro che l' essere concepito assolutamente e senza relazione ad altro da un intelletto. E quando a noi pare che le cose abbiano questa assoluta esistenza, benchè non sieno da noi concepite, cadiamo in una cotale illusione trascendentale. Noi supponiamo che non sieno concepite nell' atto stesso che le concepiamo e ne ragioniamo; onde parliamo senz' accorgerci di cose concepite in sè, le quali certamente esistono in sè, senza bisogno di altri atti avvertiti da parte nostra per concepirle, perchè basta che si presentino al nostro pensiero per avere adempita la condizione dell' essere in una mente. Ma non diremo mai che enti, che noi realmente non concepiamo, nè immaginiamo che alcun' altra mente li concepisca, enti insomma affatto sconosciuti da ogni mente siano enti compiuti, siano qualche cosa in sè stessi. L' oggettività dunque è una proprietà o relazione essenziale dell' ente. Di che nasce la conseguenza che il dire che l' oggettività è una relazione essenziale dell' ente riesce al medesimo che il dire che l' ente è per sua essenza conoscibile, ossia che anche l' intelligibilità è proprietà necessaria dell' ente; di maniera che quegli enti, che non si conoscono per sè stessi ed hanno bisogno per essere conosciuti di un mezzo di conoscere, neppure sono pienamente enti; ma hanno bisogno per essere tali di venire completati e ultimati dall' unione dell' ente per essenza, dell' ente per sè intelligibile, unione che, quasi in talamo, si fa nella mente. Infatti l' oggettività non si trova che negli enti, in quanto sono presenti alla mente; dunque l' oggettività e l' intelligibilità riescono ad un medesimo concetto, dicono lo stesso sotto due rispetti; sicchè quando si dice oggetto, dicesi ente in sè stesso inteso; quando si dice intelligibilità dicesi la proprietà che ha l' ente di essere inteso, divisa per astrazione. Aristotele in più luoghi viene a dire che l' ente per sè considerato è la prima cosa intesa, senza la quale non può intendersi le altre; dei quali luoghi noi accenneremo solo il quarto libro dei Metafisici. Qui egli insegna che [...OMISSIS...] . Di qui un sottile dissidio fra gli Aristotelici, i quali, convenendo tutti che l' ente era il primo intelligibile, attaccarono poi gran briga per sapere se questa intelligibilità convenisse all' ente come ente, ovvero all' ente in quanto è in atto, che a loro pareva un genere speciale di ente. Il nobile filosofo italiano che abbiamo più sopra citato, Marco Antonio Zimara (nome oscuro per un' antica vergogna e calamità dell' italica terra) così dichiara questa sentenza: [...OMISSIS...] . Un errore sta in queste ultime parole che la materia considerata in sè e solitariamente sia ente. Nè Aristotele, nè alcuno ch' io sappia degli antichi, conobbe la dottrina degli enti imperfetti (.), che sta in gran parte nella legge ontologica del sintesismo , per la quale gli enti finiti si appoggiano l' uno all' altro e si sorreggono, cosicchè divisi e separati coll' astrazione si annullano, non sono più enti propriamente parlando; e quel resto di ente, che diviene oggetto dell' astrazione, si può chiamare tutt' al più ente imperfetto , il quale è come in via ad essere ente, completandosi e rendendosi possibile realmente, quando gli si aggiunge l' altro ente a cui si appoggia. Così la materia è ente, considerata come termine del principio senziente; separata da questo, è un rudimento di ente, il quale nella realità è nulla, perchè impossibile ad esistere così; e nella mente pure è ente imperfetto , attesochè, sebbene la mente le dia un compimento senza il quale non potrebbe essere pensata, sopravviene l' astrazione che le spoglia quella veste non sua per considerare la materia nuda, senza però che resti nuda anche nel pensiero complesso. Onde quando si dice ente , si dice già atto , e non si dà ente che sia mera potenza; la quale, come abbiamo veduto innanzi, è piuttosto un che negativo, e perciò un non ente anzichè un ente. Quindi dalla legge dell' oggettività emana la legge del sintesismo; perocchè se l' oggetto si unisce al soggetto in modo che, lungi dal confondersi con esso lui, per l' atto stesso dell' unirsi a lui si divide e si pone per quello che è in sè, suscitando nel soggetto medesimo un atto, che non determina nel soggetto, ma nell' oggetto, procede quindi che il soggetto e l' oggetto sieno uniti in modo così correlativo che la loro unione riesca essenziale ad entrambi (1), li costituisca entrambi, e tuttavia in modo così distinto che l' uno è non solo separato dall' altro, ma all' altro opposto. Ignorata questa legge dagli antichi (2), essi rovinarono in speculazioni inestricabili ed in gravissimi errori. Dall' ignorazione di essa ricevette rincalzo l' «hen to on kai pan» di Parmenide, come si deduce da un luogo del dialogo, che Platone intitolò del nome di quel grandissimo italiano. Perocchè in esso s' introduce Socrate, che muove obbiezioni al sistema di Parmenide, « « tutte le cose essere un solo ente ». » Avendo dunque Socrate conceduto che la specie è una per molti individui, sosteneva tuttavia che queste specie fossero distinte dagli individui e fra loro, e però fossero enti per sè. Parmenide toglie a mostrargli gli assurdi che verrebbero da questa supposizione, «ean tis hos eide onta kath' heauta diorizetai», e dice che il massimo degli inconvenienti sarebbe che in tal caso riuscirebbe difficilissimo il provare che le specie si possano conoscere, e per esse si possano far conoscere gli individui, «all' apithanos an eie ho agnosta auta anankazon einai». A provar questo Parmenide si fa concedere da Socrate che ogni essenza che esiste per sé , «kath' hauten usian», non può essere in noi, «en hemin». Ottenuta questa concessione, egli conchiude che esse specie ci sono ignote, perocchè noi non ne siamo partecipi: «uk ara hupo ghe hemon ghignosketai ton eidon uden epeide autes epistemes u metechomen». Ora se Socrate avesse conosciuta la legge del sintesismo, non avrebbe mai accordato a Parmenide che le specie per essere qualche cosa in sè, non potevano essere in noi. Anzi avrebbe dovuto stabilire che la specie intellettiva, da non confondersi coll' immagine, è l' essere stesso sotto la forma ideale, il quale è così in sè che non può non essere in sè, nè da noi riceve nulla; e tuttavia può essere da noi intuìto appunto in sè, come è e non altrimenti, e però noi ne siamo partecipi, e in questo senso è in noi. L' argomento prova che la specie deve essere a noi unita, se dobbiamo intuirla e di essa far uso a conoscere altre cose; ma non prova l' impossibilità che sia da noi intuita, rimanendo un essere di altra natura e condizione della nostra. Il che certo ne verrebbe, qualora fosse provato che ciò che è in noi debba essere una parte o modificazione di noi stessi; ma questo è anzi gratuito e falso. Vedesi dunque che l' errore di Parmenide venne da quello stesso principio arbitrario, onde i moderni cavano il loro soggettivismo; ma il grande pensatore di Elea andava colla sua logica mente assai più in là, traendo per conseguenza che tutte le cose dovevano essere un solo ente. E che questa argomentazione, che Platone mette in bocca di Parmenide, sia veramente di questo nostro pensatore, scorgesi dai versi che di lui si sono conservati, nei quali appunto, per dare una spiegazione acconcia della cognizione, dice che il conoscere e l' essere sono la medesima cosa: [...OMISSIS...] , e ancora, secondo la traduzione del Karsten: [...OMISSIS...] i quali luoghi possono non leggermente illustrare il brano da noi toccato del Parmenide di Platone. Oltre di ciò Parmenide vuol provare a Socrate che colle specie, se loro si dà un' esistenza in sè e si distinguono fra loro, non si possono conoscere le cose anche per un altro argomento. Egli si fa accordare che ciò che esiste in sè non può essere rappresentativo delle cose, perchè l' esistere in sè non è relativo ad altro, ma è un' esistenza chiusa in sè stessa. Onde ricava che neppure Dio conoscerebbe le cose umane, nè avrebbe virtù di governarle, e l' arte stessa del disputare si annienterebbe, se si dovessero conoscere le cose con tali specie, ciascuna delle quali avesse un' essenza propria e distinta dalla cosa. I quali conseguenti vedendo, alcuni - continua Parmenide - vacillano e dubitano che le idee non sieno, perchè inetti a spiegare con esse la cognizione il che appunto è quello che avvenne modernamente alla scuola Scozzese, che negò le idee; e noi abbiamo esposto, forse anche con più efficacia, l' inutilità delle idee, qualora si pretenda che esse non facciano altro ufficio che di esseri rappresentativi, e le cose tutte si conoscano per via di rappresentazione (2). Ma perciò appunto questo è falso, perchè nell' idea non si vede già l' essenza dell' idea, ma quella dell' ente; e l' ente è identico sotto la forma ideale e sotto la forma reale. Onde l' idea altro non è per noi se non l' essere intuìto dalla mente (3) nella sua propria essenza, la quale è eterna; ma questa essenza ora comprende la realizzazione dell' essere, e allora è l' essere infinito, Iddio che non si vede; ora poi non comprende la sua realizzazione, e allora è l' essere ideale , al quale si rapporta la realizzazione che col sentimento apprendiamo. Onde la cosa reale conosciuta altro non è che l' essere ideale realizzato, sicchè l' oggetto del conoscere in tal caso risulta dai due elementi sopra descritti: 1 l' ideale, 2 il reale; questo compimento di quello. L' ideale adunque è rappresentativo non già come una cosa reale, per esempio, come la figura di una statua rappresenta un' altra figura, il personaggio di cui è la statua; ma come l' essenza di una cosa rappresenta la cosa realizzata; la qual cosa realizzata non si disgiunge dalla sua essenza, nel qual caso non sarebbe un ente compiuto. L' essenza dunque è l' atto pel quale l' ente è nel mondo ideale; la realizzazione è un altro atto dello stesso ente pel quale egli è nel sentimento, cioè sente o fa sentire, che gli si aggiunge nello spirito percipiente come suo finimento; dove si consideri sempre che l' esistenza nello spirito non toglie l' esistenza in sè, anzi la costituisce. Possibile in senso logico significa privo di contraddizione. Ora l' ente non ammette contraddizione alcuna. Da questa proprietà dell' ente di essere essenzialmente concorde e consentaneo seco stesso, procede il principio di contraddizione che « l' essere e il non essere insieme non è essere ». Ora se « l' essere e il non essere insieme non è essere », dunque non si può pensare, perchè l' oggetto del pensiero è l' essere. In questo senso la possibilità logica costituisce la pensabilità delle cose. Ma volendo conoscere se un ente, o reale o ideale, può avere contraddizione nel suo seno, dove riguardiamo noi? Nella sua essenza. Ora l' essenza dell' ente si vede nell' idea. Se dunque la possibilità dell' ente è ciò che lo rende pensabile, e se la possibilità, ossia immunità da contraddizione, trovasi nell' idea, viene confermato quel vero, che abbiamo di sopra stabilito, con un nuovo ed invitto argomento, cioè che niente si pensa senza l' idea; il che non vuol dire che ogni pensiero umano si faccia colla sola idea, come alcuni disattenti ci hanno attribuito. Nella percezione razionale adunque, nella quale pensiamo un reale, non è la sola realità che forma l' oggetto del nostro pensiero, ma l' idealità altresì; dunque ogni percezione ha un elemento ideale ed uno reale. Il sensismo adunque che si ferma al reale, nè altro riconosce che questo per oggetto del pensiero, è un sistema erroneo, mancante di filosofica perspicacia, tale che rende impossibile il pensiero, lo esclude pur col volerlo stabilire. Di più, se la possibilità è la pensabilità, e la pensabilità sta nell' idea, dunque se i reali si dividono dall' idea, non sono più pensabili; nè l' idea può venire da essi, appunto perchè essi non sono nell' intendimento, se non in virtù della stessa idea. Ancora, se il reale non riceve la pensabilità se non dall' idea alla quale nello spirito umano è unito, dunque il reale per sè solo, diviso dall' idea, non è oggetto della mente. Mostrano adunque di essere assai poco innanzi nelle filosofiche investigazioni coloro che, riputando l' ideale per un nulla, pretendono che la mente umana non avrebbe un vero oggetto, se non avesse per suo termine un reale! Anzi è appunto vero il contrario; la sola essenza dell' ente, che è l' essere ideale, è oggetto; non vi è oggetto fuori di essa o senza di essa; il reale deve essere oggettivato , cioè completato nell' idea, nell' essenza, acciocchè si possa pensare. Essere oggetto, essere pensabile, essere intelligibile per sè stesso, sono pressochè sinonimi; dunque l' intelligibile per sè stesso è il solo essere ideale , e l' essere reale è intelligibile per partecipazione . A questo principio vi è una sola eccezione, benchè neppure essa sia propriamente eccezione; Iddio anche nella sua realità è intelligibile per sè stesso. Ora questo accade, perchè nella sua stessa essenza ideale si comprende la sussistenza; onde non si può avverare il caso che la sussistenza, ossia realità, sia scompagnata in Dio dall' idealità. E` dunque un gravissimo e perniciosissimo errore il dire che Dio è un' idea, o anche che è l' idea , vocabolo che nella lingua degli uomini non significa realità, quando Iddio è anzi Realissimo . E perchè gli uomini usano così la parola idea? perchè inventarono questa parola ideale in opposizione di reale? Perchè non avendo essi per natura la visione dell' essere realissimo, non hanno esperienza alcuna del nesso necessario fra l' essere ideale e l' essere reale compiuto; e però non possono che argomentare un tal nesso per via di raziocinio. L' invenzione adunque della parola idea, e il suo uso costante, abbatte l' errore di quelli che accordano all' uomo l' intùito di Dio stesso nella presente vita. Ma onde poi la parola possibile? Abbiamo detto che in senso logico equivale a ciò che non involge contraddizione. Ma neppure Iddio involge contraddizione. Si dirà dunque che Iddio è possibile? L' esservi una cotal ripugnanza a dire che Iddio è possibile dimostra che nella parola possibile, oltre l' assenza della contraddizione, si associa un altro concetto. Tanto Iddio, quanto la creatura, non involge contraddizione; ma l' essenza divina è tale che, oltre non involgere contraddizione, ne è anche necessaria la realità. Nell' essenza all' incontro della creatura manca la necessità della sussistenza, onde si può concepire senza bisogno che nel concetto si racchiuda la realità. Quindi rispetto alla realità dell' essere contingente si dice che è possibile, cioè che « può essere realizzato, perchè la sua essenza non involge contraddizione ». Con questa aggiunta si compie il concetto del possibile; la possibilità logica è dunque la ragione della possibilità metafisica . Quindi avviene ancora che tutto si possa oggettivare, ossia idealizzare; perchè tutto ciò che non è necessario e che non involge contraddizione si concepisce come possibile. Non vi è dunque cosa che in questo senso non abbia un' idea a sè opposta. L' individuo si può considerare come possibile; la sussistenza del pari; questo è quanto dire considerarla in rapporto colla sua idea, coll' essenza di cui è una realizzazione. Considerare come possibile è universalizzare. Non si universalizzano però le cose tutte allo stesso modo. Perocchè, come abbiamo veduto che la parola possibile si prende in due significati, nel significato meramente logico , l' essenza di una cosa che non involge contraddizione, e nel significato metafisico , la suscettività che ha quell' essenza ad essere realizzata; così è da dirsi dell' universalizzare. Nella semplice essenza talora non vi è universalità, come accade in quelle cose che per loro essenza sono uniche: l' essenza dell' individuo, dell' uno, dell' io, del sussistente, ecc., racchiude la particolarità e l' unicità; e però l' individuo, l' uno, l' io, il sussistente non possono essere che unici. Ma se si considera la possibilità che sussistano molti io, molti uni, molti individui, molti sussistenti, ecc., tutte queste cose vengono universalizzate per via della possibilità , ma non della possibilità logica, sì della possibilità metafisica. Si opporrà: « Non corrispondono tutte queste cose moltiplicate ad una sola essenza, all' essenza dell' io, dell' individuo, ecc.? E se corrispondono ad una sola essenza, non è per l' essenza che vengono universalizzate? ». Noi neghiamo che ciascuna di queste cose rispondano ad una sola essenza. Di fatti l' essenza d' un io, d' un individuo, ecc., non è l' essenza d' un altro io, d' un altro individuo, ecc.; ma l' essenza d' un io non ha nulla che appartenga all' essenza d' un altro io, consistendo appunto in questo l' indole del sussistente di non aver nulla di comune con un altro sussistente. Ciò che fa parere il contrario si è che si confonde la natura , di cui il sussistente partecipa, collo stesso sussistente . La natura è comune , ma la stessa sussistenza è singolare . Ora si replica: se molti io convengono nell' essere io, nell' avere la suità , dunque hanno qualche cosa di comune. - E bene, replichiamo anche noi, che la suità è un' essenza comune, ma non è l' essenza di nessun io, ecc.. - In tal caso l' io non ha essenza. - Appunto l' io come io non ha essenza ideale, perchè egli è un reale, un sussistente. Quindi l' universalizzazione, che interviene quando si concepiscono molti io, dipende dall' astrazione, che costituisce un' essenza generica , mancando la specifica . Quando adunque si ha una universalizzazione fondata nella possibilità metafisica , la quale dipende dall' esistenza di una volontà, causa efficiente, e non da un' idea, causa esemplare; allora l' universalizzazione si riferisce ad un' essenza generica , che non rappresenta compiutamente l' ente di cui si tratta, ma solo una parte di lui, venendo l' altra parte prodotta immediatamente dall' efficacia della volontà. Così l' idea generica dell' io è l' idea della natura umana, in quanto la causa efficiente può farla sussistere in più individui, senza che rappresenti l' individuo stesso, che ella fa realmente sussistere. E qui nasce la questione: « Come si possa conoscere se una data essenza possa essere realizzata in più individui, ovvero in uno solo ». A cui si risponde che questo quesito non si può risolvere, se non considerando l' essenza stessa di cui si tratta. Perocchè è l' essenza della cosa quella che o esclude, o ammette la molteplicità maggiore o minore degli individui. Così l' essenza di Dio, come pure l' essenza della materia, esclude la molteplicità degli individui: l' essenza di Dio, perchè è l' essere stesso, e l' essere è uno e semplicissimo; l' essenza della materia, perchè essendo il termine esteso del sentimento, ella non ha altra essenza ideale che generica, che la esprime tutta e non in parte; onde rimane escluso da essa l' individuo. Così quando si dice acqua , si esprime tutta la natura dell' acqua; la qual natura perciò è semplice, come la stessa essenza reale, alla quale il suo concetto viene ristretto. Allo stesso modo vi potrebbero essere delle essenze che determinassero un certo numero d' individui; benchè tutti gli enti a noi conosciuti per essenza specifica non ammettano limiti nel numero metafisicamente possibile dei loro individui, non si può tuttavia dimostrare assurdo che qualche essenza a noi sconosciuta ne ammettesse, come ne ammette l' essenza di un ordine qualsiasi risultante da più cose finite. Noi parliamo sempre del pensiero umano, intero, complesso. Quindi la indicata legge viene a dire che « il pensiero non può avere a suo termine solamente atti secondi, senza che questi sieno accompagnati dal pensiero degli atti primi onde provengono ». Coll' astrazione si possono pensare gli atti secondi separandoli dai primi; ma l' astrazione non è il pensiero complesso, anzi non è possibile l' astrazione, se prima non è nella mente ciò su cui l' astrazione si esercita, nè l' astrazione caccia via il pensiero onde nacque; se io dunque divido coll' astrazione gli atti secondi dagli atti primi, anche gli atti primi rimangono tuttavia nella mente, entrano nel complesso del pensiero anche se ad essi io non ponga quella viva attenzione che dò all' astratto; è l' attenzione che si restringe a una parte del pensiero, non è il pensiero stesso che cessi. La ragione per la quale non si può pensare nulla se prima non si pensa un atto primo, si è perchè il termine del pensiero è l' ente, e l' ente è costituito sempre da un atto primo. Se si osserva e si guarda direttamente negli enti per vedere come essi sono internamenti costituiti, si trova che certi enti hanno l' essenza anteriore e distinta dalla loro sussistenza, certi hanno la sussistenza per atto primo ed originale; e come quelli sono molti e contingenti, così di questi non ve ne è che uno e necessario. Ma dove la sussistenza medesima è l' atto primo, è chiaro che quell' ente non si può concepire se non si percepisce la sussistenza, nè pensare senza di questa. Indi è che Iddio non si può pensare solo idealmente e come possibile, come si possono pensare le cose contingenti; ma o egli si pensa sussistente, o non è Dio quel che si pensa. Laonde chi dicesse l' essere ideale , che informa la ragione nostra, essere Dio, cadrebbe in gravissimo errore, conducente al razionalismo, al pseudomisticismo e a molte altre assurdità mostruose. Quanto agli enti contingenti, avendo essi la loro essenza separata, che nell' idea si manifesta, e non potendosi pensare cosa alcuna scompagnata dalla sua essenza; quindi una nuova dimostrazione della verità spesso da noi annunciata e ancora sì poco intesa, che l' ente reale contingente non si può percepire dall' intendimento se non mediante l' idea e nell' idea; la quale idea non può essere data dalla sensazione, perchè la sensazione è appunto quella entità reale che si tratta di percepire e di conoscere. Dopo di ciò, colla sola idea non si percepisce il reale, perchè l' idea contenendo la pura essenza dell' ente, e questa rimanendo così separata dalla realità o sussistenza, nulla è ancora inteso di questa finchè altro non s' intuisce che l' essenza nell' idea. Ora la sussistenza si apprende, nel modo detto, col sentimento, l' apprensione razionale e l' affermazione. Ma come anche qui ha luogo il principio che nulla si può conoscere, se non si conosce l' atto primo della cosa conosciuta? Nella realità propriamente non è l' atto primo , perchè, come vedemmo, questo atto appartiene all' essenza. Quindi accade che lo spirito nella percezione e nell' universalizzazione assuma come atto primo quello che contrassegna con un vocabolo, e a cui si ferma l' attenzione; e consideri come atti secondi quelli che accadono alla cosa contrassegnata col vocabolo e presa come subbietto della definizione e scopo dell' attenzione, e che sono fuori degli elementi raccolti nel vocabolo, o nella definizione, o nell' oggetto dell' attenzione astraente. E così lo spirito si forma la cognizione delle cose reali e delle loro essenze conoscibili, determinandole e limitandole, come dicevo, da ciò che prima percepisce col sentimento (1). Ma oltre di ciò nel sentimento stesso lo spirito intelligente trova un ordine, giacchè: 1 egli non può percepire certe qualità sensibili senza altre; per esempio, non può percepire il colore o la forma senza l' estensione; 2 alcune di queste sono precedenti, e come condizioni rimanendo immutate, ed altre condizionate mutandosi; per esempio, l' estensione è precedente, e il colore che può mutarsi, rimanendo quella immutata, susseguente. Allorquando le cose si vedono così connesse e dipendenti, si prende la prima condizione o qualità, quella che è logicamente anteriore alle altre, e lei si considera come atto primo, e in relazione colle altre, già unita all' essenza, si chiama sostanza. Nei corpi la forza sensibile o sensifera è questo atto primo, senza il quale le altre qualità corporee non si possono sentire. Onde anche nella sfera della realità vi è il suo atto primo; ma questo è un atto ipotetico, perchè relativo alla sensitività stessa, come abbiamo già detto parlando della percezione. Ora quando l' intendimento concepisce l' essenza d' un ente atto ad essere percepito, cioè che ha tutte le condizioni per essere termine della percezione di cui abbiamo parlato, allora coll' astrazione questo ente si spezza e si trova l' atto primo che si chiama sostanza, senza il quale non si può percepire il resto. Ma questo stesso ordine che è nella realità, si riflette nell' essenza ideale, che da questa relazione col reale si attua agli occhi dello spirito nostro e determina; ed è in questa che si conosce. A percepire adunque un reale contingente è necessario: Che non manchi l' essenza, la quale s' intuisce nell' idea, perchè l' essenza è atto primo rispetto alla realizzazione. Che non manchi l' atto primo della realità stessa, perchè senza questo atto la realità non può cadere nel sentimento e acquistare un nome; avvertendosi però che l' atto primo della realità, a cui è condizionato il sentimento, è ipotetico, cioè viene considerato da noi come tale; ed è anche tale, ma solo in relazione al sentito, non in relazione a tutto l' essere. Un' altra proprietà dell' ente è di essere uno. Se non fosse uno, non sarebbe ente; quindi l' uno è necessario che sia sempre nell' oggetto del pensiero, poichè altrimenti non vi sarebbe l' ente; quindi l' ente è sempre un individuo, e non si può pensare l' ente col pensare intero e complesso senza attribuirgli una individualità. Infatti onde l' idea di uno o di unità? Ella è data coll' idea di ente, e dall' ente si cava per via di astrazione (1); senza l' ente niuna idea possibile, coll' ente l' idea di uno è tosto nella mente. Quindi gli Scolastici dissero che l' uno e l' ente si convertono (1); e gli antichi filosofi, massime i Pitagorici, presero l' uno a significare l' ente in astratto, senza determinare in esso altra cosa; e peccarono in questo, che dissero molte cose dell' astratto, che è ente incompleto, le quali non si potevano dire che dell' ente completo. Questo è il vero fonte degli errori del pitagorismo. Gli Scolastici dissero ancora: [...OMISSIS...] . Proposero inoltre la questione: « se la mente poteva intendere più cose insieme », e risposero di sì, ma a condizione che essa le pensi per modum unius , riconoscendo la necessità che l' uno entri sempre nell' oggetto del pensiero. Gli antichissimi filosofi poi, onde trasse Platone, non sapendo trovare nel corpo unità, perchè questa unità la volevano cercare nella materia, cioè nel corpo disunito dal principio senziente, e quindi divisibile all' infinito, senza poter mai venire ad un primo esteso, che avesse l' unità e non la potesse più perdere per ulteriore divisione, negarono al corpo l' essere un ente e il poter essere oggetto di scienza; lo cangiarono così in un fenomeno, che il volgo prende per un ente, ma che la filosofia prende per una larva; insomma caddero nell' idealismo, o per dir meglio posero quei principŒ ontologici, onde poi venne l' idealismo platonico. Ma noi abbiamo trovata l' unità del corpo nella relazione essenziale , che esso ha col principio senziente; e convenendo anche noi che, diviso da questo principio, il sentito ed il sensifero più non si concepisce, dicemmo però che questa necessità che ha di essere in relazione col principio senziente non toglie punto la sua realità; ma dimostra solamente che per sua natura esso deve essere unito al detto principio senziente, del quale riceve la perfetta continuità, e quindi l' unità che gli bisogna per essere ente (1). Dall' essere uno l' ente ne viene: Che egli sia intra sè armonico e consentaneo, escludendo ogni contraddizione o pugna; il che lo rende possibile logicamente, come dicevamo, onde altro non esprime il principio di contraddizione che l' unità e la consentaneità dell' ente seco medesimo. La quale immunità da ogni contraddizione e pugna intrinseca nell' ente fu contemplata dagli antichi, e Parmenide l' espresse in quel verso conservatoci da Clemente Alessandrino: [...OMISSIS...] . Che l' ente sia semplice per modo tale che se gli manca qualche cosa di ciò che lo costituisce ente, egli già per questo solo non è più. Il che pure vide Parmenide, ed è espresso in quel verso riportato da Teodoreto [...OMISSIS...] . Ed è per questo appunto che noi traendo fuori le principali proprietà dell' ente, ne induciamo altrettante condizioni e leggi del pensiero. Ma ciò che non vide il nostro antenato Parmenide si fu che vi è qualche cosa che può dirsi ente in via , quando si stacca dalle sue relazioni essenziali , come abbiamo detto, della materia, ecc.. Che essendo l' ente semplice, egli è immune dallo spazio e dal tempo, e costituisce quello che io chiamo il mondo metafisico ; il che pure vide Parmenide, e l' accennò in quel verso che si trova negli Stromi di Clemente, e che dice: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già veduto che l' istante altro non è che il principio od il termine di ciò che dura (sia poi un ente o atto di un ente). Dunque l' istante non si dà, se non si dà la durata; l' istante non si concepisce se non come il limite di questa, e però in questa; a quella guisa che il punto matematico è il termine di una linea, e però si concepisce solo nella linea e per la linea. Il credere che possa darsi un ente che esista per un solo istante, è un' illusione volgare di quelli che non si sono formati il giusto concetto dell' istante. L' istante non avendo alcuna durata affatto, l' ente supposto sarebbe un ente che nulla affatto durerebbe; e ciò che nulla affatto dura, non è ente. Questa è una rilevantissima verità, osservata dalle scuole italiane della Magna Grecia e dedotta dal principio di cognizione. Vediamo come e a quai litigi essa abbia dato cagione. Parmenide espresse distintamente « il principio di cognizione »in questo verso, conservatoci da Simplicio e da Proclo: [...OMISSIS...] e in quell' altro frammento, conservatoci pure da Simplicio: [...OMISSIS...] Il quale è un principio così evidente, così patentemente consentito dal senso comune che non si poteva impugnare se non da una scolastica corrottissima. Adunque i primi e più celebri nostri filosofi nazionali posero a salda base della loro filosofia il principio di cognizione . Ma quando vennero all' applicazione, scontrarono dei nodi difficilissimi. Intesero che se l' ente è la sola cosa pensabile, conveniva investigare la qualità e le condizioni dell' ente per sapere se una cosa espressa in una proposizione era pensabile o no; il che è quanto dire se ella era o non era, se la proposizione diceva qualche cosa ovvero nulla, se fosse un' apparenza ciò che si credeva di pensare o una verità. Ora, fra le prime proprietà dell' ente ben videro che vi erano queste due, l' unità e la durata; onde conchiusero che ciò che non è uno e che non dura , era nulla, nè poteva essere oggetto del pensiero. Ma restringendoci ora alla durata , avendo dell' uno brevemente parlato più sopra, si trovavano tosto uscire ad una conseguenza ripugnante al senso comune. Perocchè non era ancora stabilito il concetto filosofico del moto, quale noi l' abbiamo dato, e però veniva ammesso, e dal volgo passava senza esame nelle scuole, il concetto volgare di esso, che suppone il moto farsi senza interruzione e per continua mutazione, a cagione che le interruzioni brevissime, che lo rendono intermittente, sfuggono, almeno fino ad ora, ad ogni osservazione sensibile, e però non potevano venire neppure in sospetto al volgo, che si attiene all' apparenza dei sensi, nè tampoco cadeva in sospetto ai filosofi, che non avevano ancora per virtù di riflessione trovato cagione di sospettarne. Solamente più tardi si negò il moto per l' imbarazzo che arrecava ai sistemi filosofici; il che era già qualche cosa, ma non soddisfacente al bisogno, perocchè non bastava a spiegare l' apparenza del moto continuo, che era pure innegabile; onde parve una stravaganza ingegnosa anzichè una verità consentanea alla natura; e Aristotele tolse a confutare gli argomenti dell' acuto Zenone invece d' intendere che essi abbattevano solo la continuità del moto, e ciò indubitabilmente, non il moto stesso secondo il suo vero concetto. Ora questa terribile difficoltà, che « se qualche cosa cangiava continuamente stato, niuno dei suoi stati avendo durata di sorte alcuna, non poteva essere concepita, nè essere ente », fu quella che mise quel perpetuo tumulto fra i pensatori, che scompigliò tutto il campo della filosofia, e non ritornò la pace se non colla morte della filosofia stessa, quando per la barbarie dei tempi le scuole filosofiche ammutolirono. Gli Ionici antichi, limitati allo studio della natura, non levatisi ancora alle regioni metafisiche, ignoravano cotanta difficoltà, onde in luogo di trovar difficile la concezione del moto continuo, anzi supposero che nel moto continuo dovesse consistere la vita e l' intelligenza. Aristotele attribuisce questa rozza sentenza a Talete, e dopo di lui a Diogene, ad Eraclito e ad Alcmeone in questo passo: [...OMISSIS...] . Ma dai primi Ionici ai loro seguaci è da fare gran divario; perocchè i seguenti, per esempio Eraclito, compatriotta di Talete, aveva già udita l' opposizione che al moto continuo facevano i metafisici italiani; onde vedendo da una parte la difficoltà di ammettere che ciò che si muove sia un ente, e non sapendo rinunziare all' opinione ionia che tutto si muova, divenne oscurissimo nei suoi parlari a segno di venire soprannominato «skoteinos». Egli ammise, adunque, che tutte le cose erano nel confine dell' ente e del non ente, si facevano e si disfacevano continuamente, come apparisce da queste due sentenze di lui, conservateci nel libro Delle allegorie d' Omero di Eraclide Pontico; l' una: [...OMISSIS...] : il che sembra voler dire che gli uomini, sciogliendosi nei loro principŒ, si convertono in Dei e così fanno la vita degli Dei, che sono i principŒ, e divenendo uomini, acquistando la vita umana, fanno la morte degli Dei, perchè cessano di essere principŒ. L' altra: [...OMISSIS...] ; il che allude al trascorrimento perpetuo delle cose supposto da questo filosofo ( «rhoe»). Dove si vede manifestamente che il sistema di Hegel, che pone per principio il divenire, fu derivato apertamente dal siamo e non siamo del tenebroso Eraclito. E poichè il siamo e non siamo è una contraddizione, il che ripugna all' ente, riesce necessariamente alla distruzione dell' ente, facendo il nulla origine dell' ente; al quale pazzo ed assurdo sistema, se sistema si vuol nominare, nei tempi nostri non disacconciamente fu posto nome di Nullismo (1). Ora a tutti questi assurdi, che distruggono col pensiero l' universo, come pervenne la mente dei filosofanti? - Partendo da due concetti volgari, da due pregiudizi indegni della filosofia, cioè 1 dall' opinione della continuità del moto; 2 dal sensismo. Infatti è facile vedere ciò che l' esperienza attesta, che tutti i corpi si muovono. Se dunque: 1 tutti i corpi si muovono e niente sta fermo; 2 se questo moto è continuo; 3 se niente si conosce se non pel senso, e quindi non altri enti cadono sotto la nostra percezione e cognizione se non i corpi pel principio del sensismo; dunque tutti gli enti a noi noti sono in continua mutazione, e niuno dei loro stati ha durata alcuna. Dunque non sono , ma continuamente diventano . Ma ciò che diventa , ancora non è; dunque non sono enti nell' universo . Ecco il nullismo hegeliano, che ha il pregio d' una buona logica nel dedurre le conseguenze, e il difetto di una volgarità plebea nel ricevere senza esame i falsi principŒ su cui si appoggia. Ora, che tutto il mondo corporeo sia in movimento è ammesso dai moderni fisici, e a persuadersene non è necessario per avventura di leggere il libro di Boyle contro il riposo assoluto. Ma quello che a me sembra strano si è che quel grande ingegno e infaticabile di Leibnizio abbia potuto ammettere la continuità del moto, senza punto nè poco adombrarsi delle difficoltà invincibili che ella involge, nè pur travedere le pessime conseguenze che ella adduce; il che credo io avvenutogli per quella viva fantasia che gli somministrava sì pronte ipotesi, per vaghezza delle quali e per la foga con cui le abbracciava, trasaltava sovente qualche anello nella serie dei suoi ragionamenti (2). Ma per tornare alle disputazioni degli antichi filosofi, essi navigavano fra due scogli. Il dire che le cose fossero in mutazione continua era sentenza che, sospinta dalla logica invincibile di Parmenide quasi da vento impetuoso, rompevasi allo scoglio di un manifestissimo assurdo, qual era quello che niente esistesse di tutto ciò che così si muoveva, perchè incalzava quel grande dialettico l' avversario con quel principio che ciò che nulla dura non è. All' opposto, il negare il moto, del quale altra idea non si aveva che quella che involgeva l' idea di continuità, e quindi il negare la continua generazione e distruzione degli esseri che cadevano sotto i sensi, era lo stesso che un rompere contro ad un altro scoglio, quello di rinunziare al senso comune, giudice autorevolissimo, se pure non si scambia in quello che non è senso comune, divenendo allora giudice piuttosto crudele che severo, che punisce i suoi refrattari con derisione, infamia implacabile e sovente calunniosa persecuzione, senza forma di legale processo. I primi filosofi di Mileto, adunque, ammisero la mutazione continua, seguitando senza alcun sospetto l' apparenza dei sensi, siccome il volgo. Venne Parmenide, e stabilendo il principio somministratogli dall' idea dell' ente, che « « ciò che non ha alcuna durata non ha esistenza » », sgridò quelli che pigliavano i fenomeni sensibili per altrettante verità, affermando che la ragione sola era quella che conveniva seguire, «krinai de logo», essendo essa la potenza che ha per oggetto il vero: [...OMISSIS...] . Ma per quanto fosse insolubile l' argomento di Parmenide, tuttavia parte perchè egli ne cavava delle strane conseguenze, parte perchè ripugnante ai sensi ed all' opinione della moltitudine, non fu guari seguìto, e si tolse piuttosto a negare ogni vero e a cadere nello scettiscismo e nel nullismo, venendo così la filosofia in mano ai sofisti i più sguaiati, dei quali celeberrimo fu Protagora. Poichè dopo Parmenide, da chi intendeva era impossibile ammettere che ciò che muta sempre, fosse ente; onde non vedendosi coi sensi che cose soggette a continua mutazione, si scelse piuttosto di negare l' esistenza di tutte le cose che di ammettere che il senso s' ingannava, deponendo egli il continuo loro rimutare. Così Socrate presso Platone espone il sistema di Protagora e di molti altri: [...OMISSIS...] (1), [...OMISSIS...] . Il qual luogo di Platone è notabile, perchè da esso si può rilevare: Che Parmenide, stabilita la sentenza che a ciò che esiste spetta l' immobilità e la durata come proprietà essenziali dell' ente, negò la generazione ed il movimento (4). Che egli rimase solo in questa sentenza, eccettuati i pochi suoi primi discepoli (1). Che i seguenti filosofi, non potendo da una parte negare che la durata sia proprietà essenziale dell' ente, e dall' altra non volendo negare la mutazione continua, cioè la generazione e il movimento, perchè non ebbero vigore da elevarsi sopra i sensi e di opporsi al senso comune che l' ammetteva; furono costretti a negare l' ente, cioè a negare che qualche cosa veramente esistesse, e così caddero nel nullismo. Che il negare che qualche cosa esistesse era un urtare contro a quello stesso senso comune, per attenersi al quale credevano alla mutazione continua. Quindi, allorchè Protagora ed i sofisti suoi pari dedussero le estreme conseguenze del loro sistema, furono costretti a celarsi al comune degli uomini. Onde narra Platone, nello stesso Teeteto poche linee innanzi, che Protagora teneva due parlari, e che mentre coi suoi stretti discepoli si dichiarava alla scoperta per scettico e nullista, agli altri dava parole ambigue che nascondessero un assurdo così ributtante (1). Finalmente si raccoglie ancora che Platone fu il primo a tentare espressamente come si poteva ritenere la dottrina di Parmenide circa la necessità della durata perchè qualche cosa sia, senza rinnegare il senso comune circa il movimento continuo, ammettendo delle cose che sono (le idee), ed altre cose che diventano (le cose fluenti, che hanno in sè una continua mutazione). Ma veramente neppure Platone giunse a sciogliere il nodo di questo curiosissimo mistero che alcune cose diventino e non sieno; perchè non giunse a vedere che la continuità della mutazione , che tanto impacciava, era un falso supposto, non essendo ella data per nessuno argomento di ragione, ma ammessa gratuitamente per illusione fenomenale (2). Se poi abbia veduto che il fatto del continuo venga dalla semplicità ed unità del principio senziente, ciò non mi consta. Per altro che Parmenide, nei frammenti che di lui ci rimasero, nulla dica della dottrina delle idee , e che questa perciò sia dovuta a Platone, è facile assicurarsene leggendoli. Di che mi sembra poter anche trarsi non improbabile congettura dal dialogo che Platone inscrisse del nome di quel filosofo, dove è Socrate quegli che per primo introduce l' argomento delle specie od idee, ragionando con Zenone discepolo di Parmenide (1); e quegli ed il maestro suo, al ragionare stringente del giovanetto Socrate, sembrano dimostrar qualche sdegno. I frammenti del poema di Parmenide indicano senza dubbio tre sistemi: 1 il primo di quelli che non ammettono se non l' ente, ed è il sistema eleatico; 2 il secondo di quelli che non ammettono se non il non7ente, cioè le cose sensibili soggiacenti a continua mutazione; e di questa opinione fu gravida la filosofia ionica, e divenne in fine il sistema di Protagora e dei sofisti; 3 il terzo di quelli che ammettono ad un tempo l' ente e il non7ente, e a questa classe appartennero poi Platone, Aristotele e i loro seguaci, che tentarono di conciliare in qualche modo l' eterno ed il generabile. Dei due primi di questi sistemi, come dei principali e più recisi, e soli al suo tempo ben disegnati, parla Parmenide in principio del suo poema: [...OMISSIS...] . Ma egli divide in appresso questa seconda via, il cui carattere è di ammettere il non7ente, nelle due: di quelli cioè che ammettono il solo non7ente negando l' ente, e di quelli che pretendono poter ammettere il non7ente insieme coll' ente; onde dice: [...OMISSIS...] ; così descrivendo il senso comune e volgare, che, ammettendo a un tempo ciò che dura e ciò che non dura, crede ai sensi, e non fa distinzione fra ciò che veramente è, e ciò che essendo di continuo fluente, pare solamente che sia. Ma la dottrina eleatica non viene da un principio solo, ma da due, i quali sono: 1 ciò che continuamente si muta e non dura, non è ente, 2 dal niente non può uscire l' ente. Noi abbiamo parlato fin qui di tutta quella dottrina che il filosofo di Elea dedusse dal primo di questi principŒ, la quale dimostra che il mondo sensibile, perchè continuamente mutabile , come da tutti egualmente si supponeva, era apparenza, non7ente. Dall' altro principio Parmenide dedusse altre proprietà dell' ente, cioè l' esser egli eterno, necessario, il tutto (giacchè fuori di lui non poteva essere cosa alcuna), l' universo , [...OMISSIS...] e insomma tutto il panteismo di Senofane. Dove si vede che cosa Parmenide abbia tolto dal suo maestro, e che aggiunto del suo. La dottrina dedotta dal principio, a nihilo nihil fit , gli venne dirittamente da Senofane. La dottrina della necessaria durata dell' ente pare che fosse sua propria, per quanto ne lice congetturare dai frammenti che ci rimangono di quei due filosofi, e specialmente dal libro di Senofane, Zenone e Gorgia di Aristotele. E invero dal solo principio che l' ente debba durare , cioè non essere in mutazione continua, non si può trarre la conseguenza che vi sia un ente solo , e questo eterno, il tutto, ecc. . Se non che a dimostrare che di fatto esistono più enti, è uopo provare che le cose sensibili abbiano durata; conviene dunque abbattere il pregiudizio sì inveterato della continuità del moto, o in generale della continua mutazione; il che noi abbiamo procurato di fare (1). Finito è ciò di cui si può pensare cosa maggiore. Infinito , assolutamente parlando, è ciò di cui non si può pensare cosa maggiore. Non si deve confondere l' infinito coll' indefinito (2). L' indefinito è ciò che, potendo ricevere aumento successivo sempre maggiore, non ha determinata misura, ma si considera semplicemente come suscettivo di una serie continua di aumenti. Quindi l' indefinito non esprime un ente, ma un' idea astratta; per esempio l' idea generica del numero , che risponde a tutti i numeri, i quali sono sempre aumentabili d' una unità, per quantunque grandi si pensino. Quindi è manifesto che l' ente non può mai essere indefinito , perchè l' astratto (di astrazione propriamente detta) non è un ente, come vedemmo; è una veduta dello spirito, un oggetto della riflessione astraente, che limita l' attenzione ad una qualità dell' ente, e che suppone sempre innanzi di sè nella mente la notizia dell' ente, da cui si astrae e in cui l' astratto si vede. Mi fu opposto che io ammetto per oggetto primo dell' intuizione un essere universale, indeterminato, astratto, l' essere ideale. Mi sono spiegato su di ciò in molti luoghi, e in uno fra gli altri ho detto nel Nuovo Saggio circa l' universalità e l' indeterminazione: « « Non è che vi sia cosa che possa essere universale in sè stessa; ogni cosa in quanto è, è particolare, voglio dire determinata. Un universale adunque non significa se non tale cosa, colla quale sola se ne conoscono molte, anzi un numero indefinitamente grande. L' universalità adunque non è che un rapporto; nè può cadere propriamente in altro che nelle idee, perocchè le idee sono cose, siccome abbiamo veduto, con ciascuna delle quali noi conosciamo un numero indefinito di cose, il qual numero si chiama specie »(1) ». Quanto poi all' astrazione che si vuole da me attribuita all' idea dell' essere, mi sono dichiarato pure nel Nuovo Saggio in questo modo: « « Quando io nel corso di quest' opera chiamo l' idea dell' essere in universale astrattissima , non intendo che sia dalla operazione dell' astrarre prodotta, ma solo che ella sia per sua natura astratta e divisa da tutti gli esseri sussistenti »(2) ». E parendomi un perditempo il recar qui ciò che è già stampato, invocherò piuttosto in generale l' attenzione di quelli che mi onorano di loro censure sopra molti altri luoghi, dove dichiaro i miei pensieri, persuaso siccome sono che utilissimi a me ed al pubblico dovranno tornare i loro giudizi anche severi, se si renderanno più attenti. Invece adunque di addurre altri passi delle opere precedenti, aggiungerò qualche nuova considerazione, o in nuovo modo esposta. Potrebbe mai alcuna mente pensare l' idea astratta del colore, senza conoscere nè aver mai conosciuto alcun colore particolare? Potrebbe pensare il suono in astratto, senza aver mai conosciuto alcuno dei particolari suoni, e così delle altre cose sensibili? Non credo. E ciò, si noti bene, non lo induco solamente dall' esperienza, ma dall' intima natura dell' idea astratta di colore, di suono, di sapore, ecc.. Perocchè, che significa l' astratto colore, l' astratto suono, l' astratto sapore? Non altro che ciò che hanno di comune le sensazioni particolari colorate, sonore, sapide, ecc.. Ora ciò che è comune, semplicemente comune a più cose e non proprio di ciascuna, non si può pensare, se non si riferisce in qualche modo ai particolari in cui si riscontra. Ora avviene forse il medesimo dell' essere in universale? - A primo aspetto pare, perchè è comunissimo a tutti i particolari e i reali; ma se più addentro si considera, la cosa non va così; perchè non è semplicemente comune sicchè escluda il proprio , anzi egli abbraccia, in un modo comune, anche il proprio. Perocchè l' essere ideale è ciò che si realizza non solo nella sostanza delle cose, ma ben anche negli accidenti, non solo in ciò che hanno di generico e di specifico7astratto, ma ben anche in ciò che hanno di specifico7pieno, ossia di proprio; sicchè l' essere ideale abbraccia tutto l' ente e tutto ciò che è nell' ente (benchè non in egual modo), e però non è solamente un elemento comune dell' ente con esclusione del proprio. Dunque l' essere ideale ha natura interamente diversa dagli astratti, che esprimono solo ciò che l' ente ha di generico o di specifico7astratto, ed escludono le differenze. Dunque gli astratti non possono esistere tutti soli dinanzi al pensiero, senza cercare qualche appoggio nelle percezioni o nelle specie piene, che le percezioni lasciano dopo di sè nello spirito, perchè da sè soli non sono idee di enti; all' incontro l' idea dell' ente ha eminentemente e per essenza questo carattere di manifestare l' ente con tutto ciò che egli deve avere in sè per essere tale, benchè parte di questo tutto che deve aver l' ente sia in essa solo virtualmente contenuto. Da questa prima differenza ne viene una seconda, che mostra la somma diversità che passa fra gli astratti propriamente detti e l' essere ideale universale . Gli astratti esprimono tal cosa dell' ente che non ha, nè può avere un atto proprio di esistere; infatti nessun astratto da sè solo preso potrebbe somministrare ad un artista il modello di una statua o il tipo di una dipintura. L' atto dell' essere è fuori dell' astratto, o certo è reso dall' astratto impossibile. Niuno concepirà mai alcun atto proprio di essere nel colore astratto o nel suono astratto, o anche nella sostanza astratta (in esclusione all' accidente); ma all' opposto l' idea dell' essere è appunto quella che manifesta ogni atto di essere, e però al suo oggetto nulla manca per essere dal pensiero intuìto; benchè, come abbiamo osservato, il pensiero non determini nulla dentro a quell' idea di speciale, ma non l' esclude, anzi lo suppone, lo richiede, aspettando di trovarlo quando che sia. Dunque i caratteri dell' essere ideale e i caratteri degli astratti non sono i medesimi, sono anzi del tutto opposti. Quello ha tutto ciò che costituisce l' ente, perchè è appunto l' idea dell' ente, e però può essere concepito da sè solo; a questi mancano più cose necessarie all' ente a cui si riferiscono, cose che escludono; quindi non possono essere da sè soli oggetto del pensiero complesso, ma solo del parziale, della riflessione astraente. E qui si vede quale parte di vero e quale di falso contenga quella dottrina di Stewart e di altri nominali, i quali sostengono che gli astratti non sieno che vocaboli , di cui si serve la mente per andare, a suo piacimento, dall' una all' altra idea particolare; al che spiegare adducono l' uso che fanno gli algebristi delle lettere dell' alfabeto per condurre i loro calcoli. Questi filosofi errano: In non conoscere che l' idea è per essenza universale , benchè manifesti l' ente con tutte affatto le sue condizioni e qualità anche accidentali, e che particolare non si può denominare, se non in quanto si considera nella percezione legata con essa; il che è condizione estrinseca all' idea e relativa allo spirito che così la lega. Benchè però l' idea sia di natura sua universale , ella non è di natura sua astratta , perchè può manifestare ogni cosa possibile a cadere in un ente; quindi l' essere ideale, o un essere ideale non astratto, è pensabile senza bisogno di pensare alcun essere sussistente . A pensare un essere ideale non astratto, un' idea piena , non vi è bisogno di segni, ma è necessario o che sia data allo spirito per natura, o che lo spirito la cavi dalla percezione; al che i vocaboli non sono punto necessari (1). Le idee astratte non si possono pensare dalla mente, se nella mente stessa mancano del tutto le idee7piene , a cui quelle si riferiscono; ma è però sufficiente che queste idee7piene sieno nella mente senza attenzione da parte dello spirito; che anzi l' astrarre non è altro, come vedemmo, se non un concentrare e limitare l' attenzione della mente a qualche qualità che si trova nelle idee7piene, rivocando l' attenzione da tutto il resto che nell' idea piena si contiene. Perocchè l' esistenza delle idee o di parte di esse nella mente, senza che questa dia loro attenzione, è un fatto psicologico indubitabile e di somma importanza. Sono cotali idee di continuo intuìte, ma senza avvertenza, o senza avvertenza diretta più ad una che all' altra; e però l' uomo può passare quando vuole dall' idea astratta ad avvertire le idee piene a cui si riferisce, con più o meno di facilità (2). Ora questa è la parte di vero veduto o traveduto dai nominali, di cui parliamo; da questo fatto però, che l' astratto non si può pensare nella mente senza l' idea7piena (confusa da essi coll' idea particolare), indussero falsamente che dunque l' astratto fosse nulla nella mente, e solo un segno fuori della mente. Al che li condusse anche questo: Altra è la questione « che cosa si richieda acciocchè un' idea si possa pensare , sia pensabile », e altra la questione « che cosa si chieda acciocchè l' uomo se la possa formare , venga al fatto di formarsela, di pensarla ». Acciocchè l' astratto sia pensabile, basta che nella mente ci sieno le idee7piene, a cui egli si riferisce e onde lo si toglie. Ma acciocchè lo spirito muova a questo suo atto, si richiede un oggetto, un termine o un motivo che lo spinga a ciò, perchè l' attività dello spirito è sempre suscitata dal termine. E poichè l' astratto come astratto non esiste, quindi non può tirare lo spirito a sè. Ma se è legato ad un segno sensibile, può stimolare e attirare a sè l' attenzione della mente. E quindi fu da noi provata l' utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli astratti; utilità che in altro non consiste se non nell' offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare l' attenzione, nel modo che abbiamo più estesamente esposto nel Nuovo Saggio , e che più innanzi di nuovo sottoporremo ad esame (1). Ora anche questo fatto, non bene osservato dai nominali, li trasviò; perocchè dall' utilità del linguaggio alla formazione degli astratti, conchiusero che essi erano nulla in sè stessi, e però nè possibili a formarsi, nè pensabili senza i segni del linguaggio. Finalmente l' esempio che adducono a conferma di loro dottrina, cioè l' uso che l' algebrista fa delle lettere dell' alfabeto, lungi dal provare per loro, prova il contrario di quello che vogliono. E di vero, altro è ciò che le lettere dell' alfabeto segnano per l' algebrista, altro quel vero che egli vuol ritrovare col loro uso. I segni algebrici segnano delle quantità astratte, egli è vero (e la quantità discreta, fosse anche determinata, è sempre un astratto); ma l' algebrista non li adopera già al fine di segnare semplicemente tali quantità, ma a discoprirne le loro relazioni. Infatti quando scrive a .più . b e d .meno . c , che cosa intende egli di fare? Egli vuole esprimere nel primo caso la relazione di addizione che corre fra due quantità qualunque (astratte e indeterminate), segnate dalle due lettere a e b , e nel secondo caso la relazione di sottrazione che corre fra due quantità qualunque, segnate dalle due lettere d e c . Ora quando egli, facendo un' equazione fra quelle due funzioni, discopre che a .uguale . d .meno . c .meno . b , cioè che il valore a è uguale al valore d meno la somma di c e di b , facendo, dico, questa operazione, la sua mente pose attenzione alla relazione di eguaglianza fra quelle due funzioni, e in conseguenza di questa attenzione le unì col segno di eguaglianza; poi pose attenzione alla conseguenza che ne nasceva, e questa conseguenza fu la scoperta del valore di a rispetto alle altre tre lettere. Se dunque l' algebrista condusse il suo calcolo ponendo attenzione a quella relazione, e, avvertita questa relazione, unì quelle lettere con vari segni, è evidente che la mente pensò alla detta relazione e ai conseguenti prima di averne posti i segni in carta, e pose questi segni esprimenti le dette relazioni dopo averle pensate. Dunque pensò queste relazioni senza i loro segni, ed i segni vennero dopo in conseguenza delle relazioni già pensate dalla mente. Ma le relazioni sono esse stesse astrazioni, sono astrazioni via più elevate di quelle semplici quantità fra cui le relazioni corrono. Dunque l' uso dei segni algebrici dimostra manifestamente che gli astratti sono pensabili per sè stessi senza bisogno dei segni, e che quell' uso sarebbe impossibile, se la mente non pensasse gli astratti effettivamente senza di essi. L' uso adunque dei segni algebrici suppone che la mente sia già venuta in possesso degli astratti, e di astratti molto elevati, e non ispiega punto come ella se li abbia formati; molto meno scioglie la questione « che cosa si ricerchi affinchè sieno pensabili ». Essi solamente aiutano la mente a tener presente all' attenzione la serie delle relazioni, che facilmente svanirebbe per la sua lunghezza e molteplicità. Non può dunque l' ente essere indefinito, e però l' indefinito, non avendo tutto ciò che si richiede ad esser ente, non può da sè solo essere oggetto al pensiero. Ma sebbene l' ente non possa essere mai indefinito (1), tuttavia egli può essere finito o infinito. Ora, ciò che vogliamo con questa legge attentamente osservato si è che la finitezza o l' infinitezza è qualità ontologica, cioè così propria dell' ente che non si può da esso distaccare senza che se ne perda l' identità. Quindi se un ente è finito, per quantunque si accresca o moltiplichi, non cangerà mai la sua natura, rimarrà sempre finito. Viceversa, se un ente è infinito, non si potrà dividere in modo da rendersi giammai finito. E se nell' infinito si potrà colla mente distinguere più cose, converrà che ognuna di esse rimanga infinita e comprenda, con avvertenza o senza, virtualmente o in atto, tutte le altre, altrimenti non si pensa più quell' ente. Quindi un' altra conseguenza: se si pensa l' infinito, conviene pensarlo tutto o niente. E tuttavia si potrà pensare in un modo limitato , ma la limitazione deve rimanere nel modo con cui si pensa, non nell' oggetto del pensiero; e la limitazione consiste solamente nel modo del pensiero, quando il soggetto, che pensa un ente infinito, sa di non pensarlo totalmente, cioè sa che oltre quello che egli ne abbraccia, la natura di lui si estende via oltre senza confine alcuno nè misura, sa che ciò che pensa contiene tutto, benchè non apparisca al veggente che implicitamente, virtualmente; il che appartiene al modo del suo conoscere. Così chi ha poca vista, non vedrà un uomo così perfettamente come lo vede chi l' ha eccellente, e nondimeno entrambi vedranno tutto l' uomo. A chiarir meglio la cosa si consideri che il pensiero ha per oggetto: 1 l' ente ideale, e questo, come vedemmo, non ammette misura; 2 l' ente reale, il quale ammette misura. Due questioni adunque: Come si può pensare l' ente ideale infinito? - Risposta: a quel modo che il fatto dimostra che lo si pensa. Il raziocinio poi di colui che osserva l' essere ideale, tosto s' accorge esser egli così semplice nella sua infinità che non ammette in sè stesso alcuna divisione o separazione, e quindi la questione che si propone neppure è possibile; e piuttosto dovrebbe farsi quest' altra: « Come è che non si può pensare l' ente ideale se non a condizione di pensarlo infinito? ». A cui si risponderebbe come sopra: perchè è semplicissimo ed uno. Come si può pensare l' ente reale infinito? - Risposta: il reale infinito è lo stesso ente, che si vede nell' idea sotto la forma di realità. Ora per la stessa ragione che si vede l' ideale, benchè infinito, per quella stessa non è assurdo che si possa vedere il reale infinito, perchè è quell' uno semplicissimo che nell' ideale s' intuisce. Ma quantunque tali risposte sieno sufficienti a chi ne intende il fondo, tuttavia non crediamo inutile dar loro una più ampia esposizione. Perocchè le percezioni che più chiamano a sè l' attenzione sono quelle dei corpi e delle altre cose contingenti; ond' è che l' uomo suol ragionare della percezione del reale sull' esempio di quelle, quasi non vi potesse essere altra maniera di percepire; e pur coll' esempio di esse non si spiegherà mai la percezione dell' infinito, che appartiene ad un ordine soprannaturale; questo è ciò che rende difficile intendere la possibilità della percezione di un tal essere. I corpi si percepiscono per una vera azione che esercitano in noi; indi ciò che pensiamo nel concetto dei corpi si è un misto di soggettivo e di extra7soggettivo . Questo ente corporeo, che si compone parte del nostro stesso sentimento e parte di un agente in esso, non è oggetto del pensiero per sè, ma è pensato nell' oggetto; l' oggetto dunque è straniero, ma la mente lo unisce qual mezzo necessario al conoscimento. Se consideriamo la percezione di noi stessi in quanto siamo sentimento sostanziale, di nuovo ciò che pensiamo in tale percezione è il mero soggetto , il quale viene da noi oggettivato per la necessità del percepirlo. Quindi essendo il soggetto finito, tutto ciò che si conosce, conoscendo lui, o conoscendo le sue modificazioni, o conoscendo l' agente che lo modifica, non può essere che finito; perchè il finito non può sentire in sè che un' azione modificatrice finita, come finita deve essere la modificazione prodotta. Di più, essendo il soggetto percipiente, cioè noi stessi, molteplice, tutto ciò che si percepisce come passione o modificazione di ciò che è molteplice, e come agente immediato o causa immediata di tale modificazione, non può percepirsi come del tutto uno e semplice, ma con qualche moltiplicità; giacchè dove vi è confine, già per questo solo vi è moltiplicità. L' infinito adunque, a cui spetta la somma unità e semplicità, non si può percepire a questo modo, cioè come una modificazione di noi stessi o come la forza che immediatamente la produce (1). Se vi fosse dunque soltanto questa maniera di percezione, la percezione dell' infinito sarebbe inesplicabile; ma ve ne è bene un' altra. L' infinito ente è essenzialmente oggetto; dunque nella percezione dell' infinito niente può cadere di soggettivo. Ora l' essere oggetto vuol dire che egli si conosce distinguendolo e separandolo da noi, e contrapponendolo a noi. Non trattasi qui di passione , che l' infinito produca sull' oggetto, non trattasi di percepirlo come agente; trattasi di percepirlo semplicemente come ente; se egli è causa di atti transeunti, questi non si possono confondere con lui, sono fuori di lui, non ne costituiscono punto il concetto. L' oggetto dunque non si confonde col soggetto, ma s' intuisce e percepisce in sè stesso, e però egli dal soggetto non può ricevere alcun confine, nè alcuna moltiplicità in sè stesso (1). Se dunque il soggetto nel percepire l' oggetto non lo riceve in sè stesso come un agente, ma solo lo vede da sè distinto, egli non ha bisogno per percepirlo di dargli la propria misura, come accadrebbe, poniamo, nel contatto che la parte toccante è commisurata dalla parte toccata, nè di attribuirgli nulla della propria limitazione; e così è tolta via la difficoltà, è tolta la ripugnanza che un ente finito ne percepisca uno infinito (già s' intende nell' ordine soprannaturale), cadendo affatto il principio di Protagora che « « l' uomo sia la misura di tutte le cose » » (2). Si dirà che questa maniera di percepire oggettivamente è misteriosa. - Sì certo, ed all' uomo appare misteriosa, perchè non ne ha esempio in tutte le percezioni delle cose finite, onde l' uomo toglie arbitrariamente la legge della percezione. Ma non è per questo meno un fatto innegabile, un fatto di cui abbiamo esempio in natura nell' intuizione dell' essere ideale; e il fatto si deve ammettere, anche allorquando appare misterioso all' abitudine nostra di ragionare diversamente; perocchè finalmente niente vi è in esso di ripugnante alla mente, ma solo di contrario, come dicevo, all' abitudine ragionatrice; anzi, la mente contemplativa, che si solleva sopra tali abitudini, le quali limitano la sfera del ragionamento, viene ad intendere che quel fatto è evidente, e così necessario che senza di esso nessuna affatto delle operazioni della mente potrebbe ricevere spiegazione; ogni pensiero di qualsiasi classe rimarrebbe impossibile. Vero è che dalla percezione dell' infinito il soggetto deriva poscia in sè stesso un sentimento di giubilo e di felicità, che è così proprio che non si può confondere con altri sentimenti; e fa intendere la sua fonte infinita. Ma questo sentimento è un effetto della percezione oggettiva; benchè strettamente unito con lei, non è lei, e con lei non si può mai confondere. Il qual sentimento è finito; ma posciachè è indivisibile dalla percezione oggettiva, perciò pare che sia infinito anch' esso, in quanto che nell' unità dell' uomo la percezione oggettiva è così congiunta con esso che ne forma, siccome a dire, il compimento e la sommità. Onde presa la percezione oggettiva in unione col sentimento, che nel soggetto ella produce, presa tutta assieme questa comunicazione dell' infinito al finito, se ne ha che la cognizione dell' infinito riesce da una parte infinita, dall' altra finita. Ella è infinita quanto all' oggetto intuìto e percepito, ed è finita quanto al sentimento di lei prodotto nel soggetto. Ed anche per questa ragione si può dire assai giustamente che dai celesti comprensori Iddio si percepisce tutto e non totalmente; in quanto che l' oggetto è tutto Iddio, ma il sentimento, prodotto da quell' oggetto nei comprensori, non è tutta l' azione che Iddio potrebbe far sentire. Si percepisce adunque Iddio tutto come ente , non si percepisce totalmente come agente . Ma noi dobbiamo dichiarare come Iddio possa essere agente in quelle creature intelligenti, che lo percepiscono. Il concetto di Dio, come agente nei soggetti che lo percepiscono, si può falsare in due modi: l' uno, facendo che Iddio non agisca nulla e agisca il soggetto solamente, derivando dall' oggetto infinito della propria percezione il sentimento gaudioso che lo felicita; l' altro, facendo che Iddio agisca nel soggetto in un modo soggettivo, al modo come gli enti finiti fanno nell' uomo, semplicemente modificandolo. Fra questi due partiti erronei ve ne è uno di mezzo, che è il vero. Stabilito adunque che Iddio percepito sommamente agisce in chi lo percepisce, e che Iddio non agisce modificando immediatamente il soggetto, quale è questo modo di agire nel soggetto finito proprio di Dio solo, che non istà nel produrre una semplice modificazione o passione? Si noti che, quando diciamo modificazione o passione semplice , noi veniamo a dire che la sostanza del soggetto non viene cangiata, nè aumentata, e molto meno prodotta; ella è quella di prima, nella stessa quantità; solo che è in un modo nuovo; ovvero (e questo esprime ancor meglio il concetto che vogliamo) l' agente, che lo modifica semplicemente, non la produce, ma la suppone prodotta e capace di ricevere in sè la sua azione. All' incontro, l' operare divino si fa sempre per via di una cotale creazione (1), con un atto cioè che pone l' ente col suo quale e quanto, e non suppone già l' agente sussistente in cui operi. La ragione di ciò si è che Iddio è causa di tutto l' ente, e facendo Iddio ogni cosa con un atto solo e semplicissimo, forza è che con quell' atto stesso con cui pone la sostanza, ponga anche gli accidenti di lei, qualunque durata essi abbiano, e non produca gli accidenti con un atto diverso. Ciò ripugnerebbe non solo all' unicità e semplicità dell' atto col quale Iddio fa tutto quello che fa, ma ripugnerebbe ancora alla somma semplicità della sua sostanza (1); perocché la sostanza di Dio e la sua azione sono il medesimo, laddove nelle creature altro è la sostanza, altro gli atti della sostanza. Infatti noi vedemmo che nelle sostanze create possono cadere atti transeunti, laddove Iddio può essere causa di atti transeunti, ma questi non possono mai cadere in lui, sì bene da lui debbono restare distinti. Essendo adunque nelle creature create distinte le attività dalla sostanza , accade che l' una agendo nell' altra, entri nell' altra solamente coll' attività sua, ma non colla sostanza; e che l' attività di una non possa modificare che la sola attività dell' altra, e non mai produrre la stessa sostanza. Se dunque Iddio fosse agente immediato nelle sostanze, e così modificasse le loro attività senza creare le sostanze stesse, ma presupponendole esistenti; in tal caso l' attività di Dio entrerebbe nelle sostanze contingenti, e non la sostanza divina, poichè ciò che è passivo e modificato non riceve mai la sostanza, ma l' attività sola di ciò che è attivo e modificante; e così vi sarebbe in Dio una divisione reale fra il suo operare ed il suo essere, il che è assurdo. Dunque Iddio non può agire che per via di creazione, cioè creando il tutto dell' ente contingente in ogni momento, creando l' ente con tutte le sue modificazioni, perocchè sarebbe assurdo egualmente il dire che Iddio entrasse colla sua sostanza in un ente che non è ancora. Dunque la sostanza stessa non può essere mai ricevuta in un ente come paziente. Le quali cose tutte premesse, non sarà più difficile intendere come Iddio percepito possa agire, e agire sommamente in chi lo percepisce. Perocchè in questo fatto avvengono due cose: Il soggetto intelligente, a cui è data la percezione di Dio, e quindi possiede Iddio come oggetto del suo intelletto, può colla propria attività stringersi a lui, e goderlo con quanto ha di forza per via di amorosa contemplazione. Nello stesso tempo queste forze, colle quali egli fruisce di Dio, gli sono date a misura da Dio stesso come suo Creatore, cioè come quella causa che lo produce totalmente con tutti quegli atti ch' egli fa di fruizione. Quindi il godimento è limitato, perchè è un atto del soggetto (il quale atto però è creato da Dio col soggetto), ma l' oggetto del godimento è infinito. In questo senso è che Iddio si percepisce tutto , e non può percepirsi altrimenti che tutto, perchè indivisibile; e nondimeno non può percepirsi totalmente rispetto al bene che se ne deriva dal soggetto, perchè la natura del soggetto, e le forze di questa natura, e gli atti di queste forze sono limitati. Ma di qui medesimamente avviene che ciò che si gode di Dio, è sempre Dio, perchè si gode tutto Dio. Per la limitazione adunque dell' atto, con cui un soggetto intelligente aderisce a Dio, accade che sembra che si divida Iddio; giacchè diversi oggetti, dotati di diversa misura di forze, ne godono diversamente. E tuttavia tutti godono dell' infinito; ed è in questo senso che dicevamo che « l' essere infinito o finito appartiene all' ente, all' oggetto del pensiero »e non si può mai cangiare l' uno nell' altro; quantunque, godendosi l' infinito più o meno, sembra dividersi, impicciolirsi o ingrandirsi nel nostro concepimento, quando questo piglia a misura la relazione dell' ente infinito colla sua fruizione. Ma questa cotal maniera d' impicciolimento relativo non toglie mai da lui l' infinità; la quale se cessasse, incontanente l' ente oggetto della mente sarebbe un altro. Con questo si spiega ancora come Iddio si può concepire, sempre in un modo negativo o virtuale, sotto vari concetti della sapienza sussistente, della bontà e santità sussistente, ecc., perchè in ciascuno di essi vi è egualmente l' infinito. La moltiplicità dei concetti (toltine quelli delle persone) nasce tutta dal soggetto, e dalla diversa e molteplice esperienza che egli ne prende, perchè egli stesso è limitato e molteplice. Ma poichè la percezione di Dio appartiene all' ordine soprannaturale, qui si presenta la questione se questa moltiplicità di concetti, sotto i quali l' uomo può pensare lo stesso Dio, debba al tutto cessare nella beata visione. Alla quale questione, non poco difficile, ci sembra di potere rispondere quanto segue. In prima si ritenga che se colla mente si divide dall' oggetto del pensiero qualche cosa che è a Dio essenziale, quell' oggetto non è più Dio. Ora a Dio è essenziale che la sussistenza e l' essenza sieno la medesima cosa, il medesimo essere semplicissimo. L' essenza dunque dell' essere, separata dalla sussistenza , non è Dio. Il perchè, non intuendo l' uomo per natura che l' essenza dell' essere, l' essere ideale e non la sua reale sussistenza, quell' essenza non si può dire l' essenza di Dio; e però l' uomo per natura non intuisce Iddio; il qual vero egualmente è provato dall' esperienza, dalla ragione e dalla fede cristiana. E di vero per accertarsi che non vi sia per natura nell' intelletto umano la divina sussistenza, che vi sia una pura idea dell' essere, basta che l' uomo rifletta sopra sè stesso. Una gran parte degli uomini non solo non troveranno di avere per oggetto naturale del loro intendimento la sussistenza stessa dell' essere, ma non sapranno neppure osservarne in sè stessi l' essenza . Se avessero la sussistenza divina per oggetto del loro pensiero, ella è tal cosa e sì preziosa che niuno l' ignorerebbe. D' altra parte la ragione prova che il supporre ciò non è necessario a spiegare nessuna delle operazioni dello spirito umano; di più, che intuendo Iddio ognuno potrebbe esser beato a sua voglia, avendo con ciò in sua mano il fonte della beatitudine; ciò che non s' avvera. Finalmente il dire che l' uomo vede Dio per natura è un errore manifesto contro la fede cristiana , che riserba la visione di Dio ai celesti. Se dunque all' uomo quaggiù non è dato di vedere l' identità fra l' essenza e la sussistenza dell' essere, e perciò non gli è dato di vedere Iddio, forza è ch' egli acquisti la cognizione dell' Essere supremo per via di ragionamento e non d' immediata intuizione. Ora il ragionamento lo conduce a conoscere che Iddio è, ma non il modo come egli è, che nella sua sussistenza si nasconde (1). Nella visione beatifica all' incontro, percependosi la sussistenza dell' essere, si vedrà il nesso d' identità fra questa sussistenza e l' essenza dell' essere stesso, il qual nesso rivela Iddio; e però lo si vedrà sicuti est , cessando l' imperfezione del ragionamento, et scientia destruetur . Ma qualora poi si voglia indagare per via di ragionamento « se questa sussistenza divina ci apparirà scevra da tutte le relazioni colle creature », è da dirsi anzi, pare a noi, che si vedrà nella relazione creatrice che ella ha colle creature e non altrimenti; e in questa relazione si contempleranno le infinite sue perfezioni, come abbiamo altrove dichiarato (2). Ora, poichè la relazione di Dio colle creature è molteplice, non da parte di Dio, ma delle creature che sono pur molte, perciò appariranno molteplici le perfezioni divine, ma in modo diverso da quello che ci appariscono ora quaggiù. Perocchè noi ora non sappiamo raggiungere le perfezioni divine al loro semplicissimo fonte, in cui l' una coll' altra e tutte coll' essere stesso s' identificano; ed allora sapremo. Vedremo adunque che quelle perfezioni divine, che nelle creature appaiono ed appariranno anche allora moltiplicate, altro in Dio non saranno che il suo essere stesso semplicissimo; il che ora vediamo dover essere, ma il come ci è un mistero, perchè nessuno esempio di ciò troviamo nella natura. Sicchè con diversi concetti potremo anche allora esprimere a noi stessi l' essere divino; ma in ciascuno di essi vedremo lo stesso essere, e però quella molteplicità non ci porrà impedimento di sorte a vedere Iddio siccome egli è, perchè ad un tempo vedremo e come in molte relazioni la perfezione divina si espanda, e come in tutte sia una sola ed identica, primordiale ed essenziale perfezione. Di più, noi al presente quando pensiamo ad una perfezione, per esempio alla sapienza, la vediamo limitata, e solo ragionando per quella via che i teologi dicono di eminenza, intendiamo che in Dio ella deve essere illimitata; onde dicevamo che, quando pensiamo Iddio come la sapienza sussistente, ecc., quel nostro concetto che ci formiamo di Dio, è virtuale e non attuale. Allora non indurremo questa necessità per ragionamento, ma vedremo immediatamente che la cosa è così, la vedremo come un fatto, perchè vedremo la sapienza stessa infinita e necessariamente infinita; e però molto più intenderemo immediatamente come ella possa essere tale. Se dunque la perfezione divina ci apparirà allora così una come è il punto centrale di un circolo, identico in sè, e pure principio e termine di tutti i raggi; è chiaro che ognuna delle perfezioni divine basterà allora a farci conoscere tutto Iddio, come quel termine o principio di uno solo dei raggi basta farci conoscere il centro del circolo; e però in ognuna di esse vedremo sempre lo stesso infinito. Così l' ente infinito, benchè sembri dividersi pei suoi vari rispetti sotto cui si considera, non cessa mai di essere ente infinito; così l' infinità è condizione appartenente all' ente stesso infinito, come la finitezza all' ente finito. E però vale la legge del pensiero da noi proposta. Tali sono le principali leggi ontologiche, che segue il principio razionale nelle sue operazioni. Ora dobbiamo passare a quelle che presiedono all' operare della ragione pratica. La ragione, che noi chiamiamo pratica, non è già la ragione in quanto determina ciò che s' abbia a fare o sia conveniente; questa è ancora speculativa. La ragione pratica è il principio razionale7operante (1); ora a questo principio razionale operante sono imposte le leggi ontologiche, di cui parliamo. Quali sono queste leggi? Esse debbono essere necessariamente quelle stesse della ragione teoretica, perchè questa è la ragione nei primi suoi atti, di cui gli atti susseguenti appartengono alla ragione pratica; onde tali leggi non possono mancar mai senza mancar la ragione. Essendo dunque la ragione pratica anch' essa ragione , non essendovi che uno stesso principio razionale che, in quanto conosce dicesi teoretico, in quanto opera dicesi pratico (2), è evidente che le stesse leggi, che hanno vigore nella speculazione, debbono aver vigore nell' operazione, giacchè quelle leggi nascono dalla natura del principio comune. La ragione teoretica è ella stessa che diventa pratica, quando opera; ella opera come ragione, cioè come conoscitrice; perciò le leggi del suo conoscere debbono essere le leggi del suo operare. Queste leggi sono dunque naturali alla ragione, come le leggi della comunicazione del moto sono naturali ai corpi. Ma qui insorge una difficoltà. La natura sensitiva ed anche la natura meramente sensibile ubbidiscono sempre alle loro leggi; perchè la ragione le infrange? E di vero la ragione le infrange, sia quando cade nell' errore , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è teoretica, sia quando cade nel peccato , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è pratica. Il rispondere semplicemente che ella è libera e perciò può infrangerle, non soddisfa alla difficoltà, perchè non fa che annunziare il fatto che sembra contraddire al concetto della legge; e la difficoltà proposta appunto richiede che si tolga via questa contraddizione, richiede che si dimostri che esistono leggi veramente naturali, le quali possano rimanere tuttavia violate, laddove la condizione di legge naturale sembra esigere che non possa esser violata giammai. La soluzione della difficoltà si trova, quando si osserva che nelle operazioni del principio razionale intervengono agenti stranieri, soggetti ad altre leggi diverse da quelle della ragione; onde la violazione delle leggi di questa accade per collidersi di varie leggi di diversa indole; il che anche è ciò che spiega il mirabile fatto della libertà umana. Noi ne abbiamo parlato (3); ritorniamoci sopra dopo avere annunciata la legge suprema della ragione pratica. Dobbiamo dimostrare che il principio di cognizione, che costituisce la legge suprema secondo cui opera la ragione teoretica, presta pure alla ragione pratica la legge suprema secondo cui deve operare; di maniera che, se la ragione teoretica ha questa legge: « l' ente è l' oggetto del conoscere », la ragione pratica ha quest' altra: « l' ente deve essere l' oggetto del conoscere pratico ». Si dice che la ragione teoretica opera secondo il principio di cognizione, perchè ella o non opera al tutto, o è necessitata, se opera, a seguitarlo, giacchè gli errori stessi, come vedemmo, si debbono attribuire alla ragione pratica. Si dice all' incontro che la ragione pratica deve operare secondo lo stesso principio, perchè l' operazione di questa può essere in due modi, o conforme alla sua legge o difforme; se è conforme, ella è retta; se difforme, torta. Questo è appunto quello che dicevamo aver bisogno di chiarimento; ci si conceda di premettere alcune nozioni. L' ente insensitivo non è soggetto di male o di bene. Egli opera secondo le necessarie sue leggi, e però è sempre ordinato; solo l' uomo, che esige da lui altro da quel che fa, gli appone per una cotale illusione arcana il male ed il bene. Il che avviene perchè l' uomo lo lega alle sue idee, a cui pure non è legato. « Questo - dice - deve essere una pera; ed ecco ella è rosa dai vermini; dunque è mala ». Sì, se fosse vero che dovesse essere una pera perfetta ed avere ciò che si contiene nell' idea di pera; ma questo debito non c' è nella pera; misuratela coll' idea specifica piena , e la troverete quale deve essere; il misurarla coll' idea astratta è considerare una relazione di quell' oggetto, che non entra a costituire l' ordine intrinseco di lui, ma l' ordine ipotetico ed estrinseco con una idea che gli si impone (1). La materia insomma, qualunque figura s' abbia, non è soggetto , perchè il soggetto è sempre un ente principio , e il concetto di materia è quello unicamente di ente termine . L' ente sensitivo e il razionale, all' incontro, è soggetto di male e di bene. Il bene dell' uno e dell' altro consiste in un' attività, a cui si riduce anche il loro male; perchè ciascuno può avere un' attività conforme alla sua essenza o difforme da essa; nel primo caso trovasi in buono, nel secondo in malo stato. L' essenza del principio senziente vuole che l' attività sua si possa spiegare senza trovare ostacoli da parte del suo termine; se trova ostacoli, nasce il dolore, che è il suo male. Il simile accade nel principio razionale; egli ha un' attività che, secondo l' intento e il conato della sua essenza, vuole spiegarsi in un dato modo; se per qualsivoglia cagione quell' attività non si spiega così, ma in un modo diverso, vi è il disordine; il principio razionale soffre, perchè non può non sentire il proprio disordine, essendo tutto sentimento. Ma se fin qui lo stato buono o tristo del principio sensitivo e del razionale si può raccogliere sotto una stessa formula, ben presto si manifesta l' infinita differenza che passa fra il bene ed il male del principio sensitivo e del razionale. Questo è ciò che dobbiamo dichiarare. La differenza fra il bene ed il male dell' uno dei due principŒ, e il bene ed il male dell' altro, nasce dalla differenza che hanno i loro termini; perocchè sono i termini che suscitano le attività e ne determinano la natura; il bene ed il male d' un ente, suscettivo di bene e di male, giace, come dicevamo, nel diverso modo secondo cui è disposta l' attività sua propria. Ora il termine dell' attività sensitiva è l' esteso materiale e le passioni di esso; il termine poi del principio razionale è l' ente . Quindi l' attività sensitiva è la sede del bene dell' ente sensitivo, che vi è quando può estendere nell' esteso le sue passioni a misura del proprio istinto; l' attività razionale poi è sede del bene del principio razionale, quando aderisce, senza contrasto e lotta, all' ente termine suo. Di qui la prima legge della ragione: « aderisci all' ente ». Infatti il principio razionale non può cessar mai di essere razionale, e però non può cessare di avere per suo termine l' ente. Dunque se il principio razionale ha un' attività propria, anche questa deve avere per termine l' ente. Ma il principio razionale ha veramente una sua propria attività, e non è meramente ricettivo. Dunque la legge di quest' attività gli deve venire dall' ente, secondo il principio che ogni soggetto suscettivo di bene e di male ha il bene, quando aderisce perfettamente al suo termine, ed ha il male, quando non aderisce al suo termine in quel modo che la sua essenza esige. Il principio razionale adunque, tanto allorchè è meramente ricettivo e prende il nome di ragione teoretica , quanto allorchè è attivo e prende il nome di ragione pratica , essendo lo stesso principio, non può avere che lo stesso termine onde deve ricevere le leggi dell' operare. Ma in quanto è ricettivo, il principio razionale non facendo che ricevere al modo suo proprio, quale è quello dell' intuizione, non dipende da sè l' unione col termine, appunto perchè riceve e non fa; ma dipende dal termine stesso, dall' ente che gli è dato ad intuire. Onde la sua costituzione è fissata e determinata da una necessità a lui straniera; da quella necessità che lo costituisce quello che è. All' incontro, in quanto è attivo, il principio razionale pone da sè il suo atto; se lo fa, è egli che lo fa; se non lo fa, è egli che non lo fa; egli stesso ne è la causa. La necessità dunque di questo atto non può mai essere tale, quale è la necessità della ricettività dell' ente; perocchè quand' anche l' attività del principio razionale non si spiegasse alla sua propria e retta azione, tuttavia il principio razionale sarebbe; all' incontro questo principio non sarebbe, se egli non ricevesse l' ente. Vi è dunque questa prima differenza fra il principio razionale in quanto è teoretico e in quanto è pratico, che l' atto primo teoretico è necessario alla costituzione di esso, e niun atto pratico è necessario alla sua costituzione . Vero è che questo solo fatto basterebbe, come accennavamo di sopra, a dare piena ragione del perchè un principio possa deviare dalla sua propria legge naturale . Ma la compiuta spiegazione si trova esaminando che sia la libertà morale, come questa potenza si costituisca, come risulti dal contrasto di agenti categoricamente opposti che si collidono; cose tutte da noi già svolte, e che dobbiamo credere note al lettore. Rimane dunque a vedere che cosa sia quell' attività del principio razionale, rimane a trovarne la propria natura, perocchè la parola attività è comune a tutti gli enti. Si deve dunque in prima differenziare l' attività del principio razionale da tutte le altre attività, e poi distinguerla dall' attività ricettiva e primordiale della ragione teoretica. Trattandosi di un principio razionale, ella non può essere che attività razionale; deve dunque essere una maniera di conoscere. Ma il primo conoscere è quello della ragione teoretica. L' attività dunque della ragione pratica conviene che sia un altro conoscere, un conoscere con compiacenza nell' oggetto conosciuto, un appropriarselo, e trovare in esso il proprio bene. Quindi l' ente rispetto alla ragione pratica riceve il concetto di bene . Per caratterizzare poi con una parola questo conoscere attivo e vivace, fornito di compiacenza, noi lo chiamiamo riconoscere pratico . E questo atto della ragione pratica è il primo atto della volontà . La legge suprema adunque della ragione teoretica è la legge suprema altresì della ragione pratica. La differenza non istà che nella diversa relazione che l' una e l' altra ragione tiene collo stesso termine: la ragione teoretica ha coll' ente la relazione da noi dichiarata di ricettività , e la ragione pratica tiene collo stesso ente la relazione da noi dichiarata di adesione . Quello dunque che abbiamo detto della legge suprema della ragione teoretica, applichiamolo alla ragione pratica. E prima abbiamo distinto il pensare intero dal pensare astratto , e osservato che questo può bensì tirare a sè la nostra attenzione e divenire il termine esclusivo di essa; ma tuttavia non può stare da sè solo nella mente umana, nella quale forza è che vi si trovi sempre il pensare intero , sebbene vi stia negletto ed inosservato; e ciò perchè, essendo « l' ente l' oggetto del conoscere », non si può dare alcun conoscere, se non vi sia nella mente tutto ciò che è essenziale all' ente, benchè parte di ciò possa essere nella mente in un modo, per esempio accompagnato da attenzione, parte in un altro modo, non accompagnato da alcuna attuale attenzione. Ora questa dottrina è importantissima per la pratica; la ragione pratica ha in essa una legge nobilissima, e propriamente « la suprema regola della prudenza ». Perocchè l' attenzione è una forza che già appartiene alla ragione pratica, ma è un' attività che influisce sulla ragione teoretica, e ne avvigorisce gli atti; perocchè la ragione pratica, come vedremo anche meglio in appresso, ha un' azione che si ripiega in vari modi sulla stessa ragione teoretica. Nell' attenzione, adunque, la ragione pratica già comincia ad operare, e le cognizioni, a cui lo spirito dà attenzione, riescono più facilmente ed efficacemente norme e principŒ dell' umano operare. Indi può accadere che l' uomo diriga le sue operazioni in due modi, o secondo ciò che conosce col pensare intero e complessivo , o esclusivamente secondo ciò che conosce col pensare astratto e parziale . Se le operazioni umane corrispondono al pensare intero e complessivo, esse pure sono intere e complessive; se si limitano ad avere per norma il pensare astratto, esse sono manchevoli ed imperfette. In questo appunto stà la suprema regola della prudenza, che si può formulare così: « Opera a tenore del pensare intero »; o con espressione negativa: « Guardati dall' operare dietro un pensare astratto e parziale ». Solamente qui è da por mente che l' operare secondo la norma del pensare intero e complessivo può essere di due maniere, più o meno perfetto. Se il pensare è intero, ma non analizzato, privo delle astrazioni, l' operare sarà sostanzialmente prudente; ma gli mancherà qualche cosa di accessorio, e però riuscirà imperfetto negli accidenti. Laonde vi sono due gradi di prudenza; l' uno è di quelli che operano secondo il pensare intero e complessivo, ma senza analisi ed astrazioni, l' altro il più perfetto, di quelli che operano secondo il pensare intero e nello stesso tempo secondo il pensare astratto, non pigliando questo da sè, ma unito col primo, cioè considerando le astrazioni siccome congiunte cogli oggetti su cui vennero formate. Benchè questa dottrina sia importantissima, io mi astengo dall' aggiungerle qui un maggiore sviluppo, potendo il lettore trovare un luminosissimo esempio della sua efficacia nell' applicazione, che ne abbiamo fatto, alla prudenza politica nell' opera intitolata La società ed il suo fine (1), dove abbiamo chiamato semplicemente facoltà di pensare quella del pensare intero e complessivo, e facoltà di astrarre l' altra. Dalla qual regola generale procede quella più speciale, che si enuncia così: « « Nell' operare attienti alla sostanza, e non sacrificare essa giammai agli accidenti », svolta da noi in un' apposita operetta (2) ». E nell' oggetto del pensare intero deve necessariamente entrare la sostanza, che è il primo atto di ogni ente reale; la sostanza non può mancare che nell' oggetto del pensare astratto (3). Dopo di ciò, come la ragione teoretica ha diversi atti, che noi riducemmo a tre, d' intuizione , di percezione e di riflessione , così le leggi proprie, a cui questi diversi atti soggiaciono, debbono riprodursi, ossia avere le loro corrispettive, nella ragione pratica ; il che ora dobbiamo noi svolgere. L' intuizione ha per oggetto l' ente, tutto l' ente, ma sotto la forma ideale. Ora, posciachè l' ente ideale non si può godere in altro modo, nè unirsi a lui che per via di contemplazione, perciò la ragione pratica ha per legge sua propria l' inclinazione alla contemplazione dell' idea , che diviene poi secondo diversi rispetti verità, tipo, bellezza, ecc.. Ogni inclinazione propria di un ente è legge del suo operare; perocchè il suo operare, e in generale la sua attività, è in buono stato, quando è conforme all' essenziale e naturale sua inclinazione. Acciocchè poi l' inclinazione alla contemplazione delle idee riesca all' atto, debbono avverarsi certe condizioni. Altrimenti la naturale intuizione rimane senza sforzo di attività, e però teoretica, non pratica. L' una e la principale di queste condizioni si è « il confronto dell' ente reale coll' ideale », perocchè l' ente reale è propriamente il termine dell' attività razionale; ma poichè ogni essere reale è dato al principio razionale per mezzo dell' idea e nell' idea, quindi avviene che quell' attività, che viene mossa dal termine reale, ricada anche in sull' idea, ed in questa, mossa che sia una volta, possa affissarsi. Così si sviluppa la contemplazione attiva , che anche si può dire semplicemente la contemplazione in opposizione alla semplice intuizione . Come poi in ogni atto del principio razionale vi è una compiacenza, così vi è pure l' amore, il quale, definito in modo generale, è « la fruizione dell' oggetto ». In secondo luogo l' intuizione produce altresì nel principio razionale l' inclinazione o predisposizione verso ogni ente reale, perocchè l' essenza di ogni ente reale è già compresa nell' ideale, benchè virtualmente, cioè così che non vi si vede il modo dell' ente fino che non è percepito. E questo è ciò che insegnano comunemente i filosofi, quando dicono che: [...OMISSIS...] . L' essere ideale adunque, oggetto dell' intuizione, produce nell' uomo per sè stesso solo inclinazioni e propensioni, e non atti, che vengono poi in appresso, ricevutine gli stimoli opportuni; le quali inclinazioni si possono ridurre a due: 1 inclinazione alla contemplazione; 2 inclinazione ad ogni bene reale conoscibile (2). Veniamo alla percezione, e vediamo che cosa dalle leggi, a cui soggiace la percezione, provenga nella ragione pratica. La legge della percezione è questa, che « l' ente limitato, percepito nel sentimento, si riporti all' essere ideale e in esso si vegga », di modo che nella percezione vi è: 1 il sentimento o realità; 2 l' ente ideale; 3 il rapporto d' identità (imperfetto) fra quello e questo. L' ente ideale è infinito e per sè completo. Dunque se l' ente reale si percepisce razionalmente riferendolo a lui, si percepisce insieme con esso la sua misura; perchè riportandolo al totale dell' essere, si vede fra gli enti reali qual più e qual meno prenda dell' essere, lo realizzi in sè stesso. Ora essendo il termine della ragione pratica l' ente quale è dato dalla ragione teoretica e da tutte le sue funzioni, è termine altresì di quella l' ente percepito. E perchè l' atto della ragione pratica consiste nell' aderire al suo termine, perciò ella deve aderire all' ente percepito in quella guisa che è percepito. Ma è percepito misurato dall' essere ideale, sicchè l' un ente percepito è percepito come maggior ente, e l' altro come minor ente. Dunque è legge della ragione pratica che ella aderisca agli enti secondo la loro misura. Ed anche quando il soggetto non percepisce che un solo ente reale, egli pur vede al confronto dell' ideale se sia limitato o illimitato; e deve aderirvi tale quale egli è, cioè con affezione misurata ad esso e proporzionata. Ora questo è il principio morale, « la legge dell' ordine morale », che prescrive che il riconoscimento affettivo sia compartito agli enti reali conosciuti, proporzionalmente alla loro misura, considerata sì rispetto all' ente completo ideale, e sì comparati fra loro, se sono più (1). Di qui un' altra nobilissima conseguenza, che il bene morale è di natura infinita, in quanto ha sempre per oggetto l' ente infinito. Perocchè l' ente limitato non è mai presentato dalla percezione solo e rispetto a sè, ma sempre unito all' ideale, che è completo ed infinito; e da questo misurato. Onde l' oggetto della ragione pratica non si ferma mai all' ente reale7finito, ma lo congiunge coll' ideale infinito e con questo insieme lo costituisce suo bene, aderendo a lui solo in quel tanto che l' essere ideale7universale gli prescrive. Onde l' atto dell' adesione ubbidisce a questo essere ideale7universale come sua suprema norma e regola; e lo tiene per conseguenza in maggior riverenza di ogni reale finito. E in questo sta appunto il carattere essenziale di ciò che è morale, di abbracciare sempre il tutto dell' essere , e finire in questo tutto, e secondo questo tutto regolarsi; e però esso è un bene di natura infinita , non comparabile a nessun altro bene finito, quale è il bene eudemonologico scompagnato dal morale, che termina nel finito. L' uomo adunque per la bontà morale è ordinato rispetto a tutto l' essere, all' essere infinito; e però quest' ordine, anche secondo il costante e uniforme giudizio degli uomini, ha un infinito prezzo. Nè vale il dire che l' ente reale, a cui si aderisce, è finito, perchè non si aderisce a lui se non aderendo prima all' ideale infinito, che misura e determina la quantità di adesione a quello dovuta. Vero è che se l' ente reale fosse egli stesso infinito, il bene morale sarebbe infinito da due parti, rispetto alla dignità infinita della norma che si venera su tutte le cose finite, e rispetto all' oggetto reale. Ma benchè in questo caso la moralità sia infinitamente maggiore che nel primo, perchè ella acquista un prezzo infinitamente infinito, tuttavia anche nel primo caso vi è una infinità di prezzo; chè, come abbiamo veduto, l' infinito è una proprietà ontologica, che non si può perdere in parte, ma o si perde tutta ovvero rimane tutta, cioè rimane l' infinità, tale essendo per natura e non per addizione o secondo la quantità. Riconoscere praticamente ciò che prima si conosceva teoreticamente è l' atto proprio della ragione pratica, in cui consiste la moralità. Il primo atto dunque della moralità si fa per via di riflessione. Ma la riflessione è doppia, astraente e integrante; a cui si può qui aggiungere una terza funzione, quella di semplicemente riconoscere ciò che si conosce, senza esercitarvi sopra nè l' astrazione, nè la riflessione. Quindi anche la ragione pratica deve avere tre funzioni: 1 il riconoscere volontariamente quello che si conosce; 2 il riconoscerlo con astrazione, con divisione e separazione; ossia riconoscere una parte solamente di ciò che si conosce; 3 il riconoscerlo con integrazione. Se la ragione pratica riconosce l' ente conosciuto semplicemente per quello che è nella cognizione teoretica, ella fa l' atto suo naturale, si unisce al termine determinatole dalla sua propria essenza, dall' essenziale sua inclinazione; il suo atto è buono. Ma se ella, invece di riconoscere semplicemente tutto il suo termine, vuole astrarre da qualche parte di esso e vuole aderire solo ad un' altra parte, ella non consegue la totalità del suo termine, e quindi è viziosa, il suo atto è malvagio. Di maniera che in ogni atto immorale vi è sempre un' astrazione arbitraria e contro natura. Da che poi l' uomo possa essere sedotto ad operare in opposizione all' essenza del suo principio razionale, che è egli stesso, fu da noi altrove chiarito (1). Di più, il restringere che fa la ragione pratica, e chiudere la propria attenzione e attività in una parte dell' oggetto conosciuto, è privarsi di una parte di lume, un accecarsi. In ogni vizio adunque e in ogni atto vizioso vi è qualche ignoranza e qualche cecità, la quale produce anche le coscienze erronee, di cui riesce poi cotanto difficile all' uomo interamente spogliarsi e pur solo avvertirle (1). Quanto poi alla riflessione integrante come funzione della ragione pratica, ella presta un nobilissimo ufficio alla perfezione dell' uomo, perocchè lo innalza a Dio, e con ciò l' ordine morale riceve l' ultima sua perfezione, e la ragione pratica è giunta all' ultimo divino suo termine, che quale principio e fine delle cose, e quale essere essenziale compie l' ordine dell' ente conosciuto. Poichè allora la ragione pratica ha già per suo termine non solo tutto l' essere sotto la forma ideale, ma ben anche sotto la forma reale, benchè con una cognizione negativa. Così la religione è il fastigio della morale; e come la morale nemica alla religione non è morale, anzi somma empietà, così la morale senza religione è una casa fabbricata senza tetto, il quale rimase solo disegnato in sulla carta dall' architetto. Veniamo ora alle leggi ontologiche speciali della ragione pratica: la prima è quella dell' oggettività. Noi abbiamo veduto che per la legge dell' oggettività la ragione: 1 non modifica il suo termine; 2 non apprende la sua azione, ma lui stesso; 3 e l' apprende senza apprendere insieme sè stessa, anzi finendo col suo atto fuori di sè, in lui. Queste tre qualità dell' operare razionale debbono riscontrarsi sì nella ragione teoretica che nella pratica; perocchè l' una e l' altra è ragione. Ma come tali leggi sono necessarie alla ragione teoretica, la quale da esse viene costituita quello che è, e però sono leggi essenziali, così rispetto alla ragione pratica, che soggiace ad agenti stranieri al suo oggetto, non ne costituiscono l' essenza, ma la perfezione, il bene proprio, e però non sono necessarie in questo senso, ma convenienti; non hanno necessità fisica , ma morale . Essendo dunque legge morale alla ragione pratica quello stesso che è legge essenziale alla teoretica, ne procede che: Come è legge essenziale alla ragione teoretica il non modificare il suo termine, così la pratica deve astenersi dal pur tentare di modificarlo, di alterarlo, di farlo diverso da quello che è, perchè ciò sarebbe un deviare dalla legge del principio razionale, un non operare più razionalmente. Ora per questo appunto noi ponemmo una facoltà dell' errore e del vizio diversa dalla facoltà di conoscere; perchè l' attività della ragione pratica, viziosamente alterando la misura e la stima degli enti, si oppone al conoscere anzichè produrre un conoscere. Come è legge essenziale della ragione l' apprendere l' ente e non ricevere l' azione dell' ente che, entrando nel soggetto, lo modifichi, quindi è che il principio razionale pratico deve, come sua legge, considerare il valore dell' ente in sè stesso, indipendentemente dall' accidentale e reale azione che egli esercita in lui, dovendosi misurare coll' essere ideale, e non coi soggettivi vantaggi e danni; e secondo la misura, che dal confronto coll' essere ideale riceve, conviene apprezzarlo. La reale azione adunque, che l' ente esercita in noi, non deve muovere la nostra ragione pratica a stimarlo diversamente da quello che, considerato rispetto all' ente ideale e nell' ente ideale, vale per sè. Perocchè altro è l' operare nostro in conseguenza dell' azione reale che esercita un ente o piuttosto un agente in noi, altro è operare in conseguenza della misura verace dell' ente (nel quale certo si comprende anche la sua attività e attitudine ad operare in noi ed in altri), rilevata per via di confronto coll' essenza dell' ente, che nell' essere ideale7universale la mente intuisce. L' operare secondo questa misura è operare razionalmente , e quindi moralmente; l' operare per impulso dell' azione reale in noi è abbandonare la legge della ragione, per seguitare quella dell' essere reale, o cieco o meramente sensibile (1). La ragione pratica adunque deve dirigersi secondo l' oggetto , e non secondo il soggetto . Come è legge essenziale della ragione apprendere l' ente con esclusione di sè stessa, in quanto è apprendente, quindi la ragione pratica, per operare razionalmente, deve seguitare l' ente suo termine in modo da dimenticare affatto sè stessa (soggetto), a meno che ella non fosse nell' ente, nell' oggetto compresa (oggettivata). Il che ritorna alla legge precedente di operare secondo l' oggetto , ma di più dimostra il perchè l' uomo virtuoso dimentichi sè stesso, e quale sia l' origine della bella semplicità del giusto, consistendo questa preclarissima dote in operare il bene senza pur volgere l' occhio agli stimoli soggettivi, come pure s' appalesa qui l' origine della generosità , della magnanimità , del sacrificio . Veniamo alla legge del sintesismo della ragione. Quale è la conseguenza, che questa legge adduce nella ragione pratica? La conseguenza si è che come il principio razionale ha una dualità, perchè esce di sè e si affissa e quasi dimora in cosa diversa ed opposta a sè soggetto, cioè nell' oggetto, così, qualora la ragione pratica opera consentaneamente alla propria legge della ragione, non solo ella è ordinata e soddisfatta in sè stessa (bene morale7psicologico), ma ella diede altresì all' ente suo oggetto ciò che a lui si aspetta, l' esigenza dell' ente fu pure soddisfatta (bene morale7ontologico). Viceversa, se la ragione pratica devia dalla legge propria della ragione, ella produce due mali: 1 disordina sè stessa, non unendosi e spiegandosi verso al suo termine, come esige la sua natura (male morale7psicologico); 2 ma ben anche pone un disordine fra lei e l' ente, non essendo osservata la relazione naturale fra i due termini (male morale7ontologico). Quindi è che il male morale non può essere riparato pienamente col solo emendare il disordine rimasto nell' attività pratica, il che non è che un restituire l' ordine psicologico , ma conviene di più che all' ente, di cui non si rispettò l' esigenza , si dia una soddisfazione, e così si restituisca l' ordine ontologico; il che spiega l' origine della giustizia punitrice e vendicatrice, e della soddisfazione penale. Se dunque vi è chi abbraccia tutto l' ordine ontologico in sè stesso, e presiede perciò alla conservazione di lui (e questi è Dio), è manifestamente uopo che la giustizia di lui esiga soddisfazione penale del male morale a favore dell' ente che fu oltraggiato. Egualmente da dirsi del bene operare. Oltre il buono effetto psicologico, che nasce dal bene morale nell' ordine interiore del soggetto che lo produce, deve conseguirne un premio ontologico. Ma questo è vario secondo l' ente particolare , di cui fu rispettata l' esigenza. Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda sè stesso (oggettivamente considerandosi), egli ne avrà di bene ontologico l' amore e la stima accresciuta di sè medesimo (testimonianza della coscienza, che è cosa diversa dal sentimento dell' armonia psicologico7morale). Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda i suoi simili, il premio ontologico, a cui ha diritto, è nell' amore e gratitudine dei suoi simili; e l' Ente supremo che presiede all' ordine ontologico lo deve compensare, se gli vien negato; come pure deve punire questa ingiusta negazione nei suoi simili, che glielo ricusano. Se finalmente l' uomo retto operò quel bene che riguarda Iddio, questi gli riserva premi degni di lui e della virtù morale verso di lui esercitata. Il quale discorso vale egualmente rispetto al male. Ma giova che noi vediamo più distintamente come il bene ed il male morale sia sempre duplice, psicologico ed ontologico ad un tempo, confrontando questo bene, proprio dell' attività del principio razionale, col bene proprio dell' attività del principio sensitivo. Il termine del principio sensitivo è da lui indiviso, ha con lui un' unione od una relazione di attività reciproca; il termine del principio razionale è essenzialmente a questo contrapposto, e non vi è fra essi congiunzione di reciproca attività, non essendo uniti che per una relazione intuitiva. Quindi tutto il male del principio sensitivo si riduce in quello che produce a sè stesso, e non è male suo quel che produce in altrui, sì perchè l' esteso materiale suo termine non è suscettivo, come dicevamo, di male e di bene, sì perchè ciò che è da lui disgiunto non è suo termine. Quindi se un cane morde un uomo, non si dice che egli stesso il cane da questa azione ritragga alcun male; e se lo si dice cattivo, l' appellazione si riferisce unicamente al male da lui prodotto, ed è piuttosto un traslato che un parlare proprio. All' incontro il principio razionale, avendo per termine un oggetto da sè distinto, ogni qualvolta ha fatto male altrui, per esempio al suo simile, egli ha operato contro alla legge che gl' imponeva il termine della sua attività, l' ente; e ciò per le dette leggi di oggettività e di sintesismo, per le quali questo termine è a lui presente. Dunque il principio sensitivo è soggetto al male per una sola ragione, perchè la sua attività può trovarsi sconcertata nel naturale suo istinto; all' incontro il principio razionale è cagione del male a due titoli: 1 a cagione dello sconcerto che egli produce nell' ordine ontologico, alterando la relazione naturale fra gli enti, e così tentando da parte sua di distruggere l' ente in universale, che ha questo ordine intrinseco; il che a lui viene imputato come a cagione; 2 per lo sconcerto che indi nasce in sè stesso, che non aderisce al suo termine naturale secondo la legge della sua propria costituzione. Ond' è che la necessità morale è oggettiva e soggettiva ad un tempo (1). Applichiamo ora la seconda legge della ragione, che dice: « il termine del pensiero è il possibile », alla ragione pratica. Tosto ne avremo due nobilissime conseguenze. La prima si è che la ragione pratica ha per suo termine l' essenza degli enti in relazione al realizzamento di lei. Abbiamo veduto, parlando della legge della percezione, che la ragione pratica deve aderire all' ente reale secondo la misura di lui, e che la misura di lui è determinata dall' essere ideale7universale. Questa misura è l' idea specifica dell' ente di cui si tratta; e questa idea specifica è sempre l' essere ideale considerato come manifestativo di quell' ente reale. Vi è dunque: 1 l' essere ideale universale, misura prima, assoluta, misura di tutte le misure degli enti reali; 2 vi è l' idea specifica, misura prossima dell' ente reale; 3 vi è l' ente reale misurato. La legge prima sta nella prima misura misuratrice delle altre; il che è quanto dire che la ragione pratica deve operare secondo la sentenza di questo misuratore, deve abbracciare la misura che egli assegna. La legge seconda sta nella misura prossima; il che è quanto dire che la ragione pratica, avuta questa misura dal misuratore, deve tenerla per norma della sua stima e della sua adesione all' ente reale. Sopra l' ente reale adunque vi sono queste norme della ragione pratica; onde l' ordine morale viene alla ragione pratica da quelle leggi che le prescrivono il contegno, che ella deve tenere verso a ciascun ente reale. La ragione ultima adunque del rispetto morale è l' idea, e l' ente non è apprezzato se non in quanto lo prescrive l' idea . Ora l' idea contiene l' essenza dell' ente. Dunque il rispetto della ragione pratica termina nell' essenza dell' ente; e l' ente reale è apprezzato non in sè stesso e per sè stesso, ma nella sua essenza e per la sua essenza. Ma l' essenza dell' ente, trattandosi di enti contingenti, è ideale, e prende il nome di possibile , quando si considera rispetto alla sua realizzazione. Dunque il termine ultimo conveniente alla ragione pratica è l' essenza possibile della cosa in relazione col suo realizzamento. Di qui si scorge perchè è atto morale non solo il rispettare un ente reale secondo la misura della sua essenza ideale, ma anche il tendere a realizzarne l' essenza. Poichè se la ragione pratica ha per oggetto il realizzamento dell' essenza, ne viene che se questo realizzamento ancora non è fatto o è imperfettamente, ella tenderà a produrlo, e a produrlo nel modo più compiuto e perfetto; se poi è già prodotto, ella tenderà ad aderire all' ente reale perfettamente realizzato. Quindi i due atti morali: 1 di aderire all' ente reale (giustizia speciale); 2 di realizzare l' ente ideale (beneficenza, carità); e questo secondo si parte in due, l' atto di produrre e l' atto di perfezionare (1). Da questa stessa dottrina procede la legge del realizzamento completo delle specie o dell' esclusa eguaglianza , che segue il Creatore nella formazione e nel governo del mondo (2). Noi di sopra parlavamo degli enti contingenti. Ma si può applicare un simile ragionamento all' Ente supremo, necessario ed assoluto. Perocchè, quantunque l' Ente supremo abbia la sussistenza e realità nella sua essenza, tuttavia la sua essenza non è meno manifestativa della sussistenza e realità sua; o per dir meglio la sussistenza dell' essere supremo in quanto si fa conoscere col proprio lume, in tanto è legge imposta alla ragione pratica, e in quanto vive compiuta in sè, in tanto è oggetto reale della stessa ragione pratica. La seconda conseguenza, che noi deduciamo dal sapere che il possibile è il termine della ragione, si è che la ragione pratica ha per legge sua propria l' armonia nell' oggetto. L' essenza, che non abbia in sè la sussistenza dell' ente, si dice possibile, considerata in relazione al suo realizzamento. Possibile logicamente è tutto ciò che non involge contraddizione; onde dicemmo che l' oggetto della ragione, l' ente, è immune da ogni contraddizione, consentaneo seco stesso, pienamente armonico. Dunque la ragione pratica, essendo anch' essa ragione, forza è che per operare secondo la sua natura abbia un termine armonico, immune da contraddizione. All' incontro l' uomo vizioso, se ben si considera, ha sempre per termine del suo operare una contraddizione; egli si sforza di fare l' impossibile. Infatti è impossibile distruggere l' ordine intrinseco dell' essere universale, fare che l' ente considerato secondo la sua essenza sia diverso da quello che è, perchè le essenze sono immutabili. Ora quando un uomo, invece di riconoscere, secondo la sua misura, l' ente concepito, vuole riconoscerlo secondo un' altra misura arbitraria, egli rappresenta a sè stesso l' essenza dell' ente mutata quanto alla sua misura, e quindi di maggiore o minore prezzo del vero. Egli si rappresenta dunque il falso per oggetto di sua attività; ma egli non lo si presenta già come falso, ma come vero. Perocchè niuno può pienamente e assolutamente volere ingannarsi, e ogni vizioso tende necessariamente a persuadere a sè stesso che il bene da lui voluto è vero bene; e se si potesse a pieno convincere che neppure hic et nunc è vero bene, non lo seguirebbe giammai, cioè non abbandonerebbe il vero bene per ciò che già conoscerebbe non essere bene. Certo che egli può colla ragione speculativa conoscere che s' inganna; ma non lo riconosce colla ragione pratica. Egli dirà a sè stesso che il bene che lo seduce non è bene in generale, e che arreca dopo di sè maggior male; ma egli vuole in pari tempo che gli sia bene per il presente, astraendo dal futuro, astraendo dalle conseguenze o da mille altre considerazioni; perocchè, come dicevamo, è per astrazione che la ragione pratica devia dalla strada, che le prescrivono le naturali sue leggi. Se dunque vuole praticamente e nell' atto di operare che sia bene quello che è male, egli tenta con questa sua attività di snaturare e distruggere la verità, di fare che quello che è in un modo sia a lui in un altro, tenta di mutare l' ordine dell' ente. Ora l' ente in tal caso entrerebbe in contraddizione seco medesimo. Perocchè alla ragione teoretica sarebbe una cosa, avrebbe una misura; alla ragione pratica sarebbe un' altra cosa, avrebbe un' altra misura. Quindi la ragione pratica, tendendo con un vizioso operare di mettere l' ente in contraddizione seco stesso, tende di fare l' impossibile. Dove si appalesa l' origine della lotta incessante e della implacabile battaglia, che ogni vizioso agita nel proprio seno, e della pace e concordia seco stesso dell' uomo giusto (1). Le quattro leggi seguenti della ragione non fanno che definire ciò che non può costituire il suo termine; e rispetto alla ragione pratica hanno la stessa efficacia negativa. Per essa appare che non vi può essere il termine proprio della ragione pratica, qualora il termine che ella prende di mira manchi o dell' atto primo, o dell' unità, o della durevolezza, o della determinazione. Tutto ciò viene a dire che il termine della ragione pratica deve essere qualche sostanza. Quindi ciò che è accidente non può costituire un termine proprio alla ragione pratica, la quale deve riferire ciò che è accidentale a ciò che è sostanziale. Noi l' abbiamo veduto parlando della legge della prudenza. Di più, ciò che è corporeo, non avendo unità propria, ma mutuandola dal principio senziente (nel quale solo ha la continuità), non può essere vero termine alla ragione pratica. Neppure il principio meramente senziente7animale costituisce il termine finale della ragione pratica, come quello che non è ente completo, ma solo un cotal rudimento di ente; è in via ad essere ente. Oltre di che, dovendo questa sempre spingersi all' infinito, il che la rende morale, e il principio animale niente avendo in sè dell' infinito, egli non può essere in alcun modo ultimo termine alla ragione pratica. L' essere intelligente all' incontro, essendo quello che ha sua sede nell' infinito, nell' essere ideale, nell' essenza dell' ente in universale, in quanto che in questa si affissa e riposa; partecipa della dignità di questo, perchè è a questo ordinato, e quindi ha ragione di fine e di termine della ragione pratica. Ma posciachè anche fra gli esseri reali7intelligenti vi è un ordine, e il reale finito non è che una produzione dell' Infinito che lo crea, così è necessario alla ragione pratica di aderire all' ente intelligente finito in modo da riferirlo al suo principio, a Dio creatore; nel quale solo s' acquieta interamente come in suo termine ultimo, completo, assoluto. E questo basti delle leggi ontologiche, a cui ubbidisce il principio razionale; passiamo ora al secondo genere, cioè alle leggi psicologiche. Quantunque il termine sia quello che suscita l' attività del principio a cui è congiunto, tuttavia dopo di ciò il principio ha pur egli un' attività sua propria. Il termine del principio razionale nella vita naturale è duplice, cioè l' ente ideale e il reale finito (il mondo). Questo doppio termine deve suscitare nel principio razionale una doppia attività. E poichè questa doppia attività deve ricevere in non piccola parte il suo modo di operare dalla natura del principio stesso, ossia dell' anima, quindi le leggi psicologiche debbonsi dividere in due classi; e sono quelle che rispondono alle leggi ontologiche, e quelle che rispondono alle leggi cosmologiche. Ma delle leggi cosmologiche noi non abbiamo ancora parlato, ma solo delle ontologiche. Gioverà dunque che qui noi ci limitiamo ad esporre le sole leggi psicologiche che alle ontologiche rispondono, rimettendo a parlare dell' altra classe più innanzi. Tuttavia noi non potremo farlo, prescindendo al tutto dalle leggi cosmologiche; ma ciò che ci verrà detto intorno a queste, sarà un acconto di quanto dovremo dire di poi, quando tratteremo exprofesso di esse. La legge ontologica generale, che riassume tutte le altre, si è: « il termine del principio razionale è l' ente »; e però se manca qualche condizione essenziale dell' ente, non c' è più il termine del principio razionale; all' incontro, se non manca niuna condizione, quel principio, avendo il suo termine, esercita in esso la sua attività. Per applicare debitamente questa legge all' uomo ci convenne osservare quali sieno le condizioni essenziali dell' ente. E primieramente osservammo: Che l' ente ha tre forme, e che sotto ciascuna è compiuto; quindi che può essere dato ad un soggetto l' ente sotto la forma ideale, senza che gli sia dato sotto le altre due forme. Che non potrebbe tuttavia essere dato l' ente sotto la forma reale e morale senza la forma ideale, perchè l' ente ideale è quello che manifesta l' essenza dell' ente , e l' ente non può essere oggetto del pensiero sotto nessuna forma, quando gli manchi la sua propria essenza (1). Che l' ente sotto la forma ideale essendo per sè oggetto, il principio razionale che ne è informato, non può avere altro termine che sotto la forma di oggetto. Da queste verità si raccoglie: Che il principio razionale, in quanto è per natura intellettivo, non ha che quella attività che gli può essere data dall' ente ideale. Che il detto principio, quando si dividesse affatto dal sentimento fondamentale7animale, s' acquieterebbe nell' ente ideale, suo naturale termine. Che non è suscettivo di alcuna mozione a qualche altro atto, se non è tirato a ciò da un nuovo oggetto. In queste proposizioni si contengono già i semi delle leggi psicologiche, che ci proponiamo di esporre; cominciamo dal considerare l' ultima. L' ultima delle tre proposizioni enunciate viene a dire che, se si suppone che il principio razionale non sia mosso ad operare da alcun altro oggetto che dall' ideale, egli si rimane in perpetua quiete, nulla opera al di là dello stesso atto intuitivo pel quale è unito al suo termine. Infatti chi ricerca le leggi soggettive secondo le quali opera il principio razionale, può intendere di fare due cose, cioè può intendere di risolvere due questioni. Questione prima : secondo quali leggi si muova ai suoi atti secondi. Questione seconda : secondo quali leggi, posto che sia già mosso, egli eseguisca il suo movimento. In quanto alla prima questione, è da rispondere che il principio razionale non si muove a nessun atto secondo, se non gli è dato un nuovo oggetto oltre l' ente ideale, se non gli è dato qualche cosa di reale. Ma posciachè l' ente reale, termine del pensiero, può essere finito o infinito, incompleto o completo, e quando è infinito e completo, la stessa essenza si vede nell' ideale realizzata, e però egli stesso è per sè oggetto; quindi l' attività, che verrebbe suscitata dall' ente reale infinito nel principio razionale se gli si comunicasse, sarebbe veramente ontologica; e in questo caso si può ricercare quali sarebbero le leggi soggettive7ontologiche del principio razionale. Ora è evidente che l' attività suscitata nel principio razionale in tal caso sarebbe massima, e tuttavia semplicissima, cioè tutta si ridurrebbe a un atto, che riposerebbe e si acquieterebbe nel suo termine senza più; e però, compiuto quest' atto, non si darebbe altro movimento se non quello che vi potesse essere dal passaggio fra l' ideale e il reale; atto di compiacenza in vedere che quel reale compie tutto l' ideale, e che l' ideale esprime e, per così dire, illumina tutto quel reale. Al quale passaggio incessante di attenzione e di contemplazione ella potrebbe essere mossa da ciò che nel reale stesso ritroverebbe di identico e di distinto dall' ideale (1). Ma lasciando la comunicazione dell' ente reale infinito, ogni comunicazione del reale finito non può suscitare che una attività cosmologica, e quindi esser fonte di sole leggi cosmologiche, non ontologiche. Suscitata poi questa attività, è certo che il modo dell' operare del principio razionale trae dall' ente ideale, e perciò è ontologico, e vi possono essere leggi ontologiche7soggettive, benchè col solo ente ideale o infinito7reale non vi possa essere che quell' atto semplice, che termina in esso ed ivi si quieta. Questo bisogno dunque, che ha il principio razionale di nuovi oggetti per fare nuovi atti, è quello che chiamiamo legge psicologica d' inerzia , che fa sì che quel principio non possa muoversi dalla quiete ad alcun atto per sè stesso, se non quando l' oggetto stesso a sè lo tira e il muoversi gli concede; benchè già in moto, egli possa diverse cose operare secondo l' altra legge della spontaneità (1). Se dunque l' anima umana, ossia il principio razionale, non si muove che quando gli è dato il termine, come spiega egli tanta attività in sì varie operazioni, che lo conducono ad un immenso sviluppo? Non parrebbe per avventura che non vi fosse nulla di mezzo fra l' essergli dato l' oggetto e il non essergli dato, delle quali due supposizioni nella seconda non potrebbe avere operazione, nella prima avrebbe l' operazione semplicissima dell' unirsi all' oggetto e in lui riposare? Rispondo che così appunto dovrebbe avvenire, se l' anima non avesse un' attività propria di lei come principio; la quale attività non sarebbe, è vero, se non vi fosse l' oggetto, ma, posto l' oggetto, ella è, ed ha sue proprie leggi, che sono appunto le leggi psicologiche che noi andiamo investigando. E primieramente l' unirsi all' oggetto si fa in due modi, come già indicammo, l' uno speculativo , l' altro pratico . Ora l' unione meramente speculativa è l' atto primo di unione, e questo è determinato dalla presenza dell' oggetto, ed è però unione ontologica; ma l' unione pratica si fa per l' attività propria del soggetto, e quindi ella è unione psicologica (1). Di che noi vedemmo che le leggi ontologiche della ragione speculativa sono fisicamente necessarie, come venienti dall' oggetto e dalla virtù creatrice che pone l' anima intuente l' oggetto, e però non traggono dall' attività razionale dell' anima, ma questa anzi per esse si crea. All' incontro, quando cercammo se la ragione pratica avesse leggi ontologiche e quali fossero, noi non trovammo leggi ontologiche della ragione pratica, che fossero fisicamente necessarie (2), ma solo leggi necessarie moralmente. Che vuol dire leggi ontologiche moralmente necessarie? Vuol dire tali che non determinano l' operare fisico di lei, ma il morale; non determinano ciò che ella veramente fa, ma ciò che che deve fare per essere perfetta. La ragione pratica adunque ha due specie di leggi: quelle secondo le quali la sua propria natura la fa operare, e queste sono psicologiche; e quelle secondo le quali deve operare per essere perfetta, e queste sono ontologiche e morali . Queste ultime le abbiamo già esposte, quelle prime prendiamo ora ad esporle. Ma posciachè la ragione pratica non è che una cotal continuazione della ragione teoretica, come gli atti secondi sono una cotal continuazione dell' atto primo, perciò la ragione pratica non opera mai sola, ma colla stessa ragione teoretica, onde muove come da sua origine; di che avviene che nell' operazione della ragione pratica si vedono già adempiute le leggi della teoretica; dal che però non deriva che le une sieno le altre, conviene anzi guardarsi dal confondere insieme tali due maniere di legge distintissime. L' attività e spontaneità psicologica , adunque, si compone ottimamente coll' inerzia psicologica , poichè questa consiste nel non poter l' anima operare senza oggetto; e quella nell' unirsi più e meno, e in diversi modi all' oggetto, quando questo le sia già dato. Affine però di avere più chiara nella mente questa conciliazione, gioverà qui riassumere in breve tutto lo sviluppo psicologico , raccogliendo dai vari luoghi dove ne parlammo. Esso procede coi seguenti passi e modi di operare dello spirito, ai quali tutti soggiungemmo la loro ragione sufficiente. Il principio razionale non si muove, se non gli è dato l' oggetto a cui si possa unire. Se questo oggetto è il solo ente ideale, infinito, egli s' acqueta in lui, e l' azione in tal caso è semplicissima (intuizione), come semplicissimo è l' oggetto; nè gli rimane ad andare più in là col suo movimento, il quale è giunto al suo compiuto termine. Se l' oggetto è un reale dato nel sentimento, questo promuove la percezione, la quale ha del molteplice, racchiudendo tutti insieme: a ) l' ideale infinito; b ) l' ideale in quanto mostra l' essenza del reale, concetto del reale, misura del reale; c ) l' affermazione del reale, cioè della realizzazione del concetto. Ma tutto ciò quasi direbbesi organicamente unito. Se l' affermazione del reale o la sua memoria cessa per qualunque ragione, rimane nella mente il concetto della cosa, sorretto da qualche vestigio reale di sentimento, che ne fa le veci. Ma un reale, percepito dalla nostra ragione teoretica , può divenire oggetto alla nostra volontà (attività psicologica) non solo in quanto è concepito , ma in quanto è reale . Questi sono due modi diversi di unione dell' anima coll' oggetto. Infatti la volontà talora si diletta semplicemente di conoscere attualmente una cosa (diletto di contemplazione), ed allora le basta di avere l' oggetto presente nella concezione della ragione teoretica, soddisfacendosi in contemplarlo, che è atto di ragione pratica (1). Ma talora non basta alla volontà di contemplare l' oggetto conosciuto; ella appetisce la sua fruizione sentimentale, l' appetisce come reale, come termine del sentimento, non come termine semplicemente della cognizione. E rispetto a questa unione reale possono aver luogo due specie di volizioni: le affettive e le appreziative (1). Nelle volizioni meramente affettive il principio razionale non fa che secondare l' istinto, e quindi si contiene negativamente rispetto al termine dell' istinto, concependolo bensì nell' ente, ma non apprezzandolo distintamente come bene. Nelle volizioni appreziative interviene e precede l' atto di appreziazione. Ora la volizione appreziativa (perocchè restringeremo ora a questa il discorso), che appetisce il reale come termine del sentimento, è varia secondo che vari sono i sensorii e i modi coi quali i sensorii si uniscono al loro termine. Quindi: Se si tratta del sensorio della vista, basterà, perchè abbia luogo la volizione appreziativa, che il reale sia presente agli occhi; la percezione visiva del reale sarà l' oggetto dell' appetito; basterà il contemplare una bella frutta che penzola rosseggiante da un albero per appetirla. Se si tratta del tatto, non le basterà che il reale sia ad una certa distanza dove possa esser veduto, ma lo vorrà vicino, sotto le sue mani; per esempio, il bambino vorrà che gli si spicchi e che gli si dia in mano, per contrattarla, quella bella frutta che vede rosseggiare sull' albero. Se si tratta del gusto o del senso alimentare, si vorrà poter mangiare lo stesso oggetto; il bambino vorrà poter mettere alla bocca e mangiare quella frutta. E così si dica di ogni altro sentimento. In generale adunque si brama che il termine appetito venga unito al senso a cui appartiene, in quel vario modo che la natura del sensorio esige. Quindi è che il reale concepito dalla ragione teoretica, qualora dalla volontà sia appetito come reale termine dei sentimenti, riceve la natura di fine rispetto alla volontà, la cui attività tosto si muove a cercare i mezzi per conseguire quel fine. I quali mezzi possono essere trovati per un gioco di volizioni meramente affettive , ovvero può muoversi la ragione pratica a trovarli con volizioni appreziative e calcolatrici. In questo ultimo caso la ragione pratica già muove la ragione teoretica a trovare i detti mezzi . E tuttavia non è qui da conchiudere che con ciò si formino i concetti astratti di fine e di mezzo; niente vi è ancora di veramente astratto nella ragione teoretica, ma ella opera dietro le relazioni degli enti, senza astrarre da essi queste relazioni, che vede negli enti e non in separato da essi, benchè con atti che hanno già un termine complesso e molteplice; le cui parti però sono come organi di un solo tutto, inteso nel tutto e pel tutto. Questa maniera di operare per fine e mezzi, senza conoscersi ancora astrattamente il fine ed il mezzo, non appartiene al pensare astratto , ma al pensare molteplice; perocchè nell' oggetto del pensiero vi può essere molteplicità senza astrazione. Così abbiamo veduto che nell' oggetto della percezione si distinguono tre elementi; eppure ella è una sola operazione, e l' oggetto è uno, benchè organato. Ma questa relazione di mezzo e di fine è già un legame fra le idee e le percezioni. Altri legami poscia si manifestano, che le associano in mille forme, e di molte fanno un solo pensiero. E l' istrumento che dà nuova attività al pensiero è l' associazione e la spontaneità dei fantasmi; poichè noi abbiamo veduto essere legge del principio razionale che ad ogni sentimento egli unisca l' idea. Quindi i fantasmi eccitano il pensiero. Ora è proprio della fantasia l' avere un cotal moto spontaneo per sì fatta guisa che al suscitarsi di un solo fantasma se ne suscitino altri (1). Di conseguente anche i pensieri vengono da tale stimolo tratti a succedersi. La fantasia ha oltracciò la legge dell' abitudine, e questa le viene imposta anche in parte dai pensieri; poichè come i fantasmi muovono i pensieri corrispondenti, così i pensieri muovono i fantasmi. Ora i pensieri sono legati dai loro nessi logici, e però anche i fantasmi corrispondenti si abituano a rappresentarsi in una serie, quasi direbbesi, ragionata. Poichè quella serie di ragionamenti, che la mente una volta ha percorso, già lega e produce la serie corrispondente di fantasmi. Quindi poi quelle serie ragionate di fantasmi, legate a tenore dei diversi ragionamenti, vengono a suscitarsi in noi abitualmente, tostochè se ne sia dato l' impulso al nostro sensorio interno, e dietro ad esse tornano i congrui ragionamenti. Così l' abitudine, a cui soggiace la fantasia, passa alla facoltà di pensare con quella abbinata; ed è questo che noi chiamiamo fantasia ragionante , ovvero abitudine ragionante , della quale ci gioviamo a spiegare i fenomeni dei sogni, delle distrazioni, ecc.. E qui si rifletta che questa abitudine ragionante , che incomincia già a questo grado dello sviluppo intellettivo, molto più si accresce ed amplifica cogli altri gradi dello svolgimento del pensiero che siamo per descrivere. L' associazione delle percezioni e delle idee fa sì che un reale diviene segno di un altro, e la percezione di un' altra percezione. Così comincia a formarsi naturalmente una lingua. Di più la natura, l' istinto, insegna all' uomo ad adoperare cogli altri questa associazione delle percezioni, perchè l' uomo che vuole tendere ad un fine, ha bisogno talora di fare che i suoi simili lo sappiano, essendo questa cognizione data ai suoi simili un mezzo col quale ottiene il fine desiderato. La sapienza poi del Creatore ha fornito l' uomo, fra gli altri modi di comunicare altrui i suoi bisogni e le sue volontà, di uno strumento acconcissimo a ciò, qual' è la facoltà dei suoni articolati; e gli ha dato l' istinto di produrli anche come semplice conseguenza fisica dei suoi sentimenti e pensieri. Perocchè l' uomo, quando sia animato da qualche sentimento più o meno grande, manda per istinto suoni dalla sua bocca, anche se egli è solo; giacchè il guizzo della sua lingua, e il cacciamento dell' aria dal petto, e l' acconcio incanalamento della gola, è un effetto del suo interno sentire, anche indipendentemente dall' attitudine che tali suoni hanno a significare; la quale attitudine si scopre ben tosto dopo. Questo è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l' astrazione propriamente detta non c' entra ancora. Ora questi suoni od altri segni, che l' uomo adopera a manifestare i propri bisogni, e sentimenti, e volizioni ai suoi simili, sono essi nomi propri o comuni? La natura loro è quella di nomi comuni, perchè esprimenti il concetto (altrimenti sarebbero suoni istintivi, non segni imposti); ma l' uso che se ne fa al cominciamento è quello dei nomi propri, perchè esprimono il concetto legato ancora al sentimento, la percezione (1). Incominciano dall' essere nomi propri nell' atto che s' impongono all' oggetto della percezione, la quale è di natura sua singolare; ma ben presto sono usati come comuni, avendo la percezione il comune in sè stessa, cioè il concetto che è essenzialmente comune, tostochè l' idea legata all' oggetto della percezione e così particolarizzata, si scioglie da quel legame estrinseco. E per vedere con qual progresso e fin dove l' uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio, è uopo considerare bene la natura della percezione, prima generatrice dei nomi. I suoi tre elementi sono: 1 l' idea (l' essere ideale illimitato); 2 il concetto (essere ideale limitato dal rapporto che la percezione sensitiva ha con esso); 3 l' atto dello spirito affermante la sussistenza, ossia la realizzazione del concetto. Dapprima dunque il nome imposto segna questo triplice oggetto della percezione. Tosto appresso lo spirito abbandona la sussistenza , perchè non ne ha bisogno, e gli resta il concetto intuìto nell' idea. Il nome perciò non muta, ma egli è già usato da quest' ora come comune. Ma qual' è la natura del concetto , che si acquista nella percezione? Primieramente la percezione intellettiva si fa in occasione delle sensazioni e percezioni sensitive. Ora i diversi sensorii, che percepiscono lo stesso reale, spezzano già naturalmente quel reale in più; perocchè rappresentano all' uomo con percezioni separate le diverse sue qualità sensibili. Di che l' uomo può connettere un suono diverso a indicare l' oggetto colorato, e lo stesso oggetto gustoso al palato, ecc. (1). E questa non è ancora tuttavia astrazione pura; perocchè ognuno di quei suoni indica una sostanza reale, quale è data dal relativo sensorio, è un nome sostantivo qualificato . Quando poi l' uomo s' accorge della medesimezza dell' individuo, ancora non astrae, anzi sintesizza. Questo nondimeno è un passo importante che fa lo spirito umano. Ma accade che due o più reali diversi, e diversamente percepiti, arrechino all' uomo un piacere simile, ovvero un simile dolore. Nel primo caso egli esprimerà la sua gioia con movimenti somiglianti il suo piacere, e nel secondo con movimenti somiglianti il suo dolore. I suoi simili leggeranno adunque nel suo volto e nei suoi gesti il piacere ovvero il dolore che prova. Egli potrà esprimere ancora tali sentimenti con dei suoni spontanei ed istintivi. Cotesti gesti e cotesti suoni esprimono propriamente un reale, cioè il suo sentimento piacevole o doloroso; ma ben presto si potranno associare agli oggetti reali che ne sono la causa e la forma, secondo il detto delle scuole che sensibile in actu est sensus in actu . Poniamo una madre, che voglia allontanare un bambino da diversi oggetti nocevoli. Ella per fargli intendere che quegli oggetti sono nocevoli, farà di quei gesti e manderà di quei suoni, che esprimono dolore, paura, ed altri simili effetti. E questi segni li adopererà tanto per far intendere al bambino che deve allontanarsi dal fuoco, quanto da un rasoio, o da uno stagno d' acqua, o da un precipizio, ecc., perchè essendo simile il sentimento che tali oggetti producono, è consentaneo che ella adoperi sempre i medesimi segni, tanto più che vi è la legge che « l' animale e l' uomo prende sempre la via più facile a far ciò che fa », ed è più facile ripetere lo stesso segno che trovarne di nuovi. Così un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti nocevoli. Voglia all' incontro la madre stessa invitare il suo bambino a godere degli oggetti piacevoli, a mangiare frutta o dolci, a trastullarsi, ecc., ella userà quei segni che esprimono gioia, e ripetendo gli stessi segni in un gran numero di circostanze diverse e per diversissimi oggetti reali, finirà collo stabilire un nome comune a tutti gli oggetti dilettevoli od utili (1). I nomi imposti da questa madre significherebbero adunque « ciò che dà dolore, tristezza », e « ciò che dà piacere, letizia ». Esprimerebbero dunque enti, ma caratterizzati e distinti dall' effetto che producono nel sentimento; sarebbero dunque nomi comuni estesissimi, perchè abbraccerebbero innumerevoli classi di effetti. Essendovi questa facoltà nell' uomo, niente vieta che secondo il bisogno del sentimento si inventassero nomi comuni più ristretti, determinati non dal piacere o dal dolore in genere, ma da un genere o da una specie di piaceri, di dolori, di sentimenti soddisfacenti o molesti. Così buono e cattivo, utile e disutile, sano e malsano , ecc., sarebbero di tali nomi comuni detti dai grammatici aggettivi sostantivati , ma malamente, perchè nel progresso della lingua umana l' uomo li deve trovare prima degli aggettivi, onde il loro nome filosofico sarebbe sostantivi qualificati , perocchè esprimono il concetto di una sostanza determinata da una o più specie dei suoi accidenti. Secondo la stessa legge apparisce che il nome comune, significante a principio la specie piena, deve essere trasferito a significare non solo i generi molto estesi, ma anche i meno estesi e fino i generi infimi. Diamo un esempio. Al vedere il verde tappeto, di cui è coperta una parte della terra, si muoverà l' uomo a denominare prato quella superficie verde, il suolo coperto d' erba, nominando così con nome proprio l' oggetto della sua percezione. In appresso ogni simile tratto di terra verdeggiante lo chiamerà pure prato , e questo sarà già un uso di quel nome in quanto è comune, perchè, abbandonando il pensiero della sussistenza del primo prato reale, s' accomuna concetto e nome ad ogni suolo erboso, onde colla parola prato denomina già l' oggetto del suo concetto . E` vero che nella prima percezione del prato egli percepì altre qualità oltre il color verde, cioè la grandezza, la forma, la gradazione del colore, ecc.. Ma queste qualità non colpirono il riguardante così vivamente siccome il color verde , e perciò, trascurate le altre qualità senza imporvi denominazione alcuna, si contentò di nominare l' oggetto veduto dalla qualità più viva « un ente verde ». Quindi se agli sguardi di quest' uomo, che non ha ancora altri vocaboli, si presenterà una tappezzeria verde e vorrà nominarla, egli non cercherà un vocabolo nuovo, che gli costerebbe maggior fatica e sarebbe inutile al suo bisogno, ma la chiamerà incontanente collo stesso nome di « prato », ampliandone il significato e pigliandolo a significare in generale « ciò che è verde ». Di qui si trae che il pensare generi e specie, e il produrre nomi comuni è naturale all' uomo, talmente che tutti i primi nomi sostantivi dovevano essere non mai sostantivi, ma sostantivi qualificati , e le lingue antichissime ne hanno le traccie manifeste. Leibnizio l' aveva osservato, e non sarà inutile l' aggiungere qui agli esempi da me recati (1) quelli che adduce questo sommo filosofo, che fiorì in Germania quando non era ancora entrato in quella nazione lo spirito caustico di sofisma introdottovi da Kant, figliuolo del tempo suo e corrompitore del vero modo di filosofare. Ecco adunque ciò che scrive quel grande uomo: [...OMISSIS...] Leibnizio tuttavia non tocca in questo passo la cagione per la quale l' uomo sia inclinato a formare nomi comuni , e ne abbia tanta facilità che lo fa senza fatica, e tanto più facilmente, quanto è più tenero. Questa cagione si è sempre: La natura della percezione , che apprende le cose nell' azione loro speciale sui particolari sensorii, e qui le apprende non in tutto il loro essere e in tutta la loro attività, ma parzialmente, in attività unilaterali, onde percepisce l' ente determinato da tali qualità sensibili. La natura dei sentimenti , producendo disparati oggetti dei sentimenti simili od eguali; onde a questi sentimenti, come a reali, si attaccano le loro varie cagioni, e queste ricevono un nome comune , più comune ancora di quello che esprime l' attitudine a produrre speciali percezioni, perchè significa più reali disparati per l' attitudine che tutti hanno a cagionare quei medesimi sentimenti. Finalmente la natura dell' appetizione , che è anch' essa un reale, a cui si congiungono nella mente gli oggetti suoi lontani ed anche quelli che hanno attitudine di mezzi a conseguirli; onde altri nomi più comuni ancora, cioè tutti quelli che segnano molti reali per l' attitudine comune, più o meno mediata, a fare che l' appetizione ottenga l' oggetto a cui tende come a suo fine; onde si dirà, poniamo, vehiculum tutte le cose atte a condurre, instrumentum tutte le cose che aiutano di mezzo a fare checchessia, ecc.. E qui giova che diciamo pur qualche cosa di quella potenza che Aristotele chiamò senso comune, ammessa poi universalmente dalle scuole. Secondo questo filosofo il senso comune è una potenza interna, che riceve le sensazioni dei cinque sensi esterni, ed ha un proprio organo nel cervello. Quanto ad avere un proprio organo nel cervello, questa è proposizione gratuita, e il ragionamento prova anzi il contrario; perocchè ad ogni sentimento corporeo deve rispondere un movimento speciale. Onde se contemporaneamente si avessero sensazioni di vari sensi, e queste fossero tutte ricevute dal medesimo organo destinato al senso comune, in tal caso il medesimo organo dovrebbe avere nello stesso tempo movimenti diversi: cosa manifestamente assurda. E se nello stesso organo si distinguessero più parti, l' una delle quali ricevesse un movimento e l' altra un altro, già non sarebbe più un organo solo e comune, ma più organi e più sensi, onde con ciò non si spiegherebbe come un solo organo sensorio presiedesse a tutte le diverse sensazioni. Di più, se oltre i sensorii speciali vi fosse un sensorio comune, il quale risiedesse in un organo diverso da quelli, tutte le sensazioni speciali dovrebbero essere doppie, manifestandosi prima separate nei sensorii speciali e poscia unite nel sensorio comune; il che va contro il fatto. A cui si aggiunga quanto fu ragionato nel Rinnovamento contro l' unificazione delle sensazioni in un comune sensorio, ed apparirà manifesto che il senso comune di Aristotele e degli Scolastici non si può ammettere da una buona filosofia (1). Quindi cade altresì la facoltà, che Aristotele concedeva al senso comune, di discernere e giudicare della differenza fra le sensazioni dei vari sensorii speciali. Collo stesso ragionamento viene tolta ancora la facoltà, che quel filosofo ed i suoi seguaci diedero ai sensi speciali, di discernere o giudicare fra le varie sensazioni loro proprie (2). Viene anche emendata la definizione della fantasia, che per essi era quella facoltà che conservava le specie tanto dei sensorii speciali, quanto del senso comune (3). Esclusi questi errori, rimane tuttavia pur certo che a ciò che gli Aristotelici chiamarono senso comune , deve rispondere qualche cosa di vero; perocchè altrimenti l' animale non potrebbe governarsi dietro le sue varie sensazioni e sentimenti. Sì, ma questo non può essere un nuovo senso. Che sarà dunque? Noi abbiamo veduto che il sentimento animale ha un termine esteso ed un principio semplice . Ora al termine esteso appartiene la moltiplicità e varietà delle sensazioni e dei sentimenti; ed al principio semplice appartiene il governo che ha l' animale delle sue proprie sensazioni, dei propri sentimenti, dei propri sensorii. Quel principio identico, semplice, immateriale è quello dove tutte le sensazioni ed i sentimenti esistono; e però l' animale non solo sente ciascuno, ma è mosso da tutti insieme, e secondo il suo totale sentire fa le sue operazioni, a quel modo che abbiamo più lungamente dichiarato nel libro secondo dell' Antropologia . E veramente l' animale ha un sentimento unico, fondamentale, che viene variamente modificato; e queste modificazioni sono poi le sensazioni speciali (4), le quali non esistono divise da tutto il resto del sentimento, ma sono parti più vivaci di esso e varietà che accadono nel suo termine esteso. Onde l' animale opera sempre in conseguenza dello stato di questo sentimento unico e non d' una mera sensazione (benchè paia altrimenti per la vivezza speciale di essa); e quindi il sentimento totale è un reale, a cui come oggetto della percezione intellettiva può essere posto un nome; e le sensazioni sono lati diversi, per così dire, e atteggiamenti di questo sentimento, a cui del pari può essere posto un nome. E poichè il termine si distingue dal principio, e il termine si confonde collo stimolo, quando lo stimolo è applicato al sensorio, perciò anche l' oggetto stimolante riceve il nome, in quanto è stimolante; e questo è il nome comune di tutti quegli oggetti che sono atti a stimolare in un dato modo, od anche di tutti affatto, se nella percezione intellettiva l' attenzione non si limita a ciò che vi è di più vivo del sentimento, ma abbraccia tutto il sentimento. Nel qual caso il nome comune inventato sarà il sensibile . Ma poichè l' attenzione, come dicevamo, suol fermarsi a ciò che più la colpisce, od a ciò di cui l' uomo ha bisogno, perciò difficilmente e tardi l' uomo della natura giungerebbe ad inventare un nome, che rispetto alle cose sentite fosse così comune come sarebbe il sensibile; ma per le cose che cadono sotto i suoi sensi inventa a principio nomi comuni più ristretti, e poi secondo il bisogno li adopera, senza pur accorgersi, in un più ampio significato. Così da principio, venendo attivata la sua attenzione più che da ogni altra sensazione dalla vivezza e comodità delle sensazioni della vista, inventerà un nome, che equivarrà a quello che in italiano si direbbe il visibile ; ma poscia ne estenderà il significato a tutto ciò che cade sotto i sensi. Il che avvenne di fatto, come l' osservazione delle lingue, specialmente antiche, dimostra; perocchè in tutte le lingue si adoperarono i vocaboli imposti alle sensazioni visive per significare non solo gli oggetti o termini di queste sensazioni, ma ogni cosa che cada sotto i sensi. Onde ancora si dice comunemente le cose visibili per dire tutte le cose che cadono sotto i sensi. Ed è degnissima di considerarsi questa storia dei vocaboli, di cui nei popoli e nelle lingue più antiche si conservano traccie evidentissime. A ragion d' esempio, non dipartendoci dall' uso delle parole applicate da prima alla vista, ecco come esse si estendono all' udito. Nell' Esodo Mosè dice: [...OMISSIS...] . Nel Deuteronomio: [...OMISSIS...] ; ed appresso: [...OMISSIS...] . Onde il Calmet giustamente osserva che: [...OMISSIS...] . E questo fecero pure i Greci, massime gli antichi come Eschilo, che adopera le frasi di « « vedere i rumori »(5). » « « vedere le voci di un uomo »(6) » e gli esempi sono innumerabili, dei quali molti sono anche nella lingua latina e nelle moderne altresì; ma più che si discende ai tempi moderni, il significato delle parole si allontana dalla percezione e si accosta più e più al concetto comune. Il nome imposto alla percezione, quindi trasferito a significare la specie piena, che si può definire anche la percezione del fantasma , è l' origine di tutto il parlare traslato, figurato, metaforico, allegorico, ecc.. Infatti nelle lingue antichissime invece di usare il verbo vivere , che rappresenta tutto il sentimento fondamentale, si adoperano quelle funzioni della vita che, attraendo più l' attenzione, caratterizzano la percezione. Nella Genesi, XVI, 13, secondo il testo ebraico si dice: « « Ancora io vedo , dopo il vedente me? » », dove l' io vedo è posto invece di: io vivo . Altrove « « mangiare e bere » » significa vivere, come nell' Esodo, in cui si legge che gli Ebrei, dopo veduto il Signore, « « ancor mangiarono e bevvero » ». Volevasi esprimere una vita tranquilla e prospera? Dicevasi: « « sedere sotto la sua vite e sotto il suo fico » » (3), la quale espressione non significava per sè tutto ciò che vi è nel concetto di vita felice, ma si trasferiva a significarla, bastando nominare ciò che nella vita teneva più l' attenzione, e il resto sottintendevasi. Volevasi dire: « rendilo schiavo »? Dicevasi: « « incurva il suo dorso » » (4), perchè questa era quella parte del concetto che, più rimanendo scolpita nella fantasia, traeva seco il rimanente del concetto senza esprimerlo in parole. Volevasi dire: « la città s' empierà di mestizia e di solitudine »? Dicevasi: « « Non s' udirà più voce di sposo e voce di sposa » » (5). Quindi ai primi uomini era inefficace l' imporre precetti generali; si dovevano dare precetti particolari, che fossero quasi altrettanti esempi e rappresentazioni del generale. Il decalogo è tutto composto di precetti particolari. Vi si dice: « « non commetterai adulterio » », per fare intendere che non si deve peccare di lussuria; vi si dice: « « non ucciderai » », per fare intendere che non si deve far male al prossimo, e così dicasi pure degli altri. Volevasi predicare l' umanità? Il dirlo così in generale poco valeva. Si davano dunque precetti particolari simili a questi: [...OMISSIS...] La frase: « capere vel occidere matrem cum filiis », vale nella Scrittura a significare una immane crudeltà. E di somiglianti frasi la Scrittura è pienissima, ma più l' Antico Testamento del Nuovo; e i libri più antichi non hanno quasi altro linguaggio. Dopo la Scrittura, Omero ne abbonda. E se non si trovano egualmente frequenti cotali maniere nei libri sacri Indiani e Cinesi, è questa una nuova prova per me che non debbono essere così antichi come si vuole, o che furono alterati e tradotti; benchè abbia potuto contribuire a quel loro stile meno figurato la celerità, con cui progredì in antico presso quei popoli lo sviluppo del pensiero, che poi s' arrestò. Il carattere adunque dei vocaboli e delle maniere di dire antiche, di cui parliamo, si è questo, che esse « esprimono il concetto quale è dato dalla percezione »; e che poi l' espressione, rimanendo così speciale, viene trasferita tuttavia a significare un concetto, o una sentenza più e più comune e generale. Di qui, come dicevo, tutto il parlare figurato, di qui tutte le figure grammaticali. Per questo lo stile degli antichi è più poetico di quel dei moderni; perchè egli dipinge le cose ai sensi. Il naturale sviluppo del pensiero e dell' imposizione dei vocaboli ai pensieri spiega questo fatto senza bisogno d' altro; essendo gli antichi costretti a formarsi quella lingua che ancora non avevano, essi dovevano nominare i concetti legati alle percezioni, poi i concetti stessi divisi dalle percezioni. Ma nelle percezioni non nominavano tutto, ma ciò che più colpiva e attirava l' attenzione; questo elemento si prendeva ad indizio e segno di tutta intera la percezione; e il nome esprimeva la percezione, riferendosi a quell' indizio o segno naturale; e il vocabolo significava sempre: « ciò che produce quel sentimento »; per esempio « il bello »: ciò che produce il sentimento della bellezza; il sano: « ciò che produce la sanità », ecc.. Ma quell' indizio trovavasi poi in altri oggetti, e quindi la parola era atta a significarli anch' essi. Trovavasi, dico, in altri oggetti anche disparati, per la medesimezza del sentimento da loro prodotto; perchè è il sentimento, per dirlo ancora, a cui si riferiva la significazione del vocabolo. Onde « l' unità del sentimento è l' istrumento primitivo della formazione dei generi e delle specie significate dai vocaboli », perocchè esso è un effetto prodotto egualmente da più cause, e però un segno naturale comune ad esse. Di più, l' unità del sentimento è anche la ragione dell' associazione dei sentimenti parziali; e questa, come dicemmo, è il fonte delle figure, e specialmente della metonimia, giacchè la cosa che si nomina in relazione al sentimento percepito è l' elemento che più attira l' attenzione, secondo il senso più vivo o secondo il bisogno nostro, che sono le due guide di essa attenzione. Ora nel sentimento stesso talvolta cade la causa e l' effetto, il contenente e il contenuto, il segno e la cosa significata, ecc.; perciò il vocabolo, che esprime uno di questi elementi, si trasporta a significarli tutti, ovvero a significare un altro di essi, appunto perchè egli è atto a risvegliare gli altri sentimenti per via di associazione. « Io non ho veduto la sua faccia »per dire: « non ho veduto quell' uomo »; la parte che più tira l' attenzione è la faccia, e però il vocabolo è atto a risvegliare il pensiero del tutto. « Impugnò il ferro »per dire: « impugnò la spada »; la materia per tutto l' istrumento, materia e forma. « Tutta la terra esultò »per dire: « gli abitatori della terra »; il il contenente pel contenuto. E così di tutte le altre metonimie. E` anche da osservarsi che questo passaggio di significato non ha mai fine, onde una ragione del rimutare delle lingue, appunto perchè l' associazione dei pensieri e dei sentimenti non ha mai fine, nè mai ristà, ma si spiega in una serie continua, che talora si aggruppa e variamente ravvolge; e questo è il progresso continuo, che fa la mente umana e con essa l' uso dei segni, che da nomi comuni talora diventano individuali, e da individuali ritornano comuni e comunissimi, da traslati diventano propri, e da propri di nuovo traslati; per esempio, la parola Adam dovette prima di tutto, secondo l' ordine logico, significare una certa terra rossa percepita, e però essere imposta a quell' oggetto individuale della percezione; poi « ogni terra rossa », l' idea specifica compresa nella percezione. Così divenne nome comune. Poi espresse il primo uomo creato, perchè formato di terra rossa. Così quel nome comune ritornò individuale. Poi fu accomunato alla donna e ad ogni altro uomo, ricevendo questo significato generale: « ciò che è formato di terra rossa », e restando tuttavia legato nell' uso (1) con un genere più ristretto, cioè con quello degli uomini. Fin qui si vede come gli uomini in società potevano pensare il comune, e inventare i vocaboli che lo contrassegnassero. Ma il comune non è ancora l' astratto puro; questo viene dopo, ed è assai più difficile intendere il modo come esso si poteva originare. Noi abbiamo altrove espressa l' opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di questa parte della lingua (2). Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità . E` indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l' avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della lingua; e gli argomenti che lo provano verremo altrove esponendo. Ma trattandosi d' una semplice possibilità metafisica, se l' umana famiglia (non l' uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l' umano intendimento. Questa operazione doveva certamente aver luogo dopo le altre accennate di sopra; e però i nomi astratti dovevano rinvenirsi dopo i nomi comuni . Il che è quello appunto che dimostrano chiaramente le lingue antiche, le quali hanno pochissimi astratti (forse di divina origine), e in loro luogo fanno uso frequentissimo di nomi comuni , cioè di sostantivi qualificati; la quale indole rimane ancora nella stessa lingua di Platone, che recò pure l' astrazione sì alto; onde invece di intitolare i suoi dialoghi della giustizia , della bellezza , della santità , della bontà , ecc., egli li inscrisse: « di ciò che è giusto, «peri dikain»; di ciò che è bello, «peri kalu»; di ciò che è santo, «peri osiu»; di ciò che è buono, «peri hedones, peri agathu», ecc.. » Come crediamo noi dunque che l' umana famiglia potesse giungere da sè stessa agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi? Conviene indubitatamente poter trovare qualche cosa nella natura reale, che leghi a sè l' astratto, servendogli di natural segno; solo a questa condizione l' attenzione dell' umana mente può fermarsi in essi e coglierli. Ora questa cosa non manca veramente, ed ecco quale ella si è, e come venga data all' uomo. Lo scopo pel quale s' inventa un nome, è quello di risvegliare nell' altrui mente il concetto della cosa significata. Quindi si adopera la parte pel tutto, il contenente pel contenuto, ecc., ogni qualvolta il nome dato alla parte e al contenente basta per isvegliare nella mente il concetto del tutto o del contenuto, senza bisogno d' inventare un altro nome. Il che riesce ottimamente, attesa la naturale associazione dei sentimenti. Ora, se noi osserviamo che gli enti corporei hanno più parti, e che ciascuna può essere percepita da sè, è chiaro che può essere senza difficoltà altresì nominata da sè. Quindi rispetto alla persona umana, oltre il nome di uomo, s' inventarono facilmente il nome di capo, faccia, braccio, mano, ecc.. Ma ognuna di queste parti ha poi sue speciali doti e proprietà, le quali si percepiscono insieme con quella parte a cui appartengono. A ragion d' esempio, una di queste proprietà sia la fortezza. Questa potrà denominarsi in due modi, o mediante un nome comune neutro, che venga a significare « ciò che è forte »; ovvero col nome della parte, nella quale si ravvisa più frequentemente e in modo interessante, per esempio nella mano, o nel braccio, o nel corno, ecc.. In qual maniera si nominerà ella? Nella maniera più facile. Ora è più facile adoperare la parola mano, braccio, corno, ecc. per indicare la potenza, ovvero inventare per essa un nome nuovo, un nome comune neutro? Posciachè i nomi di quelle parti robuste del corpo sono già inventati, è manifestamente più facile adoperare quei nomi che già si hanno, dando loro un significato metonimico. Perocchè è regola generale che « l' estendere o il trasferire il significato di un vocabolo, che già si ha, è più agevole che ritrovarne un altro del tutto nuovo ». Ora i nomi delle dette parti, significando oggetti di percezioni, sono dei primi che s' inventano. Dunque la mano, o il braccio, o il corno si prenderanno a significare la potenza, e questo è quello appunto che noi vediamo nelle lingue antiche « manus Domini (1) » o « brachium Domini (2) » si usa continuamente nella Scrittura per indicare la potenza di Dio, « cornu David » per indicare la potenza di Davide (3). Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo dell' astratto. Così la faccia od il volto , dove si conoscono gli affetti della persona, applicati a Dio si prendono per la sua benevolenza o anche per l' ira sua (4); la strada per la sua provvidenza, ecc.; e in tal modo si può, a dir vero, andare molto innanzi nella formazione degli astratti puri; si può giungere ad un' astrazione grandissima. Rechiamo ancora un esempio delle astrazioni maggiori. Primieramente per metonimia si prende il segno per la cosa segnata. Questo è comunissimo e naturalissimo. Poniamo che si domandi: che cosa è questo? E che si risponda: « è corpo, è luce, è un elefante, ecc. ». In questa risposta si prende il segno per la cosa segnata, poichè invece di dire con lungo ambito: è quell' ente che viene significato dal vocabolo corpo, o dal vocabolo luce, o dal vocabolo elefante, ecc., si dice brevemente che è il vocabolo stesso. Ebbene quale meraviglia ora che la voce parola, verbum, «logos», sia usata nelle Scritture, e nei greci e nei latini scrittori, per significare qualunque fatto, avvenimento, e fin anche pel generalissimo cosa , come si può vedere nei lessicografi? [...OMISSIS...] ; e questo parlare è frequentissimo nei libri santi. Così la voce parola o verbo , venne a prendersi pel maggior astratto col quale si possa concepire l' ente reale ed efficiente ; e quella voce stessa fu applicata a significare altresì la seconda delle Persone divine. Anche l' essere ideale potè essere significato come rappresentativo del reale, trasportando ad esso la parola immagine o cosa veduta , come fecero le lingue antiche. Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll' aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura, e quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane naturalmente spiegato. Dati dunque coll' anima i termini e gli stimoli necessari per uscire ai suoi atti, ella tiene in questi un modo suo proprio. E questo si è che ella, avendo un' attività limitata, quando vuole unirsi più al suo termine, allora concentra quell' attività in una sola parte di esso, e così la sottrae alle altre parti; di che nasce l' analisi materiale o formale, secondo che l' oggetto su cui si esercita ha estensione o no. L' analisi formale è l' astrazione propriamente detta, che in un oggetto ideale o spirituale considera un elemento, lasciando il resto; e questa è quella legge psicologica, che risponde alle leggi ontologiche sopra descritte. Qui nasce una difficoltà, che domanda scioglimento. Come un oggetto ideale ovvero spirituale, che è semplicissimo, si può analizzare e quasi dividere in parti dall' uso dell' attenzione umana? E queste parti sono esse vere, oppure sono apparenti e ingannevoli? Per rispondere è necessario prima di tutto osservare: Che una cosa semplice molte volte si moltiplica dallo spirito, che la considera in relazione con molte; per esempio quando si dice: « l' essere ideale è la possibilità delle cose », non si fa che considerare questo essere in relazione colla sua realizzazione, senza che si predichi perciò la possibilità dello stesso essere ideale. Così tutte quelle che noi abbiamo chiamate idee elementari dell' essere ideale (1), si riducono ad altrettante relazioni di esso. Ora le molte relazioni di un essere semplice non tolgono a lui la sua semplicità, come al centro del circolo non è tolta la semplicità, quantunque si riguardi in relazione con tutti i punti assegnabili nella circonferenza, che non hanno numero. Le dette relazioni altro non dimostrano se non che quell' ente semplice non è solo, ma vi sono altri enti, i quali a lui si possono riferire e paragonare col pensiero, e lui ad essi. E per vero, se vi fosse il solo essere ideale e niun ente reale (il che è impossibile), in tal caso niente si potrebbe distinguere in quello, che si rimarrebbe interiormente uniforme. E però qualora Parmenide, ammettendo un solo ente, avesse inteso l' ente ideale, l' idea dell' ente, in tal caso solo riuscirebbero efficaci le obbiezioni che gli fecero Platone (2) ed Aristotele (3), i quali pretendono trovarlo in contraddizione, perchè a quell' ente attribuisce l' immortalità, l' immobilità, l' uniformità, l' integrità, la perfezione, ecc., poichè dicono che se l' ente è semplicemente uno, non gli si può aggiungere altro. Ma a quel tempo non si era ancora conosciuto che l' ente è sotto più forme, e però senza avvedersi si ragionava dell' ente ora sotto una forma, ora sotto l' altra; il che perdeva quei grandi ingegni in inestricabili labirinti. Ma per lo più, quando il ragionamento s' innalzava, finiva nell' idea dell' ente , e le proprietà di questa idea si attribuivano all' ente stesso. Onde come quell' idea non ha interna varietà, se non è in presenza del reale, si negava che anche l' ente avesse interna varietà ed ordine. Indi quelle obbiezioni, che paiono così difficili a risolvere. Che un ente può essere semplice, e tuttavia avere varietà nel suo seno. La ragione, che fa supporre il contrario, si è il non avere altro concetto della semplicità fuori di quello che si trae dal punto matematico; concetto negativo, che non dice se non l' ultima negazione dell' estensione. Ma gli enti semplici non consistono in una sola negazione, anzi sono positivi, più positivi ancora degli enti estesi. E` semplice adunque ciò da cui non si può levare cosa alcuna senza distruggerlo. Secondo questa definizione non è già contrario alla semplicità che un ente molte e varie cose in sè contenga; ma è uopo che tutte le cose che contiene sieno così unificate che il rimuoverne solo una basti a distruggere l' ente. Quindi varie classi di enti semplici. Il punto matematico non è un ente , come dicevamo, ma una negazione , non è un oggetto del nostro spirito, ma un atto che fa il nostro spirito sopra un oggetto (l' estensione). L' ente ideale è tutto uniforme, nè dentro ad esso, finchè resta solo, si può discernere cosa alcuna distinta; ma per distinguere alcuna cosa deve confrontarsi coll' ente reale. L' ente spirituale è semplice, e non uniforme nel suo interno, anzi quasi organato, sì fattamente però che niun suo organo, niun suo essenziale elemento si può divellere da lui senza distruggerlo. Il che non di meno vuole intendersi in più modi. Poichè: Se si parla della realità dell' ente spirituale, le sue parti accidentali possono mutarsi in altre , ma non dividersi per ciò; può anche moltiplicarsi , se si moltiplica il suo termine, come accade del principio animale; ma neppure questo è dividersi in più. Se si tratta dell' idea dell' ente spirituale, in questa si può colla mente: 1 concepire le mutazioni degli accidenti dell' ente e la sua moltiplicazione; 2 di più, dividerne altresì gli elementi col pensiero astratto, ma non col pensiero complesso, il quale rimane sempre nella mente; nè che il pensiero astratto e parziale trovi tali distinzioni si oppone colla semplicità dell' ente; nè ella è cosa contraria alla verità, perocchè quegli elementi sono nell' ente distinti veramente, benchè non separati. Ora il pensiero astratto ed analitico non li separa già, ma solo li distingue, e nello stesso tempo che questo atto del pensiero li distingue, il pensiero intero e complesso li tiene individualmente uniti. Che se talora l' uomo crede di separarli con ciò, egli s' inganna; quella sua credenza non gli nasce dal pensiero, ma dall' arbitrio, fonte degli errori. Niente si conosce se non l' oggetto del pensiero (idea), o ciò che dice lo spirito intorno all' oggetto del pensiero (verbo). Quando l' oggetto del pensiero siamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi, allora conosciamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi. Una tale cognizione dicesi coscienza . La coscienza è diversa dal sentimento , perchè quella è cognizione ed ha la dualità propria della cognizione (il conoscente ed il cognito come enti separabili); questo è semplice, ha solo quella dualità propria sua, per la quale si distinguono due termini così correlativi che l' uno non si può pensare come ente, se si separa dall' altro. Ora, fino a tanto che lo spirito umano ha per suo oggetto il solo essere ideale7infinito, egli non ha coscienza, perchè sè stesso e tutto ciò che passa in lui non è ancora divenuto oggetto di sua attenzione (1). L' attenzione , adunque, posta a sè stesso, è ciò che produce la coscienza. Conviene adunque che il principio umano (che più tardi si denomina Io) attiri la propria attenzione a sè. Ma il principio umano non è mosso ad attendere se non pel bisogno; e qual' è la definizione di questo bisogno? « Il bisogno è l' istinto di compiere un' azione incominciata, ossia è l' istinto di completare un' attività che ha cominciato a muoversi ». Ma tutta l' attività umana incomincia a muoversi mediante il suo termine reale, come abbiamo detto. Quindi solamente aggiungendosi al principio intellettivo un termine reale, è possibile che venga il caso pel quale egli sia mosso ad attendere a sè, e così formarsi la coscienza. Date poi le condizioni, alle quali l' uomo si forma la coscienza, egli può anche separare sè stesso positivamente dall' oggetto ideale, e conoscersi come soggetto contrapposto ad esso. Vi è dunque questa differenza fra il primitivo stato dell' uomo anteriore ad ogni suo sviluppo e lo stato in cui ha coscienza di sè; vi è questa differenza, dico, circa il distinguere l' essere ideale da sè, che: Nel primitivo stato egli conosce il solo essere ideale e non sè stesso; perciò non confonde l' essere ideale con sè, perchè il sè non lo conosce, non è ancora formato, ma neppure lo distingue, perocchè non si può distinguere una cosa da un' altra senza conoscerle entrambe. Nello stato di coscienza può conoscere l' essere ideale e conoscere sè come soggetto opposto a questo oggetto, e così distinguersi con un atto positivo. Si può adunque stabilire che lo spirito ha per legge psicologica di conoscere senza coscienza, e che la coscienza gli nasce solo in conseguenza degli stimoli reali, che lo traggono ad operare. Ma quello che lo spirito aggiunge del suo è il verbo , cioè quella parola interiore colla quale afferma o nega. Con questo atto lo spirito acquista una nuova cognizione, ma, si noti bene, non già un nuovo oggetto , perchè ciò che lo spirito pronuncia suppone l' oggetto a lui dato per intuizione, percezione, ragionamento, chè anzi il pronunciato dello spirito si fa intorno all' oggetto dato, quasi a sua materia. Ora questo verbo, giudizio, affermazione, o come si voglia in altro modo chiamare, è mosso dalla ragione pratica influente sulla teoretica, e però appartiene più alla ragione pratica, come a sua causa, che non alla teoretica; benchè talora l' atto dell' affermare segua immediatamente, e per un cotale psicologico istinto, alla teoretica visione. Affinchè questo atto della parola interiore sia fatto dallo spirito, conviene che lo spirito nell' oggetto possa trovare una dualità, che poi diviene predicato e soggetto. E posciachè l' ente ideale infinito , diviso da ogni reale, è così uniforme che non ammette moltiplicità nel suo seno, perciò nella semplice intuizione di lui non è possibile alcun pronunciato, alcun giudizio (1). Quindi, acciocchè lo spirito affermi o neghi, egli ha bisogno di essere posto in comunicazione con qualche essere reale, fonte della pluralità. Ma qual' è la natura della cognizione, che acquista lo spirito per via del suo verbo, se questo non gli aggiunge niun oggetto nuovo? La cognizione prodotta dal verbo della mente è interamente diversa da quella prodotta dall' idea (dall' ente); ella è soggettiva , laddove la cognizione dell' idea è essenzialmente oggettiva , come abbiamo veduto. Quando diciamo cognizione soggettiva non intendiamo cognizione falsa, tutt' altro; intendiamo dire che essa ha in sè la sua verità, come la cognizione che viene dall' idea, ma deve riceverla dall' idea, dall' oggetto, a questo accordandosi ed adattandosi. Quindi l' oggetto, l' ente, l' idea, essendo la verità stessa, è superiore al vero ed al falso, e non riceve queste predicazioni, ricevendo solo la denominazione di verità, quasi un sinonimo di lei stessa (2). Il vero dunque ed il falso appartengono ai pronunciati dello spirito e non all' oggetto. Di qui si scioglie quel celeberrimo sofisma degli antichi, che argomentavano: [...OMISSIS...] (3). A cui rispondiamo negando la maggiore, presa nella sua totalità; ovvero, distinguendo le parti di essa, diciamo così: « Non si pensa che l' ente »; distinguo: se per le parole « non si pensa »s' intende esprimersi un pensare oggettivo, concedo; se s' intende esprimere ogni modo di pensare anche soggettivo, che è il pronunciare qualche cosa intorno all' ente, nego; « e quindi non si può pronunciare che l' ente », nego, perchè il pronunciare, essendo affermare o negare qualche cosa, non ha per oggetto l' ente, ma il nesso, cioè la predicazione stessa. Ora intorno all' ente si può pronunciare il falso e il vero; nel qual caso non è che l' ente diventi falso, ma il falso giace nel pronunciato, che è operazione soggettiva dello spirito. Di questa importantissima distinzione, per quanto io so, i filosofi non hanno ben sentita la forza, nè abbastanza conosciuta e descritta la natura della cognizione soggettiva, per via di pronunciamento, giudizio, o verbo dello spirito. In che consiste adunque la natura di questa maniera di conoscere? Non consiste nell' acquisto che lo spirito faccia per essa d' un oggetto nuovo, come abbiamo detto di sopra, ma consiste « in potere lo spirito disporre sè stesso in un certo modo, relativamente all' oggetto che ha dinanzi ». Se lo spirito afferma, dispone sè stesso in un certo modo relativamente all' oggetto; se lo spirito nega, dispone sè stesso in un altro modo. L' oggetto resta il medesimo; perocchè che cosa è l' oggetto? per dirlo ancora « è l' essenza della cosa veduta nell' idea ». Dunque nell' oggetto non è affermazione, nè negazione; questa è tutta opera dello spirito; l' essenza rimane la stessa dinanzi alla mente, tanto se si afferma qualche cosa di quella essenza, quanto se si nega. Nego che in questo giardino sia un pero o un fico: l' essenza del pero o del fico, che è l' oggetto della mente, è quella di prima; solamente lo spirito dichiara a sè stesso che quella essenza non è realizzata in quel giardino. Se avesse affermato, l' essenza non avrebbe egualmente sofferta modificazione di sorte. Qual' è l' effetto che produce questo atto nello spirito? Come si può denominare questo effetto, questa disposizione che lo spirito dà a sè stesso col suo atto? Noi l' abbiamo denominata persuasione , onde questa specie di scienza si può chiamare anche scienza di persuasione ovvero scienza di predicazione . Gli antichi confusero talora la persuasione coll' opinione; differisce grandemente, potendo questa essere congiunta con una ferma persuasione, o con una persuasione debole e vacillante. Procuriamo di dissipare dall' animo le difficoltà che vi potessero insorgere. Altro è l' oggetto intuìto ed appreso direttamente dallo spirito, altro è ciò che susseguentemente lo spirito predica di lui. Nell' intuizione e nell' apprensione diretta dello spirito non può cadere errore (1). Nell' atto del predicamento che fa lo spirito può cadere errore, perchè può essere fatto in modo conforme all' oggetto e in modo da lui difforme. Qui facilmente sorge difficoltà nelle menti, che potrebbero ragionare così: « Se io predico qualche cosa dell' oggetto, questo qualche cosa predicabile non è anch' egli un oggetto? Se sì, dunque anche la scienza di predicazione ha per suo termine l' oggetto, un oggetto nuovo ». Alla quale difficoltà si risponde che il termine della scienza di predicazione non è alcun oggetto, cioè non è nè il soggetto, nè il predicabile, ma è la loro congiunzione; io conosco per la predicazione, che fa il mio spirito, la loro congiunzione in un medesimo oggetto. Replicasi che, dunque, la congiunzione del soggetto col predicato è l' oggetto della scienza di predicazione; e però questa scienza ha un oggetto suo proprio, per essa dunque è dato un oggetto nuovo allo spirito. Chi così ragiona prende una di quelle illusioni comuni, difficilissime ad evitarsi, che noi continuamente cerchiamo di manifestare, perchè impediscono alla mente il filosofare rettamente. L' illusione è questa. La relazione fra il predicato ed il soggetto si può considerare unicamente come possibile (intuibile), e così considerata ella è un oggetto; ma allora ella non è già ciò che si conosce per via di predicazione , ma la si conosce per via d' intuizione. Diamo un esempio; dicendo io: « questo corpo è freddo », io predico il freddo di questo corpo, e mi persuado che questo corpo sia freddo. Ma prima di affermare che quel corpo è freddo, io posso concepire la relazione fra il freddo e quel corpo senza affermarla; allora io la intuisco semplicemente come possibile, e insieme con essa posso anche intuire la relazione fra quel corpo e il caldo; non affermo ancora nè l' una nè l' altra. Intuendo così tali relazioni possibili, il mio spirito ha già l' oggetto, che egli può affermare o negare. Quando dunque afferma o nega, l' oggetto egli lo ha già, e non è lo scopo dell' affermazione o della negazione; l' una e l' altra delle quali operazioni fa solo questo, di rendere persuaso lo spirito che l' una delle due relazioni, intuìte come possibili, sia; e si rende persuaso, quando pronuncia che quella è. Ma di nuovo: « Che cosa vuol dire questo è , che si pronuncia di una delle relazioni possibili, contradittorie? ». Questo è ha due valori, perchè può significare l' atto dell' essere ideale o l' atto dell' essere reale. Se l' affermazione non esce dalla sfera della possibilità, come accade nelle affermazioni logiche e matematiche, per esempio « la conseguenza è contenuta nel principio », ovvero « la somma dei tre angoli del triangolo è uguale a due retti »; quell' è copulativo non significa che l' essere ideale. Se l' affermazione discende alla sfera della realità, come accade nelle affermazioni fisiche, per esempio « questo metallo è oro », ovvero « il sole è un corpo »; quell' è copulativo significa una realità appartenente ad un subbietto reale. Può anche il subbietto essere l' ente astratto dalle sue forme, e il predicato essere la forma reale, per esempio « questo ente sussiste », dove la sussistenza , ossia realità, si piglia come predicato dell' essenza dell' ente. Ora se l' è copulativo, che è ciò che sempre si pronuncia nel predicamento, significa essere ideale, in tal caso ecco la cosa come accade. L' ente ideale è l' oggetto, il quale se non fosse dinanzi alla mente, nulla lo spirito potrebbe predicare di lui. Ora tale oggetto è dinanzi alla mente, che lo intuisce tutto intero, secondo quelle leggi ontologiche che abbiamo esposte. Ma nello spirito, oltre esservi la facoltà dell' intuizione, vi è quella dell' astrazione , la quale si fa per limitazione e concentramento di attenzione. Questa astrazione non distrugge l' oggetto, ma lo spezza, distinguendo in esso i suoi elementi. Questa operazione è soggettiva , l' oggetto non ne soffre, e rimane intatto sì in sè come dinanzi alla mente; solo che la mente, oltre avere l' oggetto intero dinanzi per intuizione, ha altresì l' oggetto diviso nei suoi elementi per astrazione. Questa astrazione , che è una specie di analisi o scomposizione, dà luogo alla predicazione , che è una specie di sintesi, per la quale si ricongiungono quegli elementi scomposti. Quando dico analisi e sintesi , parlo della forma che prende l' operazione dello spirito, e non propriamente del loro risultato. Infatti si può fare una divisione in forma di sintesi, quando accade che invece di affermare si neghi un predicato di un soggetto. Ma posciachè parliamo di operazioni soggettive, conviene che badiamo alla loro forma e non al loro risultato. Ora se la predicazione è falsa, congiungendo un elemento dell' oggetto ad un altro elemento che non gli appartiene, lo spirito in tal caso pronuncia un assurdo (trattandosi del mondo ideale, nel quale ora siamo); e un assurdo non è un oggetto se non putativo. Dico che pronuncia un assurdo, perchè quando afferma un predicato ideale d' un soggetto ideale, come è il caso nostro, allora l' affermazione riguarda la possibilità; e se pronuncia possibile ciò che non è possibile, altro non pronuncia che un assurdo. Predicare adunque la possibilità non è altro che riconoscere ciò che si conosce , affermare d' intuire ciò che s' intuisce. Ma se non si tratta che di riconoscere, cioè conoscere in altro modo ciò che già si conosce, dunque non si produce con ciò un oggetto nuovo dinanzi allo spirito; cangia solamente il modo col quale lo spirito toglie a conoscere lo stesso oggetto; e questo modo diverso, che non può appartenere all' oggetto, appartiene al soggetto; è dunque una mera disposizione nuova, che prende lo spirito rispettivamente al suo oggetto; la quale disposizione dicesi cognizione soggettiva o persuasione , dove si dà il vero ed il falso, secondochè ella si conforma all' oggetto o da esso discorda. Che se l' è copulativo significa essere reale, come negli esempi addotti, accade il medesimo. Solamente che gli elementi del giudizio o predicamento non sono dati dall' astrazione, e quindi se il giudizio è falso, non è necessariamente assurdo; per esempio, quando dico: « questo metallo è oro », laddove egli è ottone, io dico il falso, ma non l' assurdo, perchè non è impossibile a concepirsi che fosse oro; e quando dico: « la fenice sussiste », dico del pari cosa falsa, non impossibile. Qui dunque gli elementi del giudizio sono dati in parte dal sentimento, almeno dalla parte del predicato , il quale è un reale; nè reale vuol dir altro che cosa cadente nel sentimento. Il sentimento poi è soggettivo e al tutto fuori dell' oggetto della mente; ma lo spirito, che è il soggetto, fa un atto pel quale congiunge in una il predicato7sentimento (reale) col subbietto del discorso, che può essere anch' esso reale, ovvero può essere l' essere essenziale, astrazione fatta dalle sue forme. Ora questa congiunzione d' identità non produce novità alcuna nell' oggetto, ma è una congiunzione che avviene tutta nel soggetto che la fa, ed è la disposizione nuova di questo, di cui parlavamo, la quale costituisce la cognizione soggettiva . Infatti noi abbiamo già distinta l' unione fondamentale del soggetto coll' oggetto, ed è quella che accade per via d' intuizione, dall' unione più intima che il soggetto stesso fa col suo oggetto. Questa seconda unione, che dicemmo appartenere alla ragione pratica od operativa, non produce un oggetto nuovo, ma un nuovo grado e modo di unione, e però una nuova cognizione relativa al medesimo oggetto, nella quale cade il vero ed il falso. Ma la realità non si aggiunge? e non è ella un oggetto nuovo? La realità si aggiunge, ma non è un oggetto nuovo, bensì un predicato, un' apparenza dell' oggetto precedente. Poichè se l' oggetto precedente era l' essenza del pane intuìta nell' idea del pane, quando dico « il pane sussiste », altro non fo che aggiungere all' oggetto che conosceva prima (il pane ideale) la realità, la quale non è oggetto, ma è sentimento soggettivo; e però il subbietto di quella proposizione è veramente oggetto, ma il predicato non è oggetto, anzi è piuttosto termine dell' affermazione, termine soggettivo, perchè giacente nel sentimento del pane; sicchè quella proposizione equivale a quest' altra: « il pane, oggetto della mia mente, ha un modo di essere fuori della mia mente, e questo modo di essere è a me sensibile così e così ». Si noti bene che se l' essere sensibile io lo prendo come oggetto della mente e non come sentimento, in tal caso egli è un possibile, e non c' è ancora l' affermazione; non è quello di cui parliamo. Se dunque i due termini della proposizione: 1 il pane, 2 la sussistenza, io li considero come possibili, essi sono oggetti, e in tal caso la sussistenza non è più sussistenza, ma idea di sussistenza; siamo tornati all' ordine ideale. Allora di questi oggetti non ho già io pronunciato la connessione; ma quando la pronuncio, non aggiungo altro oggetto; la stessa fin tanto che io la intuisco come possibile, non la pronuncio, non l' affermo; e quando l' affermo, diviene persuasione, cognizione soggettiva. Nell' essenza ideale adunque di un ente si contiene già la realità come ideale; ma questa non è propriamente per lo spirito umano realità se non allora che egli l' afferma. Lo spirito afferma dunque l' oggetto che già intuiva; e l' afferma perchè lo sente; e l' affermarlo non è altro che un nuovo modo di unire a lui sè stesso. E qui crediamo di non dover tralasciare un corollario importante, che procede dall' esposta dottrina. L' umana cognizione è di due maniere, oggettiva e soggettiva , perchè due sono le attività del principio razionale, l' una suscitata unicamente dall' oggetto e l' altra propria del soggetto. All' attività prima del principio razionale, suscitata dall' oggetto, risponde la cognizione oggettiva, regolata tutta dalle leggi ontologiche che abbiamo esposte. All' attività seconda, propria del soggetto, corrisponde la cognizione soggettiva per via di predicazione, regolata dalle leggi psicologiche. La prima di queste due maniere di cognizione ha per suo termine l' oggetto intuìto (il possibile), e rispetto ad essa si avvera la proposizione che scientia est de necessariis (1). La seconda ha per suo termine la persuasione , ossia un certo stato dell' animo relativo all' oggetto, pel quale l' animo, il soggetto, si unisce all' oggetto in un altro modo, e così accresce la sua cognizione; e rispetto ad essa non ha luogo la proposizione che scientia est de necessariis , potendo essere dei contingenti, perchè il reale può essere contingente, anzi ogni contingente è reale, benchè non ogni reale sia contingente. La quale distinzione basta a distruggere il panteismo idealistico, che dal falso principio che « ogni sapere sia oggettivo » induce che, dunque, ogni sapere è delle cose necessarie, le quali si riducono in Dio. Quindi pone che Iddio sia l' oggetto universale e immediato del sapere. E posciachè ogni entità è oggetto di sapere, tosto raccoglie che ogni entità è Dio. Del quale ragionamento l' errore consiste nel principio; essendo falso, come dicevamo, che ogni sapere sia oggettivo, come pure che ogni sapere sia de necessariis , essendovi un modo di sapere che riguarda i contingenti, un sapere soggettivo che si fa per via di predicazione. La quale distinzione medesima fra il sapere per intuizione e il sapere per affermazione, dà una solida base al metodo filosofico , escludendo l' errore di quelli che dicono che tutto il sapere dell' uomo si riduce ai fatti , e che l' uomo non conosce le ragioni delle cose; che perciò le scienze speculative non hanno alcun vero valore, ma solo le positive, ecc.. Ora la parola fatti si può prendere in più significati; nel senso più ovvio i fatti sono il termine di quella cognizione che si acquista per affermazione . La quale non è la sola scienza dell' uomo, anzi, prima che per affermazione egli conosce per via d' intuizione, per via di oggetto ideale. Quindi egli può anche riportare le cognizioni acquistate colle sue affermazioni (i fatti conosciuti) alle cognizioni sue per via di intuizione , e trovarne i rapporti; nei quali rapporti stanno le ragioni dei fatti , che diventano un terzo genere di cognizioni. Di questo errore non va immune neppure la filosofia scozzese (2). Che se alla parola fatto si dà un senso estesissimo, benchè improprio, in tal caso conviene distinguere: 1 i fatti reali; 2 i fatti ideali; 3 i rapporti di questi con quelli, ossia le ragioni che spiegano i fatti reali. E solo in questo senso improprio si può dire che tutte le cognizioni umane si riducono ad avere per loro materia dei fatti. Noi non abbiamo potuto esporre le leggi psicologiche del principio razionale se non mescolandole a ciò che somministra allo spirito il mondo, perchè il movimento degli atti secondi non è dato allo spirito se non dall' azione del mondo. Quindi sono da distinguersi le leggi, che presiedono a produrre il movimento del principio razionale già costituito, che chiameremo leggi della mozione , dalle leggi che determinano il modo che tiene il movimento, le quali noi possiamo chiamare leggi della qualità del moto . Le leggi della mozione sono cosmologiche, cioè imposte allo spirito dalle entità contingenti, che sopra di lui agiscono. Le leggi della qualità del moto sono in parte cosmologiche e in parte psicologiche. Di che noi ridurremo tutte le leggi cosmologiche a due supreme, l' una delle quali chiameremo legge della mozione, perchè esprime la dipendenza degli atti dello spirito dall' azione stimolante del mondo; l' altra chiameremo legge dell' armonia estetica , perchè esprime la qualità e il modo del movimento dello spirito e degli atti secondi, determinato dall' armonia del mondo prestabilita dal Creatore, acciocchè una pari armonia si trasporti nello spirito che svolge la sua attività. Nel sensismo di Fichte (l' idealismo di questo filosofo è puramente sensismo) lo spirito pone sè stesso con quell' atto con cui pone il mondo. Egli afferma ad un tempo l' io e il non io come contrapposti correlativi, l' uno dei quali limitando distingue l' altro. Secondo noi lo spirito non si costituisce in questo modo, ma egli procede per via degli atti seguenti: Intuisce l' oggetto, l' essere in universale, senza affermarlo, senza affermare sè stesso, senza avere alcuna coscienza nè di sè, nè del suo atto; egli vive ed è nell' essere. Contemporaneamente percepisce un sentimento fondamentale, e perciò ha una percezione fondamentale , la quale è apprensione senza espressa affermazione . Ma con ciò non percepisce sè stesso come percipiente , nè ha coscienza di sè, benchè abbia cognizione del proprio sentimento, del termine del sentimento e del principio del sentimento, senza che questo sia diviso con un alcun atto dello spirito dal termine in cui si giace. La coscienza, poi, e l' io viene molto tempo appresso nella maniera da noi spiegata. Dunque il termine del sentimento fondamentale non si percepisce pronunciando un non7io , che è la relazione coll' io , la negazione di questo; ma si percepisce semplicemente come esteso senza confronto alcuno coll' io; chè l' io non è per anco rivelato. Perocchè l' io non è il principio senziente, ma è il principio razionale percipiente il sentimento, che acquistò colla riflessione7coscienza, ossia che si è percepito. Tuttavia nel sentimento vi è la dualità male espressa da Fichte colle parole di io e non7io ; la quale si doveva esprimere colle parole significanti i concetti correlativi di principio e di termine. Ora la mutazione, che nasce nel sentimento, è la condizione della mozione che riceve il principio razionale ai suoi atti secondi; e perchè quella mutazione accade naturalmente per l' azione degli agenti, che compongono il mondo, perciò lo spirito si dice soggetto a questa legge di dipendenza nel suo sviluppo dal mondo, legge cosmologica. Questa legge adunque si riduce a quello che abbiamo già indicato, cioè che il reale è il termine suscitatore dell' attenzione , che è la forza radicale del conoscere soggettivo , e la attua e concentra (1). Onde venendo tolto il reale all' anima, niun atto conoscitivo può a lei restare eccetto l' atto primo d' intuizione, senza attenzione soggettiva, senza concentrazione alcuna di questa. Di che può dirsi in un senso che il soggetto, come soggetto, non abbia in tale stato alcuna cognizione attuale sua propria. Ma in questa legge sono da considerarsi due cose: La ragione perchè il principio razionale passi ai suoi atti secondi, uscendo dalla sua inerzia; il che si può esprimere così: « Il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione di lui e lo conduce agli atti di conoscere soggettivo ». La ragione perchè questi atti secondi del principio razionale sono vivaci, durevoli e soddisfacenti; il che si può esprimere così: « Se gli atti secondi del principio razionale trovano un termine reale, in tal caso sono stabili e vivaci; altrimenti sono languidi, faticosi, e cessano prestamente ». Consideriamo l' una e l' altra parte di questa legge. Questa legge è patente dall' esperienza. Su di essa giova fare le seguenti osservazioni: Non ogni reale eccita il principio razionale ad un medesimo grado di attenzione e pone in lui un' eguale quantità di azione; ma alcuni reali attirano a sè unicamente l' attenzione che nella percezione s' acqueta, altri all' incontro muovono il ragionamento . I reali, che muovono il ragionamento e non la sola percezione, sono i bisogni; onde il principio razionale ricorre istintivamente a tutte le vie per soddisfarli, e però anche al ragionamento; il bisogno poi non è un sentimento semplice, ma è un sentimento che risulta da molti sentimenti semplici, aggruppati con un certo ordine; dove sta propriamente la ragione di quella mozione, che si svolge anch' essa in atti molteplici. I reali eccitano ancora il ragionamento e un' azione che si estende oltre la percezione, quando sono connessi insieme in virtù delle leggi dell' animalità e degli istinti animali; onde accade che, data un' immagine, se ne suscitano altre ed altre; dato un sentimento, a questo altri si accoppiano secondo il tenore di dette leggi. Quando il pensiero è giunto a concepire e proporre un fine alla volontà, allora nasce il decreto libero di pensare ai mezzi, e quindi si estende l' attività; ma questa stessa attività cogitativa ha bisogno di continuamente aiutarsi con nuovi reali, pei quali trascorre il pensiero e l' azione. Non ogni reale, benchè ecciti una percezione vivace, è bastevole a produrre la coscienza , cioè a muovere l' uomo a riflettere su di sè; ma l' uomo è indotto a questo principalmente dal linguaggio sociale e dai suoi bisogni. Infatti, nella società i nomi e i pronomi personali eccitano la riflessione a ripiegarsi sopra la persona; e il bisogno nasce ben presto; come, poniamo, se viene fatto un torto al bambino, egli, pigliando a difendere il proprio diritto e a giudicare fra sè e il compagno offensore, incomincia a riflettere sulla propria persona e sull' altrui. Finalmente i sentimenti, essendo durevoli per qualche tempo, aiutano il pensiero a mantenersi in atto; il che forma la seconda parte della legge che noi esponiamo. Niuno di quelli che sogliono osservare la maniera di operare dell' uomo negherà questo fatto. Ma qui si presenta una curiosa ricerca. Noi abbiamo veduto: 1 che il movimento non è continuo, ma che si fa per mutazioni istantanee di stato a stato, ciascuno dei quali stati dura un tempuscolo; 2 che ai sentimenti eccitati precedono o certo corrispondono dei movimenti extra7soggettivi nella fibra. Ora altro è il sentimento, altro la mutazione di un sentimento ad un altro; questa può farsi in un istante, quello deve avere qualche durata. Il sentimento eccitato adunque è sempre uno stato più o meno durevole. Se dunque il sentimento eccitato è uno stato durevole, e se tuttavia egli viene eccitato in compagnia di mutazioni (movimento di fibre) non durevoli, conviene dire che le mutazioni istantanee, che si hanno nel movimento, nè sono i sentimenti, nè possono essere la causa piena dei medesimi; la pienezza di questa causa deve venire dallo stesso principio senziente che dura. In secondo luogo si conferma che vi è un sentimento non eccitato , il quale ha per suo termine l' esteso, cioè più estesi che si confricano, e non il movimento (1). In terzo luogo si scorge che i movimenti, che nascono nell' esteso, non sono sentiti nelle loro singole mutazioni istantanee, perchè: 1 in tal caso la mutazione essendo istantanea, e il sentimento non durando se non quanto dura il suo termine, egli non durerebbe nulla se avesse per termine le sole dette mutazioni; e però non sarebbe sentimento; 2 se così avvenisse, noi non avremmo mai un sentimento costante, ma dovremmo sentire in ogni sentimento una mutazione incessante, ogni sentimento sarebbe un complesso di molti sentimenti successivi, fra l' uno e l' altro dei quali rimarrebbero degli intervalli senza sentimento; il che è al tutto opposto al fatto dell' esperienza. Nè si può dire che tale moltiplicità e tali intervalli sieno in ogni sentimento senza che noi li avvertiamo, perocchè, qualora la cosa così avvenisse, noi dovremmo assai più facilmente accorgerci degli intervalli di un sentimento all' altro che avrebbero durata, che non sia degli stessi sentimenti che non ne avrebbero alcuna; sicchè tutti quei sentimenti, presi insieme, durerebbero meno di un solo intervallo, come la niuna durata è meno di qualsiasi minima durata. Oltracciò la ragione per la quale non avvertiamo certe cose, che passano in noi, si è perchè noi siamo occupati e distratti da altre più sensibili, che attirano e legano la nostra attenzione razionale. Ora nel detto caso la cessazione del sentimento che durerebbe si dovrebbe poter avvertire, anzi sarebbe più atta a tirare e tenere a sè la nostra attenzione che i sentimenti che nulla durerebbero. Perocchè è da stabilire che « tutto ciò che l' uomo sente e tutti i passaggi di un sentimento ad un altro sono per sè avvertibili », ed è solamente accidentale che non s' avvertano per la ragione detta. Finalmente altro è non avvertire ciò che vi è, altro avvertire ciò che non vi è. Al primo siamo soggetti per distrazione, al secondo no. Laonde rimarrebbe inesplicato come noi avvertiamo la durata dei nostri sentimenti, se questa durata non fosse. Anzi dobbiamo dire: « noi l' avvertiamo, tutti gli uomini l' avvertono, dunque vi è »; se ella non fosse, non la potremmo avvertire. E` dunque da conchiudere con questa bella ed importante proposizione, che dichiara non poco la natura del sentimento animale: « Le sensazioni e gli altri sentimenti eccitati non hanno per loro termine il movimento della fibra, cioè la mutazione di luogo o di stato delle parti che compongono il sentito esteso, ma hanno per termine lo stesso sentito esteso; dal movimento però delle parti dell' esteso, e dalla pressione e confricazione reciproca di esse, consegue che l' esteso sia sentito in altro modo e con maggiore vivacità »(1). Ora poi una cosa prova l' altra: il fatto della durata del sentimento eccitato prova l' impossibilità del moto continuo, come suo termine; il moto continuo non ha alcuno stato o luogo durevole, dunque non può essere termine del sentimento. Laonde è a dire che le mutazioni, che accadono nel moto della fibra, possono essere eccitatrici (a loro modo) del sentimento, non essere da sè sole suo termine; e che il sentimento eccitato dura in istato, quantunque lo stimolo eccitante (la mutazione della fibra) non duri. Se non avesse disposto il Creatore che le sensazioni si prolungassero nella durata, non sarebbero bastate al bisogno, nè sarebbero possibili le osservazioni e le esperienze degli studiosi della natura. Veniamo ora a giovarci della seconda parte della legge della mozione alla spiegazione di alcuni fatti. E` certo che il principio razionale, tratto una volta ai suoi atti secondi, acquista un movimento libero, cioè tale che può dirigersi secondo i fini della volontà; e nondimeno, se il detto movimento razionale (mosso in origine da un termine reale, da un bisogno, ecc.) non trova pure un termine reale a suo scopo, egli non può formare atti lungamente durevoli, facili e vivaci. I fatti, che vengono spiegati mediante questa legge, sono principalmente i seguenti; ella spiega: Perchè senza sensazioni o fantasmi la mente non può pensare soggettivamente (1). Perchè le sostanze incorporee riescano difficili a concepirsi puramente, senza mescolarvi cosa alcuna di corporeo. Di che la ragione è questa: noi non percepiamo nell' ordine della natura altra sostanza incorporea che l' anima nostra, e l' anima nostra noi la percepiamo per via di sentimento, in questo come in suo principio. Ora il sentimento nostro proprio ha per termine l' esteso puro o corporeo. Vero è che il principio intuente è l' atto primo dello stesso sentimento, ma appunto perciò non ha coscienza; è un reale, ma non è un reale7termine , ed è solo il reale7termine che suscita l' attenzione. Ora l' uomo nell' ordine naturale non ha altro reale termine che il corpo, e perciò l' attenzione del principio razionale è attirata dal sentimento corporeo, e solo in appresso per libera riflessione considera il principio intuente; e questo non lo può conoscere con una concezione viva e concentrata, appunto perchè non vi trova alcun reale che gli possa servire di termine eccitatore. Non essendovi dunque in noi percezione di alcuna sostanza incorporea se non della nostra propria, la quale non si rende termine eccitante la nostra attenzione se non in quanto è unita al corpo, indi avviene che siamo inclinati a concepire ed immaginare le altre sostanze di quella natura che è il termine della nostra, cioè di natura corporea. Perchè le astrazioni hanno bisogno di segni, o naturali o artificiali, per pensarsi e per ragionare con esse o sopra di esse. Perchè le sostanze spirituali e gli astratti nelle lingue più antiche sono sempre significati con vocaboli tratti da cose corporee. Così anima, animus, «anemos», spiritus, «pneuma» , sono tutte voci significative del vento o aria corporea, trasportate a significare la sostanza incorporea. Così pure l' astratto del bene morale non ebbe un nome suo proprio, ma fu chiamato ora virtù , che significa forza (1), ora honestas , che significa bellezza, ora mos , che significa consuetudine; la parola obligatio è pure tolta dal legame sensibile e trasportata a significare la forza della legge. E del pari si può dire di ogni sostanza spirituale e di ogni astratto, eccetto il solo verbo essere , che non fu mai espresso per via di metafora; il qual fatto è già solo per sè una manifesta testimonianza del senso comune, che depone a favore del sistema filosofico da noi proposto, dimostrando che l' essere non è a confondersi colle altre astrazioni, siccome quello che è oggetto immediato e sempre presente della mente (2). Perchè le lingue sono strumenti acconci al pensiero, tanto per sintesizzare, quanto per analizzare. Per sintesizzare, si vede nell' imposizione delle parole, allorquando s' impone un nome affine di legarvi un gruppo di idee o di rimembranze. Essendo obbligato il pensiero all' unità per legge ontologica, quando egli deve ritenere più concetti o pensieri, cerca di raggrupparli; ed uno dei modi che adopera è di attaccarli ad una sola parola , la quale, essendo un reale, tiene desta e viva l' attenzione e la memoria, chè altrimenti svanirebbe, se nella pluralità delle cose non vi fosse un vincolo reale , che le congiungesse ed unificasse. Quindi l' istinto di segnare i luoghi, dove è avvenuto qualche avvenimento che preme di mantenere nella memoria, con un vocabolo che lo rammemori; giacchè l' avvenimento e il luogo non hanno connessione naturale ed essenziale, e però si trova un segno unico commemorativo di entrambi. Questo istinto razionale non ha solamente lo scopo di tramandare ai posteri quelle memorie, ma ben anche di renderle presenti a sè stessi; e si scorge più attivo nei primi uomini, il cui linguaggio era ancor povero, onde avevano più bisogno al loro uopo di tali imposizioni di nomi. Così Agar impone il nome di « pozzo del veggente »a quello presso il quale erale apparso l' angelo del Signore (1). Abramo, similmente, al monte del sacrificio impone il nome « il Signore vede »(2); Giacobbe al luogo, dove ebbe la visione della scala, pose il nome di Bethel, ossia « casa di Dio »(3); al luogo di un' altra visione di angeli, dove aveva detto quasi espressione spontanea del suo sentimento (il che mostra l' istinto del pronunciare): « questi sono gli accampamenti di Dio », pose nome Mahanaim , cioè « accampamenti »(4). Così si nominavano i pozzi, che facevano scavare i patriarchi, secondo l' avvenimento che aveva occasionato quell' opera, e il sentimento da cui erano all' istante animati (5); ed è frequentissimo in tutta la Genesi questo fatto dell' imposizione dei nomi ai luoghi dei più insigni eventi. Sospinti gli uomini dallo stesso istinto razionale, agli astri stessi diedero dei nomi, i quali rammemorassero qualche eroe o qualche avvenimento, di cui volevano perrennar la memoria, quando essendo egli passato, aveva cessato di essere, ossia di operare come reale; conseguendo il loro intento col legarlo appunto a due reali, l' uno dei quali feriva sempre vivamente gli occhi col suo sublime aspetto, nè poteva guastarsi dal tempo siccome si guastano i monumenti terreni; l' altro feriva l' orecchio, ed era il nome consegnato alla società delle succedenti generazioni. Onde Giuseppe Bianchini con sapienza scrisse: [...OMISSIS...] Noi possiamo dire che ogni parola è una sintesi, giacchè assai di rado una parola significa un concetto solo, come scorgesi dei sinonimi, i quali, convenendo in un concetto principale, ne risvegliano tanti altri, che difficilmente si osservano se non dai più sagaci osservatori, qual' è un Tommaseo, e pure si sentono dal comune degli uomini, i quali si accorgono unanimi se nell' uso delle parole pur manchi qualche cosa alla proprietà del parlare; nè però sanno dire con distinzione che cosa manchi, e se vogliono dirlo, talora sbagliano, e se vogliono scrivere, mancano alla proprietà essi medesimi. I vocaboli adunque prestano fra gli altri quest' ufficio al pensiero, di dare unità a certe pluralità di concetti, la quale pluralità , non essendo un reale, ha bisogno di un segno reale per essere ritenuta e marcata. Laonde tutto ciò che non è un reale operante sull' uomo: a ) le sostanze incorporee, b ) gli astratti, c ) i molteplici, d ) i reali passati, come i fatti storici che non sono più operanti sull' uomo, e ) i reali assenti, e però del pari non operanti, e così via, esigono dei segni reali acciocchè l' uomo possa mantenere e concentrare in essi la sua attenzione. Quanto ai reali assenti, la prova di ciò che diciamo è nel desiderio che ha l' uomo di avere ritratti e memorie , che gli facciano sovvenire vivacemente le persone o le cose amate, le quali egli non può avere di continuo presenti. E le sostanze incorporee si possono considerare come assenti, in quanto che non operano come reali immediatamente sopra di noi; quindi la propensione e il bisogno delle immagini e dei simboli che le rappresentano alla nostra venerazione, e la ragione di tutto il culto esterno. Onde gli Iconoclasti, abusando di vane sottigliezze, oppugnavano le leggi della natura. Come poi ogni parola è una sintesi , così ogni proposizione e ogni discorso è un' analisi . E che il pensiero per analizzare, e specialmente astrarre, abbia uopo giovarsi dei segni e massimamente dei vocaboli che sono i più acconci e naturali, si vede da quello stesso che dicevamo, cioè che la pluralità non è un reale; ora l' analisi non fa altro che scomporre l' uno in più. Riconducendo dunque alla pluralità , già per questo solo abbisogna dei segni a cui legare l' attenzione, acciocchè questa possa concentrarsi nelle singole parti, e nello stesso tempo abbracciarle in modo da non dimenticare che sono parti di un tutto solo. Al che mirabilmente giova la lingua, strumento sintetico ad un tempo ed analitico. Coll' invenzione adunque della lingua l' uomo: 1) - Soddisfa ad un bisogno proprio del suo pensiero; e perciò la lingua non s' inventa solamente per comunicare altrui i propri pensieri, ma per fissare il pensiero proprio, dirigere, fermare e concentrare la propria attenzione. 2) - Soddisfa altresì al bisogno di comunicare i propri pensieri ai suoi simili, fornendo loro quello stesso facile mezzo di pensare, cioè di dirigere e concentrare la propria attenzione, che adopera per aiutare a ciò sè stesso. Nel che è da ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell' uomo l' istinto, come diremo parlando di quella specie di leggi psicologiche del pensiero, che rispondono alle cosmologiche; e di più gliene ha egli stesso comunicati positivamente i primi elementi. Si spiegano per questa via anche le leggi della memoria, nella quale si rinvengono alcuni fatti di non facile spiegazione: La prima cosa, che riesce difficile a spiegare, si è come le cognizioni si conservino in noi, senza che noi ci pensiamo. - Nasce ciò solamente perchè non vi rivolgiamo più l' attenzione, come accade che un quadro, benchè ci sia continuamente presente, non lo vediamo se non volgiamo a lui gli occhi? Questo non basta a spiegare il fatto pienamente; perocchè se il giacere in noi le cognizioni, senza che noi ci pensiamo, dipendesse solo da non darvi avvertenza, in tal caso ogni qual volta vorremmo, potremmo risovvenirci di checchessia, come possiamo ogni momento riguardare il quadro, che ci sta dinnanzi a nostra libera voglia. All' incontro, molte cose dimenticate noi non possiamo più richiamarcele, o ce le richiamiamo a fatica. Conviene dire che in tal caso l' attenzione non è attivata e tenuta da alcun reale, cioè da alcuna immagine o altro sentimento; e però ella non sa dove volgersi e dove affissarsi per trovare la notizia o la cognizione che cerca nell' anima. Quando dunque cessano le immagini e i sentimenti, ai quali è legata la notizia o cognizione desiderata, allora ella s' immerge nell' essere universale uniforme, dove si sta nascosta, che è quello che gli antichi dicevano conoscere potenzialmente o virtualmente. Ma ivi non è tuttavia smarrita per sempre; ella ne emerge ogniqualvolta alla forza dell' attenzione riesce di afferrare un' immagine o un sentimento reale, a cui quella notizia è congiunta nell' istinto dell' attenzione medesima; del quale reale ella quasi si veste, o a parlar propriamente, è segnata. Onde le cognizioni, che si smarriscono affatto e di cui non vi è reminiscenza, si possono dire cognizioni non segnate , e quindi non distinte nell' essere ideale. La seconda cosa a spiegare circa i fatti della memoria si è perchè alcune cognizioni o notizie ci riappariscano da sè stesse al pensiero, senza ed anche contro nostra volontà, e così talora diano luogo a quelle che diciamo poi distrazioni, tentazioni, ecc.. La ragione ne è la medesima: posto il principio che le notizie e cognizioni che in noi stanno, richiamano e tengono la nostra attenzione ogniqualvolta sono segnate, ossia legate a qualche reale, siccome immagini, sentimenti, corpi esterni, ecc., e posto d' altra parte che i reali, a cui sono legate, si presentano a noi senza ed anche contro volontà nostra, come quelli che dipendono dal gioco dell' animalità e delle animali potenze; è manifesto che molte notizie obliterate ci devono da sè ritornare al pensiero, e attirare a sè l' attenzione nostra cogitativa secondo le leggi dell' istinto e delle abitudini, e talora anche farci violenza, quand' elle sieno più forti a trarre e tenere l' attenzione che non sia la volontà nostra a ritrarnela. E quale sia la forza e l' indipendenza delle immaginazioni e dei sentimenti animali, ogni giorno si prova per esperienza; il che è una grande umiliazione dell' uomo, che risiede nel principio razionale, perocchè questo principio, che è l' uomo, vedesi così sgagliardito che, dovendo egli per ogni buona ragione precedere e imperare, in quella vece segue siccome schiavo incatenato ed ubbidisce, renitente indarno e contendente. La terza cosa a domandare si è perchè alcune notizie si richiamano con facilità al pensiero, ed altre difficilmente. - Veduto che la presenza dei sentimenti reali , onde si segnano le notizie, non dipende interamente da noi, resta facile intendersi anche questo fatto. Poichè i movimenti e sentimenti animali nè sono intieramente sommessi nè interamente sottratti al potere del principio razionale; ma questo può molto in essi, non però tutto quello che vuole. Onde talora gli riesce facile il muovere quei sentimenti in sè stesso, talora difficile, talora poi del tutto impossibile. Se poi si chieda secondo quale legge si digradi questa facilità o difficoltà, restringendoci a quello che riguarda solo la reminiscenza, noi diciamo: 1 che l' uomo che pensa ha sempre dei reali presenti (pei quali reali s' intende immagini e sentimenti); 2 che i reali presenti sono più o meno legati coi reali non presenti; 3 che questo legame è un legame di segno , o anche un legame organico , onde un movimento sensibile è continuazione od effetto immediato di altri, o un legame consensuale per istinto ed abitudine , ecc.. Acciocchè dunque il principio razionale possa suscitare e ridurre in atto i sentimenti che egli cerca: 1 questi debbono avere connessione con quelli che gli stanno attualmente presenti in atto; 2 debbono poi altresì avere una connessione più o meno felice e di spontaneo passaggio, secondo la qual condizione il principio razionale più o meno facilmente riesce a ridurre in pristino i movimenti animali e i sentimenti annessi che cerca, siccome segni delle notizie che gli bisogna rammemorare. Per legge cosmologica dell' operare del principio razionale intendemmo quella che gli viene imposta dall' azione delle cose create, dal mondo o, come direbbe Fichte, dal non7io . Nel quale concetto del mondo il principio stesso razionale viene escluso ed al mondo contrapposto, benchè questo stesso principio, questo io , formi pure anch' esso parte del mondo; altro errore del fichtiano sistema (1). Tuttavia, poichè l' anima intellettiva ha nell' idea lo specchio del mondo reale ed anche di sè stessa, non è al tutto assurdo pigliarla in due aspetti, come cognita e come conoscente, come parte del mondo e come opposta al mondo. Così la natura del mondo, compresa l' anima termine del conoscere, è il fonte delle leggi cosmologiche, secondo le quali opera il principio razionale (l' anima); e la natura dell' anima, principio razionale, è il fonte delle leggi psicologiche corrispondenti. Ma qui ci si domanda se l' animalità appartenga all' anima conoscente, a cui somministra l' immediata materia. La quale questione deve sciogliersi prima di entrare a parlare della legge dell' armonia, acciocchè si sappia se questa legge, in quanto è cosmica, debbasi derivare non solo dall' ordine delle cose esteriori, ma ancora dall' ordine intrinseco all' animalità, come formante parte di quel mondo che si considera contrapposto al principio razionale. Rispondiamo che l' animalità, come tale, non appartiene all' anima conoscente, la quale significa principio, quando quella non è rispettivamente che termine, in quanto cade nella percezione fondamentale. Laonde l' armonia, che il principio razionale trova nel suo termine e ond' egli stesso partecipa, gli viene non solo dall' armonia che vi è nelle cose esterne diverse dai sentimenti animali, ma dall' armonia che sta nella stessa animalità. Gli antichi pensatori della scuola italica avevano conosciuto l' esistenza della legge dell' armonia nelle operazioni del principio razionale, ma l' avevano creduta piuttosto una legge unicamente psicologica che una legge in parte almeno cosmologica . Di che la ragione si fu che essi non sapevano concepire l' anima puramente intellettiva, neppure intendevano la natura dell' anima razionale, ma movendo il pensiero filosofico da ciò che è più ovvio agli uomini, la materia ed il senso, fissavano lo sguardo della loro mente nell' anima sensitiva, ed a questa come a principio riducevano ogni operazione anche intellettuale. Nell' anima sensitiva poi non erano ancora pervenuti a distinguere il principio , al quale solo spetta il nome di anima, dal termine , che è l' esteso ed il materiale. Onde attribuivano all' anima in proprio anche ciò che le veniva dal suo termine. E poichè dove più sensibilmente e vivamente si sente l' ordine sono i suoni bene accordati, perciò ad ogni ordine e armonia diedero il nome di musica , generalizzando il significato di quella parola che da prima era imposta al diletto, che prendeva l' orecchio dai suoni convenienti (1), secondo le leggi dell' invenzione delle parole da noi esposte. Quindi la musica, collocata primieramente nell' anima del mondo, poscia nelle altre anime, che, di quella prendendo, si costituivano e individuavano, come si vede in questo luogo di Macrobio, che riassume le antiche dottrine. Non deve far meraviglia, dice, che la musica abbia cotanta potenza sugli uomini non meno che sulle bestie (ecco come si aveva l' occhio all' anima sensitiva); [...OMISSIS...] . Ora poi, dall' essere conosciuto che l' armonia, che dirige segretamente il principio razionale come pure il principio senziente, viene a questo dal termine e non l' ha in sè, rimane abbattuto questo errore degli antichi, i quali attribuivano unicamente all' anima, che è il principio, l' origine dell' armonia; il quale errore sospinsero così innanzi che molti pronunciarono nell' armonia stessa consistere la natura dell' anima (2). L' animalità, adunque, non è il principio razionale, rispetto al quale ha ragione di termine, e però appartiene al mondo in contrapposto dell' anima razionale; l' anima razionale poi partecipa dell' armonia, che nell' animalità si contiene. Ma se si parla dell' anima sensitiva, che è il principio immediato del sentimento, si può domandare se l' armonia, che nell' animalità si trova, proceda dall' anima, cioè dal principio sensitivo , o dall' esteso, che ne è il termine . E qualora gli antichi avessero così posta la questione, il loro errore di attribuire all' anima sola l' origine dell' armonia sarebbe stato minore, perchè veramente, almeno in parte, l' armonia viene dalla natura dell' anima sensitiva. Ma essi confusero l' anima sensitiva colla razionale, e parlarono di quella come se fosse questa. Ora il nostro intento si è di spiegare l' origine della legge dell' armonia rispetto all' anima razionale, e di mostrare come, rispetto a questa, quella legge sia cosmologica, appunto perchè la stessa anima sensitiva, che è il principio rispetto all' esteso, termine suo proprio, è termine rispetto al principio razionale, che percepisce il senziente nel sentito; e però appartiene anch' essa al mondo contrapposto al principio razionale. Vediamo dunque come l' anima sensitiva sia in parte fonte dell' armonia che trovasi nell' animalità, benchè di questo stesso argomento dovremo parlare più a lungo in appresso. In primo luogo l' esteso continuo acquista l' unità, e insieme coll' unità la natura di continuo, dalla semplicità del principio sensitivo (1). In secondo luogo vedemmo come nella semplicità del principio sensitivo giaccia l' unità del tempo. Ora nell' estensione sentita e nel tempo si manifesta l' armonia dell' animalità, perocchè nell' estensione sentita nasce la moltiplicità necessaria all' armonia, nel tempo il numero . E veramente la moltiplicità e il numero non sarebbero, se non ci fosse un ente semplice, al quale e nel quale più unità fossero presenti; giacchè ogni unità, come tale, se è presente a sè stessa, non può essere alle altre; chè ogni unità, come tale, è finita in sè e non può varcare i confini dell' essere suo. All' incontro lo stesso principio sensitivo è suscettivo di più sentimenti, e contemporanei e successivi, onde in lui solo (e più eminentemente e in altro modo nel principio razionale) la moltiplicità, il numero e la successione di più cose ritrovasi. Risultando dunque l' armonia dall' unità e dalla pluralità , l' unità è posta dall' anima, e però è elemento psicologico , e la pluralità è data all' anima sensitiva dal termine, e però è elemento cosmologico; quindi si può dire che l' armonia nella sfera del sentimento animale sia una cotale unione di natura, e quasi un abbracciamento genetliaco dell' anima col mondo. Ora l' unità è propriamente la forma del bello, come osserva S. Agostino (2). Di che si raccoglie che la parte formale dell' armonia sensibile è di natura psicologica, la parte materiale di natura cosmologica. Ma come accade che nel sentito sia la pluralità ridotta ad unità? ond' ella viene? qual parte tiene in formarla il principio, quale il termine? Il termine del sentimento corporeo è un solo esteso continuo, e non più; poichè se l' esteso corporeo si dividesse in più continui, già si moltiplicherebbero i principŒ senzienti. Qui abbiamo intanto una unità di continuo. Ma posciachè il continuo ha dei limiti che costituiscono una specie di pluralità, indi la domanda: onde i limiti (1) che determinano la grandezza e la forma di questo unico continuo? - E la risposta si è che questi limiti non vengono dal principio senziente, indifferente per sè ad ogni estensione e figura di sentito; dunque essi vengono dalla virtù esteriore cosmica. Noi abbiamo già detto che vi è un' estensione (di cui sono condizioni o limiti la grandezza e la forma), come pure una virtù sensifera extra7soggettiva (2), il cui principio deve certamente essere inesteso (principio corporeo). Oltre la moltiplicità della grandezza , della forma , dei limiti , che si rivelano in appresso colle sensazioni acquisite, si dimostra nell' animalità il molteplice delle sensazioni. Quindi un' altra questione: come nell' unico esteso continuo cada varietà di sensazione. E dicemmo da questo, che lo stesso sentimento fondamentale esteso non è al tutto uniforme nella qualità, ma variato e per così dire screziato; il che si può congetturare dover essere (benchè non credo che l' avvertenza dell' animo possa discernerlo, a cagione dell' indole del sentimento fondamentale, poco e quasi nulla atto a tirare e tenere la nostra attenzione intellettiva) (1) dal diverso grado di sensitività eccitata, di cui sono fornite le diverse membra del corpo e i diversi organi sensorii. Perocchè, essendo una parte più sensitiva o diversamente sensitiva all' eccitamento, pare che vi debba essere un primitivo sentimento diverso, nel quale ogni parte si senta in vario grado e in diverso modo. A ragion d' esempio, io credo che il nervo ottico abbia un sentimento fondamentale diverso, voglio dire di tutt' altro tocco delle altre parti sensibili del corpo, il quale sia appunto il sentimento del nero ; perocchè definire il nero nulla più che la mancanza dei colori è un confondere la causa delle sensazioni visive colle stesse sensazioni. Certo è verissimo che, tolti via tutti gli stimoli esterni dalla retina, rimane il nero; il nero si ha, quando manca intieramente la luce. Ma il corpo stimolante, che si dice luce, non è la sensazione che esso produce. Le sensazioni poi dei colori, prodotte dallo stimolo della luce, sono sensazioni parziali, ossia modificazioni speciali di un sentimento precedente fondamentale, onde questo non può essere che il sentimento del nero. Per convincersene si entri in luogo perfettamente oscuro, si ponga attenzione a ciò che si prova di sentimento nei propri occhi, e si confronti con ciò che si esperimenta in un' altra parte del corpo, per esempio nella nuca, e stando bene attenti ciascuno si convincerà che negli occhi vi è il sentimento del nero, sentirà come tappezzati gli occhi suoi d' un panno nero, il quale sentimento non l' avrà nella nuca. Nè ciò si può attribuire alla reminiscenza delle sensazioni colorate avute innanzi, le quali ora mancano; perocchè, qualora si faccia grande attenzione, s' intenderà che si tratta propriamente di un cotal sentimento che sta negli occhi, anche prescindendo da ogni rimembranza e riflessione della mente. Io credo che rispetto al nervo acustico si possa dire qualche cosa di simile, e che ci sia il sentimento del silenzio (sentimento fondamentale proprio di quel nervo), sicchè il silenzio (prescindendo dalla sua occasione esterna, che è certamente negativa, e considerato come sentimento) non sia cosa al tutto negativa, anzi abbia un che di positivo fondamento a tutte le sensazioni acustiche. All' accennata domanda, adunque, rispondo che la varietà che cade nel sentimento esteso, deve nascere dalla diversa tessitura del continuo sentito, il quale può avere maggiori o minori intervalli, risultare da molecole di diversa forma, una molecola attenersi e premere sull' altra con forza maggiore, le molecole specifiche essere più o meno involute, e da altre sì fatte condizioni dei tessuti, onde anche risultano i vari organi. La moltiplicità, che si scorge nel sentimento di eccitazione, ci porge una terza domanda, cioè: Onde nasce la varietà delle diverse parti del sentimento eccitato, la quale varietà è evidente, costituendo essa anche la varietà delle sensazioni figurate, diverse d' indole e d' intensità? nasce dall' anima o dal mondo? - Fu veduto che tali varietà eccitate nel sentito rispondono al movimento delle molecole componenti il sentito; il qual movimento parte viene determinato da stimoli esterni, parte dall' attività del principio stesso sensitivo; onde la causa di questo vario movimento deve appellarsi parte cosmologica , parte psicologica; cosmologica, in quanto vince l' inerzia dello spirito, psicologica, in quanto ubbidisce alla legge di spontaneità , di cui lo spirito stesso è fornito (1). Ma questo movimento non è la sensazione stessa; parliamo dunque di questa. Si deve distinguere: 1 il modo della sensazione, che è l' estensione, e le condizioni proprie dell' esteso, che sono i limiti, ossia la grandezza e la forma ; 2 la causa eccitatrice extra7soggettiva, ossia cosmologica, della sensazione, che è la virtù sensifera , e i movimenti intestini nell' esteso sentito; e finalmente 3 la sensazione pura, che è o sedata e primitiva, o eccitata. A costituire il modo esteso della sensazione e dei sentimenti contribuisce indubitatamente l' azione cosmologica, di cui quel modo è termine , essendo egli termine ad un tempo anche dell' anima. La causa extra7soggettiva, cioè il principio corporeo, la virtù sensifera, è ancora azione cosmologica. Ma la sensazione pura è così propria del principio senziente che ella è l' atto proprio di questo, e però appartiene intieramente all' essenziale virtù di questo principio; è quindi del tutto soggettiva, del tutto psicologica (2). L' azione cosmologica, adunque, è causa che contribuisce a porre in essere quell' atto, e con esso lo stesso principio senziente, l' anima, e a determinare quell' atto in quanto al suo modo dell' estensione; ma finalmente l' atto del sentire, è atto del principio senziente, il quale è il soggetto unico di tutte le sensazioni. La sensazione pura, adunque, dipende dal mondo esterno come da suo termine, ma non è atto del mondo esterno, sì dell' anima. Ora la sensazione pura, che chiamerò il tocco della sensazione per darle una denominazione apposita che la astragga dall' estensione, cangia, restando la stessa grandezza e forma di esteso, come si vede nelle sensazioni dei vari organi sensorii ed anche di uno stesso organo; giacchè non solo l' odore è di un tocco al tutto diverso dal colore, ma nel colore e nell' odore stesso varia il tocco di qualità e di grado. Ora, quantunque il tocco della sensazione riesca variato di specie e di grado, per cagione del diverso termine esteso e dei diversi movimenti intestini mossi entro al medesimo, tuttavia ognuno può intendere che il detto tocco, qualità positiva della sensazione, non è l' estensione, nè il movimento, ed è anzi sempre l' atto variato del solo principio sensitivo. Il che, quanto all' estensione, si vede da questo, che una sensazione può variare di tocco e non di estensione. Così una stessa estensione può essere quella in cui termina la sensazione dell' occhio, e in cui termina la sensazione del tatto; e tuttavia le sensazioni riescono diversissime, sono di un diversissimo tocco. Quanto poi al movimento, abbiamo già dimostrato innanzi che il tocco della sensazione, eccitato dai movimenti dell' organo sensorio, non ha similitudine alcuna con questi movimenti, i quali sono molti, e il tocco della sensazione eccitata è uno; i movimenti sono istantanei (essendo ogni mutazione istantanea), e il tocco della sensazione ha durata, chè altrimenti niente si sentirebbe. Dunque il tocco della sensazione è tutto dovuto all' anima sensitiva, come l' atto è dovuto al soggetto, e conseguentemente è di natura intieramente psicologica . Ma rimane sempre a vedere come il tocco possa variare col variare degli organi e dei loro movimenti, e col numero di questi. Il che riesce più malagevole a rilevare e descrivere, per l' immischiarsi fra i sentimenti che fa l' attenzione e l' operazione razionale, le quali dividono a loro modo anche ciò che nel sentimento va unito. Tuttavia non lascieremo intentata alcuna difficoltà. Il principio razionale converte in ente il sensifero e lo stacca dal senso; senza l' opera di tal principio, il sensifero sarebbe un mero agente dimorante nel senziente, l' azione di un ente, non un ente. Ma poichè il principio razionale cangia in enti i termini sensiferi delle percezioni sensitive, perciò accade che ogni organo sensorio spazii in un mondo suo proprio. Ciascuno di questi mondi è affatto diviso, prescindendo dall' estensione, e neppure simile in quanto al tocco specifico del sentimento, da ciascun altro mondo proprio di un altro sensorio. Che se il principio razionale confronta questi diversi mondi e se ne fabbrica uno di tutti, ciò egli fa per via di analogia e non per vera similitudine che sia fra loro; non lo fa perchè abbiano somiglianza nella qualità del tocco sensibile, ma perchè convengono nel numero, nello spazio, ecc., in cose cioè che non spettano alla sensazione pura. Nell' identità di queste condizioni, che non costituiscono la sensazione, il principio sensitivo per la sua semplicità le congiunge ed armonizza. Così quando l' occhio dirige la mano a toccare un oggetto, la sensazione visiva (esteso sentito dall' occhio) è intieramente diversa dall' esteso, in quanto è toccato dalla mano; ma la sensazione visiva presta il medesimo servigio alla mano che presta una carta geografica accuratissima al viaggiatore, coll' aiuto della quale egli dirige i suoi passi. Del che non è facile accorgersi; perocchè vi è questa differenza notabilissima fra la carta geografica e la sensazione visiva: che si percepisce la carta geografica come uno spazio piccolissimo in paragone dello spazio da percorrersi dal viaggiatore, laddove la sensazione visiva presenta l' oggetto d' una dimensione che pare eguale a quella che sente la mano toccando, benchè ciò non sia; giacchè la sensazione dell' universo ottico non è più estesa veramente di quel che sia estesa la retina che lo contiene (percepita questa retina col tatto). Ma la differenza sta in questo: che quando io vedo la carta geografica, vedo contemporaneamente tutto ciò che sta di là da essa, tutto lo spazio che eccede i suoi confini, l' immenso spazio, per esempio, delle pianure e delle montagne e del cielo; e al di là di quel che vedo immagino altro spazio, al paragone dei quali spazi la carta geografica mi riesce al tutto piccolissima, e in questa piccolissima carta io trovo segnati e distinti quei piani e quei monti, quei mari e quei cieli, che vedo coll' occhio; e coll' occhio che m' accompagna viaggiando, vedo due volte le cose stesse, vedo segnato in piccolo sulla carta quello stesso che vedo in grande nella natura, e questo piccolo rappresentante e questo grande rappresentato è veduto dallo stesso organo, cioè dall' occhio, sicchè coll' aiuto dello stesso sensorio io confronto diverse parti della sua sensazione. All' incontro accade tutt' altro, quando lo spirito non confronta la grandezza delle varie parti d' una sensazione dello stesso sensorio, ma confronta la sensazione di un sensorio, per esempio dell' occhio, colla sensazione di un altro sensorio, per esempio del tatto. Allora si paragonano due universi, non le parti dello stesso universo; si paragona l' universo veduto coll' universo toccato, poichè nella sensazione totale dell' occhio, che noi chiamiamo specchio visivo, vi è tutto l' universo ottico, cioè tutto ciò che può vedere l' occhio con uno sguardo, e la ritentiva e l' immaginazione con più sguardi. In questo universo ottico vi è la mano che tocca e l' oggetto toccato; e l' una e l' altro colle loro proporzioni, sicchè se l' oggetto toccato è più piccolo della mano, anche nello specchio visivo compare più piccolo, e se è più grande, compare più grande. Di più, la mano e l' esteso toccato tengono la proporzione debita a tutti gli altri oggetti circostanti, che nello specchio visivo si trovano; e però l' occhio fa discernere al principio razionale tutte queste proporzioni, e il principio razionale sa conseguentemente dire a sè stesso quanto è più grande quella colonna, cui la mano tocca, della mano stessa, e quanto il tempio della colonna, e quanto il monte, che gli sta accanto, del tempio, ecc.. Il perchè, se la mano è toccata tutta da un corpo, il principio razionale, guidato dall' occhio, sa dire che « quel corpo è così esteso come è estesa la sensazione di tutta la mano »; poichè tutte queste proporzioni sono segnate nei colori sentiti nella retina come sopra carta geografica. Ma al di là di tutto questo, al di là dello specchio visivo, di questa carta geografica, l' occhio non vede altro; vede dunque la sola carta geografica, questa è il suo universo, e però egli non può paragonare questa carta geografica con altra cosa maggiore di lei, nè trovar cosa che sia maggiore di lei, perchè altra non ne vede. Quanto è dunque grande lo specchio visivo? Altrettanto quanto è grande l' universo, cioè l' universo visivo, perchè parlando del detto specchio non vi sono altri universi. Quando dunque l' anima dirige la mano ed il piede colla scorta dell' occhio, allora la mano e l' esteso che vuol prendere, e il piede e la via che vuol percorrere, e gli spazi circostanti sono tutti disegnati nell' universo visivo, nello specchio ottico; e questi disegni sono il principio dei movimenti regolati, che fa la mano od il piede ad impero dell' anima. Quei segni adunque, che occupano una parte piccolissima della retina e che rispondono distintissimamente alle proporzioni della mano, del piede, ecc., contengono sì fattamente il principio dei movimenti della mano e del piede che basta che l' anima voglia, ella con solo quei segni accosta realmente la mano all' oggetto che vuol prendere, e rivolge i passi per la direzione che brama. Si consideri bene che nè la strada, nè l' oggetto, nè la mano, nè il piede è nell' occhio; ma che la mano ed il piede, che si deve muovere, comunica per via dei nervi sensorii o motori col cervello; e che nel cervello termina pure il sensorio ottico, che rappresenta la mano ed il piede; si consideri che il principio animale unifica in sè la mano ed il piede veduto col sensorio ottico, sentimento passivo, ed il sentimento attivo dei nervi motori; si consideri che i movimenti della mano e del piede incominciano da movimenti piccolissimi del cervello per imperio dell' anima, i quali minimi movimenti si propagano, per la legge di spontaneità, ai nervi ed ai muscoli. Se dunque vogliamo dire che la sensazione visiva occupa un minimo spazio del cervello, potremo dire egualmente che l' anima, diretta o anche eccitata da quella sensazione, basta che ecciti un minimo movimento nel cervello, perchè si muova la mano od il piede, che nel sentimento soggettivo sono intimamente uniti con esso. Ora non è difficile concepire come una sensazione occupante uno spazietto minimo (nel sensorio ottico), quale sentimento passivo, dia principio al suo corrispondente sentimento attivo in un altro spazietto minimo (nelle radici dei nervi motori); nel quale spazietto minimo iniziandosi i movimenti, questi poi, per la legge che « l' animale tende a conservare ed accrescere i moti a lui grati », si vadano aumentando fino a muovere la mano ed il piede nella direzione determinata dalla sensazione visiva. Questo altro non dimostra se non l' ammirabile armonia, che pose il Creatore nella composizione dell' animale. Ma come accade, si dirà, che noi pur ci accorgiamo che l' universo visivo, essendo limitato all' estensione della retina, sia minimo rispetto all' universo reale? - Questo non può accadere mediante il paragone fra le grandezze date dal tatto e quelle date dall' occhio, perchè le grandezze date dal tatto vanno sempre d' accordo con quelle date dall' occhio, e quelle date dall' occhio vanno in perfetto accordo con quelle date dal tatto, sicchè le une commisurano le altre. In questo confronto si può bensì rilevare a che misura data dal tatto corrisponda la misura data dall' occhio, o a che misura data dall' occhio corrisponda la misura data dal tatto; ma non si arriverebbe mai a conoscere se una sensazione fosse più estesa assolutamente dell' altra. Per esempio, l' occhio mi dimostra una statuetta nel tempo che la mano la tasta. L' uomo dalla contemporaneità di queste due sensazioni altro non può indurne se non che l' oggetto, veduto dall' occhio, è così grande che produce tale ampiezza di sensazione nella mano; o viceversa l' esteso, tastato dalla mano, è così grande che adduce tale ampiezza di estensione visiva. Le sensazioni dunque dell' occhio e della mano, divenendo misura l' una dell' altra, non possono mai dare misure discordi, ma debbono dare misure scambievolmente commisurate, che sono misure di proporzione, non misure assolute. Come è dunque, per ripetere la domanda, che noi pure ci accorgiamo che la sensazione visiva di un esteso occupa meno spazio della sensazione tattile del medesimo esteso? Qui si tratta di trovare la ragione fra lo spazio, che occupa la sensazione di un sensorio, e lo spazio, che occupa la sensazione corrispondente di un altro sensorio. Ora questa proporzione non esiste fra i due sensorii, perchè nè l' uno nè l' altro somministra una misura comune , la quale potesse andar bene a misurare quelle due sensioni specificamente diverse; giacchè il sensorio ottico niente abbraccia del sensorio tattile, e il sensorio tattile niente abbraccia del sensorio ottico; ogni sensorio è limitato al proprio mondo; e quando il principio animale o razionale li paragona, altro non trova che eguaglianza; perchè il paragone è unicamente fatto per analogia, sicchè non paragona ampiezza ad ampiezza, ma proporzione a proporzione. Conviene dunque dire che la misura dell' estensione della grandezza della sensazione ottica sia la stessa sensazione; e la misura della grandezza della sensazione tattile sia la sensazione tattile; ed ecco in che modo. La retina ha due relazioni con noi: la relazione di sensorio e la relazione di termine esterno sentito. La retina nell' atto che fa da sensorio è lo stesso specchio visivo, è l' universo visivo; fuori di questo universo visivo, che è quanto dire fuori della retina, non vi è alcuno sentimento visivo. L' anima dunque, veggente per quest' organo, non può paragonare lo specchio somministrato da quest' organo ad altra cosa, perchè non vede alcun' altra cosa fuori di lui; e benchè non senta che l' organo, tuttavia neppure si dice che vegga l' organo; perchè la parola vedere si riferisce ai termini staccati e distinti dall' organo, portandosi l' attenzione ad essi e non fermandosi all' immediato sentito, cioè alla retina che li segna e rappresenta. In questa maniera la retina si sente soggettivamente; al che non si ferma l' attenzione, la quale anzi procede ai diversi colori di cui la retina è variegata, che prende (in virtù del principio razionale) per altrettanti oggetti esterni, ossia enti. Fino a tanto dunque che l' anima sente la retina così soggettivamente, qual sensorio in atto, ella non può paragonare lo spazio della retina ad altro spazio, perchè tutto lo spazio possibile dato all' anima da contemplare, tutto lo spazio dell' universo visivo è la retina stessa, non esiste che essa per l' anima; non esiste la testa del riguardante dove è l' occhio e la retina, non esiste il corpo del medesimo dove è la testa, ecc., perchè se esistono tutte queste cose, esistono nella retina e non fuori di lei. Ma consideriamo la retina nell' altra sua relazione con noi, cioè non più come sensorio, ma come termine esterno sentito. L' opposizione di queste due relazioni, che ha la retina con noi, si scorge ponendoci a riguardare coll' occhio nostro la retina dell' occhio altrui. In tale posizione l' occhio nostro fa a noi l' uffizio di sensorio; l' anima nostra sente internamente, soggettivamente, la retina di lui, quando la retina dell' occhio altrui, rispetto a noi che lo rimiriamo, non fa già l' ufficio di sensorio, ma di termine esterno da noi sentito, veduto. La retina dell' occhio altrui in questa relazione con noi non è rappresentante, ma rappresentata; è rappresentata nella retina nostra, ella occupa nella retina nostra uno spazietto piccolissimo e diventa una minima parte del nostro specchio visivo, del nostro visivo universo, diventa un' estensione assai più piccola dell' occhio altrui che io considero, più piccola ancora del capo o del corpo altrui, e via più piccola dell' interno universo visivo, che io sento nella mia retina. La mia retina, adunque, sentita soggettivamente è ampia come lo spazio dell' universo, e la retina altrui, da me sentita extra7soggettivamente, non è più ampia che una piccolissima particella dell' universo. Ma accade il somigliante rispetto a colui, la cui retina io miravo; la retina di lui, come sensorio in atto, è lo spazio universo, e la retina mia è una minima particella di questo spazio. Ciascuno può anche guardare la retina sua propria in uno specchio, e in tal caso la stessa retina acquista verso del riguardante le due relazioni: come sentita soggettivamente è l' universo visivo, come veduta, ossia sentita extra7soggettivamente, è un minimo spazietto dell' universo medesimo. Io conosco poi che la retina sentita soggettivamente come sensorio in atto, e la retina veduta, cioè sentita extra7soggettivamente come termine esterno, è identica, osservando che, coprendo quella retina che vedo come oggetto esterno, cessa la visione, cioè cessa la retina di essere sensorio in atto. Che se io voglio misurare la grandezza degli oggetti col tatto, fra questi oggetti trovo ancora la retina; ed allora il paragone delle sensazioni del tatto stesso mi dice che la retina occupa un piccolissimo spazietto nell' universo tattile. Provo poi che la retina toccata è quella stessa che fa l' ufficio di sensorio, accorgendomi che al sovrapporle la mano ella cessa di vedere. Ora questi fatti confermano quanto abbiamo detto più sopra, cioè che lo spazio continuo è nel principio senziente; e l' uomo non misura la grandezza degli oggetti esteriori se non applicando loro lo spazio che ha in sè, cioè lo spazio in cui termina il proprio sentimento; onde dai diversi modi, nei quali quei corpi si commisurano allo spazio soggettivo e fondamentale, ricevono diverse misure. Ma poichè i corpi veduti non toccano propriamente l' occhio, ma sono disegnati in esso dalla luce che vibrano, quindi la percezione degli occhi è percezione di segni corrispondenti ai corpi e non dei corpi stessi. Ma la grandezza di questi segni, benchè sì piccoli, sembra eguale alla grandezza dei corpi percepiti col tatto, perchè queste due maniere di sentire, come dicevamo, non hanno una misura comune alle loro grandezze rispettive, ma ciò che hanno di comune è la proporzione delle parti eguale in entrambe, la quale proporzione soltanto il principio razionale paragona. Rimane tuttavia a cercare come lo spazio occupato dalle sensazioni ottiche appaia così separato dallo spazio totale del sentimento fondamentale. Chè se non apparisse separato, già vi sarebbe la misura comune, nè lo spazietto della retina, dove sta il sentito, darebbe un mondo a parte, ma altro non sarebbe che una particella dello spazio totale del sentimento fondamentale. Ora questo avviene per più cagioni: Lo spazio, termine del sentimento fondamentale, non è misurato nel sentimento stesso, ma solo viene misurato poscia dalle sensazioni esterne, figurative e superficiali, appartenenti ad organi speciali; i confini non formano parte del sentimento fondamentale, e la sua continuità non ha traccia di linee o figure di sorte. Ma quei confini sono le stesse sensazioni superficiali, che appartengono al sentimento eccitato in organi speciali. Quindi accade che se vi è una sensazione superficiale, che stabilisca un confine limitato al sentimento superficiale, l' estensione di questa sensazione è unicamente quella che si sente; ella non si può paragonare coll' estensione totale del sentimento fondamentale, perchè questa estensione totale non si sente a quel modo, non esiste per noi facienti uso di quegli organi, che soli dànno i confini e però le misure determinate. Così quando l' uomo sente il piccolo spazio della retina dove la luce ha eccitato il sentimento, quel piccolo spazio è sentito del tutto isolato dal rimanente spazio superficiale del corpo umano, perchè in quel solo spazietto è l' eccitamento e non nel resto. Di più, quand' anche avvenisse che nello stesso tempo che la retina è eccitata dai colori, le parti circostanti fossero eccitate da stimoli loro propri, sicchè dessero anch' esse una sensazione superficiale; non avverrebbe ancora tuttavia che l' uomo sentisse quelle sensazioni disposte in una sola superficie continua, perchè vi è intervallo e separazione fra il nervo ottico e i nervi circostanti, che, venendo eccitati, ci fanno sentire; onde la sensazione superficiale riterrebbe delle lacune, che la separerebbero in più sensazioni, ognuna delle quali misurerebbe sè stessa, ma non l' altra, perchè niuna di esse sarebbe parte di una sensazione superficiale maggiore, la quale è condizione per essere misurata, giacchè nel caso nostro le parti non si misurano altrimenti che mediante il loro rapporto col tutto. Ancora, il tocco della sensazione riuscendo diversissimo, e al sommo vivo e distinto quello della luce, la retina richiamerebbe tuttavia a sè l' attenzione, e darebbe una superficie diversa da quella che le sarebbe contigua. Finalmente, e questo nasce principalmente dall' ingerenza del principio razionale, l' attenzione dell' uomo non si ferma alla sensazione soggettiva della retina, e neppure alla sensazione extrasoggettiva, ma va direttamente agli oggetti esterni rappresentati nello specchio visivo, e crede di percepirli immediatamente. Onde cessa la possibilità di paragonare la sensazione superficiale della retina colla superficie totale del corpo umano, perchè a quella non si attende, ma si attende agli oggetti, di cui ella presenta i segni, che ne formano la espressione. La seconda e la terza delle ragioni da noi date meritano qualche maggior considerazione. E` da riflettersi che la diversa organizzazione delle parti sensitive del corpo umano fa sì che una di esse sia suscettiva di un eccitamento, e un' altra di un altro diversissimo, onde se ne hanno sensazioni di un tocco così diverso come è quello proprio di ciascuna specie delle sensazioni dei cinque organi, le quali, rispetto al tocco, in nulla si assomigliano, giacchè niuno potrebbe trovare similitudine fra il colore, l' odore, il sapore, ecc.. Di che tali organi si chiamano altrettanti sensorii differenti. Ma la natura volle di più separarli in modo che le sensazioni degli uni non si continuassero alle sensazioni degli altri, le sensazioni dell' uno di essi occupassero uno spazietto discontinuo alle sensazioni di un altro; ed essendo discontinuo, non vi è uno spazio unico in cui cadano le dette sensazioni, mediante il quale si possa vedere quale parte di spazio occupa ciascuna di esse. Quindi la estremità del nervo acustico, che riceve l' impressione dell' aria vibrata, è in un luogo tutto differente da quello occupato dall' estremità del nervo ottico, che riceve l' impressione della luce; e così si dica degli altri sensorii speciali. Neppure si può dire che tali nervi o sensorii si continuino con parti che appartengono al senso del tatto, perocchè ciascuno è protetto e vestito di parti insensate; e quand' anche fossero sensate, elle o non sarebbero eccitate tutte contemporaneamente, o l' eccitamento darebbe una sensazione così debole che non si osserverebbe all' atto della sensazione vivacissima del sensorio con cui confina; onde ancora lo spazio occupato dalla sensazione di questo sensorio sarebbe isolato e non appartenente, come parte, a tutto lo spazio superficiale del corpo umano. Senonchè vi è discontinuità anche negli spazietti eccitati in uno stesso sensorio. Quando io considero come l' orecchio senta distintamente diversi suoni venienti da diversi punti, per esempio i suoni dei vari strumenti di un' orchestra, allora debbo credere che i raggi sonori vadano a colpire ed eccitare diverse parti del nervo acustico. E converrebbe forse studiare i diversi ingegni di cui si compone l' orecchio, di cui l' uso appieno non si conosce sotto questo aspetto, cercando se uno dei loro fini sia quello di tenere separati i suoni, facendo che i raggi sonori eccitino il nervo in parti diverse (1). I fisici spiegano benissimo come le onde sonore non si confondano fra loro pel principio da loro detto della « sovrapposizione dei piccoli movimenti »; ma questa non basta a spiegare il fenomeno delle sensazioni distinte, che non avviene nelle onde aeree, ma nel sensorio. Supposto poi che le onde sonifere, restringendosi ed appuntandosi, quasi come fa la luce col rifrangersi o riflettersi nelle lenti, vadano ad eccitare punti diversi della membrana acustica, è chiaro che non tutta la detta membrana è eccitata, ma solo quei punti di essa che vengono percossi; e ciò perchè l' onda non parte da ogni punto del corpo sonoro, ma il corpo sonoro che vibra produce un' onda sola, di cui approdano all' orecchio alcuni raggi, che finiscono in un solo punto, a differenza di ciò che fa la luce, la quale è mandata da ogni punto del corpo luminoso come da centro diverso. Onde la retina è tutta eccitata, e il suo eccitamento è vario come sono vari i punti dei corpi, che le riflettono la luce; il che fa la sensazione visiva, attissima a rappresentare in sè i corpi disegnati con proporzioni, o piane o prospettiche, accuratissime; laddove tutt' altro avviene nell' orecchio, che riceve suoni isolati, perchè non tutta la membrana acustica è colta, ma solo quei punti dove urta il raggio sonifero, rimanendo nella stessa membrana diversi spazietti non eccitati, e però privi della sensazione sonora (2). La spiegazione della diversità del tocco delle sensazioni eccitate non sarebbe perfetta, se non aggiungessimo qualche cosa intorno alla relazione che passa fra quel tocco e i movimenti extra7soggettivi e vibratorii delle molecole, di cui constano le fibre nervose. In primo luogo si ricordi che la causa efficiente delle sensazioni non sono i movimenti delle molecole della fibra, ma l' attività del principio sensitivo; i movimenti non sono più che la causa eccitatrice; quindi gli stessi movimenti, che sono accompagnati da sensazione in un corpo animato, rimangono privi di sensazione in un corpo non animato, perchè vi sarebbe l' eccitante, ma la causa che viene eccitata ed attuata non c' è. In secondo luogo il sentimento eccitato ha sempre per suo termine un esteso , altrettanto quanto il sentimento sedato , nè coi movimenti che si eccitano nel termine esteso sentito si rompe e discontinua l' estensione, ma si tratta unicamente d' uno spostamento di molecole, che, senza cessare di essere continue fra loro, si muovono quasi strofinandosi con più o meno di pressione alle loro superficie. Ciò posto, è chiaro: Che il movimento eccitatore non deve avere per effetto la mutazione dell' esteso continuo, il quale non si muta (se non forse nei suoi limiti che sono insensibili), ma deve cangiare il modo del sentire, deve rendere più vivo e diverso il modo, onde l' esteso continuo si sente dall' anima; il quale modo diverso e più vivo fa che la sensazione sia di un altro tocco. Perocchè il sentimento non ha per termine immediato il moto, come dicevamo, ma l' esteso intestinamente mosso. Quindi il movimento delle molecole non si può sentire in ciascuna sensazione speciale, ma si deve sentire lo stesso esteso, non entrando il movimento eccitatore nel principio senziente, il quale anzi è costantemente causa dell' unità del sentito, cioè della sua continuità. Per dirlo in altro modo, tale è la legge dell' attività sensitiva (animale) che ella produce un sentimento continuo . Ora nel continuo non vi è movimento sensibile, perocchè per sentire il movimento converrebbe dividere il continuo, cioè converrebbe conoscere i confini delle parti che si muovono, e così distinguere queste parti, laddove nel continuo è abolita la distinzione delle parti ed i loro confini. Quindi è che più movimenti vicini di tempo nello stesso organo sensorio non producono più sensazioni, ma una sensazione sola; ossia altro non possono fare se non che il tocco della sensazione si cangi, secondo il numero delle vibrazioni comunicate all' organo sensorio nel tempuscolo in cui si forma la sensazione, come si vede nei toni musicali, che sono altrettante sensazioni di tocco specificamente diverse, e diversificano secondo il numero delle vibrazioni del corpo sonoro (1); al qual numero di vibrazioni deve rispondere un pari numero di scosse, ossia di vibrazioni nelle molecole elastiche dell' organo sensorio, che da esse è urtato. Ma la ragione perchè supponendo che 24 vibrazioni di un corpo sonoro producano il tono do , ce ne vogliano 27 a produrre il re , non può cercarsi che nell' indole speciale della costituzione del sensorio acustico, e più ancora nella natura del principio sensitivo, che è il produttore di quella sensazione; onde questa ragione deve indubitatamente essere psicologica in parte, ed in parte cosmologica. Lo stesso è da dirsi della ragione perchè fra i primi tre toni (supponendo sempre il do prodotto da 24 vibrazioni) vi sia una differenza di tre vibrazioni; laddove dal mi al fa non vi sia che la differenza di due vibrazioni, e in questo caso l' orecchio stesso discerne fra questi due toni correre un intervallo minore che fra gli altri; come pure è da dirsi lo stesso della ragione perchè fra gli ultimi tre toni vi sia una differenza di quattro vibrazioni, e l' orecchio non discerna tuttavia fra il sol, la, si che un intervallo tonico pari a quello che discerne fra il do, re, mi (1). Riassumendo adunque ciò che vi è di natura psicologica nei sentimenti animali, ossia riassumendo gli elementi che l' anima somministra colla propria attività all' armonia che trovasi nel sentimento, diciamo che questi elementi psicologici sono: 1 L' unità dello spazio; 2 l' unità della successione; 3 l' unità della moltiplicità, e quindi la forma dell' armonia che si trova nell' animalità; 4 il tocco del sentimento. Ma noi dobbiamo investigare più addentro come sorga l' armonia nell' animalità; perocchè, quantunque fin qui ne abbiamo indicati gli elementi, e l' origine o psicologica o cosmologica di ciascheduno, tuttavia non abbiamo ancora esposto il modo come ella sorge ed è formata. Il tempo e lo spazio è quasi la sede della moltiplicità, che è nel senso animale; a questa l' anima dà unità. Ma non ci sarebbe armonia, se non ci fosse diletto, e questo senso dilettevole è da cercarsi nel tocco del sentimento. Ciò non basta ancora a compire il concetto dell' armonia sensibile, perocchè ogni sentimento singolare ha il suo tocco proprio, ma l' armonia non può risultare che da più sentimenti. Dall' anima viene anche l' unità dilettevole di questi vari sentimenti. Acciocchè dunque vi sia armonia non basta che l' anima dia la sua unità allo spazio che è la continuità, non basta che la dia al tempo che è la durata; ma deve di più dare unità alla moltiplicità dei sentimenti; l' anima gliela dà, sieno essi di vario o del medesimo tocco (1), i quali sorgono nel seno del sentimento sedato fondamentale. Nè qui è ancor tutto; l' anima a fare che insorga l' armonia, deve dare a più sentimenti non una unità qualsiasi (perocchè ella dà sempre e necessariamente qualche unità ai sentimenti dei quali ella è l' identico soggetto), ma una unità dilettevole ; ed è questa che si tratta di spiegare da noi, distinguendola da quella unità che non manca mai per l' identità del soggetto senziente. Ora per dichiarare quale sia e onde risulti questa unità piacevole, noi dobbiamo ascendere a quelle leggi universali (ontologiche o cosmologiche), secondo le quali agisce e patisce convenevolmente ogni sostanza; le quali leggi si possono egualmente applicare al principio sensitivo ed al razionale. Esse sono le seguenti. La prima si annunzia così: « L' ente ama quell' atto, a cui egli è avviato, e riceve molestia, se incontra qualche impedimento che glielo mozzi per via; trova all' opposto diletto, se può spiegare tutto il suo atto fino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe ». Diciamo « l' ente ama quell' atto a cui egli è avviato », perocchè se non avesse preso già l' avviamento ad un atto, egli non riceverebbe molestia dall' andarne privo; solo gli mancherebbe il diletto, che ogni atto d' un ente sensitivo racchiude per propria essenza. Diciamo « sino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe », perchè quando un ente è in via ad un atto, il suo moto è limitato di specie e di grado dalla propria virtualità, e quindi ha un fine naturale dove il moto si quieta. Applicando questa legge al principio sensitivo, cade sotto di essa la spiegazione che noi davamo del dolore; il principio animale volto all' atto di porre il sentimento fondamentale nel modo più pieno che gli sia possibile (istinto vitale), sta male se di ciò far pienamente gli è conteso, e questo suo star male è il dolore. La seconda legge riceve questa espressione: « L' atto, a cui un ente è avviato, talora è molteplice per successione, cioè risulta da una serie di anelli, i quali si possono considerare come un atto solo per l' unità dell' ente, che spiega la sua attività in più potenze comunicanti. In tal caso l' ente tende a percorrere tutta la serie di quegli anelli fino all' ultimo, e il venire arrestato per via gli è molesto ». Diamo un esempio di questa legge, togliendolo dall' operare del principio razionale, a cui è connesso e subordinato il principio sensitivo. Il principio razionale ha un atto composto di tre anelli: 1 giudizio, 2 affetti, 3 movimenti esterni; e talora di quattro: 1 giudizio, 2 affetti, 3 decreti, 4 atti esterni. L' attività di quel principio non suole dunque fermarsi al semplice giudizio, ma a tenore del giudizio (primo anello) produce gli affetti (secondo anello) verso la cosa giudicata buona o mala, ecc.; nè si ferma qui; ma o interpone decreti ed operazioni esterne conseguenti, o gli affetti producono istintivamente i movimenti nel corpo corrispondenti (terzo anello). Fra i movimenti corporei vi sono quelli dei suoni vocali; ed è perciò che l' uomo è inclinato a far seguire a un vivo sentire l' emissione della voce, naturale finimento della sua attività sensitiva tratta in movimento. Questi suoni poi, legati intimamente come ultimi effetti col pensiero e coll' affetto, diventano segni naturali esterni, dai quali si può dagli altri uomini, che esperimentano lo stesso, conoscere ciò che l' uomo pensa e sente dentro di sè. Ma prima che passino a servire a questo ufficio, essi sono lo spontaneo e naturale finimento dell' atto sensitivo e razionale dell' uomo, il quale vuole completarsi, vuole andare fin dove egli può. Il che si vede manifesto principalmente quando l' uomo, mosso dentro da un grande sentimento, manda fuori qualche grande suono od anche qualche grande espressione, che non ha propriamente legame col suo pensiero o col suo sentimento, se non perchè quello sfogo è l' ultimo termine dello stesso; per esempio, nella collera uscirà in una bestemmia, in una imprecazione a tutt' altro che a ciò con cui si adira, o pronuncierà una parola sconcia o sonante anche priva di significato, come «babai», papae, capperi , ma più comunemente pronuncierà il nome di Dio, per isfogarsi dicendo la cosa più grande che egli sappia trovare. Così nella lingua ebraica la parola Dio si aggiungeva come superlativo a tutti i vocaboli, dicendosi « monte di Dio », « principe di Dio », ecc. per significare monte altissimo, gran principe, ecc. (1). Lo stesso usano di fare gli Arabi (2) e tutti gli Orientali, e in Euripide s' incontra la stessa maniera (3). Quindi anche l' origine del giuramento e delle esclamazioni, che si mandano fuori quasi istintivamente senza considerazione, come facevano i Latini colle parole Pol, Edepol, Jupiter , ecc.; onde fu bisogno una legge positiva, colla quale si vietasse agli uomini di nominare invano un nome sì augusto, affine di raffrenare l' umano istinto, che non poteva quasi a meno di pronunciarlo. E così si fa servire allo stesso sfogo il pronunciare di una cosa grande qualsiasi, come in italiano diciamo « Poffare il cielo, poffare il mondo! potenza in terra! » ecc.. Ed il giurare pel capo di alcuno o per altra creatura è come un divinizzarla, onde anche per questo fu vietato. I quali sfoghi, che terminano in una voce, conviene osservare che appartengono al principio razionale, a cui il sensitivo si continua; ed è perciò che, qualunque sia la voce o l' espressione che si pronuncia, intende sempre chi la emette di dire qualche cosa, non semplicemente di fare uno scoppio sonoro, intende di dire e segnare una cosa grande oltremodo, anche ove per sè la voce nulla significasse; nel qual caso è voce nuova, inventata a bella posta per ultimare l' atto di quel pensiero, il quale non può stare chiuso, ma vuol rendersi sensibile, legarsi ad un reale, che lo renda più vivo e più consistente a lui stesso che l' ha; ufficio che, come abbiamo veduto, sogliono prestare i reali immaginari o in generale sensibili, rendendosi compimento (segni) degli interni pensieri. Ed è tanto grande questo bisogno che ha l' uomo di ultimare così in un segno reale esterno l' atto cominciato nel suo pensiero che, dopo vietato dalla divina legge l' interporre invano il nome della divinità, pur i migliori uomini ne sentono il bisogno, e quasi per ingannare sè stessi sostituiscono vocaboli simili, siccome fanno i fiorentini, che invece di « Poffare Iddio » sogliono dire « Poffare il zio », ed i Cappuccini, che hanno inventata la esclamazione « Pojane! »quale innocente intercalare di meraviglia. L' istinto che ha l' uomo di completare l' atto suo, che incomincia nel pensiero, si continua all' affetto, muove talora la volontà a fare i decreti, e si consuma nell' azione esterna, in cui l' uomo stesso che la fa, ne scorge l' espressione che glielo rende più vivo, è istinto potentissimo, e se ne ha grave molestia se viene contraddetto e rimane storpiato dall' ultimazione dell' atto suo. Onde questo istinto vale a dar buona ragione di molti altri fatti dell' umano operare. E perchè mai se non per questa cagione appunto l' uomo, a cui soppravvenga sciagura grandissima, manda grida e lamenti, e di più fa onta e danno a sè stesso, e si sciupa le vesti, e si lorda di cenere e di fango, e si batte la fronte e si strappa il crine, e siede e ravvoltolasi per terra, e si morde e si dilacera, e perfino si uccide? Per quella legge che dicevamo; ed una delle origini del suicidio è pur questo istinto, e il bruciarsi sul rogo del marito delle vedove indiane, non tutte finte, ne è una prova evidente (1). Cerca forse l' uomo sollievo e diminuzione ai suoi mali col farne degli altri a sè stesso, coll' aggiungersene di nuovi? Non è questa la causa del suo incrudelire seco medesimo; ma si è quell' atto interno di dolore veementissimo, che non può tenersi e fermarsi al primo passo, ma vuole trascorrere la sua via e spiegarsi in tutta la naturale sua protensione; vuole ingrandirsi, ed ultimarsi, e segnarsi, e quasi lasciare di fuori nella straziata persona di sè un monumento; onde i mali, che fa l' uomo in tale condizione a sè stesso, gli sono più agevoli a tollerare che agevole non gli sia il rattenere quell' istinto, lasciando dimezzato l' atto del suo dolore cominciante nel pensiero e finiente nel corpo, per l' unità del soggetto intellettivo7animale, per quel nesso dinamico che lega insieme le varie potenze, e il moto dell' una fa trascorrere e continuarsi nell' altra. Laonde, anche quando l' animo esultante di gioia induce l' uomo a gongolare e trionfare nei suoi gesti esteriori, e lisciarsi, e azzimarsi, e coronarsi di rose, e banchettare, e inebbriarsi, e magnificamente e copiosamente parlare, non è a credere che egli faccia tutto ciò unicamente per trovare in cotali cose maggiore diletto; ma vi tiene gran parte l' istinto di far sì che l' atto della sua gioia interna percorra e rivolga, a così dire, tutta la naturale sua orbita, e se ne sfoghi ed esaurisca l' attività. Vero è che, come dice Seneca, parvae et lenes curae loquuntur, ingentes stupent ; ma questo stupore si spiega colla stessa legge, considerando parte che la veemenza della passione animale offende gli organi, a cui è tolta ogni virtù di continuare il movimento dell' animo, parte che la intensità dell' atto interiore compensa la sua estensione, sicchè l' istinto si nutre, per così dire, e si soddisfa nel desiderio e nello sforzo di perfezionare l' atto del dolore interno coll' accrescerne il grado, e tuttavia non ne viene a capo, sicchè non trovando forze di svolgere l' atto e comunicarlo alle potenze esterne, l' addolorato dentro impetra. La solitudine adunque sì amata e ricercata dall' uomo profondamente afflitto, e il non poter mai togliere il pensiero dalla causa del suo dolore, nè parlare d' altro che della sua sciagura, e il voler anatomizzarla e considerarla in tutte le più minute circostanze, e riuscirgli intollerabile chi gliela pretende diminuire; nasce dalla legge stessa, dallo stesso istinto, che tende a far sì che l' atto stesso del dolore, già avviato, si compia e si perfezioni con quanta attività egli s' abbia maggiore; sicchè non rimangasi rannicchiato in germe, anzi ciò che è nel seme acquisti suo corpo e cresca adulto quanto mai egli può. Ed alla stessa legge deve riputarsi la causa perchè le lagrime sollevano l' infelice, a cui non è forse cosa più cara del pianto. E` l' ultimo sfogo dell' atto, senza il quale l' atto, non consumato ancora, rimane pieno di virtù e in conato di germinare. L' origine dei sacrifizi alla divinità e specialmente dei sacrifizi umani (ai quali furono surrogati quelli in cui s' immolavano a Dio le cose più care dell' uomo invece dell' uomo) deve pure a questa legge riferirsi. Il sentimento della somma umiliazione, di un Signore supremo di tutte le cose, e specialmente del riconoscersi rei di peccato in faccia a quel potentissimo, a quel Sovrano infinito, addimanda più che un atto sterile e freddo di solo pensiero; vuole spiegarsi in un atto realissimo, che, trascorrendo tutto l' uomo, lo penetri e domini; il quale atto di natura infinito, perchè rispondente al concetto di un ente infinito, l' uomo non trova come completarlo se non colla distruzione di sè, e più imperfettamente colla distruzione delle cose sue. Perocchè l' essenza del sacrificio, sia esso olocausto, o sia per il peccato, esige propriamente che l' uomo stesso ne sia vittima; gli altri sacrifizi non sono più che un surrogato a quello perfetto. Infatti nell' olocausto l' atto del sentimento muove da questo pensiero: « in paragone del Creatore la creatura è nulla, il Creatore solo è ente ». Il sentimento del nulla non si esprime sensibilmente e, per così dire, monumentalmente se non colla distruzione. Nel sacrificio per il peccato l' atto del sentimento muove da quest' altro pensiero: « la creatura, che ha offeso il Creatore, non deve esistere ». Il pensiero dell' indebita esistenza non riceve l' ultima sua attuazione se non realizzando la non esistenza, e così ancora colla distruzione. Finalmente, anche espressione di un sommo amore è il sacrifizio, perchè non essendovi atto in cui l' amore sia più intenso ed operativo che nel soffrire per la persona amata, l' amatore grande cerca questo atto come l' ultimo sforzo amoroso che di far gli sia dato; a cui massimamente è invitato, quando disperato dolore dell' amata persona perduta lo determina e già lo avvia agli atti crudeli. Quindi alla morte di Patroclo i soldati di Achille si rasero i capelli e ne copersero il cadavere; quindi le crudeltà in uso presso tutti i popoli antichi nei funerali o nelle feste pei trapassati (1). La terza legge dell' armonia, ossia della conveniente azione degli enti, si formula: « L' atto semplice o molteplice, continuato pel nesso di più potenze che lo si comunicano, dopo compiuto, non cessa sempre d' un tratto, ma rimettendo con una certa legge, per la quale quell' atto passa a stati diversi ordinati in serie successive; il qual passaggio graduato fino alla totale estinzione dell' atto, è grato al soggetto che lo fa, perchè a lui naturale, e se gli è impedito, ne riceve molestia ». A provar questa legge nell' « Antropologia » abbiamo recato l' esempio dei colori immaginari e dei suoni (1); diciamone ancora qualche cosa. Ciò che Fresnel e Arago hanno detto del sistema delle ondulazioni per ispiegare i fenomeni della luce fu riputato assai probabile. Ma essi limitarono i loro studi alle leggi secondo le quali procedono le onde luminose del fluido, che suppongono diffuso in tutta la natura; il che non basta a spiegare la visione. Questa nasce nel sensorio visivo e non nell' etere, che non può far altro officio che di eccitatore. Lo psicologo, adunque, deve giovarsi delle loro fatiche per riuscire a conoscere o congetturare in qual maniera il detto sensorio operi, quando insorgono nell' anima le sensazioni luminose. Io credo che riceverebbe non piccolo vantaggio questa difficile questione, se si trasportasse nel sensorio stesso quanto quei due perspicaci fisici trovarono o congetturarono dover avvenire al di fuori di esso nel detto fluido. Secondo questo concetto il nervo ottico sarebbe un fascicolo di filamenti nervosi, pieno di una sostanza sommamente elastica (e forse fluida), le molecole della quale riceverebbero l' impressione delle ondulazioni eteree, e vibrerebbero longitudinalmente; queste vibrazioni riuscirebbero simili alle vibrazioni longitudinali di una corda di violino. L' ampiezza di queste onde, la loro celerità, il loro numero, i loro incontri diversi spiegherebbero i fenomeni della visione. Primieramente i diversi colori risulterebbero dal diverso numero di vibrazioni, che opererebbero le molecole nel filamento nervoso; il qual numero sarebbe corrispondente al numero delle vibrazioni eteree. Si può avere per dimostrato che il numero delle vibrazioni eteree varia secondo i vari colori; per esempio, le vibrazioni della luce gialla sono in maggior numero delle vibrazioni di quella che eccita il colore rosso. Quanto le onde sono in maggior numero, tanto elle sono più veloci e meno ampie. Simili vibrazioni, con questa diversa velocità, ampiezza e numero, debbono sorgere nelle molecole della sostanza nervosa, e così produrre eccitamenti diversi, e così dare colori diversi; il che spiega come ciascun filamento nervoso possa esser atto a dare la sensazione di tutti i colori, pel diverso eccitamento che riceve dai diversi raggi luminosi (1). Di più, le vibrazioni poi propagate lungo il filamento nervoso dovrebbero, giunte all' estremo, riflettersi e tornare indietro secondo certa legge; e questo ritorno delle vibrazioni spiegherebbe i colori immaginari e complementari, di cui si ha l' immagine (2), al venir meno di una sensazione esterna. Infatti la vibrazione che s' infrange, urtando in un ostacolo prima di esser compiuta, ne produce una riflessa, la cui velocità deve variare dalla prima secondo una legge complementaria. Quindi ancora s' intenderebbe perchè i colori accidentali complementari sieno opposti e si annullino, cioè producano del nero invece che del bianco. Se nel filamento nervoso ritorna una vibrazione riflessa complementaria, e contemporaneamente l' occhio sia impressionato dallo stesso colore, si deve produrre una vibrazione in senso opposto, che rimetta in quiete la pupilla. Rammentiamo un esperimento noto ai fisici. Sieno collocati sopra un fondo nero due piccoli quadrati, colorati l' uno in violetto e l' altro in aranciato, i cui centri sieno punti neri. Fissati alternativamente di secondo in secondo questi due punti, e poi chiusi gli occhi, sembrerà di vedere tre quadrati, l' uno dei quali di color giallo, che è complementario del violetto, l' altro bleu, che è complementario dell' aranciato, il terzo in mezzo di colore verde, che è il colore risultante dalla composizione del giallo e del bleu. All' incontro, se i due quadrati sono colorati essi stessi di colori complementari fra loro, per esempio di violetto e di giallo ovvero di aranciato e di bleu, il quadrato di mezzo non si vede più, cioè si fa nero. Questi fenomeni sembrano potersi spiegare così: Gli assi ottici non hanno la stessa direzione quando guardano successivamente i due quadrati colorati; indi avviene che i due quadrati colorati colpiscono la retina in ispazietti diversi, sicchè ciascun occhio ha l' impressione di due quadrati, quattro impressioni. Ma due di queste impressioni battono nello stesso spazietto delle due retine, e l' una di queste due impressioni è d' un quadrato, l' altra dell' altro, perchè l' asse ottico di un occhio è diretto ad un colore nella stessa direzione nella quale l' asse ottico dell' altro occhio è diretto all' altro colore; sicchè le impressioni dei due colori vengono a battere nello stesso spazietto della retina di entrambi gli occhi. Tuttavia i due occhi, finchè fissano i quadrati, non ne veggono che due, sia perchè le impressioni non hanno tempo di comporsi, sia perchè la spontaneità dell' anima non concorre allora a produrre immagini fantastiche, sia perchè l' attenzione non è volta che a vedere i due quadrati ed ad altro non bada. Ma non così accade dei colori immaginari, che succedono appresso. Essendo impressionati tre spazietti diversi nelle due retine, questi debbono dare tre serie di vibrazioni longitudinali nei filamenti nervosi. I due spazietti impressionati di un colore solo debbono dare ciascuno per colore immaginario o riflesso il colore complementario, perchè la vibrazione riflessa deve essere complementaria di quella che s' infranse. Lo spazietto di mezzo, impressionato dai due colori contemporaneamente, deve dare due vibrazioni riflesse complementarie dei singoli colori, le quali, essendo di ampiezza e celerità diversa, ritornano senza confondersi; e perchè un filamento nervoso non può che dare una sensazione sola alla volta, proporzionata al numero delle vibrazioni delle sue molecole, perciò ne viene un colore composto dai due complementari. Ma se i due colori dei quadrati sono complementari essi stessi, allora, mentre è in corso la vibrazione suscitata da uno di essi per recarsi dal di fuori al di dentro, è chiaro che gli deve venire incontro dal di dentro all' infuori la vibrazione riflessa dell' altro colore eguale perfettamente ad essa, ma in senso contrario; e così le due serie di vibrazioni si elidono reciprocamente, e quelle che vanno distruggono alternativamente le altre due serie che ritornano riflesse. Colla stessa ipotesi sarebbe spiegato altresì perchè un colore, prima di morire nell' occhio, lasci dopo di sè altri colori; per esempio, il bianco si converta in giallo e poi in rosso, e poi in indaco, e poi in azzurro e finalmente in verde, col quale svanisce. Quando si considera che la vibrazione molecolare, che ritorna indietro dall' estremità interna del filamento nervoso, è complementaria del colore di cui la retina fu impressionata, si può concepire che di nuovo quella vibrazione riflessa complementaria s' infranga, venuta che sia all' estremità esterna del filamento nervoso; nel qual caso deve ritornare di nuovo dal di fuori al di dentro con una celerità differenziata. E questo andare e venire di onde sempre diverse deve dare i diversi colori immaginari, fino a che l' eccitamento si acqueta del tutto, o diviene la vibrazione sì piccola che non è sufficiente a produrre un colore distinto (1). Dei ragionamenti simili a questi si potrebbero fare a spiegare le leggi del meccanismo, con cui il nervo acustico ammette l' eccitamento che dà il suono. Ed io penso dover essere assai probabile che le sensazioni di tutti gli altri sensorii nascano per somiglianti vibrazioni, ed ubbidiscano a leggi analoghe. Ora, se ad ogni soggetto è dilettevole l' atto suo, e conseguentemente gli è molesto l' impedimento che ritrova per via al suo atto, o il turbamento che s' ingerisce in esso, sforzandolo ad interrompere un atto a mezzo per farne un altro, ne avverrà che all' anima sensitiva dovranno essere grate quelle vibrazioni delle molecole sensorie, che producono in essa un maggior sentimento; e però quelle vibrazioni, che procedono accordate fra loro in modo che non s' impediscano l' una coll' altra, nè si turbino o confondano fra loro, ma sì anzi quelle che vanno tutte insieme ad accrescere il maggiore eccitamento possibile. Ora questo spiega perchè alcuni colori ed alcuni toni sono armonici e grati a vedersi o ad udirsi insieme, ed altri più o meno ingrati. Deve dirsi, come abbiamo già toccato nell' Antropologia , che i colori e toni grati sieno quelli le cui vibrazioni sono naturali e spontanee, il che accade altresì dei colori e suoni complementari ed immaginari; quelli a cui lo stesso meccanismo del sistema nervoso è già da sè spontaneamente determinato, sicchè l' esterna impressione non fa che associarsi alla spontaneità sensitiva, ed aiutarla e secondarla, alleggiando così anche la fatica a quel che vi pone del suo l' attività del principio senziente. All' incontro, quando il principio senziente riceve eccitamenti contrari o tali che si turbano fra loro e s' impediscono, sicchè egli non sia lasciato continuare e finire gli atti sensitivi da lui cominciati, costretto dai nuovi eccitamenti a farne altri diversi lasciando i primi; allora ne ha molestia, è un disaccordo, una disarmonia che l' affligge. Applichiamo questa teoria a spiegare le consonanze e gli accordi dei suoni. Primieramente se più suoni partissero dallo stesso luogo e nello stesso tempo, essi non produrrebbero che una sensazione sola, corrispondente alle vibrazioni di quel filamento nervoso che ecciterebbero. Questo si può provare coll' esperienza di Savart, che fece girare una ruota dentata in modo che i suoi denti percotessero contro una carta ferma. Se la ruota gira lentamente, si distinguono i colpi che dànno i denti della ruota nella carta, perchè quei colpi sono dati con notevole intervallo di tempo fra loro. Ma se si accelera assai il movimento della ruota, non si ode più che un suono solo continuo, la cui acutezza si aumenta colla velocità della rotazione, producendo così vibrazioni più frequenti; e ciò perchè i diversi colpi si succedono con un intervallo di tempo minimo, cioè minore di quello che è necessario a formarsi la sensazione. Acciocchè dunque vi siano più sensazioni acustiche e però vi sia accordo, è necessario che le vibrazioni aeree non approdino all' orecchio nello stesso tempo, ovvero partano da un diverso luogo; nel qual caso operano sopra un diverso filamento nervoso. Vi può essere accordo tanto fra i suoni successivi, purchè distanti di assai breve intervallo, quanto fra i suoni contemporanei venienti da diversi luoghi, per esempio dai diversi strumenti di un' orchestra. L' accordo dei suoni successivi, come sono quelli che ci vengono da un solo cantore o da un solo strumento, dovendo eccitare la sensazione negli stessi filamenti nervosi, non ci potrebbe dilettare, se l' anima, che raccoglie quei diversi suoni, non li rendesse contemporanei mediante la sua natura immune dal tempo. E` dunque l' anima quella che sente un sentimento solo risultante da più suoni successivi, il qual sentimento è quello della melodia; il che prova di nuovo la semplicità e identità in tempi diversi del principio sensitivo. Infatti l' atto del sentimento fondamentale ha una durata costante, e i suoni successivi sono modificazioni di quel sentimento identico; in questo sentimento adunque che rimane essi trovano il loro confronto, e lasciano il dilettevole armonico, che si chiama melodia. Qui di nuovo si vede come l' unità dell' armonia è di origine al tutto psicologica. Ma, secondo la legge da noi posta, questo diletto nasce all' anima essenzialmente sensitiva per la ragione che i due o più suoni successivi le sono naturali e spontanei, cioè sono tali che in essi ella spiega la sua attività facilmente, e produce atti sensitivi senza essere storpiata, impedita, costretta a mutarli prima di averli perfezionati. Perocchè: 1 vi è un diletto che viene all' anima da ciascuno dei suoi atti, essendole il sentire sempre dilettevole; e questo non è armonia, ma semplice diletto, che viene offeso quando i singoli atti le si storpiano a mezzo; 2 vi è un diletto che viene all' anima da più atti, quando l' uno di essi non disturba l' altro, anzi l' aiuta; e questo è il diletto dell' accordo, ossia dell' armonia. Infatti l' anima trova diletto, allorquando ella fa il suo atto colla maggiore facilità possibile e colla minore fatica possibile; e questo le accade quando non è costretta a mutarlo. Ond' è che la regolarità dei suoi atti le sia piacevole, perchè non le impone il bisogno di mutare stampo alla sua operazione, ma conserva quel metro o quella forma di operare, senza novità e cangiamenti. Quindi anche si trova che i suoni armonici, che fanno accordo fra loro, sono quelli che vengono prodotti da tali numeri di vibrazioni, il rapporto dei quali sia quello dei numeri naturali 1, 2, 3, ecc., senza frazioni; di che avviene che l' ampiezza delle vibrazioni sia pure come quei numeri, sicchè due o tre o quattro, ecc. vibrazioni di un suono siano eguali appunto ad una vibrazione d' un altro suono. Così la velocità delle vibrazioni d' un suono riesce appunto doppia, o tripla, o quadrupla, ecc. dell' altro suono, senza che avanzi nulla. In questo modo distribuite le vibrazioni: 1 non si confondono mai, nè impediscono; 2 hanno rapporti facilmente percettibili; 3 questi rapporti sono sempre gli stessi, sicchè l' eccitamento ha un metro costante. Quindi l' anima, dovendo concorrere colla sua attività alla produzione di tali sensazioni, trova subito la legge secondo cui produrle, cioè la sua azione è regolare; e questo stampo regolare è ciò che produce l' abitudine, l' operare secondo la quale le è spontaneo e facilissimo. Basterà dunque osservare quali suoni si producono con vibrazioni eteree, che abbiano i rapporti dei numeri naturali, per conoscere quali sieno i suoni che meglio s' accordino insieme. Si trova corrispondere a questa condizione l' accordo di ottava, le cui vibrazioni sono come 1 a 2; l' accordo di quinta, le cui vibrazioni sono come 2 a 3; l' accordo di quarta, le cui vibrazioni sono come 3 a 4 (1), l' accordo di terza, le cui vibrazioni sono come 4 a 5; gli accordi che si dicono perfetti: fa, la, do; do, mi, sol; sol, si, re ; i cui numeri delle vibrazioni sono sempre come 4, 5, 6. Ora poi la sapienza divina ordinò le cose esterne corporee per modo che aiutassero l' anima ai suoi atti colle loro proprie leggi. Quindi è noto che una corda vibrante, oltre la vibrazione di tutta la corda, vibra altresì colla sua metà, colla sua quarta parte, ecc., in modo che unitamente al suono dell' intera corda fa sentire altri suoni, e quelli appunto che formano fra loro armonia (2). Venendo agli accordi, che nascono dai suoni contemporanei che ci vengono da luoghi diversi, la ragione di essi è la medesima. Perocchè, quantunque noi supponiamo che le sensazioni discordi sieno ricevute da filamenti nervosi diversi, onde non si possono confondere fra loro, tuttavia la spontaneità dell' anima vi concorre a produrle; e però ella è sempre obbligata ad operare irregolarmente, ed a variar metro nel suo operare, se i numeri delle vibrazioni non hanno un giusto e netto rapporto fra loro. E questo suggella e conferma ciò che dicevamo, cioè che l' unità dell' armonia è di origine psicologica, benchè la spontaneità dell' anima venga eccitata, o con regolarità o senza, dagli stimoli esteriori che mutano il suo termine. Finalmente la ragione, per cui piace il tempo a battute regolari, trovasi nella stessa legge che presiede all' operare dell' anima. Dalle quali cose possiamo conchiudere: Che il mondo corporeo ricevette dalla sapienza creatrice un ordine ammirabile, acciocchè egli somministri ordine e armonia al sentimento e al principio razionale. Che quest' ordine non giace solamente nelle cose esterne all' uomo, ma altresì nella sua organizzazione (su di che torneremo ancora), nella fabbrica squisita dei suoi sensorii, i quali sono architettati e condotti con tale arte e maestria di proporzioni che mirabilmente rispondono e s' accordano alle proporzioni del mondo esterno e materiale. Che lo stesso principio sensitivo raccoglie il mirabile ordine del mondo esterno e del suo proprio termine (i sensorii), ed è quello che colla sua attività vi pone la forma , e fa sì che il mondo esterno, che non avrebbe per sè natura di ordine, di proporzione, di armonia, ma solo di entità ed azioni separate e disgiunte, riceva tutto ciò da lui stesso, per l' unità che il medesimo principio senziente crea in quella acconcia molteplicità. Ora quest' ultima parte formale dell' armonia, benchè non sia di origine razionale , è nondimeno di origine psicologica , perchè viene dall' anima in quanto è sensitiva.

Psicologia Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E` dunque ufficio della filosofia, e propriamente della dialettica, il distinguere l' ente mentale , opera della mente, dall' ente vero ed oggettivo, od oggettivabile; e non ragionare di quello come se fosse questo; nel che solo sta l' errore. Nel quale errore è cosa a cader facilissima. Perocchè la mente non solo cangia le sue negazioni in enti positivi, a cagione dei vocaboli o segni a cui ella affigge i suoi concetti, i quali sono atti positivi; ma talora fa anche il contrario, vestendo di una forma negativa il positivo. Di più, il positivo ed il negativo lo tramuta a suo piacere mediante la forma di cui lo veste, e ciò che essendo negativo fu da lei reso per via della forma positivo, torna a vestirlo di forma negativa, e poi lo riveste di altra forma positiva, e così fa un composto di concetti mentali, l' uno involuto nell' altro, mediante quante forme le piace di mettergli attorno. Il qual fatto si vede manifestamente nell' algebra, dove si pone qualunque segno si voglia, o negativo o positivo, a qualunque quantità, o positiva o negativa; e però si nega la negazione, e ancora si nega la negazione negata e così via; perocchè io posso scrivere una quantità positiva con due segni negativi..., e posso scrivere quantità negativa con un segno positivo..., e posso dare a qualunque quantità tutti i segni che voglio, senza che cessi mai di essere positiva o negativa, com' ella era al principio. Lo stesso accade nel linguaggio. Se io dico: « a Dio non manca cosa alcuna », dò forma d' una doppia negazione alla più grande delle affermazioni, perocchè quella proposizione equivale a quest' altra di forma positiva: « Iddio ha tutto ». Ora, questo deve essere il primo ufficio del dialettico, volendo arrivare al fine di una disputa: prendere la proposizione di cui si disputa, e trarle d' attorno, l' una dopo l' altra, tutte le camicie che le ha indossato la mente coll' opera principalmente del linguaggio; e ridottala nuda, come ella è in sè stessa, osservare se la forma sua primitiva è una negazione o un' affermazione. Perocchè così il ragionamento è semplificato, e si spaccia prestamente dai sofismi, a cui dànno luogo quegli inviluppi lavorati dall' operazione soggettiva dell' umano intendimento. Si consegue altresì, con un tale processo, che apparisca assai chiaro se ciò che si predica di una cosa sia un accidente della cosa stessa o una mera relazione colla mente. Quando, a ragion d' esempio, Platone ed Aristotele riprendevano Parmenide di contraddizione per aver detto uno l' ente, e non di meno averlo detto eterno , e così posta nell' ente la pluralità della sostanza, «ten usian», e dell' accidente, «symbebekos» (1), l' italiano filosofo avrebbe potuto replicare così: « E` vero che, predicando l' eternità del mio ente, la forma del discorso divide in esso due cose: l' essere ente e l' essere eterno; ma questa divisione sta solo nella forma del concepire soggettivo e di esprimere la cosa; poichè l' eternità non è che una relazione esterna che concepisce la mente, è una negazione del tempo o della cessazione; onde non pone nulla nell' ente oggettivo più che l' ente stesso; anzi il vero valore di quel predicato è questo, che per esso s' impedisce di trovarsi nell' ente il molteplice, si riduce ad una negazione della molteplicità e dell' accidente ». Tale è dunque l' opera a cui deve applicarsi il dialettico: distinguere le forme diverse colle quali la mente vestì e rivestì, e soprarivestì un concetto o una sentenza, rimettendola nello stato suo primitivo e semplice. I diversi sensorii dell' uomo spezzano l' ente: questa è propriamente analisi cosmologica, cioè somministrata al principio razionale dal suo termine (il mondo). L' analisi comincia ad essere psicologica, quando il principio razionale divide ciò che non è diviso nel senso, e dai sentimenti passivi ed attivi (bisogni sensibili). All' analisi cosmologica risponde una sintesi pure cosmologica, e consiste nell' unire, che fa il principio razionale, le diverse rappresentazioni sensibili, che i suoi vari sensorii gli dànno del medesimo ente, accorgendosi che trattasi di un ente solo, variamente rappresentato nei vari effetti prodotti dalla sua azione in vari sensorii. Questa sintesi è da noi ancora detta cosmologica, perchè è il mondo, termine del sentimento, che somministra il legame a tutte le varie sensazioni e percezioni di un corpo; e questo legame è l' identità dello spazio occupato dal corpo agente in modi sì vari (1), sicchè le varie sensazioni sono diverse pel loro diverso tocco, non pel diverso spazio che occupano; le varie parti dello spazio isolatamente prese sono indiscernibili dall' uomo, perchè una parte dello spazio è come l' altra, quando non se ne possano distinguere i confini e la situazione nello spazio totale. Ora, niun sensorio distingue la situazione e i confini del proprio spazio, perocchè, come dicemmo, i confini dello spazio di un sensorio non sono sensibili allo stesso sensorio; onde il principio razionale non riceve da un sensorio solo il modo di conoscere la situazione, ovvero i confini dello spazio totale di quel sensorio. Ciascun sensorio non somministra al principio razionale se non la situazione e le parti relative alla totalità dello spazio suo proprio, non la situazione e i confini di questa totalità. E poichè la situazione, i confini di tali parti, la proporzionale loro distribuzione nei vari sensorii è identica, perciò lo spazio altresì sembra identico, come abbiamo veduto dello spazio che occupano le sensazioni del tatto e quelle della vista, due sensi che presentano lo spazio più accuratamente disegnato internamente in varie parti. Di qui, dunque, accade che l' uomo non moltiplichi i corpi secondo i suoi sensorii, ma solo le loro rappresentazioni, e tutte queste le riferisca ad un ente solo, che dice tattile, colorito, gustoso, sonoro, ecc.: questa è sintesi cosmologica . Dal qual fatto ebbe origine la distinzione fra la sostanza e gli accidenti; perocchè quell' ente unico, a cui riferisce tutti gli effetti che riceve nei suoi sensorii, l' uomo lo chiama sostanza; e questi effetti glieli attribuisce come suoi accidenti, e ciò perchè, essendo essi per l' uomo rappresentativi di lui, l' uomo non disgiunge la rappresentazione dal rappresentato, essendo quella che gli fa conoscere questo, e questo svanendogli innanzi, se lo vuole al tutto svestire di quella. Vero è che gli effetti, che un corpo produce nei sensorii, sono diversificati dalla varietà dei sensorii; ond' è che al corpo agente appartiene un' azione sola nel principio sensitivo, ed un' altra nel termine di lui, che è il corpo animato, e non più; anzi queste stesse diversificano forse unicamente per la natura diversa del principio sensitivo e del suo termine, in cui accade l' operazione. Spiegata così l' origine del concetto di sostanza , è spiegata altresì quella di specie, sia piena , sia astratta . La specie piena è la specie o concetto dell' ente vestito di tutti i suoi accidenti; la specie astratta è la specie dell' ente spogliato dei suoi accidenti, lasciatogli solamente quel vincolo, quell' unità, a cui tutti gli accidenti rappresentativi si riferivano. Noi abbiamo detto che la specie astratta è quel concetto che ci fa conoscere « « l' atto pel quale l' ente sussiste »(1) »; ma non abbiamo determinato quale sia quest' atto; ora possiamo farlo. Noi conosciamo positivamente gli enti per gli effetti che le loro azioni producono nei nostri sensorii, e più generalmente nel nostro sentimento. Ora il sentimento stesso somministra talora un fondamento, pel quale il principio razionale si accorge che un gruppo di effetti si debbono attribuire ad un ente solo, come accade nel concetto dei corpi che si forma, perchè il sentimento dà la percezione di una forza che si espande in uno spazio solo, benchè in quel medesimo spazio si abbiano sensazioni di diverso tocco (2); onde si conchiude che è una forza sola, un agente solo che produce quei molteplici effetti. Quindi quella forza, quell' agente unico diventa la specie astratta; e l' astrarla è l' opera del principio razionale, perocchè i sensorii non dànno che quella forza o agente, vestito ora di certi suoi effetti, ora di certi altri; ma sempre di questi vestito. Che se noi esperimentiamo un altro gruppo di effetti che non hanno lo stesso legame, la cui unità non è data nel sentimento, come, poniamo, seguitando coll' esempio dei corpi, se non si riferiscono allo stesso identico spazio, noi formiamo tosto di cotesto secondo gruppo un altro ente, e ne abbiamo un' altra specie. Così si origina per noi la moltiplicità degli enti . Ma il gruppo degli effetti sensibili può differire solo quanto alla realità. In tal caso, essendo nel resto simili, essi si conoscono per la stessa idea o specie. Quindi avviene che la loro moltiplicità sia moltiplicità d' individui e non moltiplicità di specie, nè diversità di specie astratta, nè diversità di specie piena; perocchè anche alla specie piena possono corrispondere più individui nell' ordine della realità, e in ciascuno di essi essere la sostanza e gli accidenti, giacchè la diversa realità moltiplica sì quella che questi. Quando, dunque, noi dicevamo che le specie astratte si dividono secondo l' atto diverso dell' essere, intendevamo secondo l' atto dell' essere ideale, e non secondo l' atto dell' essere reale. Perocchè la diversità degli atti dell' essere reale moltiplica solamente gli individui reali. A questi poi risponde una specie sola astratta; onde nell' ordine dell' idealità l' atto dell' essere rimane uno e identico, e però una sola è la specie astratta, una sola la sostanza ideale di più individui eguali. Noi abbiamo detto che la specie astratta rimane la stessa, quando i diversi gruppi di effetti sensibili, che ci fanno conoscere l' ente, non differiscono che per la loro diversa realità. Ora, parrebbe a questo contrario il vedere che nei diversi gruppi di effetti sensibili, rispondenti alla stessa specie, si dà qualche varietà, oltre la realità diversa, senza che perciò si muti la specie astratta: così una pera può variare di grandezza, di colore, ecc., dalle altre pere e da sè stessa considerata in tempi diversi, e tuttavia tutte si conoscono colla stessa specie astratta di pera. Al che si risponde che il gruppo degli effetti sensibili rappresentanti un solo ente deve prendersi nella sua totalità, e però se la stessa pera ha diversi aspetti percepita in diversi tempi, questi aspetti od effetti sensibili, benchè successivi, appartengono allo stesso gruppo; e così dicasi delle varietà, che si trovano nelle varie pere individuali. Quale è dunque il principio che moltiplica gli individui? - La loro diversa realità . Quale è il principio che moltiplica gli enti? - Come l' ente finito è costituito da quell' unità che giace nel gruppo dei suoi effetti sensibili, per la quale unità questi sono appunto così aggruppati che si dimostrano tutti effetti di uno stesso agente, la quale unità rispetto al corpo trovasi nell' identità di spazio, rispetto all' anima nell' identità di sentimento, ecc.; così la moltiplicità degli enti è data nel sentimento che si ha dei medesimi, quando in questo sentimento si sente un principio o cagione unica di certo numero di effetti sensibili, e si sente che a quel principio o cagione non si possono in nessuna maniera attribuire altri effetti sensibili, spettanti ad altro principio o cagione unica, che pur si sente. Noi chiameremo fondamento sensibile dell' ente questo principio o cagione di un dato gruppo di effetti, e diremo che gli enti si moltiplicano come si moltiplicano i loro fondamenti sensibili. Quale è il principio che moltiplica le specie piene? - Nelle specie manca la realità dell' ente, e però manca quella moltiplicità che nasce dalla diversa realità. Il diverso fondamento realmente sensibile moltiplica gli enti; ma se questa moltiplicazione è per via di realità, in tal caso a più fondamenti sensibili, diversi per la sola loro realità diversa, corrisponde una specie sola. Ora i fondamenti sensibili sono dati dal sentimento vestiti del gruppo dei loro effetti; e ai sentimenti sensibili così vestiti risponde la specie piena. Accade però che tutti gli effetti sensibili, che si attribuiscono allo stesso fondamento, non possono essere contemporanei, l' uno escludendo l' altro; per esempio, se un corpo è rosso, non può essere giallo; la specie piena poi, fa conoscere allo spirito nostro il fondamento sensibile vestito di tutti i suoi effetti sensibili, contemporanei o compossibili; ed è perciò che le specie piene si moltiplicano, perchè lo stesso fondamento sensibile si veste di vari effetti sensibili. Quale è il principio che moltiplica le specie astratte? - Le specie astratte fanno conoscere il solo fondamento sensibile dell' ente; ond' esse sono diverse, quando fanno conoscere fondamenti che sono diversi, prescindendosi dalla loro realità, come pure dal considerare gli effetti accidentali sensibili. La diversità dunque delle specie procede dalla relazione ontologica, che ha l' essere reale coll' ideale; i quali due modi di essere hanno tale relazione fra loro, che non è determinata da altro principio superiore se non dall' ordine intrinseco dello stesso essere. Noi abbiamo posto a principio della moltiplicazione degli enti il loro diverso fondamento realmente sensibile; ma lo spirito umano colla sua facoltà del fingere suppone di tali fondamenti anche quando non sono, e così crea a sè stesso gli esseri mentali, le diverse maniere dei quali appartiene al dialettico il classificare diligentissimamente. Talora lo spirito fa ciò col prendere qualche accidente, qualche effetto sensibile, e considerarlo come fosse il fondamento sensibile di un ente; il che gli è facile a fare, specialmente quando gli effetti sensibili sono così ordinati fra loro che l' uno è condizione precedente dell' altro. Poniamo che cangi in un ente il colore, che è un mero effetto sensibile; in tal caso egli predicherà del colore la grandezza, la forma, il movimento, ecc., considerando il colore come un ente, subbietto di tutte queste qualità. In simil guisa egli cangia in ente ogni astratto, le sue specie possono moltiplicarsi senza che si moltiplichi l' ente a cui si riferiscono, in virtù del potere che ha di restringere lo sguardo della sua mente e di concentrare la sua attenzione. Ma una delle creazioni o finzioni della mente umana più degne di riscuotere l' attenzione del filosofo perchè così spontanea all' umana natura, così necessaria, e però comune al genere umano, si è il concetto di materia. A questa, termine del principio sensitivo, è così essenziale la relazione con questo, che, privatane, non si può più concepire tale qual' è; pure lo spirito la disunisce, e così disunita la considera arbitrariamente come un ente per sè. Ora la materia disgiunta dal sentimento non ha più concetto di ente, ma di un rudimento di ente, di ente in via, senz' avere ancor tocco il suo essere compiuto. Si può adunque domandare se questo concetto di materia sia una specie piena o una specie astratta, o che sia. Ed è evidente che non può essere una specie piena, perchè si prescinde dai suoi effetti sensibili; neppure una specie astratta, che si riferisce anch' essa ad un fondamento sensibile. Non si può adunque classificare un tale concetto se non nella classe dei generi (ideali), i quali sono idee che non rappresentano l' ente, ma qualche cosa dell' ente. Onde la parola materia non significa alcuna specie di enti, ma ciò di cui molte specie di enti si compongono, ed ella ha due aspetti: 1 o si considera la materia, di cui gli enti corporei sono composti, in relazione alla forma, e in tale aspetto ella è cosa al tutto passiva o ricettiva della forma, e pel sintesismo non è senza questa; 2 o la si considera in relazione al concetto nostro, in quell' atto nel quale questo concetto si forma, e in tal caso ella significa ciò che con altro vocabolo noi abbiamo chiamato il sensifero . Che se noi ora vogliamo definire il sensifero, ossia la materia sotto questo aspetto, secondo la dottrina precedente circa l' origine della moltiplicità degli enti, diremo così: al fondamento sensibile risponde nell' ordine ideale la specie astratta, e quando a più fondamenti sensibili rispondono più specie astratte, allora si dice che quei fondamenti sensibili differiscono fra loro di specie e non d' individuo meramente. Ora, se io prendo più fondamenti sensibili di diversa specie, e ne formo un astratto prescindendo dalle loro differenze specifiche, io ho formato il genere di quei fondamenti; e questo genere è appunto il concetto della materia sensifera. Di che si scorge che il concetto della materia è generico (ideale). Ma poichè il fondamento sensibile generico, dal quale per astrazione è stata tolta la specie determinata dal gruppo degli effetti sensibili, è un fondamento sensibile informe, indi apparisce: Che la specie astratta fa conoscere la forma degli enti (1), pigliando la parola forma nel senso antico per ciò che fa essere l' ente quello che è. Che il concetto di materia esclude quello di forma, e però di specie. Ma qui nasce la questione se nella specie astratta o nella specie piena sia compreso l' individuo. Noi abbiamo di sopra dedotto la moltiplicità degli individui dalla realità. Ma altro è che nella specie non si comprenda la moltiplicità degli individui (individui reali), ed altro è che non si comprenda l' individuo (individuo specifico). Diciamo adunque che nella specie, o piena od astratta, non si contiene la moltiplicità degli individui; sicchè colui che avesse sola la specie nella sua mente, non potrebbe mai conoscere il numero degli individui reali di quella specie (almeno parlando delle specie degli esseri contingenti a noi conosciuti), ma nello stesso tempo diciamo che nella specie si contiene l' individuo specifico , cioè ogni specie fa conoscere l' ente individuo, la cui realizzazione può ripetersi più volte senza cangiamento alcuno nella specie. Infatti la forma degli enti, la loro forma compiuta, altro non è che la loro individualità quale nella specie si conosce, e però si dice individualità specifica . Quindi la distinzione fra il concetto di natura e il concetto d' individuo : quella ha due sensi, indicando tanto l' ente informe, per esempio la materia, quanto l' ente formato, e in questo secondo caso risponde alla specie astratta, esprime l' individuo come si trova in questa, non la moltiplicità degli individui reali; onde si applica a ciascun individuo, non a tutti. Così si dirà « la natura umana sussiste in più individui », il che non vuol già dire che sia divisa in più individui, ma che in ciascuno sussiste tutta la natura umana, e chi dicesse che la natura umana è divisa in più individui, parlerebbe impropriamente. La forma degli enti adunque costituisce la loro individualità specifica, ossia ideale; e se si scompone l' individuo, per astrazione in tal caso si distingue la natura e l' individualità, prendendo la natura come l' ente informe, e l' individualità come la sua forma, il suo compimento, l' atto ultimo che lo perfeziona e specifica (1). Le nature dunque, che non hanno individualità, sono informi, non sono enti compiuti; l' individualità è dunque un carattere essenziale dell' ente. Laonde la materia è un ente informe, e in questo senso non7ente; onde se si interpreta il placito di quegli antichi che dicevano prodursi le cose dal non7ente [...OMISSIS...] , come detto delle cose materiali e della causa materiale, non è senza verità. Ma questo ente informe, che non è compiuto ente, si può informare ed individualizzare? La scuola di Aristotele ha detto di sì, ed anzi tutta la dottrina delle forme aristoteliche è tratta dalle forme, di cui si considerò vestita la materia. E sia pure; non vogliamo opporci a questa dottrina, ma vogliamo spiegarla in modo ragionevole. Vogliamo cercare che cosa vi sia di cognizione soggettiva in queste forme concepite dalla mente umana, cioè che cosa vi ponga il soggetto stesso razionale quando ne acquista i concetti, e che cosa vi sia in esse di cognizione assoluta . Riprendiamo il concetto esposto della materia: la materia si concepisce come il « concetto generico dei vari fondamenti sensibili ». Dunque la materia non si conosce che da ciò che ci ha dato il senso, su cui fece il suo lavoro l' astrazione della mente. Ma tutto ciò che presenta il senso alla mente è il termine di lui, e trattandosi, come nel caso nostro, del senso animale, questo presenta alla mente una forza (sensifera) che si spande nell' estensione. L' estensione poi, ora la presenta non figurata, com' è nel sentimento fondamentale e nei sensorii speciali, presa nella sua totalità; ora la presenta figurata, come sono le parti dell' estensione presentata da certi sensorii, dal tatto, dalla vista, ecc.. Nessuno dice che l' estensione non figurata, presentata dal sentimento fondamentale o dai sensorii speciali, sia individuata; tale estensione somministra solo il concetto della natura o dello spazio indefinito . Ma le parti figurate dal termine dei sensorii, queste si dicono individuate, ed è ad esse che dobbiamo il concetto dei corpi speciali. Noi abbiamo veduto infatti che i corpi speciali si unificano mediante il loro fondamento sensibile, che è una parte determinata dello spazio, nel quale si hanno certe sensazioni, che per l' unità appunto di quello spazio diventano a noi rappresentatrici dello stesso corpo, dello stesso spazio. Dicemmo ancora che i fondamenti sensibili vestiti dei loro gruppi di sensazioni sono più, quando la specie astratta con cui si conoscono è una sola; nel qual caso la loro moltiplicazione si fa nell' ordine della realità e non in quello dell' idealità. Così gli individui della specie umana sono molti, e l' uomo7concetto è uno solo; quegli individui si conoscono esser più, non pel concetto di uomo che è uno solo, ma pei diversi fondamenti sensibili reali, i quali sono più; è adunque coll' aiuto del senso (potenza che comunica coll' essere reale) che si conosce la loro pluralità. Trattandosi ora di enti materiali, la loro sussistenza, ossia realità, è materiale. In ogni fondamento sensibile si percepisce adunque una materia (forza diffusa nell' estensione), ed è il gruppo delle sensazioni che la veste, che a noi la determina, e ci fa conoscere ch' ella è una e non un' altra. Ma questo gruppo di sensazioni per opera dell' astrazione si può sciogliere, separarne alcune, ritenerne presenti allo spirito alcune altre. Ora in ognuno di questi gruppi di sensazioni vi è: 1 forza sensifera, 2 estensione figurata, 3 sensazioni di diverso tocco o dello stesso tocco, ma di diversa qualità. Noi possiamo dividere, colla virtù dell' astrazione, questi tre elementi costituenti un corpo in tutte le guise, e formarci così tanti concetti generici ideali. Infatti: Noi possiamo restringere la nostra attenzione alla sola forza sensifera, e in tal caso abbiamo il concetto della materia informe . Possiamo restringere la nostra attenzione all' estensione, e abbiamo il concetto dei corpi matematici . Possiamo restringere la nostra attenzione alle sensazioni di tocco diverso o ad un genere di esse, e abbiamo il concetto dell' accidente o di un genere di accidenti. Possiamo restringere la nostra attenzione a due di quegli elementi, alla forza ed all' estensione, ed abbiamo il concetto di corpo (in genere). Possiamo restringere la nostra attenzione all' estensione figurata, al tocco delle sensazioni, e abbiamo il concetto di accidenti figurati, ossia limitati da una certa estensione. Finalmente possiamo restringere la nostra attenzione alla forza e alle sensazioni di diversa qualità, riferibili ad un altro fondamento sensibile, e abbiamo il concetto delle diverse guise di materia, per esempio, acqua, aria, fuoco, legno, ecc.. Tutti questi concetti sono generici e non specifici; e perciò non fanno conoscere l' individuo, perocchè niuno di essi fa conoscere la forma compiuta. Il primo esclude qualunque forma, gli altri pongono delle forme imperfette, che sono parti della forma. Dove si vede che vi sono dei generi che fanno conoscere la materia, altri una parte della forma, ma non raggiungono perciò l' individuo. Ora, posciachè da una parte il concetto di materia esclude l' individuo, e perciò non ha limite (giacchè è la forma quella che limita le cose limitabili); e d' altra parte la sussistenza delle cose materiali è materiale, quindi s' intende come la materia (secondo il concetto esposto) non si possa moltiplicare, ma bensì dividere in parti, rimanendo sotto tutte le forme lo stesso concetto di materia, perocchè se si moltiplicasse, non sarebbe più materia, ricevendo limitazioni. Quindi la moltiplicazione degli individui viene dalla forma, in quanto questa li fa sussistenti; viene dalla realità della forma, e non dalla materia, come credevano gli antichi (1). Ciò che si dice della materia del tutto informe, si deve dire altresì dei generi di materia, che è il sesto dei concetti sopra enumerati; perocchè non è che l' acqua in più gocce si moltiplichi, essendo in ciascuna tutta la sostanza dell' acqua espressa colla parola acqua; ma bensì si divide in parti, giacchè quella parte d' acqua che è in una goccia, non è nell' altra. Onde avviene della materia, o del tutto uniforme o formata solo genericamente, il contrario di quello che avviene dell' anima, che si può moltiplicare e non dividere . La forma dunque dei corpi, la forma compiuta a cui risponde la specie, è formata da tutto il gruppo di quelle sensazioni rappresentative, che si riferiscono allo stesso fondamento sensibile, e però allo stesso ente; e questa forma individua il corpo. Ma questa individuazione è ella perfetta? V' è in un corpo un assoluto individuo? O pensiamo noi l' individuo nel corpo con una cognizione soggettiva, per quella legge ontologica che ci obbliga a dare a tutte le cose che noi pensiamo la forma di ente, e perciò l' individualità, senza la quale non può esser l' ente? Ecco la questione che ci proponevamo. Noi l' abbiamo toccata altrove, e abbiamo detto che i corpi prendono la loro vera individualità dallo spirito a cui sono termine, ma non l' hanno in sè stessi, perchè per sè stessi, divisi dallo spirito, non sono enti compiuti, e meritano quindi l' appellazione di non enti; appellazione che li distingue tuttavia dal nulla (1). Non sussistono così staccati dal loro principio, e però sono qualche cosa dell' ente, che risponde ad un concetto astratto della mente; quando adunque si considerano i corpi come individui, ciò fa lo spirito per la legge della sintesi soggettiva . Dei corpi poi, uniti allo spirito, si può parlare in due modi: o secondo quello che noi li conosciamo per l' esperienza dei sensi, ed è questa la cognizione a cui rispondono tutti i vocaboli inventati ad esprimere le cose corporee; o secondo alcuni ragionamenti, che per lo meno hanno valore congetturale, nei quali si considerano come effetti d' un agente semplice straniero all' uomo, che dicesi principio corporeo; e sotto questo aspetto non vi è linguaggio da applicar loro con proprietà. Ad ogni modo, se è vero che questo principio corporeo agisce nel nostro spirito, e produce in esso l' effetto del fondamento sensibile e delle sensazioni di cui si veste, i corpi ricevono un' altra individualità, mutuata da questa loro causa prossima; e ciò che si potrebbe dire di questa specie d' individualità è al tutto simile a ciò che si può dire di quella individualità, che essi hanno come termini del nostro spirito. Parliamo dunque di quest' ultima. Una tale individualità, che attribuiamo ai corpi, è di due maniere, perocchè: 1 o si considerano gli elementi corporei, che noi supponiamo estesi e continui; 2 ovvero i corpi composti da questi elementi. Gli elementi corporei non hanno altra individualità che quella che viene loro: 1 dalla continuità dell' esteso che occupano; 2 dalla diversità sensibile dell' esteso da loro occupato. Ora l' individualità, che ha per fondamento il continuo, non è vera individualità, perchè non dà all' ente propria unità, giacchè anche nel continuo qualunque spazio assegnabile, essendo fuori degli altri spazi, non forma con essi un solo e medesimo essere. Quindi apparisce che il continuo non ha quella qualunque unità, che può avere solo dal principio senziente a cui è tutto presente, e che d' altra parte così appunto lo costituisce. E` dunque una sintesi soggettiva del principio razionale l' attribuire agli elementi quella individualità, che è propria solo del principio senziente . Quanto poi ai corpi composti, o sono inorganici od organati. Gli inorganici sono ancor meno degli elementi suscettibili di unità e d' individualità; ma il principio razionale gliela attribuisce, per la stessa legge ontologica secondo cui deve operare per poter pensare le cose, e per la legge psicologica della sintesi soggettiva. A tale uopo nondimeno egli è aiutato dalla composizione delle forze attrattive, che appartiene alla costituzione del mondo esterno, per la quale ogni corpo, avendo un centro di gravità, pare che abbia un' unica forza, che lo determina in una direzione o posizione. Ma poichè la sola forza o causa di moto non costituisce l' ente ed è un' astrazione, perciò quell' individualità, che si può dare ad un corpo per la concentrazione delle sue forze, non è più che un' individualità astratta e non specifica. Si troverà un miglior fondamento all' individualità dei corpi nella loro organizzazione? Rispondiamo che, o questa organizzazione si considera come effetto di forze brute, insensitive, ed in tal caso la sua unità è ancora un' astrazione; l' individualità che ne risulta è individualità astratta, e attribuita dal principio razionale al corpo nel concepirlo per la legge della sintesi soggettiva. Se poi si pone che l' organizzazione sia formata e dominata da un principio sensitivo, in tal caso si trova in questo principio sensitivo, nella sua perfetta unità e semplicità il vero fondamento dell' individuo; ma l' individuo allora non è più il corpo, ma è il composto di principio (senziente) e di termine (sentito); perocchè questo composto è veramente uno ed indivisibile. Dalle cose dette si deduce una regola per conoscere quale sia l' idea specifica, poichè risulta che è quella idea, la quale fa conoscere un ente, e un ente individuato. Acciocchè poi faccia conoscere un ente, è necessario che faccia conoscere il fondamento sensibile dell' ente, o qualche cosa che faccia l' ufficio di quello, l' ufficio di soggetto, di causa prossima, in una parola di punto d' unione di quel gruppo di qualità che lo determinano; le quali o vestono l' ente, e se ne ha l' idea specifica piena, o si astraggono ritenendo la sola relazione che ha il fondamento dell' ente con esse, e se ne ha l' idea specifica astratta. Noi abbiamo poi descritta un' altra sintesi, che fa il principio razionale guidato da quei diversi sentimenti del principio senziente, in cui si rifondono e risolvono più sensazioni diverse, rappresentanti diversi enti; per esempio, varie sensazioni recano all' animo il sentimento della gioia o della tristezza, ecc., i quali sentimenti divengono quasi il nastro, che lega insieme nel pensiero le azioni di enti diversissimi, ed è un altro fonte dei generi che si compone lo spirito umano. Ancora, lo spirito umano quando è pervenuto al suo operare libero, fa sintesi di ogni maniera, legando insieme arbitrariamente qualsivoglia complesso di cose, e considerandolo come unità; il che gli giova mirabilmente ad abbreviare i suoi ragionamenti, come si vede nell' algebra, per esempio nel calcolo delle funzioni analitiche, dove una funzione di una o più lettere rappresenta sotto l' aspetto di una cosa sola tutte le infinite maniere, onde quella lettera e quelle lettere possono essere legate seco stesse o con altre quantità; e le lettere medesime sono già una sintesi arbitraria di quante unità si voglia, e connesse insieme come si voglia, secondo il bisogno del calcolo. A fare le quali sintesi, secondo l' arbitrio, il principio razionale fa uso dei segni; giacchè uno di essi può rappresentare molte e varie cose, secondo ciò che l' uomo stesso ha stabilito e seco medesimo convenuto. Quindi le idee complesse, una sola delle quali può far conoscere qualsivoglia gruppo di altre idee; l' ultima delle quali è l' idea del tutto . Ma l' idea del tutto non è arbitraria, ma ha il suo fondamento in parte nell' unità dell' essere universale, fuori del quale non è cosa alcuna, come osservava Parmenide (1). Non si può dire che egualmente si fondi nell' organismo dell' universo, perocchè l' uomo potrebbe pensare al tutto, anche se l' universo non fosse organato od assembrato, com' è, quasi in un solo grande essere. D' altra parte l' universo propriamente non è il tutto assoluto, ma solo il tutto relativo . Le idee dunque degli enti, siano specifiche sieno generiche, si vanno formando dall' uomo secondo quel modo limitato, nel quale egli con essi comunica pel sentimento; e in questo lavoro l' uomo è limitato da certe leggi, parte cosmologiche, venienti a lui dal termine del suo sentimento, parte psicologiche, venienti dall' anima che si lascia volgere, secondo la sua natura, a rispondere a quei termini che gli sono presentati. I termini poi del sentimento non porgono al senso gli enti, ma dei segni che li rappresentano al principio razionale, cioè delle azioni ed effetti, che ricevono l' indole e il carattere loro dalla natura dello stesso recipiente, cioè dall' anima, che ne è la vera causa efficiente, quando gli agenti da lei diversi non sono che cause eccitatrici . Non è dunque l' uomo col sentimento naturale in comunicazione diretta cogli enti in sè, coi quali non comunica che per via d' intelletto. Dovendo dunque l' intendimento conoscere gli enti (poichè l' ente è l' oggetto suo proprio) dai segni loro rappresentativi, egli non può andar più là nella cognizione di essi di quello che tali segni lo possono menare; è dunque limitato nel suo conoscere a cagione della materia limitata che gli è data, su cui esercitare le operazioni razionali. Il che però non toglie che egli non possa acquistare molte cognizioni intorno agli enti di un' assoluta verità (1). Di qui si vede quanto vana sia quella filosofia che asserisce (dico asserisce, perchè non adduce prova alcuna di sue sentenze) che « l' ordine della cognizione dell' uomo risponde accuratamente all' ordine degli enti »; il che è nulla meno che trasformare l' uomo in Dio. Noi non ci indugeremo a confutare un paradosso contraddetto da tutte le più sane scuole filosofiche. Passeremo piuttosto a indicare la legge dell' analogia soggettiva . La quale è una nuova limitazione, che si aggiunge all' umano conoscimento. Perocchè, se la stessa cognizione di quelle cose, di cui l' uomo ha la percezione sensibile, tiene tanto di limitato e di soggettivo, quanto sarà più accorciato il passo all' intendimento, quand' egli toglie ad argomentare e ragionare di ciò, di cui nulla gli accenna il sentimento, niuna percezione gliene porge? L' analogia ha luogo, appunto, circa quegli enti coi quali il sentimento non comunica immediatamente, e dei quali perciò l' uomo non riceve azione, modificazione, effetto alcuno. Di tali enti che cosa può l' uomo conoscere? Noi dividemmo tutte le cognizioni umane in due grandi classi, che chiamammo di intuizione e di predicazione . Quanto all' intuizione pura e sola, ella non ci fa conoscere che l' essere in universale. La predicazione poi suol cominciare dalla percezione sensibile dell' ente sussistente. Avendo questa, noi conosciamo la sua forma nella specie, cioè nell' essere universale limitato dall' effetto sensibile che a lui si rapporta, e la sua sussistenza nell' affermazione . In appresso analizziamo la forma e la materia, ne conosciamo gli astratti e le parti. Appresso ancora sintesizziamo; e in fine, confrontando più esseri, ne rileviamo le relazioni di vario genere. Ora, se non ci è data la percezione, ci manca il fondamento di tutto questo lavoro. Che cosa può tener luogo di questo fondamento? Dei vocaboli o altri segni, che non hanno alcuna virtù rappresentativa dell' ente di cui si tratta; delle relazioni ontologiche degli enti percepiti coll' ente non percepito, la cui notizia s' indaga. Ora questi enti, che non cadono nella percezione umana, sono di due maniere: 1 altri non cadono nella percezione umana per accidente, come se un uomo fosse tenuto all' oscuro tutta la vita sua, sicchè non avesse mai veduto luce e colori, ovvero fosse nato cieco; 2 altri non cadono nella percezione umana, perchè alieni e lontani dagli umani sensorii o dall' umano sentimento naturale, quali sono gli spiriti puri. Rispetto alla prima classe di questi oggetti, non hanno luogo le relazioni ontologiche se non mediante i vocaboli, perchè essendo essi esseri contingenti, che l' intuito dell' essere in universale e necessario non può rivelare, non rimane altro mezzo di cognizione che i segni non rappresentativi . Tali sono i vocaboli, di cui si compone il discorso di colui che ragiona di colori ad un cieco, i quali non rappresentano a lui i colori per modo veruno. Che cosa dunque dicono al suo intendimento? Quello solamente a lui fanno intendere dei colori che questi hanno di comune coi suoni, e con altri sentimenti o enti sensibili dal cieco percepiti. Ma questo elemento comune è così poco che non costituisce una similitudine, ma una analogia . Che cosa è dunque l' analogia? che sfera di cognizione comprende? - L' analogia non è fondata nel sentimento, ma nella proporzione . Infatti fra gli enti specificamente diversi vi sono sovente proporzioni eguali; il grande, il piccolo, il semplice, il molteplice, e la maggiore o minore moltiplicità o numerosità, ecc., costituiscono delle proprietà che riguardano gli enti, non in quanto sono percepiti e sentiti, ma in quanto sono enti o di un dato genere di enti, per esempio, del genere dei contingenti; e questi caratteri, o note generiche ed ontologiche, non stabiliscono una similitudine fra gli enti, ma appunto quello che si dice analogia . I segni adunque non7rappresentativi danno di tali enti una cognizione analogica, per la quale l' uomo contemporaneamente acquista la cognizione della sussistenza di essi; non acquista la cognizione della loro forma positiva, ma in luogo di questa, di alcune determinazioni, sufficienti per non confondere l' ente con altri, che si possono dire una forma analogica vicaria della positiva. Il somigliante dicasi degli angeli, che sono pure esseri contingenti; se non che di questi, essendo enti completi e non accidenti come i colori, si possono raccogliere altresì gli effetti; ma non gli effetti immediati e rappresentativi, come sono quelli che fanno sentire l' immediata azione dell' ente nel sentimento, la quale azione a noi lo rappresenta; ma gli effetti mediati ed esterni, dai quali argomentiamo la sussistenza, e alcune doti o potenze. Ora poi tali effetti si sogliono riferire a potenze simili a quelle di cui abbiamo positiva cognizione, salvo a concepirle di maggior efficacia, se gli effetti, non differendo di specie, differiscono di ampiezza da quelli che osserviamo avvenire nella natura. Non potremmo però assicurarci dell' esattezza di questa similitudine, giacchè noi sappiamo che talora vi sono di quelle cause, dette dagli antichi equivoche, le quali non serbano coll' effetto somiglianza se non virtuale ed eminente. In tal caso il concetto di tali cause o potenze non potrebbe essere, per noi, se non analogo alle cause o potenze conosciute positivamente. Ma per ciò che riguarda la cognizione dell' essere assoluto ed infinito, cioè di Dio, essa ci può venir da tre fonti: Dalla rivelazione; e questa, ove prescindiamo dall' interno lume di grazia, non ci dà che una cognizione analoga, perchè il mezzo onde ci viene comunicata è quello dei vocaboli, cioè di segni non7rappresentativi. Dagli effetti, cioè dalla creazione, ecc.; e questi ancora non ci danno che una cognizione analoga, non vedendo noi il modo dell' operare, e solo sapendo per argomentazione ontologica che qui la causa è equivoca al suo effetto, e sopra eminente. Dal ragionamento ontologico; e questo ci dà ancora delle cognizioni analogiche di Dio; ma nel tempo stesso che ci dimostra che tali cognizioni sono meramente analogiche, e però del tutto insufficienti a farci conoscere l' Essere supremo positivamente, ci dimostra di più che, come degli enti da noi conosciuti la cognizione positiva che possiamo avere è quella per la quale: 1 conosciamo l' essenza per via di specie; 2 e conosciamo la sussistenza per via di sentimento e di affermazione; Iddio all' opposto non è conoscibile positivamente nè nell' uno, nè nell' altro modo in separato; ma vi deve essere un terzo modo di visione o apprensione intellettiva, della quale non ci è dato esempio in natura, il quale è di sì fatta indole che nell' idea stessa percepiamo la sussistenza. E` dunque da distinguersi due operazioni, che fa la nostra mente rispetto all' Essere supremo; il formarsene una cognizione analogica, e il conoscere che ella è inadeguata e imperfetta; il che è il più alto e vero conoscimento che si possa avere di Dio naturalmente. Ma dichiariamo meglio questa cognizione analogica . Primieramente è da stabilire che Iddio non è intuìto dall' uomo per natura. Chi dice altramente, cade in un errore opposto alla rivelazione, la quale dice di Dio, « quem nullus hominum vidit, sed nec videre potest (1), » ed alla scienza teologica, che insegna noi non sapere di Dio ciò che egli è, ma solo che egli è, e quindi neppure sapere che egli è senza indurlo per dimostrazione (2); opposto altresì al comune senso e alla filosofia, la quale trova bensì necessario a spiegare le cognizioni umane che l' uomo conosca che « cosa sia essere », e però che abbia l' intùito dell' « essere », ma non più, non l' intùito del Primo Essere. Onde il sommo filosofo e teologo d' Italia scrive; [...OMISSIS...] , e riconosce che la virtù o potenza intellettiva non sarebbe, se non avesse in sè una cotal similitudine di Dio (4), che non è Dio, ma bensì l' essere in universale, che acconciamente si può dire simile a Dio, non come due enti reali sono simili, ma come sono simili l' ente reale e la sua essenza ideale che lo fa conoscere; perocchè la realizzazione dell' essenza può dirsi simile alla sua essenza, ma più propriamente direbbesi che l' essenza ideale è la similitudine dell' ente realizzato, onde per quella e in quella questo si conosce (5). Escluso adunque l' errore che l' oggetto dell' intùito naturale sia Dio, rimane a vedere quali possono essere le cognizioni, che noi ci procacciamo naturalmente di questo essere superiore alla natura. L' essere in universale, in quanto è intuìto dall' anima, niente ci fa conoscere di reale, di maniera che con esso solo neppure sapremmo che una realità esistesse. Di più, essendo egli lume semplicissimo ed uniforme, niente in lui si distingue, neppure le idee elementari; giacchè tutte affatto le idee, eccetto quella dell' essere, si riducono sempre a rapporti che le cose reali hanno coll' essere ideale, e a rapporti di rapporti, e ad astratti di tali rapporti, trovati per via di sguardi diversi dello spirito. Conseguentemente anche i primi principŒ del ragionamento, che sono idee applicate, non sono dall' uomo posseduti per natura, ma formati col riferire gli enti reali all' essere in universale. Quindi è che le somme idee ed i sommi principŒ stessi tengono di quella limitazione che hanno gli enti reali, onde sono originariamente cavati pel lavoro del nostro spirito; e gli enti reali sono quelli che noi percepiamo col sentimento, e prima di tutto gli enti corporei. Il solo essere in universale non ha limitazione alcuna, ed è quello che dà all' uomo la facoltà di conoscere le limitazioni delle sue stesse idee, e di non cadere nell' errore di credere illimitato ed assoluto quel sapere che è limitato e relativo; il che assicura all' uomo il possesso della verità. Pigliamo ad esempio alcune delle idee più generali, che si convertono poscia in principŒ direttivi del ragionamento. Essenza e sussistenza . - Le cose tutte che cadono nella nostra percezione, essendo contingenti, non hanno la loro sussistenza nella loro essenza, e perciò si possono pensare e tuttavia non sussistere. Quindi accade che ogniqualvolta noi pensiamo l' essenza, ne pronunciamo il vocabolo, non intendiamo d' inchiudervi la sussistenza, ma poniamo quella senza di questa. Noi non abbiamo altro concetto dell' essenza di una cosa che questo, e però non abbiamo altro linguaggio. Quando adunque pensiamo a Dio, che non cade nella nostra percezione, noi gli applichiamo il concetto così limitato dell' essenza, ed il concetto pure così limitato della sussistenza, e ragioniamo di lui secondo l' analogia di tali entità conosciute. Non avendo dunque un vocabolo che esprima l' identità dell' essenza e della sussistenza, il quale solo sarebbe proprio ad esprimere l' Ente supremo, noi siamo costretti ad applicargliene due imperfetti, ed in tal caso dobbiamo parlare dell' essenza divina e della sussistenza divina in separato, come fossero due cose; nè possiamo attribuire senza errore all' essenza divina quello che spetta alla sussistenza, nè viceversa, benchè in Dio siano una cosa sola. Quindi, osservano sapientemente i teologi, si può bensì dire con verità che « Iddio (sussistenza, sussistente persona) genera Dio (un' altra sussistente persona) », ma non che « la deità (l' essenza) genera la deità (un' altra essenza) ». Questo secondo detto verrebbe a porre più Dei, laddove il primo non pone che più persone, perchè la parola sostantiva Dio, presa per sussistenza, riceve il valore di persona. Vero è che poscia il ragionamento ontologico (quello che si fa raffrontando all' ente in universale i ragionamenti da noi fatti coll' aiuto delle idee derivate) corregge il nostro limitato pensare, e dimostra imperfetto il nostro linguaggio; ma esso non ha niente a sostituire; ci protegge dunque dall' errore, ma non ci somministra perciò altre idee ed altri vocaboli accomodati alla divinità, coi quali potessimo ragionare di essa accuratamente; onde noi rimaniamo sempre nella necessità di prendere questa via tortuosa: 1 di ragionare di Dio colle idee imperfette ed analogiche cavate dalle contingenti nature, le sole che abbiamo; 2 di riconoscere poscia che questo nostro discorso è imperfetto, limitato, inadeguato, senza poterlo tuttavia mutare in un altro perfetto, illimitato, adeguato al grande argomento (1). Essenza generica, essenza specifica astratta, essenza specifica piena (formata, individuata). - In Dio non cadono queste distinzioni, ma le idee colle quali noi ragioniamo (e non ne abbiamo altre) appartengono sempre all' uno od all' altro di quei tre modi. I vocaboli pure con cui ragioniamo, segnano quei tre modi di idee. Dunque, anche ragionando di Dio non possiamo a meno che usare di tali vocaboli e di tali idee, al tutto inadeguate e discordi dall' essere divino. Sapienza, bontà, potenza, ecc., sono idee generiche esprimenti le perfezioni astratte degli enti; deità è idea specifica astratta; Dio come nome comune è essenza specifica, piena, individuata; preso come nome proprio è sussistente persona. Ora con queste idee l' uomo ragiona dell' Essere supremo, e applica a lui i vocaboli che le esprimono. Ma in Dio propriamente non vi è nè alcuna essenza generica, nè essenza specifica o astratta o piena; egli è un essere sussistente, semplicissimo, senza divisione di sorte. Questa divisione nondimeno ve la poniamo noi, applicando a lui quelle idee cavate dalla percezione degli enti contingenti, nei quali cadono tali distinzioni reali, che quelle idee distinte e separate l' una dall' altra fanno conoscere. Non avendo noi quaggiù altro mezzo di conoscere che l' uso di quelle idee, siamo costretti di tentare con esse di conoscere anche Dio, e in parte lo veniamo a conoscere veramente; perchè sopraggiunge il ragionamento ontologico, il quale ci dice: 1 che ciascuna di quelle perfezioni che sono separate fuori di Dio, in Dio sono lo stesso Dio (1); 2 che la deità, che noi concepiamo come una forma astratta, in Dio è lo stesso Dio sussistente (2); 3 che finalmente Dio, che suol prendersi da noi per un nome comune, onde viene applicato dagli uomini a più esseri benchè falsamente, non esprime una specie, ma sì bene un vero essere sussistente. Ma il ragionamento che ci dice che così deve essere rispetto all' Essere supremo, non ci spiega però come ciò sia, vale a dire non ci mostra nessuna perfezione sussistente, nessuna specie astratta sussistente, nessuna specie piena sussistente; onde ci dice quello che Iddio non è (non essendo nulla di diviso in genere, specie e sussistenza), ma non ci dice già quello che è: « una sussistenza, che nella sua semplicità racchiude ciò che ha la specie ed il genere »; non ci mostra, non ci fa percepire, pensare una tale sussistenza, più che la definizione del colore lo faccia pensare al cieco; ci mostra i termini, ma non il loro nesso, nel quale consiste l' essere divino. Questi sono principŒ comuni presso i teologi ed i filosofi più famosi; e come sono immutabili, così provano che è contrario alla fede cattolica, non meno che al filosofico ragionamento quel sistema, il quale insegna: Che l' ordine delle nostre concezioni è perfettamente eguale all' ordine delle cose; il che non si avvera per le cose divine, e per tutte quelle di cui non abbiamo percezione. Che Iddio sia l' oggetto del naturale intùito della mente umana, nel qual caso la mente umana potrebbe avere concezioni adeguate all' Essere supremo. Questi due principŒ sono due errori gravissimi in sè, gravissimi nelle loro conseguenze, l' una delle quali è il panteismo. Concludiamo: Intorno a Dio ed alle cose che non cadono nella nostra percezione noi siamo obbligati, per legge soggettiva del principio nostro razionale, a ragionare secondo l' analogia delle cose da noi percepite. Questo ragionare ci conduce ad una scienza negativa e limitata, ma verace, non falsa. Per arrivare a questa scienza, l' unica che di tali cose possiamo avere, dobbiamo pigliare le nostre idee, mezzo del nostro conoscere, tali quali sono, senza confonderle od alterarle ad arbitrio; così pure dobbiamo usare i vocaboli in corso per quel che suonano, secondo l' importante documento delle scuole che: [...OMISSIS...] . Finalmente il ragionamento ontologico è quello che ci avvisa della limitazione e imperfezione di quella nostra scienza, e così ci protegge dall' errore; perocchè non erra colui che, avendo una cognizione limitata e imperfetta, sa ch' ella è tale, e non la piglia per cognizione positiva e perfetta. Ed è solo questo che riesce perfettamente conforme alla verità assoluta, sicchè l' ordine degli enti risponde a ciò che quest' ultimo ragionamento pone nella mente nostra; ma egli è poco, abbastanza tuttavia, di nuovo lo dirò, per evitare l' errore, abbastanza perchè possiamo usare delle altre cognizioni nostre imperfette a nostro prò, senza alcuno inganno. Come noi abbiamo ridotte le leggi cosmologiche, cioè quelle che impone la natura e l' ordine del mondo al principio razionale, a due, cioè a quella della mozione e a quella dell' armonia, così parimente possiamo ridurre a due le leggi psicologiche corrispondenti alle medesime. Perocchè noi dicemmo che nell' operare del principio razionale parte influisce il termine eccitatore, parte la propria attività del principio eccitato. Onde in quanto questo principio, ricevuta la mozione, vi aggiunge del suo, egli opera secondo la legge della spontaneità; in quanto, ricevuti gli elementi armonici dal mondo, egli contribuisce di nuovo qualche cosa del suo vigore a rendere il proprio operare armonico e a goderne, in tanto manifesta una legge di armonia in sè medesimo, che compie ed informa l' armonia del mondo; e questa nominiamo psichica affine di distinguerla da quella quasi materia armonica, che riceve dal diverso da sè. Della legge adunque della spontaneità dovendo noi ragionare, non ci fermeremo a descriverne la natura, il che facemmo altrove (1); bensì toccheremo di quei caratteri ed accidenti più speciali e più sfuggenti all' osservazione, che ella manifesta negli atti suoi. Dei quali accidenti i più importanti a considerarsi sono questi due, che la spontaneità opera talora nell' uomo in occulto, cioè senza che egli ne abbia consapevolezza, e che il termine della sua attenzione razionale è quel solo di cui l' uomo s' interessi, e di cui facilmente si renda consapevole. Con questo ragionamento noi completeremo ciò che abbiamo detto innanzi della coscienza. Ivi vedemmo che il solo essere ideale, intuìto dalla mente, non dà all' uomo coscienza di sè, e che alla formazione di lei si esige uno stimolo o termine reale (1). Questa è la prima condizione, ma non è sola. Ne abbiamo aggiunta un' altra, avvertendo che alla formazione di lei è uopo che il principio umano attiri l' attenzione razionale su di sè, per qualche bisogno che ne esperimenti, il quale bisogno è « l' istinto di compire un' azione incominciata ». Nè si può dire che l' uomo dovrebbe tosto essere mosso a formarsi la coscienza di sè medesimo, perchè gli è cosa piacevole; giacchè la privazione di un piacere naturale non è ancora un bisogno, nè il piacere diviene bisogno fino a tanto che non se ne ha esperienza. Continuando, noi dunque osserveremo: Che la coscienza non appartiene alla scienza d' intuizione , ma a quella di predicazione . Che l' attività razionale ha due gradi; pel primo l' uomo gode della verità (quando è privo di coscienza), pel secondo l' uomo gode del possesso della verità (quando ha la coscienza di possederla). Quello che si dice del godere si deve dire del sapere; pel primo grado l' uomo conosce la verità, pel secondo l' uomo conosce di conoscere la verità (ne ha la coscienza); quel che si dice della verità si deve dire altresì di ogni bene e di ogni male: pel primo gode il bene e soffre il male, pel secondo gode del godimento del proprio bene, soffre della sofferenza del proprio male. Questi due gradi costituiscono due stati diversissimi dell' uomo, e non poco difficili a distinguersi; il filosofo è l' uomo della riflessione e della coscienza, onde facilmente si ferma a questa, e disconosce ciò che è nel sentimento anteriore e che non passa nella sua coscienza. Consegue che nell' uomo vi sono due principŒ di azione; coll' uno di essi egli tende ad unirsi al suo termine e a godere di lui; coll' altro tende a conoscere ed a godere dell' unione col suo termine, ossia ad avere la coscienza del suo proprio godimento. Il primo di questi due principŒ di azione e gradi di attività costituisce la vita diretta dell' uomo; il secondo costituisce la vita di riflessione . L' uomo che vive la vita di riflessione, costituito nel secondo grado di attività, operante col secondo dei suoi principŒ attivi, è immedesimato con questo principio, perocchè « l' uomo è attualmente il principio che opera ». Quando opera col primo principio, l' uomo è attualmente il principio diretto; quando opera col secondo principio, l' uomo è attualmente il principio riflesso; perchè l' uomo operante è sempre il principio (1). Se dunque l' uomo nelle operazioni della vita di riflessione è il principio riflesso, qual meraviglia che l' uomo neghi il suo stato anteriore, e creda che tutto ciò che è in lui sia fornito di coscienza? Certo il principio riflesso non può sapere quello stato dell' uomo su cui non cadde riflessione; nega dunque quanto non entra nella sua sfera, quanto non è riflesso. E` l' uomo, in quanto è principio riflesso, che parla di un linguaggio compiuto, è quest' uomo che tratta coi suoi simili; la vita sociale è, nella massima sua parte, vita di riflessione. Di qui apparisce che, tolta dal mondo questa maniera di vita, gli uomini rimarrebbero dissociati, l' umano commercio sarebbe impossibile; quindi l' eccellenza di questa vita sopra la vita diretta . E pure non si deve già credere che il bene della vita riflessa sia più eccellente del bene della vita diretta. Il bene della vita diretta è bene fondamentale, è il bene stesso; la vita riflessa non è che un altro modo di godere di quel bene, che la vita diretta somministra. La vita riflessa dunque è più elevata, più luminosa, più attraente; ma non più nobile, non più preziosa della vita primitiva e diretta. D' altra parte non si deve credere che la vita riflessa si estenda sempre, o a tutti i beni (dei mali dicasi lo stesso, in senso contrario) della vita diretta. Mentre l' uomo vive della vita riflessa e sociale, egli fa moltissime azioni appartenenti unicamente alla vita diretta, di cui egli non è conscio, di cui non parla; esse incominciano in lui, e si svolgono e si compiono in un profondo silenzio; eppure sono d' immensa importanza alla sussistenza e felicità umana. Operano dunque i due principŒ attivi in presenza l' uno dell' altro, ora l' uomo è l' uno, ora l' uomo è l' altro; ma il primo opera quasi direi taciturno e nell' ombra, il secondo è loquace e si diporta per un campo aperto e luminoso. Colla quale dottrina, e con essa sola, si spiegano molti fatti umani; uno di questi è il piacere del sonno. E` indubitato che l' uomo, dopo essere stato lungamente in veglia o stancatosi con fatiche, sente il bisogno del sonno e prova un diletto grandissimo nell' abbandonarvisi. Ho trovato degli uomini che anteponevano il piacere di un placido sonno alle più vive gioie della vita. Ora che cosa è il sonno se non una funzione animale, in cui l' uomo perde la consapevolezza di sè medesimo, almeno in gran parte, e l' operare con libera riflessione? Eppure l' uomo trova diletto e nel passaggio dalla veglia al sonno, nel quale passaggio va perdendo la coscienza, e nel sonno stesso, durante il quale la coscienza è perduta. Perocchè non si può certo dire che il diletto del sonno consista nel prevedere il vantaggio che dal sonno si trarrà, quando anzi il piacere del sonno consiste nel perdere ogni previsione, la quale finchè dura nell' animo, l' uomo non dorme. Nè si può dire che il diletto si provi al sentirsi, dopo riscossi dal sonno, rifocillate le forze animali; perocchè il dilettevole stato, che segue al sonno, è un piacere appartenente alla veglia, e non è il piacere del sonno che già è passato. Quando dunque l' uomo appetisce di perdere la coscienza di sè stesso, passando dallo stato di veglia a quello di sonno, allora il piacere della vita diretta prevale al piacere della vita di riflessione, e l' uomo desidera che cessi per alcun tempo questa seconda vita per godere più pienamente della prima. Sicchè vi è un cotale equilibrio fra le due vite, un bilanciarsi del piacere e del bisogno dell' una col piacere e col bisogno dell' altra; ed ora prevale quello dell' una nell' uomo, ora quello dell' altra; di che avviene che le due vite si alternino incessantemente, che si alterni incessantemente la veglia ed il sonno. E qui viene spontanea la domanda: qual uomo è che appetisce il passaggio dalla veglia al sonno e lo stato stesso di sonno? è quell' uomo che consiste attualmente nel principio riflesso, o quell' uomo che consiste attualmente nel principio diretto? - Per accorgersi che l' uomo appetente il sonno è il principio diretto e non il riflesso, basta fare un esperimento. Nell' atto di addormentarsi l' uomo pensi a ciò che sta per avvenire in sè, pensi alla cessazione del suo pensiero riflesso, alla cessazione di quello stesso pensiero con cui sta osservando con quali passi il sonno s' inoltri; egli ne sentirà un cotal senso d' orrore. Io ho fatto più volte questa prova, e parevami sempre di paventare l' avvicinarsi del sonno come l' avvicinarsi di una specie di morte. Questo orrore era il principio riflesso che lo sentiva, prevedendo l' annientamento della sua attività; il piacere adunque del sonno non appartiene al principio riflesso, ma al principio diretto: quello ne ha ribrezzo, questo ne gode. Il che prova che l' uomo, che vive la vita riflessa, non esce perciò interamente dalla diretta; ma gode parte dell' una, parte dell' altra, benchè ne goda con attualità diverse, l' una incognita all' altra. La vita diretta e la vita di riflessione sono due attualità, che si svolgono dall' essenza dell' anima razionale; esse appartengono all' ordine degli atti secondi, non costituiscono l' atto primo, l' essenza, la virtù radicale dell' anima. Ora l' anima, essendo un ente limitato, ha una virtù radicale limitata, limitata dico, non perchè, accrescendosi i suoi termini, ella non possa crescere indefinitamente, poichè quanto a questo, che è la sua ricettività, è illimitata; ma limitata quanto al grado d' intensità, col quale ella può aderire e stringersi ai termini che le sono dati. Quindi la sua virtù, esaurendosi in una attualità, si diminuisce ad un' altra. E così potrebbe l' attività radicale dell' anima essere totalmente esaurita nell' attualità della vita diretta da riuscire nulla alla vita di riflessione; nel qual caso cesserebbe la coscienza, appunto perchè cesserebbe l' atto della riflessione. Che anzi non solo la riflessione può rimanere impedita e soppressa dall' attualità sopragrande della vita diretta, ma ben anche per un solo atto di questa vita; il che espresse Dante in quei versi: [...OMISSIS...] . E il filosofo poeta osserva che non pure nell' atto stesso, quando l' attività dell' anima è assorbita in qualche suo termine, cessa la possibilità della riflessione e della coscienza; ma anche, passato quell' assorbimento, non ne rimane memoria, perocchè la memoria attuale è un atto di riflessione sul passato; e però se nell' attualità dell' atto non vi fu riflessione, neppure passato l' atto, vi può più essere, se non forse oscura pei vestigi di quell' atto rimasti nell' anima abitualmente; onde dice: [...OMISSIS...] . Ma nella vita presente la virtù radicale e totale dell' anima, limitata com' è, quando si esaurisce in un' attualità, ivi non resta esaurita se non per breve tempo; onde stanca dell' intensità di questo suo atto, che pur le è sommamente piacevole, ritorna spontanea, aiutata però dagli stimoli corporei, alla vita di riflessione; quindi anche in questo fatto vi è una cotale alternativa fra la vita diretta e la riflessa. Di più, quella virtù radicale non si esaurisce talora in un atto solo, ma in due, in tre, in più, in un complesso di atti. Ora gli atti in cui si esaurisce, sieno molti o pochi, quando quella virtù è esaurita, già più non gliene resta da impiegare in atti di nuova riflessione; e così accade che la riflessione si rimanga limitata entro una certa sfera, lasciata libera dall' attualità della vita diretta. E qui di nuovo ci piace osservare che, essendo la spontanea azione dell' anima più che altro quella che dirige la proporzione fra il dominio della vita diretta nell' uomo e il dominio della vita di riflessione, forza è ammettere che l' uomo goda sì dell' una che dell' altra, come dicevamo innanzi, e che egli preferisca talora il diletto che trova nella diretta a quello che trova nella vita di riflessione, bramando che sia soppressa questa per dar luogo a quella; perocchè la spontaneità segue sempre il maggior diletto. L' esempio, che noi abbiamo dato a provar ciò, fu quello dell' appetito del sonno, fenomeno che appartiene alla vita animale e alla percezione razionale fondamentale; ma chi non vede che potremmo addurre egualmente degli esempi tratti dall' attività puramente razionale? E chi non conosce il fatto dell' estasi? Chi non sa che questo grado d' intensa contemplazione e d' amore compiuto è ciò che vi può essere di più dilettevole per l' uomo, essendo anzi l' estasi il grado eccedente della dilettazione? Eppure l' estasi arreca necessariamente la soppressione degli atti riflessi e della coscienza. E tuttavia l' uomo non può anelare a cosa di maggiore sua soddisfazione che a cotal sonno dell' intelletto e dello spirito assorto nell' oggetto dell' estatica contemplazione, e così rapito a sè stesso, quasi in una piena oblivione, in una cotal deliziosissima morte di vita vitale pienissima. Tanto è vero che i diletti della vita di riflessione non sono i massimi, e che l' uomo nella vita presente può godere assai più del bene7oggetto che della consapevolezza di tal godimento; può anteporre di godere maggior copia di quello anche col sacrificio dell' averne coscienza. Finalmente è da osservare che l' adulto, che non può vivere interamente d' una vita diretta, siccome accade al bambino non ancora venuto all' uso della riflessione, neppure può vivere esclusivamente della vita di riflessione per molto tempo, nè tampoco per breve. Questo s' intenderà, qualora si consideri che l' atto della riflessione dicesi riflesso per rispetto al suo oggetto; vale a dire l' atto è riflesso, se il suo oggetto è cosa già innanzi pensata e non puramente sentita; quindi riflesso non si dice rispetto a sè stesso, quasi sia tale rispetto a sè. L' atto riflesso non è oggetto di sè, ma si esige un altro atto di riflessione superiore, acciocchè egli divenga oggetto. Ora, posciachè la serie delle riflessioni non può essere che limitata, quindi accade che l' ultima riflessione non ha una riflessione sopra di sè che la conosca; e così restasi incognita, senza coscienza, e però appartenente alla vita diretta. Onde nella sola riflessione non può mai esaurirsi l' attualità della vita umana; ma conviene che rimanga qualche cosa nell' uomo, su cui l' uomo non ha riflettuto, perciò incognita all' uomo stesso. Ora è da osservare questo fatto importantissimo alla spiegazione dei fenomeni della vita di riflessione, che questa facoltà non suole fermarsi che all' ultimo anello di una operazione razionale qualsiasi, nel quale termina l' attenzione, s' accumula questa virtù psicologica come nel fine che cerca e brama di conseguire. Di qui accade che gli anelli precedenti, sui quali l' operazione della mente trascorre leggermente senza fermarsi, non attirano, nè fermano l' attenzione riflessa; e così rimangono occulti all' uomo stesso che li fa, e per rendersene conto gli è mestieri di adoperarvi l' attenzione libera, colla quale bramando conoscere come proceda l' operazione dello spirito in tutti i suoi passi, egli fa che tutti divengano termini finali di lei. L' uomo volgare e comune, all' opposto, va innanzi come il viaggiatore, che tutto occupato del luogo dove deve pervenire, non bada alla strada che percorre. Il quale fatto spiega primieramente il ragionamento occulto, che spesso fa la mente umana tra sè, senza saperlo. E così i volgari pervengono a conclusioni finissime e che suppongono un lungo ragionamento, il quale essi fanno certamente e con prestezza somma, ma di cui non saprebbero rendere conto alcuno nè a sè stessi, nè ad altri, anzi non sanno di farlo, non ne hanno la minima consapevolezza. Tutta l' attenzione loro riposa nella conclusione, di cui solo lor cale, e chi volesse farli tornare sui loro passi intellettuali, essi l' avrebbero siccome uno scherzo, una scempiaggine, riderebbero di loro che si perdono in tali oziose ricerche. Può dirsi di più con tutta verità che se si considerano con attenzione filosofica i discorsi famigliari e sociali dei volgari, essi non esprimono forse la millesima, per non dire la milionesima parte di ciò che passa loro contemporaneamente per mente; perocchè tutto ciò che dicono gli uomini fra loro sono conclusioni pensate, ed ogni vocabolo esprime un pensiero, che costò molti pensieri precedenti coi quali ad esso pervennero, e pur tali di cui non tengono nè attenzione, nè memoria. Quante volte un vetturale, appena vi vede, offrendosi a servirvi dell' opera sua, vi dà dell' eccellenza o del monsignore, benchè non vi abbia mai conosciuto! Eppure quel titolo di eccellenza o di monsignore uscitogli così pronto sulle labbra, nella mente sua fu indubitatamente il risultato di questo lungo raziocinio percorso in un attimo, ed alla insaputa di lui che lo fece, e cioè: Dimostrandosi stima agli uomini e facendo lor credere di riputarli un gran che, si rendono benevoli. Resi benevoli, facilmente s' acconciano a servirsi dell' opera nostra. Se costui si serve dell' opera mia, io guadagno la mia giornata, che è quello che mi bisogna. Il titolo di eccellenza o di monsignore, che lusinga l' amor proprio, è un mezzo di mostrargli stima ed accaparrarmi la benevolenza. Dunque questo titolo mi è buon mezzo al guadagno che intendo fare. Dunque io l' adopererò con costui, che mi si fa innanzi la prima volta, sia poi egli qual voglia essere, che a me non cale. Conviene nondimeno osservare che il raziocinio, col quale gli uomini nel vivere comune e sociale ratto pervengono a quelle conclusioni, che loro importa conoscere e comunicare ai loro simili, non procede sempre nella loro mente così disteso che mantenga tutte le proposizioni o gli anelli mediati distinti fra loro; anzi la mente trova delle scorciatoie e dei compendi suoi propri, come appunto fa l' aritmetico, che per venire a capo di un' operazione inventa regole compendiose, che con un solo o con pochi passi lo conducono a trovare ciò che vuole, dove altrimenti non perverrebbe che con lungo viaggio. Nei villani, che conteggiano in sulle dita, più volte si osserva l' uso di questo ingegno. La qual maniera compendiosa di ragionare si può chiamare raziocinio sintetico; ed è un modo usato tutto dì dagli uomini nelle cose della vita. Noi toccammo altrove di quelle regole medie, che sogliono condurre i giudizi ordinari degli uomini (1). Ora queste sono appunto quelle che accorciano i raziocini e li rendono più pronti; perocchè, formate coteste regole, l' uomo le applica siccome verità già trovate e stabilite una volta per sempre, senza più darsi pensiero di loro dimostrazione, senza tornare più addietro a quella serie di raziocini che gliele ha prodotte; la funzione della fede subentra alla funzione del raziocinio. Rechiamo qualche esempio volgare. Gli stimatori della foglia dei gelsi, con un' occhiata all' albero, tosto vi dicono quanti sacchi o pesi esso ne porti; e non errano, o di una differenza minima. Come ciò? come rilevare così prontamente e sicuramente la quantità di quella foglia ad occhio, senza bilancia? Certo, se essi pigliassero a loro regola l' unità, non ne verrebbero a capo sì presto, ancorchè nella loro mente fosse ben impresso il volume, che risponde ad una unità di peso o di sacco di foglia. Non prendono dunque l' unità a regola, ma nella loro mente hanno segnati altri volumi; per esempio, essi hanno segnato qual sia il volume rispondente a dieci, a venti, a cinquanta, a cento pesi o sacchi, ecc.; onde essi applicano prontamente all' albero quella fra tali misure fantastiche che gli conviene, e trovano, coll' una o coll' altra, l' equazione che loro abbisogna, così determinandone la quantità. Lo stesso accade ad ognuno che faccia professione di misurare coll' occhio le quantità: l' architetto potrà misurare collo sguardo quanti piedi tragga la facciata d' una casa, senza sbagliar forse d' uno; il misuratore di vino saprà dire quante staia contenga una botte al primo vederla, e così di ogni altra cosa. Ma è certo, tuttavia, che questi uomini abili a misurare coll' occhio le quantità delle cose, non saprebbero spiegare a sè stessi il fatto, nè dire come fanno a venirne a capo, di quali regole o misure si giovano, perchè tutte quelle diverse misure che tengono improntate nella loro immaginazione non sono quello che cercano; sono mezzi al fine, e questo solo è l' ultimo anello in cui la loro attenzione finisce e riposa, e vuol sapere con riflessione e coscienza; del resto non cura. Per altro è da osservarsi che quelle regole medie che compendiano i ragionamenti, se non si ricevono per altrui autorità, debbono cavarsi dall' esperienza o da altri raziocini precedenti. Ed è appunto la maggiore o minore attitudine a formarsi molte di queste regole medie, pronte ai bisogni e sicure, quella che fa sì che alcuni uomini si dimostrino più sagaci, ed altri meno. E qui conviene osservare come bene spesso accada che quegli uomini, che meglio sembrano ragionare in teoria, non sempre nella pratica della vita sanno trovare gli espedienti più opportuni al fine, e il loro consiglio, che è pure ragionatissimo, riesce a male in opera; laddove altri, che non sanno a pezza rendere così chiare ragioni, siccome i primi, di loro sentenze, colgono così aggiustato che pare abbiano un cotal senso apposito, nel quale immediatamente scorgano quel che si convenga meglio di fare nelle circostanze. Il medico dotto non è sempre il più felice curatore degli ammalati; l' avvocato eloquente e sottile perde non di rado la causa del suo cliente, trattata con tutto lo sfoggio della scienza; lo stesso teologo, che consumò la sua vita nell' insegnamento della morale, vien meno alcuna volta alla cura delle malattie spirituali delle anime. Quanti, che sembravano eccellenti teorici in economia, gettarono il loro avere in imprudenti speculazioni, quando altri che parevano nei loro parlari e modi cortissimi d' intelligenza, accumularono ingenti ricchezze! Ma il senso squisito della prudenza, di cui parliamo, si dimostra poi ammirabile in alcuni nei quali meno si crederebbe, trattandosi di faccende, negozi, governi sociali. Il carattere del pensiero degli uomini teoretici e splendidi ragionatori è quello di procedere per raziocinio analitico; il carattere del pensiero degli uomini prudenti e sagaci operatori è quello di procedere per raziocinio sintetico . Il raziocinio analitico ha questo di proprio: si studia di non omettere nulla, vuole aver coscienza di ogni passo del suo ragionare, vuole persuadersi che niuna parte dell' oggetto, che prende ad analizzare, è omessa. Ma per la conclusione di un negozio, per la scelta di un consiglio, per l' invenzione di un espediente, molte di queste parti, che egli considera ed analizza attentamente, sono del tutto inutili, sono fuori del caso, perchè ciò che si cerca non è il sapere di quali parti sia composto un oggetto che si presenta alla mente, ma di sapere che cosa si debba fare hic et nunc . Quindi l' analitico ragionatore si perde e travia sovente in cose aliene dal vero scopo; e questa moltiplicità di cose che volge nella mente lo aggrava, e gli rende più difficile la soluzione del problema; arrischia ancora di omettere, nella farragine delle cose che egli considera, alcune di quelle circostanze date dal fatto, che sono necessarie ad averne una utile conclusione. Per tutte queste cause gl' incontra di riuscire ad un risultamento, o imperfetto o insufficiente al bisogno, peccante di difetto o di superfluo, benchè sappia rendere uno splendido conto di tutta la serie dei suoi pensieri. All' incontro l' uomo prudente va per via più compendiosa al suo intento, per quella del raziocinio sintetico; egli non raffronta parte con parte, ma piuttosto misura e paragona il tutto col tutto. Sta appunto qui l' artificio secreto della sua prudenza: di separare quel tutto, su cui poi si deve decidere, da ogni altra cosa impertinente, e a quel tutto così bene separato e distinto applicare quella regola media che ben gli si acconcia, nè più nè meno. Laonde la prudenza e la sagacità operativa, di cui parliamo, consiste in due abilità: 1 in quella di formarsi molte di quelle regole medie, le quali si possono applicare alla contingenza della vita e dei governi; 2 in quella di rilevare a colpo d' occhio intellettivo il nodo dell' affare, il gruppo preciso delle contingenti circostanze. Perocchè, conosciuto questo gruppo di circostanze annodate insieme, gli è poi facile trovare nell' arsenale, dirò così, della sua mente sperimentata e sagace, quella formola appunto, quella regola che le misura immediatamente, e ne somministra il retto giudizio e la prudente deliberazione a pigliarsi. Per questo nei vecchi, nei quali pare meno vigoroso il raziocinio analitico, da essi trascurato siccome meno utile o necessario, e compendiato mano mano in regole sintetiche, la prudenza suole sempre, supposte le altre cose eguali, apparire maggiore che nei giovani. Ebbero più tempo di raccogliere dall' esperienza regole medie, e di addestrare la loro attenzione a prendere colla mente il tutto della questione, separando circostanze accessorie ed inutili che talora la infrascano; il qual tutto essi possono facilmente sottomettere alle regole che gli convengono. Così rimane sempre vero che nelle menti dei prudenti e dei pratici moltissimo si fa con raziocinio occulto ed abbreviato, di cui essi non hanno coscienza; onde si suol dire comunemente che essi piuttosto con un senso pratico che colla mente deliberano: chè il raziocinio sintetico assomiglia veramente al senso, per la prontezza, la sicurezza dell' operare, e l' oscurità della via che tiene per riuscire alle sue ultime conclusioni. Dalla legge poi, che « la riflessione cade sull' ultimo anello dell' operazione razionale e non sui precedenti », seguita un' altra conseguenza, ed è che « i principŒ, che suscitano e dirigono le nostre operazioni razionali, rimangono occulti a noi stessi, se non li rendiamo liberamente termini della nostra attenzione ». Perocchè è chiaro che quei principŒ di loro natura non sono l' ultimo anello della catena dell' operazione razionale, quando anzi ne sono il primo. Quindi l' uomo per conoscere sè stesso ha bisogno di ritornare liberamente sopra di sè, ed indagare i segreti del proprio cuore: lavoro ben sovente difficilissimo, ed a compirsi quasi impossibile; onde il gran pregio della sentenza antica: « « conosci te stesso » ». I primi principŒ dell' umano operare sono l' istinto animale, in quanto egli giace nella percezione fondamentale, e l' essere in universale intuìto. L' istinto animale è principio movente, l' idea dell' essere è norma direttiva . L' uomo nello stato suo ordinario opera secondo questi principŒ, senza badare ad essi, nè sapere ond' è mosso o diretto; il che non gli cale, calendogli solo di ottenere lo scopo di sua operazione. Ma l' istinto animale si sviluppa vestendo gli abiti di diverse passioni, e così quasi moltiplicandosi. Il principio razionale, in quanto lo percepisce, l' accompagna in tutto il suo sviluppo. Lo stesso principio però con un altro suo atto, riferendo ogni cosa all' essere, trova ciò che l' essere stesso, quale suprema norma del bene e del male, disapprova, o permette, od approva, o comanda in tali operazioni. Indi il bivio. Il principio razionale si attiene allora a quanto l' essere prescrive, o s' abbandona all' istinto ciecamente o coll' istinto congiura; indi i vizi. Non basta. Il principio razionale classifica in generi i mali ed i beni; si forma così delle regole medie, ciascuna delle quali gli dimostra, gli fa conoscere immediatamente una classe intera di beni o di mali. Egli sceglie fra i generi di bene e i generi di male; e tale scelta importa l' abbracciare che egli fa « alcune di quelle regole medie »come direttive del suo operare, rigettando le altre. Questa scelta fra le regole medie, discernitrice dei beni e dei mali, quando è fatta, è il fondamento dei desideri e delle avversioni generali consentite dall' uomo. Perocchè, come l' uomo nella sua mente ha delle regole generali, così nel suo cuore ha dei desideri generali e delle avversioni generali; coi primi appetisce abitualmente e con suo consenso una classe intera di beni, o da lui riputati tali; colle seconde rifiuta abitualmente e con suo consenso una classe intera di mali, o da lui riputati tali. Così l' animo suo si trova abitualmente determinato verso certe cose in generale, e contro certe altre cose pure in generale, benchè queste determinazioni possano essere ad ogni momento mutate dall' intervento della sua libertà. Tali abiti consentiti, finchè durano nell' uomo, costituiscono altrettanti secreti principŒ di azione, secondo i quali l' uomo posto nelle circostanze si determina prontamente all' atto, quasi con una deliberazione già fatta innanzi (1). Dico che questi principŒ dell' operare umano, questi desideri generali consentiti (e ve ne hanno anche di non consentiti, che più propriamente si direbbero inclinazioni native od acquisite, e ve ne hanno di consentiti imperfettamente con diversi gradi e modi di consenso, e con diverse condizioni tacite) rimangono segreti all' uomo, fino a tanto che l' uomo non li fa oggetto di sue ricerche, e da anelli primi o di mezzo dell' operazione razionale li fa diventare anelli ultimi, sui quali l' attenzione riposi, e gliene sorga la coscienza. Si deve notare altresì che secondo la qualità di questi principŒ e regole abituali, prescelte secretamente a direzione delle proprie operazioni, variano i caratteri morali degli uomini, questi caratteri così diversi, la cui origine profonda è così difficile da investigare al filosofo. Vi sono dunque nell' uomo due maniere di cognizioni : l' una occulta a lui stesso, l' altra palese, luminosa, riflessa . La prima ordinariamente non interessa l' uomo, non gli cale di averne coscienza, ne usa come di mezzo, nè vi si ferma. E` un fatto importantissimo anche questo, che illumina il modo come in un essere essenzialmente ragionevole, quale è l' uomo, possa cadere l' errore; e come possa cadere in lui, essenzialmente morale, il vizio (2). Poichè quel fatto dimostra che dipende da lui stesso il dare interesse ed attenzione a certe cognizioni, e renderle a sè chiare e luminose; come da lui pure dipende il lasciare certe altre sue cognizioni nell' ombra, in una condizione inferiore a quelle che egli si elegge a fine, in cui perciò riposa la sua attività. Qualora dunque si supponga, a ragion d' esempio, che l' uomo, che commette errore, sia quel principio che vive della vita riflessa; qual meraviglia che egli s' inganni o che operi perversamente, se quelle notizie che potrebbero guarentirlo dall' errore, quelle regole che potrebbero proteggerlo dal vizio, non sono addotte alla luce della vita riflessa, ma lasciate quasi sepolte nella silenziosa notte della vita diretta? qual meraviglia che il principio riflesso erri e travii, se per questo principio non esiste altra cognizione che quella che gli è occasione di errore, e favorisce il vizio? E qui mi conviene far menzione d' un fatto che ho più volte sperimentato in me stesso, e che altri avranno pure sperimentato, se si sono abituati a considerare ciò che passa nel loro spirito. Questo è quel lento lavoro che fa la mente da sè stessa, pel quale le notizie e dottrine depositate nel tesoro della memoria, senza che noi vi badiamo, vanno bel bello disponendosi col tempo ed ordinandosi quasi ai loro luoghi. Quante volte non è avvenuto a quelli che si danno agli studi e specialmente alle speculazioni filosofiche, di meditare assai intorno a qualche argomento, e poi ristarsene affaticati e non soddisfatti dell' esito della meditazione? Ed ecco passato uno o più giorni, senza avere più dato a quella materia deliberata attenzione, la mente si è tutta bene aggiustata da sè stessa, e le idee appariscono ordinate sì fattamente che, svanite le difficoltà, la soluzione dei proposti problemi si fa incontro tutta spontanea e luminosa! E` vero che questo deve poter avvenire in parte anche perchè quando si medita, l' immaginazione opera e si stanca, e confonde la purità del ragionare coll' intramettere importuni e instabili fantasmi; onde, sopravvenuta la quiete, rimane netto il lavoro della severa ragione. A questo si deve attribuire anche il fatto della memoria, che una cosa studiata la sera prima di coricarsi e non appresa, si trova fresca la mattina nella mente; calmata e confortata l' immaginazione col sonno, ella rese fedele le impressioni stampatevi la sera innanzi, quando non era atta a servire la reminiscenza per stanchezza o turbamento. Del resto suole essere buona regola insegnata dai prudenti il lasciare che stanzino e maturino qualche tempo in mente le deliberazioni, le quali si vanno da sè migliorando, senza espressamente pensarci; onde il partito che si prese un tratto, anche dopo qualche tempo che non ci si pensa, riesce migliore, ha più probabilità di riuscire, non solo perchè di nuovo si esamina, ma ben anche perchè da sè si matura; operazione occulta della vita intellettiva diretta, priva di coscienza. Del rimanente, acciocchè questo lavoro continui, è uopo che vi sia la molla segreta del movimento nell' impegno e nel desiderio abituale di trovare il vero cercato, sia nello studioso che si propose la soluzione di qualche questione, sia nel prudente a cui sta abitualmente a cuore l' affare di cui delibera. Un altro lavoro mentale si opera nella mente senza riflessione, nè coscienza; il quale in parte si confonde col primo. Vi sono certi concetti, certi pensieri che per così dire si attraggono, manifestano affinità tra loro, si associano variamente (1). Ora questa affinità e questa associazione si viene compiendo nell' intendimento dell' uomo a sua insaputa; ed ecco per quali modi. Primieramente, il pensare umano trova un legame che naturalmente lo riduce ad unità nell' idea dell' essere, principio supremo di tutte le cognizioni. Questo essere sopreminente è il rettore occulto dell' umana mente, la quale essendo sempre a lui rivolta, in lui per una cotale operazione abituale vede molte convenienze fra cose conosciute, senza badarci o badandoci leggerissimamente. Questo lavoro adunque è un ritorno continuo che fa il pensiero dalla moltiplicità all' unità dell' essere. Di poi è da considerarsi che i pensieri diversi della mente umana producono nell' uomo, che è per essenza sentimento, un effetto sensibile. Ora avviene che pensieri per sè stessi diversi talora muovano un sensibile effetto, uno speciale sentimento della stessa natura; e poichè i sentimenti facilmente diventano principŒ istintivi di operazione, però quei sentimenti identici o simili dispongono l' uomo egualmente verso quella maniera di pensieri che ne sono le cause. Questo fatto viene poi aiutato dall' essersi già nell' uomo formati quegli affetti e desideri generali, che descrivemmo più sopra; i quali assomigliano ad altrettante corde musicali, che rispondono ugual tono, sia che le tocchi e pizzichi una penna di corvo o una zeppa di acciaio, od altro checchè possa essere. Dietro la guida dunque di tali affetti eccitati da diversi concetti o pensieri, l' attenzione della mente e l' attività pensante si dirige spontaneamente, e lavora sovente all' insaputa dell' uomo, che su questo fatto, che in sè si compie, non punto riflette. Gli affetti generali nell' animo umano adoperano adunque a lor prò e dirigono i pensieri, associandoli in gruppi, e chiamandoli anche da tempi lontani; onde l' uomo verrà oggi ad un pensiero o ad una determinazione, che ha stretta affinità con un pensiero o con una deliberazione di un anno fa, di cui non conservava più ricordanza; eppure quel pensiero, avuto e dimenticato da tanto tempo, è cagione del pensiero presente; perchè egli lasciò l' animo così disposto ed affezionato da dover essere proclive al pensiero presente, a cui venne tostochè gliene fu data una minima occasione. Ma quello che è più notabile si è che questi affetti abituali e generali, che si appoggiano alle regole medie di cui abbiamo detto, talora crescono da sè stessi, siccome germe che si muove sotterra, ad alto grado d' intensità, e si rinforza graduatamente la persuasione che hanno per loro base; e tuttavia restano occulti nell' animo, se l' attenzione riflessa non è punta da qualche stimolo che la rivolga ad essi; nel qual caso talora scoppiano luminosi e fin anche fragorosi; e questa è forse la cagione segreta del subito manifestarsi degli eroi, posti in circostanze consonanti colla loro disposizione interna ed occulta (1); è anche la cagione delle più tempestose rivoluzioni politiche. Il che spiega molti altri fatti dell' umanità. Perchè un poeta o uno scrittore leva grido straordinario in un tempo, in una nazione, se non perchè egli si fa interprete fedele ed ingegnoso di quei sentimenti e di quelle grandi persuasioni, che ognuno aveva in sè stesso senza saperlo, senza averne mai trovata l' espressione, perchè non vi aveva mai piegata sopra la riflessione? Onde al comparire di colui che sa eloquentemente condurre l' attenzione e la riflessione di tutti su quelle persuasioni secrete, ma potenti; che sa inventare formole acconce a dar loro un' esistenza riflessa e splendida, a farle valere per cose nobili e belle; tutti giubilano e applaudono quasi a tesoro scoperto, che possedevano essi stessi ignorandolo, e ne sono grati al genio di quel primo, che seppe dire ciò che tutti avrebbero voluto dire, se avessero saputo, e gli acconsentono e gli aderiscono. E perchè si manifesta un così subito furore nelle sedizioni, in una plebe che pareva il dì innanzi riposata e tranquilla? Era tranquilla in apparenza, perchè non sapeva gli affetti che premeva in sè medesima; era tranquilla, perchè viveva d' una vita di riflessione, e il fermento della passione covava all' incontro nel profondo della vita diretta, non si era ancora travasato nella riflessa; era tranquillo l' uomo operante come principio riflesso, perchè l' uomo come principio diretto, il quale era ardente, non è quello che si manifesta al di fuori, ma quello che prepara la mina al di dentro. Vero è che nelle sedizioni, a trasnaturare gli uomini, giova anche un altro principio: il sentire ognuno la forza di tutti, il credersi potente ciascuno della forza della massa di cui è parte, il vigore che cresce alle persuasioni dall' unanimità d' una moltitudine adunata; il che tutto insieme produce entusiasmo, orgoglio, eccitamento alla prepotenza ed all' abuso della forza. Ma questa sola causa non basterebbe, se non ci fossero negli animi delle interne ed occulte disposizioni uniformi, preparate di lunga mano innanzi, delle opinioni, delle affezioni generali, che in tutti armoneggiano e cospirano a produrre quello scoppio, che per la sua subitezza e grandiosità rapisce a sè la ragione e la conturba, e così si volge facilmente in vertigine, in furore crudele. Se questa circostanza manca, la sedizione non ha luogo, il popolo si disperde prima di adunarsi, o dopo essersi adunato per curiosità. Quanto poi alle rivoluzioni nazionali, la sola ragione della loro riuscita è la disposizione segreta delle menti e degli animi delle masse; la quale se vi è, al primo inalberarsi d' una bandiera si rivela il pensiero di tutti. E come niuna rivoluzione ottiene lo scopo per cui è mossa, senza tale disposizione secreta precedentemente accumulata negli animi, così tutte le rivoluzioni, che a nulla riuscirono a malgrado del valore anche eroico e del sacrifizio più magnanimo di alcuni individui, fallirono unicamente perchè nella vita diretta del popolo, quasi arsenale della forza, la riflessione eccitata non trovò le armi sufficienti a farle riuscire. La legge psicologica che l' attenzione si ferma solamente all' ultimo anello dell' operazione razionale, e che la riflessione non cade se non dove si ferma l' attenzione (benchè non sempre neppur colà), e la coscienza non si acquista di quelle cose dove non cade la riflessione, è oltremodo preziosa a spiegare ancora innumerevoli altri fenomeni misteriosi dello spirito umano. Un esempio importante è quello a cui si lega in parte la celebre controversia del culto delle immagini. E` un fatto non dubbio per ogni buon osservatore che, qualora l' uomo faccia uso di un' immagine, il suo pensiero non si ferma mai all' immagine, ma va all' ente dall' immagine rappresentato. L' immagine non gli serve che di aiuto alla fantasia e di direzione al pensiero, perchè egli se ne possa andare diritto nell' oggetto assente e fissarsi in quello, a cagione della legge cosmologica della mozione che dice: « Il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione e la conduce agli atti del conoscere soggettivo ». E veramente chi dirà mai che un' amante, una vergine fidanzata, che si piace cotanto riguardando il ritratto del suo diletto e gli imprime mille baci, abbia lo stesso ritratto per oggetto dell' amor suo, e non piuttosto che intenda ella di rivolgere quegli atti affettuosi alla persona, che il ritratto al vivo le rappresenta? Chi dirà ch' ella sia innamorata di quel pezzo di carta o di tela inanimata, di quel freddo marmo o di quel bronzo, che ricorda le care sembianze? Se fosse così, se il ritratto fosse il vero oggetto dei suoi affetti, a lei basterebbe la presenza del ritratto, non le riuscirebbe noiosa l' assenza dell' amata persona, non l' aspetterebbe con ansia così penosa ed inquieta da contare i lunghi istanti della dolorosa privazione, non la richiamerebbe da lontano paese con tanti sospiri, con tante lagrime; ella nel ritratto avrebbe il suo bene, non vorrebbe di più. Ancora, se il ritratto è l' oggetto dell' amor suo, in tal caso, avendo ella molti ritratti della stessa persona, avrebbe molti oggetti del suo amore. Ma se voi ne la chiedete di ciò, ella se ne adonterebbe, protestandovi che l' oggetto del suo amore è unico, e le parrebbe di essere infedele amica, se lo dividesse con più. E pure accordate che ella disfoga il suo cuore, ora con un ritratto, ora con un altro. Com' è dunque che ella protesta di non avere che un unico amante, e dell' essere unico più se ne piace? Non è chiaro come il sole, che ella non si ferma alle immagini che sono più, ma al vero oggetto da tutte raffigurato? Aggiungete che i diversi ritratti non rassomiglieranno tutti egualmente al suo giovine sposo, e l' uno non rappresenterà che il suo volto, un altro la persona intera; eppure ciascuno di essi suscita a lei nel cuore gli atti del medesimo amore. Anzi questi si accendono in lei non pure alla presenza di un ritratto, ma ancor di una lettera, che bacia egualmente e la si stringe egualmente al seno, di un regaluccio, di un segno qualsiasi di lui, o tale che le rappresenti il solo oggetto degli ardenti suoi voti. E che il ritratto sia mal dipinto e deforme talora non bada, perocchè ad essa basta se con esso può rammentarsi l' oggetto, in cui spera trovare la sua futura felicità. Il che tutto dimostra che sarebbe una pazzia il credere che nel ritratto o nel segno finisse e riposasse il pensiero dell' amorosa fanciulla; che anzi egli ha un termine solo al di là del ritratto, termine che è l' ultimo anello dell' operazione razionale, in cui riposa l' attenzione e la riflessione di lei, laddove il ritratto non è che l' anello di mezzo, su cui il pensiero passa rapidamente senza fermarsi. Conviene nondimeno far qui un' osservazione. Il principio razionale nelle diverse percezioni non fa che svolgere, specificare, attuare la percezione fondamentale . Questa, e di conseguente tutte le percezioni acquistate, hanno un sensibile7corporeo e un intellettivo, dei quali il principio razionale, uniente l' animalità e l' intelletto, fa un termine solo, che è il termine della percezione. Indi, allorquando non si percepisce l' oggetto per sè, ma per via d' immagine e di segno vicario, allora per la stessa legge della percezione il principio razionale suol comporre il termine della percezione: 1 del segno vicario7sensibile invece che dell' azione7sensibile dell' ente; 2 dell' elemento intellettivo; e così individua in qualche modo il segno sensibile coll' ente stesso, che è nel concetto intellettivo. Di che nasce che sebbene l' oggetto intellettivo sia il vero e reale oggetto, tuttavia a lui viene associato intimamente il segno per guisa che egli pare formare una cosa sola con esso; ond' è nel segno che l' intelletto lo vede e lo contempla, in un modo del tutto simile a quello in cui vede l' ente nelle sensazioni. Perocchè, quantunque le sensazioni non siano l' ente pensato dall' intendimento, tuttavia nell' atto della percezione esse sono quelle che vestono l' ente e lo determinano; e cosa simigliante avviene, quando si percepisce un uomo o altro ente per via d' immagine. E però non può farci più meraviglia, conoscendo bene questa teoria, se le nazioni anteriori a Cristo o non illuminate da Cristo, in cui la forza dell' intelletto era debole, potentissima l' immaginazione e la sensualità, e lo sviluppo intellettivo delle quali non s' allontanava molto dalla percezione, accoppiando e confondendo il segno colla cosa segnata, cadessero nell' idolatria; non già adorando le pietre, i sassi e le varie immagini degli animali come tali, ma ad esse congiungendo individuamente certe virtù superiori e divine, che erano il vero oggetto intellettivo a cui si riferiva il loro culto; trasnaturando quindi appresso in altrettante divinità gli esseri naturali ed artificiali, ossia deificando la creatura. Perocchè, se essi non avessero aggiunto col loro pensiero qualche cosa di divino alle statue o ad altri enti materiali, non li avrebbero mai adorati. L' antica idolatria, dunque, consisteva non già nell' adorare unicamente il segno o l' immagine (il che è impossibile all' uomo per la ragione detta, che egli non può fermare l' attenzione in ciò che è anello di mezzo di sua operazione razionale, quale è per sè l' immagine e il segno), ma nel convertire coll' immaginazione ciò che è segno ed immagine in oggetto, associando e individuando colle materiali forme l' oggetto divino per un errore del pensiero; e così adorando quelle nella persuasione che fossero questo o la parte visibile di questo. E a facilitare e compire questo errore degli antichi popoli si aggiungeva il vedere la materia dell' universo piena di forze, le quali non potendo essere lei stessa perchè inerte, dovevano supporre che fossero virtù occulte oltremodo potenti; raziocinio non sbagliato, col quale noi trovammo la necessità di un principio corporeo, benchè gli antichi errassero nel deificarlo. Di qui l' adorazione dei genii, degli angeli, che è quello che dice anche la divina Scrittura, « omnes Dii gentium daemonia ». La Mennais pretendeva a torto di dimostrare che i gentili non fossero veri idolatri, perchè riferivano alla virtù e potenza divina il loro culto, e non lo finivano nelle immagini dei loro idoli. Oltre di che è da distinguersi fra quell' immagine o quel segno, che è destinato a chiamare la nostra attenzione su un oggetto assente, ma sensibile, da noi altre volte percepito, come è il caso della vergine fidanzata, che vagheggia il futuro suo sposo nel ritratto che ella tiene innanzi agli occhi; e quell' immagine o segno, che è destinato a chiamare la nostra attenzione in un oggetto invisibile e spirituale, come sarebbe la divinità. Nel primo caso non vi è alcuna cagione di confondere il segno colla cosa segnata, perchè la cosa segnata, sensibile anch' essa e immediatamente conosciuta, si può immaginarla qual' è in sè stessa, e ben accorgersi quanto ella sia dal segno diversa. E quand' anche non si avesse percepita la cosa identica, ma altri individui della sua specie, sarebbe da dire il medesimo. Così niuno confonderà il ritratto di un uomo coll' uomo, benchè quest' uomo non l' abbia veduto giammai. Ma trattandosi di esseri invisibili, quando un segno sensibile conduce ad essi il nostro pensiero, noi vorremmo pure fissarli in sè; e per fissarli avremmo bisogno di trovare in essi qualche cosa di sensibile per la legge della mozione di sovra esposta, che « il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita e trattiene la sua attenzione ». Non potendo adunque (se non con estrema difficoltà e in virtù del libero pensare) affissare l' attenzione nell' invisibile senza dargli qualche sensibile vestimento, accade che l' uomo rozzo attribuisca a lui la forma che vede nel segno, e così il simulacro dell' idolo diviene facilmente la forma attribuita al Dio adorato. Ma quelle nazioni, che ai simulacri degli Dei concedevano forme umane, caddero insieme coll' idolatria nell' antropomorfismo . E considerando che negli antichi popoli l' intendimento operava spontaneo, ed il pensiero libero o non era per ancora sviluppato o assai poco, chiara apparisce la ragione perchè Iddio divietasse agli Ebrei il figurare la divinità con pitture e con statue; nello stato di quelle menti ancora fanciulle dovendo essere facilissimo, per non dire inevitabile, lo sdrucciolare ai due errori, di cui abbiamo indicata la naturale origine, dell' idolatria e dell' antropomorfismo. All' incontro, che il libero pensare possa evitare cotali errori ovvero riconoscerli per errori, il che è tutt' uno, lo dimostra questo fatto: che allorquando in quel memorabile secolo VI avanti Cristo cominciò l' ingegno italiano a filosofare, una delle prime verità, che gli si pararono innanzi, si fu la falsità delle forme umane e dei costumi umani dalle plebi attribuite agli Dei. E questo fu il pensiero di Pitagora e di Senofane (1); del quale ultimo sono a noi pervenuti questi versi: [...OMISSIS...] . L' ordine è posto dalla divina sapienza nel mondo. Ma quell' ordine non è nel mondo e pel mondo isolato dallo spirito; anzi è ordine nello spirito e per lo spirito, nel quale il mondo esteriore riceve quel compimento sostanziale, pel quale da non ente diviene ente. L' ordine adunque nel mondo isolato dallo spirito non è ancora ordine, ma è iniziamento all' ordine, che si trova poi nel mondo esistente nello spirito. Laonde alla legge cosmologica dell' armonia deve seguire la legge psicologica che la compisce; sono due parti della stessa legge, due relazioni reali in cui lo stesso oggetto si considera (2). E fu per questa connessione appartenente al sintesismo della natura che noi, parlando della legge cosmologica dell' armonia, dovemmo entrare in parte nella trattazione del quesito: « che cosa contribuisca l' anima del suo a mettere in essere l' armonia »; ma colà ci limitammo a parlare dell' anima sensitiva, come quella che riguardata in relazione al principio razionale appartiene al mondo, cioè al termine di esso principio razionale, chè il sentimento animale ed il sentito è veramente termine naturale all' umana intelligenza. Ora noi dobbiamo dunque continuarci a vedere che cosa ponga l' anima, in quanto è razionale, nella costituzione dell' armonia; il che compirà in qualche modo la questione propostaci. Senonchè non potremo trattare dell' armonia razionale, senza intramettere altre cose intorno all' armonia animale che vi si mescolano, argomento sempre nuovo d' inesausta ricchezza. E` un fatto che tutto tende ad operare regolarmente, e che il principio razionale si compiace della regolarità. Onde questa legge? Onde questa tendenza? La regolarità può considerarsi nell' operazione che si eseguisce (regolarità soggettiva), e nell' oggetto che si contempla (regolarità oggettiva). Onde nasce la regolarità soggettiva, la tendenza e il piacere di operare con regolarità? Questo piacere e questa tendenza è comune al principio sensitivo ed al principio razionale, anzi è legge generalissima di tutti gli agenti che passano dalla potenza all' atto, e che quindi hanno degli atti transeunti in sè stessi. Quale ne è dunque l' origine? da quali cause procede? Le cause, per le quali ogni agente si piace della regolarità nelle sue operazioni, sono tre, che insieme concorrono a produrre tale effetto: L' ordine naturale col quale ogni agente è costituito. La legge che determina il modo dell' operare spontaneo. L' unità dell' agente. Consideriamo ciascuna a parte. Qualsivoglia ente semplice ha un ordine intrinseco, senza il quale non sarebbe ente. Di più, ogni agente della natura composto di più elementi, dalla sapienza del Creatore è compaginato ed organato con ordine ammirando. Ora, posciachè l' ordine è nella natura dell' agente, esso deve pur essere altresì nelle potenze e negli atti di lui; l' operare adunque di ogni agente conviene che sia naturalmente ordinato. Quindi si deve trarne il concetto della regolarità naturale dell' operare degli enti; cioè quando si propone la questione: « in che consista la regolarità del loro operare », non si può già loro imporre una regolarità arbitraria; ma è mestieri desumere la regolarità loro conveniente dall' ordine in cui l' agente è, secondo natura, costituito. Di che quella regolarità apparente, che la mano dispotica del giardiniere a forza di tagli e di ferite crudeli pone nelle piante dei giardini alla francese, quando egli dà loro forma di piramidi, di colonne, di vasi, di statue, ecc., non è punto regolarità, anzi ella è uno scempio e una distruzione barbarica della loro naturale e verace regolarità. E quel che si dice delle piante si può dire egualmente dell' educazione degli uomini, perocchè anche gli uomini hanno la loro naturale regolarità, la quale si deve proteggere e sviluppare dalla savia educazione e dal buon governo, e non imporne loro una capricciosa, che è come dire, uno snaturarli. Il perchè la regolarità naturale non è di un' unica forma per tutti gli enti: essa varia in ciascuno, siccome varia la loro natura. La spontaneità nell' operare degli enti ha questa legge, che, ricevuto l' impulso, ella lo asseconda e continua il movimento nella via medesima segnata dall' impulso (1). Questa costanza di direzione è naturalmente fonte di regolarità, essendo ella cagione perchè i movimenti non deviino nè a destra, nè a sinistra. Indi è che, se durante il movimento spontaneo avviato ad una direzione un altro impulso è applicato, il quale costringa la spontaneità a interrompere il corso volgendolo altrove, l' agente prova molestia, perchè gli viene impedita di compire quella operazione a cui spontaneamente era già volto. Per la ragione dei contrari, riesce piacevole che le operazioni spontanee non sieno turbate e rotte a mezzo; giace adunque un piacere in quella regolarità di movimento, che stà nella continuazione di lei fino all' ultimo suo naturale riposo. La ragione ond' è che la spontaneità da sè stessa non cangia corso, fu da noi collocata in questo, che la legge d' inerzia si mescola con essa; e l' inerzia consiste nella tendenza al riposo, il contrario della fatica, alla quiete, il contrario del moto. Perocchè niun agente si muove se non affine di pervenire ad uno stato in cui quieto riposi. Per la stessa ragione egli non sorge giammai dal suo riposo se non iscosso da un impulso straniero che lo leva al moto, nel quale, quasi entrato a forza, si continua per trovare in fine un migliore stato di quiete, o certo una condizione di attività uniforme od immanente. Indi la spontaneità non incomincia il movimento, ma lo continua; alla quale legge non ubbidisce solamente l' animalità, ma ogni agente anche razionale, salva la libertà dell' arbitrio. E da essa dipende quella altresì dell' abitudine, che consiste nella maggior facilità che l' agente sensitivo o razionale trova in ripetere le operazioni altre volte compiute che non sia a farne di nuove. Le operazioni da lui fatte non sono cessate del tutto in lui; vi lasciarono qualche traccia, la quale è via segnata all' operazione che si ripete, onde l' istinto di pigliare la via più agevole, trovandone una ben tracciata, non assume la fatica di aprirsene un' altra tutta di nuovo o cercarla quasi a tentone. Che anzi l' operazione intera che apparentemente cessò, rimane leggermente attuata nel principio operante; rimane un disegno di lei, che ha la virtualità dell' operazione; e ad ogni nuovo leggero impulso si cangia in atto. Onde l' operare per abitudine è come un continuare l' operazione precedente, cessata soltanto in parte. Quindi regolarità puramente spontanea e regolarità di abitudine . Ma la spiegazione dell' abitudine non si ha tuttavia piena, se non si ricorre all' unità del soggetto operante. E` in questa unità che si deve collocare l' attenzione più squisita della mente. Noi già vedemmo che mediante questa unità si spiegano ottimamente quei fatti dello spirito, che Aristotele attribuì ad un preteso senso comune. Componendosi l' animalità di un termine esteso e molteplice e di un principio semplice, nel principio semplice giace l' esteso e il molteplice, e ne riceve unità. Ora il principio, essendo presente a tutte ugualmente le parti assegnabili nel continuo suo termine, può operare secondo le leggi della propria spontaneità in tutte o in molte ad un tempo, e produrvi più movimenti contemporanei. I quali movimenti debbono perciò ricevere un doppio ordine, l' uno dall' organizzazione che hanno le parti del termine esteso, l' altro dall' unità del principio che le muove e dalle leggi della spontaneità di lui, il quale, appunto perchè unico, mantiene la stessa legge in tutte quelle parti di esso continuo che egli abbraccia nella sua azione. Posciachè, dunque, sono regolarmente disposte le parti del corpo animale, e posciachè è unico il principio che le muove, debbono necessariamente aversene dei movimenti regolari. Ma non basta; vi è qualche altra cosa che conferisce alla detta regolarità; vi è la legge dell' immaginazione mirabilmente ordinata dal Creatore. Qual' è questa legge? - Eccola: « Nel cervello viene segnato in piccolo il mondo, a quella guisa che il mondo viene pure segnato nel sensorio ottico dalle impressioni luminose; e il mondo segnato nel cervello (sensorio dell' immaginazione) ha una sì fatta corrispondenza col corpo umano che quei vestigi del mondo, che stanno nelle minime areole del cervello, i quali soggettivamente considerati sono le immagini, riescono principŒ e sedi di movimenti opportuni, per sì fatta guisa che il principio sensitivo non ha d' altro bisogno a produrre i movimenti da esso appetiti che di operare in quelle minime parti estreme del cervello, donde i movimenti si propagano alle membra del corpo ». A dir vero non avviene a lui questo propriamente allo stesso modo come accade al pianista che suona, toccando i soli tasti dello strumento, oppure come al capitano di vascello che, seduto nel suo stanzino, con girare un piccolo ordigno muove e governa a sua volontà l' immenso timone della nave; no, queste similitudini che in qualche modo si approssimano, non quadrano intieramente. Perocchè il movimento che produce il sonatore immediatamente nei tasti, e quello che produce il capitano nel giuoco del timone, si propagano alle corde dello strumento ed al timone con una comunicazione di moto al tutto meccanica; laddove il principio sensitivo dall' immagine a lui presente piglia solamente eccitamento e indirizzo a fare quell' atto, che muove addirittura immediatamente le membra del corpo, tutto sensibile al bisogno del suo appetito. A ragion d' esempio, l' animale affamato prova dell' inquietudine, che è principio di movimento verso la soddisfazione dell' appetito. Ma se gli ritorna nella immaginazione quel luogo dove egli ha già sbramata altra volta la fame, e il cibo ivi trovato; l' immagine complessa dello stato suo in quel luogo, e della soddisfazione godutavi, e della strada che vi conduce, quell' immagine, che è un' associazione di più immagini fuse in una sola, in un solo sentimento, è sufficiente a suscitare in lui una quantità di forza motrice, e a determinare accuratamente quella direzione di moto, che lo porta con celerità sul luogo reale rispondente al luogo immaginario, per la corrispondenza delle immagini colle entità reali, cause delle sensazioni. E ciò perchè si tratta di confrontare sensibilmente la sensazione avuta all' immagine, fra le quali cose vi è proporzione. E vi è proporzione, perchè lo spazio, ossia l' estensione illimitata, è presente al sentimento animale e in esso ha esistenza, come abbiamo detto; e i confini, che affigurano il detto spazio, sono egualmente segnati dalla sensazione esterna e dall' immagine, due modi dello stesso sentire. I movimenti dunque del dimenar delle gambe che portano su quel luogo, dove egli si è sbramato altra volta, sono sentimenti attivi che egli fa per condurre la soddisfazione, che ha in immagine, a perfezionarsi colla sensazione : è un passaggio dallo stato di immagine (non soddisfacente), allo stato di sensazione (soddisfacente); ed i moti impressi alle gambe sono una serie di sentimenti attivi che legano quei due stati, cioè di sentimenti che partono dallo stato di soddisfazione immaginata per riuscire allo stato di soddisfazione sentita e pienamente goduta. E quella serie di sentimenti attivi e di movimenti conseguenti, essi stessi sono tracciati nel sensorio, e dietro tali traccie riprodotti. In caso contrario, cioè se non fossero stati prima sperimentati, essi possono nascere siccome altrettanti tentativi in cui vuole svolgersi lo stato molesto dell' inquietudine, fuggendo il quale, l' animale giunge, quasi a tastone, a sgombrarlo da sè e trovare la bramata soddisfazione (1). E qui si consideri che quello che noi abbiamo detto del cervello, che è unicamente « il sensorio dell' immaginazione », non del pensiero, si deve dire di ogni altro sensorio, che abbia ritentiva; perocchè i sentimenti animali non consistono puramente in immagini, ma sono molti e variatissimi (2). Noi però, affine di semplificare il discorso, non parleremo che dei movimenti che incominciano e si dirigono per via d' immagini. Dalla descrizione adunque che abbiamo fatto della maniera, secondo la quale si muove l' animale a recarsi nel luogo dove altre volte satollò il ventre, si può raccogliere: Che l' immaginazione o la ritentiva dello stato soddisfacente, che manca all' animale, è il principio del suo movimento. Che quel movimento è volto a cercare di conseguire lo stato soddisfacente immaginato, cioè di passare dallo stato di soddisfazione immaginata allo stato di soddisfazione sentita e goduta. Che questi due stati sono divisi da una serie più o meno lunga di altri stati, pei quali l' animale deve passare affine di giungere dove appetisce di giungere, allo stato di soddisfazione sentita . Che egli mosso a fare questo passaggio, tenta di percorrere la serie degli stati pei quali, passando dallo stato di soddisfazione immaginata, si conduce finalmente allo stato di soddisfazione sentita . Che gli stati intermedŒ sono quei successivi, in cui l' animale si trova durante i movimenti che egli fa per giungere a soddisfarsi, i movimenti, poniamo, coi quali si pone in via per giungere al luogo del cibo. Che se la serie degli stati intermedi non fu da lui sperimentata, nè per conseguenza segnata nel sensorio encefalico, egli è costretto a cercarla con diversi tentativi, come fa il lupo che, dopo essere qua e là vagato, finalmente si volge a quella direzione dove sente venirgli odore di ovile. Che la serie di quegli stati essendo disposta con successione, la successione stessa, che non sembra atta ad essere segnata nel cervello come successione, rimane però nella virtù del principio sensitivo per la unità e identicità di questo principio, per la quale egli sta presente alla moltiplicità della serie successiva, come è presente alla moltiplicità delle parti assegnabili nell' esteso; e per la legge dell' abitudine egli ha poi virtù di rifare la scala della successione, e ciò con un atto solo principale, estendendo la sua semplice attività di un tratto alla successione intera; al che è da credere che l' aiuti altresì la docilità dell' organismo, nel quale certi movimenti possono essere così congegnati che debbano quasi necessariamente ad altri succedere, e certo deve appunto così accadere in chi sogna di correre o di volare. Ritengasi dunque la distinzione di queste tre parti della catena di operazioni, per la quale procede l' istinto animale: 1 lo stato da cui l' animale parte, che è stato di soddisfazione immaginata, presentita, aspettata; 2 lo stato a cui perviene coi suoi movimenti e sforzi, che è stato di soddisfazione sentita, compiuta, esaurita; 3 gli stati intermedi pei quali l' animale passa affine di trasferirsi dal primo stato al secondo, che sono stati d' inquietudine, di sforzo, di movimento. Ora gli stati intermedi, pei quali l' animale passa affine di compire la soddisfazione iniziata nella fantasia o in generale nel sensorio interno, possono essere più e meno, secondo che lo stato da cui parte è più lontano o più vicino allo stato a cui tende di pervenire. Poniamo il caso che di questi stati intermedi non ce ne fosse nessuno. Allora lo stato di soddisfazione compiuta o accresciuta susseguirebbe prossimo allo stato di soddisfazione immaginata. E questo è appunto quello che avviene nell' animale, quando egli tende ad accrescere una soddisfazione o piacere sensibile, col solo attuare maggiormente i sensorii, per sentire con più di vivezza e di diletto ciò che incomincia leggermente a sentire. Anche rispetto a questo fatto del passaggio immediato da uno stato di soddisfazione incoata ad uno stato di soddisfazione compiuta, noi dobbiamo generalizzare quello che abbiamo detto dell' immaginazione ad ogni specie di sentimenti interni. L' immaginazione non è che una maniera di sentire, è sentire nel cervello, dove si riproducono principalmente le sensazioni ottiche, le quali hanno forma d' immagine; ma molti altri sensorii vi sono; ed ogni sentimento animale, a qualunque sensorio appartenga, è fonte d' istinto. Quindi l' animale, per ogni sensazione dilettevole solamente incoata ch' egli prova, si sforza di compirla quanto può, facendola crescere a quel grado massimo di intensità, oltre il quale la fatica, che deve fare in ciò, limita il suo conato. Qui ritorna ancora la virtù formatrice, per la quale gli elementi vivi si compongono in semi e in animali; e i semi si svolgono pure in animali; e gli animali crescono, si sviluppano, si perfezionano, decadono, muoiono. Ora, posciachè in ogni aggregato messo insieme dalla virtù formatrice vi è un principio unico di azione, e vi è pure una unione ordinata di sentimenti disposti in un termine esteso, s' intenderà facilmente che la virtù formatrice si può considerare sotto due aspetti: 1 da parte del principio unico, in cui sta l' efficienza di lei; 2 da parte del termine sentito con sensazioni connesse armonicamente, in cui sta la norma dirigente il principio nell' operare. Questo termine, considerato come istinto sensuale, si può acconciamente raffigurare siccome quasi uno stampo vivo, operante da sè, ed a questo conviene riserbare la denominazione di forza plastica . Se poi negli animali più perfetti che hanno cervello, questo sensorio dell' immaginazione contribuisca a dare certa conformazione, certi accidenti, certe disposizioni al feto, questa è questione superiore alle nostre cognizioni. Ma crediamo poter dire: 1 che alla formazione e disposizione del feto non contribuisce la sola immaginazione della madre, ma tutto il sentimento materno, e il sentimento annesso agli elementi di cui il feto si compone, e al feto stesso già composto; 2 che l' immaginazione, essendo una parte del sentimento materno, non è inverosimile che possa avere una qualche, più o meno mediata, influenza sul feto, avendola certamente su tutto l' essere animale della madre, che rimane modificata dalle passioni, a cui l' immaginazione dà principio e fomento (1). Ma per compiere questo discorso rimane a ricercare quale sia il principio che muove l' immaginazione. - Perocchè è da considerare che ogni immagine è composta di più parti, di contorni a rette, a curve, di colori con gradazione di tinte, e fino di movimenti diversi che fa l' immagine, come se ella rappresentasse un cavallo che corre; ora quelle parti, quelle tinte, quei movimenti hanno convenienza fra loro, non sono posti a caso; quale è dunque l' egregio pittore che abbia saputo suscitare nel sensorio encefalico tanti minutissimi movimenti, con tanta proporzione fra loro da rendere l' immagine perfetta, neppure uno di più, non uno di meno, che avrebbe guasto ogni cosa? Se ben si considera, questa è un' opera stupenda della natura, perocchè il sensorio per sè stesso è atto a rendere non solo quelle immagini intere, ma le loro parti o anche dei colori che nulla rappresentano. Quale è dunque il principio unico, che lo determina a quel complesso di sensazioni che rendono l' immagine così intera e bellissima, e ciò non già componendola successivamente, non aggiungendo tinta a tinta, e quasi pennellata a pennellata come fa il pittore, ma ponendola in atto, senza pentimenti, a prima giunta, e tutta in un solo istante? Come appunto fa la natura a colorire i fiori e gli insetti, i cui armonici colori sono posti tutti simultaneamente, e la vaga pittura apparisce tutta formata ed intera, senza che una foglia o un' ala rimanga indietro in quel lavoro meno dipinta della foglia o dell' ala sua pari. Per spiegare questo fatto dell' ordine e della regolarità perfetta dell' immagine, che comparisce intera d' un tratto solo, noi ricorriamo a tre principŒ: 1 al principio che l' operatore, la causa efficiente, è semplice, e questo è il principio sensitivo (benchè vi possano concorrere più cause eccitanti), il quale è presente nello stesso tempo a tutta la sensazione primitiva, cui l' immagine riproduce; 2 al principio dell' abitudine, che rende l' atto fatto altre volte più facile a fare, perchè rimangono gli iniziamenti dell' atto primitivo, cioè della sensazione benchè cessata, onde l' anima si determina all' atto altrove sperimentato; 3 ma posciachè le immagini che si hanno nel sogno, o anche in veglia, non sono la riproduzione esatta delle sensazioni avute, perciò è da ricorrersi a un terzo principio; e questo si è che « l' animale fa sempre quello che gli è più facile e più piacevole », e ciò avuto riguardo a tutte le condizioni nelle quali si trova il suo principio sensitivo ed istintivo. Ora, quando il principio sensitivo semplice ed uno si muove a produrre in sè stesso delle immagini, a questo è mosso da una moltitudine di stimoli interni, che sono principalmente gli umori del corpo umano, i quali col muoversi regolarmente o irregolarmente eccitano ai suoi atti il sensorio interno della immaginazione e il principio unico, da cui viene l' azione vitale del sensorio. Questo principio, adunque, si lascia suscitare all' azione dalla concorrenza di quella moltitudine di stimoli, e la sua spontaneità si determina a quella maniera di azione complessa, che fra tutte gli è più facile e più piacevole. Egli non resiste all' eccitamento di alcuno stimolo se non indottovi dall' urgenza di uno stimolo maggiore. Nello stesso tempo la sua unicità e semplicità, aiutata anche dall' abitudine, gli rende necessario e spontaneo il porre un ordine fra tutte le minime immagini o parti d' immagini, che vengono provocate dagli stimoli nel suo sensorio, sì perchè non potrebbe con un atto solo tutte contemporaneamente produrle, se egli non le sintesizzasse ed ordinasse ad unità, e però gli riuscirebbe molestissimo lasciarle sbandate a caso, o sopprimerle col resistere agli stimoli che le eccitano; e sì perchè è a lui più piacevole e dilettevole l' unione armonica di esse. Ma questa unione armonica egli la trova subito, giacchè è determinata dalla sua stessa natura, cioè dalla legge del più facile e del più piacevole. Egli pone dunque della sua attività reggitrice ed ordinatrice in questo fatto, e così ottiene una scena d' immagini, benchè in parte diversificate dalle sensazioni altra volta sperimentate, pure bene ordinate, poniamo, a foggia di storia, e legate insieme. L' attività dominatrice del principio sensitivo sulle immagini che stanno per eccitarsi, qui ha dunque una parte grandissima. L' atto dunque, col quale l' immagine si ripristina, è un atto solo, benchè si estenda a molti movimenti contemporanei nelle varie fibre del cervello che debbono riprodurre l' immagine, e ciò perchè l' anima sensitiva con un atto solo può operare più effetti, a cui ella è contemporaneamente presente nella sua semplicità; sicchè ogni gruppo di effetti diversi è un atto solo diverso. Ella si determina poi a riprodurre più facilmente, almeno in parte, le immagini di cui ebbe le sensazioni, da questo, che la spontaneità ubbidisce all' abitudine, che è quasi una continuazione e un ravvigorimento dell' atto precedente non in tutto cessato. Vi è dunque nell' animale un principio unico, rettore di tutte le sue operazioni istintive, ed è « la tendenza di pervenire a quello stato di soddisfazione che in lui si trova incoato »; il qual principio deve dare una singolare regolarità al suo operare, e contrastare a tutto ciò che è irregolare, cioè opposto a quella regolarità, che consegue alla sua natura molteplice nell' unità. Ora, se si rinviene tanta regolarità nelle operazioni dell' animale, non minore certo ella deve essere in quelle del principio razionale. Ma posciachè il termine del principio razionale è l' oggetto, perciò dobbiamo qui venire a trattare della regolarità oggettiva. Perchè dunque piace alla mente di contemplare ciò che ella trova regolarmente disposto? Se si considera che molte cose disposte con certa regolarità sono più facili a concepirsi ed abbracciarsi col pensiero, e che il più facile è preferito, sempre per la legge di spontaneità che presiede ad ogni agente, si troverà in ciò una prima ragione, che dimostra dover tornare gradito a chi contempla più cose, che esse sieno regolarmente disposte. E veramente essere disposte regolarmente vuol dire essere disposte con ordine, e questo vuol dire essere disposte secondo un' unica regola, nella quale subito si vede dalla mente quale sia, quale debba essere tutta quella disposizione. A ragion d' esempio, poniamo dinanzi allo sguardo della nostra mente una serie di numeri disposti in proporzione aritmetica o in proporzione geometrica; colui che sa il primo numero di questa serie e sa la differenza del primo al secondo, o il quoto del primo diviso pel secondo, non ha bisogno d' altro a conoscere quale sarà la distribuzione di tutti i numeri successivi, e con notizie cotanto semplici egli può descrivere da sè stesso quelle serie, quantunque lunghe si vogliano. Nella regola dunque della distribuzione, che nell' esempio addotto sarebbe la differenza per la serie aritmetica e il quoto per la geometrica, in quell' ultima e semplicissima regola l' intelligenza abbraccia compendiata tutta la moltitudine delle cose, in quanto sono così regolarmente disposte, ed anzi quanta moltitudine le piace d' immaginare egualmente disposta. Quelli che hanno qualche nozione di matematica, conoscono assai bene come le curve si segnano mediante equazioni algebriche, le quali altro non fanno che presentare la regola, secondo la quale sono disposti tutti i punti assegnabili in una curva, cioè con quale ordine quei punti sono determinati ai loro luoghi l' uno relativamente all' altro. E` vero che l' equazione algebrica non presenta all' immaginazione la forma della curva, ma ne dà la chiave all' intelligenza, insegna all' intelligenza a descriverla quando vuole, sia sulla carta, sia nella propria immaginazione; e questa cognizione così abbreviata, semplificata, è sommamente dilettevole alla mente, che arriva con ciò a possedere e sapere assai più di quanto potrebbe ritrarre dalla percezione dei sensi, sempre limitata a un numero di individui. Quindi colla regola intellettiva si conoscono le pluralità delle cose in ispecie, e non in individuo, cognizione che abbraccia immensamente più. La quale è una seconda ragione per cui l' intelligenza ama la regolarità nell' oggetto molteplice contemplato; l' ama non solo perchè coll' intervento di essa pensa la molteplicità in modo più facile, ma ben anche perchè pensa di più, ed oltracciò la pensa in modo da potere riprodurre ella stessa, quanto più le piace, di quelle molteplicità. Vero è che anche una molteplicità irregolare può essere dalla mente cangiata in una specie, contemplandola slegata dalla percezione sensibile; ma questo riesce oltremodo faticoso, massime se la molteplicità irregolare sia numerosa. Oltracciò quella moltiplicità non può essere accresciuta dalla mente se non ha una regola secondo cui accrescerla, come accade nelle serie, ond' ella si rimane sempre limitata. E qui si disvela una terza ragione per la quale al principio razionale è dilettevole la regolarità, ed è che ella lo rende atto ad operare. Allorquando egli è in possesso della regola, che ordina e dispone in un dato modo la molteplicità delle cose, questa regola gli diviene principio e norma di operazione, sì rispetto al ragionare che ad ogni altra maniera di operare . Si ritorni all' immortale invenzione di Cartesio, che ridusse le curve a forme algebriche. L' avere una curva in una formola algebrica altro non è, come vedemmo, che l' avere espressa la regola, secondo la quale sono distribuiti i punti assegnabili in essa. Ora, chi non sa quanto il possesso di queste formule aiutò la scienza a determinare cotante e bellissime proprietà delle curve, che altrimenti sarebbero restate incognite? E come si determinarono queste proprietà dai matematici se non fondando appunto i loro ragionamenti sopra la regola, secondo cui trovarono essere disposti i punti assegnabili nelle varie curve, ed espressero tali disposizioni in formule od equazioni? L' aver conosciuta quella formula che esprime quale sia la regolarità delle curve, fu amplissimo fonte di nuove cognizioni alla mente; il conoscere adunque la regola, secondo la quale è formata la regolarità di una molteplicità di cose, è principio fecondissimo di sempre nuove cognizioni, che stanno tutte virtualmente accolte in quel principio. E si noti che queste cognizioni, che si vanno discoprendo quando si ragiona partendo dalla notizia di quella regola che ordina i rapporti di più cose, non sono solamente diletto alla mente, ma danno applicazioni pratiche; e lo sanno bene coloro, che conoscono quanto la meccanica e l' idrodinamica si sieno vantaggiate in ragione che si scopersero le regole, che esprimono in compendio la regolarità delle diverse linee rette e curve, e dei loro varii sistemi. Onde l' uomo deve amare la regolarità delle cose anche per questo, che nella regolarità, trovatane la regola, egli ha un principio: 1 che gli apre grandissimo campo a procacciarsi nuove cognizioni; 2 gli aggiunge nuove ed incredibili potenze di operare nel mondo esteriore. Si deve anche aggiungere per una quarta e più sottile ragione, che la regolarità delle cose, contemplate dalla mente e raccolte in breve regola, aiuta l' uomo a ordinare anche sè stesso, e quindi a migliorarsi moralmente, amando egli di riprodurre in sè l' ordine che è avvezzo a contemplare colla mente. Il che egli deve fare anche istintivamente, conciossiacchè il principio razionale non manca del suo istinto; e l' ordine delle cognizioni, che sono nella mente umana, è principio istintivo di operazione bene ordinata. Ma la quinta ragione dell' inclinazione del principio razionale alla regolarità è quella che spiega e compie tutte le precedenti; ella viene dal principio di cognizione che « l' oggetto del pensiero è l' ente ». Ora l' ente è uno per sua essenza; onde l' intelligenza s' innalza tanto più alla contemplazione dell' ente, quanto più le riesce di scorgere l' unità nella molteplicità delle cose. Perocchè, che è mai l' unità delle cose molteplici? E` un considerarle nell' essere universale, e a lui riportarle come al loro supremo contenente; onde, essendo bene dell' intelligenza il proprio suo termine, ella aspira a vedere tutte le cose nell' essere universale, dove si trovano unificate. Quindi è principalmente che ella ama assai più una cognizione per principŒ che per conseguenze, perchè i principŒ non solo spaziano infinitamente più alla distesa che non molte e molte conseguenze da loro dedotte, e però hanno più di luce, ma ben anche dentro ai principŒ le conseguenze risplendono unificate. E il conoscere le cose molteplici in quella regola che dà loro una distribuzione regolare, è già conoscerle per principŒ. Vero è che la cognizione delle cose per principŒ, presa da sè sola, è una cotale cognizione iniziale e virtuale; sotto il quale aspetto il conoscere per principŒ è minore cognizione che non sia il conoscere per conseguenze. E come le conseguenze conosciute senza i principŒ non dànno altro che una cognizione percettiva, imperfettissima, perchè oltremodo limitata in quanto all' estensione del lume; così la cognizione dei puri principŒ, senza la distinzione delle conseguenze, è una cognizione astratta, anch' essa imperfetta, non quanto all' estensione del lume, che è infinita, ma quanto alla intensità e per la mancanza di comunicazione colla realtà. Ma quando si conoscono ad un tempo i principŒ e le conseguenze, quando si conoscono queste in quelli, siccome accade nel caso addotto di una moltitudine di cose, nella quale si scorge la regola secondo cui sono distribuite e disposte, allora si ha la cognizione perfetta, che soddisfa a pieno l' intelligenza, e scorge ed aumenta senza fine l' umana attività. Tali sono le ragioni per le quali il principio razionale ama di contemplare le cose regolarmente disposte. Ma ora questa regolarità può essere sommamente variata, può variare all' infinito la regola che la determina; e il classificare coteste diverse regole, dimostrandone le proprietà, sarebbe opera immensa, da tentarsi da colui che volesse comporre un trattato di Callologia . Noi ci contenteremo di distinguerle in due grandi generi: Il genere di quelle regole che distribuiscono gli enti in un ordine esteriore, secondo il luogo (simmetria) ed il numero (proporzione). - Coordinazione . Il genere di quelle regole che distribuiscono gli enti secondo la convenienza fra l' interiore e l' esteriore, il principio ed il termine (organismo), il fine ed il mezzo, i principŒ e le conseguenze, la causa e l' effetto, ecc. - Subordinazione . Il primo genere di regolarità è più facile a conoscersi, perchè apparisce anche nelle cose percepite coi nostri sensi. Il secondo è più difficile; e a cagione di questa maggiore difficoltà appare sovente che non vi sia regolarità colà, dove non si vede il primo genere di essa; eppure ella vi è, anzi più nobile ed eccellente. Ed è per questo difetto che il giardiniere, che dà ad un albero la forma di una croce contro la sua natura, crede di renderlo regolare, perchè lo costringe a ricevere una regolarità di primo genere; quando infatti egli distrugge la regolarità propria della natura di quell' albero, che era regolarità di secondo genere, da quel rozzo giardiniere e dal suo signore ignorata. Ma posciachè giova non poco distinguere accuratamente quale specie e natura di armonia sia quella di che il principio sensitivo è atto a godere, e quale sia quella di cui gode il solo principio razionale, soffermiamoci a considerare un poco una sentenza di Leibnizio, il quale definiva la musica « « una aritmetica dell' anima » ». L' anima sensitiva gode ella veramente dei numeri e delle loro proporzioni? Gode della simmetria delle parti? Gode finalmente dei movimenti proporzionali? Questa questione ha bisogno di più distinzioni e riflessioni. Primieramente è certo che tutto ciò di che gode il principio sensitivo, è soggettivo : sono modificazioni di lui. All' incontro, il principio intellettivo e razionale gode dell' oggetto, gode di ciò che conosce essere nell' oggetto e non essere in sè stesso, gode di un bene che considera fuori di sè ed a sè non riferisce. Tuttavia anche il principio sensitivo ha un termine esteso e molteplice, dove cade simmetria, numero di movimenti, proporzione di numero e proporzione di tempo fra i movimenti. Gode egli di tutte queste cose? Da quel che è detto rimane escluso il godimento oggettivo di queste diverse maniere di ordini, il quale godimento appartiene al solo principio intellettivo e razionale. Che cosa vuol dire rimanere escluso il godimento oggettivo? Vuol dire che non può godere di quella simmetria e di quella proporzione, considerate come qualche cosa di buono e di bello in sè stesse, indipendentemente dal soggetto. Il principio razionale, che considera la simmetria e la proporzione oggettivamente come un bene indipendente da sè, la stima e loda, anche se per accidente gli fosse nocevole; la stima e loda per l' unica ragione dell' eccellenza che egli vede avere in sè medesima; se gli effetti saranno a lui dolorosi, egli porterà di questi un giudizio contrario, li giudicherà mali (e in questi effetti vi è già un disordine); ma al lato di questo giudizio sugli effetti rimarrà intatto il giudizio precedente sulla causa, cioè sulla simmetria e sulla proporzione. Il bello e il buono, che ammira in essa, è immutabile ed eterno come l' essere. Nulla di ciò può fare il principio sensitivo: non può conoscere, nè di conseguente apprezzare la simmetria e la proporzione in sè stessa, ma solamente può sentirne gli effetti e godere di questi, se per lui buoni. Gli effetti della simmetria e della proporzione, che si trova nel termine del sentimento, non sono la stessa simmetria, la stessa proporzione; benchè l' effetto (il sentimento avutone) sia analogo e corrispondente ad essa, e, se si vuole, abbia anche la simmetria e la proporzione in sè stesso. Dunque il principio sensitivo non gode della simmetria e della proporzione, come tali. Ma se il godimento sensibile ha pur esso simmetria e proporzione, dunque gode di queste. No, perocchè quando si gode di una cosa, altro è la cosa di cui si gode, altro è lo stesso godimento. Dire che il godimento gode di sè stesso non è che una logomachia, un rendere doppio quello che è semplice; il godimento non gode di sè, ma l' uomo per esso semplicemente gode. Se dunque nello stesso godimento, contemplato dalla mente, si rileva qualche ordine simile a quello della simmetria e della proporzione, non si dirà perciò che il principio sensitivo goda di queste disposizioni; ma piuttosto che il godimento è una cotal simmetria e proporzione vivente e godente. Perocchè non quelle cose, che hanno simmetria e proporzione, godono di quest' ordine che hanno in sè stesse; ma ne gode colui che, contemplandole, ve lo scorge. Onde se il principio razionale trova simmetria e proporzione nell' intima costituzione del godimento animale, è il principio razionale che gode di quest' ordine, che ha quel godimento; ma il godimento è solo un fatto semplicissimo ignaro di sè, della propria natura. Onde il godimento, costituito dalla simmetria e dalla proporzione del suo termine, è ancora un effetto e non un godimento di queste armoniche disposizioni. Sono dunque questioni assai disparate: Se il principio sensitivo goda della simmetria e della proporzione. Se il principio sensitivo goda per l' effetto che in lui produce la simmetria e la proporzione, che giace nel suo termine. Alla prima si deve rispondere negativamente; e si conferma questa risposta osservando che se il principio sensitivo fosse atto a godere della simmetria e della proporzione, egli dovrebbe godere di ogni simmetria e di ogni proporzione che fosse nel termine suo, come appunto fa il principio razionale, che contempla tali ordini nell' oggetto; laddove è di fatto che il principio sensitivo, che gode in conseguenza di certe simmetrie e di certe proporzioni che prende il suo termine, non gode di altre disposizioni simmetriche o proporzioni, che non gli recano l' effetto piacevole a cui egli tende; non è dunque dell' essenza, della ragione della simmetria, di cui gode, ma dell' effetto che questa talora produce, talora non produce in lui. Ora, l' aver confuse queste due questioni distintissime fu cagione che alcuni uomini di gran mente, fra i quali Platone e Leibnizio, dessero all' anima sensitiva un cotal ragionare occulto e misterioso, la rendessero calcolatrice, perita di aritmetica squisita e di sublime geometria; errori sublimi, a dir il vero, in cui soltanto così rari ingegni potevano cadere, siccome quelli che soli erano arrivati a scorgere le simmetrie e le proporzioni insite al termine sentito; nè tuttavia pervennero a distinguere da esse con pari felicità il sentimento piacevole che ne è l' effetto. Onde attribuirono al sentimento che egli godesse della causa che lo costituisce, quando anzi nè tampoco la conosce; e gode nel termine simmetrico e proporzionale, ma non della simmetria e proporzione di lui. La quale illusione è pure agevole a prendersi dai grandi ingegni, poichè pare che l' anima sensitiva faccia le stesse operazioni che fa l' aritmetico, quando veramente non ne fa nulla. Vogliamo noi che l' anima sensitiva sembri che tiri la somma di due quantità? Immaginiamoci di trascorrere uno stagno in una barchetta, mentre un' altra barchetta ci passa al fianco in direzione contraria. L' occhio nostro, che riguarda la barchetta passante accanto alla nostra, sembra sommare insieme accuratissimamente le celerità delle due barche, perocchè il moto apparente di quella barchetta è d' una celerità precisamente pari alla somma delle due celerità dell' una e dell' altra barchetta. Vogliamo che l' anima sensitiva paia compire una sottrazione? Facciamo che mentre noi trascorriamo quello stagno con lenta barchetta, ce ne passi una appresso nella stessa direzione, con celerità due o tre volte maggiore della nostra; che cosa vedrà l' occhio nostro guardandola? Egli la vedrà andare con una celerità, che sarà precisamente la differenza fra la celerità di quella barca e la celerità della nostra; coglie l' occhio questa differenza con tanta precisione che con più non può qualsivoglia calcolatore. Vogliamo che l' anima sensitiva paia operare una moltiplica, una divisione, e per essere più brevi, vogliamo un fatto nel quale paia che ella faccia tutte e due queste operazioni insieme, e istituisca altresì per venirne a capo una vera proporzione geometrica? Immaginiamo che dalla nostra barchetta, la quale se ne va per lo mezzo dello stagno in linea retta, il nostro sguardo contempli due gioghi di monte, l' uno più lontano al di là dell' altro; con quale celerità di movimento vede egli muoversi quei due gioghi, l' uno incontro all' altro avvicinandosi o l' uno in direzione opposta all' altro allontanandosi? A saperlo dire ci vuole il calcolo, conviene rilevare la distanza dei due gioghi e la distanza del più vicino alla barchetta. Solo il calcolatore vi saprà dire, dunque, che il movimento apparente dei due gioghi risulterà da una equazione esprimente una proporzione geometrica. Ma l' occhio ha bello e sciolto il problema immediatamente, senza prender misure; egli vede appunto il movimento relativo dei due gioghi andare di quella celerità, nè più nè meno, che trova il calcolatore; e con questa differenza che il risultato del geometra può errare, e il risultato veduto dall' occhio in natura non sbaglia giammai. Che è dunque a dirsi? Forse che il senso calcola veramente? Che egli calcola una celerità con sicurezza maggiore che non sa fare la mente dei geometri? Pazza cosa il pensarlo; sarebbe un trasformare il senso in una mente assai più perspicace della mente stessa. E` dunque a dirsi che non è il senso che trova quei risultati, ma la natura che li produce e glieli somministra prodotti; perocchè la natura è così ordinata, come dicevamo, benchè ella non senta, nè conosca il proprio ordine; il moto, che si dà a vedere all' occhio, segue le sue proprie leggi, e gli si dà a vedere secondo che queste leggi prescrivono. Qual meraviglia dunque che il senso abbia per termini suoi tali quantità così disposte, così proporzionate, e che il geometra, volendone conoscere la disposizione e l' ordine, abbisogni di ricorrere a calcoli anche complicatissimi? Ora, se vi è ordine nella materia e nei suoi movimenti, è chiaro che vi deve essere ordine altresì negli organi sensori, che sono di materia composti. E se è cosa certa che il principio sensitivo tende ad avere per suo termine un determinato organismo, ed un organismo gli è più conveniente di un altro, perchè gli è occasione di spiegare maggiore attività sensitiva; qual meraviglia che il principio sensitivo stesso tenda ad avere nei suoi organi sensori certi movimenti anzichè altri, e regolati con certe proporzioni di ampiezza e di tempi? Si consideri altresì che la direzione e la comunicazione del moto riceve forma dalla configurazione e composizione del corpo stesso; per esempio, un corpo di una figura, ricevendo un impulso al moto, fa movimenti diversi secondo che varia il punto e la direzione in cui gli è applicata la forza motrice; e questa stessa forza applicata ad un corpo di altra figura dà un' altra guisa di moto. Avendo adunque gli organi sensori anch' essi una certa configurazione regolare, conveniente al principio sensitivo, i movimenti dei medesimi, se convenienti, debbono partecipare della stessa regolarità, e quindi avere un certo ordine. Ancora, è naturale che uno degli elementi di questo ordine sia la proporzione dei tempi, nei quali vengono fatti i diversi moti, che in essi s' imprimono. Perocchè la comunicazione del moto ubbidisce alla legge del tempo; e lo stesso movimento impresso a due corpi, l' uno dei quali è doppio di massa dell' altro, impiega doppio tempo a percorrere tutto il corpo e comunicarsi a tutte le sue molecole; ond' ecco una proporzione di tempo corrispondente alla proporzione della massa. Se la densità del corpo è eguale ed è doppio il volume, la comunicazione del moto di molecola in molecola andrà in ragione dei volumi. Quello che si dice della comunicazione semplice del moto per via d' impulso, si deve dire egualmente o in modo simile del moto per via di affinità o di attrazione, per via di onde o di vibrazioni, del moto semplice e composto, risultante da una sola forza o da più forze, ecc.. Ora, ammessa la legge che « al principio sensitivo piace di compire i suoi atti, e di non essere guastato nel mezzo di essi, e fatto voltare ad incominciar nuovi atti », è chiaro che i movimenti, che egli cercherà nel suo termine, dovranno avere fra loro una proporzione di tempo, non vorranno riuscire raddossati, intralciati e confusi, ma distinti e ordinati, affinchè colle loro more regolate lascino tempo al principio sensitivo di compiere le sue operazioni, e di spiegare tutte le attualità da lui mosse senza frastornarnelo. Il principio sensitivo non ama dunque questo ordine per sè, ma per avere agio a spiegare l' attività che egli vuol sempre ultimare e svolgere a pieno; gli duole se, intoppandosi, gli rimane impedita. E perchè nella produzione delle sensazioni, per esempio delle ottiche ed acustiche, ad un dato numero e metro di vibrazioni risponde una sensazione semplicissima, poniamo del bianco o del rosso, dell' alamire o del fefautte? Non è questo prova evidente che nel sentimento non entra il numero delle vibrazioni e le loro proporzioni, ma che egli nasce come un effetto unico di questi molteplici movimenti extrasoggettivi? Si dirà: la luce maggiore rende l' occhio insensibile alla luce minore; di due camere egualmente rosse, la prima in cui s' entra sembra più rossa della seconda (1); il passaggio repentino da un grandissimo grado di calore a un grado assai minore dà una sensazione di freddo, e in generale dove vi è maggior passaggio nello stesso tempuscolo fra uno stato ad un altro di eccitamento, si ha più vivezza di sensazione. Pare adunque che la sensazione non si produca in ragione dell' assoluta azione dello stimolo esterno, ma della proporzione fra i varii stimoli che si succedono. - Si risponde che ciò non prova che il sensorio senta la proporzione degli stimoli, ma bensì che l' effetto di questa proporzione in certe circostanze è la sensazione più o meno vivace, appunto perchè il sensorio a compire i suoi atti ha bisogno di essere stimolato non a caso, ma con ordine e proporzione; ond' è che i movimenti troppo violenti e improporzionati possono produrre un sentimento minore, o anche nullo, verso movimenti più leggeri e convenientemente proporzionati. Il solo principio razionale, adunque, è quello che gode della regolarità simmetrica, proporzionale, e in una parola dell' ordine, che è cosa essenzialmente oggettiva; perchè egli solo è quello che ritrova e contempla più o meno distintamente la regola unica e semplice, che determina la regolarità. Il che trae nuova conferma da un' altra osservazione. Una data moltitudine di cose può essere considerata dall' intelligenza con diversi sguardi, e quindi ella può presentare regolarità diverse, simmetrie diverse, senza che la distribuzione reale di quelle cose cangi punto. Se regolarità diverse esistono in una stessa distribuzione di cose, dunque la detta regolarità viene costituita dai diversi sguardi della mente, e non è propria delle cose materialmente prese, nè del senso di esse. E che cosa poi sono questi diversi sguardi della mente? Onde avviene che le cose si trovano distribuite regolarmente in diversi modi? Certamente da questo, che la mente vede che quella distribuzione stessa di cose poteva essere così determinata da regole diverse; sicchè la mente, applicando diverse regole, quasi per altrettante vie, perviene a distribuire quelle cose nello stessissimo ordine. Illustriamo la cosa con un esempio tolto dallo scacchiere. Ognuno sa che lo scacchiere è una superficie quadrata, divisa in sessantaquattro quadrati minori. La distribuzione di questi quadrati è unica e semplicissima. Ma lo sguardo della mente può considerarli in varie maniere collocati ed uniti fra loro, e l' aspetto che essi presentano mirati in un modo è diversissimo dall' aspetto che presentano mirati in un altro modo. Se io considero quei quadrati come uniti insieme pei loro lati, mi esce un disegno diverso da quello che mi esce riguardandoli come uniti pei loro angoli. Io posso anche di alcuni di essi formarmi una figura, la quale, ripetendosi continuamente, mi esaurisca tutto lo scacchiere; ed ho così un disegno nuovo. Pigliamo i movimenti dei diversi pezzi del gioco degli scacchi, e per non essere soverchiamente lunghi, limitiamoci a tre: alla torre, al fante e al cavallo. Il movimento della torre va da un capo all' altro dello scacchiere, percorrendo la fila dei quadrati in quella direzione nella quale sono uniti dai loro lati. Ebbene, se io prendo l' intera fila degli otto quadrati, io posso definire lo scacchiere con questa regola: « lo scacchiere risulta da otto file di quadrati eguali uniti pei loro lati »; ecco una regola che mi determina una distribuzione simmetrica. Prendo i fanti, i quali percorrono le file dei quadrati diagonalmente, nella quale posizione si toccano negli angoli. Queste file di quadrati, toccantisi agli angoli, mi danno di nuovo tutto il medesimo scacchiere, che posso definire: « un quadrato composto di sedici file di scacchi quadrati, uniti diagonalmente ai loro angoli ». E se coll' occhio fisso queste sedici file da cui lo scacchiere risulta, mi pare un disegno totalmente diverso dal primo. Veniamo al passo del cavallo, che percorre sempre tre scacchi, uno dei quali in direzione obliqua. Io posso fissare coll' occhio la figura che risulta da questi tre scacchi, e poi considerare questi tre scacchi ripetuti in modo che mi empiano tutto lo scacchiere, che posso definire: « un quadrato diviso in vent' una figura, ciascuna delle quali ha la forma di due scacchi quadrati diritti ed uno obliquo, più uno scacco quadrato »; e considerando lo scacchiere come un aggregato di tali figure, egli mi sembra di tutt' altro disegno da quello che mi pareva prima. Ecco come lo stesso scacchiere reale, secondo le relazioni diverse delle sue figure, secondo i diversi sguardi della mente, diventi un piano avente diverse simmetrie, appunto perchè quei diversi sguardi della mente vengono a significare diverse regole che usa la mente, quali principŒ determinanti la simmetria, per concepirla nella sua ragione, nella sua regola, com' è consentaneo all' intelligenza. E questo ben dimostra che la regolarità contemplata dalla mente è posta dallo stesso vedere della mente, benchè la mente non potrebbe porla, se nella molteplicità, che forma l' oggetto di sua contemplazione, non ci fossero certe relazioni e corrispondenze coll' ideale, dove stanno le regole delle cose; onde anche qui ricomparisce il sintesismo fra il reale e l' ideale. A questo ancora è da attribuirsi il vedere che i bruti non danno alcun segno di gustare il bello, e neppur l' armonia musicale, benchè si risentano a certa melodia, come accade in alcuni serpenti, i quali non guastano il bello, ma il piacevole sensibile . La molteplicità è contemporanea o successiva . Quindi l' armonia, che in essa si può ravvisare, è pure contemporanea per l' ordine che hanno più cose presenti, come la simmetria di cui abbiamo parlato, l' ordine che hanno le parti al tutto, le sensazioni armoniche, ecc.; ovvero è successiva per l' ordine e la convenienza, che hanno i termini precedenti di una serie di fatti coi susseguenti. Di questa armonia successiva abbiamo già toccato, parlando dell' anima sensitiva e recandone in esempio i colori ed i suoni immaginari, che si succedono spontanei nel sensorio ottico ed acustico; consideriamola ora nello stesso principio razionale, che è tutto l' uomo. Al principio razionale piace l' ordine, dovunque lo contempli, per le cinque ragioni indicate. Il principio razionale può considerare quest' ordine tanto in cosa diversa da sè, quanto nel proprio sentimento. L' ordine, che l' uomo contempla nel proprio sentimento, è ciò che costituisce il bello estetico . Il proprio sentimento è ordinato, quando è piacevole. Quindi il bello estetico è bello e ad un tempo sensibilmente piacevole, laddove il bello, considerato nelle cose fuori del sentimento proprio, è bello senza essere piacevole sensibilmente, senza essere estetico. Il che non s' intenda così, quasi che la vista del bello non piaccia; ma si vuol dire che il piacere del puro bello è tutto intellettivo, onde è propriamente la contemplazione di lui che è piacevole anzichè l' oggetto della contemplazione, il bello stesso. All' incontro, se si parla dell' ordine nel proprio sentimento, oltre il piacere intellettivo della contemplazione vi è di più quel piacere che costituisce la natura del contemplato, perocchè ciò che si contempla è il sentimento piacevole . In questo caso il piacere stesso è la regola per conoscere se il sentimento è bene ordinato; dico il piacere vero, naturale, prevalente. Ora, non avendo gli scrittori intorno al bello fatto queste distinzioni fra il bello in generale e il bello estetico, e fra il bello piacevole e il semplicemente piacevole; hanno quasi sempre confuso il piacevole col bello, e racchiusa negli angusti limiti dell' Estetica la vastissima scienza della Callologia . Ora si rammenti che ogni sensorio animale è così ordinato (parte a cagione delle leggi della materia, di cui è composto, e delle leggi della comunicazione del moto, parte a cagione dell' organismo, parte a cagione delle relazioni della materia e dell' organizzazione coll' attività del principio senziente) che, stimolato che sia, egli è tantosto determinato e mosso ad una data serie di movimenti successivi, e non ad altri; onde se un' altra serie interrompesse quella prima e la perturbasse, riuscirebbe cosa sconveniente alla natura sensitiva, e spiacevole. Di che la spontaneità del principio senziente, tendente sempre allo stato e all' atto di maggior piacere, aiuta e promove la prima serie dei movimenti, e ripugna ad assecondare la seconda serie. Così, se la corda di violino è vellicata, dà delle oscillazioni isocrone, le quali scemano di estensione e di celerità in una proporzione costante. Se dunque quella corda fosse animata, ella stessa fosse un organo sensorio, inclinerebbe a compire tutte quelle sue oscillazioni fino a trovare il riposo, e ripugnerebbe a quelle forze che volessero interrompergliele o alterargliene l' isocronismo, che è l' operare a lei più facile e naturale (1). Ora conviene considerare che, quantunque nell' animale vi sia un solo principio senziente che lo costituisce, tuttavia sono molti i sensorii, e che nell' uomo, il più perfetto fra gli animali, sono moltissimi, altrettanti quanti i suoi organi e apparati sensitivi, altrettanti quante le specie delle sue sensazioni. Ciascuno poi di tali sensorii ha una serie di movimenti successivi a lui connaturale e piacevole, cioè ha una serie di sensazioni, per le quali passa la sensazione prima innanzi di estinguersi interamente. Di più, se gli stimoli esteriori corrispondono a un tale oscillare dell' organo sensorio, sicchè lo aiutino a percorrere quella serie di sensazioni ordinata con fisso metro e a renderle vive, quegli stimoli sono piacevoli, altrimenti sono molesti, fastidiosi, e anche più o men dolorosi. Fra le altre circostanze, le quali entrano a determinare la naturale successione delle sensazioni proprie di un organo sensorio, vi è altresì la noia e la stanchezza, che nasce allorquando le sensazioni non hanno interposte quelle pause, quel riposo dell' organo, che lo rifocilla e rimette in vigore; il qual bisogno di riposo dipende dalla legge stessa che prescrive il metro, determinando le more fra le sensazioni, la durata di queste, l' intensità, ecc.. Ma se i sensorii sono molti, ed ognuno ha il suo proprio metro nella serie delle sensazioni che egli ama, come non accade che i diversi sensorii non vengano in collisione fra loro, quando operano contemporaneamente? - Conviene presupporre, certamente, che l' autore sapientissimo della natura umana li abbia prima di tutto armonizzati insieme per un ammirabile organismo. Oltre di ciò, sopra di tutti ed alla loro testa, per così dire, sta l' unico principio sensitivo, che tutti li domina e accorda insieme, il cui gusto prevalente si è quello che determina il vero piacere che gode l' uomo. Di qui anche l' operare contemporaneo e successivo dei varŒ sensorii riceve una regola suprema, che determina loro il tempo dell' operare, le pause, le proporzioni, le intensità, ecc.. Finalmente nell' uomo, oltre il sentimento animale, vi è il sentimento intellettivo e il sentimento morale; due sentimenti assai elevati, i quali pure hanno una loro naturale armonia nelle loro operazioni e nei loro piaceri. E come il sentimento intellettivo coll' armonia sua propria, che deve prevalere perchè d' un ordine più sublime, modifica nell' uomo l' armonia animale e la raggiunge a sè; così il sentimento morale coll' armonia sua propria modifica e tempera l' armonia animale intellettiva, e la raggiunge e fa servire a sè, riuscendone di tutte insieme una sola armonia, con una sola altissima unità. Laonde nell' uomo sono preordinate e prestabilite le seguenti armonie, che si fondono in una sola: L' armonia degli atti naturalmente successivi dei singoli sensorii. L' armonia dei sensorii fra loro, armonizzati dall' unità del principio sensitivo, onde l' armonia animale. L' armonia animale signoreggiata e informata dal principio intellettivo, onde l' armonia animale7intellettiva. L' armonia animale7intellettiva signoreggiata, informata e compiuta dal principio morale; che è veramente l' armonia intera dell' uomo, armonia umana. Tutto questo complesso di attività armoniche hanno predeterminata dalla natura certa successione di atti fra loro variamente disposti. L' uomo ha l' istinto a questa successione; questo istinto veramente umano non opera sempre con pieno vigore per suo proprio difetto, o per debolezza e vizio dell' uomo; ed allora nascono delle disarmonie nell' uomo. Ma queste disarmonie, che accusano debolezza e vizio nel grande istinto umano, non dimostrano però che egli cessi del tutto dall' operare; egli opera; operano con lui gli istinti armonici parziali; e questo complesso di attività è quello che determina le successive disposizioni, le propensioni e le avversioni, che prende l' uomo nel corso di sua esistenza sopra la terra, che prendono le nazioni nella vita loro ed i secoli nel loro continuo rivolgersi. Dei quali principŒ facciamo qualche applicazione alla spiegazione dei fenomeni. Onde le continue mutazioni della moda? sono esse forse l' effetto del mero arbitrio e del capriccio dei vani, o del calcolo degli speculatori? - Così si crede volgarmente; si attribuisce all' accidente quello la cui causa rimane nascosta, perchè troppo profonda, troppo difficile a rinvenire. Ma se si considera attentamente questo fatto singolare, che si manifesta più o meno nelle nazioni pervenute a certo grado di politezza, si rileverà facilmente essere impossibile che il mero arbitrio di alcuni, che incominciano l' introduzione di una nuova foggia d' abbigliamento e d' ornamento, si faccia ubbidire con tanta docilità alla nazione intera per forma che pare unanime, e senza contrasto verso quella trascinata; e molto meno il gusto di tutti si può conformare e rimutare ogni dì in servigio degli speculatori, i quali non formano il gusto universale, ma speculano anzi sopra di esso. D' altra parte, se si domanda alle persone che diconsi di buon tuono , d' entrambi i sessi, esse vi assicurano che le mode nuove sono proprio le più belle, e che la foggia per qualche tempo usata, prima bellissima, già dispiace poco dopo, annoia, sembra proprio una goffaggine, in modo che è impossibile non credere che ad ogni venire dell' ultima moda non provino veramente un sentimento aggradevole, e non sembri loro in verità sgarbata la precedente. La spiegazione che noi diamo di questo fenomeno frivolo in apparenza, degnissimo in realtà dell' attenzione filosofica, il quale si manifesta più vivamente e più precocemente nelle capitali, per fermo non lo giustifica da quella leggerezza, che egli accusa nei seguaci di una Dea sì volubile ed inesorabile. Anzi convien supporre prima di tutto che là dove incomincia la moda a stabilire il suo regno, siasi sviluppato ed attuato il senso di quel complesso di piaceri sensuali, che la stessa moda sempre variati presenta; complesso risultante da infiniti elementi sottilissimi, quasi essenze eteree, che formano, come direbbe Dante, un incognito indistinto; il qual senso dorme profondamente nella società rozza, o troppo giovane ancora e severa. Dato dunque che questo senso e conseguente istinto siasi desto, attuato, raffinato, non dubitiamo affermare che esso nell' invenzione delle mode che crea ogni giorno, e ogni giorno distrugge, venga determinato dalla legge dell' armonia di successione, per la quale quell' istinto, risultante da innumerabili sentimenti ed istinti speciali, esige propriamente quelle date nuove forme per averne diletto, e non altre; di modo che una legge così ammirabile diriga segretamente la durata più o meno lunga delle usanze e la qualità di esse, e contenga la naturale ragione del perchè dopo un taglio d' abito, a ragion d' esempio, segua quell' altro a preferenza, dopo un colore quell' altro, dopo una forma di addobbamento quell' altra, ecc.; e del perchè piaccia la usanza che succede, e non più quella che prima piaceva. Onde il piacere che si ha di una moda od usanza, non si vuole già attribuire alla forma e qualità di lei isolatamente presa, ma al posto conveniente che ella occupa in tutta la successione dei sentimenti. Di che può essere argomento altresì il vedere che la stessa usanza, che pare sì bella ai nazionali durante il breve tempo del suo imperio, riesca talvolta sgraziatissima a quel forestiero, che di lontana parte giungendo, non ebbe a sofferire l' influenza di tutta la ruota delle usanze, che precedentemente si andò rivolgendo. Una segreta legge, adunque, determina il corso delle usanze e dei frivoli costumi con una cotale fatalità; un' armonia prestabilita dalla natura del sentimento l' una appresso l' altra le produce tutte; e dove questo senso è più delicato e più vivo, come nelle capitali, ivi più prontamente ed esattamente pronuncia ciò che gli conviene, e il pronunciato viene accolto dal pubblico siccome una cotale interpretazione del gusto comune, che rimane così soddisfatto, trovando in esso quello che indistintamente appetiva, senza sapere ben dargli figura ed esistenza. Certo che l' accoglimento, che con ogni docilità si fa universalmente alla nuova foggia, risulta da innumerabili piccoli sentimenti, come dicevamo, appartenenti ai sensorii diversi, a facoltà diverse, ciascuna delle quali ha una successione di atti che preferisce ad ogni altra, perchè ogni facoltà è un sensorio e, come tale considerata, subisce la stessa legge. Il che spiega medesimamente come presso varie nazioni varii il corso delle fogge e delle maniere socievoli; perocchè le circostanze diverse dispongono diversamente il senso della moda, e lo determinano ad un altro corso, fatale egualmente. Ma vi è di più, vi è cosa che ingrandisce il nostro discorso; poichè, qualora bene si consideri, si troverà che la legge di successione armonica, di cui parliamo, ha un dominio estesissimo oltre ogni credere anche in altre cose, a tale che influisce immensamente a determinare le varie consuetudini dei popoli, il corso delle loro opinioni, e fin' anche la serie degli storici eventi. Il gusto delle arti belle e della letteratura mantiene pur esso la legge di armonica successione; perfino le idee perdono ed acquistano del loro splendore in diversi tempi, con leggi segrete, ma impreteribili; e sarebbe stato impossibile, anche per questa cagione, che ai Romani del tempo di Orazio e di Ovidio fosse piaciuto praticare la dura virtù dei Cincinnati, dei Curii e dei Fabrizii; quelli erano divenuti incapaci di averne il sentimento già rimutato, benchè ne restasse loro l' ammirazione altissima nella mente, la quale non si rimuta, perchè contempla l' immutabile vero e l' immutabile bello, che non ha successione, come l' ha il piacevole sensibile. Ed ancora molti altri fatti a questa medesima legge soggiacciono. Perchè a questo o quel tempo si manifestano di repente certi gusti universali in un modo irresistibile? perchè certe opinioni, certe maniere di operare caratteristiche? - Se alla legge, che guida segretamente tutto l' uomo, dell' armonia di successione si aggiunge quella della spontaneità della vita diretta, quel fenomeno rimarrà pienamente spiegato: il salto apparente scomparirà, perocchè quel salto non è che la manifestazione improvvisa, nella riflessione e nella coscienza, del lavoro che si operava prima dentro agli uomini, senza riflessione e senza coscienza. - A noi basta avere accennato questo argomento, vasto campo alla meditazione. I filosofi che verranno dopo di noi, ed avranno più di noi agio e valore, potranno forse utilmente coltivarlo. I cenni che abbiamo dati nel libro precedente, intorno alle leggi dalle quali è guidato il principio razionale nel suo operare, potrebbero bastare all' intento, col quale abbiamo preso a scrivere quest' opera. Ma la parte animale, di cui l' umana intelligenza è circondata, quasi fasce che tutta l' avvolgono e la restringono, ond' essa, libera per propria essenza (chè ogni intelletto risiede nell' infinito), meraviglia di sè, vedendosi circoscritta e rattenuta nel proprio volo da un materiale e bruto elemento, questa parte animale, dico, è così misteriosa, così profonda ad investigare, così molteplice, anzi inesausta, che non possiamo a meno di tornarci sopra qui in sulla fine, studiandoci di aggiungere qualche chiarezza maggiore, se ci vien fatto, e qualche nuovo svolgimento delle cose dette di lei; senza di che non parrebbe forse al lettore di avere ancor in mano nè tampoco i primi fili della grande accia. E poichè l' animalità, come ogni altro ente finito, ha due parti, la passiva, cioè formata di sentimenti, e l' attiva formata di istinti (1), noi lasciando quella da parte, di cui abbiamo sufficientemente ragionato, ci continuiamo nel discorso di questa, tracciando più alla distesa le leggi, che presiedono all' attività istintiva dell' animale. Questa attività fu da noi partita in due grandi istinti, che abbiamo denominati istinto vitale ed istinto sensuale (2); investighiamo adunque, più accuratamente che per noi si possa, la legge dell' uno e dell' altro istinto, e i modi di operazione che conseguono all' efficacia di quelle leggi. L' ente è il contrario del nulla; perciò il concetto di ente involge il concetto di un atto, e l' atto con cui un ente è, è il contrario dell' atto con cui un ente si annulla. Se dunque un ente è, conviene supporre che egli abbia un atto che lo pone, ripugnante all' annullamento; questa è la virtù che ha l' ente di conservarsi. Il primo atto, con cui l' ente è posto, ripugnante necessariamente alla distruzione, ha per termine la forma dell' ente stesso. Perchè poi un atto finisca in una forma, un altro atto in un' altra forma (onde la diversità degli enti), la filosofia non può trovarne ragione altrove che nell' atto libero del Creatore. Che se l' atto col quale l' ente è posto, è quello con cui è posta la propria forma dell' ente, conseguita che la tendenza di questo atto debba essere volta a porre la forma dell' ente nel modo il più perfetto; poichè quanto più incompletamente fosse posta la forma, tanto meno l' ente esisterebbe e più egli si approssimerebbe al nulla, dal quale l' atto, come dicevamo, necessariamente ripugna. Dunque la ragione, per la quale l' atto non pone la forma dell' ente compiutamente, non può venire dallo stesso atto col quale sussiste, ma unicamente da qualche causa straniera al medesimo, che lo impedisce di conseguire semplicemente e compiutamente la sua forma, a cui tende. Applichiamo questi principŒ ontologici e cosmologici all' ente animale. L' atto, con cui l' ente animale è posto, pel quale è posta la sua forma, è quello che abbiamo chiamato istinto vitale ; la forma poi dell' animale è il sentimento fondamentale, determinazione e compimento di quell' atto medesimo. Dunque vi sarà la seguente legge: Legge dell' istinto vitale « L' istinto vitale tende a porre in essere il maggior possibile sentimento fondamentale ». Non si deve già credere che quell' istinto , a cui noi attribuiamo la produzione del sentimento fondamentale, esista prima di averlo prodotto. No, se non vi fosse sentimento, non vi sarebbe attività vitale. Ma dato un sentimento fondamentale, nel seno di questo si distingue coll' opera della mente quella attività che lo pone e mette in essere, dal sentimento posto, quasi due elementi, l' uno attivo e l' altro passivo, che costituiscono un medesimo e indivisibile sentimento; e questa è distinzione reale. Quindi le funzioni dell' istinto vitale sono necessariamente le seguenti: - I Funzione . - Quella di conservare il sentimento fondamentale producendolo di continuo - Funzione animatrice e conservatrice . - L' animale, mediante questa funzione, che è quella per la quale è, resiste alla distruzione, ripugna a disciogliersi, è in un continuo conato di mantenersi. Ciò che si oppone a questo conato, senza al tutto vincerlo, fa nascere una modificazione ingrata nel sentimento, che si chiama dolore . II Funzione . - Quella di attivare il sentimento fondamentale in modo che esso abbia la maggior possibile estensione continua. - Funzione diffonditrice o aggregatrice , la quale si manifesta colla nutrizione, ecc.. - III Funzione . - Quella di assettare e comporre il sentimento fondamentale in modo che abbia il maggior grado d' intensità, ossia di eccitamento stabile - Funzione eccitatrice e accumulatrice del sentimento. IV Funzione . - Quella che nasce in conseguenza delle tre prime, cioè di agire sul termine corporeo, e quindi di dare alla materia l' organizzazione animale - Funzione organizzatrice . Nasce questa funzione in conseguenza delle tre prime; poichè essendo il corpo, come abbiamo veduto, il termine del sentimento animale, se questo sentimento colla sua naturale attività tende a conservarsi, a dilatarsi, a rendersi più intenso, conseguentemente agisce sul corpo extrasoggettivo, e produce nella materia di questo degli intestini e spesso impercepibili movimenti, che lo disciolgono e lo ricompongono, recandone gli elementi e le molecole in questi spazi che il sentimento vuole occupare pel suo istinto, che è quello di divenire maggiore, di porsi in uno stato il più pieno e completo. Ora la funzione organizzatrice, non essendo che le stesse tre funzioni primitive in quanto si considerano rispetto agli effetti che esse producono nel corpo e nella materia del corpo, consegue necessariamente che la funzione organizzatrice si debba distinguere in tre momenti, che sono: Primo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste in un' azione, che l' istinto vitale esercita sul corpo suo termine, colla quale lo costituisce costantemente termine del sentimento fondamentale, e però lo ritiene acciocchè non si divida dal sentimento - Resistenza alla morte, rattenenza (1). Secondo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste nel rapire entro l' ambito del proprio sentimento le particelle straniere (2), a tal fine riducendole, assimilandole al resto del corpo, atteggiandole e componendole fra loro come debbono essere all' uopo - Assimilazione e riproducibilità delle parti viventi (3). Terzo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste nella spontaneità motrice7vitale , cioè in quella virtù per la quale il sentimento fondamentale, tendendo a conservare l' eccitazione e ad essere via più eccitato per salire al suo massimo grado d' intensità, aiuta e continua i movimenti eccitati nel suo termine dagli stimoli esteriori, acciocchè, perpetuandosi o aumentandosi il moto, si perpetui o si aumenti l' eccitazione a sè conveniente. La prima funzione, che pone e riproduce di continuo il sentimento fondamentale, non ha tanto di forza da poter ritenere il corpo che è suo termine, ed impedire che su di lui non operi un principio estraneo, che tende a sottrarlo alla sua attività. Questa inefficacia della prima funzione animatrice e conservatrice è degna di osservazione. Ella presta il fondamento alla distinzione da noi fatta tra corpo e materia . Chiamammo corpo e materia un medesimo ente; ma lo chiamammo corpo, in quanto esso è dominato dal sentimento che lo rende suo termine; e lo chiamammo materia, in quanto egli si sottrae all' efficacia del sentimento e si lascia muovere da forze straniere, raccolte da noi sotto il nome generale di sensifero . Ove non è punto assurdo il concepire diversi gradi nella potenza colla quale il principio senziente, come istinto vitale, domina sul suo termine, il massimo dei quali gradi sarebbe quello per cui egli disponesse del corpo, sottraendolo all' azione di tutte le altre forze sensifere, o rendendo nulla una tale azione. E qui avverta il lettore che noi non intendiamo di entrare nella questione delle cause, per le quali viene limitato il dominio del principio vitale sul proprio termine, o la potenza che ha di ampliare il proprio termine; cioè non intendiamo affermare che la virtù del principio vitale sia per sè stessa limitata, ovvero che questa virtù sia piuttosto per sè illimitata e indefinita, ma riceva poscia una limitazione dalle condizioni a cui è legata, le quali le impediscano di spiegarsi quanto essa potrebbe, sicchè da queste e non da sè direttamente dipenda il suo svolgersi e dispiegarsi più o meno, e così il manifestare un maggiore o minore imperio sul termine. Della quale questione abbiamo toccato altrove. La funzione diffonditrice e la funzione eccitatrice possono venire in collisione, qualora il sentimento non si possa diffondere se non a spese dell' accumulamento e dell' eccitamento. In tal caso l' una coll' altra s' impediscono; ma quantunque sia difficile lo stabilire le leggi precise che presiedono ad una tale collisione, tuttavia pare che si ravvisino ben chiare queste due: I - Essendo il massimo eccitamento naturale del sentimento il migliore stato, lo stato naturale di un sentimento fondamentale, perciò in ragione dell' attività della funzione eccitatrice cresce anche l' attività della funzione diffonditrice; e viceversa, diminuisce. II - Se la funzione eccitatrice è debole o i diversi eccitamenti stabili non armonizzano più fra loro, l' uno non influendo più utilmente sull' altro, allora la funzione diffonditrice o non è abbastanza subordinata alla funzione eccitatrice, o non è da questa armonicamente diretta. Quindi vi è sconcerto nell' animale e tendenza a dividersi una parte del continuo sentito dal suo tutto. Quanto ai due ultimi momenti della funzione organizzatrice, il terzo serve al secondo, perchè, fra gli altri effetti che produce, mantiene le particelle così sollevate che non possano indurire, e per tal guisa ottiene che se ne acceleri il vortice che trita, assimila ed espelle, favorendo l' assorbimento e producendo le secrezioni e le escrezioni (1). E quando dico che mantiene le particelle sollevate, non intendo già che le divida per modo che ne tolga il contatto; ma intendo che diminuisce e tempera la gravitazione delle une sopra le altre, e le volge ed atteggia in modo che il contatto si faccia in meno punti di esse, il che influisce a rotondarle; intendo pure che tiene aperti convenientemente i pori e i meati, ecc.. L' istinto sensuale non è che un' azione continuata dell' istinto vitale, e propriamente della terza funzione di questo, che chiamammo eccitatrice . Il primo principio motore è il medesimo, è l' atto che pone la forma dell' animale; ma il principio motore prossimo nell' istinto sensuale è il sentimento già posto in essere, dal quale nasce nuova attività. L' istinto sensuale, adunque, si può definire « quel movimento dell' istinto vitale che lo porta a far sì che, prodotto un sentimento, questo divenga il più intenso e completo possibile mediante eccitamenti opportuni ». Ma posciachè questi eccitamenti possono essere stabili, cioè ripetuti continuamente mediante una legge fissa (come accade nel sentimento fondamentale di eccitamento), e possono essere passeggieri ed accidentali, che modificano per breve tempo il sentimento fondamentale; perciò a quella funzione, che tende a conservare o riprodurre l' eccitamento stabile, si lascia il nome d' istinto vitale, e si denomina istinto sensuale quella funzione, che tende a procacciare al sentimento stabile degli eccitamenti passeggieri e parziali, onde nascono le sensioni e le passioni. La quale distinzione riesce comoda alla scienza ed è importante; poichè l' eccitamento stabile è quello che caratterizza, come dicevamo, il sentimento fondamentale, e però entra siccome elemento a costituire la base della classificazione filosofica degli animali, cessando la determinata forma dell' animale al cessare dello stabile e caratteristico suo eccitamento. Premesse le quali osservazioni, diciamo che la legge dell' istinto sensuale è la seguente: Legge dell' istinto sensuale « L' istinto sensuale tende a far sì che le sensazioni parziali e passeggiere, le quali si suscitano nel sentimento fondamentale, in quanto sono piacevoli, divengano massime mediante stimoli ed eccitamenti passeggieri ». Di conseguente nell' istinto sensuale si distinguono le seguenti funzioni: I Funzione . - Quella della spontaneità sensuale, per la quale ogniqualvolta uno stimolo esteriore viene applicato ad un animale in modo da eccitare il sentimento ad un suo atto secondo più perfetto, cioè alla sensazione piacevole, il principio sensitivo asseconda quello stimolo colla sua attività spontanea, e si accresce e prolunga l' effetto della gradevole sensazione (attività dell' anima concorrente in tutte le sensazioni). II Funzione . - Quella della propensione sensuale, per la quale il principio sensitivo si attua e dispone ai suoi atti secondi gradevoli, mediante la forza sintetica animale (1), che, data un' eccitazione (sensazione gradevole), lo inclina verso un' altra, presentita da lui quale completamento della prima. III Funzione . - Quella dell' avversione sensuale, che è il movimento contrario della propensione, e nasce mediante la forza sintetica7animale, che, data una propulsione (sensazione sgradevole), disagia il principio sensitivo e gli dà un' attitudine ritrosa al completamento presentito della detta propulsione. IV Funzione . - Quella della contro7spontaneità sensuale, mediante la quale ogniqualvolta uno stimolo esteriore viene applicato all' animale in modo da propulsare il sentimento, che è quanto dire da produrre una sensazione dolorosa, il principio sensuale lotta contro la forza dello stimolo, cercando di ritenere in tutta la sua pienezza il sentimento fondamentale, con esso insieme le particelle a cui aderisce, e che si vogliono o dividere da lui o sconcertare. V Funzione . - Quella della spontaneità7motrice sensuale, che è conseguenza delle quattro prime. Perocchè ai quattro indicati atteggiamenti e movimenti del sentimento corrisponde un' azione nel corpo animato e nella materia del medesimo, secondo il principio posto, che « a tutte le modificazioni del sentimento rispondono dei fenomeni extrasoggettivi ». E però quest' ultima funzione, considerata nei suoi effetti, ha sei momenti, i quali sono: Primo momento della spontaneità motrice sensuale . - Esso si manifesta negli atteggiamenti, movimenti (piccoli e grandi), che si producono nel corpo animale extrasoggettivo da tutta quella passione complessiva, che si può unire sotto il nome di mobilità concupiscibile . Secondo momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve dall' attività che egli pone nelle sue attuali sensazioni e passioni piacevoli, la quale attività si potrebbe chiamare mobilità voluttuosa . Terzo momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e impedimenti di moti, che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve da quella passione complessiva che resiste ad un eccitamento spiacevole, nè si lascia agevolmente muovere, e che si può unire sotto il nome di mobilità ritrosa . Quarto momento . - Esso si manifesta negli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che si producono nel corpo animale extrasoggettivo da quella passione complessiva che, presentendo lo spiacevole esito di una specie di movimenti, si sforza di determinare movimenti contrarii, e che si può chiamare mobilità avversiva . Quinto momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve dallo sforzo, che fa il principio sensitivo di mantenersi nella sua intensità e nel suo movimento contro le forze esteriori contrarie che glielo impediscono, il quale sforzo si potrebbe chiamare mobilità irosa . Sesto momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo animale riceve dalla mobilità simpatica, che è quella che ubbidisce all' immaginazione ed al pensiero, onde all' immaginazione di cose tristi nascono nel corpo movimenti deprimenti le forze, e il contrario all' immaginazione di cose liete. E questo è uno dei fonti, da cui procedono le forze perturbatrici della natura (1). Tutti questi sei momenti riguardano effetti, che si manifestano all' osservazione esterna ed extrasoggettiva in conseguenza del sentimento che diversamente si atteggia, e che si considera come la causa soggettiva di essi. E queste sei classi di effetti si riducono sempre a movimenti, giacchè i movimenti sono i fenomeni extrasoggettivi, corrispondenti nell' animale ad altrettanti sentimenti, che sono i fenomeni soggettivi a quelli paralleli. Ora, raccogliendo tutte le funzioni ed operazioni dei due istinti, gioverà porle qui sott' occhio dei lettori nella qui unita tavola. L' istinto sensuale, non cercando altro effetto colla sua attività che quello di godere l' eccitazione passeggera del sentimento, esso, mediante l' ultima sua funzione della spontaneità motrice7sensuale, produce sovente tali movimenti nel corpo e nella materia di esso che si oppongono a quelli che tende a produrvi la funzione organizzatrice dell' istinto vitale . Di che la spontaneità motrice7sensuale diviene bene spesso un principio disorganizzatore, che lotta coll' organizzatore. Quindi si scorge un altro fonte delle forze perturbatrici della natura animale (1). La quale perturbazione non di meno si renderebbe impossibile, qualora il corpo fosse pienamente dominato dall' istinto vitale; il che abbiamo detto non involgere contraddizione; e qui aggiungiamo che un tale dominio appartiene all' ideale della vita animale, cioè sarebbe il maximum della vita. Che se l' istinto vitale ricevesse di più un tal vigore da ritenere a sè le molecole corporee, senza che da niuna causa le potessero essere sottratte, o se fosse almeno così protetto che di fatto niuna forza straniera gliele sottraesse, non si potrebbe più dar lotta fra l' istinto vitale ed il sensuale; ed ancora ne seguirebbe l' immortalità. Ora poi giova qui volgere uno sguardo ai concetti di Brown. Quale relazione ha l' eccitabilità browniana colle diverse attività da noi attribuite alla vita? - Allorquando si considera che Brown trasse il concetto dell' eccitabilità dagli effetti che gli stimoli producono sul corpo vivente, effetti che sono agli occhi suoi il senso, il moto muscolare, l' attività pensante e gli affetti dell' animo, deve fare la più grande meraviglia com' egli abbia potuto sostenere che la proprietà dell' eccitabilità sia una ed indivisibile in tutta la macchina animale, sicchè ella non possa diversificare che di quantità nelle diverse parti di lei. Non è a pieno dimostrato che gli stimoli non mettono in essere il fenomeno della sensazione (stando alla coscienza, solo testimonio autorevole di questo fatto) in tutte le parti del corpo nostro vivente? E quanto al pensiero, non è assurdo l' attribuirlo ad un organo, ad una macchina vivente qualsiasi? Si confondono adunque insieme dal medico scozzese tre distintissime classi di effetti: 1 il movimento, fenomeno extra7soggettivo, che si manifesta non pure nei muscoli, ma in ciascuno dei quattro tessuti, nel cellulare come nel vascolare, nel muscolare come nel nerveo; 2 il sentimento animale, fenomeno soggettivo, che non si riconosce per niuna osservazione extra7soggettiva, ma per la sola deposizione della coscienza; 3 il pensiero, fenomeno soggettivo7oggettivo, che si toglie del pari affatto all' osservazione extra7soggettiva, e che si rivela per sè stesso immediatamente ponendo la coscienza. Quanto agli affetti, questi sono una sequela, parte del sentimento animale e parte del pensiero; sicchè vanno suddivisi e collocati nelle due ultime classi. Come dunque raccogliere in una sola proprietà effetti di essenza così disparata, e anzi aventi fra loro la più grande opposizione? Se dunque si vuole intendere per eccitabilità una proprietà unica, di cui gode più o meno ogni parte del corpo vivente, conviene restringerne il significato, riducendo una tale eccitabilità alla proprietà, che ha il corpo animale di muoversi con un dato moto suo proprio sotto gli stimoli; alla quale proprietà si potrebbe dare il nome di contra7distensione . Quanto poi alla sensione, si dovrebbe riconoscere come effetto meramente concomitante al movimento contrattile7distensivo, effetto che non segue sempre quel movimento, ma solo quando si produce in un certo modo e in certe determinate parti del corpo animale, che perciò si dicono sensitive. Finalmente il pensiero, lungi dall' appartenere a qualche parte del corpo, è anzi un fatto, che a niun organo corporale aderisce, e solo che si consideri, vedesi al tutto immune da corporea concrezione, e meno ancora simile al movimento di quello che sia il peso al colore. Che se il pensiero si suscita in occasione che il movimento contrattile7distensivo, prodotto non in tutte, ma in certe determinate parti del corpo, e non in tutti i modi, ma in certi determinati, pone in essere la sensione; non è per questo che esso sia qualche cosa di simile o di analogo alla controdistensione. Esso non è neppure a questa concomitante; è bensì di solito concomitante alla sensione, e ciò perchè questa presta la materia del pensare ed eccita l' anima sensitiva, che è anche ad un tempo razionale, a fare le operazioni sue proprie in quella maniera che altrove abbiamo spiegato (1). Rimane dunque che la eccitabilità browniana non possa essere altro che la proprietà della contro7distensione, giacchè in questo solo caso ella è una proprietà omogenea, ed eguale di specie per tutte egualmente le parti del corpo animato (1). Ora, determinato così il senso ragionevole della eccitabilità, che noi d' ora in avanti chiameremo extra7soggettiva per distinguerla dall' eccitabilità del sentimento, potremo rispondere alla domanda che ci facevamo: « quale relazione abbia l' eccitabilità browniana, ossia extrasoggettiva, colle diverse attività da noi attribuite al principio vitale ». E primieramente è chiaro: 1 che l' eccitabilità extra7soggettiva non abbraccia tutte le proprietà e attività del corpo vivente; 2 che ella si deve riscontrare entro la sfera di quelle due funzioni, che abbiamo denominate funzione organizzatrice e funzione della spontaneità motrice sensuale; 3 che in queste due funzioni si contiene tuttavia più che nella sola eccitabilità extra7soggettiva. E veramente, nella funzione organizzatrice cadono tre momenti, a cui demmo i nomi di rattenenza, riproducibilità e spontaneità motrice vitale . Ora la rattenenza è cosa al tutto diversa dalla eccitabilità, poichè quella non si riferisce agli stimoli esterni siccome questa, non essendo che lo sforzo che fa il principio vitale di conservare lo stato di vita alle molecole, che si trovano già vive, rattenendole acciocchè non escano dalla sfera della sua azione. La riproducibilità esige bensì della materia stimolante che deve venire assimilata al corpo vivente, ma l' effetto della forza riproduttiva non è solamente il movimento contrattile7distensivo, nel che solo consiste l' eccitabilità extrasoggettiva, ma è di più l' assimilazione della materia stimolante, la quale, cessando di essere stimolo, si cangia in parte del corpo vivente (2), e così diviene ella stessa eccitabile. Rimane la spontaneità motrice vitale . Questa ha bisogno certamente di stimoli continui, ma essa non produce solamente la controdistensione, ma produce di più la diminuzione della reciproca coerenza delle molecole e degli elementi di cui il corpo vivo si contesse, affine di facilitare quegli interiori movimenti che innalzano il grado del sentimento. Sicchè la spontaneità7motrice vitale cagiona un doppio effetto: 1 fa perdere alle molecole e agli elementi che le compongono, quella reciproca coerenza che avrebbero, se le attrazioni fisiche e affinità chimiche potessero operare liberamente, e impedisce ben anche, io credo, che vengano fra loro a troppi punti di contatto; tutto ciò, quanto è necessario a facilitare i movimenti eccitatori del sentimento fondamentale; questo effetto è al tutto diverso dall' eccitamento extrasoggettivo; 2 asseconda, aumenta e cresce i movimenti eccitatori del sentimento. Questo secondo effetto è solo quello che appartiene all' eccitamento extrasoggettivo, ma con una limitazione, che noi esporremo più sotto. Veniamo ora ai momenti dell' altra funzione, da noi chiamata spontaneità motrice sensuale . Ne distinguemmo sei, denominandoli: mobilità concupiscibile, voluttuosa, ritrosa, avversiva, irosa e simpatica . Ora tutte queste specie di movimenti animali noi crediamo che si possano probabilmente ridurre, quanto alla loro forma, alla contro7distensione, e che perciò possano riferirsi in qualche modo alla eccitabilità di Brown; ma anche qui con una limitazione. Questa limitazione è simile a quella che testè indicavamo, parlando del secondo effetto della spontaneità motrice vitale; e dobbiamo esporla. Quando si ammette la sola eccitabilità extrasoggettiva per unica proprietà del corpo vivente, deve seguirne che il suo effetto, cioè l' eccitamento, sia in ragione degli stimoli primitivi, a tal che cessando questi, cessi anche quello. Quindi non ha più luogo la spontaneità motrice, divisa da noi nei due rami di vitale e di sensuale, cioè a dire non ha più luogo quell' aumento e continuazione di moto, che persevera nel corpo vivo anche cessando gli stimoli primitivi. Ma se all' opposto si ammette che la sensitività è una potenza che produce effetti extra7soggettivi, essenzialmente distinta dall' eccitabilità e a questa precedente, allora s' intende come, cessati gli stimoli esteriori, possano continuare i movimenti nel corpo umano e succedersi con leggi determinate; avendosi un principio a cui attribuirsi convenientemente tali movimenti spontanei. Ora sono pur questi innegabili; e i medici italiani, che hanno meditato sulla teoria browniana e sperato di perfezionarla, li hanno riconosciuti quando hanno dato il nome di diatesi a quella condizione morbosa che non si tiene in proporzione degli stimoli esterni, e che indipendentemente da essi percorre certo stadio con successivi processi morbosi. Se dunque si considera la spontaneità motrice, tanto vitale che sensuale, come potenze che dagli stimoli esterni vengono suscitate e poste in un certo grado di orgasmo, si può acconciamente, sotto questo aspetto, attribuir loro la proprietà browniana dell' eccitabilità extrasoggettiva. Ma se si considera, poi, che la loro attività così suscitata si mantiene qualche tempo da sè stessa, rimossi gli stimoli primitivi, e si spiega in reciproche azioni, che vanno producendo una serie di stati ed affezioni del corpo umano, nella quale il precedente stato è cagione del susseguente; in tal caso nella spontaneità motrice si deve riconoscere un' attività maggiore e grandemente diversa dall' eccitabilità extrasoggettiva. Se si considera, di più, che la spontaneità motrice vitale differisce di grado nei diversi organi del corpo umano, e che la spontaneità motrice sensuale è anch' essa variamente distribuita e, come a noi sembra probabile, non conserva l' unità del suo principio, come diremo in appresso; ci si renderà chiaro il fatto delle località morbose, illustrato dal Professor Fanzago e da altri illustri medici, il quale non può spiegarsi colla sola eccitabilità universale di Brown; come pure riceveranno luce le malattie chiamate dai medici irritative . Dalle quali cose tutte apparisce che il sentimento non deve già considerarsi quale semplice effetto dell' eccitabilità e degli stimoli, come lo considerò Brown; anzi deve in lui riporsi la vera causa della stessa eccitabilità extra7soggettiva, che agli occhi nostri non può essere altro che un effetto, prodotto nel corpo, dell' attività annessa al sentimento. La serie adunque delle cause e degli effetti in tutti i fenomeni animali, divisi in due grandi classi, soggettivi ed extrasoggettivi, va disposta in quest' ordine: I - Sentimento fondamentale (soggettivo), avente la tensione o il conato che abbiamo altra volta descritto. II - Movimento (extra7soggettivo) delle parti sensibili del corpo umano, eccitate dagli stimoli esterni convenienti, e nel modo conveniente acciocchè nasca l' eccitazione del sentimento fondamentale. III - Sensioni (soggettive), ossia modificazioni del sentimento fondamentale, suscitate in esso dalla eccitazione. IV - Conati e movimenti conseguenti alle sensioni (extra7soggettivi), da noi raccolti sotto le due attività denominate funzione organizzatrice e spontaneità motrice7sensuale . Dalle quali serie apparisce che i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi si alternano; e che tutta l' attività muove dal principio soggettivo, che produce fenomeni soggettivi, a cui succede una classe di fenomeni extra7soggettivi; ed a questa un' altra classe di fenomeni soggettivi; ed a questa un' altra di fenomeni extra7soggettivi, ecc.. Secondo la nostra teoria dell' istinto animale vi sono dunque quasi due sfere di fenomeni: la sfera dei fenomeni soggettivi e la sfera dei fenomeni extra7soggettivi; in altre parole, la sfera dei sentimenti e la sfera dei movimenti esterni. La prima sfera provoca la seconda; i movimenti vengono prodotti dai sentimenti; nei sentimenti sta la causa, tutta soggettiva, nei movimenti sta l' effetto, tutto extra7soggettivo (1). Il corpo è una sostanza, ma in quanto è termine del principio sensitivo, in tanto è occasione dei fenomeni soggettivi, cioè dei sentimenti. In quanto poi è sensifero, cioè forza straniera immutante il termine del sentimento, in tanto è occasione dei fenomeni extra7soggettivi, cioè dei movimenti e loro conati. Essendo dunque una la sostanza del corpo, non vi è ripugnanza a concepire che l' anima, che ha efficacia sul corpo soggettivo in quanto è termine del suo sentimento, produca per un conseguente necessario nel corpo i fenomeni extra7soggettivi; perchè il corpo soggettivo ed extra7soggettivo è il medesimo, quanto alla sostanza. Così l' influsso dell' anima sul corpo, la virtù che ha uno spirito semplice di mettere in movimento un corpo, perde molto del mistero in che si avvolgeva. Poichè non si può trovare alcuna difficoltà nel concetto di un' anima, che sia attiva nel proprio sentimento e che non esce da questo; chè il sentimento è cosa incorporea e semplice anch' esso. Ora, noi non diamo all' anima altra virtù che quella che si spiega entro i limiti del proprio sentimento; la quale virtù non gliela possiamo negare, poichè la continua esperienza ci attesta che l' anima colla propria energia modifica il proprio sentimento. E questo sentimento noi l' abbiamo sottomesso all' analisi, ed abbiamo trovato che è il talamo, in cui si congiunge l' esteso col semplice. Ma di più abbiamo scoperto che questo esteso, che costituisce il termine necessario del sentimento, è egli stesso una sostanza, la quale non ha soltanto la condizione di termine del sentimento, ma è operativa al suo modo anche fuori del sentimento, dove comparisce siccome forza straniera al sentimento e immutante il termine di lui, onde acquista le due appellazioni di materia e di corpo. Di che appare oggimai la cagione manifesta perchè ai fenomeni soggettivi rispondano altrettanti fenomeni extra7soggettivi, e viceversa; e quindi perchè l' anima senza uscire dal proprio sentimento, operando unicamente sopra il termine di esso, possa determinare un corpo a cangiar di luogo, e in una parola a muoversi. Ed è da notarsi che questa maniera colla quale l' anima muove il corpo, è una maniera di suscitare il movimento interamente diversa dall' impulso e da ogni altra comunicazione meccanica del moto; e la diversità è immensa, si potrebbe dire, infinita; perocchè, per restringere il discorso nostro, vi sono almeno queste due differenze: I - Che la comunicazione meccanica è limitata a comunicare quella quantità di moto che già esiste, e non più; laddove l' anima produce, e per così dire crea il moto, nè si può assegnarvi una quantità, essendo il moto altrettanto, quanta è l' attività dell' anima sul proprio sentimento, che può essere ad ogni istante accresciuta o diminuita. II - Che la comunicazione meccanica è limitata a comunicare il moto successivamente, trapassando questa da una molecola all' altra di un corpo che viene impulso o attirato, con diversità di tempo, e quindi con oscillamento delle parti, rottura talora della coesione fra esse, cessazione della continuità di comunicazione, quando per esempio la coesione è poca, come nei fluidi, o viene tolta dalla violenza che strazia il corpo, ecc.; laddove l' impressione del moto veniente dall' anima, in quanto si restringe all' esteso, termine del sentimento, è simultanea in tutto quell' esteso in cui ella intende operare; quindi le parti di questo esteso non ne vengono punto disgregate e sconnesse, e possono essere mosse come all' anima piace, ed egualmente se trattasi di fluido o di solido (forme extra7soggettive del termine), e di più senza che si possa segnare un preciso limite alla quantità del moto che si sta imprimendo. Le quali cose chi considera attentamente, s' accorgerà che l' aver trovato questa maniera tutta diversa dalla meccanica, colla quale l' anima suscita e crea il moto nel termine del proprio sentimento, e quindi altresì nel corpo extra7soggettivo, è oltremodo preziosa alla spiegazione dei fenomeni. Poichè qualunque altra maniera conosciuta fin qui di comunicare il movimento, è al tutto insufficiente a spiegare in che modo l' anima, per istinto o per volontà, possa muovere le membra del proprio corpo. Si considerino i pesi che porta un facchino, o gli sforzi che fa un atleta; come i muscoli vengono potentemente contratti o distesi da rendere obbedienti le ossa, e coll' aiuto di queste premere, spingere, stringere, attirare, lanciare, vincere insomma enormi resistenze? La volontà, dicono i fisiologi, inizia i suoi movimenti nel cervello; ma può essere forse il cervello, sostanza così molle, un punto fermo da appoggiare, direi quasi, la leva, un punto di resistenza onde originare meccanicamente quella superba potenza che si manifesta nelle gambe e nelle braccia, ecc.? Se l' anima imprime il movimento alla sostanza encefalica, e se è questa la quantità di movimento che deve venirsi comunicando pei nervi ai muscoli, pei muscoli alle giunture, successivamente, come accade nella comunicazione del moto meccanico; si avrà mai l' effetto desiderato? Nella sostanza molle del cervello non può eccitarsi che una minima quantità di moto, meccanicamente incomunicabile alle parti più resistenti, e il fenomeno da spiegare ci presenta in quella vece una quantità di moto ragguardevolissima. Se quella minima quantità di moto, che si suppone nella sostanza tenerissima del cervello, fosse quella stessa di cui partecipano i nervi ed i muscoli che sostengono grandi fatiche, quella piccola quantità si sarebbe dovuta accrescere per via; ma in qualunque comunicazione meccanica, all' incontro, ella si sarebbe dovuta anzi diminuire per le resistenze e spegnere del tutto. Non vi è dunque speranza di spiegare colle leggi meccaniche quel movimento, che l' anima imprime alle membra del corpo. Cessa all' incontro ogni difficoltà, abbracciando la espressa teoria. Poichè in questa l' anima esercita quell' efficacia, che ella possiede, nell' esteso che è termine del suo sentimento, e ciò simultaneamente, in tutte le parti di lui in che ella agisce, e questa azione più o meno efficace senza determinata misura; e la modificazione prodotta non ha bisogno che sia tutta nella stessa direzione, o in linea retta, ecc.; ma può avere quella forma, e per così dire quello stampo che all' anima piace, e variare a talento; onde nell' ordine extra7soggettivo possono comparire tutti quei movimenti molteplici, vari, potenti, circolari, ecc., che fanno bisogno, e che si manifestano in fatto quando l' uomo muove il proprio corpo a suoi diversi intendimenti, come attesta la comune esperienza. Si ricorse alle forze attrattive, alla elettricità, al magnetismo, ecc.. Ma i movimenti istintivi o volontari delle varie membra del corpo non obbediscono punto alle leggi secondo le quali si muovono questi agenti abbandonati a sè stessi. Che se si vuole che tali agenti sieno in potere dell' anima che li renda suoi ministri, non ripugna a pensare che anche di questi l' anima si possa in parte servire; ma primieramente non di questi soli. E in ogni caso le difficoltà così si moltiplicherebbero invece che diminuirsi, rimanendo le due questioni: 1 come l' anima possa far sentire il suo potere motore e dominatore a questi agenti; 2 come questi agenti possano comunicare alle membra il potere dell' anima, che può volere e disvolere, e imperare da un momento all' altro i moti più complicati e più contrari. Per non dire che nella prima di queste due questioni converrebbe ancora ricorrere all' efficacia, che ha l' anima entro la sfera dell' ordine soggettivo, dalla quale non esce. Ora i fenomeni elettrici, magnetici, ecc., appartengono unicamente all' ordine extra7soggettivo. La questione adunque si rimarrebbe quella di prima, nè riceverebbe soluzione se non ricorrendo alla teoria da noi proposta. Le leggi dell' attività animale manifestano i loro effetti in certi corpi, i quali si dicono viventi. Quei corpi, che non presentano i fenomeni prodotti dall' attività animale, si suppongono inanimati e si dicono materia bruta. La materia bruta manifesta anch' essa certe leggi nel suo operare. E queste leggi, e i fenomeni nei quali esse appariscono, danno un' apparente opposizione coi fenomeni, che presenta l' operare dell' animalità; le forze, di cui si mostra dotato il corpo vivo, e quelle della materia bruta sembrano bene spesso lottare fra loro. L' opposizione fra le leggi dell' attività animale e quelle dell' attività materiale è ella vera o solo apparente? esiste realmente una lotta? trattasi di una lotta tra forze di diverso genere o dello stesso? - Non possiamo trapassare queste questioni importantissime, senza proporre almeno delle congetture. Incominciamo dalla legge dell' inerzia. Riflettiamo in prima che tutti gli esseri contingenti, e non la sola materia, ubbidiscono ad una legge d' inerzia; ma la loro inerzia differisce di grado. Questa inerzia universale si fonda nella potenzialità che hanno tutti gli esseri finiti, nessuno dei quali è atto puro, proprietà del solo essere necessario. Poichè, essendo gli enti finiti altrettante potenze, essi non hanno in sè la ragione piena dei loro atti secondi, e però non possono passare dalla potenza all' atto, se non dati certi stimoli, certe condizioni (1). Ora vediamo come nasca la lotta apparente pei gradi di maggiore inerzia, che ha la forza bruta a confronto del corpo animato. Il corpo bruto non passa dalla quiete al moto, se non gli viene applicata una forza a lui straniera, la quale invadendolo e non più abbandonandolo, lo fa continuare a muoversi nella stessa direzione, fino a tanto che una forza contraria pure straniera non distrugga l' effetto della prima. Ma l' attività animale fa qualche cosa di più relativamente al moto che produce nei corpi, come si può rilevare considerando le due sue funzioni, chiamate da noi organizzatrice e della spontaneità motrice sensuale . Infatti un corpo bruto, ove sia mosso, continua a muoversi in linea retta; all' incontro la funzione organizzatrice, tendente a mettere in essere il sentimento fondamentale nel suo maggior grado possibile d' intensità, tende a dare alle particelle corporee quegli atteggiamenti e quegli intimi movimenti, che rispondono allo stato migliore di detto sentimento; i quali non possono essere in linea retta, perchè le dette particelle si disgregherebbero disciogliendosi lo stesso sentimento. Quindi l' apparente lotta tra la forza d' inerzia della materia bruta e l' attività vitale, per le direzioni contrarie che prescrivono ai movimenti dei corpi (2). Il somigliante conviene dire della spontaneità sensuale, che è quella funzione per la quale il principio senziente seconda colla sua attività tutti quei movimenti, che gli procurano una sensazione gradevole. Poichè in questo fatto è sempre bisogno che gli stimoli stranieri incomincino il movimento nelle fibre destinate alle sensazioni, e solo allora l' istinto sensuale vi pone la sua attività, secondando quel movimento e facendolo continuare alquanto più che non farebbe, se fosse mosso solamente dalle forze della materia bruta. Ed in ciò si scorge di nuovo una cotale opposizione e lotta fra i movimenti che fa il corpo, ubbidendo alle forze materiali, e i movimenti che riceve dalla spontaneità motrice sensuale, la quale tende a rendere più viva e prolungata la gradevole sensazione, e ad accrescere tutti i movimenti a questo effetto confacenti, elidendo i contrari. Sotto la parola attrazione comprendo sì l' attrazione astronomica che la coesione e l' affinità chimica. Io suppongo che la legge, che fa crescere l' attrazione in ragione diretta della massa e indiretta del quadrato delle distanze, abbia pieno vigore anche nell' attrazione molecolare ed elementare (1). Suppongo che i risultati contrari che alle minime distanze sembrano aversi, dipendano dall' imperfezione del calcolo, nascenti da questo che, trattandosi di corpi collocati a immense distanze come sono gli astri, si può senza errore notabile supporre che tutte le particelle, di cui sono composti, sieno attratte egualmente; e su questo postulato si calcola il centro di gravità dell' astro, quantunque le particelle di cui l' astro si compone, sieno nel fatto più o meno attratte secondo la loro collocazione, riuscendo alcune più vicine al corpo attraente, altre più lontane. Ora la differenza, come dicemmo, è trascurabile in corpi così lontani (2). Ma ella non è già più trascurabile, quando si tratta di minime distanze, nelle quali la differenza di distanza, anche menomissima, basta a crescere immensamente l' attrazione. Poichè se le due particelle fossero al contatto (1), e ciascuna, poniamo di forma sferica, avesse il diametro di un millesimo di milionesimo di linea, le faccie che si toccano delle due particelle dovrebbero essere attirate immensamente più che non i dossi opposti delle medesime particelle, sicchè i centri di gravità non si potrebbero collocare nel centro delle sfere, ma assai più vicini fra loro. Intanto è certo che fra i movimenti animali e quelli dell' attrazione vi è un' apparente lotta. Ecco dei fatti: La lotta apparente, che deve sostenere l' istinto vitale, è dunque di due maniere, l' una colla legge d' inerzia della materia, l' altra colla legge di attrazione. La legge d' inerzia costituisce l' ordine meccanico, la legge di attrazione l' ordine fisico e chimico . Nell' ordine meccanico il contrasto e l' opposizione fra la materia e le forze vitali giace in questo, che le particelle componenti il corpo animale, le quali, quando ubbidissero alle sole leggi meccaniche, dovrebbero tenere una certa via di moto e in fine, attesi gli urti che incontrano, acquetarsi; invece sotto l' influenza dell' attività vitale tengono una via di moto diversa, e il moto stesso si continua. Nell' ordine fisico e chimico il contrasto giace in questo, che, mentre le particelle se ubbidissero alle sole attrazioni e affinità fisiche e chimiche dovrebbero rinserrarsi strettamente fra loro e produrre certe composizioni e dissoluzioni, come avviene nei cadaveri; influite dalle attività vitali, rimangono impedite queste composizioni e dissoluzioni, conservandosi in quella vece e risarcendosi il misto dei tessuti organici. Ora, a fine di procedere con passo sicuro, è uopo che mettiamo bene in chiaro lo stato della questione: « se la lotta apparente fra il principio vitale e le forze straniere ammetta conciliazione »; al qual fine dobbiamo spiegare di quale conciliazione si parli. Perocchè questa parola riceve diversi significati: si può intendere di una conciliazione di fatto, di una armonia prestabilita dalla mano del Creatore, e si può intendere di una conciliazione teoretica, quale sarebbe se si provasse che non esistono due principŒ lottanti, ma un solo principio operante, il quale solo a cagione di alcune circostanze accidentali produca, agendo tuttavia colla stessa legge, effetti apparentemente diversi ed anche realmente opposti così da tendere a distruggersi reciprocamente. La conciliazione intesa nel primo significato è manifestamente possibile; ma ella non è conciliazione appartenente alla natura stessa delle cose; suppone anzi l' esistenza nella natura di più forze operanti con leggi diverse, e però sempre atte a venire fra loro in collisione; se non che assistite di continuo da un terzo agente, da un mediatore che le governa, le infrena ed accorda, non possono mai venire a darsi alcuna battaglia, per puro accidente che da loro non dipende. La possibilità di questo armonico concerto non può essere argomento di disputa, nè tampoco è la questione che agitano i filosofi della natura. La questione, su cui questi disputano, riguarda dunque la conciliazione presa nel secondo significato. Non trattasi di sapere se di fatto vi sia pace fra le forze della natura; che anzi non si nega, nè può negarsi che si manifesti un continuo contrasto; ma si vuole investigare se questo contrasto accada per esservi nella natura più agenti specificamente diversi, i quali, ubbidendo a leggi diverse, sieno atti a battagliare fra di loro; oppure se si possano spiegare i contrari effetti, riducendoli tutti ad un principio unico operante con un' unica legge, ma variamente determinato da circostanze straniere, che gli fanno mutar corso e parere contrario a sè medesimo. Questo è lo stato della questione, in cui noi dobbiamo ora metterci. I filosofi della natura, che ne hanno trattato, non conobbero la essenziale differenza tra le due lotte che abbiamo descritte; essi affrontarono la questione tutta intiera senza prima sottometterla all' analisi e però pronunciarono sentenze assolute, o negando la possibilità della conciliazione o affermandola. Noi crediamo che anche qui la verità stia nel mezzo, cioè che una parte di quella lotta rimanga inconciliabile, un' altra conciliabile; la lotta che ha il principio vitale colle forze meccaniche non ammette la cercata conciliazione, quella all' incontro che egli ha colle forze attrattive non punto l' esclude. Gli antichi non hanno mai dubitato della realità della lotta, che apparisce fra lo spirito e la materia, nè mai cadde loro in pensiero che gli effetti, che manifestamente si contrariano, potessero ridursi alla stessa causa. Questa è la sentenza, che prima si presenta allo spirito. L' osservazione infatti presenta tre classi di fenomeni sommamente distinti fra loro e di opposti caratteri forniti: 1 la classe dei fenomeni puramente materiali e meccanici; 2 quella dei fenomeni fisici, chimici, e in una parola fenomeni di attrazione; 3 quella dei fenomeni animali. Quindi il comune discorso degli uomini deduceva che alle tre classi così ben distinte di effetti dovessero corrispondere altrettante cause o forze di distinta natura, che ne spiegassero l' esistenza, cioè forze meccaniche, attrattive ed animali, ciascuna operante con legge diversa; di che la possibilità inevitabile della lotta. Il ragionamento dei precedenti si erigeva sull' osservazione; ad alcuni moderni pareva ripugnante che nella natura vi fosse una lotta reale e necessaria, e si lasciarono altresì invaghire dalla bellezza ed eleganza, che loro pareva dovesse avere una spiegazione dei fenomeni naturali semplicissima, in cui tutti si riducessero ad unità, ad una sola causa. Questa vaghezza tutta ideale travolse non pochi nel materialismo, lusingandosi, vanamente a dir vero, di poter trovare nelle sole forze meccaniche la causa di tutti affatto i fenomeni, non eccettuati quelli del sentimento e del pensiero. Altri tentarono altre vie per arrivare allo stesso intento, ma sempre in sulle ali dell' immaginazione. Laonde quanti fin qui desiderarono di trovare che la lotta del principio vitale colla natura fosse soltanto apparente, quasi un solo e identico agente che rappresentasse più personaggi ad un tempo, ebbero la sventura di uscire affatto dal sano metodo filosofico, e però non poterono mettere un passo innanzi sicuro. La media sentenza da noi accennata, che ci pare vera, discende quale naturale corollario dalle cose ragionate più sopra intorno all' inerzia della materia. Ivi noi vedemmo che tutti gli effetti meccanici della comunicazione e conservazione del moto non possono appartenere alla materia, ma sì a quel principio occulto che la mette in essere, e che abbiamo chiamato principio corporeo . Vedemmo, ancora, che tutti gli effetti attribuiti all' attrazione non possono appartenere neppur essi alla materia in cui appariscono, ma bensì al principio sensitivo con essa congiunto. Quindi stabilimmo che tutti i movimenti, a cui la materia soggiace, si debbono ridurre a due cause spirituali, cioè al principio corporeo ed al principio sensitivo . Se dunque vi sono due cause di moto specificamente diverse, le quali, perchè sono due, ubbidiscono a leggi diverse, è dunque vano il tentativo di levare ogni possibilità di lotta nella natura, e di richiamare tutti i movimenti ad una sola legge e la loro origine ad una sola causa. Ma posciachè i movimenti, in quanto ubbidiscono alle leggi meccaniche, debbono attribuirsi al principio corporeo, e in quanto ubbidiscono alle leggi attrattive, debbono attribuirsi al principio sensitivo; perciò è giocoforza conchiudere che la lotta fra l' istinto vitale colle forze meccaniche è reale, e non può torsene via la possibilità; all' incontro la lotta del medesimo istinto colle forze attrattive è apparente, cioè sono effetti dello stesso principio reciprocamente contrari a cagione delle diverse porzioni di materia che investe e delle diverse condizioni in cui esso si trova, il quale, seguendo una sola legge, produce tuttavia gli uni e gli altri. Le ragioni, che ci condussero ad ammettere l' animazione dei primi elementi della materia, furono già da noi esposte. Ora a noi pare che questa sola causa sia a pieno sufficiente a spiegare tutti i fenomeni delle diverse attrazioni. Una delle maggiori difficoltà, che può rendere questa opinione inverosimile a una gran parte degli uomini, si è il non vedersi a primo aspetto ragione, perchè, se gli elementi sono animati, non ne segua la conseguenza che ogni corpo porga i fenomeni propri degli animali. Ma chi si farà a considerare la legge secondo cui opera l' istinto vitale, scorgerà facilmente che, anche posta l' animazione degli elementi, l' apparizione di fenomeni animali è al tutto impossibile, se non è data al corpo una congrua organizzazione. E nel vero è chiaro che l' aumento di moto, che noi abbiamo attribuito alla spontaneità motrice sì vitale che sensuale, e che è uno dei principali fenomeni animali, non potrebbe mai aver luogo in un corpo inorganico. Perocchè questa spontaneità ha bisogno di continui stimoli, i quali non possono aversi costanti se non in una macchina così artificiosamente congegnata che lo stesso movimento riproduca sempre nuovi stimoli, cagione di nuovo moto. Per spiegare questo pensiero io ricorrerò ai corpi animali più perfetti, nei quali è assai più facile l' osservare quel moto perpetuo di cui parliamo, in cui gli stimoli generano moto, e il moto genera nuovi stimoli, e così via. Rammentiamo la connessione ed azione reciproca dei tre visceri principali della macchina umana, il polmone, il cuore e il cervello. I movimenti di ciascuno sono o producono altrettanti stimoli ed eccitamenti agli altri due. Il polmone pei suoi movimenti, ricevendo una porzione d' aria vitale coll' inspirazione e mandandone fuori una di acido carbonico coll' espirazione, colorisce il sangue in rosso, che è il principale stimolo del cuore e del cervello, al quale è spinto dai movimenti del cuore. I movimenti del cuore adunque sono quelli che, spingendo il sangue rosso al cervello ed ai nervi, li scuote e li eccita. Annerandosi poi questo sangue di nuovo nel suo corso, e dal ventricolo destro del cuore essendo rimesso nelle arterie e vene del polmone, viene rifornita a questo organo sempre nuova materia atta alla sua operazione, che è quella di produrre l' ossigenazione di esso sangue nero. Finalmente, i movimenti del cervello ed il suo eccitamento sono la cagione dei movimenti meccanici del polmone stesso, i quali cessando, cesserebbe quella sua operazione chimica che, arrossando il sangue, lo rende stimolo ed eccitatore potentissimo del cuore, del cervello e di tutti i nervi. I tre principali visceri, adunque, sono collegati così mirabilmente tra loro che i movimenti di ciascheduno contribuiscono ai movimenti degli altri due, di maniera che il movimento non comincia propriamente in nessuno, giacchè il polmone non si muove senza che il cervello lo muova, nè il cervello può muoversi senza che sia eccitato e stimolato dal sangue rosso, nè il sangue rosso può eccitare il cervello se il cuore non ve lo spinge; nè il cuore può spingervelo senza riceverlo già arrossato dal polmone e mosso per guisa (1) da dover essere stimolo al cuore stesso, e produrvi la contradistensione necessaria a sospingere il sangue per mezzo delle arterie al cervello (2). Laonde niuno dei tre movimenti può cominciare da sè solo; nuova prova che l' animale non si forma a parte a parte, ma che ne è dato in natura, o certo che se ne forma lo stampo con un' unica azione di un unico principio, che in uno esteso molteplice termina la sua operazione; nuova prova altresì che la natura soggiace dappertutto alla legge ontologica del sintesismo. L' organizzazione, adunque, è necessaria acciocchè si manifestino i fenomeni animali condizionati all' eccitamento continuo, il quale esige che « continuamente sieno applicati nuovi stimoli alle parti, che debbono conservarsi in moto ». L' esempio dato (e la fisiologia n' è piena) prova ad evidenza che solo una data organizzazione rende possibile il rinnovamento continuo degli stimoli, che applicati agli organi sensitivi vi producano i movimenti idonei a mettere eccitazione nel sentimento, onde sorgono le sensioni ed i movimenti spontanei. E si noti che il fatto, che descriviamo, non è solamente moto meccanico, ma è moto meccanico eccitato da azioni chimiche e fisiche, e soprattutto dalla spontaneità motrice del sentimento. Poichè, ond' è mai che il cervello produca gli alterni movimenti del polmone? Non già dalla semplice impulsione meccanica del sangue, che inaffia il cervello, nè dall' azione chimica, che può esercitare su di esso il sangue rosso; tutto ciò potrebbe avvenire in un cadavere, senza che per questo il polmone si restringesse e si dilatasse; è dunque dalla vita; cioè il sentimento interno che si atteggia ed assetta spontaneamente in ogni istante a quella guisa che gli è meno scomodo e più comodo, è appunto lui che, coll' atteggiarsi ed assettarsi così, determina gli alterni movimenti dell' organo della respirazione. Infatti non respirando, il vivente si sente male, il suo sentimento soffre; cerca dunque di evitare questo disagio, e a tal fine promuove i movimenti che lo sollevano da quella molestia, rimettendolo nello stato naturale a lui gradevole. Questa legge dell' istinto sensuale, che « il sentimento si assetta da sè stesso nel meno disaggradevole o più gradevol modo che egli possa », spiega tutti i moti involontari dell' animale, tutti quei moti che, secondo la maniera di parlare di Bichat, appartengono alla vita organica. Da un altro esempio caviamo nuovo lume, cioè dai movimenti reciproci del polmone e del diaframma. Ecco qua come ciascuno di questi due organi ha la sua posizione naturale, secondo le leggi del meccanismo col quale sono fabbricati; ma queste posizioni in cui si rimarrebbero, se le sole leggi meccaniche determinassero la loro giacitura, divengono scomode al sentimento; quindi l' attività di questo, tendente a comporsi ed ammodarsi nella guisa meno ingrata e più grata che gli riesca, rimuove alternativamente l' uno e l' altro organo dalla sua posizione, i quali così diventano reciprocamente motori l' uno dell' altro; e la massima parte del tempo si stanno fuori del posto, che le forze meccaniche loro assegnerebbero, per tenere il posto, che loro assegna il bisogno del sentimento; il quale posto è mutabile ad ogni piccolo tempo, ragione dell' incessante cangiamento di luogo a cui dolcemente si trovano stimolati. Rimossa adunque la difficoltà, che nasce dall' assenza dei fenomeni animali nei corpi inorganici, dimostrato che questi non possono apparire, appunto perchè a quei corpi manca l' organizzazione opportuna, non rimane più tale ostacolo ad ammettersi la sentenza dell' animazione dei primi elementi. D' altra parte quell' animazione è la maniera di tutte più semplice a spiegare quanti sono i fenomeni attrattivi, come quella sola che porge una causa di moto conosciuta e non chimerica, come sarebbero tutte quelle che si volessero ipoteticamente supporre. E non solo il principio vitale è certa cagione di moto, come ce ne assicurano l' esperienza e la coscienza, ma egli è indubitatamente cagione anche di moto attrattivo, come apparisce dalle diverse funzioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, da noi enumerate. Solamente che, dove manca l' organizzazione, egli non può produrre movimenti continui nè complicati; onde ivi si deve tutto ridurre a semplici attrazioni in linea retta, essendo impossibili i moti circolari ed altri che risultano da una composizione di moti semplici innumerevoli, esigenti stimoli ripetuti per continua riproduzione. Quindi ancora si scorge come gli effetti, che il principio vitale produce nei corpi inorganici, e quelli che produce nei corpi opportunamente organati, debbano essere assai diversi e sembrare diretti da altra legge, e però dipendere da un' altra causa, benchè non sia. Nè tuttavia questo sarebbe sufficiente a spiegare come possano venire fra essi in collisione. Ora questo rimane spiegato, tostochè si considera la dottrina dell' individuazione del sentimento. Perocchè noi vedemmo: I - che se un continuo sentito si parte in più continui, si moltiplicano i principŒ sensitivi, nei quali stanno le attività animali; II - e così pure questi principŒ sensitivi si individuano secondo i centri di maggiore eccitamento. Il principio sensitivo, adunque, non è più uno solo, ma ne compariscono più, ciascuno con istinto vitale suo proprio, ciascuno dotato di attività distinta, qual maggiore, qual minore. I principŒ sensitivi adunque, che sono annessi alla materia inorganica, non sono gli stessi di quelli annessi ad un organismo; nè hanno le stesse attività, nè sono atti a produrre gli stessi effetti. Costituito poi un principio sensitivo colla sua individuazione, egli non opera che per sè, non tende che a conquistare, ad aumentare il suo dominio approfittandosi di ogni occasione, e in questo dominio vuol essere solo; indi la lotta. Questa si agita fra diversi principŒ sensitivi variamente individuati. Laonde questa lotta non si combatte solo fra le forze animali e le attrattive, ma ben anche fra le forze di un animale e quelle di un altro, come si vede non solo nel fatto di quei viventi, che s' introducono negli altrui corpi, e li ammalano o anche uccidono ma altresì nel fatto palese della guerra, che tutti gli esseri della natura irrazionale si fanno, implacabile, mortale. Ma se questa teoria è vera, il principio vitale d' un organismo dovrebbe riuscire più potente delle forze puramente attrattive (fisiche e chimiche), i cui principŒ vitali avrebbero un dominio meno esteso, e con nullo o minore eccitamento. E l' esperienza che dimostra così appunto accadere, diviene una novella prova della indicata teoria. Infatti, in ogni animale le forze sue proprie, cioè quelle che vengono riconosciute da tutti per forze animali, sono le dominatrici, anzi nel dominio che esercitano sulle forze chimiche e fisiche vinte da quelle, elise, modificate, fatte servire, consiste propriamente il loro carattere essenziale, nè l' animale può vivere se non a questa condizione. Infatti, cessata l' azione della vita animale, appariscono nei cadaveri incontanente le dissoluzioni e composizioni chimiche. Dunque le molecole, di cui consta il corpo vivo, giacciono in situazione e condizione diversa, hanno movimenti diversi da quelli che avrebbero, se alle sole leggi chimiche ubbidissero. Le forze della vita, dunque, contrastano alle forze chimiche e ne impediscono l' effetto; dal qual fatto Brown induceva la vita consistere in uno stato forzato e violento, senza accorgersi che le forze chimiche sono fuori della vita dell' animale dominatore, e che l' attività vitale, che ne impedisce l' effetto extrasoggettivo, lungi d' essere forzata nella sua azione, ha in questa azione medesima il suo stato naturale e spontaneo; che quindi lo stato forzato è soltanto lo stato morboso o disagiato di essa vita, nel quale essa non giunge a dominare compiutamente i fenomeni chimici. Questo dominio, adunque, è lo stato naturale e normale della vita animale, e solo quando questo dominio è impedito, comincia alla vita uno stato forzato non naturale. Ora, come avviene che la forza vitale impedisca l' effetto delle forze chimiche, e faccia che gli elementi della materia ubbidiscano ad altre leggi? - Sempre mediante le due funzioni da noi distinte come cause dei fenomeni extrasoggettivi, la funzione organizzatrice e la funzione della spontaneità motrice sensuale. Nella prima si notarono tre momenti, quello della rattenenza, per la quale la funzione organizzatrice tiene le molecole viventi nella sfera della vita; quello dell' assimilazione, per la quale essa compone dai primi elementi le molecole in quella forma, mistura e situazione reciproca, che debbono avere per vivere della vita dell' individuo dominante; quello della spontaneità motrice7vitale, per la quale agevola il movimento intestino delle molecole e degli organi stessi, che esse compongono. Il primo di questi tre momenti della funzione organizzatrice non produce movimento, ma si sforza d' impedirlo: è quel conato dell' istinto vitale che tende ad impedire i movimenti degli elementi, delle molecole e degli organi contrari alla vita. Il secondo ed il terzo momento producono quei moti che desidera e che appetisce l' istinto; ma il primo che abbiamo chiamato assimilazione, è la causa dei movimenti, che vengono prodotti in elementi non ancora animati della vita individua dell' animale operante, e tendono a scomporre e comporre, configurare, scegliere, mescere e combinare, acciocchè si formino le molecole atte a vivere della vita del tutto, e a questo nei loro propri luoghi s' innestino; il secondo poi è la causa dei movimenti vitali delle molecole già vive, ossia del misto vivente, le quali vengono mosse, acciocchè il sentimento fondamentale in esse si perpetui, e nel tutto rimanga eccitato a quel modo come egli appetisce di essere. Ora, se si pone attenzione a questi due momenti della funzione organizzatrice, s' intenderà agevolmente che, ammesso il principio che « il sentimento si atteggia a quel modo che gli dice bene, e questo atteggiarsi del sentimento trae seco i descritti movimenti extrasoggettivi perchè il sentimento è inerente agli elementi, e quindi le mutazioni sue portano dei moti corrispondenti in questi, che sono suo termine necessario », gli effetti delle forze chimiche debbono rimanere sospesi ed apparire effetti da quelli diversi. Per semplificare il discorso restringiamoci a considerare la spontaneità motrice vitale, che è quella funzione per la quale l' istinto vitale tende a mantenere o produrre un incessante movimento intestino, necessaria condizione del sentimento eccitato fondamentale. E` chiaro che se le molecole debbono tenersi in un movimento intestino, se l' attività del sentimento deve concorrere a facilitare e aiutare un tale movimento, questa dovrà esercitare una tale azione sulle molecole, che procuri loro tale una reciproca posizione che esse si tocchino nel minor numero di punti; giacchè solo in questa maniera si facilita ed aiuta quel movimento, pel quale le une si soffregano contro le altre, senza attaccarvisi immobilmente. Il che spiega in modo facile perchè le molecole componenti l' animale presentino piuttosto forma globolosa che l' angolata. Avendo così meno punti di contatto fra loro godono di una maggiore mobilità, e possono strisciare l' una sull' altra del continuo, toccandosi in qualunque parte senza nè staccarsi, nè indurare; quindi i globoli, che si osservano col microscopio nei vari liquidi animali e specialmente nel sangue. La formazione di queste molecole sferiche si deve attribuire principalmente a quel momento della funzione organizzatrice, che abbiamo chiamata assimilazione . L' istinto vitale raccozza gli elementi in quelle piccole sfere, appunto perchè il sentimento ama quella forma e la aiuta, poichè con essa sola consegue l' eccitamento che lo perfeziona (1). E non è difficile tampoco intendere per qual meccanismo quelle molecole si ritondino. Supposto che la tendenza, che ha il sentimento fondamentale ad essere eccitato, aiuti e faciliti i movimenti delle molecole organiche di prima formazione, l' una al contatto dell' altra, acciocchè nasca il soffregamento in tutte le direzioni, ne deve nascere il moto rotatorio, pel quale si smussano gli angoli, e si vanno le molecole conseguentemente ritondando. Il che mi pare così probabile da poter anzi vedere nella stessa forma sferica delle molecole la prova dei movimenti intestini, coi quali l' una molecola si strofina in sull' altre da tutte le parti (2). La forma rotonda delle molecole rende altresì facile spiegazione del come si vada organizzando il sistema vascolare; giacchè è indubitato, dopo le osservazioni di tanti insigni fisiologi, che i vasi si originano dagli spazietti vuoti, che lasciano tra loro le molecole. Ora, data la rotondità delle molecole, è chiaro che esse lasciano, quando si trovano al contatto, un interstizio maggiore fra loro che non farebbero molecole di altra forma, non potendosi quelle piccole sfere toccare che in un solo punto. Se si suppongono adunque altre molecole sferiche di una piccolezza assai minore, le quali, trascorrendo fra i detti interstizi, li sforzino e li rallarghino nello stesso tempo che molte di esse, trattenute negli spazi maggiori, si consolidano e rendono il canale più regolare e seguìto; sarà facile cosa l' intendere la formazione, come dicevamo, degli innumerevoli vasi, che percorrono il corpo animale, o piuttosto lo tessono e formano. E` ancora manifesto come le piccole sfere, aggruppate insieme, lascino maggior comodità ad altre particelle d' intromettersi fra loro staccandole alquanto, come deve avvenire quando una particella straniera viene assimilata e il sentimento si accomuna. Le particelle del corpo animale tendono a conservare il contatto fra loro, per quel momento della funzione organizzatrice che abbiamo chiamato rattenenza . Ma la straniera, che si mette in mezzo per forza, vincendo la loro rattenenza, riceve in virtù di questa stessa rattenenza la continuità del sentimento, e divenuta media fra esse (quando sia minima ed omogenea come deve essere) non produce già l' effetto che i sentimenti delle molecole divise a forza rimangano discontinui; anzi ella stessa col suo sentimento piacevolmente li continua. Ora poi, che in ogni parte dell' animale avvengano intestini movimenti è pure un fatto, nell' ammettere il quale sono d' accordo tutti i fisiologi. Il Cuvier descrive la vita come un vortice continuo, che rapisce nel suo movimento sempre nuove particelle, ed altre ne espelle. Le forze vitali, adunque, sono più potenti di quelle che si dicono fisiche e chimiche; sono nate a dominar queste. E così deve essere, se è vero che le forze vitali sono quelle di un sentimento individuato in un organismo opportuno, quando le fisiche e le chimiche sono le forze istintive di sentimenti privi di organismo, ed annessi ad atomi o molecole non formanti fra loro unità. Il sentimento e l' istinto conseguente deve certo riuscire meno vigoroso in questi corpi non ancora organati che in quelli bene organati. Ma qui si presenta la questione: « come si può determinare la quantità di forza di un istinto animale ». La quale questione ne abbraccia più altre. Cominciamo intanto a restringerla al sentimento fondamentale di eccitamento. Noi domandiamo perchè in una data organizzazione l' eccitamento mantenga naturalmente certa misura e quantità massima. Non abbiamo noi detto sembrare inesauribile l' attività dell' atto vivificatore? (1). Qual' è dunque la legge, che limita la quantità dell' eccitamento nel sentimento fondamentale di un dato animale, e la determina? A ragione d' esempio, se la reciproca azione del polmone, del cuore e del cervello procede dall' attività animale, perchè questa azione non è maggiore? Perchè la circolazione non si fa più celeremente? Il sentimento fondamentale risulta dall' esteso sentito e dall' eccitamento. Vediamo come sorga l' eccitamento. Il sentimento diffuso nell' estensione è opera dell' istinto vitale. Ma l' eccitamento suppone un primo stimolo dato dalla natura. Applicato all' organizzazione opportuna, quello stimolo vi suscita sensazione, la quale è ancora opera dell' istinto vitale, poichè non è che modificazione del sentimento da lui prodotto (2). Questa prima sensazione muove l' istinto sensuale, il quale continua il movimento incoato dallo stimolo sensifero, e volgendosi in circolo quel movimento, perpetua l' eccitazione del sentimento fondamentale. La questione, adunque, si riduce a sapere perchè l' istinto sensuale operi con un certo grado di attività, che limita e determina la quantità dell' eccitamento proprio del sentimento fondamentale di un dato vivente. Ora, la legge che determina il grado di attività dell' istinto sensuale (3), applicata alla nostra questione, riceve la forma seguente: « L' istinto sensuale opera con una quantità di azione proporzionata al sentimento onde muove, e continuata fino che ella riesce piacevole ». Dalla qual legge deriva: Che l' attività dell' istinto sensuale è limitata dalla quantità del sentimento, e però dello stimolo primitivo, che ha suscitato il sentimento. Dal piacere che l' animale trova nell' azione dell' istinto. Ma che cosa determina il piacere, che l' animale trova nell' azione dell' istinto? Non altro che l' organizzazione più o meno mobile, più o meno atta a riprodurre stimoli novelli e sensazioni novelle, che rimettono l' istinto sensuale in attività. L' istinto sensuale non può muovere che il corpo vivo, cioè l' organismo vivente; questa è sua limitazione assoluta. Se l' istinto sensuale trova resistenza nel corpo, egli cesserà di operare, tostochè la fatica diventa a lui più molesta che il piacere annesso alla sua azione. E l' esperienza dimostra che egli trova sempre qualche resistenza, benchè scelga i moti più facili. Quindi, acciocchè la sua azione non cessi, è d' uopo che prima ch' egli finisca di operare, prima che finisca di essere piacevole, egli medesimo col suo operare metta in essere altri stimoli, che rigenerino la sua propria attività. Se gli stimoli riprodotti sono meno efficaci dei precedenti, l' attività del principio sensuale va decrescendo; e se questo decrescere è continuo, egli perviene alla piena quiete, con che cessa spontaneamente la vita dell' animale. Che se per difetto di organizzazione e per alterazione del misto organico nasce il fenomeno del dolore appartenente all' istinto vitale, in tal caso l' istinto sensuale dal dolore riceve una nuova attività, diretta in senso contrario, tendente cioè non più a continuare e crescere il piacere, ma a scemare o a togliere il dolore. E questa attività segue le stesse leggi dell' attività prodotta dal piacere, e però ella è tanta, quanto è il dolore, e quanta deve essere acciocchè con essa il dolore non si accresca, ma scemi. Che se i movimenti prodotti da lei non scemassero più il dolore, ma l' accrescessero, da quell' istante l' attività sensuale cesserebbe, e succederebbe la quiete che al dolore si abbandona; l' animale cade allora nello spossamento, nell' abbattimento; le forze medicinali della natura si tacciono, lasciano il corso alle forze perturbatrici, che giungono facilmente a distruggere l' organismo e cagionare la morte. Esposte così le leggi dell' animalità, noi dobbiamo dimostrare: 1 che esse sono necessarie alla spiegazione dei fenomeni animali; 2 che esse sono a ciò sufficienti. Incominciamo dalla proposizione fondamentale dell' esposta teoria, la quale si è che « i fenomeni animali non possono ricevere spiegazione, se non a condizione che si trovi un unico principio dal quale dipendano, e questo principio sia sensitivo ». Diciamo che, quand' anche si riuscisse a spiegare i fenomeni singolarmente presi ricorrendo a principŒ diversi, con ciò rimarrebbe sempre inesplicato il loro complesso armonico, la loro mirabile unità, che non può trovare ragione sufficiente se non in un principio unico, e questo altresì sensitivo. Deve qui dunque chiamare la nostra attenzione quel consenso ammirabile fra i diversi organi viventi, che fu proclamato così solennemente dalla più remota antichità. Ella è celeberrima la sentenza di Ippocrate: [...OMISSIS...] che viene a dire: « un unico concorso, un' unica cospirazione, consenzienti tutte le cose ». Non si è ommesso certamente di tentare tutte le vie per dare una spiegazione di un fatto così solenne. Si è ricorso al mirabile congegnamento della macchina dell' animale, alla origine comune di certe parti del corpo, alla vicinanza di altre (1), alla comunicazione dei vasi, alla continuazione delle fibre e delle membrane, ecc. (2). E certo non si può dubitare essere necessario che il corpo vivente sia conformato col più mirabile meccanismo, acciocchè i fenomeni della simpatia fra le varie membra possano aver luogo. Noi parlammo già innanzi del bisogno dell' organizzazione in generale, acciocchè i fenomeni della vita si manifestino. Ma dopo di questo, nel solo meccanismo non si potè mai trovare in alcun modo una piena e sufficiente cagione della detta simpatia, perocchè in niun meccanismo vi è l' unità della causa, che si richiede a produrla. Se si trattasse unicamente di spiegare l' armonia dei movimenti extra7soggettivi, che si rispondono nelle diverse parti di cui si compone la macchina del corpo animale, potrebbe forse parere che non si richiedesse nulla di più a venirne a capo, fuorchè il supporre un cotal divino meccanismo ingegnosissimo. Ma la simpatia e consonanza, che si manifesta nel corpo umano, non è solamente extra7soggettiva; ella è ancora principalmente soggettiva nel sentimento, anzi è sempre (chi ben considera) una corrispondenza di moti esterni e di sentimenti, cioè di fenomeni extra7soggettivi e di fenomeni soggettivi, comunicazione avente tali leggi che dimostrano un principio unico, privo di parti e sensitivo. Veramente io stimo di più che, quand' anche si considerassero i soli movimenti armonici, che avvengono contemporaneamente nei diversi organi della macchina del corpo animale, giammai non si potrebbero spiegare colle sole leggi meccaniche della comunicazione del moto; le quali non producono che movimenti successivi, quando le affezioni del corpo umano sono bene spesso permanenti e contemporanee, ed armoniche; quelli muovono gli organi della macchina, non li modificano, non li perfezionano, non li formano, come pur accade dei movimenti animali, che influiscono sulla macchina stessa in modo che il conformarla piuttosto in un modo che in un altro è il loro proprio effetto. Di più, nei moti della macchina umana, come osservò il Cheyne, vi è continua perdita di forza per la confricazione e per l' attrito delle parti, onde è bisogno che un principio inesausto di forza, estraneo al meccanismo, continuamente supplisca a quella deficienza (3). Finalmente non si può dissimulare l' efficacia della dimostrazione di Clark sull' impossibilità di avere un moto continuo con forze puramente meccaniche; la quale dimostrazione si appoggia a questa tesi, che « «un tal moto continuo supporrebbe un peso più grave di sè stesso, o una forza elastica più elastica di sè stessa » », il che è contraddizione; donde Guglielmo di Porterfield conchiude che i continui movimenti dell' animale suppongono un principio al tutto ipermeccanico (1). Rimane dunque sempre a ricercare quale sia quell' unica forza che, applicata al corpo organizzato, vi produca quei tanti così complicati, così incessanti fenomeni della simpatia e sinergia fra tutte le parti del corpo medesimo. Anche i medici moderni già vanno accorgendosi e confessando che conviene ricorrere ad un principio unico per spiegare quel fatto stupendo. [...OMISSIS...] . Quanto poi agli antichi, non pregiudicati dalle asserzioni materialistiche e gratuite di alcuni sofisti che ad una forza primitiva e unica, diversa affatto da ogni altra, si dovesse ricorrere affine di spiegare le operazioni del corpo animale, l' ebbero sempre scorto i filosofi ed i medici più insigni. Il padre della medicina ricorre ad una forza originaria data a principio, per spiegare come le diverse parti del corpo si alimentino, e la chiama « «ex arches dynamis», facultas quae ab initio adest (1), » e soggiunge che « il principio di tutte le cose è uno, e il fine di tutte le cose è uno, e il fine è il medesimo che il principio »(2). Ma il concetto che di questa forza si vennero facendo nei diversi tempi gli studiosi della natura, riuscì bene spesso imperfetto. Si vide che ella non cadeva sotto i sensi, e che tampoco non cadevano sotto i sensi i primi movimenti da lei prodotti, i quali iniziavano i moti sensibili (3); ma ciò che non si vide forse mai chiaramente e pienamente si fu come il movimento ed il sentimento sono fenomeni essenzialmente diversi (4) ed opposti fra loro, e quello che è più, non essere già il movimento il primo e il sentimento il secondo, quasi che questo sia generato da quello; ma esser vero anzi tutto l' opposto, precedere cioè il sentimento, e questo avere attività di produrre il movimento animale (1), che si presenta nel corpo all' osservazione extra7soggettiva. E veramente è un fatto innegabile, deposto dalla nostra coscienza, che noi possiamo muovere il corpo nostro; e quando dico noi, dico un sentimento sostanziale, come fu dichiarato; è un fatto innegabile che non sorge in noi un nuovo sentimento, senza che succedano nel corpo nuovi movimenti corrispondenti, come vedesi nelle passioni: a ragion d' esempio, la passione della paura determina il sangue a ricorrere dall' estremità al cuore, ecc.. Che dunque i sentimenti, gli istinti conseguenti, e le emozioni che appartengono anch' esse ai sentimenti razionali, producano dei movimenti nel corpo umano è un fatto certo; questo ha, quando si muove il ragionamento da fatti certi, una solida base e consistenza. All' incontro i filosofi, lasciando da parte un punto così luminoso e innegabile, accertatoci dalla coscienza, si occuparono per lo più del solo fenomeno della sensazione accidentale e transitiva. Ed avendo osservato che questa non viene mai promossa se non a condizione di un movimento impresso nelle fibre nervose, conchiusero precipitosamente che quel movimento delle fibre sia il primo fenomeno, a cui il sentimento, come effetto a causa, sussegue. Non riflettono costoro che la fibra non darebbe la sensazione, se essa stessa prima non avesse il senso, sicchè quei movimenti in una fibra morta e insensitiva nulla producono; nè considerano la natura della sensazione, che non può essere altro che modificazione ed eccitazione di un sentimento precedente. Insomma non giungono ad afferrare la grande verità di un sentimento fondamentale, avente a termine un esteso corporeo, e necessitato a modificarsi ed eccitarsi mediante i movimenti in questo suo termine provocati; di che la vera causa efficiente della sensazione non sono i movimenti, ma sì quel sentimento precedente, che si modifica ad un tempo stesso che il suo corpo extra7soggettivo è mosso, perchè a questo corpo aderente, e, per meglio dire, perchè il corpo continuo nel sentimento stesso sussiste. Un' altra cagione dell' illusione, a cui soggiacquero i filosofi in così importante argomento, fu questa. Vi sono dei corpi extra7soggettivi nei movimenti dei quali niuna sensazione ci si presenta, chè nè la nostra coscienza ce l' attesta, nè l' analogia la congettura, non potendosi osservare in quei corpi movimenti extra7soggettivi simili a quelli che nel nostro corpo sappiamo per interna consapevolezza essere effetti del sentimento. Quindi conchiudono che niun sentimento in essi esiste, e che i movimenti apparenti vengono da un quid incognito, da una forza insensata. S' immaginò dunque, che esista una forza bruta, cioè una causa di meri movimenti locali, senza che ella sia congiunta ad un sentimento, o ad un sentimento si riferisca. Non si esaminò punto se questa ipotesi involga qualche cosa di strano ed anzi di assurdo, quasicchè potesse esservi un ente con esistenza meramente relativa ad un altro che lo osserva, non congiunto ad alcun principio interno . Si mediti pure quanto si voglia per trovare che cosa propriamente sia un principio interno, non si troverà mai altro che possa essere così chiamato in senso vero e rigoroso se non soggetto sensitivo o risultativo . Perocchè, quantunque noi possiamo considerare un corpo dentro ad un altro, e però un corpo contenuto, che chiamiamo interno relativamente a quello che lo contiene, che chiamiamo esterno; tuttavia dello stesso corpo contenuto altra nozione non possiamo avere che di un ente esterno, cioè cadente sotto l' osservazione extra7soggettiva. Tutte le notizie sperimentali, che abbiamo dei corpi, accuratamente considerate si riducono a notizie di superficie, perocchè il dividere un corpo non è altro che discoprire nuove superfici; sempre però superfici, sicchè non si è mai trovato nulla in un corpo di veramente interno; questo interno non fu mai veduto; solo l' immaginazione umana suppose qualche substratum, che si deruba continuamente ai sensi e si nasconde più addentro, qualche cosa che è per sè interno nei corpi. Ma data anche la possibilità di questo quid interno, che formi l' essenza dei corpi e che si chiamò forza bruta , esso, quando si consideri diviso da ogni altro principio (dal principio corporeo) (1) e per sè essente, non sarà mai altro che una mera ipotesi, un ente affermato gratuitamente, non più. Non è dunque provata l' esistenza di mere forze motrici; e perciò quando tali entità astratte, simili alle qualità occulte dei Peripatetici, si assumono per ispiegare i movimenti del corpo animale, altro non si fa che ricorrere ad una causa per lo meno incerta ed affatto ignota; che non rende punto impossibile la sentenza contraria, la quale asserisce che un principio sensitivo e vivente sia cagione anche di quei movimenti che noi vediamo nascere in corpi, nei quali i fenomeni analoghi a quelli del sentimento nostro non ci si manifestano. La differenza fra queste due sentenze sta qui, che noi sappiamo di certo esistere nel sentimento un' attività locomotiva; e però in questa sentenza si ricorre, per spiegare i fenomeni, ad una causa, di cui è provata l' esistenza, là dove per nessun argomento si può provare che esista veramente una causa atta a produrre il movimento locale, e priva al tutto di ogni sentimento, e che sia da sè sola un ente. Questa ipotesi è dunque viziata da molte parti, e se non altro in questo, che manca della principale condizione di cui un' ipotesi deve essere fornita, cioè che « sia provata l' esistenza della causa, che si assume ipoteticamente a spiegare una data classe di fatti ». A malgrado di tutto ciò, si scorge nella Fisiologia un progresso evidente verso la verità; ed è già un buon passo l' essersi accorti i fisiologi che a spiegare i fenomeni animali, e massimamente quelli delle simpatie, conviene ricorrere ad un principio unico . Il che ora anche in Francia si confessa. L' errore di Bichat, che distingueva la vita animale e la vita organica (1), dando a ciascuna le due proprietà della sensitività e della contrattilità, e quindi distinguendo simpatie di sensibilità e di contrattilità animale e simpatie di sensibilità e di contrattilità organica, si riconosce nella sua stessa patria; si confessa che egli divideva con abuso di astrazione quello che nella natura è uno e semplice. [...OMISSIS...] (2). Si va dunque finalmente d' accordo, tanto in Italia quanto in Francia, nel riconoscere un principio unico, a cui si riferiscano i fenomeni animali e nominatamente le simpatie. Nondimeno ancora non si vide, diremo di nuovo, la fondamentale classificazione dei fenomeni animali in extrasoggettivi e soggettivi . Movendo noi dunque da una causa, di cui è provata l' esistenza ed altresì la sufficienza a produrre il moto, cioè da un principio sensitivo, prendiamo ad applicarla alla spiegazione del complesso armonico dei fenomeni animali; e se ella sola si parrà sufficiente anche a questo, non sarà egli inutile immaginarne qualche altra occulta? E quanto più, se la causa occulta che si propone rimane inetta a spiegare i fenomeni, quando la causa certa e palese risulta a ciò pienamente idonea? Cominciamo dunque dal fenomeno delle simpatie, e prima di tutto determiniamo in quale ampio significato ci sembra di dovere noi prendere questa parola. I fisiologi moderni negano il nome di simpatia ad un' affezione, che si suscita in una parte del corpo umano, in conseguenza di un' irritazione o affezione di un altro organo, qualora fra i due organi vi sia un legame conosciuto. Il signor Roux, della scuola di Bichat, sostiene che un fenomeno non è simpatico, se non quando esso non si può spiegare mediante l' uno dei tre eccitatori delle proprietà vitali, il cervello che trasmette l' eccitamento pei nervi, l' azione dei corpi esterni e le sostanze liquide proprie del corpo animale. Ma la definizione della simpatia, ristretta in tali confini, soggiace a due incomodi: I - Ella è una definizione, che piuttosto si fonda nella ignoranza che nella natura della cosa; e però quello che di presente si chiama simpatia, cesserebbe di essere tale, tostochè i progressi della scienza facessero conoscere fra gli organi simpatici delle comunicazioni sino ad ora sconosciute. II - E` anche una definizione, che riposa sopra un supposto erroneo, qual' è quello che ci siano tali comunicazioni materiali fra gli organi che bastino esse sole a spiegare le affezioni, che si comunicano anche nell' ordine del sentimento; quando niuna comunicazione materiale, niuna continuità o contiguità di parti, niun movimento di fibre, niuna diramazione di vasi può produrre effetti sensibili, ma soli movimenti, ove non si supponga un sentimento precedente e un principio senziente, diverso affatto dall' esteso corporeo. Di più, nello stesso ordine dei movimenti la sola comunicazione materiale degli organi non somministra spiegazione di certi movimenti, che eccedono la quantità delle forze materiali e che si sottraggono alle leggi del moto suscitato; ond' è giocoforza ricorrere ad un principio di moto diverso da quello delle dette forze materiali; ed un tale principio o è l' attività stessa del sentimento, come noi crediamo, ovvero è un ente supposto gratuitamente dalla fantasia, la quale dà corpo ad una astrazione, come vogliono gli avversari, ma sempre alieno dalla comunicazione materiale fra le parti della macchina umana (1). Noi dunque preferiamo di prendere la parola simpatia nel più esteso significato, per indicare « il consenso vitale, che hanno fra loro le diverse parti di un corpo vivente »; ed alla simpatia presa in questo largo significato noi vogliamo ora applicare la teoria del principio sensitivo siccome causa del moto, da noi precedentemente esposta, cioè vogliamo dimostrare che solo con questa causa si possono spiegare i fenomeni della simpatia, i quali non sono nè meccanici, nè fisici, nè chimici, ma propriamente vitali e animali; benchè presuppongano e preesigano un meccanismo, una organizzazione, delle comunicazioni di filamenti, delle contiguità e continuità, dei tessuti, dei vasi, ecc. per loro condizione preparatoria, acciocchè si possano manifestare ed essere. Nell' uomo oltre il principio sensitivo vi è l' intellettivo, che influisce sul sensitivo, lo domina, lo muove all' azione, lo trattiene dall' operare e ne modifica l' azione senza che per tutto ciò ne cangi la natura, ovvero distrugga le leggi del sentimento animale. Il principio intellettivo poi non opera cosa alcuna nel corpo umano se non col mezzo del principio sensitivo. Di questo solo dunque vogliamo noi parlare, lasciando affatto da parte l' attività intellettuale. E vogliamo prima anche osservare essere un metodo erroneo quello che ragiona delle operazioni animali, in modo da supporre che il principio sensitivo operi con un fine conosciuto . Non si può disconoscere che gli animisti abbiano abusato delle cause finali, pretendendo che il principio operatore dei fenomeni animali conoscesse il fine, pel quale egli operava. Questo errore conseguitava all' altro, che confondeva il principio intellettivo col sensitivo; e racchiudeva di più un terzo errore. Poichè la stessa attività del principio intellettivo nell' uomo non sempre opera per un fine conosciuto e distinto dall' opera stessa, anzi molte volte opera anch' egli come sia un istinto, per una legge di natura, per quella legge che presiede al nesso dinamico, che passa fra il principio intellettivo ed il corpo. L' osservammo già: una notizia funesta improvvisa cagiona degli sconcerti nell' animalità; il principio intellettivo, che accolse quella notizia, non vuole punto quegli sconcerti, nè nessun fine lo muove a produrli; eppure li produce involontariamente, cioè per necessità di natura. Il principio intellettivo, adunque, influisce sul corpo con un fine, solo allorquando il movimento che vi produce è un oggetto della sua attenzione e da lui voluto, ed allora il fine non riguarda necessariamente il buono stato del corpo, anzi sovente tutt' altro; siccome accade nei suicidi, o in quelli che mortificano il corpo per averlo ubbidiente agli intendimenti più elevati della morale virtù. Molto meno il principio dell' attività animale può operare con un fine da lui conosciuto (benchè le sue operazioni sieno ordinate ed ottengano un fine inteso dal Creatore); egli opera con leggi spontanee, necessarie, non libere, le quali tutte dipendono da questa formula: « Il sentimento tende a conservarsi e ad accrescersi »; cioè egli si atteggia e si pone in quel modo che gli è più piacevole, il quale gli è più naturale, perchè nell' atto di sentire consiste la sua natura, ed evita quel modo che gli è doloroso, cioè contrario al suo atto naturale. Avendo noi riposta l' essenza dell' animale nel sentimento (1), forza è che noi non riconosciamo altro carattere certo e proprio dei moti animali se non questo « che si abbia prova d' un qualche sentimento concomitante il moto ». Non basta adunque per noi un organismo, cioè una macchina ingegnosamente congegnata, nè dei movimenti organici per ammettere l' esistenza della vita, ossia del principio vitale, se quei movimenti organici non sieno tali che suppongono l' esistenza di qualche sentimento. Qualora dunque si applichino degli agenti materiali ad un corpo animale, il movimento, che vi producono, comincia ad essere azione animale, solo allorquando incomincia la sensazione; sicchè quantunque prima della sensazione vi avessero stimoli e movimenti, tuttavia questi non apparterrebbero all' animale fino che l' animale non cominciasse a far uso dell' attività sua propria; la quale è l' attività di sentire. Chè di tutti i movimenti veramente animali il principio sta nel solo sentimento. Ad illustrare il qual principio ci valgono le due proposizioni seguenti. Talora il sentimento, dal quale parte l' azione o la passione animale, è una sensazione esterna. - Se si punge o batte una bestia, essa fugge. L' attività, che spiega nel suo moto, incomincia evidentemente dalla sensazione del dolore. Questa sensazione del dolore, associata coll' immaginazione di uno stato libero dal dolore e dei movimenti che a tale stato conducono, sono i tre elementi che la forza unitiva congiunge in uno, e determinano l' azione di quel moto. Questa fuga è un atto dell' istinto sensuale (1), appartenente alla mobilità avversiva . E` da notarsi che ogniqualvolta l' azione o funzione animale non viene determinata da una sola sensazione, ma da un associamento di più sensazioni, di immaginazioni, ecc., l' istinto simula la volontà; perchè i movimenti, che ne conseguono, non sono esattamente proporzionati alle singole sensazioni, ma all' impressione totale; e quindi essi sembrano avere dell' arbitrario, benchè non sia così. La sensazione del dolore determina l' animale non solo ai movimenti grandi come sono gli accennati, ma ben anche ai movimenti minimi, come sono quelli con cui si operano le secrezioni. - I dolori, che provano i bambini nel travaglio della dentizione, cagionano loro rilascimento di corpo, vomiti, tossi, ecc.; qui il principio animale addolorato produce manifestamente quei piccoli moti intestini, che danno luogo a così fatti fenomeni. Talora il sentimento, dal quale incomincia l' azione o la passione animale, è una sensazione delle pareti interne del corpo animale. - Il titillamento dell' ugula produce il vomito. Questa sensazione non si associa con alcuna immaginazione, ma, continuandosi il movimento che in essa s' inizia per la spontaneità animale , rovescia lo stomaco. In queste maniere di movimenti il carattere istintivo è più evidente, per la ragione detta che il movimento non è eccitato che dalla sola sensazione iniziante un moto, che spontaneamente si continua e si complica. Lo stesso si può dire del titillamento delle nari, a cui sussegue lo starnuto, movimento ancora più complicato; lo stesso del sentimento della nausea, pel quale gli emetici mettono in movimento i nervi e i muscoli dello stomaco; lo stesso delle fecce e dei drastici, che irritano gli intestini e provocano l' evacuazione. In tutti questi casi è evidente che il sentimento molesto, che si manifesta nelle pareti interiori del corpo, è il principio dell' attività animale; questa si suscita ed agisce fortemente, perchè prova una molestia; il principio sensitivo si ribella alla molestia che prova, trae in azione più organi per liberarsene; l' istinto sensuale anche qui opera colla sua mobilità avversiva, sottraendosi alla sensazione dolorosa, e rendendosi più che può da essa indipendente. E da tali suoi sforzi consegue un effetto, che è certamente dovuto al sapientissimo congegnamento della macchina animale, fatta dal Creatore, cioè l' espulsione del corpo estraneo o dello stimolo che cagiona quella molestia. Perocchè, si noti bene, ciò a cui tende il principio sensitivo è unicamente di liberarsi dalla molestia che egli prova; la sua azione e il termine della medesima non eccede l' ordine soggettivo; al quale tengono dietro i movimenti relativi nel corpo animato. Ora l' espulsione del corpo estraneo conseguita siccome una conseguenza fisica di tali sforzi, senza che a ciò, propriamente parlando, egli intenda (1). E questa osservazione è molto importante, come si vedrà nella spiegazione di altri fenomeni. Talora il sentimento, col quale incomincia la funzione animale, appartiene all' immaginazione. - Alla presenza d' un cibo appetitoso è provocata una secrezione abbondante di saliva; qui è l' immaginazione del sapore, che muove quell' attività istintiva, perocchè in tutte le sensazioni l' anima concorre colla sua attività (1). In questo fatto si vede che il principio sensitivo, determinato dall' immaginazione che è un senso interno, opera sul sistema ganglionare, il quale presiede ai fenomeni secretori, esalanti e infiammatorii. E` l' istinto sensuale, che opera colla sua mobilità concupiscibile . La secrezione della saliva, in conseguenza della vista di un cibo appetitoso, è un chiarissimo esempio dei minimi movimenti, che il principio sensitivo è atto a produrre mediante la mobilità concupiscibile . Innumerabili sono gli esempi simili, che provano questo potere del sentimento sui minimi movimenti del corpo, che io chiamerei assai volentieri collo Stahl movimenti tonici . La vista di una cosa schifa provoca il vomito nelle persone delicate, come sono le donne specialmente in certi momenti, e toglie loro l' appetito. E` avvenuto che la sola vista d' un medicamento già preso più volte, e con danno della salute, abbia incontanente recato dolori al ventre, e, quasi l' ammalato l' avesse già preso, prodottegli scariche abbondanti (2). Ecco l' immaginazione, che muove simpaticamente il ventricolo e gli intestini (mobilità simpatica ritrosa). Ma lo stesso principio, lo stesso istinto sensuale, principalmente per la mobilità concupiscibile, è quello che muove l' animale affamato a fare tutti i movimenti necessari per procacciarsi il cibo, e in generale per soddisfare a tutti i bisogni che si fanno sentire nell' animalità, compreso quello della propagazione. E` sempre un atteggiarsi, è un muoversi in conseguenza del sentimento, di una molestia o di un incipiente piacere, che vuol essere perfezionato, sia che a tal fine coi movimenti esterni egli ne cerchi i mezzi (mobilità concupiscibile), sia che, trovato il fonte stesso del piacere, colla sua attività lo perfezioni e vi s' immerga fino a sentirsene pienamente soddisfatto (mobilità voluttuosa). Siccome i movimenti piccoli, secretori, tonici, dimostrano il potere del principio sensitivo sul sistema nervoso ganglionare, così i movimenti grandi dimostrano il potere del principio sensitivo, che opera sul sistema nervoso cerebro7spinale. Conviene ciò nulla ostante avvertire che non manca mai intieramente l' azione del sistema cerebro7spinale, anche quando il principio sensitivo opera movendo il sistema ganglionare. Fin qui abbiamo veduto il potere motore del principio sensitivo, supponendo che questo potere operi in conseguenza di sentimenti figurati, quali sono le sensazioni esterne e le immagini. Abbiamo veduto anche in parte il suo potere motore operante in conseguenza di sentimenti poco o nulla figurati, come sono le sensazioni provocate nelle superfici delle pareti interne del corpo, o in conseguenza d' immaginazioni associate ai sentimenti esteriori. I sentimenti non figurati, privi di un confine preciso e di un' apparente località rispettiva, sfuggono più facilmente all' osservazione ed alla coscienza; e quando il principio sensitivo si muove suscitato da essi, pare che il suo movimento sia estraneo al sentimento; il che tuttavia, se si osserva bene, non è certamente. Continuiamoci adunque a recare altri fatti, che richiamino l' attenzione sull' attività che ha il sentimento di trarre dietro a sè movimenti piccoli e grandi, e conseguentemente variatissime modificazioni nel corpo animale. Talora quel sentimento, col quale cominciano i movimenti e le funzioni del corpo, consiste in certe sensioni d' interna molestia, che si diffonde a gran parte o a tutto il corpo animale; alle quali sensioni diffuse l' animale colla sua attività sensuale tenta sostituire sensioni egualmente diffuse, ma grate, mediante i movimenti e le funzioni che vengono da lui esercitate. - L' animale è indotto a respirare, per la molestia che proverebbe non respirando, e pel piacere che prova nella respirazione. Questa funzione importantissima della vita animale ha una principalissima influenza nel mantenere l' eccitamento continuo del sentimento fondamentale. Qui l' istinto vitale colla sua funzione eccitatrice è manifestamente la prima causa dei movimenti del polmone, del cuore e di tutti gli organi piccoli e grandi, che concorrono alla circolazione. L' operazione del parto è l' effetto della molestia che prova il feto già maturo nelle angustie dell' alvo materno, e della molestia che prova la madre stessa dagli sforzi di quello, e che contribuiscono a mandarlo in luce (1). Tutte le funzioni vitali sono determinate dal dolore e dal piacere, cioè dalla necessità di fare quelle operazioni per evitare la molestia che ne risentirebbe la natura non facendole; e pel piacere della vita che sente facendole. Che cosa è, a cagion d' esempio, il motivo che induce l' animale a mangiare se non la molestia della fame, che tende a rimuovere da sè, e il diletto che prova nutrendosi? Il quale diletto non si ferma al solo gusto, ma più ancora soddisfa al senso alimentare (1). Lo stesso si dirà della funzione generativa e di ogni altra del corpo umano. Conviene ricorrere al senso per spiegare le funzioni animali, e quindi al principio sensitivo . E` ben da osservarsi che ogni funzione del corpo animale suppone: 1 un principio sensitivo, che la muova e diriga; 2 e questo principio, semplice. E` un' illusione assai comune il credere che allorquando si veggono avvenire alcune azioni complicate nell' animale, cospiranti ad un effetto utile allo stesso animale, sieno sufficientemente spiegate pur coll' applicarvi il nome di funzione . Una parola di più o di meno non fa la scienza. Se dunque noi consideriamo senza prevenzioni una funzione animale qualsiasi, noi dovremo ravvisare in essa una manifestissima prova dell' unità e della semplicità di un principio sensitivo, che ne è la causa e il regolatore. E di vero, tutte le funzioni animali si riducono in due classi: I - Quelle che hanno per iscopo ed effetto il sentimento fondamentale, le quali appartengono all' istinto vitale. II - Quelle che danno per iscopo ed effetto la sensione attuale, le quali appartengono all' istinto sensuale . Il sentimento fondamentale risulta dai due elementi, del continuo sentito e dell' eccitamento circolare perpetuo. Quindi le funzioni dell' istinto vitale si possono partire così: Classi di funzioni dell' istinto vitale I Classe - Funzioni che hanno per loro termine e scopo il continuo, cioè: 1) tendenti a far sì che il continuo sentito non si diminuisca; 2) tendenti a fare che il continuo sentito si accresca. II Classe - Funzioni che hanno per loro scopo l' eccitamento, tendenti a fare: 1) che l' eccitamento non si diminuisca; 2) che l' eccitamento si accresca; 3) che l' eccitamento non si perturbi e si disordini; 4) che l' eccitamento perturbato e disordinato si riordini. Enumerare le classi delle funzioni dell' istinto sensuale, secondo i loro prossimi effetti e scopi, ci condurrebbe troppo a lungo, perchè dovremmo classificare tutte le maniere di sensioni speciali, di cui è suscettivo il sentimento, e descrivere le azioni istintive che ne conseguono, alle quali dovremmo assegnare quattro o più intenti, cioè: 1 conservare viva la sensione; 2 accrescerla; 3 lottare contro le forze perturbanti l' eccitamento; 4 diminuire il dolore che viene da quella lotta; 5 lottare contro le difficoltà, che a tutti questi intenti si oppongono (mediante l' avversione irosa). E dopo di ciò dovremmo aggiungere la funzione tendente ad armonizzare insieme le sensioni, cavandone uno stato di soddisfazione e di quiete, rimovendo lo stato non soddisfacente ed inquieto. Il qual cenno tuttavia ci sembra sufficiente a dimostrare che ogni funzione ha per suo intento un sentimento da conservare o da migliorare, e che quindi la sua causa non può essere che una attività sensitiva. La natura poi di ognuna di codeste funzioni richiede la semplicità di questa causa. Perocchè ogni funzione è composta di più movimenti simultanei e successivi, tutti cospiranti ad ottenere uno scopo unico; se la causa che li produce tutti non fosse unica e perfettamente semplice, essi non potrebbero essere condotti all' unità, a cui pure sono sempre volti, senza eccezione di sorte. Si aggiunge che la funzione, benchè così molteplice nelle parti corporee che vi s' impiegano, nei movimenti diversi che ciascuna di esse fa, nei momenti in cui li fa, tuttavia si compie per modo che si sente in essa un atto solo; l' animale, in quanto al suo sentimento, non intende fare che una sola cosa, una sola azione, sente di operare con un' attività sola, non ha bisogno per eseguirla che di un solo atto imperativo. Questo, che è ciò che viene attestato all' uomo dalla sua consapevolezza, è anche ciò che esprime il linguaggio, perocchè alla nutrizione, alla respirazione, alla generazione si dà un solo vocabolo; e fa bisogno di riflessioni faticose e proprie solo della scienza, per giungere a spezzare e ad analizzare tali funzioni, distinguendone le parti e gli atti singoli, che entrano a formarle. Il comune degli uomini non le conosce che nel loro tutto, nella loro unità; con questa unità cadono nella sua coscienza; laboriosamente e per isforzo di osservazioni e di meditazioni egli le conosce poi in quelle parti, che sono parti unicamente perchè egli le distingue e così le crea, ma che non esistono separate in natura, non esistono nel sentimento e nell' attività istintiva. Ogni funzione animale, adunque, è una compiuta dimostrazione della semplicità dell' anima sensitiva. Che se si rifletta, di più, che l' animale non opera mai in altro modo che per via di funzioni, cioè di tali gruppi di atti e di movimenti che tendono ad un solo scopo (1), si dovrà conchiudere a ragione che tutto ciò che fa l' animale, niente eccettuato, prova la semplicità del suo principio. Che, dunque, nel sentimento sia contenuta un' attività istintiva locomotrice è un fatto indubitabile; ed è da simili fatti bene accertati che si deve muovere alla spiegazione dei fenomeni. E` del pari certo che questa attività motrice, nascosta nel sentimento, è valevole a spiegare tutti i movimenti animali, tutte le funzioni del corpo umano; e quindi l' introdurre un' altra causa è superfluità, è arbitrio, ed ella poi non sarebbe mai altro che un quid incognito: la quale maniera di procedere è contraria ai più solenni principŒ logici e cosmologici, quali sono quelli della ragione sufficiente e della parsimonia della natura . Taluno opporrà che non sempre, non in ogni azione della sua animalità l' uomo ha coscienza che un sentimento ne sia il principio. A cui noi facciamo due risposte. La prima, che in uno stesso corpo animale possono esservi più sentimenti sensitivi parziali, e quindi più principŒ sensitivi, i quali non sieno che debolmente connessi col principio sensitivo supremo, che è quello che costituisce propriamente l' animale. Ora, non essendo tali principii parziali in istretta connessione col principio supremo, e poco da questo dominati e governati, rimangono poco sensibili all' animale tutte le sensioni, che a quei principŒ speciali immediatamente appartengono; e quindi sembra che anche i diversi sistemi ed organi principali del corpo umano godano d' una vita speciale loro propria, non però così speciale che sia intieramente separata e divisa dalla vita e dal sentimento universale. Quanto meno poi tali sensioni sono subordinate a quel principio senziente, che costituisce l' individuo animale, tanto più si sottraggono alla coscienza intellettiva. La seconda risposta si è che l' obbiezione si fonda in gran parte sopra una falsa supposizione. Di vero, molti confondono la coscienza col sentimento, riguardano quella come un elemento di questo. A costoro è necessario usare tanta meditazione, quanta loro basti a convincersi che coscienza e sentimento sono cose diversissime, la prima appartenente all' ordine intellettivo, e il secondo all' ordine animale. Ora, chi sa bene separare l' elemento intellettivo, onde viene la coscienza, dal sentimento animale, tosto si persuade che possono essere in noi dei sentimenti di cui non siamo conscii, ed anzi che ve ne sono di questi senza numero, cioè tutti quelli a cui non riflettiamo, da cui non è attirata la nostra attenzione intellettiva. Vedrà ben anche che a noi non è egualmente facile di renderci conscii di ogni nostro sentimento, ma di alcuni ci possiamo formare la coscienza senza difficoltà, altri con somma difficoltà possiamo trovarli in noi stessi, dopo averli lungamente cercati nella più profonda quiete del meditare. E tuttavia di quelli stessi, di cui possiamo avere coscienza, non l' abbiamo se non a condizione di formarcela; benchè ci paia di averla abitualmente per la grande prontezza con cui noi ce la formiamo. E non ce la formiamo senza avere una ragione che a ciò ci muove. Per esempio, se trovandoci noi a stretto colloquio con taluno, interrompendo il discorso gli domandiamo subitamente se egli ha coscienza d' aver sulla mano una mosca, egli dirà di sì, ma non perchè l' avesse prima della nostra domanda, quando stava assorto a parlare d' altro, ma perchè mosso dalla nostra interrogazione diede all' istante stesso la sua attenzione all' animaluccio, che gli correva sulla mano. Bastò dunque che noi riscotessimo la sua attenzione, bastò che egli volesse, e la coscienza fu. L' uomo non riflette come questa sua coscienza incominci, e crede di averla sempre avuta, non di aversela pur allora formata. Ora è facile acquistare la coscienza dei sentimenti nuovi, attuali e vivaci; all' incontro è difficile acquistarla dei sentimenti vecchi, abituali e tenui. Eppure dei piccolissimi sentimenti, numerosissimi ed effusi, hanno virtù di trarre in azione i più grandi muscoli. E che cosa è la noia, a ragion d' esempio, se non una fusione di molti piccolissimi sentimenti, di ciascuno dei quali non abbiamo per lo più coscienza? Eppure non è ella che provoca lo sbadiglio, funzione dove tanti muscoli sono tratti in moto, e principalmente il diaframma? Che cosa è il solletico se non anch' esso una funzione di minimi sentimenti, quanti sono i minimi filamenti nervosi pressochè infiniti, che terminano nella cute, di ciascun dei quali non abbiamo coscienza, e però non sapremmo distinguere l' uno dall' altro? E tuttavia quali terribili effetti non produce il solletico, la cui irritazione muove i muscoli dello stomaco al vomito, agisce sul cervello e cagiona movimenti convulsivi, giunge al cuore e lo paralizza, onde la sincope e fin anche la morte? Quante volte non accade che siamo senza coscienza dello stato della nostra pelle rilasciata e traspirante, e rimaniamo pure senza coscienza dell' impressione dell' aria, che la raffredda e costipa, a cui conseguita poscia un turbamento universale dell' economia del corpo, ne rimangono affette specialmente le membrane mucose, e succede l' infiammazione della pleura, o del polmone, o dello stomaco, o degli intestini, o della vescica? Quelle prime sensazioni cutanee sono sfuggite alla nostra coscienza, perchè erano piccolissime, benchè molte ed estese, e noi non vi demmo attenzione. Eppure da quelle sensazioni si deve ripetere gli effetti morbosi, che ne sono conseguitati (1). Nei morbi, dove non si manifestano dolori acuti, si suol credere che non vi siano sensazioni dolorose, perchè si restringe questa espressione a significare sensazioni locali e vive. L' ammalato stesso, se s' interroga, dice di non sentire alcun dolore. Ma il vero si è che non vi è malattia di sorta, senza che l' ammalato soffra dei sentimenti molesti, ne abbia o non ne abbia coscienza. Se un ammalato avesse tutti i sentimenti perfettamente eguali a quelli di un sano, non sarebbe ammalato; un certo malessere, una certa svogliatezza, una inappetenza, un indebolimento muscolare, calore, freddo e infinite altre sensazioni diffuse, universali, risultanti da un infinito numero di piccole sensazioni minori, provano che l' affezione della sensitività non manca mai in nessuna malattia. Quindi se si considera l' attività sensitiva come causa delle simpatie patologiche, si ricorre ad una causa la cui esistenza è dimostrata, e non già ad un essere supposto meramente dall' immaginazione, come è la vitalità di alcuni scrittori, che, senza essere ella stessa sentimento, si suppone causa ad un tempo del sentimento e del movimento. Tutti i fenomeni delle simpatie morbose confermano che queste si debbono attribuire al principio sensitivo, come a loro vera causa. Broussais, e i suoi discepoli Caignon e Guémont, che hanno esteso in parte le sue lezioni sulle infiammazioni, stabiliscono: Che le simpatie morbose si manifestano con maggior forza e prontezza negli individui più sensitivi, e meno negli apatici. E` chiaro per questo stesso che le persone dotate di grande sensitività soggiacciono più facilmente all' ipocondria. Che le funzioni animali si alterano maggiormente, se gli organi affetti sono dotati di più nervi, e però più sensitivi. Che qualora l' irritazione o l' infiammazione si rende dolorosa, le simpatie spiegano maggiore attività. Tutto ciò prova che le alterazioni morbose simpatiche procedono in giusto rapporto coll' affezione del principio sensitivo, e che perciò questa ne è la vera causa. Se i medici non sono ancora pervenuti a cogliere una tale dottrina, essi nondimeno sono già sulla via di pervenirvi, e ogni giorno vi si avvicinano. Barthez considera le simpatie come effetti del principio vitale nei diversi organi del corpo vivente; e lo deduce appunto dal vedere che esse si manifestano in organi anche lontani, senza che possano essere spiegate per una comunicazione meccanica fra essi, la quale non esiste, nè possano essere attribuite al caso come quelle che seguono leggi fisse. Non mancava dunque a Barthez che un passo; gli mancava solo di trovare che il principio vitale è di natura essenzialmente sensitivo, e che la sua energia motrice non è cosa diversa dalla sensitività, non è che una continuazione dell' energia sentimentale. I medici posteriori si sono messi quasi d' accordo nel considerare il sistema nervoso come l' istrumento generale di tutte le simpatie fisiologiche e patologiche, naturali e artificiali, che si manifestano nel corpo vivente. Brachet nella sua bella opera premiata, Sulle funzioni del sistema nervoso ganglionare (1.26), rispondendo a quelli che vorrebbero attribuire le simpatie al sistema cellulare, perchè sparso in tutto il corpo, dice: [...OMISSIS...] . Quindi egli divide le simpatie in cerebrali, ganglionari e miste . E qui osserverò essere un errore il credere che il sistema ganglionare sia scevro al tutto di sentimento, quando egli è anzi propriamente l' organo delle passioni. Noi abbiamo distinto i sentimenti in figurati e non figurati; queste due classi rispondono ai due sistemi nervosi: il cerebrale è l' organo dei sentimenti figurati, e il ganglionare quello dei sentimenti non figurati; il sentimento non manca mai. Di più, il sistema ganglionare comunica col sistema cerebro7spinale; le due serie di ganglii laterali alla colonna vertebrale comunicano spesso e direttamente coi nervi cerebrali e rachidei; ed i ganglii centrali anastomizzano con un paio di nervi cerebrali, cioè col nervo pneumogastrico, e sono poi in continua comunicazione coi ganglii laterali, per mezzo dei quali comunicano di nuovo col sistema cerebrale. Quindi il sistema cerebro7spinale non si può credere mai interamente straniero alle impressioni ricevute dal sistema ganglionare. E così forse non esiste una sensitività veramente ganglionare; onde la classificazione delle simpatie, fatta da Brachet, si dovrebbe probabilmente restringere a due soli membri, cioè alle simpatie cerebrali e miste, suddividendo poi questa seconda classe (2). A conferma delle quali osservazioni sull' intervento del sistema cerebrale in tutte le simpatie, giova l' opinione di Barbier e di altri fisiologisti sulla maniera di operare dei rimedi. Essi sostengono che è sempre nell' apparato cerebrale che si deve cercare il secreto della trasmissione della potenza medicatrice, di cui sono dotate varie sostanze, massime parlando di quelle che, non operando coll' intermezzo della circolazione, manifestano più prontamente le simpatie, agendo immediatamente sull' organo gastrico (1). Ritenuto dunque che nella serie dei fenomeni animali che si succedono nelle simpatie, primo di tutti e causa degli altri è il sentimento, molti fatti ricevono spiegazione convenientissima; e questa è ella stessa una riprova della nostra proposizione. Cominciamo dalle simpatie, che si manifestano fra gli organi locati simmetricamente alle due metà verticali del corpo umano, come gli occhi, gli orecchi, le nari, le mani, le reni, ecc.. E` notorio che le affezioni dell' uno di questi organi si accomunano all' altro; per esempio, se l' uno dei nervi ottici è affetto, l' altro contrae sovente la stessa affezione; la storia dell' amaurosi ed altre specie di cecità lo comprovano. L' osservazione, che noi vogliamo fatta su di ciò, è la seguente: Quantunque ciascuno degli organi dei sensi simmetrici, stimolato separatamente in modo conveniente, rechi all' anima la sensazione, l' anima tuttavia non ammette che una sensazione sola, quando sono stimolati tutti e due contemporaneamente. Questo fatto ci fornì una prova della semplicità dell' anima (2) e della sua distinzione da ogni organo corporale, sicchè la molteplicità degli organi, collocati in diverse parti dello spazio, non produce molteplicità in lei, perchè è immune dallo spazio; in altre parole, la diversità delle sensazioni nell' anima non è fondata nella diversità degli spazi occupati dagli organi sensorii, ma solo in differenze sensili, ossia appartenenti all' essenza delle sensazioni stesse, le quali non hanno a far nulla colle differenze degli spazi. Ora, se è vero che l' attività motrice animale sia inerente al sentimento, come noi sosteniamo, dove vi è una sola sensazione, ivi dovrà esservi una sola attività motrice. E questo accade appunto nel caso nostro. Come i due occhi non danno ordinariamente all' anima che una sola sensazione visiva, così l' anima agisce su entrambi questi organi con un atto solo, e vi produce i medesimi effetti. Per questo i movimenti degli occhi sono naturalmente associati, il che si può chiamare una simpatia fisiologica; per questo ancora l' affezione morbosa di un occhio bene spesso è risentita dall' altro, il che si può chiamare una simpatia patologica . Un discorso simile può applicarsi a tutte le parti doppie e simmetriche del corpo umano (1); le quali divengono altrettante prove della semplicità del principio sensitivo. Si opporrà che se la cosa fosse così, le simpatie morbose fra gli organi simmetrici del corpo umano non dovrebbero mancar mai, e pure talora non si avverano. Rispondo, venir meno la forza di questa obbiezione, tostochè si consideri che gli organi simmetrici non danno all' anima nè sempre, nè necessariamente, una sola sensazione; si avvera solo allorquando le azioni sensibili degli organi simmetrici sieno perfettamente eguali, a tal che esse non differiscano se non per lo spazio diverso in cui sono collocati gli organi, pei quali spazi diversi avviene che le azioni sieno due di numero, benchè identiche di forma. In questo solo caso il sentimento, che ne prova l' anima, è unico, a cagione che la differenza degli spazi occupati dai sensorii non si riporta all' anima, ma solo lo spazio delle singolari sensazioni; e questa unicità è fondata nella natura del principio sensitivo, e non in qualche abitudine da lui acquisita. Ma si avvera sempre la condizione che l' azione sensibile dei due organi sia identica di forma, e non differisca che di numero? No certamente. Ora, da che dipende che ciò avvenga più o meno spesso? Dall' anima stessa in grandissima parte, la quale tende ad avere un sentimento solo dai due organi, chè due sentimenti la confonderebbero nel suo operare, operando essa alla guida dei sentimenti. Per questo ella muove gli occhi di perfetto accordo, giacchè se ella volgesse l' uno da una parte e l' altro dall' altra in modo da vedere doppi gli oggetti, gliene sorgerebbe una molesta contraddizione e lotta colle sensazioni del tatto, il quale le porge oggetti semplici, e così nè saprebbe più a cui credere, nè saprebbe come muovere le sue membra in relazione cogli oggetti esterni, dei quali ella abbisogna. Giovandole dunque sommamente pei bisogni e necessità della vita che i sensorii doppi operino con tale uniformità da suscitare in essa un' unica sensazione, ella colla spontaneità sua li dirige a tale intento, e la sua attività motrice dei medesimi acquista tale un' abitudine di così adoperarli che la loro azione uniforme sembra poi naturale anzichè abituale . Infatti può ben venire all' uomo il capriccio di fare il contrario, può sforzarsi per voglia di esperimento a vincere l' abitudine ed anche riuscire a divergere le pupille, ma questo non accade mai nelle bestie, chè il principio sensitivo non ammette tali capricci e fa sempre ciò che gli conviene. L' azione dunque simultanea e uniforme degli organi simmetrici è dovuta all' abitudine; ma è dovuto alla natura che, data questa azione simultanea e simmetrica, sorga nell' anima un unico sentimento. Se dunque la simpatia degli organi simmetrici conviene riferirla all' abito, che ha contratto il principio sensitivo di dirigere in questo modo la propria sensitività ed attività conseguente, non fa più meraviglia che ella ammetta alcuna eccezione; il che s' intende maggiormente, ove si rifletta che l' abito stesso non agisce se non avverate certe condizioni, date certe opportunità. L' abito suol essere una facoltà di operare così precisa e determinata che la minima differenza nelle circostanze arresta la sua operazione, come si scorge nell' abito della memoria, il quale aiuta l' uomo a recitare un discorso, ed una sola parola sbagliata o intramessa è bastevole a fargliene perdere il filo. La legge della simpatia fra gli organi simmetrici, nascente dall' unicità del sentimento che essi producono, e dalla unicità dell' attività sensitiva che da quel sentimento procede, si estende a molte altre classi di simpatie, che da quella legge ricevono luminosa spiegazione. Primieramente rimangono spiegate le simpatie tra quegli organi, che hanno somiglianza di struttura. Infatti, conosciuta la legge accennata, che « se l' affezione sensibile dei due organi è eguale perfettamente di forma, il sentimento che corrisponde ad essa affezione è unico, perchè la differenza di spazio e di località degli organi stessi non è riportata nel sentimento, e perciò le affezioni degli organi eguali in esso sentimento si compenetrano e si unificano », conosciuta questa legge, si hanno tosto due altre leggi conseguenti a lei, ed importantissime, le quali sono: Che prima della sensazione essendovi sempre il sentimento fondamentale, ogniqualvolta vi saranno due o più organi sensibili di costruzione perfettamente eguale, il sentimento fondamentale rispondente ai medesimi non sarà doppio o molteplice, ma unico, come se non esistesse che un organo solo sensibile; ora, dire sentimento fondamentale unico è quanto dire istinto, ossia attività fondamentale unica. Che se in due o più organi di struttura eguale si eccita un' affezione disuguale, a queste affezioni disuguali risponderanno altrettante sensioni o modificazioni del sentimento fondamentale; ma se all' incontro l' affezione negli organi di struttura eguale è anch' essa eguale, sarà unica la sensione corrispondente, si avrà un' unica modificazione del sentimento fondamentale. Ora, questa eguaglianza di affezione sensibile si avvera spesso negli organi di struttura uniforme. I fisiologi e i patologi osservano che le simpatie fra gli organi uniformi non si manifestano se non a condizione che le prime loro affezioni, le affezioni dalle quali la simpatia viene suscitata, sieno eguali. [...OMISSIS...] . E reca in prova il metodo di cura che usava Lieberkünn a sanare il polmone dell' idrope, il quale determinava, per mezzo dei pediluvii, l' acqua infiltrata nelle cellule del polmone a recarsi nelle estremità inferiori, e guariva poi l' edema delle gambe facendo uso di rimedi fortificanti. Continuiamoci alla spiegazione di altri fenomeni. Se un tessuto è perfettamente eguale, deve rispondere ad esso un sentimento fondamentale unico, e ad un unico sentimento una unica azione animale. Dunque l' atto dell' istinto vitale, che agisce in tutta l' estensione di un tessuto eguale, sarà il medesimo. Quindi fra i tessuti eguali del corpo umano dovranno manifestarsi necessariamente simpatie, giacchè l' affezione, che si produce in una parte di tale tessuto, modifica quella attività unica che dà la vita a tutto intero il tessuto, abbracci questo un solo luogo del corpo umano o si ripeta in molti. Ed ecco spiegata quella legge patologica, che fu reputata una delle più belle scoperte di Broussais, la quale si è che « quando una irritazione dura lungamente in un organo, i tessuti analoghi a quello dell' organo sofferente si vanno poco a poco disponendo a contrarre le stesse affezioni ». Così accade che le infiammazioni croniche della pleura si propaghino facilmente al peritoneo; quelle della membrana mucosa dello stomaco e degli intestini si propaghino alla membrana che veste l' interno dell' apparato polmonare; l' affezione di una parte del sistema fibroso nel reumatismo e nella gotta sia seguita dall' infiammazione successiva di tutte le altre; le infiammazioni dei ganglii linfatici di una parte del corpo si comunichino spesso a tutto il loro sistema. E qui si consideri la differenza che vi è tra due tessuti eguali e due organi eguali, ma di varie parti e di vari tessuti composti, come sarebbero i due occhi. Questi organi complicati ed artificiosi ammettono più varietà d' affezioni; i tessuti eguali ne ammettono meno; quindi di lor natura i due tessuti più facilmente si trovano all' unissono che non i due organi. E poichè ogni affezione sensibile diversa suscita una diversa attività del principio sensitivo, quindi il sentimento fondamentale di due organi, che riceve modificazioni più varie, agisce anche più variamente che non faccia il sentimento fondamentale di tessuti eguali. Ancora, acciocchè vi sia simpatia fra due organi si richiede che la loro affezione primitiva sia eguale, condizione che nei tessuti si avvera più facilmente, essendovi meno cagioni che rendano disuguali le affezioni loro primitive, onde infine emana ogni attività. Insomma, qualora il sentimento fondamentale, comune ai due organi o ai tessuti eguali, viene modificato in quelle parti appunto rispetto alle quali egli è unico, la simpatia incontanente si manifesta. Applichiamo la stessa dottrina alle funzioni. Che cosa è che muove l' animale ad esercitare una funzione, a cui concorrono, simultaneamente o successivamente, molti organi e molti movimenti diversi? Un unico sentimento. Dall' unità del sentimento nasce l' unità della funzione; l' unità del sentimento è quella che fa giocare più organi armoniosamente, a tal che i loro movimenti cospirino a produrre ciò che il sentimento animale ricerca, la sua conservazione e la sua perfezione. Qual altro sentimento se non quello della molestia e dell' affanno che si prova alla mancanza del respiro, e del piacere annesso alla respirazione, fa sì che l' animale respiri? e che per ottenere questo unico effetto egli tragga in movimento, con somma armonia e con metro opportuno, non solo l' apparato polmonare, ma il cervello ed il cuore? Onde mai l' animale è mosso ad adoperare sì opportunamente tutte le parti alla lor volta dell' apparato digestivo, con tutti i vasi inservienti alla nutrizione, se non dal sentimento incomodo della fame e dal sentimento piacevole dell' alimento? (1). L' unicità dello scopo dirige in tutte le funzioni più complicate del corpo umano i molteplici movimenti delle molteplici parti, che concorrono ad eseguirle, e questo unico scopo è tutto sentimentale; è sempre un sentimento agente quel che fa tutto. Ora, dove vi è un sentimento unico, vi è anche un' unica azione, benchè in diverse parti si manifesti. Non è dunque meraviglia se fra queste diverse parti si scorgano simpatie non meno fisiologiche che patologiche; giacchè se l' azione unica viene modificata ed affetta, forza è che se ne veggano ad un tempo gli effetti in tutte quelle parti in cui ella si espande; benchè queste diverse parti la ricevano diversamente, sia perchè diversamente viene loro impressa, come esige l' armonia delle loro operazioni, sia perchè esse sono diversamente costrutte e diversamente disposte. E quest' ultima osservazione è importante, perchè conduce a stabilire potersi manifestare in diversi organi affezioni diverse, che meritano tuttavia l' appellazione di simpatiche, appunto perchè procedenti da una medesima azione del principio sensitivo. Ma oltre queste simpatie, che si presentano ad osservare nei vari organi concorrenti ad una stessa funzione, ve ne sono delle altre fra più funzioni eguali, cioè a dire fra organi destinati a funzioni numericamente diverse, ma della stessa natura. Così Barthez osserva che gli organi dotati della facoltà di operare secrezioni di umori analoghi mostrano avere fra sè una speciale simpatia: tali sarebbero l' utero, le glandule mammillari, la laringe, ecc.. Certo, a spiegare il perchè, eccitata un' infiammazione in un organo, ne succeda un' altra in un organo lontano senza lesione delle parti intermedie, non può bastare la comunicazione dei vasi sanguigni, giacchè in tal caso l' infiammazione dovrebbe propagarsi, senza interruzione, lungo i vasi. E` dunque mestieri ricorrere alle leggi dell' unico principio vitale7sensitivo, che dirige tutta l' economia, e però molto opportuna cade la legge, di cui parliamo, che « dove la funzione di due organi è simile in modo da risponderne nell' anima un medesimo sentimento, anche l' attività dell' anima si manifesta eguale in due o più luoghi ». E` da considerarsi accuratissimamente che ogni funzione, come dicevamo di sopra, si esercita per un' attività dell' anima, messa in un unico sentimento di molestia e di piacere. Dunque se le due funzioni, che in parti diverse si compiono, sono eguali di natura e solo differiscono per lo spazio diverso in cui si esercitano, il sentimento, ond' esse partono, dovrà essere unico, postochè l' osservazione dimostra che nel sentimento animale non si riportano le differenze di mero spazio che abbiano gli organi, le funzioni ed affezioni, ma si riportano solo le differenze che rendono diverse di natura le funzioni e le affezioni. Esponemmo la lotta fra l' istinto vitale e la materia bruta; vi è lotta anche fra l' istinto vitale e l' istinto sensuale? L' affermarlo parrebbe consentaneo all' aver noi dedotte le forze medicatrici della natura dall' istinto vitale, e le forze perturbatrici dall' istinto sensuale (1). E che vi sia apparenza di lotta l' osservazione l' attesta senza alcuno equivoco. Ma questa lotta è ella forse non più che apparente? Come fu tentata la conciliazione fra le forze brute e l' istinto vitale, non si potrebbe forse tentare anche quella dei due istinti? Se pare strano che nella natura si dia una lotta radicale, non vi è qualche cosa di più strano ancora nel concetto di due istinti esistenti nello stesso animale, che combattono insieme, di due istinti che non son altro se non attività del medesimo principio semplicissimo? Questa questione riesce a quella degli errori della natura , dei quali lo Stahl scrisse una celebre dissertazione, intendendo la parola natura nel senso d' Ippocrate, sulle vestigia del quale Galeno la definì [...OMISSIS...] (2) [...OMISSIS...] la quale definizione, nella sostanza, è la definizione della parola nel senso proprio e comune, che il popolo le attribuisce. Ora, il parlare di questa questione importante cade opportuno in questo luogo, dove trattiamo delle simpatie da spiegarsi colla semplicità del principio sensitivo e colle leggi naturali del suo operare. E` dunque vero che la natura erri, e che da questi errori nascano i morbi del corpo umano? E se vogliamo così esprimerci, gli errori della natura saranno spiegati col solo attribuirli, come facevano gli animisti, alla precipitazione dell' anima esacerbata, alla diffidenza dell' anima atterrita, alla incostanza dell' anima da patemi agitata? (1). Rimarrebbe in tal caso a spiegarsi questa stessa precipitazione, diffidenza ed incostanza, poichè tali difetti non possono costituire la natura di nessuna cosa; eppure le operazioni dell' anima sono determinate dalla sua natura. Noi diremo piuttosto che la natura opera secondo leggi infallibili e necessarie, che ella non aberra giammai da esse, che quelli che noi chiamiamo difetti o errori della natura non sono tali in sè, ma secondo certe relazioni da noi contemplate, che ci generano le opinioni; e che insomma l' operare della natura è il medesimo, sì quando noi giudichiamo che ella operi rettamente, e sì quando, in virtù delle nostre opinioni, noi le attribuiamo degli errori. Investighiamo, dunque, la ragione degli errori apparenti della natura animale e della lotta, pure apparente, che talvolta insorge fra due istinti, il vitale ed il sensuale. Da ciò che diremo apparirà che l' istinto vitale, fonte delle leggi medicatrici della natura, è talora limitato nella sua tendenza benefica dalle forze brute; e che l' istinto sensuale all' incontro perturba e disordina direttamente la natura animale, senza aberrare tuttavia punto nè poco dalle sue leggi. Nella distinzione tra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi si trova onde spiegare in qual modo l' istinto sensuale disordini la natura animale, senza aberrare dalle proprie leggi, che egualmente mantiene in ogni sua operazione. Abbiamo veduto che quelle due serie parallele di fenomeni non hanno somiglianza fra loro. Quindi l' uomo non potrebbe col suo pensiero dedurre a priori gli uni dagli altri; l' anima poi non è che sentimento, e niente cade nella sua coscienza, che prima non cada nel suo sentimento. Dato dunque che l' anima, esperta di un fenomeno soggettivo, non avesse avuto mai esperienza del fenomeno extra7soggettivo corrispondente, ella ignorerebbe affatto questo secondo, nè potrebbe conoscerlo per quantunque riflettesse sul primo, anzi non potrebbe neppure sospettarne l' esistenza. Conséguita che la cognizione, che noi abbiamo del rapporto che hanno fra loro le due serie di fenomeni indicate, si acquista colla sola esperienza; e che se noi al presente dal fenomeno soggettivo possiamo passare col pensiero al fenomeno extrasoggettivo, è perchè l' esperienza ci ha mostrato tante volte quella coesistenza. Ammaestrati così, noi giudichiamo dell' esistenza del fenomeno extra7soggettivo da quella del soggettivo con somma prontezza, per l' abitudine di formare tali giudizi. Il che si renderà più chiaro da un esempio. E` cosa notoria che colui, al quale fu amputata una gamba, soffre dei dolori al luogo della gamba che non ha più. S' inganna riferendo questi dolori a quel luogo; ma onde gli viene così erroneo giudizio? Certo dalla prontezza colla quale la mente dal fenomeno soggettivo del dolore argomenta abitualmente al fenomeno extra7soggettivo della località della gamba. Che se egli non avesse mai precedentemente veduta, nè toccata la sua gamba, nè mossa, non avrebbe saputo di avere la gamba; nè n' avrebbe conosciuta la forma esterna, nè la località in relazione alle altre parti del corpo, benchè ne avrebbe avuto il sentimento fondamentale, scevro delle forme relative allo spazio misurato, che si estende oltre il suo corpo. Questa località, che involge relazione collo spazio esterno misurato, gli si rese nota coll' esperienza esterna od extrasoggettiva, esperienza totalmente diversa e dissomigliante da quella soggettiva del dolore, che egli è consapevole di patire. Ma cadendogli da una parte sotto gli occhi e sotto il tatto la sua gamba, che così divenne a lui fenomeno extrasoggettivo, e d' altra parte sentendo il dolore, fenomeno soggettivo, egli potè più volte nella sua vita confrontare insieme questi due fenomeni e riconoscere che il dolore soggettivo cadeva in quella località extra7soggettiva; la quale osservazione non avrebbe potuto mai fare, se in tutto il corso di sua vita non avesse avuto che un solo dei due fenomeni, cioè o il solo dolore o la sola percezione extrasoggettiva della gamba. Avendo dunque avuto i due fenomeni, e conosciuto che l' uno rispondeva alla località dell' altro, egli ne formò un giudizio abituale e si persuase che l' uno non potesse star senza l' altro; quindi, anche dopo amputata la gamba, riferisce il dolore a quella località extrasoggettiva, che rimane nella sua immaginazione. Il fenomeno extrasoggettivo adunque, che accompagna il fenomeno soggettivo, non è compreso nel primo, nè è della natura del primo, ne è un effetto adeguato al primo. Ora, quale è l' azione propria dell' istinto sensuale? Questa azione sta racchiusa nel solo fenomeno soggettivo. L' abbiamo detto, l' attività del sentimento consiste unicamente nel potere di atteggiarsi e di adagiarsi nel modo a sè più naturale; e, consistendo la sua natura nel piacere, il modo a sè più naturale è il modo più piacevole, più comodo, più facile, men faticoso, men doloroso, tutti epiteti che vengono sempre a dire un modo che più tien del piacevole. Ciò posto, l' istinto sensuale non intende a produrre fenomeni extrasoggettivi, che sono fuori della sua sfera; ma pure questi seguono quelli come una necessaria appendice. Quale dunque è il legame dei fenomeni extrasoggettivi coi soggettivi rispetto al buono stato dell' animale? I fenomeni extra7soggettivi hanno un tal legame e corrispondenza coi fenomeni soggettivi che di via ordinaria, quando succedono a questi, giovano al buono stato dell' animale e contribuiscono a conservarlo e migliorarlo. Ma una così felice corrispondenza patisce eccezioni procedenti da certi limiti della natura animale; quindi più volte accade che i fenomeni extrasoggettivi, conseguenti ai soggettivi, riescano all' animale pregiudicevoli più o meno, ed anche mortali. L' istinto sensuale adunque non erra mai, se si considera la sua azione quale è entro la propria sfera; mantiene sempre la sua propria legge di dare al sentimento l' atteggiamento e l' azione più piacevole fra tutte che gli sono possibili, cioè che il sentimento stesso può avere (1). Ma egli non può impedire che ne succedano poi i fenomeni extrasoggettivi corrispondenti a quella sua azione, sieno essi utili o sieno dannosi; poichè tali effetti non entrano nella sua sfera d' azione. Quindi è che, allorquando il sentimento viene eccitato da qualche stimolo piacevole o doloroso, l' istinto sensuale che tosto si muove (benchè si muova sempre colla stessa legge), determini dei movimenti talora utili all' animalità, talora dannosi. Quando tali movimenti sono utili, si suol dire che la natura opera con sapienza; quando sono disutili, si suol dire che ella prende errore. A ragion d' esempio, una onesta e moderata gioia conferisce alla buona salute, aumenta le forze dell' istinto vitale, aiuta l' energia delle funzioni; una gioia eccessiva cagiona l' apoplessia, come anni sono avvenne nella mia patria, che quando fu vinto il partito di rifondere le campane di San Marco, un cittadino zelantissimo ne morì apopletico del contento (1). L' istinto sensuale diede morte all' onest' uomo; il sentimento gaudioso, acceso nella sua parte razionale, fu stimolo al suo sentimento ed all' istinto che ne procedette, il quale occasionò con veemenza tali movimenti nella macchina extrasoggettiva da accelerare il corso del sangue, spingendolo fino a schizzare dai vasi e diffondersi così in qualche parte del cervello (2). L' istinto sensuale non intende a questo effetto, che a lui è straniero; ed avvenne pel nesso sostanziale, che il moto extrasoggettivo tiene col sentimento soggettivo. L' anima umana non è ella fatta per la felicità? Non è ella fatta per la gioia? Quanto si aumenta il grado del suo godimento, non pare che altrettanto si accresca la perfezione del suo stato? Come dunque può darsi un grado di gioia e perciò di perfezione, che il corpo animale non possa sopportare, e a cui consegua la distruzione dell' uomo? Non si oppone un tale disordine al concetto della natura umana perfetta? O conviene dire che il corpo non è proporzionato alle funzioni naturali dell' anima, non è strumento a lei conveniente, quando le impedisce l' altezza e la vivezza del suo godimento; ovvero è da concedere che vi è un difetto nell' anima stessa, troppo precipitosa e veemente nell' operare, sicchè per cupidità di smoderato godere uccida quel composto di cui ella è la parte principale. Nell' uno e nell' altro caso si scorge che la natura umana è al presente difettosa; nè così potrebbe mai essere stata creata da Dio, le cui opere sono perfette. Insomma qui vi è una delle molte prove dell' originale decadimento, che non privò soltanto l' uomo della grazia divina, ma nella stessa natura mise quel disordine, che per tutto si manifesta (3). Rimettiamoci sul nostro cammino. Se qualche piccolo corpo eterogeneo entra nella trachea, è incontanente provocata la tosse. Lo scopo della natura è manifesto; ella vuol cacciarne quel corpicciolo eterogeneo e nocivo. Ma si distingua lo scopo della natura, quale opera della sapienza creatrice, dallo scopo dell' istinto sensuale, che mette in movimento i muscoli e così produce quella espirazione violenta, sonora, frequente, che si chiama tosse. La sapienza del Creatore ha certo precedentemente accordata l' azione dell' istinto sensuale coi movimenti muscolari, che servono ad esportare i corpicciuoli, che invadono il canale della trachea ed il polmone. Ma l' istinto sensuale non ha un tale scopo, che è fuori della sua azione; egli opera unicamente per liberarsi dalla molestia sensibile, per sottrarsi alla sensazione incomoda, per ammodarsi, come dicevamo, a suo agio. L' effetto del cacciamento del corpo eterogeneo viene di conseguente, e solo per la circostanza che l' organismo determina questo effetto. Quindi la tosse nasce anche senza la presenza del corpo, o dopo che il corpo è rimosso o quando non si può rimuovere. Di vero, data qualsiasi irritazione alla trachea, dato un umore corrodente che si porti su lei o sul polmone, o dato che s' infiammi quella membrana, la tosse ha luogo egualmente senza la presenza di alcun corpo straniero. E in tali casi, lungi che la tosse giovi allo scopo di espellere la causa dell' incomoda sensazione, ella anzi l' accresce, producendo alla parte irritata maggior concorso di umori e di sangue, aumentando talvolta l' infiammazione fino alla rottura dei vasi ed alla tisi. Direbbesi un errore della natura; ma l' istinto sensuale non ha fatto che ubbidire alla sua immutabile legge, per la quale in conseguenza dello stimolo tenta di operare nel modo a lui più confacente. Medesimamente, se la trachea è tocca da un corpo che si ritira subito, la tosse avviene, benchè non vi sia più la presenza del corpo. L' istinto dunque, che produce la tosse, non tende propriamente all' effetto extra7soggettivo di cacciare il corpo; ma il corpo ne è cacciato, se egli vi è tale da poter essere cacciato, come un effetto conseguente all' operare dell' istinto. Certi odori disgustosi producono il vomito (1); lo stesso può fare un sapore; lo stesso il titillamento dell' ugola. Distinguasi anche qui l' opera dell' istinto sensuale dall' effetto conseguente al rovesciamento del ventricolo. Questo effetto è certo preordinato dalla sapienza del Creatore, ed è principalmente quello di liberare il ventricolo dalle materie indigeste e nocive, che l' aggravano. Fu quella sapienza che collocò l' organo dell' odorato e del gusto, i nervi ed i muscoli opportuni in tali situazioni e connessioni reciproche che ne dovesse avvenire che, ogniqualvolta lo stomaco è aggravato, agendo l' istinto sensuale, venissero i muscoli dell' addome ed il diaframma a contraddistendersi, obbligando le savorre a riascendere nell' esofago, nella faringe e nella bocca. Ma i detti odori e sapori nauseosi, e il detto solleticamento dell' ugola rovesciano egualmente lo stomaco, quando è vuoto; non ha bisogno nessuno di vomitare, e il vomito gli nuoce. Sembra allora di nuovo che la natura s' inganni; ma il fatto si è che tutti questi effetti avvengono, per così dire, all' insaputa dell' istinto sensuale, il quale, racchiuso nella sfera soggettiva sentimentale, vi mantiene le sue leggi, e quei movimenti e fenomeni extra7soggettivi sono un conseguente del suo operare, a cui l' istinto non perviene. Ora consideriamo in che precisamente consista il preteso errore della natura. Se qualche umore irrita il polmone, i bronchi, o la trachea, da nascerne la tosse, l' errore non istà nel supporre la presenza d' un corpo estraneo, ma nell' operare in modo come se questo potesse esserne cacciato colla violenza di quella espirazione; poichè in qualsivoglia irritazione, infiammazione o sensazione molesta vi è sempre veramente un corpo inopportuno, fuor di luogo (1), il quale agisce nel nostro sentimento, vi è una forza extrasoggettiva inesistente nel sentimento soggettivo. Ma quella forza straniera venuta nel nostro sentimento non è tutto il corpo esterno, tutta intera l' attualità di lui, ma una porzione. Se questa porzione di forza, entrata nel nostro sentimento soggettivo, è a lui molesta, nasce il dolore e lo sforzo di espellerla. Quindi lo sforzo dell' istinto sensuale tende veramente a cacciare la forza estranea, entrata inopportunamente nella sfera del sentimento, non tende a cacciare il corpo estraneo, che è troppo più. In questo senso si può dire che l' istinto sensuale reagisce contro una forza extra7soggettiva. Tuttavia i movimenti che egli produce, e che sono i mezzi disposti dalla natura acciocchè egli possa liberarsi dal nemico, non sono nella sua sfera, e però non possono essere da lui misurati, nè egli può presentirne l' utilità o il danno, che possono arrecare all' organizzazione. Che se dai movimenti grandi e muscolari, occasionati dall' istinto sensuale, noi vogliamo passare ai movimenti piccoli e tonici, specialmente dei vasi, intenderemo come il detto istinto ora li provochi con utilità, ora con danno. Che la natura tenda a liberarsi dai mali con dei movimenti opportuni fu osservato in tutti i tempi, e lo stesso Ippocrate scriveva: [...OMISSIS...] ; e Galeno con una frase fors' anche troppo estesa aggiunge che [...OMISSIS...] ; e ancora che [...OMISSIS...] . Questo dominio del principio animale a beneficio dell' animalità fu detto dallo Stahl «autokratia» naturae; sulla quale scrisse una dissertazione, che si può anche oggidì leggere e con sommo frutto meditare. Ma per ridurre questa sublime sentenza entro i suoi giusti limiti, non conviene dimenticare quei mali che l' azione del principio sensuale, benchè in sè stesso tendente sempre al bene e obbediente alle sue leggi, trae dietro di sè indirettamente. Le cose da osservarsi in questo fatto sono innumerevoli, eccedono il nostro sapere; e gli stessi medici più celebrati sembrano ancor lontani dall' avere adeguata colle loro, per altro commendabilissime ricerche, l' immensa natura. Restringendo dunque noi il discorso a poco, moveremo da un punto di fatto certo, e sarà quello che abbiamo toccato di sopra, che qualora in una parte del corpo sia data un' irritazione molesta, l' istinto sensuale si pone in movimento, si dimena, per così dire, e si dibatte. L' irritazione, secondo noi, è sempre accompagnata da sentimenti più o meno vivi, più o meno distinti, quantunque non sia egualmente facile acquistare la coscienza di tutti, perchè o tenui o indistinti, o sì eccessivi che tolgono l' attenzione della mente. Tali sentimenti sono locali, e noi ne vedremo poco appresso la ragione. Ci basta qui avvertire che questa località, secondo l' intenzione della natura creatrice, era necessaria a dirigere la virtù istintiva dell' animale tendente a propulsare l' irritazione. Che se talora avviene che l' irritazione di una parte sviluppi un dolore più intenso in un' altra, e la maggiore attività dell' istinto si diriga forse verso la parte addolorata, quasi illudendosi; è da vedere anche qui se questo sia un vero errore, a cui soggiace l' istinto sensuale, o se l' azione sua, benchè diretta al luogo del dolore simpatico, ivi non finisca, ma si rifletta alla vera sede della primitiva irritazione. Il che potranno decidere i medici osservatori. Intanto facciamoci gran caso di questo fatto innegabile, che l' istinto sensuale dirige, generalmente parlando, la sua forza insorta al luogo irritato, sollecito di cacciar via lo stimolo irritante. Ma quale è la forma, che prende questa azione propulsatrice? Una tal forma dipende tutta dall' organizzazione, cioè dagli organi che l' istinto deve mettere in movimento per propellere lo stimolo e liberarsi dall' incomoda irritazione. Infatti, se egli non avesse organi, mancherebbero i subbietti del movimento. Avendo egli organi, è chiaro che il movimento riceve qualità e forma da questi. Se l' organo è continuo, si continuerà il moto; se è contiguo, parteciperà di qualche scotimento. Un moto comunicato ad un corpo rotondo è diverso da quello comunicato ad un corpo prolungato. Ma ciò non basta. E` la mistura dell' organo, è la sua mobilità vitale che modifica principalmente i movimenti intestini in esso espressi. Finalmente le forze meccaniche, fisiche e chimiche, in quanto mantengono qualche azione indipendente dal sentimento dell' animale, possono opporre resistenza al pieno effetto dell' istinto. Vi sarà dunque differenza fra i movimenti dei nervi secondochè i loro fascicoli saranno più o meno voluminosi, le fibre più o meno sottili, forniti o privi di gangli, annodati in plessi o disgiunti; e parimenti secondochè comunicheranno ad un numero minore o maggiore di muscoli a muscoli di grandi dimensioni ovvero a fibre muscolari assai minute, ecc.. A ragion d' esempio, se l' irritazione è negli intestini, l' azione dell' istinto sensuale trae seco l' effetto del movimento peristaltico, volto a liberarsi dalle feccie irritanti, e a tal uopo chiama in aiuto lo stesso diaframma, muscolo grande e forte, i cui movimenti sono necessari a vincere la resistenza dello sfintere. All' incontro, l' irritazione sia quella prodotta da un freddo sulla cute. L' istinto sensuale suscita tosto dei movimenti diretti a cacciare lo stimolo. Ma la cute e le membrane sottocutanee non hanno grandi muscoli da mettere in movimento, e però i movimenti prodotti dalla sua azione sono molti e minimi, e hanno sede principalmente nei minimi vasi, da cui la cute e le parti adiacenti sono per ogni verso, a guisa di minutissima rete, percorse. E` manifesto che l' istinto sensuale esercita in tal caso la sua facoltà motrice per mezzo del sistema gangliare, dal quale dipende l' organo cutaneo. In tutte queste azioni dell' istinto sensuale egli non ha mai altro scopo prossimo che di liberarsi dall' irritazione, in quanto ella si trova nel sentimento; ma a questi suoi sforzi tien dietro un altro effetto, legato ad essi dalla sapienza creatrice; effetto fuori del sentimento e dell' istinto, a cui l' istinto non tende, perchè non lo sente, e questo è il movimento considerato nelle sue condizioni extra7soggettive, il quale ha un fine benefico nella mente creatrice, quello di respingere i corpi stranieri, che guastano l' organizzazione. Ora questo benefico effetto non sempre si ottiene per varie cagioni, indipendenti dalle leggi dell' istinto sensuale, che pur sono sempre fedelmente osservate. E questo è ciò che si chiama poi errore della natura medica. Che dunque l' intenzione della sapienza creatrice, nel legare i detti movimenti extra7soggettivi all' attività dell' istinto sensuale, sia benefica, sia quella di dare al corpo animale un modo di respingere da sè gli agenti nocevoli, si raccoglie anche da ciò, che non solo i grandi movimenti muscolari che producono la tosse, il vomito, ecc., tendono a cacciare la causa dell' irritazione, ma anche i movimenti minimi tendono al fine stesso col promuovere le escrezioni. Nel qual fatto è pure ammirabile la sapienza della natura nell' aver fabbricati i vasi di una sostanza forte ad un tempo e sommamente elastica. Poichè da questa mirabile elasticità in prima dipende la direzione più o meno accelerata degli umori; chè, giusta le leggi idrodinamiche, ivi si deve accelerare il corso del fluido dove il canale si restringe, e rallentare ove si dilata, acciocchè per ogni sezione nello stesso tempo passi la stessa quantità di fluido; e per le stesse leggi è altresì manifesto che, qualora un vaso si può nelle diverse sue parti variamente restringere ed allargare, può essere ad un tempo determinata la direzione del fluido. Ora è indubitato che l' istinto sensuale ha questo dominio sui vasi, come si scorge dall' afflusso degli umori ad una parte ferita, e dall' effetto delle passioni, che accelerano o ritardano il corso del sangue, lo restringono verso il cuore, e lo dilatano fino a inturgidirne i vasi capillari della superficie. Ed è questo potere appunto dell' istinto sensuale che lo rende la causa di tutte le escrezioni, come pure delle secrezioni, sia il corpo in istato di sanità o in quello di malattia. L' importanza di questa riflessione diviene somma, se si considera che tutte le malattie che ammettono guarigione, guariscono, io mi credo, con opportune escrezioni. Non voglio già dire che le escrezioni sieno la prima causa della guarigione; ella sia pure nei solidi, l' irritazione di questi sia pure la prima causa dei malori; ciò non ostante parmi che non esprima tutta la verità neppure quello che si dice da alcuni ai dì nostri, essere le escrezioni opportune meramente l' effetto della guarigione. Perocchè è certo che fino a tanto che tali escrezioni salutifere non sono compite, il buono stato della salute non è per anco restituito; la guarigione ancora non esiste, e però non possono esistere gli effetti, se pur non si voglia sostenere che gli effetti precedano la causa. Gli stessi autori perspicacissimi della moderna dottrina medica, ai quali pare aver riconosciuto nei solidi la prima causa delle malattie, non hanno però negato che, qualora i solidi irritati ricevano analoghi movimenti (i quali noi facciamo dipendere dall' istinto sensuale), gli umori alterano il loro corso, modificano la loro crasi, diventano irritanti essi stessi, e sono bene spesso cagioni della diatesi flogistica. Infatti quando i medici moderni, che hanno ridotto il maggior numero delle malattie all' infiammazione, ricorrono sì sovente all' emissione del sangue, che cosa fanno essi se non appigliarsi come a mezzo di guarigione ad una escrezione, dirò così artificiale? (2). Certo, essi non medicano con ciò direttamente il solido, ma scemano l' umore che considerano come irritante, come la principale causa, se non la prima, come la causa della diatesi se non dell' originale eccitamento. Si può dunque dire, in generale, che l' istinto sensuale eccitato da una irritazione locale produca un movimento vascolare extra7soggettivo, il cui effetto benefico è quello di rimuovere mediante le escrezioni la causa della medesima irritazione, e perciò che generalmente le malattie colle escrezioni guariscono. E` singolare a vedere come, quando un sistema è invalso per opera di grandi uomini, subito una frotta di uomini minori, per timore vanitoso di parere arretrati, lo spingono all' esagerazione, sbandeggiando fino i vocaboli più innocenti usati dai precedenti maestri. Così oggidì si sentono con uno sdegno ridicolo rifiutare da molti le voci di emuntorii e colatoi del corpo umano, divenute indegnissime di essere proferite per l' abbominevole macchia ricevuta dalle bocche degli umoristi, i quali non le hanno per avventura inventate, ma frequentemente adoperate. E la natura seguita tuttavia, anche in presenza degli sdegnosi e schifiltosi scrittori, ad avere i suoi emuntorii ed i suoi colatoi, nè le mancheranno giammai fino a tanto che il corpo umano si abbia la cute, le reni, gli intestini, le nari, il polmone, e tutti insomma gli organi escretorii che ai secretorii rispondono; dei quali gli uni e gli altri son tanti che non vi è parte del corpo umano, che non ne sia provveduta. Con questi emuntorii e colatoi, che noi non arrossiamo punto a nominare così, ella conserva il suo buono stato. Perocchè, essendo l' animale « un sentimento fondamentale eccitato », e il sentimento fondamentale eccitato producendo mediante il continuo eccitamento innumerevoli movimenti, spostamenti, sospingimenti di parti nella macchina organata, forza è che molte di queste parti, ridotte a stato di liquido più o meno sottile, si separino da essa, lascino di vivere della sua vita, acquistino una condizione straniera ed irritativa; e quindi debbano essere cacciate via, acciocchè non l' offendano. Ma se il corpo continuamente perdesse delle sue parti senza acquistarne, si ridurrebbe al niente, e prima ancora ad uno stato d' inettitudine alla vita animale. Quindi il bisogno di reintegrare le sue perdite, sia colle molecole che egli trae dal fluido atmosferico, sia con quelle che trae dagli alimenti; molecole, che egli poi lavora, compone, segrega, assimila ed organizza secondo il bisogno. Ora, fino a tanto che il corpo è sano e l' istinto vitale non ha ricevuto di quelle irritazioni, che sono atte a debilitarlo o a vincerlo, l' istinto sensuale, autore dell' eccitamento fondamentale, genera nella macchina i movimenti normali, nei quali le secrezioni e le escrezioni si compiono in un modo normale. Non così quando l' irritazione è nocevole, onde hanno luogo i processi morbosi . Ma il difficile sta nel discernere quando e perchè l' irritazione sia tanto nocevole che determini l' istinto sensuale ad occasionare quella serie di movimenti, che processo morboso si chiama. Ora, posciachè l' irritazione dell' istinto sensuale, secondo noi, non è infine che un sentimento doloroso, e il sentimento è l' opera dell' istinto vitale, è necessario nelle leggi di questo istinto, nei suoi fatti generali e costanti, di spingere la nostra inquisizione. L' istinto vitale anima il corpo; animarlo e renderlo sentito è per noi il medesimo. Ma il sentimento prodotto dall' istinto vitale è perfetto o imperfetto. E` perfetto, quando l' istinto vitale non ha a sostenere lotta faticosa con forze straniere. E` imperfetto, quando egli ha a sostenere una faticosa lotta con quelle. Dico una lotta faticosa, perocchè si devono distinguere due maniere di lotta, l' una non richiedente alcuna fatica spiacevole, sicchè appena si può chiamare lotta; l' altra richiedente una fatica spiacevole, ossia dolorosa. Quando la macchina è perfettamente organata, il principio che l' anima, lungi dal provare alcun travaglio nell' operare l' animazione anzi gode, poichè niun ente fa fatica ad essere. Onde se si vuol pure applicare il vocabolo di lotta a ciò che nasce nella effettuazione della vita, conviene dichiararne il senso, che allora non è altro che quello di dominio, che esercita il principio vitale sulla sostanza che egli fa sua, rendendola termine del suo sentimento; questa sostanza (ed è la corporea) riceve il dominio e rimane modificata, l' anima gode della sua dominazione, ed è il piacere della vita. Solo è da notarsi che tale perfezione di vita, oltre alla perfetta organizzazione del corpo, involge la necessità di opportuni stimoli esteriori, l' aria, la luce, ecc.; e che un corpo in istato di perfetta organizzazione e tale che non metta impedimento alcuno alla vita, e abbia il consenso di tutti gli stimoli esterni a lui confacenti, non si trova forse mai nella condizione presente del genere umano, benchè si possa concepire. Che se, oltre concepire questo stato perfetto del corpo in un dato istante, noi vogliamo ancora concepirne la durata, dovremmo supporre: 1 che niuna potenza straniera alteri la perfetta organizzazione; 2 che sieno somministrati al corpo di continuo quegli stimoli opportuni al perfetto corso delle funzioni animali. Senza continuità di parti non esiste l' unità del sentito, e questa unità è data dal di fuori; e senza moto intestino perpetuo la vita non si manifesta con effetti extra7soggettivi; e questo moto continuo è pure condizionato all' organizzazione data da causa straniera, e senza l' armonia di tali movimenti dominati da un centro di sentimento, non può individuarsi l' animale; e questa centralità di sentimento, e quindi di movimento, dipende di nuovo in gran parte dall' organizzazione. Ma supposti questi dati esterni, i movimenti extra7soggettivi dipendono pure dall' attività soggettiva. Qual' è dunque la legge di questa e la cagione del suo operare? Il sentimento tende ad estendersi, ad eccitarsi e ad individualizzarsi . Certo, se egli non fosse con tutte le sue condizioni, non potrebbe nè porsi, nè eccitarsi, nè individualizzarsi. Ma egli è dato e posto in natura dal Creatore. Dato dunque un sentimento esteso, eccitato ed individualizzato, l' attività sua si spiega incessantemente nel conservare queste tre sue prerogative e nell' accrescerle; nel conservare il sentito in tutta la sua estensione e nel dilatarla; nel conservare l' eccitamento e aumentarlo in proporzione dello stimolo; nel conservare altresì l' armonia e l' unità del sentimento, in ragione dell' armonia e dell' unità degli stimoli. Vediamo quale parte abbia in ciò l' istinto vitale, e quale l' istinto sensuale. L' istinto vitale produce il sentimento fondamentale, quando trova il corpo acconciamente organizzato, e le parti di lui rende sentite. Queste parti debbono essere molecole organizzate con attitudine a ricevere la vita propria dell' animale. Se una forza straniera tende a sottrarre e discontinuare le parti sentite, l' istinto vitale fa loro forza per ritenerle; e se altre molecole opportunamente organate vengono accostate e continuate alle sentite, egli fa forza per invaderle e rapirle nello stesso sentimento; e questi e simiglianti sono diversi atti e momenti della funzione organizzatrice . Ma se l' istinto vitale, dopo essere stato stimolato dal contatto della materia a queste funzioni, viene contrastato in esse e impedito di compirle, egli si appena e si addolora, chè il contrasto e il combattimento nel sentimento, il contrasto colla naturale propensione del sentimento, è pena e dolore. Qui però conviene distinguere dal dolore la cessazione del sentimento (individuale). Quando alcune parti del continuo animato si sottraggono all' azione dell' istinto vitale, dividendosi e disorganizzandosi, cessa in esse il sentimento, di cui precedentemente erano termine, e quindi cessa ogni dolore. Così nelle parti, che escono per mezzo degli organi escretorii dal corpo umano, come pure nella cancrena, cessa ogni senso doloroso. Il dolore dunque è la lotta fra l' istinto vitale e la materia, ossia la forza straniera; ma quando la materia si è sottratta alle forze dell' istinto vitale e ha riportato su di lui intera vittoria, allora non vi è più lotta, nè dolore. All' incontro, quando l' istinto vitale trova la materia così disposta che non pone resistenza alla sua operazione, oppure quando egli consegue piena vittoria sopra di lei, rendendola a pieno termine della sua azione, allora è messo in essere il sentimento, la cui natura è piacere. Ma effettuato il sentimento (piacere per essenza), possono poi darsi movimenti nella materia, che ne costituisce il termine; e questi di due maniere. Alcuni nè discontinuano la materia vivente, nè fanno forza per discontinuarla e sottrarla all' azione del principio vitale; e però lungi dal distruggere il sentimento, lo eccitano e l' aumentano; ed essendo questo per essenza piacere, aumentano il piacere. Tali sono tutte le sensioni, che sorgono nel corpo animale secondo la natura. Altri movimenti fanno forza alla materia, sospingendola a discontinuarsi e disorganarsi, ed allora fino a tanto che non si è discontinuata e disorganata, si ha quella lotta che si chiama dolore (1). Ora, data la sensione piacevole e dato il dolore, l' istinto sensuale tosto si pone in azione per secondare la prima e sottrarsi al secondo. Questa azione dell' istinto sensuale trae dietro a sè altri movimenti della materia animata, di nuovo utili o dannosi alla costituzione dell' animale, conformi o difformi al suo fondamentale eccitamento. In questi movimenti conseguenti all' azione dell' istinto sensuale si deve distinguere: La quantità d' impulso che riceve l' istinto sensuale, e perciò la quantità della sua azione radicale. Questa non oltrepassa il grado limitato dalla quantità della sensione o del dolore, che l' accagiona. La sensione e il dolore può essere: 1) più o meno molteplice; cioè possono essere varie sensioni contemporanee e varii dolori in diverse parti del corpo; quindi varie azioni contemporanee dell' istinto sensuale; 2) più o meno esteso; quindi l' istinto sensuale può cominciare ad agire e produrre movimenti in una estensione maggiore o minore del corpo umano; 3) più o meno intenso; quindi l' azione radicale dell' istinto sensuale può essere più o meno violenta e precipitosa. La quantità della continuazione dell' azione dell' istinto sensuale . L' istinto sensuale, dopo ricevuto l' impulso dalla sensione piacevole o dal dolore, non opera se non a condizione e in quel tanto che egli trovi piacevole il suo operare, o meno dispiacevole del non operare. Quindi, allorquando l' operare gli riesca più spiacevole che il contrario, egli cessa da ogni azione, e la diminuisce a proporzione che il suo operare è meno piacevole. Il che spiega in parte l' attività della natura animale, quando si trova in certe condizioni morbose. Il vantaggio o il danno dell' animalità, che succede all' azione dell' istinto sensuale. Se l' azione dell' istinto sensuale trae seco dei movimenti nell' organismo, questi movimenti arrecano modificazioni nell' animale, non meno relative all' istinto vitale che allo stesso istinto sensuale, perocchè: Quanto all' istinto vitale, i movimenti cagionati dall' istinto sensuale nell' organismo o misto vivente, possono: 1) essere di quelli che aiutano l' istinto vitale a compire meglio la sua operazione, aiutando la continuazione e opportuna organizzazione delle molecole; 2) possono essere di quelli che danno alle molecole un contrario impulso, e quindi che producono o accrescono la lotta fra l' istinto vitale e la materia bruta, e generano o accrescono il dolore; 3) possono essere di quelli che sottraggono addirittura la materia bruta all' azione del principio vitale, la discontinuano e la disorganizzano, e quindi adducano la sua morte. Quanto all' istinto sensuale, i detti movimenti, suscitando sensioni piacevoli o dolorose, generano nuovi stimoli ed impulsi all' attività dello stesso istinto sensuale, il quale così moltiplica le sue azioni e le riproduce. Data adunque una prima sensione o un primo dolore, deve succedersi nel corpo umano una serie più o meno lunga di movimenti, i quali si alternano coi sentimenti piacevoli e dolorosi. E questa serie o vicenda di sentimenti soggettivi e di movimenti extrasoggettivi può essere o giovevole o pregiudiziale allo stato dell' animale. Esempio di una serie giovevole allo stato dell' animale si è quella per la quale l' animale si sviluppa dal germe e cresce fino alla sua perfetta maturità. Questo sviluppo è una perpetua vicenda: 1) di sensioni cagionate dagli stimoli esterni all' animale, eccitanti, secondo natura, l' istinto vitale; 2) di movimenti istintivi, prodotti dall' istinto sensuale ricevente l' impulso dalle dette sensioni; 3) di nuove sensioni che l' istinto vitale mette in essere, incitato dagli accennati movimenti; 4) di nuovi movimenti prodotti dall' istinto sensuale incitato dalle seconde sensioni. E questo circolo di movimenti e di sensioni , di sensioni e di movimenti, si perpetua in tutta la vita animale. In essa si alterna perpetuamente l' azione dell' istinto vitale e l' azione dell' istinto sensuale. L' istinto vitale, generando la sensione, dà impulso all' istinto sensuale, e l' istinto sensuale, generando il movimento, dà la materia all' azione dell' istinto vitale. In capo a questa continua vicenda stanno quegli stimoli esteriori che hanno prodotto i primi movimenti, e somministrata la materia alle prime sensioni dell' istinto vitale. Ma gli stimoli esteriori suppongono già l' animale formato, almeno nel suo primo rudimento; suppongono l' istinto vitale già in atto nel primo sentito, nel primo sentimento di cui egli è l' attività. Altro esempio della serie giovevole si ha negli stessi processi morbosi, quando questi processi riconducono l' animale ammalato allo stato di salute. Ogni processo morboso s' inizia con uno stimolo esterno, il quale modificando l' istinto vitale, e traendolo in lotta colla materia bruta tendente a sottrarsi al suo influsso, cagiona lo stato doloroso e penoso. Questi sentimenti dolorosi, traendo in giuoco l' istinto sensuale, gli fanno riprodurre altri movimenti, i quali prestano materia all' istinto vitale che produce le seconde sensioni; e queste, impellendo di nuovo l' istinto sensuale, lo provocano a cagionare nuovi movimenti, e così ha luogo il circolo perpetuo, più o meno lungo, delle sensioni e dei movimenti, che si dice processo morboso . Un esempio della serie e vicenda dei movimenti e delle sensioni, che riesce a pregiudizio dell' animale, lo possiamo vedere nell' invecchiare che egli fa insensibilmente fino alla sua distruzione. Quella stessa legge di vicissitudine che dal primo germe ha sviluppato l' animale a piena maturità, quella stessa da questa maturità lo conduce gradatamente al discioglimento. Del pari si scorge un circolo funesto di movimenti e di sensioni in quei processi morbosi, che hanno un esito mortale. Diamo ora uno sguardo all' arte ippocratica, dai professori della quale tante cose apprendemmo fin qui. I sistemi di medicina finora comparsi ebbero forse tutti qualche idea luminosa; l' errore si riduce ad una parte dimenticata della verità. Vi furono medici, che sembrano aver dato un' esclusiva attenzione a quella classe di processi morbosi, pei quali la natura riconduce l' animale allo stato di salute. Questi celebrarono e magnificarono l' «autokratia» della natura. Il pensiero era luminosissimo. Che certi fenomeni morbosi tendano al ristabilimento della salute, che certe emorragie, certe diarree, certe febbri sieno altrettanti sforzi della natura ammalata, che da sè stessa va risanandosi per quei passi stessi che sembrano morbiferi e sono salutiferi, è cosa innegabile; e questo fatto è quello che reputa a suo grande onore la celebre scuola di Montpellier; sono quelle idee di Van Helmont e di Stahl, che il Pinnel chiama sane e feconde (1). Ma non conviene dimenticare l' altro fatto, cioè esservi altresì un' altra serie di movimenti e di sensioni, che si volgono in circolo, e riescono a deterioramento, e in fine a distruzione dell' animale; che vi sono dei processi morbosi, i quali, conducendo l' animale di stato in stato, finiscono coll' arrecargli la morte. Quei medici, che sono stati altamente colpiti da quest' altro fatto, non posero un' eguale attenzione al primo, e mentre gli uni volevano tutto lasciar fare alla natura, gli altri tutto volevano che facesse l' arte. Nel sistema di Stahl la tendenza della natura allo stato di salute è spiegata; ma rimangono senza spiegazione soddisfacente gli errori della natura. Nel sistema degli avversari sono riconosciuti, se non ispiegati, gli errori della natura, ma rimane disconosciuta, e però priva di spiegazione, la sua tendenza riparatrice e sanatrice. Vi è un' unica legge naturale, diciamo noi, che dà ragione non meno degli andamenti salutiferi della natura animale che degli andamenti mortiferi; l' istinto vitale e l' istinto sensuale, alternandosi nell' operare, e l' uno modificando incessantemente l' altro, sono le cause di entrambi; essi andrebbero sempre di loro natura verso il bene, se non dipendessero da stimoli stranieri e materiali; e sono questi stimoli che li alterano, li perturbano, e scompigliano la loro naturale armonia. Quindi la causa di tutte le malattie si può ridurre ad una sola, cioè all' irritazione, presa questa parola in un senso assai esteso. Per irritazione, in questo significato, intendo l' effetto di una forza straniera al sentimento ed all' istinto animale, che operando su di questo ne altera la condizione normale, e così occasiona nei suoi due modi di operare, il vitale e il sensuale, un' alterna azione in sè stessa morbosa, e nel suo esito conducente o alla salute, liberandosi dall' irritazione, od alla morte. Il primo effetto dello stimolo straniero, e dell' irritazione che produce, cade nell' istinto vitale, il quale invece di produrre il sentimento normale a cui tende, per sè piacevole, contrariato, produce un sentimento anormale doloroso o molesto. Il secondo effetto cade nell' istinto sensuale, il quale sollevato dal sentimento anormale, accresce e varia la quantità di moto esistente nel corpo, e quindi con questi moti accresciuti e variati, anormali anch' essi, viene data materia a nuove sensioni anormali, che producono nuovi movimenti. Quando adunque questo corso di alterne azioni è incominciato, egli può prendere due qualità: Può cessare col cessar dello stimolo, e questo avviene ogniqualvolta lo stimolo non altera la materia dell' istinto vitale, ma solamente dà a questo un' attività ed eccitamento maggiore; ovvero quando la altera sì, ma in modo che le sensioni, che egli produce, altro non fanno che indurre l' istinto sensuale a cagionare tali movimenti che hanno per effetto il rimettere la cosa in pristino, restituendo all' istinto vitale quella materia che gli è opportuna, e che dallo stimolo aveva ricevuto qualche alterazione. Egli può continuarsi anche cessando lo stimolo, e ciò avviene indubitatamente, se i movimenti dell' istinto sensuale, che succedono alle sensioni dolorose dell' istinto vitale, lungi dal restituire tosto e ricomporre a questo la sua materia alterata, non fanno altro che alterarla maggiormente suscitando nuovi stimoli; perocchè le parti e molecole stesse del corpo vivente, spostate o mosse con certo impeto, diventano nuovo stimolo, stimolo veramente straniero, perchè materiale, che contrasta coll' istinto vitale. In tal caso il corso delle alterazioni e delle vicende interne dell' animale si continua indipendentemente dallo stimolo primitivo; perchè le modificazioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale riproducono ad ogni loro operazione una nuova schiera di stimoli irritanti, e succede quella condizione morbosa che dai moderni fu denominata diatesi . Queste due qualità del corso alternato delle sensioni e dei movimenti, della prima delle quali uno dei principali caratteri è la breve durata, della seconda una durata più lunga, furono assai bene osservate dai medici recenti, ma con una veduta quasi esclusiva al fatto dell' infiammazione; e prego il lettore di permettere che gliene metta sott' occhio la descrizione, che ne fa l' illustre Tommasini, la quale mi dà occasione di aggiungere qualche non inutile osservazione. Questo è il corso di breve durata; ora passa il Professore a descrivere quello, che noi chiamiamo corso di lunga durata di sensioni e di movimenti alterni. In questi luoghi del chiarissimo Tommasini, che descrivono fatti verissimi, debbo dire che io non saprei considerare altramente che come sommamente inesatta quella espressione di eccesso di stimolo, la quale rammenta le angustie del sistema browniano, onde si deve trarre del tutto la medicina, prima di mettersi sulla via regia dei suoi progressi. Invece di eccesso di stimolo pare che si dovrebbe dire inopportunità di stimolo; giacchè le malattie che conseguono allo stimolo, per confessione dello stesso Tommasini, non sono proporzionate alla grandezza ed intensità dello stimolo. Dunque cagione vera dei morbi non è l' eccesso, ma l' inopportunità dello stimolo; di modo che uno stimolo per piccolo che possa essere, se è inopportuno in certe date condizioni dell' animalità, cioè se egli irrita e disordina le funzioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, per ciò solo è già eccessivo, poichè tutto ciò che è male, è anche troppo. Il determinare poi l' inopportunità dello stimolo deve essere ampio campo alla medicale sapienza, dipendendo quella da innumerevoli cause, dall' atmosfera, dai temperamenti, dallo stato speciale in cui si trova l' animale, e in esso quel corso alterno che mai non cessa di sensioni e di movimenti, ecc.. La quale avvertenza non è del tutto sfuggita all' acume dell' illustre Tommasini, ma legato egli al sistema, che faceva dipendere tutte le malattie da stimolo eccedente o scarso, non seppe forse cavare tutto il profitto che avrebbe potuto dalle proprie osservazioni. Le quali osservazioni giustissime provano quello che noi dicevamo; provano che non è l' eccesso dello stimolo che cagiona il corso necessario dell' infiammazione, poichè con uno stimolo anche maggiore ella non nasce. Dunque è l' inopportunità . Ma quando lo stimolo è inopportuno? Ecco il grande problema; non si tratta più di misurare semplicemente la quantità dello stimolo, ma di tener conto di tutte quelle innumerabili circostanze, la cui mistura, per dir così, lo rende opportuno ovvero importuno. Questo ci conduce al metodo antico, al senno ippocratico. E primieramente è cosa indubitata che lo stato di sanità è condizionato all' azione continua di stimoli, quali sono l' aria, la luce, il cibo, e quelli che si suscitano dall' esercizio, e quelli che si riproducono dai continui moti intestini, che nel misto vivente si perpetuano. Questi sono certamente stimoli opportuni. E possono anche tali stimoli aumentare e diminuire fino a un certo termine, senza che perciò escano dalla sfera dell' opportunità. Un uomo sano si può astenere dal vino, può berne in poca quantità, ed anche in dose generosa, senza alcun pregiudizio di sua salute. Può mangiare più o meno, può esercitare le sue forze fisiche, intellettuali e morali più o meno, e la salute non ne riceve detrimento. Il corso delle funzioni animali cangia sì, ma non rimane alterato; la vicenda alterna delle sensioni e dei movimenti intestini può dunque essere resa più o meno celere, più o meno vigorosa senza alcuna morbosa affezione. Ed era necessario che la sapienza creatrice avesse conceduto all' animalità questa attitudine di adattarsi ad una grande varietà di stimoli naturali e ad una misura variabile di essi, giacchè senza di questo essa non avrebbe potuto conservarsi; ogni minima alterazione di atmosfera, ogni varietà di cibo, ogni accrescimento o diminuzione d' esercizio avrebbe dato principio ad un corso di fenomeni morbosi. Ma quanto si estende questa sfera di stimoli opportuni? dove si può trovare il principio, che determini il carattere degli stimoli inopportuni? La sfera degli stimoli opportuni si estende indubbiamente più o meno, secondo la sanità e la robustezza del corpo, e quella sua speciale condizione che questo riceve in gran parte dall' abitudine. Quindi si scorge il corpo umano resistere ai diversi climi del globo, e adattarsi alle diverse temperature; e nello stesso clima variare grandemente la docilità e sofferenza agli stimoli dei diversi individui, e laddove sembra che ad uno niente pregiudichi nè alterazione d' atmosfera, nè gravità di fatiche, nè varietà di cibi, un altro soggiace ad affezioni morbose per ogni più lieve cagione. Conviene dunque trovare il carattere dell' irritazione o alterazione morbosa nella condizione stessa del corpo animale; conviene trovare questo carattere nella vicissitudine delle sensioni e dei movimenti intestini, di cui abbiamo più sopra descritte le leggi; solamente in queste leggi giace la ragione, perchè quella vicissitudine in istato normale, benchè eccitata da certi stimoli esterni, non si perturbi, e perchè ella s' irriti ed alteri eccitata dagli stimoli stessi; ancora perchè, data un' irritazione, o succeda il corso morboso delle sensioni e dei movimenti sì breve che tosto finisce poco dopo la sottrazione degli stimoli; o sì lungo che anche sottratti gli stimoli si continua per lungo tempo, percorre più stadii, presenta varie scene di fenomeni, e termina colla restituzione della sanità o colla morte. Poichè, si noti bene, il detto corso quando è incominciato, non cessa mai subito all' istante stesso della sottrazione degli stimoli, che vi hanno dato incominciamento; ma la differenza dei due corsi non istà fra il subito e il lungo tempo, ma fra il breve e il lungo tempo. Non dipendendo dunque il corso morboso da eccesso di stimolo, ma da stimolo inopportuno alla condizione in cui si trova l' interna vicenda delle sensioni e dei movimenti intestini, apparisce, secondo che sembra a noi, la vera ragione per la quale i medici, legati al sistema dell' eccedenza e del difetto dello stimolo, non sappiano giammai determinare a qual grado e misura ne incominci l' eccedenza o il difetto; e se si provino a farlo, si abbattino di continuo a fatti ribelli refrattari al loro sistema. Laonde il Tommasini confessa di non poter determinare il limite, ove l' eccitamento comincia ad essere flogistico. Ora, nell' impossibilità in cui si vede il celebre uomo di determinare questi limiti, egli ricorre ad asserire che il grado maggiore e minore di stimolo e di eccitamento si deve considerare come relativo all' individuale tolleranza . Ma l' ubbriachezza di un uomo venuto per essa in delirio e minacciato di paralisi, è tal fenomeno che assai bene dimostra essere stata vinta dallo stimolo la individuale tolleranza; eppure il corso di quel morbo finisce in breve, rigettato che sia o digerito il vino; quando la più leggiera flogosi si continua a lungo con quel corso, che il Tommasini giustamente chiama necessario . Può dunque lo stimolo essere eccessivo anche relativamente all' individuale tolleranza, e non produrre la flogosi, e uno stimolo minore sullo stesso individuo produrla. A questo punto l' uomo illustre, stretto dall' evidenza dei fatti, già rasenta il vero soggiungendo: Non dunque all' eccesso dello stimolo, o al suo difetto, conviene ricorrere per spiegare il corso dell' infiammazione e di ogni altro processo morboso; ma sì alle leggi dell' alterna azione dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, delle sensioni e dei movimenti organici, che costituiscono una vicenda con corso fisso e necessario, per servirmi dell' espressione del Tommasini; vicenda che pur si compie nello stato dell' uomo sano, come in quello dell' uomo infermo, sempre colle identiche leggi; onde la patologia si riduce e continua alla fisiologia, scorgendosi che le leggi, che presiedono all' operare della macchina vivente in istato morboso, sono quelle stesse che presiedono all' operare di lei in istato di sanità, e che i fenomeni variano solo perchè varia lo stato dei due istinti che li producono, il loro reciproco rapporto, e la qualità relativa degli stimoli esteriori che li traggono in movimento. Il Tommasini riconobbe che la generazione, lo sviluppo e la riproduzione delle parti sono operazioni interne dell' animale, le quali, data la conveniente spinta degli agenti esteriori, procedono indipendentemente da questi, in virtù, diciamo noi, della spontaneità animale, che nei due istinti mentovati si manifesta, l' uno dei quali dà la leva all' altro reciprocamente; egli rammenta le osservazioni di Harvey sull' utero gravido, su centinaia di uova, dalle quali osservazioni risulta che i passi, che fa questo corpo vivente in un vivente, dai primi momenti della concezione sino al suo maggiore sviluppo, sono simili a quelli dell' infiammazione; reca la sentenza di Onofrio Schassi, secondo il quale la membrana dell' utero, detta decidua dall' Hunter, non è che il prodotto di una specie d' infiammazione naturale; ricorda competere alla infiammazione l' attività riproduttrice; per l' infiammazione riempirsi le cavità lasciate dalle piaghe e dai tagli, generarsi nuove fibre, riprodursi pezzi interi di carne, la parte rigenerata acquistare talora un volume morboso straordinario; essere stato osservato da Mascagni, Hunter, Rezia, Testa, Potolongo e Moore, che i vasi sanguigni, i linfatici, le cellulari, le cartilagini, le ossa sotto l' energia dell' infiammazione si sviluppano, si estendono, crescono di mole, anzi formarsi, come organiche produzioni, alcune tele cellulari nella pneumonite, che Maincourt distinse dalle false membrane, e tra esse ramificarsi propaggini di rossi vasellini, secondo il Cruikshank aumentarsi fin anche i filamenti nervosi. Esatte sono le espressioni che usa l' uomo insigne, quando dice che nei processi morbosi la natura « aberra dalle leggi alla salute prefisse », ovvero chiama le produzioni, che ne derivano, « vegetazione d' ignota stampa »; ma ricade nel sistema invalso e troppo angusto, quando tutto ciò attribuisce all' eccesso dello stimolo, al soperchio dell' eccitamento. Che nella generazione, nella riproduzione normale delle parti tagliate, nel processo per cui dall' infanzia alla virilità vanno raffermandosi le parti molli, si scorga un aumento di eccitamento e di vita, questo s' intende; ma in tutto ciò non vi è eccesso. All' incontro non vi è eccesso propriamente, ma irregolarità e anormalità delle operazioni animali quando, [...OMISSIS...] . Se un mesenterio, un omento, o un vaso per lenta flogosi vegetando, giungono a tale incremento che riesce funesto e mortale per meccaniche compressioni, tutto ciò deve ascriversi all' attività animale, che dirige ed accumula i suoi prodotti in un luogo (e di questa legge di località parleremo poco appresso), non propriamente all' eccesso dell' eccitamento; conciossiacchè una stessa e anche maggiore quantità di eccitamento, data all' animale in altre circostanze, lungi dall' essergli così dannosa, gli potrebbe essere utile. Altro è dunque eccesso di stimolo, altro inopportunità; altro aumento di azione vitale, altro azione vitale aberrata dalle leggi della sanità. Questo non si può chiamare eccesso di eccitamento, per dirlo di nuovo, se non nel senso che tutto ciò che aberra e che nuoce è sempre eccessivo; e in tal caso la parola eccesso sarebbe usata in un altro significato non proprio, nel quale significato ogni causa della malattia sarebbe un eccesso; la parola eccesso conviene dunque evitarsi. Per dimostrare maggiormente quanta differenza corra fra eccesso di stimolo e inopportunità di stimolo, faremo notare al lettore che la prima espressione involge il concetto che il corso fisiologico o patologico dipenda dal soggiacere l' animale ad una passione; laddove la seconda involge il concetto che il detto corso dipenda da un' azione dell' animale stesso. Anche qui il Tommasini si vede lottare manifestamente fra il sistema, di cui si è preoccupato, e i fatti che gli cadono sott' occhio. Uno dei quali fatti è la condizione che lascia dopo di sè nel corpo l' infiammazione, la quale si risveglia con maggiore facilità dove fu un' altra volta e per più leggeri motivi; di che il professore è costretto a conchiudere, che l' infiammazione infrange [...OMISSIS...] . Nella nostra maniera di concepire il corso morboso, le leggi dell' abitudine non sono menomamente infrante appunto perchè quel corso non prende la legge dall' impressione passiva ed eccedente dello stimolo, ma anzi dall' attività del doppio istinto animale. E noi abbiamo già distinte due maniere di abitudine, l' una passiva e l' altra attiva, e abbiamo osservato che l' abitudine passiva diminuisce l' intensione e la vivezza della nuova impressione; ma l' abitudine attiva accresce l' azione, rendendola più facile, più perfetta, più intensa. Così di due persone umane e benefiche, quella che è giovane prova più vivo il sentimento passivo della compassione, ma la più vecchia con minor sentimento è più operativa dell' altra nel sovvenire ai sofferenti (1). Se dunque il processo infiammatorio dimostra non soggiacere alla legge dell' abitudine passiva, come lo stesso Tommasini confessa, ed ubbidisce a quella dell' abitudine attiva, si scorge in questo stesso la prova che ella non è determinata dalla quantità dello stimolo e dell' eccitamento che passivamente riceve, ma dal gioco delle forze interne, il quale viene perturbato dallo stimolo, piccolo o grande che sia, e però dall' inopportunità di lui rispettivamente allo stato e condizione di esse forze. La passività, da cui Brown fece dipendere la vita, fu tanta che egli ne trasse il suo celebre canone, esaurirsi l' eccitabilità della fibra per l' azione degli stimoli. « I fatti confutarono questa teoria, e in Italia il Racchetti giunse a sostenere direttamente il contrario, sostenendo l' eccitabilità della fibra accrescersi sempre per l' azione degli stimoli ». Il Tommasini volle tenersi in una via media, negando la generalità della sentenza del Racchetti per ragioni [...OMISSIS...] . Ma egli non s' avvide che oltre le leggi dell' abitudine passiva vi sono, come dicevamo, quelle, contrarie alle prime, dell' abitudine attiva, e che a queste è conforme il procedere della natura animale. Conviene dunque recare l' attenzione assai più sulle leggi dell' attività animale che su quelle della passività; ed allora si potrà uscire del tutto dalle angustie del sistema browniano. Grande impedimento a questo si fu la guerra indiscreta e cieca mossa agli animisti; si ebbe paura di giungere fino all' anima, e parve più prudente consiglio il trattenersi alle condizioni della fibra. Quindi il Tommasini, parlando della conseguenza che lascia dopo di sè nel corpo l' infiammazione, la facilità cioè di nuovamente infiammarsi, dice quella essere necessariamente [...OMISSIS...] . Ma sino che si parla di fibra e di eccitabilità inerente alla fibra, non si considera il fenomeno che dal lato passivo; laddove la vera ragione che lo illustra non si trova che considerandolo dal suo lato attivo; cioè in relazione a quel principio che avviva e muove la fibra stessa, e che avendola per termine della sua azione, egli ne rimane eccitato, se quella viene stimolata; in virtù del quale eccitamento, secondo la legge più sopra toccata della spontaneità, scotendo la fibra, la fa parere ella stessa eccitabile. Ora niun dubbio che il principio animale, l' anima, soggiaccia alla legge dell' abitudine attiva, che è quella di eseguire con meno di fatica, e più di facilità e con maggiore piacere, quella specie di operazione che ella ha già eseguita più volte. E qui si osservi ancora come la legge dell' abitudine passiva e quella dell' abitudine attiva, sebbene opposte, si diano la mano, per modo che nella legge dell' abitudine passiva si trova in gran parte la ragione della legge dell' abitudine attiva. E di vero, presupposto che « la quantità di azione dell' istinto sensuale sia in ragione dei minori ostacoli, che egli trova nel suo operare, e della maggiore facilità e del maggior diletto », è chiaro che la legge dell' abitudine passiva che dice « le sensioni moleste diminuire la loro vivacità colla loro ripetizione e continuazione », è quella che spiega perchè un agente, ripetendo le sue azioni, diventi sempre più attivo e inclinato a porle; diventa più attivo, perchè scema la vivezza degli incomodi della fatica, della difficoltà che egli provava al principio; il che è tanto più vero che trattasi di un operare morboso e incomodo, traente seco necessariamente non poca molestia. Così le leggi delle due abitudini, lungi dall' essere in contraddizione, si spiegano reciprocamente. Nè si creda una contraddizione il dire che l' istinto sensuale trova incomodi e molestie nel suo operare, e il dire ancora che la quantità dell' operazione di lui va in ragione del diletto che egli ne prova; perchè gli incomodi, le molestie, le difficoltà possono mescolarsi e si mescolano effettivamente col piacere, dipendendo poi dalla prevalenza di questo o del suo contrario, l' essere un' operazione piacevole o dolorosa; e perchè non si deve fare il confronto tra l' operazione e la non operazione, ma tra l' operazione e lo stato in cui l' animale si troverebbe non operando. E potrebbe essere benissimo che l' operazione avesse più del molesto e del doloroso che del piacevole, in sè stessa considerata; ma in pari tempo potrebbe essere tale che l' istinto sensuale spontaneamente l' assecondasse e continuasse, giacchè non assecondandola e continuandola, egli ne avrebbe uno stato più molesto e più doloroso ancora che dandole corso. Il che conviene con ciò che precedentemente dicemmo: « la quantità dell' azione dell' istinto sensuale non istare solo in ragione del grado di piacere che egli prova nell' agire, ma in ragione composta di questo grado di piacere, e della spinta ricevuta a principio dalla sensazione ». La sensione dà il primo incitamento all' istinto sensuale, che non può cansarlo, e il grado di questo incitamento è quello che determina il maximum dell' azione ceteris paribus ; ma ricevuta tale impulsione, l' azione dell' istinto sensuale, dopo il suo primo moto, è diminuita dagli ostacoli che incontra per via, cioè dalla difficoltà, fatica e molestia che prova. Quindi il primo movimento impresso dalla sensione, se è violento, può dar cagione a gravi e inevitabili disordini nella organizzazione. A ragion d' esempio, è impossibile impedire che una detonazione violenta in certi individui sensibili produca una oppressione alla regione epigastrica, e fin anche la lipotimia, la sincope ed altri effetti funesti; effetti tutti operati dalla spontaneità dell' istinto sensuale, a cui non è dato resistere al primo incitamento della sensazione così improvvisa e fragorosa. Dicendo non gli è dato resistere, intendo che la fatica e la molestia del resistere sarebbe tanta, che egli preferisce lasciare il corso a quei movimenti iniziati dalla sensazione, benchè funesti. Il digrignare dei denti, prodotto dalla sensazione che arreca una lima che scorre sopra una sega, o altri suoni laceranti gli orecchi, non è certo un sentimento grato; ma non si può evitare; la spontaneità dell' istinto sensuale non l' evita, perchè l' impulso della sensazione è sì forte che a fermare l' oscillazione, che ne riceve la corda del timpano sicchè ella non si propaghi al nervo della mascella inferiore, costerebbe un grado di fatica e di pena sì grande, che assai minore è quella di lasciar libera la spontaneità istintiva, che propaga quel movimento. La facilità dunque, colla quale si riproducono le infiammazioni, assai agevolmente si spiega ricorrendo alla legge dell' abitudine attiva, a cui ubbidisce il principio animale. Ma si dovrà dunque escludere dalle cagioni di questo fatto il cambiamento organico della fibra, nella quale l' infiammazione si ripete? No certo; e sia pure che l' organica disposizione della fibra, dopo l' infiammazione, si rimanga modificata. Ma ci sembra una proposizione troppo ardita, e fin' ora non dimostrata, quella che [...OMISSIS...] . L' attribuire il grado ed il modo dell' eccitabilità esclusivamente all' organizzazione della fibra, è dottrina gratuita e al tutto improbabile. Anzi i fatti psicologici smentiscono nell' uomo un sistema così angusto che non riconosce altra cagione delle modificazioni che presenta l' eccitabilità, se non la pura organizzazione della fibra; i fatti dico delle passioni razionali. E chi può negare: I - Che le passioni razionali sieno uno stimolo eccitatore dei nervi e delle fibre? La gioia, la collera, il terrore, l' amore possono sospendere ed accrescere l' azione del cuore, e Bichat curò un uomo che, per cagione d' una paura, provò incontanente forte costringimento alla regione dell' epigastro, poco appresso gli si sparse sul volto una tinta giallastra, la sera ebbe le membra inferiori tumefatte. Si vide, e non di rado, ad un eccesso di collera succedere infiammazioni cutanee e mucose, nevralgie, ed altri sintomi morbosi. Chi può negare ancora: II - Che le passioni soggiacciono alla legge dell' abitudine attiva, diventandone più frequenti e violenti gli accessi, quanto più l' uomo le ha liberamente secondate? Ciò posto, supponiamo un poco che l' organizzazione della fibra rimanesse senza alterazione, ma che l' abitudine propria della passione desse all' anima razionale una grande suscettività, poniamo quella suscettività che un uomo potente ed abitualmente superbo acquista ad ogni menomo affronto, ad ogni aspra parola, ad ogni contraddizione ai suoi cenni, quella che acquista un uomo lussurioso alla vista di ogni oggetto atto a pascere la sua passione, quella d' un educato ai timori, avvezzo a temer di tutto, ecc.; non è vero che la sua fibra, sebbene non cangiata nella sua organizzazione, sembrerà più eccitabile, perchè più eccitabile, più attivo, più pronto si è reso coll' abitudine il principio animale che la muove, che la nutre, che le dà quel guizzo che alla passione sua è consentaneo? Se si scorge dunque nella fibra vivente maggiore mobilità dopo essere soggiaciuta a certo stimolo, non si può da questo senza più inferire che la mutazione sia inerente alla sua organizzazione, non se ne può conchiudere, dico, che questa organizzazione, che si pretende incontanente modificata, sia l' unica cagione della accresciuta eccitabilità; anzi pare che una buona parte, per lo meno, di questa nuova condizione apparente della fibra si debba ripetere dalla nuova condizione in cui è venuto, per l' abitudine attiva, il principio animale, che informa la fibra, l' avviva, l' agita; il qual principio certamente si modifica talora con indipendenza dalla fibra stessa, per cagioni intellettuali e morali. E noi non dubitiamo di applicare un simile ragionamento a quello che avviene negli animali bruti, quantunque il loro corpo non riceva stimolo dalle notizie intellettive e dalle disposizioni morali, di cui sono privi. Certo è ch' essi hanno un principio animale soggiacente alla legge dell' abitudine attiva con indipendenza dall' organizzazione, e certo è che l' istinto animale soggiace alla legge dell' abitudine attiva, indipendentemente dall' organizzazione. Onde, se non da questo, dipendono certi spiacevoli istintivi movimenti, che non di rado si vedono fare in società a certe persone, dei quali vorrebbero, se potessero, guardarsi, e non possono? Onde, se non dalla forza dell' abitudine attiva, il vizio di quel signore a me ben noto, che ad ogni due o tre parole ripete colle labbra il movimento del pippare, e, se se n' astiene per alcun poco con violenza, dà poscia due o tre pippate in fretta, quasi per rifarsi del perduto? Niuna alterazione sembra dover essere nata nella condizione organica delle sue fibre; ma sì l' abito gl' impone oggimai la necessità di fare quei movimenti, pei quali sembra che la fibra sia divenuta più irritabile, più mobile. Ella è una convulsione delle labbra, si dice; ed appunto il rendersi le convulsioni frequenti in un individuo deve attribuirsi in gran parte alla forza dell' abitudine attiva . All' attività del principio animale si deve parimenti riputare la ragione, perchè le convulsioni si propaghino per modo d' imitazione; non è l' immutata organizzazione della fibra che in tal caso la renda più contrattile, ma sì il principio attivo dell' animale che opera per imitazione della fibra stessa, la quale perciò più contrattile si dimostra. E qui si rinviene un altro argomento atto a provare non doversi ripetere dalla sola variata organizzazione della fibra la diversa misura d' irritabilità e mobilità, che ella dimostra; ma piuttosto dalla diversa condizione dello stesso principio attivo animale, che, indipendentemente dalla fibra, si modifica, e che muove e modifica poi egli stesso la fibra, che rispetto a lui è passiva. Infatti, quanto non è efficace anche negli animali l' istinto d' imitare? Il quale al principio sensitivo anzichè alla materialità ed alle organiche condizioni della fibra, si deve indubitatamente attribuire; e se si vuole, usando un' altra maniera di dire, attribuire tali fenomeni alle condizioni dinamiche della fibra medesima, potrà passare, purchè queste condizioni dinamiche non si facciano dipendere dalla sola organizzazione, ma si riconosca la forza, «dynamis», risiedente nel principio animale. Tanto è lungi che l' operare dell' animale per abitudine, per imitazione, per immaginazione, e in diversi altri modi provenienti dalla sua sensitività e dalla forza unitiva, dipendano dalla sola organizzazione, che anzi questa è puramente passiva, e però ella stessa dipende, e viene modificata da cotali diverse maniere del suo operare. E nondimeno tutto ciò non toglie che anche l' organizzazione alterata della fibra abbia la sua buona parte nei fenomeni del corpo sano e ammalato, purchè non la si creda la causa attiva di essi, purchè con essa sola niuno si consigli di spiegarli. Infatti la vita animale risulta da diverse reciproche azioni dell' anima nel corpo, e del corpo nell' anima (1). Quindi è che ogni azione del principio vitale deve influire sullo stato del corpo, ed ogni alterazione del corpo cagionare un' alterazione corrispondente nello stato del principio vitale. Se dunque viene a cangiarsi l' organizzazione del corpo, anche il principio vitale e la sua attività rimane modificata. Ma viceversa, se l' attività del principio vitale soffre qualche cangiamento, se questa attività agisce con quella specie di atti, a cui rispondono dei movimenti intestini nei tessuti del corpo, l' intima organizzazione di questi deve riceverne alcuna mutazione. Ciò dimostra che la condizione organica della fibra è assai, ma non tutto; l' essere ella organata piuttosto in un modo che nell' altro, la deve rendere più o meno impressionabile, le deve dare una passività maggiore o minore; ma niente le varrebbe esser divenuta così mobile, se il principio movente, cagione del moto, non agisce in lei; la sua eccitabilità dunque è una relazione passiva verso il principio movente, e non più. Ora come può variare in essa questa mobilità passiva, così il principio attivo motore soggiace pure a cangiamento nella sua relazione attiva, crescono o diminuiscono in esso i gradi di attività, si facilitano o si difficultano i suoi atti, ecc.. Il fenomeno dunque della maggiore impressionabilità od eccitabilità della fibra dipende da due cagioni, e non da una sola, e dalla cresciuta mobilità passiva di lei inerente all' organizzazione, e dalla cresciuta mobilità attiva del principio animale. Si vedrà poi quanto sia grande la parte che tiene l' organizzazione nella spiegazione dei fenomeni fisiologici e patologici (benchè non si debba attribuire ad essa sola il grado di eccitabilità apparente nel corpo umano), considerando che il sentimento fondamentale di continuità è al tutto dipendente dall' organizzazione, e da questa dipende in gran parte il sentimento fondamentale di eccitamento . Di più l' istinto sensuale produce dei minimi movimenti, i quali non possono a meno di recare qualche mutazione nella tessitura e nello stato organico dei corpi; e questi minimi movimenti sono quelli che vengono operati per mezzo del sistema nervoso ganglionare. Laonde con buon senno scrive il Tommasini: [...OMISSIS...] . Perocchè a noi anzi è indubitato che da nessuna morbosa alterazione il corpo umano ritorni allo stato organico identico col precedente, giacchè gli infiniti movimenti intestini, le molecole perdute ed acquistate, è impossibile che si compensino così giustamente da restituire il corpo in tutto e per tutto misto ed organato, come egli era prima. E crediamo che si possa di più a sicurtà asserire non esservi un solo momento nella vita, in cui la mistura e la tessitura delle parti sia in tutto e per tutto eguale a quella del momento precedente. Ma l' errore sistematico del grand' uomo è quello di pretendere che l' eccitabilità delle parti e la suscettività di rispondere agli stimoli dipenda unicamente dalla condizione organica della fibra, e dalla quantità di quelli si possa argomentare il grado di mutazione in questa. L' importanza della materia ci consiglia a procurare di recarvi qualche maggior luce collo specificare le condizioni diverse, che può ricevere lo stato del corpo animale dall' alterna azione dei due istinti; il che faremo nei capi seguenti. Dalle cose dette risulta: Che dal primo istante in cui l' uomo è posto, fino all' istante in cui l' uomo muore, vi è un corso non interrotto di azioni alterne dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, il quale noi chiameremo di qui innanzi corso zoetico . Che le leggi che l' uno e l' altro istinto segue nella sua azione, sono sempre le medesime, nè possono mai cangiare essenzialmente. Che dalle azioni alterne dei due istinti dipende egualmente lo stato di sanità e lo stato di malattia, come pure l' incremento e il decremento dell' animale. Che lo stato di malattia e i processi morbosi non sono altro che una parte del corso delle azioni alterne, di cui parliamo, non interrompono questo corso, ma lo continuano, sicchè i fenomeni morbosi non differiscono essenzialmente dai fisiologici. Dalle quali cose consegue che, quantunque le leggi, secondo le quali operano incessantemente i due istinti, sieno immutabili e necessarie, tuttavia il corso alterno delle sensioni e dei movimenti riesce così diverso che varia di tipo in ogni animale di specie diversa; e nella stessa specie non si può in alcuna maniera credere che s' incontrino due individui, nei quali quel corso proceda uniforme, anzi neppure nello stesso individuo è uniforme mai a sè stesso nei varii istanti della vita. Le varietà del detto corso zoetico negli uomini devono dunque riuscire assai maggiori che non quelle delle fisonomie; conciossiachè, essendo egli disposto in una serie d' innumerevoli anelli di azioni reciproche, basta il più piccolo cangiamento in un anello di essa acciocchè tutto affatto il corso si muti, si apra una nuova via, per la quale egli discorra divergendo dalla prima. Noi per brevità di discorso chiameremo anelli del corso zoetico una coppia di azioni, l' una dell' istinto vitale, l' altra del sensuale. Ma se le leggi dei due istinti sono immutabili, ond' è che il corso zoetico piglia tante diverse direzioni, sicchè in ciascun uomo, in ciascun animale cangia andamento? L' abbiamo veduto; se vogliamo retrocedere fino alle prime cause, che incamminano il corso zoetico piuttosto in un modo che in un altro, o che, incamminato, lo fanno divergere dalla prima direzione, dovremmo riferirci a cagioni estranee all' animale, la principale delle quali è la materia. Questa ora somministra ubbidiente il suo termine all' istinto vitale; ora combatte con esso, e lo costringe a dolorosa lotta; ora lo blandisce con opportuno stimolo, eccitandolo a piacevole sentimento; ora gli sfugge di mano, vincendo la sua rattenenza, e sottraendosi alla sua azione. Tutte queste diverse azioni ed attitudini, che prende la materia verso l' istinto vitale, lo costringono a produrre sentimenti diversi, i quali determinano un corso zoetico diverso. Ma noi dicevamo che la materia bruta è la cagione principale, che dà una piuttosto che un' altra direzione al corso zoetico, non che ella è l' unica. Usavamo questo riserbo di parlare, perchè un' altra causa estranea al concetto dell' animale e influente sul corso zoetico si è l' intelligenza, che nell' uomo è intimamente associata all' animalità. Se dunque consideriamo l' animalità nell' uomo, il corso zoetico riceve gli impulsi, che lo dirigono per una via anzichè per un' altra, o che lo fanno divergere dalla prima, da due cagioni: da un agente inferiore, ed è la materia, e da un agente superiore all' animalità, ed è l' intelligenza. La materia dunque e l' intelligenza sono le due cagioni, che nell' animalità umana determinano la direzione del corso zoetico, di maniera che quando questo corso è da quelle determinato, se si supponga ch' esse non cagionino più alcun' altra irritazione, il detto corso segue fatalmente per la sua via necessaria, perchè prescritta dalle leggi dei due istinti, senza declinare nè a destra, nè a sinistra. Ma se l' una delle due cause esteriori mentovate influisce di nuovo sull' animalità, quel corso è costretto a mutare direzione, percorrendo la nuova via con eguale certezza e necessità. Conviene nondimeno osservare che, come la materia determina o fa divergere il corso zoetico, operando nell' istinto vitale, in quanto questo è passivo verso la materia; così l' intelligenza determina o fa divergere il corso zoetico, operando sull' istinto vitale , in quanto questo è attivo verso la materia medesima. E veramente se una infausta notizia cagiona un sentimento di tristezza e di abbattimento, onde nasce questo fenomeno se non da ciò che l' anima intellettiva, addolorata per la fatale notizia, sottrae le forze all' istinto vitale e in parte anche all' istinto sensuale, di che il rallentamento del sangue e gli altri sintomi di debolezza e concidenza? Il grado dunque di attività dell' istinto vitale viene diminuito od accresciuto dall' azione diretta dell' anima intelligente, e così mutato il corso zoetico. Che se noi vogliamo considerare i primi passi dell' istinto sensuale , e cercare come questi vengano determinati, risulta da quanto abbiamo detto che ciò che li determina sono i primi sentimenti , effetti dell' istinto vitale. Quante dunque sono le specie, le forme, i gradi dei primi sentimenti dall' istinto vitale prodotti, altrettante sono le specie, le forme, i gradi dei primi movimenti cagionati nel corpo animale dall' istinto sensuale . Dai primi sentimenti adunque dipende tutto il corso zoetico, e i primi sentimenti dipendono dalle due cause accennate, la materia e l' intelligenza. Enumeriamo i sentimenti primitivi (1) secondo i loro tipi, o specie7piene (2), e vediamo da quali speciali cagioni ciascuno dipenda, e come egli inizii un differente corso zoetico. Il sentimento fondamentale ha per termini la materia continua e il moto; parliamo del sentimento fondamentale, in quanto ha per termine la materia continua. Al sentimento fondamentale di continuità deve essere data una materia avente certe disposizioni, precedenti all' azione dell' istinto vitale. Ma poichè una proposizione così generale non si può provare, non avendosi una materia e un istinto vitale disgiunti, si deve supporre prima di tutto un germe animato, il quale abbia una qualche materia acconcia all' azione animatrice dell' istinto vitale, con organizzazione opportuna al suo ulteriore sviluppo, la quale dicesi tipo primitivo dell' animale, mediante incessanti movimenti cagionati dall' istinto sensuale. Ciò premesso: L' animale non può conservare la vita, se non gli è data a suo alimento una materia avente certe disposizioni, precedenti all' azione dell' istinto animale. Questa proposizione è evidente a tutti quelli che considerano che non tutte le sostanze materiali possono servire di alimento all' animale. E` assolutamente necessario che siano continuamente sostituite molecole di azoto e molecole di ossigeno a quelle che l' animale va perdendo. Magendie, avendo alimentato alcuni cani con sostanze prive di azoto, come sarebbero zucchero, olio, acqua, ecc., in poco tempo morirono atrofici. Se l' ossigeno non nutrisse il sangue, l' animale morrebbe asfissiato. Nè basta ordinariamente che l' ossigeno sia ricevuto per mezzo del polmone mediante la respirazione; egli nutrisce e mantiene l' animale, insinuandosi in esso anche attraverso la cute. Lo stesso Magendie, avendo rivestito tutto il corpo di alcuni conigli e di altri animali, eccetto la faccia, d' un intonaco viscoso formato di una dissoluzione concentrata di gomma, di gelatina o di terebinto, in modo che la pelle non poteva più assorbire i gaz atmosferici, quantunque respirassero liberamente, quegli animali in poco d' ora furono morti asfissiati (1). Magendie d' altra parte ebbe pure dimostrato coll' esperienza che l' epidermide, e in generale tutte le membrane sono permeabili ai gaz (2). Oltre la qualità della materia, che dipende probabilmente dalla sua forma e composizione, è necessario che essa sia posta in continuità del corpo già animato, acciocchè l' istinto vitale possa invaderla. Benchè l' esperienza non dimostri, nè possa dimostrare la necessità di questa continuità, ma solo di una vicinanza, tuttavia a noi pare che la dimostri il ragionamento. Il terzo luogo è necessario, ancora, che quella materia opportuna dall' istinto vitale, mediante il corpo già vivente, venga elaborata, cioè minuzzata, ricomposta, purgata, classificata, distribuita. In quarto luogo che ella riceva dall' anima quell' ultima qualità, che la rende attiva in sull' anima stessa, di cui abbiamo altrove parlato (1). Date queste condizioni, il sentimento fondamentale di continuità si concepisce posto in essere, e conservante sè stesso; perocchè colle tre prime è formata l' organizzazione, e colla quarta l' organizzazione viene dotata di quell' ultimo atto che si dice vita extrasoggettiva, per la quale il corpo alla sua volta si rende attivo verso dell' anima, com' è necessario a spiegare la passività, che si ravvisa nel sentimento. E tutte queste condizioni si trovano nel germe animato, nel quale l' animale incomincia, sol che si annunzino così, riducendole a tre: 1 materia opportuna; 2 continuità; 3 animalizzazione (2). Quest' ultima condizione, quest' ultimo atto della vita extrasoggettiva del corpo, dipende, data l' organizzazione, dall' attività dell' anima sensitiva. E come questa attività può essere modificata dall' influenza del principio intellettivo, così non vi è dubbio che secondo la disposizione del principio intellettivo è modificata in ogni istante la produzione della vita e del sentimento conseguente, a segno che può essere impedito l' effetto vitale e la produzione del sentimento fondamentale; nel qual caso si ha in breve qualche disorganizzazione, e la morte. Il Nicholls narra di una dama inglese, che ai suoi tempi colta in adulterio, ne ebbe tanto dolore e vergogna da prenderle tosto la febbre, e venire in termine di morte. Impetrata dal marito sdegnato promessa di perdono, e tornata nella speranza di potergli tuttavia piacere, si riebbe da quell' estremo pericolo. Ma vedendola guarita, i parenti persuasero il marito che la moglie infedele aveva simulata quella infermità per rapirgli il perdono; ond' egli, partitosi per la campagna, mandò dire alla moglie aver egli fatto abbastanza conservandole la vita, del resto volere il divorzio. La donna infelice, stretta d' ambascia, altro non seppe rispondere se non ch' ella già si moriva, e rallentatolesi gradatamente il polso, sopravvenutale l' oppressione del petto, dopo poche ore cessò di vivere (3). Qual fatto più efficace di questo, e ve ne sono infiniti, a provare che la condizione in cui si trova il principio intellettivo, influisce sull' attività del principio animale, l' accresce, la diminuisce, la lega e la scioglie? Il sentimento fondamentale di continuità differisce dunque negli uomini primieramente per cagione dello stato in cui si trova il principio intellettivo. In secondo luogo egli differisce secondo il grado di continuità, che hanno fra loro le molecole viventi. Sembra probabile che la vita non esiga per sua condizione una continuità così determinata che non possa ammettere modificazione di sorte. Anzi mi pare probabile che vi sieno due limiti della continuità delle molecole, entro i quali si conservi la vita in istato perfetto, dico la mera vita di continuità, che parmi esiga continuità e nulla più. La continuità maggiore o minore dipende dalla forma e dalla grandezza delle molecole, le quali circostanze fanno sì che rimangano fra esse interstizi più o meno numerosi, e maggiori o minori. Ora, quanto il misto è più compatto e le particelle si combaciano in più punti, pare che la vita di continuità dovesse riuscire più fitta e robusta; ma la troppa aderenza delle molecole impedisce il loro movimento, e deve quindi scemare la vita di eccitazione. Ora il sentimento eccitato è troppo più che il sentimento di continuità. L' istinto animale adunque tende da una parte ad accumulare il sentimento, restringendo le molecole, e atteggiandole in modo che si tocchino colle massime superfici; dall' altra tende ad aiutare il loro movimento reciproco ed organico, e quindi a rotondarle e tenere le une dalle altre distanti nel maggior numero di punti possibili, senza che perdano di loro continuità. E` un vero problema di massimi e di minimi, che il principio animale risolve col fatto. Varia, dunque, il sentimento fondamentale di continuità anche secondo la maggiore o minore continuità delle molecole, di cui l' animale risulta. Varia secondo la quantità assoluta della materia suo termine; secondo la quantità di questa è più o meno esteso. Che se un corpo vivente perde un certo numero di molecole, questa perdita suol cagionare due effetti: 1 diminuire l' estensione del sentimento fondamentale di continuità; 2 modificare più o meno il sentimento fondamentale di eccitazione. Il primo effetto è perdita di qualche parte del sentimento di continuità. Si osservi la differenza fra questa perdita e la modificazione che soffre il sentimento di eccitazione. Questo suppone molecole, che mutino di posto senza abbandonare la loro continuità. Quando questo spostamento si diffonde in un dato organo, comunicante col centro fisico dell' animale, con certe leggi, nascono sensioni speciali, e la facoltà di esse si può chiamare sensitività speciale o di eccitamento speciale . Tale è la sensitività dei due ordini di nervi. Le altre parti del corpo, incapaci di quei grandi e speciali movimenti eccitatori, non hanno che la sensitività fondamentale di continuità, la quale si modifica senza eccitare la nostra attenzione, coll' addensarsi, col diradarsi, coll' ammettere nuove molecole, col dimetterle, ecc.. In questo senso tutte le parti del corpo si possono dire sensitive; ma non alla maniera dei nervi, la cui sensitività è eccitabile e speciale (1). Finalmente il sentimento fondamentale di continuità varia secondo che la materia è più o meno predisposta a ricevere l' azione dell' istinto vitale, e con essa la vita. Descrivere ed enumerare queste predisposizioni è cosa di gran lunga superiore al mio limitato sapere. Nè anche saprei dire, se non in parte, le vere cause, che danno alla materia quelle predisposizioni necessarie alla vita. Solo dalle cose dette apparisce che la materia, che si aggiunge ad un corpo vivo, per essere avvivata della stessa vita, deve avere certe qualità o forme, onde le si attribuiscono certi nomi, come di azoto, di ossigeno, ecc.. Apparisce, ancora, che deve essere elaborata dal corpo vivente al quale si accosta; elaborazione che riesce più o meno perfetta, secondo che è più o meno perfetta la macchina vivente che la elabora, e il principio che muove tutta quella macchina. Ma qualunque sieno coteste cause, che danno alla materia disposizioni preparatorie alla vita, certo è che anche in queste predisposizioni vi sono dei gradi, vi sono dei limiti di maggiore o minore predisposizione, entro i quali ha luogo la vita. Il sapere poi se le predisposizioni della materia possano alquanto variare, senza che venga meno la perfezione della vita, sicchè nella stessa perfezione della vita vi siano dei gradi, o delle forme diverse ed equivalenti, questo è assai più difficile a verificare. E per perfezione della vita intendo quel compiuto trionfo dell' istinto vitale sulla materia, pel quale non rimane più alcuna lotta fra i due elementi, ma il primo dominatore con atto assoluto nell' altro riposa. Certo non è impossibile a concepire che l' istinto vitale invada pienamente la materia, o che la invada con maggiore o minore forza. Il fatto dell' influenza del principio intellettivo sul crescere e sullo scemare le forze del principio animale, dimostra che la potenza di quest' ultimo varia di grado. Niente ancora vieta che secondo la disposizione della materia l' istinto vitale vi produca diversi effetti, ad alcuna parte non dia che la vita di continuità, ad un' altra anche quella di eccitamento, ecc.. Ma il determinare questi vari gradi, ella è una ricerca ancora intentata. Ora, ogni varietà del sentimento fondamentale di continuità è un elemento di variazione per l' istinto sensuale, che ne riceve un' attitudine diversa. Ma qual è l' effetto di questa attitudine? L' istinto sensuale primieramente tende a mantenere il sentimento. Tuttavia questo effetto, in quanto si oppone alle forze che lo vorrebbero distruggere o diminuire, si può attribuire anche all' istinto vitale; chè questo è il punto nel quale i due istinti convengono; perocchè se l' istinto vitale è quello che produce il sentimento, egli deve essere altresì quello che lo conserva; chè il conservarlo è un continuare a produrlo; coll' atto stesso con cui si produce, ei si conserva. D' altra parte, se l' istinto sensuale è quello che opera in conseguenza di un sentimento, al fine di continuarlo e di accrescerlo, questa attività stessa, che vuole continuare ed accrescere il sentimento, deve tendere prima di tutto a conservarlo. Il vero si è che i due istinti sono un' attività sola, e noi li riuniamo entrambi sotto la denominazione d' istinto animale . Ma perchè gli effetti si partono in due classi, diamo alla stessa attività due denominazioni, secondo che la consideriamo siccome causa di una classe di effetti o di un' altra. Queste classi si distinguono così, che gli effetti appartenenti alla seconda susseguono a quelli appartenenti alla prima; di modo che l' attività medesima non produce questi ultimi nel suo primo momento, ma nel secondo; non quando incomincia ad operare, ma quando continua l' operazione; è l' attività stessa, ma pervenuta ad un secondo grado di sviluppo. E poichè i secondi effetti non possono cominciare se non là dove finiscono i primi, quindi vi è un punto comune alle due maniere di operazione, nel quale finendo la prima, incomincia la seconda. Così avviene che la conservazione di un sentimento ha i caratteri dell' una e dell' altra classe di effetti, perchè la durata d' un sentimento involge da una parte il concetto di produzione, e dall' altra quello di continuazione . E` dunque un effetto che si riferisce ad entrambi gli istinti, che radicalmente sono un' unica attività. Se si considera dunque la conservazione di un sentimento come effetto dell' istinto sensuale, quella varierà: 1 di forza, secondo che l' efficacia dell' istinto vitale è maggiore o minore; 2 di estensione, secondo la quantità della materia; 3 di consistenza, secondo la continuità o spessezza della stessa materia; 4 d' indole e di qualità, secondo che la materia è organata in un modo o nell' altro, e secondo che le sue qualità preparatorie alla vita hanno maggiore o minore perfezione. Finalmente, se si suppone che alcune particelle, non al tutto prive delle predisposizioni necessarie alla vita, sieno in lotta coll' istinto vitale, e producano lo stato del dolore o della molestia (il quale pure varia secondo la natura e il grado dell' indisposizione di dette particelle, la loro qualità, il loro collocamento, ecc.); le varietà delle forze dell' istinto vitale imprimono uno stampo diverso all' attività dell' istinto sensuale. In generale conviene avvertire che il sentimento fondamentale di continuità non è idoneo a muovere all' atto suo l' istinto sensuale, ma solamente ad atteggiarlo in un modo piuttosto che in un altro, a costituirlo e determinarlo come una potenza. Perocchè a muovere l' istinto sensuale all' atto si richiedono sempre dei sentimenti eccitati, passeggeri di lor natura. E` dunque a parlarsi del sentimento di eccitazione, affine di spiegare come l' istinto sensuale si levi al suo atto. Cominciamo dal supporre un gruppo di particelle viventi al contatto fra loro. Tostochè uno stimolo qualunque sposti quelle particelle dalla loro reciproca posizione, senza che questo spostamento tolga la loro continuità, noi diciamo che si modifica ed eccita il sentimento in quel gruppo racchiuso, e nascono sensioni. Queste sensioni ammettono infinite varietà: celerità, frequenza di moto, numero di particelle, pressione reciproca, forza del principio vitale più o meno accentrato (1), ecc., sono altrettanti elementi variabili, che devono cangiare l' indole, il grado, il numero delle sensioni, ed appartiene ai progressi della scienza il determinare, fin dove è possibile, tutte queste differenze sensibili, di cui è suscettivo un vivente. Ma per sentimento fondamentale d' eccitazione non s' intende già un complesso di sensioni quale si vogliano, ma solo quel complesso di eccitamenti e di sensioni, che per l' unità della sua armonia è unificato in un sentimento individuo, che conserva lo stesso tipo, il quale tipo è il fondamento della specie dell' animale stesso. Onde si vede che anche nel sentimento fondamentale d' eccitazione si suppongono stimoli naturali, che si riproducono con legge costante, ma che tengono delle varietà nei vari individui della stessa specie. I quali stimoli sono stranieri all' animale, che è sentimento, ed appartengono al sensifero. Il loro effetto è il movimento extrasoggettivo, a cui s' accompagna la sensione, ossia il complesso armonico di sensioni continuamente riprodotte, che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione. E queste sensioni sono quelle che danno prima di tutte le altre la leva all' istinto sensuale, il quale viene al suo primo atto, che è quello di assecondare le dette sensioni, e così aiutare i movimenti che le producono a continuarsi ed a ripetersi (1). Cerchiamo dunque prima di tutto il concetto, che è uopo formarsi degli stimoli . Lo stimolo, ossia la potenza stimolante, deriva dalle forze materiali, meccaniche, fisiche, chimiche, ecc., da tutte le forze straniere, in una parola, alla forza vitale dell' animale individuo. Esse agiscono in opposizione a questa forza vitale, e l' opposizione si manifesta più apparente nel solido vivente, quando gli vengono applicate forze materiali o qualsiasi altra forza straniera, in modo da produrre nell' interno di lui qualche movimento. Ogni movimento, prodotto nell' interno del solido vivente, si può considerare come effetto di uno stimolo. Nell' uomo questi si dividono in due grandi classi: le forze intellettuali, in quanto influiscono sulla forza vitale, e le forze materiali. Restringendoci a considerare le varietà degli stimoli materiali, se ne possono in prima distinguere due grandi classi. I Classe. - Le sostanze materiali componenti lo stesso corpo vivente. II Classe. - Le sostanze materiali non componenti il corpo vivente. Le sostanze materiali componenti il corpo vivente si dividono in fluidi e solidi: i primi hanno l' ufficio principalmente di stimoli, i secondi di stimolati. Giovanni Rasori non considera tutti i fluidi del corpo vivente come stimoli, ma accordando la facoltà stimolatrice soprattutto al sangue, riguarda la bile, i succhi gastrici e intestinali, e i principŒ pinguedinosi, che penetrano in tutte le viscere e sino alle minime fibre, come sostanze controstimolanti . Ma nel senso in cui noi prendiamo la parola stimolo, non si può ammettere l' esistenza di sostanze materiali veramente controstimolanti in senso positivo, ma soltanto in senso negativo, atte cioè ad impedire l' applicazione o l' azione degli stimoli, ovvero a distruggere quel moto che produce uno stimolo, mediante un moto contrario; non atte ad abbassare direttamente la forza vitale, a meno che non sieno disorganizzatrici. Di maniera che a noi par meglio di non considerare come controstimolo se non: 1 tutto ciò che disorganizza la macchina; 2 le sensioni e affezioni, che, per mezzo dell' istinto sensuale, diminuiscono direttamente la forza dell' istinto vitale. Consideriamo dunque quelle sostanze materiali, che, applicate al corpo vivente, producono un allentamento e una diminuzione dei movimenti vitali, come controstimolanti indiretti. Ora, se « lo stimolo è tutto ciò che produce un movimento interno nel solido vivente, il concetto di stimolo si riduce sempre ad una causa di moto nell' interno del solido vivente », e perciò non si dà azione stimolante senza moto. Supponendo poi il moto prodotto da cause materiali, queste potranno agire in modo chimico, fisico e meccanico. Uno stesso agente può operare nella macchina umana in tutti e tre questi modi. Ma è da osservarsi che l' agente opera in modo chimico principalmente sui fluidi del corpo vivente; sui solidi poi l' agente esterno opera assai più in modo fisico e meccanico. L' aria opera in modo chimico sul sangue; in modo fisico col suo peso su tutto il corpo; in modo meccanico col suo impulso e movimento. La spinta, che il sangue rosso dà al cervello e a tutti i nervi, è un modo meccanico di operare. Ma egli agisce oltrecciò in un modo che non può dirsi meramente chimico, ma deve dirsi chimico7vitale, avvivando e nutrendo tutti i tessuti; perocchè sono le sue forze chimiche, associate alle forze vitali, che producono questi ultimi effetti (1). Quantunque i solidi non sieno per sè stessi stimoli, ma stimolati, tuttavia essi producono degli stimoli colle secrezioni dei fluidi, e col movimento e la direzione che loro dànno. Con essi determinano il sangue ad accorrere alla parte ferita, crescendo ivi in questo modo l' azione stimolante. Di più, essendo i solidi quelli che lavorano e segregano i fluidi, l' azione normale o anormale dei solidi altera in bene o in male la natura dei fluidi. Se per lo spasmo dei solidi, a ragion d' esempio, il sangue viene accelerato più del dovere e riscaldato, egli s' infiamma, la fibrina tende a dividersi dal siero e dal grumo, onde, estraendosi dalle vene, manifestasi la cotenna. La disposizione acquistata in tal caso dalla fibrina a separarsi dagli altri due elementi tende alla disorganizzazione; qui vi è una manifesta lotta col principio vitale, che ha già perduto alquanto del suo dominio sulle forze materiali. L' eccitamento è una condizione dell' animale, purchè egli sia tale: 1 che non tenda a togliere la continuità delle parti; 2 che tenda a perpetuarsi; 3 non tenda a togliere all' animale l' unità e l' individualità. Quindi all' animale deve piacere d' essere stimolato, anzi gli è necessario; è necessario che sia applicato all' animale continuamente un certo sistema di stimoli. In secondo luogo vedesi che non ogni eccitamento, ma solo un dato eccitamento è confacente; non tutti gli stimoli, ma solo alcuni sono opportuni all' animale. Gli stimoli inopportuni di conseguente sono: Quelli che tendono a distruggere la continuità delle parti. Quelli che impediscono la continuazione dell' eccitamento, o alterando l' organizzazione, o turbando l' applicazione e l' azione degli stimoli opportuni, o provocando dei movimenti opposti a quelli che provocano gli stimoli opportuni. Quelli che tendono a distruggere l' unità e l' individualità dell' eccitamento. Di che si conferma che non è la quantità dello stimolo che lo rende pernicioso, ma l' inopportunità; quantunque sia vero che anche la quantità, se eccede certi confini, renda lo stimolo inopportuno. Come la materia componente il corpo vivo si può considerare sotto l' aspetto di agente, che stimola lo stesso corpo vivo, o ridotta a stato di fluido, o smossa dal suo luogo, così si può considerare sotto l' aspetto di agente stimolante qualunque materia estranea al corpo umano, che, applicata al medesimo in qualsivoglia maniera, produca nel solido un intestino movimento; ed anche la materia estranea al corpo umano in virtù delle sue forze chimiche, o pel suo movimento meccanico, o per la condizione speciale della parte del corpo a cui viene applicata, o per altra circostanza, può rendersi stimolo opportuno, ovvero stimolo inopportuno. L' inopportunità dello stimolo non consiste dunque nell' essere la materia stimolante estranea al corpo, ma nel produrre sul corpo un' azione disarmonica a quella delle forze vitali, cioè contraria ad alcuna delle tre condizioni dell' animale, la continuità delle parti, l' eccitamento perpetuo e l' individualità. La materia esterna è solida o fluida. La materia solida, se non passa a stato di fluido, applicata al corpo umano meccanicamente, non fa per lo più che produrre alcuni movimenti nelle parti del medesimo. Ma la materia fluida, o che si rende tale applicata al contatto del corpo umano, può essere rapita nel vortice della vita; il principio vitale tenta alcuna volta d' invaderla continuando in essa il sentimento; così può diventare nutrimento dello stesso corpo. Ma fra l' essere una tale materia del tutto estranea al corpo e l' essergli assimilata, vi è un tempo e uno stato medio, nel quale si assolve l' operazione della nutrizione, presa questa parola in senso latissimo. Anche la nutrizione dunque si fa per via di stimoli; il corpo che deve passare in nutrimento, applicato al corpo vivente, lo stimola; in virtù di questo stimolo il corpo vivo s' appropria la materia nutritiva; la segrega, la distribuisce, e, se ella è solida, la trita e discioglie in liquido per potersene così nutrire; e tutti questi movimenti sono eccitamenti a lui gradevoli. Ma se la materia non è disposta come dev' essere, nasce la lotta fra le forze chimiche e meccaniche di questa materia e le forze vitali dell' animale, che non possono invaderla e dominarla: onde il dolore, la molestia, i funesti effetti, in una parola, che prova la macchina vivente. Di più, se la materia esercita una forza chimica sul corpo vivo contraria e prevalente alla sua forza vitale, di maniera che gli tolga l' organizzazione e l' atteggiamento proprio della vita, in tal caso ella distrugge l' animale, sottraendogli la materia. Tale è l' effetto dei veleni e dei potenti dissolventi, come il fuoco, ecc.. Allorquando uno stimolo applicato ad un gruppo di molecole viventi, spostandole senza spingerle fuori della sfera di continuità, suscita le sensioni, l' istinto sensuale comincia ad agire con un effetto suo proprio, e non più comune all' istinto vitale. Allora l' azione dell' istinto sensuale, intesa ad aiutare la produzione della sensione piacevole, asseconda di conseguente i moti incominciati dalla forza dello stimolo esterno, che aumentano il grado del piacere; li asseconda e li conduce assai più in là che la forza dello stimolo non farebbe, e li continua spontaneamente anche cessato il detto stimolo. Anzi, se ella non trovasse opposizione, se forze contrarie non l' affaticassero e non venissero scemando continuamente la quantità del moto, niuna ragione vi sarebbe per credere che il movimento incominciato cessasse mai più; sicchè si può dire a buona ragione che l' istinto sensuale, considerato in sè stesso, a differenza di tutte le forze brute, è causa di moto perpetuo. Se dunque il moto dell' istinto sensuale va a cessare, ne sono causa gli ostacoli che egli trova per via, venienti principalmente dall' inerzia e dagli attriti della materia, come pure dall' opposta tendenza dell' istinto a conservare il sentimento di continuità e di coesione. E quindi, acciocchè il movimento primitivo e naturale si continui, è necessario che gli stimoli si riproducano; e la natura l' ottiene parte con tener pronti nuovi stimoli esterni, parte coll' organizzazione, oltre ogni dire ingegnosa, del corpo vivente, la quale fa sì che le stesse parti vive, che sono mosse dall' istinto sensuale affine di prolungare ed accrescere la sensione e l' eccitamento, divengano esse stesse stimolanti col loro moto, ovvero generatrici, motrici e direttrici di fluidi stimolanti, e così producenti nuove sensioni, le quali rinnovano l' attività dell' istinto sensuale affievolita dalle difficoltà. Le parti vive del corpo diventano stimoli di altre parti vive, perchè la vita non toglie loro la forza sensifera. Ma acciocchè si ottenga la continuazione dei moti prodotti dall' istinto sensuale, e per essi la riproduzione degli stimoli e delle sensioni conseguenti, forz' è che si mantenga una somma regolarità e proporzione fra le sensioni del primo anello del corso zoetico e quelle del secondo e dei successivi, e così pure fra i movimenti del primo anello e gli altri che vengono appresso, in modo che non intervenga alcun salto, e tutto succeda per via di circolo con legge di regolatissima successione. Ed acciocchè questo si compia, è necessario che l' organizzazione di quel gruppo di molecole, che dicemmo corpo vivente, sia così artificiosa che gli stimoli riprodotti dall' istinto sensuale e somministrati altresì dalla natura esteriore, riescano sempre dello stesso genere e d' una attività costante, od ordinata a progressione. Allora si manifesta nel gruppo delle particelle viventi quel fenomeno, che corso zoetico abbiamo appellato. Il quale fenomeno caratteristico dell' animale, nel sistema che vuole viventi tutti gli elementi dei corpi, diventa la differenza specifica fra i corpi che si sogliono chiamare bruti e gli animali; colla quale differenza si può perfezionare la definizione dell' animale. Poichè, avendolo noi definito « « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo »(1) »; ora, aggiungendo quella differenza che lo separa dai corpi che bruti si dicono, si riduce quella definizione così: « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo, nel quale la sensitività eccitata riproduce con legge fissa un' alterna vicenda di stimoli, di sensioni e di movimenti ». E in quanto quest' alterna vicenda è abituale e normale, cioè quale è richiesta dal buono stato dell' animalità, in tanto le sensioni innumerevoli, che ella contiene e riproduce, appartenenti ad un solo principio sensitivo, costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, di cui gli uomini non si sogliono formare che una coscienza assai oscura (2). Ora, le prime sensioni sono effetti dell' istinto vitale e degli stimoli esteriori ed interiori, applicati dalla natura al sentimento fondamentale di continuità; questi stimoli, e i movimenti che producono, non appartengono all' istinto sensuale, il quale comincia ad operare in quelle prime sensioni che egli cerca di aiutare, e ne consegue la continuazione dei moti eccitatori. Si deve considerare dunque come primo anello del corso zoetico quello che si compone: 1 delle prime sensioni; 2 dei movimenti continuati o prodotti dall' istinto sensuale in conseguenza di esse (1). I movimenti , cagioni delle dette sensioni, variano per molte cagioni, le quali si riducono forse alle tre classi seguenti: Tutte le differenze, che abbiamo notate nel sentimento fondamentale di continuità, influiscono sui movimenti che producono il sentimento fondamentale d' eccitazione, e producono in esso altrettante varietà corrispondenti. Molte sono le specie d' organizzazione, atte a dar luogo ad un sentimento fondamentale d' eccitazione perpetuo, in modo che il principio animale perseveri entro il circolo sopradescritto di sensioni, movimenti e stimoli, senza lotta o dolore; e queste specie di organizzazione, e questi corsi zoetici organicamente diversi, costituiscono, noi dicevamo, i tipi dei diversi animali, cominciando dai zoofiti infino all' uomo. Nell' animale dello stesso tipo, anche supponendolo in istato di piena salute, il sistema fondamentale di movimenti eccitatori è variabile, secondo la qualità dei tessuti più o meno fitti, più o meno sviluppati, più o meno individuati, ecc., soprattutto nell' uomo, secondo la forza maggiore o minore dell' istinto vitale; e queste varietà accidentali dello stesso tipo costituiscono le varie indoli , che in una stessa specie di animali si manifestano, i vari temperamenti , i vari gradi di robustezza , le varie suscettibilità , ecc.. Ogni sistema fondamentale di tali movimenti è base d' un diverso corso zoetico, il quale differisce nelle diverse specie d' animali, e negli individui della stessa specie. Il corso zoetico, dunque, viene suscitato da stimoli, applicati dal di fuori ad un corpo vivente della vita di continuità. Dico stimoli applicati dal di fuori , perchè conviene distinguere gli stimoli estranei, che il vivente riceve e non produce a sè stesso, da quelli che egli stesso si produce internamente colla propria azione. I primi sono l' aria, l' acqua, il caldo, il freddo, i cibi, i corpi tutti stranieri, che applicati alla macchina animata vi cagionano qualche effetto, o salutare o pernicioso, come pure il principio intellettivo. A concepirne l' immensa varietà conviene fare diverse supposizioni; eccone alcune: Prima supposizione. - Che gli stimoli stranieri applicati da principio al corpo non si rinnovassero. In tal caso il corso zoetico finirebbe in breve tempo colla morte. Seconda supposizione. - Che gli stimoli stranieri si rinnovassero costantemente i medesimi, sì per la qualità che per la quantità, cioè si riapplicasse al corpo la stessa aria, lo stesso calore, la stessa luce, lo stesso nutrimento, ecc.. In questo caso il corso zoetico recherebbe l' animale per una successione di stati migliori o peggiori, la cui varietà in meglio od in peggio dipenderebbe dall' azione delle sue forze interne, determinate da quell' unica maniera, e quantità e qualità di stimoli, che gli sarebbero applicati. Per altro pare evidente che il corso zoetico a queste condizioni non potrebbe tirare avanti gran fatto, giacchè la costituzione dell' animale esige stimoli diversi, massime in quantità; l' adulto, a ragion d' esempio, ha bisogno di più cibo del bambino, ecc.. Terza supposizione. - Che l' applicazione dei medesimi stimoli si facesse o continua, o periodica; che variasse, in una parola, il tempo in cui si applicano tali stimoli, variasse il tempo in tutte le possibili maniere. E` chiaro che ogni varietà di tempo nell' applicazione dei medesimi stimoli cangia il corso zoetico, determina un nuovo corso. Quarta supposizione. - Che gli stimoli esterni che si rinnovano, cangiassero di quantità solamente. Quinta supposizione. - Che cangiassero nella quantità e nel tempo in cui si rinnovano, o continuano, o si tolgono. Sesta supposizione. - Che cangiassero di qualità solamente. Settima supposizione. - Che cangiassero di qualità e di tempo. Ottava supposizione. - Che cangiassero di quantità e di qualità. Nona supposizione. - Che cangiassero di quantità, di qualità e di tempo. Tutte queste supposizioni racchiudono innumerevoli determinazioni diverse del corso zoetico. Or bene, tutte queste mutazioni di stimoli esterni è appunto ciò che ha luogo nel fatto; di che conseguita che non si danno neppure due istanti della vita, nei quali gli stimoli esterni, applicati alla macchina vivente, non cangino in mille guise, nella qualità, nel tempo e nel modo, onde vengono a lei applicati, ecc.. Laonde il corso zoetico devia dalla sua direzione ogni istante della vita, e per più cause associate, una sola delle quali basta a farnelo deviare; ma tutte queste nuove direzioni che continuamente egli prende, non sono necessariamente morbose. Il che conferma che vi sono innumerevoli direzioni e cangiamenti del corso zoetico, che si contengono entro i limiti d' uno stato di buona salute; e che la salute dell' animale non è determinata da una sola linea, ma, per così dire, ella ha un territorio dove spaziare, uscendo dal quale l' animale entra nello stato morboso, o anche solamente in quello di decadimento, quando piaccia distinguere il morbo dal deperimento insensibile (1). Come si possono distinguere gli stimoli negli esterni e negli interni, prodotti dall' azione del vivente, così si possono distinguere i movimenti eccitativi della sensione prodotti dagli stimoli esterni primitivi, e quelli prodotti dagli stimoli secondi ed interni. Chiamo stimoli primitivi quelli che sono dati all' animale, e non prodotti da lui stesso; e stimoli secondi quelli che l' animale produce a sè stesso, in conseguenza delle alterne azioni di esso corso. Sì i movimenti primitivi come i movimenti secondi possono suddividersi in tre classi, considerandoli in relazione agli effetti che producono nei tre elementi, da cui l' animale risulta: 1) la continuità delle parti; 2) l' eccitamento; 3) l' individuazione dell' eccitamento. Di più i movimenti possono essere utili o dannosi a ciascuno di questi elementi (1), onde si avranno sei classi di movimenti eccitatori per ciascheduno dei due generi, cioè: 1) Movimenti utili alla continuità opportuna. 2) Movimenti dannosi alla continuità opportuna. 3) Movimenti utili all' eccitamento. 4) Movimenti dannosi all' eccitamento. 5) Movimenti utili all' individuazione. 6) Movimenti dannosi all' individuazione. E` chiaro che queste sei varietà si possono ritrovare tanto nei movimenti primitivi prodotti dagli stimoli esterni, quanto nei movimenti secondi prodotti dagli stimoli interni. Considerata la varietà degli stimoli e dei movimenti , veniamo alle sensioni , che si dividono anch' esse nei due generi delle primitive e delle seconde. Le primitive sono cagionate dai movimenti prodotti dagli stimoli primitivi, e costituiscono, in quanto sono naturali e tipiche, il sentimento fondamentale d' eccitazione; le seconde appartengono a tutti gli anelli successivi del corso medesimo. Come l' ente animale ha, quasi direi, due faccie corrispondenti, l' una soggettiva costituita dai sentimenti, l' altra extrasoggettiva costituita dai movimenti, così la classificazione dei movimenti si ripete nelle sensioni; anzi la classificazione delle sensioni e quella dei movimenti vanno di pari passo, e l' una può servire reciprocamente di fondamento all' altra. E` dunque necessario anche rispetto alle sensioni di osservare, in generale, esservi sensioni utili o dannose al sentimento di continuità, al sentimento eccitato, all' individuazione del sentimento. Questa classificazione si ravvisa non meno nel genere delle sensioni primitive, che nell' altro delle sensioni seconde. Le sensioni primitive danno la leva all' istinto sensuale, che per esse si mette in movimento. Richiamiamo brevemente le leggi, che noi abbiamo più sopra assegnate all' operare di questo istinto. Data una sensione, l' istinto sensuale tosto si pone in azione, e produce dei movimenti, che aiutano ad accrescere il piacere o a diminuire il dolore. L' istinto sensuale nell' uno e nell' altro caso viene in aiuto dell' istinto vitale, il quale produce il piacere, e lotta colla potenza nemica che glielo impedisce. La quantità della tendenza o dell' attività, colla quale insorge l' istinto sensuale, è pari all' intensità, e in generale alla quantità del sentimento eccitato. Il sentimento eccitato riesce più o meno vivo, secondo che è più o meno forte l' istinto vitale. Ma la maggiore o minore fortezza di questo dipende dalle cause accennate, e nell' uomo particolarmente dalle affezioni del principio intellettivo. Vedemmo che un gran timore razionale produce la paura, passione animale che debilita le forze dell' istinto vitale. Il grado di queste forze dipende ancora immediatamente dalle affezioni animali. La paura, la tristezza, ecc., in quanto sono affezioni animali, possono essere l' effetto di movimenti suscitati dall' azione dell' istinto sensuale; questo dunque di nuovo influisce immensamente a ingagliardire o debilitare l' istinto vitale, sicchè i due istinti influiscono l' uno sull' altro reciprocamente. Ma, qualunque sieno le cause che rendono l' istinto vitale più forte o più debole, certo è che in ragione della sua gagliardia anche le sensioni, che egli produce sotto gli stessi stimoli, sono più o meno forti, e quindi più o meno attive a sollevare l' istinto sensuale alla sua azione. Di qui nello stato di sanità i temperamenti flosci, snervati, linfatici, ed i temperamenti robusti. Di qui ancora la divisione delle malattie in acute e croniche ; quando le sensioni fondamentali sono ottuse e lenta tutta la sensitività, allora l' istinto sensuale, non potendo agire con attività nè a salvezza, nè a rovina della macchina, è inetto a produrre i movimenti salutari, che determinano le secrezioni e le escrezioni, le quali sarebbero necessarie o a dominare la potenza nemica, o ad espellerla: tale è la condizione del cronicismo. L' operazione dell' istinto sensuale suol cominciare con un senso d' inquietudine, perchè i movimenti che egli produce, non essendo compresi nel sentimento, nel primo istante egli non sa quali siano quelli che accrescono lo stato di piacere e diminuiscono lo stato di dolore, e però incerto tenta tutti gli aditi fino che si determina per una qualche direzione. Durante quest' incertezza, premendo da ogni lato l' attività sensuale, se ne ha quella inquietudine, che indica un bisogno di operare senza venirne tosto a capo. L' istinto sensuale conserva sempre, fra tutti gli stati a lui possibili, quello che gli è più piacevole. Quindi se l' operare gli costa tanta fatica o molestia, che il non operare gli riesca uno stato meno molesto, egli cessa da ogni sua operazione; dalla quale condizione procedono molte e importantissime conseguenze, alcune delle quali sono: Che quanto è maggiore l' impulso, cioè l' intensità della sensazione, tanto gli è più difficile il non operare, e l' operare costituisce per lui uno stato più piacevole o meno faticoso, meno molesto che lo starsi inerte, supponendo le altre circostanze eguali. Che l' intensità della sensazione venendo diminuita dall' abitudine passiva , questa diminuisce l' impeto dell' istinto sensuale, mentre l' abitudine attiva gli facilita il movimento, e così l' accresce. Che la forza, colla quale agisce l' istinto sensuale, non dipendendo dalla sola intensità della sensione, ma dal grado relativo di piacere che trova nell' operare, il suo sforzo di operare può diminuirsi per altre cagioni, cioè per tutte quelle che gli rendono meno piacevole e più faticoso l' agire; il che spiega in parte la capacità morbosa , ossia la tolleranza dei rimedi in dosi non tollerabili dall' animale in istato di sanità. Che la quantità del movimento , che l' istinto sensuale effettivamente produce, dipende in gran parte dall' organizzazione, la quale o vi mette ostacolo ed elide le sue forze, o si presta alla propagazione del moto, attesa la disposizione, e la forma mobile, e il grado di vita delle molecole. Che allorquando l' organizzazione sconcertata pone l' istinto sensuale in sì misera condizione, che egli non può fare movimento di sorta, senza che questo gli riesca più doloroso e molesto che il cessare intieramente da ogni azione, esso cessa di fatto dall' operare; il che è quanto dire l' animale muore d' una cotal morte quasi spontanea. L' organizzazione in questo caso non è così estesa che non si potesse prestare a ricevere il senso, ma l' istinto sensuale non si applica più a produrre in essa i movimenti eccitatori, necessari alla conservazione dell' organizzazione medesima, la quale ben tosto si guasta per modo da rendersi inetta alla vita eccitata, individuale. Si possono quindi concepire quattro principŒ di morte: 1 Il principio razionale, che colto da somma affezione sottrae tutte le forze all' istinto vitale, onde, quantunque nel primo istante non vi sia disorganizzazione, tuttavia questa succede tantosto. 2 La materia, che per violenza straniera si disorganizza, e così si sottrae all' azione dell' istinto vitale. 3 L' istinto sensuale che, prescegliendo di astenersi da ogni azione perchè gli riesce più molesta dell' inazione, cessa dal produrre quei movimenti, che sono necessari al mantenimento dell' organizzazione medesima. 4 L' istinto sensuale, che produce qualche movimento così precipitoso che rompe l' organizzazione. Allorquando mancano le cagioni per le quali l' istinto sensuale si rifiuta a produrre i movimenti, questi si aumentano o diminuiscono secondo che sono maggiori o minori le sensioni, e si aumentano o diminuiscono in tutta la macchina, o assai più in certe località secondo che le sensioni sono locali, e l' istinto sensuale trova che l' una o l' altra cosa più si confà a quello che egli cerca, lo stato piacevole. Dal che dipendono le infiammazioni locali ed altri fenomeni, su cui torneremo là dove prenderemo a considerare il terzo elemento del sentimento fondamentale, l' unità e l' armonia. Torniamo ora alla distinzione fra le sensioni primitive e le sensioni seconde . Noi abbiamo riposto il carattere delle sensioni primitive in questo, che l' istinto vitale, che le produce, non è ancora modificato dall' azione e dai prodotti dell' istinto sensuale; quindi quelle sensioni sono l' effetto dell' attività vitale nel suo stato nativo. E veramente l' istinto sensuale suscitato dalle sensioni primitive produce colla sua azione quasi delle nuove potenze, cioè l' abitudine , la ritentiva , l' affezione , il presentimento , ossia aspettazione animale, che è un' affezione risultante da più sentimenti successivi uniti in virtù della forza sintetica, come abbiamo dichiarato nell' Antropologia ; le quali tutte sono altrettante attività acquisite, e propriamente modificazioni e accrescimenti delle facoltà originali dell' animale. Le sensioni primitive , adunque, sono quelle che vengono prodotte da movimenti eccitatori primitivi , cioè da movimenti non prodotti da sensioni anteriori, ma da stimoli esterni e dai connaturali stimoli interni. Altro carattere delle sensioni primitive si è l' esser quelle singolari : l' effetto di più sensioni primitive contemporanee, che si fondono in una sola affezione , è già un prodotto delle sensioni primitive, e non primitivo. Nè le sensioni primitive si devono confondere colle mutazioni, che possono nascere nel sentimento fondamentale di continuità; chè quelle appartengono al sentimento eccitato. Il sentimento fondamentale di continuità può modificarsi, o perchè s' accostino nuove molecole all' esteso sentito, o perchè se ne distacchino. Nell' accostarsi di nuove molecole possono concepirsi i seguenti casi: Che le dette molecole abbiano già l' organizzazione simile a quella del corpo vivente, a cui s' uniscono. Questo sarebbe il caso della trasfusione del sangue da un individuo in un altro, della ristorazione del naso perduto, o del ricoprimento che si fa nelle amputazioni del moncone cogli integumenti, del rimarginamento delle ferite, ecc.. In tutti questi accostamenti di molecole si deve prescindere dal considerare le sensioni dolorose o piacevoli concomitanti, prodotte dai movimenti eccitatori, e si deve solamente considerare l' operazione dell' istinto vitale, che continua il sentimento individuato alle nuove particelle; questa operazione sola è quella che appartiene alla classe d' alterazione primitiva del sentimento fondamentale di continuità, di cui noi parliamo. L' operazione, che rende continuo il sentimento alle molecole accostate e già ben disposte, si concepisce come spontanea all' istinto vitale. Ma poichè l' accostamento non può esser fatto sempre in modo perfetto (chè è impossibile, a ragion d' esempio, che nel rimettimento del naso risponda la parte, che si attacca, a quella a cui viene attaccata, così appunto da combaciare vaso a vaso, filamento a filamento, ecc.), quindi interviene per accidente un lavoro complicato dell' istinto vitale, che compisce ciò che manca al perfetto combaciamento e continuità delle parti. Supposto questo caso come possibile, l' aggiunta delle molecole egualmente organizzate sarà utile o dannosa al corso zoetico, secondo che quelle molecole sono soverchie al bisogno della macchina, o riparatrici di molecole mancanti. Il soverchio, poniamo la soverchia abbondanza di sangue, altererebbe il corso zoetico in più modi; ma queste alterazioni non riguardano la continuità, ma l' eccitamento impedito o promosso con eccesso, e l' unità animale. Che le molecole sieno organizzate a sufficienza per fare che l' istinto vitale vi aggiunga colla sua attività quell' ultima modificazione, che è loro necessaria ad entrare nella vita dell' individuo; come accade di tutte le materie alimentari, che si digeriscono. La funzione della nutrizione è un corso di azioni successive dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, che fornisce un elemento al corso zoetico. Quando gli organi sono in istato normale e gli alimenti adattati, tutte queste serie di azioni dei due istinti sono naturali e piacevoli. Ma se vi è difetto negli organi, o nella qualità o nella quantità della materia, se vi sono degli stimoli inopportuni , ritrosi a lasciarsi dominare dall' istinto vitale, onde occasionino la lotta del dolore ed i conseguenti movimenti, ecc., tutto ciò altera il sentimento fondamentale d' eccitamento. Nutrito poi il corpo, è cangiato il sentimento fondamentale di continuità . Il qual cangiamento si riduce all' essersi aggiunte al continuo vivente alcune molecole. La quale aggiunta è di nuovo utile o dannosa al corso zoetico, secondochè le molecole aggiunte o sono riparatrici di quelle che contribuivano alla perfezione naturale della macchina, o riescono soprabbondanti rispettivamente alla loro ripartizione, a ragion d' esempio, se un genere di fluido ecceda in quantità, o un solido si sviluppi soverchiamente in proporzione degli altri, le quali due cagioni sogliono allentare l' organizzazione, e quindi l' ardire dei movimenti zoetici. Medesimamente, se la nutrizione riesce imperfetta, le secrezioni non ricevono pienamente la qualità che le rende atte alla vita. I due precedenti effetti sconcertano l' eccitamento e l' unità animale. Il terzo solo è un male inerente all' elemento della continuità, perchè le molecole inserite nel corpo non vi sono a pieno dominate dall' istinto vitale, e così divengono stimoli inopportuni . Che si tratti d' una materia solida, non convertibile in fluido dalle forze vitali; nel qual caso non si assimila al corpo vivente. Questa suol alterare il corso zoetico, pel movimento che produce nel corpo col suo impulso meccanico. Che si tratti d' una materia, le cui forze chimiche agiscano sul corpo vivente con potenza maggiore di quella del principio vitale, e tendano a disorganizzarlo, sottraendolo all' influenza di questo. Più facilmente che sui solidi si vede questo avvenire sui fluidi del corpo, ed è il caso dei veleni che scompongono il sangue, ecc. (1). Questo agente sulle forze materiali del corpo vivo, il quale tende a dare alle molecole un' organizzazione, una posizione, un' attitudine diversa da quella che esige l' animale, e che si affatica di dar loro l' istinto vitale, ha per effetto la distruzione dell' organizzazione vitale; non può essere impedito dall' addurre la disorganizzazione dal solo istinto vitale , ma può esser vinto talora dall' istinto sensuale , che viene in soccorso del vitale. E questo è il caso delle febbri, che nascono dai miasmi, del vaiuolo, e di tutte le malattie, che accusano una materia morbosa, introdottasi comecchè sia nel corpo umano; la qual materia dopo un certo tratto di tempo cessa dall' esercitarvi un' azione nocevole, sia perchè ella venga dalle stesse azioni concitate dell' istinto sensuale escreta dal corpo, o negli esantemi, o in altra guisa, sia perchè ella venga dalle stesse azioni concitate elaborata, ricomposta, e resa atta a ricevere il dominio della vita. Ella può essere ancora neutralizzata dall' azione di altra materia, introdotta insieme con essa nel corpo, come accade nell' uso dei controveleni, per esempio, dell' ammoniaca contro il veleno della vipera. Nei quali casi il corso zoetico riceve grandi alterazioni; ma durante il combattimento non è l' alterazione portata al sentimento fondamentale di continuità quella che lo muta così, ma quei cangiamenti del corso zoetico avvengono per l' alterazione che riceve il sentimento fondamentale d' eccitamento, e per le sensioni parziali. Se poi si considera il caso in cui le molecole del corpo vivente si dividano da lui, questo può farsi: 1 per le varie escrezioni; 2 pel violento distacco d' una parte. E l' uno e l' altro caso modificano il corso zoetico. Molte escrezioni sono naturali, ed effetto inevitabile dei movimenti appartenenti allo stesso corso zoetico, nè sono sensioni dolorose, scemano solamente il sentimento fondamentale di continuità. Ma quando non sieno riparate, il sentimento fondamentale di continuità non può scemare, senza che scemi anche quello d' eccitamento, poichè le molecole perdute lasciano nel corpo una diminuzione di stimoli, e se la perdita è eccessiva, anche una alterazione nell' organismo dei solidi, che li debilita. I fluidi, se soverchiamente diminuiscono, non possono più stimolare il solido colla stessa efficacia ai movimenti, coi quali si compiono le funzioni. I solidi, oltre non essere più sufficientemente stimolati ed eccitati, deperiscono per mancanza di nutrizione, impiccioliscono, si disseccano; si altera in una parola quell' organismo, che è necessario a compiere perfettamente le funzioni medesime. Quindi niente vieta che tutte le escrezioni e le sottrazioni del corpo si dicano controstimolanti, purchè di questi controstimolanti niuno si faccia un concetto fantastico, quasi d' una potenza positiva opposta a quella dello stimolo. Anche la perdita di un membro, diminuendo il sentimento fondamentale di continuità, modifica il corso zoetico; ma questa modificazione, assai più che a diminuzione dell' esteso sentito, deve attribuirsi all' imperfezione rimasta nell' organismo, a danno del sentimento fondamentale d' eccitamento. Premesse le quali cose, veniamo a considerare la varietà delle sensioni primitive, il cui complesso, nella sua parte costante e tipica, costituisce, come abbiamo detto, il sentimento fondamentale d' eccitamento. Queste sensioni variano: Per la varia azione del principio intellettivo, che opera sulla parte animale per via d' affetto e di volontà. - E` l' affetto principalmente quello che altera il sentimento fondamentale d' eccitamento. Tutti gli affetti razionali, che hanno per oggetto il bene, accrescono il sentimento fondamentale d' eccitamento, e quelli che hanno per oggetto il male, lo diminuiscono. Chi volesse entrare nella ricerca più particolareggiata di questa influenza degli affetti razionali sull' animalità, dovrebbe prima determinare la diversa indole d' eccitamento, che produce l' affetto razionale, che abbia per oggetto un bene o un male fisico; poi quell' affetto, che abbia per oggetto un bene o un male intellettuale (scienza); e finalmente quello, che abbia per oggetto un bene od un male morale. Dopo questa differenza categorica converrebbe distinguere le diverse maniere di affetti razionali, che possono aver luogo circa lo stesso oggetto categorico, e trovare quale maniera d' eccitamento venga prodotta da ciascheduna. Di più si dovrebbero classificare gli oggetti buoni o malvagi contenuti in ciascuna categoria, riconoscere e caratterizzare la proprietà eccitante e deprimente di ciascuna classe. Ma noi, lasciando altrui queste ricerche, osserveremo solamente che gli affetti razionali riguardanti il bene si possono chiamare stimolanti , e gli affetti razionali riguardanti il male si possono chiamare controstimolanti , se pur si vuole lasciare a questa parola il significato d' una cagione, atta a diminuire direttamente l' attività del principio vitale. Per la varia organizzazione. - Dipendendo l' eccitamento del sentimento fondamentale dai movimenti abituali intestini del corpo, la diversa direzione, celerità, moltitudine di movimenti, ecc., che loro presta l' organizzazione, influisce a cangiare le sensioni corrispondenti, e con esse tutto il corso zoetico. A ragion d' esempio, i nutrienti cangiano il corso zoetico anche modificando l' organizzazione. Si debbono considerare in due tempi: durante l' opera dell' alimentazione, e allora essi sono stimoli esterni, opportuni, naturali, piacevoli; e nel tempo in cui sono già assimilati al corpo umano e avvivati, ed allora parte cangiati in fluido sono diventati stimoli interni, parte divenuti solidi, costituiscono quella parte di organismo, su cui opera principalmente lo stimolo. Per la varia qualità e quantità degli stimoli. - Accrescendosi gli stimoli interiori ed esteriori, il sistema delle sensioni e dei movimenti conseguenti deve alterarsi. Dico deve alterarsi, non dico accrescersi. Perchè, quantunque sia vero in generale che col crescere dello stimolo fino ad un certo grado, crescono i movimenti e le sensioni, tuttavia, oltrepassato quel grado, lo stimolo soverchio intorpidisce e istupidisce la parte che resta inattiva; nuova ragione d' attendere a studiare l' opportunità dello stimolo, non la mera quantità. E io credo che sia per questo che così spesso i sintomi ingannano quel medico, che l' interpreta con soverchia confidenza, o isolatamente, o giusta le povere regole del sistema della quantità. Quante volte la prostrazione delle forze e l' abbassamento dei polsi sembrano indicar debolezza, e forse è segno di soverchio stimolo, che impedisce l' azione vitale, o la restringe al centro! Il quale effetto della stupidità della fibra, prodotta da soverchio stimolo, parmi un fatto dei più importanti per l' arte medica, se si considerano gli effetti, che nel corso zoetico possono conseguitarne. Poichè, se i movimenti accelerati nell' interno del corpo umano producono maggiori stimoli, e se questi movimenti rallentano, quando gli organi istupiditi da stimolo soverchio sono inetti ad una maggior azione, avremmo contemporaneamente due cause operanti in senso opposto: avremmo un eccesso di stimolo, che intorpidisce gli organi, e in conseguenza di questo torpore una diminuzione di stimolo riprodotto, quasi che la natura cerchi così di restituire l' equilibrio. Rimarrà dunque a vedere se nella somma degli stimoli accresciuti e diminuiti vi sia aumento complessivo o diminuzione, cioè se gli stimoli interni possano essere diminuiti dall' inazione degli organi più che non sieno accresciuti gli stimoli esterni, il cui eccesso ha prodotto quel torpore. In questo caso l' effetto totale di sostanze realmente stimolanti potrebbe riuscire ad una diminuzione di stimolo; osservazione che dimostra la difficoltà di determinare quale sia la vera natura ed efficacia dei rimedi. Vedo, a ragion d' esempio, che la digitale diminuisce l' azione del cuore e dei vasi, rallenta la circolazione, dispone al sonno; ma chi mi sa dire se l' effetto di questo vegetale sia prodotto dall' esser egli veramente, come dicono, un controstimolante, e non piuttosto uno stimolante eccessivo? Se si considera che quando il ventricolo è irritato, lo stesso rimedio produce effetti contrari, accelera il polso, aumenta le secrezioni, cagiona vertigini o gravezza di capo, non si potrebbe dubitare che, trovando egli maggior forza vitale che gli resiste, e quindi non potendo più produrre l' effetto dello stupore, manifesti allora la sua vera proprietà stimolante? Ed anche se, data ad alte dosi, la digitale mostra di essere stimolante, è forse che allora ella stessa produca quell' esaltamento, quell' irritazione che resiste, e quindi esclude lo stupore? Checchessia di questi dubbi, pare però certo il fatto generale, che un forte stimolo istupidisce, scema i movimenti vitali, e questi movimenti scemati scemano alla lor volta la riproduzione o l' azione degli stimoli interni; e però rimarrà sempre argomento importante alla meditazione dei dotti medici quel calcolo, che accennavamo, sull' effetto ultimo e complessivo di quelle due serie di stimoli eccedenti e declinanti; rimarrà degno nei casi speciali d' investigarsi il rapporto, secondo cui crescendo la prima serie, può diminuire la seconda; nè sarà una cosa assurda il concepire la possibilità, che con un rimedio stimolante di sua natura si ottenga il risultamento d' una diminuzione effettiva di stimolo; e tutto questo dimostrerà che il vedersi diminuito l' eccitamento in un infermo in conseguenza di un rimedio, non è ancora infallibile prova a conchiudere che quel rimedio sia di natura piuttosto controstimolante o deprimente, che stimolante, come pur facilmente si conchiude da chi non riflette alla serie complicata di cause e di effetti, che nel corso zoetico s' intrecciano e reciprocamente si modificano (1). Dalle quali cose si raccoglie: Che il sentimento fondamentale d' eccitamento può essere normale e piacevole, anormale e doloroso. Che lo stesso sentimento, normale ovvero anormale, può essere maggiore o minore, secondochè l' eccitazione è maggiore o minore. Che non è la maggiore o minore eccitazione quella che pone l' animale nello stato di salute o di malattia; ma questi due stati sono costituiti dalla normalità o anormalità dell' eccitamento. Che anzi quanto è maggiore l' eccitamento, purchè normale, tanto è maggiore la prosperità dell' animale. Che la misura massima dell' eccitamento dipende nell' uomo da tre cagioni; cioè dallo stato dell' animo, ossia dall' azione del principio razionale ; dall' organizzazione normale o anormale, più sviluppata o meno, più robusta o meno robusta; e dalla quantità maggiore o minore degli stimoli esterni e degli stimoli interni . Che ogni modificazione che nasca in alcuna di queste tre cause, ella cangia totalmente il corso zoetico in bene od in male. Se l' eccitamento oltrepassa la sua misura massima, egli diventa inopportuno , e la misura massima è relativa alle tre condizioni accennate. Tuttavia, che la quantità dell' eccitamento non possa costituire il carattere della malattia, vedesi anche da questo, che negli uomini più robusti le malattie diventano più violente, e nei deboli, di temperamento floscio e linfatico, prendono un carattere più mite e benigno. E tuttavia chi dirà che lo stato di robustezza non sia migliore dello stato di debolezza? Ma essendo il primo di questi due stati formato da azioni vitali più forti ed eccitate, se l' eccitamento esce dalla sua forma normale, il corso zoetico, che ritiene lo stesso impeto, precipita a maggiore rovina. Quindi la robustezza e l' eccitamento maggiore, cosa pregevole in istato di sanità, diventa funesto in quello di malattia, a segno che i medici talora lo confondono colla malattia stessa. Ed è facile il confonderlo, perchè quel corso normale, che è più attivo, produce anche stimoli maggiori; quindi nelle malattie, da cui vengono presi i robusti, vi è quasi sempre anche eccesso d' eccitamento. D' altra parte non isbagliano in tal caso i medici, se tentano di sottrarre alla macchina le sue stesse forze naturali e convenienti, acciocchè traviate, siccome sono, non servano ad accrescere la malattia. Il Rasori riconosce nelle febbri epidemiche, nel vaiuolo, ecc., una materia morbosa irritante, ricevuta nel corpo umano, e consigliando la cura deprimente, la vuol moderata, perchè, dice, [...OMISSIS...] ; parole che non so, a dir vero, quanto sieno coerenti al sistema dell' illustre autore, che, in tutte le malattie per soverchio eccitamento, concepisce la cura sanatrice siccome una semplice diminuzione d' eccitamento soverchio, e non ammette differenza essenziale fra i diversi controstimolanti; di che dovrebbe venirne che la stessa presenza della materia morbosa stimolante si potesse rendere innocua direttamente, con una dose di controstimolanti, che ne pareggiasse in senso contrario l' effetto. Ma il fatto si è che la cura depressiva, che si scorge così utile nelle cure di tali morbi, altro non sembra ottenere, e lo si confessa, che una minor veemenza nelle operazioni del corso zoetico; veemenza, in cui non consiste l' essenza del morbo, la quale sì bene consiste nell' anormalità o disordine degli alterni movimenti, che diviene più rovinoso partecipando di quella naturale gagliardia, con cui si compiono i movimenti e le sensioni vitali. Dalle sensioni passiamo ora a considerare la stessa facoltà di sentire, e notiamone le varietà in relazione al corso zoetico, che ne rimane determinato. Il sentimento fondamentale è un atto, il primo atto del sentimento; sotto questo aspetto egli non è una semplice facoltà . Se si volesse concepire una facoltà anteriore al sentimento fondamentale, la facoltà di questo sentimento altro non sarebbe che un ente di ragione, una finzione della mente nostra, perchè dinnanzi a un primo atto non esiste nulla nel soggetto, neppure una facoltà presa in senso attivo; dinnanzi al sentimento fondamentale non esiste neppure l' animale. Che se per facoltà del sentimento fondamentale s' intendesse l' attività che lo produce, l' istinto vitale in tal caso non avrebbe una facoltà anteriore a lui, ma in lui stesso si considererebbe la forza che lo costituisce, la sostanza dell' anima. Per facoltà di sentire nulla di questo noi intendiamo, ma soltanto la potenza attiva di sentire in altro modo da quello del sentimento fondamentale. Per sensione intendiamo una specie di modificazione del sentimento fondamentale, non ogni specie. Le modificazioni del sentimento di continuità non sono sensioni; l' uomo, per quanta attenzione vi ponga, difficilmente giunge ad osservarle, a formarsene coscienza. Neppure l' aumento o la diminuzione della forza dell' istinto vitale è sensione, nè si raggiunge dal pensiero dell' uomo, che ne rimane inconsapevole. Le sensioni appartengono insomma al sentimento eccitato ; sono le modificazioni di questo (1). La sensitività prende diverse forme speciali; ammette diversi gradi di ciascuna forma, e tutto ciò varia la condizione dell' animale, l' andamento del corso zoetico. Da che dunque dipendono le varie forme specifiche e i vari gradi della sensitività animale? Volendo trovare di queste mirabili varietà di specie e di grado la ragione ultima, che è veramente formale , si dovrebbe ricorrere col pensiero alla natura intima del sentimento fondamentale, modificazione del quale è la sensione. Poichè la ragione delle modificazioni, di cui è suscettibile un soggetto, non può essere che nella natura di lui medesimo; chè modificazioni di un soggetto vuol dire il soggetto stesso esistente in altri modi, e conservante in tutti la propria identità. A chi domanda ulteriormente perchè un soggetto possa esistere in diversi modi, altra ragione non si può dare se non che tale è la sua natura. Se noi conoscessimo positivamente la natura di un soggetto, potremmo conoscere altresì a priori tutte le modificazioni di cui è suscettivo, cioè dedurle dal solo concetto della sua natura. Ma la natura del sentimento fondamentale non è a noi nota in sè stessa, come si scorge considerando che il sentimento fondamentale di continuità sfugge alla nostra attenzione intellettiva. Ora l' eccitamento non è che un atto del sentimento di continuità. Sottratto dunque alla nostra coscienza il sentimento fondamentale di continuità, si rimane incognita anche la natura del sentimento d' eccitazione, e noi non possiamo che dedurre i suoi modi, forme e gradi cioè, a posteriori, dall' esperienza delle sensioni, che sono atte a cadere nella nostra coscienza. Ma che tutte quelle diverse forme di sentire dipendano dall' intima natura del principio sensitivo, che è la sostanza dell' anima, noi siamo costretti ad affermarlo anche dalla meditazione dei fatti. Poichè è un fatto che lo stesso identico sentimento ha più modi di essere; è un altro fatto che questi modi si cangiano, senza che egli perda la sua identità; è un terzo fatto che ciò che si chiama sensione non è che un modo del sentimento; un quarto fatto che nel sentire vi è un elemento di passività, della quale il soggetto è il principio sensitivo; un quinto fatto che vi è pure un elemento di attività, di cui il soggetto è pure lo stesso principio sensitivo. Dunque le varie forme di sentire dipendono dalla speciale natura della passività e della attività di esso principio. Ora, un principio contiene in sè virtualmente tutti gli atti e tutti i modi, di cui egli è suscettivo; dunque nel principio sensitivo si contengono virtualmente tutte le diverse forme di sensioni, le quali non sono create di nuovo quando cadono nella nostra coscienza, ma si estrinsecano, da implicite diventano esplicite; il sentimento non cangia l' essere, ma il modo dell' essere. Rimane a vedere quali sieno le occasioni o le condizioni, date le quali, la sensione si esplica. Il fatto, che dobbiamo aver presente, ridotto ad una formola generale, è questo: « il sentimento si atteggia nel modo più piacevole che gli sia possibile ». Ma che cosa è mai che mette un limite alla possibilità di atteggiarsi in varie guise? Dobbiamo sempre rispondere come per innanzi, la propria natura del sentimento fondamentale. A priori, non abbiamo a dire di più; solo ci resta il poter ricorrere all' esperienza per conoscere in qualche modo questo limite, per sapere altresì quale sia, date certe condizioni, l' atteggiamento più piacevole che può prendere il sentimento. E posciachè l' esperienza ci attesta che la natura del principio sensitivo racchiude un elemento di passività in rispetto ad un ente extrasoggettivo, s' intende che questo ente extrasoggettivo e la sua maniera di operare deve essere una delle condizioni, da cui dipende lo stato più piacevole dell' animale, di modo che il sentimento deve trovare più piacevole l' atteggiarsi in un modo anzichè in un altro, quando l' ente extrasoggettivo opera su di lui piuttosto in un modo che in un altro. Quindi niente ripugna che le diverse forme della sensitività dipendano dalla diversa organizzazione degli organi, di maniera che la ragione perchè l' occhio è suscettivo delle sensioni colorate, l' orecchio delle sensioni sonore, le nari delle sensioni odorose, il gusto delle saporose, lo stomaco, gli intestini, ecc., di sensioni di lor propria forma, altra non sia che la diversa azione del corpo sul principio sensitivo, dipendente dalla diversa organizzazione dell' organo stesso, benchè il principio sensitivo abbia il medesimo atto, quanto è da sè sotto ogni organizzazione. Questo può essere confermato anche coll' osservazione che fanno i fisiologi, che ogni nervo stimolato non dà altra sensione che la sua propria: così il nervo olfattorio non dà luogo ad altra sensione che a quella degli odori, l' ottico non ad altra che a quella dei colori, ecc.; quindi se il principio senziente è eccitato dai movimenti convenienti del nervo olfattorio, egli sente odori grati; se poi quei movimenti attentano a turbare l' eccitamento naturale, nasce la lotta che si manifesta cogli odori spiacevoli (1). Quanto al senso ottico, lo spiacevole suo proprio sta nell' oscuramento della vista, o nell' essere offesa da soverchia luce. Non è dunque a dubitarsi che, trovandosi dovecchessia i nervi opportuni, lo spirito dovecchessia sentirebbe; che egli potrebbe vedere col piede, se nel piede vi fosse un nervo organato siccome l' ottico, o udire colla mano, se nella mano vi fosse il nervo acustico, ecc.; che potrebbe vedere anche in cento parti del corpo, come si finse Argo, se cento occhi fossero nel corpo umano, e così si dica d' ogni altra sensione, la quale è in un luogo piuttosto che in un altro, in un solo piuttosto che in molti, non per alcuna diversità della sensitività o facoltà del principio senziente, ma per la diversità dell' organizzazione, che obbliga la sensitività a determinarsi in un modo piuttosto che in un altro, riuscendole più piacevole così in quelle circostanze. Mancando poi un organo a quella guisa costrutto, cessa la forma relativa di sensione (1). Il Morgagni, il Fatner, il Loder e il Valentin raccontano che in uomini, i quali non avevano mai sentito odore, trovarono mancare i nervi olfattori. Ora poi è certo che ogni forma speciale della sensitività ha virtù di mutare la serie delle azioni vitali, di cui si compone il corso zoetico, rispondendo ad ogni specie di sensione una specie determinata di movimenti promossi dall' istinto sensuale. Passando ora noi ai diversi gradi della sensitività, la ragione di questa diversità si riduce: 1 ad una particolare disposizione del principio senziente; 2 ad una particolare disposizione della materia animata, che lo determina ad un atteggiamento piuttosto che ad un altro. E quanto a questa particolare disposizione della materia, l' esperienza insegna che in certi corpi vi è una tessitura più fina, e delle membra più sottilmente organate; e gli individui, le cui carni e i cui organi sono più finamente tessuti, dimostrano possedere una sensitività più delicata, più pronta, più vivace, più potente. Quanto poi all' azione maggiore o minore del principio sensitivo, questo opera con più o meno di forza, per le diverse cagioni che abbiamo accennate. L' istinto vitale s' avvilisce, quando l' animo è occupato dal dolore, s' incoraggia, quando l' animo è diffuso nella gioia. Se il principio intellettuale è rapito nella contemplazione d' un oggetto, l' animalità smette una parte della sua operosità, perchè, essendo unico il soggetto e d' una quantità limitata di forza, non può usarne una porzione considerevole nelle operazioni intellettive, senza sottrarla alle operazioni animali. Ond' è, che se l' uomo a ventre pieno si applica a qualche serio studio, gli si rompe la digestione, e indi tutti gli incomodi dei letterati. Ma a rendere maggiore o minore la sensitività contribuisce massimamente l' istinto sensuale, che ha sì grande influenza sul vitale, dal quale reciprocamente riceve influenza. La sensitività è resa maggiore dall' istinto sensuale: 1 per la forza dell' abitudine attiva; 2 per la ritentiva dei piaceri goduti, nella quale sono accumulati i movimenti piacevoli altra volta esperimentati; e perciò questa ritentiva ha più di forza a muovere l' istinto sensuale che non abbia un piacere nuovo attuale; dove si vede perchè il piacere immaginato spesso eserciti una maggior forza sull' uomo che il piacere reale. Dallo stesso principio si trae la spiegazione di molti fenomeni edonici. Per quale ragione la maggiore intensità del piacere aspettato si prova nel momento d' incontrarlo, cioè in quel momento in cui nasce la mutazione, non quando ella è già nata? In gran parte da questo, che il piacere sta unito col movimento, e però nell' atto del movimento il piacere è più che mai attuato; al qual movimento succede gradatamente la quiete. Ma ciò non basta a spiegare quella intensità di diletto maggiore, che giace nel primo atto, in cui si entra in possesso del piacere desiderato. Essa dipende dall' aspettazione immaginaria, che nasce dalla ritentiva di tanti momenti piacevoli altre volte provati, la quale mette l' istinto sensuale in uno straordinario orgasmo, in una penosa inquietudine, in una impazienza che gli si ripeta quel piacere, che nell' apprensiva è divenuto il cumulo di tutti i piaceri anteriori. Onde nel primo affronto del piacere l' istinto sensuale, già mosso violentemente dall' accennata ritentiva, trova il diletto maggiore, non solamente per la maggior sua avidità, ma per quella soddisfazione altresì che gli succede, ed è il riposo della sua fremente cupidigia; riposo ottenuto in quell' istante, in cui vede a sè libero ed aperto il piacere concupito. Onde, placata l' ira di quell' appetito colla soddisfazione, rimane il solo piacere reale assai minore di quel che pareva alle brame, e perciò meno atto a muovere l' istinto vitale. Quindi ancora si spiega quell' altro fenomeno, che così acconciamente viene espresso nei sacri libri: [...OMISSIS...] ; come pure quello indicato dal volgare proverbio, che « la privazione genera l' appetito ». Ciò che è proibito o è difficile a conseguirsi, od è lungamente desiderato, rende l' istinto sensuale irrequieto, più attivo, e quasi in continue vibrazioni. E ancora il piacere, di cui l' occasione si porge inaspettata ed è preso alla sfuggiasca, perchè stringe il tempo, e pel timore che sfugga il prezioso istante, riesce più vivo, intenso, con un carattere nuovo e suo proprio; chè l' istinto sensuale più inquieto e sollecito provoca nelle fibre nervose guizzi e movimenti più celeri e violenti, dalla maggiore rapidità dei quali si deve soprattutto desumere l' intensità della sensazione. Così si osserva che l' uomo rotto ai piaceri tiene quasi inarcato abitualmente l' istinto sensuale in aspettazione della loro ripetizione, e gli stessi nervi protesi inverso a tutti gli stimoli, e quasi guizzanti e oscillanti, cioè preludenti e inizianti le sensazioni desiderate ed aspettate. Ed è tuttavia vero che la condizione fisica di cotesti nervi li dimostra più ottusi che non sieno nell' uomo sobrio, sì perchè i nervi sempre tesi non sono suscettivi di grandi movimenti, i quali importano successione di rallentamento e di tensione, e sì perchè manca ognor più la novità del piacere. Ma se diminuisce il piacere reale nello schiavo delle passioni voluttuose, ne aumenta l' avidità angosciosa dell' animo. La quale non ha fine (2), e dà senza posa la leva all' istinto sensuale; ma rimane sempre vero che lo stato dell' istinto sensuale nel voluttuoso ha maggiore mobilità e attività, che rende più attivo e pronto l' istinto vitale a produrre le piacevoli sensioni. Per la riproduzione, che l' istinto sensuale fa di abbondanti stimoli interni; di che è ragione la maggiore intensità delle sensioni, e le stesse cause che rendono più potente l' istinto vitale. Quindi: Quanto è maggiore il sentimento fondamentale d' eccitazione, tanto è maggiore, ceteris paribus , la sensitività. Dico ceteris paribus, perchè potrebbe anche esservi una resistenza maggiore agli stimoli esterni, posta dalla fibra compatta e robusta; ma se lo stimolo vince questa resistenza, deve nascerne una sensione maggiore di quella prodotta in un corpo di fibra più molle da uno stimolo proporzionatamente eguale. Se in qualche parte determinata del corpo l' istinto sensuale accumula quantità maggiore di stimoli, o prende una propensione ad accumularli, cresce la sensitività a quel luogo relativa (1). Così si può spiegare come coll' uso frequente i nostri sensorii si rendono più acuti e sottili, perchè l' incisore di gemme, a cagion d' esempio, affini la vista coll' adoperarla. Pare che la facoltà sensoria dell' occhio s' accresca non solo per la protensione delle estremità nervose, che vanno a cercare lo stimolo e gli presentano le loro papille più nude, ma ben anche pel maggiore afflusso del sangue, che stimolando avviva e rende più sensoria la parte. Infatti se l' occhio s' adopera oltre a un giusto termine, ne nasce l' infiammazione; il che dimostra il concorso degli umori. Del qual concorso è nuova prova questo, che le parti del corpo più si adoperano, e più anche s' ingrossano e si sviluppano, ivi concorrendo maggior nutrimento. Che se gli stimoli, che l' istinto sensuale adduce alle speciali parti del corpo umano, pel loro impeto, pel loro eccesso e per l' alterazione della loro crasi, impigliano l' organizzazione e tendono a distruggerla, allora nasce quella lotta, che rende la parte dolente. Il sentimento fondamentale della parte così afflitta non suol essere d' un dolore vivo, se l' incaglio del processo organico e gli intestini disordinati movimenti non oltrepassano un certo termine; e tuttavia la sensitività dolorosa è grande, bastando picciol tocco a cagionare vivo dolore. E questo è il caso dell' infiammazione, che aumenta la parte di volume, il che dimostra afflusso di umori; l' arrossa, il che dimostra afflusso di sangue; la rende dolente al tatto, se l' infiammazione è poca, dolente anche senza esser tocca, se l' infiammazione è molta; il che dimostra la lotta, che dicevamo, fra l' istinto vitale e la materia ivi mal disposta al suo uopo. E che la materia ivi sia mal disposta, apparisce dalla tendenza di ogni infiammazione a disorganizzare la parte infiammata. Anche l' ingorgo dei vasellini e il rallentamento del moto degli umori prova il medesimo. Il sangue sembra cacciato negli ultimi capillari venosi dal movimento maggiore del cuore e delle arterie; e i capillari venosi, che non lo possono smaltire, debbono venire così sfiancati fino a stravasarne o rompersi (1); i sottilissimi nervicciuoli debbono essere da ogni parte impulsi ed irritati; il sangue stesso accalorito dall' orgasmo delle arterie, e quasi stagnante, tende a disorganizzarsi, cioè a lasciar separare da sè la fibrina, che inclina a consolidarsi ed organarsi da sè in nuovi tessuti ed organi, mentre il grumo ed il siero inclinano ad alterarsi in pus. Brachet racconta che nel 1.11, tornandosi all' ospizio di Bicˆtre, l' infermiere della sala di chirurgia venne a lui, facendogli ammirare l' immenso accrescimento di vista che s' era trovato quella mattina; vedeva i più piccoli oggetti a smisurata distanza, nè si lagnava d' alcun male. Cinque ore appresso gli si manifestò un leggiero dolore di capo; dopo poche ore lo colse un' apoplessia fulminante, di cui morì la notte; un deposito di materie gli fu trovato nel talamo ottico destro, il quale aveva infiammata e irritata la parte dell' encefalo, che è sede della visione. Questo grande aumento di sensitività visiva provenne dunque dagli stimoli accresciuti sull' organo della visione, e probabilmente altresì dalla mobilità maggiore, che ne acquistò un tale organo. Un sacerdote venne da me, narrandomi che gli sembrava d' esser divenuto un altro uomo per la perspicacia della mente acquistata, la prontezza del pensiero, i sensi stessi resi in insolito modo più acuti, e chiamavasi beato di quel suo nuovo stato. Io lo consigliai subito a farsi fare qualche generosa emissione di sangue; egli differì alcuni giorni, e cadde in pazzia. L' istinto sensuale cresce la sensitività ancora, rendendo più mobile la fibra sensoria. Onde questa mobilità maggiore? Certo, un organismo più perfetto, una sottigliezza maggiore di tessuti, ecc., debbono renderla più mobile. Ma le fibre egualmente organizzate devono rendersi più mobili altresì e pronte a dare la sensazione, soggiacendo, come dicevamo, ad una copia maggiore di stimoli interni e continui; a quella guisa che un corpo quinci e quindi egualmente premuto si muove più facilmente ad ogni aumento di pressione da uno dei lati, o come si muove una bilancia, tostochè un peso anche minimo le tolga il perfetto equilibrio. Oltracciò l' istinto animale si sta più avvisato, più all' erta, più pronto all' operare, quando si sente scosso da tutte le parti, o in bene o in male; allora le fibre conservano quel continuo oscillamento, che equivale ad una quantità di sensioni incipienti, tutte in tendenza di spiegarsi e sfogarsi. La qual cagione, unita alla precedente, sembra che possa rendere buona ragione di molti fenomeni, procedenti dai diversi gradi e dalle variazioni della sensitività, sì rispetto alle sensioni piacevoli che alle spiacevoli; a ragion d' esempio, sembra rendere ragione del perchè varii così la sensitività speciale del gusto, divenendo ora più acuto, ora più ottuso nelle diverse affezioni infiammatorie dello stomaco. Quando l' affezione agisce sui nervi pneumogastrici, come pure quando agisce sul sistema nervo7ganglionare, l' organo del gusto riceve una nuova condizione, sia perchè in qualche parte si altera la sua intima organizzazione, sia perchè gli vengono applicati nuovi stimoli interni con disordine, sia perchè è reso più mobile ed oscillante. Le modificazioni, a cui soggiace l' organo del gusto dalle affezioni uterine, sono pure ammirabili, o che si considerino i capricciosi gusti delle fanciulle che si avvicinano all' epoca della pubertà, o di quelle il cui scolo periodico è difficile, o che soffrono altri incomodi, o che si considerino quelli delle donne incinte. La ragione della maggiore attività della fantasia nel sonno e nel sonnambolismo, si deve ripetere dalle stesse cagioni. Finalmente il grado di sensitività dipende assaissimo dal prestarsi più o meno, o non prestarsi al tutto l' istinto animale colla sua attività a produrre la sensione, o quegli spontanei movimenti, che alla produzione della sensione sono necessari. L' istinto vitale non si presta alla produzione della sensione, se non tanto, quanto il non prestarsi gli riesce più molesto. La stessa legge mantiene l' istinto sensuale rispetto ai movimenti; non si presta a produrli, se non quanto il farlo gli riesce più piacevole che l' astenersene. E` quello che ho detto del fenomeno singolare della capacità morbosa. E` noto come Giovanni Rasori amministrasse uno scrupolo di tartaro stibiato alla volta, una dramma e più dramme nel corso di ventiquattr' ore, e fino più oncie nel corso d' una malattia, senza che s' eccitasse il vomito, o poco e di rado, nè si accrescesse o poco il secesso, senza che comparissero sudori maggiori che non comportasse l' indole o l' epoca della malattia. Simili arditi esperimenti egli fece con tutte le preparazioni antimoniali, gli emetici, il nitro, i purganti anche più drastici. Dove sembra incontrarsi una contraddizione; perocchè questa capacità morbosa non si manifesta che in quelle malattie, che chiamano steniche, perchè caratterizzate da eccesso di stimolo. Ma se in queste malattie vi è un maggiore eccitamento, perchè dunque si mostrano quasi insensibili e resistenti all' azione di sì forti rimedi? A me pare che per ispiegare questo fatto si deva ricorrere alla indicata legge: « non prestarsi l' istinto animale (vitale o sensuale) ad operare in conseguenza degli stimoli, se non in quel tanto che il prestarsegli è più piacevole, o meno spiacevole del non prestarsi »; di che si trae essere un errore il credere che « la quantità d' azione dell' istinto animale cresca e diminuisca in ragione semplice e diretta della quantità degli stimoli ». Conviene distinguersi: 1 la quantità degli stimoli; 2 la quantità dell' eccitamento appartenente al sentimento fondamentale; 3 la quantità d' azione dell' istinto animale, sia vitale o sia sensuale. Ora ciò che noi dicevamo si è che la quantità di azione dell' istinto animale non va in ragione della quantità degli stimoli, ma procede a tenore della legge indicata, regolatrice della sua attività . Dopo ciò si possono fare delle altre domande importantissime, le quali sono: « Se l' eccitamento tenga esatta proporzione agli stimoli »; e io penso ancora di no, per la stessa ragione. « Se la quantità d' azione dell' istinto, in quanto produce la sensione o il moto animale, tenga esatta ragione colla quantità dell' eccitamento appartenente al sentimento fondamentale »; e di nuovo sembrami dover rispondere negativamente; perocchè niente ripugna che l' animalità trovi piacevole di lasciarsi eccitare, o men penoso almeno dello sforzo di sottrarsi allo stimolo; e poi quando trattasi di passare all' azione dell' istinto, che produce la sensione o il moto, trovi più piacevole o meno molesto il resistere, e il non prestarsi a produrlo. « Se in ragione esatta della quantità d' azione dell' istinto vitale, o che è il medesimo, in ragione della quantità di sensione o sensioni da lui prodotte, sia la quantità d' azione dell' istinto sensuale, o che è il medesimo, la quantità del moto da lui prodotto ». E di nuovo deve dirsi non essere, per una consimile ragione, quantunque resti vero che la sensione sia il principio d' un movimento animale conseguente (1). Ritornando dunque al principio generale, ripetiamo che « il maggiore o minore grado di sensitività dipende principalmente dalle leggi dell' attività dell' istinto animale », e che i fenomeni della sensitività non si possono spiegare misurando solo gli stimoli e le forze esteriori, che agiscono sul principio sensitivo, quasichè questo fosse unicamente passivo, e non anche attivo, e non fosse dotato di proprie sue leggi determinatrici del suo operare. Più si medita questa verità, più la si vede al fondo di tutti i fenomeni animali: Perchè una sensazione più forte toglie quella che è meno forte, come, a ragion d' esempio, lo splendere del sole impedisce la visione delle stelle? Certo si deve attribuire in parte all' azione meccanico7animale, che, facendo oscillare tutte le fibrille egualmente del nervo ottico, suscita una sensione uniforme, nella quale si fonde la sensione parziale delle stelle. Ma questo non ispiega a pieno come la luce delle stelle, che continua a ferire certe fibrille della retina, non vi cagioni più alcuna sensazione, perchè la trova scossa dalla maggiore azione del sole. Pare dunque che si deva piuttosto dire che le fibrille percosse dalla luce del sole non ricevono più il movimento del debole raggio della stella, perchè l' attività sensitiva è occupata a preferenza a secondare l' azione dello stimolo maggiore; benchè a produrre quel fenomeno concorrano più cause, e fra le altre la legge meccanica, che un moto maggiore resiste ad una forza assai debole tendente a modificarlo; chè dove vi è più quantità di moto, ivi vi è più di forza resistente a cangiare direzione o metro. Perchè le forze dell' istinto vitale resistono alle forze chimiche, fisiche e meccaniche, tendenti a disciogliere la macchina complicatissima e corruttibilissima del corpo umano? Per la stessa attività intrinseca all' anima. Per questo l' istinto animale raffrena l' azione dei succhi gastrici, adoperandoli a disciogliere gli alimenti, e impedendo probabilmente che la loro azione dissolvente nuoccia al ventricolo. All' incontro pare indubitato che nel cadavere si trovi alcune volte il ventricolo digerito tosto dopo la morte, per l' azione dei detti succhi, a cui non osta più l' attività del principio vitale (1). E qui mi conceda il lettore che a conchiusione delle cose dette, e quasi a riposo, manifesti un voto, che qualche sapiente medico prendesse a porre insieme una nuova teoria dell' arte di esperimentare in medicina . Se pur è vero quello che a me ne pare, dopo le riflessioni precedenti, devono parere insufficienti i trattati fin qui pubblicati sopra sì importante argomento. L' arte di esperimentare è la parte principalissima della logica medica , e da quell' arte dipende il vero progresso della medicina, la quale, senza di lei, non può che perdersi irrimediabilmente, e rovesciarsi da una teoria gratuita e crudele in un' altra pure gratuita, e forse più crudele ancora. Quali osservazioni crediamo noi che dovesse tenere innanzi agli occhi quell' uomo dotto, che togliesse la fatica di sì nobil lavoro? Prima e preliminare cura vorremmo che fosse quella di togliere l' apparente discordia delle opinioni, levando gli equivoci del parlare. Contendono i dotti con gran danno dell' arte, quando, senza darsi cura d' intendersi, gittano tanto tempo e tante parole a contrariarsi. A ragion d' esempio, se le due sette di empirici e di razionali si definiscano in un modo ragionevole, verranno tosto ad un facile accordo. Poniamo queste definizioni: Medici empirici sono quelli che pretendono doversi applicare i rimedi unicamente sulla regola dei casi simili considerati fenomenalmente. Medici razionali quelli che pretendono non doversi applicare i rimedi secondo la regola dei casi simili considerati fenomenalmente, ma considerati nelle loro cagioni efficienti interne, le quali non cadono sotto l' esperienza, ma s' argomentano tuttavia da dati esperimentali. Da tali definizioni si trae questa conseguenza: Gli empirici non escludono il ragionamento, di che a torto si accusano, ma lo restringono a determinare i casi simili per via dei fenomeni che cadono sotto l' esperienza. I razionali non escludono l' esperienza, di che pure a torto si accusano, ma vogliono che l' esperienza si adoperi a rilevare, per via di ragionamento, la costituzione intima del morbo di cui si tratta, e quindi le sue cause interiori che ne producono esternamente i sintomi. Così definite le due sette, e purgate dall' accusa ingiusta che reciprocamente s' appongono, il torto di ciascheduna, se pur v' è, riesce assai minore, e sono già con questo solo avvicinate. E a buon conto i medici idioti non saranno più confusi cogli empirici ; chè l' empirico non è necessariamente idiota; quando anzi per eseguire ciò ch' egli si propone, « di medicare secondo i casi simili fenomenalmente considerati », gli è mestieri d' una scienza immensa, di uno studio inesauribile. E di vero, è ella forse leggiera cosa lo stabilire quali sieno i casi veramente simili fenomenalmente considerati? è ella una breve fatica il raccogliere tutti i fenomeni morbosi, e il classificarli secondo la loro maggiore o minore similitudine? richiede poca sagacità il distinguere quelli che sono simili nell' essenza specifica, e quelli che non sono simili se non in accessori ed accidenti, lo stabilire la somma importanza che ha un dato rapporto di somiglianza, e la poca importanza d' un altro? il cogliere la gradazione delle somiglianze e della loro importanza per caratterizzare una malattia? Non si richiede a tentare su questa base una classificazione dei morbi, infinita perspicacia e perseveranza d' osservazione? E poi rimane a classificare alla stessa maniera il corso e l' esito diverso delle malattie nei climi, temperamenti ed altre circostanze diverse; e poi in questo metodo è uopo argomentare continuamente a iuvantibus et a laedentibus , per ritrovare la corrispondente efficacia dei rimedi, e le dosi e la maniera di amministrarli. Si separino dunque gli idioti dai veri empirici, e tosto i medici s' intenderanno fra loro più facilmente. Dopo queste separazioni, a che si ridurrà il difetto delle due sette indicate? Non più al mancare l' una di scienza, e l' altra soprabbondare; ma forse a una restrizione arbitraria, che ciascuna di esse pone al suo metodo. Tutto allora dovrebbe tendere a mostrare a ciascuna di esse, come ella gratuitamente si limita e si rende più difficile lo scopo che vuole ottenere, qual è quello di giungere alla vera scienza medica. Così s' avranno dei medici non empirici, non razionali, ma ragionevoli. I quali: 1 raccoglieranno e mediteranno tutti i fenomeni, come si propongono di fare gli empirici, classificandoli secondo le loro caratteristiche somiglianze; 2 non ricuseranno d' investigare la condizione morbosa interna col ragionamento, come si propongono di fare i razionali, a condizione che le induzioni sieno rigorosamente logiche. La questione non verserà più dunque sul metodo, il quale diverrà unico e completo, ma sull' esatta applicazione del medesimo. Non si dirà più: i casi simili non valgono nulla; ma si dirà: questi casi non sono simili, o non hanno una similitudine caratteristica, essenziale, specifica, ma solo accidentale. Non si dirà più: la causa interna della malattia è inutile a ricercarsi; ma si dirà: l' induzione, colla quale voi stabilite questa causa interna, non regge alla logica, od ha solo tanti gradi di probabilità, e perciò dovete mettervi in guardia, calcolando anche i gradi di probabilità che stanno contro la verità di quella causa. Queste questioni non sono più vaghe; qui si sta rigorosamente sul terreno della scienza; il progresso dell' arte è allora assicurato. Il nuovo Trattato dell' esperienza in medicina dovrebbe dunque: Determinare quali sieno i dati che l' esperienza sensibile somministra, indicare i modi di esperimentare per rinvenirli, e i modi di classificarli. Determinare quali sieno le regole per cavarne induzioni logiche, e la forza di conchiudere che ha ciascuna di esse, e classificare le induzioni medesime. In queste due parti del trattato si fanno avanti le difficoltà che s' incontrano, tanto ad istituire le esperienze, quanto a dedurne giuste illazioni; e quindi si dovrebbero mettere sott' occhio le illusioni, gli errori, i falsi ragionamenti, nei quali l' esperimentatore ed il ragionatore può trasviare. A quest' ultimo intento il sapiente scrittore da noi desiderato dovrebbe mostrare quanto sia complicata la macchina umana, e quanti sieno i principŒ attivi e le sublimi leggi che la modificano, e come reciprocamente attive le mutazioni che ne avvengono, e quanto pochi, comparativamente, i dati di fatto che l' esperienza ci somministra. Se il problema così detto dei tre corpi riesce tanto difficile a risolversi in astronomia, perchè trattasi d' azione reciproca, benchè uniforme, del sole, della terra e della luna; che sarà dove i corpi influenti gli uni su gli altri sono innumerevoli, e di continuo si mutano, e varie le forze, i movimenti complicati e sempre reciprocamente influenti, come accade nel corpo umano? Questa esposizione condurrebbe a provare, che « il pretendere di conoscere per diretta esperienza o per induzione tutti i fatti interni, da cui risulta lo stato sanitario d' un corpo vivo, e di pronosticarne l' esito, e di modificarlo salutarmente coll' applicazione dei rimedi, non è cosa da pigliarsi a gabbo, anzi superiore alle forze umane ». Lo studioso dunque dell' arte medica si può prefiggere due scopi: l' uno di rilevare questo stato positivo del corpo, mediante la cognizione degli elementi da cui esso è costituito, cosa arduissima; l' altro di appigliarsi a regole induttive, complesse, volte a conoscere l' efficacia salutare o nocevole dei rimedi applicati ad uno stato del corpo, che si conosce imperfettamente, cosa congetturale. Questi due grandi scopi caratterizzano due scuole mediche, distinguono la medicina analitica dalla medicina sintetica . Ecco il significato che noi attribuiamo a queste due denominazioni. L' arte medica è una: è l' arte di guarire le malattie. La scienza è la teoria di quest' arte. Ma il medico, che brama di ottenere il fine dell' arte, si può mettere in una delle due vie. Può persuadersi di riuscire a conoscere il modo di guarire le malattie, studiando che cosa esse siano in sè stesse, da quali forze e mutazioni interne risultino; e questa noi chiamiamo medicina analitica, perchè si propone di studiare le malattie nei loro interni elementi e di coglierle all' origine, investigandone il complesso delle forze, dei movimenti e loro effetti da cui risultano; il che è un andare prima per via d' analisi, affine di sintesizzare poi nelle induzioni conseguenti. Può anche persuadersi di riuscire a conoscere il modo di guarire le malattie, studiando gli indizi , che ne dimostrano il progresso verso il meglio o verso il peggio, senza darsi poi gran cura di sapere positivamente come ciò avvenga; e questa noi chiamiamo medicina sintetica, come quella che si propone di conoscere l' effetto complessivo dei rimedi; benchè, partendo da questa cognizione, lo stesso medico possa in appresso analizzare il detto effetto complessivo, e giovarsi di esso a conoscere gli elementi interni onde risulta. E l' uno e l' altro metodo può certamente condurre verso il fine, ma è mestieri unirli insieme, facendoli cospirare all' unico intento loro comune; condizione indispensabile ad ogni modo si è che i fatti osservati sieno certi e precisi, le illazioni rigorose: l' una e l' altra cosa difficilissima. Del rimanente è chiaro che la medicina analitica prende una via più lunga, e più difficile a condursi per illazioni logiche al suo fine; il che dovrebbe risultare pienamente dal trattato dell' esperienza da noi desiderato. Vi si dovrebbe dimostrare questa somma difficoltà da più lati, e principalmente da questi due: La complicatezza del corso zoetico e la sua perpetuità in anelli sempre nuovi, ciascun dei quali malagevole a riconoscere. Gli agenti che possono modificare il corso zoetico (1). Dell' uno e dell' altro fonte di difficoltà diamo qualche cenno, che chiarisca il nostro concetto. La smisurata difficoltà del proposto si conosce osservando che: Pochi sono comparativamente i dati di fatto , che l' esperienza ci può somministrare. Innumerevoli le cose che il medico dovrebbe indurne, per conoscere veramente la condizione dell' ammalato. Il medico cioè dovrebbe conoscere: 1) A quale anello sia pervenuto il corso zoetico. E un anello di questo corso, da quante cause mai non risulta, ciascuna sì difficile a ben rilevarsi! In prima ogni anello è composto dei due elementi, il sensibile ed il mobile . L' elemento sensibile è un complesso di innumerevoli sentimenti, dei quali solo pochi cadono distintamente nella coscienza, e molti si fondono in un sentimento, che costituisce appunto lo stato sensibile dell' animale. L' elemento mobile del pari risulta da innumerevoli moti intestini, e dalla loro reciproca azione e fusione. Di più, tanto nell' elemento sensibile, quanto nell' elemento mobile d' un dato anello sarebbe uopo notarsi l' ordine dei movimenti contemporanei, chè i diversi sistemi del corpo umano operano reciprocamente l' uno sull' altro e con successione, sicchè i movimenti contemporanei, che si fanno nel corpo, altri sono gli estremi d' una serie più lunga, altri d' una serie più breve dei movimenti precedenti; i movimenti muscolari, per esempio, non sono l' effetto dei movimenti nervosi contemporanei, ma dei movimenti nervosi appartenenti all' anello precedente. 2) Si dovrebbero oltracciò conoscere gli anelli precedenti all' anello di cui si trattava, o almeno lo stato dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, stato dipendente: a ) dalle forze e stimoli materiali che agiscono sull' organizzazione, poniamo la materia morbosa introdotta nel corpo umano, ecc.; b ) dalla condizione dell' organizzazione, già più o meno sconcertata; c ) dalle altre innumerevoli cagioni, che pongono l' istinto animale in un grado di maggiore o minore eccitamento, e in una maggiore o minore attitudine di operare, secondo la legge preaccennata della preferenza che l' istinto dà all' operare o al non operare, e all' operare più o meno. 3) Ancora si dovrebbero conoscere gli anelli susseguenti del corso zoetico, che sono impossibili a prevedersi con sicurezza, per gli stimoli accidentali che sopravvengono o si sottraggono; o almeno si dovrebbero conoscere le leggi che determinano la specialità di quel corso zoetico, di cui si tratta; la quale di nuovo non cade sotto l' esperienza, ma ha bisogno di argomentarsi dai pochi dati dell' esperienza. Certo, il calcolo delle azioni reciproche delle varie forze, ciascun atto delle quali ha una sua intensità e una sua misura, vince l' umana intelligenza. 4) Finalmente si dovrebbe prevedere l' azione dei rimedi. Ora come dedurla da così difficili congetture? Si può dunque conchiudere, senza temerità, essere impossibile stabilire l' arte di medicare unicamente sulle cause interne dei morbi direttamente conosciute, o indirettamente argomentate dai dati di fatto, che somministra l' osservazione del corpo umano. Si conferma vieppiù questa difficoltà di conoscere compiutamente lo stato interno dell' animale ammalato, considerando come tutte le regole induttive volte a questo fine sono fallaci. Esaminiamone alcune: I sintomi . - Qui è da rammentare quel tanto che fu detto contro la medicina sintomatica . Certo è che i medici che sono partiti dal principio di Brown, e sono quasi tutti i moderni, cioè dal principio che lo stato sanitario del corpo umano dipenda unicamente da un eccesso o da un difetto, o da un equilibrio di stimolo, confessano essere i sintomi al tutto fallaci, quando si voglia da essi indurre la condizione stenica o astenica del corpo (1). Che anzi le medesime malattie, con tutti i sintomi che le caratterizzano, sono da essi attribuite ora all' eccesso, ed ora al difetto di stimolo. Sicchè vi sono, a ragion d' esempio, secondo essi, delle idropi per eccesso di stimolo, ma ve ne sono anche di quelle cagionate da difetto di stimolo, e così si dica di un gran numero d' altre malattie. Onde neppure la specie della malattia indica con sicurezza la sua causa e natura interna (2). La regola a iuvantibus et laedentibus è certamente preziosa, se si adopera a conoscere l' efficacia dei rimedi. Ma se si pretende di adoperarla a rilevare le cagioni interne del morbo, l' intima condizione morbosa, ella si trova pure fallace. Io sono persuaso che due rimedi opposti, l' uno stimolante, l' altro controstimolante, possano produrre, in certi casi, per le complicazioni interne, il medesimo effetto. Ho già osservato che se lo stimolo è soverchio, istupidisce la fibra e diminuisce la sua quantità d' azione, e, diminuita questa, sono diminuiti i movimenti e gli stimoli interni che ella produce. L' effetto dunque dipende dalla proporzione fra l' aumento dello stimolo esterno, o dirò così terapeutico, e la diminuzione dello stimolo interno, fisiologico e patologico. Se questa diminuzione è maggiore che quell' accrescimento, l' effetto totale sarà una diminuzione di stimolo; quindi il rimedio applicato sembrerà controstimolante, quando egli sarà stimolante. La complicazione della macchina umana è tale che, assai più spesso che non si creda, s' avverano in lei questi due effetti contrari di accrescimento e di diminuzione parziale di stimolo, risultando poi l' effetto totale dall' eccedere l' accrescimento o la diminuzione. Allorquando qualche rallentamento del sangue venoso provoca lo sbadiglio, vi è diminuzione di stimolo; e pure a questa diminuzione succede spontaneo uno sforzo, che fa l' animale per inspirare una copia maggiore d' aria atmosferica, e questo sforzo, questa copia maggiore d' aria è accrescimento di stimolo. Lo stesso dicasi di tutte quelle cagioni, che rendono l' anelito più frequente e la respirazione più profonda per difetto di stimolo. O sia diminuita la quantità dell' aria atta alla respirazione, o sia diminuito il sangue, o un soverchio calore e celerità nel corso consumi più di sangue rosso, o l' uomo senta, come nei momenti prossimi alla morte, sfuggirsi la vita; in tutti questi casi alla diminuzione dello stimolo s' associa o sussegue prossimamente un aumento di stimolo, provocato da quella stessa diminuzione. Qui è l' istinto sensuale che accresce la sua azione, tentando di riprodurre gli stimoli che gli vengono sottratti; prova evidente che un tale istinto non opera solo in virtù e in ragione della quantità degli stimoli materiali, interni ed esterni, ma con altre leggi sue proprie; non è solo passivo, ma ben anche attivo. In niuna delle malattie, benchè si guariscano con una cura stimolante, la debolezza è tale che non vi sia contemporaneamente un aumento di stimolo parziale, il quale talora inganna i medici, giudicandole infiammatorie o steniche. Basta solamente leggere le due serie di storie, che il Rasori aggiunse in fine alla sua Teoria della Flogosi, l' una di malattie credute infiammatorie, e condotte colla cura antiflogistica ad estrema gravità, guarite poi colla cura stimolante (1); l' altra di malattie credute pure infiammatorie, finite colla morte, non mostrando il cadavere segno d' infiammazione, per convincersi che un aumento parziale di stimoli occorre in ogni malattia, senza che da questo si possa sicuramente inferire ch' essa sia stenica. Dappertutto dove si manifesta acceleramento di polso e aumento di calore, v' è stimolo parzialmente accresciuto; chè, non fosse altro, il solo moto, il solo calore aumentato è già stimolo e produttore di stimoli interni. Dappertutto dove è dolore v' è indubitatamente stimolo parziale accresciuto, chè il dolore è stimolo e produttore di stimoli, mediante l' azione eccitata dell' istinto animale. Dappertutto dove si scorge aumento di secrezioni ed escrezioni vi è stimolo parziale, chè le secrezioni cresciute dimostrano maggiore attività degli organi secretorii ed escretorii, e questa attività suppone maggiore eccitamento e stimolo. Anche dove le secrezioni ed escrezioni sono minori del bisogno può esservi aumento di stimolo, come nel caso in cui lo stimolo soverchio impedisca l' azione degli organi, quasi istupidendoli. Molto più ogni secrezione ed escrezione anormale e disordinata può dimostrare aumento di stimolo parziale, benchè accompagnata da contemporanea diminuzione di stimolo pure parziale. Le convulsioni dei muscoli, l' assopimento, il letargo, il delirio dimostrano un aumento parziale di stimoli eccitatori dei nervi e del cervello. Insomma vi sono assai pochi sintomi morbosi, nei quali non si ravvisi un aumento parziale di stimolo e di eccitamento. Di più, gli stessi sintomi che più indicherebbero debolezza, possono essere un effetto indiretto, se si vuole così chiamarlo, di aumento parziale o totale di stimolo e d' eccitamento; ovvero possono essere accompagnati da sintomi dimostranti parziale o totale debolezza, e diminuzione di stimolo. Nelle infiammazioni stesse i medici non sono ancora d' accordo nel decidere se il labirinto dei vasellini ingorgati si trovi in istato di debolezza o in istato di soverchia energia. Il Rasori confessa esservi una specie di debolezza nel viluppo capillare venoso, sede dell' infiammazione, benchè dichiari che non si tratti qui di quella debolezza, che deve determinare il metodo curativo (1). Questa distinzione, per dirlo qui di passaggio, già dimostra da sè il bisogno di distingure più accuratamente che non sia stato fatto, quale sia precisamente la debolezza di cui parlano i medici, che vogliono ridurre tutta la medicina alla quantità soverchia o mancante degli stimoli; giacchè essi stessi confessano che ogni debolezza osservabile nel corpo umano si adatta al loro sistema. Ad ogni modo conviene intanto ammettere che nel viluppo capillare infiammato vi è una qualche specie di debolezza. Or questo è un confessare che anche nella stessa parte del corpo umano può trovarsi contemporaneamente un elemento di debolezza ed un elemento di forza, o per dir meglio, una causa debilitante ed una eccitante. Non v' è alcun dubbio che l' afflusso del sangue alla parte infiammata è un aumento di stimolo, che viene ad essa applicato, benchè non possa certo essere la prima causa del morbo. Che se pur non si vuol riconoscere nei vasellini ingorgati di sangue altra cagione di debolezza che l' azione meccanica del sangue stesso, che vi si introduce con forza e li distende soverchiamente, sia per un poco. Ma rimarrà vero che uno stesso agente, il sangue, opera nella stessa parte in due modi, coll' uno dei quali la affatica, la sfianca, l' addebilita; coll' altro, stimolando, l' eccita e rinforza. Dunque lo stato della parte deve venir determinato non dal solo elemento che l' addebilita, nè dal solo elemento che la rinforza, ma dal calcolo dei due effetti opposti, contemporanei e misti. Ma è dimostrato che la debolezza dei vasellini ingorgati dipenda unicamente dall' azione meccanica del fluido, che impetuosamente è sospinto in essi? Non so se vi siano prove concludenti. Oggidì sembra ridotto a certezza che la circolazione non dipenda dalla sola forza del cuore (1), ma i vasi abbiano una controdistensione loro propria. E quantunque il sistema venoso appaia rispettivamente passivo, e l' arterioso rispettivamente attivo, tuttavia le tuniche delle vene non si possono spogliare affatto d' ogni virtù elastica e controdistensiva (2); altrimenti non potrebbero rispondere agli stimoli meglio d' una sostanza inanimata. Posta dunque un' attività vitale tanto nelle vene, quanto nelle arterie, benchè in queste maggiore, e in quelle minore; chi mai può sostenere esser cosa impossibile che quella stessa causa morbosa, qualunque sia, che accresce l' azione del cuore e delle arterie, non sia altresì quella che produca in sulle vene capillari il contrario effetto, rendendole meno resistenti, più cedevoli e dilatabili all' afflusso del sangue? In questo caso la vera cagione, tanto dell' attività maggiore presa dal cuore e dalle arterie, quanto della debolezza relativa dei capillari venosi, dovrebbe attribuirsi all' azione modificata dell' istinto animale, accresciuta nelle arterie, diminuita nelle vene. E non pare tampoco improbabile che il sistema venoso e il sistema arterioso abbiano fra loro un cotale antagonismo, essendo questo secondo sistema ordinato a spingere il sangue dal centro alla periferia, quel primo a ricondurlo dalla periferia al centro. Così già si volle notare un antagonismo fra i vasi capillari bianchi e i vasi capillari rossi, benchè non intendo come il signor Festler possa attribuire ai capillari bianchi una forza contrattiva maggiore che non ai vasi rossi, e a questi una maggiore forza espansiva che a quelli, quando anzi parrebbe il contrario (1); giacchè la contrazione suppone maggiore azione vitale, la quale prevale certamente nei vasi rossi, quando l' espansione non è sempre effetto della sola vitalità, ma ben anche della debolezza e passività; onde è manifesto, a ragion d' esempio, che le vene reagiscono meno al fluido che ricevono, che non le arterie, le quali lo sospingono aiutate dalla loro forza controdistensiva. Ora sarebbe forse impossibile che la stessa debolezza cresciuta, per qualsivoglia cagione, nel sistema venoso, la stessa maggior cedevolezza delle parti dei vasi venosi dovesse avere per effetto una maggiore attività nel sistema arterioso? In questo caso la debolezza sopravvenuta nella forza vitale delle vene sarebbe una cagione dello stato morboso, di cui si tratta, precedente a quella dell' eccitamento arterioso, sicchè questo diverrebbe rispettivamente effetto, anzichè causa. E che la cosa possa esser così me lo persuade il considerare che, supposta una dilatazione maggiore delle vene, una minore resistenza al corso del sangue, esse dovrebbero recare al cuore copia maggiore di questo fluido, e quindi accrescere in lui lo stimolo e l' attività, colla quale egli lo respinge per le arterie in tutto il corpo, che altrimenti ne andrebbe difettando. E supponendosi che il calibro delle arterie non si accrescesse punto nella stessa proporzione, in cui si accresce quello delle vene (perocchè le arterie dotate di maggior vita resistono maggiormente all' impulso materiale, ed al sangue considerato come stimolo, si contraggono), ne verrebbe che nelle arterie si dovesse necessariamente accrescere la velocità della circolazione, acciocchè potesse passare per esse una porzione di sangue eguale a quella che passa per le vene, condizione necessaria del circolo. Di più, essendo l' albero venoso assai più capace dell' albero arterioso, quand' anche i vasi di entrambi gli alberi si dilatassero in misura eguale, ancora dovrebbe avvenire un acceleramento di sangue nelle arterie acciocchè queste potessero dare sfogo a tutta la quantità di sangue, che le vene porterebbero al cuore, senza che questo vi si arrestasse. Ora poi qual è la cagione che fa sì che il sangue non si arresti nel suo corso? La vera e prima cagione, come abbiamo già accennato, è l' istinto animale, quell' istinto che, sentendo una molestia, si adopera a cansarla da sè, quell' istinto che per dare una spinta maggiore al sangue sa formare lo sbadiglio, che produce l' anelito e l' asma, che nelle varie condizioni d' aria atmosferica sa muovere i polmoni, accelerando o ritardando la respirazione, secondo che sente che gli vien bene il renderla ora più ampia e profonda, ora più lunga, ora più breve e frequente, ora più viva, ora meno, ora più facile, ora più pesante. Si dovrebbe dunque ricorrere all' attività vitale, come a prima cagione dell' acceleramento del sangue e del maggior afflusso nelle vene, attività che viene suscitata dalla debolezza e rilassatezza incolta a queste; sicchè tutta la questione si ridurrebbe a cercare la prima causa di questa rilassatezza morbosa delle vene; la quale indubitatamente si dovrà rinvenire in una qualsivoglia irritazione offensiva dell' istinto vitale, per la quale questo è obbligato ad entrare in quella lotta contro la cagione irritante, che abbiamo descritta. Non è qui necessario, nè cade a proposito del nostro intento, il porci nell' investigazione di questa causa, molteplice certamente. Ma piuttosto, ritornando al fenomeno dell' infiammazione, pare che questo ritrarrebbe dalle cose dette qualche maggiore dichiarazione. Perocchè il maggior afflusso di sangue nei capillari venosi, l' accresciuto movimento nelle arterie, cause entrambe atte, insieme con altre molte, a sviluppare una maggior copia di calore, e dare al sangue una tendenza a dissolversi nei suoi tre principŒ di siero, cruore e fibrina, sembrano bastare a spiegare come nel viluppo capillare venoso debba nascere ingorgamento, e quasi stagnamento sanguigno, con gonfiezza, calore, e tendenza alla suppurazione; massime là dove i capillari, il cui calibro è assai irregolare, sono d' una grossezza accidentale maggiore; circostanza, che il Rasori crede atta a spiegare la località dell' infiammazione (1), e dove, dirò io, per le cagioni che poi accenneremo, i detti capillari acquistano una spossatezza ed un rilassamento maggiore, quand' anche ne sieno più grossi di lor natura, diventando tali per la morbosa loro dilatazione. Ora, a che tutto questo nostro ragionamento? Unicamente a dimostrare che dove si scorge soverchio stimolo, ivi contemporaneamente può darsi soverchia debolezza; sicchè accresciuta azione vitale e diminuita azione vitale stanno insieme; e l' una è occasione dell' altra; il che io credo legge universale di tutte le malattie, come dirò appresso. E qui troppo più innanzi potremmo spingere la descrizione dei fenomeni di debolezza nello stesso stato d' infiammazione. Perocchè, se ciò che abbiamo detto ci fece trovare della debolezza nella stessa località infiammata, e alla prostrazione di forza, a cui son venute le vene, abbiamo attribuito la cagione o l' occasione dell' accresciuto stimolo; quanto più ci sarebbe facile osservare una debolezza coesistente all' infiammazione, considerando tutto il complesso dei fenomeni d' un corpo, che soffre per qualche locale infiammazione? Io sono appieno convinto degli argomenti di tanti illustri medici, che censurarono Brown perchè voleva curare molte infiammazioni, dette da lui asteniche, cogli stimolanti; ma, accordando questo errore nel metodo curativo, non mi ritengo per questo obbligato a concludere che nelle infiammazioni altro non si debba scorgere che eccesso di stimolo. Gli stessi medici, che ho citati, sono obbligati a distinguere due maniere di debolezza, cioè la patologica e la fisiologica , come essi le chiamano; ed accordano l' esistenza di questa seconda colla presenza d' una soverchia robustezza patologica . Ora questo è già un accordarci quello che noi vogliamo, esservi cioè forza e debolezza ad un tempo nel corpo umano e nella stessa malattia. Se poi le denominazioni di fisiologica e di patologica sieno esatte, e vengano con tutta chiarezza definite, questo è appunto ciò, su cui cade il mio dubbio. Se io considero come i nostri medici vennero a formarsi il concetto di quella che chiamiamo debolezza patologica, m' accorgo che la raccolsero dall' azione dei rimedi, ma tosto mi si presentano su di ciò più cose a riflettere. Il determinare se un rimedio sia stimolante o controstimolante, o si vuol desumere dall' effetto che egli fa sul corpo sano, e in tal caso l' illazione dal corpo sano all' ammalato va soggetta a gravi eccezioni; o si vuol desumere dall' effetto che fa sul corpo ammalato, e questa via suppone che si conosca avanti se lo stato morboso è stenico o astenico, come essi lo chiamano; e però facilmente si entra in un circolo vizioso, volendosi definire la stenia o astenia morbosa dalla proprietà stimolante o controstimolante dei rimedi, e in pari tempo desumere questa proprietà dei rimedi dallo stato stenico o astenico, alla cui guarigione conferiscono. Indi è da ripetersi in gran parte, a mio parere, la diversità d' opinione tuttavia esistente sulla efficacia dei rimedi. Ma ciò che più m' importa qui di osservare (perchè non cerco che d' indicare qual debba essere la sana logica da applicarsi all' esperienza in medicina) si è: Che l' effetto dei rimedi può benissimo servire di guida sicura per la medicina sintetica , cioè per quella che si contenta di rilevare l' efficacia utile o dannosa dei vari rimedi sulle malattie, determinate mediante tutti i sintomi e fenomeni apparenti e i caratteri certi; ma non vedo come esso possa condurre, almeno per induzioni certe, a stabilire le cause interne delle malattie, e le modificazioni in più o in meno dell' azione vitale in tante sue diverse, complicate, e talora opposte ed antagonistiche operazioni; ed anzi a me pare che il volere appunto dall' effetto dei rimedi dedurre immediatamente l' etiologia morbosa, e poi su questa unicamente fondare le regole da seguirsi nell' uso di quelli, sia un metodo che assai facilmente conduce la scienza entro le angustie di un sistema. Le quali riflessioni si oppongono tuttavia, meno di quel che paia, al metodo curativo degli illustri fondatori di quella che fu denominata, non so se a ragione o a torto, nuova dottrina medica italiana , la quale ad ogni modo, per tante verità che contiene, è bella gloria italiana. Io credo, a ragion d' esempio, che sia una verità acquistata alla scienza quanto insegnò il Tommasini, con altri, che il processo infiammatorio è unico , e che [...OMISSIS...] . Il che sufficientemente si dimostra solo considerandosi l' ingorgo sanguigno, chè il sangue, che ivi si rallenta, è come tagliato fuori dall' universale circolazione, non segue più il torrente, e il movimento che ritiene è divenuto suo proprio; nè per ciò perde la vita, se non allora che perviene alla suppurazione. Prima che si dissolva e muoia, egli vegeta dunque in un modo indipendente, e non più armonico colla vegetazione universale del corpo (2). Ora qui si presentano alcuni quesiti: Deve sempre il medico dirigere i suoi sforzi a far cessare l' infiammazione locale, dove sia palese o si sospetti esistere, trascurando affatto la condizione universale del corpo? Prima di tutto si osservi che un tal quesito appartiene alla medicina sintetica , e non all' analitica . Esso non tende per sè a spiegare ed analizzare lo sconcerto dinamico7organico del processo infiammatorio e le sue cause; ma, qualunque sia questo sconcerto, qualunque sia il complesso degli elementi interni e delle cause materiali e formali dell' infiammazione, tende a scoprire se convenga meglio, per ricondurre il corpo alla sanità, combattere l' infiammazione locale, trascurando il rimanente, ovvero bisogni calcolare anche la condizione universale del corpo. Ora, sebbene noi parliamo della medicina analitica, tuttavia facciamo sul detto quesito qualche riflessione. Il processo infiammatorio per sè conduce alla suppurazione, e però se egli è esteso o affetta, direttamente o indirettamente, qualche organo necessario alla vita, conduce alla morte. La somma importanza dunque d' impedire che questo processo, che sembra [...OMISSIS...] , pervenga ad un esito sì funesto, consiglia in molti casi dimenticare ogni altra considerazione; chè è uopo vincere il nemico maggiore prima del minore. Ma vi è altra via d' impedire l' esito fatale d' una infiammazione, estesa o grave, fuor di quella di sottrarre le forze al processo infiammatorio? Sono ben lontano dal saper fare una risposta adeguata ad una tale domanda; ma voglio osservare che neppur essa appartiene per sè alla medicina analitica , ma alla sintetica ; perocchè si cerca quel che si deve fare per la salute, non si cerca per quali molli interne e dinamiche, organiche, meccaniche, la restituzione della salute in quel caso si produca. Di poi, sia pure che l' andamento dell' infiammazione non si possa troncare, come si dice, con alcun mezzo antiflogistico o d' altra maniera. L' illazione che, dunque, non vi può essere altra via che quella di sottrarre ad essa le forze con cui opera, affine di renderla meno dannosa, sarebbe ancora lontana dall' avere tutto il logico rigore che si desidera. Ad ogni modo questa sottrazione di forze sarà un ottimo espediente per isgagliardire il nemico e renderlo meno rovinoso. Fin qui va appunto la medicina sintetica. Ma la medicina analitica non si ferma qui; vuol cavarne illazioni sulla natura intima del morbo; e niente di meglio, qualora lo faccia secondo il dettame d' una logica irrepugnabile. Ma questo è il difficile. L' illazione, che si pretende dedurre dal fatto che, sottraendo le forze al processo infiammatorio, questo si rende più benigno e incapace di addurre l' esito fatale che altrimenti minaccia, si è che dunque l' infiammazione è malattia consistente in eccesso di stimolo e di robustezza. Ma questo, o non aggiunge nulla alla conclusione precedente della medicina sintetica, « che si cura l' infiammazione felicemente col sottrarle quelle forze, onde procede nel suo corso »; ovvero è un' illazione illogica e falsa. O non aggiunge nulla, dicevo, se pel carattere di eccessiva robustezza, dato alla malattia, altro non s' intende che tale malattia si guarisce coi debilitanti. O è illazione illogica e falsa, se pel carattere di eccessiva robustezza s' intende descrivere proprio la natura del morbo, giacchè il corpo animale può essere debolissimo ed oltremodo estenuato, e tuttavia infiammato; onde se per robustezza s' intendesse ciò che tutti gli uomini intendono, già non sarebbe più vero che l' ammalato, in cui vi è infiammazione, sia robusto e di eccedente vitalità. Affine dunque di salvare i medici analitici da questo assurdo, che non possono voler dire, perchè hanno sotto gli occhi gli infermi, che mostrano loro il contrario, è uopo applicare al loro detto un significato diverso da quel che suonano le parole. Ricorre qui la distinzione, toccata di sopra, fra la robustezza patologica e la robustezza fisiologica . A primo aspetto ella sembra una di quelle tante distinzioni, che ingombrano e aggravano inutilmente le scienze, facilissime ad evitarsi coll' uso d' un linguaggio proprio, siccome l' intende il popolo, unico maestro e legislatore delle lingue. Ma pure quella distinzione è reale, fondata in natura, se si attende alla descrizione e definizione che se ne dà. Come dunque si definisce cotesta robustezza o debolezza patologica , che pare dover essere qualche cosa di diverso da quella che il volgo intende colle parole appunto di robustezza e di debolezza? Il Rasori ce la descrive come una robustezza o debolezza [...OMISSIS...] . Ottimamente; ma in tal caso la definizione non esce dai confini della medicina sintetica ; con essa non si dice già che vi sia veramente stato di debolezza o di robustezza nel corpo, il che sarebbe l' illazione avventata della medicina analitica , ma si dice solamente che vi è un nemico, a cui giova diminuire le forze. Ora, chi mai non sapeva che le forze del nemico sono sempre troppe? Non bastava dire che dove vi è un nemico attivo, che non si può d' un tratto spegnere, conviene cercare almeno di svigorirlo? Questo è logico, evidente. Ma questo non si fa perchè vi siano nel corpo umano troppe forze, ma perchè vi sono in esso forze nemiche. Non si può dunque conchiudere che il male stia in un soverchio di robustezza e di forza, ma nell' anormalità di questa; la quale, fosse anche pochissima, è sempre soverchia, chè lo dirò ancora, tutto ciò che è anormale, è soverchio. Tanto è vero che, non essendo punto dimostrato, come abbiamo notato di sopra, che l' infiammazione nasca da una assolutamente soverchia attività del cuore e delle arterie, anzichè da una attività soverchia relativamente al rilasciamento delle vene capillari, di maniera che la debolezza cresciuta in queste, può aver determinato quella, e non viceversa; non essendo, come dicevo, ciò dimostrato, rimane ancora possibile a concepirsi un' altra via conducente a vincere l' infiammazione, quella di restituire al viluppo capillare venoso una forza sufficiente a far sì che il sangue ingorgato rientri nell' universale circolazione, e non produca un processo di propria vegetazione. Io non voglio qui ricorrere agli effetti del freddo applicato ad una parte infiammata, nè discendere ad altri particolari; ma, dico, nelle generali, che altro è che questa via non siavi, altro che sia impossibile rinvenirsi. Suppongasi impossibile; l' impossibilità dovrà provarsi per tutt' altri argomenti da quelli che si volessero derivare dallo stato di eccesso di stimolo; chè questo stesso eccesso di stimolo parziale cesserebbe, tostochè il rallentamento del sangue ingorgato nei capillari fosse ricacciato per le sue vie naturali, mediante il detto accrescimento di vigoria, nei vasi rispettivamente rilassati. Si replicherà: « l' espressione di debolezza o robustezza patologica è nondimeno propria, perchè indica almeno quell' elemento che il medico deve solo curare, e che perciò forma la base della malattia corrispettivamente al metodo curativo ». Se fosse vero che vi fosse un elemento, a cui il medico dovesse restringere le sue vedute, e solamente in ordine ad esso determinare il medicamento, e se i medicamenti si dovessero unicamente partire in due classi, chiamate l' una dei rinforzanti e l' altra dei debilitanti; in tal caso l' espressione di debolezza o robustezza patologica acquisterebbe certo la dote della precisione, quantunque non acquisterebbe ancora quella della proprietà , perchè non indicherebbe ciò che suona debolezza o robustezza. Ma è forse vero che le vedute del medico si debbono restringere a così poco? E` vero, a ragion d' esempio, che egli deve al tutto trascurare quella che chiamano debolezza o robustezza fisiologica ? Che anzi, se la parola patologica equivale a morbosa, o almeno relativa alla malattia, come non meriterà il nome di patologica quella debolezza e spossatezza, che accompagna i mali infiammatorii, quando specialmente il processo flogistico affligge ed abbatte il sistema nervoso? Non è questa spossatezza effetto della stessa malattia? Non sono frequentissimi, e confessati da tutti, i casi, in cui tutto il corpo è ridotto alla maggior possibile estenuazione, e magrezza, e pallore, e concidenza, e tuttavia una parte affetta d' infiammazione vegeta più rigogliosa e rubiconda che mai, appunto perchè, quasi tagliata fuori dall' unità dell' animale, ha preso a fare a parte da sè sola certe funzioni della vita? (1). Ora, se debolezza patologica indica debolezza morbosa , quale debolezza più morbosa di quella che giunge a svigorire e sottigliare il corpo fino alla morte? Ma non si deve badare a questa debolezza nella scelta della cura. - Ritorno a dire, essere innegabile l' importanza di combattere il processo infiammatorio, minacciante dissoluzione e rovina; essere certo che a ciò conferisce il diminuire le forze al nemico; ma dovendo riconoscersi nel processo infiammatorio debolezza e robustezza contemporanee, e queste relative e non assolute, non si può decidere tutto a priori che non vi sia nessun' altra via conducente a ristabilire l' equilibrio fra la debolezza relativamente soverchia, poniamo delle vene, e la robustezza pure relativamente soverchia, delle arterie. Ad ogni modo riesce del tutto falso anche nel sistema moderno, di cui parliamo, che nello stesso tempo che si fa uso d' un metodo antiflogistico, non si debba almeno colla coda dell' occhio riguardare allo stato di debolezza universale del corpo. Nè il Rasori, nè il Tommasini spingono le cose a tanto eccesso. Nello stesso tempo che essi predicano il metodo antiflogistico, riconoscono che non è [...OMISSIS...] . Laonde, benchè classifichino anche la febbre nervosa continua fra le malattie infiammatorie, tuttavia riconoscono che conviene andar moderati assai nell' uso dei controstimolanti. [...OMISSIS...] Il che dimostra a sufficienza: Che non si può perdere di vista dal medico intieramente e in ogni caso la debolezza universale del corpo, e che perciò anche questa deve poter chiamarsi patologica , se per patologica s' intende quella, che deve dirigere il medico ad applicare i rimedi. Che se si vuol cogliere il concetto intimo direttivo della nuova medicina si troverà che questa non ammette un nemico solo nel corpo ammalato, cioè o solo debolezza, o solo robustezza (benchè sembra talora che l' insegni espressamente); ma vuole che si vinca dei due nemici il più forte o minaccioso; e questo è l' infiammazione il più delle volte; perciò in questa si vuol portata l' attenzione di preferenza. Che se poi l' addebilitamento universale divenisse minaccioso anch' esso egualmente o più, a questo pure si deve riguardare. Finalmente che le parole debolezza, robustezza , ecc., appartengono alla medicina analitica , e se ne può abusare facilissimamente, o usarle senza alcun vero profitto dell' arte; le parole all' incontro infiammazione, flogosi, rimedii antiflogistici , ecc., appartengono alla medicina sintetica , e l' uso di esse è sicuro e necessario; perocchè queste parole non ambiscono di descrivere le cause interne del morbo, o di ridurre il morbo ad una sola e semplice causa; ma si contentano di appellare il morbo quale si può conoscere dai suoi fenomeni, e i rimedi pure, quali appariscono dai loro effetti corrispettivamente ai mali così conosciuti e descritti. Da tutto ciò si deve conchiudere che anche la regola a juvantibus et laedentibus è eccellente, quando si usa a cavarne le induzioni proprie della medicina sintetica ; ma riesce difficilissimo, per non dire impossibile, il cavare da essa con sicurezza quelle induzioni, di cui va in cerca la medicina analitica . E noi potremmo istituire una simigliante critica sopra altre regole mediche celebratissime, e dimostrare in simil guisa quanto difficilmente esse si possano adoperare a costituire la medicina analitica . Ma stimiamo meglio venir dimostrando da un altro lato la stessa difficoltà di cavare con sicura logica quelle induzioni , a cui la medicina analitica aspira, non mai per iscoraggiare i cultori di questa, ma per cautelarli contro al rischio di deviare nei loro ragionamenti dal logico rigore, e così nulla ritrarne fuor che errori ed equivoci. Vi è un sillogismo della medicina sintetica , e vi è un sillogismo della medicina analitica . Il sillogismo della medicina sintetica è questo: I fenomeni (soggettivi ed extrasoggettivi), che noi conosciamo di questo morbo, sono tali e tali. Ma in uno stato di fenomeni eguali giovò il tal metodo curativo, e nocque il tal altro. Dunque è d' attenersi a quel metodo, evitando questo. Il sillogismo della medicina analitica è questo: Le cause interne e formali costituenti il presente morbo sono queste e queste. Il tal metodo curativo diminuisce o distrugge queste cause. Dunque il tal metodo è opportuno alla cura del presente morbo. Diciamo che in questo sillogismo della medicina analitica ogni proposizione è più difficile ad accertarsi, che la proposizione corrispondente del sillogismo della medicina sintetica. La prima proposizione del sillogismo della medicina sintetica non è che l' osservazione dei fenomeni. La prima proposizione del sillogismo della medicina analitica è già ella stessa un' illazione logica da fenomeni, che si suppongono precedentemente rilevati e raccolti; chè le cause interne e formali della malattia non si possono indurre che raziocinando dai fenomeni, sola cosa che conosciamo direttamente per via di percezione. Ora, dedurre col raziocinio le cause interne e formali del morbo dai fenomeni che esso presenta all' osservazione, è già questo solo un lavoro d' immensa difficoltà ed incertezza, evitato dalla medicina sintetica; e la difficoltà in gran parte, di cui abbiamo parlato, nasce principalmente dalla complicatezza del corso zoetico, di cui prima di tutto converrebbe conoscere a pieno la teoria; e poscia dedurne le deviazioni anormali e i loro caratteri, e finalmente poterne rilevare la realizzazione nel fatto concreto dell' ammalato che si cura. La seconda proposizione del sillogismo della medicina sintetica risulta ancora da accurate osservazioni. La seconda proposizione del sillogismo della medicina analitica è una illazione, di nuovo cavata coll' opera del raziocinio dalle osservazioni precedentemente supposte. Anche qui tutta la fatica del raccogliere, accertare e classificare le osservazioni è comune alle due forme di medicina; ma all' analitica soprastà oltre a ciò un fardello infinitamente più pesante, quello di determinare l' azione dei rimedi non già in relazione immediata al morbo, ma in relazione alle cause interne e formali di esso; di determinare il metodo curativo, non già notando se con esso un infermo si approssima allo stato di sanità o più se ne allontana, ma se l' azione interna di esso metodo restituisca le cause supposte della sanità, e tolga le morbose, o faccia il contrario. Qui giace una difficoltà smisurata, che in un Trattato dell' esperienza in medicina dovrebbe svolgersi minutamente e positivamente in tutte le sue parti, e che noi non possiamo considerare, a piccol saggio di ciò che brameremmo fatto da altri, se non da qualche lato parziale. Diciamo, adunque, che ogni effetto che s' ottenga nel corpo umano non si deve considerare come un prodotto di un solo agente, ma concorrono a produrlo sempre due cause, l' agente e il reagente . L' azione qui s' accompagna di continuo colla reazione , e lo stato del corpo, che ne consegue, non è che il risultamento di questa azione e reazione concomitante. Ora se l' azione è correlativa all' attività dell' agente, la reazione è correlativa all' attività (1) del paziente. Quindi il vero effetto d' uno stesso agente varia e talora riesce opposto, qualora lo stato del reagente cangi, e pigli un' attitudine opposta. Di che consegue che non si può predire il vero effetto, che porterà un rimedio applicato al corpo umano, volendolo dedurre dalle cause, se non si conosce a pieno lo stato del corpo umano, a cui si applica; il qual corpo umano è appunto nel caso nostro l' ente che deve reagire. Questo principio innegabile è conosciuto ed ammesso. Se non che, quegli stessi che ne riconobbero l' importanza massima che egli ha in sè stesso, non ebbero poi sempre la logica necessaria da saper procedere con lentezza bastevole nelle deduzioni che vollero cavarne. Chi lo conobbe meglio, a ragion d' esempio, dell' illustre Rasori, che tanto illustrò il fatto della capacità morbosa , fino quasi ad elevarla al grado di suprema regola in medicina? Ma è ben altro conoscere un vero nella sua vuota generalità, e altro saperlo ravvisare in atto, in concreto. Non si abbandonò egli forse di soverchio alla fiducia di conoscere senza molta difficoltà lo stato intero e l' etiologia dei morbi, contentandosi di due semplici parole, quali sono in fine quelle di soverchio stimolo e difetto di stimolo? Chi diede più importanza allo stesso principio di Hahnemann, che si consigliò di voler conoscere prima di tutto l' effetto dei rimedi sul corpo sano? Ma con qual precipizio non ne tirò poi la conseguenza generale, che l' agente nel corpo ammalato avrebbe prodotto sempre l' effetto appunto contrario, fondando, sopra un' illazione sì avventurata, impossibile a provarsi per la sua stessa vastità ed ambiguità, tutta quanta la medicina? Ciò che non si conobbe adunque da questi medici si fu la somma difficoltà di cavare delle illazioni logiche da quel principio. E veramente, chi pretende di valutare l' effetto dei rimedi amministrati al malato, calcolando lo stato del corpo reagente e l' efficacia del rimedio agente, in prima si presenta la difficoltà di conoscere appunto lo stato del corpo che deve reagire; e qui tornano in campo la complicazione e le leggi arcane del corso zoetico, e delle molle e forze ad ogni ora mutabili, che lo producono. Di poi viene la difficoltà di conoscere l' agente e la sua efficacia, la quale è certo costante per sè sola, ma non per questo è meno difficile a rilevarsi in correlazione all' effetto. Ecco alcune circostanze delle molte, che dovrebbero essere discusse nel Trattato dell' esperienza . Quando l' agente è complesso, cioè risultante da più elementi e forze diverse, e così pure quando il reagente è complesso, risultante anch' esso da più elementi suscettibili di passioni e reazioni diverse, allora diviene cosa difficilissima, e spesso fallacissima presagirne il vero effetto; il quale può accadere contrario, nonchè diverso da quel che si presagisce, o da quel che indicherebbe il solo agente per sè considerato. Esempi. - Complessità del reagente. - Il freddo abbassa il fluido contenuto nel termometro. Eppure attuffandosi il termometro nell' acqua fredda, al primo istante s' innalza il detto fluido, e tuffandosi nell' acqua bollente si abbassa. Onde questo contrario effetto difficile a prevedersi, se l' esperienza non lo dimostrasse? Di qui certamente, che il paziente e reagente, cioè il termometro contenente il liquore, non è semplice, ma composto di due parti, che sono: 1 il tubo; 2 il liquore. Ora avviene che allargandosi il tubo, debba discendere il liquore, restringendosi il tubo, debba salire. L' azione dunque del freddo e del caldo nel primo istante si comunica al tubo, e non penetra al liquore se non dopo qualche momento. Indi il fenomeno che dicevamo. Si noti la specie d' opposizione, che somiglia a un antagonismo senza esserlo, fra il tubo e il liquore contenuto nel tubo; scaldandosi l' uno e l' altro, il tubo allargandosi fa scendere il liquore, e il liquore in pari tempo diradandosi vuole ascendere. Dei due effetti contrari, quello che prevale suol pigliarsi per l' effetto dell' agente, e pure non è; anzi è solo la differenza fra due effetti opposti, prodotti dallo stesso agente. Il fuoco dilata; e perchè dunque restringe una palla di molle creta? Perchè la palla di creta è composta d' argilla e d' acqua; dilatando l' acqua in vapore, lascia restringersi fra loro le parti argillose, che non hanno più impedimento ad attrarsi. Complessità dell' agente. - L' agente è complesso, se risulta da sostanze di proprietà diverse, e quindi può dare un effetto inaspettato. L' agente può essere semplice quanto alla natura della sostanza, ma la stessa sostanza può agire con forze diverse. A chi domandasse quale sia l' azione dell' aria sul fuoco, che converrebbe rispondere? E` evidente che l' aria sul fuoco produce effetti contrari, secondochè opera con forze chimiche oppure con forze meccaniche . Se opera con forze chimiche lo alimenta, somministrandogli idrogeno e ossigeno; all' incontro se opera con forze meccaniche, siccome accade in una impetuosa colonna d' aria, lo spegne. S' ingannerebbe dunque colui, che considerasse nell' aria una sola di queste due maniere di forze, e decidesse che l' aria fa sempre sul fuoco il medesimo effetto. Il freddo restringe i corpi, sottraendo loro il calorico, che tiene le loro molecole ad una certa distanza. Or bene, l' acqua che si va restringendo a mano a mano che cresce il grado del freddo, tutto ad un tratto si dilata nell' atto del congelarsi. Lo stesso accade al zolfo, al ferro, ad altri metalli, che si dilatano, passando dallo stato di liquido a quello di solido per raffreddamento. Ora: 1 quasi tutto ciò che il medico adopera per influire sul corpo umano è complesso, sì per la pluralità delle sostanze, di cui è composto, sì per la diversità delle forze meccaniche e chimiche, colle quali agisce; 2 molto più lo stesso corpo umano vivente, che è quello che deve reagire, è oltremodo complesso, non solo per le varie sostanze di cui si compone, ma per le proprietà e forze meccaniche, fisiche, chimiche e vitali, che in esso agiscono simultaneamente e spesso in un senso opposto, e non solo con diversità di effetto, ma fin anche con vero antagonismo. Il Trattato dell' esperienza , da noi desiderato, dovrebbe discendere al particolare, e mettere in aperto tutte le diverse classi d' illusioni, in cui si può dare in conseguenza della molteplicità di sostanza e di forza degli agenti (rimedi, metodo curativo) e del reagente (corpo umano). E questo non basta ancora; dato pure che fosse semplice la sostanza e la forza, sì dell' agente che del reagente, se ne può avere tuttavia ora un effetto, ora un altro diverso, ed ora uno del tutto opposto solo che cangino le circostanze, gli accidenti, nei quali l' agente ed il reagente si trovano. Un cenno anche di ciò. Forze vitali. - Queste producono un effetto diverso, come vedemmo, secondo la condizione della materia in cui agiscono, dell' organizzazione, ecc.. Producono un effetto diverso, secondo che la loro azione si considera come modificatrice piuttosto delle forze meccaniche che delle chimiche, ecc., o viceversa. Producono un effetto diverso, secondo che la loro spontaneità è più o meno suscitata, più o meno disposta ad operare. Forze chimiche. - Ogni sostanza chimica agisce in modo diverso, secondo che deve agire in un' altra sostanza, colla quale ha una data affinità o ripugnanza. Agisce in modo diverso, secondo la proporzione delle due o più sostanze che si mescolano insieme; secondo il modo col quale si mescolano, il tempo, la vicinanza, le forme, e secondo tutti quegli accidenti, che i chimici notano con diligenza. Agisce in modo diverso, secondo che è sostanza elementare, o sostanza composta di più elementi, la sostanziale unione dei quali dà ad esse novelle proprietà. Forze meccaniche. - Il tempo, la celerità, le leggi della comunicazione del moto, la forma, il contrasto delle forze, ecc., sono circostanze che producono effetti opposti e contrari. Un po' d' aria apre un uscio; una palla da fucile lo fora senza aprirlo. La forza è maggiore nella palla, eppure non produce l' effetto dell' aria, perchè la celerità della palla è tanta che non lascia tempo al movimento da comunicarsi a tutto l' uscio; ma, prima che nasca la comunicazione, produce l' effetto di staccare quel pezzuolo ch' ella preme con tanto impeto, dalla coesione che lo tiene unito col rimanente della tavola. Dovrebbero in una parola enumerarsi tutti gli elementi, che possono mutare l' effetto degli esperimenti, e anche renderlo contrario; cavando in fine per corollario la soluzione ben determinata dei seguenti problemi: « Quali illazioni logiche si possono cavare, con rigorosa certezza, da un effetto ottenuto da un esperimento, e quali non si possano ». « Quanto di probabilità può avere un' illazione, che si può cavare dall' effetto d' un esperimento, quando non può aversi la certezza ». La medicina sintetica dunque è soccorsa da quelle regole medie complesse, che vedemmo costituire la mirabile sagacità degli uomini prudenti quelle regole, che accorciano il cammino alla soluzione dei più ardui e complicati problemi. E questa è anche la via tenuta dai più celebri medici di tutti i tempi, da quelli che al letto dell' ammalato mostrarono sagacità e sicurezza in debellare i morbi. L' abbandonare queste regole complessive, per applicarsi ad analizzare gli elementi primitivi costituenti le cause dei morbi e della loro cura, diede spesso all' arte medica il tracollo, e crudelissimi patimenti e morti alla sofferente umanità. Ma se attenendosi a quelle regole, senza mai abbandonarle, si verrà di mano in mano discendendo a più particolari cognizioni, l' andamento sarà sicuro, e il progresso lodevole. Così la medicina sintetica , che non deve essere abbandonata mai, discenderà cautamente ad illazioni analitiche; l' unica maniera possibile di raggiungere e conciliare insieme l' una e l' altra medicina. Per quanto io credo, la medicina analitica non può aspirare ad essere sola, ella deve nascere dalla sintetica; sarà il difficile, il laborioso, e il non mai compiuto parto di questa. Tale è il destino dell' arte salutare. Torniamo al nostro assunto, dal quale ci allontanò una digressione, che non ci pentiamo d' avere intromessa, come quella che ci spiana il resto del cammino nell' argomento che trattavamo. Noi volevamo dimostrare l' incredibile varietà e molteplicità delle vie, per le quali scorre il corso zoetico, e la sua estrema mobilità alle cagioni anche minime, che lo fanno deviare dalla sua direzione. A tal uopo noi abbiamo esposte le varietà primitive del sentimento fondamentale di continuità, e dell' istinto vitale che lo produce, le varietà degli stimoli primitivi e naturali, e delle sensioni che ne sorgono, e del medesimo istinto vitale, che mette in essere il sentimento fondamentale d' eccitazione, siccome pure la varietà della sensitività , cioè della facoltà che ha il sentimento fondamentale d' eccitazione di modificarsi sotto nuovi stimoli accidentali, e dar luogo a sensioni parziali, anch' esse accidentali. Le sensioni, che insorgono come conseguenza di stimoli primitivi dati dalla natura e non prodotti dall' istinto stesso animale, furono da noi dette primitive ; quelle poi che vengono prodotte in conseguenza di stimoli generati dall' azione dell' istinto, furono dette seconde . Di queste e delle loro varietà noi dobbiamo ancora parlare. A formarsi chiaro il concetto di queste sensioni seconde, e a vedere quanto esse influiscano sul corso zoetico, è uopo chiamare all' attenzione la dottrina della forza sintetica dell' animale, che noi abbiamo data nell' Antropologia . Appunto questa forza fa sì che le sensioni seconde, le quali succedono alle prime, suscitino nel corpo umano nuove attività e come nuove potenze, immutanti il corso zoetico, giacchè ogni associazione di sensioni figurate o non figurate, d' immagini, di sentimenti attivi o passivi (1), suscitati o risuscitati, intellettivi o corporei, producono nell' animalità un nuovo stato, nuove attività, nuovi movimenti. Le sensioni associate poi si fondono in quella che abbiamo chiamata affezione , e che è un sentimento universale medio fra le sensioni e le passioni . Infatti, come l' affezione è un effetto prodotto nella condizione sensuale di tutto l' animale dalle sensioni speciali contemporanee, così le passioni sono un effetto di quell' affezione, onde prende la spinta a muoverle l' istinto sensuale. L' istinto sensuale mosso dall' affezione determina le passioni animali, sempre e poi sempre secondo quella legge, che « il sentimento prende l' atteggiamento, che gli è più comodo e naturale ». Se nella tristezza vedesi l' istinto sensuale abbandonato all' inattività, egli prende questo modo, perchè a fare il contrario gli costa troppo; se nella gioia egli è tutto attivo, è perchè gli accomoda meglio quest' attività. Talora gli è meno gravoso il patire in quiete, e allora s' adagia in essa, come in un modo di essere a lui più comodo ed opportuno. S' adagia talora in uno stato di quiete, per ricevere più a pieno la gradita sensazione. Talora è irrequieto e attivo, per cercarla o cercarne l' occasione. L' ira è attiva; l' istinto sensuale nell' ira gode di quell' atteggiamento, che consiste in quell' attività veemente, bellicosa, che sorge quando un' altra attività precedente incontrò un ostacolo a pienamente spiegarsi e soddisfarsi. Ma l' ira, come qualunque altra passione, se diviene eccessiva, è uno stimolo troppo forte, e allora fa l' effetto degli stimoli eccessivi, istupidisce. Il qual fatto prova appunto che le sensioni hanno natura di stimoli, e che è il principio sensitivo quello che determina la legge degli stimoli, non è lo stimolo materialmente preso, giacchè gli stimoli materiali e gli stimoli spirituali, come sono le passioni, ubbidiscono alla stessa legge d' istupidire, se oltrepassano un certo grado di forza. La forza dell' abitudine , a cui soggiace l' istinto sensuale ed anche il vitale, in quanto produce il sentimento fondamentale d' eccitazione e le prime sensioni, ha un' influenza immensa sulla condizione sanitaria del corpo. Perchè avviene, a ragion d' esempio, che gli abitatori delle montagne, o dei luoghi ove l' aria è asciutta ed ossigenata, paghino il tributo all' aria più o meno stimolante di altre regioni, ove sono paludi, risaie o altre cause di miasmi, o anche semplicemente all' aria umida e più grossa, e che in appresso, dopo essere soggiaciuti a febbri, infiammazioni, ecc., vengano assuefacendosi alla nuova atmosfera? E` troppo manifesto che ciò procede dall' abitudine, e pare che la cosa possa seguire a questo modo. L' abitudine dell' istinto animale può diminuire od accrescere l' effetto degli stimoli esteriori, secondochè egli sottrae ad essi od aumenta la propria cooperazione, e più o meno cospira con essi alla produzione dei movimenti e delle sensioni provocate. L' istinto animale è dunque quell' arbitro, quel regolatore, che equilibra od accorda la tensione e l' attività della fibra nervosa cogli stimoli maggiori o minori dell' atmosfera, nel modo il più vantaggioso. Ma quando questo equilibrio ed accordo è già una volta bene stabilito in armonia d' una data atmosfera, e la fibra nervosa s' è mantenuta lungamente in quella tempera e grado e metro d' attività, che ben conveniva alla quantità e qualità degli stimoli, che porgeva alla cute un dato clima; allora quel dato grado e quella data tensione della fibra si conservano, e continuano abitualmente per qualche tempo anche sotto il nuovo clima; e quindi avvengono le malattie. Poichè se l' atmosfera, in cui prima l' animale si ritrovava, era poco stimolante, la vitalità suppliva ella stessa colla sua azione al poco eccitamento esteriore; ma questa azione diviene soverchia in un' altra atmosfera assai stimolante, e l' effetto eccessivo si manifesta coll' infiammazione. Di più, quando il corpo umano ebbe presa l' abitudine di vivere soggiacendo a pochi stimoli, tutto il corso zoetico nelle sue sensioni e nei suoi movimenti si conforma convenientemente con armonia di moti e di funzioni. Ma se gli stimoli esteriori vengono subitamente accresciuti o diminuiti, il cangiamento non può succedere ad un tempo in tutti i moti e le funzioni, che costituiscono il corso zoetico; ma dapprima in quella parte, a cui gli stimoli sono applicati, e, parlandosi di atmosfera, alla pelle, al polmone, al sangue; onde a principio deve succedere uno squilibrio fra l' attività, in cui si mettono certe parti del corpo, e quella di certe altre, che non risentono immediatamente l' azione dei nuovi stimoli; e un tale squilibrio di attività fra parti e parti, fra vasi e vasi, fra porzioni di vasi ed altre porzioni, sono cause, come già vedemmo, di malattie, di quasi tutte le malattie. Con un ragionamento simile si può spiegare la nostalgia, in quanto ha di fisico, le malattie, a cui soggiace il corpo per le mutazioni atmosferiche anche nello stesso clima, ecc.. E quindi converrebbe classificare diligentemente gli stimoli, e investigare se e quando, mutandosi le condizioni dell' atmosfera, o accadendo altri accidenti, una classe di stimoli esterni venga ad accrescersi, un' altra a diminuirsi; il che di nuovo potrebbe recare squilibrio e sconcerto, e spiegare la diversità dei morbi che si manifestano. Gli stimoli accrescono l' attività nell' animale, ma alcune volte in pari tempo la perturbano. Questo ci richiama a parlare delle diverse maniere di debolezza e di robustezza, che nell' animale si manifestano, e a cercare se la debolezza e la robustezza patologica può tenersi come ben fondata. Vi è primieramente una debolezza nell' istinto vitale, ed un' altra nell' istinto sensuale. Consideriamo la debolezza nell' istinto vitale, prescindendo, per un poco, dall' influenza che può esercitare su di lui l' istinto sensuale. Due sono gli effetti primitivi dell' istinto vitale: 1 produce il sentimento fondamentale di continuità, rispetto al quale egli viene indebolito dall' opposizione della materia o forza straniera; 2 produce le sensioni, quelle che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, ed anche le accidentali, che sono provocate da stimoli esterni accidentali; e in quanto a questo effetto vien egli indebolito dalla scarsezza e inopportunità degli stimoli. L' istinto vitale, mettendo in atto il sentimento fondamentale, specialmente quello d' eccitazione, dà luogo altresì alla sequela di alcuni fenomeni extrasoggettivi, come sarebbe del tono della fibra viva, la tensione dei nervi ed incessanti movimenti intestini. La debolezza di lui si manifesta anche nella scarsezza di tali fenomeni. Diamone alcune prove di fatto. Legandosi i vasi, e impedendosi che il sangue rosso inaffii qualche parte del corpo, questa diventa floscia, insensata, si paralizza. La legatura dei nervi reca effetti somiglianti. E poichè tali effetti si diffondono secondo la sfera d' azione dell' attività vitale, che è diversa dall' organizzazione materiale ed extrasoggettiva, quindi si hanno gli effetti simpatici in parti prive di una prossima connessione organica col nervo legato. Molinelli e Brunn, avendo legati i nervi pneumogastrici di alcuni cani, n' ebbero per effetto la dilatazione della membrana pupillare, l' occhio divenuto secco e torbido, diminuito di volume, l' iride abbrunita, la figura della pupilla alterata. E` dunque evidente che l' attività dell' istinto vitale, avvivando il corpo, obbliga le sue particelle extrasoggettive a comporsi in un dato modo, a prendere e tenere una data proporzione reciproca, a certe azioni e moti intestini, i quali sono tutti effetti extrasoggettivi. Non si dimentichi che la descritta debolezza del principio vitale nel produrre i due effetti indicati, e la lotta che per ciò deve talora sostenere, suppone un animale già esistente; di che nasce la conseguenza che la disposizione imperfetta della materia e l' inopportunità degli stimoli non può essere mai universale, ma deve sempre appartenere a qualche località determinata, o che questa abbracci un luogo solo o più, sia più o meno estesa. La ragione di che si è che il principio animale non esisterebbe come individuo agente, se non avesse almeno qualche parte di materia in suo pieno dominio, e alcuni stimoli opportuni, che dessero luogo al sentimento fondamentale d' eccitazione necessario all' esistenza dell' animale. Ora poi s' aggiunga anche la considerazione dell' influenza, che sostiene l' istinto vitale dall' istinto sensuale e dal principio intellettivo. Può benissimo essere indebolito da quella influenza, ma l' effetto di tale influenza si manifesta anch' esso con un cert' ordine, relativo alle diverse parti del corpo, e per conseguente non è senza qualche località, secondo l' organo della passione animale che fu suscitata. A ragion d' esempio, l' ira, la vendetta, e tutte le passioni che partecipano della tristezza, affezionano di preferenza il fegato; l' itterizia è spesso cagionata da cause morali. Se la passione ha un' origine intellettiva, il primo organo interessato deve essere l' organo dell' immaginazione, il cervello; ma le immagini che trascinano il pensiero, ed il sentimento intellettuale che ad esse si attiene, operano sul principio animale, e questo poi, come istinto sensuale, provoca, accresce, diminuisce, altera l' azione del fegato (1). La debolezza dell' istinto vitale, che procede dalla sua relazione colla materia, nasce anche qualora il corpo perda insensibilmente delle molecole, come per traspirazione, ecc., senza che vengano ripristinate per altre vie naturali, come per alimento, ecc.. Allora il sentimento di continuità va scemando, ma non succede turbazione, ma solo diminuzione del sentimento di continuità e d' eccitamento; e lo stato di debolezza conseguente non si può dire morboso fino a che, oltrepassando un certo grado, non muti di condizione, o almeno non si può dire debolezza diatesica , giacchè non produce processi morbosi indipendenti. Che se la perdita naturale di molecole vive continua senza riparazione, va scemando l' attività dell' istinto vitale, e quindi si rallentano tutte le funzioni. Quando poi questo rallentamento è giunto a un certo grado, la scarsa materia, di cui il vivo è composto, riducesi a tale che non è più dominata sufficientemente dall' istinto vitale, e quindi le forze materiali entrano con esso in lotta, incominciando tosto lo stato morboso o diatesico, che in questa lotta consiste. Ma se dal corpo vivente si stacca una parte in modo non naturale, ma violento, conviene distinguere due effetti di questa separazione: quello che nasce nel sentimento di continuità, il quale si discontinua e resta diminuito delle parti staccate, il che non è ancora condizione morbosa; e quello che nasce nel sentimento d' eccitamento, cioè il dolore e i successivi processi e movimenti intestini, e questa è condizione morbosa. Se la ferita non divide dal corpo alcuna parte, non vi è diminuzione di parti (prescindendo dalla perdita del sangue, ecc.), ma solo eccitamento e processo conseguente, che finisce o col rammarginamento, o in altro modo. Il dolore, cagionato dalla ferita, procede da due cagioni: 1 dall' inegualità del taglio, il quale non recide la parte così di netto che non lasci alcune particelle nè appieno divise, nè appieno unite, sicchè l' istinto vitale combatte con esse per rattenerle, mentre esse hanno perduta quella conveniente posizione e conformazione, che è necessaria al pieno dominio della vita; 2 dal perdere che fa l' organizzazione di quella perfetta configurazione, che rispondeva all' atteggiamento preso prima dal sentimento; onde questo si trova costretto ad atteggiarsi diversamente, e si sforza di farlo; dal che dipende la tendenza che dimostra a rammarginare la ferita, se gli vien fatto di configurare l' organismo al suo bisogno, o di disciogliersi e abbandonare quell' organismo, se non gli vien fatto. E il dolore prodotto da queste cagioni, e anche il solo sforzo che fa il sentimento all' uno di questi due intenti, è la causa del processo morboso, che finisce o colla sanità o colla morte. Una lotta si manifesta altresì, ogni qual volta qualche agente straniero giunga a sottrarre qualche porzione della materia vivente dal pieno dominio della vita, senza però che ella resti del tutto spoglia di vita. Determinato così il concetto dello stato morboso, noi possiamo distinguere tre maniere di robustezza e di debolezza, la fisiologica e la patologica , che si suddivide in patologica semplice e in diatesica . Le quali denominazioni non pretendiamo che sieno le più proprie ed acconcie, e potranno benissimo essere mutate in altre migliori dai dotti; ma ci si permetta di adoperarle intanto a significare, comecchessia, i nostri concetti. Chiameremo, dunque, robustezza o debolezza fisiologica quella del principio della vita nell' esercizio della sua dominazione sulla materia, quando questa dominazione è perfetta, pacifica, senza irritazione, senz' alcuna lotta. Il sentimento, in cui questa dominazione consiste, è per essenza piacevole. Chiameremo patologica quella robustezza o debolezza che manifesta il principio vitale, quando non domina pienamente, in modo da produrre il conveniente e soddisfacente piacere della vita d' eccitamento. Se manca qualche cosa all' integrità dell' organizzazione, come nello stato di fame e di estenuazione, vi è certamente uno stato che s' allontana dalla piena sanità; ma considerato questo stato da sè solo, benchè si possa dire, in qualche modo, patologico o morboso, non si può dire ancora diatesico, perchè non manifesta a chiari segni la lotta, ma solamente l' inazione dell' istinto vitale. Accordo che questa inazione trarrà dietro a sè una lotta, almeno se giunge a certo grado, come fu detto innanzi, ma resta sempre separato il concetto della lotta , a cui appartiene lo stato diatesico, dal concetto della semplice inazione . Sicchè quando queste due cose si trovano insieme, meritano ancora d' essere l' una dall' altra colla mente distinte. Come dunque definiremo e descriveremo quella robustezza e quella debolezza patologica, che diciamo diatesica? Noi la ravvisiamo in una robustezza o debolezza bellicosa, che dimostra nei suoi atti il principio della vita. Perocchè nella lotta indicata, il principio della vita, ora combatte con forza ed impeto, ora debolmente più che non gli sarebbe mestieri. Il che richiede qualche dichiarazione. Primieramente noi crediamo doversi distinguere la causa efficiente prossima della malattia dall' essenza di essa. Riconosciamo che la causa efficiente della malattia possa consistere talora in un' azione troppo veemente, talora in un' azione troppo allentata del principio vitale. Dico azione veemente e azione allentata piuttosto di dire robustezza o debolezza , poichè queste ultime parole meglio si applicano a significare uno stato che non sia un atto; e la causa prossima efficiente della malattia, in quanto appartiene al principio vitale, non può essere che un atto che produce poi, insieme ad altre cause, lo stato morboso. A ragion d' esempio, la gioia improvvisa d' un lieto avvenimento può aumentare momentaneamente l' azione del principio vitale, a segno da spingere il sangue con impeto maggiore di quello che possano sostenere le pareti dei vasi, e far succedere un' apoplessia. La tristezza può cagionare la morte in un modo opposto, diminuendo al principio vitale talmente la sua azione da rallentare la circolazione, e così, accumulandosi il sangue nei grossi vasi, illanguidire siffattamente tutte le funzioni vitali, sino a venirne la morte quasi spontanea, «abiastos». Ma questa esaltazione o questa depressione di forza, con cui agisce il principio vitale, non è la malattia, benchè ne sia la prossima causa efficiente; distinzione, che si deve fare accuratamente, se si brama giungere ad una teoria chiara dei morbi. La semplice diminuzione o il semplice aumento di forza nell' azione del principio vitale non costituisce dunque la malattia, ma può esserne la causa; e lo è di fatto, ogni qualvolta quell' azione diminuita o quell' azione accresciuta rechi qualche alterazione nell' organismo, o nella materia organata e vivente; per la quale alterazione il principio vitale sia contrariato nel pieno suo dominio sulla materia vivente, sicchè questa tenda a sottrarsi da lui, e così incominci la lotta che dicevamo. Secondo questo concetto della malattia è uopo conchiudere che in tutte le malattie, niuna eccettuata, v' è una debolezza, la quale è il fondo della malattia stessa; e questa debolezza fondamentale consiste nel dominio diminuito del principio vitale sulla materia. Laonde se talora il principio vitale, durante lo stato di malattia, fa sfoggio di forze straordinarie, non si deve conchiuderne che egli sia più forte, ma solo che egli sia più irritato, se ci si concede di così parlare, a quel modo appunto che un principe, il quale tiene in così perfetta soggezione i suoi sudditi che questi non possono muovergli alcuna ribellione, è più forte di quell' altro, a cui i sudditi ribellati dànno battaglia con dubbia sorte, benchè questo secondo spieghi maggiori forze militari, e faccia più prodezze del primo. La violenza dunque, con cui opera il principio vitale durante lo stato morboso, a vero dire, non è segno di robustezza, ma più veramente di debolezza, d' un impero pericolante. Onde, cessata la lotta, colla vittoria cessa altresì lo sfoggio delle forze bellicose, ed apparisce la debolezza nel principio vincitore; ed è perciò che tutti i convalescenti sono deboli; manifesta prova, per quello che pare a noi, che il principio vitale in istato di malattia è sempre più debole che in istato di sanità, benchè non paia, perchè in guerra; siccome accade anche che un uomo debole, se una grande ira lo coglie, spiega più forza d' un altro veramente forte, tranquillo e quieto. Vi è dunque in qualsivoglia malattia debolezza e forza. Vi è una debolezza fondamentale, relativa alle forze materiali insorgenti contro al dominio della vita. Vi è una forza bellicosa, che il principio della vita trae in palese, affine di conservare il suo impero minacciato, e riacquistarne la pienezza. Questa forza bellicosa è quella che trasse principalmente l' attenzione delle moderne scuole di medicina, e che produsse le dottrine dello stimolo e del controstimolo. Facciamovi sopra qualche osservazione. L' azione dell' istinto animale non esce dalla sfera del sentimento ma i diversi suoi atteggiamenti tirano dietro a sè i movimenti extrasoggettivi. Questi movimenti nella materia influiscono a provocare nuove azioni e nuovi atteggiamenti del sentimento medesimo, perchè la stessa materia, che da una parte è fuori del sentimento, dall' altra è animata e sentita. Di qui deducevamo che l' azione del sentimento, e restringendo il nostro discorso, l' azione bellicosa del sentimento può produrre nella materia organata modificazioni salutari o perniciose; e benchè il sentimento nel suo operare sia cieco rispetto all' utilità o al danno di questi effetti extrasoggettivi, influenti poi nella condizione soggettiva, tuttavia la Provvidenza ebbe prestabilita un' ammirabile armonia, per la quale spesso, se non sempre, i movimenti prodotti dovessero riuscire utili all' animale. A ragion d' esempio, la parte infiammata, dolente, o estremamente sensibile ricusa qualunque stimolo; ora l' istinto sensuale produce quei movimenti che può e l' organismo gli consente, per ricacciare ogni materia toccante la parte ammalata, o altra con quella legata. Nell' encefalite, nell' idro7encefalite, nelle apoplessie, ecc., i vomiti sono frequenti; i nervi dello stomaco ricusano gli stimoli, ecc.. L' istinto sensuale non cerca che a sottrarsi dall' ingrata e dolorosa sensazione, o dalla fatica molesta ai nervi, che dolenti vogliono riposo; ma è provvidenziale, che i movimenti che fa a tal fine sieno così concertati dalla natura da addurre l' effetto, che la materia stimolante ed extrasoggettiva venga espulsa (1). Gli sforzi bellicosi, adunque, del principio vitale, benchè sempre tendano, come in loro fine immediato e soggettivo, a perfezionare lo stato del sentimento , tuttavia non sempre sono utili alla salute; chè questa dipende in gran parte dalla condizione della materia extrasoggettiva; e quegli sforzi, benchè abbiano sempre uno scopo salutare immediato entro il soggetto, traggono seco dei movimenti extrasoggettivi (costituenti in parte i processi morbosi), per quel misterioso vincolo che l' ordine soggettivo ha coll' ordine extrasoggettivo; i quali non sempre riducono a migliore stato e disposizione la materia organata, ma talora la sconcertano ed indispongono maggiormente; di che essa, vie più sconcertata e più indisposta, determina l' anormalità del corso zoetico, che si rende finalmente esiziale. Posto dunque che la malattia sia avvenuta mediante una irritazione , presa questa parola in un senso generale per indicare « un conato della materia a sottrarsi dal dominio della vita », qualunque sia la causa che abbia prodotto questo sconcerto, e posto che il principio vitale insorga per ristabilire il suo dominio, possono accadere tre accidenti: Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, unicamente perchè agisce troppo debolmente, sicchè col solo aggiungergli delle forze, riuscirebbe l' effetto (debolezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè operando con troppo impeto, produce movimenti violenti nella materia, sconcerti extrasoggettivi, che deteriorano lo stato della materia rispetto alla vita, anzi la rendono più ritrosa a ricevere il dominio (robustezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè opera con azione disuguale e sproporzionata, cioè in certi luoghi o parti del corpo soverchia, e in altri luoghi, relativamente, troppo debole (soverchia robustezza e soverchia debolezza contemporanea del principio bellicoso, parziale e locale). Questi tre accidenti a prima giunta si presentano al pensiero; ma i due primi sono essi veramente possibili? Non parmi; non credo almeno, come ho detto prima d' ora, che costituiscano una diatesi morbosa , benchè ne possano essere cagione. Infatti, dato che, per qualsivoglia causa, il principio vitale sia universalmente indebolito, se si astrae dagli effetti che questa debolezza può produrre, altro non si ravvisa che una vita poco attiva e non più; il che per sè non è condizione morbosa; e se questa debolezza e inattività è cagionata da una irritazione o condizione morbosa precedente, in questo caso la condizione morbosa non è la debolezza, ma precede a questa siccome causa, e va fornendo il suo corso, senz' avere a fronte chi fortemente glielo contrasti. Che se non si tratta di debolezza dell' azione bellicosa, ma di debolezza dell' azione vitale in generale, questa potrà essere cagione della malattia, senza essere la malattia, allorquando il rallentamento delle funzioni della vita cagioni qualche sconcerto, pienezza o congestione di umori, ecc. (1), e allorquando ebbero luogo solo questi effetti, incomincia lo stato morboso e la lotta; ma questi effetti sono tutti locali, e perciò appartengono al terzo degli annoverati accidenti. Lo stesso dicasi della robustezza universale dell' azione bellicosa. Per sè non è la malattia; ma se la veemenza dell' azione bellicosa, o anche la forte azione della vitalità universale eccitata, produce qualche sconcerto nella materia, come rottura di vasi, o altro, in tal caso la malattia incomincia con questi effetti, i quali sono locali e parziali. E si consideri che ogni irritazione, che determina l' azione bellicosa, è sempre locale. Ora dove si trova località, ivi è successione di azioni e di movimenti, che da una si estendono ad altre parti, secondo l' organizzazione della materia e l' atteggiamento del sentimento. Così se una ferita al cerebro determina un' epatite, è evidente che questo effetto succede al primo, ed è un male locale che succede ad un altro pure locale; e ciò in conseguenza dell' azione bellicosa del principio della vita, sollevata dalla prima irritazione locata nel cerebro. Quindi nella condizione morbosa la lotta non abbraccia mai egualmente e contemporaneamente tutte le parti del corpo, ma è determinata ad alcune, ed una succede all' altra; il che fa sì che in ogni condizione morbosa si verifica il terzo accidente, pel quale « il principio vitale opera con azione disuguale e sproporzionata, di modo che in certi luoghi del corpo è maggiore che in altri ». Ristretto in tal maniera il concetto della malattia, e distinta l' igiene, a cui appartiene di conservare e rinforzare la sanità, dall' arte di guarire, conviene porre l' occhio alla località, dove incomincia l' azione bellicosa, e a tutte le altre località alle quali ella estende i suoi effetti, considerando: Che l' azione bellicosa di sua natura affatica e spossa il principio vitale; e quindi spesso avviene che col diminuirla, lungi dal diminuire le forze dell' ammalato, anzi si conservano, come si conservano le forze di colui, a cui cessano le fatiche e gli sforzi. Che l' azione bellicosa, esaurendo le forze del principio vitale, produce il contrapposto di un' apparente robustezza in quelle parti dove l' azione bellicosa si spiega, e d' una manifesta debolezza ed estenuazione in tutte le altre. Così accade nelle infiammazioni locali, che dimagrano ed estenuano il corpo, mentre nella parte infiammata si osserva grande azione, che non è punto robustezza, ma azione bellicosa e sforzo eccedente. Che l' azione bellicosa, nascendo da una primitiva irritazione, o non genera ella stessa altre modificazioni irritatrici della materia, e in tal caso cessa ogniqualvolta si può far cessare l' irritazione primitiva (malattie d' irritazione); o genera nuove modificazioni irritatrici, e per restituire la sanità conviene modificare la stessa azione bellicosa (malattie di diatesi). Talora l' azione bellicosa locale produce modificazioni irritatrici della materia, perchè i movimenti suscitati nelle parti o particelle sono tali, che non possono essere dominati e regolati dalla forza del principio vitale; e in tal caso v' è eccedenza rispettiva d' azione bellicosa locale, unita a debolezza rispettiva di vitalità universale; e fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi stenica . Se l' azione bellicosa locale è più debole dell' irritazione che la cagiona, ella permette a questa di prevalere, e la materia mal disposta si sottrae sempre più al dominio della vita; fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi astenica . Certo è che qualora la vitalità è più robusta, è altresì maggiore l' azione bellicosa. Onde accade che ogniqualvolta si crede utile diminuire l' azione bellicosa locale, si ricorre a quegli espedienti che sembrano diminuire la forza della vitalità; e qualora si crede utile d' accrescere l' azione bellicosa, pare che s' ottenga coll' accrescere la forza del principio vitale. Ma non è dimostrato che sia questa l' unica via di diminuire e di accrescere l' azione bellicosa; non è dimostrato che l' unica via sia quella di diminuire o di accrescere la robustezza del principio vitale. Resta dunque a cercarsi: Se forse l' azione bellicosa, producente una diatesi stenica, non si possa ricondurre sulla retta via coll' apporre ai suoi guasti una resistenza, accrescendo la forza della vitalità universale. Ovvero, posto che coll' accrescere la forza di questa vitalità universale, si abbia uno scapito e un vantaggio, lo scapito d' accrescere la forza bellicosa che mena guasto, e il vantaggio d' accrescere il potere universale della macchina che resiste a quel guasto, resta a cercare se non si possa mai avverare che questo vantaggio prevalga a quello scapito, e nel caso che qualche volta si possa, quando e come si possa. Se l' azione bellicosa, producente una diatesi astenica, si possa emendare unicamente coll' accrescere la vitalità universale, o coll' eccitare localmente un' altra irritazione e sollevare una nuova forza bellicosa (1); e in questo caso quali sono le cagioni perchè l' azione bellicosa non risponda vivamente allo stimolo, e si sta come avvilita, determinando i rapporti di queste cagioni diverse coi rimedi. Le quali sono tutte ricerche appartenenti alla medicina analitica. Torniamo ora sui nostri passi. Noi abbiamo manifestata l' opinione che il fondo di ogni malattia si riduca ad una debolezza dell' istinto animale. Crediamo importante non abbandonare questo argomento senza aggiungervi qualche altra riflessione, riassumendo e annoverando con maggiore chiarezza le cause che debilitano il detto istinto, e gli tolgono o diminuiscono il dominio su quell' esteso materiale, in cui termina il sentimento che costituisce l' animale. Primieramente rammentiamo che l' istinto animale per sè è inesauribile; i suoi limiti nascono unicamente dall' esser egli condizionato al sentito, suo termine. Il sentito si può concepire crescente di estensione senza confini; non v' è ragione di negare che il principio senziente possa invadere anche tutto l' universo, qualora fosse data la continuità necessaria delle parti; anzi egli tende in effetto ad estendersi ed a continuarsi ogniqualvolta al continuo, suo termine, s' aggiunga qualche altra parte di materia. Di che, se un corpo straniero tende a dividere il corpo vivo, l' istinto fa resistenza. In secondo luogo l' istinto animale ha la tendenza all' eccitamento, anche questa illimitata. Laonde colla sua attività egli asseconda e promove tutti i movimenti che vengono iniziati nel continuo, secondo le leggi prestabilite, che abbiamo indicate. In terzo luogo l' istinto animale tende a individualizzarsi, che è la via d' innalzare sè stesso alla maggior possibile potenza, e d' avere eccitamenti più forti e perpetui. Fa questo la stessa tendenza all' eccitamento, combinata colle forme degli elementi e delle molecole materiali; chè se in un continuo composto di elementi di forme immutabili si suppone una virtù, che assecondi ogni moto che in essi nasce, ritenuto sempre dentro la loro continuità, deve necessariamente venirsi formando una organizzazione sempre più conveniente a far sì che vi sia maggiore quantità e frequenza di moto, e che questo si perpetui; il quale moto non può essere nè massimo, nè perpetuo, se non è armonico, cioè se i moti parziali non hanno unità (1). Il sentimento dunque si atteggia necessariamente ad unità, come il modo a lui più naturale e più soddisfacente. Se dunque si considera l' istinto animale in sè stesso, non si trova alcuna causa che spieghi la sua debolezza e il suo malo stato; per sè tende necessariamente al bene, ed è capace di tutto. Ma la causa si trova bensì nella sua condizione, e in certe forze a lui superiori, che esercitano sopra di lui un' influenza. La condizione dell' animale, cioè il termine corporeo, deve avere tre accidenti: continuità, eccitamento, organizzazione. La continuità può essere divisa, non tolta affatto, perchè il corpo è essenzialmente continuo. L' eccitamento può essere tolto affatto, e in tal caso l' istinto vitale non produce più che il sentimento di continuità, non può più manifestare alcuna di quelle forze, che compiscono le funzioni animali; così cessa l' animale per semplice debolezza ed estenuazione. Può essere disciolta l' organizzazione , e in tal caso di nuovo l' animale non è più, egli ha perduta la sua individualità (1). Ma se l' eccitazione o l' organizzazione non è tolta repentinamente da qualche forza maggiore, ma solo è minacciata da una forza straniera, allora l' istinto animale entra con essa nella lotta sopra descritta. Oltracciò, nell' uomo il principio senziente soggiace all' azione del principio intelligente, col quale pure può lottare, o certo riceverne forza maggiore o debolezza. Indi è che i tipi primitivi di tutti i mali, a cui può soggiacere l' animalità nell' uomo, si riducono a due: 1) debolezza semplice del principio senziente; 2) attentato all' armonia dell' eccitamento. In quest' ultimo caso accadono tre accidenti: L' istinto animale nella lotta è più debole, e allora si avvilisce; la disarmonia dell' eccitamento si effettua e diviene maggiore fino a dissiparsi, rompendosi l' unità e l' individualità, onde la morte. L' istinto è più forte, e giunge a dominare la forza nemica, o ad espellerla, onde la sanità. L' istinto, benchè più forte, produce nondimeno, colla sua azione violenta, nuovi sconcerti nell' extrasoggettivo, e si crea così da sè stesso un nemico, che diviene più forte di lui, una nuova malattia con cui lottare; e qui si rinnova uno dei tre indicati accidenti. Consistendo adunque tutti i mali dell' animalità in debolezza del principio senziente, e in disarmonia dell' eccitamento sensibile, diciamo qualche cosa sull' uno e sull' altro tipo. Le cagioni proprie della debolezza del principio senziente nell' uomo, che vengono tutte dai due principŒ stranieri, coi quali è connesso (l' intelligenza e la materia), si riducono alle seguenti: Quando l' intelligenza fa conoscere all' uomo la propria impotenza in confronto alla difficoltà d' uno scopo ardentemente desiderato, si manifesta una diminuzione di forza anche nel principio animale; e ciò perchè il principio intellettivo e sensitivo s' identificano nell' uomo, onde la debolezza dell' uno è partecipata dall' altro. Diminuzione di coscienza di proprie forze è diminuzione di forze. Così, se l' intelligenza apprende un male imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della paura, della sollecitudine, della tristezza, dell' ansietà, ecc. (1). All' opposto, qualora l' intelligenza apprende un bene imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della speranza, della gioia, ecc.. E` un fatto che queste passioni non rimangono nella sfera dell' intelligenza, ma si diffondono a quella dell' animalità. Tutte le passioni tristi appariscono allorquando la circolazione e le altre funzioni animali si rallentano. Ora il rallentamento delle passioni animali è l' effetto manifesto della debolezza del principio motore, che è l' istinto sensuale. Dunque questo partecipa dell' affezione del principio intellettivo e della sua debolezza, che consiste nella scemata coscienza delle proprie forze, nella diminuzione del sentimento intellettivo; chè coscienza fa sentimento, e sentimento fa forza. E qui si noti che quando la cagione per la quale si debilita l' istinto animale, è una passione dell' intelligenza, l' indebolimento non è dapprima disarmonico, nè parziale, ma si rende tale nei suoi effetti successivi; chè l' intelligenza opera immediatamente nel principio senziente, che presiede, in vario modo però, a tutte le parti e funzioni del corpo animato. La seconda cagione, che scema l' attività del principio senziente, nasce dalla lotta morbosa; quando l' istinto sente d' avere contro di sè una forza maggiore, allora egli si scoraggia. E questo accade per l' unione del sentimento soggettivo colla percezione dell' extrasoggettivo avversario. Quando la forza dell' extrasoggettivo, percepita insieme col sentimento della forza propria, si fondono per la forza sintetica in un' affezione sola, allora si appalesano tali effetti di smarrimento. Se l' istinto animale sente dover combattere con un avversario forte, tanto meno opera, quanto più vi prova di fatica, fino a cessare del tutto dall' operare. Accade talora che quando l' istinto è valido e sicuro, ed opera energicamente, se d' improvviso gli si para innanzi un ostacolo, lo combatte con tanta forza, di cui ha contratta l' abitudine, che produce sconcerti nell' extrasoggettivo. Che se gli ostacoli sono molti e perseveranti, vanno un po' alla volta diminuendo e fiaccando l' ardore dell' istinto, e così togliendogli le forze, come si vede nel cronicismo, a cui passano talora le malattie più violenti. La terza cagione, che debilita l' azione dell' istinto animale, è la diminuzione degli stimoli interni. Questi possono diminuirsi in conseguenza d' una debolezza precedente dello stesso istinto, chè indebolito questo, si rallentano tutti i movimenti della macchina, e diminuzione di moto è diminuzione di stimolo. Ma si possono diminuire gli stimoli interni anche col diminuirsi degli umori, massime del sangue, il principale di essi, e in generale con una perdita di sostanza. La fame provoca idee tristi, scolora l' immaginazione, scoraggia, il languore si propaga a tutte le membra. Possono diminuirsi altresì per qualche ostacolo meccanico, che impedisca i movimenti della macchina vivente, come avviene nella ossificazione dei vasi, o che impacci la loro libera comunicazione, o ne scemi la celerità, come nelle ostruzioni, per esempio, se la mucosità spalma o ingombra le cellule aeree del polmone, come in sulla fine delle polmoniti, sicchè il sangue, non potendo compire l' ematosi, ritorni al cuore, quasi come ne è venuto, venoso e inattivo, o se si lega un nervo, ecc.. L' azione dell' istinto animale s' addebilita in quarto luogo diminuendosi gli stimoli esterni, cibi, bevande, aria atmosferica, ecc.. Viceversa s' accresce l' attività vitale per aumento dei medesimi, e s' accresce in diverso modo, secondo la qualità degli stimoli e la località a cui vengono applicati. L' ossido di carbone, recato ai polmoni mediante la respirazione, produce una speciale ilarità, l' inspirazione dell' etere solforico stupidezza dei sensorii, ecc.. E la stupidità della fibra, prodotta dall' eccesso di stimolo, è appunto la quinta cagione della debolezza dell' istinto animale nel suo operare. Per intendere di quale stupidità noi parliamo, conviene riflettere che lo stimolo non porta eccitamento, se non in quanto produce i movimenti intestini delle molecole animate. Se dunque i movimenti provocati sono contrari fra loro, sicchè l' uno elida l' altro, come accade sotto stimolo eccessivo, quei movimenti, facendosi minori ed opposti alla spontaneità animale, danno alla fibra una cotale stupidità non rispondente allo stimolo. Finalmente, se per qualsivoglia cagione accade che l' azione dell' istinto si concentri e quasi esaurisca in qualche parte del corpo, o in qualche sua speciale funzione od operazione, manifestasi altrettanta debolezza in altre parti, funzioni ed operazioni; il che accade però con grandi differenze e per vari modi, che è necessario distinguere. Generalmente parlando, è noto che la parte del corpo umano che più s' adopera, più si sviluppa, s' ingrandisce e fortifica. I muscoli dei contadini, dei facchini e d' altre persone addette ai mestieri faticosi, riescono di gran lunga più voluminosi e risentiti che non quelli di persone conducenti vita comoda e delicata. La stessa massa del cervello sembra accrescersi negli uomini dati agli studi. Fu detto che la grossezza maggiore, che aveva il cranio degli antichi germani, si dovesse attribuire ai pesi che usavano di portare sul capo. Una delle principali ragioni, per le quali l' istinto animale accumulando in modo straordinario la sua attività in qualche luogo speciale del corpo, la sottrae ad altri, si è quella della lotta morbosa. Quindi in tutte le malattie, le quali sembrano aver sempre, od acquistare in progresso, una località, scorgesi squilibrio di forza, troppa robustezza e troppa debolezza ad un tempo, attività soverchia in una parte, e inattività nelle altre. Venendo applicati al corpo animale stimoli esterni che producano piacere, e così accrescano l' eccitamento, la spontaneità animale accumula ivi la sua attività, per accogliere la maggior quantità possibile di quel piacere. Questa accresciuta attività nervosa in quella parte, vi determina poi anche maggior concorso di fluidi. Che se questo concorso è eccessivo, o se accade che i fluidi vadano a perdersi, può venirne gran danno al corpo; e questo è un caso di quella disarmonia eccezionale, che noi abbiamo indicata fra i fenomeni soggettivi e gli extrasoggettivi. Che se gli stimoli esterni applicati al corpo sono molesti, l' istinto animale ivi si attua per liberarsene. Ma questo attuarsi in quel luogo, vi produce medesimamente concorso di fluidi o stimoli interni, sicchè avviene che talora nello stesso tempo che l' istinto s' adopera a cacciare il soverchio e disordinato stimolo, che è stato applicato alla parte dal di fuori, egli stesso vi accumuli in quella vece altri stimoli interni. E questi recano sovente più danno al corpo che non farebbe l' azione degli stessi stimoli esterni, che egli s' affatica a cacciare; per esempio, mentre l' istinto cogli sforzi della tosse tenta liberarsi dell' irritazione che sente al polmone, nei bronchi, o alla trachea, egli stesso accumula in queste parti tanto di sangue che vi determina, o aumenta l' infiammazione, o anche produce rottura di vasi, onde la malattia termina coll' esito il più sinistro. E` specialmente la direzione e il concorso dei fluidi che produce la robustezza e la debolezza comparativa, di cui parliamo. L' attività dunque dell' istinto animale si può concentrare in una località, e mostrarvisi più o meno attiva per più ragioni; distinguiamole: I Causa, intellettuale . - Nell' estasi, ed in altre grandi azioni ed affezioni intellettuali, talora si toglie solamente all' uomo la coscienza delle sensioni; tal' altra sembra che restino veramente impedite le sensioni stesse, e sottratta al sensorio la sua mobilità. L' attività allora si esaurisce piuttosto fuori del corpo che in qualche parte di questo; benchè il cervello, che aiuta l' intelletto somministrandogli i segni delle immagini, che fissano la sua attenzione, ne rimanga anch' esso quasi sempre interessato. II Causa, sensoria . - Una specie di sensioni assai vive impediscono altre sensioni meno vive, benchè appartenenti ad altri organi sensorii. Nel sonno l' attività sembra concentrata nel cervello, nella facoltà interna di sentire; quindi sottratta agli stimoli dei sensi esteriori; forse anche in questo caso l' attività sensoria, cresciuta nell' organo della fantasia, si deve ripetere dall' afflusso degli umori in quella direzione. Venendo ferito qualche ramo facciale o frontale del quinto paio, se n' ha la cecità, che dura più o meno a lungo (1), senza alcuna lesione del nervo ottico. Dove sembra che il cervello sospenda la sua influenza sul nervo della visione, perchè scosso, e nella dolorosa lotta occupato, non gli rimanga più di virtù da collocare nell' operazione visiva; se pur non si deve piuttosto attribuire il fenomeno all' essere i movimenti cerebrali, cagionati dalla ferita o percossa, quelli che perturbano i movimenti sensorii; e stando così, è ad ogni modo da notarsi che quei movimenti non sono al tutto meccanici, ma animali; e però tali che impiegano parte dell' attività del principio della vita. Può essere anche che quella ferita, ed altre, che istupidiscono qualche organo sensorio, producano questo effetto per qualche alterazione da essi cagionata nella direzione dei fluidi, che inaffiar devono gli organi della sensazione. III Causa: concorso dei fluidi . - Ed è appunto il concorso dei fluidi (i quali sono i principali stimoli interni) che noi dobbiamo più attentamente considerare. E` principio indubitato che « in quella località dove l' azione vitale è comparativamente maggiore, ivi concorrono i fluidi in maggior copia »(2). Diciamo comparativamente , poichè è da aver mai sempre presente che non è un assoluto grado di forza quello che costituisce uno stato morboso, ma un grado relativo, uno squilibrio della forza vitale, che si altera soverchiamente in una parte comparativamente ad un' altra, la quale presenta i sintomi di rispettiva debolezza. Poniamo che il freddo sia un debilitante, e che quando è moderato, produca l' effetto di rintonare la fibra per via indiretta, sottraendo ad essa un soverchio stimolo che la istupidisce, od anche restringendola, ove sia di soverchio dilatata. Se dunque il freddo è debilitante, dove egli s' applica, ivi l' azione vitale diminuisce. Ora questo può spiegare perchè, venendo esposta la pelle al contatto di corpi assai freddi, ovvero passando noi leggermente vestiti da una temperatura calda ad una fredda, ne riportiamo varie infiammazioni delle membrane mucose, della pleura, del polmone, degli intestini, dello stomaco, o della vescica. Diminuita l' attività vitale ai vasi capillari della pelle, riesce comparativamente accresciuta l' attività dei vasi interni delle dette membrane; debbono dunque i fluidi affluire dall' esterno all' interno (1), ed ivi ingorgarsi, stagnarsi, fors' anche dai capillari venosi passare il sangue premuto a stravenare nei linfatici, che coi venosi probabilmente si abboccano (2). Il sudore si promuove coi bagni o bibite calde, si sopprime coi bagni o bibite fredde per una simile ragione, cioè perchè in tal modo col caldo si rendono più attivi i vasi alle superfici interne od esterne, e col freddo si rendono gli stessi vasi comparativamente meno attivi, e quindi si cangia la direzione dei fluidi. La ragione poi, perchè la bibita calda eccita il sudore alla superficie cutanea, sembra dovesse essere quella legge di simpatia, di cui abbiamo parlato, per la quale il principio senziente mette in giuoco contemporaneamente gli organi simili. Il ghiaccio si adopera utilmente a frenare le emorragie ostinate. Questo effetto pare doversi attribuire a due cagioni, cioè: 1 all' azione fisiologica, per la quale indebolendosi comparativamente le estremità dei vasi, si determina il fluido a prendere la direzione contraria, a retrocedere; 2 all' azione chimica, restringente le estremità dei vasi, il che impedisce l' afflusso. Lo spavento determina l' uscita di orine abbondanti, chiare e inodore; perchè scemando l' attività interna, e comparativamente accrescendola verso la periferia, accelera i fluidi nella direzione dall' interno all' esterno del corpo. All' incontro le irritazioni dei visceri sopprimono le secrezioni (1). Tutte le infiammazioni vive d' un organo contenuto nelle tre cavità splancniche, sospendono ed alterano il corso delle secrezioni; essendovi molta attività vitale al centro e debolezza relativa verso la periferia, il corso dei fluidi non si può fare egualmente bene verso di questa. E` la stessa ragione, per la quale il cibo vi provoca in bocca l' afflusso della saliva, per la quale un po' d' aceto applicato sulla congiuntiva o sulla pituitaria adduce le lacrime. La ferita d' un intestino arresta la digestione, come la gastrite può impedire la deglutizione (2). Bichat osservò che nel tempo che gli alimenti dimorano nello stomaco, è scarso lo scolo della bile, e che si accresce poi quando passano nel duodeno, per guisa che allora se ne trova in copia negli intestini, sempre per la stessa ragione, che finchè lo stomaco è stimolato dalla presenza dei cibi, l' attività vitale ivi è maggiore, onde attira i fluidi, anzichè lasciarli scorrere altrove. Così è un vero indubitato che lo stimolo accrescente attività nella parte esterna dei condotti secretori ed escretori, è uno dei mezzi principali, di cui si serve la natura per determinare le secrezioni e le escrezioni. Secondo Broussais con altri medici moderni, quelle grandi evacuazioni, che si dicono crisi , altro non sono che l' effetto della cessazione dell' irritamento dei visceri. Perchè questa irritazione sopprimeva le naturali secrezioni? Perchè essa aumentava l' attività vitale all' interno, e comparativamente la rendeva debole verso la periferia; indi era impedita la direzione degli umori al di fuori. Quantunque il ristabilimento delle funzioni degli organi secretori sia, quando succede naturalmente, l' effetto della cessazione della causa della malattia, non è però che molte volte le dette evacuazioni, prodotte artificialmente, non diventino un mezzo al ristabilimento della salute. Un sudore abbondante, provocato con bibite o bagni vaporosi generali o parziali, dissipa cefaliti ostinate; vescicatoi, caustici, rubefacenti producono il medesimo effetto per una causa simile. Questi sono altrettanti mezzi, coi quali si accresce l' azione del principio senziente alla cute, e quindi si diminuisce comparativamente nelle parti interne; con che si provoca la direzione dei fluidi dal di dentro al di fuori, e così si diminuiscono gli stimoli interni, che pel loro soverchio cagionano dolore. Conviene per altro riflettere che, quando è accresciuta l' attività vitale in una parte del corpo umano a cagione d' una irritazione o d' altro, quell' attività può comunicarsi ad altre parti, sia perchè la materia irritante muti di luogo, sia per una cotale irradiazione dell' attività stessa a parti organicamente continue, sia finalmente per una vera simpatia (1). Nel qual caso anche la parte che partecipa dell' attività cresciuta, diventa, comparativamente alle altre parti che non ne partecipano, più attiva. Di più, alcune parti divenute meno attive, occasionano l' attività comparativamente maggiore di altre. Allorquando per cagione di qualche infiammazione si gonfiano le glandole linfatiche, quando, per esempio, a cagione d' un panariccio intumidiscono le glandole sotto l' ascella, pare che ciò avvenga, perchè l' infiammazione, rendendo comparativamente meno attive altre parti, queste non attraggono più a sè, e conducono gli umori segregati dalle glandole; indi l' ingorgo e la tumefazione di queste. La tisi andata innanzi, indebolendo le parti circostanti o simpatiche col polmone, rende comparativamente più attive le parti dei vasi più lontane dal centro; indi il calore accresciuto alle palme delle mani ed alle piante dei piedi, le rose alle guance, il rosso vivo alla radice della lingua, i sudori abbondanti e colliquativi, le diarree, le gonfiezze edematose alle estremità (2). E` appunto questo accrescimento e diminuzione comparativa d' attività, questa serie di effetti che diventano cause alla loro volta, che complica immensamente la scienza medica, e rende oltremodo difficile a seguitarsi nelle sue variazioni il corso zoetico. Se si considerano quelle febbri che cominciano con una sensazione di freddo, a cui succede un forte calore, sembra che durante il freddo vi sia un riflusso del sangue dalla periferia al centro, e durante il calore un afflusso dal centro alla periferia. Ora, considerando che il sangue viene ricondotto al cuore per la via dell' albero venoso, e diffuso alle estremità per la via dell' albero arterioso, parrebbe doversene inferire che l' albero venoso acquisti un soverchio di forza, comparativamente all' albero arterioso; l' albero arterioso un soverchio di debolezza, comparativamente al venoso; nel qual caso, venendo il sangue portato al cuore con più impeto e celerità, sarebbe dalla reazione di questo e dei vasi arteriosi stimolati soverchiamente, riportato poi con pari impeto alla periferia. Solamente che si dovrebbe supporre l' eccedenza di forza nell' albero venoso consistere in uno stato di tensione o azione maggiore dei vasi; là dove la reazione del cuore e delle arterie non essere accresciuta per uno stato di loro propria tensione e forza maggiore, ma pel maggiore stimolo da cui vengono incitati, per la maggior copia e celerità del sangue, lasciando anche da parte la crasi del medesimo, che pare dover influire piuttosto nelle febbri continue che nelle intermittenti (1). Ma se questa ipotesi può aver luogo, quale può essere la causa di questo squilibrio d' attività fra l' albero arterioso ed il venoso? Ecco la questione complicata oltremodo. Se in una data località s' accumula il sangue per un' azione comparativamente in essa accresciuta, questo sangue ivi accumulato, e quasi stagnante, può e deve subire diverse alterazioni nei suoi principŒ, come lo dimostra il caso dell' infiammazione; e questa alterazione può essere comunicata alla massa del sangue, ed indi nascere la febbre, effetto così d' una irritazione od infiammazione locale (2). E` cosa indubitata che la stessa legge dei vasi, dirigenti i fluidi al luogo dove l' attività vitale è comparativamente maggiore, dipende principalmente dalla condizione dei nervi sensorŒ. Ciò è manifesto dalle osservazioni seguenti: Quando l' irritazione si fa dolorosa, ella produce simpaticamente maggiori effetti. Più gli organi infiammati sono dotati di nervi, e più anche è dolorosa la loro infiammazione, e di conseguente più alterate riescono le funzioni animali. Le simpatie hanno luogo con più di forza e di prontezza nelle persone più sensitive. Ma si deve osservare che nel sistema vascolare e nel sistema nervoso la propagazione e il concentramento dell' attività vitale tiene una legge opposta; nel sistema vascolare si concentra mediante il concorso degli umori in quel punto, dove qualche causa l' ebbe accresciuta; nel sistema nervoso, all' incontro, si propaga a seconda delle sue diramazioni, partendo dal punto dove prima è stata accresciuta, ed osservando sempre le leggi sue proprie. Quindi la gastrite, per esempio, è accompagnata da dolore di capo per la comunicazione nervosa. Per altro, che l' infiammazione, la quale accresce indubitatamente l' attività vascolare nel luogo infiammato, produca una comparativa debolezza in altri luoghi, si vede pel dimagramento che succede, ond' è impedita la nutrizione. Durante la digestione, alla prima eccitazione del cuore e di tutte le funzioni succede uno stato di debolezza degli organi, i sensi esterni e i muscoli perdono una parte della loro attività, si fa sentire qualche brivido di freddo; il che dimostra che il sangue non fluisce più colla stessa abbondanza ed impeto di prima alle estremità. Ma in questo caso il lavoro prevalente dello stomaco, che converte gli alimenti in chimo, non è uno squilibrio morboso, ma un' ondulazione di forza fisiologica, chè quell' aumento di attività del ventricolo va cessando, di mano in mano che compie la sua funzione e distribuisce l' alimento alle membra, restituendo ed accrescendo ordinatamente le loro forze; il che è un fatto tutto conforme alla spontaneità dell' istinto animale. Ma un fatto consimile è quello dell' irritazione o dell' infiammazione morbosa; se non che questa, contrariando la spontaneità dell' istinto animale, ne solleva l' attività bellicosa, e invece d' aver per successo la nutrizione delle parti, lascia in queste dei danni, fra i quali quello appunto d' impedire la loro nutrizione, rattenendo il corso dei fluidi, che dovrebbero diffondersi ad alimentarle. Ecco alcuni fatti dei molti. L' infiammazione dei reni trae seco talora l' atrofia delle glandole testicolari. Nella colica dei pittori è singolar cosa vedere come dimagrano i muscoli situati tra il pollice e l' indice. Negli ascessi, che occupano le tuniche degli intestini tenui, si incavano gli occhi, e diminuisce oltremodo la pinguedine, che deve sostenere l' occhio. In tutte le infiammazioni croniche che finiscono colla morte, il dimagramento si rende estremo ed universale in tutto il corpo, la parte infiammata continua a vegetare finchè si forma la cancrena. Insomma io credo così importante il noto principio, che i fluidi accorrono là dove è accresciuta comparativamente l' attività vitale, che sembrami poter dare egli solo all' osservatore indizio a conoscere la diramazione dei vasi, che s' intrecciano nel corpo umano, e, quasi voleva dire, lo costituiscono. IV Causa: eccitamento dei nervi del senso e del moto . - Abbiam detto che l' attività del principio senziente si concentra là, dove è più viva la sensazione . Consideriamo ora l' accentramento dell' attività, anche per cagione del fenomeno extrasoggettivo che accompagna il senso, cioè per cagione del movimento dei nervi. Questo movimento si propaga dal punto dove il nervo è stato scosso in tutte le direzioni, non già per una mera comunicazione di moto meccanico, ma per una comunicazione meccanico7fisiologica. E` nondimeno certo che l' attività del principio animale s' affatica, se i nervi sensorii o motori sono scossi soverchiamente, e quindi lascia altre parti deboli, come pure lascia uno stato di spossatezza dopo movimenti violenti, come accade nelle convulsioni. E` del pari certo: Che talora il sistema nervoso esercita delle funzioni, nelle quali una sola parte è interessata, e allora le altre restano come insensitive. Così accade nelle contensioni di spirito, nelle quali è interessato il solo cervello, organo della fantasia, onde la sensitività della cute sembra annientata; il che accade altresì in certe affezioni morbose, a tale che questa appena dà segno di senso. Che se il medesimo sistema nervoso non esercita una di queste funzioni, talora al contrario s' accresce la sensitività della pelle oltre misura, per le ragioni dette parlando delle malattie del cervello, come vedesi nei maniaci, negli ipocondriaci, nei melanconici, nelle femmine isteriche. I fluidi del corpo umano sono gli stimoli interni , i nervi sono gli stimolati. I nervi stimolati, colla loro azione più o meno prolungata, ed anche simpaticamente diffusa, dànno attività ai vasi in cui s' addentrano, e i fluidi vi accorrono sottraendosi ad altre parti (1), le quali restano comparativamente più deboli, e più deboli restano conseguentemente anche i nervi, che vanno ad esse. Ci rimane in fine a parlare delle località, di cui abbiamo fatto cenno qua e là sol di passaggio. All' intendimento nostro non appartiene farne un trattato, il che sarebbe troppo superiore alle nostre cognizioni. Ci proponiamo unicamente di tentare qualche soluzione di questo problema: « perchè il principio animale, essendo semplice ed uno, tuttavia manifesta diversi effetti della sua azione, piuttosto in certi luoghi che in altri del corpo vivente ». La teoria delle località ha dei principŒ generali, delle leggi, le quali si applicano egualmente al corpo sano e al corpo ammalato, o che si consideri il corpo abbandonato a sè stesso, e percorrente i successivi stadŒ del corso zoetico, non alterato da stimoli artificiali, o che si vogliano determinare gli effetti di questi stimoli, applicati ad arbitrio al corpo sano od infermo. Noi dunque esporremo prima le leggi generali delle località , che chiameremo fisiologiche , facendone poi qualche applicazione al corpo infermo, e deducendo alcune leggi patologiche ; e finalmente aggiungeremo qualche applicazione agli effetti di quegli stimoli artificiali, che si applicano al corpo infermo per restituirlo a stato di sanità, toccando così alcune leggi terapeutiche . Le leggi fisiologiche, ossia generali delle località, sogliono desumersi dai sei elementi, che costituiscono l' animale. I tre soggettivi di essi: 1 il sentimento continuo; 2 il sentimento eccitato; 3 il sentimento individuato. I tre elementi extrasoggettivi corrispondenti: 1 la materia continua; 2 i movimenti intestini di essa; 3 la costante armonia dei detti movimenti, a cui è condizione l' organizzazione. Il principio animale è la parte attiva del sentimento continuo, eccitato e individuato; ma il suo operare è condizionato al suo termine, cioè al corpo. Se consideriamo la sola continuità del sentimento, senza eccitazione o stimoli esterni, avremo un sentimento fondamentale di continuità uniforme, senza distinzione di luoghi o di parti, e perciò senza figura. In questo sentimento lo spazio misurato, l' estensione extrasoggettiva ancora non esiste; non esiste ancora l' animale, ma solo un suo elemento, l' animato. Coll' eccitamento cominciano a sorgere nel sentimento le località, i limiti figurati; l' eccitamento poi non è armonico ed individuato senza l' organizzazione del corpo, termine del sentimento. Quindi la prima causa, per la quale le località si manifestano nel sentimento, è un principio extrasoggettivo, cioè la parte extrasoggettiva dell' organizzazione, e lo stimolo ad essa applicato. Poichè tutte le parti dell' organizzazione non sono egualmente sentite, nè egualmente sensorie, è conseguente che cada in esse una disuguaglianza di azione vitale, cagione di località. Gli stimoli che si applicano all' organizzazione e promovono l' attività dell' istinto, non si applicano a tutte le parti egualmente dell' organizzazione, ma ad alcune determinate; e quindi un' altra cagione di località. Dal che procedono queste conseguenze: Il principio senziente ha una cotale sfera limitata dall' estensione del sentito; ma questa sfera non è ella stessa sentita, ossia determinata nel sentimento fino che il sentimento è uniforme, di continuità. L' azione, che esercita il principio senziente, è proporzionata al sentito. Se dunque nella sfera del sentito varia la qualità del sentimento e i gradi di sua intensità, proporzionatamente varia ancora di qualità e di quantità l' azione del senziente nei diversi punti della sfera sentita. Vi è allora varietà di sentimenti e d' istinti, ma non si sentono ancora i confini, e perciò le figure extrasoggettive di quei diversi sentimenti. Quando dei corpi stranieri agiscono alle superfici del corpo sentito, incominciano le sensioni superficiali, per le quali il principio sente i confini e le figure della sfera del proprio sentito, e ad un tempo dei corpi esteriori. Il principio senziente, ricevendo il primo impulso e la prima determinazione sua dagli stimoli, continua i movimenti iniziati colla propria spontaneità, le leggi della quale furono da noi indicate, e si possono ricapitolare così: 1) L' azione spontanea del senziente, ossia dell' istinto, è tanta, quanto più egli trova di facilità e di diletto nell' operare che nel non operare. Questa legge determina la quantità dell' azione . 2) Il modo dell' azione consiste nel volgere tutta la quantità d' azione, di cui fa uso, a perfezionare lo stato dell' animalità nei suoi tre elementi, cioè ad estendere la sfera del sentito, ad accrescere l' eccitamento, e a mantenere l' armonia e l' unità nel sentimento medesimo, e per conseguente l' organizzazione. 3) Questa tendenza della spontaneità del principio senziente a volgere la propria azione a perfezionare l' animale nei suoi tre elementi (sentito esteso, eccitato, armonico), può essere contrariata dal principio extrasoggettivo; nel qual caso nasce l' irritazione, causa delle malattie, che è la stessa forza della spontaneità, che si volge a combattere ciò che nuoce all' animalità per la stessa ragione, che ella tende essenzialmente a perfezionarlo. Quando la spontaneità dell' attività senziente vuole ottenere l' effetto d' accrescere il sentimento, o di ributtare da sè ciò che vi si oppone, allora ella mette in giuoco tutti quegli organi, e fa tutti quei movimenti, che a tal fine la possono condurre. Ma l' effetto, che ella vuole ottenere, talora è locale; e per ottenerlo ella deve dar moto ad organi e parti, che occupano altre località. Queste diverse parti, occupanti luoghi diversi da quello a cui si riferisce, come a proprio scopo, l' attività animale, sono la sede appunto delle simpatie. Ma incontra che, essendo il principio senziente sempre in attività, come esige la conservazione e il perfezionamento dell' animalità, gli avvenga di contrarre anche delle abitudini, si assuefaccia a muovere contemporaneamente certi organi per ottenere un dato effetto, di cui ha di frequente bisogno. Se poi gli accade di appetire un effetto, il cui ottenimento ha bisogno del moto d' alcuno di quegli organi, che egli è avvezzo di muovere insieme, allora non solo egli muove l' organo necessario all' effetto, ma gli altri ancora, che egli è avvezzo di muovere insieme, e ciò per abitudine. Il che nasce, perchè l' atto del principio senziente è semplice, movendo egli più organi, per dirlo colla frase scolastica, per modum unius ; l' atto poi con cui muove ad un tempo quel numero d' organi è diverso da quello, col quale ne moverebbe uno solo; ora ogni atto diverso il principio senziente deve imparare a farlo coll' esperienza; onde gli può riuscire più facile e piacevole tentare l' effetto coll' atto che muove più organi, alcuni dei quali inutilmente, che non coll' atto che ne muoverebbe uno solo, quello che fosse necessario. Il che certamente accade, se questo non l' ha imparato a fare e il primo sì, o se questo sappia farlo meno facilmente del primo. Come il sentimento continuo, il sentimento eccitato e il sentimento armonico ed uno, sono i tre modi generali del sentimento, e tutte le varietà appartengono all' uno o all' altro di essi, così anche le attività del sentimento si riducono a tre principali, corrispondenti a quei modi. Il sentimento eccitato ha già in sè il sentimento continuo, di cui è una esaltazione; il sentimento armonico ed uno ha in sè il sentimento continuo ed il sentimento eccitato, non essendo che la perfezione di quest' ultimo. L' anima intellettiva non si può unire che al sentimento armonico ed uno, e per mezzo di questo al sentimento eccitato, per mezzo poi del sentimento eccitato al sentimento continuo. Quindi nell' uomo vi sono tutti e tre questi sentimenti, ma il solo oggetto della coscienza è il sentimento armonico ed uno, fondamento dell' individualità animale. A noi pare che, meditando le relazioni di questi tre modi di sentimenti, si possa spiegare la località delle sensioni. Io provo in una mano una sensione piacevole o dolorosa; il movimento, a cui aderisce questa sensione locale, non è quello che si limita ai nervi della mano, dove la sensione ha luogo, ma appartiene principalmente al cervello, dove se niun movimento avesse luogo, niuna sensione proverebbe la mano. Perchè la sensione nella mano ha ella bisogno dei movimenti del cervello, che punto nè poco si sentono? Questa domanda contiene due questioni: perchè non posso io avere la sensione in una mia mano punta da un ago, se il movimento nervoso non si prolunga fino al cervello; e perchè, e come io sento il dolore della puntura nella mano, e non nel cervello o lungo il braccio, dove si continua il movimento delle fibre; che è la questione della località. Alla prima abbiamo risposto altrove, e qui ci basterà osservare che se il movimento nervoso venisse interrotto per modo che non giungesse al cervello, egli perderebbe l' armonia e l' unità con tutto intero il sentimento animale, allo stesso modo come se si dividesse il braccio dal corpo; e noi abbiamo detto che l' anima intellettiva non si può unire che al sentimento uno ed armonico, e però senza di questo non può avere coscienza d' alcun sentimento. La seconda questione poi, quella della località del sentimento, esige più estesa dichiarazione. La località comincia a sentirsi, quando noi percepiamo il corpo come uno spazio solido, limitato, figurato. Ma noi non percepiamo il nostro corpo limitato e figurato se non mediante l' esperienza extrasoggettiva, per la quale percepiamo le superfici del medesimo. In altre parole, il sentito non dà figura, nè luogo, nè parti al corpo nostro; ma solo il percepito, cioè quella forza extrasoggettiva, che fa sentire la sua azione nel sentito. Questa esperienza extrasoggettiva ci rappresenta il corpo in modo meramente fenomenale, il corpo che chiamammo corpo anatomico , e che è cosa assai diversa dal corpo reale , che immediatamente si sente (il sentito); ed anzi ha con questo delle disarmonie ed apparenti contraddizioni (1). Le località dunque appartengono al corpo percepito in modo extrasoggettivo e fenomenale. Ma dopo che noi abbiamo percepito in tal modo le località nel corpo extrasoggettivo, le applichiamo al corpo soggettivo; noi teniamo per regola dei nostri pensieri e delle nostre azioni quello, benchè fenomenale, e non questo, benchè reale. Come dunque riferiamo noi le sensioni soggettive alle località extrasoggettive? Il corpo locale e anatomico è il corpo a quel modo che lo vediamo, lo tocchiamo, lo assaporiamo, ecc.; è il composto di tutte queste nostre sensioni. Queste sensioni unite insieme ci danno la figura del corpo; e la figura di esso e delle sue parti (2) è quella che ci costituisce l' immagine del corpo; e l' immagine del corpo diventa la materia dell' idea volgare e comune del corpo, dietro la quale comunemente gli uomini ragionano ed operano; le località si riferiscono a questa figura immaginaria, che è una parte della sensione molteplice dell' universo esteriore. Le località dunque si riferiscono a questo corpo percepito così nelle nostre sensioni, e contemplato nelle nostre immagini; le parti di esso sono disegni, che si formano nella nostra sensitività esterna; è questa che concorre a formarle per noi, per la nostra cognizione. Dopo che le parti sono formate e disegnate mediante la nostra sensitività extrasoggettiva e superficiale, noi possiamo riferire e collocare in esse anche le nostre sensioni interne, non superficiali, e prive di una figura discernibile. Quando noi diciamo di sentire dolore in un piede, che altro facciamo con ciò, se non collocare il dolore in quella parte che si chiama piede , rappresentata a noi dalla percezione extrasoggettiva, e chiusa da superfici da noi percepite, che gli danno la forma? Il collocare adunque una sensione interna in qualche parte del corpo nostro, non è altro che percepire il rapporto, che ha la sensitività soggettiva e non figurata colla sensitività extrasoggettiva e figurata. Se la sensitività extrasoggettiva e figurata non mi avesse disegnato la forma del piede, io non potrei collocare in esso un dolore che sentissi; non saprei dire, nè pensare cos' è il piede che mi duole; questa parola piede non sarebbe inventata, nè la mia mente avrebbe ancora il concetto che quella parola significa, e che le vien dato dalla sensitività esterna. Ma perchè sentendo un dolore interno, io lo colloco verso la parte destra del piede, piuttosto che verso la sinistra? Certo io fo questo giudizio mediante il paragone con altre sensioni interne ricevute nel piede, perocchè avendo io già i confini del piede, che me ne disegnano la figura solida, e avendo così concepito questo solido, se nel solido stesso concepisco più sensioni, non è meraviglia ch' io possa riconoscere una di esse esser più vicina ad una data estremità del piede che l' altra, bastando a ciò che io confronti le diverse sensioni cogli estremi del piede, e fra esse. Quante più sensioni interne io intendo possibili prima di quella che mi segna l' estremità, tanto più giudico lontana dall' estremità una data sensione. Per altro questi giudizi sulle località delle sensazioni interne sono incerti, senza precisione, e spessissimo fallaci. La località adunque delle sensioni interne non è che un rapporto fra esse e le sensioni superficiali. Ma come si spiegano le sensioni extrasoggettive e superficiali? Che la sensione si estenda in superficie, questo è una conseguenza della maniera colla quale noi abbiamo detto prodursi l' eccitamento. Questo sorge quando le molecole animali si soffregano insieme; ora questo soffregamento non è che delle superfici, attesa l' impenetrabilità dei corpi. Se le piccole superfici delle molecole, dove nasce l' eccitamento, ne costituiscono una grande colla loro iustaposizione, in tal caso si ha una sensazione superficiale grande, più o meno distinta, come accade alle pareti esterne ed interne del corpo. Ma se l' eccitamento nasce in un gruppo di molecole, le cui piccole superfici non si continuino in modo da formare una superficie unica, e le dette molecole si soffreghino tra loro da tutte le loro faccie, allora nasce una sensazione confusa, in cui non si discerne una figura determinata, come accade in tanti sentimenti interni. Quindi in niuno dei sentimenti eccitati si sente precisamente e distintamente un vero solido, perchè l' interno delle molecole non è sentito che col sentimento di continuità; il che spiega perchè i dolori e piaceri sensibili, che avvengono all' interno del corpo, rimangano sempre, in quanto alla loro continuità, estensione e figura, senza alcuna precisione e distinzione. Rimane dunque solo a cercare come le superfici sensibili, a noi appartenenti, vengano da noi collocate in uno spazio solido, unite per modo da riuscirne una superficie sola, circondante un solido con tutte le sinuosità e prominenze, onde entra ed esce il corpo umano. Per spiegare questo, prima di tutto è da concedere che lo spazio immisurato sia dato dalla natura all' anima sensitiva, senza di che non si può spiegare nè questo, nè tanti altri fatti e leggi della natura (1). Di poi si rammemori che se l' uomo immobile fosse toccato in modo eguale da tutti i punti del suo corpo contemporaneamente, egli non percepirebbe ancora il suo corpo come uno spazio solido, nè distinguerebbe quando la sensazione superficiale s' incurva, quando rientra concava, e quando riesce fuori convessa. In una parola, senza il movimento attivo l' uomo non può percepire il solido; chè la solidità non cade nel sentimento, se non in quanto cade nel sentimento il movimento attivo (2). Il movimento dunque delle superfici sentite, questo movimento sentito anch' egli, gli stadi che egli percorre e che segnano il tempo e comparativamente le velocità, tutto questo fa sì che l' uomo collochi le proprie sensioni superficiali in luoghi determinati dello spazio solido, e così giunga a comporsi la percezione del proprio corpo, come di un solido perfettamente figurato. Nel tempo stesso che l' uomo fa questa operazione, colla quale produce a sè stesso la percezione solida e figurata del proprio corpo, egli va misurando altresì lo spazio dell' universo, e acquista la percezione dei solidi figurati, che in essa si trovano; tutto ciò mediante il movimento sensibile. Supposti adunque questi prodotti della sensitività esterna, possiamo far dare innanzi un passo alla soluzione delle località. Perocchè dato, come supponevamo, che ci venga punta una mano, la sensazione di questa puntura isolata, e per sè sola considerata, non ha località di sorte, ella non è più nel cervello che nella mano, che non esisterebbe per noi. Solo allorquando abbiamo percepito il corpo nostro come un solido rivestito di superfici sentite, noi collochiamo la puntura nella mano, nell' estremità della fibra nervosa, ed egli pare che la cosa accada così: abbiamo percepita la spina che ci punse, abbiamo osservato che, infiggendosi la spina nella mano, nasce il dolore; estratta la spina, il dolore diminuisce notevolmente, s' accresce toccandosi la ferita, e cessa col medicarla. Uniamo dunque il dolore colla causa che l' ha prodotto, e che lo rimuove. Ma la causa che l' ha prodotto, come pure quella che lo toglie, sono percepite da noi coll' esperienza extrasoggettiva, e quindi hanno località determinate dalla stessa sensitività extrasoggettiva. Perciò anche al dolore, fenomeno soggettivo, assegniamo il luogo stesso, gli assegniamo il luogo della sua causa extrasoggettiva. E questo ci è facile a farlo, perchè il dolore non avendo per sè località alcuna, non ricusa qualunque gli si dia: egli non esiste, come dicevamo, più nella mano che nel cervello, perchè mano e cervello sono parole esprimenti solidi extrasoggettivi. Ma lo spirito umano non ha nessuna ragione di unire al dolore la località extrasoggettiva del cervello, perchè il cervello non produce il dolore come forza straniera, a cui solo spetta la località, ma con un movimento organico soggettivo, dove località non apparisce. All' incontro egli ha buona e naturale ragione di associare il dolore colla causa extrasoggettiva e straniera; e questa, avendo località, aggiunge la località della medesima allo stesso dolore. Non è dunque, propriamente parlando, il dolore che s' aggiunge alla località, ma è piuttosto la località che s' aggiunge al dolore, e di sè lo veste, per così dire. Quindi avviene che in ragione che noi abbiamo una percezione più distinta di quella parte del corpo nostro, a cui è applicata la causa della sensione, anche a questa attribuiamo una località più distinta; e viceversa, la sensione rimane priva di località, quanto meno possiamo percepire la località della sua causa straniera o stimolante, cioè la parte del corpo a cui ella viene applicata. Ed è per questo che le sensazioni dell' occhio noi non le collochiamo distintamente nella retina, perchè non abbiamo della retina una percezione extrasoggettiva tanto distinta, quanto quella della cute, non potendo noi toccare la retina stessa e distinguerne al tutto le parti, come pure non potendo toccare la luce, che è lo stimolo straniero, e distinguerne le parti. La sensione quindi dell' occhio ci rimane come in aria, cioè non collocata distintamente in una parte del corpo nostro, fino a che col tatto noi le diamo un luogo; ma questo luogo non glielo diamo nel corpo nostro, ma là dove è la causa sensifera della sensazione del tatto, cioè nei corpi che noi tocchiamo. Medesimamente, alle immagini noi non assegniamo per loro luogo il cervello, perchè dell' interno cervello e delle sue parti non abbiamo la percezione extrasoggettiva, e non possiamo percepire extrasoggettivamente la causa interna, che lo muove e che produce l' immagine; la qual causa è organica, ma non sensifera. Le immagini dunque ci restano come campate in aria, o, per dir meglio, esse sono per noi come altrettanti corpi esterni. Sono sensioni, che collochiamo là dove le abbiamo prima collocate, quando avemmo le sensioni loro corrispondenti mediante la sensitività esterna. Rimane la questione della causa extrasoggettiva del dolore. Perchè il movimento vitale organico non presenta nessuna figura nel sentimento, e all' opposto la forza sensifera straniera segna nel sentimento una figura, e quindi fa nascere la località? Molti si sono studiati di descrivere il fenomeno extrasoggettivo del movimento sensorio. A me pare probabile congettura la seguente: il movimento sensorio esige molecole organate in un dato modo, di un certo numero e qualità di elementi. Queste molecole costituiscono un continuo, fluido o consistente non cerco (1). Gli elementi di esse sono mobilissimi, e così accordati che dividendosene alcuni da una molecola entrino a comporre la seguente, la quale lascia in libertà altrettanti elementi, i quali anch' essi alla loro volta si compongono con quelli della susseguente, che pure allo stesso modo si scompone; e così le scomposizioni e le composizioni si continuano in tutto il nervo fino al cervello, dove gli ultimi elementi che rimangono liberi, non trovando altre molecole con cui comporsi, ritornano ad abbracciarsi colla molecola a cui appartenevano, e succede in direzione opposta la stessa serie di composizioni e scomposizioni, rimettendosi il nervo nello stato di prima. Supposto questo giuoco chimico7organico7animale, se ne avrebbero i seguenti risultati: Il fenomeno della sensione avrebbe luogo quando la scomposizione percorse tutto l' organo sensorio. La sensione cesserebbe tostochè è finita la ricomposizione delle molecole. Rimanendo scomposte le prime molecole più a lungo di tutte le altre, vi sarebbe un' analogia fra il fenomeno extrasoggettivo e la sensione, per la quale questa più facilmente potrebbe attribuirsi ad una località; tanto più che tutte le molecole intermedie, scomponendosi e componendosi con celerità e continuità di parti, potrebbero conservare sempre la loro posizione, continuità e figura, giacchè di tanto entrerebbe in esse un elemento, di quanto ne uscirebbe un altro. Il fenomeno extrasoggettivo sarebbe così uno scuotimento dell' organo sensorio intero; condizione, come sembra, necessaria all' individuazione del sentimento, senza la quale non può l' uomo esserne consapevole. Come quando la scomposizione delle molecole sensorie comincia all' estremità esteriore per mezzo di qualche stimolo, rimangono per qualche tempo scomposte le molecole esterne, e si ha la sensione; così se la scomposizione comincia dal centro, cioè dal cervello, per virtù dell' istinto animale, la scomposizione dura qualche tempo nelle particelle dell' estremità interna, e si ha l' immagine; la quale, propriamente parlando, è illocale, perchè l' interno del cervello non si presta all' esperienza extrasoggettiva, che possiamo fare, quanto alle estremità esterne superficiali del corpo. Nel luogo, dove è applicato lo stimolo sensifero e incomincia la scomposzione, vi è violenza, perchè la prima scomposizione non accade per la spontaneità dell' istinto, ma per la forza esteriore; all' opposto le composizioni e scomposizioni successive seguirebbero senza violenza alcuna per la spontaneità dell' istinto; onde solo al cominciamento deve sentirsi la violenza, e non più nei movimenti successivi, benchè necessari a rendere individuale la sensione della violenza. Questa ipotesi dello spostamento intestino degli elementi della molecola sensoria senza che ella si disorganizzi, spiegherebbe dunque il perchè dove viene applicato lo stimolo, ivi esista propriamente la sensione; benchè questo ivi non diventi perciò solo una località, con relazione alle altre parti del corpo, se anche queste non le percepiamo allo stesso modo, e paragoniamo l' ivi di quelle coll' ivi di queste. Lo stato di spostamento, dunque, degli elementi delle molecole sensorie è ciò che dà alla sensione quanto le bisogna per essere poi riferita ad un luogo nell' esteso extrasoggettivo; e ciò perchè le molecole stesse sensorie, il nervo, il cervello, di cui parliamo, appartengono alla sfera dell' extrasoggettivo; onde quando diciamo che gli elementi delle molecole restano spostati, per esempio, all' estremità di un nervo, altro non diciamo se non che restano spostati e sentiti a quel luogo extrasoggettivo, che chiamiamo estremità nervosa. Ma che vuol dire molecole sensorie nel caso nostro? perchè fa bisogno che le molecole di tutta l' estensione del nervo, e quelle ultime del cervello ricevano il descritto moto e cangiamento di elementi? Abbiamo detto che la risposta conviene cercarsi nell' individualità dell' animale; l' animale non può sentire che ciò che entra nella sua individualità. Questa individualità, nell' ordine soggettivo, esige un sentimento unico, sede di tutti gli altri. Questo unico sentimento viene a dire un unico principio senziente e un solo sentito. Il sentito, in quanto è sentito7continuo, è unico, se non ha interruzioni; ma in quanto è sentito7eccitato è uopo che abbia un' unità armonica di movimenti, che virtualmente contenga tutte le sensioni accidentali, in modo che sia sempre lo stesso sentimento nei suoi diversi modi. Ora a questo fenomeno soggettivo d' un sentimento armonico d' eccitazione, nella sfera extrasoggettiva risponde l' organizzazione del cervello colle sue diramazioni nervose. Come abbiamo detto, la cagione di questa corrispondenza è irreperibile da noi, chè tutto ciò che percepiamo extrasoggettivamente è un mero fenomeno, oltre il quale non possiamo andare. Rimane dunque solo a constatare e descrivere il fatto dell' organizzazione come rispondente alla sensitività individuale, che nell' animale perfetto, e certamente poi nell' uomo, si osserva; il che è ufficio ampio e sottilissimo dei fisiologi. E quantunque la consapevolezza della propria individualità nasca nell' uomo dal principio intellettivo, tuttavia anche il bruto è individuo, consistendo la individuazione di lui in questo, che le sensioni abbiano lo stesso principio senziente; ossia l' attività, che in ogni sensione opera a produrla, sia la medesima (1); poichè, ciò a cui non si estende questa attività, è già fuori dell' individuo. Ma a questo principio senziente attivo risponde di fatto nella sfera dell' extrasoggettivo un' armonia di movimenti, e un cotal centro di essi, come già dicemmo altrove. Riassumendo dunque: Nè il sentimento fondamentale, nè le sensioni hanno località. Tra le percezioni della forza straniera (dei corpi esterni) ve n' ha una classe di superficiali , percezioni d' uno spazio superficiale. Questi spazi superficiali non hanno località, se si considerano in relazione col principio senziente; non si può dire che sieno nè dentro, nè fuori di lui, nè lontani, nè vicini, ecc., perchè egli non ha luogo affatto, e quindi niuna relazione locale con lui si può pensare. Ma questi spazi si uniscono e si continuano fra loro, ed allora essi acquistano una località rispettiva , cioè uno di essi, o una parte di essi, è di qua, o di là, ecc., d' un altro continuato con esso, o con una sua parte. Quando s' aggiunge il movimento attivo dalla parte dell' uomo, allora queste superfici pure, movendosi in tutti i sensi, prestano all' uomo il sentimento d' uno spazio solido determinato. La continuità delle superfici da tutti i lati e il movimento fanno sì che l' uomo percepisca il proprio corpo, i corpi esteriori e lo spazio con misura; e quindi che: 1) le parti del proprio corpo vengano ad avere un posto, una località rispetto al corpo divenuto un' estensione solida; 2) che al tempo stesso quell' estensione solida acquisti una località rispetto a tutti i corpi circostanti, e 3) ad ogni punto immaginato nello spazio. Così è creato nell' umano sentimento il corpo solido, i luoghi e gli spazi esterni; allora ogni sensione soggettiva si colloca in uno di quei luoghi determinati nell' estensione extrasoggettiva, e ciò si fa col percepire extrasoggettivamente la causa esterna e violenta della sensione. Questa causa, essendo un sensifero, un corpo straniero, e venendo collocato, quando produce con violenza la sensione, in un punto del corpo nostro extrasoggettivo, noi collochiamo la sensione lì appunto, dove abbiamo percepita quella causa. Quindi, quando ciò non si avvera, quando non percepiamo extrasoggettivamente la causa della sensione, o il luogo, dove ella si applica (nè coll' immaginazione possiamo supplirvi), non sappiamo più collocare al posto della causa la detta sensione, come accade nelle sensioni visive, o nelle interne, le immagini. Percepire la causa della sensione (il corpo esterno che stimola il senso) è percepire il luogo dove la causa viene applicata. Se noi cerchiamo qualche legge generale che determini questo luogo, troviamo che esso è determinato dalle due estremità nervose, l' esterna e l' interna nel cervello; e ciò probabilmente perchè nel movimento sensorio quelle estremità soffrono violenza, onde si alterano fisiologicamente nella composizione delle loro molecole sensorie; quando le molecole intermedie, benchè nasca un tramutamento di elementi, conservano intatta la loro composizione elementare, e il tramutamento è spontaneo e non violento (1). Troviamo ancora che la centralità del cervello risponde alla condizione dell' individuazione del sentimento, contribuendo essenzialmente all' unità armonica del sentimento fondamentale d' eccitazione; perocchè in tutte le sensioni il principio attivo senziente deve essere il medesimo. Pare dunque che al principio senziente, della cui attività sono modi le sensioni, rispondano nell' ordine extrasoggettivo i moti cerebrali, cioè che allora egli intervenga a sentire la sua attività, quando i detti moti sensori s' avverano. Ma questi stessi moti , in quanto hanno natura di moti, non cadono nella sensazione soggettiva , chè questa non ha proprio luogo, nè proprio spazio; e quando quelli si potessero osservare, l' osservazione darebbe un extrasoggettivo, e non più. La spiegazione data fin qui delle località è tratta dalla natura dell' animale; perciò ella conviene tanto alle località che si manifestano nel corpo umano in istato di salute, quanto a quelle che si manifestano nel corpo umano in istato di malattia. Venendo ora a dire qualche cosa di speciale circa le località patologiche, non abbiamo che ad accennare alcuni accidenti, i quali, determinando in modi diversi l' attività del principio senziente, le fanno comparire piuttosto in una parte che in un' altra del corpo extrasoggettivo. Mettiamoci innanzi il corpo, quale se l' ha formato l' uomo coll' uso dei suoi sensi esteriori, quale tutti noi adulti l' abbiamo presente, a cui prestiamo cieca fede, e su cui si fondano tutti i ragionamenti comuni intorno al corpo. Il primo fenomeno che ci si presenta occasionato, per esempio, da una contusione nel braccio, si è quello d' un dolore, che invece di farsi sentire alla sola estremità esterna, dove fu applicata la causa violenta, si propaga lungo tutto il nervo. - Convien dire che lo spostamento degli elementi componenti le molecole sensorie, di cui il nervo risulta, non sia in tal caso violento solamente al luogo dove fu applicato lo stimolo, unendo poi il movimento sensorio spontaneo, ma che la violenza stessa si sia propagata, e la scomposizione e ricomposizione non avvenga regolarmente. Altro fenomeno morboso è la durata del dolore in un luogo. - Convien dire in tal caso che la scomposizione delle molecole si ripeta continuamente con un movimento disordinato, oscillatorio, e più o meno frequente. Nei dolori vivi si sentono pulsazioni dolorose somiglianti a quelle del polso, e forse sono le dette oscillazioni violente dei movimenti elementari, che si descrivono nello stesso sentimento; a tener viva la quale oscillazione deve certamente concorrere il frequente battito del sangue, il che più manifesto apparisce nei dolori acuti di testa, che vanno a colpi frequenti, e che sembrano spezzarla. I dolori si trasportano da un luogo all' altro non solo successivamente, come avviene propagandosi l' infiammazione, ma ancora per salto. - Qualora un dolore si manifesta in un luogo per cagione di ferita, d' infiammazione od altro, concorre a produrlo in quel luogo tutta l' attività del principio senziente, che lotta nel modo che abbiamo indicato. Ma questa attività universale del principio senziente, sollevata alla guerra e producente il primo dolore locale, opera variamente in tutto il corpo, e lo altera. Ora questa azione in tutto il corpo, e le alterazioni che vi produce, sono determinate, in quanto al modo ed agli effetti, dall' organizzazione, che risponde all' unità armonica del sentimento, e prima dall' organizzazione nervosa, poi dall' organizzazione vascolare, e dalla qualità e quantità dei fluidi, e finalmente dalle leggi delle simpatie. A ragion d' esempio, un forte dolore accelererà il corso del sangue e produrrà la febbre, o anche infiammerà il sangue, alterandone la composizione. Acciocchè si manifesti un dolore in un dato luogo del corpo, in conseguenza d' un altro dolore precedente in altro luogo, basta che per l' azione universale del principio senziente vengano in quel luogo eccitati violentemente i nervi, sicchè ne segua lo spostamento di elementi con tendenza d' uscire dalla loro sfera. Cosa è il pizzicore che si sente al naso, quando si patisce di vermi? Non altro se non che un cotal movimento nel sistema nervoso, che si propaga dagli intestini al cervello, e dal cervello al naso, ma in modo che in quest' ultima estremità nasce appunto quello spostamento sensorio degli elementi, dato il quale ha luogo, secondo l' ipotesi da noi proposta, la sensazione. Dato dolore in un luogo, egli sorge in molti altri luoghi. - La spiegazione è simile a quella del fenomeno precedente. Un' affezione universale produce un dolore locale. - Succede anche questo pel medesimo giuoco. Sensione di dolore per un male, che è in altra parte, dove non cagiona dolore avvertibile. - Baglivi fa la storia della malattia d' una donna, che soffriva acuti dolori in un rene; nella sezione del cadavere si trovò sano il rene, dove accusava il dolore, mentre l' altro conteneva un calcolo. Il principio animale operava in entrambi per quella legge, secondo la quale nelle parti doppie simmetriche vi è una passione e un' azione unica. Pure nel rene, dove stava il calcolo, non si manifestava la sensione in modo avvertibile, forse perchè ivi non si operava lo spostamento degli elementi, venendo impedito dalla stessa condizione morbosa, dalla presenza del calcolo, che tratteneva l' oscillazione elementare, mentre nell' altro rene sano avveniva. Alterazione della sensitività, del gusto, del tatto, ecc.. - Questa suppone, nell' ipotesi che noi facciamo, una diversa composizione delle molecole sensorie. Se il senso rimane alterato di qualità, sicchè il sapore d' una sostanza, a ragion d' esempio, sembri un altro sapore, è probabile che gli elementi abbiano presa un' attitudine a spostarsi nella molecola sensoria, in modo diverso dall' ordinario. Se l' alterazione è solo nel grado della sensitività, senza che la sensione varii di qualità, il fenomeno può dipendere dalla mobilità dei detti elementi, come pure dal trovarsi i nervi meno protetti contro lo stimolo. Si sono vedute femmine non poter toccare una stoffa di velluto, senza cadere in isvenimento; talmente la sensazione della cute della mano eccitava il principio sensitivo, e questo operava in tutto il sistema nervoso e sul vascolare (1). Il sistema ganglionare divenuto atto a dare sensioni osservabili. - Di questo fenomeno è a dire il somigliante che del precedente. Sia alterazione nella composizione elementare, sia mobilità maggiore e maggiore comunicazione col sistema cerebrale e col vascolare; il sistema ganglionare si rende atto ad ammettere lo spostamento sensorio degli elementi, o acquista lo stimolo opportuno, che non aveva prima. Fin qui della località delle sensioni. Parliamo ora della località dei movimenti e fenomeni morbosi, che ne conseguono. Le località di questi movimenti e fenomeni morbosi ricevono la stessa spiegazione di quella delle sensioni, perocchè movimenti precedono e movimenti susseguono alle sensioni; sicchè movimenti e sensioni sono legati egualmente alle località. Ora tutti i fenomeni morbosi sono accompagnati o costituiti da movimenti. Egli sembra che le febbri d' ogni genere si possano riportare ad una di queste due cause, o ad un' affezione del sistema nervoso, o ad un' affezione del sistema vascolare (1), l' uno dei quali non manca però mai di sconcertare più o meno l' altro. La località è determinata dallo stimolo primitivo violento, e quindi appresso dalle simpatie , che ricevono varie modificazioni dalle accidentali varietà dei tessuti organici e dell' intero organismo. Talora l' organo, che soffre simpaticamente, rimane gravemente ammalato, quando il primo, irritato, soffrì leggermente. Così il freddo, operando esternamente sui tegumenti, cagiona infiammazioni al petto, agli intestini, alla vescica, ecc.. Rimarrebbe a parlare delle località terapeutiche, cioè dell' applicazione e dell' azione delle sostanze terapeutiche in determinate parti del corpo, e dei loro effetti in certe altre, o rispetto alla condizione universale; ma la loro spiegazione dipende dagli stessi principŒ. E` degno d' osservazione che le medicine rare volte si applicano alla parte ammalata; per lo più si affidano alle membrane mucose gastriche. Quindi le località, a cui trasmettono l' effetto della loro azione, sono determinate in gran parte dalle simpatie e da quelle cause accennate di sopra, che alle simpatie danno questa o quella direzione speciale e locale, principalmente poi dalle diramazioni nervose e vascolari, e dalle leggi con cui operano questi sistemi (1). E qui basti. Chè questo libro delle leggi dell' animalità, dove si disse tanto poco d' un subbietto senza confini, sarà parso lungo a quanti, cercando nella Psicologia esclusivamente la dottrina dell' anima intellettiva, non intendono che ella è condizionata alla dottrina del principio sensitivo. Il qual vero si tentò da noi di porre in evidenza, e tuttavia non ci confidiamo d' averne persuaso ogni fatta di persone. I medici, non senza qualche ragione, ci garriranno: come avete voi messo la falce nella messe altrui? Di che v' è occorso di dire molte cose inesatte, molte erronee. - Non ho che ad impetrare la loro indulgenza; emendare l' inesatto, cancellare il falso, mi sarà gratissimo; potrebbe essere che avanzasse ancora qualche cosa di buono; i più dotti, sempre più indulgenti, forse lo raccoglieranno. Dirò a tutti i professori dell' arte salutare, siccome pure a tutti gli studiosi di Psicologia, quale fu il mio intendimento. Nei moderni tempi gli scienziati hanno diviso l' uomo in due, alcuni tolsero a parlare dello spirito, altri del corpo; a ciascuna delle due parti parve possedere tutta la scienza, e contese coll' altra, e la dispettò, e il dispetto, tenendo luogo di ragione, divise maggiormente le due fazioni. Che ne fu? Invece di avere una scienza sola dell' uomo, se ne ebbero due, contenziose, contradittorie, inimicissime. L' una, e la meno rea, fece dell' uomo un cotal angelo tutto spirituale, che per un cotal miracolo moveva un corpo; all' altra metà restò la materia, la quale anch' essa, per un miracolo molto maggiore, s' animava da sè stessa, e sapeva fare tutto ciò che fa lo spirito. A noi parve desiderabile che cessassero cotali dissidi, e l' uomo riacquistasse nella scienza l' unità che ha nella natura, toltagli dagli imperfetti e fallaci metodi di studiarlo, seguitando i quali, quelli che da due secoli filosofarono intorno all' uomo, nè poterono mettersi in accordo, nè giungere al bramato conoscimento dell' essere umano; chè nè l' uomo dei medici, nè quello di alcuni psicologi è veramente l' uomo. L' intendimento dell' opera presente non ci sembra aver bisogno di maggiore dichiarazione; e speriamo che pure quei savi, che professano l' arte salutare, non lo vorranno biasimare, scuseranno ciò che vi è di imperito nel nostro audace tentativo, pregiando la bontà del fine; s' accorgeranno che colle scorse da noi date nella scienza da essi valorosamente coltivata, abbiamo voluto (non diciamo di essere riusciti) restituirle quell' onore, di cui fu spoglia da tanto tempo, che da lei dipendesse la scienza dell' anima, ed anzi ne fosse gran parte; sicchè d' ora in avanti non si possa più riprendere nè il psicologo, che s' addentra in alcune fisiologiche dottrine, nè il fisiologo o il medico, che ragiona dell' anima, quasi movessero i passi nell' altrui campo. L' uomo è uno; le due scienze sono una; la loro conciliazione ed unione prepara la perfezione dell' unica vera scienza dell' uomo. Le cose toccate in quest' opera, principalmente nell' ultimo libro, e attenenti alla medicina, mi acquisteranno forse riprensione e biasimo da una maniera di persone più gravi ancora. Convengono ad un sacerdote gli studi laicali? Come perdersi in scienze tanto aliene dalle sacre dottrine? Come scendere ad investigazioni sì basse e palustri inverso alle vette altissime dei monti santi? - Avrei a rispondere assai più cose che non possano capire in queste estreme pagine, le quali debbono chiudere l' opera, e non aprirla a nuova materia di ragionare. Ma potrebbe bastare anche ciò che pur ora dicevo, aver bisogno la scienza dello spirito di molte dottrine riguardanti l' animalità, senza le quali quella si rimarrebbe imperfetta; più imperfetta ancora si rimarrebbe la scienza dell' animalità, segregata da quella dello spirito, chè rimarrebbesi materiale, e il guardarla dall' ignominioso materialismo non deve essere desiderabile, anzi propria sollecitudine dei teologi cristiani? Pure quand' anche non vi fosse la necessità, che è pur così manifesta, di aggiungere lo spirito all' argilla effigiata dei fisiologi e dei medici moderni, non mi pentirei d' avere indicato, o almeno d' aver voluto indicare, ove la medicina moderna nella cura dei morbi vada traviando: quali errori sistematici la danneggino sì fattamente da farle perdere il fine di guarire le infermità, o almeno di alleggerirle ai mortali. Perocchè non la sola verità, ma con essa la carità è principale ufficio del sacerdote cattolico, ed ella è voce oggimai universale e da niun savio, benchè professore dell' arte medica, contrastata, che quest' arte sia ridotta a pessima condizione; anzi i medici più valenti dell' età nostra sono quelli appunto che ne mandano più lamenti, e i soli mediocri la difendono. Chi può numerare le migliaia d' uccisi da quell' ostinazione di restringere l' arte salutare a non dover far altro che misurare la quantità dello stimolo, e trovare se ecceda ovvero difetti, trascurando così di tener conto di tutte le innumerevoli circostanze, che rendono uno stimolo opportuno ovvero inopportuno? Perocchè si riduce forse a questo la principale differenza, che allontana cotanto la nuova medicina dall' antica. L' arte nuova vanta grandissima semplicità, si fa una sola questione: se ecceda o difetti lo stimolo; qui finisce per non pochi la medica sapienza. L' antica incominciava: « l' arte è lunga, la vita breve, il tempo precipitoso, l' esperimento arrischiato, difficile il giudizio »; tanti erano gli accidenti, così variabili, così fuggevoli, così complicati, che ella stimava dover sagacemente osservare, giustamente calcolare, prima di concludere quale fosse la cura più opportuna d' una malattia. Che ora esca una voce dal tempio, e s' unisca a tante altre per domandare la riforma, la restaurazione di un' arte, che, in fiore, salva molte vite in pericolo, decaduta, ne trae molte ella stessa in pericolo, molte ne perde, non deve parere indecoroso, nè maraviglioso a chi sa il cristiano sacerdozio essere istituito ad alleggerire all' umanità tutti i mali, procurarle, accrescerle tutti i beni. A chi poi lo ignora, e però stupisce e si scandalizza che noi ci avvolgiamo in medici studi all' intento di ravviarli, con isforzi maggiori forse del potere, su quel diritto cammino, da cui tanto s' allontanarono, diremo così: niente c' importerebbe sapere di medicina, non vorremmo consacrarle alcuna parte del breve nostro tempo, se non fosse stato Uno, che avesse pronunciata questa parola: « amatevi l' un l' altro »; quell' Uno, che solo fra quanti hanno loquela, sa chiaramente parlare nel fondo del cuore. Niuna maraviglia che dopo quella solenne ed efficace parola i sacerdoti cattolici scrivano anche di medicina; quella parola fece fare agli uomini troppe altre cose maggiori, e molti non si ricusarono di parere e d' essere trattati da pazzi, per non disubbidire a quell' accento divino. Giudicateci tali; quella parola ci necessita ad accettare il vostro giudizio in pace. Ma ora, per conchiudere finalmente il lungo nostro lavoro, e in qualche modo ricapitolarlo, la natura dell' anima semplicissima, e l' indefinitamente molteplice sviluppo della sua meravigliosa attività diedero argomento alla prima ed alla seconda parte dell' opera. Vedemmo nella prima parte come l' anima sia una in ciascun uomo, com' ella sia il principio semplice di tutte le operazioni umane, come sia sostanza e in pari tempo principio d' un sentimento, come questo principio sentimentale e sostanziale sia intellettivo, come questo principio intellettivo abbia un' immediata e immanente percezione d' un corpo vivente, come, mediante questa percezione immanente, egli si compenetri col principio sensitivo, e ne risulti un solo principio intellettivo e sensitivo, avente un doppio termine d' azione, l' inteso, essere ideale, e il sentito, corpo soggettivo; e quindi acquisti condizione di principio razionale , nel quale è messo in essere l' uomo. Questo principio razionale percepisce sè stesso nell' essere ideale, e così acquista la coscienza, e, reso consapevole, si esprime col vocabolo IO . La percezione di sè è il principio della Psicologia , e perciò questa appartiene alle scienze di percezione ; ella si rinviene e si svolge coll' osservazione interiore di ciò che si contiene, permane, e cangia nello stesso IO , e dell' ordine in cui stanno fra di loro gli elementi che lo costituiscono. Niuna concrezione di materia entra nell' anima umana, e però è spirituale; il suo termine primordiale è l' essere, di natura eterna ed infinita; quindi, sebbene ella possa perdere il termine corporeo, con che dicesi che l' uomo muore, perchè se ne separano quelle due parti ond' egli risulta, tuttavia l' anima stessa intellettiva è immortale, ed ha un' ordinazione all' ente infinito. Con questo lieto risultato chiudemmo la prima parte della Psicologia . Aprimmo la seconda coll' indagare in che modo quelle tante attività dell' anima, che nelle sue passioni ed azioni si manifestano, giacciano da principio tutte contenute, e quasi dormienti, nella semplicissima essenza, e come si sveglino poscia, e da lei si distinguano: ricerca che ci obbligò d' entrare in alcune questioni ontologiche, le quali si sarebbero da noi potute non poco abbreviare, se ad una scienza ontologica già formata avessimo potuto riportarci. Ma l' Ontologia è per anco quella scienza, che di tutte rimane più imperfetta, come di tutte è più ricca. Trovammo dunque nella semplicità dell' anima una molteplicità, organata ed armonica, quasi a lei aderente; ma che non penetra in essa per modo da discioglierne l' unità e la perfetta semplicità. Vedemmo che l' anima, unico principio, si pone in atto mediante una pluralità di termini, che la attuano diversamente, senza perciò moltiplicarla, anzi rimanendo ella identica in tutti i diversi suoi atti, quasi vertice o centro di più angoli; e quindi trovammo la via d' accordare la molteplicità delle attitudini colla semplicità del principio; dalla considerazione poi di quei diversi termini deducemmo, ordinate e classificate le molteplici attività, potenze e facoltà umane. Ma tutte queste attività conservano nel loro operare delle leggi costanti e meravigliose, e per entro a questa nuova investigazione, quasi in non mediocre pelago, non dubitammo di sospingere pure la nostra navicella. Volendo noi dunque svolgere e descrivere le leggi, secondo cui operano costantemente le umane potenze, anche qui, innanzi d' ogni altra cosa, cercammo di tutte quelle leggi la prima ragione ed origine nell' essenza dell' anima, d' onde di mano in mano le facemmo poscia tutte uscire. L' ultimo libro finalmente, che tratta delle leggi dell' animalità, noi l' aggiungemmo come appendice, chè quelle non sono propriamente leggi dell' attività umana, ma leggi, a cui questa è quasi di continuo condizionata e mirabilmente connessa. Ora poi qual' è l' ultimo intento, quale il desiderabile effetto di così varie e di così sublimi attività, di cui fu ornata dal Creatore l' anima umana? Quale è il naturale voto di lei? Che destino le fu assegnato da Colui che le diede l' essere? In sapere questo solo sta veramente il frutto maturo della dottrina intorno all' anima, il quale non fu ancora da noi raccolto. I nostri lunghi ragionamenti ci avranno dunque condotti alla porta del giardino, senza potervi entrare? E fino sotto alla bella pianta, senza che ci sia dato di spiccare la rubiconda e saporosa poma che vi dipende, per cibare la quale prendemmo il faticoso viaggio? - Non si deve pretendere che una scienza bene ordinata mostri il suo utile risultamento, prima ch' ella sia pervenuta alla fine; nè veramente nella dottrina delle attività e leggi, colle quali l' anima si sviluppa ed opera, finisce la Psicologia ; fino dal cominciamento, noi avvisammo che la cosa di tutte importantissima e nobilissima, che le rimane ad investigare, è la destinazione stessa dell' anima. Perchè dunque fermar qui il passo? Perchè chiudere questa opera, senza toccare il suo termine, al quale sempre riguardando, si fece tanto cammino? - Il lettore, crediamo noi, non ne andrà scontento, ove egli consideri che, quantunque a diverse scritture noi abbiamo posto titolo diverso, e ciascuna dimostri un cominciamento ed una fine, tuttavia elle non sono più che parti, ovvero brani di una sola e medesima scienza, niuno dei quali è compiuto in sè medesimo; chè una è la Filosofia , una la scienza; onde il ripartirla in più libri e ordinarla sotto diverse intitolazioni si fa per alleggerimento di fatica agli studianti, i quali di un' opera lunghissima e pressochè interminabile potrebbero pigliare sgomento o fastidio. Al che riflettendo, neanche la presente trattazione psicologica parrà imperfetta e tronca a chi la voglia raggiungere colla Teosofia e coll' Antropologia soprannaturale , trattati che, a Dio piacendo, e favorendoci il tempo, comunicheremo al pubblico, il primo dei quali è via al secondo, dove dei destini dell' anima umana ci converrà distesamente ragionare. Toccammo già del perchè abbiamo creduto conveniente ed anzi necessaria questa dilazione. L' anima umana è un' intelligenza; ciò vuol dire, ha tal natura che l' oggetto per essenza, l' essere eterno, di continuo le si manifesta, ed indi ella trae l' atto dell' esser suo. Questa altissima relazione essenziale, che da parte dell' eterno oggetto dicesi manifestazione , da parte del soggetto intuizione , crea l' anima, che è il soggetto intuente. Affissata nell' essere eterno e divino, ivi ella tiene la sua naturale sede; ella è nell' essere; dove si vede qual parte di vero contenga la sentenza di Nicolò Malebranche, che Iddio è come « il luogo delle intelligenze ». Nulla mancherebbe alla piena verità di questa sentenza, se l' illustre filosofo che la proferì, avesse saputo accuratamente distinguere il concetto di Dio e il concetto di ciò che è divino. Dimorando dunque l' anima intellettiva nell' essere divino e sempiterno, quasi ivi innaturata, non mai confusa, è manifesto che da quell' essere, onde si origina ed ha l' essenza e l' esistenza, e onde non si può partire intieramente giammai, che, se indi si dipartisse, s' annienterebbe, ella deve ritrarre altresì ogni suo perfezionamento ed ogni suo compimento. Tanto più che ella, essenzialmente intelligente, non è congiunta, nè comunica immediatamente con alcun' altra cosa; comunica con tutte soltanto per mezzo dell' essere, a cui è affissa, pel quale conosce; chè gli enti sconosciuti non sono alla intelligenza. Ed intelligenza è l' umana persona; sicchè l' essere sempiterno, che naturalmente la illumina, è per esso lei quel mediatore che alle cose tutte la congiunge, e le cose a lei; e però l' anima intellettiva, siccome ogni altra intelligenza, in questo essere manifesto e manifestante ha tutto quello che ha, da questo tutto riceve, questo le dà tutte le altre cose. Il che rende manifesto come l' anima non sia il bene di sè medesima, anzi il suo bene sia un diverso da sè, chè dimora nell' eterno oggetto, nell' essere infinito, nel lume, che la fa essere anch' essa lume, e le dà tutto ciò che ella può ricevere, le acquista tutto ciò che ella può acquistare. Ragionare dunque convenientemente e, in qualche modo, pienamente della perfezione e della destinazione dell' anima non si può, senza uscire da lei; conviene che il discorso si spinga con ardire a più sublime argomento, che s' innalzi fino alla divinità; conviene che abbandoni per qualche tempo l' anima, e dopo investigate le cose divine e Dio stesso, quanto all' uomo è conceduto, a lei faccia ritorno. Come l' anima dall' essere eterno, nel cui seno ella dimora perpetuamente, può derivare a sè la propria perfezione? E può ella indi derivarla da sè medesima? Da parte del medesimo essere si esige forse qualche nuova meravigliosa, misteriosa operazione? Tutte ricerche, che trapassano il breve confine della semplice Psicologia. Il che dimostra a sufficienza che questa, siccome tutte le altre scienze umane, per sè sola è imperfetta, nè si può perfezionare, se non oltrepassa i confini della propria limitata sfera, e non si continua con altre scienze maggiori di lei, che, lasciandosi addietro l' universo creato, ne trovano il Creatore, il quale come dello stesso universo è il principio e la causa, così ne è anche il fine, la ragione, il perfezionamento, l' eterna sublimissima destinazione. Per questo noi giudicammo del tutto necessario riserbarci a parlare intorno ai destini dell' anima umana nell' Antropologia soprannaturale, la quale deve tener luogo dell' ultima parte, e del glorioso fastigio della Psicologia. Essendomi io, o Giuseppe dolcissimo, fino dai primi miei anni, come è conveniente che ogni uomo faccia, dato discepolo alla verità in primo, e poi al senso comune degli uomini (tutti rispettandoli io siccome esseri dotati del divino lume dell' intelligenza), procurai di raccogliere le loro sentenze, quando o ce le tramandarono se passati, o ce le esposero se presenti, sopra quegli argomenti che più importano al retto pensare ed al ben vivere, sollecito d' intendere, quanto per me si potesse, il fondo dei loro pensamenti, anzi che di fermarmi alla corteccia delle parole, di cui li rivestirono. E così io trovai, non senza soddisfazione dell' animo mio, che essi furono più consenzienti fra loro nell' opinare intorno alle cose sostanziali e necessarie, di quello che ne pare nel primo aspetto, ed anche più talvolta che non credessero per avventura essi medesimi. Onde, sapendo quanto studio tu ponga nella filosofia, e quanto altamente apprezzi quelle parole degne di un oracolo, «gnothi seauton», io ti mando qui brevemente esposte le principali opinioni dei filosofi e degli stessi popoli sulla natura dell' anima, accompagnate da qualche mia osservazione benevola ai loro autori, e conciliatrice; persuaso che tu accoglierai questo tenue lavoro, siccome segno del mio affetto, e fors' anche esso ti potrà prestare qualche utilità nell' istituzione dei giovanetti, che dànno opera alle filosofiche scienze, nella quale tu assiduamente ti occupi; o, se in questo io m' inganno, atteso che la tua erudizione non abbisogna di straniero soccorso, esso mi procaccerà almeno da te qualche ricambio, che gioverà a me stesso. Io dunque narrerò i pensamenti e le opinioni principali sulla natura dell' anima umana, tenendomi, quasi a filo conduttore, a quel principio degli Eclettici, che « « tutti gli errori degli uomini hanno un cotal lato vero e un cotal lato falso, e che come il lato vero ha per causa l' aver essi osservato qualche cosa della natura, così il lato falso ha per causa l' avere ommesso di osservare qualche altra cosa », » subentrando in mezzo la prontissima fantasia a supplire alla manchevole osservazione, sì fattamente che, in generale parlando, riesce vero ciò che vi è negli umani pensieri di positivo, e riesce falso ciò che vi è di negativo, di esclusivo, e di arbitrario. Il qual principio, dove si applichi a comporre un sistema filosofico, siccome fuori di luogo (e questa importuna applicazione è l' errore degli Eclettici), riesce sterile e illogico, perchè nelle dottrine non può discernere il vero dal falso colui che già prima non possiede il vero, qual tipo al cui riscontro il falso si riconosce; ma esso diviene ottimo, applicato alla storia dei placiti filosofici, la quale non può essere convenevolmente trattata, se non dopo che la filosofia stessa sia trovata e sufficientemente stabilita; chè solamente con questa si può giudicarli equamente, ed anche ridurli a qualche concordia, da variatissime e discrepantissime sentenze cavando un solo tutto, legato in meravigliosa unità. Ma poichè le opinioni antiche sono quelle che io voglio principalmente riferire, descrivendole più da filosofo che da storico, perciò mi si conviene avvertir prima d' ogni altra cosa, che le antichissime a noi non pervennero se non in minuti frammenti, quasi logore e scarse rovine di venerandi edifizi, e che la lingua antica in cui sono espresse, siccome assai sintetica (conciossiachè la facoltà dell' analisi non si svolse che pel corso dei secoli), dovette esprimere i concetti indistinti, come essi erano nelle menti, ed anzi più; di che sembra che voglia esserci conceduto dagli uomini discreti l' interpretarli per modo da cavarne un senso ragionevole, benchè assai spesso lo faremo più per modo di congettura che di fermo pronunciato. Ora, prima di tutto, ecco ond' io crederei poter dedurre un principio, il quale mi guidasse a classificare le diverse sentenze, che gli antichi seguitarono intorno alla natura dell' anima umana. Quasi anelli d' una catena le cose dell' universo sono annodate insieme, sicchè il primo anello è la materia; il secondo l' anima sensitiva, che la sente e percepisce; il terzo l' anima intellettiva, che percepisce il sentimento; il quarto l' essere, che risplende nell' anima intellettiva e le giova di mezzo universale a conoscere; il quinto è Dio, che è lo stesso essere assoluto, prima e suprema origine di tutte le cose precedenti. In questa ammirabile catena, che tiene sospeso al cielo tutto l' universo, sta come anello medio l' anima intellettiva, la quale si trova legata ai due primi pel senso, e si trova legata ai due secondi per l' idea e per l' influenza dell' Ente sussistente, dove l' idea ha la sua propria sede e sempiterno domicilio. Ora quegli uomini, che incominciarono a domandare a sè stessi « che cosa sia l' anima », volsero certamente la loro attenzione e la loro curiosità all' anima intellettiva; perocchè l' uomo che toglie a riflettere su di sè, non può partire che dall' Io (1), e nell' Io è già contenuta l' anima intellettiva. Ma quell' anima, essendo inanellata, come dicevamo, da una parte colla materia e col senso, dall' altra coll' idea e con Dio; nè potendosi ella distinguere, se non da una mente già addestrata all' attenzione ed all' osservazione analitica, la quale mancava ai primi pensatori, nè si educa che col tempo; doveva necessariamente avvenire che il concetto di lei si confondesse nelle loro menti coll' una o coll' altra di quelle quattro cose, che non sono lei, ma sono legate intimamente con lei. Quindi dovettero uscirne, e ne uscirono veramente, quattro classi di sistemi erronei, i quali riferirono la natura dell' anima, ora alla materia, ora al senso, ora all' idea, ed ora a Dio stesso. Come poi si potrà sciogliere e sceverare dentro a cotali sistemi erronei quella parte che sta in essi di verità? Questo da noi si potrà ottenere, considerando che gli autori di quei sistemi osservarono bene quelle cose che sono legate coll' anima, e in quell' osservazione si trova la verità; ma poscia tralasciarono di osservare che quelle cose, da essi osservate, non erano l' anima che intendevano definire, e in questa disattenzione sorse la falsità. L' aver essi adunque tralasciato di osservare le differenze, che separano dall' anima le cose che sono all' anima congiunte, ecco il fonte di tutti i loro errori. Questo è il solito procedimento della mente umana, che prima apprende le cose tutte insieme, e poi le distingue. Il movimento libero dell' intendimento umano cominciò nell' Asia minore, nella stirpe jonia; il primo oggetto che s' offerse a quella speculazione si fu la natura materiale. E così doveva essere, perocchè la prima operazione naturale della ragione si è la percezione dei corpi; dunque l' oggetto di questa, il corpo, doveva essere altresì trasportato il primo nella sfera della riflessione filosofica. L' impulso e l' occasione d' un tale movimento venne dalla corruzione delle verità tradizionali intorno a Dio massimamente, le quali degenerarono nei miti e nell' idolatria. Perduta la scorta sicura della primitiva rivelazione, l' uomo fra le genti sentì il bisogno di cercarne un' altra, e sperò di trovarla nel libero esercizio del proprio pensiero, e così da discepolo stato fino allora, tolse a divenire maestro di sè stesso (1). L' Oriente, vicino al fonte della primitiva sapienza, e massimamente l' ebraica nazione, in cui quella si mantenne intemerata, e a cui furono consegnati in deposito i positivi oracoli della Divinità, non ne sentì egualmente il bisogno; perciò ivi, possedendosi il vero, non nacque, o almeno non nacque con istrepito e baldanza, la filosofia, nè si ridusse a scienza rigorosa la Dialettica, che ne è il foriere e lo strumento. Al confine occidentale dell' Asia l' eco della tradizione divenuto evanescente e confuso, l' individuo umano si trovò vacillante nei passi suoi, per l' incertezza e in parte altresì per l' assurdità della dottrina sociale; rientrò dunque in sè per sorreggersi; e permettendo un tanto male, disponeva nel suo alto consiglio la Provvidenza che fosse creata la scienza. Ma colui che primo sorse a filosofare, e quelli che gli vennero appresso, non potevano importare ad un tempo tutto ciò che conoscevano direttamente e popolarmente nell' ordine della scienza, nel campo dell' individuale riflessione; la prima cosa adunque, che importarono in essa, e che sottomisero alla meditazione, furono i corpi. Così ebbe origine la dottrina degli elementi (1). Talete (a. 600 av. G. C.) e Ferecide posero il principio di ogni cosa nell' acqua. Ippone di Reggio ripose la sostanza dell' anima nell' umore genitale, che perciò faceva vivente (2). I quali filosofi trovarono indubitatamente questo principio nella tradizione, la quale narrava come tutta la materia a principio fosse creata in istato liquido, e dal liquido uscissero tutte le cose. Suida, Eustazio ed altri attestano che Ferecide potè avere in mano certi libri arcani dei Fenici. Hernius provò che questi libri erano i libri di Mosè (3). Talete, appartenente ad una famiglia fenicia, e però di nazione contermina all' ebraica, si deve esser confermato in questa sentenza dall' aver veduto che tutte le generazioni cominciano dal liquido, e che il nutrimento stesso deve rendersi liquido, acciocchè sia rifuso nel corpo vivente, e ne acquisti la medesima vita. Così congettura Aristotele sull' opinione di Talete: [...OMISSIS...] . Al che aggiunge il conforto di tradizioni più antiche. [...OMISSIS...] (1). Ora, che Talete ricevesse dalla sacra tradizione il suo principio dell' acqua come origine delle cose, pare confermarsi dall' osservare che egli aggiungeva all' acqua lo spirito, «nus», qual principio motore (2), il quale spirito è pure indicato nell' antichissimo dei libri, come quello che ferebatur super aquas . Al che consuona anche la tradizione profana, riferita da Probo con queste parole: [...OMISSIS...] . Quanto poi ad Ippone, Aristotele lo colloca tra i filosofi rozzi. [...OMISSIS...] . Aristotele dice che nei versi orfici si legge che l' uomo trae l' anima dall' universo colla respirazione (2). Di poi Anassimandro, contemporaneo di Talete, Anassimene (a. 557 av. G. C.), Anassagora (a. 440 av. G. C.) (3), Archelao (a. 460 av. G. C.) (4), e Diogene Apolloniate (a. 460 av. G. C.) (5), riposero pure, in un modo o nell' altro, la natura dell' anima nell' aria, cioè ancora in un fluido, onde non si allontanarono gran fatto dai precedenti. Varrone fra i Romani, seguendo quell' antica sentenza, definì l' anima così: [...OMISSIS...] . La qual sentenza fu suggerita ai filosofi evidentemente dall' osservare il fatto della respirazione. Si legge in Cicerone: [...OMISSIS...] . E lo dice pure Lattanzio: [...OMISSIS...] . Ma Aristotele dà altra ragione di questa sentenza: l' aver voluto pigliare quei filosofi a sostanza dell' anima la sostanza più mobile e più sottile (9), affine di spiegare l' anima per via della sua qualità di essere mobilissima; la quale a me sembra anzi una spiegazione sistematica che vera, secondo il vezzo di Aristotele, ovvero una ragione trovata posteriormente alla vera. Secondo Pitagora [...OMISSIS...] . Tuttavia sembra indubitato che Pitagora distinguesse da questa l' anima intellettiva, di cui troppo più altamente sentiva, come diremo a suo luogo. Eraclito di Efeso pose a principio delle cose il fuoco (2). Democrito ridusse l' anima ad atomi rotondi di fuoco (3). Così pure Leucippo (4), Zenone e gli Stoici, suoi discepoli, seguirono la stessa dottrina (5). Ad Ipparco è attribuita da Macrobio la stessa sentenza (6). Questa sentenza nacque al vedere i grandi effetti del calore, specialmente vaporoso, conosciuti anche dagli antichi, e dell' elettricità in tutta la natura, e singolarmente dall' osservazione di quel calore, che si sviluppa nell' animale colla respirazione. Quanto lungamente i medici ponessero nel calore il principio vitale dell' animale, ho accennato altrove (7). Aristotele, di cui conviene alquanto diffidare, perchè inclina a ridurre a certe determinate classi gli antichi sistemi, e sembra talora interpretarli in modo da forzarli ad entrare nelle classi prestabilite, pretende spiegare l' opinione che poneva la natura dell' anima nel fuoco, per la mobilità e sottigliezza di questo. Egli riduce tutti gli antichi sistemi intorno all' anima a tre generi: a quelli che definiscono l' anima per mezzo del moto ; a quelli che la definiscono per mezzo del senso ; a quelli che la definiscono per qualche cosa d' incorporeo (1). L' opinione adunque del fuoco la ripete da un tentativo di spiegare il movimento spontaneo. [...OMISSIS...] . Ma altrove Aristotele medesimo fa venire questa sentenza dall' opinione popolare espressa nella lingua. [...OMISSIS...] . E tuttavia non è certo che questi antichi ponessero l' anima interamente materiale, quando anzi piuttosto spiritualizzavano gli elementi, e specialmente il fuoco, o in luogo dell' anima pura (di cui non avevano ancora l' idea netta) parlavano dell' animato . A me pare probabile che il crudo materialismo si debba attribuire a tempi più bassi e di corruzione, come al tempo di Stratone ed ai posteriori (4). Aristotele asserisce che i filosofi dissero essere anima ognuno degli elementi fuori che la terra, la quale niuno disse essere anima, se non quelli che composero l' anima da tutti insieme gli elementi (1). Il qual luogo, se non è stato interpolato, rende sospetto il verso attribuito da più autori antichi (2) a Senofane: [...OMISSIS...] . E non di meno Macrobio attesta che Senofane faceva l' anima « ex terra et aqua (4) », e il suo discepolo Parmenide « ex terra et igne (5) ». Forse Macrobio dice dell' anima quello che tali filosofi avevano detto dell' uomo. Mi fa congetturare la cosa dover essere così dal vedere che Diogene Laerzio narra che Zenone di Elea, discepolo di Parmenide, fa uscire l' uomo dalla terra, e dichiara l' anima un miscuglio di elementi, cioè di freddo e di caldo, di secco e di umido, così armonico però, che nessuno di essi tiene sugli altri il predominio (6). Il fare risultare l' anima non da un solo elemento materiale, ma da tutti insieme, e il porre in essi l' ordine e l' armonia, è già un passo di più che fa la riflessione. Ella ha già conosciuto che niun elemento materiale da sè solo può spiegare le operazioni dell' anima (7); e ricorrendo all' armonia, si cominciava ad aggiungere al concetto dell' anima l' unità, e qualche cosa di spirituale, perocchè l' armonia suppone un ente semplice, che in sè contenga il molteplice. Fra quelli che così opinarono, celebre fu Dicearco, di cui Plutarco scrive: [...OMISSIS...] . Aristosseno musico pose pure l' anima in una armonia; ma pare che la sua non fosse l' armonia degli elementi, ma degli organi e dei sensi. Onde Cicerone così descrive la sentenza di questo filosofo: [...OMISSIS...] . Ora, posciachè era ancor troppo difficile il concepire questo nobilissimo vero, che l' armonia non poteasi avere che in un principio semplice e spirituale, quelli che nell' armonia riposero la natura dell' anima, senza intendere quale dovesse essere la sede dell' armonia, finirono col dichiararla un niente. Il che ci dice appunto Cicerone, parlando di Dicearco: [...OMISSIS...] . Nella quale dottrina si sente tutto l' impaccio di chi erra, poichè si pone una forza equabilmente diffusa in tutti i corpi viventi, da essi inseparabile - che corrisponderebbe da qualche lato all' anima elementare e senziente lo spazio, di cui parlammo nella Psicologia - e un temperamento di tali corpi, cioè un' organizzazione, onde l' anima organica, che si dissipa coll' organismo; e tuttavia si dice che l' anima sia niente. Pare adunque volesse dire che l' anima non era niente, separata dal corpo; il che era tuttavia un travedere come l' anima sensitiva, o principio senziente, non poteva sussistere senza il sentito, non sollevandosi il pensatore fino alla natura dell' anima intellettiva, nè intendendosi per anco che il senziente (l' anima) non era il sentito (corpo). Di Aristosseno, Lattanzio afferma il medesimo. [...OMISSIS...] : quasichè la musica fosse senziente e non sentita; e per essere sentita non avesse bisogno degli orecchi e delle anime altrui che la sentano! Finalmente si passò all' opinione che l' anima consistesse in qualche sostanza, composta bensì di elementi, ma di una determinata maniera. E qui cade il sistema di quelli che la riposero nel sangue, fra i quali Crizia (2). Quanto poi ad Empedocle, noi ne parleremo in appresso. E cade pure il sistema di quelli, di cui parla Cicerone così: [...OMISSIS...] . Alla quale è prossima la sentenza dei moderni materialisti, che la confondono col cervello o col sistema nervoso; ed anche in più la dividono, secondo le parti di questo. Quando da prima s' intese che i soli elementi materiali non bastavano a spiegare le operazioni dell' anima, allora s' aggiunse loro qualche altro principio; ma non si abbandonarono perciò tantosto gli elementi. Era il medesimo che pervenire a qualche cosa di spirituale; ma l' intendere che questo principio doveva essere spirituale, appunto perciò che non apparteneva agli elementi materiali, non fu agevole passo, nè si fece d' un tratto. Con questo principio nuovo che si aggiunse, si pervenne al senso. Plutarco espone così la sentenza di Epicuro (n. 337, m. 270 av. G. C.): [...OMISSIS...] . Stobeo aggiunge la spiegazione di questa sentenza di Epicuro così: [...OMISSIS...] . Epicuro adunque conobbe che non si poteva spiegare il senso coi soli elementi materiali o colle loro qualità, e ricorse ad un altro principio, che disse innominato, appunto perchè diverso dagli elementi conosciuti e nominati; ma non si elevò all' intelligenza, nè s' avvide che questo quarto principio sensitivo doveva essere immateriale (3). Egli poi lo congiunse all' organizzazione per guisa che, disciolta questa, si dissipava (4); il che era un travedere la natura dell' anima sensitiva. Gli Stoici, secondo Plutarco, posero nel senso la parte principale dell' anima (5); il senso poi l' attribuivano a un cotale spirito simile a quello di Aristotele, della natura del calore (6). Dalla parte principale poi dell' anima derivavano tutte le altre, e così la costituivano (7). Ora, come dopo la dottrina degli atomi venne quella della loro armonia, professata da Dicearco e da Aristosseno, così dopo la dottrina che poneva l' essenza dell' anima nei sensi, venne quella dell' armonia dei sensi. Plutarco dice che il medico Asclepiade definiva l' anima [...OMISSIS...] il che veramente era un porre ancor meno di quello che aveva posto Epicuro, perocchè questi, ponendo un principio sensitivo, aveva abbracciato tutto il sentimento animale, là dove Asclepiade riduceva l' anima alle cinque maniere esterne e comuni di sentire, senza accorgersi che l' animalità ne ha molte altre. Pervenuta la meditazione filosofica a riflettere sulla natura del sentire, e conosciuto che questa operazione non si poteva in alcun modo spiegare mediante i soli elementi materiali, rimaneva che i pensatori facessero entrare nella sfera del pensiero riflesso e scientifico anche l' operazione dell' intelligenza, ove potevano finalmente rinvenire la natura dell' anima intellettiva. Ma è più difficile fissare la riflessione sul soggetto intelligente, che non sia trapassare di un salto all' oggetto, e in questo esclusivamente collocarla; perocchè l' oggetto è quello in cui il pensiero finisce; e la via percorsa dal pensiero, e il pensiero medesimo non diviene oggetto, se non per una operazione riflessa posteriore. Quindi si scorge ragione manifesta perchè niuno forse degli antichi giunse a distinguere e separare del tutto il soggetto dall' oggetto, cioè l' anima dall' idea ; e tutti i più illustri, usciti dalla materialità dei primi, e sollevati eziandio sopra il senso, precipitarono il loro volo nella idea, senza fermarsi pure all' intelligenza, che pensa l' idea; cioè a dire riposero l' intelligenza e l' anima intellettiva nelle idee. PITAGORA. - Fra questi mi sembra poter annoverare prima degli altri Pitagora, di cui riferisce Plutarco che [...OMISSIS...] . Ora i numeri non sono che idee astratte; se dunque la mente è un numero, essa mente, ossia l' anima intellettiva, è confusa colle idee che illuminano l' anima, il soggetto coll' oggetto. Ma questo concetto dei numeri pitagorici venne esposto diversamente dagli antichi, appunto perchè essendo esso un' astrazione, lasciava un immenso campo ai discepoli di determinarla in varie guise; ed era pur necessario che nell' uno o nell' altro modo la determinassero, acciocchè ne riuscisse un qualche ente. Aristotele, che si mostra incerto del significato che debba dare al numero di Pitagora, toglie a confutare questa sentenza presa in tre sensi; cioè come se s' intendesse di puri numeri, e come se s' intendesse di piccoli corpicciuoli, e finalmente come se s' intendesse di punti matematici (2). Fa meraviglia come egli neppure accenni che i numeri di Pitagora sieno idee; eppure lo dissero alcuni altri antichi; nè tampoco accenni che sieno « astratti delle entità, presi a base del ragionamento, che si voleva intorno a queste istituire »; la quale io stimo che sia la più naturale, e la vera spiegazione dei numeri di Pitagora. Dichiarerò meglio la cosa con un paragone. A quel modo che il matematico, volendo dare la teoria della quantità continua dei corpi, si forma colla mente dei corpi astratti, ritenendo la sola estensione e le figure, e rigettando il rimanente, e poscia su questi corpi ipotetici, o per dir meglio, su questi corpi7postulati ragiona ed edifica la sua teoria; così Pitagora, o chiunque parlò prima dei numeri al modo dei Pitagorici, volendo dare la teoria degli enti, si formò degli enti astratti, ritenendo di tutto ciò che negli enti si trova il solo numero, e quindi traendo la teoria degli enti da questo solo, che essi sono numeri. Ciò che mi convince questa dover essere la vera interpretazione dei numeri pitagorici, si è l' osservare quanta nei filosofi italici era la potenza dell' astrazione, e con quale veemenza l' istinto filosofico, che tende all' universale, li sospingeva verso l' astrarre come in una regione del tutto spirituale, dove, inesperti ancora e invaghiti della novità della scoperta di un mondo così puro da condizioni di materia e di tempo, si persuadevano dover racchiudersi l' intera sapienza. Basta considerare in qual modo Senofane si portò addirittura col suo pensiero alla questione sull' unità delle cose ; e come mediante Parmenide e Zenone il grande problema filosofico di quel tempo divenisse ben presto il più elevato per astrazione, di quanti se ne possano immaginare, cioè « se le cose tutte sieno uno o più ». La questione agitata fra i patrocinatori dell' unità e quelli della pluralità, non è, a ben giudicare, altra cosa che la questione dei numeri. Certo non vi era bisogno di aggiungere alcuna cosa all' unità ed alla pluralità; perocchè si parlava di questi due astratti, senza aggiunta di cosa alcuna. Onde tutte le interpretazioni dei numeri pitagorici, le quali aggiungono ai numeri qualche cosa per determinarli, ci sembrano posteriori al Samese filosofo, non sono più questioni di teoria (la quale sola si cercava al tempo dei primi Italici), ma di applicazione della teoria dei numeri . Di vero, la dottrina intorno ai numeri doveva essere, siccome una teoria purissima, applicabile poscia a tutti gli enti; ella era la matematica pura dell' ontologia, una cotal lingua universale. Indi le diverse forme che prese quella teoria, quando ella si venne applicando agli enti. Invece adunque di mantenere la teoria e l' applicazione distinte come due parti dell' ontologia, si confusero insieme, o piuttosto si perdette di vista la teoria pura. La teoria pura ontologica dei numeri, quale sembrano averla posta i primi filosofi italiani, non riguardava adunque più l' anima che gli altri enti; ma sì ad ogni maniera di esseri poteva e doveva applicarsi. E posciachè i numeri sono ciò che di più astratto si può considerare negli enti, perciò li dicevano le prime cose, come attesta Aristotele, e gli elementi dei numeri gli elementi altresì di tutti gli enti, [...OMISSIS...] . Laonde questa teoria dei numeri s' applicava all' estensione, e ne uscivano i principŒ della Matematica pitagorica. S' applicava ai corpi, e ne usciva la Fisica pitagorica, e segnatamente la dottrina degli indivisibili (2). S' applicava a Dio, e ne usciva la Teologia pitagorica. Finalmente s' applicava all' anima e ne usciva la Psicologia pitagorica. Ora le questioni intorno all' anima, nell' applicazione che ad essa si faceva della dottrina dei numeri, dovevano essere, se non erriamo, queste: 1) Nell' anima vi è l' unità? 2) vi è la dualità? o la trinità, o la quaternità ecc.? cioè, vi è cosa che sia rigorosamente una? o cosa che sia due, tre, quattro, ecc.? Delle quali questioni la risoluzione pitagorica si era che nell' anima vi era l' uno, il due, il tre, il quattro, e non più. Dove nell' anima si diceva trovarsi l' unità? Nella mente. [...OMISSIS...] . Poichè dunque la mente considera molti individui con una sola e medesima idea specifica, e molte specie con una e medesima idea generica, si dava alla mente l' unità. Ma troppo più a ragione le compete l' unità, perchè ella abbraccia tutti i generi di cose con una sola idea dell' essere in universale, nella quale sono ridotti a perfetta unità non solo i reali molteplici, ma ben anche tutti affatto gli ideali determinati, o sieno specifici, o sieno generici. Ed a me pare che questa idea doveva essere appunto il Dio di Pitagora, cui questo filosofo definiva il numero dei numeri, [...OMISSIS...] , come Platone lo chiamò poscia ente degli enti, [...OMISSIS...] . Ma l' errore, che adesso notiamo, si è d' aver confuso la mente coll' idea, o certo d' aver parlato sovente in modo che veniva con essa a confondersi; e quindi di non avere ben distinta la natura soggettiva dell' una colla natura oggettiva dell' altra. Nondimeno pare che prima di Socrate e di Platone, i Pitagorici, che avevano certamente conosciuta l' unità della mente, non avessero pronunciato espressamente, o almeno con costanza, che la ragione di quella unità si doveva rinvenire nella natura delle idee; poichè Aristotele dice che fu Platone che aggiunse ai numeri le idee, togliendole dal modo di disputare di Socrate (1), se pure non è anzi a dire che Platone altro non facesse che introdurre un linguaggio più filosofico circa la natura delle idee, e desse a questa dottrina una maggiore importanza. Ora, dove nell' anima si trovava il due? I Pitagorici dicevano nella scienza . La scienza è oggetto; e vedesi l' errore e la confusione indicata in fare che la scienza, in cui riponevano il due, corrisponda alla mente, in cui riponevano l' uno, quando avrebbero dovuto farla corrispondere all' idea; alla mente poi dovevano far corrispondere la ragione (il ragionamento). Che cosa poi intendessero per scienza, non è così facile il determinare; ma probabilmente qualunque proposizione o giudizio spettante alle idee astratte, e perciò necessario; poichè a pronunciare un tal giudizio si richiedono almeno due termini, il soggetto ed il predicato. Dove poi trovavano nell' anima il tre? Nell' opinione riguardante le cose contingenti, e però in quei giudizi, nei quali la convenienza del predicato e del soggetto non è necessaria ed evidente, come non suol essere nei giudizi sintetici (2). Non potendosi adunque in questa maniera di giudizi unire un predicato con un soggetto, senza avere una ragione straniera che a ciò determini la mente, oltre il predicato ed il soggetto, forza è che intervenga un terzo elemento per opinare; quindi davano il tre all' opinione. Finalmente i Pitagorici trovavano il numero quattro nel senso, cioè nei giudizi intorno alle cose sensibili; e ciò, mi pare, perchè il senso non è una ragione sufficiente di applicare un predicato ad un soggetto, se egli stesso non sia prima percepito dall' intelletto; e quindi il giudizio, anche più semplice che si possa fare in conseguenza del senso, esige per lo meno quattro elementi. Prendiamo ad esempio il giudizio seguente: « questo rosso è un ente ». Noi possiamo distinguervi: 1) la sensazione del rosso; 2) l' apprensione intellettiva di essa; 3) la necessità che dove è la sensazione del rosso, vi sia un ente operante; 4) la affermazione. Platone fa venire l' opinione dal senso, e la scienza dalla mente, e così riduce il quattro al due. Come poi l' anima nel sistema pitagorico sia un numero che si muove, apparisce dal considerare che i quattro numeri, che si notano nell' anima, derivano l' uno dall' altro: il quattro dal tre, giacchè il giudizio sulle cose sensibili suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi sintetici; il tre dal due, giacchè la facoltà dei giudizi sintetici suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi analitici; il due dall' uno, giacchè ogni giudizio suppone primieramente l' idea. Laonde Plutarco così riassume il sistema di Pitagora: [...OMISSIS...] . Empedocle (43. 7 37. a. C.). - Ma da Pitagora passiamo ai Pitagorici, e scegliamo fra essi Empedocle. Noi siamo di opinione che gli elementi, di cui Empedocle voleva composta l' anima, fossero le idee degli elementi, e non gli elementi materiali; o almeno è certo che così alcuni suoi discepoli lo intesero (2). Secondo questa opinione il filosofo Agrigentino verrebbe in gran parte purgato dal goffissimo errore del materialismo; anzi l' errore opposto gli si potrebbe imputare, di cangiare la natura dell' anima intellettiva nella natura delle idee stesse, il che è un deificarla, dappoichè la natura dell' idea tiene del divino. Noi esporremo qui estesamente le ragioni che ci addussero a questa persuasione. La prima si è che, trattandosi d' interpretare la mente di un filosofo, di cui ci rimangono solo pochi frammenti, vuol tenersi gran conto della tradizione filosofica, e non considerarlo isolato, siccome tutto avesse inventato da sè, senza scuola precedente. Tanto più convien fare questa considerazione, quando il filosofo visse in una età nella quale fioriva lo studio della filosofia, come si fu quella di Empedocle, al cui tempo i filosofi ionii, e più ancora quelli di Samo, di Colofone e di Elea erano celeberrimi, e le loro speculazioni meravigliavano per altezza gli ingegni. Ora sembra possibile che, dopo che le questioni più elevate si erano già cotanto discusse, Empedocle cadesse in un così rozzo e plebeo errore da fare l' anima intellettiva composta di materiali elementi, ignorando o cancellando tutto quanto era stato detto prima di lui di più sublime in questo argomento? Di poi, il materialismo riflesso e professato in modo aperto e sguaiato, non appartiene al periodo, in cui la filosofia si stava formando, ma, chi ben guarda, solamente al periodo della sua corruzione, allorchè il sofisma e la dissoluzione dei costumi cominciò a traboccare. Le prime filosofie avevano certo nel loro seno un materialismo, ma loro proprio e speciale, veniente da mancanza di riflessione, mescolato collo spiritualismo; perocchè la divisione fra lo spirito e la materia non s' era per ancora ben colta dalla mente, la quale nè affermava lo spirito, nè la materia, ma parlava di entrambi come di una cosa sola. S' aggiunga doversi la critica appoggiare a notizie certe per argomentare le incerte. Ora niuna più certa di quella che Empedocle professava il pitagoreismo, il perchè egli apparteneva alla scuola d' Italia. Ora è possibile che un pitagorico, e, se si vuole, un pitagorista (1), non avesse altra dottrina da metter fuori intorno all' anima, che quella di farla constare di elementi al tutto materiali? Oltracciò il filosofo nostro non fu mai dall' antichità collocato nel novero dei filosofi materialisti, chiamati plebei da Cicerone, ma sì introdotto nella compagnia di Pitagora, di Parmenide, di Anassagora, di Platone e d' altri tali. Aristotele pone questa differenza fra Empedocle da una parte, e i Pitagorici e Platone dall' altra, che questi posero l' uno e l' ente nella sola essenza delle cose (2), quando Empedocle soppose all' unità l' amicizia. Aristotele, proposte varie questioni, soggiunge: [...OMISSIS...] . E poco appresso ripete la medesima cosa, ma dubbiosamente, come se la sentenza che Empedocle supponesse l' amicizia all' uno e all' ente, fosse piuttosto congetturata da lui che da quel filosofo espressa (1). Come dunque Platone e i Pitagorici spiegarono i numeri di Pitagora, riducendoli alle essenze ed alle idee, così Empedocle avrebbe determinato l' uno astratto coll' amicizia, ritenendo il fondo della dottrina italica e a suo modo svolgendola. Ora, perchè poi l' Agrigentino compose l' anima di tutti gli elementi? Per spiegare la cognizione di tutte le cose, di cui l' anima è suscettibile, movendo dal principio che « « il simile si conosce col simile » ». Ebbene, onde tolse egli una tale sentenza? Dalla scuola di Pitagora, da questa scuola eminentemente spirituale, la quale professava appunto tale dottrina; dunque egli va inteso secondo la maniera di pensare di questa scuola. Calcidio dice espressamente: [...OMISSIS...] : non è dunque una sentenza trovata da Empedocle, ma da lui seguita. E ancora: [...OMISSIS...] . L' anima dunque ha in sè la similitudine degli elementi, non gli elementi stessi materiali; il che consuona col sentire della scuola pitagorica e dell' eleatica, nella quale fu istituito Empedocle. Empedocle riconosce Iddio qual pura mente, priva di ogni concrezione corporea; e ci rimangono ancora di lui alcuni versi, nei quali dopo aver egli detto che Iddio è insensibile e s' insinua nei petti umani per l' amplissima via della fede, «megiste peithus», e che è privo di membra corporee, conchiude: [...OMISSIS...] i quali versi rammentano, come già fu osservato, versi simili di Senofane (2), e mostrano siccome la dottrina empedoclea si continuasse a quella dei filosofi precedenti. Sesto, mettendo Empedocle coi filosofi italici, attesta che ammetteva uno spirito, «en pneuma», comunicante con tutta la natura, e ad ogni cosa dispensante la vita (3); il che troppo bene conferma che egli non era un puro materialista, e che non poteva fare le anime nostre di elementi materiali, quando noi stessi voleva che fossimo animati da quell' anima spirituale, che pervadeva tutto il mondo, e che era soltanto mente: [...OMISSIS...] (4). E non dichiara forse le anime umane di divina stirpe dal cielo discese in terra come in un esilio, in un antro, «phygades teothen», avvolte in corporea veste, «sarcon chitoni», costrette a trasmigrare da una in altra forma corporea per lo spazio di trenta mila anni «tris myrias horas», fin che sieno purgate? Dove le tracce della tradizione dell' antica colpa, e della pitagorica metempsicosi, sono manifeste. Come dunque, quando questo autore dice poeticamente che le anime umane sono composte di tutti gli elementi, si potrà intendere che egli le voglia concretare di tutti i generi di materia? Si consideri di più, che Empedocle diceva sovente i suoi elementi essere Dei; il che poscia da Platone e dai Platonici fu detto appunto delle idee. Aristotele afferma che, secondo Empedocle, gli elementi sono per natura anteriori agli Dei, «ta physei protera tu theu», certo perchè gli Dei stessi si facevano di questi composti; quantunque soggiunga che anche gli elementi sieno [...OMISSIS...] , onde si ravvisano più generazioni di Dei o di demoni, ammessi da Empedocle, fra i quali poneva le stesse anime umane. Il che è a pieno consonante colle dottrine dei Platonici, che di ogni idea fanno un Dio, e pure delle idee compongono gli animi umani. Quindi Empedocle, cangiati gli elementi in persone, loro dava i nomi della divinità (2); il che era uno stabilire colla scienza la superstizione e l' idolatria, imitando in ciò i filosofi più antichi, fra i quali Ferecide, che inscrisse quel libro, che compose sugli elementi e sulla loro commistione, «theokrasia». Perocchè questi savi nè poterono colla loro mente sollevarsi alla chiara cognizione di Dio, nè avevano cuore abbastanza saldo da combattere l' errore comune e grossolano della idolatria, in cui erano essi stessi educati. Alla nostra sentenza ancora viene non leggiero rinforzo da un luogo di Aristotele, dove questo filosofo dichiara espressamente la dottrina di Empedocle intorno alla formazione dell' anima umana essere simile a quella di Platone (3); il qual luogo è il seguente: [...OMISSIS...] . Ora, tra i filosofi che posero mente non al moto, ma alla virtù di sentire e di conoscere, nomina Empedocle e Platone; i quali conseguentemente la fecero composta di elementi atti a conoscere altri elementi, cioè di idee, come indubitatamente fece Platone. Seguita dunque così: [...OMISSIS...] Su di che ci si presentano a fare diverse importanti considerazioni. Primieramente è indubitato che Platone non fece l' anima intellettiva, ossia la mente, di elementi materiali, ma piuttosto la compose di idee; che anzi nel « Timeo » fa il corpo risultare di quegli elementi; e il corpo per Platone (come prima per Empedocle) è una cotal prigione dell' anima, di cui turba i regolari movimenti. Laonde dice, che [...OMISSIS...] ; e così spiega l' ignoranza, in cui l' uomo nasce, e gli irrazionali moti dei bambini, non giunti all' età della riflessione. Di poi è da considerarsi che se, al dir di Aristotele, i due filosofi nominati, che componevano l' anima degli elementi, facevano questo, movendo dal principio che « « ogni cosa si conosce colla sua simile » »; dunque gli elementi erano simili a questi, non erano adunque questi stessi; e ben si sa che per il simile Platone intende l' idea. Dunque trattavasi di elementi ideali, nei quali solo veramente risiede la similitudine delle cose, con cui l' anima conosce (3). Di poi, che cosa è la prima lunghezza, la prima larghezza, la prima altezza, secondo Platone? Non altro che la lunghezza, la larghezza e l' altezza esemplare ed essenziale, cioè l' idea, causa, secondo lui, delle cose reali. Così pure l' idea di uno è il principio esemplare dell' animale; perocchè Platone la stessa essenza, che era nell' idea, pretendeva che fosse altresì nelle cose; il che, piuttosto che materializzare le idee, era uno spiritualizzare le cose. Ma mi sembra esser prezzo dell' opera l' esporre qui più estesamente la dottrina di Platone intorno alla doppia specie di elementi, i reali e gli ideali ; investigando poscia se i frammenti e le testimonianze, venute fino a noi intorno alla dottrina di Empedocle, ci dicano nulla di somigliante. Due dei più grandi uomini, di cui s' onora l' Italia, Parmenide e Zenone suo discepolo, avevano troppo bene veduto e dimostrato che non si può spiegare l' esistenza dell' universo materiale, senza ricorrere a qualche principio spirituale, che gli desse la consistenza e l' unità. Potenti dialettici entrambi (e fu il secondo che della Dialettica fece una scienza), non si contentarono di pronunciare alcune sentenze solenni ma staccate, all' uso orientale, e intrapresero a dare una logica dimostrazione della loro tesi. A tal fine fissarono la loro attenzione sulla natura del continuo corporeo, e così argomentarono: ogni parte assegnabile in un continuo corporeo non abbraccia più di sè stessa, tutto il resto è fuori di lei. Ma le parti assegnabili in un continuo non hanno fine; dunque le parti continue, che si possono assegnare, non cessano mai di escludere da sè una porzione dell' esteso. Se ciascuna parte non cessa di escludere da sè ciò che non è dessa, dunque ella stessa non si trova giammai; se non si trova giammai, non esiste. Se non esistono i primi continui, nessun continuo può esistere. Ma la natura del corpo sta nel continuo; dunque per sè solo il corpo non esiste. Ma se voi aggiungete un soggetto semplice (una mente secondo il concetto di questi filosofi), che possa ad un tempo stesso abbracciare tutto il continuo con un atto solo, e non per parti, allora il continuo sta, egli esiste come un semplice, non in virtù della semplicità del soggetto, ma in relazione essenziale col soggetto. Nella mente dunque (che era per essi il detto soggetto) sta il fondamento del corpo, ossia la mente è condizione necessaria all' esistenza del corpo. La quale argomentazione è ineluttabile, essendo evidente che il continuo non si può ridurre a punti matematici; nè tampoco si può ridurre a punti matematici il corpo; perocchè in tal caso, o questi punti non agirebbero che in sè stessi, e quindi colla loro aggregazione non produrrebbero mai nulla di sensibile; ovvero avrebbero una sfera d' azione continua intorno a sè, ed allora il continuo si supporrebbe di nuovo esistente (1). Ma che cosa è il continuo nella mente? In quanto è un continuo possibile, esso è un' idea; ma in quanto lo spirito afferma il continuo, esso è il continuo realizzato nel senso e nella materia, ma sempre considerato dalla mente e in relazione colla mente (2). L' essenza dunque del continuo, che nell' idea si contempla, è quell' unità che fa essere l' universo materiale, il quale è un esteso continuo variamente modificato e modificabile. L' argomento, che traevano Parmenide e Zenone dalla natura del continuo per dimostrare che avanti a tutti i fenomeni del mondo doveva esistere qualche cosa di eterno, che desse loro esistenza e consistenza, fu forse il maggior lume che mai rischiarasse la mente di Platone. Dal principio, posto da quei due sommi filosofi italiani, egli trasse indubitatamente tutto il fondo della sua dottrina. Ma, siccome accade agli uomini grandi, egli si appropriò per modo la dottrina di Elea che parve nella sua bocca originale. La necessità di un' eterna unità, arguita da Parmenide e da Zenone considerando la natura dello spazio, fu da Platone dedotta, con un ragionamento simile, anche dalla considerazione del tempo e delle mutazioni, che in esso nascono, alle cose materiali e sensibili. Come dunque abbiamo fatto dell' argomentazione degli antichi savi di Elea, la quale noi abbiamo ridotta ad una forma breve e, per quanto a noi pare, efficacissima, così vogliamo qui fare altresì dell' argomento di Platone; pigliamo il fondo del pensiero, e diamogli tutto il nerbo di cui esso è suscettibile. L' argomento di Parmenide e di Zenone traeva la sua forza da questo principio, che « « la sostanza corporea (prescindendo dalla mente) non è che una relazione di più sostanze juxta7positae ; che dunque la sostanza, se vi è, deve trovarsi negli elementi, cioè nei primi estesi; ma questi non si trovano; e al di là dei minimi estesi non si concepiscono che dei punti matematici, i quali non sono sostanze estese; perciò le sostanze estese, cioè i corpi, non esistono senza l' unità della mente » ». Ora Platone argomenta così appunto dalla mutabilità delle cose nel tempo: « « Se una cosa fosse solamente in un punto matematico di tempo , ella non sarebbe, perchè un punto matematico non ha durata alcuna; ella dunque durerebbe niente; e ciò che non ha alcuna durata, non è affatto » ». Il che si prova anche così: « Poniamo che una cosa durasse un istante matematico e non più. Ora in quale istante ella cesserebbe di essere? Nell' istante medesimo in cui è, no; perchè in tal caso sarebbe e non sarebbe allo stesso tempo, ossia l' istante, in cui fu messa in essere, sarebbe l' istante, in cui ella fu annullata, il che è contraddizione. Dunque in un altro istante susseguente. Ma se l' istante, in cui viene distrutta, deve distinguersi da quello in cui ella esiste, già fra l' uno e l' altro istante vi deve essere un tempo di mezzo, nel quale ella è durata. Dunque ciò che dura un solo istante è assurdo, perchè ripugna al pensiero ». Or bene, se noi consideriamo l' universo materiale, senza aggiungervi niente affatto che venga dalla mente nostra, esso ci si cangia appunto in un assurdo. Poichè niuno dirà che un tale universo esista nel passato o nel futuro, esso non può esistere che nel presente. Ma in quale presente? Per quanto la durata presente s' impicciolisca, ella non si trova mai; e se si trovasse dopo un infinito numero di divisioni, si ridurrebbe ad un punto matematico di tempo; tale è tutta l' esistenza del mondo materiale lasciato solo, separato da ogni mente, perocchè ogni tratto di tempo è fuori dell' altro, e viene dall' altro escluso. Ma la durata di un istante non è durata; e l' ente, che si suppone durar solo un istante, non dura nulla; perciò è cosa assurda, come si dimostrò. Dunque il solo universo materiale, senza la mente che ne contempli l' identità in certo tempo (passato e futuro), abbracciandolo tutto con un atto semplicissimo, non esiste. Così Platone stabilisce la necessità delle idee come cause delle cose. La sua maniera di esprimersi è certamente diversa da quella che noi usammo; ma il fondo del pensiero non cangia. Egli si trattiene ad osservare la mutabilità continua delle cose; io ho spinta questa mutabilità all' estremo, mostrando che l' esistenza delle cose materiali è così fluente che non ha durata alcuna, nello stesso tempo che qualche durata è pur necessaria alla sua esistenza. Veniamo ora ad applicare questa dottrina agli elementi di cui si compone, secondo gli antichi, il mondo materiale. Platone dice che la terra si scioglie in acqua, l' acqua in aria, l' aria in fuoco, il più sottile degli elementi, dove già si scorge un' analogia colla dottrina di Empedocle, che asseriva il medesimo; il fuoco faceva principio degli altri tre (1). Ora, partendo da questa continua rimutabilità degli elementi, ne trae che conviene necessariamente ricorrere ad un soggetto stabile di tutte queste mutazioni. Ora, ciò che serve di soggetto a quei modi sempre mutabili è la stessa sostanza che diviene ora fuoco, ora aere, ora acqua, ora terra; ma questa sostanza, o materia prima, o soggetto di tutte le qualità, è qualche cosa d' invisibile, e solo dalla mente concepibile, secondo Platone. Egli stabilisce tre generi: l' uno ciò che si genera, l' altro ciò in cui si genera, il terzo ciò alla cui similitudine si genera. A quest' ultimo dà il nome di padre, al secondo quello di madre, al primo quello di prole. La materia in cui tutto si genera, ossia il soggetto di tutte le mutazioni, è dunque la madre, e di essa dice: [...OMISSIS...] . Dove il grand' uomo viene a insegnare che la sostanza o materia che forma il soggetto delle modificazioni sensibili, è dalla mente supposta e non data dal senso; nè andrebbe lontano dal vero chi in questa prima materia intelligibile, che si trasforma in tutte le cose, vedesse l' essere in universale, giacchè questo solo ha i caratteri assegnati da Platone a tale specie invisibile, suscettiva di tutte le forme «pandeches», non determinata a forma alcuna, «amorphon». E quantunque nella natura debba rispondere a questa specie una realità, tuttavia il concetto di questa realità sarebbe assurdo, se la mente unendovi l' idea non vi desse consistenza; perchè la mente sola, come dicevamo, può abbracciare la durata, condizione dell' esistenza; la quale durata continua è nella mente e partecipata alle cose reali solo dalla mente; onde della sua materia intelligibile dice Platone: «mete ex hon tauta gegonen». Indi trae Platone che gli elementi materiali non sono i veri elementi, ma cotali simulacri dei veri elementi. Ma discendendo col discorso da quella specie intelligibile informe, che, come dicevamo, non può essere che l' ente, somministrato dalla mente, e quasi aggiunto nella percezione alle cose sensibili e transeunti, viene a parlare di altre specie meno indeterminate, cioè del fuoco, come quello che è il primo degli elementi, e poi degli altri elementi ancora; e si propone la questione « « se vi sia un fuoco, separato dalla materia, permanente in sè stesso, e così degli altri elementi »; » e prova che vi debbono essere le essenze intelligibili di tali cose, a cui compete propriamente i nomi di fuoco, aere e gli altri, assai meglio che a tali cose materiali. Di che conchiude: [...OMISSIS...] ; la quale specie così egregiamente descritta è l' idea, o per dir meglio l' essenza della cosa intuita dalla mente, verso alla quale la cosa reale scade; onde il filosofo soggiunge: [...OMISSIS...] . Questa è l' indole, secondo Platone, degli elementi materiali, le cui essenze sono intelligibili, e sono i veri elementi, il vero fuoco, il vero aere, la vera acqua, la vera terra, di cui i primi non sono che somiglianze sfuggevoli. Di tali essenze intelligibili adunque si compone l' anima intellettiva, secondo Platone. Ora, se vero è quel che dice Aristotele, che Empedocle compone l' anima intellettiva dei quattro elementi simigliantemente a Platone, non conviene dire che anche il filosofo di Agrigento distingueva degli elementi intelligibili, ossia specie ed esemplari degli elementi reali? Il che a noi pare che cessi d' essere congettura per divenire certezza, quando si considera un altro luogo di Aristotele, in cui questi chiaramente afferma che Empedocle ripose l' essenza delle cose nelle idee. Il qual luogo è in sulla fine del primo dei Metafisici, e suona così: [...OMISSIS...] Che se ci rivolgiamo ad interpreti più recenti della mente di Empedocle, noi troviamo che Filopono intese gli elementi di Empedocle per le loro nozioni o idee; il che gli pareva evidente scrivendo: [...OMISSIS...] . Ma passiamo alla dottrina dell' amicizia o concordia empedoclea, dalla quale riceverà nuovo rincalzo la nostra interpretazione degli elementi, di cui egli componeva l' anima. Empedocle, dunque, oltre i quattro elementi ammetteva due principŒ che egli chiamò la concordia, «philia», e la discordia, «neikos». Ora, secondo gli scrittori posteriori ad Aristotele, e secondo Aristotele stesso, come abbiamo veduto dai luoghi arrecati (2), la concordia dell' Agrigentino risponde all' unità di Pitagora e di Parmenide, e la discordia alla pluralità. Il che, se ben si considera, riesce a dire che in questi due elementi empedoclei si disegnano i due mondi, l' intelligibile ed essenziale, nel quale sono gli elementi ideali, e il sensibile e simigliante, composto degli elementi reali; massimamente che, oltre essere stato Empedocle pitagorico, fu anche discepolo, come da Alcimada si riferisce, dello stesso Parmenide (3). E qui udiamo come Siriano, commentatore di Aristotele, difenda Empedocle dall' accusa di contraddirsi, che gli appone lo Stagirita, non troppo equo con quanti lo precedettero. [...OMISSIS...] Le quali parole, consentanee all' età ed all' educazione di Empedocle, ristorano a pieno questo nobile lume dell' italica scuola del torto, che gli è fatto da tanti, col supporlo sì goffo e zotico intelletto da voler composta l' anima umana di materiali elementi (2). E un altro commentatore di Aristotele, Giovanni Filopono, dice lo stesso, attribuendo ad Empedocle che egli lodi la concordia, siccome causa del mondo intelligibile e divino, e biasimi la discordia, siccome quella che disgrega il divino (3); e trova pure che Aristotele non fa buona e giusta ragione all' Agrigentino. Aggiunge che i due principŒ dell' amicizia e della discordia si conoscono colla ragione piuttosto che col senso, e sono sembrati ad Empedocle «asomatoi physeis» (4). Clemente Alessandrino poi, ed altri, ci conservarono un verso di Empedocle, che si riferisce alla sua «philia», dichiarandola oggetto del solo intelletto: [...OMISSIS...] . Riesce nondimeno ad alcuni inesplicabile come Empedocle, pel quale la concordia ha ufficio di unire, dica che ella sia quasi materia . Aristotele e Temistio credono di trovarlo qui in contraddizione seco medesimo, non sapendo spiegare come la stessa «philia» possa ora esser causa motrice e unitrice, ora poi causa materiale delle cose (2). Ma se noi moviamo da questo principio, che per amicizia Empedocle intendeva l' uno , come espressamente dicono Plotino (3) e molti altri antichi (4), e come è consentaneo alla scuola che professava, l' apparente contraddizione svanisce. Poichè, che cosa è l' uno? - L' ente in universale - Che cosa è l' ente in universale? - L' essenza dell' ente intuita nell' idea, l' ente ideale, l' ente intelligibile. Or bene, quell' ente fa appunto rispetto a noi i due uffizi: 1) di virtù unitrice e congregatrice delle cose materiali, perocchè vedemmo cogli argomenti di Parmenide e di Platone, che l' universo materiale svanirebbe, se la mente non gli aggiungesse l' ente , che alle cose continuamente divisibili e fluenti dà stabilità ed unità; onde gli antichi chiamano anche l' amicizia di Empedocle «tautopoios henopoios» (5); 2) di materia intelligibile , appunto perchè ciò che s' intende in tutte le cose è l' ente variamente terminato e realizzato; e la sola realità dell' ente non darebbe alcun oggetto alla mente, la quale niente potrebbe con esso solo nè concepire, nè affermare. Ond' è che la materia, intesa dalla mente in tutte le cose reali, è sempre l' ente. Questo si doveva intendere propriamente dell' uno primo, del Dio pitagorico, che secondo noi è l' idea dell' essere, chiamato anche numero dei numeri, fonte degli altri numeri, rappresentante le specie e i generi delle cose. Ora, poichè ciascun genere e ciascuna specie ha l' unità, secondo i Pitagorici, perchè quei concetti unificano gli individui, perciò Aristotele dice che Pitagora ed Alcmeone, suo discepolo, sembrano riporre i numeri nel genere della materia (1). E giacchè Aristotele mette insieme con Empedocle Platone, non sarà fuori di luogo l' accennare l' opinione del Serrano intorno alla materia intelligibile di Platone. Il quale nell' argomento al « Timeo » così dice, secondo il volgarizzamento di Dardi Bembo: [...OMISSIS...] . E` dunque un cavillare quel di Aristotele, dove dice che il movente e la materia sono concetti diversi, onde rimanga a dire ad Empedocle sotto qual concetto la sua amicizia sia amicizia, se sotto il concetto di movente (cioè congregante, unificante) o sotto il concetto di materia (2); perocchè come si distingue l' uno per essenza e l' uno per partecipazione, così si può distinguere l' amicizia per essenza e l' amicizia per partecipazione . Ora l' ente, l' uno, l' amicizia di Empedocle per essenza, è materia di tutti gli oggetti intesi ; e in quanto è partecipata, ella è causa unitrice, che della pluralità indefinita delle cose soggette allo spazio e al tempo, fa riuscire un solo ente fisso, oggetto dell' intelletto. Giustamente adunque l' amicizia di Empedocle è amicizia sotto tutti e due i concetti di uniente e di materia (intelligibile), benchè questi concetti in apparenza diversifichino tanto fra loro. Con che rimangono pure spiegati quei luoghi degli autori, nei quali l' amicizia e l' uno di Empedocle sembrano due cose e non una sola; perocchè ben osservando quei luoghi, si scorge che tutti si riferiscono alla produzione dell' unità nelle cose contingenti; onde il dire che l' amicizia produce l' uno in tutte le cose, come dice Simplicio, [...OMISSIS...] , altro non vuol dire se non che l' uno per essenza produce l' uno per partecipazione, ossia l' amicizia per essenza produce l' amicizia per partecipazione (2). Quindi ancora l' amicizia empedoclea da Filopono e da Temistio viene paragonata al concetto, ossia alla notizia delle cose: [...OMISSIS...] ; perocchè quell' amicizia non è finalmente se non l' unità dell' ente intelligibile e il suo intrinseco ordine. Onde anche in un luogo di Stobeo, dove crediamo esporsi l' opinione di Empedocle, benchè sembri perito il suo nome con alcuni altri vocaboli, si legge la discordia e la lite essere non altro che specie; [...OMISSIS...] . L' uno pitagorico (5) fu denominato da quei filosofi in varie maniere (6): e fu detto Dio, Apollo, materia, caos (7). L' amicizia di Empedocle ebbe simili denominazioni: i due primi nomi dimostrano che trattasi di cosa spirituale e intellettuale, e non materiale; come a lei appartenga l' appellazione di materia, l' abbiamo pure accennato; rimane che vediamo a qual titolo possa ella essere detta anche caos. Ora, se si considera che l' uno è l' ente in universale, e che a questo può competere la denominazione di materia prima intelligibile, già s' intenderà con questo solo come gli si possa dare l' appellazione di caos (intelligibile), in quanto che nell' essere in universale non vi è nessun ente distinto e particolare. Qui si scorge ancora quanto sia mal fondata quella censura di Aristotele, colla quale pretende di cogliere Empedocle in contraddizione, perchè talora dice la lite principio di distruzione, talora poi le fa produrre le cose materiali. Giacchè, se la lite di Empedocle si trasporta nel mondo intelligibile, ella diviene quella facoltà, per la quale l' intendimento distingue le cose nell' unità dell' ente (1), e però quella che dà l' origine nella mente agli esseri singolari e finiti (2); dalla mente poi del primo facitore escono le cose reali, posciachè Iddio opera colla virtù della mente (3). Svaniscono del pari le obbiezioni, che trae Aristotele contro il sistema di Empedocle da questo, che [...OMISSIS...] (4). Al che Empedocle poteva rispondere che anche gli elementi ideali si compongono come i reali, e perciò coi composti di quelli si conoscono i composti di questi. Quanto poi a quello che dice Simplicio ed altri, che Empedocle riduca i suoi elementi a due, e infine ad uno solo, chiamato la necessità, o la monade della necessità, non ripugna, poichè l' essere in universale, che è l' uno, è anche il principio della necessità, giacchè impone la condizione per la quale ciò che è, è ente. Simplicio poi considera l' amicizia piuttosto distinta da quella monade, secondo un rispetto diverso da cui si guarda, che assolutamente, in quanto cioè l' amicizia esprime l' uno nelle più cose (1). Onde in altri Scrittori invece di «monas tes anankes» si dice «hule tes anankes». Il perchè, siccome per Empedocle talora viene tutto dall' uno, talora poi dall' amicizia, che è l' uno applicato al più, così talora in capo ai suoi principŒ ed elementi viene posta la necessità come cagione di essi, chè l' essere intelligibile, da cui tutto viene, è necessario, e impone a tutte le cose le necessarie sue leggi (2). Ma se l' uno (l' ente) è il principio supremo di Empedocle, al quale egli impone il nome di amicizia quando lo considera nella pluralità, e se all' amicizia contrappone la lite, ossia il non7uno (il non7ente), per limitare l' uno e distinguere in esso il più; come poi da questi due principŒ escono i quattro elementi? qual è il nesso che li lega con quelli? Primieramente è da considerare che Empedocle, con Eraclito e con molti altri antichi, riduce i quattro elementi ad uno solo, cioè al fuoco, come al più sottile e al più semplice. La quale sentenza, che si può dir comune agli antichi filosofi e inserita nello stesso « Timeo » di Platone, fu esposta da Lucrezio in questi versi: [...OMISSIS...] Dove il fuoco, di cui si formano gli altri elementi (2), si fa venire dal cielo; il che sembra alludere al mondo intelligibile, onde li fa venire appunto Platone (3). Ma Aristotele muove una difficoltà, che, per quanto solida possa parere, vale tuttavia a farci conoscere come Empedocle trasportasse il suo pensiero al mondo intelligibile, e non poco da lui prendesse Platone. Dice Aristotele che la teoria di Empedocle non spiega la generazione. Perocchè, che afferma Empedocle? che il composto si fa per via di ragione . Questa sentenza contiene l' antica dottrina di Parmenide in quello che aveva di vero, ed era quanto dire che « l' unità è quella che fa che un essere si dica composto, e l' unità è posta dalla mente ». Ma Aristotele dice che conviene assegnare una causa reale, e non meramente ideale, a spiegare come le cose si compongano e generino. Ed aveva ragione; ma non era men vero e assai più profondo il pensiero di Empedocle, che è la mente quella che fa sì che il composto sia un ente (4). Tutti gli elementi adunque si riducono al fuoco; ma come il fuoco si raggiunge ai due principŒ dell' amicizia e della lite ? Dimostra lo Sturzio che per Empedocle l' uno, il caos, la materia, il fuoco sono pressochè sinonimi (5); onde in alcuni luoghi di Aristotele si legge che Empedocle negava [...OMISSIS...] . Ora noi abbiamo veduto che l' amicizia è un vocabolo, onde Empedocle esprimeva l' uno dei Pitagorici. E oltre ciò sappiamo che i Pitagorici chiamavano il loro uno fuoco, o che prendessero il fuoco quale simbolo, o che lo considerassero come principio della vita e sostanza divina (2), come io credo. Se dunque l' amicizia di Empedocle è l' unità intelligibile, convien dire che egli ammettesse anche un fuoco intelligibile, come fa Platone nel « Timeo , » un fuoco essenziale (essenza ideale), verso al quale il materiale non è che un cotal simulacro, non ha l' essenza di fuoco (3), ma la qualità ignea quasi forma accidentale (4). E così infatti ci attesta uno scrittore antico, dicendo espressamente che egli faceva principio del tutto l' amicizia e la lite, ma della monade il fuoco mentale, [...OMISSIS...] , chiamandolo Dio, come si chiamava con questo nome dai Pitagorici e dai Platonici tutto ciò che appartiene alle idee. Ora poi, se si riconosce ammesso da Empedocle che gli elementi sieno intelligibili, idee, e, come tali, vere essenze; e sieno altresì materiali, e, come tali, non essenze, ma partecipanti le essenze, al modo che fa Platone; tosto si conciliano le apparenti contraddizioni, che presentano gli antichi, i quali ora ci fanno gli elementi di Empedocle eterni, semplici, eguali, immutabili, incorruttibili, ora tutto il contrario. E` vero che Empedocle componeva anche il senso di elementi (1), ma ciò egli faceva, o perchè niuno degli antichi distinse accuratamente il senso dall' intelligenza (2); ovvero lo faceva alla guisa di Platone, che distingueva nell' anima la parte sensitiva, ed a questa attribuiva gli elementi reali quasi sua veste, e la parte intelligente, che dalle idee faceva risultare (3). Ma perchè meglio si veda quanto Empedocle si avvicini a Platone, e l' abbia preceduto nella dottrina delle idee, torniamo al mondo intelligibile . Appresso gli antichi scrittori si hanno due serie di testimonianze, opposte in apparenza; una serie pone come indubitato che Empedocle faceva il mondo uno; un' altra serie afferma che due erano i mondi di Empedocle. Ora la conciliazione è per noi agevole; poichè se si considera che l' ente è identico sotto le due forme d' idealità e di realità, convien dire che il mondo è uno e il medesimo. Ma se si considerano le due forme, l' ideale e la reale, in cui è questo unico mondo, niente vieta che si pongano due mondi, come fa appunto Platone, l' uno intelligibile, ossia ideale, e l' altro sensibile, ossia reale. Federico Sturzio scrive: [...OMISSIS...] . Ma in appresso appone ad errore dei nuovi Platonici l' attribuire ad Empedocle il mondo intelligibile: [...OMISSIS...] . Ed è dello stesso sentimento il Karsten. La quale interpretazione tuttavia mi sembra più da erudito che da filosofo; perocchè gli eruditi recenti, fatti accorti come gli Eclettici Alessandrini vanno accaloriti per tirare al loro sistema tutta l' antichità (e indubitatamente ora supposero libri inscrivendoli del nome di antichi filosofi, ora compendiarono, raffazzonarono, infarcirono di loro glossemi gli autentici, sempre poi interpretarono i precedenti sistemi sullo stampo del loro), divenendo oltremodo diffidenti, spinsero la critica fino a renderla strumento di scetticismo. Ma a temperare questo estremo, a cui reca facilmente la critica dei particolari, noi crediamo che convenga associare questa colla critica dei generali, cioè coll' unità delle scuole e delle tradizioni, coll' analogia delle sentenze, e con tutte le circostanze dei tempi e delle menti. Ora una critica, che non dimentica queste vedute più ampie, ci assicura: I) Primieramente, che la scuola alessandrina non avrebbe potuto tirare a sè l' autorità degli antichi, nè attribuire loro nuovi libri, se negli scritti originali e nelle memorie rimaste non avessero trovato qualche addentellato a cui continuare l' edifizio, qualche vera traccia del loro proprio sistema. II) Che l' antichità presenta due grandi scuole, l' una delle quali ha per suo carattere il raziocinio individuale , che si personifica in Talete, e l' altra ha per suo carattere l' autorità tradizionale, che si personifica in Pitagora (1), e si continua in Platone, alla quale appartengono gli Alessandrini, che per ciò inclinano tanto a trovare negli antichi l' autorità che confermi i loro detti. Ora, tenendosi conto di questa indole storica e tradizionale della scuola platonica, è da credere che realmente ella raccogliesse le dottrine tradizionali, e non le inventasse di pianta. III) Di più consta per indubitabili documenti che il fondamento della dottrina platonica, il quale consiste nella contemplazione dell' essere ideale e delle sue divine proprietà, risale alla più remota antichità, ed oso dire alle prime tradizioni del genere umano. Tutto l' Oriente se ne mostra pieno. Secondo Mosè, ogni cosa si crea pel Verbo divino: l' Achmoth, cioè la sapienza esemplare dell' Universo (2), è primogenita avanti a tutte le creature non solo nei libri sacri, tanto anteriori alla scuola italica, ma ben anche nelle leggi indiane di Manu (3), sotto il nome di Mahat o di Bouddhi. Dalle scuole ebraiche ai piedi di Gamaliele, e non già dagli Alessandrini, S. Paolo imparò che Iddio « « dalle cose invisibili fece le visibili »; » nella quale sentenza sta tutto il buono del platonismo. Ora questa dottrina, che è pure la dottrina platonica del mondo invisibile e intelligibile, non poteva andar perduta nel genere umano, anzi si recò da per tutto colle colonie, si conservò nelle religioni e nelle mitologie (4); non poteva massimamente andar perduta pei filosofi della scuola italica, a cui appartiene certamente Platone; uomini tanto avidi di sapere, tanto solleciti di raccogliere le antiche dottrine, viaggiatori per l' Oriente, e di essi non pochi conoscenti per indubitato dei libri sacri, siccome dicemmo di Ferecide, e come più ampiamente è mostrato nelle opere dell' Huezio. Ora fra i miei voti uno è questo, che si scrivesse con diligenza una Storia del platonismo avanti Platone . IV) Oltracciò, se Empedocle udì Parmenide e Anassagora (5), celebre per aver separata la mente da ogni materiale concrezione, è possibile che egli sia stato poi interamente all' oscuro della dottrina delle essenze? Nè tuttavia pretendo che egli abbia chiaramente posta quella dottrina; mi basta che la ponesse in un modo oscuro, forse senza uscire intieramente da quella forma universale, sotto cui l' aveva annunziata Parmenide. Poichè è da distinguersi nella dottrina di Elea la prima questione fondamentale delle altre spettanti all' applicazione. Quando quei filosofi venivano alle questioni accessorie di applicazione, non dissento che sdrucciolassero nell' una o nell' altra fossa, tra cui movevano i piedi, del materialismo e dell' idealismo. Perocchè la scuola di Elea propose la questione dialetticamente, nella sua massima astrattezza e universalità: « Se fosse ben detto che tutte le cose siano uno, o se si dovesse piuttosto dire che le cose sono più ». Pigliandosi la parola uno nella sua incondizionata universalità, non si cercava in questa prima questione « se questo uno fosse poi spirituale o materiale, se fosse reale o ideale », tali furono le questioni posteriori e di applicazione. Nella questione prima, adunque, si voleva sapere soltanto se si diceva cosa vera, e se si parlava con proprietà, dicendosi che « tutte le cose fossero uno », senza cercare più in là; era la sola essenza dell' unità, che si voleva verificare nelle cose, astraendosi da ogni altra qualità o proprietà, che aver potesse la unità. Della quale questione per venire a capo, considerarono principalmente la variabilità delle forme che presentano i corpi, e conchiusero che sotto di esse doveva essere la sostanza, soggetto immutabile e permanente di tutte quelle forme, la quale fosse uno in tutte le forme: dunque il tutto era uno. Ma venne tosto appresso l' altra questione di applicazione: che cosa fosse poi cotesto uno. E allora alcuni si rappresentarono questo soggetto, che soggiace uno e immutabile a tutte le forme, siccome una cotal materia prima non informata, e però atta a ricevere ogni forma; ma ben presto, o gli stessi od altri, cominciarono a intendere che questa materia senza forma non poteva sussistere, benchè potesse essere concepita dalla mente astraente; e perciò la dissero insensibile, incorporea, solo intelligibile; e così vennero nell' idealismo platonico. Era veramente difficile trovare il vero in argomento così sottile; era difficile intendere che ricorreva qui quella legge di sintesismo, che in tutta la natura si dimostra, per la quale la materia è realmente distinta dalle forme, e tuttavia non può sussistere se non unita con quelle; difficile altresì era ad afferrare che la stessa materia o sostanza opera comecchessia in noi, per quella forza con cui immuta il corpo nostro, e si fa termine della nostra percezione sensitiva. Finalmente difficile tornava ancora l' accorgersi che non la sola sostanza materiale, ma egualmente o viemeglio le varie forme dei corpi avevano un corrispondente nell' ideale immutabile ed eterno. Le quali cose non le vide sempre con piena distinzione neppure Platone, il quale nel Timeo fa passaggio dalla sostanza di una cosa all' idea, senza avvedersi che lo stesso passaggio si potrebbe fare egualmente movendo dall' accidente; perocchè - dopo aver distinto fra la cera e le varie impronte di cui ella si può successivamente effigiare, osserva che alla domanda che sia quella cosa effigiata, non si risponde che sia una delle figure passeggere, ma si deve rispondere che sia cera, e la figura non è il quid della cosa, ma il quale - passa ad applicare il ragionamento agli elementi e fermasi al fuoco, siccome di tutti il più sottile, onde gli altri hanno origine, e distingue due fuochi, l' uno essenziale ed intelligibile, a cui spetta la quiddità del fuoco, l' altro sensibile, a cui spetta solo la qualità di fuoco. La qual distinzione è manifestamente quella che separa l' ideale ed il reale (salvo che invece di qualità doveva dire modo categorico di essere ; il che non potè dire a cagione di povertà di lingua filosofica); distinzione, che egli confonde così con quella che separa la sostanza dall' accidente, mentre sì l' accidente come la sostanza può ben essere ideale e reale. Ma la ragione, onde si sdrucciola dalla prima distinzione della sostanza e dell' accidente alla seconda dell' ideale e del reale, si è perchè la sostanza viene separata dagli accidenti per opera della mente, senza che manchi perciò nella cosa reale il quid che risponde a tale idea, e perchè la sostanza appare immutabile e simile in questa proprietà sua all' idea del pari immutabile. Onde due cose, perchè l' una e l' altra permanente ed entrambe oggetto della mente, la sostanza reale e l' ideale, furono confuse in una sola, nell' essenza ideale . Vi fu un' altra cagione ancora più efficace a travolgere le menti a questa confusione, la quale si è che la sola mente aggiunge l' ente alle cose conosciute; e fino a tanto che ella non ce l' ha aggiunto, conosciute non sono; e l' ente aggiunto dalla mente risponde alla sostanza, in quanto questa è l' atto, nel quale e pel quale gli accidenti sono. Quindi era agevolissimo il passare a riguardar la sostanza come meramente intelligibile, come essenza ideale; ciò che si fa anche dai moderni filosofi della Germania. Ma chi sottilmente osserva, vedrà che altro è la sostanza reale, altro l' ente che vi aggiunge la mente, pel quale la sostanza stessa diviene conoscibile, divenendo ente, il che è quanto dire oggetto dell' affermazione. Ora, tutte queste questioni al tempo di Empedocle erano ancora avviluppate, e neppur da Platone (1), nè dai Platonici poterono a pieno disvilupparsi; ma tuttavia si agitavano, e la verità si vedeva ora da un lato ora dall' altro, e si pronunciavano altresì, non senza contraddizioni, ambiguità e troppo parziali vedute. Ma tutto ciò nondimeno persuade che Empedocle non fosse punto straniero alla teoria del mondo intelligibile ed ideale. V) E veramente se si esaminano le sue indubitate sentenze, sarà difficile conciliarle colla supposizione che l' uno di Empedocle non fosse più che la materia prima, materiale, separata dalle sue forme; poichè: 1) Non si vede come a questa potesse competere il nome di mondo, sì perchè la materia senza alcuna forma non può esistere, e se ha una forma, non è più immutabile; sì perchè la parola «kosmos» indica un mondo formato ed ornato, e non una materia informe; onde meglio converrebbe la parola «sphairos» a indicare la materia, la materia non materiale, ma intelligibile. 2) Di più, il mondo eterno e immutabile di Empedocle è di fuoco, come quello di Eraclito (1); dunque non è informe. Di più, lungi da esser materia inattiva, che diventa tutto ciò che si vuole, è anzi causa attiva, «aition poietikon», come dice Teofrasto (2), e come si raccoglie dallo stesso Aristotele, appresso il quale esso fa tutto, ed è chiamato sempre «theos»; nè sembra possibile che sia applicato il nome di Dio alla materia bruta ed informe, giacchè tutta l' antichità ripose le cose divine nelle idee. 3) Quando si volesse chiamare mondo la materia informe, materiale, sarebbe pure un mondo meno perfetto che il mondo già vestito di forme ed ornato. All' incontro il mondo intelligibile e divino di Empedocle è dichiarato più eccellente del mondo sensibile; e lo stesso Sturzio, che rigetta l' interpretazione che noi diamo al mondo intelligibile di Empedocle, si mostra nondimeno inclinato ad accordare che fosse da lui chiamato «sphairos», ed altre cose intorno a lui attribuite ad Empedocle da Proclo e da altri Platonici (1). Ora, a questo mondo fu imposto simbolicamente il nome di «sphairos», e datogli una forma sferica per indicare la sua eccellenza sopra il mondo sensibile, al quale veniva attribuita da Empedocle la forma di elissi. Perchè poi gli antichi attribuissero alla figura sferica la perfezione fra le figure, e quindi si considerasse la sfera come il simbolo della perfezione, lo dice Platone (2); ed è perchè si era conosciuto che la sferica era la figura della maggior capacità, e quella che conteneva tutte le altre figure, cominciando dalle triangolari fino a quelle che fossero terminate da poligoni di un numero di lati indefinitamente grande. Quindi la sfera è simbolo acconcissimo a rappresentare l' essere ideale ; perocchè, come quella contiene dentro di sè virtualmente tutte le altre figure ed eccede da tutte, così l' essere ideale contiene l' essenza di tutti gli enti determinati e finiti, ed eccede ancora. D' altra parte se Empedocle dava al suo «sphairos» la forma della maggior perfezione, non poteva dunque essere una materia che dal non avere alcuna forma ricevesse imperfezione, come accade della materia reale. 4) S' aggiunga che lo sfero di Empedocle era formato dall' amicizia, causa di ogni bene secondo quel filosofo; onde non può esser la materia reale informe, la quale non ha ancora ordine, nè organizzazione, nè armonia. 5) Plutarco, ed altri antichi, ci dicono che Empedocle come ammetteva due mondi, così ammetteva due soli, l' uno dei quali si chiama «archetupon», e anche «pyr on» (1), che è quanto dire fuoco7ente, fuoco per essenza, e l' altro si chiama «phainomenon» (2). Ciò posto, il sole non può essere la materia prima eguale ed informe, perchè egli è un ente organizzato e informato, e, secondo le idee degli antichi, perfetto; dunque il primo di questi soli non si può intendere del caos materiale, o della materia prima reale. Di più la parola archetipo indica manifestamente l' idea prima del sole, secondo l' uso che di questa parola si fece da tutta l' antichità. Anche il dirsi fuoco7ente dimostra il medesimo, significando ciò che è intelligibile e non sensibile. Vero è che si dice che il sole archetipo è in un altro emisfero del mondo, e che il sole visibile è quasi un riflesso di quello; ma questa maniera di parlare non si deve ella attribuire alla lingua poetica usata dall' Agrigentino? Sembra dunque che per quest' altro emisfero, dove sta il vero sole archetipo, si debba intendere la sfera del fuoco celeste ed essenziale, vivente, intelligente; la quale s' immaginava come una zona sferica la più lontana dalla terra; sicchè per emisfero non è da intendersi la sfera tagliata orizzontalmente, ma a zone sferiche l' una dentro l' altra (3). 6) Finalmente dagli stessi frammenti, che ci rimangono, si raccoglie che Empedocle ammetteva un «kosmos noetos», tipo dell' altro «kosmos aisthetos», il che definisce affatto la questione (4). VI) Ammonio (4) e Tzetzes (6) ci conservarono quei versi, che citammo di sopra, nei quali Iddio viene definito « mente sacra, ineffabile, che abbraccia tutto il mondo colla sua provvidenza ». Ora, se la mente divina conosce tutto, ben conviene ch' ella abbia in sè le similitudini di tutte le cose, secondo il principio del nostro filosofo, che non si conosce il simile se non pel simile. Non sembra dunque consentaneo che nella mente suprema l' Agrigentino riponesse l' archetipo, ossia l' ideale del mondo? VII) Pare anche indubitato che Empedocle, come tutti gli antichi filosofi, trasmutasse in anime, in Dei, in Geni e Demoni le idee, come pure i sentimenti, le virtù, i vizi. Di che lo stesso Sturzio (1) paragona ai Sefiri cabalistici i Demoni di Empedocle. Ora se la cosa è così, quanto non è coerente che gli elementi, di cui l' Agrigentino componeva l' anima, e ciascuno dei quali era un Dio, e pei quali l' anima era intelligente, perchè simili agli elementi di cui constava l' universo, fossero pure idee? VIII) Di più, se Empedocle avesse composto l' anima di elementi materiali, non ci sarebbe stato bisogno di spiegare com' ella si unisca al corpo, poichè sarebbe stata corpo ella stessa. All' incontro, noi sappiamo da Plutarco e da altri antichi che Empedocle diceva l' anima di divina origine, e l' unirsi al corpo era per lei come un essere mandata in esilio, lungi dagli Dei, che è pure il pensiero di Platone. Voleva anche che fosse immortale e punita secondo le sue colpe nel fuoco (2). Dove lo stesso Bruckero (3) riconosce che queste dottrine empedoclee, le quali tengono della scuola pitagorica, ripugnano all' anima formata di elementi materiali; onde congettura che Empedocle avesse posto due anime, l' una divina, intelligente, nata dall' anima del mondo, e l' altra sensitiva, compaginata di elementi. Lo Sturzio pretende che una tale congettura sia arbitraria, senza vestigio nei monumenti antichi, e perciò la esclude (4), ma senza sostituirne una migliore. Ora, quantunque Empedocle non abbia forse distinto accuratamente il senso dalla ragione, dando egli l' uno e l' altra fino alle piante (5), tuttavia non si può negare che egli ricusi nei suoi frammenti la testimonianza dei sensi a trovare la verità filosofica, e voglia che ogni cosa si consideri colla mente (1), con un parlare simile del tutto a quello che abbiamo nei versi di Parmenide (2). Di più non è improbabile, anzi consentaneo, l' ammettere ciò che vuole Sesto Empirico, che egli distinguesse la ragione stessa dell' uomo in ragione umana e ragione divina ; la prima ragionante delle cose sensibili, la seconda delle intelligibili (3). Ora, se si ammette la sentenza nostra, che gli elementi, di cui Empedocle componeva l' anima, fossero elementi ideali , le similitudini degli elementi reali, ogni cosa si riduce in accordo nel sistema dell' Agrigentino, venendo da quegli elementi composta la ragione divina, a cui si riduce la natura dell' anima intelligente ed immortale. E qui ponendo modo a questa discussione, stimiamo bene di conchiuderla colle assennate parole del sig. Cousin: [...OMISSIS...] . LEUCIPPO, DEMOCRITO, EPICURO. - Questi filosofi materializzarono l' antico sistema dell' ente semplice, onde tutto si faceva provenire, supponendogli la materia. I sistemi precedenti avevano confuso l' oggetto col soggetto, e dichiarata l' anima come risultante dagli enti (ideali), che ella intuiva. Ma questi enti, che pei precedenti filosofi erano astratti e perciò idee, veri oggetti, avendoli essi cangiati in enti materiali, perdettero propriamente la condizione di oggetti, e ricevettero la natura di entità extra7soggettive. Quindi, a parlare esattamente, il loro errore intorno alla natura dell' anima giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' extra7soggettivo (materia) », a differenza dei sistemi idealistici, il cui errore giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' oggetto (enti ideali) ». A questa corruzione dell' antica scuola può avere influito, fra le altre ragioni, anche la lingua imperfetta e volgare, di cui si dovettero servire necessariamente i primi che tolsero a filosofare. Noi abbiamo veduto che Empedocle chiamava elementi gli elementi ideali, e li riduceva tutti al fuoco; e che poi faceva il fuoco essenziale sinonimo di amicizia, di ente, di sfero, di Dio supremo, sia perchè la vita si manifesta col calore, sia perchè il fuoco è un cotal simbolo della luce intellettuale, sia per una reale confusione, che nasceva nel suo intendimento, fra le proprietà del fuoco e quelle del supremo essere, che vive per propria essenza. Da questo Dio egli faceva venire le anime umane. Il che non era alieno da quanto aveva insegnato Pitagora, del quale, come abbiamo veduto, Diogene Laerzio ci assicura che faceva dell' anima una emanazione del fuoco centrale. Parmenide del pari la dichiarava di natura ignea (1), benchè questa sentenza per fermo appartiene all' opinione e non alla verità, secondo la distinzione di questo filosofo. Quindi Leucippo, uditore di Parmenide, la ridusse pure al fuoco; e Democrito la definì [...OMISSIS...] , dove si scorgono confuse le cose, che l' anima percepisce, coll' anima stessa, l' oggetto col soggetto. Eraclito tutto dal fuoco derivava, e, secondo Stobeo, voleva l' anima essere di luce, «photos». Onde dagli Atomisti, corruttori dell' antica filosofia, si ritenne presso che la maniera di parlare degli antichi, e si trasmutò in pari tempo la dottrina. E quando si considera che Possidonio (3) fa venire la dottrina degli atomi dalla Fenicia, dichiarandone autore l' antichissimo Mosco, e che dalla Fenicia avevano pur tratto le loro dottrine Ferecide e Talete, si rende vie più verosimile che il sistema atomistico dei greci non sia punto altro che la corruzione di un sistema più antico, immune dall' espresso materialismo. Non voglio già asserire con ciò che i Fenici e gli Ebrei, loro contermini, possedessero in quell' antichissimo tempo la dottrina platonica delle idee, in quella forma esplicita ed analitica in cui la insegnò Platone; questo sarebbe troppo. Ma io credo che essi parlassero degli enti, senza definire precisamente se l' oggetto del loro discorso fosse l' idea o l' ente reale; parlavano dell' ente, come si presentava alla loro intelligenza, senza farne ancora un' analisi accurata. Così appunto, a mio vedere, ne parlò Parmenide, senza discendere alla precisa distinzione fra il mondo ideale e il mondo reale dell' essere. Ora gli atomi, così considerati, altro non sono che indivisibili ; i quali nei tempi posteriori da alcuni si definirono idee, da altri si definirono realità corporee. Indi la divisione nelle due grandi scuole, fra le quali si divise l' antichità. Ma gli uni e gli altri confusero l' anima umana col loro termine. Quelli che determinarono l' ente, su cui si speculava, facendolo ideale, confusero il soggetto (l' anima) coll' oggetto, perchè l' essere, in quanto è ideale, è oggetto; quelli che lo determinarono facendolo reale e corporeo, confusero il soggetto coll' extra7soggetto, perchè il reale non è propriamente oggetto, ma semplicemente un' entità extrasoggettiva. Dovendo tuttavia questi ultimi spiegare in qualche modo la cognizione che ha l' anima umana delle cose, ricorsero alle immagini: ma facendo queste stesse della natura dell' anima, le confusero coll' anima stessa. Tennemann espone brevemente il sistema degli idoli di Democrito in questo modo: [...OMISSIS...] . Tuttavia neppure questo pensiero a lui esclusivamente apparteneva. Platone nel Menone ci attesta che lo stesso Empedocle faceva che dai corpi esteriori si movessero certe emanazioni, chiamate «aporroiai», ovvero «aporroai», quasi immaginuzze, le quali, entrando pei pori degli occhi, producessero la visione: che anzi Plutarco attribuisce questa dottrina alla stessa scuola pitagorica (3). Questo fu poscia il sistema di Epicuro. Dove si vede che la dottrina di tali filosofi intorno all' anima, contenendo errori diversi, può appartenere a diverse classi di sistemi erronei. Ma veniamo al sistema di Platone. PLATONE. - Aristotele nell' opera sull' anima, dopo riferito in qual maniera tutta materiale Democrito voleva che l' anima movesse il corpo, cioè come un corpo muove un altro corpo, gli aggiunge nello stesso errore Platone per le cose che questi dice nel « Timeo »; il che a me pare non altro che una delle solite calunnie, colle quali lo Stagirita suol deprimere il suo maestro, cogliendolo alle parole, e interpretando a rigore ciò che egli dice con istile allegorico, o in altro modo figurato. Che Platone non abbia sempre accuratamente distinto le idee dall' anima intellettiva, ma voluto che l' anima si componesse della similitudine di tutte le cose, questo mi sembra indubitato. E` un' eredità ricevuta dai filosofi, che lo precedettero. Il seme di questo errore è già in Parmenide, che aveva detto: [...OMISSIS...] . La dottrina di Empedocle era questa, come abbiamo visto, ed ella stava dinanzi alla mente di Platone. Nulla di meno Platone distinse qualche volta la mente dalle idee assai chiaramente. Così, nel « Primo Alcibiade », Socrate fa osservare che la ragione è lo strumento, ossia il mezzo, con cui egli ragionava, e non è lo stesso Socrate, ossia la stessa anima di Socrate ragionante. Al qual detto se fosse stato coerente, sarebbe pervenuto a trovare la propria natura dell' anima umana. Ma il nesso delle idee con noi è così intimo, che talvolta accade a Platone quello che ai suoi predecessori, di fare di due entità sì distinte una cosa medesima, cioè l' anima; e di ciò stesso potrebbe forse purgarsi, come diremo appresso, ma non dell' averne parlato in modo alquanto oscuro ed equivoco. Nel « Timeo » Platone comincia a descrivere la formazione dell' anima del mondo, dicendo che Iddio la compose di tre nature, cioè: 1) dell' essenza indivisibile, che è sempre la stessa; 2) dell' essenza divisibile, che è quella che poi si divide pei corpi, ed è quanto dire della materia prima, onde dovevano essere tratti i corpi, la quale è perpetuamente un' altra; 3) di una specie di essenza media, che tiene delle due prime. Delle quali tre cose commiste Iddio fece una sola e medesima cosa, cioè l' anima, che doveva poscia animare l' universo corporeo, congiungendo i due opposti, ciò che è sempre il medesimo e ciò che è sempre un altro, con potenza e con una cotal violenza, «bia». Se Platone avesse collocato l' essenza dell' anima in quel principio medio, che lega l' identico ed il diverso, non sarebbe andato lungi dal vero, poichè l' avrebbe collocata nel principio razionale, che fa appunto questo ufficio di legare insieme i due estremi del reale corporeo e dell' ideale. Ma facendo che l' identico stesso (l' essere ideale) fosse parte dell' anima, era un confonderla colle idee o cose divine, e così divinizzarla; come il volere che una sua parte fosse il diverso, cioè la materia corporea, era un confonderla coi corpi, e così materializzarla. Quindi Aristotele, cogliendo il sistema platonico intorno all' anima da quest' ultimo lato debole, cioè dall' averle dato un elemento che è sempre diverso, prima lo mise insieme con quello di Empedocle materialmente interpretato, e disse che faceva l' anima composta dei quattro elementi; poscia tolse altresì a farne un fascio con quello di Democrito, il che ha l' aria più di una satira che di una seria e grave censura. Ora, quanto al rimprovero che Platone componesse l' anima dei quattro elementi materiali, basterebbe a purgarlo questo luogo: [...OMISSIS...] . Ma poichè Platone fa che Iddio traesse l' anima in parte anche da quella natura che nei corpi si divide, «tes au peri ta somata gignomenes meristes», dobbiamo vedere se questa natura divisibile, di cui l' anima partecipa, sieno forse i quattro elementi materiali. Ora noi troveremo non essere punto così la cosa. Ma considerando ciò che egli ne dice nel Timeo, ci riuscirà indubitato che per lui questa natura era lo spazio, e il rilevar questo ci riuscirà non poco utile, e ridonderà in lode non piccola di quel grande uomo, il quale si dovette accorgere di quello che noi crediamo di avere dimostrato, essere cioè lo spazio un termine costante e naturale dell' anima umana (2). Egli dichiara che questa natura è « « il ricettacolo della generazione di tutti i corpi » »; il che conviene ottimamente allo spazio; poscia continua: [...OMISSIS...] . Ora qui, togliendo a dichiarare questa terza entità, necessaria a spiegare la costituzione del mondo, incomincia dal dimostrare che i quattro elementi si cangiano l' uno nell' altro, e però niuno di essi è per essenza o fuoco, o aria, o acqua, o terra; perchè se fossero tali per essenza, non si cangerebbero. Deve dunque esservi un quid sostanziale, che non sia niuno di essi, ma che possa diventare e fuoco, ed acqua, e gli altri elementi; e quel quid, non avendo alcuna forma determinata e visibile, non può essere, Platone così conchiude, che un' essenza intelligibile. [...OMISSIS...] . Dove alcuni credettero che così Platone descrivesse la materia prima; ma certamente non è, a meno che per materia prima non s' intenda l' intelligibile, ciò che è sempre identico (l' essenza sostanziale, confusa da Platone colla sostanza reale ); il cui opposto è ciò che è sempre da sè diverso, a cui passa il filosofo soggiungendo immantinente: [...OMISSIS...] . Fino a qui noi abbiamo descritti da Platone l' identico e il diverso, la sostanza (ideale e reale confuse insieme da lui) e i corpi formati (colle loro forme specifiche e individuali). Ora la natura, che Platone pone anteriore all' esistenza dei corpi, come un costitutivo dell' anima, non è nè l' identico, nè il diverso, nè le idee, nè il corpo ; che cosa è dunque? Lo spazio, noi dicevamo. Anzi è Platone stesso che lo dice espressamente nel periodo che seguita: [...OMISSIS...] . Egli dice con somma acutezza e proprietà che lo spazio « « senza senso di toccamento si tocca, opinabile in una cotal maniera adulterina » ». Dice « in una maniera adulterina », perchè l' opinione viene, secondo Platone, dai sensi (ella risponde alla nostra cognizione soggettiva ), ma lo spazio pure non si vede come cada sotto ai sensi; neppur si vede come si possa percepire coi corpi, giacchè esso non è corpo (1). D' altra parte essendo lo spazio, cioè l' estensione, il fondamento di ogni continuo anche corporeo, e il continuo non potendosi trovare semplice, quindi rimane che lo spazio debba appartenere alla forma dell' anima sensitiva, la qual forma è il sentito. Onde Platone dice, benchè oscuramente, qualche cosa di simile a ciò che propose Kant, quando questi chiamò lo spazio forma del senso esterno. Ma noi abbiamo veduto in che consisteva l' errore di Kant, cioè nel fare dello spazio una forma soggettiva, anzichè un termine del sentimento fondamentale (forma extra7soggettiva). Avendo dunque l' uomo, come essere sensitivo, la forma dello spazio a sè connaturale nel modo detto, accade che gli sia difficile a pensare cose immuni da spazio, perchè non può arrivare a ciò, se non adoperando il solo intelletto, senza che vi si associ menomamente la sua sensitività animale; il che gli riesce oltremodo malagevole, perchè di natura e d' abitudine suol fare il contrario. Onde egregiamente, e con una eleganza filosofica meravigliosa, secondo il suo solito, Platone soggiunge così: [...OMISSIS...] . Quella porzione dell' anima adunque, che non è identica, e nella quale come in una cotal matrice si fa tutto ciò che è un soggetto alla generazione, si è lo spazio , il quale è quindi a Platone come una cotal forma dell' anima sensitiva. Dunque nella composizione dell' anima platonica non entra corpo alcuno, nè elementi materiali, che questo filosofo replicatamente dice essere corpi, e perciò prodotti da Dio posteriormente all' anima (3). Ma veniamo all' altra censura, che fa Aristotele alla teoria dell' anima di Platone, tratta dal moto che questi le accorda. Convien dunque sapere che, movendo Platone dal principio dei Pitagorici, che « ogni simile si conosce pel simile », dall' aver egli composta l' anima di ciò che è essenzialmente identico, e di ciò che è essenzialmente diverso, e d' una media sostanza, che abbraccia in sè le due prime, tolse a spiegare come essa conosca le cose opposte, cioè sì quelle che sono per essenza le medesime, e sì quelle la cui natura consiste nel divenire continuamente altre da quel che sono; ella conosce le une e le altre in sè stessa, perchè ella ha la natura di entrambe (1). Ma poichè espresse questo pensiero, cioè che ella conosce tali cose, dicendo che le conosce col « rivolgersi in sè stessa », quasi a similitudine dei pianeti che ruotano sul proprio asse, «aute te anakyklumene pros hauten», Aristotele lo incolpò di spiegare i movimenti dell' anima alla guisa di Democrito, ricorrendo a un moto eguale a quello dei corpi da luogo a luogo, e così prese a tassarlo di errore. Veramente era questo un captare in verbo, era un cavillare; giacchè niuno meglio di Platone riconosceva la spiritualità dell' anima intelligente, che la faceva prodotta da Dio in tempo in cui non esistevano ancora i corpi, benchè la sua parte inferiore, cioè la sensitiva, voglia egli che sia fatta di quella natura divisibile circa i corpi, cioè di spazio. Ma neppure allo spazio attribuisce Platone veramente moto locale, somigliante a quello dei corpi, e però svanisce del tutto la censura aristotelica. Rimane dunque a vedere soltanto, se noi abbiamo fondamento di attribuire a Platone l' errore di confondere l' essenza dell' anima coi suoi termini. Intanto è indubitato che alcune espressioni platoniche contengono questo errore, come sono tutte quelle dove egli dice espressamente che l' anima risulta da tre nature. A ragion d' esempio, di Dio dice: [...OMISSIS...] . Vero è che gli uomini grandi, come Platone, non vogliono essere costanti nei loro errori. Però vi sono dei luoghi, in cui egli mostra di accorgersi che l' anima doveva propriamente dimorare in quell' essenza media, la quale da una parte tocca il mondo ideale, e dall' altra attinge lo spazio ed appresso il corpo, senza che questi suoi termini sieno essa stessa, ma sue condizioni essenziali, ond' ella non è senza di essi per la legge del sintesismo, di che facilissimamente con essa si confondono. Oltre al luogo citato del « Primo Alcibiade », il « Timeo » stesso ce ne somministra alcuni, dove la perspicacia del grand' uomo rasenta il vero. Nel luogo ultimamente addotto la sola media parte dell' anima è chiamata «usia» (1), benchè altrove chiami con questo nome anche le due parti estreme. La media viene detta partecipe delle due estreme, dimostrando con ciò che è dessa quella che costituisce l' unità dell' anima, e quella sola che, unendo nella sua unità l' identico e il diverso, può conoscere l' uno e l' altro (2). Ora quella che conosce l' uno e l' altro è l' anima; dunque, secondo Platone, l' essenza dell' anima non può essere collocata nelle parti estreme, nè propriamente in tutte e tre le parti, ma solo nella media, benchè questa sia legata con quelle estreme, non parti, ma propriamente termini, che non appartengono alla sua sostanza, ma ne sono condizioni; pure si dice che le appartengono solo perchè la media da esse riceve la condizione e l' atto di sua natura. Quindi quella che agisce in Platone è continuamente la media; ed io intendo che questa sia pure quella, che talora chiamasi da Platone ragione, in quanto ella è partecipe di ciò che è sempre eguale a sè stesso. Onde egli dice che la ragione, cioè questa sostanza dell' anima, partecipe dell' identico e del diverso, in quanto all' identico è unita, percependo il sensibile, cioè il diverso, si forma delle opinioni e delle persuasioni ferme e vere, «doxai kai pisteis gignontai bebaioi kai aletheis»; quando poi si volge a ciò che è razionale, cioè all' identico, allora si arricchisce di scienza, che ha per dote la necessità, «nus episteme te ex anankes apoteleitai» (3): i quali due modi di conoscere rispondono perfettamente alla ragione umana, «logos anthropinos», ed alla ragione divina, «logos theios», di Empedocle. Nel qual passo del « Timeo » più altre cose sono degne di osservazione. I) E primieramente merita che si osservi come Platone non attribuisca punto al sensibile cognizione di sorta, ma sì attribuisca alla ragione la cognizione anche del sensibile; nel che egli vide sagacemente quello che non videro i moderni filosofi tedeschi, che, dividendo la cognizione in empirica e razionale, attribuiscono la prima ai sensi, i quali cognizione alcuna non possono dare; e ciò perchè non si sono potuti giammai purgare affatto dal sensismo, ricevuto dal secolo alla lor propria insaputa, nè hanno potuto digerire il veleno, nè tampoco con quei potenti drastici, che sembrano essere le loro speculazioni trascendentali. II) In secondo luogo, quantunque Platone faccia l' anima composta anche di ciò che è sempre diverso da quello ch' era prima, acciocchè ella possa conoscerlo, giusta il principio che « il simile si conosce col simile », tuttavia egli non reputava bastevole che l' anima fosse sensibile per conoscere il sensibile, ma oltracciò richiedeva che avesse la ragione, che è il principio formale della cognizione dello stesso sensibile, e quella che contiene il simile ideale ; mentre il senso non contiene il simile, ma l' azione delle cose corporee. III) La differenza, che Platone assegna tra l' opinione o la fede e la scienza necessaria, non istà in questo, come alcuni credono, che la prima sia cognizione falsa od illusoria, e la seconda soltanto vera: che anzi alla prima, se rettamente è posta, egli attribuisce «doxai kai pisteis bebaioi kai aletheis». Onde questa eccellente distinzione risponde a quella che noi facciamo fra la cognizione relativa o soggettiva e la cognizione assoluta ; delle quali la prima ha per materia il sentimento mutabile, e la seconda un oggetto immutabile, benchè la cognizione stessa sì di quello che di questo sia immutabile. IV) Finalmente vuolsi osservato come Platone dica l' anima possedere il necessario e la scienza, allorquando la ragione si volge a considerare il razionale, «to logistikon»; dove si vede che il grande uomo non si era sollevato a conoscere che vi doveva essere una realtà, che tenesse la medesima necessità e immutabilità del razionale o ideale; e questo è il seme, già da noi additato, di tutti gli errori del sistema platonico, degenerante in un razionalismo, e ogni cosa promettente all' uomo dal freddo cielo delle idee. Nel libro IV della « Repubblica » Platone non parla delle tre parti dell' anima, ma insegna che « « nell' anima dell' uomo vi sono due cotali entità, l' una migliore e l' altra inferiore; e quando ciò che è migliore per natura domina su di ciò che è inferiore, allora si dice che altri è più possente di sè stesso, e così dicendo si loda; quando poi, a cagione della rea educazione o di qualche consuetudine, ciò che è migliore, essendo da meno, viene superato dalla moltitudine di ciò che è inferiore, di questo altri si vitupera come di cosa obbrobriosa; e si dice che egli è più debole di sè stesso » ». Nel qual luogo scompaiono, come dicevo, i due termini estremi dell' anima in quanto sono da essa diversi, e resta la sola parte media, che è veramente l' anima, la quale riceve da entrambi: e ciò che riceve da quello che ha natura immutabile è l' entità sua migliore, ciò che riceve da quello che ha per natura l' esser sempre diverso, è l' entità sua inferiore. Abbiamo veduto Aristotele rampognare Empedocle perchè, facendo egli che l' anima si componga dei quattro elementi e dei due principii, acciocchè, avendo ella in sè il simile delle varie cose, possa conoscerle, non provvide poi a fare che ella potesse conoscere altresì i composti, e le passioni ed azioni dei composti; i quali non potevano essere tutti nell' anima. Questa difficoltà Aristotele probabilmente l' aveva bevuta alla scuola di Platone. Infatti questi aggiunse ciò che mancava alla spiegazione empedoclea dell' umana cognizione. In primo luogo quello che rimaneva incerto od equivoco nelle sentenze di un filosofo, che aveva scritto in poesia, fu da Platone dichiarato; di poi quello che mancava fu aggiunto. In Platone rimane dichiarato come si dovesse intendere che « il simile si conosce pel simile », perocchè questo principio ha due sensi: il primo, che le cose si conoscono per le idee, che ne sono come le similitudini (1); il secondo, che chi conosce una data natura deve esperimentarla, riceverla o averla in qualche modo in sè stesso, nel proprio sentimento, senza di che gli manca la materia della cognizione, non ne può avere che un' idea vuota e generale. Entrambi questi due sensi sono veri. Il simile fa conoscere il simile, è principio vero sì applicato alla forma, e sì alla materia della cognizione. E quantunque questa illustrazione non si trovi con parole espresse in Platone, tuttavia si può raccogliere dai suoi detti, osservando che egli attribuisce alla ragione la formale cognizione anche dei sensibili, e che tuttavia egli esige l' anima sensibile come condizione, senza cui ella non potrebbe conoscerli. Quanto poi a ciò che mancava in Empedocle e che aggiunse Platone, sì fu l' aver questi veduto una verità bellissima e fecondissima, ed è che nell' anima umana vi sono ingenite le leggi dell' ordine e dell' armonia, e tali leggi che fanno eco a quelle dell' universo, onde avviene che ella possa intendere l' armonia di questo. Nè solo vi è l' armonia di distribuzione, ma quella altresì che nei movimenti ordinati e rispondentisi è contenuta, della quale un' espressione è la danza. Ed è indubutabile che l' anima non potrebbe sentire ciò che vi è di bello e di armonico nell' universo e nell' opera dell' arte, se ella stessa non ne avesse in sè il fondamento. Che anzi non si dà armonia meramente oggettiva, ma ogni armonia consiste in un rapporto dell' oggetto col soggetto, e nel soggetto dimora. E se a Dio piacerà che noi pubblichiamo quella parte dell' Agatologia, che intitolammo Callologia, di cui l' Estetica non è di nuovo che una parte, noi vedremo come la costituzione mirabile e profonda della sensibilità dell' anima sia il principio supremo di quest' ultima scienza, o parte di scienza (1). Platone adunque diede il movimento all' anima del mondo - a cui somiglianza egli fa poi l' anima umana - e anzi la fece moventesi da sè stessa, « «auto heauto kinun» (2) », e fece i suoi movimenti regolati dai tempi, e armonici, assomigliandoli in tutto a quelli dei corpi celesti. Disse che ella movevasi come due circoli l' uno dentro l' altro, che ruotano di continuo: l' esteriore e maggiore composto di ciò che è sempre identico ed immutabile, l' interiore di ciò che è sempre diverso da sè; e questo circolo interiore fu poi da lui diviso in altrettante orbite, quante sono quelle dei pianeti, che quell' anima doveva animare. Ed è pur da notarsi come Platone metta ciò che è sempre diverso da sè, la materia prima, dentro a ciò che è identico, e quindi dica aver poi Iddio entro l' anima fatti i corpi (3), ed ella in mezzo di sè (dove sono i corpi) stendesi via oltre i cieli, e li circonda ed avvolge (4). Onde, avendo egli descritta l' anima in continua rivoluzione intorno a sè medesima e di varie quasi sfere composta, Aristotele fu pronto ad assalirlo come d' assurdità, e, pigliando tutto materialmente, non gli fu difficile confutare una tale dottrina. Ma pigliandosi ragionevolmente quanto dice Platone, con quello stile animato e poetico di cui si compiace, si troverà aver quell' uomo grande veduto anche in ciò dei veri ammirabili. Perocchè noi interpretiamo così la sua descrizione dell' anima del mondo, e i circoli di cui la vien componendo, e gli armonici movimenti che egli le presta. I) L' esteso non può esistere che nel semplice, e quindi il corpo nell' anima; noi l' abbiamo provato. Ora questo è ciò che dice Platone, benchè l' apparenza sensibile mentisca il contrario. E in vero, cadendo il contenuto, cioè l' esteso corporeo, sotto i sensi esteriori, e non il contenente, cioè l' anima, sembra che questa si stia nascosta, quasi coperta da quello; ma pure, secondo la ragione delle cose, è il contrario. II) Quindi l' estensione si può considerare sotto due rispetti, o in sè stessa, o nel suo rapporto col principio senziente, appartenente all' anima. L' estensione in sè stessa è estesa per essenza, e possono essere segnati in lei parti, limiti, mutamenti di parti e di limiti, e movimenti. Ma il rapporto, che ha l' estensione col principio senziente, non è esteso, poichè è un mero rapporto di sensilità (1); onde in quanto l' estensione è forma del sentito, ella non è estesa, perchè è semplice il principio in cui si trova, nel qual principio anche ella nasce. Quindi si possono distinguere due estensioni, l' una extra7soggettiva e l' altra soggettiva. La estensione soggettiva è in un modo inesteso nell' anima, in quanto è sensitiva; e però, se s' intende in questo modo la dottrina platonica, niente vi è di assurdo che Platone dia all' anima del mondo l' estensione, e distingua in essa più circoli, il tutto rispondente alla forma dell' universo materiale che deve animare, e che è suo termine. Poichè così appunto avviene nell' anima umana, in quanto ella avviva il corpo, avendo certo in sè l' estensione dello stesso corpo, ma in un modo semplice, com' è detto; giacchè il sentire, a ragion d' esempio, in due pollici di corpo senso di dolore o di piacere è diverso dall' avere la sensazione in un pollice solo; poichè il termine della sensazione (il sentito) è più esteso nell' un caso che nell' altro, e quindi la sensazione stessa si dice più estesa. Ora, avendo l' animale quello che noi chiamammo sentimento fondamentale, il quale a tutto il corpo sensibile si estende, ed allo spazio illimitato altresì, convien dire che all' estensione extra7soggettiva risponda nell' anima una pari estensione soggettiva; ossia, il che è più esatto e conforme alla maniera onde s' esprime Platone, che alla estensione soggettiva che è nell' anima, risponda l' estensione extra7soggettiva, che è nel corpo percepito dai sensori esterni, e che questa si percepisca per quella a cui si commisura; poichè anzi questa esiste per quella, secondo il principio nostro che « l' esteso continuo esiste pel semplice, in cui dimora ». Se dunque si considera tutto l' universo al modo di Platone come un solo animale, conviene dire che nell' anima di quell' animale risponda un' estensione corporea pari, e così conformata, come è appunto l' estensione extra7soggettiva, che hanno i corpi, di cui si compone l' universo corporeo, diviso in circoli e sfere; e così appunto Platone descrive distinta l' estensione dell' anima. III) Ora, di ciò medesimamente consegue che, non essendo il moto altro che un cangiamento dei luoghi che i corpi occupano nell' estensione, debba esservi nell' anima un moto soggettivo, rispondente al moto extra7soggettivo proprio dei corpi; altrimenti questo movimento dei corpi non potrebbe in alcun modo essere percepito dall' anima; anzi neppure esisterebbe, perocchè il movimento è una mutazione nel continuo, e il continuo è formato dal semplice, dove solo può esistere. A torto, dunque, Aristotele tolse a censurare il suo maestro d' aver dato il moto all' anima. E pare che egli non abbia saputo distinguere l' estensione e il moto soggettivo proprio dell' anima, dalla estensione e moto extra7soggettivo proprio del corpo; e che Platone desse quell' estensione e quel moto all' anima del mondo, e non questo. Infatti nel « Fedro » distingue il moto proprio del corpo e il moto proprio dell' anima; e dalla natura del moto dell' anima ne deduce la sua immortalità, perocchè, egli dice, l' anima ha il moto interno, che è come sua natura, là dove il corpo lo riceve da fuori. Onde, se il moto è nella stessa natura dell' anima, questa natura deve essere sempre in moto, e quindi sempre viva, poichè ciò che si muove da sè è cosa viva (1). Di che si vede, e che Platone attribuisce all' anima la cagione, ossia il principio del propro moto (2), e che il proprio suo moto, secondo questo filosofo, è interamente diverso dal moto del corpo; giacchè questo moto extra7soggettivo, di cui il corpo è il subbietto, non può essere mai una natura, ma un accidente estrinseco; quello poi è natura, e ogni natura è stabile e ferma. IV) Ora, con questo moto interno dell' anima del mondo Platone spiega tutti i movimenti che accadono nell' universo, dove il grand' uomo dimostra d' aver veduto quel principio, che da tutta l' antichità fu consentito, e di cui noi ci siamo giovati in quest' opera: « il movimento dei corpi supporre un principio incorporeo, sensitivo o intellettivo ». Infatti le forze brute dei moderni, ammesse come una confessione d' ignoranza, possono passare; ma asserite siccome vere forze brute, cioè escludenti la sensitività, altro non sono che una produzione dell' immaginazione, sono l' ignoranza degenerata in temerità, che, abbigliata alla scientifica, pronuncia assurdi. Aristotele confuta con ragione la maniera onde Democrito e Filippo il Comico volevano che l' anima movesse il corpo; quelli pensavano che essa lo movesse come un corpo muove l' altro, e recavano in esempio la Venere fatta di legno da Dedalo, la quale movevasi per un cotal gioco d' argento vivo, che il fabbricatore vi aveva saputo congegnar dentro. Oppone Aristotele, che se con ciò si spiegherebbe il moto, non si spiegherebbe poi la quiete, cioè non si spiegherebbe perchè l' animale si rimettesse in quiete, e poi ritornasse a muoversi; al che è pur mestieri supporre che « « l' anima non muova così l' animale, ma per una cotale elezione ed intellezione »(1) »: dove ricomparisce il sensismo aristotelico, accordandosi l' elezione e l' intellezione all' animale. Ora, benchè egli metta insieme con quei due filosofi materialisti Platone, non osa però fare a questo la stessa obbiezione. Infatti Platone non fa che l' anima comunichi il movimento al corpo, come fa un corpo ad un altro, a cui lo comunica, rimanendone esso di tanto spogliato; non dà all' anima il moto solamente, ma di più le dà il principio del moto, «kineseos archen» e quindi la sorgente perenne di sempre nuovo moto. E come ogni potenza passa all' atto secondo certe sue leggi, così anche il principio, ossia la potenza del moto, passa all' atto giusta le leggi proprie, che hanno il loro fondamento pel moto sensibile nel corpo dall' anima informato, e pel moto intelligibile nell' essere universale, da cui è informata l' anima umana, ai quali due termini si riducono le due estreme parti assegnate all' anima da Platone. Quanto poi alla fatica, che si prende Aristotele di dimostrare che l' anima intellettiva non può avere grandezza corporea, e che « l' intellezione è piuttosto simile alla quiete e a un cotale stato che al movimento », ciò è verissimo, se è detto ad esclusione delle parti e del moto materiale; ma non tiene, se si parla di parti e di moti sensibili quanto all' anima sensitiva, e di parti e di moti ideali quanto all' anima intellettiva. Perocchè le stesse parti e gli stessi movimenti sono in un dato modo nella materia (con relazioni di parti e di luoghi), e in un altro modo nell' anima sensitiva (con relazione di sensilità), e in un terzo modo nell' anima intellettiva (con relazione di entità), come abbiamo dichiarato a suo luogo (2). I filosofi precedenti, che riposero l' essenza dell' anima nelle idee, la deificarono, perchè gli antichi non erano giunti a distinguere fra Dio e l' idea. Avendo questa caratteri divini, e avendola confusa coll' anima, ne veniva la spontanea conseguenza che le anime fossero altrettante deità. Perciò questi filosofi appartengono tanto alla terza classe di sistemi erronei intorno alla natura dell' anima, quanto a questa quarta. L' errore originario di un così fatto sistema giace nella confusione fra l' oggetto dell' intelligenza, l' ente intelligibile, coll' intelligenza o mente che lo intuisce. Questo è il soggettivismo, cioè quel sistema che dichiara l' oggetto pensato modificazione del pensiero; è l' errore di Galluppi, l' errore più comune dei nostri tempi, anzi universale, il tristo legato del sensismo. Vero è che i soggettivisti che riducono l' oggetto, l' idea, la verità, ad essere un elemento accidentale o sostanziale dell' anima, non deducono tutti egualmente le conseguenze spaventevoli, che esso racchiude nel suo seno; molti non le vedono per mancanza di penetrazione sufficiente; altri, atterriti dalle conseguenze, si fermano a mezzo la via, o mediante cavillazioni inconseguenti si sforzano di declinarle; ma avendo il protestantesimo tolto a filosofare, egli senz' alcuna tema le dedusse tutte fino all' ultima in Germania; scomparve la religione, rimase il razionalismo. Il soggettivismo dei Platonici alessandrini intorno all' anima intellettiva è a sufficienza delineato in questo brano di Porfirio: [...OMISSIS...] . Prova poi che la mente è il medesimo delle cose percepite, da questo, che ella le considera in sè stessa, a differenza del senso e dell' immaginazione: [...OMISSIS...] Noi non vogliamo osservato in questa dottrina se non la confusione fra la mente e le cose dalla mente concepite. Vogliamo posta attenzione alla ragione, che si adduce, per conchiudere che le cose dalla mente concepite e la mente sono il medesimo. Tutta la ragione di una tesi così opposta al senso comune, cioè che la mente sia le cose percepite, si riduce a questa: « Le cose percepite dal senso sono esterne, dunque non sono il senso; le cose percepite dalla mente sono interne, dunque sono la mente, dunque ella le percepisce considerando sè stessa, e se cessa dal considerare le sue funzioni, niente affatto intende ». Ma chiunque fa uso di una tranquilla osservazione interna per rilevare accuratamente il fatto, trova che questa ragione è affatto insussistente e vana. E di vero: I) Dall' essere l' oggetto della mente interno non ne viene affatto che egli sia la mente. Acciocchè si potesse così conchiudere, converrebbe aver provato che non vi sia nulla d' interno, eccetto la mente; converrebbe aver provato che sia assurdo che una cosa incorporea inesista in un' altra pure incorporea; il che non si prova, nè si può provare. II) La parola interno applicata all' oggetto della mente è male usata, perchè significa una relazione locale di corpo a corpo; là dove l' oggetto della mente non è, propriamente parlando, nè fuori nè dentro di alcun corpo, non occupando alcun luogo nello spazio, e perciò essendo privo al tutto di relazioni locali. III) Se per interno s' intende unito colla mente, in tal caso si accorda che gli oggetti intuiti o percepiti dalla mente sieno, al loro modo, uniti colla mente; ma l' essere uniti colla mente esprime un concetto al tutto diverso da quello di essere confusi e identificati con essa. IV) Di più, se per cosa interna s' intende cosa unita, in tal caso non è vero che il termine del senso sia esterno, perocchè il termine del senso non può essere sentito o percepito, se non è unito col principio senziente; che anzi il termine del senso è così unito al principio senziente, che il senziente, sentendo o percependo, non fa un atto pel quale lo distingua da sè, non sentendo o percependo altro che il proprio termine, e sè stesso nel termine formante un unico sentimento; all' incontro l' oggetto della mente è unito alla mente, in modo che la mente non può intuirlo o percepirlo se non come oggetto, non solo distinto da sè, ma opposto a sè soggetto. L' illusione che fa credere che il senso percepisca gli oggetti da sè distinti o, come dicono i nostri filosofi, esterni, nasce da questo: 1) Che i corpi diversi dal nostro sono esterni al nostro; ora si confondono gli organi sensori, che appartengono al nostro corpo, col principio senziente che è l' anima. E poichè i detti corpi sono esterni ai nostri organi sensori, quelli si dicono esterni al principio senziente, che non è corpo. Dove non si riflette: a ) che prima di sentire i corpi esterni sentiamo col sentimento soggettivo e fondamentale il nostro proprio corpo, termine immediato del senso; b ) che i corpi esterni non li sentiamo se non uniti al nostro, per l' azione che esercitano nel nostro; la quale azione ha sua sede nel nostro proprio corpo e non nei corpi esterni, e però è così immediatamente unita al principio senziente, come è unito il nostro proprio corpo soggettivo. 2) Nasce ancora dai fenomeni della vista, pei quali pare che noi percepiamo col senso i corpi lontani; e dai fenomeni del moto attivo, pel quale ci avviciniamo ai corpi lontani. Ora la teoria di questi fenomeni non era ancor trovata al tempo degli Alessandrini. Ma noi abbiamo spiegato tali fenomeni ricorrendo: a ) allo spazio illimitato, termine immediato del sentimento fondamentale, b ) all' associazione delle sensazioni e ai giudizi, che nell' uomo vi si mescolano (1). V) Che se si considera che non solo il senso, ma ancora la mente percepisce i corpi esterni al nostro, l' argomento che si adduce perde fino l' apparenza di verità: poichè è anzi la mente, e la mente sola che possa pensare le cose lontane, mentre il senso non percepisce che quelle che gli sono presenti, e seco unite col rapporto di sensilità. Che se si tratta di esseri puramente ideali e possibili, o spirituali, questi, come dicevamo, non sono in alcun luogo, e però nè esterni, nè interni, nè lontani, nè vicini. VI) Che se il trovarsi l' oggetto unito, o per dir meglio presente alla mente, non involge nessuna logica necessità che il soggetto, cioè la mente, debba identificarsi coll' oggetto, e che quindi ella sia il proprio oggetto; che cosa si dovrà fare, secondo il buon metodo di filosofare, per verificare se ha luogo questa identificazione sì o no? Nient' altro se non vedere coll' accurata osservazione come il fatto avvenga, e verificato bene il fatto, non volerlo distruggere col raziocinio, secondo il logico assioma che contra factum non datur argumentum . Il fatto dunque da verificarsi è questo: « se la mente quando pensa una montagna, una pianta, un bruto, ecc., reale o possibile, creda ella di pensare sè stessa, e conseguentemente se ella creda di essere quella montagna, quella pianta, quel bruto, ecc., reale o possibile, che pensa ». Non vi è nessuno fuori degli ospizi dei mentecatti, che a questa domanda non risponda negativamente. I soli filosofi sono quelli che, volendo fare da maestri alla mente umana (forse per averne essi un' altra diversa dall' umana), dicono o vengono a dire così: « Non possiamo negare che la mente quando pensa la montagna, la pianta, il bruto reale o possibile, creda di pensare cose diverse da sè, e di tutt' altra natura; ma ella s' inganna, non pensa mai se non sè stessa, non pensa che le proprie modificazioni, le proprie funzioni ». Ebbene, signori filosofi, ascoltatemi un poco: se la mente che crede di pensare la montagna, la pianta, il bruto, ecc., e non sè stessa, pensa tuttavia sè stessa, come voi dite, almeno dovete concedere che non sa di pensare sè stessa, appunto perchè crede di pensare tutt' altro, cose grandemente da sè diverse. - Non può negarsi. - Dunque pensa sè stessa senza saperlo. - Così è. - Il pensiero di sè stessa è dunque un pensiero, che non ha coscienza di sè. - Appunto. - All' incontro ella sa di pensare, ha coscienza di pensare cose al tutto diverse da sè, sia poi che s' inganni o no in questa scienza o coscienza che ha del suo pensiero. - Certo. - Ora, si può sapere, aver coscienza di pensare una cosa senza pensarla? Per esempio, se voi sapete, ossia avete coscienza di pensare il diavolo, è possibile che voi crediate o sappiate, o abbiate coscienza di pensare propriamente il diavolo, senza che abbiate nessuna idea del diavolo? - Davvero no. - Oppure che crediate di affermare il diavolo, e vi persuadiate che il diavolo è un essere reale, senza che facciate veruna affermazione? - No, di nuovo. - Dunque se la mente vostra crede, sa, è conscia di concepire e di pensare il diavolo, pensa veramente il diavolo, e lo pensa come cosa diversa da sè. Che se voi, a malgrado di ciò, volete persuadere a voi stesso che quando pensate veramente il diavolo come cosa da voi diversa, v' ingannate del tutto, ma pensate unicamente voi stesso, deh badate che con ciò non fate altro se non limarvi il cervello per persuadere a voi stesso che voi siete il diavolo, o secondo un' altra delle vostre scuole, che « il diavolo è una modificazione o una funzione dell' anima vostra ». E` dunque più chiaro del sole che il preteso argomento dei soggettivisti, che confonde gli oggetti dell' intelligenza colla stessa intelligenza, è un ridicolo paralogismo, un sofisma temerario, con cui quei filosofi tolgono ad impugnare i fatti più manifesti della natura, a distruggere la coscienza del genere umano, e con un preteso ragionamento della mente a distruggere l' autorità del ragionamento e le testimonianze della coscienza intellettiva, che di ogni ragionamento è la base. Eppure questo errore è il perpetuo labirinto della filosofia; e mi fa uscire di me stesso dallo stupore, pensando che io non conosco scrittore anteriore al 1.27, che, entrato in questo argomento, abbia saputo pienamente spacciarsene e rompere questa tela di ragno. Ora, io qui ho creduto di stendermi a ripetere ciò che ho detto tante volte altrove (1), mosso dal dolore che mi preme, al vedere che il soggettivismo, che nell' accennato sofisma tiene le radici, è ancora universale anche nella nostra Italia; e indi i tanti funesti e mostruosi errori, che deformano e infamano la filosofia; errori oggimai svolti e dedotti logicamente fino alle ultime loro propaggini, come dicevamo. L' ultimo di questi errori, il più maturo frutto del soggettivismo, già l' accennammo, è la deificazione dell' anima, l' antropolatria, il panteismo psicologico. Facciamo in breve la storia di questo obbrobrio, di cui va svergognata la scienza, o piuttosto l' ignoranza orgogliosa e luciferina; e dei gradi pei quali ella discese giù in codesta sede dei demoni, ove ora si giace e si tormenta. L' errore originale e primitivo, onde vennero tutti gli altri, è l' accennato: l' abuso di questi vocaboli interno ed esterno, fuori e dentro, trasportati dai corpi all' anima; e quindi il principio che « l' anima nulla può conoscere fuori di sè stessa ». Vediamo come serpeggiò questo errore ed avvelenò la filosofia, la quale non può essere sanata fino che non si purghi affatto e digerisca il potente veleno, che le strazia mortalmente i visceri. BERKELEY. - Egli aveva detto che la nostra cognizione dei corpi si riduce alle sensazioni, che le sensazioni non sono che modificazioni dell' anima; che dunque i corpi non sono che modificazioni dell' anima stessa: Idealismo estetico . - Gli errori di questo ragionamento sono: 1) Il sensismo, errore che abolisce il pensiero. Infatti se si ammette il pensiero, cioè se si ammette che il corpo si percepisca dall' intelligenza come un ente da noi distinto, qualunque cosa sieno le sensazioni, rimane sempre vero che il concetto di un corpo è tutt' altro dal concetto delle modificazioni dell' anima; e però non si può confondere l' oggetto di quel concetto, che tutto il modo esprime colla parola corpo, col concetto delle modificazioni dell' anima propria. 2) La dottrina del sentimento imperfetta e mozza; poichè il sensismo lokiano, seguito da Berkeley, conosce le sole sensazioni acquisite, con cui si percepiscono i corpi extra7soggettivi, ed ignora il sentimento fondamentale, con cui si percepisce il corpo soggettivo. Di più, in quel sistema non si distingue fra il principio senziente e semplice, e il termine del sentimento esteso; e quindi non si può conoscere la dualità, che è essenziale ad ogni sentimento corporeo. Se si fosse conosciuta questa dualità, e che l' anima non è che il principio senziente, non si sarebbero già definite le sensazioni mere modificazioni dell' anima; anzi si avrebbe riconosciuto che in ogni sentimento corporeo, in ogni sensazione vi è una sostanza diversa dall' anima stessa, che agisce a suo modo nell' anima. Ma non distinguendosi il termine dell' anima dall' anima, si ridusse quello a questa; e si confuse e identificò il termine col principio, dicendo che quello era una mera modificazione di questo. HUME. - Ammesso il sensismo lokiano, cioè ammesso che le idee si riducono alle sensazioni ed ai sentimenti soggettivi, e ammesso che le sensazioni sono mere modificazioni dell' anima, Hume ne dedusse conseguentemente che anche le idee e i principŒ della ragione, che nelle idee si contengono, non sono che modificazioni dell' anima, e quindi che non hanno forza di provare l' esistenza di alcuna cosa fuori dell' anima, nè quella dei corpi, nè quella di Dio, ecc.: Idealismo razionale . - Gli errori generatori di questo sistema sono i medesimi, ma già producono una conseguenza di più; chè di vero Berkeley, fermandosi ai corpi, ed ammettendo l' esistenza di Dio e degli spiriti, era inconseguente. Ora, nell' essere Hume meglio conseguente all' errore, egli dovette impugnare un' altra verità, cioè « la differenza e l' opposizione che passa fra l' oggetto della mente e la mente che lo intuisce »; dovette chiudere gli occhi a questa patentissima verità di fatto, che « quando la mente pensa un oggetto possibile, per esempio una torre possibile a costruirsi, ella non pensa sè stessa, nè pensa una sua modificazione; anzi pensa cosa di natura diversa ed opposta alla natura propria ed alla natura delle proprie modificazioni; e questo oggetto, a cui ella pensa, non è tuttavia un nulla, perchè il nulla non è una torre possibile ». REID. - Atterrito da conseguenze così assurde e funeste, Reid volle tornare al senso comune, riconoscendo pienamente che gli uomini quando pensano i corpi, o le idee ed i principŒ del ragionare, non credono di pensare a sè stessi o alle proprie modificazioni, nè per vero ci pensano. Ma non sapendo come rispondere direttamente al paralogismo che serviva di base a tali errori, cioè che « l' anima non può uscire di sè, e perciò non può pensare che sè stessa, e quanto accade in sè stessa », invece di sciogliere il nodo, lo tagliò, dicendo che « « l' anima veramente percepisce e pensa cose da sè diverse, ma lo fa mediante certe leggi primitive e istintive della propria natura » »: Soggettivismo realistico . - Questa dottrina ammetteva il fatto, attestato dal senso comune, che l' anima pensa cose diverse da sè; ma non soddisfaceva, perchè non rispondeva al sofisma fondamentale opposto, anzi lo confermava. E nel vero: 1) Le leggi soggettive e istintive, che introduceva, erano introdotte ad arbitrio, non avevano alcuna prova. 2) Quelle leggi e quegli istinti, che si voleva movessero la natura umana a pensare cose esterne, essendo diversi dalla ragione, erano ciechi, e non potevano porgere la dimostrazione della propria veracità ed autorità di testimoniare cose diverse dall' anima; indi la loro testimonianza poteva essere illusoria; anzi doveva esser tale, dal momento che l' uomo si sottraeva alla guida della ragione per affidarsi ad un' altra guida, che si dichiarava non essere la ragione. 3) Finalmente, se l' uomo pensava le cose diverse da sè per leggi istintive della propria natura, queste stesse cose dovevano essere considerate come produzioni della natura umana; gli oggetti dunque del pensiero venivano dall' uomo, nè l' uomo poteva più assicurarsi che gli fossero dati altronde da percepire. KANT. - Queste osservazioni non isfuggite a Kant, gli fecero concepire il suo sistema. Egli ammise le leggi e gli istinti soggettivi di Reid, e ritenne la dottrina di Berkeley e di Hume, prendendo quelle leggi a spiegazione di questa. Disse non potersi negare che l' anima non possa uscire di sè, dunque conoscere tutto in sè stessa; ma non potersi neppur negare che il senso comune ammetta che l' uomo conosca cose diverse da sè; dunque tale credenza dover essere un necessario effetto delle leggi soggettive indicate da Reid, senza che queste avessero alcuna efficacia a provare la verace esistenza di cose diverse dall' anima. Credette dunque che altro non rimanesse a fare alla filosofia, per condursi alla perfezione sulla via in cui erasi incamminata, se non di determinare quali sieno queste leggi soggettive, desumendole dall' accurata enumerazione ed analisi degli oggetti, che per esse l' uomo ammetteva. Così nacque la dottrina delle forme kantiane, degli schemi e delle antinomie: Criticismo (idealismo razionale ridotto in sistema ). - Gli errori, che partorirono il criticismo, sono i precedenti, non saputi dal filosofo confutare, bensì saputi con ingegno non comune sistematizzare. I quali errori ingrandiscono nelle sue mani appunto perchè ridotti in un corpo, di cui tutti gli organi sono divisati. Kant solamente aggiunse che il non potersi coll' umana intelligenza dimostrare l' esistenza di alcun ente diverso da essa, non toglie che non ve ne possano essere; non se ne poteva dimostrare l' esistenza, nè negare. REINHOLD. - Come Reid aveva tentato in Inghilterra di rimuovere dalla filosofia le funeste conseguenze dei sistemi di Berkeley e di Hume, senza poter disciogliere il sofisma che loro serviva di fondamento, così Reinhold tolse a fare in Germania rispetto alle orribili conseguenze del criticismo. Egli dunque incominciò, al pari dello Scozzese, ad accordare imprudentemente a Kant le fatali sue premesse. Poi ragionò press' a poco così: « Il subbietto rappresenta a sè stesso gli oggetti. Ora data questa innegabile facoltà della rappresentazione, vediamo coll' analisi ciò che essa racchiude. La facoltà rappresentativa suppone tre concetti: 1) il soggetto rappresentante; 2) l' oggetto rappresentato; 3) la stessa rappresentazione. Tutto ciò mi attesta la coscienza di me stesso. Se dunque esiste la rappresentazione, il che non si nega, deve esistere anche l' oggetto rappresentato ed il soggetto rappresentante come sue condizioni »: Sistema della rappresentazione . - Ma era facile rispondere, ammesso e non impugnato l' errore primitivo e originale, che tutte queste distinzioni erano fenomeniche, prodotte dalle leggi a cui ubbidisce il soggetto nel suo operare. Il che Reinhold medesimo poscia riconobbe; riconobbe che il suo ragionamento, acciocchè avesse forza, presupponeva la verità di quell' oggetto che si trattava di dimostrare. Laonde disperato della ragione, la abbandonò, sperando di trovare una guida migliore nella fede di Jacobi, che somiglia a quella degli Scozzesi. Gli errori generatori del sistema di Reinhold sono dunque i precedenti, a cui s' aggiunse uno suo proprio; non perchè non lo professassero anche quelli che lo precedettero, ma perchè sopra di esso Reinhold fondò il suo sistema. Questo errore si è il credere che l' intelligenza percepisca gli oggetti unicamente per via di rappresentazione, intesa per un ritratto di essi. Se ciò fosse, non si potrebbe declinare il soggettivismo e lo scetticismo, perocchè niuna rappresentazione può da sè stessa far conoscere gli oggetti, se non si sa che ella li rappresenta, e che ella li rappresenta fedelmente. Ora, questo non si può sapere, se non confrontando la rappresentazione cogli oggetti rappresentati; al che fare conviene conoscerli, mentre si tratta di spiegare appunto come si conoscono; ovvero venendone assicurati da qualche testimonianza infallibile, e quindi supponendo l' esistenza di un infallibile testimonio diverso dall' anima, quando si tratta pure di cercare come si possa conoscere qualche cosa, che sia veramente diverso dall' anima. Il vero si è che gli oggetti sono presenti immediatamente all' intelligenza, sieno essi ideali o reali (sentiti), perocchè l' ente è il proprio ed immediato termine dell' anima intellettiva (1). FICHTE. - Riuscito male il tentativo di Reinhold, come era riuscito male il tentativo di Reid, il soggettivismo senza intoppi seguì il fatale suo corso. Fichte, ammettendo come i precedenti, per argomento efficacissimo il sofisma originale e primitivo, che l' anima non possa conoscere che sè stessa, scartò la possibilità lasciata sussistere da Kant di enti distinti dall' anima, che era veramente un' inconseguenza; giacchè se tutte le cose concepite dall' uomo sono un risultato delle forme soggettive, nessun' altra ne può rimanere, perchè l' intelligenza umana s' estende in qualche modo a tutto, al finito non meno che all' infinito. Compose adunque un sistema del più coerente soggettivismo. Riassumiamo ciò che s' era fatto sino a lui. Si era incominciato a cercare come l' uomo conosce le cose diverse da sè. La filosofia aveva ereditato dai maggiori uno speciosissimo pregiudizio, che l' uomo le conosce per via di rappresentazione. Gli idealisti inglesi avevano dimostrato che ciò era impossibile, e però conchiusero che l' uomo nulla conosce di diverso da sè; dal nulla conoscere passarono, per logica conseguenza, a negare l' esistenza di tali cose. Gli Scozzesi avevano detto che questo è un paradosso impossibile a sostenersi, perchè va direttamente contro all' autorità di tutto il genere umano. Kant diede ragione agli Scozzesi con un cotale scherno [schema] suo proprio, dicendo che non si potevano negare gli enti diversi dall' anima, ma d' altra parte essi non potevano essere che produzioni dell' anima. Gli istinti conoscitivi degli Scozzesi Kant li tramutò in istinti produttivi; nè Reinhold aveva saputo opporre che sforzi di buona volontà alla critica della ragione pura. Kant s' era occupato a distinguere, classificare e descrivere accuratamente tutti gli istinti, o leggi soggettive, o forme, come egli le chiama, dello spirito; colle quali lo spirito compone a sè stesso le proprie cognizioni, i propri oggetti. Non restava che a distinguere, classificare e descrivere gli oggetti stessi sommari, che lo spirito colla portentosa attività che gli si attribuì (del tutto per altro gratuitamente) produceva a sè stesso; e l' opera fu assunta a farsi da Fichte. Kant descrisse e anatomizzò la potenza, che ha lo spirito di produrre a sè stesso gli oggetti; Fichte considerò l' atto di questa potenza, e gli oggetti stessi già prodotti da esso. L' Io, che Kant aveva posto come il vincolo di tutte le rappresentazioni, e che Reinhold aveva fatto sinonimo di coscienza, divenne per Fichte l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose. Questo era un passo immenso che dava il soggettivismo verso il suo ultimo sviluppo; con un tal passo si rivelava già la faccia dell' abisso, in cui un tale sistema conduceva necessariamente i suoi seguaci. Perocchè se l' Io è l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose, egli è il Creatore, è Dio. Eppure questo passo, a cui il soggettivismo fu spinto dalla logica imperterrita di Fichte, non si poteva evitare dopo i precedenti. Vediamo come questo filosofo dell' alta Lusazia movesse il suo nuovo creatore alla grande opera della produzione dello scibile e dell' universo. Egli cominciò dal dire che l' Io pone sè stesso ; questo è il primo atto. Se questa proposizione l' Io pone sè stesso fosse usata a significare unicamente il primo atto immanente dell' Io, non si potrebbe riprendere; perocchè ogni cosa in quanto fa l' atto con cui è, pone in qualche modo sè stessa, potendosi considerare il passaggio dal non essere all' essere come una cotal via, per la quale viene a naturarsi la cosa: via che è percorsa senza successione di tempo con atto unico, ma tale in cui si possono colla mente discernere più gradi ab imperfecto ad perfectum, siccome solevano concepire il moto all' esistenza gli Scolastici stessi. Ma non così spiega Fichte il suo detto, ma vuole che l' Io ponga sè stesso pronunciando questa proposizione: « Io sono Io ». La qual maniera di spiegare come l' Io ponga sè stesso, è manifestamente assurda: 1) Perocchè quando il principio intelligente ha pronunciato il solo monosillabo Io, indubitatamente esiste, senza bisogno che egli aggiunga: sono Io . Onde con quella proposizione l' Io porrebbe un Io che già è posto; ella dunque esprime l' atto, con cui l' Io riflette sopra sè stesso, e non l' atto con cui l' Io esiste. Da questo primo errore procede che in tali sistemi la coscienza, opera della riflessione, accompagna sempre l' Io: il che è evidentemente falso, perocchè l' Io non ha sempre attuale coscienza di sè stesso. 2) Ho detto che il principio intelligente, quando ha pronunciato questo monosillabo Io, senza più, non può non esistere. Ma non basta. Potrebbe l' Io pronunciare sè stesso, cioè fare un atto, se non esistesse già precedentemente? Niuno fa atti prima di esistere. Dunque il pronunciare Io suppone l' esistenza anteriore dell' Io. L' Io dunque non pone sè stesso nel senso di Fichte. La ragione, per la quale questo filosofo ruppe in tali assurdi colla prima parola della sua filosofia, si fu che egli prese l' Io bello e formato, qual' è nel sentimento d' un uomo adulto, non ne analizzò il concetto, e non s' accorse che questo concetto era un elaborato della riflessione, e che non conteneva solamente l' anima umana, ma l' anima già svolta e pervenuta alla coscienza di sè; quando anteriormente a quest' anima, conscia di sè, vi è pure la stessa anima, che per essenza sua è principio ed individuo razionale, come noi abbiamo mostrato nella « Psicologia ». Ed è costante, che una delle cose più difficili a cogliere, per coloro che prendono a filosofare, è quello stato dell' uomo che precede la coscienza; eppure in questo stato è da cercarsi la natura umana, giacchè la coscienza non è naturale all' uomo, ma acquisita. Intanto coll' atto col quale l' Io pronuncia Io sono Io, secondo Fichte, l' Io ha posto il primo dei suoi oggetti, cioè sè stesso . Il vero però si è che l' Io con questo atto non ha posto sè stesso, ma solo si è conosciuto riflessamente, e che perciò la propria esistenza non dipende dall' atto con cui l' anima si conosce, perchè anzi questa cognizione suppone dinanzi a sè l' anima, oggetto della cognizione. Vediamo come Fichte fa che l' Io produca il secondo dei suoi oggetti sommari. L' Io fa un altro atto, con cui dice: Io non sono il Non7Io . Ottimamente: distingue sè stesso da tutto ciò che non è lui. Ma questo atto non è ancora che un atto di conoscimento, non produce cosa alcuna, anzi è un atto che distingue due cose, l' Io e il Non7Io; le quali non potrebbe distinguere, se già non fossero. La cognizione suppone dinanzi a sè l' esistenza (possibile o reale) della cosa conosciuta. Eppure questa evidentissima verità è quella che sfugge al filosofo pregiudicato; e suppone di nuovo gratuitamente che il conoscere e il distinguere sia il produrre. Il secondo oggetto adunque prodotto dall' Io, nella supposizione di questo filosofo, è tutto ciò che non è l' Io, e che sotto la parola negativa Non7Io acconciamente si comprende. Veniamo alla produzione del terzo oggetto. L' Io fa un terzo atto pronunciando: l' Io e il Non7Io sono nell' Io . Se fosse vero che l' Io non è altro che la produzione dell' atto con cui si conosce l' Io, e se fosse vero che il Non7Io non è del pari altro che la produzione dell' atto con cui si conosce il Non7Io, in tal caso sarebbe vero che l' Io e il Non7Io, ridotti ad essere due atti conoscitivi, sono nell' Io. Ma se è vero che niuno può conoscere e pronunciare sè stesso esistente, se prima non esiste indipendentemente da tale atto; e se è vero del pari che il Non7Io non si può conoscere o pronunciare esistente, se allo stesso modo prima non esiste; è altresì evidentemente vero che l' Io e il Non7Io non sono nell' Io. Ma nell' Io solamente sono gli atti con cui tali enti si percepiscono, i quali atti sono accidenti dell' Io; e in un altro modo sono nell' Io anche i concetti di quegli enti, non come accidenti dell' Io, ma da lui distinti per natura, come suoi oggetti. Ricorre adunque in Fichte una continua confusione fra la cognizione e l' esistenza delle cose, sempre l' antico errore di Parmenide: «to gar auto noein esti te kai einai». - Ci si dirà: « Per voi non esiste se non ciò che conoscete ». - Sia pure: ma se io conosco una cosa, io so in pari tempo che la cosa esiste indipendentemente dall' atto con cui la conosco; perocchè il concetto di conoscere involge necessariamente il concetto di una entità conoscibile, logicamente anteriore a quell' atto. Onde io non posso conoscere una cosa, se non a condizione che conosca altresì ch' ella è indipendente dal mio conoscere; altrimenti io direi una proposizione contradittoria, dicendo che conosco una cosa che non esiste se non in virtù dell' atto col quale la conosco, e però posteriormente a quest' atto (nell' ordine logico). O conviene negare il principio di contraddizione e d' identità, su cui si fonda lo stesso sistema di Fichte, o confessare che al conoscere dell' uomo precede logicamente l' esistenza della cosa conoscibile, e che perciò il conoscere umano e l' esistere non si identificano, anzi si distinguono per modo che senza tale distinzione il conoscere non è più possibile. Ma acciocchè si veda meglio quanti paralogismi involga questo sistema, riprendiamo ciò che io ho fin di troppo conceduto. Ho conceduto che se l' Io e il Non7Io altro non sono che atti di conoscere e concetti conosciuti, questi si possono trovare insieme nell' Io, come pretende Fichte. Ma io ho conceduto questo ad abundandum . A giusta ragione non dovevo concederlo. Avverto adunque che il filosofo nostro in quella sua proposizione muta il significato del vocabolo Io, perocchè dicendo che l' Io e il Non7Io sono nell' Io, egli prende l' Io e il Non7Io contenuti come due concetti formati dall' atto del conoscere; ma egli prende all' opposto l' Io contenente non già come concetto prodotto, ma nel senso volgare, come un ente reale, una intelligenza, in cui sono i concetti. Senza di ciò la proposizione non ha senso alcuno; perocchè se anche per l' Io contenente s' intende il mero concetto dell' Io, è assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto dell' Io, perchè non sono due cose, ma una medesima; ed è ancora più assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto del Non7Io, perocchè l' un concetto esclude l' altro per la stessa loro enunciazione. Onde il filosofo mescola e confonde l' Io, da lui prodotto per via di speculazione, coll' Io reale, nel quale solo dimora la cognizione di sè stesso. Ma l' ammettere un Io reale, anteriore all' Io concetto e riflesso, è la distruzione del sistema che si vuole stabilire, il quale si propone di ridurre ogni cosa ad idee o concetti. Mediante tale confusione adunque di significati attribuiti al vocabolo Io, conchiude che l' Io fa un' equazione col Non7Io, in quanto che si trovano nel medesimo Io, di cui sono egualmente produzioni, e però si radicano e immergono nello stesso atto primitivo dell' Io. Così gli oggetti supremi dello scibile e dell' universo sono tre: l' Io che pone sè stesso, l' Io che pone il Non7Io, l' Io che fa un' equazione tra l' Io e il Non7Io. Ma: In questi tre oggetti il valore della parola Io cangia sempre, come dicevamo, perocchè l' Io producente non può essere l' Io prodotto, giacchè producente e prodotto sono concetti opposti; l' Io, nel quale l' Io e il Non7Io fanno equazione, non può essere lo stesso Io che costituisce un termine dell' equazione, perocchè ciò che contiene i due termini non può essere uno dei due termini. Se l' Io produce il Non7Io, dunque produce ciò che non è Io, produce un' entità diversa da sè; egli dunque od esce colla sua attività da sè stesso, ovvero, senza uscire da sè stesso, produce un' entità che non è lui stesso. Il che è ben evidente, poichè l' Io e il Non7Io sono opposti; e non possono dichiararsi la cosa identica senza pugnare col principio di contraddizione, giacchè il sì e il no non si potrà mai dire che significhino lo stesso. Che se l' Io produce un' entità diversa da sè, dunque il celebre sofisma, su cui si regge tutto l' idealismo trascendentale, se ne è ito a terra, rimanendo conceduto che l' Io può uscire da sè stesso cogli atti suoi, può creare qualche cosa di diverso da sè e di opposto a sè, qualunque cosa poi ella sia (1). Vera equazione fra l' Io e il Non7Io non si potrà far mai, se non si mutano i significati di tali espressioni, perchè i contrari, dei quali l' uno esclude l' altro, non possono fare mai equazione fra loro, presi nello stesso senso. Potrà esservi paragone, non equazione. Quindi Fichte abusa della parola equazione. Se si vuol vedere questo abuso, si consideri che egli spiega la sua pretesa equazione, dicendo che l' Io contrappone all' Io divisibile un Non7Io, pure divisibile. Ma il contrapporre una cosa all' altra non è fare un' equazione, anzi è negare l' equazione. Egli soggiunge che quell' equazione contiene queste due proposizioni: 1) L' Io pone il Non7Io come limitato dall' Io; 2) L' Io pone sè stesso come limitato dal Non7Io . Ma in queste proposizioni niuna cosa fa equazione coll' altra, perocchè il limitare che l' una fa l' altra non è fare equazione coll' altra. Si abusa dunque di questa parola equazione. Oltre di che, l' Io limitante non è preso nello stesso senso dell' Io limitato, l' Io divisibile non è preso nello stesso senso dell' Io indiviso. Si gioca adunque colle diverse riflessioni, che il principio intelligente fa sopra sè stesso e sopra le cose diverse da sè, e invece di considerare ogni riflessione come un diverso atto del medesimo, si vuole che ognuna di essa produca un Io diverso, che coll' Io precedente abbia i rapporti di limitante, di limitato, di contenente, di contenuto, di producente, di prodotto, con misero gioco d' ingegno degno dei sofisti greci; ma inevitabile, quando non si conosca che l' ente intelligente precede la coscienza che si forma di sè, e quando si muova dall' errore che l' ente intelligente risulti dall' atto stesso con cui egli acquista coscienza di sè; la quale coscienza potendosi replicare secondo i numeri delle riflessioni, accade che gli Io stessi si vadano così replicando, e si possano così prendere ora pel medesimo Io, ed ora per diversi Io, secondo il bisogno dell' impresa che si tolse di paralogizzare. Tutto questo sistema poi manca di ragione sufficiente. Niente si può rispondere con esso a queste interrogazioni: Qual ragione vi è perchè l' Io ponga sè stesso, anzichè non si ponga? Che cosa lo muove a porsi? E a porsi in un tempo piuttosto che in un altro? Giacchè la coscienza di ogni uomo ha pur cominciato in un dato tempo. Qual ragione vi è perchè il numero degli Io che si pongono sia piuttosto uno che l' altro? Giacchè il numero degli Io è pur finito, e potrebbe essere accresciuto, e viene accresciuto ogni giorno col nascere di nuovi uomini. Ovvero dovete sostenere che non esiste che il vostro Io (il che sarebbe coerente all' escludere tutto ciò che è fuori di lui), nel qual caso voi comporreste la filosofia per voi solo. Qual ragione muove l' Io a porre il Non7Io piuttosto che a non lo porre? La parola Non7Io esprime il mondo e le cose tutte diverse dall' Io in un modo negativo, come osservammo, cioè dichiarando che esse non sono Io, ma non dicendo che cosa sono. Ora non ogni Io pone (per continuare colla stessa frase) un Non7Io eguale; imperocchè certi uomini conoscono del mondo e delle cose da sè diverse più, ed altri meno; e quindi l' Io dei primi pone non Non7Io diverso (più o meno abbondante) che non fa l' Io dei secondi. Qual ragione sufficiente assegnate voi perchè un Io debba porre un Non7Io determinato in un modo piuttosto che in un altro? Qual ragione vi è perchè l' Io voglia limitare sè stesso producendo il Non7Io? Qual ragione assegnate voi perchè l' Io voglia dividere sè stesso in due, nell' Io e nel Non7Io, come voi dite? Nel sistema di Fichte non si rende, e non si può rendere alcuna ragione sufficiente di tutti gli atti che si fanno fare all' Io. E dove ci fosse una tale ragione, che determina l' Io a tutti gli atti che gli si fanno fare, ella dovrebbe essere diversa dall' Io, e superiore all' Io, al quale verrebbe imposta; e così ella annullerebbe il sistema, perocchè tutto il sistema consiste nell' abolire ogni cosa fuori dell' Io. E` dunque, questo di Fichte, un sistema senza ragione, sistema del caso cieco; lungi dunque di spiegare la scienza, anzi si pone che il mondo esista ed operi senza causa; l' intelligenza così è soppressa, non rimane che il più capriccioso, il più assurdo fatalismo. E` conseguente, che tutti i primi principŒ del ragionamento rimangano in questo sistema violati e distrutti. Se si trattasse solamente di distruggerli, altro non se n' avrebbe che la distruzione e l' impossibilità del sapere. Ma in quella vece s' invocano i principŒ del ragionamento, acciocchè aiutino a comporre un sistema che affatto li viola, li abolisce. Infatti: Il principio di cognizione dice: « l' ente è oggetto del conoscere »; e questo sistema dice: « il conoscere produce l' ente », che è un principio affatto opposto; oltre di che suppone che il conoscere preceda l' esistere. Il principio di contraddizione dice: « fra l' affermare e il negare non si dà eguaglianza », e questo sistema dice: « l' Io che è affermazione, e il Non7Io che è negazione, fanno fra di loro un' equazione ». Ma le contraddizioni in tal sistema sono più che le parole. Mi restringerò ad accennarne una nuova. « L' Io pone il Non7Io ». Ora che cosa è il Non7Io? Tutto ciò che non è l' Io: il mondo e Dio. Ma nel mondo vi sono degli altri Io (1). Ora questi Io pongono sè stessi. Ma poichè rispetto all' altro Io, sono Non7Io, dunque sono posti due volte. Anzi ogni Io è posto tante volte quanti sono gli Io esistenti, perocchè ciascun Io pone sè stesso e pone tutti gli altri, compresi nel Non7Io. Ora, o colle parole « porre l' Io e porre il Non7Io »si vuole intendere meramente conoscere, e in tal caso il sistema si discioglie e svanisce, perchè suppone avanti del conoscere stesso l' oggetto; o si vuol dire fare esistere , e in tal caso gli Io si moltiplicano all' infinito, perocchè ogni Io, ponendo tutti gli Io che esistono, li produce; onde il numero degli Io si moltiplica per sè stesso; e questo numero di Io, elevato alla seconda potenza, di nuovo si moltiplica per la ragione stessa; onde l' aumento degli Io in questo sistema verrebbe espresso da una serie infinita, che, fatto il numero primitivo degli Io .uguale . .x ., si potrebbe esprimere così: .x ., .x . 2, .x . 4, .x . ., .x . 16, ecc., all' infinito; nella qual serie, non trovandosi mai l' ultimo termine, il numero degli Io esistenti non sarebbe assegnabile, anzi non potrebbe venire giammai all' esistenza neppure un solo Io, giacchè il primo implica tutta la serie. La quale è patentissima matematica dimostrazione, che nel sistema di Fichte diviene impossibile ed assurda ogni qualunque esistenza e conoscenza. Il filosofo nostro dirà forse che non esiste se non il solo suo Io, e che egli scrisse la sua filosofia per sè solo, come un ragno che fa la sua tela dove non sono mosche; ma primieramente in questo caso egli sarebbe condannato a porre un Non7Io del tutto inanimato, un Universo abitato da lui solo, e quindi a vivere eternamente fra esseri bruti; e tuttavia gli resterebbe a render ragione a sè stesso del perchè il suo Io non potrebbe porre alcun altro Io, compreso nel Non7Io, giacchè gliene potrebbe pure venire qualche vaghezza per uscire una volta dalla sua sterile solitudine, e rendersi prolifico di qualche suo simile! E quanta ragione poi non avrebbe di conservare sè stesso acciocchè non perisca con esso tutto il mondo! In secondo luogo poi, essendo indubitato che il suo Io pone nel Non7Io molti altri Io diversi da sè, converrebbe che il suo porre non significasse più produrre un ente reale, ma produrre delle illusioni, e in tal caso lui stesso sarebbe un' illusione perchè posto da sè stesso. Ma se tutto fosse illusione, non vi sarebbe più illusione, chè la parola illusione ha un significato relativo alla realità ; e ad ogni modo sarebbero sempre tanto veri gli Io, che egli pone nel Non7Io, quanto è vero lui medesimo che si pone allo stesso modo. Il principio di sostanza è tolto via, giacchè facendosi in questo sistema che il conoscere riflesso, che è un accidente dell' intelletto umano, sia lo stesso che l' essere, è tolta affatto la distinzione della sostanza e dell' accidente; si fa che l' accidente sussista per sè stesso. Il principio di causa è del pari abolito, perchè non si dà causa, la quale possa operare senza una ragione sufficiente; e noi vedemmo che l' Io opera in questo sistema senza una ragione che ne lo determini, e che spieghi il suo atto. Il principio del fare dell' ente dice così: « Ogni ente cogli atti suoi naturali tende a conservarsi, ingrandirsi, perfezionarsi ». Quindi per l' opposto: « Nessun ente limita sè stesso, nessun ente divide sè stesso, ecc. »; ma di queste passioni dell' ente si deve rinvenire una causa straniera alla sua naturale attività. Ora l' Io di Fichte, l' unico ente che esista, limita e divide sè stesso, contrappone a sè un ostacolo, che poi cerca di vincere e superare. E` violato dunque il principio ontologico del fare dell' ente; e tutto ciò senza darne ragione alcuna, per via di mero asserto dogmatico del filosofo nostro. Ma tolti via tutti i principŒ logici ed ontologici del ragionamento, niuno ha più diritto di ragionare, deve tacere; niuno ha diritto di pensare, deve vegetare; perchè nè parlare, nè pensar può, senza riabilitare prima i principŒ stessi, che disabilitò e distrusse. Il nostro filosofo adunque dice ancora troppo, dice di più che non abbia diritto di dire, allorquando esprime il risultamento del suo sistema con queste parole che lo annientano: « Non v' è nulla di esistente nè in me, nè fuori di me, ma solamente una variazione continua. Non v' è alcun essere. L' unica cosa che esiste sono le immagini; io stesso sono una di queste immagini, anzi io non sono questo, ma solamente un' immagine confusa d' immagini. Ogni realità si converte in un sogno meraviglioso, ed il pensiero è il sogno di quel sogno ». Fichte non ha diritto di dire pur questo, senza cadere in una nuova contraddizione. Il sistema del soggettivismo, così sviluppato, comparve prima che in ogni altro luogo in Oriente; e i filosofi indiani, che lo professarono, pervennero alla stessa conclusione di Fichte. V' è una setta di Buddhisti, che altro non ammette che il sentimento interno, l' esistenza eterna di lui, del manas intelligente, il quale ha la coscienza delle cose; e sostengono che tutto il resto è vuoto, cioè nulla, nè v' è possibilità di provare colla ragione che esista. Non ammettono che l' Io, onde fanno uscire il Non7Io come una mera illusione. « Non v' è cosa che esista realmente », dice un Buddhista. I Fo (cioè i sapienti pervenuti a ridurre tutte le cose ad essere altrettante produzioni vane dell' intelletto) « « non distinguono i mondi dal loro proprio intendimento. Tutto ciò che è nei mondi è lo stesso intendimento di Fo, cioè non vi è altra cosa che Fo (la natura intellettiva) »(1) ». [...OMISSIS...] . Infine tutte le cose si dichiarano sogni di Fo, cioè dell' intelligenza. SCHELLING. - Come i precedenti, Schelling ritenne l' errore che confonde le idee, e generalmente gli oggetti dello spirito, collo spirito. E poichè gli oggetti dello spirito sono infiniti (poichè da parte del suo oggetto lo spirito non è limitato), si occupò ad unificare questi oggetti, riducendoli ad un solo infinito. Confuso con questo infinito lo spirito che lo conosce, riuscì al sistema dell' identità assoluta, rimanendo lo spirito identificato coll' oggetto suo infinito, che tutti gli oggetti determinati comprende. Schelling adunque fu colpito da ciò che aveva detto Fichte, che « l' Io e il Non7Io formavano un' equazione »; e il sistema dell' identità assoluta si può dire infatti che non sia altro che uno sviluppo e un perfezionamento di questa proposizione del suo predecessore. Ma si consideri il filo di tutto il ragionamento, e ne apparirà l' inevitabile incoerenza. La ragione, per la quale si confuse lo spirito conoscente cogli oggetti conosciuti, si fu quel pregiudizio, di cui abbiamo parlato, che « lo spirito nulla può conoscere fuori di sè stesso »; del qual pregiudizio la filosofia tedesca dopo che le entrò nei visceri, peggiore d' ogni tenia, non potè mai liberarsi. Ora Fichte, lungi d' esser coerente a questo erroneo principio, che aveva preso per fondamento di tutto il suo ragionare, se ne dipartì senza accorgersene, perchè è cosa impossibile rimanere a lungo coerente ad un primo errore. Ecco come nacque l' incoerenza di Fichte. Fichte aveva confuso lo spirito coll' Io; e posciachè l' Io è uno spirito che ha coscienza di sè e si pronuncia, perciò aveva confuso lo spirito colla coscienza; nella coscienza stessa di sè aveva riposto la natura dello spirito, e quindi trovata quell' assurda e contradittoria sentenza, che « l' Io pone sè stesso ». Ma poichè lo spirito, oltre conoscere sè stesso, conosce anche tante altre cose, affine di spiegare questo fatto, Fichte aveva aggiunto che « l' Io pone anche il Non7Io ». Atteso poi che l' Io nulla può conoscere fuori di sè stesso, Fichte conchiuse che « fra l' Io e il Non7Io vi è equazione », riducendo così questo a quello. Ma era una conclusione assurda ed evidentemente contradittoria; perocchè il Non7Io è la negazione dell' Io; e però il Non7Io, qualunque cosa sia, non sarà mai lo stesso Io. Ma non sarà neppure una modificazione dell' Io, perocchè l' Io, essendo la coscienza di sè, non potrebbe non essere conscio della propria modificazione, se tale fosse il Non7Io. All' incontro l' Io è conscio che il Non7Io è una negazione di sè, qualche cosa che gli si oppone, e opponendoglisi, lo limita; lo limita in questo senso appunto che gli fa conoscere di non essere tutto, ma che oltre a sè, vi è qualche cosa che non è sè . Qualunque cosa sia dunque il Non7Io, e da qualunque parte tragga la sua esistenza, certo è che egli non è l' Io, nè una modificazione dell' Io, e però che non è eguale all' Io. Essendo dunque assurdo il fare una equazione fra l' Io e il Non7Io, avrebbe Fichte dovuto accorgersi dell' erroneità del principio, che « l' Io nulla possa conoscere fuori di sè stesso »; perocchè ogni principio, che conduce all' assurdo, è erroneo. Nè meglio può Fichte evitare l' assurdo, dicendo che il Non7Io altro non è che un' apparenza, ma che in verità è lo stesso Io. Perocchè in prima ciò si dovrebbe provare con qualche solido argomento, e non asserire nudamente. Di poi, diamo che sia un' apparenza; quest' apparenza rimane sempre che non sia l' Io, nè si possa come tale ridurre all' Io. In terzo luogo, se si distingue l' apparenza dalla sostanza, in tal caso si domanda se l' Io stesso è apparenza o sostanza. L' Io è la coscienza, ed è pure la coscienza quella che attesta che il Non7Io non è l' Io. La stessa testimonianza è quella che fa conoscere l' Io, e che fa conoscere il Non7Io; se ciò che attesta la coscienza è un' apparenza, anche l' Io è un' apparenza non meno che il Non7Io, ed è quello che in ultimo confessa lo stesso Fichte. Nè poteva altro, giacchè lo stesso Io è quello che pone sè stesso, e che pone il Non7Io. Se trattasi dunque di due apparenze, non v' è più luogo a distinguere nel Non7Io la sostanza dall' apparenza; e però nemmanco ad affermare che il Non7Io rispetto alla sostanza fa un' equazione coll' Io, e rispetto all' apparenza si divide dall' Io. Dunque o sono due sostanze, o due apparenze. E nell' uno e nell' altro caso il Non7Io è opposto, e non mai identificabile collo stesso Io. Ebbene, il Non7Io ha egli coscienza di sè? Non può essere, poichè egli è opposto all' Io, e l' Io è la coscienza. Il dire dunque Non7Io è lo stesso che dire Non7Coscienza. Dunque va a terra il principio di Fichte che lo spirito, essenzialmente coscienza, cioè Io, sia lo stesso Non7Io; dunque vi è qualche cosa che non è la coscienza. Ma il fondamento del sistema stava tutto nel ridurre ogni cosa alla coscienza; dunque il fondamento del sistema va a distruggersi nello svolgimento del sistema medesimo. Schelling, senz' accorgersi punto nè poco che l' introdurre qualche cosa che non fosse la coscienza distruggeva il fondamento d' una tale filosofia, ammise l' Io e il Non7Io, cioè la Coscienza e la Non7Coscienza; e pretese di trovare un movimento, che cangiasse la Non7Coscienza in Coscienza, e la Coscienza in Non7Coscienza. A questo fine egli doveva immaginare (perchè trattasi d' immaginare) un terzo principio, il quale divenisse ora consapevole, ora inconsapevole. Ma questo assunto, gratuito come i precedenti, era un uscire affatto dai primi ragionamenti, coi quali s' era pervenuto a stabilire l' Io e il Non7Io di Fichte, e però si abbracciava un sistema, cominciando dall' annichilirlo del tutto. Schelling, adunque, riceve da Fichte la proposizione che l' Io produca il Non7Io, cioè che il Consapevole (lo Spirito) produca l' Inconsapevole (la Natura); e con ciò viene ad accettare per buoni i principŒ sui quali Fichte basava questa conclusione. Ma di poi aggiunge la proposizione che « il Non7Io produce l' Io », perchè il Non7Io (la Natura) vuole conseguire la coscienza di sè; e con questa aggiunta distrugge e rinnega tutti i principŒ, coi quali fu stabilita la prima proposizione. La ripugnanza dunque e l' intima contraddizione non può essere più manifesta. La dottrina, che svolge la prima proposizione, fu nominata da Schelling Idealismo trascendentale ; la dottrina, che svolge la seconda proposizione, fu nominata Filosofia della Natura . La prima muove dal principio che l' Io nulla conosce fuori di sè; di che ne viene che tutto ciò che si conosce si debba ridurre all' Io; la seconda muove dal principio opposto e contradittorio al primo, cioè che si conosce e vi è qualche cosa che non è l' Io, ma che tende incessantemente a diventare Io, e perciò che è falso il principio posto da prima. La scissura e la lotta fra queste due parti del sistema del filosofo leonbergese non può essere più mortale. Schelling dunque riconosce che la coscienza non è essenziale all' ente, e che questo può averla e non averla; e in ciò poniamo che abbia ragione. Ma in tal caso manca il fondamento del ragionamento, col quale si faceva che l' Io, dopo aver posto sè stesso, ponesse anche un Non7Io eguale a lui; e quindi è sovvertita la base dell' identità assoluta . Se non è assurdo che fuori della coscienza esista qualche cosa, come mai si potrà identificare questo qualche cosa, estraneo alla coscienza, colla coscienza? Non potendosi più ricorrere alla speciosa ragione, che « tutto deve contenersi nella coscienza », e volendosi pure fare una identità del consapevole e dell' inconsapevole, si dovrà ricorrere ad una serie di asserzioni fondate in aria, destituite di ogni prova. Laonde Schelling, che fa in prima uscir fuori l' inconsapevole dal consapevole, come Fichte che fa uscire il Non7Io dall' Io, e poi fa uscire il consapevole dall' inconsapevole, ciò che non fa Fichte e che ripugna alla dottrina di Fichte, come spiega egli la natura bruta, priva di sensazione e d' intelligenza? Egli la considera come l' atto di un Io supremo, del quale suo atto l' Io non abbia alcuna coscienza. Come spiega la sensazione, che riconosce essere priva di coscienza? Egli la fa del pari scaturire dall' Io supremo, al quale nell' atto del sentire vien meno la coscienza di sè stesso. Come spiega il bello estetico? E` per lui l' Io supremo, che nell' artista, perdendo la coscienza di sè, ritiene la coscienza solo delle opere belle prodotte e individuate. Ma quale ragione sufficiente adduce di questo perdersi o di questo limitarsi della coscienza dell' Io? Niuna affatto; nè egli rende alcun perchè dei tempi, in cui questa coscienza ora si oscuri, ora s' illumini. Di più, come prova egli che questi atti, questi prodotti (perocchè confonde gli atti coi prodotti loro), benchè inconsapevoli, debbano uscire dall' Io, che è la coscienza stessa? La ragione non è altra che quella di Fichte, essere impossibile che l' Io intenda qualche cosa fuori di sè stesso, venendo ad argomentare o piuttosto a paralogizzare così: « L' Io non può intendere nulla fuori di sè. Ciò che intende adunque deve essere prodotto da lui stesso »; quasichè fosse lo stesso l' intendere una cosa in sè e il produrre una cosa diversa da sè. Quando anzi, se fosse vero che l' io non potesse intendere niuna cosa se non in sè stesso, si dovrebbe concludere che dunque egli non può produrre niuna cosa che fosse fuori di sè, qual' è il Non7Io, giacchè produrre e intendere si assumono come sinonimi. Ma si ammetta il paralogismo. Noi abbiamo un Non7Io prodotto dall' Io, un inconsapevole prodotto dal consapevole. Continua Schelling l' opera così avviata del suo predecessore, e dice: Questo Non7Io ha un conato ad acquistare la coscienza di sè, perchè è prodotto dall' Io, e perciò lo ha nelle viscere latente. Quale prova di sì grave affermazione? Nulla. Quale ragione sufficiente determina il Non7Io a costituirsi in un Io? Nulla di nuovo. Quale ragione che determini i tempi, in cui il Non7Io è privo di coscienza, e quelli in cui egli la acquista? Nulla per la terza volta. Passi. Ma rimane a domandarsi se l' Io può essere latente, se un Io latente non è una contraddizione in termini, perocchè viene a dire una coscienza senza coscienza. La coscienza, che non è coscienza, è il nulla . Già qui si scorge l' origine del nullismo di Hegel. Ma egli è ancor meno del nulla, perchè è una contraddizione, un assurdo; e il nulla non è un assurdo. Onde si vede che il nullismo dovette condurre Hegel all' assurdismo (parola così bella appunto, come il sistema che esprime), cioè a sostenere che la scienza si fonda sulla contraddizione, che è il principio di quella filosofia. Ridurre adunque ciò che è assenzialmente consapevole, come è l' Io, e ciò che è inconsapevole ad un principio unico, che ora acquista la coscienza ed ora la perde, è impossibile. In primo luogo tutti questi infiniti trasmutamenti del consapevole nell' inconsapevole, e viceversa, non hanno alcuna ragione, come dicevamo. In secondo luogo, o il principio unico può perdere la coscienza, e in tal caso, non avendo la coscienza per sua propria essenza, egli non è infinito, mancandogli il maggiore dei pregi; o il principio unico non può perdere la coscienza di sè, ma solo dei suoi atti e delle sue produzioni, e in tal caso ritorna la dualità, che si vuole ridurre invano all' unità ed alla identità assoluta. Un tale sistema, adunque, può parere meraviglioso come parto di una immaginazione confusa, ottenebratrice della mente, non mai come produzione di ragione filosofica e sapiente. Due sono adunque le parti della filosofia di Schelling. Il sistema di Fichte, che trae dall' Io il Non7Io, ne è la prima; la seconda propria di lui, è il Non7Io tendente ad acquistare la coscienza e ridiventare Io. Abbiamo esaminato i principŒ di natura psicologica, su cui si fonda la prima, e li abbiamo trovati insussistenti. La seconda muove da principŒ di natura ontologica, e sono tali che cozzano coi precedenti. Ora, su questi ultimi, che appartengono esclusivamente a Schelling, è uopo che ci tratteniamo ancora qualche istante. Essi sono attinti al fonte dei Platonici alessandrini, e tutti si riducono alla confusione dell' idea, oggetto, coll' intelligente, soggetto; ma l' esposizione loro ha qualche cosa di originale. Ecco come ella si conduce nel dialogo, che Schelling intitolò « Giordano Bruno ». Quivi si toglie prima a provare che il produttore delle opere artistiche è un' eterna nozione, confondendosi così la causa esemplare di tali opere colla causa efficiente. Rechiamone un brano. In tal modo pretende Schelling aver dimostrato che la nozione dell' individuo sia il produttore stesso delle opere estetiche. Venuto a questo, soggiunge che la nozione dell' individuo è eterna, e che è lo stesso eterno; di che ne trae che lo stesso eterno è il produttore di quelle opere. Ma questa eterna nozione dell' individuo, la quale è il produttore, poco appresso (non curante mai della coerenza del discorso) la chiama emanazione dell' eterno, rassomigliante a quello da cui emana. E poi asserisce immediatamente, senza trovar necessario di aggiungervi la minima prova, che Iddio « « dà alle idee delle cose, che sono in lui, una propria indipendente vita, in quanto permette loro di esistere come anime dei singoli corpi ». » E quindi deduce che « « ogni opera, la quale è il prodotto dell' eterna nozione dell' individuo, ha una doppia vita, cioè una vita indipendente in sè stessa, ed un' altra vita nel produttore ». » Così crede il nostro filosofo aver dimostrato: 1) che le anime sono le idee divine, in quanto Iddio loro permette di esistere come anime dei singoli corpi; 2) che s' identificano con Dio, così come s' identificano coi loro corpi; 3) che queste nozioni, cangiate dal filosofo in anime, sono il produttore delle opere estetiche; 4) che queste opere estetiche hanno vita, anzi una doppia vita, una in sè stesse e un' altra nel produttore. Ad ogni uomo che abbia non già una grande penetrazione, ma solamente un minimo che di logica in capo, deve fare stupore come proposizioni di tal natura si pronuncino così leggermente, quasi non avessero bisogno di dimostrazione la più rigorosa. Ma tale è l' indole della filosofia germanica, di cui si fa tanto strepito. Lasciando noi da parte questo strepito, perchè guai a quelli che, volendo filosofare, si lasciano assordare gli orecchi dallo strepito che leva la moltitudine dei filosofanti, non dubitiamo affermare: 1) che si vede, a dir vero, negli ingegni germanici una grande tendenza al ragionamento deduttivo e conseguenziale; 2) ma che si vede in pari tempo che non ne hanno l' arte, dimostrandosi assai meschini di logica: e ciò perchè la civiltà germanica, essendo recente e fatta a mano ed in fretta, non ebbe ancora il tempo di esercitarsi abbastanza nel discorso dialettico. I filosofi di quella nazione mancano in prima di analisi, e perciò confondono facilmente l' una coll' altra le idee. Mancano poi di dimostrazione, e perciò si contentano di affermare proposizioni sopra proposizioni, l' una più strana dell' altra, senza fermarsi mai a considerare seriamente il valore delle prove. A conferma di che, facciamo alcune osservazioni sul brano citato del Bruno di Federico Schelling. Si dice che il finito è perfetto, quando è annodato coll' infinito, e che non può essere annodato coll' infinito, se non è previamente uno coll' infinito. Ma se il finito è previamente uno coll' infinito, non ha più bisogno di essere annodato con esso lui, perocchè ciò che è uno con un altro, è già annodato o piuttosto immedesimato con esso. Che cosa vuol dire adunque questo previamente ? Egli non ha senso. Di poi l' espressione essere uno coll' infinito è ambigua, e perciò deve essere chiarita coll' analisi dei suoi diversi significati; il che dimentica di fare il nostro filosofo. Se l' esser uno vuol dire l' essere identificato, in tal caso non è più annodato ; perocchè ciò che è identico non si dice essere annodato con sè stesso, ma essere sè stesso; nè ha bisogno d' un mediatore, che lo annodi seco stesso. Dall' aver detto che il finito non può essere annodato coll' infinito, se non per mezzo dell' infinito e dell' eterno stesso, conclude che dunque un' opera, che rappresenti la più alta bellezza, non può essere prodotta che dall' eterno. Nella qual conclusione si racchiude più che nelle premesse; perocchè nelle premesse si distingueva: 1) un' opera finita; 2) l' annodamento di quest' opera coll' infinito, fatto dall' infinito stesso. La conclusione doveva essere che l' infinito contribuisce a produrre l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, in quanto che annoda l' opera finita con sè stesso, ma non che produce l' opera stessa. Manca ancora l' analisi dell' annodamento, che si suppone fra l' opera finita e l' infinito, perchè questo annodamento può essere di più maniere; a parlar chiaro e senza equivoco conveniva dire in che precisamente si faccia consistere tale annodamento dell' opera finita coll' infinito; il che si preterisce. Di poi si prosegue a dire che l' eterno produce l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, non considerato assolutamente, ma in quanto si riferisce immediatamente all' individuo produttore. Ma se il produttore è lo stesso eterno, come ora viene in campo un individuo produttore diverso dall' eterno, un individuo produttore a cui l' eterno solo si riferisce? Questa è contraddizione. Toglie quindi a spiegare in che consista questa relazione, per la quale l' eterno si riferisce all' individuo produttore; e per ispiegarla parte da questo principio, che « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni ». Ma questo è falso, giacchè le cose sono in Dio anche come nella loro causa efficiente, non meramente come nella loro causa esemplare . Perchè si ammette dunque una proposizione, opposta alla dottrina di tutti i teologi e di tutti i filosofi, senza alcuna prova? Dall' erroneo principio che « « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni » »deduce che « « Iddio si riferisce al produttore individuo per l' eterna nozione dell' individuo » ». Ma Iddio non si riferisce al produttore individuo solo per l' eterna nozione dell' individuo, ma ben anche perchè egli realizza colla sua onnipotenza la essenza dell' individuo, che è in quella nozione, e così lo fa esistere, lo crea. Soggiunge queste altre parole, quasi cosa che venga al tutto da sè, che nessuno possa negare, di cui nessuno possa domandare ragionevolmente dimostrazione di sorte: « la quale (nozione) è in Dio identificata coll' anima, precisamente come questa è col corpo ». All' opposto, il senso comune di tutti gli uomini distinguerà sempre, e in Dio e nell' umana mente: 1) la nozione dell' individuo dall' anima; 2) e l' anima dal corpo. La differenza fra la nozione dell' individuo e l' anima è infinita; perocchè quella è eterna, e questa è contingente; dunque non si identificano. La differenza fra l' anima e il corpo è di sostanza a sostanza; e due sostanze, delle quali l' una è termine dell' altra, non si possono identificare, benchè si possano unire a formare un solo individuo. Al nostro filosofo, adunque, non solamente vien meno la logica, di cui mostra non fare alcun caso, ma anche il senso comune, a cui crede di poter contrariare così leggermente e gratuitamente. Dopo avere asserito con tanta temerità che la nozione dell' individuo produttore s' identifica coll' anima, e che l' anima s' identifica col corpo, conchiude che questa nozione, che s' identifica pure coll' eterno, è il produttore stesso dell' opera, che rappresenta la più alta bellezza. Dopo aver dunque distinto nel discorso: 1) il finito e l' infinito; 2) la nozione del produttore e il produttore; egli confonde tutte queste cose insieme, senza darsi alcuna briga di spiegarci sotto quale aspetto sono distinte, e sotto quale s' identificano; come nasca la loro separazione e la loro identificazione; quale sia la ragione sufficiente di tali trasformazioni; in che modo e in che senso la parola identificazione di più cose in una non involga assurdo, come pare che l' involga. Di tutto ciò il nostro ragionatore si tiene affatto disobbligato. Se il filosofo nostro dicesse che « la nozione dell' opera bella, il tipo eterno », è quello che la produce, sarebbe in qualche modo tollerabile, non rimanendo a spiegare in tale sentenza se non in che senso si dica che la produca, cioè meramente come causa esemplare. Ma no, egli presenta ai suoi ammirati discepoli qualche cosa di più strano da credere sulla sua parola. Non trattasi della nozione o tipo dell' opera, ma della nozione dell' individuo produttore. Ora, se la nozione dell' individuo produttore è il produttore stesso, quella nozione non potrà produrre altro se non l' individuo produttore che ella rappresenta, non potrà produrre altro che sè stessa. Un assurdo dunque si raddossa sopra l' altro. E poichè quella nozione è l' anima, perciò l' anima non potrà produrre (se fosse una nozione producente) che sè stessa!! Niente dunque rimane spiegato con un tal modo di filosofare. Che poi le nozioni eterne, che trovansi in Dio, sieno anime, questo è conseguente alle premesse del nostro filosofo. Ma il vero si è che le nozioni e le idee sono bensì intuite dalle anime intelligenti, ma non che sieno le stesse anime intuenti, essendovi fra l' intuente e l' intuìto essenziale ed insuperabile differenza. Voi poi credereste con tutte le scuole che le nozioni eterne fossero sempre in Dio. Il nostro filosofo però dice che emanano da Dio; lo dice, e tuttavia le dice eterne, nè dice che perciò escano da Dio. Nè di tutte queste affermazioni contradittorie vi dà prova di sorte alcuna. Egli vi domanda ciechissima fede alle sue parole. Neppur crediate che le nozioni eterne di Dio sieno anime per sè stesse; no, elle sono anime, perchè Iddio permette loro di esistere come anime dei singoli corpi. Come poi tali nozioni possano aver desiderio di essere anime, come questo possa esser loro permesso da Dio, come, ottenuto questo permesso, possano acquistare l' esistenza di anime; queste sono tutte cose, che il nostro filosofo rimette a concepire e spiegare alla discrezione dei suoi benigni lettori, non credendosi obbligato d' incomodarsi a dircelo. Finalmente che cosa sarà l' opera di questo produttore, che ora è l' eterno, ora la nozione dell' individuo, ora l' individuo, ora l' anima? L' opera sarà qualche cosa di vivente, anzi una cosa che vivrà di due vite, l' una in sè, l' altra nel suo produttore, col quale pure così s' immedesima. Che cosa è vita? Come si può vivere di due vite? Come un' opera finita d' un individuo produttore può essere cosa viva? Come s' immedesima col suo produttore? Altri enimmi, con cui il nostro filosofo esercita la fede dei suoi discepoli. Tale è la logica costante della serie dei filosofi tedeschi, incominciata con Kant; nè ella è finita; ci resta a parlare dell' ultimo anello, di Hegel. HEGEL. - I filosofi tedeschi mossero la filosofia dall' Io, ma senza analizzarlo, perchè l' analisi, come abbiamo osservato, è pressochè loro sconosciuta. L' Io sottomesso all' analisi risulta: 1) da un sentimento fondamentale; 2) da un' intuizione dell' oggetto; 3) da una o più riflessioni, che quel sentimento intelligente fa sopra di sè, onde anche pronuncia sè stesso dicendo Io . L' Io dunque involge l' opera della riflessione e la coscienza, che ha l' anima di sè stessa. I nostri filosofi tedeschi fondarono il loro sistema sopra l' uno o l' altro di quei tre elementi, senza abbracciarli tutti, e senza nè tampoco distinguerli. Fichte, ponendo attenzione più al terzo elemento che ai due primi, parlò dell' Io dandogli la natura di riflessione, e però lo fece essenzialmente consapevole. Schelling si appigliò al primo di quei tre elementi, e immaginò un Io sentimento, che ora è consapevole, ora inconsapevole, senz' accorgersi punto che un mero sentimento non è mai un Io, perocchè ad un Io è essenziale la coscienza, che appartiene all' intelligenza. L' attenzione di Hegel, che trascurò l' analisi dell' Io, come i suoi antecessori, cadde sul secondo elemento, e il suo Io primitivo non fu sentimento, non fu riflessione o coscienza, ma fu ciò che sta in mezzo a questi due estremi, semplice cognizione . Ma mancando sempre l' analisi, confuse anch' egli, come i precedenti, il conoscente coll' oggetto cognito, e concluse che l' oggetto cognito era il conoscente. Di più, l' oggetto cognito è duplice, sussistenza e idea . Per difetto d' analisi dichiarò che ogni oggetto cognito è idea. Quindi se ne ebbe che l' idea era ad un tempo il soggetto conoscente, l' oggetto ideale intuìto, e l' oggetto reale percepito. Così Hegel ridusse ogni categoria di cose alla mera Idea. E l' Idea, divenuta ogni cosa, era necessariamente Dio, il Dio7tutto. Non era questo certamente un fare andare molto innanzi la filosofia dei suoi predecessori, perocchè essi erano in sostanza pervenuti alla stessa conclusione. Ma si erano poco occupati a dimostrare come l' Io si trasformasse in tutte le cose, e producesse tutte le opposizioni, che si possono pensare dall' umana mente. A questo lavoro s' accinse Hegel. L' Io di Hegel essendo dunque l' Idea, egli si occupò a descrivere come questa si trasformava nelle diverse categorie delle cose, dispensandosi sempre, secondo il metodo invalso, dal dimostrare. Asserì dunque che la Ragione, ossia l' Idea (perocchè è continua la confusione fra il soggetto, che intuisce e fa uso dell' idea, e l' idea intuìta e di cui si fa uso), ha nel suo essere tre momenti; ond' ella è: 1) Idea in sè e per sè, pura Idea logica; 2) Idea nel suo essere trasformato, Natura, Non7Io di Fichte; 3) Idea che ritorna in sè dal suo essere trasformato, Spirito, Anima. Quindi la divisione della Filosofia in tre parti: « Logica, Filosofia della Natura, Filosofia dello Spirito ». Prendendo a considerare il secondo dei tre momenti dell' Idea hegeliana, in qual maniera l' Idea si trasforma nella Natura? Questo è ciò che il filosofo non spiega; ma il solo supporlo involge assurdo sopra assurdo. L' Idea altro non è che l' oggetto intuìto dallo spirito, l' essenza delle cose; per esempio, l' idea dell' uomo è l' essenza dell' uomo, non è nè questo nè quell' uomo, ma il mero tipo dell' uomo, l' uomo possibile. Lo stesso si dica di ogni altra idea. Ora se noi diamo all' Idea un' azione qualunque per modo che la rendiamo un agente, noi le aggiungiamo una cosa straniera. Non abbiamo più la sola idea della cosa, ma abbiamo un agente associato coll' immaginazione nostra all' idea. L' Idea non ha altro ufficio che di farci conoscere le cose; le cose poi reali e sussistenti sono quelle che operano. Questi due concetti, il tipo manifestativo delle cose reali e le cose reali operanti, sono categoricamente diversi: quello, cioè l' idea, può stare innanzi alla nostra mente senza di queste, siccome accade quando pensiamo ad una cosa meramente possibile e non realizzata. Dunque il pretendere che l' Idea operi e si trasformi in altro, è mutar natura all' Idea; è abusare di questa parola; è sostituire all' Idea una natura reale e sussistente, capace di operazione, è ricadere nella dualità che si vuole sopprimere (1). Ogni Idea qualunque è immutabile ed eterna. La più leggera osservazione interna ce ne convince (1). Dunque l' Idea non può patire alcuna passione, nè essere il soggetto di alcuna trasformazione. Se l' Idea si potesse trasformare nella Natura, ella annienterebbe sè stessa, perdendo ciò che essenzialmente la costituisce, che è di esser lume alla mente. Ora niun essere può annientare sè stesso. E se anche potesse, annientato che fosse, non potrebbe ricrearsi e divenire un' altra natura, perocchè il nulla non può diventar nulla. Passiamo a considerare l' Idea nel terzo momento di Hegel. Questa dallo stato di Natura bruta ritorna a sè, e così nasce lo Spirito. Ma un tale ritorno supporrebbe che la Natura fosse l' Idea, la quale non si fosse annientata, ma conservando un quid identico potesse ancora operare. Ora questo è impossibile per l' osservazione fatta di sopra. Dunque, quand' anche l' Idea avesse cessato di essere Idea e fosse divenuta Natura, questa non potrebbe più tornare ad essere Idea per la ragione stessa, che in tal passaggio prima dovrebbe annullare sè stessa, ed annullata che fosse, non potrebbe più divenire cosa alcuna. Noi dicevamo che le trasformazioni non si possono nè spiegare, nè concepire, se non rimane un quid identico che sia il subbietto della trasformazione. Ora Hegel non si dà cura di indicare punto nè poco questo quid, che rimane immutato nelle trasformazioni che egli suppone. L' Idea è semplicissima, e però non può avere due elementi, l' uno mutabile e l' altro identico; quindi non può essere soggetto di alcuna trasformazione, ma è immutabile, come abbiamo detto alla osservazione II. In qual maniera si può concepire che la Natura bruta ritorni all' Idea? O come ritornando all' Idea può divenire Spirito? Questi sono misteri, di cui il filosofo nostro non adduce nessuna ragione sufficiente, anzi nessuna ragione, che faccia concepire la cosa come possibile. L' Idea non può mai divenire Spirito, perchè lo Spirito è l' intuente, e l' idea è intuìta dallo Spirito; onde hanno opposizione di natura fra loro. Neppure è possibile ricorrere ad un terzo termine, che unisca in sè questi opposti, Spirito intuente e Idea, perchè in tal caso non si partirebbe già più dall' Idea, come fa Hegel, ma da qualche cosa di superiore all' Idea stessa; e l' Idea rimarrebbe nella condizione dei termini opposti. Oltre di che, questo termine superiore incontrerebbe le stesse difficoltà ad esplicarsi e a trasformarsi, e la difficoltà sarebbe arretrata d' un passo, non tolta. Il perchè non dandosi Hegel alcuna sollecitudine di queste immense difficoltà, e procedendo sempre per la via dell' affermazione gratuita, tutta la sua dottrina si riduce a descrivere storicamente le trasformazioni dell' idea in tutte le cose le più opposte fra loro, e nello stesso nulla, sicchè quella sua Idea in luogo d' essere immutabile non istà mai in riposo. Certo che la descrizione di queste trasformazioni nel senso di Hegel sono altrettante operazioni mentali; perocchè rimane sempre l' erronea base, posta da Fichte, che « il conoscente niente conosce fuori di sè stesso, e però tutto ciò che conosce deve necessariamente essere cose che nascono in lui », riducendosi ogni realità a produzione della mente, e, come confessava lo stesso Fichte, ad apparenze ed a sogni, e sogni di sogni (quasichè il sogno potesse sognare). Posto dunque che la virtù trasformatrice di Hegel sia il pensiero, egli comincia dal porre che il pensiero possa concepire l' ente così astratto che da lui si tolgano in prima tutte le determinazioni, e poi si tolga via lui stesso, e così sia pari al nulla. Di che conchiude che questo ente così astratto fa un' equazione col nulla, e lo chiama ente7nulla. Ma: 1) E` falso che si possa astrarre l' ente dall' ente; l' astrazione non va tanto avanti; ella non giunge che a levare dall' ente le sue determinazioni, rimanendo l' ente indeterminato. Il togliere poi via l' ente stesso indeterminato non è un atto di astrazione, ma è una negazione assoluta, colla quale si abolisce l' oggetto del pensiero, e se rimane solo il frutto di tale negazione, si abolisce con esso il pensiero. La negazione poi dell' ente, che dà il nulla, non lascia più alcun ente, con cui il nulla possa mettersi in equazione. 2) Di poi, se il pensiero fa queste operazioni di astrarre e di negare l' ente, il pensiero stesso e le sue operazioni si scorgono diverse dall' pensato. Dunque egli, soggetto pensante, non si può mai confondere con questo, che è assenzialmente oggetto pensato; nella negazione adunque rimane ancora il negante, benchè incognito a sè stesso. 3) Se l' oggetto pensato non è il pensante, dunque il pensante pensa cosa diversa da sè, e non è più vero il principio posto, che non possa pensare nulla fuori di sè. D' altra parte è il pensiero stesso, a cui il filosofo si appella, che ci dice: 1) Che egli può bensì astrarre, negare, passare da un oggetto all' altro, ma non mai trasformare gli oggetti stessi l' uno nell' altro. 2) Che oltre gli oggetti propri del pensiero, le idee, vi sono altre entità che non sono idee, ma sentimenti e forze agenti nel sentimento, sulle quali il pensiero puro non ha alcuna virtù di operare trasmutazioni. Onde se si deve credere al pensiero umano, questo dichiara di non aver punto nè poco la virtù trasformatrice, che il nostro filosofo gli attribuisce. E quand' anche il pensiero avesse questa virtù, converrebbe assegnare qualche ragione sufficiente, per la quale rimanesse spiegato perchè egli ora adoperi tale virtù, ora non l' adoperi, ora l' adoperi in un modo, ora nell' altro. Parve che Hegel, a differenza dei suoi predecessori e maestri, sentisse in qualche maniera il bisogno di porgere questa ragione. A tal fine egli disse che il supremo principio della filosofia è il diventare, nel quale atto il nulla e l' essere si congiungono quasi ai loro confini; perocchè non richiedendosi ragione del primo principio, gli parve così di potersi schermire dal rendere alcuna ragione del diventare medesimo. Ma dei primi principŒ non v' è obbligo di dar ragione, se sono evidenti; ma v' è ben obbligo di giustificarli, se evidenti non sono, come è certamente il diventare di Hegel; e tanto più che questo diventare ha in ogni caso modi, e leggi, e tempi, di cui conviene assegnare qualche ragione che li determini. Che più? Lo stesso diventare di Hegel è un manifesto assurdo, giacchè suppone che qualche cosa diventi senza causa. Perocchè se assurdo non è che un essere, che prima non esisteva, cominci ad esistere quando sia posta una causa che lo crei, oltremodo è assurdo che cominci ad esistere da sè, senza che alcuna causa preceda, nè efficiente, nè materiale, come è assurdo pure che si annichili. Che se questa causa esiste, già non è più il diventare il principio dell' Ontologia, ma la causa prima che spiega lo stesso diventare, e lo rende concepibile all' intelletto; e di questa perciò è da parlare, ricorrendovi come a sufficiente ragione di tutti gli atti che conseguono, e delle loro circostanze (1). Tuttavia non si può negare che, commesso il primo errore, tutti gli altri sono in qualche modo conseguenti, inevitabili; perocchè la serie delle proposizioni erronee si può esporre così: 1) Il pensiero non può conoscere nulla fuori di sè (errore fondamentale, idealismo trascendentale, soggettivismo). 2) Dunque fuori del pensiero non v' è nulla. 3) Dunque ciò che si crede che esista fuori del pensiero, non è che una produzione del pensiero stesso, che produce il Non7Io, negando sè stesso. 4) Dunque le stesse idee sono produzioni del pensiero. 5) Ma il pensiero stesso, riflettendo che egli non può conoscere nulla fuori di sè, fa rientrare in sè il mondo reale e le idee, dopo averle prodotte come un diverso da sè, riconoscendo che quelle cose sono sè stesso, seco s' identificano. 6) Il pensiero poi può astrarre e negare, e così può annullare ciò che ha creato. 7) Di più, il pensiero può astrarre e non pensare sè stesso, perdere la coscienza, e quindi può annullarsi (2). Il pensiero stesso adunque (che abbraccia il tutto nel suo seno) ora è l' ente, ed ora il nulla. Così l' ente e il nulla si identificano. .) Ora, poichè l' infimo grado in cui possa essere il pensiero è questo annullamento di sè, e da questo nulla può sorgere a tutti gli altri gradi, perciò dal gran nulla escono fuori, come da un cotale oscuro abisso, tutte le cose. - Sistema del Nullismo. 9) Il pensiero ha dunque due termini: il nulla e il più alto grado di sua attività . La filosofia non può spiegare le cose, se non congiunge questi due termini; ella si deve dunque fermare a quel punto, nel quale il nulla diviene ente; e questo è il diventare di Hegel. 10) Ma la maggiore attività, a cui possa giungere il pensiero, è quella in cui egli acquista la coscienza di sè. Il pensiero consapevole adunque, come l' ultimo sviluppo dell' ente, è ciò che questi panteisti psicologici chiamano Dio. Ecco una serie di assurdi, procedenti con qualche logica connessione dal primo assurdo. Enumerare le produzioni fisiche, morali, sociali, ecc., del pensiero, e considerarle tutte come identificate al pensiero, è ciò in cui più ampiamente si stendono le opere di Hegel. Dobbiamo ancora ripetere ciò che abbiamo detto parlando di Schelling: questa filosofia non è che la riproduzione della filosofia indiana, e specialmente di alcune scuole del Buddhismo. [...OMISSIS...] Il principio di questi sistemi indiani è al tutto psicologico, quello stesso che forma la prima proposizione delle dieci da noi annoverate. Ecco due tesi, che si trovano in alcuni Sutras, citati da Burnouf: Non è mestieri il dire come un tale sistema sia empio; ma l' empietà, che esso racchiude, da niuno più che dai discepoli di Hegel fu nudamente proclamata e professata. « La stessa idea di Dio - dicono essi - non ha alcuna realità, perchè ella non riflette sopra sè stessa (2); quindi è gioco forza che la teologia si perda nell' Antropolatria, e che la religione disparisca nella speculazione ». La deificazione, il culto di latria reso all' uomo, come al solo Iddio: ecco l' assunto di questi deliranti, ecco il frutto maturo del soggettivismo; ci pensino bene i nostri italiani religiosi soggettivisti. Fra questi poniamo Aristotele; ma conviene fare sul suo sistema molte osservazioni. Primieramente è egli al tutto immune dall' errore, che noi attribuimmo a Platone, di confondere l' anima coll' idea, il soggetto coll' oggetto che la illustra? Questo sistema ha due faccie: è idealismo trascendentale, in quanto si ritengono le attribuzioni divine delle idee e le si attribuiscono all' anima, che con esse si confonde; ed è soggettivismo, in quanto si ritengono le doti dell' anima e le si attribuiscono alle idee, che con essa si confondono. In Platone questo sistema mostra la prima faccia; in Aristotele la seconda. Per fermo, è sentenza aristotelica che « « l' anima diventa in qualche modo tutte le cose » », e che « « intellectus est ea quae intelliguntur » (1) ». Di ciò abbiamo parlato nel « Rinnovamento » (2). Ella è tuttavia cosa grandemente diversa il confondere l' anima colle idee, attribuendo a quella la natura di queste, e il confondere le idee coll' anima, attribuendo a quelle la natura di questa, come noi crediamo che faccia Aristotele. In questo caso, benchè Aristotele ponga la natura dell' anima nel soggetto, e in ciò non erri, tuttavia cade in un errore assai maggiore di quello di Platone, perchè ignobilita le idee, traendole dal cielo in terra. Ma è prezzo dell' opera, che noi esaminiamo con più d' attenzione la sentenza aristotelica. Al vedere la franchezza, colla quale Aristotele parla censurando tutti i suoi antecessori, noi saremmo inclinati a credere che egli dovesse essere molto sicuro del fatto suo, e venuto in possesso d' una scienza ben definita. Pure a questa congettura fanno immensa opposizione le sue opere, nello stato in cui esse a noi pervennero. Durante il dominio della Scolastica, quando pareva una cotale empietà filosofica il dubitare che « il maestro di color che sanno »fosse caduto in contraddizione seco medesimo, lo spirito umano, preoccupato, non poteva portare un equo giudizio dell' aristotelica dottrina; una critica imparziale delle sue opere era impossibile. Questo freno d' indebita autorità posto agli ingegni provocò, secondo il solito, la reazione violenta da parte di quelli, a cui divenne alla fine insofferibile, i quali lo ruppero bruscamente come fa l' irato. Al giogo ingiusto dell' autorità filosofica, che vincola l' ingegno, essendo dunque succeduta l' ira, che lo acceca, ebbe luogo un' età, che neppur essa fu atta a giudicare equamente dell' aristotelica filosofia. Ben sarebbe desiderabile che nel tempo nostro, in cui sembrano sedati cotesti sdegni e resa impossibile quella autorevole prevenzione, si occupassero finalmente i dotti a darci una notizia veramente critica della dottrina, che nei libri a noi pervenuti dallo Stagirita si contiene, la quale ancora ci manca. Quanto a me, io non dubito che le ingiurie fatte a quei libri dalle vicende straordinarie, a cui essi soggiacquero, e dall' invida età, sieno maggiori di quel che si credano. Ma non importando investigare che pensasse veramente Aristotele, il che ci è affatto impossibile, bensì solamente ciò che contengono di presente i libri che portano il suo nome, io mi sento sgomentato a dover dire che essi presentano agli occhi miei brandelli di dottrine le più contrarie, un tessuto, o piuttosto un cucito, di tutti i sistemi filosofici che precedettero, dilacerati e rubacchiati ad un tempo. Mi conferma in questa opinione il vedere che Aristotele fu inteso dai suoi interpreti nelle guise più disparate, e gli furono attribuiti i sistemi più opposti. Alcuni lo vollero materialista, altri sensista, altri poi tolsero seriamente a conciliarlo con Platone fino a pretendere che egli differisca dal suo maestro di sole parole (1). A malgrado di ciò, mi sembra di poter asserire che il sistema aristotelico circa la natura dell' anima appartenga alla numerosa classe dei soggettivisti; e a ciò sono condotto dalle seguenti considerazioni. La definizione, che egli dà dell' anima, noi l' abbiamo riferita altrove [...OMISSIS...] . Ora, benchè molto sia stato disputato sul valore della parola entelechia, tuttavia la sua origine (da «en» e «telos») dichiara abbastanza che ella significa il finimento, l' atto che rende compiuto, la perfezione, ecc. (4). Quindi è indubitato che Aristotele concepì l' anima come un atto del corpo, col quale il corpo si perfeziona. E dice un corpo che ha la vita virtualmente, il che è più che potenzialmente; perocchè la mera potenza potrebbe pigliarsi per una capacità, o ricettività, o potenza passiva; ma la parola greca «dynamei» significa di più, esprimendo una potenza producente, ossia atta a passare all' atto, come sarebbe la forza rispetto al moto. Intende poi per un corpo, che ha virtualmente la vita, [...OMISSIS...] . Ora, in che ripone questa perfezione del corpo, che si chiama anima? In una forma o specie. E come definisce la forma o specie? Per contrapposizione alla materia, in questo modo: [...OMISSIS...] . L' anima dunque è ciò che si trova in un corpo e che fa sì che quel corpo sia un qualche cosa determinato, pel quale gli si dà il nome, nel caso nostro, che sia un animale. Non è dunque un atto accidentale del corpo (3), ma è un atto specifico, pel quale il corpo riceve un nuovo nome sostantivo. Quindi ripone l' anima fra le sostanze; perocchè egli distingue tre maniere di sostanze: la materia, la forma, e il composto (4); ma con più proprietà l' anima aristotelica si dovrebbe chiamare forma sostanziale (5). E veramente, in tutte le sostanze composte di forma e di materia non si vede come la forma, in quanto è forma, stia da sè, separata dalla materia; e per stare da sè deve esser qualche altra cosa oltre mera forma, onde non può essere sostanza, la quale sta da sè. Che anzi se si considerano i corpi, da cui furono tratte le parole di materia e di forma, e se si definisce la sostanza « ciò che in un ente esiste per sè », definizione che implica la relazione della sostanza coll' accidente, che esiste per quel primo (il che è quanto dire: la sostanza è l' atto pel quale sussiste l' essenza); in tal caso la condizione di sostanza appartiene piuttosto alla materia che alla forma; perocchè questa essendo come l' atto, quella è come il subbietto di questa (6). Quindi nel sistema aristotelico è impossibile concepire l' anima separata dal corpo, come l' atto è impossibile considerarsi senza il suo subbietto, di cui è atto. Niuna meraviglia, adunque, che Aristotele si trovi incerto e impacciato, quando applica la sua dottrina all' anima intellettiva; perocchè i filosofi, che lo avevano preceduto, avevano già dimostrato che le operazioni della pura intelligenza si fanno senza strumento di organo corporale; nè questo egli poteva negare, nè disconoscere la conseguenza, cioè che l' anima, in quanto è intelligente, non è atto di corpo, e poteva quindi sussistere senza corpo. Onde, dopo aver detto che l' anima non si può separare dal corpo, come l' immagine impressa sulla cera non si può separare dalla cera, quando poi viene all' intelletto, parla quasi incerto così: [...OMISSIS...] (1). Nel qual luogo è da considerarsi che il filosofo non disse addirittura che l' intelletto sia separabile dal corpo, ma disse separabile a quel modo che l' eterno è separabile dal corruttibile. A intendere adunque la mente di Aristotele conviene indagare che cosa egli intenda per eterno e per corruttibile, e in che modo, secondo lui, queste due cose sieno separabili. Se non si indaga questo prima di tutto, egli parrà cadere poche linee appresso in contraddizione. Infatti, se l' intelletto è separabile, perchè non è atto di corpo o di organo corporeo, dunque l' anima intellettiva non deve essere forma di corpo, perchè la forma o specie del corpo viene definita « l' atto e la perfezione del corpo stesso ». Tuttavia tosto appresso Aristotele dice che l' anima, anche in quanto pensa, è la specie, ossia forma del corpo: [...OMISSIS...] . Nega dunque all' anima intellettiva l' esser subbietto e materia, il che attribuisce al corpo; e le concede solo l' essere specie, forma, intenzione, atto, perfezione del corpo. Nè si può dubitare che qui si parli dell' intelletto, perocchè nel terzo libro definisce l' intelletto espressamente così: [...OMISSIS...] . S' aggiunge che nel libro secondo « Degli Analitici Posteriori » parla delle facoltà conoscitive degli animali imperfetti (attribuendo erroneamente anche ad essi una maniera di conoscere), e quindi passando agli animali perfetti, cioè agli uomini, viene a parlare dell' intelletto. Onde l' anima intellettiva è considerata come forma negli animali perfetti, di un grado più elevata di quella che è l' anima dei bruti, ma dello stesso genere. Che cosa dunque Aristotele intende per ciò che è eterno? Che cosa intende col dire che l' eterno si separa dal corruttibile? In primo luogo si avverta che Aristotele nega le idee e forme separate di Platone, che quindi non riconosce altre forme che quelle che sono nei particolari; che come non separa la forma dalla materia, così neppure la materia dalla forma, di cui ella è il soggetto. Alle forme particolari attribuisce l' atto, e quindi l' azione e la generazione; ma nega che producano forme, producano composti, appunto perchè la forma è inseparabile dalla materia. Ora la materia è eterna, e però deve avere una forma eterna, cagione di tutte le altre forme. Di più, è proprietà della mente separare la materia dalle forme, e così toglierle alle sue incessanti vicissitudini. La materia, dunque, astratta dalla mente, e parimenti le forme astratte, sono incorruttibili ed eterne rispetto alla mente che le contempla, a quel modo che spiega nei libri « Degli Analitici Posteriori »; quindi ciò che è eterno per Aristotele è la materia e la forma prese in astratto, le quali in realtà non esistono nell' anima, ma nelle cose esteriori. Ma l' anima ha la potenza di riceverle dal di fuori, ed è così che viene la mente dal di fuori, e che è separabile, perchè non è innata se non in potenza; dove si vede che la parola mente o intelletto si confonde colle specie che si acquistano dal di fuori, che è appunto l' errore da noi accennato, di confondere il soggetto coll' oggetto. Adduciamo in prova di ciò qualche luogo del filosofo. E prima di tutti sarà uno notevolissimo dal secondo libro « Della generazione degli animali », dove egli toglie a spiegare la generazione che si fa per via dell' unione dei sessi. Quivi egli distingue l' anima in potenza dall' anima in atto; l' anima non si dice essere generata e veramente esistere, se non è in atto. Ora l' anima vegetativa, sensitiva, e intellettiva, vengono all' atto successivamente, ed escono, quasi a dire, come si traggono l' un dall' altro i diversi tubi di un cannocchiale. Dice dunque che nel seme è uno spirito, e in questo è la natura, cioè il principio vitale etereo ( proportione respondens elemento stellarum ), che è l' anima ancora in potenza. Di quest' anima in potenza, all' atto del concepimento si fa l' anima vegetale, la cui indole consiste nella virtù che ha un corpo organico di ricevere nutrimento, e colla nutrizione, operazione interna, accrescere, e quindi anche poscia decrescere; indi esce dopo qualche tempo dal corpo nutrito un altro suo atto, cioè l' anima sensitiva, e finalmente da questa già maturata, l' intellettiva. [...OMISSIS...] (1). Il seme adunque maschile contiene l' anima in potenza, ma il concepito, che è tosto quando la femmina è fecondata, già contiene l' anima in atto, solo però l' anima vegetale. [...OMISSIS...] . Ora - soggiunge - [...OMISSIS...] . Fa venir fuori l' anima intellettiva allo stesso modo come fa venir fuori la sensitiva, e prima la vegetale dallo stesso corpo seminale, in cui il calore vitale s' acchiude (1), poichè dice: [...OMISSIS...] . La specie dell' uomo, e la specie del cavallo o di ogni altro animale, è trattata ad uno stesso modo; il che mostra abbastanza che Aristotele non conobbe l' altro elemento, che nell' intelligenza racchiudesi. Vuole dunque che il corpo potentia vitam habens, cioè il corpo che ha il calore vitale, quale è il seme e nel calore vitale la natura, ossia il principio vitale, quale è il seme maschile, tostochè si organizza e passa all' atto del nutrirsi, sviluppi l' anima vegetale, e successivamente gli altri due atti del sentire e dell' intendere. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto che le tre anime nascono così come tre atti successivi di un corpo, che ha in sè il principio vitale e che si sviluppa, passa a confermare la sua dottrina, provando che niuna delle tre anime può venire dal di fuori del corpo. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto tutto questo e fatte le tre anime inseparabili, e anche l' intellettiva fatta uscire dal corpo come le altre, soggiunge: [...OMISSIS...] . Ora alcuni intesero che questa mente , che Aristotele fa venire dal di fuori, sia l' anima intellettiva; ma ciò non può essere il pensiero dello Stagirita, perchè ha fatto già venire tutte e tre le sue anime, o le parti e funzioni dell' anima, dallo stesso corpo che le ha in potenza, la vita del quale si attua successivamente, prima divenendo vegetabile, poscia sensitiva, e finalmente intellettiva. Che anzi immediatamente soggiunge, confermando ciò che aveva detto prima: [...OMISSIS...] . Rimane dunque a cercare che cosa sia questa mente, che viene dal di fuori, benchè l' anima intellettiva stessa sia un atto e una perfezione del corpo. Nè ella può esser altro che una speciale facoltà o qualità, che l' anima intellettiva trae dal di fuori, cioè dalla comunicazione col mondo esteriore. Ora dal mondo esteriore appunto Aristotele vuole che noi caviamo le idee e gli universali; ed è perciò a vedere in che modo egli ne spieghi la produzione in noi; il che egli fa verso la fine del secondo libro, come dicevamo, degli « Analitici Posteriori ». Cerchiamo adunque in questi la spiegazione della sentenza aristotelica. Quivi il filosofo si propone di spiegare come noi abbiamo la cognizione immediata dei principŒ . E dopo aver detto che non può essere innata con noi, perchè ne avremmo coscienza (2), che è la solita ragione dei sensisti, la cui leggerezza fu già da noi dimostrata (3), dice che dunque è uopo che abbiamo qualche potenza di acquistarli. L' ammettere però una potenza di acquistare i principŒ della ragione, non spiega ancora cosa alcuna circa il modo di acquistarli, anzi lascia indecisa la questione assai più profonda: « se vi possa essere una potenza di acquistare i principŒ della ragione, senza che ella stessa abbia qualche principio, o qualche idea, di cui possa far uso ed essere diretta nel suo operare »; il che noi già dimostrammo affatto impossibile (4). Seguita Aristotele dicendo che tutti gli animali hanno questa potenza, perchè tutti hanno il senso; dando così al senso l' officio di formare i principŒ del ragionamento. Ma qual è dunque la differenza fra il sentire e l' intendere ? Questa differenza la riconosce Aristotele, e riprende i primi, che filosofarono, di non averla veduta, confondendo il senso coll' intelligenza. Ma finalmente (come appunto fanno i moderni soggettivisti, che non vogliono essere sensisti, benchè pur lo sieno) la differenza che egli pone, non consiste che in una cotal differenza, che ancora non eccede la sfera della sensitività, perchè colloca l' intendere in una permanenza della cosa sentita. [...OMISSIS...] . Ed ecco chiaramente spiegato come la ragione, ossia la mente, venga dal di fuori ad alcuni animali, quali sono gli uomini. Sono le sensioni eguali e simili, che vengono dal di fuori, che molte lasciano la stessa impressione permanente; e questa impressione unica, che rimane nell' anima da molte sensazioni, è ciò in cui Aristotele vede il nascimento della mente o della ragione, che ha per sua dote l' unità, il contemplare più cose in un solo. Ma altro è che più sensioni lascino nell' anima un' impressione eguale, il che avviene anche nei bruti, in quanto le sensioni sono simili, altro è che l' anima si giovi di quell' unica impressione, che rimane nel senso interno, quasi di tipo a riconoscere tutte le sensioni che ad essa rispondono, e di più tutte le possibili, il che fa solo l' uomo; perocchè solo l' uomo pensa il possibile, e solo il possibile costituisce l' universale, la spiegazione del quale è l' unico nodo della questione. E questo nodo è trasaltato via assai leggermente dal nostro filosofo; anzi egli pur mostra d' ignorare che la natura dell' universale sta tutta nel concetto del possibile, ossia nell' essere puramente ideale. Egli dunque seguita a dichiarare come la sensione si fermi nello spirito, e vi lasci un elemento costante in questo modo: [...OMISSIS...] Noi avvertimmo nell' « Ideologia » che, di tutte le opere di Aristotele, questo è quel luogo in cui il nostro filosofo più s' avvicina alla vera teoria dell' origine delle idee, perchè parla di un universale quiescente nell' anima, e dice che « « l' uno, in quanto è ente, è il principio della scienza » ». Ma conviene confessare che, ogni cosa bene considerata, rimane per lo meno dubbioso se Aristotele esca con ciò dal sensismo. Primieramente quell' universale quiescente è tradotto da Abramo de Balmes e da Giovanni Francesco Burana per « « universale costituito e stabilito nell' anima dalle molte memorie, o reminiscenze precedenti » », di maniera che non sia l' universale nell' anima che dia l' unità alle molte memorie, ma sieno le molte memorie che lascino l' unità, e per essa l' universale, nell' anima; e così pure la intende l' arabo commentatore. Ove è chiaro che il senso può lasciare, dopo le sensazioni, immagini nella fantasia, e più immagini associate fra sè e con novelle sensazioni possono produrre l' istinto di operare in modo che simuli un operare ragionevole, per una cotale aspettazione istintiva di casi simili, come noi abbiamo dichiarato rendendo ragione del perchè nell' operare dei bruti scorgasi ordine, somigliante a quello che si scorge nell' operare dell' uomo (1); ma non sarà mai che con ciò si spieghi un concetto universale, che è quello col quale la mente intuisce l' oggetto nella sua possibilità, mentre il fantasma non esce dalla realità delle cose passate e presenti, e nulla più produce che un' inclinazione e aspettazione di cose simili (senza idea di somiglianza). Quindi i commentatori più penetranti, come l' Aquinate, ritennero l' universale quiescente nell' anima esser cosa nuova, che qui introduce quasi di furto Aristotele, non l' unità dell' effetto fantastico, lasciato nell' anima dalle varie memorie, ossia immagini; ritennero che per quell' universale quiescente Aristotele intendesse veramente un principio esistente nell' anima, pel quale l' esperimento o l' effetto delle memorie, rimasto nell' anima, venga esteso all' avvenire e propriamente ai possibili, rendendosi così universale in atto. E se si considera che Aristotele pone sempre in potenza nell' anima ciò che poscia vi è in atto, non è punto improbabile che per universale quiescente egli intenda l' universale in potenza . Ma rechiamo le stesse parole del Dottore d' Aquino: « Hoc est enim quod dicit, quod sicut ex memoria fit experimentum, ita etiam ex esperimento, AUT ETIAM ULTERIUS, ex universali quiescente in anima »; ecco come l' universale quiescente, secondo S. Tommaso, non è l' effetto dell' esperimento, ma è la causa ulteriore dei concetti universali, che, posto l' esperimento, si formano, « quia scilicet accipitur ac si IN OMNIBUS », cioè in tutti i possibili, « ita sit, sicut est experimentum in quibusdam. Quod quidem universale dicitur esse quiescens in anima, in quantum scilicet consideratur praeter singularia, in quibus est motus; quod etiam dicit esse unum praeter multa, non quidem secundum esse », secondo la sussistenza, « sed secundum considerationem intellectus, secondo l' idea, qui considerat naturam aliquam, puta hominis, non respiciendo ad Socratem et Platonem; quod tamen, etsi secundum considerationem intellectus sit unum praeter multa, tamen secundum esse est in omnibus singularibus unum et idem non quidem numero, quasi sit eadem humanitas numero omnium hominum, sed SECUNDUM RATIONEM SPECIEI », che è di nuovo, secondo l' idea: « ex hoc igitur experimento, ET EX TALI UNIVERSALI PER EXPERIMENTUM ACCEPTO » (qui pare all' opposto che l' universale quiescente sia ancora l' effetto dell' esperimento, se pure questo universale non si debba qui prendere pel concetto universale in atto) « est in anima id, quod est principium artis et scientiae, etc. ». Secondo la quale interpretazione: Molte sensazioni fanno una memoria, molte memorie un esperimento, dall' esperimento e dall' universale quiescente, cioè in potenza, viene l' universale in atto. - Non è mestieri osservare che dalle sensazioni viene il fantasma, ed altresì una cotal ritentiva, un certo vestigio sensibile della sensazione avuta, il quale dirige l' animale a risuscitare il fantasma. Ma la memoria delle sensazioni e del fantasma esige l' intendimento, se per memoria s' intende le idee delle sensazioni avute, che rimangono in noi; si salta dunque dall' ordine del senso a quello dell' intelligenza, senza dare spiegazione di tal passaggio, o piuttosto senza accorgersi del gran salto. Dopo di ciò, il progresso del ragionamento è facile, perchè già l' universale è posto, basta dividerlo, ossia astrarlo. Tuttavia si riconosce che la natura dell' universale si è questa, che l' anima concepisca in tutti i possibili eguali ciò che esperimenta avvenire in alcuni reali; ma di nuovo non si dice come l' anima estenda la sua veduta a tutta la sfera del possibile, la quale sfera eccede infinitamente ogni numero di sensazioni. Si dice ancora che l' universale est unum praeter multa, è uno fuori dei molti. Ora i molti sono reali e singolari; l' anima, che intuisce l' universale, lo considera fuori di essi, non lo trova in essi; quell' universale è uno non secundum esse, cioè secondo il sussistere delle cose, perchè esso è fuori di questa sussistenza, praeter multa, essendo molti gli individui per la sussistenza che ha ciascuno in proprio, ma secundum considerationem intellectus, perchè è l' intelletto quello che vede come ciò che fu esperimentato può replicarsi all' infinito, cioè vede il possibile ; ma rimane sempre a spiegare che cosa sia questo possibile, il quale non si trova negli enti singoli, che agiscono nel senso; e questa è sempre la lacuna, che rimane aperta nel sistema aristotelico; ed è lacuna immensa, perchè taglia fuori tutta la questione. Egli distingue due uni , l' uno che è praeter multa, e questo non è sussistente, nè sensibile, ma solo intuìto dall' intelletto; l' altro, che è l' uno sussistente, secundum esse; e questo, dice, si trova in omnibus singularibus, si trova nei singolari, ma non è uno di numero, bensì uno di specie, unum et idem, non quidem numero, sed secundum rationem speciei . Ma così torna in campo la difficoltà, perchè la ragione della specie non è che cosa intellettuale, e però non può essere nei singolari, nei quali non vi è altro che la sussistenza, la quale è cosa in ciascun singolare separata, onde non fa un uno in più di essi, ma solo nella mente, che considera e paragona più singolari insieme. Il qual paragone non si può fare, se non raffrontando i singolari ad un tipo comune, che è l' idea, ossia la specie; onde l' uno è sempre nell' idea, e suppone l' idea (1). Donde proviene adunque l' idea? Ecco ciò che rimane tuttavia da spiegare; ecco il solito vano; ecco supposto quello che si cerca. E qui si scorge il vero fonte del sensismo di tutti i tempi, ed è il darsi a credere che l' uno sia doppio, cioè che egli esista in più reali, come sono singolari sensibili secundum esse, e che esista nell' intelletto secundum considerationem intellectus . Ma il fatto si è che niente di tutto ciò che è in un individuo reale forma unità con qualche cosa di ciò che è in un altro individuo reale; perocchè ciascun individuo reale è affatto diviso e separato dall' altro; ed essi sono più, senza che in alcun modo nella loro pluralità vi sia unità, eccetto che rispetto all' intelletto, il quale con una sola e medesima idea o specie li conosce. Onde l' uno secundum considerationem intellectus e l' uno secundum rationem speciei, non sono due uni, ma è lo stesso uno, espresso con due frasi che significano in fondo lo stesso. Ma poichè l' uomo parla sempre degli individui reali conosciuti, ed egli crede di parlare degli individui reali semplicemente, quindi egli si dà a credere che l' uno, che trova negli individui7cogniti di cui parla, sussista negli individui reali stessi, mentre non istà che nell' elemento conoscitivo, che egli vi ha aggiunto coll' atto del conoscerli, il quale elemento è l' idea o la specie, con cui li conosce. Illuso adunque Aristotele dall' errore di riporre negli individui stessi reali ciò che non è che negli individui7reali7conosciuti, diede a quelli ciò che è in questi, l' elemento conoscitivo, l' uno proprio della sola idea. E poichè gli individui reali si conoscono soltanto a condizione che sieno percepiti dal senso, quindi giunge a dire che il senso in questo modo fa l' universale, perchè fa la memoria, e questa l' esperimento, che diviene universale, e che perciò non vi è alcuna scienza innata, quasi abito ingenito. Se non che lo si vede titubante, perocchè non osa conchiudere, come dovrebbe stando alle premesse, che non vi sono abiti di scienza innati, ma solo nega gli abiti innati determinati : limitazione che fece affaticare i commentatori a darne chiara spiegazione, e non si poterono mai mettere d' accordo. Rechiamo di nuovo il testo che segue immediatamente al luogo addotto: [...OMISSIS...] . Nel qual passo il sensismo è manifesto; e tuttavia ancora dubbioso e vacillante, poichè si fanno venire dal senso gli universali, ma si dice però che il senso non può produrli in ogni anima, ma soltanto in quella che è atta a patir ciò, anima vero est talis, ut possit pati hoc; e, sebbene la parola patire sia oltremodo sensistica, perchè sembra che il solo senso agisca e che l' anima li riceva dal senso, come la cera riceve l' impressione dal suggello, tuttavia, qualora si confronti questo luogo con altri di Aristotele, in cui egli introduce nell' anima un lume, che chiama lume dell' intelletto agente, si scorge che egli non osa negare che nell' anima vi sia un principio formale degli universali; onde S. Tommaso commenta in questa maniera il passo allegato: [...OMISSIS...] . Laonde, sebbene nel testo di Aristotele non si esiga altro se non che l' anima sia tale ut possit pati hoc, tuttavia S. Tommaso vi aggiunge di più, che sia tale che possit agere hoc ; il che già è un allontanarsi dal sensismo aggiustando il testo nostro con altri testi pur del filosofo. Ora l' intelletto possibile altro non è che l' intelletto in potenza, ossia l' anima intellettiva in potenza; e l' intelletto agente non è che la virtù che ha quell' anima intellettiva in potenza di divenire anima intellettiva in atto, il quale atto le viene dal di fuori, cioè dalle sensazioni. Il dire poi che l' intelletto agente fiat intelligibilia in actu per abstractionem universalium a singularibus, conferma ciò che abbiamo detto circa l' errore, onde provenne come da universale fonte ogni sensismo, il che non è mai abbastanza considerato. Poichè l' uomo che astrae l' universale dal singolare, da quale singolare lo astrae? Certo da quello, che egli ha già concepito nella sua mente; perocchè sopra quei singolari, che egli non ha concepiti, non può esercitare l' operazione dell' astrarre, non avendoli presenti alla mente. Orbene, i singolari già da lui concepiti, onde astrae gli universali, sono forse nè più nè meno i singolari non concepiti? Questo è da vedersi, poichè la mente nel concepirli può avere aggiunto loro qualche cosa, che non hanno nella pura loro realità. E questo, che si doveva diligentemente vedere e cercare, fu dimenticato affatto dal filosofo; nè manco gli venne in mente che si potesse muovere cotal questione; eppure qui sta il tutto, qui sta quello su cui si disputa. Posto adunque lo stato della questione come deve essere posto, è facile a discoprire che i singolari, come sono nella mente, non sono puramente i singolari, come sono nella loro realtà fuori della mente; che anzi, entrando nella mente, hanno ricevuto per prima compagna la sensazione, e per seconda l' idea con cui si concepiscono, nella quale idea sta l' universale. Se noi dunque riassumiamo l' analisi delle cognizioni umane, fatta da Aristotele, e l' ordine in cui egli le distribuisce, troviamo: 1) che le cognizioni più remote dall' origine loro sono le conclusioni ; 2) alle quali debbono precedere nella mente i principŒ da cui provengono, onde nel primo dei « Fisici » dice che gli universali si conoscono avanti i singolari; 3) ma i primi principŒ sono quelli che non hanno mezzo con cui si dimostrino, riconosciuti evidenti tostochè se ne concepiscono i termini, dei quali il predicato è contenuto nella ragione del soggetto (giudizi analitici); 4) la questione adunque dell' origine delle cognizioni si riduce a sapere quali sieno i primi termini che si concepiscono dalla mente umana; perocchè, concepiti questi primi termini, tosto si hanno i primi principŒ, e da questi le conclusioni immediate, che sono principŒ rispetto alle conclusioni più remote. Ora, i termini che prima si conoscono, secondo Aristotele, sono l' ente e l' uno (1), che non differiscono se non secondo il rispetto sotto cui si considerano. Dunque tutta la questione dell' origine delle idee e delle cognizioni umane si riduce, secondo il medesimo Aristotele, alla questione: « Come si conosce l' ente? Come si conosce l' uno nei molti singolari? ». La questione in tal modo è posta ottimamente; ma questo stato della questione non è che il fondo della dottrina aristotelica, poichè in termini espressi non si trova così proposta in niuna parte delle opere dello Stagirita. Rimane dunque a vedere come la sciogliesse, e già l' abbiamo indicato; ma torniamoci sopra. Egli ricorre a due cause, al senso e alla natura speciale dell' anima, che ha la potenza di fermarsi a considerare nel sensibile il comune, il qual comune è l' universale; onde, nel secondo degli « Analitici Posteriori », dice che la cognizione sensibile è anteriore alla cognizione degli universali (1). Ma questo non è ancora, come già osservammo, spiegare l' origine delle cognizioni, poichè non basta il dire che l' anima abbia la potenza di formarsele, il che ognuno sa; conviene mostrare per quali passi questa potenza le vada producendo, e a quali condizioni ella possa produrle. Aristotele tenta anche di farlo. L' anima umana, viene egli a dire, è così disposta, che al ricevimento delle sensazioni ritiene quella parte che esse hanno di comune, il che egli chiama memoria ; paragonando più memorie, ritiene di nuovo quella parte che hanno di comune, il che egli chiama esperienza ; e così per via di astrazione giunge fino agli ultimi astratti ed ai principŒ. Ma lasciando stare che qui non è spiegato come nasca l' idea della sostanza, perchè le sensazioni non contengono la sostanza dell' ente esterno, ciò che vogliamo principalmente osservare si è che tutto questo discorso suppone che nel reale sensibile, o nella sensazione reale, sia già il comune, ossia l' universale ; poichè se non fosse, l' anima non si potrebbe fermare in esso ed astrarlo. All' incontro il vero si è che ogni reale esterno, ed ogni sensazione reale, non esce di sè, è tutta reale e finita; e niente di ciò che è reale è comune con un altro reale, con un' altra sensazione reale; dunque non vi è alcun comune, alcun universale nell' esterno reale, nè tampoco nella sensazione, che esso in noi produce, e che è reale anch' essa. Come adunque Aristotele credette di giungere a trovare il comune, l' universale, l' uno, l' ente nel sentito? Per quella illusione che abbiamo indicata, per la quale egli attribuì al reale puro ciò che appartiene al reale già concepito dalla mente. Per dirlo di nuovo, e non è mai detto abbastanza, il sentito, ossia il reale esterno a noi sensibile, dove vi è il comune, ossia l' universale, è il reale sensibile, tale quale esiste nella nostra mente, che l' ha percepito; poichè egli è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione, e l' astrazione non si esercita se non sull' ente reale sensibile già percepito. Conviene dunque spiegare la percezione, il che noi abbiamo fatto nel « Nuovo Saggio ». Dalla spiegazione ci risultò che la percezione intellettiva è « il reale sentito, in quanto dall' intendimento si vede nell' essere ideale come sua realizzazione ». Ciò posto, è chiaro che il reale sensibile percepito, su cui si esercita l' astrazione, contiene il comune e l' universale da cui si può astrarre, perchè esso non è il solo reale, ma il reale nell' ideale, è un oggetto reale7ideale, particolare7comune, e non reale e particolare solamente. Io dovrei qui venire alla conclusione, riassumendo il modo onde Aristotele intende che la mente, ossia l' intelletto, venga all' anima dal di fuori; ma non posso a meno di far prima l' intramessa di un punto di storia filosofica poco conosciuto; ed è la vera origine della celeberrima questione dei Reali e dei Nominali, e le loro vere sentenze. Esse si rinvengono diligentemente esposte nell' opera di Abelardo sopra Porfirio, poco innanzi da me citata, quale si trova nel Codice Ambrosiano. L' ente7reale7sensibile, percepito dall' intendimento, è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione; coll' astrazione si separa da esso il comune . Nasce tosto la questione, se il comune sia nelle cose o nell' intelletto. Si noti prima che l' uno, o il comune, o l' universale, è pressochè il medesimo; perocchè comune altro non significa se non ciò che è uno in più enti, e universale significa ciò che è uno in tutti gli enti possibili di una classe, o in tutti affatto gli enti. Ciò posto, Aristotele trovava l' uno, come abbiamo veduto, nelle cose reali, unum in multis, e diceva che questo era il principio dell' ente; e trovava pure l' uno nell' intelletto, unum praeter multa, e diceva che questo era il principio della scienza (1). Ora è chiaro che l' unum praeter multa per lui era il comune, astratto e separato dalle cose, l' idea specifica o generica della cosa, la cui sede è certamente l' intendimento, ed è principio della scienza, in quanto la scienza tratta teoreticamente delle cose e per astrazione. E` chiaro ancora che l' unum in multis viene ad essere il comune, riferito dalla mente alle cose singole reali percepite, perocchè il concetto della mente, uno com' è, si unisce e si lega in noi a ciascuna di esse, e in quanto è legato a ciascuna, noi lo chiamammo idea particolare ; e questo è il principio dell' arte, perchè l' arte è un abito di operare con ordine intorno ai particolari reali. Ma l' ordine, con cui opera l' arte, procede dall' averli percepiti colla mente, che li scorge simili o dissimili; infatti il simile è l' idea stessa intuìta in più cose reali, o per dir meglio più cose reali vedute nella stessa idea. Aristotele dunque poteva avere tutta la ragione nel distinguere l' unum in multis e l' unum praeter multa, e nel dire altresì che quello era il medesimo uno (1), se egli avesse inteso con ciò l' uno, cioè il comune nelle percezioni, e l' uno, cioè il comune nell' idea separata dalle percezioni. Ma l' errore suo era sommo e capitale, perchè non prendeva la cosa così, nè si accorgeva che il ragionamento andava bene fino che si parlava dell' ente reale concepito ; ma non andava più bene, tostochè si parlava del puro reale. Quindi egli errava, applicando al reale puro ed alla sensazione, che è anch' essa un singolare reale, ciò che non era vero se non rispetto all' ente reale percepito; e quindi errava altresì, facendo venire dal senso l' universale, il comune, l' uno; medicando poscia alquanto col dare all' anima una potenza di fermarsi al comune, che però riponeva nelle cose. Il quale errore di Aristotele debbo dire che non fu scoperto giammai da veruno, per quanto è a mia cognizione; e perciò la spiegazione degli universali divenne lo scoglio inevitabile della filosofia, e diede origine a perpetue, inconciliabili dispute, che hanno stancati ed allassati inutilmente tutti i secoli precedenti, e disamorati gli uomini della filosofia. Perocchè i primi commentatori ripeterono press' a poco quello stesso che disse Aristotele, ed ora riposero il comune nel reale sensibile, ora nell' intelletto, ora in entrambi, senza molta coerenza, nè sospettar guari la difficoltà. Poscia, meditandosi via più sulla cosa affine di dare un' espressione scientifica e precisa alla dottrina aristotelica, vi furono di quelli che si fermarono all' unum in multis, e dissero che i reali hanno veramente in sè qualche cosa di comune e di uno; onde fecero che l' uno appartenesse all' ordine della realità, e questi furono i Realisti . Ma tantosto si separarono fra di loro. Secondo l' esposizione di Abelardo, al suo tempo essi erano divisi in due fazioni; alcuni, tenendo fermo che il comune deve essere una realità, escludevano affatto da esso ogni elemento intellettuale, e dicevano perciò che il comune, ossia l' uno, che è nelle cose, era la materia, e che il proprio era la forma delle cose (1); sistema assurdissimo, perchè faceva sì che la stessa identica materia ricevesse contemporaneamente tutte le varie forme, in cui si presentano le cose. Così scambiavano la proprietà della materia colla proprietà dell' essere ideale, che veramente identico si attua e realizza in tutte le forme, ripristinando la materia intelligibile di Platone e dei filosofi di lui più antichi. Ma il sistema veniva ad avere due facce, perocchè parlando della materia reale, esso riusciva ad un materialismo assurdo, dove il comunissimo, cioè l' intelligibile, si faceva materiale; parlando poi della materia intelligibile, riusciva ad un idealismo del pari assurdo, dove la materia reale si cangiava in idea. La seconda fazione dei Realisti sosteneva che il comune è nei reali non secondo la materia, ma secondo la convenienza della similitudine. Questi aggiungevano in tal guisa un elemento intellettivo, ma non si accorgevano affatto di aggiungere qualche cosa all' ente reale; non si accorgevano di aggiungervi l' idea, dove solamente sta la loro similitudine, perchè veduti nell' idea dell' essere, ivi si commisurano e paragonano (2); anzi credevano di non aggiungervi se non l' atto, con cui l' intelletto li riguardava, e quindi stimavano che la similitudine, veduta in essi, fosse in essi come reali, e non come percepiti ; il quale era propriamente l' errore di Aristotele (3). Ma come avviene che quando le dottrine non sono chiare e nette, non tutti possono intenderle allo stesso modo, questa seconda fazione si spartiva nuovamente in due scuole; la prima delle quali sosteneva che l' universale, riposto nei singoli reali, risultasse dalla loro collezione, e non si potesse affermare di ciascuno (1); la seconda, che nella natura di ciascun singolo si contenesse (2). E prescindendo dall' errore capitale di sostituire il reale percepito al reale puro, entrambi avevano ragione; perocchè da una parte in ciascun reale percepito, essendovi l' idea in cui si vede, vi è il comune, essendo ogni idea un tipo comune di tutti i possibili, sotto il quale aspetto aveva ragione la seconda scuola. Se poi si considera che, finchè l' intendimento non ha che un solo reale percepito, esso non può accorgersi che vi giaccia il comune, ma se ne accorge tosto che, avendo più reali percepiti, ne fa il confronto, pare che solo nella collezione di più reali, fatta nella mente e dalla mente paragonati, si scorga il comune. La differenza sta dunque fra il comune in sè, che è nei singoli reali percepiti, e il comune conosciuto dall' uomo come comune, il quale non si osserva che nella collezione, nel rapporto di similitudine, che si vede avere ciascuno cogli altri, poichè la similitudine esige più enti fra cui ella passi. Ma posciachè non era conosciuto che l' oggetto reale, in cui si trova il comune, ossia l' universale, è un oggetto misto di reale e d' ideale, essendo un reale concepito; quindi entrambi i sistemi dei Realisti prestavano dei lati deboli, dai quali assaliti facilmente rovinavano. Il che diede luogo al sistema dei Nominali, cadente nell' eccesso opposto, giacchè se i primi si fermavano nel reale, senza accorgersi dell' ideale con esso congiunto nella mente nostra, i secondi neppur essi si accorgevano dell' ideale, ma vedevano che nel mero reale non si poteva trovare l' universale e il comune; e però s' appigliavano a dire che l' universale non era che un nome (1). Abelardo adunque, che ai Nominali appartiene, tolse a rifiutare tutte e due le scuole accennate di Realisti, in questa guisa. Quella di esse che riponeva l' universale in una collezione, esprimeva male il suo pensiero, che era certamente volto a indicare la similitudine, che in più individui si trova; poichè la parola collezione denotava un numero finito di individui reali, laddove il comune si trova in tutti gli individui possibili, i quali sono indefiniti di numero. Onde Abelardo argomentava: [...OMISSIS...] . Gli argomenti erano irrepugnabili. Abbatte pure la seconda scuola di Realisti con queste argomentazioni: [...OMISSIS...] . Abbattuti così i Realisti, Abelardo trae qual necessaria conseguenza il nominalismo: [...OMISSIS...] (2). E anche al nominalismo diede occasione Aristotele coll' avere insegnata piuttosto la dialettica che la logica, e presentate le idee e le argomentazioni vestite di vocaboli, ed esposti i nessi di questi più che di quelle; onde sul vocabolo materiale si pose più attenzione che sul suo significato invisibile e spirituale, in cui principalmente contemplava la mente di Platone. Quindi i predicamenti si chiamarono le cinque voci ; e i filosofi impacciatissimi a spiegare gli universali, sui quali ogni sistema presentava difficoltà insormontabili, finirono coll' appigliarsi del tutto ai vocaboli, come ad una tavola nel naufragio, quelli surrogando agli incomodissimi universali, e così eliminandoli affatto dalla filosofia. Toglie dunque Abelardo a dimostrare che un nome comune, fino che è solo, non presenta alcun oggetto all' intelletto, ma può significarne più d' uno; quando poi è determinato dall' unione con altri vocaboli, allora significa il particolare. Ma quando viene a ricercare quale sia la causa per cui s' impongono nomi comuni alle cose, egli allora è costretto a ritornare alla similitudine dei singolari (1), che gli rimane là dura e salda come uno scoglio, senza alcuna spiegazione (2), perocchè ella è appunto una di quelle cose così facili, così naturali, che si sogliono supporre dai filosofi e trapassare; ed esse intanto nascondono nel proprio seno un sistema intero. Dopo le quali cose è tempo che torniamo a noi, e che riassumiamo: Aristotele pose che l' uno, il comune (pressochè sinonimi) sia nelle cose, unum in multis ; che in quelle anime che sono fatte a ciò, come le umane, quando ricevono per mezzo del senso l' impressione delle cose, allora rimanga in esse il comune insieme col proprio; che le medesime anime, dotate di tale facoltà, fermino, pongano mente a quel comune, astraendo dal proprio, e così formino l' uno astratto , il comune, l' universale, che è nell' anima, unum praeter multa . Questo universale ridotto alle ultime astrazioni è l' intelletto, ossia la mente, la quale viene nell' anima dal di fuori (3). Ma posciachè l' anima non potrebbe acquistare questo intelletto, se non ne avesse la facoltà, dunque, dice Aristotele, l' anima ha l' intelletto in potenza (intelletto possibile); ed acquista poscia dal di fuori l' intelletto in atto, mediante la facoltà di fermarsi al comune ed astrarlo (intelletto agente), ammettendo questo principio, che intellectus in actu est intellectum in actu . Ecco tutta la teoria dell' anima di Aristotele; la quale anima rimane sempre un atto, una perfezione, una entelechia del corpo, dalla quale si divide la mente, quando si perde la cognizione del comune, e si acquista la mente, quando quella cognizione si riceve dai dati del senso; ma l' anima stessa non è dal corpo divisibile. Secondo questa dottrina l' anima non è corpo, ma è bensì atto di corpo, cosa appartenente al corpo, indivisibile dal corpo, esistente tutta in potenza in quello spirito, che afferma Aristotele trovarsi nel seme maschile, dal quale si sviluppa secondo le circostanze, e secondo che il corpo è meglio organato; perocchè lo svilupparsi fino a venirne l' intelligenza e l' intelletto in atto, è anche questo efficienza di un corpo idoneo a ciò, che egli dice più divino . Se egli la chiama forma , non è che dal corpo realmente la distingua; la chiama sostanza , ma per sostanza intende l' ultimo atto perfezionatore di una data materia, a cui non è dato l' esistere da sè, senza la materia di cui ella è la perfezione, ossia l' entelechia (1). L' errore di Aristotele intorno alla natura dell' anima consiste, dunque, nell' « aver fatto venire il comune dalle cose reali (dal senso che le percepisce e dall' anima atta a riceverlo), invece di sollevarsi ad intendere che il comune veniva più d' alto, che esso è essenzialmente idea ; nè può confondersi colla realità, perchè ogni comune infine si riduce nell' essere comunissimo, nell' essere ideale intuìto dall' anima per natura, il quale è forma7oggettiva di essa anima ». Quindi il maestro della scuola terminò la Filosofia naturale nell' anima, dicendo di lei, che [...OMISSIS...] ; laddove l' ultima delle forme che naturalmente si conoscono, conviene cercarla veramente più oltre, perocchè ella è l' essere ideale, per sè oggetto, immensamente all' anima superiore; la quale forma costituisce il nesso naturale dell' uomo col suo divino principio. Così il filosofo, per evitare l' errore di Platone che dava alle idee la sussistenza, rovesciò sgraziatamente nel suo contrario, confondendole colle realità contingenti, colla materia e coll' anima; per timore di non fare il volo d' Icaro, egli andò a nascondersi sotterra, e chiuse a tutti quel varco, pel quale solo l' uomo può salire sicuramente alle regioni dei cieli. Tali sono, o mio Giuseppe le sentenze principali degli antichi intorno alla natura dell' anima. Io procurai di esportele fedelmente, traendole dalle loro stesse parole, o dagli scritti più autorevoli che ce le tramandarono; il che se io abbia conseguito, non bramo altro giudice che te stesso. Nè mi contentai di riferirti i sistemi chiusi nella corteccia antica delle parole, ma tentai d' inciderla e romperla, benchè spesso durissima al taglio, per iscoprirne ed assaggiarne il midollo. Osai anche di porli al cimento; non però a imitazione di quelli che, stando in sullo appuntare sottilmente gli altrui concetti, non ne proferiscono e sostituiscono alcuno loro proprio; perocchè giammai non mi è sembrato convenevole il distruggere senza l' edificare, nè verecondo è l' animo di colui che toglie a correggere, nulla avendo fatto egli medesimo. Laonde coll' esporre alla pubblica censura quattro libri intorno alla natura dell' anima, io sperai avermi acquistato qualche diritto di scrivere questo a te, nel quale le opinioni altrui diligentemente raccolte, alla mia propria si paragonano e si cimentano. Le quali opinioni quante vigilie, quanti sudori, quante meditazioni non costarono ai più alti e nobili ingegni! Eppure cercando tutti la medesima cosa, per molti secoli, non riuscì loro di pervenire ad un accordo, quasi che mentre il vero unisce gli uomini, la scienza li divida. I moderni poi ricaddero sottosopra nelle medesime opinioni, che pure li partirono in vari drappelli; nè io so, per avventura, chi fra di essi abbia prodotto una sentenza, o nuova, o almeno migliore delle accennate. Se non che l' età dei padri nostri, per più di un secolo, depose fino l' animo d' investigare la natura delle cose, dichiarandola impenetrabile e deplorando la improvvida rozzezza degli antichi, che vi si travagliavano intorno; essa più colta, astenendosi dal cercare quella dell' anima, si contentò di descriverne leggermente le sensibili operazioni. Così, se le generose fatiche dell' antica filosofia non sempre e in tutto colsero il vero, rimasero almeno perenne monumento del sommo ardore, onde i primi sapienti tentarono definire la natura, l' indole, la condizione di questo spirito che ci avviva, ci nobilita, e ci innalza fino al soglio di Dio; cui si gloriò d' ignorare tutto quel secolo passato, di filosofi pieno, che docilissimo ed altero ubbidì e servì alla voce di Giovanni Locke e degli altri suoi maestri e duci, i quali si persuasero di rendere facile la sapienza, disaggravandola, quasi nave carica di preziosi tesori in procinto di affondare, da quanto ella recava di difficile, di peregrino, di sublime, gettandone il carico dai secoli accumulato, alle onde gonfie e spumose dei sensi e delle ribollenti passioni. Le quali ricchezze, posciachè alcuni dell' età nostra già procacciano di ripescare, io volli, come ho saputo, farmi loro compagno nella pietosa fatica, come in altri miei libri così in questo. Dove se le suppellettili e gli arnesi, che si traggon fuori e si ricuperano all' attenzione degli uomini, non sono tutti oro schietto - e il saggio, a cui io stesso di mano in mano li posi, chiaramente lo dimostra - tu considera però che nel traffico filosofico non è sola ricchezza la verità discoperta, ma ancora ogni studio ed ogni lavoro della mente per discoprirla; di che le capitali questioni pur solo intavolate, le meditazioni tendenti a scioglierle, gli abbagli stessi procacciano bene, avanzano ed arricchiscono il mercato della filosofia. Ma perchè, tu dirai, l' umana mente traviò cotanto dal vero, che la narrazione dei suoi pensieri pare doversi piuttosto appellare una narrazione dei suoi errori? Non ti riuscirà guari difficile ad intendere questo fatto costante negli annali di tutta la filosofia, se tu consideri che, quantunque la mente dell' uomo coi suoi atti diretti colga il vero - e così vien esso ricevuto e collocato quasi in arca sicura, nel fondo dell' animo - tuttavia alla riflessione, che vuole poscia leggere questo vero, il quale ella ha certamente davanti, sovente traballa la vista, e le avviene di leggere una parola per un' altra dello scritto; il che le incontra sventuratamente per la continua mobilità dell' immaginazione, che la dirige coi suoi fantasmi, seguendo le leggi animali, quando l' immaginazione dovrebbe essere diretta e governata; onde pare che la riflessione non dissomigli le più volte da un padrone cieco, guidato a mano da servo capriccioso e malfido. Così avviene che la riflessione, la quale produce la filosofia, volendo riguardare l' anima per conoscere che cosa ella è, di che natura e condizione, si creda veder l' anima, e veda tutt' altro, cioè ora veda la materia , ora il sentimento corporeo , ora l' idea , ora Iddio ; e così dica a sè stessa che queste cose sono l' anima. Perocchè di questo modo nacquero quelle prime quattro classi di sistemi tutti erronei intorno alla natura dell' anima, che ti ho esposti, i quali si possono chiamare dei materialisti, dei sensisti, dei falsi oggettivisti, e dei teofisti. Il quinto sistema poi, che fu l' aristotelico, evita in parte, come dimostrai, gli errori precedenti, essendosi accorto il suo autore che l' anima non poteva essere alcuna di quelle quattro cose, le quali sono termini del suo operare. Ma là dove Aristotele pose mano a spiegare l' intelletto, cadde egli stesso in un sistema di soggettivismo contrario ai quattro primi, e massimamente contrario a quello dei falsi oggettivisti; poichè, mentre questi volevano innalzare l' anima, dandole le divine qualità delle idee, egli degradò le idee dalla loro condizione altissima, riducendole al grado dell' anima stessa e delle cose soggettive. Che se nol disse espressamente, conseguita nulladimeno dal sistema di quel filosofo, il quale concede senza esitazione l' uno , ossia il comune , alle cose reali e soggettive; onde per Aristotele l' oggettivo, ossia l' ideale, non è più che un' appartenenza dello stesso soggettivo, ossia reale; poichè ogni reale, volendo ragionare dirittamente, al soggetto si riduce. Tu pertanto, confrontando ciò che noi abbiamo esposto circa la natura dell' anima colle altrui opinioni, giudica liberamente, guidato dal tuo proprio senno, se la sentenza nostra sia preferibile alle altrui, e se in questa parte abbiamo in nulla colle nostre meditazioni vantaggiata la filosofia, la quale non si vantaggia, senza prode della sapienza e della religione.

Scritti vari di metodo e pedagogia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Il mondo all' incontro, o la così detta filosofia, si applaude e trionfa di qualunque pregio e qualità separata vegga risplendere nel suo allievo, e dimenticando di considerare i difetti, di vedere come quelle qualità stieno fra loro disunite ed in combattimento, come, apportando d' un lato alcun bene, accrescano dall' altro molti mali, s' inganna ed illude, e pensa d' essere la generatrice di uomini grandi, mentre n' è la guastatrice, e la produttrice non di giuste forme, ma di mostri. Nel quale fatto, chi sottilmente mira, vedrà che ciò segna grande debilezza d' intendimento e lume d' intelletto falso perchè troppo piccolo, cioè perchè non capace a vedere il tutto della cosa. Simile a questo sarebbe l' errore di quei meccanici i quali occupati in ciascuna ruota, o molla, o anello particolare, non considerassero l' effetto totale della macchina, e venissero in così matto pensiero, che riputassero dover esser tanto più rara macchina quella che costruiscono, quanto le ruote, le molle, gli anelli fossero di più forza e maggiori, senza avere nessun rispetto alla proporzione vicendevole, e a quella mutua azione, che comunicata e unita insieme per un certo temperamento e ordine nel quale ad un tempo tutto si muove, confluisce a quell' effetto unico a cui la macchina è ordinata, e senza cui non varrebbe nulla, ancorchè i suoi ingegni particolari avessero mille pregi in se stessi, e, se vuoi, fossero d' oro e gemmati e grandi a piacimento. E questa fiacchezza di mente, che prostra quello spirito vanaglorioso del mondo vantatore di tanto avvenimento, la quale non giunge giammai a rallargarsi e considerare le cose nel loro totale, ma le considera sempre l' una partita dall' altra, e in questa piccolezza di vedere sempre finisce e si chiude, nasce per fermo (chi considera l' origine della cosa) dal disordine degli affetti. Poichè questo è certo effetto delle affezioni, tirar via tutta la nostra mente dalle altre cose e occuparla solo nell' oggetto del nostro amore o dell' odio: di cui avviene che quegli che ha troppo affetto ad alcuno oggetto particolare si fa cieco a tutti altri non per meno di naturale vigorìa d' intendimento, ma per iscemo di attenzione. Di che agevolmente si spiega come gli stessi angeli perspicacissimi e d' intendimento acutissimi potessero errare a tal segno le ragioni delle proprie forze, che volessero tenerla contro Dio: non già perchè, se avessero voluto posatamente prestare attenzione alle forze divine e alle loro, non n' avessero sentita la improporzione e inteso chiaro quanto l' esito del loro combattimento doveva essere infelice, e però non tentabile: ma fu perchè la passione della propria eccellenza sì fattamente li prese ed accecò che si ristrinsero a contemplare se stessi, e la grandezza di Dio più non misurarono. Ed in questo modo anche l' uomo il più intelligente s' abbaglia ed oscura, e si fa male accorto, stupido, vero ignorante. Di che sta il germe nella stessa limitazione della natura, che si abbandona a se medesima (1); quello cui toccò Paolo in quelle alte parole: « « Quando sarà venuto ciò che è COMPLETO, si manderà fuori ciò che è PARZIALE » » (2). Di questo modo si concilia quella contradizione che appare ne' sofisti di questo e di tutti i secoli, dei quali alcuni mostrano grande vigore d' ingegno, ed insieme appaiono pieni d' ignoranza. Nè con questo vengono per noi condannati gli affetti: ma come abbiamo distinta la scienza di questo mondo e quella di Dio da ciò che quella di questo mondo si limita ed impicciolisce nei particolari, mentre quella di Dio o della Religione mira il complesso delle cose e l' affetto del tutto; così parimenti tengono lo stesso modo gli affetti di que' falsi sapienti e dei veraci. Que' falsi sapienti consumano i loro affetti nelle cose particolari, ristringendo tutta la possa del loro cuore ad alcuni oggetti, e però sconoscendo ed odiando tutti gli altri, e fissi a que' particolari, quasi a caso poscia trapassano e trabalzano, per così dire, sopra altri qui e qua confusamente: laddove gli affetti dei savii veraci, cioè dei cristiani, sono sgradati in bell' ordine sopra le cose tutte, che tutte insieme le considerano, e distribuiti alla misura del loro rispettivo valore, pesando il valore delle cose singole colla ordinazione loro agli scopi generali, e gli scopi generali sottomettendo all' universalissimo, il quale è loro bilancia unica, e però non mai variabile: di che viene la loro costanza e sicurezza d' animo e d' intendimento. Intima è dunque questa relazione della mente e dell' animo, degli affetti e delle cognizioni: e quelli e queste sono soggetti allo stesso ordine, e partecipano delle stesse imperfezioni. Laonde non è maraviglia se i savii della terra sono così parziali negli affetti come nelle cognizioni: negli affetti, abbandonati a se stessi, sono tirati qua e là dagli accidenti, s' avventurano ad ogni lusinga, non temono, non disaminano, correnti al laccio di ogni passione, cui non essi prendono, ma da essa son presi: nelle cognizioni ammettono e rigettano quelle che loro più piacciono ovvero dispiacciono: quelle che più s' accordano co' loro affetti, o che con essi discordano: ed a capriccio contraffanno nelle vane loro imaginazioni la incommutabile verità. I savii cristiani all' opposto reputano, che quanto sta fuori di loro sia fornito di cert' ordine fisso, immutabile, dipendente dalla prima cagione e non dal loro arbitrio: al quale ordine gli uomini sono tenuti di conformare la loro mente, se vogliono partecipare della verità, e di conformare il loro cuore, se vogliono godere della pace. Non è la verità l' opera della umana intelligenza; ma la intelligenza è l' opera della verità (1). Però a qualunque cosa loro si presenti danno quell' affetto, il quale ella merita, considerata nella sua relazione con quel tutto che hanno sempre innanzi agli occhi: però il loro affetto lungi dal turbare il loro intendimento, o dall' affaticarlo, procede con quello a sì bella concordia, che l' affetto stesso al vero intendimento delle cose quasi li manuduce. Ecco dunque in questo ragionamento indicato il supremo principio della buona Educazione cavato dallo spirito di verità proprio del Cristianesimo. Questo principio o scopo ultimo della Educazione viene ad essere il seguente: SI CONDUCA L' UOMO AD ASSIMIGLIARE IL SUO SPIRITO ALL' ORDINE DELLE COSE FUORI DI LUI, E NON SI VOGLIANO CONFORMARE LE COSE FUORI DI LUI ALLE CASUALI AFFEZIONI DELLO SPIRITO SUO. Questo principio è altamente radicato nella natura dello spirito dell' uomo, che io rassomiglierei ad uno specchio atto a ricevere l' imagini delle cose e di tutte ornarsene. Coll' atto del suo intendere egli non dà, ma riceve; egli è interamente passivo rispetto alla verità, come la verità è meramente attiva rispetto a lui: la sua mente non crea qualche cosa, ma più tosto viene in essa qualche cosa creata quand' essa intende: l' azione della prima verità sopra di lui è ciò che forma la sua intelligenza: l' azione degli altri esseri è ciò che produce le sue cognizioni (1). E nel medesimo tempo tal principio si appoggia e fonda in quest' altra verità che le cose fuori dell' uomo, pigliate così in cumulo, com' io ora le piglio, sono più possenti di lui: sicchè egli per necessità dipende da esse, come esse non dipendono da lui. E però quando egli vorrà uniformarsi e accordarsi ad esse, egli troverà pace; ma se egli vorrà pretendere che le cose si adattino e si acconcino alla forma sua, egli come di matta opera e impossibile, ne caverà guerra perpetua e sconfitta, e continuo dolore che il farà misero. Ora qui sta a vedere quale sia l' ordine delle cose fuori di noi per aggiustare a quelle le menti e gli animi, di cui si studia la cultura. E anche in ciò differisce dallo spirito male avveduto del mondo quello del Cristianesimo. Poichè lo spirito del mondo o togliendo dalla natura Dio, o a lui non pensando, o pensando mozzamente a quello che gli convenga, non può concepire la grande unità e semplicità dell' ordine di tutte le cose; ma introduce in esse il disordine e lo scisma. All' incontro i cristiani camminando al giorno della fede vedono colla mente loro tutte le cose composte in un ordine solo risplendente di mille pregi, ma accolti tutti in perfettissima unità, mirando alla quale non è lor conceduto giammai di limitare i pensieri fermandoli dal loro corso in qualche oggetto sparso in sulla via che percorrono, ma sono costretti a portarli d' un tratto quasi con rapidissimo volo all' ultimo anello della catena di tutte le cose, alla ragione ultima, a Dio. In quest' ordine perfettissimo, perchè recato alla perfetta unità, noi consideriamo come essenziale e necessario questo gran principio e fondamento di tutto l' ordine, come quello che lo origina, assegnando a tutte le altre cose il loro posto, la loro forma, il loro inclinamento, e all' incontro consideriamo tutte le altre cose particolari come accidentali all' ordine, cioè come quelle che partecipano bensì l' ordine e in questo modo vengono ordinate, ma che non l' hanno in sè, che non ordinano. Quello che ordina adunque tutte le cose, e perciò anche lo spirito dell' uomo quasi specchio come dicevo delle cose, non può essere altro che il Signore e formatore delle cose tutte; di che nasce un altro principio della buona Educazione, che può esprimersi così: NELLO SPIRITO DELL' UOMO LA COGNIZIONE E L' AMORE DI DIO DEBBE INTRODURSI COME ESSENZIALE E NECESSARIO; LA COGNIZIONE E L' AMORE DELLE ALTRE COSE COME ACCIDENTALE: DIO COME PRINCIPIO ORDINATORE DI TUTTE LE ALTRE COSE, E LE ALTRE COSE COME QUELLE CHE DEBBONO DA LUI RICEVERE LA ORDINAZIONE. Si debbe osservare come questo principio sia generale: egli abbraccia tutte le cose, egli le ordina; e nessuna parte dell' educazione sfugge ad una regola così estesa, ma tutto ciò che può essere argomento d' istruzione riceve da essa il suo vero indirizzamento: e per essa s' impone al savio educatore, che fino da' primissimi avviamenti s' abbia posto innanzi tutta la tavola o il disegno compiuto dell' opera sua, o almeno che come savio navigatore, fino dallo sciogliere, sappia il porto a cui gli bisogna approdare. Di questo stesso principio poi non difficilmente apparisce come quella Religione che il pose sia divina, perciocchè agli uomini tutti divinamente amica e benefica; il contrario di ciò a cui mena lo spirito di coloro, che insozzano fino le parole che usurpano, e che hanno sì vilificate le bellissime voci di filosofo e di filantropo. Poichè in quel principio ponendo come accidentali tutte quelle cose che tutti gli uomini non possono avere e possedere egualmente, come neppur le cognizioni naturali, e ponendo il solo possedimento di Dio essenziale alla umana felicità e perfezione, viene aperto l' adito di questa a tutte le condizioni e maniere di uomini, ciò che tanto bene si conveniva al padre di tutti gli uomini. Si mettano adunque nell' animo degli allievi, come sovranamente benefiche e umane, e apportatrici della amicizia, e rimovitrici delle mondane e filosofiche diseguaglianze, e consigliatrici della umiltà ai più grandi di cotesta terra, quelle parole alte, e divine dell' Evangelio: «PORRO UNUM EST NECESSARIUM » (1). Uno è il necessario: e di quest' uno si può beare e ingrandire il minimo della terra, sì come il massimo, quest' uno è vietato solo all' orgoglioso sofista, perchè quegli che reputa di sapere assai, sia riconosciuto l' unico ignorante, e chi presume essere l' ordinatore delle cose, sia privato ancora della partecipazione dell' ordine. E qui non è ancora il tutto. Il lume della nostra religione si spande vie più largamente nel nostro intelletto. Non si contenta di mostrarci in che ordine noi dobbiamo concepire disposte tutte le cose, se non ci apre altresì il modo nel quale il nostro spirito può aggiustarsi compiutamente all' ordine risplendente nelle medesime. Conoscere Dio qual sommo principio regolatore di tutte le cose, e conoscere che dipendenza abbiano queste dal medesimo, com' egli sia necessario, e tutto il resto opera sua, arbitraria, ed accidentale, come però tutto voglia essere rivolto a lui, e come tutto, quando è congiunto e ordinato a lui, consegua perfezione e ordine, è cosa a cui giunge anche il nostro naturale ragionamento; già mosso e svegliato dai raggi della cristiana Religione. Quello a cui fare non giunge virtù naturale di nostro spirito è a vedere il modo secretissimo, onde può l' uomo venire a cotesta perfezione che abbiamo descritta, in cui domini nel suo intelletto e nel suo amore Dio con quello stesso imperio assoluto e con quella piena supremazia onde domina nella natura. Qui è dove la Religione dischiude il suo grande arcano, apre i suoi tesori reconditi a tutto il senno naturale, e spiega la magnificenza di una sua nuova creazione. Qui primieramente essa narra all' uomo un gran fatto, la caduta morale di tutta la sua specie avvenuta nello stipite. Passa con volto irato a pronunciare una sentenza ineluttabile di morte contro all' uomo il quale ravvolge nella propria rovina tutta la natura; giacchè debb' essere per quella terribil sentenza tolto, distrutto, annullato tutto insieme il grande sistema di cose fondato da Dio nella natura di Adamo, e in tutto quello che era fatto per essa. L' esecuzione della inevitabile sentenza è tuttavia sospesa. Questo breve indugio è ciò che presta luogo ad una tutta nuova ordinazione di cose: la quale lasciando intatto il decreto della distruzione di tutto l' ordine primitivo, e lasciando che la terra si trasporti via come una tenda di pastori, e che i cieli si mutino come un vestimento, consegue però che tutte le cose di quel primo sistema, che dirò il sistema del sensibile, dopo la loro distruzione ritornino alla vita; ma non più come principali parti del nuovo sistema, ma come accessorie, inservienti a questo sistema nuovo infinitamente maggiore del primo. Come nel primo avrebbero dovuto gli uomini partecipare della perfetta natura del comun padre che veniva loro comunicata per mezzo della naturale generazione; così nel nuovo, un uomo che non aveva ricevuto la natura corrotta di Adamo per mezzo della generazione ond' essa si propaga, ma che aveva ricevuto questa natura per mezzo di una nuova formazione, opera immediata dello spirito divino, doveva essere egli nuovo capo e stipite di tutti quegli uomini che verrebbero da lui propaginati per una generazione intatta dalla carne e dal sangue, ma tutta spirituale, opera di quello stesso spirito, che formando il suo corpo nel seno di una figliuola di Adamo, aveva rifabbricata l' umana natura, o più tosto, come ape che trae miele da fiore velenoso, cavatala dalla vecchia, a cui era stato non condonato, ma differito l' eccidio. Questo nuovo Adamo fino dal primo istante di sua esistenza, non fu già abbandonato a se stesso, anzi confirmato in grazia, riempiuto dei tesori della scienza e della sapienza di Dio, congiunto in una persona colla divinità. Per cui potè dire, alludendo al suo nascimento non fatto secondo la legge della umana generazione, ma da una vergine in modo divino, quelle parole preparategli da un profeta: [...OMISSIS...] . E questo nuovo fonte, questo nuovo stipite del genere umano, impervio a' corrompimenti, rafferma la seconda famiglia che da lui si deriva, acciocchè non tema la corruzion della prima. Perciocchè dipendendo tutta la sostanza e la essenza della umana specie dal ceppo, rassicurato questo che non si corrompesse, come avvenne al primo, era rassicurata e saldata tutta la specie: conciossiachè il guasto di qualche fogliuzza, o il taglio di qualche ramoscello non distrugge giammai la pianta, quando rimane pieno di virtù e di vita il pedale. Ora questo secondo ceppo della nuova generazione degli uomini divino ed umano, anzi Dio e Uomo, aveva in sè infinito valore e merito da solvere il debito contratto con Dio dalla prima natura umana, al cui pagamento era stato accordato un respiro, anzi di più aveva merito in sè da compensare a Dio il dono di questa mora conceduta al pagamento; la quale non sarebbe potuta convenire colla giustizia di Dio; quando Dio non avesse scorto di doverne venir compensato, e scorto che ne verrebbe compensato soprabbondantemente. Questo sublime misterio pertanto, disvelamento e confusione della nostra ingenita superbia, ci mostra tutta la famiglia degli uomini considerata da Dio come una cosa sola, e presa, nel consiglio delle sue divine ed eterne ragioni, in solido (3), e questo sì nell' ordine della natura costituito in Adamo, che nell' ordine della grazia fondato in Gesù Cristo, e ci dice con sentenza, ove sta un abisso di lume, che come nell' ordine primitivo noi non potevamo conseguire la perfezione della nostra natura, se non per via della generazione naturale di Adamo, così nell' ordine succeduto a quello noi non possiamo conseguire la perfezione della nostra nuova natura, o sia della grazia, se non in virtù della generazione soprannaturale di Gesù Cristo, nel quale sono state rinnovate tutte le cose. Debbesi adunque nella educazione degli uomini aggiungere, al sopra esposto, questo altro principio, il quale contiene il modo o il mezzo, per cui quanto propone quel primo si consegua, cioè per cui quasi direi cadano sopra il nostro spirito i raggi della verità delle cose, e vi si riflettano; vi si rifletta Dio come ordinatore di tutte le cose, e le cose come ordinate. LA NATURA PRIMITIVA DEGLI UOMINI NON PUO` ESSERE RIPARATA SE NON DOPO LA SUA DISTRUZIONE: E OGNI ASSIMILAMENTO IN NOI DELL' ORDINE DELLE COSE, CIOE` OGNI NOSTRA PERFEZIONE, NON SI PUO` IN NESSUN ALTRO MODO CONSEGUIRE, CHE NELL' ORDINE NUOVO DELLA GRAZIA, CIOE` INCORPORATI A GESU` CRISTO. Per le quali cose s' adagia quaggiù la pietà della Religione sì per l' unico necessario , a tutti aperto, che stabilisce; come per l' unico modo di conseguirlo a tutti egualmente comune, anche spregiati, e li consola; e dice negli orecchi e nel cuore di coloro che non possono ricevere l' Educazione de' palagi e delle reggie, ma quella della stalla e del solco, ch' essi hanno ond' essere sì perfetti uomini, sì felici e, può essere, vie più ancora di tutti i molti invidiati, a cui sono appagate mille curiosità, e data tutta quella erudizione che gli uomini ammirano, e mettono in conto di egregia fortuna. Ma la stessa Religione poscia condiscende ai bisogni ed alle infermità della non adulta e perfetta natura umana. Ella sa bene, che l' uomo in questa vita, dove il considera come sempre fanciullo, non può essere col suo spirito attuato continuamente nel solo Dio, e però tempera il gran precetto di dovere sempre orare e vegliare in sì dolce modo, che non divieti l' uso delle cose umane, degli amminicoli necessari a questa povera vita, nè altresì delle cognizioni intorno alle opere di Dio, quando però queste cose nell' animo dell' uomo tengano continua soggezione e avviamento a quel solo fine di tutte le cose, per quell' unico mezzo. E lo stesso disporle sotto di lui e per lui, c' insegna che è un onorarlo, e adorarlo, e invocarlo. Qui dunque s' intende primieramente esser dalla dottrina della Religione concedute all' uomo tutte le altre parti della Educazione, oltre quella dello spirito, e come necessarie da essa approvate e commendate, ma nel medesimo tempo accortamente indirizzate. Nelle quali parti della vita dell' uomo per questo medesimo apparisce, che la Religione distingue quello che è necessario per l' acconcio mantenimento di questa vita, da quello che non è necessario. Quello che è necessario lo pone come suo naturale precetto considerato qual mezzo bisognevole a quel preclaro fine a cui il Signore ha formata la vita presente, precetto, come si vede, relativo e non assoluto, cioè non venuto da pregio che abbia in sè la vita, ma da pregio di quel fine stesso a cui la vita è volta. In quello che non è necessario la Religione piena di condiscendenza e di dolcezza pone certo spazioso e dilettevole campo alla umana volontà. E dove finisce il precetto ivi comincia il consiglio di quella Religione, che non si riposa se non vede condotti alla piena loro statura i suoi avventurati figliuoli; a ciascuno de' quali torna tanto di consiglio in precetto, quanto di lume spirituale ad esso è largheggiato. Dove s' aprono le bellissime sollecitudini della cristiana Carità. La quale non contenta che l' uomo nel suo spirito accolga l' ordine perfetto delle cose, e nel principio di quest' ordine si rallegri e si beatifichi, il persuade ad adoperarsi ancora perchè tutti gli altri suoi simili vengano a parte della stessa avventura, e anche a loro sia data la perfezione. Così la Religione perfeziona l' uomo coll' empirlo di gioia, di quella gioia che ritrae dal sommo principio dell' ordine: e questa gioia cerca diffondere immensamente, e così produce l' amore. Che se nello stato primitivo della incorrotta natura umana la religiosa benevolenza si sarebbe adagiata più tosto nella compiacenza della comune felicità, e l' occupazione dello spirito nello studio delle cose create sarebbe più veramente rimasto un arbitrario diletto; nella condizione all' incontro in cui si trova l' uomo presentemente, il toglie da ogni ozio, e lo stimola ad una operosa azione non solo in beneficio di se medesimo, ma in beneficio di tutti, coi quali è sortito a comune natura e scopo. L' uso adunque di tutte le cose fuori della divinità, e però le cognizioni di tutte quelle cose, vogliono essere adoperate a condurre la umana gracilità passo passo alla robustezza riposta nella congiunzione con Dio; facendo esse a lui quel servigio che a' fanciulli, i quali non hanno ancora appresa l' arte dello stare ritti in sulla persona e camminare spediti, fanno gli appoggi da' lati e l' assistenza delle guidatrici. Di cui viene un altro principio grande e fondamentale di tutta la umana Educazione, il quale insegna a regolare gli abiti che si vogliono fare apprendere, e le cognizioni che si vogliono dare di tutte le altre cose fuori di Dio, e che suona così: SI DIA LA COGNIZIONE DI TUTTE LE COSE, PERCHE` SIA ADOPERATA TANTO QUANTO ABBISOGNA LA PROPRIA DEBOLEZZA E IMPERFEZIONE PER ANDARSENE A DIO, E QUANTO PUO` GIOVARE ALLA INFERMITA` DEGLI ALTRI, ALLA QUALE VUOLE LA CARITA` CHE SI SOCCORRA (1). Questo principio suppone, come apparisce, che l' uomo quanto viene maggiormente perfezionandosi, cioè sollevandosi a Dio, tanto meno abbia bisogno di sostenere la infermità sua colle cose umane, e questo vero splende manifestamente nella vita de' più perfetti rivolta sempre a segregarsi quanto è loro più possibile da tutte le sensibili cose. Ed ancora questo principio pone come dovere nostro, che non diamo ricreamento e conforto alla nostra umanità dalla vaghezza o coattitudine dei terreni oggetti più di quello che richieda la nostra imperfezione: e non vogliamo impacciarci con essi oltre questa misura sotto il pretesto, che tutto può essere rivolto in bene: mentre il solo uso di quelle cose per la loro naturale acconcezza a dilettarci è un indugio alla rapida corsa verso il fine che ci è proposto. E la dottrina di questo successivo lume crescente nelle menti cristiane, e di questo scemamento della necessità di naturali ricreazioni si comprende in quelle maravigliose parole di Paolo: [...OMISSIS...] (1). Ma nel medesimo tempo, che quel principio nega o limita a noi medesimi l' uso e lo studio delle creature, suscita in noi un infinito ardore, e genera una infinita attività e una infaticabile energia per soccorrere collo studio e colla pratica delle medesime alla infermità maggiore o minore di tutti gli altri. Di che viene la purissima sorgente di quel travaglio, che pone il cristiano nelle cose umane. Questa sorgente non è la vana curiosità degli uomini mondani, o la vana speranza di riposare in quelle cose quasi in veraci beni l' animo loro, che ben sanno non avervi in quelle alcuna cosa che ristori, anzi che non affatichi e prema quello spirito eccelso che vive in cuori divinizzati: questa sorgente è la carità de' nostri simili, sorgente fecondissima di studi e di azioni, e di giammai finiti magnanimi movimenti. Epperò nel suesposto principio è la ragione della sentenza che scriveva Paolo a que' di Filippi: [...OMISSIS...] . Ecco come apre la Religione l' adito alla instituzione de' giovanetti in tutte quelle cose che apprezza il mondo e commenda, e che sono alla vita presente o necessarie od utili. Ma ecco da che diverso lato venga all' inculcamento di questa instituzione in tutte le lodate industrie la Religione, e da che diverso lato venga a questo il mondo. Ecco da che profonda origine la Religione cristiana tragga questa sentenza, che il mondo propone così superficialmente, e o senza ragione, o per la sola ragione del suo ammorbato istinto. Ecco radici profonde e salde che dà essa Religione a tutti i nobili studi e alle lodate occupazioni; mentre il mondo viene a farle crescere senza radici, e senza suolo fermo, per così dire, ove si abbarbichino, e posino: di che a lungo processo di tempo la coltura del mondo debbe quasi incattivire e tralignare in barbarie, e quella radicata nella pietà maturare a più squisito ricolto. E queste cose tutte senza fasto di parole, ma con ogni semplicità, brevità, ed altezza, ci aveva già il Maestro divino insegnate con quell' impareggiabile comandamento: [...OMISSIS...] . Il primo di questi precetti segna l' ordine che debbe tenere lo spirito dell' uomo rispetto al Creatore, il secondo l' ordine che debbe tenere rispetto alle creature; e con ciò è dato regolamento a tutte le cognizioni ed all' uso di tutte le cose. E questa sapienza medesima fu sempre lo spirito della cristiana educazione, cominciando dai primi discepoli fino al presente Sommo Sacerdote della nostra Religione, che pose queste stesse parole in capo a tutto il regolamento degli studi da lui poco fa pubblicato (2). E tutti quelli che hanno carico della educazione dovrebbero imitarlo, e dar questa radice agli studi. Egli dovrebbe essere scritto questo fondamento della umana felicità e sapienza in sull' ingresso di tutte le Università, e di tutti i luoghi dove si alleva la gioventù, se ne fosse degna la leggerezza di cotesto mondo che s' annoia di tutto ciò che gli sia di frequente ripetuto: nè solo il proprio carattere ma il carattere comune degli uomini espresse quell' Ateniese che dannò Aristide coll' ostracismo per la noia d' udirlo sempre appellato giusto. E che questo precetto della carità si debba adempire tenendoci incorporati al nostro mediatore, l' abbiamo da lui medesimo quando ci disse, il precetto della Carità fraterna non esser d' altri, ma proprio suo; e quando il chiamò nuovo , e non più udito al mondo, benchè fosse stato intimato da Mosè: [...OMISSIS...] ; cioè in virtù dello spirito, che secondo la legge della generazione spirituale da me solo viene comunicato. E s' osservi come nel semplicissimo precetto della carità, che forma l' anima, per così dire, di tutto il Cristianesimo, sieno già indicate e comprese tutte le specie di unità di cui debbe esser fornita la perfetta educazione. Perciocchè in quelle semplicissime parole de' precetti della cristiana Carità non è solamente assegnato il fine di tutte le cognizioni, il quale ordina le stesse cognizioni; ma ben anche è richiesto, che quest' ordine morale che ricevono le cognizioni tutte dal supremo fine a cui è necessario che vengono indirizzate, penetri tutto intiero l' uomo; giacchè in quelle parole non s' ingiunge solo di conoscere, nè solo di amare, ma di operare altresì: perchè con tutto il cuore , con tutta l' anima , e con tutte le forze , cioè con tutto l' uomo, e con tutta la vita sua (2) si vuole onorato ed amato Iddio. Da quanto è fin qui detto apparisce in che differisca principalmente lo spirito della educazione antica, il quale veniva dagli ecclesiastici e però procedeva da' sensi della Religione cristiana, dallo spirito della educazione moderna il quale in gran parte trasse dai novatori non solo laici ma irreligiosi. Lo spirito della educazione antica tendeva all' unità degli oggetti, perchè tutto riduceva, come a un solo fine e principio, a Dio: lo spirito della educazione moderna all' opposto tende alla moltiplicità degli oggetti, perchè considerando le cose naturali e sensibili senza riferirle alla loro cagione primitiva, esse si disgregano e spargono fra di loro; e l' essere disordinate è ciò che le moltiplica (1). Lo spirito è semplice e riduce tutte le cose che si considerano in ordine a lui ad unità: la materia è composta, e considerata sola è subbietto di divisione. Nè io sono qui per contendere a cotestoro quel vanto, che fatto da uno di essi, esprime l' intendimento di tutti, cioè che il loro spirito attendendo alle cose materiali, e a queste attaccando l' affetto loro, promuove l' uso di queste cose per il bene della presente vita (2). Pur troppo i figliuoli di questo secolo sono nella generazione loro più prudenti, cioè più sagaci nel ritrovare que' mezzi che possono essere a' loro scopi opportuni, di quello che sieno i figliuoli della luce (3); ma sgraziatamente non vale la loro sagacità, poichè con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire quello che non è nella natura: con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire nelle cose sensibili appagamento. Indarno dunque le passioni più violente diventano ministre di un accorgimento diabolico: indarno il figliuolo delle tenebre schernisce la freddezza, l' inerzia, e il poco spirito dell' uomo fedele al Signore: quegli va finalmente a perdere e questi a vincere: è la bontà stessa della causa che dà a questo secondo un compiuto trionfo, e che dimostra che le forze umane non valgono a mutare la verità o la natura delle cose, e che tutto l' avvedimento, tutta la possibile attività, giunga pur anco al furore, finalmente svanisce, se l' uom non venga aiutato dalla natura della cosa che imprende, cioè da una forza fuori di lui (1). Laonde non ci farà nessuno inganno alla mente il celere promuovimento avvenuto nei tempi recenti di tutte le arti ed industrie meccaniche o materiali, che riguardano gli usi della presente vita. Poichè mentre da una parte mi si dimostrano accresciute quelle cose, dall' altra mi si fanno innanzi gli uomini più irrequieti e infelici (2). Ma omesso ancora questo, ciò che forse mi sarebbe facile di dimostrare fino all' evidenza, non mi sembra in vero spregevole dimanda per l' amico degli uomini quella, se sia più utile sapere molte cose separate, e le une dalle altre sconnesse, ovvero se più giovi saperne meno, ma collegate a perfetto ordine: o, il che torna a un medesimo, se si debbano prezzare più le cognizioni dal loro numero, ovvero dalla scelta e qualità loro (1): e credo che qualunque assennato non dubiterà che il valore della scienza per l' umana felicità sia riposto maggiormente nell' essere cognizioni compiute ed elette, che nell' essere molte. Ciò non ostante concediamo che per quel limite che ha ricevuto dalla propria natura il nostro spirito, quanto più attende ad una cosa, tanto sia minore ad un' altra: concediamo perciò che quegli il quale attenderà maggiormente a porre l' ordine nelle cognizioni sarà più tardo ad accrescerne il numero, e viceversa, chi studia la moltiplicità delle medesime più difficilmente conseguirà l' ordine. Di questo si spiegherà come lo spirito moderno abbia potuto accrescere le arti che risguardano l' universo materiale nel tempo che ha distrutte, imbarbarite, e confuse le scienze che riguardano l' universo spirituale, la Filosofia e la Teologia, lo studio dell' Uomo e di Dio. Nelle quali scienze anche quel poco che ha studiato fu un guasto, perchè v' introdusse dottrine materialistiche, incapaci di levarsi ai concetti dello spirito: e volle portare anche in esse quella divisione del lavoro che frutta mirabilmente in tutte le arti risguardanti la materia per la divisibile natura di questa, ma che è al tutto opposta alle scienze degli spiriti, la cui natura consiste nella semplicità e nella indivisibilità. Tuttavia potrei ancora mostrare, che i maggiori avanzamenti di quest' arti meccaniche non sono già dovuti a coloro che si vanno nella strada opposta alla Religione (1), e potrei mostrare che senza le scienze dello spirito con brevissimo ripiegamento gli uomini verrebbero a struggere quell' arti medesime, di cui si vantano autori per non so quale contrasto delle medesime arti e degli stessi uomini troppo insopportabili a se medesimi. Ma mi contenterò più tosto osservar solamente come lo spirito della pietà, il quale primieramente ingiunge ordine alle cognizioni ponendo il principio di quest' ordine in Dio, viene ben presto a commendarne la moltiplicità, o sia ad eccitare ancora i variati studi delle arti materiali, dando all' uomo per istimolo acutissimo a tali industrie la vicendevole Carità. Ed è solo il difetto nella prima natura umana, se non luce ovunque di questa dolcissima carità tutta la potenza. Ma dove la considereremo in generale com' essa è diffusa ne' membri del regno di Dio, troveremo che non si dà passione alcuna la quale possa essere più veemente, forte, vasta, inflessibile di questa, e che più nella umanità abbia posto di vita e di energia (2). Il perchè se l' uomo da se stesso è così scarso di naturale vigore che espandendolo dirò così in estensione, gli manca poscia da profondare, e ponendosi in molte cose umane è tenuto indietro dallo studio di quell' ordine che a quelle ne viene coll' introdurvi la divinità: supplì a questo la stessa bontà divina, accrescendo con questa novissima e potentissima passione della carità le forze umane, e per essa creando nell' uomo un altro uomo maggiore del primo. E di nuovo, se la Religione incoraggia tutte le scienze e le arti, anche quelle ch' hanno per iscopo gli onesti godimenti di questa terra, non è però ch' ella abbandoni giammai l' unico principio a cui le richiama, e col quale quasi con timone tutte insieme ad un solo termine le governa. Il perchè questa ampiezza e moltitudine di cognizioni dalla Religione promossa e voluta, non si ferma a ragunarle insieme schierandole, quasi direi, l' una appresso l' altra materialmente, e nè pure s' appaga solo di raggiunger ciascuna con quella prima scienza della pietà. Ma lo stesso spirito di ordine e di deduzione dallo spirito della nostra Religione s' insinua e s' innoltra anche nelle scienze inferiori fra di loro, ed insieme le collega e raggiunge quant' è più possibile strettamente; sicchè la vera e cristiana idea di una enciclopedia, se con questo greco nome si voglia chiamato il corso di tutte le cognizioni umane, non sarebbe già limitata ad un semplice rammassamento di esse cognizioni in forma di vocabolario; ma ad una distribuzione e colleganza fra esse, secondo i loro naturali e legittimi vincoli. Questo stesso regolamento ed intrecciamento è desiderato in quella dirò così minore enciclopedia che formar debbe la scienza peculiare di alcun uomo venuto a compita educazione, il disegno della quale conviene all' educatore di avere innanzi agli occhi fino a principio come al dipintore i cartoni del quadro. Si può dire esser questo troppo arduo alla maggior parte degli educatori. Ed io concedo che i più fanno l' opera loro in parti, e senza disegno fisso danno, per così dire, de' tratti e delle pennellate e conducono quasi a caso il lavoro. Ma di qui appunto la principale imperfezione in cui si tiene ancora l' arte dell' educare. E non vedo che possa essere sperato di più se non da rarissimi e mirabili precettori, quando a dilineare il disegno di una tale educazione non concorra l' opera di molti, ed il senno e la mano di chi è incaricato dalla Provvidenza a procacciare il bene della cristiana società. Può essere messo in questione, come fu messo per molti, se l' educazione pubblica si debba anteporre alla privata, o la privata alla pubblica. Tutte due hanno loro vantaggi particolari, nè può l' una all' altra comunicarli. Secondo mio parere queste due dovrebbero cospirare in uno medesimo, non parendomi sufficiente l' una o l' altra sola all' educazione umana nella sua perfezione considerata. Ciascun uomo ha qualche cosa di comune con tutti gli altri uomini, cioè la natura e i fini a cui è destinata questa natura: ha delle altre cose comuni co' suoi connazionali, cioè il carattere nazionale, e i negozii della nazione: ha qualche cosa di comune co' membri della propria famiglia, cioè la schiatta, e dalla schiatta molti nativi impulsi, eredità di tradizioni, e tutto lo stato suo, e gl' interessi della casa. Finalmente qualunque uomo ha qualche cosa di segregato e di proprio, il temperamento, il genio, il fine dell' individuo. Queste quattro qualità e disposizioni dell' uomo hanno dato per mio avviso origine a quattro sistemi di educazione: a cui si possono ridurre tutti gli altri, perchè tutti convengono colle loro intenzioni e scopi nell' uno o nell' altro di que' primi quattro, o medesimamente in più d' uno di quelli. E tali quattro sistemi partiti secondo la parte dell' uomo alla coltura della quale direttamente si rivolgono, sono i seguenti. Alcuni posero per ottima certa educazione che essi chiamarono cosmopolitica , la quale mette per base l' uomo cittadino di tutto il mondo: bella sentenza, se, divisa da tutte l' altre verità, non contenesse l' annullamento di tutti i vincoli naturali colla nazione, colla famiglia, con se stesso; e in questo errore parmi piegare una setta di filosofi nella Germania. Altri furono colpiti vivamente dalla bellezza dell' amor di una patria: ma volendo che questo solo amore fosse coltivato, e facendo sacrificio a questo sì lusinghevole amore d' ogni altro rispetto, perdettero l' uomo quanto a' suoi tre altri legami coll' umanità, colla famiglia, con se medesimo. Questi celebrarono come sola buona una educazione pubblica e nazionale: e a questo error si conduce il difetto delle educazioni de' popoli antichi, principalmente de' Lacedemoni e de' Romani, meno quello di questi che di quelli, perchè più vasta aveano la patria: e a questo vizio medesimo caddero i repubblicani moderni male avveduti imitatori degli antichi, ciechi seguitatori di ciechi. E Danton che nel 1793 diceva « « egli è il tempo di ristabilire questo gran principio, che i fanciulli appartengono alla repubblica avanti di appartenere ai lor genitori » » non solo violava tutte le leggi della natura, ma introduceva la pubblica schiavitù, e dava l' imagine di una società che lungi dal proteggere i diritti della famiglia e dell' individuo, distruggeva quella, opera della natura, coll' impotente arbitrio di una legge umana, e metteva questo ne' ferri, vile istrumento, e più impotente ancora a ottener cosa stabile, sufficiente però a tormentar uomini in nome della società, giusta il capriccio di quelli che casualmente più in essa potessero. Ma vi furono poi alcuni cui lusingò l' aspetto della familiare felicità, e pensarono che dove avessero allevati i giovani buoni massai, e tutti occupati nell' ingrandimento della propria casa, avrebbero toccato l' apice del perfetto educare. Ma quanto è utile cosa la cura domestica, altrettanto è difettoso se il padre di famiglia ignora d' essere fratello a tutti gli altri uomini, di avere interessi comuni col popolo dov' egli vive, e di dovere alcuna cosa a se stesso o anzi in se stesso alla umana dignità. E questa mancanza cominciò ad apparire principalmente quando furono cominciati ad introdursi i feudi, e a moltiplicarsi le case ove fosse parte della suprema autorità: e da questo guasto si vogliono guardare più sottilmente le nazioni governate da una sola famiglia. Finalmente non mancarono di quelli che senza veruno rispetto nè al genere umano, nè alla patria, nè al sangue hanno confinata ogni educazione nell' egoismo, e di questo peccato sono lordi, chi ben li considera, i predicatori della illimitata Libertà ed Uguaglianza, cioè de' predicati diritti dell' individuo verso alla società: e la menzogna di costoro toccando gli estremi, nel mentre che affettano universale amore, sciolgono non solo il legame che lega ciascuno con tutta la comunanza degli uomini, o quello che il sottopone all' autorità della nazione, ma il dolce vincolo ancora che il piega sotto la signoria del genitore, da cui ebbe attinto la cara esistenza. Ed allo stesso balzo rovina ognuno che pose la perfezione dell' umana vita in passeggera voluttà: e fra questi sì Epicuro che Aristippo, sì il salvatico Rousseau che il molle Elvezio: i quali per due opposte vie cozzano e s' infrangono allo scoglio stesso; chè, come suona il proverbio, gli estremi vanno a toccarsi. La Religione cristiana all' opposto, perfetta, ed acconcia a tutta l' umana natura, perchè venuta dall' autore stesso della natura, non dimette nessuna di quelle quattro quasi parti dell' uomo senza il suo proprio e proporzionato coltivamento. Essa nel tempo che intima all' uman genere una legge comune e cattolica, viene dando i suoi particolari insegnamenti al cuore del cittadino, a quello del padre di famiglia, e santificando l' amore di se stesso nol lascia solo e tirannico, ma il conduce a bella fratellanza e concordia cogli altri amori. Su questa sapienza può solo venire perfezionandosi l' arte della umana educazione. Ed ella sarà perfetta, quando digerita in quattro parti (delle quali nessuna venga intralasciata per cieco partito ed esclusivo amore all' una od all' altra di esse), la prima di queste quattro parti sia accomunata a tutto l' uman genere, perchè rivolta ad educare la qualità agli uomini tutti comune: la seconda a perfezionamento e non a distruzione della prima, appaia comune e pubblica della nazione: la terza che è quasi fabbrica rialzata sulle due prime e aggiustata a quelle, formi l' educazione particolare della famiglia; e l' ultima finalmente, che è come gli ornamenti ed i finimenti dell' edificio, e che non potrà dare quasi altri che ciascun uomo a se medesimo, sia quella che renda il maraviglioso lavoro formato sul crescente uomo, simigliante a quell' opera limata di perfetto artefice che può oggimai uscire dall' officina, ed essere posta nel decoroso luogo per cui era stata con tanta industria fusa o scolpita. E ben vedo quanto stiamo lontani dalla perfezione di questo desiderio. Restringendo perciò l' animo nostro a quello che concedono i tempi, si possono quelle quattro parti della completa educazione adunare in due, cioè nella nazionale o pubblica, la quale tenga in sè le due prime, e nella famigliare o privata, che unisca le due seconde. La privata in vero, per quanto è detto, non può nè debbe essere uniforme; e a buon diritto essa vuole aggiustarsi alle circostanze della casa, dell' allievo, ed eziandio del precettore. Poichè io credo esser una trista e irragionevole pretensione quella che gli uomini tutti debbano uscire d' una medesima stampa; ma a cui pur tanto inclinano certi scrittori, e certi Ministri sistematici, nei quali sembra quasi fissa tale opinione, che s' informino gli uomini colle pretelle. E così parimenti nessuno troverà assurdo che v' abbiano diversi ed ottimi precettori, e che ognuno posseda un suo proprio metodo ottimo relativamente a lui che l' adopera. Al quale se tu fai pigliare un metodo non suo, ancorchè in se stesso migliore, non trovi più il metodo ottimo, cessando d' essere tale ove sia usato da quello alla natura ed all' indole del quale esso non è accomodato. Laonde l' educazione famigliare può bensì avere alcuni lineamenti simili, tolti, come abbiamo detto più sopra, da quel primo disegno che ne ha posto l' educazione pubblica, ma non può essere uguale ed uniforme nel compimento privato di quel disegno: allo stesso modo come più quadri disegnati dalla medesima mano, se vengono coloriti da mani diverse, danno sugli stessi contorni molte accidentali varietà. L' educatore privato adunque dovrà bene imbersi dello spirito della educazione pubblica, e quella non distruggere, ma sopra quella edificare con metodi però che sieno i migliori nella sua mano, e i migliori a' bisogni e alla destinazione del suo allievo. Da questo apparisce come la perfetta educazione privata (parlando in genere, cioè del comune delle famiglie) suppone già la perfezion della pubblica, e che mirabile vantaggio e beneficio dieno que' pastori dei popoli alla privata educazione, i quali regolano sapientemente la pubblica, ch' è come l' atrio di tutta intera l' educazione. E ciò tanto è più possibile e da noi sperabile, quanto che questa educazione pubblica può e debbe essere uniforme e con leggi generali stabilita. Ma se cerchiamo da quale difetto si debbe maggiormente guardare la educazione pubblica, non dubito dire ch' egli sia dallo spirito individuale. Lo spirito individuale di necessità deforma e costringe quella educazione che, dovendo essere pubblica, cioè adattata a tutti i sudditi di un principe o membri di una nazione, debbe altresì prescindere da tutto quello ch' è individuale. Il particolare uomo è quasi sempre parziale e incompleto ne' suoi avvisi; egli si è formato un modo peculiare di sentire e di pensare, nè forse veruno si schiva da porre più o meno ne' giudizi qualche cosa del suo, oltre il vero. Laonde non è ragionevole nè umano il persuadersi, che dai giudizi di un solo uomo possa dipendere talora l' educazione d' innumerevoli, e sulla forma accidentale di un solo spirito sieno informati innumerevoli altri spiriti, i quali da natura tengono varietà d' inclinazioni e di doti. E non è questa, generalmente parlando, la ragione per cui tanto si pena a trovare dei buoni testi scolastici che servano a' maestri non meno che a' discepoli per guida delle lezioni? E` egli per amore soverchio di risparmio questa scarsezza de' buoni testi? Non già; mentre con tanta magnificenza sono universalmente nutriti gli studi ne' nostri tempi. E` per mala intenzione de' reggitori? Di ciò non può cadere sospetto nel più disgraziato mortale. Tal difetto è solo, io mi credo, cagionato dall' essere que' testi, nella più parte, opera di qualche persona peculiare, non di molte. Oltre vedere in essi l' impronta del carattere particolare sempre ristretto e scomodo a' più, perchè in contradizione col maggior numero degli umani caratteri, non sarà maraviglia, anzi necessità, che coteste opere formate per la gioventù riescano se vuoi diligentissime sì nella esecuzione, ma povere incredibilmente e streme nel concetto generale e nella stessa sostanza dell' opera. Poichè chi conosce a pieno il modo onde quegli che ha la cura generale di tali cose può scegliere alcun uomo particolare alla composizione d' un testo, vede quant' egli venga in pericolo d' ingannarsi, mentre non potrebbe mai ingannarsi eleggendone molti. Senza noverare tutte le circostanze a cui pende la destinazione di una persona alla composizione d' un simile libro, io mi rimetto alla buona fede di quelli che avvisano la cosa nel fatto; e sono certo che quelli mi confesseranno come, tutto ciò venendo dalle più prossime informazioni e dalla pratica accidentale che una persona più tosto che un' altra tiene con chi nella cosa influisce, la scelta può e debb' essere apposta non al migliore per lo scopo, ma a colui che per gli accidenti migliore apparisce. Laddove scegliendo tal corpo di persone alle quali facciano testimonianza solenne, non già private informazioni di singoli eziandio che di persone poste in dignità, ma le voci di tutta la nazione e le opere loro onde inchiarirono, è cosa impossibile che sul tutto di questo corpo cada l' errore. Sono alcuni che ci oppongono non essere poi necessario a formare una grammatica, od anzi qualunque libro scolastico, ingegno profondo e vasta dottrina. Anzi queste doti essere nocevoli, perchè chi le ha non si suole inclinare ai bisogni dei fanciulli: essere più adattato al componimento d' un libro per la gioventù un ingegno mediocre, più giudizioso che penetrante, più paziente che dotto, più perito nella pratica della pedagogia, che nella teorica: per mancanza appunto di queste qualità patirsi generalmente difetto di testi scolastici facili e acconci alla debilezza dell' intelletto fanciullesco. Io non esaminerò le cagioni di questo universale difetto di testi scolastici e d' altri libri elementari, dei quali nessuna nazione io credo che si possa dir molto ricca, se pur i libri elementari non si contino, ma si pesino. Risponderò più tosto, all' obbiezione proposta, con più ragioni. E primieramente sembrami dover notare un errore dannosissimo e reso al nostro tempo quasi universale, che il più gran pregio di un libro o di un metodo sia la facilità colla quale presenta le dottrine. Questo errore, confesso, è molto seducente; specialmente a uomini di costumi rammolliti ed insofferenti di una seria applicazione. La facilità colla quale si presenta una dottrina sembra altrettanta luce sparsa sulla medesima. E mediante un insegnamento tutto scorrevole e facile avviene che agli uomini, non parlo solo dei giovanetti, sembri di venir diportandosi nel gran campo del sapere senza trovar ai lor passi ostacolo alcuno, e misurandone coll' animo tutta l' ampiezza, anche prenderne la possessione. Perciò una facilità sì fatta lusinga l' amor proprio: conciossiachè occulta tutte le difficoltà e i nodi della dottrina, tanto importuni e molesti a chi ha grande presunzione di se stesso: un sì dolce oblìo, di tutto ciò che può arrestare il volo del pensiero e far dubitare delle proprie forze intellettuali, è pure un caro servigio; simile a quello che rende il vino all' infelice, assopendolo in profonda dimenticanza su tutti i suoi mali, almeno fino alla veglia importuna. Sì soave diletto, sì beata tranquillità letteraria, che certi sapienti si procacciano coll' evitare diligentemente tutte le difficoltà che inquietar li potessero, apportando incertezza sull' opinione della propria penetrazione non usa ad urtare in qualche villana durezza, armoneggia eccellentemente collo spirito di un secolo, in cui si teme tanto di esser turbato, di esser eccitato da quel letargo morale, onde si preferisce l' indifferenza alla verità, e l' epicureismo alla virtù. Tutto si lega; e l' universo morale ha le sue leggi generali quanto il fisico: quella dei nostri costumi sarebbe la legge della facilità, per la quale si rigetta ad un tempo la virtù, perchè non tanto facile quanto si vorrebbe a praticare, e la sapienza perchè non tanto facile quanto si vorrebbe a comprendere. Povera umanità! inorridisce, [...OMISSIS...] al pensiero di ciò, che i nostri rozzi antenati chiamavano col nome di virtù e di sapienza: ma ella si compone appositamente una virtù facile ed una sapienza scorrevole! Quando si ricerca con tanta delicatezza ne' testi scolastici la facilità , che adunque si fa se non un' applicazione dello spirito generale del secolo in cui viviamo? Per altro non cerco di oscurare la questione; anzi di chiarirla. Concedo dunque che la facilità sia un pregio desiderabilissimo, ove ella consista nella espressione, e nella chiarezza assoluta de' pensieri. Ma ciò ch' io avverto si è, che si confonde questa specie di facilità con un' altra che consiste, come dicevo, nell' escludere delle parti rilevanti di verità, come quelle che sembrano troppo gravi, e inducenti a seria meditazione, e nell' evitare tutto ciò che può produrre un picciolo ostacolo, qualche cosa d' insolito e di misterioso, innanzi a cui la mente umana sia costretta di umiliarsi e di deporre la presunzione, o pure di affaticare, e di vincere la rilassatezza, e con ciò conoscere che v' hanno al mondo delle cose delle quali non si può giudicare se non dopo uno studio lento e faticoso. Nè voglio per questo che si aggravino più del necessario le menti de' fanciulli; ma sì, che per soverchia delicatezza e amore di questa seconda specie di facilità, non si privino della verità solida e necessaria. Vi sono delle cose le quali sembra che nulla abbiano di profondo e che la loro natura sia per così dire di essere superficiali: tali sono le cose esterne e materiali, le quali col primo sguardo della mente tutte si assorbono e si comprendono: e perciò lo studio di queste si può fare con celerità dilettevole, giacchè una mente felice in breve tempo ne trascorre molte, e tutte bene le comprende, e le ripone qual ricco tesoro. Tutt' altro è il procedere del pensiero nelle verità morali, perciocchè la natura di queste ha una certa profondità inesauribile che col primo sguardo non si attinge: di che è necessario insistere a lungo sopra ciascuna: e quanto più vi s' insiste e vi si penetra, tanto più vi si sentono e scuoprono cose che da prima non s' erano scorte nè sospettate, e così con lento grado si va ad intendere la natura intima di tali verità, la quale non è mai tanto investigata che non tenga ancora al suo fondo alcun che di secreto e di misterioso, che alla mente meditatrice incute riverenza e virtuosa curiosità. Ma una tale lentezza di meditare è aborrita dall' uomo presuntuoso e dal materiale; perciocchè il primo è costretto di raffrenare i suoi troppo confidenti pensieri; e al secondo, sparso nella superficialità della materia, sembra anzi un gioco d' imaginazione che vera realtà quell' universo morale, la cui natura è tutta interiore, e tanto più reale quanto più occulta ai sensi e manifesta allo spirito. Egli è perciò che tutti i sofisti degli ultimi tempi tanto si affaticarono d' impoverire e distruggere la metafisica, col pretesto ch' ella è composta di questioni troppo difficili, anzi giudicate da essi insolubili, e più ancora (giudicando di ciò che confessano non conoscere) inutili. Sollevarono dunque gli uomini da un' improba fatica? Non fecero che raddoppiarne loro il carico: giacchè non potendo questi prescindere da quelle questioni, col far loro dimenticare tutto ciò che ne avevano meditato le generazioni precedenti, gli obbligarono a tornare a capo col gran lavoro, e ricominciare lo studio dagli elementi. Questo spirito di superficialità col pretesto di facilità fu introdotto pur troppo nelle scuole: che furono ridotte ad occuparsi quasi interamente di oggetti materiali e a sorvolare sulle cose morali colla stessa leggerezza, onde si può fare con quelle. E non è a dire quanto tale superficialità sia nociuta alla Religione; e sembra assai probabile che il popolo cristiano del secolo illuminato, se udisse recitare dal pergamo un' omelia di Agostino o di Cipriano, dimanderebbe: Che argomento tratta o che religione insegna quest' oratore? Il principio adunque della facilità, in questo senso intesa, non può esser quello che regola la formazione de' testi scolastici; poichè volendo secondo questo principio tor via tutto ciò che torna oscuro alla mente del giovanetto, bisognerebbe torre tutto ciò che ha relazione colla dottrina della religione ed anche colla dottrina morale: poichè tutto ciò è difficile necessariamente, ed ha in sè dell' oscurità non solo per un giovanetto, ma per un adulto ancora e per un sapiente. Dio non ha educato il genere umano al sublime suo fine col tor via dalle sue istruzioni tutto che fosse difficile, oscuro, e misterioso, anzi col comunicargli tutto ciò, perchè fosse perpetua ed inesausta materia di sua meditazione. Non pensò Gesù, quando ammaestrava i suoi uditori, a rimuovere da' suoi discorsi quel difficile che consisteva nel sublime della verità, anzi tutti i suoi discorsi quanto semplici nella espressione, tanto li disse sublimi e profondi nella materia; perciocchè se l' uomo nello studio delle cose fisiche va dai particolari a' generali, nello studio all' incontro delle cose morali e metafisiche viene dai generali a' particolari: si sviluppano queste dottrine nella sua mente, come si sviluppa dal suo picciolo germe la pianta, la quale tutta intiera, benchè raggruppata e ravvolta, in quello si conteneva. Si spandano adunque negli animi e nelle menti de' fanciulli delle grandi verità, eziandio che tosto non le comprendano, perciocchè sono come sementi, che si sviluppano nel corso di loro vita; sono verità, che quantunque oscure diventano poi feconde madri di luce; che si fanno alimento alla intelligenza per la stessa loro oscurità, la quale viene cangiandosi in luce più pura, quanto più a lungo sono state soggetto di meditazione. Or poi, premesse queste cose sul principio della facilità, io tengo come cosa chiara ed aperta, che dovendosi fare scelta d' alcuna persona, a cui commettere la composizione di qualche libro scolastico, non si debba tenere ad unica regola la vicinanza di questa persona alla mente ed all' indole de' fanciulli. Che se così fosse, il miglior compositore de' libri de' fanciulli sarebbe un fanciullo. Se dunque non basta questa qualità di sapere impicciolirsi alle menti fanciullesche, è da vedere che cosa si richieda sopra ciò a formare un buon libro per i fanciulli. Ora io dico che a questo conviene bensì l' impicciolirsi, ma che dopo ciò debba essere tanto più acconcio compositore quell' uomo che è più grande. Imperciocchè da prima i piccioli uomini sono i più pregni di pregiudizi, e stanno fissi a certe loro abitudini e foggie di pensare loro proprie e quasi ammanierate: per cui quanto l' uomo sarà più ristretto nel suo pensare, tanto più rovineremo in quello sconcio che di sopra fu tocco, di voler conformare uomini da natura variatissimi non alla foggia che più loro conviene, o per dir meglio a quella quasi larga e vantaggiata forma del vero, ma tutti ad un misero e rannicchiato modello, arbitrario ed accidentale. Di poi non si creda così legger cosa possedere le chiavi del cuore umano, il quale è precipuamente da allevare nella gioventù, ed al quale tutti gl' ingegni dell' educazione sono da volgere: poichè quantunque nei fanciulli questo cuore sia tenero e semplice, è tuttavia cuore umano, e tiene i germi di tutte le umane inclinazioni, ed ha le sue molteplici pieghe e sinuosità, ed aditi riposti, e viste variatissime; e dentro alle regioni di simil cuore non può mettersi sicuramente se non quell' uomo, il quale sappia di molto filosofare, ed abbia di molto osservato sopra se stesso e altrui, e colla perspicacità della mente rilevate le molle delle nostre operazioni. Dal che quanto si trovi star lungi un mediocre uomo, ancorchè molto presumente di se stesso, o molto bene altrui veduto per dolcezza di parole e di atti, si fa manifesto da quelle sottili osservazioni fatte sulla gioventù da uomini sagacissimi, le quali quanto utili e necessarie, appariscono altrettanto lontane dalla mediocrità degl' ingegni. Ma che a comporre un libro da usare in tutte le scuole di uno Stato si esigano molti lumi e consumato senno, oltre le ragioni dette, si prova anche dalla natura di tutti i compendii o breviarii delle scienze. Poichè quegli che intende ben addentro che cosa si richieda a dettare un ottimo compendio di scienza, confessa che questo appare bensì cosa breve nella mole e leggiera nella semplicità dello stile, ma che suppone studio assai profondo della scienza stessa: dalla quale bisogna spremere il puro succo, e cogliere, quasi direi, ciò che ha di più spirituale; e perciò è necessario conoscerla molto, e saperla rivolgere, e maneggiare, e atteggiare da tutti i lati, come cosa in tutto propria. E questo sentimento comune a' veraci dotti è però tale, cui non s' arriva a capire giammai dai ristretti uomini di cui parliamo, i quali si tengono gran maestri di compendii, e sorridono di chi ci trova tai nodi. Ma la ragione principale della necessità di molto senno nella composizione dei libri scolastici non fu ancora da me toccata. Tale necessità consegue naturalmente al sistema cristiano della educazione di sopra esposto: quando la leggerezza e la facilità nel proporre libri per la gioventù è conseguente al sistema contrario. Questo sistema, mi si lasci dire, falso filosofico, oltre trascorrere su tutte le cose con grande agilità per la naturale presunzione che alleggerisce le menti, considera tutti gli oggetti della educazione squarciati e smembrati, e senza la naturale soggezione dell' uno all' altro: il sistema cristiano all' opposto li vuol collegati ed uniti. Perciò il primo toglie la dignità sua a ciascuno di quegli oggetti, e, staccandoli dal suo gran tutto, li presenta come cosa da poco e di facile riuscimento. Il sistema cristiano all' incontro, volendo che ciascun oggetto appaia membro del gran corpo di cognizioni a cui appartiene, suggerisce ai pastori dei popoli di far lavorare anche qualunque picciolo membro di questo corpo scientifico da tali e tante persone che sieno atte ad avere sempre presente il tutto, e sappiano perfezionare ogni parte sopra un disegno generale. Ed allorchè qualunque membro, ancorchè per se stesso picciolo, si considera in questo raggiungimento col suo tutto, egli acquista una cotale grandezza e dignità, a cui non rifugge certo di piegarsi anche l' uomo sommo e dottissimo. Ma senza questo incitamento, come pretendere che le grandi menti s' abbassino agli studi giovanili? E con che profitto si daranno a ciò? E con che speranza? Nè gli studi privati di un sapiente otterrebbero, come ho notato, di supplire al bisogno di una nazione, nè la concordia di molti sapienti a questo fine è possibile senza che quegli, a cui spetta la direzione de' pubblici studi, li chiami e raguni insieme. E di vero se un sapiente lavorasse da se stesso, e non chiamato, al bene della pubblica educazione, nè avrebbe ove raggiungere il suo lavoro al sistema generale, nè saprebbe aspettarsi alcun frutto dalle sue fatiche, o frutto lievissimo (1). Ma formato il collegio di quelli che la voce di tutta la nazione proclama dotti insieme e pii, come potrebb' essere che questo collegio non si ponesse con tutte le forze a corrispondere all' onorata sua destinazione? Non è proprio de' grandi, il concedo, seguire le cose picciole: ma la formazione de' testi scolastici non sarebbe più cosa picciola, quando tutti i testi insieme formassero questo gran tutto che ragioniamo, e quando la fatica avesse a scopo non il privato e momentaneo giovamento, ma il giovamento dello Stato, dal quale ogni cuore virtuoso è toccato, e più è toccato quello de' grandi. E se la pubblica munificenza sparge tesori nella educazione, quale ricchezza più utilmente sparsa che in rimunerare questi dotti insieme adunati alla formazione del piano della educazione nazionale, e dei testi ad essa necessari? Poichè l' aspettazione di un largo e giusto premio alle loro fatiche, sarebbe anch' essa non picciolo eccitamento ad addurre la mente di questi savi alla nobile occupazione: specialmente se il premio fosse grande sì, ma commensurato meno al tempo speso, che all' opera conseguita. Chè molta forza anche sopra l' animo degli uomini dotti ha quel lucro onorato che accresce loro i mezzi e gli agi o della vita, o degli studi. La quale spesa tanto meno dovrebbe rincrescere quant' essa non è continua, anzi cotale che fatta una volta consegue un' opera lodevolissima, e durevole. La quale ancora toglie molti altri dispendii, non gravi a dir vero, ma pel loro numero e per la loro continuità più dannosi a mio credere alla economia, fatte le ragioni compiute. Poichè, donde nasce il bisogno di mutare con frequenza libri, e regolamenti nelle scuole, se non dal concedere troppo agli arbitrii di questa e di quella persona, e però dall' esser le cose abbandonate a' modi di vedere particolari, i quali variano in infinito, e non regolate su quello permanente della comune verità? Nè solo ciò debbe avvenire quando, per avventura, si stia troppo aderenti al voto della persona incaricata di questi affari, che per quanto sia rispettabile è sempre una; ma ben ancora per quel difetto così solito fra gli uomini, che corrono a moltiplicare le disposizioni all' intervenire de' casi particolari senza calcolare l' effetto generale delle medesime, e ciò in dipendenza o dall' essere accaduto forse un solo accidente, e perciò dalla possibilità e non dalla probabilità che si rinnovi; o dalle relazioni degl' inferiori. E oltre essere nobile, utile, dignitoso e per avventura anche economico, questo collegio di uomini che la voce pubblica ha segnati per veri dotti, congiungerebbe un politico vantaggio notabilissimo. Per esso collegio verrebbero i membri che lo compongono interessati con accorgimento e raggiunti alle cose pubbliche, e riceverebbero una buona direzione a comune vantaggio i loro ingegni; perciocchè quando in quest' opera fossero impegnati, col bene di questa fisserebbero le loro idee, altramente vaghe, e talora nocevoli. E quantunque finita la ricevuta incombenza dovessero cessare a questo collegio gli emolumenti, tuttavia potrebbe rimanere una consulta o collegio onorario, il quale si udisse nelle innovazioni che fosser proposte a miglioramento; fissando a' particolari consulti certo premio particolare. Data la formazione di questo piano generale delle scuole, l' occupazione de' naturali officiali dello Stato si ridurrebbe a provvederne l' esecuzione; al che sono acconci i particolari, conciossiachè non si tratta che d' eseguire ciò che fu dai molti concepito. Ma la dignità dell' opera, l' ampio bene da questa aspettato, l' onore e il lucro promesso a questi dotti, non sono i soli eccitamenti onde le grandi menti s' impegnano a pensare a' fanciulli; nel che, impegnate che fossero, riuscirebbero maravigliosamente nell' appareggiarsi a loro, non al modo di quelli che s' abbassano perchè non sanno elevarsi, ma di quelli che s' abbassano per condurre od avvicinare i minori alla propria altezza. La Religione nostra ha un modo di far chinare i sommi uomini a tutte misure, nuovo e suo particolare. Questo inchinamento luce nel fondatore della Religione, il quale essendo veracemente grande, mostrò di fare sue delizie i fanciulletti, e ne lo ingiunse a tutti i discepoli suoi. [...OMISSIS...] Non andò egli in cerca di quell' abbassamento naturale e a dir vero ignobile delle menti mediocri e ristrette; ma egli precettò l' abbassamento nobilissimo, cioè l' abbassamento volontario comune al grande e al picciolo, poichè comune a coloro che hanno carità. Amore è quello che c' impicciolisce utilmente alla misura de' giovanetti, non già nativa imperfezione e imperizia. E qui appare nuova luce, e mirabile, uscir fuori dallo spirito della cristiana Religione. Nel collegio adunque di questi dotti regni questo spirito: vi regni solo ed intero: senza di ciò il piano non sarà mai perfettamente acconcio a' bisogni degli uomini; e più o meno converrà alle loro necessità, secondo che più o meno vi regnerà: nè questo spirito del cristianesimo, che è quello dell' unica vera grandezza, vi potrà tenere intero dominio, se il carico delle elezioni si dia a sole persone secolari, il più delle quali professano il cristianesimo senza averne il pieno studio ed il finito intendimento, e perciò ne sfuggono le più vere conseguenze, e pongono così arbitrario limite nella pratica di esso, che converrebbe a istituzione prodotta dall' arbitrio umano, ma non a religione proclamata dalla parola divina. La proposta però di una dotta assemblea, a cui sia commessa la composizione de' testi per le pubbliche scuole, sarebbe vana se non vi s' aggiungesse una saggia organizzazione. Nella quale la cosa principale si è questa, che tale adunanza abbia un uomo sopra gli altri grande che la presieda e che ne diriga i lavori. Conciossiachè sì come un solo letterato non darà mai alle scuole pubbliche de' testi perfetti, così un' assemblea di letterati non li darà pure giammai, quando un solo dirigendola non dia alla medesima l' unità, e non sappia esserne dirò così l' anima che l' avviva. E veramente il progetto proposto richiede che tutti gli oggetti dell' istruzion giovanile dimostrino un bell' ordine, un legame fra loro, che insomma formino una perfetta unità. Ed a questo ottenere egli è necessario che v' abbia una mente sola che ne concepisca il generale disegno, e ne getti per così dire l' abbozzo. Tale piano debb' essere un' istantanea creazione d' ingegno sublime, d' ingegno che percipiendo e misurando d' un tratto tutti i rispetti, ne sente l' unica e indivisibile armonia che da tutti risponde, e la contempla col pensiero, e l' affissa, e la fura per così dire al secreto suo spirito, e la mette in parole. Così l' opera d' un grande artista se non è creata da un atto semplice della mente, non può attingere quella perfezione che sta in una unità indivisibile, in una unità che tutte le relazioni in sè aduna e comprende. Perciò indarno nell' opera di cui parlo si stancherebbero molti ingegni, se fra essi non ve n' avesse un solo potente, che tutta affissandola e ritraendola con una sola vasta intuizione dalla idea esemplare della sua mente, ne dimostrasse manifesto il modello, che divenisse regola e guida sicura a tutti gli altri che insieme con lui alla stessa impresa sono chiamati cooperatori. Allora dunque tale edificio può riuscire perfetto, quando una gran mente ne pone le basi immutabili e necessarie: ed un' assemblea sopra quelle unanimemente il lavora; quando il maggior numero dei voti di tale adunanza non prevale che sulle parti accessorie e sulla esecuzione dell' opera; e non sull' idea fondamentale, a cui solo qualche rarissimo può sollevarsi; ed è così semplice di sua natura che concepita che sia, il mutare è guastarla. Ma come ritrovare quest' uomo singolare, questo savio che gitti tal fondamento? Non è questo in potere de' governanti; conciossiachè la sola Provvidenza è quella che spedisce alle nazioni ne' momenti di sua clemenza uomini sì preziosi. Egli è perciò dovere di cercare mai sempre quest' uomo eminente fino a tanto che si rinvenga; perciocchè altramente si correrebbe rischio di peccare contro alla divina Provvidenza stessa, la quale potrebbe mandarlo, e per la negligenza degli uomini, egli rimanersi oscuro e disconosciuto; così quella li punirebbe colla privazione del gran bene che loro offeriva, e ch' essi verrebbero indirettamente a ricusare. Fino poi che questi non si ritrova egli è necessario mettere alla direzione della detta assemblea quegli che si reputa fra tutti il migliore, il quale potrà presentare una proposizione alla volta, cominciando dalle più generali, di quelle che servir debbano a direzione nel componimento dell' opera di cui parliamo. Così a ragione d' esempio, la prima proposizione o regola che questi presentar dovrebbe, sarebbe appunto quella che « tutti i testi delle scuole formassero insieme una perfetta unità, sicchè ciascuno riuscisse ad esser parte d' un opera medesima e l' uno congiunto coll' altro si dessero scambievolmente lume e giovamento, facilitando a vicenda l' apprendere al giovanetto ». La seconda proposizione o regola generale per la formazione dell' opera di cui parliamo potrebb' essere appunto quella della triplice unità; cioè dell' unità del fine, a cui tutti i testi debbono armoniosamente tendere, dell' unità del sistema o della catena che debbono mostrare le verità fra di loro, e dell' unità del metodo o delle diverse potenze che si debbono tutte istruire e proporzionatamente perfezionare nell' uomo. E così discusse queste generali proposizioni proseguir dovrebbe a discutere ordinatamente tutte le altre che servissero di direzione all' opera de' testi scolastici; collo stabilimento successivo delle quali regole s' otterrebbe di dare un regolar movimento all' opera a cui molti ingegni concordemente dovessero lavorare. Ma ora è da confessare che il privato istruttore non può avere una educazione pubblica così savia ed intera, come vorrebbe esser questa di cui ho messo innanzi un desiderio, sopra cui rilevare l' edificio della educazione privata; e non essendo posto tal fondamento da' legislatori, egli debbe per quanto è possibile venirlosi formando da se medesimo. Perciò egli non sembrerà al tutto inutile il toccare, come ordinar potrebbe questo lavoro, o quest' opera, dirò quasi, temporanea. E il concetto che n' esporrò, eziandio che imperfetto, sarà nondimeno foggiato sullo spirito di unità a cui conduce, parte con aperto e parte con insensibile impulso, la Religione nostra, che tiene sempre a fisso scopo la perfezione di tutto l' uomo, nel che dimostrasi eretta sopra di una divina «androposofias». Questo adunque mi conduce a considerare sì gli studi primi, come gli ultimi della gioventù, quali anelli d' una catena medesima e parti proporzionate d' un solo tutto, la perfezione dell' uomo. L' uomo nato alla società e vivuto nella società co' suoi simili fin dalla culla, con voce di natura è chiamato a due scopi, o a due operazioni. Primo egli è chiamato a perfezionare la sua natura, a crescere nel corpo e nello spirito, a studiare l' armonico sviluppo di tutte e due queste parti, fino a ch' esso, composto di quelle, sia giunto al suo natural compimento. Sviluppato e cresciuto, egli debbe pensare ad apprendere il modo di occuparsi nel bene pubblico. Ecco i due atti ed intendimenti della educazione: formare l' uomo; e l' uomo formato rivolgere al bene de' più. La prima cosa si ottiene con tutta quella educazione che muove dagli studi primi sino alla fine del Liceo; la seconda cosa è proposta negli studi della Università. Per formare compiutamente l' uomo, primo atto dell' educazione, non si debbe trascurare nulla degli oggetti connessi coll' uomo, e questi sono due principali, Dio, e se stesso, ed in parte anche la Natura. Vale a dire non si debbe trascurare in quella prima opera della educazione tutto ciò che di Dio, di se stesso, e della Natura, giova a lui di sapere, perchè possa essere bastevolmente formato. E per ciò stesso non si vogliono trascurati gli aiuti a queste cognizioni. All' incontro nella educazione data all' uomo per lo migliore della società, secondo atto dell' educazione, quantunque anche a questo giovino varie cognizioni, tuttavia il sostanziale consiste che si approfondi in alcun ramo particolare. Poichè se il bene di noi stessi consiste nell' opera nostra, e perciò se bisogna che rispetto a noi siamo instruiti ed esercitati in tutto che ci risguarda; il bene all' incontro della società non risulta da un solo, ma dall' opera di molti, e perciò non importa che ciascuno sia educato in tutti i ministerii che risguardano la società (ciò che non sarebbe possibile) ma in alcuna professione particolare: bastando che tutti insieme i membri della società, i quali si vogliono considerare come una persona morale, possedano tutte l' arti a lei utili e necessarie, e perciò che rispetto al bene pubblico abbia una educazione compiuta questa morale persona. Laonde se nelle università alcuni studiano di proposito Dio, come quelli che sono educati nella Teologia, altri l' Uomo come quelli che sono applicati alle Leggi, altri la Natura come quelli che sono intesi alle Matematiche e alla Medicina; questa partizione non è punto riprovevole, ma conforme al fine. E tuttavia, perchè ciascuna di queste arti frutti bene ai molti per cui è posta, ella vuole essere innestata sopra l' uomo già ben formato e compiuto per se medesimo. Il che recide un nuovo sofisma di certi cortissimi filosofi, i quali vedendo che quest' arti e scienze utili alla società potevano stare divise, e la formazione all' incontro dell' uomo si stava tutta unita, cominciarono copertamente a vilipendere questa, e spacciandosi unicamente solleciti della filantropia , proclamarono come sole lodevoli quelle scienze che fossero rivolte propriamente al ben pubblico, e in questo modo furono condotti a cadere in tale follezza, che l' uomo dovesse esser posto a far bene altrui quando nol sapeva fare a se stesso, e rovinarono il primo fondamento della educazione, la legge naturale della quale è questa: CHE L' UOMO SI FORMI, E POI SI ADOPERI. In tutti gli studi adunque del giovane fino al compimento della filosofia dovranno concorrere insieme la cognizione di Dio, la cognizione di se stesso, e la cognizione della Natura in quella parte che si avvincola a quelle due prime fondamentali, come pure la notizia dei mezzi all' acquisto delle medesime. Le quali dottrine tutte possono entrare nell' uomo, quasi per diversi aditi, per le diverse sue facoltà. Laonde seguendo i passi della natura bisogna considerare quelle facoltà che si sviluppano prima, quelle che si aprono dopo, e secondo che esse appariscono e quasi naturalmente nell' uomo fioriscono, dare loro coltivamento. Poichè indarno altri si sforza di andare contro alle leggi della natura, la quale non cede a noi, e della temerità nostra, se cozziamo con essa, per molti mali si vendica e ci castiga. Noi adunque seguaci della natura cercheremo prima di coltivare in modo speciale la Memoria, appresso l' Imaginazione, in fine l' Intelletto; poichè in quest' ordine si maturano le nostre facoltà. La Memoria riceverà la sua cultura principalmente negli studi della Grammatica, la Immaginazione in quelli della Rettorica, l' Intelletto nella Filosofia. E` però accuratamente a considerare, che le separate culture della Memoria, della Imaginazione, dell' Intelletto, non sono altro che i mezzi, per cui formiamo il cuore dell' uomo, che è quanto dir tutto l' uomo. Sarà dunque meglio detto che in tutto il curricolo degli studi non ci occupiamo d' altro affare, che di formare il cuore dell' uomo, ma nella Grammatica per mezzo della Memoria, nella Rettorica per mezzo dell' Imaginazione, nella Filosofia per mezzo dell' Intelletto. E venendo a partire più divisatamente la prima parte di questi studi, che nominai Grammatica, per non usare vocaboli insoliti, ma con cui voglio intendere sottosopra tutto ciò che viene compreso nelle scuole elementari, e ancora nelle prime quattro scuole del nostro Ginnasio, questi studi abbracciano due parti: 1 i mezzi all' acquisto delle cognizioni, cioè le lingue, tre delle quali a me paiono necessarie, la italiana, la latina e la greca, consanguinee tra loro e non soverchiamente difficili, se se n' allevia lo studio per questa lor parentela, non messa ancor bastantemente a profitto nell' istruzione; e 2 le stesse cognizioni. Per la lingua italiana facciam pure assai conto di quel sapore sincero e tutto soave che si sente ne' fiorentini scrittori, ed usiamo delle loro grammatiche, conciossiachè è lor nativa tal grazia di favellare, che noi forestieri da Firenze più difficilmente a gran pezza conseguiamo per arte; venendo a loro tal dono non so dir io se più dall' aure soavi de' colli o dall' acque dell' Arno, ma certo da una cotal vaghezza di liberale natura. E mi piacerà che sia fatto uso altresì, per dettare al fanciullo, di qualche raccolta di frasi sì della lingua italiana che della latina, e delle particelle messe insieme dal Tursellino, cioè di que' nessi del discorso che il rendono dolce e di soave andamento pe' naturali tragetti dell' uno nell' altro pensiero. Per la lingua greca, non solo giova quel metodo che vi ha trovato il Daponte, ma ancora è lodevole la breve grammatica che noi usiam nelle scuole. Pel Dizionario poi meriterebbe di essere più conosciuto quello del Nitz che tiene continuo risguardo alle origini delle parole (1), e che mi parrebbe assai comodo anche in Italia, se dalla lingua tedesca ci fosse tradotto. La connessione poi di queste lingue, che sono i mezzi alle cognizioni, colle cognizioni stesse, oltre nascere per quel general vincolo del loro fine che vorrà esser fatto conoscere al giovanetto, si stringerà vie più per tutte quelle sentenze e que' tratti che si fanno tradurre, per esercizio, da una in altra lingua: i quali vogliono esser pensatamente eletti, ed acconciati a tutto il rimanente dello insegnamento, e spiegati al discepolo non pure nelle parole, ma nelle cose ancora. E in quanto alle cose, come abbiamo veduto, a tre soli oggetti tutte si riducono, Dio, l' Uomo, la Natura. In quanto alla cognizione di Dio vorrei che in tutte le scuole fosse letta la Scrittura con apposita distribuzione de' libri e apposite noticciuole ai medesimi; e vedine la distribuzione. Nelle Scuole Elementari poni gli storici: nelle prime quattro scuole del Ginnasio dispiega i morali dell' antico testamento: alla Rettorica dischiudi le poetiche amenità de' Profeti e dei Salmi: apponi alla Filosofia il Vangelo, e nella Università fa studio le Apostoliche Lettere e gli Atti. Vorrei intralasciata la Cantica, l' Apocalisse, e tutti i luoghi, che i Pastori della Chiesa giudicassero da intralasciare. E perchè nelle divine scritture non composte pel solo uso de' fanciulli, ma per la stessa educazione dell' uman genere, la cui vita si protende nel successo de' secoli, non è quell' ordine di dottrina, ove le verità si veggano rannodate e dedotte in un regolare sistema, ma v' è questo sistema qua e là sparso in brani, secondo il beneplacito della sapienza dell' altissimo Educatore, perciò a questa lezione scritturale si unirà altro libro sopra la Religione che la insegni in ordine naturale a' fanciulli, rivolto a loro appianare l' intelligenza della Scrittura. E quest' opera vorrei divisa in sei parti. Nella prima vi si considerasse la Religione come rivelata , cioè fosse un raccolto semplice delle rivelate verità, o un catechismo da essere usato nelle scuole elementari. La seconda parte continuandosi alla prima risguardasse la Religione come giusta , o pure come il fonte della giustizia, scaturendo questo fonte dalla stessa dottrina della fede sposta nella prima parte, e quindi deducendo la morale generale, ed un trattatello proprio pei giovanetti. Nella terza parte poi la nostra Religione apparisse come bella , e servisse all' uso della Rettorica; e queste bellezze della Religione fosser tratte sì dalla profondità de' dogmi, che dalla santità dei morali precetti. Per la Filosofia fosse la parte quarta, e trattasse della Religione come sapiente , e ne sviluppasse il vasto e meraviglioso sistema fondato in soli due uomini Adamo e Gesù Cristo, e rivolto per un mezzo divino a riparare alla corruzione della primitiva natura umana, non già col ristorar quella stessa che volle essere abbandonata alla maledizion ricevuta, ma col fondare sulla sua distruzione una natura nuova vincente la prima per infinito numero di maravigliose magnificenze. Nella Università poi si dovesse far uso della quinta e della sesta parte di quest' opera, cioè i due primi anni della quinta che contemplasse la Religion come vera , presentandola col corredo delle sue prove, non tanto per gli studiosi che nutriti alla fede ne sentono nel fondo della pura coscienza la verità, e splende in loro il lume di Dio, quanto per munirli contro agli sgraziati aggressori di lei: e i due ultimi anni, della sesta che ammira la Religion come utile non solo all' altra vita, ma pur agli usi della presente, dove imprendessero i riguardi dovuti all' autorità ecclesiastica, e in una parola il modo ond' usar bene, secondo la guisa delle lor varie professioni, questa Religione, perchè ella ottenesse il maggior bene nella società e conseguisse a pieno la lode che le dà Paolo: « « La pietà è utile a tutto avendo promessa della vita presente, e della futura » » (1). Il catechismo gioverà che sia il medesimo, o tale che s' accordi a pieno a quello della Diocesi, perchè l' insegnamento delle Scuole e della Chiesa proceda d' un medesimo modo. Ciascuna parte poi di quest' opera abbia riguardo e si rannodi alle parti corrispondenti della Scrittura. Qui forse gioverebbe che non essendo ancora quest' opera compilata indicassi qualche fonte onde cavarne la sostanza. Ma mi smarrisce d' una parte la moltitudine degli scritti in questi argomenti, dall' altra la scarsezza di quelli che al nostro uopo s' acconcino. Ne nominerò tuttavia alcuni, non intendendo di approvare con ciò tutto quello che in sè contengono. Potrebbesi usare in luogo della prima parte il nostro catechismo; e foggiar la seconda sulle « Istruzioni per la gioventù » del sig. Gobinet; la terza sul « Genio del Cristianesimo » del sig. Chateaubriand; la quarta su' « Pensieri » di Pascal; la quinta sull' « Apologia » di M. Tassoni; la sesta sugli scritti di que' due lumi del nostro secolo, il conte De Maistre, ed il sig. Bonald. Ma tali libri, ancorchè eccellenti, a pieno non soddisfaranno per più ragioni, e fra queste perchè non sono composti sopra disegno generale, perchè molte dottrine ch' essi contengono non sono state ancora comprovate bastevolmente, o perfezionate dalla pubblica discussione, e perchè finalmente la posteriore non contiene nè suppone le precedenti, come vorrebbe avvenire nel nostro concetto, acciocchè chi studia, poniamo, la Religione come bella , non rimanga di studiarla insieme come giusta e come rivelata , e chi la studia come sapiente venga insieme a ripetere quanto n' ha imparato delle sue bellezze, de' suoi precetti, e de' suoi dogmi, e dicasi lo stesso dell' altre sue parti. Lo studio dell' uomo si dovrà dare ai giovanetti nella Storia: e così la Storia non sarà una vana curiosità, ma sarà volta al fine di tutta l' educazione, la formazione del cuore umano. Con questo fine e su questo disegno dovranno essere formati i Testi di storia, che vorranno nello stesso tempo concatenarsi con gli altri oggetti. Essi sieno quattro, l' uno sempre continuazione all' altro: il primo contenga un compendio di Storia Universale; il secondo un compendio di Storia particolare della Nazione; il terzo la storia della Provincia; e il quarto la Storia della Letteratura. Il primo di questi potrà giovare per la Grammatica; il secondo e il terzo per la Rettorica; e il quarto per la Filosofia. Nella Storia Universale vi potrebbe avere una parte da principio che contenesse nude le epoche principali di tutta la storia cogli anni e i luoghi; e questa sarebbe quella picciola Storia, Cronologia, e Geografia da usare nelle scuole Elementari. Di poi potrebbero succedere tre altre parti; l' una delle quali contenesse la Storia Universale più polposa della prima, dove con maestrevoli tocchi fossero posti in veduta e lumeggiati i grandi uomini, innalzati i buoni, depressi i pravi, eccitato l' amore alla virtù, commosso l' odio nel vizio; e questa parte suddivisa in due, cioè nei tempi avanti e dopo Cristo, potrebb' essere acconcia alle due prime scuole del Ginnasio. Nell' altra parte, secondo il pensiero di Bossuet, vi vorrei trattata la successione della cristiana Religione cominciata in Adamo sino ai nostri tempi, e mostrato l' ordine stabilito da Dio che tutti gli avvenimenti servano alla gloria della sua Chiesa, e al bene de' suoi eletti (1); e questa che si lega colla prima sia per la terza scuola. Nella terza parte di Storia che serve per la quarta scuola del Ginnasio sieno dipinte le successioni degl' imperii e quasi una istoria delle umane società. Ma nel medesimo tempo che quest' opera debbe essere scritta con semplicità di stile e chiarità di pensieri, come particolarmente addimanda la tenerezza della gioventù, s' avverta che non tiene già lo scopo del Discorso sopra la Storia Universale, il quale è tutto rivolto alla formazione di un protettore della Chiesa e di un principe, ma debbe in quella vece avere a fine la informazione di un cristiano e di un suddito. Questo libro vuol essere dettato non solo con moltissimo senno, ma ben ancora con istile scelto e lingua legittima e tale ch' egli sia in un tempo medesimo sorgente d' istruzione di cose e di parole, e scusi ogni altro libro di lettura nelle grammatiche. Dopo conosciuta in tal modo la Storia Universale e dopo essersi formata quasi una dipintura de' più grandi fatti nella mente, dopo aver imparato altresì il modo di cavarne profitto al miglioramento dell' uomo, potrà il giovane arrivato agli studii della Rettorica posarsi più agiatamente nella Storia della patria e di tutta la monarchia, e in modo particolare di quella provincia e città a cui appartiene. Questa storia che è meno lode sapere che disonore ignorare, avvincola il cuore di molte dolci affezioni, ed il nutre di patrii esempi, i quali suscitano l' emulazione, e l' attitudine stessa ad operare le cose confacenti al ben della patria. Nella Filosofia poi succede la Storia de' progressi dello spirito umano, e tanto maggiormente questa storica narrazione de' pensamenti degli uomini potrà essere utile, quant' ella metterà più in mostra l' incredibile debilezza e fallacia del loro ingegno e il dominio cieco delle passioni, fino nelle menti più perspicaci, che in se stesse, e non nei lumi della divina rivelazione confidarono. E la varietà delle opinioni in tutte parti della filosofia insegnerà alla troppo celere e confidente gioventù la cautela in giudicare, la tardità in condannare, la larghezza in comportare opinioni contrarie alle proprie, e il pericolo dello stringersi soverchiamente ad alcuno degli umani sistemi: dalle quali virtù nasce la urbanità e la dolcezza delle dispute, la facilità della convivenza, e la scoperta stessa della ritrosa verità. E questa storia torrà molto di lusso al Testo che poi si dovrà formare della Filosofia, il quale vorrà esser in tal modo composto che si possa aggiungere e quasi inserire nella storia stessa, giacchè egli debbe insegnare a portar giudizio delle diverse opinioni, e dare in mano il filo per non ismarrire nell' infinito labirinto delle umane disputazioni. La Filosofia e la Storia della filosofia sono indisgiungibili, ed è necessario dirò così che si mescano insieme. Gli errori sono quelli che spingono nella maggior sua luce la verità, la quale annunziata sola e senza la contrapposta falsità non rimane nella mente che fornita d' una sua luce modesta e niente viva e risaltante, giacchè egli è da' confronti che viene scossa e tirata la maggior forza della nostra attenzione. D' altro lato ad una grande ed alta verità la mente non arriva d' un salto; ma l' è necessario a ben conoscerla di fare quella scala medesima che suol fare nel rinvenirla: e quando si sono osservate le gradazioni che ha prese la luce di quella verità nelle menti degli uomini; quando si studiò cioè la storia di quella verità, allora si può fondatamente sperare d' averla concepita e penetrata a sufficienza: altramente ella non sarà ricevuta più addentro che nella memoria, o s' ella verrà mettendosi ancora nell' intelletto ci starà tutta inerte, senza vita, senza moto, e sarà come persona mezzo sconosciuta che in casa si alberghi, delle cui vicende poco si conosce, poco delle circostanze ond' è circondata. Ed io credo esser questa una ragione per cui decadano le più fiorenti scuole della filosofia quando sono già da lungo tempo stabilite; poichè nello stabilirle è l' ingegno quello che si mette in movimento mediante le dispute e le contese; ma quando una questione ha prevalso, allora viene consegnata alle memorie degli uomini come cosa già approvata, e così la vi si alloga come il fabbro ripone nell' armadio un lavorìo già compito, intorno a cui non gli resta più a fare, dov' esso a lungo stanziando irrugginisce e si guasta. Tale è la storia della scolastica: i suoi principii stagnarono per così dire nelle memorie, e tosto imputridirono. La sola Storia può salvare la Filosofia da questo decadimento, se si sa congiungerla alla medesima come ministra fedele: perciocchè essa è quella che fa rivivere gli autori delle grandi verità, che trasporta noi nel mezzo alle loro contese, che mette insomma il nostro ingegno in azione; e che il fa venire alle verità da se stesso, mettendolo su quella via che alle stesse conduce, non già trasportandovelo d' un tratto, e quasi per aria, senza ch' egli tocchi nè veda il sentiero onde altri ci va co' suoi piedi; questo secondo modo non è che insegnamento della memoria, giacchè questa è disposta a ricevere le verità, sebbene non veda per che lato si possa alle stesse venire; l' ingegno all' incontro non vi giunge mai di sì gran salto, ed ha bisogno di andarci, passo passo facendo. Per la qual cosa nè la Storia, nè la Filosofia sola dà una sufficiente istruzione alla studiosa gioventù; ma l' una e l' altra è necessaria; e perchè ottengano il loro fine debbono essere fatte l' una per l' altra. Senza la Filosofia la Storia è cieca, e fassi un noiosissimo andirivieni dello spirito umano, una successione d' opinioni tutte di egual peso, o più tosto di egual leggerezza, senza che vi si distingua giammai per entro la verità dall' errore, e che si possa l' una sentenza all' altra preferir con ragione. Senza la Storia, la Filosofia diventa così secca, così gratuita, così lontana dalle forze di un ingegno ancor nuovo, che non può ch' essere ricevuta sterilmente dalla memoria, e giacere in essa come un penoso ingombro, ovvero come un semenzaio di dubbi, e d' inquietudini interminabili a quello spirito, che cerchi di fecondare da se medesimo quelle verità, alle quali gli uomini non sono mai giunti se non trapassando per le verità intermedie, e spesso per tutto lo smisurato campo degli errori e dei sogni. La Storia dunque si può dire il veicolo della Filosofia, pel quale essa viene ricevuta ne' giovani e non ancora addestrati intelletti; la Filosofia all' incontro può dirsi la luce della Storia, la face che rischiara quelle vie, percorse dallo spirito umano, tortuose, mal tracciate, cupe. La Storia della filosofia poi, oltre esser così intimamente a questa raggiunta, sarà connessa con le parti precedenti di questi libri di storia, e da tutti insieme apparirà la concorrenza della potenza, della scienza e della Religione alla comune felicità. E in tutta questa storia dovrà essere per bel modo inserita la Cronologia e la Geografia antica e moderna, fornendo questi due lumi della storia di loro carte e tavole, nelle quali per amena maniera si faccia viaggiare e trascorrere il giovanetto. Lo studio poi della Natura è doppio, poichè o si considera nelle qualità fisiche, o nelle qualità metafisiche ch' ella porge. Queste seconde sono proprie veramente della Filosofia, e s' immedesimano colle dottrine dello spirito, sia di quel Sommo, autore della natura, sia di qualunque spirito conoscitore della medesima. Però alla Filosofia queste investigazioni sono riserbate. Ma considerando la natura ne' suoi fisici apparimenti, a due classi questi si riducono; poichè o riguardano le quantità delle cose, o le loro qualità. Questo studio della natura perciò potrà essere in due opere digerito. La prima delle quali conterrà le cose matematiche, la seconda le fisiche. La scienza matematica avrà tre parti: l' aritmetica all' uso di tutta la Grammatica, la geometria all' uso della Rettorica, l' algebra all' uso della Filosofia. Certo io credo che non si debba così tosto, come si suole, introdurre i giovani nell' Algebra, ma bensì prima nella Geometria, non operando l' ingegno umano per salto, come per salto non opera nessuna cosa nella natura; ed essendo la Geometria atta al ragionamento, e però acconcia preparazione a filosofare, quando nell' Algebra non abbiamo un ragionamento continuo, ma solamente a principio della operazione, dopo il quale il calcolatore pare abbandonato ad un cieco meccanismo. Conviene che la mente del fanciulletto sia fatta discorrere e ragionare di continuo a quel modo che si fa colle cose della vita, e questo è proprio de' metodi geometrici degli antichi, tanto lodati da quel solido spirito di Newton. Ma riguardo all' Algebra, certo è da sperar grandemente che si possa ridurre tutto il calcolo in un corso più regolare ed ordinato e far che gli Elementi che si danno al tempo della Filosofia si raggiungano meglio a quella scienza del calcolo che forma lo studio della Università. Il che sembra si potrà ottenere allora, che queste scienze, che pur tanto hanno avanzato a' dì nostri, si faranno vie più vicine a toccare la perfezione: giacchè è da confessare che se rapidi furono i loro passi, e grande lo spazio percorso; quella rapidità però fu vinta e smarrita nel campo immenso della natura, e nei profondi misteri della quantità. Ma quando la scienza sarà prossima alla perfezione, si potrà pensare a disporla in un ordine elegante e semplice, giacchè non si può mettere insieme un vago edificio, quando prima non siano preparate a parte a parte tutte le pietre ritagliate, e tutte le sculture, che il debbono comporre e adornare. E allora sarà tolta via quella scienza di mezzo che ora si chiama Introduzione al calcolo, e verrà un corso solo e continuo su principii semplici ed uniformi dal principio sino alla fine; alla qual perfezione il Calcolo delle Funzioni analitiche pare che colla sua purezza e generalità già schiuda la via, o la faccia almen travedere. Di poi l' opera che riguarda la qualità della natura potrà partirsi in due, cioè in una piccola Storia Naturale e nella Fisica; la prima da darsi nella Rettorica a guisa di gradevole intrattenimento, e l' altra nel corso della Filosofia; dovendo essere la prima gradino alla seconda. Anche questi testi tanto saranno migliori quanto avranno maggiore connessione con tutti gli altri delle scuole a cui appartengono, sicchè servano a più scopi ad un tempo. In essi, oltre le cose insegnatevi, fiorisca e splenda la nitidezza della lingua e della elocuzione, e principalmente la Storia Naturale sia un esempio della proprietà delle parole, ed un fonte di diletto alla Imaginazione, che nella Rettorica si coltiva: e tutto poi s' accordi e quasi consuoni alla religiosa bontà. Come poi nella Grammatica oltre lo studio delle cose fu necessario lo studio delle lingue, istrumenti al conseguimento delle cognizioni, così l' uso di queste lingue già apprese è dato nella Rettorica, dove s' appara in che modo quelle acconciamente s' adoperino sì con legata che con soluta orazione a persuadere o convincere, facendo questo studio sugli esempi degl' Italiani, Latini e Greci scrittori, interpetrati co' sussidii della Geografia e della Cronologia date nelle scuole antecedenti e composte non senza questo stesso intendimento, e della Archeologia, di cui in questa occasione si daranno le nozioni necessarie; e tentando la imitazione di que' Maestri di bello scrivere per componimenti italiani, latini e greci con versi e prose. Nel che avrassi cura di non insegnare già tanto il pomposo ed il vano declamare; quanto il parlar giusto, ragionevole, efficace, e a tutti gli usi della vita proporzionato e confacente. E qui non posso tenermi, che io non chiami i precettori ad osservare un vizio dannosissimo che guasta le scuole di umane lettere; vizio che quasi passato per eredità e suggellato dalla lunga consuetudine si fece fors' anche caro altrettanto, quant' egli è deforme e sconvenevole, e voglia il Cielo che non sia di noia l' udir parlare contro lui, come contro cosa antica e reverenda. Ma io parlerò anche col pericolo di tirarmi sopra lo sdegno de' retori, e de' giovani loro ascoltatori. E comincerò osservando come il risorgimento delle lettere dopo i secoli di ferro movesse da una imitazione degli antichi esemplari; nè da altro muover potesse. Ed erano quelli esemplari di altissima eloquenza, e di squisita poesia: ma di qui appunto è che il male di cui parlo trovò dov' entrare nella italiana letteratura, e di questa nell' europea. Allora quegli esemplari di bellezza dovevano commuovere ad ammirazione, e quasi trarre fuori di sè per istupore, dimostrando l' apice dell' arte umana, ed un' estrema coltura dello spirito; perciocchè queste cose venivano dimostrate ad uomini quasi frenetici per bisogno d' intendere e di sentire, ma tanto in giù caduti dall' antica dignità sociale che più al basso scendere non si poteva; a cui perciò non che arridesse speranza di toccar sì alte cime di perfezione per opere d' ingegno e di favella, conveniva muovere i passi a ritornare pur una linea in su dalla valle profonda dell' ignoranza nella quale erano precipitati. Sicchè il parlare di Marco Tullio, ed il cantare di Publio Virgilio non sol parer dovevano cose singolari o stupende, come parranno fino che negli uomini rimarrà fiore di senno e di gentilezza, ma interamente miracolose; giacchè nè sentivano in se medesimi, nè in persona viva vedevano indizio di tanta delicatezza in sentire, di tanta altezza in concepire, di tanta perfezione in esprimersi; e però mancava loro un esempio che rendesse possibile alle loro imaginazioni quello, che vedevano in fatto: per il che dovevano imaginarsi che quelle scritture fossero opere di gente tutta d' altra natura ed indole dalla loro. E questo spiega quella non so quale incredibile riverenza, anzi pure vera superstizione, che al tempo del risorgimento delle lettere universalmente si vide per la sapienza greca e latina, e per la greca e latina letteratura; e il riferir quelle sentenze de' vetusti filosofi talora sì triviali e comuni, come oracoli atti a tagliare pel peso di loro autorità ogni più incerta questione, e ciò senza discernimento d' una all' altra autorità, purchè l' autore della sentenza con nome latino o greco si proferisse, e antichissimo fosse, o paresse: questo spiega quella sozza mistura delle autorità profane colle autorità sacre; quel miscuglio di Aristotile e di Platone con Cristo; e de' libri d' Ipocrate e di Galeno coll' Evangelio: questo spiega il paganesimo mescolato colla religione cristiana: e qui ancora quelle prediche mezzo favolose e mezzo vere, ove all' autorità di Mercurio Trismegisto succede quella di Paolo e di Pietro; quelle sculture in sulle facciate de' templi che ancor vediamo piene di fatti greci e romani alternati cogli ebraici, e le teste degl' imperatori idolatri confuse con quelle dei santi; e sul gusto medesimo le sfingi ed i grifi, e, con peccato minore, tutti gli eroi della seconda età delle favole: spiega finalmente quello stile di pensare e d' esprimersi in cui sono mescolati tanti contrari elementi, inamicabili; quello come Caos intellettuale, di cui pare tipo verissimo la « Divina Commedia », lavoro maraviglioso e fors' unico fra i monumenti dello spirito umano, ma ad un tempo così strano insieme e portentoso. E di questo Caos sono uscite l' arti recenti della bellezza, e specialmente l' arte della parola signora e quasi regina di tutte l' altre. Ma sono esse tratte pienamente da quel confuso miscuglio? è essa divisa pienamente dalle tenebre del paganesimo, la luce cristiana? è separata la verità dall' errore, la superstizione dalla pietà, e dal vizio la virtù? Questo è ciò di cui dubito, e di cui credo aver ragione di dubitare quand' io vedo ancora gli scrittori del paganesimo spiegati nelle pubbliche scuole promiscuamente cogli scrittori cristiani; e interpolati i loro costumi ai nostri; e le loro false virtù senza alcuna maraviglia poste al lato dell' evangeliche se non forse talor preferite. Non paiono ancora care a molti e venerate le inezie della mitologia? quasi che l' umanità che ha rinunziato coll' intelletto al falso culto degli Dei si senta pur dopo tanti secoli vincolata da una antica materiale impressione stampata da' padri e tramandata per generazione ne' figliuoli? No, non si purga mai nell' uomo istantaneamente una macchia impressionata da' secoli, ma con lentezza travasandosi d' uno in altro sangue, si scema e s' illanguidisce fino che forse dopo mille generazioni s' annienta. Saranno essi gli esemplari dei cristiani eroi, gli eccellenti comandanti di Cornelio Nipote? l' amore di una gloria consistente nella prepotenza e nella oppressione: l' amor di una patria producente l' odio degli stranieri; cogl' inimici la vendetta, cogl' impotenti la crudeltà: nelle prosperità la baldanza, nelle calamità la disperazione, il suicidio: son questi i documenti degni di una generazion d' uomini rinnovellata e ricreata nel sangue del Giusto? E pur la narrazione di Cornelio è il primo latte che s' istilla nelle menti dei giovanetti, e gli scritti dell' ambizioso Cicerone susseguono a confortare di precetti quegli esempi: e questa morale del gentilesimo s' ammira e s' encomia in cospetto della cristiana gioventù! Intanto il giovanetto tituba coll' animo diviso fra il precettore quando gl' interpreta i classici antichi, ed il precettore medesimo quando in altr' ora gli spiega co' santi precetti il Catechismo; e nel suo cuore discendono due elementi eterogenei, irreconciliabili, i quali si giacciono in quello non per formare giammai alcuna unità, ma come due germi consegnati ad un terreno ferace perchè si sviluppino al sopravvenire di favorevoli circostanze, ed a vicenda tendano di sottrarsi l' umore e d' isterilirsi. Ed in tal modo alla ventura riman commesso quale de' due germi avrà nella vita occasione di più precoce e più potente sviluppamento, se il germe cristiano, sicchè col vigore delle poste radici vada a vincere la mala semenza che gli cresce da lato; o il germe pagano sicchè strugga e spenga coll' avide e tenaci papille la semenza buona ma troppo tarda a mettere, e debile troppo: o pure lasciandosi tutt' e due in tenue vita, rimangano l' uno dall' altro ammorbati e invaniti. Avevano già i Padri della Chiesa preveduto il danno che ai grandi interessi dell' umanità apportava la gentilesca letteratura; e n' avevano scoperta ed inseguita con eloquenti parole la menzogna che in quella si nascondeva, il fermento della vecchia malizia; intanto che lavoravano d' altra parte a torre all' Egitto le sue ricchezze per arricchirne la casa di Dio; cioè a creare una nuova letteratura tutta innocente, tutta cristiana, nella quale fossero le bellezze dell' antica ripiantate senza il veleno corrompitore: e già l' eloquenza cristiana, già la cristiana poesia porgeva al mondo nuovo diletto, nuova meraviglia, dove tutta miravasi la sublimità del genio umano sollevato insino al cielo, e coronato la fronte di raggi divini. Poichè i Padri avevano ben veduto che senza una letteratura non poteva stare l' umanità; ma questa nasceva come spontanea espressione dell' umanità stessa; e come l' umanità si rinnovellava per l' Evangelio, così doveva per esso rinnovellarsi la letteratura che n' esprimeva la condizione e lo stato. Ma non ebbero tempo i primi Padri di condur l' opera a perfezione, perocchè giunti i Barbari in sul mondo civile spensero ogni lume di lettere, e l' umanità misero in tal condizione ch' ella tanto avesse a pensare alla sua esistenza, che più tempo non le sopravanzasse da pensare ai suoi ornamenti. E volsero dieci secoli prima che l' umanità trovasse questo tempo, quest' ozio, in cui fatta sicura di non perire, si rivolgesse alla gentilezza delle lettere e delle arti; ed allora, come dicevo, prendendo l' uomo la via che prima e più facile trova aperta da pervenire al suo scopo, si diede all' imitazione delle lettere antiche, anzi che alla creazione di nuove lettere; e si converse anzi ai greci ed ai romani che ai cristiani scrittori, sia perchè quella letteratura pareva più formata ed intera che la cristiana, ancor giovane e ne' suoi principii interrotta dalle pubbliche calamità; sia perchè la corruzione del secolo cercasse più terrene e più profane dilettazioni; sia finalmente perchè il genere umano, miseramente immalinconito dalle sventure di tanti secoli, sentisse potentemente il bisogno d' una più indulgente ilarità e gaiezza, che rasserenasse i suoi aggravati e profondamente intenebrati pensieri. Per questo forse dopo avere san Carlo Borromeo cercato di surrogare alla profana letteratura la sacra, e in luogo di Cicerone sostituire nelle sue scuole la spiegazione del Catechismo romano; si consigliò di rimettere nell' insegnamento il classico antico, come necessario a dar lustro alle nuove lettere, come miniera di ricchezze non ancora intieramente scavata ad adornamento della Chiesa; e specialmente come una storia di ciò che fu l' umanità, perchè al suo confronto risplendesse maggiormente ciò che è, per potenza dell' Evangelio. E quest' ultima ragione non cesserà mai di rendere necessario lo studio della letteratura idolatra, finchè l' uomo soggiaccia a quella legge intrinseca a sua natura, per la quale solo mediante i confronti egli può conoscere le misure delle cose. E quindi non si potrà giammai proporre che sieno rimossi i Classici greci e latini dalla cristiana educazione; ma che sieno a' principii cristiani sottomessi, e con questi giudicati, e censurati, e spiegati ai fanciulli; che sia in somma l' istruzione de' Classici antichi accordata coll' istruzione del Catechismo; sicchè tutto formi quella unità che è la gran regola di tutta l' educazione, che la rende forte, che dà all' animo del giovanetto una forma sicura ed unica; e non lascia in esso delle confuse traccie ed incerte, degli elementi discordi, dei semi della morte sparsi a piene mani fra i germi della vita. E perciocchè come dissi la stessa letteratura italiana non è ancora monda al tutto di que' vizi pagani, perchè figliuola di quell' antica falsa e quasi direi lisciardiera, sicchè ritiene alquanto de' modi e costumi sozzi della sua madre; perciò gli scrittori stessi della classica letteratura italiana vanno cautamente letti a' giovani, e come gli antichi debbono essere preparati loro appositamente con iscelta e con corredo di note e d' osservazioni, che chiami e castighi la loro morale ed il loro spirito colla severa legislazione e collo spirito de' cristiani. E di questa necessità i Gesuiti maestri s' erano accorti, i quali ci diedero molti classici latini saviamente acconciati per l' istruzion giovanile; nel che tuttavia rimane ancora un lavoro non sì leggero a condursi alla perfezione desiderata. E più ancora a questo scopo gioveranno le note saviamente poste, che la scelta de' luoghi da spiegarsi alla gioventù raccomandata da Quintiliano. Perciocchè un autore mozzato e tronco, non può giammai essere esempio di perfetta bellezza, e le menti de' giovani non si possono pienamente ammaestrare di tutte le finezze ed i secreti dell' arti, dove non sia scoperta e visibile ai loro occhi tutta intera l' opera dell' eccellente artefice; giacchè solo nel porre il tutto è la perfezione dell' arte; e le altezze maggiori dell' ingegno si discuoprono sentendo il pieno accordo maestrevolmente ritrovato di tante parti. Ma questa piena intelligenza non è però cosa da fanciulli: il perchè sembra da rimettersi questo studio all' Università, accontentandosi di far sentire nelle scuole dell' Umanità a' giovanetti quasi alcuni sorsi di quella bellezza, di che potranno abbeverarsene pienamente venuti ad età più matura, come riposo fra' gravi studi delle scienze sociali. E volendo istituita nell' Università questa pubblica scuola di letteratura, ella verrà ad essere il compimento di una educazion letteraria: giacchè nella Umanità si schiude l' animo del giovanetto, se lo dispone a sentir la bellezza delle lettere, e se lo invoglia delle medesime, porgendogli quel dolce ch' egli può utilmente assaggiare: nella Filosofia dove si fa più maturo per ingegno gli si apre innanzi nella Storia della letteratura, intrecciata a quella dell' altre scienze e specialmente della Filosofia, tutto il campo o il giardino, per dir così, delle lettere; e nella Università finalmente gli si fa conoscere a pieno tutto l' artificio di qualche grand' opera letteraria, leggendola tutta pubblicamente ed interpretandola. E un gentile spirito italiano pur testè desiderava questa cattedra nell' Università, e voleva che si restringesse all' interpretazione di qualche opera nazionale, come ne' secoli precedenti appresso di noi fu in costume, e si lamentava, perchè così bello costume fosse mancato, con queste parole: [...OMISSIS...] . Ma tornando al corso della Filosofia, in esso oltre studiarsi l' Uomo colla Storia della letteratura, si studia colla Psicologia: la Natura oltre studiarsi coll' Algebra e colla Fisica, si medita nell' Ontologia e nella Cosmologia: le quali scienze uniscono in sè, o richiamano allo studio di Dio, che nella Teosofia sarà appositamente, quanto è conceduto allo spirito umano, contemplato. E qui di bel nuovo s' osservi l' unità e quasi direi la società, che la Filosofia debbe stringere con tutti gli altri studi minori non solo, ma ben anche maggiori. La Filosofia debb' avere una tal colleganza colle scienze dell' Università ch' ella sia veramente il loro sostegno, anzi la loro generatrice. Da essa debbono quelle, per così dire, apprendere la favella, giacchè sino che gli scienziati non ricupereranno una scienza e una lingua comune, non s' intenderanno giammai, e le innumerabili opinioni, delle quali un idoneo linguaggio è il solo conciliatore, rimarranno così contrarie in apparenza come non sono talora in realtà, e continueranno a tener gli uomini tanto divisi, tanto inimici fra loro senza cagione. Ma il legame più intimo che abbia la Filosofia colle scienze della Università è quello che la rannoda alla Teologia, nella quale debbe finalmente terminarsi e quasi rifondersi, perchè due scienze separate esser veramente non possono, mentre hanno un medesimo oggetto. Egli è vero che quest' unico oggetto sotto due forme e in due modi si manifesta, cioè col lume della ragione e con quello della rivelazione: ma questi due modi hanno una troppo stretta parentela fra loro perchè non si ravvicinino, giacchè egli sembra che l' uno non possa interamente stare senza dell' altro, e certo nel fatto giammai non istette. Ed a preparare questo desiderabile congiungimento o almeno questa pacificazione fra due scienze che sono fatte l' una per l' altra, sembra che sia tratta in luce la combattuta teoria del senso comune, o della ragione della specie, o dell' autorità, come che la si voglia nominare, toccando la quale un nobile ricercatore dell' antica sapienza scriveva, [...OMISSIS...] . Le quali parole esortano gli uomini alla libera comunione del sapere, a mettere insieme ciò che sa ciascuno, ciò che ciascuno seppe, per farne un pubblico e ben assicurato tesoro; terminando questa molesta proprietà esclusiva d' una scienza individuale, per la quale l' individuo aspira a nulla meno che alla tirannia sulla specie intelligente, e i molti individui disputantisi lo stesso scettro imaginario, alla distruzione fra loro: e le nazioni ed i secoli pugnan pur fra loro in tanto pazza e in tanto feroce battaglia. Perchè in quelle parole non è fatta menzione delle tradizioni de' primi padri, che hanno fecondato lo spirito umano? perchè non è fatta menzione di Dio, e di ciò ch' egli ha detto agli uomini nel primo tempo, onde fu suscitata la prima volta l' umana spontaneità? chi fu la prima cagione di quello spontaneo movimento? Chi offerse un oggetto sublime da contemplare all' intuizione immediata dell' uomo? (1). Egli è rispondendo a queste interrogazioni che si scuopre la via per la quale verrà tempo che il filosofico ed il teologico insegnamento non saranno che due parti d' una medesima scienza, l' una delle quali all' altra si continui, e la filosofia sarà allora l' amica del genere umano, giacchè sarà il risultamento di ciò che prima disse la rivelazione, di che poi s' accorse la spontaneità eccitata, cui fecondò finalmente la riflessione degli individui, sviluppò, schiarì, e in lucido ordine espose. Ma bastino queste poche linee ond' ho procacciato delineare un disegno di pubblica educazione, sopra la quale si potesse appoggiare e rilevar la privata. In questa è necessario preveder colla mente tutte le circostanze dell' allievo, della famiglia onde nacque, delle facoltà dell' ingegno suo, de' suoi sensi o arditi naturalmente e generosi, o placidi e attemperati: e da queste cose quasi recarsi co' suoi intendimenti a indovinare quelle destinazioni alle quali possa essere sortito dalla natura. A tutti adunque que' vari posti ai quali egli fosse sortito, o credere lo si potesse, sarà cura dell' educatore privato d' apparecchiarlo; e così di fornire il suo cuore di tutti quei nervi, e di tutti quegl' istrumenti che gli potessero venire opportuni ne' vari casi occorrenti di questa vita. Poichè se non si debbe formare l' alunno a cose fuori di tutte le possibilità, tuttavia rallargarlo si conviene alle cose massime, che da lui si possa aspettare o la patria o la umanità. Di pervenire dunque a questo non è altra regola ch' io sappia, se non lo sguardo acuto e precorrente del savio precettore, che nello stato dell' animo di lui, e in tutte le circostanze che l' attorniano, intravede i successi avvenire. Ma fermati con questo avvedimento i confini della istruzione, estesi quant' è necessario perchè provvedano al detto fine, ed avvisata la piega da darsi a tutti gli studi, e virtù esteriori, nelle quali fa più bisogno esercitare l' alunno (poichè delle interiori che il formano non si può ometterne alcuna) converrà dopo ciò porre all' opera la mano con quel metodo stesso ch' è già in principio di questa scrittura toccato. Cioè il metodo vorrà essere intero ed uno, come intera ed una volle essere l' istruzione delineata. L' interezza dell' istruzione vedemmo consistere nella concorrenza de' vari oggetti ben avvincolati fra loro ad un solo termine; l' interezza del metodo nella concorrenza di tutte le umane facoltà in ciascun oggetto, sicchè quella cosa che l' intelletto apprende anche il cuore senta, e l' opera manifesti. E a questo fine notammo in principio queste tre parti dell' uomo e quasi organi: l' Intelletto, il Cuore, la Vita: dovendo l' Intelletto trovare il Cuore che gli risponda, e dal Cuore procedere ogni virtù ad abbellire la Vita. E a far ricevere all' Intelletto le cognizioni, principale qualità del precettore è d' avere l' idea maturata e chiara, e le parole agevoli, nette, espressive. Nè tanto vale la chiarezza stessa, quanto la perfezione e interezza dell' idea, se pure può avervi idea non perfetta, degna d' essere appellata chiara. E ciò nonostante havvi una certa affettazion di chiarezza, che io più tosto direi superficialità, della quale chi ne volesse esempio potrebbe trovarlo negli scritti di Loke, e vie più in quelli di Condillac, come pure di tutta la loro scuola, la quale tiene un linguaggio che pare chiarissimo, e che promette di render dotti con lieve fatica, ma che non lascia finalmente nell' animo che una povertà estrema d' idee, con una immensa presunzion di sapere, e con una pure immensa temerità di pronunciare. E ad iscansare questa apparenza di chiarezza assai più nocevole della stessa oscurità, non bisogna sorvolare troppo lievemente in sulle idee principali, ma rivolgerle da tutte bande, fissarle, e precisarle co' loro caratteri, sicchè non si possano scambiare con altre: e avere attenzione, che la parola in progresso di ragionamento non venga insensibilmente a pigliar due sensi, e a generare in questo modo le fallacie. Questa diligenza nell' aggiustare e perfezionare le idee, forma la solidità del pensare e la logica pratica. Giova a questo fine la massima toccata di sopra di non mutare troppi autori, accontentandosi di libare qualche fiore in ciascuno, ma, come faceva il Bossuet col suo reale allievo, trascorrere tutti gli autori interi da capo a piedi, spurgando però innanzi quei luoghi che per mollezza o pravità di massima non sono da leggere a' giovanetti, e poi leggendo ed interpretando tutto il resto ne' vari tempi del curriculo degli studi, divisi come dicevo. Ma perchè le cose buone insegnate piglino stanza nel cuore del giovanetto, due quasi strumenti si vogliono porre in uso; la qualità dello stile nell' insegnarle, e quell' arte di renderle care, che assai procede dalla discrezione delle indoli. Nello stile giova studiare principalmente quattro doti, dalle quali, quasi da quattro corde, svegliare quella soave armonia, onde si muove possentemente il giovanil sentimento: Abbondanza, Amenità, Tranquillità, Tristezza. Coll' Abbondanza si vestono le cose di molti colori, si presentano in molti aspetti, e s' infonde dirò così il modo o l' arte di maneggiare l' idea come più piace, e quindi di andare fino al fondo delle cose. Di questa utilità sono lontanissimi coloro, i quali schiavi del sistema non riconoscono più l' idea stessa s' ella non è collocata in una tale postura; e la credono un' altra allorchè tu gliela presenti in altro modo, e ti spregiano quello stesso concetto, che collocato per filo e per segno dentro a certo loculo da loro fissato ti lodavano a cielo come cosa nuova e profonda. All' incontro ella è nobilissima dote quella di potere padroneggiare l' idea, e volgerla a piacimento: e per questa facilità di riconoscere l' idea stessa da qualunque lato tu gliela volgi, gl' ingegni italiani sono singolari dagli altri, che più desti e più pronti mostrano una non so quale agevolezza mirabile nella varia celerità delle loro menti. E di questa abilità di trovare ed amare egualmente l' idea in qualunque veste, per così dire, s' avvolga, o a qualunque genere d' altre idee s' accompagni e consocii, nasce quella che io chiamo scienza delle convenienze; per cui quasi con tatto finissimo si sente in tutte le cose quello che conviene, e senza chiedere sempre rigorosa dimostrazione, che tanto spesso non si può avere, altri cammina con passo franco e sicuro, ed acquista l' attitudine del reggere una moltitudine conforme alla natura de' più, giacchè i più ubbidiscono anzi alle convenienze sentite, che alle verità ragionate: e perciò s' accontentano ed appagano assai sovente per l' osservanza d' alcune cose minute, pel rispetto d' alcune inclinazioni, d' alcune abitudini, d' alcuni sentimenti, onde risultano i genii delle nazioni, permalosa cosa e irritabile, e nè pur trattabile colla stessa giustizia, ma sì con quella scienza del convenevole, di cui ragioniamo. Molto intesero la convenienza delle cose in antico i Romani: e quando si leggano con questa avvertenza le orazioni di M. Tullio vedrassi che tatto fino della convenienza doveva avere e quest' uomo, e quel Senato. Nè quasi altra maestra può avervi, o v' ebbe (chi bene addentro considera) che facesse a pieno capire nell' animo degli uomini, non il sommo jure , ma anzi quel quasi rallentamento di esso e indolcimento che il compie, e che non è altro che il senso delle cose convenienti, se non l' Abbondanza della facondia. L' Amenità poi dello stile reca una cotale freschezza nelle menti, e aiutando le solleva dalla fatica dell' applicare. In questa Amenità studiavano desiderosamente gli antichi; perciocchè conoscevano che se il loro discorso avessero reso dolce e aggradevole, avrebbero già preparato e guadagnato l' altrui animo al ricevimento delle dottrine. Sono in questo maravigliosi i Greci ed impareggiabili, che tutto rendono grato al pensiero; e basta che noi entriamo ne' gravi argomenti versati co' dialoghi di Platone, perchè ne paia di ritrovarci nella verzura di un prato fioritissimo e dilettosissimo, anzichè in sugli scogli di filosofiche contenzioni. I Latini anch' essi bevvero di quella greca vena di dolce Amenità, ma non poterono deporre al tutto la gravezza del carattere, e quasi il ferreo delle armi debellatrici. Ma i nostri scrittori del Trecento nati fra la mollezza de' più vaghi colli d' Italia, e spiranti le più dolci aure della vita, furono formati da natura a soavità ed amenità di stile impareggiabile, che si sposa forse meglio che ogni altro colla greca spontaneità. Parlava nelle bocche sì de' Greci che di que' buoni antichi Fiorentini la natura quasi ancora nuova ed innocente: e la natura è amena, e spira ameni pensieri e amene parole. Di tutta questa Amenità dello stile che ha le chiavi del cuore, sono lontanissime tutte l' altre nazioni: e quando s' ingegnano d' imitarla, ne fanno il ritratto, ma non ne conseguono giammai la carne e la vita. Ed è lontano di ciò il secolo stesso tutto frettoloso e impaziente e accidioso, perchè crede perdere il tempo se non accresce tesoro alla mente, e non sa ch' è in noi ancora un nobile senso interno da coltivare, e che le sole cognizioni della mente non ci rendono più felici nè migliori senza che questo senso del vero pratico sia bene educato e ben conformato, poichè quelle sono ciò che è molto peso d' oro all' avaro, a cui non è cuore, nè senno d' usarlo. Tra noi però non è ancora spregiata al tutto questa virtù del soave andamento dello stile: e per essa meritò bene della nazione Giuseppe Taverna per le « Letture de' Fanciulli » e per quegli « Idillii », ne' quali con lentezza di dolce parlare, quasi palpeggiando il cuore del fanciulletto, vi induce la virtù. Nè si può dire quanto questa Amenità di favellare, congiunta a certa semplicità, faccia pacato e tranquillo l' animo: terzo ufficio dello stile del precettore, il quale con ciò acquista la terza lode che in esso desideriamo, e che abbiamo denominata Tranquillità. Colla quale benigna disposizione che lo stile trasfonde nell' animo, questo si rende tutto acconcio a investigare posatamente la verità, a riceverla spassionatamente, e vagheggiarla con suo grande agio e diletto. Laddove lo stile rapido e focoso per l' incalzamento e quasi contrasto delle idee porta nell' animo una faticante ansietà, un' inquietudine, ed ancora un cotale offuscamento della mente, che la rende inetta o ad assicurarsi del vero, o a disaminarne le parti, o a guastarne la beltà. Nè io stimo meno una certa non so qual Tristezza, cui renda lo stile, ma non qualunque Tristezza. Perciocchè ve n' ha una perniciosa e nera che porta dolore e inquietudine: ma ve n' ha una altresì spontanea e pura, la quale nasce dalla verità del nostro stato umano, ed è tutta ad esso conforme e decente. Essa toglie quelle lusinghevoli promesse che l' Amenità stessa dello stile presenta all' animo giovanile, tanto credulo alle lusinghe d' una sensibile felicità, che in queste cose mortali gliela fanno aspettare vanamente costante; e nel tempo medesimo che attrista alquanto la natura corporea, solleva immensamente la natura spirituale a migliori e più dignitose speranze: e questa tinta di mestizia accompagna dovechesia il linguaggio della verissima Religione e ne segna quasi il lembo estremo, di cui pur tutto il rimanente aspetto si volge lieto e lucente. E così si compie lo stile che s' insinua nel cuore degli allievi di un precettore non solo ma di un precettore cristiano. In questo stile pertanto debbono essere scritti tutti i testi delle pubbliche scuole, ed egli potrà essere di regola onde scegliere gli antichi autori e trovare il modo di comentarli. E dopo ciò al precettore è necessaria la cognizione delle indoli, onde risulta quella delle ragioni e dei motivi che hanno maggior forza a muovere peculiarmente gli animi de' giovanetti affidatigli. Nel che ognuno sa quello che fu sottilmente scritto per tanti savi, sicchè è vano su di questo più oltre ragionare. Ma la cosa principale è quella di ridurre la vita del giovane in perfetta concordia cogl' insegnamenti. Se volessimo rilevare le contradizioni, che si danno nelle comuni educazioni, troveremmo cose ridevoli e dolorose. Poichè non sono più frequenti le buone massime pronunciate, che frequente non sia per l' opera stessa degli educatori l' esercizio delle cattive (1). E non niego che sia facile al precettore l' intonare meravigliose sentenze agli orecchi dell' allievo, difficile il farle eseguire. Perchè se per intonarle basta a lui il conoscerle, perchè riesca a farle eseguire debbe tenerne egli stesso la pratica, e precedere coll' esempio. Ma quanto è più difficile, e quanto è più trascurata questa seconda parte dell' educazione, che la vita non contradica in nessuna cosa giammai ai precetti, tanto è più rilevante, anzi è come il frutto d' ogni educazione. Ma il precettore perchè ci riesca vuole esser tale, che ne castighi severamente se stesso, e che educhi se stesso insieme col giovane: il che dimanda in lui e tale fortezza di mente da vedere le conseguenze pratiche de' precetti, e tale costanza di animo da non comportare giammai d' incorrere in alcuna contradizione. La vita dunque debbe rendere quell' ordine stesso, e quella unità in tutta la sua disposizione che abbiamo veduto esser necessaria nelle dottrine: la preziosità del tempo chiede che questo si pesi quasi in sulla bilancia dell' orafo, e che di ogni particella se ne approfitti; preceda in tutte l' opere quasi capitana la Religione, e tutta la varietà degli altri studi, e delle altre occupazioni disposte bellamente per la giornata, la seguano come ancelle ubbidienti e fedeli: non sia preterito un dì, nel quale la meditazione delle cose celesti non ricrei lo spirito, e non lo indirizzi al suo fine, e lo spirito indirizzato al suo fine indirizzi tutte l' altre cose, e seco le trasporti a rendere gloria al suo Autore. L' ordine della vita laborioso e pieno, fedelmente custodito per lungo tratto di tempo, ordina altresì tutto l' uomo, l' abitua alla fatica e, quello che è più, non a fatica capricciosa, ma tutta regolata dalla ragione, e questa stessa ordinata fatica reca la sì utile calma e tranquillità dello spirito. Ma per quello che riguarda la pietà mi rimetto a ciò che ho scritto più distesamente nel libro « Della Educazione Cristiana » (1). Adunque lo spirito della nostra Religione vuole che consideriamo l' uomo tutto insieme: vuole che tutto in esso armoniosamente proceda. Debbono armoneggiare le scienze, debbono armoneggiare le facoltà. L' armonia delle scienze è la somma legge nel trattato degli oggetti della educazione: l' armonia delle facoltà è la somma legge nel metodo. Queste leggi pertanto s' abbia in vista la pietà dei Principi cristiani chiamati dalla Religione alla educazione de' loro popoli, ai quali fidatamente indirizzerò queste sacre parole: « « Poichè questa è la sapienza vostra, e l' intendimento in faccia a' popoli; acciocchè udendo tutti quanti questi precetti, dicano: Ecco un Popolo saggio ed intelligente, una gente grande » » (2). Tale è la vera grandezza de' Principi e delle Nazioni. Come la giustizia è il primo e il maggiore tra i doveri dei governi civili, così ella reca loro altresì la massima consistenza ed utilità. La giustizia infatti è quella che solo può procacciare al Governo la pubblica opinione e il rispetto: gli dà una dignità morale che non può dargli la potenza e la forza: lo innalza al dissopra dei partiti, e lo rende atto a reggerli, temperarli e conciliarli. Credo dunque di non ingannarmi dicendo, che qualunque questione politica dev' essere considerata prima di tutto dal lato della giustizia. Oso anche dire di più, che questa via conduce a trovare con facilità delle soluzioni inaspettate, così vantaggiose sotto tutti gli aspetti, che per trovarne di migliori invano si logorerebbe il cervello in calcoli laboriosi l' utilitario più perspicace. E` dunque desiderabile, che anche la questione della libertà dell' insegnamento si esamini spassionatamente sotto questo aspetto principale, specialmente dopo che essa fu riconosciuta e proclamata come un diritto in molte costituzioni politiche. Vero è che non si vide ancora attuata mai, ma non ci vuol molto a scoprirne la ragione. Le leggi fondamentali negli Stati moderni sono quelle che s' eseguiscono meno, perchè l' altre leggi devono eseguirle i popoli, e le leggi fondamentali devono eseguirle i Governi. I popoli sono obbligati all' esecuzione delle leggi comuni da' Governi; i Governi non hanno alcuno al dissopra, che li costringa a dare esecuzione alle leggi costituzionali, di cui anche si usurpano la interpretazione. Ci sarebbe l' opinione pubblica che potrebbe fino a un certo segno moverli a ciò, ma questa va assai lenta a formarsi, e non è mai formata sopra una cosa, di cui niuno ha un' idea chiara. E le cose di cui il pubblico abbia un' idea chiara quante sono? Appena col corso dei secoli una nazione perviene a formarsi un' idea chiara d' alcune poche questioni riguardanti i suoi più immediati interessi: e non si può pretender tanto da nazioni ancor novizie nel regime costituzionale. Fino a tanto dunque, che il popolo non ha inteso con sufficiente chiarezza un qualche articolo dello Statuto, egli soffre in pace, che il Governo lo dimentichi, ovvero accetta facilmente per buone tutte le scuse che gli siano date della dimenticanza, presumendo che il Governo intenda meglio di lui, e che le ragioni barbugliate saranno ottime. Ora la lingua più popolare di tutte è certamente quella della giustizia, e anche per questa cagione crediamo utile di determinare colle norme del diritto la libertà dell' insegnamento; chè la questione così trattata acquisterà qualche grado di maggior distinzione e chiarezza nelle menti dell' universale. E, prima di tutto, che cos' è la libertà? Fino che questa parola rimarrà indefinita, continuerà ad essere il pomo della discordia. E` tempo d' uscire d' ambagi. La libertà è « l' esercizio non impedito dei propri diritti ». I diritti sono anteriori alle leggi civili. Il fondamento della tirannia è la dottrina che insegna il contrario. Le leggi civili possono essere giuste, ovvero ingiuste, e in questo caso, con un' altra parola, sono tiranniche. Se le leggi civili non offendono i diritti, che sono ad esse precedenti, e si limitano a proteggerne l' esercizio, acciocchè da niun ostacolo esso venga impedito, sono giuste, e il popolo che vive sotto queste leggi è libero. Se le leggi civili pretendono di essere superiori a quei diritti che esistono prima di esse, pretendono d' esserne esse le fonti, d' esserne le padrone, sono ingiuste, e il popolo che ha un Governo fondato sopra una tale teoria, dell' onnipotenza della legge civile, è schiavo. Che poi questa teoria sia professata da un monarca o da alcuni maggiorenti, o da due Camere stabilite da una Costituzione, o da un Governo popolare, questo perfettamente è il medesimo: sotto tutte queste forme il Governo è perfettamente il medesimo. Sotto tutte queste forme il Governo è ugualmente una tirannide, quando la massima, su cui esso è fondato e da cui prende la norma di tutto il suo operare, è una massima ingiusta e tirannica, perchè invece di riconoscere e di rispettare i diritti anteriori, e anzi di tutelarli, gli annienta tutti in una volta. Veduto che cosa sia la libertà universale, dobbiamo vedere che cosa sia la libertà dell' insegnamento, e lo vedremo, applicandone quella definizione. La libertà dell' insegnamento è « l' esercizio non impedito del diritto d' insegnare e d' imparare ». Che esista un diritto d' insegnare agli altri, e d' imparare dagli altri, anteriore alla legge civile, quest' è facile a dimostrarsi. L' uomo ha il diritto di adoperare a fini onesti tutte le potenze dategli dal Creatore, purchè il modo con cui le adopera sia inoffensivo a' suoi simili. Infatti il Creatore col fornire l' uomo di varie ed utili potenze dimostrò la sua volontà, che le esercitasse a fini onesti, e coll' esercitarle e svolgerle ne accrescesse il vigore e si procacciasse tutti quei vantaggi e beni che esse sono atte a dargli. Altrimenti il Creatore avrebbe operato senza un fine, avrebbe date inutilmente all' uomo tante nobilissime facoltà. E quanto sia prezioso l' esercizio e l' uso delle proprie potenze, ognuno può intenderlo, quando consideri che è già un bene in se stesso, e che è il mezzo universale con cui s' acquistano tutti quanti gli altri beni. Se dunque l' uomo mette impedimento all' uso inoffensivo ed onesto delle potenze d' un suo simile, viola il naturale diritto e lo viola tanto più gravemente quant' è maggiore l' impedimento ch' egli vi pone. Il che dimostra che c' è effettivamente un diritto alla libertà in generale, cioè: « all' esercizio non impedito delle proprie potenze ». E da questo diritto generale discende quello della libertà dell' insegnamento, poichè uno dei più nobili e santi usi, che si possono fare delle proprie potenze, si è quello d' insegnare altrui cose utili e vere, e d' impararne da tutti. Egli è chiaro, che il diritto d' imparare da tutti è correlativo al diritto d' insegnare: e che offendendosi il primo si offende anche il secondo: perchè colui che impedisce all' uno d' insegnare, impedisce all' altro d' imparare da lui che insegnerebbe, se non ne fosse impedito. E` dunque manifesto che c' è un diritto naturale sacro ed inviolabile alla libertà dell' insegnamento. Questi sono principii semplici e innegabili; ma la questione si complica, e si rende difficile, quando si viene all' applicazione, non tanto per se stessa, quanto a cagione de' sofismi, ne' quali ella fu involta dalle passioni degli uomini prepotenti, ambiziosi, interessati. Noi vogliamo tentare di restituirle, se ci vien fatto, le più semplici forme. I limiti d' un diritto sono quegli estremi, oltre ai quali il diritto cessa di esistere, o, in altre parole, sono le condizioni alle quali esiste il diritto. Queste condizioni devono contenersi in un' esatta definizione del diritto particolare di cui si tratta. Così se noi riprendiamo la definizione data della libertà d' insegnamento « l' esercizio non impedito della propria potenza d' insegnare in modo onesto e inoffensivo »avremo i seguenti limiti essenziali alla detta libertà: 1 Limite . - La mancanza del sapere necessario: poichè, colui che non sa, è privo della potenza dell' insegnamento, che è il fondamento, dirò così, materiale del diritto; 2 Limite . - La mancanza d' onestà dell' insegnamento: non c' è infatti un diritto d' insegnare il male o l' errore; 3 Limite . - La mancanza d' inoffensività nel modo d' insegnare: non c' è un diritto d' insegnare, quando per poter insegnare si dovesse disturbare altri che attualmente insegnano, o si esercitasse qualche violenza per avere dei discepoli, il che sarebbe una lesione del diritto d' imparare. Laonde il diritto di insegnare non esiste se non alle seguenti condizioni; che ci sia: 1 scienza in colui che insegna; 2 onestà in ciò che s' insegna; 3 inoffensività nel modo di insegnare. L' esercizio non impedito del diritto d' insegnare così circoscritto, ecco quello che forma la libertà naturale giuridica dell' insegnamento, anteriore a tutte le leggi civili. Questi sono principii semplici che discendono dal comune diritto di ragione (1): chi può metterli in dubbio? Potranno metterli in dubbio certamente due generi di persone, che sgraziatamente non mancano d' esistere e di agitarsi nella umana società. Il primo genere consta di tutti quelli che non riconoscono l' autorità della morale. Costoro in conseguenza dell' assoluta loro negazione d' ogni morale, non possono ammettere che il naturale diritto d' insegnare abbia per condizione, che ciò che s' insegna sia onesto. Coll' annullar questo limite, essi falsano il concetto della libertà, sì in generale e sì in particolare di quella d' insegnare; e alla libertà vera sostituiscono una libertà bastarda d' insegnare tutto ciò che di erroneo può cadere in un cervello disordinato, e che di perverso può ascendere da un cuore corrotto. Il secondo genere consta di tutti quelli che asseriscono, anche con ostentazione, di ammettere una morale: ma la morale che ammettono è dimezzata, accomodata alle loro passioni, e a' loro interessi, non ricevuta qual è, qual dev' essere, ma fattasi da se medesimi a mano, secondo il lor proprio gusto. Snaturano costoro quel limite morale della libertà d' insegnamento di cui parliamo, e compariscono in sulla scena pubblica anch' essi come partigiani d' una libertà bastarda: non di rado più bastarda ancora di quella de' primi; poichè questi non riconoscendo morale di sorta, vogliono che tutto, e il bene e il male, possa essere insegnato da tutti, laddove i moralisti ad uso dei propri interessi, proclamano molte volte la libertà d' insegnare il male, e impediscono poi ipocritamente la libertà d' insegnare il bene. Da queste due specie di libertà bastarde è da tener conto, per non confondere i nostri pensieri. A queste condizioni il diritto alla libertà dell' insegnamento è universale, cioè hanno diritto d' insegnare ai loro simili tutti indistintamente gli uomini dentro i tre limiti indicati. Ma poichè questi limiti non si verificano sempre, e non si osservano da tutti, o non si possono osservare, perciò il diritto d' insegnamento, che in teoria è universale, nel fatto esiste in diversi gradi nei singoli uomini, o nelle singole società insegnative che essi formano tra loro. Considerato dunque non nella sua possibilità astratta, ma nelle sue varie attuazioni, il diritto d' insegnamento diviene concreto . La rivoluzione francese nello stesso tempo che distrusse molti abusi, ebbe per effetto di recare il dispotismo de' Governi civili al più alto punto, di concentrare in essi tutti i poteri con un' assoluta negazione de' limiti morali, e d' insegnar loro a confiscare con molt' altri diritti naturali anche quello della libertà d' insegnamento. In questo modo i Governi istituiti per la tutela dei diritti di tutti gli uomini, diritti che preesistono per natura e per ragione all' istituzione dei civili Governi, divennero i più tremendi nemici di tali diritti, che a se soli riserbarono, spogliandone le intere nazioni. Questa spogliazione scandalosa ed iniqua, se poteva da principio essere tollerata dai popoli ingannati e sorpresi da promesse mendaci e da frasi sofistiche ed entusiastiche, come quella che « tutti i cittadini nascono figli della patria, e però devono tutti essere educati dalla lor madre », non può durare tuttavia nello stato della presente civiltà. Laonde non pochi degli uomini più illuminati già deferirono alla pubblica opinione un tant' abuso di potere, e ogni dì si rende sempre maggiore il numero di coloro che protestano e domandano con coraggio ai Governi la restituzione di questa preziosa libertà perfidamente da essi usurpata. Questa minorità crescente è destinata senza dubbio a divenire una maggioranza forte, alla quale i Governi civili dovranno, o di buona o di mala grazia, abbandonare quanto tengono al presente di mal acquisto: e il pericolo allora sarà che si spoglino i Governi anche delle loro legittime attribuzioni all' insegnamento. Poichè ogni qualvolta s' ottiene qualche cosa con una lotta accanita di partiti, quand' anco non si tratti d' una lotta violenta e incerta, s' ottiene con eccesso: ed è per questo che la società civile oscilla tra un eccesso e l' altro, perchè i Governi non sanno cedere a tempo quello che è giusto, e con una cieca resistenza producono l' ira che toglie loro anche più del giusto. Mentre dunque c' è tempo si studi il problema del diritto speciale d' insegnamento, e si definisca qual parte di questo diritto appartenga a ciascuna di quelle persone giuridiche che accampano su di esso qualche pretesa. Quando a ciascuna sia lasciato lealmente ciò che le appartiene, s' avrà ottenuta una conciliazione, e per questa parte cesserà la società di essere agitata. Le persone giuridiche, sieno individue o sieno sociali, che pretendono d' avere un qualche diritto di insegnare o d' influire nell' insegnamento, sembra che in Italia almeno possano essere ridotte a sei, quali sono: 1 La Chiesa Cattolica; 2 I dotti; 3 I padri di famiglia; 4 I benefattori che col proprio danaro mantengono le scuole; 5 I Comuni e le provincie; 6 Il Governo. Esaminiamo dunque il diritto speciale che può competere a ciascuna di queste persone giuridiche, secondo i principii di ragione. La Chiesa Cattolica non ha solamente quel diritto alla libertà dell' insegnamento, che può competere a qualunque società onesta in virtù del diritto naturale, del quale solo abbiamo parlato fin qui, ma ella ha oltracciò un diritto d' insegnare agli uomini fondato sopra un titolo più augusto, cioè sopra un decreto di quel Re, davanti al quale tutti i re e tutti i Governi civili e lo stesso mondo, dice la Bibbia, sono un momento della bilancia, o una gocciola di rugiada che cade il mattino sul terreno (1). Gesù Cristo infatti diede agli Apostoli e a' Vescovi loro successori il comando e il diritto d' ammaestrare le nazioni con queste parole: « « Andate, ammaestrate tutte le genti » » (2). E le genti sono composte di Governi e di governati. Laonde la Chiesa Cattolica ha un dovere e un diritto divino d' ammaestrare universalmente tutti, e governati e Governi. La dottrina poi, che la Chiesa ha il dovere e il diritto di comunicare a tutti gli uomini, grandi e piccoli, è quella che le ha confidato il Salvatore, e che essa non può nè perdere nè alterare, avendole egli a questo fine promesso d' esser sempre con essa. [...OMISSIS...] Dal che deriva, che questo diritto soprannaturale d' insegnamento è esclusivo alla Chiesa Cattolica, cioè a quella parte della Chiesa Cattolica, a cui fu da Gesù Cristo affidato, e che si chiama Chiesa docente . Poichè essendo la prima condizione del diritto d' insegnamento, che chi insegna abbia la scienza , quelli soli possono insegnare con autorità nella Chiesa Cattolica, a' quali Gesù Cristo consegnò e guarentì inviolato il deposito della sua dottrina, e questi sono i Vescovi, il primo dei quali è il Romano Pontefice, e tra i sacerdoti, quelli soli, che a esercitare un tale ufficio sono autorizzati e mandati dai Vescovi. Ogni qual volta dunque alcun altro, fuori di questi, pretendesse d' arrogarsi l' autorità d' insegnare la dottrina del Salvatore, o di dare la missione per questo insegnamento, quantunque costui fosse un potente monarca, un governo civile, di qual si voglia forma o costituzione, altro nome non potrebbe ricevere che quello di violatore del diritto divino della Chiesa, d' usurpatore e d' impostore. Vediamo ora quali diritti più speciali circa l' insegnamento appartengano alla Chiesa, in conseguenza del diritto generale che ella ha, il quale, come dicemmo, è nello stesso tempo un dovere d' ammaestrare tutte le genti nella dottrina del Salvatore. La dottrina del Salvatore comprende il dogma, la morale, e tutti i mezzi utili a conseguire l' eterna salute: dottrina che viene tramandata di mano in mano, sia oralmente, sia per mezzo di scritti, i principali dei quali sono quelli che furono dettati da alcuni Santi, che ebbero l' assistenza dello Spirito Santo, e il dono dell' inerranza, riconosciuti per tali dalla Chiesa Cattolica, e raccolti in una Collezione che si dice Bibbia o Sacra Scrittura. Il primo diritto dunque più speciale della Chiesa Cattolica riguardo all' insegnamento è quello di predicare al popolo, e d' insegnare dalle cattedre a persone studiose le scienze dogmatiche e le morali, e i mezzi di conseguire l' eterna salute. La morale naturale è compresa nella morale soprannaturale, come i primi elementi sono contenuti in una scienza compiuta, e però errano coloro, i quali facendo una distinzione tra la morale filosofica e la teologica, quasi fossero due morali totalmente separate, pretendono spogliare la Chiesa Cattolica del magistero della prima, lasciandole solo quello della seconda. Costoro o dimostrano una ignoranza molto grossolana, ovvero sono uomini di mala fede. Da questo primo diritto della Chiesa Cattolica deriva un secondo, ed è quello di vegliare sopra ogni altro insegnamento, e su tutta l' educazione dei fanciulli, e oltracciò su tutti i mezzi coi quali i fedeli comunicano tra loro le dottrine, il principale dei quali è la stampa. Se dunque la Chiesa Cattolica rinviene in tutto ciò qualche cosa che possa essere o contrario alla vera dottrina di cui essa sola conserva intemerato il deposito, o di pregiudizio all' eterna salute dei suoi figliuoli, essa ha il diritto, il dovere e l' autorità d' avvisarli del pericolo, e d' impor loro l' obbligazione di guardarsene, e di punirli altresì colle pene sue proprie se disubbidiscono alle sue materne prescrizioni. Un terzo diritto speciale della Chiesa Cattolica si è quello d' istruire ed educare essa sola i suoi propri ministri, e d' ascrivere al Clero quei fedeli che ne creda degni, e chiamati da Dio al ministero sacerdotale. Dovendo essa tramandare il sacro deposito della salutare dottrina di generazione in generazione sino alla fine del mondo, è chiaro che tocca a lei sola a scegliere le mani fedeli a cui confidarlo, e che ella sola è quella che può farlo passare in altre mani perchè ella sola ha in proprio la scienza di cui si tratta, ed ella sola altresì ha la missione e la facoltà di mandar altri, come questa facoltà l' ebbe pure Gesù Cristo compresa nella sua missione, onde egli disse: « A quel modo che il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(1), cioè colla facoltà di mandar altri che vi succedano. Finalmente c' è un quarto diritto non meno essenziale alla Chiesa degli altri tre, ed è che ella sola può applicare i suoi ministri all' insegnamento, essendo d' essenza dell' organismo della Chiesa Cattolica, ch' essa sola possa disporre liberamente dei suoi ministri, i quali d' altra parte sono legati ai Vescovi con solenne promessa d' ubbidienza emessa da essi nell' atto di ricevere l' ordinazione. Tali sono i diritti essenziali della Chiesa Cattolica riguardo al pubblico e privato insegnamento: e questi diritti non recano pregiudicio alla libertà dell' insegnamento, anzi ne costituiscono una parte essenziale. Il che si vede tostochè si rammentino le condizioni di questa libertà. La prima di queste si è, che chi insegna abbia la scienza di ciò che insegna. Ora trattandosi della dottrina rivelata, la sola Chiesa, come dicevamo, n' è la depositaria, e però a lei sola s' aspetta d' autorevolmente insegnarla, non rimanendo agli altri fedeli che il dovere di professarla, e la facoltà di propagare intorno a ciò quello che hanno imparato dalla Chiesa, o attinto alle fonti dalla Chiesa approvate senza nulla aggiungere di contrario a quello che insegna la Chiesa stessa. La seconda condizione si è, che ciò che s' insegna non sia erroneo e pernicioso. Se dunque la Chiesa veglia sulla dottrina, e impedisce che s' insegni quello che è contrario alla rivelata verità, ella con ciò non entra nell' altrui diritto d' insegnare, non pregiudica la libertà dell' insegnamento, perchè questa libertà cessa appunto lì dove incomincia la Chiesa a far uso della sua autorità di maestra. Si può aggiungere qui un' osservazione, ed è che la Chiesa, di fatto, lungi dall' offendere la libertà dell' insegnamento, fu quella che ne assunse, sola al mondo, la tutela, proteggendo tutte le opinioni innocue, e interdicendo con molti suoi atti agl' ingegni indiscreti l' arbitrio di condannarle e di vituperarle. Ammesse queste dottrine, che niun cattolico può negare, salva la sua fede, ne vengono queste conseguenze: 1 Tutti coloro, che sotto qualunque pretesto, impedissero alla Chiesa Cattolica l' esercitare questi suoi diritti, sieno essi o persone private o pubbliche, sieno governati o governi, offendono il libero esercizio dei diritti della Chiesa intorno all' insegnamento. E qualora i Governi civili ad un fine così riprovevole, abusando del potere civile che hanno in mano, promulgassero delle leggi, ovvero facessero intervenire la forza, commetterebbero un atto di dispotismo e di tirannide contro la libertà dell' insegnamento consistente, come dicemmo, nel libero esercizio del diritto d' insegnare; 2 Qualora un Governo civile s' arrogasse il diritto d' insegnare la dottrina religiosa, o di pronunciare sentenze in questa materia, sotto qualunque pretesto, o di obbligare i suoi governati a tenere o insegnare piuttosto una dottrina che un' altra, indipendentemente dalla Chiesa Cattolica, o impedisse loro di tenere o di professare quella della Chiesa, esso non solo offenderebbe il libero esercizio d' insegnare proprio della Chiesa, ma di più dispoticamente e tirannicamente si usurperebbe l' altrui diritto all' insegnamento, e sarebbe il nemico di questa libertà; 3 All' incontro, qualora un Governo civile impedisse ai suoi governati d' insegnare dottrine religiose contrarie a quelle della Chiesa Cattolica, non offenderebbe con questo la libertà dell' insegnamento, anzi la proteggerebbe. Poichè la libertà dell' insegnamento è inerente al diritto d' insegnare, e dove non c' è questo diritto, non vi può esser quello che non ne sia impedito l' esercizio, nel che consiste unicamente la vera libertà; 4 Qualora un Governo civile indipendentemente e contro la volontà dei Vescovi eleggesse al pubblico insegnamento dei sacerdoti, lederebbe manifestamente il quarto degl' indicati diritti della Chiesa Cattolica. Su di che dobbiamo fare questa osservazione, che fino a tanto che i Governi civili professano sinceramente e di buona fede il cattolicismo, è naturale che i Vescovi vedano di buon occhio, che egli si prevalga dei sacerdoti per un così utile ufficio, e tali Governi sono sicuri di operare colla tacita annuenza della Chiesa stessa. Ma se viene un tempo, in cui il Governo civile, di mala fede, si faccia il protettore di tutti i preti indisciplinati, scorretti e ribelli ai loro Vescovi: se per un bastardume di liberalismo distribuisca i posti più gelosi e più importanti della pubblica istruzione a' sacerdoti che lungi dal corrispondere ai doveri della loro santa vocazione, conducono una vita secolaresca, abbandonando anche i segni esteriori del loro stato, e vergognandosi delle vesti sacerdotali, o sdegnandole: in questo caso certa cosa è, che i Vescovi sono obbligati di ricordarsi della loro divina autorità sopra i propri ministri, e devono sollecitamente riprendere con più di forza le briglie che si sono forse allentate nelle loro mani in tempi di più fede e di più benevolenza dei Governi verso la Chiesa, protestando da una parte contro l' indegna usurpazione di tali Governi, usando dall' altra tutte le armi spirituali date loro da Cristo contro i sacerdoti ostinati, che loro ricusano la promessa ubbidienza; 5 Ma ancora maggiore si rende l' usurpazione del Governo civile, quand' egli s' arroga oltracciò di decretare indipendentemente da' Vescovi, quai sacerdoti devano attendere all' istruzione religiosa, e alla cura spirituale dei pubblici stabilimenti d' educazione. Questo lede non solo il quarto, ma anche il primo de' diritti speciali riguardanti l' insegnamento che abbiamo indicati. L' essere il Governo quello che contribuisce gli stipendi a' tali direttori spirituali non l' autorizza punto ad usurparsi l' autorità vescovile, alla qual sola appartiene per diritto divino l' istruzione religiosa e la cura delle anime, e ne' collegi e fuori de' collegi. Con questi modi dispotici, dunque, il Governo lede nelle sue parti più vitali la libertà dell' insegnamento, e merita il titolo di Governo al sommo illiberale . Salvi dunque gli accennati diritti della Chiesa intorno alla rivelata dottrina, le altre parti dell' istruzione e dell' educazione, sia pubblica sia privata, non sono punto d' esclusivo diritto del Clero, ma questo rimane rispetto ad esse nel diritto comune del libero insegnamento. E questo diritto comune importa, che come a nessuno può essere conteso l' insegnare, quando si verifichino le tre condizioni avanti indicate, così non possa esser conteso o impedito l' esercizio di un tale diritto nè anco al Clero nè secolare, nè regolare. Contro colui che vi ponesse impedimento, sia egli un privato, o sia un Governo, il Clero non reclamerà come Clero, ma reclameranno i sacerdoti come uomini per l' offesa libertà naturale. Al prudente e conscienzioso discernimento poi di quelli che hanno il diritto di scegliere i maestri, sia per sè, sia per altri (e vedremo in appresso chi siano cotesti) appartiene il conoscere su di chi nelle circostanze particolari giovi meglio che cada la loro scelta, appunto perchè deve esser libero anche il diritto d' imparare, che è correlativo a quello d' insegnare. Solo quelli che sanno possono insegnare agli altri, verificandosi solo in essi la prima condizione del diritto d' insegnare. Infatti il diritto è sempre una facoltà d' operare: dove dunque manca la facoltà fisica, manca il diritto, che è una facoltà morale, che s' innesta sulla facoltà fisica. Perciò lo stesso diritto che abbiamo attribuito alla Chiesa Cattolica, l' abbiamo fondato sulla facoltà che ella sola ha di comunicare la dottrina di Cristo, perchè sola la possiede in proprio. Che dunque i dotti abbiano un naturale diritto d' insegnare, non fa bisogno d' altra prova, essendo questo lo stesso diritto universale di cui abbiamo di sopra dimostrato la esistenza. Da questo diritto generale ne consegue ai dotti un altro speciale, che riguarda il modo dell' insegnamento, il diritto cioè d' insegnare con quel metodo ch' essi credono più opportuno. Infatti il metodo è scienza anch' esso, e a quelli a cui spetta il tutto per giusta conseguenza deve spettare anche la parte. Sarebbe una patente contraddizione concedere ai dotti il libero diritto d' insegnamento, e poi pretendere che essi non possano insegnare, se non con un solo metodo, e questo imposto loro da una mano invisibile, poichè quando il Governo lo impone, non si sa chi lo imponga. Quelli dunque che mettono qualche impedimento all' esercizio del diritto d' insegnare che hanno i dotti, e che s' arrogano l' autorità di stabilire preventivamente un dato metodo, obbligando tutti i dotti della nazione a seguirlo se vogliono insegnare, offendono la libertà dell' insegnamento. Consegue da questo, che i Governi civili, i quali stabiliscono un insegnamento ufficiale, hanno tre doveri da adempire riguardo ai dotti; il primo di non mettere all' esercizio del loro diritto d' insegnare alcun impedimento; il secondo di lasciar loro la libertà di seguire nell' insegnamento quei metodi che credono migliori; il terzo d' eleggere all' insegnamento ufficiale i maestri e istitutori imparzialmente tra i più dotti e degni che possono rinvenire. Diciamo qualche cosa di ciascuno di questi tre doveri che devono adempire i Governi, che vogliono acquistarsi meritamente la lode di liberali in questa materia. Mancano apertamente a questo dovere primieramente quei Governi che si riservano il monopolio dell' insegnamento. Poichè, supponendo anche che tali Governi eleggessero all' insegnamento ufficiale i più dotti, non è presumibile che i dotti nella nazione sieno appunto tanti, quanti i maestri ufficiali, nè più, nè meno, o che, fuori della classe dei maestri ufficiali, tutti gli altri cittadini sieno perfettamente ignoranti. Se dunque questo non si può supporre, rimane, che il Governo col suo monopolio leda il diritto al libero insegnamento di tutti que' dotti, che non si trovano nel novero de' suoi maestri ed istitutori. Il governo civile monopolista dell' insegnamento lede il diritto, di cui trattiamo, tanto se lo fa per via di leggi , quanto se lo fa semplicemente per via di atti arbitrari; perchè facendo servire le stesse leggi alla lesione, invece che alla protezione dei diritti de' cittadini, egli abusa d' una più veneranda autorità, qual è la legislativa; e l' infrazione dei diritti fatta per via di leggi è costante, universale, quanto s' estende la legge sistematica e irreparabile; e finalmente havvi un attentato di trasformare l' infrazione stessa del diritto in diritto, snaturando la natura delle cose, dico in diritto legale, sancito dalla forza pubblica, che in tal caso viene adoperata a sostegno dell' ingiustizia e ad oppressione de' cittadini. In secondo luogo mancano a questo dovere anche quei Governi, che, quantunque non si riservino il monopolio dell' insegnamento, tuttavia impediscono direttamente o indirettamente che i dotti esercitino con libertà il loro natural diritto d' insegnare. A questa specie di Governi, per lo più poco sinceri, appartengono quelli i quali con una cert' aria di libertà onesta ragionano in questo modo: « Noi vogliamo che a tutti sia libero l' insegnare, ma vogliamo che quelli che insegnano pubblicamente ricevano da noi la licenza, e la paghino, e prima di ricevere la licenza dieno delle prove della loro scienza. Le prove poi della scienza tocca a noi Governi lo stabilirle ». E su questo principio tali Governi stabiliscono una serie di prove più o meno difficili, più o meno costose ai candidati, più o meno lucrose al Governo e agli ufficiali del Governo; esaurite le quali, i candidati devono stare alla mercè degli esaminatori ufficiali dai voti dei quali impareranno a conoscere se siano tanto dotti da poter insegnare, o se non abbiano ancora acquistata quella misura di dottrina che ha tassata il Governo, o piuttosto che di volta in volta viene tassata dagli esaminatori, senza la quale misura opinabile e subbiettiva nissuno può insegnare. Se sia vero che questo sistema non mette alcun impedimento al libero esercizio del diritto d' insegnare, non è difficile il vederlo senza molte riflessioni; pure facciamone alcune. Primieramente da noi si concede che il frapporre impedimento d' insegnare a chi non sa, non è ledere la libertà dell' insegnamento come risulta dalle cose precedentemente ragionate: e però, se veramente questo solo facesse un Governo, niuno potrebbe dire, ch' egli perciò offendesse la libertà dell' insegnamento. Ma se il Governo, col pretesto di far questo solo , fa molto più, quel principio vero nol può purgare dalla lesione dei diritti naturali de' cittadini, ch' egli commette di fatto sotto quel pretesto. Ora il Governo può egli esser certo di escludere dall' insegnamento co' suoi provvedimenti i soli ignoranti? Può egli esser certo di non recare ad un tempo impedimento e danno ai dotti? E` egli necessario, per escludere gl' ignoranti dall' insegnamento, che il Governo civile aumenti leggi e disposizioni? Per incominciare da quest' ultima domanda, sembra affatto inutile, che il Governo civile si prenda tante pene, stante che gl' ignoranti o s' escludono da se stessi da un tale ufficio, che non possono compiere, o rimangono esclusi dall' istinto e dall' interesse di quelli, che bramando d' imparare, e avendo il diritto di scegliersi i precettori, non vogliono certo, almeno in generale parlando, sceglierli tra i più ignoranti, ricorrendo a quelli che non possono insegnare loro cosa alcuna. Una libera concorrenza adunque, aiutata da altri mezzi onesti, di cui parleremo a suo luogo, basta ad ottenere, che gl' ignoranti s' astengano dalla presunzione di fare i maestri di quel che non sanno. Si può di poi dubitare grandemente se il Governo possa fare la cerna che si propone de' dotti dagli indotti; se esso abbia qualche mezzo sicuro, col quale gli riesca di dare un taglio così netto fra dotti e ignoranti, che tra quelli che egli dimette come ignoranti, non rimangano alcuni che tali non sono, e tra quelli che egli corona per dotti, non se ne rinvengano dell' altra specie. Il prudente Governo deve conoscere le sue proprie forze e i suoi propri mezzi, e non accingersi a fare l' impossibile. Che se poi si considerano le accennate guarentigie, che per lo più i Governi, di cui parliamo, domandano a quelli, a cui essi si riservano di concedere il permesso d' insegnare, sarà facile il vedere, come le medesime, dalla prima fin all' ultima, violino apertamente il diritto che hanno i dotti al libero insegnamento. Già non è solo un impedimento, ma qualche cosa di più, questo solo che il Governo dica a tutti i dotti della nazione: « Io non riconosco punto il diritto naturale che voi avete all' insegnamento, se non siete dichiarati dotti da me con un brevetto ». Obbligare tutti i dotti della nazione a presentarsi al Governo, cioè a persone, che più fortuitamente che altro lo rappresentano in questa bisogna, per essere da tali persone dichiarati dotti a sufficienza per insegnare, per insegnare dico qualunque cosa, incominciando dall' abbici sino alle scienze più speculative, piuttosto che un impedimento, ha l' aria di un' impertinenza. Il Governo con questa pretesa da una parte obbliga tutti i dotti ad un atto di non piccola umiliazione, dall' altra gli obbliga ad un atto non troppo modesto, obbligandoli a farsi avanti per dirgli: « Eccoci, noi siamo dotti, approvateci ». Questa doppia condizione, che il Governo pone alla libertà dell' insegnamento, la condizione d' un atto umiliante, e in pari tempo la condizione d' un atto manchevole di dignità e di modestia, può considerarsi già come un atto di preventiva ripulsa, che il Governo manda ai veri dotti, ed ai migliori tra i dotti della nazione. Non basta però: i dotti, per ricevere l' approvazione governativa, devono subire esami ed altre prove distribuite in una serie più o meno lunga, quale piace di stabilirla ai Governi civili. Questo nuovo impedimento, posto al libero esercizio del loro diritto, è ancora più gravoso del primo. Con questo il Governo viene a dire a tutti i dotti della nazione: « Voi, che pretendete di esser dotti, e perciò d' avere il diritto d' insegnare, io vi obbligo, prima che possiate esercitare il vostro naturale diritto, a farvi discepoli, e ad essere esaminati come fanciulli ». E da chi esaminati? L' esaminatore, che fa da giudice e da maestro, e l' esaminato che fa da scolare e da giudicato, hanno la natural relazione di superiore e d' inferiore. Conviene dunque, che il Governo faccia l' una di queste due cose, o che stabilisca per esaminatori di tutti i dotti, che possono venire a presentarsi all' esame, persone dottissime, le cime della sapienza nazionale, in paragone alle quali, tutti gli altri possano essere ragionevolmente riguardati come semplici scolaretti, ovvero, non facendo questo, conviene che egli obblighi anche i più dotti a farsi scolari de' meno dotti di essi. La prima di queste due cose è tanto difficile, che non credo ci possa essere Governo tanto povero d' intelligenza d' aver il coraggio d' affermare, che quelli che egli stabilisce esaminatori e giudici in tali esperimenti, sieno i più sapienti tra quanti ci possono essere nella nazione. Quando anco il Governo avesse il buon volere di far una tale scelta ottima, è impossibile che i dotti principali vogliano prestarsi al penoso e ingrato ufficio di esaminatori e di giudici degli altri dotti. Il Governo dunque in questo sistema chiama per la necessità della cosa molti, che sono o possono essere più dotti degli esaminatori ufficiali, a subire l' esame e a ricevere la sentenza da questi men dotti di essi. Ma c' è qui patentemente lesione del diritto del libero insegnamento, anche se si considera solo una cosa, cioè che « il diritto d' insegnare sta in proporzione diretta della dottrina, e in quella vece il Governo fa nascere una condizione di cose, nella quale il diritto d' insegnare si trova in proporzione inversa della dottrina », di maniera che adopra in tali casi la sua autorità a far sì che quelli che ne sanno meno insegnino a quelli che ne sanno di più: il che equivale a un togliere il diritto ai dotti e darlo agli ignoranti. La perdita del tempo, gl' incomodi, le noie degli atti ufficiali, le brighe di molte formalità, sono tutti impedimenti posti da tali Governi alla libertà dell' insegnamento. Vengono in fine le spese: spese di viaggi per trasportarsi nel luogo degli esaminatori e dei giudici, e per ivi dimorare fuor di patria il tempo necessario alle prove prescritte: spese d' esami, spese d' attestati, spese di propine, spese di comparse e di formalità, spese e tasse di brevetti e di patenti d' approvazione: sono tutti impedimenti posti al libero diritto che hanno i dotti d' insegnare. Sembra che si voglia con tutto ciò piuttosto che provare la loro scienza, provare la loro borsa. Intanto è evidente, che per quanta scienza o anche sapienza avesse un cittadino, ogni esercizio del diritto naturale di insegnare gli sarebbe interdetto, quando fosse povero. Concludiamo, che in tali Governi non c' è punto la libertà dell' insegnamento, e l' esercizio del diritto naturale d' insegnare non vi è protetto, nè lasciato intatto; ma in molte maniere dalle leggi o disposizioni governative violato. Tuttavia è necessario intendere anche quelle ragioni, che si adducono a giustificazione di tali arbitrii governativi, da quelli che vi hanno interesse. Dicono che tali prove ed esperimenti non si fanno dai Governi collo scopo di porre impedimento all' insegnamento pubblico dei dotti, ma solo per allontanare dal medesimo gl' ignoranti. A questo è facile rispondere che non basta nel Governo la buona intenzione di non mettere impedimento ai dotti, ma conviene che non ce lo metta di fatto. Che se poi il Governo fa quello che non ha intenzione di fare, lungi che ciò lo scolpi, maggiormente lo incolpa. Poichè qual Governo sarà mai quello che vuol fare una cosa e non sa farla, e fa in quella vece la sua contraria? Dicono, in secondo luogo, che non è a presumersi che i primi dotti dello Stato si diano alla professione del pubblico insegnamento: però essi non riceveranno danno da tali leggi e disposizioni. Ma si risponde, che la legge è fatta per tutti, e che se molti uomini dotti non si danno all' insegnamento, questo nasce appunto a cagione che tali disposizioni umilianti, gravose e pedantesche, lungi d' incoraggiarli a dedicarsi a così utile ufficio, li ripulsano, e li disgustano del medesimo. Essa è forse una delle principali cause, per la quale in detto ufficio si ha a lamentare una moltitudine d' uomini mediocri per non dire inetti. D' altra parte, che il legislatore o il Governo, che assume la tutela del pubblico insegnamento, presuma in massa così male di tutti quelli ai quali soli egli riserva la facoltà d' insegnamento, e che su questa presunzione egli formi i suoi regolamenti e le sue leggi, non è certo cosa onorevole pel corpo insegnante della nazione, nella quale in questo modo il diritto d' insegnare sarebbe riservato dalla legge ai soli mediocri, come i soli, che, a giudizio del Governo stesso, a lui si rivolgono per averne la necessaria approvazione. Un Governo civile obbligando tutti i maestri ed istitutori a seguire un unico metodo da lui stabilito per ogni ramo d' istruzione, non è solo violatore del natural diritto al libero insegnamento che hanno i dotti, ma di più è nemico del progresso , e però quando si voglia chiamarlo col proprio nome (giacchè è necessario opporre nomi veri a nomi usurpati, co' quali si lavora di continuo a pervertire l' opinione pubblica), esso merita a buona ragione i titoli di Governo illiberale e stazionario . E` illiberale, perchè opprime la libertà giuridica dell' insegnamento: è stazionario, perchè inchioda il naturale svolgimento dei metodi, intorno ai quali non si dà più alcun progresso possibile nei metodi, dal momento che il Governo non vuole che si usi altro che il suo. « Eccovi, dice ai dotti, eccovi l' unico, l' immobile, il perfettissimo metodo che voi tutti dovete seguire, se pure vi piace insegnare, e, se non vi piace il mio metodo, v' obbligo a commettere la viltà di sagrificare quello che voi credete essere verità e scienza al mio volere, ovvero vi spoglio del vostro diritto all' insegnamento ». Il Governo che colle sue leggi e co' suoi decreti osa metter fuori una tale e tanta pretesa, l' una delle due, o deve credere, che il suo metodo sia l' estremo parto dell' umano ingegno, dopo il quale esso ingegno sia rimasto spossato ed esaurito, ovvero, se crede che in quanto al metodo ci potrebbe pur essere qualche ulteriore miglioramento, collo stabilire quel punto fisso, al quale devono tutti gl' insegnanti sostare, si dichiara inimico della scienza che sta al di là della meta da lui prestabilita, e però nemico del progresso. I metodi dell' insegnamento non si possono certo perfezionare se non per mezzo di liberi, assidui, e non contrastati esperimenti, che facciano i dotti, delle diverse maniere di comunicare il sapere, che essi concepiscono e che possono concepire essi soli. A ragion d' esempio, supponiamo, che il signor Girard avesse dovuto seguire un metodo determinato impostogli dal Governo civile, che cosa sarebbe divenuto di quest' uomo, e de' lumi ch' egli arrecò nell' arte dell' insegnare? Il povero sig. Girard sarebbe restato un uomo ordinario, uno de' volgari maestri che escono dalla forma stabile del metodo governativo, dalla quale la sapienza del Governo intende che devano uscire tutti uguali, quanti sieno per essere i maestri della nazione, salve però le pulighe, che ci rimangono nel gettarli. Così questo grand' uomo sarebbe stato perduto per la società, e la società avrebbe perduto con esso il frutto di tante sue amorose e ingegnose sollecitudini nella difficile arte dell' istruire e dell' educare. Quanti genii perduti! Quanti germi fertilissimi non si devono lamentare compressi e diseccati nelle nazioni da Governi così illiberali e stazionari! I Governi di questa fatta, che restringono tutto l' insegnamento nelle pastoie d' un solo metodo arbitrario, ch' essi elevano fino alla dignità d' una legge, a cui poi esigono che si presti una superstiziosa venerazione, sembrano al tutto persuasi che uno stesso metodo possa essere buono ugualmente per tutti gl' insegnanti. Ma chi non sa, che l' indole varia degli ingegni e delle naturali abitudini fa sì, che un metodo buono in certe mani, non sia più buono in altre, nelle quali un altro all' incontro sarebbe ottimo? Ora, quando i Governi dànno prova di non sapere nè pur questo, come è poi sperabile ch' essi d' altra parte abbiano la sapienza necessaria per trovare e decretare almeno un metodo ottimo in se stesso, se non ottimo relativamente a tutti i precettori? E qui s' avverta, che collo stabilire che fa il Governo un unico metodo d' insegnamento, egli proscrive spietatamente tutti gli altri. Quelli, a cui il metodo decretato non piacesse, sono irremissibilmente esclusi dall' insegnamento. Quelli che, dopo essere entrati nell' insegnamento, s' allontanassero in qualche parte dal metodo prestabilito, bene o male che il facciano, sono rei davanti il Governo, e per conseguenza sono molestati, rimproverati, puniti dal Governo, o dallo sciame de' suoi impiegati, a cui è commessa la vigilanza sull' esecuzione del metodo prescritto: onde non il bene o il male, il profitto o la mancanza di profitto della scuola, è ciò che si premia o che si punisce; ma la formalità del metodo legale diviene il grand' oggetto della pubblica autorità e de' suoi rigori! Un male ne tira un altro. Sovente nel metodo decretato si nasconde una fonte inesausta di vessazioni e di persecuzioni legali a persone le più benemerite, o che potrebbero rendersi tali: e molti eccellenti ingegni impauriti all' aspetto di questo tormento, o si rappicciniscono e ingretiscono, se sono abbastanza vili d' animo o bisognosi di pane, o s' astengono dall' applicarsi a una carriera resa così miserabile, se hanno l' animo nobile e non gl' incalza il bisogno di vivere. In tal modo il Governo si toglie ogni mezzo per conoscere e incoraggiare il vero merito degli istitutori, e invece di prendere un tono veramente benevolo e rispettoso verso di essi, non gli rimane che il piacere di trattarli come gente meccanica e dispregevole, dopo aver egli stesso contribuito a renderla tale. Cotesti Governi dunque alla ferula, che gli antichi maestri usavano cogli scolari, sostituiscono una ferula più crudele ancora pei maestri medesimi, e il loro liberalismo consiste bene spesso nel proibire severamente la prima, e nel maneggiare la seconda per diritto e per traverso, se non sui corpi, sugli animi e sulla stessa dignità umana. Questo dovere d' ogni Governo che mantiene un insegnamento ufficiale, ha il suo fondamento nella giustizia distributiva . Forse qualche Governo, o qualche governiale per lui, dirà (e non sono certo i soli Governi civili che così sragionano, ma pur anche i governiali): « Io ho il diritto d' eleggere gli istitutori ufficiali: dunque posso eleggere chi voglio, e niuno può lamentarsi ». A tutti quelli che hanno pretese così arroganti in un secolo di civiltà, conviene rispondere: « Voi fondate la vostra illazione sopra un diritto indeterminato di eleggere gli istitutori; ma sappiate che diritti indeterminati non ce ne sono: non c' è mai il diritto se non è definito da certi confini. Non si nega dunque, che voi abbiate il diritto d' eleggere gl' istitutori ufficiali, ma si aggiunge che questo vostro diritto non esiste se non ristretto dentro i limiti della giustizia distributiva: al di là comincia tosto il dispotismo, e la lesione dei diritti altrui ». Infatti il Governo è stabilito per amministrare i diversi rami che gli appartengono in modo da ottenere la migliore amministrazione possibile, e il bene pubblico che può provenirne. E però la nazione governata ha il diritto di pretendere ciò dal suo Governo; e se nol fa, è leso il diritto della nazione. Anche l' insegnamento ufficiale, posto che sia un ramo di Governo, deve essere condotto nel miglior modo possibile. Ma questo dipende dalla più giusta scelta degl' istitutori e maestri; e la miglior scelta è quella de' più dotti e idonei. Dunque quest' è un dovere giuridico del Governo civile. Ammesso questo dovere, resta a cercarsi in che modo il Governo possa adempirlo, come possa riuscire a collocare nell' insegnamento ufficiale i più dotti e idonei; e questo è certamente il punto più difficile, e dove più deve spiccare la sapienza governativa. Ma in generale è necessario d' ammettere le seguenti massime. 1 La maniera, colla quale devono essere eletti gl' istitutori ufficiali, non è arbitraria di maniera, che il Governo creda d' aver compìto il suo dovere eleggendoli in qualunque sia guisa, come se si trattasse d' un padrone che prende a suoi servitori quelli che vuole; 2 Le prove legali usate fin qui per riconoscere la scienza dei candidati, prove che arrecano umiliazioni, molestie e spese ai candidati, non conducono a trovare i migliori, ma piuttosto servono ad allontanarli dall' insegnamento, per le ragioni indicate di sopra; 3 I Governi devono stabilire de' metodi i più semplici possibili, co' quali pervengano a conoscere preventivamente quali siano i più dotti e degni d' essere eletti a maestri e istitutori invitando e allettando questi a un così nobile e santo ufficio, con modi rispettosi, cortesi, generosi, e non rendendo loro difficile e grave l' assumerlo, sia ponendo loro tra piedi impacci, incomodi e spese; sia ancor più, accogliendo quelli che vogliono darsi alla buon' opera dell' insegnamento con alterezza d' inquisitori e di giudici criminali, e con villana diffidenza; 4 Se il Governo lasciasse veramente libero a tutti l' esercizio del diritto d' insegnare, e tenesse nello stesso tempo un occhio imparziale ed amorevole sopra tante scuole ed istituzioni che nascerebbero da se stesse in tutte le parti della nazione, quando non fossero compresse o isterilite dal dispotismo governativo o dalla presunzione di scienza che hanno i governanti, gli sarebbe facile ritrovare non pochi maestri che, avendo già fatto il loro tirocinio in tali scuole, e date prove della loro probità, scienza ed attitudine all' insegnare, potrebbero essere da esso invitati a prendere un posto nell' insegnamento ufficiale, a ciò traendoli con emolumenti, onorificenze e vantaggi maggiori di quelli che possono avere in istabilimenti o scuole non ufficiali. Il Governo darebbe in tal modo uno stimolo, e questo produrrebbe un movimento in tutti quelli che si sentono chiamati all' ufficio dell' istruzione e dell' educazione, un movimento, dico, verso all' insegnamento ufficiale, un desiderio di distinguersi, per essere poi eletti od onorificamente invitati dal Governo stesso a prendervi parte. L' Inghilterra (di cui non lodiamo ogni cosa, come fanno certi signori entusiastici), l' Inghilterra, dico, con savio accorgimento, lungi dal mostrarsi ostile agli insegnanti, incoraggia gli stessi maestri privati, dando spontaneamente sovvenzioni e premi a' migliori di essi, e particolarmente premia con assegni in danaro coloro, che sotto di sè vengono formando degli assistenti o de' monitori, come colà si chiamano, i quali poi diventano anch' essi, dopo aver imparato coll' esperienza, buoni maestri; 5 Il Governo deve guardarsi dal pericolo che le elezioni e le promozioni de' maestri e degli istitutori ufficiali non siano fatte per via delle consorterie: non ci vogliono nè consorterie metodistiche, nè consorterie universitarie, nè consorterie di maestri, nè altra generazione di consorterie. Se il Governo civile abbandona fiaccamente in mano a certe consorterie le elezioni degli istitutori ufficiali (e si può dire lo stesso degli impiegati d' ogni dicastero) la giustizia distributiva è bell' e sagrificata all' interesse della consorteria stessa. E oltre che l' insegnamento ufficiale si dissecca e isterilisce in un circolo vizioso, è anche questo una fonte inesausta di discordie, di invidie e di partiti accaniti, che rendono il Governo stesso sempre più debole e sempre più odioso. Ma quest' è un pericolo così grave che gioverà ci torniamo anche sopra. I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone, nelle quali ripongono maggior confidenza. Questo diritto generale contiene i diritti speciali seguenti: 1 Di far educare i loro figliuoli in patria o fuori, in iscuole ufficiali o non ufficiali, pubbliche o private, come stimano meglio al bene della loro prole; 2 Di stipendiare appositamente quelle persone, nelle quali essi credono di trovare maggior probità, scienza e idoneità; 3 Di associarsi più padri di famiglia insieme istituendo scuole dove mandare in comune i loro figliuoli. Il diritto che hanno i padri di famiglia di far istruire ed educare da chi giudicano meglio la loro prole non è indeterminato, nel qual caso non sarebbe diritto, ma racchiuso entro alcuni limiti, oltre i quali cessa. Primieramente anche i genitori devono rispettare ne' loro figliuoli i diritti connaturali agli uomini tutti, diritti inalienabili ed assoluti. Perciò i padri di famiglia non hanno alcuna facoltà giuridica di dare o di far dare ai propri figliuoli un insegnamento che gli pervertisca, e se un Governo civile prende sotto la sua tutela questi diritti dei figliuoli, senza invadere, con questo pretesto, la sfera dei diritti paterni, egli esercita una legittima autorità, e adempie ad un suo dovere, perchè il Governo è istituito principalmente per tutelare i diritti di tutti. In secondo luogo, il diritto dei genitori è limitato dal diritto che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento. Come non possono i Governi arrogarsi nessuna autorità su questo insegnamento, così neppure i padri di famiglia: ma e padri e Governi devono dipendere con docilità dal magistero stabilito sopra la terra da GESU` CRISTO (1). In terzo luogo, il diritto che hanno i padri di famiglia di scegliere i maestri e gli educatori che credono migliori, non dà loro il diritto di prescrivere alle persone che eleggono o stipendiano a tale ufficio i metodi e le maniere dell' insegnamento: questo deve rimanere in piena libertà de' maestri stessi e degli educatori. E` vero che i padri possono giuridicamente parlando ridurre a convenzione la maniera dell' insegnare, nel qual caso gl' insegnanti coll' accettare una tale convenzione rinuncierebbero al proprio diritto: ma questo sembra inconveniente, generalmente parlando, come segno di sfiducia dato agl' istitutori, e una viltà da parte degl' istitutori stessi, che sono tenuti, senza bisogno di convenzione, di seguire quel metodo che stimano migliore e a non abbandonarlo per motivi di basso interesse. Riguardo, non di meno, alla parte educativa, dovendo essa venir condotta parte dai genitori, i quali non possono mai commetterla totalmente ad altrui mani, e parte dagli educatori, conviene, e che questi deferiscano ragionevolmente a quelli, e che gli uni e gli altri si mettano in pieno accordo e procedano con una perfetta coerenza ed unità. Finalmente il diritto de' genitori non è una facoltà arbitraria e capricciosa ma temperata dalla ragione e dalla morale: è una facoltà di fare del bene ai figliuoli, e non di far loro del male. I Governi monopolisti dell' insegnamento, come pure tutti quelli che concedono una libertà d' insegnamento di solo nome, inceppando in effetto con innumerevoli formalità e pesi l' esercizio del diritto di insegnare, come abbiamo veduto nel capitolo precedente, ledono anche il diritto dei padri di famiglia, a cui impediscono la piena libertà d' esercitarlo. Poichè è chiaro, che questo rimane tanto più vincolato nella scelta delle scuole e dei maestri, quanto più dal Governo si mettono impedimenti alle scuole e all' esercizio della professione di maestro. Vi hanno tra noi dei dottrinari, che riconoscono nei padri il diritto di fare istruire i loro figliuoli da persone di loro fiducia, scelte senza impedimento, ma poi aggiungono: « Ciò non ostante per al presente non conviene lasciare questa libertà ai padri di famiglia, perchè non ne sanno usare, hanno molti pregiudizi imbevuti nel tempo passato. Conviene dunque per ora privarli di quella libertà, fino che sieno formati alle nuove idee della giornata: allora poi gliela concederemo ». Quelli che così ragionano sono falsi liberali , il che è quanto dire non liberali , sono teste inconseguenti, senza principii. Col loro ragionamento distruggono ad un tempo il concetto del diritto e quello della morale: l' utilitarismo solo, sotto la parola d' opportunità , è rimasto nel fondo di questi animi, e fors' anco senza che il sappiano essi medesimi, perchè gli uomini inconseguenti senza saperlo non hanno numero. Infatti, qual principio seguono mai costoro? Nissuno per ripeterlo. Seguono forse il principio della libertà? Come mai, se suppongono che la libertà non sia qualche cosa in natura, ma una cosa che emana da essi, e in quella misura che essi a loro beneplacito concedono agli uomini ed ai cittadini? Come? se credono di poter disporre a loro arbitrio senza scrupolo alcuno della libertà di tutti, ed esser in facoltà di restringerla e di risecarla, e secondo l' opportunità del sistema del partito che seguono ora concederne una parte maggiore, ora una minore, e in tali modi e forme, che venga a favorire soltanto una consorteria, e non tutti quelli che n' hanno dalla natura il diritto? « Noi non vogliamo favorire una consorteria, ci rispondono; ma vogliamo, che prima di tutto i padri stessi acquistino sentimenti liberali, e sieno affezionati per istima di cuore al sistema costituzionale. Allora la libertà d' istruire ed educare i loro figliuoli, lasciata pienamente ai padri di famiglia, sarà opportuna, e noi loro la concederemo ». Ma, cari signori, volete voi da vero che i padri di famiglia acquistino sentimenti liberali? In che dunque fate consistere questi sentimenti liberali, che volete vedere in altrui, se voi stessi siete despoti fino nei più intimi visceri? Non è egli questo stesso un atto di orribile dispotismo il disporre dei diritti naturali dei padri, il vincolarli, l' impedirne l' esercizio, col pretesto, che non sono ancora divenuti come voi liberali? Non volete dunque la libertà, se non a favore di quelli che sono liberali come voi. Poichè chi siete voi, quando escludete tutti i padri di famiglia, se non una consorteria, anche piccola, di dottrinari? E per dottrinari intendo tutti gli uomini inconseguenti del giusto mezzo , e dell' opportunità. Di più considerate, buona gente, quanto il vostro principio di liberalismo, calante e crescente secondo l' opportunità, sia fatto tutto all' uso ed al comodo dei despoti i più sformati. Non istarebbe bene, anche in bocca di qualunque monarca o Governo il più assoluto, questo vostro ragionamento? « Noi riconosciamo pienamente la libertà come un diritto, ma dipendentemente da noi: la concederemo quando, a nostro giudizio (notate bene: a nostro giudizio come appunto dite voi) sarà opportuno il concederla: il popolo non è ancora adesso maturo ». Che cosa è il popolo se non i padri di famiglia? Quando voi dunque, signori dottrinari, negate la libertà naturale ai padri di famiglia, la negate al popolo: dite quello stesso che possono dire, e che dicono effettivamente i più assoluti Governi. Voi dunque avete l' assolutismo nel cuore e nella corata; e potete formolare il vostro liberalismo così: « Noi aspettiamo che i padri di famiglia diventino liberali, e allora diverremo liberali anche noi, cioè non impediremo la loro libertà. Per intanto vogliamo impedire la libertà altrui, contentandoci di riconoscerne il diritto colle parole ». Ecco il vostro liberalismo. Duole solamente di dover osservare che questo stesso ragionamento in bocca d' un Governo assoluto potrebbe essere vero ed onesto, quando esso non può essere tale sul vostro labbro. Il Governo assoluto non ostenta liberalismo, si crede obbligato di fare da tutore di quelli, che, non sapendo ancora usare della propria libertà, questa non varrebbe loro cosa alcuna. Se dunque un tal Governo giudica ed opera di buona fede, potrà ingannarsi, ma non sarà nè inconseguente, nè inonesto. Ma voi! Voi abborrite l' assolutismo, se vi si dà ascolto, voi riconoscete la libertà come un diritto di questo popolo, voi vivete in una nazione nella quale si dice che la libertà è la base del Governo, dove c' è infatti la libertà della stampa, la libertà di fare il male, d' essere empi e scostumati, senza alcun pericolo di perdere con tutto ciò il titolo di onorevoli. E poi avete tanta paura, che i padri di famiglia non siano liberali abbastanza per esercitare il loro diritto naturale di fare istruire ed educare i loro figliuoli da chi vogliono, e supplicate il Governo di circondarli d' impacci e di ritorte, acciocchè non possano esercitare liberamente questo loro diritto? E` questo un essere coerenti ed onesti? Volete dunque fare servi e schiavi tutti i padri di famiglia, per renderli così liberali al modo che siete voi! Il vostro spirito non è punto inclinato al liberalismo: voi evidentemente non tendete ad altro che a fare dei proseliti alla vostra consorteria , e per questo volete disporre voi soli dell' istruzione e dell' educazione, acciocchè questa consorteria, fatta potente, possa regnare con piena libertà; giunti poi all' intento vostro, allora troverete l' opportunità di gridare a tutti i vostri servi: « Non è vero che adesso siete liberi? ». Secondo voi, tutta la questione dipende dall' opportunità . Ma chi è che giudica dell' opportunità? Siamo noi, ci dite. Ma non ci siete altri che voi al mondo? E se altri giudicassero diversamente da voi? Certo che i padri di famiglia di cui voi portate un giudizio così abbietto, e che volete spogliati della libertà dell' istruzione e dell' educazione da darsi a' loro figliuoli, non potrebbero giudicare come voi, perchè giudicherebbero contro se stessi. Voi pretendete di fare la legge, e che essi la subiscano. Se dunque le opinioni intorno all' opportunità vanno divise, quale prevalerà? Voi dite: la nostra. Sia pure, ma dall' istante che vi sono opinioni contro opinioni, e non c' è nessun giudice che possa dirimere la lite, se prevarrà la vostra, prevarrà perchè siete più forti. Se in un altro momento vi trovaste più deboli, prevarrà la contraria opinione, e ancora sarebbe una prevalenza di forza. Voi dunque, lasciando la via del diritto per quella dell' opportunità, riducete la cosa a questo termine, che non sia più la ragione quella che impera nella società, ma la forza. Volendo dunque sostituita al diritto l' opportunità, che cosa fate, se non inaugurare il dominio della forza? E siete liberali? Se liberali vuol dire uomini senza principii giuridici, che vogliono regnare sul popolo in virtù della forza bruta, ogni qualvolta glie ne sia data loro l' opportunità , ve lo concedo. Ma veniamo alle strette, veniamo al fatto positivo. Qual è la ragione intima per la quale giudicate che i padri di famiglia non siano ancora abbastanza liberali per far buon uso del loro diritto naturale, di far istruire ed educare i loro figliuoli da chi loro ben pare? e che si deva perciò impedire la loro libertà, con vincoli posti appositamente per questo dal Governo civile? Ecco la ragione che voi non dissimulate. I padri di famiglia, attesi i sentimenti da cui al presente sono animati, se fossero liberi di scegliere le scuole e i maestri, metterebbero la loro confidenza nel clero regolare e secolare: è dunque opportuno impedirlo, acciocchè l' insegnamento diventi laico: e diverrà tale sicuramente quando noi prendiam tempo per insinuare nella vegnente generazione altri sentimenti. Il liberalismo adunque de' nostri signori si manifesta sempre più: tutto finisce in una intolleranza religiosa, e in un' ostilità al clero. Dico in un' intolleranza religiosa, perchè fino a tanto che ci sarà religione, si porrà sempre dai padri di famiglia una maggior confidenza negli istitutori ed educatori ecclesiastici, che non sia in istitutori laicali: è cosa naturale ed inevitabile, e basta a vederla il senso comune: la speranza di fare che il clero perda la confidenza a segno d' essere posposti, in così moralissimo e religiosissimo ufficio, al laicato, non può fondarsi ragionevolmente, se non sulla speranza di distruggere la religione. Dio mi guardi dall' attribuire questo pensiero agli avversari che abbiamo preso ad impugnare: siamo anzi persuasi che essi ne sono lontanissimi. Ma la conseguenza logica non è meno inevitabile. Qualunque siano i principii politici che prevalgono in una data nazione (purchè per principii politici non s' intenda, con mala fede, principii d' empietà) qualunque sia la forma del Governo, costituzionale o no, se si conserva la religione cattolica nell' animo de' cittadini, il clero sarà sempre il loro confidente, e in generale crederanno, che esso, dedicato come è per vocazione e per ufficio a tutto ciò che è santo, e che è intemerato, presti loro una assai maggiore malleveria per l' istruzione e l' educazione della loro amata prole, che non possano prestarla uomini secolari involti e spesso ingolfati nei pericoli, negli interessi, nelle brighe del mondo, e da queste continuamente divisi e distratti. Non rimane dunque per venire a capo di secolarizzare l' istruzione e l' educazione, se non l' espediente unico di distruggere il Cattolicismo, o di calunniare e di avvilire così fattamente il clero, che diventi l' obbrobrio degli uomini, e l' abbiezione della plebe. Ma poichè è ferma nostra opinione, che non è in potere de' dottrinari, nè di altri di distruggere in Italia la Cattolica Religione, e che la calunnia e la persecuzione non otterrà che l' effetto contrario, quello cioè di purificare, di ringiovanire, d' avvalorare il clero; perciò crediamo del pari, che non verrà mai l' opportunità , che aspettano cotesti signori, di lasciare inviolati i diritti de' padri di famiglia, e di non impedire la loro libertà di esercitarli. E` vano dunque sperare d' ottenere una sincera e piena libertà d' insegnamento da codesti nostri dottrinari dell' opportunità, giacchè l' opportunità loro non può venire: e guai alle nazioni, a cui venisse una tale opportunità! Ma, e la forma costituzionale del Governo non sarebb' ella messa a pericolo, dicono alcuni, se i padri di famiglia potessero far allevare i loro figliuoli da chi loro ben piacesse? Anzi consolidata. La forma costituzionale, se non offende la libertà giuridica di nessuno, se rispetta, se tutela i diritti di tutti, sarà amata da tutti: la cosa è naturale, gli uomini amano il bene che godono, e non il male che soffrono. Ma se voi, miei signori costituzionali, vi servite di questa forma di Governo per non lasciare al popolo altro che una libertà di nome, e una licenza di fatto, se sotto quella forma non rispettate più i diritti altro che secondo l' opportunità; se ad una consorteria accordate la libertà di dominare , parte colla forza, parte colle leggi fatte da essa, parte colla frode e col raggiro, e intanto mettete le manette ai padri di famiglia, e perseguitate quel ceto di cittadini, che è e sarà sempre il più rispettato di tutti i ceti, voglio dire il clero; se in una parola domandate all' ingiustizia e all' empietà la forza per fondare il sistema costituzionale, come è possibile, che voi lo facciate amare, questo sistema, e che lo rendiate desiderato? Non seminate voi stessi, così operando, l' odio e l' avversione del medesimo? E non raccoglierete quello che avrete seminato? Non siete voi che così confermate, moltiplicate, e in qualche modo giustificate i pregiudizi, anche ingiusti, contro la costituzione dello Stato, giacchè gli uomini, non molto atti a distinguere, attribuiranno ad essa quello che dovrebbero imputare forse solo alla vostra imprudenza, per non dire di peggio? Insomma, o credete che la forma costituzionale si deva fare amare e stimare da tutti i cittadini concordi spontaneamente , o la volete impor loro colla forza e col raggiro. Nel primo caso dovete mutare contegno, e cessare dall' opporvi alle libertà giuridiche di tutti. Nel secondo caso, come potrete voi aspirare al titolo di liberali, se non pensate che a imporre colla forza e coll' astuzia le vostre proprie opinioni politiche agli altri cittadini, costringendoli a diventare costituzionali col dichiarare loro che devono deporre le proprie opinioni e prendere le vostre, se vogliono partecipare anch' essi della libertà di cui al presente voi soli vi reputate degni, e v' erigete in giudici di quelli che sono degni? Ma per tornare a quello che dicevamo da principio, tutto il male sta in questo, che a voi, signori nostri, manca ogni principio di morale e di diritto. Voi l' avete in bocca il diritto, ma mostrate di credere che esso sia fatto a modo di calzetta, che ora si fa larga ed ora stretta. Poichè se « la libertà non è altro che il libero esercizio del proprio diritto », o convien negare che il diritto sia qualche cosa di sacro e d' inviolabile, o convien ammettere che anche inviolabile e sacra sia la libertà naturale e giuridica, di cui parliamo. Ma mettersi al disopra del diritto stesso, e credere di poterlo un dì restringere e l' altro dì allargare, non è questo uno scambiare il diritto coll' utilità e di più con un' utilità fallace? Il principio di quelli che usano la parola diritto nel suo vero significato, e non si servono di essa per coprire onestamente l' utilitarismo, è questo: « Il diritto è inviolabile, sempre, da tutti ». Il vostro principio è quest' altro: « Il diritto va rispettato secondo l' opportunità ». Merita forse questo neppure il nome di principio? Se è un principio, è il principio del dispotismo il più selvaggio, come dicevamo. Il Governo che si attribuisce di potere rispettare i diritti dei cittadini solamente secondo l' opportunità , può commettere qualunque concussione, oppressione, atto di barbarie secondo l' opportunità . Non c' è dunque qui il giusto mezzo: o il rispetto del diritto deve essere anteposto all' opportunità, o l' opportunità anteposta al rispetto del diritto. Nel primo caso non potete senza contraddizione riconoscere la libertà dei padri di famiglia come un diritto, e poi impedirne loro l' esercizio, consultando l' opportunità (già s' intende l' opportunità che risulta dal vostro particolare giudizio che imponete per legge a tutti). Nel secondo caso confessate che il dispotismo è quello che veramente volete salvo, e che gli avete mutato nome chiamandolo libertà, costituzione e simili. Un lamento universale di tutti gli uomini probi e onesti accusa il nostro secolo d' uno spirito di materialismo (1), che guasta profondamente le parti più vitali dell' individuo e della società. E veramente, benchè il materialismo dal secolo scorso in qua sembri aver perduto nell' ordine speculativo, s' è diffuso però immensamente nell' ordine pratico, ed è penetrato in tutte le relazioni della vita. Per questa via si è messa nelle menti la persuasione, che chi paga un altro uomo per qualche ufficio, acquisti una illimitata autorità su di lui e sull' ufficio, qualunque sia, che viene affidato alle sue mani contro uno stipendio assegnatogli. Col qual principio gli uomini che ricevono uno stipendio grande o piccolo, diventano veri servi. Il che è cosa tanto più sconvenevole, quant' è più nobile e liberale l' ufficio che sostengono. E pochi sono gli uffici più nobili e più liberali di quello di maestri e d' istitutori della gioventù. E` dunque a stabilirsi prima di tutto questo principio, che i maestri e gli educatori non devono esser trattati come servi , da chi dà loro lo stipendio, ma con riverenza e gratitudine pel servizio che rendono alla società. Premesso questo principio generale, è necessario che dividiamo in tre categorie quelli che suppliscono alle spese delle scuole e istituti educativi: poichè altri vi suppliscono per puro spirito di beneficenza; altri per ispirito di speculazione, traendo da tali scuole ed istituti guadagno per sè; altri finalmente suppliscono alle dette spese non del proprio, ma come amministratori del danaro altrui. Di ciascuna di queste tre categorie di persone si può domandare quali diritti loro competano riguardo all' insegnamento. Come abbiamo difeso i diritti che hanno i dotti all' insegnamento, e sostenuto che un Governo liberale dee lasciarne libero l' esercizio, così del pari diciamo, che tutte le anime generose che vogliono far del bene, e, per non uscire dal nostro argomento, vogliono istituire e mantenere del proprio scuole e collegi d' educazione, n' hanno un naturale diritto, e deve esserne lasciata loro la piena libertà d' esercitarlo. Deve loro essere ancora lasciata la libera scelta de' maestri ed istitutori, salvo il dovere morale che loro sempre rimane d' eleggerli con saviezza. Ma questo diritto ha egli de' limiti? Ripetiamo che nessun diritto ne è senza. Quali dunque sono? Non si dà diritto d' insegnare se non entro i tre limiti generali, indicati a principio, cioè che chi insegna abbia scienza , insegni cose oneste , e in un modo inoffensivo . Questi benefattori dunque sono obbligati di scegliere i maestri e gl' istitutori tra persone che abbiano il diritto naturale d' insegnare, cioè tra persone dotte e fornite di quella moralità che si richiede a insegnare cose oneste, e in un modo inoffensivo. I diritti dunque de' benefattori devono essere conciliati con quelli della Chiesa Cattolica e de' dotti e in tal modo quelli riescono temperati da questi. Abbiamo anche veduto, che è un diritto de' dotti lo stabilire i metodi dell' insegnamento. Non devono dunque i benefattori imporre a loro arbitrio il metodo che seguir devono i maestri nelle scuole; ma su questo punto dee valer anche pei benefattori quello che abbiamo detto parlando de' padri di famiglia. A certuni la libertà, che noi desideriamo, sembrerà soverchia. Ma quelli che così la pensassero, sospendano la loro sentenza, fino che abbiano inteso l' intero nostro pensiero: dopo aver letti questi nostri cenni fino alla fine considerino l' intero del sistema, e la relazione delle diverse sue parti. Avendo noi diviso l' influenza sull' insegnamento tra sei persone giuridiche, assegnando a ciascuna la sua porzione, egli è evidente, che intendiamo che coesistano tali diritti tutti insieme, e questa coesistenza simultanea è appunto quella, che per la stessa natura della cosa li modera reciprocamente e naturalmente nel loro esercizio, e gli armoneggia insieme. E per fare un cenno di questa specie di naturale limitazione anticipiamo qui qualche osservazione di quel più che diremo poi parlando de' diritti del Governo civile. Il Governo civile ha anch' egli de' diritti, che si riferiscono alcuni direttamente, altri indirettamente all' insegnamento, e anch' esso dee avere la piena libertà d' esercitarli, perchè la libertà è da per tutto dov' è il diritto, non essendo ella altro che « l' esercizio non impedito del diritto ». Facciamo dunque cenno di due soli de' diritti del Governo, riservandoci a parlar degli altri a suo luogo, e subito apparirà quanto essi, esercitati sapientemente, limitino nel fatto e legittimamente la facoltà che abbiamo data ai dotti, ai padri di famiglia e ai benefattori d' insegnare o d' istituire scuole e stabilimenti educativi. Uno di questi diritti del Governo, date certe condizioni, è quello d' istituire un insegnamento ufficiale. Ora l' insegnamento ufficiale limita di fatto e legittimamente gli altri insegnamenti in due modi; il primo colla concorrenza, per la quale si limitano i diritti delle varie persone reciprocamente, e al Governo non mancano i mezzi di rendere, se egli è savio, l' insegnamento ufficiale migliore degli altri. A cui s' aggiunge, che quando gli alunni delle altre scuole vogliono passare alle scuole ufficiali, il Governo ha il diritto, non già d' imporre loro condizioni arbitrarie, ma sì d' avere da essi una prova, che li dimostri istruiti al pari degli altri alunni dell' insegnamento ufficiale, di cui aspirano ad essere condiscepoli; cioè di far subire ad essi, prima d' ammetterli, un esame che a dimostrare ciò sia sufficiente: il che dee eccitare i presidenti dell' altre scuole ad emulare l' eccellenza dell' insegnamento ufficiale. Il secondo diritto del Governo è di non ammettere negli impieghi, se non quelli che abbiano le cognizioni necessarie alla carriera in cui vogliono entrare. Questo non dà mica al Governo il diritto di escludere dagli impieghi a priori e in universale tutti quelli che non sono stati istruiti nelle sue scuole, e nè pure di sottomettere gli altri ad esami arbitrari e indeterminati, ma sì bene ad esami sufficienti per riconoscere con pratica certezza se gli aspiranti, in qualunque luogo e modo sieno stati ammaestrati, abbiano le cognizioni richieste a quella carriera di pubblici impieghi. Certo, che per fare tutto questo, senz' arbitrio, il Governo deve definire avanti con precisione la sfera e la natura di queste cognizioni, ed esigerle egualmente da quelli che escono dalle scuole ufficiali e dalle altre: ma entro questa sfera l' esame dovrà essere egualmente rigoroso e concludente per tutti. A noi sembra che questi soli due mezzi legittimi, per tacere degli altri, potrebbero avere grande efficacia ad impedire che sorgessero scuole e stabilimenti d' educazione troppo imperfetti, a malgrado che niuna legge li proibisca. Poste dunque queste provvidenze governative, non vedo che difficoltà ci possa essere a lasciare interamente libera la beneficenza. Che male ne seguirà, se ognuno che voglia col proprio danaro far del bene, istituisca scuole e stabilimenti educativi a suo piacimento e senza formalità burocratiche? Egli è chiaro, che se quelle e questi non saranno tali che istruiscano i giovanetti tanto da renderli capaci di sostenere l' esame richiesto, sia per passare nelle scuole ufficiali, sia per essere introdotti ne' pubblici affari, assai pochi vorranno mandare a quelle scuole i loro figliuoli. Non intendiamo punto di dire che anche quelli che dal mantenimento di scuole e collegi traggono guadagno, non possano unire a questo fine, d' un onesto guadagno, un sentimento di beneficenza. Ma il nostro discorso essendo rivolto a dichiarare come un savio Governo civile possa fondare i suoi regolamenti esterni intorno all' insegnamento sui diritti naturali, non possiamo tener conto di quelle disposizioni interne dell' animo che non sono punto manifestate con un segno e una prova esteriore. Convien dunque che distinguiamo la classe de' benefattori da quella degli speculatori colla prova di fatto che ce ne danno; e così alla classe de' benefattori si dovranno ascriver quelli che non ritraggono guadagno per sè dalle scuole o istituti, che mantengono in tutto o in parte del proprio, e alla classe degli speculatori quelli che ne traggono a se stessi guadagno. Quando dunque sia dimostrato, che le scuole non danno compenso alcuno al benefattore che le mantiene del proprio, o se da esse si trae qualche cosa, questo non agguaglia la spesa necessaria a mantenerle, e non fa che diminuire la spesa del contribuente, ma non toglierla del tutto, allora colui che le mantiene va ascritto tra i benefattori; quando poi il reddito, che rendono le scuole istituite da qualche persona o società eccede la spesa necessaria, e l' eccedente va a profitto dell' imprenditore di esse, costui deve computarsi tra gli speculatori. Per speculatori dunque intendo solo quegl' individui o persone morali che, mettendosi all' impresa d' una scuola o d' un collegio, ne conducono l' amministrazione a conto proprio, e a tal fine stipendiano maestri e istitutori, e fanno l' altre spese occorrenti, esigendo da' discepoli, o da' convittori, una retribuzione o pensione, calcolata a intento di cavarne guadagno per se stessi. Non si comprendono in questa classe i maestri o istitutori che ricevono stipendio, ma si comprende in essa anche un maestro, se a suo nome e per conto suo facesse andare l' economia d' uno stabilimento di scuole. Del pari non si comprendono quegli stabilimenti che, essendo fondazioni benefiche (sotto il qual nome intendo uno stabilimento o collegio, che stia da sè con esistenza perpetua), hanno un' amministrazione propria, e gli avanzi che vi si facessero, restassero a vantaggio e incremento dell' opera, o della fondazione stessa. Veduto quali siano gli speculatori, diciamo, che questi, come tali , non hanno diritto alcuno naturale sull' insegnamento, o ad influire in esso: non hanno nè il titolo della dottrina, nè il titolo della paternità, nè il titolo della beneficenza. Il titolo della dottrina vale per insegnare: il titolo della paternità vale per la scelta de' maestri e degli istitutori dei propri figliuoli: il titolo della beneficenza vale per istituire scuole e collegi. Il titolo della speculazione non vale per nulla di tutto questo, e però ad essi non compete nessun diritto naturale all' insegnamento, nè ad influire in esso. Ridotta così la questione, è chiaro, che essa già non appartiene più a quella della libertà dell' insegnamento, ma rimane una questione riguardante le industrie, che può essere esaminata sotto il lato morale, sotto il politico e sotto l' economico o finanziario. E` chiaro in secondo luogo per giusta conseguenza, che, qualora anche il Governo civile il giudicasse opportuno (ecco dove può, e dove deve entrare l' opportunità), egli potrebbe proibire affatto tutte queste speculazioni, senza offendere il principio della libertà dello insegnamento. In terzo luogo è certo ancora, che molte ragioni militano per la proibizione assoluta di questo genere d' industrie, benchè non ci dissimuliamo la difficoltà di determinare il modo con cui si potrebbero sopprimere. E` infatti evidente, che c' è qualche cosa di sconveniente e di repugnante nel far servire l' istruzione e l' educazione della gioventù ad una speculazione economica, nella quale ciò che ha una natura così nobile e santa, com' è la comunicazione della scienza e della virtù agli uomini, diviene un semplice mezzo ad un fine materiale. Che anzi l' opera d' istruire e di allevare i giovanetti è per se stessa d' indole tutta caritativa, e solamente allora ella conserva la sua dignità e procede col decoro e coll' onore dovutole quando è affidata a persone virtuose che l' assumono per impulso di carità, e co' più elevati e generosi sentimenti. Queste, e queste sole, danno nel loro carattere morale, provato col fatto del disinteresse, una guarentigia certa alla società, che l' opera virtuosa deva ben riuscire. A che può guidare di sua natura il fine dell' interesse temporale, se non a ritrarre il maggior guadagno possibile dalla speculazione? Perciò lo speculatore (presciendendo da una virtù personale straordinaria) farà talora delle cose buone, talora delle cose cattive, secondo che gli suggerirà la politica dell' opportunità: egli vorrà piacere troppe volte più ancora ai tristi che ai buoni, cioè ogniqualvolta da quegli spererà un guadagno maggiore e un maggior incremento della sua industria: sceglierà quelle dottrine, quelle massime educative, che più secondino all' andazzo de' tempi, e vorrà maestri e istitutori conformi a questo suo bisogno. Così gli stabilimenti insegnativi ed educativi non avranno per fondamento nessun principio fermo e inconcusso di verità, di giustizia, di dovere e di diritto, se non per un accidente delle circostanze. Aggiungete a questo, che l' interesse consiglia gli speculatori a dare un' importanza esagerata a tutte quelle superficialità, e mostre esteriori, che fanno stupire la moltitudine dell' abilità e del sapere dei giovanetti: l' educazione così si rende apparente e ciarlatanesca, e manca di solidità: l' uomo così non si forma, ma piuttosto si disforma e corrompe: s' avranno dunque giovanetti pieni di vanità, con un sapere indigesto e ciarliero, senza un vero carattere morale, non utile a se stessi, non alla patria. Tali stabilimenti di speculazione vivendo necessariamente della pubblica opinione, è naturale, che l' imprenditore per procacciarsela, sia inclinato ad adoperare tutte quelle arti che gliela possono accaparrare. E non mancano certamente i mezzi onesti e disonesti, non manca la stampa, non mancano i giornali, non mancheranno dunque gli elogi ampollosi e mendicati. Così sorge una celebrità fattizia, frutto d' innumerevoli menzogne, bassezze, adulazioni, camarille e collusioni. E tra questi mezzi non è l' ultimo certamente quello di denigrare abilmente, o di ribassare, la fama degli altri stabilimenti simili, e non tanto i confratelli di speculazione che si rispettano, perchè hanno causa comune, quanto gl' istituti fondati sulla beneficenza e sul diritto. All' incontro tutte le istituzioni benefiche in mano d' amministratori fiduciosi o legali, e molto più gli uomini generosi che non hanno in mira alcun guadagno, devono sostenere con tali speculatori una lotta troppo ineguale. Essi non saprebbero abbassarsi ad adoperare arti maligne ed astute, e non trovano punto in sè a gran pezza quella attività smaniosa che tutto tenta e tutto sommove per dare ai propri stabilimenti una fama: il solo fine del bene della gioventù raccoglie tutto il loro pensiero e le loro facoltà. Anzi i benefici e i virtuosi non sanno neppure difendersi dagl' ingiusti attacchi che loro possono venir fatti, o quand' anche lo sapessero è loro infinitamente molesto il discendere a tali zuffe indecorose, che non possono riguardare solamente le cose, ma prendono necessariamente un' indole personale. Proibendo dunque la speculazione sull' educazione e sull' istruzione della gioventù, il Governo civile tutelerebbe il diritto degli uomini benefici, e quello de' padri di famiglia, togliendo da' loro occhi una seduzione funesta o molesta. Sono lontanissimo, lo ripeto, dal voler dire, o dal credere, che tutti gli speculatori facciano uso delle arti sopra accennate: convengo anzi che ce ne possono essere di buoni. Ma il Governo, lo ripeto, non può fondare le sue leggi sulle eccezioni o su quello che può avvenire, ma su quello che è conforme alla natura delle cose, ed è verisimile che avvenga. Pure, si dirà, che anche le industrie devono lasciarsi libere. Ma, anche quando sieno tali che invece di vantaggio rechino generalmente pregiudizio alla società? Specialmente nell' ordine più elevato, qual è quello della dottrina, della morale, della religione? Che se il Governo civile trova difficile o inopportuno venire al taglio di cui abbiamo parlato fin qui, reputo che egli debba esigere da tali speculatori valide guarentigie del buon andamento dello stabilimento, e che questo non sia punto nuocere alla libertà dell' insegnamento, poichè altro è speculazione , come dicevamo, ed altro è insegnamento . Ci vogliono delle guarentigie, acciocchè questo non sia sacrificato a quella, essendo flagrante il pericolo. Ma queste guarentigie sono difficili a determinarsi; e tutte sarebbero inutili, se non ci fosse in primo luogo una moralità e religiosità non comune nello speculatore. Ma questa da una parte è quasi impossibile accertarsi con prove esterne o legali, dall' altra è inquisizione delicata, odiosa e molesta. Che se il governo si riserberà la facoltà di concedere la licenza di aprire tali stabilimenti solo a persone distinte per conosciuta probità e religione, c' entrerà l' arbitrio, e si griderà all' ingiustizia. Se poi la concederà a tutti quelli contro i quali non ci sia un carico di notoria immoralità o un delitto, si ricadrà negli inconvenienti che abbiamo sopra notati. La concederà dunque a condizione che lo stabilimento non abbia mai per capo lo stesso imprenditore economico, ma un' altra persona nominata liberamente dal Governo stesso, a cui sia affidata intieramente la direzione dello stabilimento per tutto ciò che riguarda l' istruzione o l' educazione? Forse questo sarebbe l' espediente più sicuro. Ovvero il Governo, oltre prestabilire certe norme generali per tali stabilimenti, ricorrerà a visite, inquisizioni e cose simili? Ma torneremo in tal caso alle infinite e moleste indagini, alle pedanterie, alle formalità burocratiche. C' è dunque tanta difficoltà a impedire gl' inconvenienti, che possono trar seco con tutta probabilità le imprese di speculazione economica sull' educazione della gioventù, che mi sembra questa una nuova prova di quello che dicevamo essere desiderabile che cessino affatto. Questi altro diritto non hanno che quello d' amministrare coscienziosamente l' avere altrui. Essi non possono amministrare le sostanze temporali destinate a beneficenza, come se ne fossero padroni. Anzi quelli che sono chiamati a goderne il beneficio, devono esserne considerati come i veri proprietari: ed è conveniente che gli amministratori diano loro guarentigie sufficienti della loro amministrazione e dispensazione. Come la nazione ha diritto di pretendere che le siano date sufficienti guarentigie dell' amministrazione governativa, così la provincia ha lo stesso diritto verso l' amministrazione provinciale, e il Comune verso la comunale, e il popolo, a cui favore cade o cader può la beneficenza, può richiederne dalle congregazioni di carità, e da ogni amministrazione di fondi destinati a beneficenza. S' aggiunge che anche tutti quelli, i cui diritti sono implicati in tali amministrazioni, e possono da esse essere violati, hanno giusta ragione di richiedere, per quello che riguarda l' insegnamento, delle guarentigie sufficienti. Dalle leggi d' un savio e giusto Governo, intorno all' istruzione ed all' educazione, dovrebbero risultare in un modo diretto o indiretto tutte queste diverse guarentigie. Ma il punto più importante e delicato riguarda la nomina dei maestri. Su questo punto devono esser date guarentigie: 1 Alla Chiesa pel suo diritto all' insegnamento coll' educazione cristiana; 2 Ai dotti pel diritto di preferenza in ragione della dottrina, probità e idoneità; 3 Ai padri di famiglia la cui figliolanza è chiamata a godere il beneficio di tali istituti. Per arrivare a questo, io credo, che il metodo da tenersi nell' elezione de' maestri e degl' istitutori in tali stabilimenti, qualora non sia determinato dalla volontà espressa del fondatore e benefattore, converrebbe che fosse sapientemente prefinito, evitando i due scogli egualmente pericolosi dell' influenza in tali elezioni degli amministratori economici, e dell' influenza d' un corpo di persone immutabili. Converrebbe dunque secondo noi: 1 Che quelli a cui è commessa l' amministrazione dei beni dello stabilimento, non avessero alcuna parte nella nomina o scelta de' maestri e istitutori; 2 Che la detta scelta dipendesse bensì dal giudizio di un certo numero di persone dotte e probe, ma non sempre dalle stesse, ma variate di volta in volta, o per via di sorte, o in altro modo senza regola fissa, come si dirà in appresso, e che dovesse avvenire l' elezione in tal modo, che nella buona riuscita fosse impegnato il loro onore. Noi abbiamo posta in questo modo la questione perchè si pone così comunemente; l' abbiamo posta così per avere l' occasione di osservare, che, così posta, involge un equivoco. Infatti, che cosa s' intende per Comune? Non altro che quel gruppo di persone che lo rappresenta, e come suo rappresentante lo governa. Che cosa s' intende per Provincia? Non altro che quel gruppo di persone che la rappresenta, e come suo rappresentante tratta i suoi interessi. Ma non è da farsi illusione. Altro è il governo comunale, ed altro il Comune, altro il Consiglio provinciale e altro la Provincia. La questione dunque si riduce a quest' altra: « Qual è il diritto circa l' istruzione e l' educazione che compete a que' gruppi di persone, che sono designati a rappresentare i Comuni e le Provincie? ». Questa distinzione è necessaria, perchè la rappresentanza può essere illusoria o effettiva. E` una ricerca di alta politica quella del modo, nel quale si possono avere rappresentanze politiche effettive e non di puro nome, e finora non fu sciolto il problema, almeno nella pratica. La nostra opinione si è, che sono effettive le sole rappresentanze reali, e che sono illusorie le rappresentanze meramente personali. In altre parole: sono effettive quelle rappresentanze che rappresentano gli interessi, e non sono tali quelle che rappresentano le persone. Se mi si domandasse oltracciò, quando ci sia questa rappresentazione degli interessi in quel gruppo di persone che presiedono alla società, e la governano, e quando non ci sia, risponderei: « C' è la rappresentanza degli interessi quando quel gruppo di persone che rappresenta la società, abbia in sè compendiati gli interessi di tutti; di maniera, che, se prendono una deliberazione, la quale sia vantaggiosa agl' interessi del gruppo de' rappresentanti, ella debba di necessità riuscire vantaggiosa anche agl' interessi complessivi di tutta la società rappresentata, e se prendono una risoluzione che sia nocevole agli interessi complessivi della società rappresentata, questa deliberazione di necessità riesca proporzionatamente nocevole agli stessi interessi del gruppo dei rappresentanti che la prendono ». Allorquando può aver luogo il contrario, cioè allorquando quelle disposizioni che giovano ai rappresentanti possono esser nocive ai rappresentati, e quelle disposizioni che sono nocive ai rappresentanti, possono essere vantaggiose ai rappresentati, allora essi non rappresentano gl' interessi di tutti, ma rappresentano le nude persone. Ora questa rappresentazione vera, lo ripeto, non è stata ancora mai trovata in pratica, ed è riserbato il trovarla, e il ridurla all' atto, agli ulteriori progressi della società umana. Noi dunque tratteremo la nostra questione partendo dal principio che finora nè l' amministrazione de' Comuni, nè quella delle Provincie, nè quella dello Stato è veramente rappresentativa, benchè ne abbia il nome, e dietro questo nome si teorizzi, e dietro queste teorie si operi: di che poi avviene che l' effetto non corrisponda alla aspettazione. Crediamo doversi distinguere la rappresentanza comunale dalla rappresentanza provinciale come istituzioni di natura grandemente diverse. Il Comune è una vera società di persone, che convivono intimamente unite sul medesimo suolo, e in una continua relazione tra loro: è dunque naturale e necessario, che essa abbia un capo e un Consiglio sul luogo, che la rappresenti e la governi. Tale fu il primo Governo di diritto sociale, il nucleo di tutti i Governi di questa classe. Non si può dire lo stesso della Provincia. Che tutti i Comuni d' una nazione abbiano un vincolo, che siano associati, e che questa associazione di Comuni abbia un capo supremo e un governo, questo pure s' intende utile e necessario a costituire una nazione. Ma da per tutto, dove c' è un sovrano e un Governo generale di diritto sociale, c' è anche o ci deve essere quell' associazione dei Comuni, e non si vede necessario, che sieno costituiti de' corpi intermedi aventi un' autorità di diverso genere e in parte indipendente dal Governo generale. Si dee concepire dunque il Consiglio provinciale come un semplice organo e un aiuto del Governo generale per provvedere agl' interessi speciali delle Provincie, senza che abbia in diritto altra autorità che consultiva, e questo per non scindere l' unità del governo dello Stato e indebolirlo. Tale mi sembra che debba essere ed anche che in fatto sia il concetto del Consiglio Provinciale. Consideriamo dunque a parte il diritto dell' autorità comunale e il diritto del Consiglio provinciale. Ogni governo sociale, grande o piccolo, non è istituito se non per supplire a ciò che non possono fare e non fanno le famiglie e gl' individui, che compongono la società a cui presiede. Non ha dunque nè il diritto nè l' ufficio d' impedire l' attività dei governati, ma di supplire a quello a cui essa non può giungere e di regolarla affinchè non nascano collisioni e danni. Deriva da ciò che i Governi devono lasciare illesi e proteggere tutti que' diritti che sono per loro natura anteriori ad essi. L' autorità comunale dunque, qualunque diritto possa avere, diritto dico derivante dal suo concetto, circa l' insegnamento e l' educazione, deve come lo stesso Governo generale rispettare e lasciar intatti: 1 Il diritto della Chiesa Cattolica; 2 Il diritto de' dotti; 3 Il diritto de' padri di famiglia; 4 Il diritto de' benefattori e di tutte le istituzioni benefiche, che dopo la morte de' benefattori acquistarono un' esistenza per sè. Quel diritto, che l' autorità comunale può esercitare circa l' insegnamento e l' educazione, qualunque sia, è posteriore a tutti questi quattro generi di diritti: ella non deve esser ostile ai medesimi, anzi deve considerarli tutti come preziosa ricchezza del Comune stesso a cui presiede. A malgrado però che i diritti di quelle quattro persone giuridiche sieno mantenuti illesi e liberi, può avvenire che non sia ancora supplito ai bisogni del Comune stesso circa l' istruzione e l' educazione. L' autorità comunale dunque non può intervenire in quelle scuole e istituzioni d' educazione che già esistono nel Comune, e che non sono di sua fondazione, le quali devono rimanere perfettamente libere; ma se queste non bastano, ella ha il diritto di aggiungere altre scuole e collegi, quanti se ne richiedono a supplire al detto bisogno della popolazione comunale. E questo diritto esso lo ha come rappresentante de' padri di famiglia. Che se la rappresentazione fosse vera ed effettiva questo diritto non avrebbe altri limiti che i sopraccennati, e il governo generale dovrebbe lasciarlo integro e liberissimo. Ma che non ci abbia ancora nei Comuni un' autorità che si possa dire veramente rappresentativa degli interessi complessivi del Comune, i Governi stessi, dico anche i costituzionali, se ne mostrano persuasi, poichè sentono la necessità di tutelare il Comune contro l' autorità comunale. A ragione d' esempio essi mettono un limite alle spese comunali, essi si riservano l' approvazione delle spese che l' autorità comunale decreta. Non è egli evidente, che quest' atto di autorità tutoria sarebbe superfluo, quando quel corpo di persone che decreta tali spese rappresentassero fedelmente tutti gl' interessi del Comune? In tal caso sarebbe lo stesso come se gli stessi proprietari tutti insieme lo decretassero. Quando ciò fosse, la spesa non potrebbe mai eccedere, poichè se ci possono essere tra i proprietari alcuni prodighi non può esser mai prodigo tutto il corpo dei proprietari, chè l' attacco ai propri interessi è assai più comune tra gli uomini, che non sia la noncuranza de' medesimi. La necessità dunque che l' autorità tutoria del Governo eserciti una continua vigilanza sull' economia del Comune è una prova evidente, che l' autorità comunale non è organizzata in modo da rappresentare e compendiare in se stessa gl' interessi di tutti. Quelli che si lasciano prendere alle parole e alle forme, credono che quando si può dire: « Qui c' è un corpo di rappresentanti »non ci sia da cercar altro, non importi più esaminare come questo corpo sia composto, se esso sia un corpo di rappresentanti nominali, o reali ed effettivi. In conseguenza di questo equivoco, essi bramerebbero sciogliere subito i Comuni, e non solo i Comuni ma anche le Provincie, da ogni autorità tutoria del Governo generale. Io credo che l' intervento di questa si potrà diminuire di mano in mano che si perfezionerà la maniera di organizzare l' autorità comunale, rendendola una rappresentazione che s' approssimi sempre più a rappresentare veramente tutti gl' interessi. Credo che un uomo assennato direbbe al Governo che si mette per questa via: « Sciogliete pure l' autorità comunale da' vincoli superflui, ma vi resti bene in mente, che altro è questa autorità, ed altro i Comuni stessi, e per isciogliere dalla tutela quell' autorità, non crediate di rendere libero il Comune: anzi se non procedete con prudenza, potrebbe avvenire, che con questa vostra apparente liberalità il Comune stesso, contro la vostra intenzione, si trovasse sottoposto a una servitù maggiore ». Noi non siamo punto gli amici della centralizzazione, ma non bramiamo neppure che il Governo si disciolga in tante repubblichette del medio evo. Il Governo centrale deve essere forte, e in pari tempo tutti i governati devono godere della maggiore libertà. Saper distinguere ciò che appartiene alla forza del Governo, e non alla libertà de' governati, e ciò che appartiene alla libertà dei governati, e non alla forza del Governo: nulla cedere di questa, e nulla usurpare di quella: ecco una delle parti principali e delle più difficili della sapienza politica. Da questo il lettore intende, che, quantunque noi concediamo alle autorità comunali d' istituire scuole e collegi entro i limiti, che abbiamo indicati, non crediamo però che esse debbano andarsene sciolte da ogni tutela e riscontro del Governo centrale. E questa tutela è più necessaria ne' Comuni piccoli, che ne' grandi, poichè ne' primi per la scarsezza di persone istruite e capaci cade l' autorità più facilmente in mani inette, e bene spesso è il caso; o di un piccolo partito, quello da cui dipende l' elezione dei rappresentanti, se così si vogliono chiamare, del Comune. Vediamo dunque una disposizione utile, che il Governo obblighi i Comuni, che vogliono istituire scuole, a istituire prima quelle che sono più necessarie al Comune stesso, e solamente dopo di queste le altre meno necessarie. Crediamo ancora che il Governo non debba abbandonare totalmente l' elezione di tali maestri all' autorità comunale, ma debba obbligarla a quelle condizioni e a quel metodo d' elezione, che ne guarentisca la scelta migliore. Queste condizioni e questo metodo, secondo noi, dovrebbe essere fisso, e non mutabile, come sono mutabili le amministrazioni comunali. Se all' arbitrio di queste ne fosse abbandonata la scelta, verrebbero soventi volte eletti da un' amministrazione de' maestri, che sarebbero stati rifiutati dall' amministrazione precedente, o che si vorrebbero esclusi dall' amministrazione seguente. D' altra parte l' abilità de' maestri e de' professori non può essere, universalmente parlando, valutata con giudizio proprio dalle persone, che costituiscono le amministrazioni comunali: queste devono informarsi da altre: non giova dunque lasciare, che l' elezione dei maestri dipenda da informazioni e raccomandazioni casuali: convien meglio che sia tracciata una via sicura, acciocchè il Comune abbia delle guarentigie d' una buona scelta contro l' autorità comunale. Finalmente crediamo che debbano esser messi de' limiti all' autorità comunale, sia che si tratti di licenziare i maestri già eletti a tali scuole, sia per rispetto all' ingerenza che la detta autorità possa prendere nell' andamento delle scuole. Il Governo deve proteggere i maestri legittimamente eletti, e non permettere che vengano licenziati da un momento all' altro e senza giusti motivi: dee proteggere la loro libertà nell' uso de' metodi, e nella condotta delle scuole, e non abbandonarli alla mercè d' opinioni accidentali, che possono esser capricci, puntigli, personali antipatie, o goffaggini. Altrimenti l' ufficio di maestro e d' istitutore sarebbe avvilito, e prenderebbe l' aspetto d' una ignobile servitù (1). Abbiamo già detto qual concetto noi ci facciamo del Consiglio provinciale: è un corpo di persone, che danno informazioni e consigli al Governo, e discutono e porgono petizioni a favore della provincia che rappresenta. Non crediamo dunque che gli possa competere, in virtù del concetto della società civile, nessuna facoltà decretoria: e che il Governo centrale non potrebbe cedergliene una parte, senza grave detrimento della sua propria perfezione, essendo la forza legittima del Governo centrale il primo elemento della forza della nazione. E appunto perchè tale è l' indole del Consiglio provinciale, avviene che questo non sia permanente, ma una semplice consulta che s' unisce a certi tempi secondo il bisogno. Noi crediamo dunque conseguentemente, che ad esso, come tale, non ispetti nessun diritto nè d' istituire scuole o stabilimenti, nè di averne la direzione o sopraintendenza, ma soltanto quello di proporre al Governo quanto possa esser necessario ed utile alla provincia stessa intorno all' insegnamento. Col nome di scuole provinciali dunque, se così piace chiamarle, altro non si può intendere, secondo noi, se non quelle scuole o quei collegi ufficiali che il Governo giudica opportuno di istituire in ogni provincia. Siamo pervenuti alla parte più difficile e più controversa di questa trattazione: la parte che dee prendere il Governo civile nello insegnamento. Egli è chiaro che la questione riceve una soluzione diversa, secondo che si parte da un concetto diverso dello Stato. Infatti lo Stato si può concepire e fu concepito in tre diverse maniere: o come una signoria , o come una tutela , o come un' amministrazione sociale . Si può concepire come una signoria , tanto se si suppone che il signore che vi presiede sia una sola persona individuale, quanto se si suppone che il signore sia una persona collettiva: per concepirlo in questo modo basta attribuire al Governo i diritti che ha un signore sopra i suoi servi. Si può concepire lo Stato come una tutela , e del pari la persona, che n' è investita, può essere tanto un individuo, quanto una collezione d' individui; e per concepirlo in questo modo basta attribuire al Governo i diritti che le leggi attribuiscono a un tutore di pupilli. Finalmente si può concepire lo Stato come una Società , la quale abbia un' amministrazione o governo proprio e veramente sociale . Tra gli Stati, che ci furono al mondo, e che ci sono anche al presente, non mancarono e non mancano di quelli che furono e sono ordinati con norme derivanti da ciascuno di questi tre principii o concetti fondamentali. Ma egli è chiaro che i primi due concetti non costituiscono popoli liberi: solamente quando uno Stato sia ordinato secondo il terzo concetto, la nazione gode della libertà politica. Noi dunque, abbandonando i due primi concetti, intendiamo di ricercare soltanto « qual diritto d' influire nell' insegnamento abbia il Governo d' uno Stato che sia fondato sul principio della libertà ». Ristretta così la questione, resta a vedere (e questo è il più importante) come s' intenda la libertà. Poichè secondo le diverse opinioni che gli uomini si formano di questa libertà, portano anche diversi giudizi, così in questa questione dell' insegnamento come in tutte le altre. Ora noi abbiamo dichiarato fino al principio che per libertà non intendiamo altro che « il libero esercizio dei diritti di tutti », e che ogni altra libertà erroneamente si chiama con questo nome, e acciocchè non nascano equivoci, dee chiamarsi licenza . Se dunque il Governo civile vuole essere un Governo liberale, e si crede obbligato di governare secondo il principio della libertà, è manifestamente necessario ch' egli consideri i diritti di tutti i governati come anteriori a' suoi propri, e che la sua azione non usurpi su di quelli cosa alcuna, ma li seguiti. Riguardo dunque a quello che un Governo di tal natura può fare circa l' insegnamento, si divide da se stessa la questione in due sezioni. Poichè si può domandare: « qual contegno il Governo civile debba tenere circa ai diritti di quelli che hanno qualche ragione d' influire nell' insegnamento »; e « che cosa possa fare di più il Governo civile circa l' insegnamento, dopo aver usato il dovuto riguardo ai diritti de' governati ». Un Governo civile che abbia per suo principio la libertà, ha tre doveri verso i diritti di tutti: 1 Di non offenderli, o diminuirli, nè per mezzo di leggi, nè in altro modo; 2 Di tutelarli; 3 Di proteggerli e aiutarne l' esercizio. Oltre di questi ha un quarto dovere, quello della tolleranza entro una certa sfera d' azione. Avendo noi dunque distinte cinque persone giuridiche aventi ragione d' influire nell' insegnamento, cioè la Chiesa Cattolica, i dotti, i padri di famiglia, i benefattori e i Comuni, vediamo come il Governo civile debba esercitare i doveri di lasciare illesi, e di tutelare e di proteggere i diritti di ciascuna di esse, riservandosi solamente la maniera di regolarli, acciocchè possano coesistere, ed essere simultaneamente esercitati, senza collisioni reciprocamente dannose. Questo che è il più luminoso e il più assoluto di tutti i diritti, è anche quello che oggidì, e in certi Stati di nuovo pelo, suscita le più calde opposizioni e le più calde difese. E deve esser così, perchè in opera di religione l' indifferenza esterna e affettata è molta, ma l' indifferenza interna non ci può essere: chi non l' ama, l' odia cordialmente. [...OMISSIS...] Tosto dunque che noi abbiamo parlato de' diritti, che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento, s' intese il rumore di chi acerbamente se ne doleva, e quel dolore si versò in menzogne e in villanie. Convien dunque, che noi vi ritorniamo sopra per l' importanza dell' argomento, e però ci rifaremo a dire ancora qualche cosa in difesa de' diritti della Chiesa Cattolica, poi parleremo dei doveri del Governo civile verso i medesimi, e in fine parleremo della tolleranza che può praticare relativamente all' insegnamento non cattolico. Abbiamo dunque detto, che alla Chiesa Cattolica, cioè al Papa ed agli altri Vescovi, appartiene il diritto d' insegnare autorevolmente la dottrina del Salvatore che comprende il domma, la morale e tutti i mezzi utili all' eterna salute, e che « « non rimane agli altri fedeli se non il dovere di professarla, e la facoltà di propagare intorno a ciò quello che hanno imparato dalla Chiesa , o attinto alle fonti dalla Chiesa approvate, senza nulla aggiungere di contrario a quello che insegna la Chiesa stessa » ». Questa dottrina cristiana cattolica fece venire i brividi a un articolista d' un giornale che esce in Piemonte, e che ha per iscopo di illuminare la nazione sulle vere teorie dell' insegnamento, e per troppa voglia di comunicare anche a' suoi lettori l' orrore, da cui si sentia scosse tutte le fibre, l' articolista falsificò quello che noi avevamo detto: « « Ogni laico, per cristiano e pio che egli sia (così egli espose il nostro concetto), insegnando qualche cosa della religione, sarà violatore del diritto divino, usurpatore, impostore » ». Ma un laico che sia cristiano e pio, non assume mai d' insegnare la religione autorevolmente: intende soltanto di propagare la dottrina che egli professa, e ha imparato dalla Chiesa, senza nulla aggiungere del suo di contrario alla medesima. E questa è appunto la facoltà che noi abbiamo lasciata anche ai laici. Senza dunque trattenerci a rispondere all' autore di quell' articolo, noi ci limitammo a circonvenirlo di falsità nel riprodurre la nostra dottrina. Pure, a una smentita di questa sorte, la faccia dell' articolista non si mutò, e anzi con un secondo articolo, invece di rettificare le sue falsificazioni le confermò, e di più, essendo egli anonimo, ci rimproverò di « « lavorare all' ombra del mistero e dell' impunità » » (1). Si direbbe a tanta minaccia, che sotto la larva si copre uno avvezzo a maneggiare la ferula. E` dunque necessario che rintuzziamo, non dico le villanie personali, ma gli errori insinuati nel pubblico con tanta pervicacia. Dice dunque l' articolista (2), che la nostra teoria della libertà dell' insegnamento « « finisce col ridurre il diritto ad un uomo solo in terra » ». Noi abbiamo distinto la dottrina religiosa dalle altre scienze: abbiamo detto che le altre scienze hanno diritto d' insegnarle liberamente tutti quelli che le sanno, i quali, per brevità di locuzione abbiamo raccolti sotto la denominazione di dotti: questo non è ridurre il diritto ad un uomo solo. Abbiamo detto in secondo luogo, che la sola Chiesa Cattolica « « firmamento e colonna della verità » » ha ricevuto da Gesù Cristo il diritto d' insegnarla autorevolmente , di maniera che nessun fedele ha diritto d' insegnare il contrario. Ora se la Chiesa Cattolica è composta d' un uomo solo, in tal caso sarà vero che questa dottrina (e non ogni dottrina) dovrà essere insegnata da un uomo solo: ma se il Papa e i Vescovi non sono un uomo solo, in tal caso l' articolista avrà dedotta una falsa conseguenza. Di poi è pur singolare quest' importanza che l' articolista attribuisce all' essere piuttosto molti che un solo quelli che insegnano, quasichè dal numero dipendesse la verità e la bontà della dottrina. Noi abbiamo riconosciuto i diritti d' insegnare una dottrina qualunque in tutti quelli che la possedono; ma crediamo che un solo che insegni quello che sa, valga meglio d' una moltitudine che insegna quello che ignora. Pure s' intende, che trattandosi d' investigazioni e di dottrine umane, le quali vanno in maggior parte per l' incerto e pel congetturale, sia desiderabile che molti abbiano il diritto di metter fuori le proprie opinioni: i maestri umani sono tutti piuttosto discepoli che maestri: nello stesso tempo che insegnano qualche cosa che credono essere verità, può sopraggiungere ad ogni istante un altro che gli convinca d' errore, ovvero aggiunga al loro insegnamento qualche parte essenziale dai primi ignorata. Ma il nostro discorso è tutt' altro, perchè riguarda la sola verità religiosa. Ed è a proposito di questa, che l' articolista si spaventa al pensiero che si riduca « « il diritto d' insegnare ad un uomo solo in terra » ». Il suo è certamente un timor panico, a cui noi non avevamo dato occasione. Ma ora gli daremo forse occasione di un timor vero: ascoltateci. Sì, un uomo solo appunto ha il diritto d' insegnare la religiosa dottrina; e quest' uomo è quegli che ha potuto dire, e che ha detto infatti: « « Un solo è il vostro Maestro » » (1). Ecco ridotto da Gesù Cristo il diritto d' insegnare le verità che riguardano l' eterna salute ad un uomo solo. Non siamo da tanto da riformar noi questa dottrina, nè siamo disposti per piacere al nostro articolista da rinunziarvi. Quest' unico Maestro del mondo è stato egli che ha mandato il Papa e i Vescovi a ripetere la sua dottrina per tutti i secoli e a tutti gli uomini divisi in re e ministri, in governanti e governati, e non a inventarne una nuova. Argomentammo dunque non esserci bisogno, e non essere neppur possibile, che il diritto sia conceduto ad altri. E perchè? Perchè se altri, qualunque fossero, volessero insegnare un' altra dottrina loro propria, non avremmo de' maestri, ma solamente de' ciechi, che condurrebbero altri ciechi nella fossa. Come dunque sarebbe ridicolo il concedere al cieco il diritto di vedere quello che non può vedere, così è del pari ridicolo il concedere il diritto d' insegnare le verità religiose, col giudizio proprio, ad uomini che non hanno ricevuto la missione e la scienza dal maestro, e che non possono dire che spropositi, se non ripetono la scienza del maestro. E questo maestro non ha avuto nemmanco difficoltà a dire a un uomo solo queste parole: « « E tu una volta convertito, conferma i tuoi fratelli » » (2). Così ha dato ad un uomo solo, cioè al Romano Pontefice, il diritto supremo di confermare i suoi fratelli nella fede, che è quanto dire nella scienza della salute. Ma non così la intende il nostro articolista [...OMISSIS...] . Parlate del diritto di natura, quando si tratta d' una dottrina che riguarda l' eterna salute degli uomini? E` forse pel diritto di natura che si consegue l' eterna salute, o per la grazia del Redentore? Capisco, voi vi formate un paradiso col diritto di natura, che stia da una parte del Cielo, e che abbia a suo fianco il paradiso della grazia: e v' adirate, perchè noi ne ammettiamo un solo, e diciamo, che c' è una dottrina sola religiosa, come non c' è che un solo paradiso, e un solo maestro di questa dottrina di grazia, e i banditori della medesima sono quelli, che il maestro ha destinati. « « Con questo, voi gridate, si calpesta ogni diritto di natura che è pur essa una rivelazione della volontà di Dio » ». Ma noi ignoriamo perfettamente questo vostro diritto di natura in virtù del quale si possa insegnare una dottrina religiosa contraria a quella insegnata da Gesù Cristo e dalla Chiesa, e che questo diritto di natura sia anche esso una rivelazione della volontà di Dio. Se fosse vero quanto voi asserite converrebbe dire, che le volontà di Dio sieno due, contraddittorie l' una all' altra; converrebbe dire, che la volontà di Dio sia in contraddizione colla volontà di Gesù Cristo. Aggiunge l' articolista, che « « così non sarebbe salvata l' umanità » ». Colla sola dottrina e grazia di Gesù Cristo non sarebbe salvata l' umanità! ma col suo diritto naturale , che concede a tutti d' insegnare una dottrina, che mette l' umanità sopra una strada contraria a quella mostrata da Gesù Cristo, con questo, si sarebbe salvata l' umanità! Noi credevamo, e crediamo ancora, per la grazia di Dio, che l' umanità non abbia che un Salvatore solo, e che questo sia Gesù Cristo. Ma ora un giornale, che rappresenta, in qualche modo, l' insegnamento in Piemonte, insegna per lo contrario « « così non sarebbe salvata l' umanità »! ». E come poi sarebbe salvata, se non è salvata per l' insegnamento e per la grazia di Cristo? Sarebbe salvata coll' attribuire a tutti il diritto d' insegnare l' opposto di quanto insegnò Cristo, e di quanto insegna la Chiesa, e ciò perchè altramente « « sarebbe un calpestare ogni diritto di natura che è pur essa una rivelazione della volontà di Dio » ». Ogni diritto di natura dunque si riduce a poter insegnare una dottrina contraria alla cristiana cattolica, e così è bell' è salvata l' umanità [...OMISSIS...] . Dal che si arguisce che negare il diritto d' insegnare una dottrina contraria a quella di Cristo è negare la terra all' albero dell' umanità, e però è un ucciderla, se la si lascia colla sola dottrina religiosa del divino Maestro! Ci sono dunque degli uomini, a cui sembra che si tolga loro la terra sotto i piedi, se si manifesta un desiderio che sieno chiuse le scuole dell' empietà; anzi ancor meno, perchè noi non abbiamo detto nemmeno tanto: abbiamo solo detto, che la Chiesa ha in proprio il diritto d' insegnare autorevolmente la dottrina che riguarda l' eterna salute, perchè è la sola che la possiede e n' ha missione, e non abbiamo aggiunto una sola parola su di quello che può riguardare un insegnamento di fatto e di tolleranza. Pure all' articolista che dice, che coll' attribuire alla sola Chiesa l' insegnamento di ciò che riguarda l' eterna salute, « « non ne sarebbe salvata l' umanità » », noi siamo anche disposti a rispondere che ha ragione. Sì, è vero, non sarebbe salvata l' umanità , ma sapete quale umanità non sarebbe salvata? L' umanità guasta e peccatrice. V' ha una scuola, che è tutto zelo e fuoco per difendere i diritti di questa umanità. Quest' umanità del peccato è appunto quell' albero che si vuole sviluppare, e a cui si teme che manchi sotto la terra. L' umanità quale l' ha fatta il peccato, l' umanità superba, carnale, ribelle al Creatore, perduta: ecco l' albero di questi maestri, che tentano d' impossessarsi dell' insegnamento. Cristo è certamente venuto a perdere quest' umanità perduta, salvando l' umanità stessa col perderla: è venuto a creare colla sua grazia un' umanità nuova e a distruggere la vecchia. [...OMISSIS...] Ha dunque ragione in questo senso l' articolista, lo ripetiamo: colla grazia e colla dottrina di Gesù Cristo si stabilisce la teocrazia, e « « così l' umanità non ne sarebbe salvata » », ma distrutta; se non che a questa distruzione, secondo S. Paolo, succede la vera salute: [...OMISSIS...] . Ecco l' albero nuovo dell' umanità che prospera e fruttifica da diecinove secoli, e a cui non manca nè la terra, nè il cielo. Ma non è questo l' albero dell' articolista e della sua scuola; egli vuol coltivare quello che è venuto a sterpare e diradicare Gesù Cristo, per sè, e per mezzo degli operai da lui mandati nella sua vigna. C' è dunque una umanità vecchia, figlia della corruzione, e c' è una umanità nuova, rigenerata dalla grazia di Gesù Cristo; e queste due umanità non possono certamente stare assieme, ma s' odiano a morte e perpetuamente si combattono, poichè ciascuna di esse vuol prevalere sull' altra, e vanta i suoi diritti. Per questo ha detto Gesù Cristo: « « Non sono venuto a portare la pace, ma la spada » » (1). Alcuni dunque prendono partito per la prima e ne vantano il diritto di natura, cioè della natura corrotta: alcuni altri prendono partito per la seconda, e credono che sotto l' ali della grazia si possa riparare dalla perdizione la natura stessa. Ed ecco la ragione delle nostre dispute, della discordanza d' opinione tra la scuola dell' articolista e la nostra. Del resto, chi sarà di noi due il retrivo, chi il progressista? L' avvocato dell' umanità vecchia e fradicia, o l' avvocato dell' umanità nuova, rinnovellata da Gesù Cristo? A quale apparterrà il vero progresso? L' albero dell' umanità vecchia fu già sviluppato a pieno senza contrasto pel corso di quattro mila anni, prima che discendesse dal Cielo il padrone del campo colla scure nelle mani, quando le foglie e le frutta di quell' albero aveano ammorbata tutta la terra. Ora non è oggimai più quella stagione, ma il tempo è venuto in cui si dee sviluppare l' albero nuovo, il quale non invecchia giammai, e non inverminirà come l' antico. Alla coltura di questa pianta gloriosa sono chiamati tutti quelli che vogliono fare il bene: tutte le nazioni della terra si ricovreranno sotto la sua ombra, e vivranno de' suoi frutti di vita. Alcuni pochi riguardano indietro alla pianta antica, e sperano di farne rinverdire le secche radici: vana ed insensata speranza! L' articolista chiama il suo sensato lettore a stupirsi insieme con lui del dare che noi facciamo alla Chiesa Cattolica il diritto all' insegnamento « « non già solo per la religione, sono sue parole, ma eziandio per la morale che è pure la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri » ». Di maniera che pare che egli sarebbe disposto di concedere alla religione la scienza d' alcuni doveri, e d' alcuni diritti, ma accordarle la scienza di tutti!? Oh, questo merita l' abbominio o le risa del suo sensato lettore! Gesù Cristo dunque si sarà limitato a insegnare a' suoi discepoli un solo bocconcello della morale, e per l' altra parte avrà detto agli uomini: « « Fate quel che volete, che non m' importa che adempiate tutti i vostri doveri, mi basta che ne osserviate alcuni, e ordino alla mia Chiesa d' ammaestrarvi solo a mezzo, e di non correggervi o castigarvi quando non trasgredite quei doveri morali, a cui io mi sono limitato » ». Questa è nuova! Pretendere in fatti che Gesù Cristo si sia contentato d' insegnare una sola parte della morale, e non tutta, è una di quelle foggie d' empietà, che solo ne' nostri tempi si sono udite, nelle quali non si sa decidere se la sciocchezza sia minore o maggiore dell' empietà stessa, e che pure, a quanto pare, si vogliono infiltrare nello spirito dell' insegnamento, e a questo par che tendano gli sforzi di certi antesignani del medesimo. A malgrado però di costoro, Gesù Cristo promise e diede alla sua Chiesa lo spirito di verità, che « « insegna ogni verità » » (1) non l' una o l' altra verità morale, ma ogni verità, tutta la verità . Di più le diede la facoltà di sciogliere e di legare, non limitata a nessun genere speciale di peccati. [...OMISSIS...] Non può esser più chiaro: questo potere dunque si estende a tutta la morale. Che se deve la Chiesa giudicare dell' infrazione delle leggi quant' elle mai possono essere, a lei dunque è commessa « « la scienza di tutti i doveri e di tutti i diritti » », e non già d' una parte. [...OMISSIS...] Infatti la morale è una cosa indivisibile, o tutta, o nulla. La compiutezza è il carattere che distingue la vera morale dalla falsa, la pretesa morale del mondo dalla morale di Gesù Cristo. Gli uomini del mondo pretendono di avere il titolo di uomini morali a buon mercato, e perciò si fabbricano delle morali, che contengono soltanto alcuni doveri, e quando osservano questi, allora, alzando la testa vi dicono: « Noi siamo uomini morali, uomini probi, uomini onesti ». E` ben naturale, che costoro vogliono essere maestri di morale: guai ad essi se dovessero essere giudicati con un' altra morale non fatta apposta da essi medesimi! E per maggior comodità essi non hanno una sola morale, ma ne hanno molte, ciascuna delle quali si ritiene qualche brandello della morale intera, ma unito insieme con altre cosarelle, che non sono morali. Qual meraviglia dunque che poi dicano superbamente alla Chiesa Cattolica: « E che? Voi pretendete d' essere la sola maestra della morale? Voi che avete un' unica morale, quando noi ne abbiamo molte? Voi che non conoscete tanti e tanti di quei diritti e di quei doveri che noi soli abbiamo inventato e inventiamo ogni giorno, in virtù di quella libertà di pensare, che produce frutti sempre nuovi di libertà d' oprare! Certi doveri della vostra morale gli abbiamo cancellati, e però non sono più doveri. Siamo dunque anche noi maestri di morale. E però è conseguente che ci sieno di quelli che si adirino all' intendere che nessuno abbia il diritto d' insegnare una dottrina morale contraria alla morale della Chiesa Cattolica. Il combattimento non è più tra l' articolista e noi, ma tra le morali fatte a brani, e la morale intera: tra lo spirito d' una morale cenciosa, qual è la mondana, e lo spirito della morale regalmente vestita di Gesù Cristo. Tutti questi principii, di cui si fa banditore il nostro articolista, principii quanto perniciosi, altrettanto privi di coerenza e di scientifico valore, sono un regalo, che ora, nella sua età decrepita e semimorta, fa il protestantismo alla povera Italia, che raccoglie le ciarpe vecchie come roba nuovissima, e pur troppo è nel Piemonte ch' egli fonda le sue vane ed illusorie speranze (1). Se la povera Italia sapesse fare la debita stima de' suoi grandi uomini ascoltandoli, non si lascierebbe a tali ciance ingannare, e non più leggiera e scema, ma seria e signora diverrebbe. Già il protestante Sismondi esprimeva il pensiero, che il nostro articolista ora ricopia, cioè che la morale sia una scienza, di cui tutti possono fare i maestri, e non la sola Chiesa Cattolica. [...OMISSIS...] Ma già da più anni questo autore protestante ha trovato in Italia un uomo che gli rispose con evidenza di ragione, e questi fu un laico, che lo stesso articolista nomina bensì con onore, ma di cui non segue i principii, uno di quei laici che si gloriano d' essere i discepoli della Chiesa Cattolica e perciò ne sanno tanto più de' maestri del mondo. L' articolista infatti asserisce che « « Se un Manzoni avesse voluto insegnare un po' di religione e di morale, secondo noi, sarebbe stato violatore del diritto della Chiesa » » (2). Perciò noi rimanderemo l' articolista a leggere Alessandro Manzoni ed è negli scritti di Alessandro Manzoni che egli troverà quello stesso, che ora, detto da noi, gli fa tanto afa. E` Alessandro Manzoni quegli che gl' insegnerà, come nessun laico possieda l' autorità, e anzi non abbia neppure la possibilità di fare il maestro in opera di morale, indipendentemente dalla Chiesa, non essendoci, nè potendoci essere un' altra morale, nè una completa morale fuori di quella che con autorità sua propria insegna la medesima Chiesa di Cristo. Poichè Alessandro Manzoni è appunto quel laico che, rispondendo al protestantismo, il quale, per organo de' suoi scrittori, censura la Chiesa per essersi insignorita della morale, scrive: [...OMISSIS...] . E con somma nettezza questo grand' uomo espose lo stato della questione su questo punto, che s' agita tra i protestanti e i razionalisti da una parte, e i cattolici dall' altra scrivendo così: [...OMISSIS...] . Voi signor articolista, che difendete, a favore d' Alessandro Manzoni, il diritto d' insegnare la morale, indipendentemente dal magistero della Chiesa, considerate bene tutte queste parole, che sono sue, e vedete che cosa egli stesso vi risponda: vedete a quali condizioni egli conceda ai preti e ai semplici fedeli la facoltà d' insegnare la morale. Concede ai preti d' insegnarla con autorità condizionata e sottomessa , quando n' abbiano avuto dalla Chiesa l' incarico ossia la missione, che è quello che abbiamo detto noi, e per cui menate scalpore: concede ai laici d' insegnarla senza autorità, quando abbiano l' intenzione sincera di non dipartirsi dall' insegnamenti della Chiesa , che è l' altro punto della nostra tesi, che vi eccitò lo sdegno. Che mai vi giova dunque l' aver profanato il nome, col citarlo sì fuor di proposito, di quell' Alessandro Manzoni, che così patentemente vi condanna? Avvertite ancora, che quella morale, di cui Alessandro Manzoni, con tutti gli altri cattolici, attribuisce il magisterio alla sola Chiesa, scrivendo contro i protestanti, è appunto quella che voi definite « « la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri » », immaginandovi forse che per esser ella la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri, per questo tutti gli uomini dovessero avere il diritto e la facoltà d' insegnarla. Anzi da questo appunto dovevate inferire il contrario: e sotto questo aspetto d' una scienza completa e totale, di tutti i diritti e di tutti i doveri, prova Alessandro Manzoni ch' essa non può appartenere in proprio, se non alla sola Chiesa Cattolica. Poichè una verità o l' altra di morale non è la morale; e se è una verità, è già nella morale della Chiesa Cattolica contenuta, come il meno nel più. Il che con quanta profondità ed evidenza di ragioni, con quanta nobiltà di sentimenti non prova ampiamente il grand' uomo! Duolmi di non potere qui trascrivere tutto intero il terzo capitolo delle « Osservazioni sulla morale cattolica » (1), e di vedermi incapace a scegliere tra tante bellezze, ciascuna delle quali pare che meriterebbe la preferenza. Quivi, ognuno che voglia ricorrervi, troverà a pien dimostrato, che la così detta morale filosofica, supponendola anche priva d' errori, altro non è che una porzione della morale della Chiesa Cattolica, e, come egli la definisce, « « la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata d' alcune verità morali » », quando la morale di cui ha il magistero la Chiesa, è « « la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l' ordine intero » »; quivi rinverrà messa a nudo, con sommo acume e vastità di vedute l' imperfezione, l' insufficienza, l' incertezza, l' impotenza della morale naturale. E con quanto nerbo poi non accenna egli le contraddizioni e gli errori, e fino i destini dei diversi sistemi di morale umana, opera di quegli uomini che hanno voluto farsene maestri indipendentemente dalla Chiesa, o di quelli che non poterono giovarsi del beneficio della Chiesa per essere vivuti in tempi, ne' quali non era ancora stata fondata la Chiesa. Che per riguardo alle altre dottrine, nelle quali ci manca la scienza perfetta, si riconosca in tutti il diritto di andarne in cerca, acciocchè trovandone tutti un qualche granello concorrano ad aumentare quanto se ne possiede, questo s' intende, specialmente che gli errori, nelle scienze profane, non sono così perniciosi. Ma che, possedendosi già per un dono speciale di Dio compiuta e perfetta, ed anzi elevata ad una dignità soprannaturale, quella scienza morale, che è all' uomo assolutamente necessaria e nella quale l' errare è un perdersi, si voglia nondimeno riconoscere un diritto d' inventarne e insegnarne un' altra, la quale non potrebbe essere, se non erronea, quando non sia nella prima compresa, questo non saprei come chiamarlo se non una stoltezza. Conchiudiamo con le parole del Manzoni citato dal nostro articolista. [...OMISSIS...] I diritti della Chiesa Cattolica, tra quali quello dell' insegnamento, sono assoluti, perchè dati da Gesù Cristo, da una potestà cioè che è superiore ad ogni altra. Tutte le potestà della terra hanno dunque un assoluto dovere di rispettarli. In questi Stati poi, ne' quali la costituzione politica dichiara che « « la Religione Cattolica è la sola Religione dello Stato » », il Governo, anche in virtù della legge fondamentale, per la quale esiste, e da cui ripete l' autorità, deve riconoscere l' esistenza dei diritti della Chiesa Cattolica in tutta la sua estensione. Se infatti riconoscendo una parte di essi, ne disconosce e nega un' altra parte, cade in contraddizione con se stesso e in aperta lotta colla costituzione dello Stato. E qui non si dà una via di mezzo: o conviene riconoscere la Chiesa e la Religione Cattolica tutta intera, quale la ha istituita Gesù Cristo, o facendovi qualche eccezione, la si offende e nega tutta, perchè si nega l' assoluta autorità divina di Gesù Cristo. Sotto l' assolutismo si è inventato, dagli adulatori del potere, un gius canonico bastardo, il quale non mirava ad altro che a contraffare e corrompere il gius canonico vero, coll' intento di trasportare una parte dell' autorità della Chiesa nel Governo civile. La Chiesa, che piena di moderazione, cede molte volte nel fatto per evitare mali maggiori alle anime de' fedeli, non può rinunziare in massima alcuna parte de' suoi diritti divini: quest' è l' origine della vera lotta tra il potere civile e l' ecclesiastico, poichè ogni altra lotta fuori di questa non è una lotta seria, può essere un dissidio, un disparere momentaneo, ma non una lotta. Nessuna infatti delle grandi lotte tra la Chiesa e lo Stato ebbe mai altra cagione: da una parte l' usurpatore, dall' altra il difensore dei diritti usurpati. La lotta si combatteva tra la forza fisica dello Stato e la forza morale della Chiesa. La Chiesa contrapponeva armi spirituali, le quali certamente aveano e doveano avere virtù di muovere delle forze fisiche, come lo spirito muove la materia: l' assolutismo combatteva colla forza bruta e coll' astuzia. In ognuna di queste grandi lotte la Chiesa parve sempre perdente, perchè la violenza produce un pronto e doloroso effetto sopra il debole e l' inerme, ma infine del conto la Chiesa lacerata trionfò sempre in questo senso, ch' ella non cedette mai nella massima per questi diciotto secoli alcuno dei suoi diritti; e ciò per la semplice ragione che non può cederli senza distruggersi, e non può distruggersi perchè Gesù Cristo le ha promesso una eterna esistenza. Ma la forza bruta che crede di poter tutto, si sdegna tanto più ed entra in terribili convulsioni vedendo di non poter mai vincere l' inerme. Questo stato di cose, questa irritazione crescente co' secoli è l' eredità che l' assolutismo lasciò al costituzionalismo de' nostri tempi; l' eredità che questo incautamente raccolse senza il beneficio dell' inventario ed aggravò di nuovi debiti. Non può dunque eccitare meraviglia quell' astio profondo, quel livore che imprudentemente manifestano contro la Chiesa Cattolica e i suoi diritti alcuni falsi costituzionali, poichè sono i successori legittimi degli assolutisti, salvo che l' assolutismo precedente riteneva ancora certe forme di buona creanza, quando l' assolutismo de' falsi liberali è ineducato e villano. Mentre lo spirito d' una savia Costituzione dovrebbe condurre a una moderazione e conciliazione delle opinioni di tutti i cittadini, e degli opposti partiti, costoro l' applicano a inacerbire e a tormentare le piaghe antiche e sanguinose, e aprire così il varco a nuove discordie. Ne' due articoli precedenti abbiamo indicato un esempio parlante di ciò che diciamo: noi abbiamo difeso la libertà de' dotti, de' padri di famiglia, de' benefattori: noi abbiamo riservati i diritti della Chiesa, e la libertà che deve avere nell' esercitarli. L' articolista, a cui abbiamo in essi risposto, dopo aver falsificati i nostri concetti, continuando a falsificarli dice, che tutta questa libertà, che noi concediamo alle nominate persone giuridiche, è nulla, e ci colloca tra « « coloro che una cosa sola al mondo ritengono per funesta e maledetta, l' umana libertà » » (1). E questo perchè? Per l' unica ragione che vogliamo anche conservato il diritto che la Chiesa Cattolica ha ricevuto da Gesù Cristo all' insegnamento. Il difendere questo diritto della Chiesa è lo stesso che ritenere per funesta e maledetta l' umana libertà. Eccovi uno di quelli che ripongono l' umana libertà tutta quant' è nel distruggere i diritti della Chiesa Cattolica. Quelli che insorgono contro questi diritti, ecco gli amici dell' umana libertà. Tutto il resto è indifferente. Pur troppo questo strano principio, che non è un principio, ma un impeto di stolta passione, è quello che giace nel fondo di tante discussioni giornalistiche, che muove tante penne e tante lingue. Questo è il maggior pericolo a cui possa soggiacere la Costituzione d' uno Stato: qualunque Governo eccitato, premuto, spinto da tali oratori a commettere sempre nuovi atti di dispotismo e d' ostilità contro la Chiesa, qualora non sappia, innalzandosi al disopra di essi col suo pensiero, opporre una invincibile fermezza, altro non farebbe che preparare indubitatamente la rovina dello Stato e di quella forma di Costituzione che è incaricato di conservare. Gli adulatori gli fanno credere, come l' hanno fatto sempre credere ai Governi assoluti che hanno tolto a lottare colla Chiesa, che le sue forze sieno maggiori di quel che sono, e perciò egli si avventura temerariamente in quelle lotte, dalle quali i popoli escono spossati e corrotti, e i Governi screditati e odiati. La rovina non è certamente immediata, sopravverrà per cagioni o interne od esterne che sembreranno accidentali; ma ella non può fallire quando il tempo e l' ora sia suonata. Il citato articolista asserisce che l' idea cardinale della nostra teoria si riduce a volere che lo Stato dia guarentigia alla Chiesa nel punto dell' insegnamento, e non la Chiesa allo Stato (1). Benchè non sia questo il nostro concetto, tuttavia potremo rispondergli, che le guarentigie deve darle il forte al debole, e che è ridicolo pretendere che il debole debba dare guarentigie al forte. Sarebbe come se il leone domandasse guarentigia all' agnello. Le guarentigie dunque lo Stato le ha già, e le deve avere nella sua forza, ed è contro questa forza che tutti i cittadini, e per sè e per la loro religione, dimandano guarentigie, è contro questa forza che si domandano le Costituzioni, acciocchè non rimanga disordinata questa forza, e quasi come un astro uscito dalla sua orbita non perturbi l' ordine della giustizia. Le guarentigie dunque che si domandano non sono fisiche, ma morali, le quali devono temperare e regolare il potere fisico del Governo. E se egli riconosce pienamente e sinceramente i diritti della Chiesa, questa è una guarentigia morale non solo data alla Chiesa, ma data a tutti i cittadini e ai loro diritti, data allo Stato medesimo, e dirò di più, è una guarentigia che il Governo dà a se medesimo. Poichè se il Governo è saggio temerà assai più se stesso che non la Chiesa inerme, la quale gli oppone una forza morale a maggior utilità e a maggior dignità di lui medesimo, che la Chiesa non vuole già il decadimento dello Stato, ma ne vuole la perfezione. Ed oltre di ciò quant' altre guarentigie morali non dà la Chiesa in virtù della sua propria costituzione al Governo civile in questa materia dell' insegnamento? Il suo insegnamento non è ignoto, non incerto, non vacillante, non è una dottrina, di cui si vada in cerca, che si inventi alla giornata, che si muti come le opinioni degli uomini, incominciando dai cagnotti dei Governi fino ai più serii filosofi. Ella è una dottrina che si conosce e si sperimenta pel corso di dicianove secoli, che si è predicata e si predica dall' alto dei tetti a tutte le nazioni del mondo: che sta scritta in migliaia di libri a tutti aperti, che niun Governo può ignorare, che niun privato può accrescere, o diminuire, o alterare, senz' essere condannato dalla Chiesa medesima: è una dottrina che ha salvata la società umana quando si discioglieva, che ha incivilito il mondo, che ha ricostruito ella stessa colle sue mani e perfezionato quei Governi che ora inorgogliti la disprezzano e la conculcano. Contro questa dottrina si osa ora dai saputelli di certi giornali, organi d' un liberalismo servile, domandare guarentigie a favore dei Governi, quasi che non fosse ella stessa questa dottrina insegnata da Dio medesimo la più ferma e la più splendida guarentigia non solo data ai Governi, ma al genere umano, se pur si deve chiamare una guarentigia quella verità e santità di dottrina che è la stessa salute. E da chi si può domandar guarentigie contro questa dottrina, o a favore di qual altra dottrina? Da quelli certamente che fanno consistere tutta la libertà umana nel potere liberamente imbestialire contro la dottrina salutare del Redentore, e chiamano inimici della libertà umana quelli che la diffondono. A favore dunque e a nome dell' errore e della morte si domandano guarentigie contro la verità e la vita. Come se altri domandasse delle guarentigie alla sanità a nome e a favore del colèra. Può forse il Governo civile dare alla Chiesa per riguardo al pubblico insegnamento una guarentigia simile a quella che la Chiesa offre a lui nella sua stessa dottrina? Qual è dunque la dottrina del Governo civile? Niuno lo sa: niuno sa qual dottrina egli farà insegnare: non esiste un corpo di dottrina che possa dirsi: « Questa è la dottrina del Governo ». E se niuno ancora sa o può sapere qual dottrina il Governo civile farà insegnare oggi; si saprà forse qual dottrina farà insegnare domani? Lo stesso Governo è il primo ad ignorarlo. Mutabile come è il Governo, egli non può avere, neppure se lo volesse, una dottrina stabile e consistente sulla quale si possa far conto. Il Governo può designare le scienze in generale col loro nome, può dire: « Queste e queste scienze s' insegneranno », ma non può mica determinare con precisione quali dottrine, quali opinioni, quai sistemi s' insegnino in ciascuna scienza: tutto è mutabile, dipende dai professori, dalle circostanze, dai tempi, dai partiti stessi, che nei Governi casualmente, e temporaneamente prevalgono. Non sarà dunque cosa ragionevole e desiderabile che il Governo, che per sua natura non ha dottrina definita, e la dee prendere alla giornata, dia alla Chiesa Cattolica (se pur non è il suo nemico) una qualche guarentigia almeno col riconoscere pienamente il sacrosanto diritto del libero insegnamento, che essa ha ricevuto da Gesù Cristo? Ma il nostro articolista ha egli neppure la facoltà di parlarci di guarentigie reciproche della Chiesa e dello Stato? Egli, che fa consistere la rovina di tutta la libertà umana nella difesa che noi facciamo del diritto che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento; e la conservazione della libertà umana, per lo contrario, nel poter straziare e distruggere i diritti divini di questa Chiesa; come potrà senza contraddirsi proporre che la Chiesa e lo Stato si guarentiscano reciprocamente i propri diritti? Dove se ne andrebbe allora la sua libertà umana, secondo il suo concetto? Ma si lasci per un poco da parte la Chiesa. Il sistema costituzionale riposa tutto su quest' unico principio generale, che « il potere nelle mani di chi lo tiene, potendosi convertire ugualmente a vantaggio e a danno de' cittadini, è necessario che questi abbiano delle guarentigie contro l' abuso ». Dall' intima natura dunque di questo sistema di governo nasce la necessità delle guarentigie da prestarsi dal potere alla nazione. Ora le nazioni cattoliche considerano la sanità della dottrina religiosa e morale come la più preziosa delle loro ricchezze, e la causa principale della loro civiltà e del loro progresso. Ma in qual maniera potrà il potere dare qualche guarentigia su questo punto, il più importante di tutti, a un popolo cattolico? Dirà egli forse semplicemente: « Fidatevi di me? »Sarebbe lo stesso che ricusarsi di dargli guarentigia alcuna, lo stesso che rinnegare il sistema costituzionale, e rimettersi di colpo nel sistema dell' assolutismo. Un popolo cattolico dirà ancora ad un tale governo: « E chi siete voi, che io mi debba fidare di voi? siete un' idea astratta, di cui non so che farne, siete un gruppo di persone, rimutabile di giorno in giorno, che non possono pensar tutte al medesimo modo. E qualunque possiate essere, ditemi prima di tutto se voi siete il giudice e il maestro della dottrina dommatica e morale. O mi rispondete di sì, e in tal caso voi non professate la religione cattolica, che insegna, come suo domma, non appartenere ai Governi civili il giudizio e il magistero della fede cattolica. Pretendete dunque di essere giudice e maestro d' una dottrina religiosa che non professate e non conoscete. E volete che io, nazione cattolica, mi fidi di voi? Ovvero confesserete di non essere giudice e maestro della cattolica dottrina. In questo caso, se voi, o Governo, non siete giudice e maestro, dovete dunque subire il giudizio di quella potestà, che ha ricevuto la giurisdizione religiosa da Gesù Cristo, e comportarvi come suddito e da discepolo della medesima. Per altro nessun Governo di popoli cristiani osò mai di asserire d' essere il giudice e il maestro della cristiana religione, conscio che se lo dicesse non sarebbe creduto, e si renderebbe ridicolo in faccia ai popoli: non osa dirlo neppure lo Czar della Russia, neppure la Regina o il Parlamento d' Inghilterra. I Governi usurparono bensì di fatto non rare volte quest' ufficio di giudice in cose dommatiche: promulgarono anche in tali materie placiti e sentenze, fecero insegnare dottrine anticattoliche: pure niun di essi osò mai dichiarare apertamente d' averne la potestà, la quale supporrebbe nientemeno che l' infallibilità. Operano dunque cotesti Governi contro la propria coscienza; sanno nel fondo del loro cuore d' essere usurpatori d' una potestà che loro non ispetta; ma hanno la forza in mano e la forza bruta è superba; la forza bruta non intende ragione e fa quello che le attalenta. Ecco la necessità delle guarentigie. E` dunque ragionevole, che il popolo cattolico ne domandi al potere civile in tanto pericolo. Ma quali possono essere queste guarentigie? Per quanto si cerchi, non se ne trova alcun' altra, se non che il Governo « riconosca, lasci libero, protegga il diritto, che ha la Chiesa Cattolica, come maestra e giudice della dottrina dommatica e morale dell' insegnamento ». Questa guarentigia non è dunque data solamente alla Chiesa, ma è data ai popoli, ed è una conseguenza legittima e necessaria del sistema costituzionale che tutto si fonda sul principio generale delle guarentigie. Certamente col primo articolo dello Statuto Sardo si voleva dare al popolo piemontese la guarentigia, di cui parliamo. Ma in tutti quelli organismi politici, ne' quali non si trova nessun' autorità indipendente incaricata di conservare la Costituzione e di interpretarla, un articolo così breve e sugoso rimarrebbe una guarentigia illusoria e cartacea, qualora la disposizione che contiene non venisse trasfusa e applicata nelle altre leggi dello Stato, e che la rendano viva ed efficace nella pratica. Per riguardo dunque all' insegnamento, a quale condizione si potrà dire, che il popolo abbia dal Governo una vera guarentigia, che sarà insegnata nelle pubbliche scuole una dottrina sana e veramente cattolica? Non basta certo a mettere in atto questa guarentigia, che il Governo dica semplicemente: « La dottrina, che io fo insegnare, è perfettamente cattolica »; ma conviene che egli soffra che sia giudicata per tale dal giudice competente e dal legittimo maestro della medesima: in una parola, è necessario che nelle sue leggi e nelle sue ordinanze riconosca esplicitamente il giudice e il maestro costituito da Gesù Cristo entro la sfera della religione da lui fondata. Ma quand' è che un Governo civile riconoscerà veramente questo giudice e questo maestro? Solamente allora che egli riconosce l' ordine gerarchico della potestà istituita da Gesù Cristo nella sua Chiesa; quell' ordine gerarchico, che la « Rivista delle Università e dei Collegi » con parola insolente e con ispirito protestantico chiama « teocrazia gerarchica » (1). Non è un riconoscerlo l' ammettere la massima generale, e poi declinare dalle conseguenze. Non basta dire in astratto, che c' è un tribunale e un magistero istituito da Gesù Cristo; bisogna di più confessare, ch' esso risiede nell' Episcopato, del quale è capo il Sommo Pontefice. Se questo lealmente si confessa, se a questa confessione sono coerenti le leggi riguardanti l' insegnamento, quali conseguenze se ne avranno? Certamente le seguenti. Si riconoscerà l' Episcopato come il Corpo insegnante dello Stato in opera di religione: non solo il Corpo insegnante ufficiale e legale, ma oltre di ciò anche un Corpo insegnante indipendente, poichè queste due qualità non si contraddicono. Ogni insegnamento riguardante il domma e la morale cattolica discenderà come da sua legittima fonte da questo gran corpo, e a questo gran corpo ritornerà ogni insegnamento in questa materia per via della debita subordinazione. Il Governo non farà che mettersi a lato di questo Corpo augusto, come un protettore e come il rappresentante legittimo del Corpo dei fedeli, che al fianco de' suoi pastori gli aiuta in ogni maniera, affinchè possano meglio adempire il divino, benefico e paterno loro ministero. Si riconoscerà in questo Corpo insegnante il diritto di visitare liberamente le scuole ufficiali, per conoscere le dottrine che vi s' insegnano, e trovatene di quelle che divergono dalla dottrina cattolica, di riferirne al Governo stesso, acciocchè sia tolto un sì grave inconveniente, nasca egli da libri che si adoperano nelle scuole, o dalle lezioni vocali di maestri o irreligiosi, o troppo imperiti in opera di religione. Il Governo civile d' una nazione, nella quale la religione cattolica è l' unica religione dello Stato, è obbligato a far questo lealmente; e a fare che le leggi, i decreti, le circolari, i provvedimenti d' ogni sorta siano in perfetta armonia con questi principii. Il Governo d' una nazione, nella quale non ci fosse una religione dello Stato, ma diversi o tutti i culti fossero ammessi ugualmente, sarebbe ancora obbligato a fare altrettanto relativamente alle comunità dei cattolici. Un Governo leale , che adempisse con onoratezza questi suoi doveri, torrebbe di mezzo qualunque discordia tra lo Stato e la Chiesa su questo punto dell' insegnamento; l' Episcopato, il resto del Clero, i fedeli si troverebbero indissolubilmente uniti col Governo; la forza morale della Chiesa diverrebbe una alleata utilissima al consolidamento delle libere istituzioni consacrate dalla religione. Ma tra le tenebre viene l' uomo inimico, e soprasemina la zizzania. Il genio del male favella parole ingannevoli negli orecchi di quelli che siedono al timone degli Stati. Egli dice loro: « Guardatevi dal clero, perchè il clero è un partito politico ». Quando dice questo, il genio del male mente al suo solito. Il clero non è un partito politico; ma egli ne prende le apparenze, tostochè il Governo gli niega i suoi essenziali diritti. Uomini di Stato, se voi trattate il clero gelosamente come se fosse un partito politico, lo rendete tale voi stessi (1). Se all' incontro voi lo trattate lealmente , come clero, qual è per la sua situazione, non mostrate di averlo in conto di un partito, il clero sarà sempre clero, e non mai un partito: non sarà altro che quell' istituzione religiosa che ha fatto Gesù Cristo; istituzione aliena dalla politica fin che questa si limita ai negozi temporali e suoi proprii, è tuttavia istituzione che renderà ai Governi indirettamente de' continui e inapprezzabili vantaggi; poichè il clero col suo proprio santo ministero ammollisce e toglie l' asprezza di tutti i conflitti, concilia rispetto alle leggi, cementa gli animi de' cittadini, e, unendo questi, fortifica la nazione, e aggiunge così una secreta consistenza e stabilità ai Governi senza mostrarlo pure in apparenza. Dice loro ancora: « Se voi riconoscete lealmente i diritti del clero cattolico, e lo proteggete nell' esercizio dei medesimi, il clero diverrà potente e vi leverà di mano le redini ». Il genio del male mente di nuovo, per gettare la discordia e la divisione tra il potere civile ed il clero, ispirando a quello una vana gelosia di questo. Questa paura del Governo da una parte è una viltà, è un' inconsapevolezza delle proprie forze: dall' altra non nasce, se non in quei Governi che covano de' progetti sinistri alla religione ed alla morale. Questi temono che la Chiesa e il clero colla sua influenza ne impediscano loro l' esecuzione. I Governi, all' incontro, leali, che altro non bramano che il bene, che hanno per norma delle loro azioni de' principii di morale, di giustizia e di religione, e che non intendono di sacrificare questi sommi beni dell' umanità agl' interessi temporali mal calcolati (perchè l' utilitarismo calcola sempre male); questi Governi vedono di buon occhio l' influenza che esercita il clero sui fedeli entro la sfera della religione e della morale, e la considerano come vantaggiosissima: non pensano neppure alla possibilità ch' essa possa venire in collisione coll' autorità del Governo, perchè il Governo non vuole offendere la Chiesa, ma proteggerla, non vuol pubblicare delle leggi empie e contrarie ai suoi dommi, o alla sua morale, ma savie e religiose; non vuole impedire l' Episcopato nell' esercizio del suo sacro ministero, e così non gli viene l' occasione di vessarlo, di perseguitarlo e sbandeggiarlo; non vuole spogliare la Chiesa de' suoi beni temporali, ma lasciare a ciascuno il suo; insomma non è mosso da alcuno spirito ostile, tendente a sovvertire la pubblica morale, a promuovere l' opinione antireligiosa, e ad abolire ne' popoli quel sentimento di rispetto verso le cose sacre, senza il quale lo stesso ordine pubblico si sovverte, e a conservarlo è poi uopo accampare una forza fisica spaventevole, d' infinito aggravio ad una nazione, armando la metà de' cittadini contro l' altra metà. La Chiesa adunque e il clero, per la stessa natura dell' istituzione, si trovano in un perfetto accordo co' buoni Governi: per la stessa cagione i cattivi Governi considerano l' una e l' altro come loro nemici, e par loro di fare altrettante prodezze quante volte possono cagionarle qualche molestia o qualche danno. Degli scrittori ostili alla Chiesa, specialmente storici, come il Giannone, il Botta, il Colletta ed altri tali, hanno celebrato colle lodi più esagerate alcuni principi e ministri, che hanno rotto molte lancie contro la Chiesa, e così hanno contribuito non poco a diffondere il pregiudizio che in queste braverie consista la gloria del regnare. La vanità di altri principi e quella di altri ministri si è gonfiata, sperando di poter ottenere a buon mercato di simili elogi, non già colla prudenza governativa o col valor militare, ma con fare i prepotenti a man salva contro persone inermi, e quindi lo spirito irreligioso ed antiecclesiastico passò per una eccellente massima di governo. L' infamia duratura aspetta questi miserabili amici d' una gloria passaggiera. Ma il genio del male bisbiglia ancora una parola più seducente negli orecchi de' governanti: « Temete, dice loro, il potere della Santa Sede, e per velare il vostro astio, con un' accorta parola chiamatela una Corte straniera , la cui influenza è nocevole all' indipendenza dello Stato ». Niente di meglio che l' indipendenza dello Stato; qual buon cittadino vorrebbe sacrificarla? o chi v' ha mai detto di sottomettere il vostro Stato a quello di Roma? La Chiesa non vi comanda questo; piuttosto vi fa ella stessa un dovere di conservare l' indipendenza dello Stato, che v' è affidato da governare, da qualunque altro Stato temporale. Ma avvi buona fede in voi, quando fate le viste di confondere due cose, che voi stesso sapete che sono distinte ed immensamente separate l' una dall' altra? E chi è che non sappia, che altro è lo Stato temporale di Roma, e altro la Santa Sede Apostolica? Se dunque avete da fare, a ragion d' esempio, un trattato di commercio collo Stato Romano, cercate pure senza riguardo i vostri interessi, come fareste con qualunque altro Stato temporale, e farete benissimo a farlo. Ma quando si tratta della Santa Sede, del Papa, come Papa, egli è il supremo di tutti i cristiani cattolici, e siete perciò obbligati a riconoscerlo per tale, se pur non siete protestanti, o se non volete che i cattolici siano protestanti, il che sarebbe una contraddizione. Non potete mica dire, che il Papa come Papa sia un principe straniero, perchè Papa non vuol dire principe temporale, ma vuol dire Vicario di Gesù Cristo su tutta la terra. Onde il Papa, che vive su questo globo, è sempre nel suo Stato. Trattasi d' uno Stato spirituale e non d' uno Stato temporale: la sua autorità limita bensì il vostro potere: ma solo nelle cose religiose e morali. Dirò meglio, essa non limita il vostro potere, ma limita salutarmente il vostro arbitrio, poichè nessun Governo può avere in nessun caso autorità sulla fede religiosa, e se egli ci vuol mettere la mano, fa un atto di arbitrio e non d' autorità; la sola superbia è quella che non soffre siano messi limiti a' suoi arbitrii. Quando dunque il Papa vi dice sull' autorità ricevuta da Gesù Cristo: « Questa cosa è illecita secondo la legge di Gesù Cristo »; allora voi non potete più dire ad una nazione cattolica, che ella sia una cosa lecita, perchè ha parlato il giudice competente, e non dovete vessare i cittadini costringendoli a credere piuttosto a voi, che al Papa loro unico superiore: non esiste nessuna potestà, nè legislativa, nè ministeriale nello Stato, che possa far questo. In tal modo si fa chiaro, che non è possibile alcuna seria collisione colla Santa Sede, se i Governi sono leali, e non confondono a bella posta le idee. La scusa dunque di non voler dipendere da un principe straniero svanisce da se stessa, si svela da sè come un miserabile sofisma, con cui i falsi politici vogliono ingannare e confondere l' opinione popolare. Per riassumere dunque in poche parole quello che dicevamo, il segno sicuro, al quale si può conoscere, se un Governo civile dice la verità quando afferma di voler conservato il cattolicismo, e quando dice di più, di considerare la religione cattolica come religione dello Stato, si riduce a vedere, se egli rispetti e riconosca nel fatto la gerarchia della Chiesa Cattolica, quale l' ha istituita Gesù Cristo. Il Governo che opera in modo da mostrare di non riconoscere questa autorità gerarchica, non è cattolico, ma è protestante. 1 Importanza per la società umana . Che l' uomo semplice e primitivo non ha bisogno della filosofia, bastandogli avere opinioni e sano criterio naturale. Ma sollevandosi, per uno sviluppo spontaneo, alla sfera di riflessioni più elevate: 1 diviene difficile il ragionare e facile l' errore; 2 quindi la seduzione delle passioni, che vogliono essere giustificate, travia l' umana mente. - Fino che la mente è traviata e protettrice de' vizii, l' animo non può guarire. - Allora è necessario applicare, a sanare il malore dell' umanità, il farmaco d' una scienza più alta, esposta con precisione, provata con rigore. - Alternativa d' una corruzione e d' una risanazione, d' una sofistica che tien dietro alla corruzione, e d' una scienza sempre più profonda che fa rinsavire le menti illuse. L' ultima vicenda si fa di quella sofistica che pone in dubbio e nega gli ultimi principii delle cose. Tale è questa del nostro tempo. - Tutto si è negato, tutto posto in dubbio (Descrizione dello stato delle menti del secolo passato, e in parte del presente, ecc.). - A questa malattia non può rimediare che la filosofia, cioè la scienza dei principii, delle ragioni ultime . Questo è quello che poco si conobbe; finora si credette che la filosofia non fosse che speculazione dissociata dalle conseguenze pratiche. - All' incontro tutti i mali dei nostri tempi vengono dalle erronee dottrine filosofiche, cioè da quella sofistica che risponde alla filosofia , come contraria a contraria, ecc.. - Sono da toccare principalmente i mali della Germania e le minacciose conseguenze, ecc.. Quindi altri errori d' alcuni i quali credono che basti una filosofia superficiale, e che non sia necessario entrare ne' visceri delle principali questioni. 2 Importanza per le scienze . S' aggiunge che le scienze tutte hanno una tendenza di costituirsi in forma rigorosa. A questo presta mano la filosofia, la quale se non è formata, e se ad essa si lascia sostituire la sofistica, accade che il veleno sia portato in tutte le scienze, ecc.. 3 Importanza per la religione . La religione stessa ogni dì ne abbisogna (Avversari - Teologi cattolici). Che la religione Cattolica abbisogni oggidì di una sana e potente filosofia si scorge osservando la sua condizione, sì relativamente a' suoi nemici che la odiano, sì relativamente a' fedeli che la venerano ed amano. Rispetto a' suoi nemici basta considerare che tutte le eresie del Settentrione vanno a finire convertendosi nel razionalismo , che è quanto dire in un sistema di filosofia, con cui si combatte la religione positiva. - Di più, tutti gli assalti dati alla religione dagl' increduli nel secolo scorso e che continuano tuttavia, non le si danno con altr' arme che con quelle di una falsa filosofia. - Conviene adunque combattere ad armi pari per giovare a' traviati, i quali non ammettono altri argomenti. Dunque è necessaria una filosofia, ecc.. Che se si volge lo sguardo all' interno della Chiesa, noi vediamo da una parte il popolo, a cui già si propagano ogni dì più i lumi, e le cui facoltà si sviluppano a gran passi: egli domanda quindi dalla religione un nutrimento accomodato a' suoi bisogni; al quale scopo sommamente giova che la filosofia rechi anche nella religione il suo metodo logico, che concateni le verità rivelate in modo che le une colle altre si sostengano reciprocamente e che renda più possente quella facoltà della ragion teologica che conduce il fedele a penetrare sempre più addentro nelle verità religiose. Che se da un' altra parte consideriamo lo stato scientifico della teologia, noi sentiamo un lamento universale a cagione del metodo che ancor manca in una scienza così sublime, e del vestito ancor rozzo in che ella si mostra; il che la rende disamorata, ecc.. - Ora a questo mancamento la sola filosofia può rimediare. - San Tommaso così la ristorò sulla fine del medio evo, ecc.. Introduzione cavata dai sentimenti che debbono nascere in un giovane professore chiamato alla cattedra di filosofia normale. - Difficoltà e gravità dell' incarico. Per vincere queste difficoltà la prima cosa è d' intendere bene quale sia lo scopo che la Sovrana provvidenza si prefigge di ottenere con questa cattedra, quale sia l' ufficio dell' istitutore, quanta la sfera del suo insegnamento, quali le viste che egli deve conseguentemente proporsi. Qui non trattasi d' insegnare la filosofia ai giovanetti, che la prima volta sentono le lezioni di questa scienza. - Differenza fra l' insegnamento elementare , e l' insegnamento normale: difficoltà di quello, difficoltà di questo. Nell' insegnamento elementare trattasi di infondere nelle menti le prime nozioni filosofiche, e nell' insegnamento normale di sviluppare queste nozioni entrando nelle questioni più elevate. - Nell' insegnamento elementare è indispensabile di dare qualche peso all' autorità del precettore, perchè, ecc.; nell' insegnamento normale l' autorità del precettore dee essere del tutto esclusa, altro non dee prevalere che la forza del ragionamento. - Sì, io non posso, non debbo, non voglio pretendere che voi prestiate alcuna fede alla mia parola, dovete voi stessi ragionare meco - noi dobbiamo studiare insieme - conforto ed aiuto che deve venire da ciò. Insomma non trattasi propriamente di ammaestrare, ma di far sì che gli uditori si ammaestrino da se medesimi: non trattasi di insegnare le verità, ma di condurre gli uditori a trovarle queste verità da se stessi - Scorsa sul metodo socratico, col quale sono scritti i libri di Platone - eccellenza ed opportunità di questo metodo pel caso nostro. Conclusione, che l' unica via, per la quale si crede di poter condurre al suo scopo l' insegnamento normale, si è quella di « prendere per argomento del medesimo l' esposizione del metodo filosofico e le sue applicazioni a' diversi sistemi ». Non è che con questo noi vogliamo escludere i sistemi: l' uno di essi deve esser vero: noi vogliamo pervenirci per una via irrecusabile, quella d' una logica rigorosa. - Di più, ognuno dei più celebri sistemi ha qualche cosa di buono, noi non vogliamo ricusarne la parte buona. - Relazione dell' Eclettismo colla via che noi ci proponiamo di seguitare nelle nostre lezioni (sincretismo). Nesso colla lezione precedente; noi resteremo tanto più contenti dell' argomento stabilito, quanto più considereremo l' importanza di un buon metodo di filosofare. Necessità e importanza del metodo, delle definizioni generali di esso. - Il metodo è la via , ecc.. - Il metodo è lo stromento, ecc.. Qui si cominci a fare la storia del Metodo. Il vero metodo indigeno all' Italia. - Carattere dell' ingegno italiano, fatto pel metodo - Galileo. Il carattere dell' ingegno italiano consiste nella chiarezza: l' Italiano, se non vede chiaro, non s' appaga. - Quindi è inclinato e si compiace: 1 del raziocinio matematico , e 2 del raziocinio sperimentale . - Questi furono accoppiati eminentemente in Galileo (Converrebbe ricorrere alle sue opere, e cavarne di que' canoni sì lucidi di pensare che egli sparge da per tutto. Sarebbe bene, per andar breve, che leggesse qualcheduno de' principali elogi fatti al Galileo, per es. quello del Frizi; ovvero almeno prendesse l' operetta che ha per titolo: « Il Galileo proposto per guida alla gioventù studiosa », di Monsignor Colangelo, Napoli). L' ingegno inglese è simile, ma s' innalza meno aperto alla natura spirituale. In Bacone vi ha lo stesso intento che in Galileo, ma Bacone è legato dagl' idoli dell' immaginazione , dai quali è sciolto il Galileo. Oltre di che: 1 non mette le mani nella scienza, onde non è matematico, nè fisico; 2 quindi i suoi precetti hanno spesso del vago , dovendo supplire coll' immaginazione filosofica alla pratica che gli manca. Conviene attingere qualche esempio dalle sue opere, p. es. la sua classificazione degli esperimenti assai mal fatta, e fatta più a tastone che a vista chiara. - Ora il metodo dee sempre cominciare a formarsi coll' esercitare l' ingegno nelle ragioni matematiche e negli esperimenti fisici, perchè in questi esercizi gli errori si trovano, e questi servono a vedere dove si è messo il piede in fallo. Le disposizioni degli scienziati che impedirono di propagarsi il buon metodo furono: 1 La riverenza superstiziosa ad Aristotele . Esempi di opposizioni ch' ebbe da ciò il Galilei si possono vedere nella « Storia del progresso », ecc., del Powel, stampata a Torino [...OMISSIS...] ; 2 La pigrizia degl' ingegni , abituati a tutto decidere per autorità; fomentata specialmente dallo studio delle leggi umane, dell' antichità classica, ecc.; e 3 La confusione fatta tra l' autorità divina ed umana [...OMISSIS...] ; 4 La superbia de' vecchi dotti , che non vogliono imparare da' giovani. Carattere dell' ingegno inglese. - Bacone. Le scienze fisiche debbono tutti i loro progressi al metodo rigoroso introdotto da que' due sommi uomini [...OMISSIS...] . Le scienze filosofiche debbono il loro poco sviluppo e i loro grandi errori al non essersi applicato ad esse lo stesso metodo. - Scorsa sui sistemi più celebrati. Cagioni perchè alle scienze filosofiche non fu applicato il giusto metodo. - Disposizioni degli scienziati. - Qualità delle scienze filosofiche a cui è più difficile applicare il metodo con rigore. - Imperfezione de' metodi stessi. - Critica di Bacone (mancante di alcuni canoni importanti pel metodo filosofico - De Maistre). Tentativi imperfetti per applicare il buon metodo nelle scienze filosofiche. Italiani - Campanella, Ricotti, Venturi (G. B.), Araldi, Caluso, Beccaria, Verri, Filangeri; Inglesi - Reid; Francesi - Jouffroi; Tedeschi - privi al tutto di metodo, benchè potenti d' ingegno, non poterono che inventare de' sistemi mostruosi. - Gioberti, loro seguace, privo di metodo. Conclusione. - Essere nostro intendimento di ristaurare il metodo filosofico in tutta la sua estensione, e di fedelmente e costantemente seguirlo in tutte le investigazioni filosofiche che noi faremo insieme. Noi sappiamo ora a che dobbiamo tendere, miei signori, ad applicare il vero metodo d' investigazione alle ricerche filosofiche: il che noi faremo esponendo le regole del metodo, e poi applicandole alla soluzione de' principali problemi della filosofia. Ma noi non dobbiamo trascurare quelle quistioni accessorie che deve avere in prima discusse e risolte colui, che intende entrare nel filosofico arringo, che vuol filosofare egli stesso, e che vuol insegnare altrui a filosofare, ecc.. Di queste ne si presentano già qui sul principio due importantissime: quella della libertà del pensare , e quella della libertà dell' insegnamento . Della libertà del pensare - com' ella sia assurda intesa volgarmente - com' ella abbia dell' importanza, se, mutandole la forma, si converta in quest' altra: « Quale autorità può aver l' uomo sopra l' altro uomo d' imporgli una qualche dottrina? ». La si scioglie dimostrando: 1 Che l' uomo non ha alcuna autorità d' imporre una dottrina all' altro uomo per sè, ecc.. 2 Che un' autorità infallibile può, ecc.. - Autorità divina - Autorità della Chiesa (1) - Non si dà mai collisione vera tra essa e la Ragione - collisioni apparenti. - E` lo stesso diritto che ha la verità sull' uomo, venga ella da qualunque fonte all' uomo comunicata. - Non impedisce la vera libertà del filosofare. - Vantaggio, che ritrae dall' autorità la libertà filosofica. 3 Sebbene l' autorità umana non abbia diritto assoluto di imporre una dottrina, tuttavia dee muovere l' attenzione, ed inclinare l' animo. - Ragionevolezza di ciò. 4 Vi hanno delle cose su cui tutti gli uomini convengono - Senso comune, Autorità del genere umano infallibile - perchè - Gli uomini convengono nella logica, e quindi nel metodo, benchè poscia nol seguano - Quindi lo sforzarsi di stabilire il buon metodo e di tenerlo costantemente, ecc. non lede la vera libertà del pensare - Mettere gli uomini sulla via della concordia. Della libertà dell' insegnamento - Conseguenze della dottrina applicata alle intenzioni di un savio governo come protettore degli studi. Dee procurare che tutti conoscano la verità filosofica senza ledere la sana libertà del pensare. - Il miglior segno di essere pervenuti alla verità è quello della concordia spontanea delle opinioni. - Questa non si ottiene coll' imporre una dottrina, ma col propagare il metodo per rinvenirla. - L' autorità che dirige gli studi può esigere che si segua un metodo logico, perchè su questo nel loro fondo vi ha consenso universale - Parlando di metodo filosofico non intendiamo la parte tecnica o materiale del metodo delle singole scienze, ma unicamente la parte logica. - Noi entreremo in questa via - così ci solleveremo sopra tutti i sistemi - l' imparzialità - Vantaggio e gloria che trarrà di ciò il Piemonte, ma quando dico Piemonte non intendo dividerlo dall' Italia. No, l' Italia non è che una sola famiglia, ecc.. - L' italia, patria del vero metodo, chiamata a stabilirlo e mantenerlo nella Filosofia com' ha fatto nelle scienze naturali. - Primato in questo degli Italiani, ecc.. Noi abbiamo veduto l' importanza, la necessità del metodo filosofico: or non conviene che ce la esageriamo. - Una verità esagerata è un errore. - Una delle regole principali che dee dirigere il filosofo, è la moderazione. - La moderazione risulta dal complesso, dalla totalità delle vedute. Sacrificano ad un' idea sola tutte le altre quelli che riducono al metodo tutta la filosofia. - Cousin; passi. - Assurdità di questo sistema (Una via senza un termine a cui conduca, un mezzo senza un fine, un istrumento, ecc.). Origine di questo errore. - Si vide che l' oggetto della filosofia non sono le cose fisiche (percettive), ma, oltre le cose fisiche, nella condizione presente, l' uomo non apprende che le idee, le quali contengono le ragioni delle stesse. Quindi l' inclinazione di restringere la filosofia alle idee. Ora lo studio delle idee non può condurci ad altro che a trovare l' ordine, ossia il concatenamento che hanno fra esse. Ora il concatenamento delle idee è appunto ciò che presenta il metodo di andare dall' una all' altra. Quindi si conchiude che tutto l' oggetto della Filosofia è il metodo. Questo è propriamente il razionalismo filosofico . - Se si penetra nel suo fondo ci si trova la mancanza di fede, dico d' una fede filosofica nella realità di un Dio. Quindi si vuol fare un Dio7idea - Gioberti - Hegel [...OMISSIS...] (1). Affine a questo sistema, ma meno funesta, e in parte vera, è la definizione della logica che alcuni danno, volendo « ch' ella non sia già l' arte che insegna a trovare o dimostrare il vero, ma a ragionar bene , sia poi il vero o il falso a cui conduca ». Nella letteratura e nelle arti si applicò il sistema del razionalismo, mettendovi a principio quel celebre detto di Goethe « l' arte per l' arte ». [...OMISSIS...] Lo scopo della Scuola normale di Filosofia è il metodo: il metodo è l' organo della Filosofia, non è tutta la Filosofia: questa si trova coll' applicazione del metodo alle principali questioni. Quindi già stabilimmo che lo scopo della scuola normale non dee essere il solo metodo, ma il metodo colle sue applicazioni. Ma vi ha egli nessuna norma che ci diriga in queste applicazioni? Ecco l' argomento della presente lezione, che solo può rendere manifesto quale debba essere l' intero scopo dello studio che dobbiamo fare insieme, e solo farci conoscere l' indole e la sfera del filosofico magistero che voi siete chiamati a esercitare. Noi non siamo di quegli che non ammettono nulla di vero e di certo anteriormente alla filosofia: noi ammettiamo delle verità indubitabili, delle certe evidenze comuni a tutti gli uomini, anche a quelli che non pervennero alla riflession filosofica. Queste sono la guida di tutta l' umanità al suo fine , queste debbono essere anche la guida del filosofo. - Convien dunque dirigere la filosofia al fine dell' uomo - la moralità - (Si dimostri che nella moralità propriamente si accoglie il fine dell' uomo, giacchè la felicità non può l' uomo darla a sè stesso, ma aspettarla; quand' egli è moralmente buono). Or noi abbiamo veduto (Lez. I) che la Filosofia è necessaria, è importante appunto perchè viene in soccorso dell' uomo, quando la debolezza della sua mente e del suo cuore dà luogo a sofismi, che vorrebbero rapirgli le verità più salutari ecc.. Queste verità, in fine del conto, hanno valore perchè o contengono il fine morale dell' uomo, o ne sono i prossimi mezzi. Quindi tutta la Filosofia dee volgersi a mantenere contro il sofisma le verità più necessarie all' uomo, acciocchè conseguisca la sua alta destinazione illustrandole ed ordinandole. Ora queste verità, o sono ontologiche cioè quelle che dichiarano come sono gli enti; o deontologiche , che dichiarano come debbano essere e come in ispecie dee esser l' uomo, acciocchè sia retto e in sua natura perfetto. In queste seconde si contiene propriamente il fine dell' uomo, che è la perfezione morale e la conseguente felicità. Ma le cognizioni delle prime ne sono il mezzo prossimo, perocchè la natura dell' anima a ragion d' esempio ne dimostra la dignità, e rende evidente la verità e la necessità della morale. - Se dunque dividiamo la Filosofia in due gran parti, nell' Ontologia e nella Deontologia, noi potremo trovare un segno a cui dirigere le nostre ricerche, e principalmente il magistero filosofico riguardante sì l' Ontologia e sì la Deontologia. Il magistero filosofico nella sfera della Ontologia dee tendere a indurre le menti degli uditori a raggiungere un positivo concetto dello spirito . - Come da questo dipenda tutto il buon esito della scuola. - Difficoltà a fare che questo concetto sia retto , separando lo spirito affatto dalla materia, e sia positivo , non arrestandosi a definizioni negative. Il magistero filosofico nella sfera della Deontologia dee tendere a mettere in onore la virtù, e a farla conoscere come il sommo bene, anzi il solo bene (quello a cui tutti gli altri si riferiscono, o da cui scaturiscono). Introduzione - in cui si dica che dovendo noi 1 esporre il metodo, 2 applicarlo alle diverse scienze filosofiche, s' intende, a fin di maggior chiarezza e brevità, di ridurre il metodo in alcune regole o canoni, ciascuno de' quali darà materia ad una o più lezioni. La prima regola - L' osservazione preceda il ragionamento. Dimostrazione diretta, tratta dalla definizione del ragionamento « un' operazione dello spirito colla quale la mente trova una verità in altre e per mezzo di altre verità ». Il ragionamento adunque suppone delle verità apprese immediatamente, le quali sieno la base del ragionamento stesso. - Le verità che formano la base de' ragionamenti possono essere dedotte da altri ragionamenti, ma finalmente conviene arrestarsi alle primitive se non si vuol perdersi in un progresso all' infinito, il quale è assurdo, ecc.. - Le altre scienze si fermano co' loro ragionamenti a verità mediate; la filosofia muove il suo ragionare dalle verità immediate perchè, ecc.. S' illustra con esempi. Vedi l' « Antropologia », Introduzione, ecc.. - Giustificazione di alcuni detti comuni, come « coecus non judicat de colore », ecc.. Dal trascurarsi questa regola in filosofia procedono innumerevoli errori: perocchè accade che si cominci la filosofia dal ragionare, invece che dall' osservare: ma il ragionare suppone necessariamente una materia su cui rivolgasi: indi è che quelli, i quali procedono con questo metodo, suppongono molte opinioni senza accorgersi di supporle; quando la filosofia non deve supporre cosa alcuna, ma tutto provare, tutto esaminare, sia poi col raziocinio, o colla coscienza, ecc.. Esempi. Obbiezione - E qui alcuni oppongono un loro pregiudizio che è che « tutto si dimostri col raziocinio » - Confutazione diretta di questo errore. - Confutazione delle funeste conseguenze. Questa è una via che conduce necessariamente, 1 In inestricabili labirinti e sottigliezze, perchè a ) Si accumula ragionamenti sopra ragionamenti senza fermarsi giammai, onde i sistemi giganteschi, oscuri, ecc.. b ) Si sottilizza eccessivamente, come accadde nel decadimento della scolastica, onde le inutili e inconcludenti dispute, ecc.. 2 Allo scetticismo. V. « Nuovo Saggio », lez. VI, p. 1. Ciò che dà l' intuizione sono i principii del ragionamento, e principalmente i quattro di cognizione , di contraddizione , di sostanza e di causa . - Esporre brevemente questi principii deducendoli dall' essere ideale , e mostrare che non può venire con essi in contraddizione il reale coll' ideale , perchè quello non è che una realizzazione di questo: dunque nè pure la percezione coll' intuizione. Ogniqualvolta paresse il contrario, vi ha errore. Esempi - Se si percepisce un effetto e non se ne percepisce la causa, non si dovrebbe conchiudere che la causa non esiste, ma si deve conciliare la percezione coll' intuizione mostrandola limitata, e non atta a dare tutto ciò che si vede necessario nell' intuizione. - Se delle esperienze fisiche paressero provare una contraddizione nell' essere, per es., che lo stesso corpo nelle stesse circostanze riscalda e raffredda, deve dirsi che le percezioni sono imperfette ed escludono qualche circostanza. - La percezione adunque deve sempre andar d' accordo coll' intuizione. Il ragionamento del pari deve andar d' accordo con l' una e con l' altra: coll' intuizione, perchè il ragionamento non è che una serie di proposizioni legate, secondo le norme somministrate dall' intuizione dell' idea dell' essere. Quindi, se il ragionamento riuscisse al contrario, egli è erroneo. Esempio. Le antinomie di Kant nella « critica della ragion pura ». - Medesimamente è da dirsi rispetto alla percezione, perchè questa va d' accordo, come si è provato, coll' intuizione che adduce necessità. Sono dunque erronei tutti i ragionamenti che negano la percezione. Esempio: - Idealismo che nega i corpi percepiti come stranieri a noi. - Scettici, che negano la propria esistenza. - Il principio di Cartesio, « Cogito, ergo sum », voleva fondare la filosofia sulla percezione , solida base, ma non sufficiente perchè la filosofia cerca la base ultima, che è l' intuizione. Prima parte, Logica. - Dottrina degli errori che suppongono sempre qualche oscurità e confusione nel nesso delle idee. [...OMISSIS...] Che cosa si fa quando si prende a sciogliere una questione? - Non si fa che studiare le condizioni del problema per rinvenire il rapporto che hanno coll' ultima conclusione che la scioglie: a tal fine è necessario 1 Conoscere tutte le condizioni. - Ma se lo stato della questione non è esposto chiaramente, talora qualcheduna ne rimane taciuta. 2 Conoscerle con verità. - Ma se lo stato della questione non è esposto con chiarezza, si fraintende, non s' intende la condizione per quella che è, ma si crede che sia una condizione diversa da quella che è. 3 Non aggiungere condizioni che la questione non ha. - Ma talora se ne aggiungono appunto perchè non si conosce bene lo stato della questione. 4 Conoscere i nessi delle condizioni fra loro. 5 Non proporre la questione in modo ch' ella già contenga nel suo seno o supponga la soluzione falsa , per es., la questione di D' Alembert « qual sia il punto di comunicazione fra lo spirito ed il mondo esteriore »suppone che fra lo spirito ed il mondo vi abbia una relazione di spazio , il che è falso: quindi la questione stessa è assurda. 6 Non proporre due questioni mescolate invece di una. 7 Non proporre una questione invece di un' altra. Seconda parte, Dialettica. - Lo stato della questione finalmente rimane oscuro e intralciato per difetto del linguaggio - o troppo abbondante - o equivoco - o ambiguo, ecc.. Rispetto alla Lezione XIX si deve parlare: 1 Dell' uso dei sinonimi nel linguaggio filosofico. - Talora i sinonimi esprimono lo stesso concetto principale coll' aiuto di una nuova relazione. - Se dunque, occorrendo più sinonimi, si crede che si segnino più concetti principali, nasce la confusione delle idee, onde innumerevoli errori, per es., l' idea dell' essere viene denominata essere possibile, essere ideale, oggetto, ente universale, o universalissimo, lume, forma della ragione, primo noto, ecc.. Molti rimangono imbarazzati da queste diverse denominazioni per non intendere che tutte esprimono lo stesso concetto principale. 2 Delle definizioni o proposizioni equipollenti. - Qui si può addurre, per es., le diverse definizioni dell' idea, confutando l' obbiezione di quelli che dicono che noi attribuiamo vari e diversissimi significati alla parola idea . Alla lezione XX si può recare in esempio della decimaterza regola, il sistema di quelli che credono avere spiegata l' origine delle idee col dare all' uomo semplicemente una facoltà di conoscere. La facoltà di conoscere esprime un concetto sintetico, il quale fino che non è analizzato non soddisfa alla ricerca filosofica. - Le qualità occulte dei peripatetici peccavano dello stesso vizio. LEZIONE XXI. - In esempio della regola decimaquarta si può addurre la maniera, nella quale si provano i quattro principii del ragionamento. Pigliato come primo noto ed evidente l' essenza dell' essere, l' artifizio della dimostrazione consiste nel pervenire, sostituendo una proposizione all' altra equivalente, a dimostrare che ciascuno di quei principii fa un' equazione col primo noto. LEZIONE XXII. - In esempio della decimaquinta regola si può arrecare la parola reale usata dal Gioberti in due significati, l' uno come opposto di possibile , e l' altro come sinonimo d' entità; onde dice talora il possibile in quanto è reale. Rispetto alla Lezione XXIII le faccio trascrivere qui un articolo che trovo nelle vecchie mie carte sull' argomento. In primo luogo osserverò, che chi parla di una cosa deve almeno sapere fin dal principio darne una qualche definizione, la quale, tuttochè non sia perfetta, deve però potere caratterizzare e contradistinguere la cosa di cui egli parla, sicchè non la si possa scambiare con verun' altra. Altramente, nè egli potrebbe sapere di che parla, nè altri intendere le sue parole. Ora può l' uomo parlare senza sapere di che? O senza che il sappiano quelli che l' ascoltano? Non vedo come ciò possa essere. Concedo bensì che altri può pronunziare dei suoni e non intenderli, dei suoni dico che in bocca di chi gl' intende sarebbero altrettante parole, ma questi suoni proferiti da chi non ne intenda il significato, come da un pappagallo, da un stornello, da un organetto, sono rumori e strepiti non parole, non atti di parlare umano. E se chi parla sa di che parla, e lo sanno e l' intendono quelli che l' ascoltano, conviene adunque dire che una qualche definizione dell' oggetto, intorno a cui si volge il suo ragionamento, egli l' abbia per lo meno in mente, od ancora l' abbia data espressamente, o in ogni caso l' abbia supposta nelle menti dei suoi uditori, abbia supposto cioè, che a quella parola che esprime la materia del discorso, per esempio alla parola virtù , s' egli parla della virtù, essi affiggano di comune consentimento un qualche significato, e quindi l' abbiano definita in qualche modo a se stessi; perciocchè è definire una cosa il pronunciare anche dentro di noi qual sia il significato che noi attribuiamo a quel vocabolo, col quale esprimiamo quella cosa. Laonde, se colui che ragiona, per esempio della virtù, è già in necessità di far una di queste due cose, o di darne la definizione o sottointenderla; il più delle volte, parmi, si converrà assai meglio ch' egli la dica a dirittura espressamente anzi che sottointenderla, perchè così rimuoverà fino dal principio le male interpretazioni dei vocaboli e le inesattezze che ne nascono dei concetti. Se spesso vuol essere utile il far ciò, nei trattati scientifici è al tutto necessario; poichè in essi l' autore toglie a dire per ordine tutto ciò, che si deve sapere intorno alla cosa di cui si tratta; e perciò non si può in somiglianti trattazioni sottointendere cosa alcuna; che il sottointendere non è un dire per ordine, e neppure un dire; ma sibbene egli converrà di cominciare, nell' esporre una scienza, dal dare prima le notizie necessarie all' intelligenza delle altre che poi seguiranno e quindi replicarsi queste di mano in mano: e la prima di tutte, quella di cui tutte l' altre hanno bisogno per essere intese, è appunto una qualche definizione della cosa, giacchè ogni notizia della cosa suppone dinanzi di sè, per essere intesa, che la cosa stessa in qualche modo sia conosciuta. Tuttavia non voglio dire con ciò, che la sentenza di quelli, che negano doversi, o potersi cominciare dalla definizione, sia priva di ogni verità; dico solo che ha bisogno di qualche spiegazione; perchè intesa in un senso essa non si può ammettere. Ecco adunque che cosa io trovo di vero e che di falso in questa sentenza. Una cosa si può definire in più maniere. Si può dar di essa una definizione generale e imperfetta, e delle definizioni più speciali e più finite. Ora, acciocchè gli uomini intendano ciò che si dice quando si parla, è necessario ch' essi abbiano una definizione della cosa, almeno generale, almeno esterna, e tratta da qualche relazione di essa; ma però tale che segni la cosa, e che valga a distinguerla da tutte l' altre, a isolarla per così dire, sicchè essa non si possa più coll' altre avviluppare o tramutare. Se una tale definizione mancasse e non se n' avesse che una vaga ed inetta a caratterizzare la cosa, il ragionare salterebbe necessariamente d' uno in altro argomento quasi a caso, e chi favella si esporrebbe a ricevere quel rimprovero che si suole gittar contro a chi ragiona, come si dice, a vanvera o all' impazzata « voi non sapete quello che vi dite ». Le quali parole non vogliono già significare che l' uomo parli veramente quello che non sa, perocchè questo è impossibile, non è parlare, ma esse vogliono dire che colui si crede ragionare di una cosa e in quella vece ragiona di un' altra, e uscendo, come si suol dire, dal seminato, intramette altre ed altre materie che non hanno alcuna connession nè proposito, ed egli per errore, scambiando l' una cosa coll' altra, crede che lo si abbiano. E qui anzi è uno de' maggiori fonti degli errori, nei quali altri incappa favellando. Per questo difetto appunto, di non aver la cosa ben definita, avviene di trovarsi cangiata in mano la materia, e di dire d' una cosa ciò che non ad essa, ma bensì ad un' altra che ad essa è affine e prossima, e colla quale perciò la si confonde, appartiene. Se la definizione adunque non determina bene la cosa, e se non teniamo questa cosa così ben determinata e contrassegnata innanzi agli occhi in tutto il corso del ragionamento, non possiamo mantenere il filo, nè fare che le parole colpiscano direttamente nel segno, ma elle cadranno or qua or là sparpagliandosi fuori della cosa che si doveva prendere in mira e perderannosi vanamente. Dopo di ciò, sebbene una qualche definizione o espressa o sottintesa sia sempre necessaria dal principio alla fine di un discorso, e questa debba esser vera e propria per fissare la cosa; tuttavia, come dicevo, non è ancora necessario che in sul principio questa definizione sia al tutto perfetta, o che esprima ben distinte tutte le proprietà della cosa; anzi qui appunto io mi faccio con quelli che giudicano questa compiuta definizione potersi solo avere nella fine della scienza come un risultato e quasi direi una ricapitolazione della scienza intera, e non al principio dove non sarebbe intesa per avventura, ma solo dovrebbe esser creduta sull' autorità di chi la presenta; il che non può essere che difettoso; chè veramente, quanto meno in alcun trattato si rende necessaria l' autorità dello scrittore (parlando di scrittori umani), quanto meno lo scrittore esige di fede alla sua parola, tanto più è buono il suo metodo e il suo trattare coi lettori più riverente e più dilicato. Poniamo dunque di dovere scrivere un trattato sull' uomo: non è possibile che il comune degli uomini, a cui si parla, conosca tutte le proprietà intime dell' uomo e le abbia ben distinte, onde una definizione che le contenesse espressamente riuscirebbe al lettore gratuita e per riceverla dovrebbe fare un atto di fede. All' incontro a tutti sarà facile di definirsi l' uomo all' ingrosso, di dare al vocabolo uomo un valore suggerito dal proprio sentimento; ognuno saprà definir l' uomo almeno per un essere simile a se stesso: definizione certamente ancora imperfetta, e dove le proprietà dell' uomo non sono analizzate e scomposte; ma dove però sono tutte espresse e contenute come in germe. Tanto è ciò vero, che gli basterebbe che ciascuno poi meditasse sopra di se stesso, sopra quel sentimento che costituisce a lui la natura umana, perchè egli giungesse con tale osservazione o meditazione a trovare e separare tutti quegli elementi, ond' egli risulta; tutti quei principii che nel sentimento del suo essere stanno uniti insieme in perfetta unità; tutte le proprietà in una parola della natura umana. Trovati poi e a parte a parte osservati questi elementi, principii, e qualità dell' uomo, egli potrà classificarli, ordinarli, gli uni sotto gli altri, congiungerli in somma co' loro nessi naturali, e così rifare e ricomporre quell' uomo che prima si aveva scomposto, così ritornarsi dalle parti al tutto, dalla moltiplicità all' unità dell' essere uomo, il che è quanto dire che potrà, seguendo il filo di quella prima definizione imperfetta, moversi, istituire delle osservazioni e esperienze, che gli dieno tutte quelle cognizioni che aver si potranno dell' oggetto definito. Pretendere all' incontro, che si istituiscano delle osservazioni e esperienze senza una precedente definizione, nè espressa nè sottointesa della cosa che si osserva, è pretendere che non si debba studiare, cioè che non si debba nè sperimentare, nè osservare con arte, ma bensì a caso e senza traccia: il che, a voler parlare propriamente, non è sperimentare nè osservare, parole che suppongono qualche fine e qualche oggetto nell' osservatore e sperimentatore; è solo un prestarsi a ricevere delle impressioni o sensazioni della cosa fortuite, senza che queste possano mai darci un risultato scientifico; poichè elle sono scompagnate da ogni lume di ragione, che le metta a profitto del sapere. Ove dunque si abbia una definizione vera, sebbene imperfetta, la quale serva di filo conduttore nello studio che si fa intorno ad una cosa, per es., intorno all' uomo, allora si può coll' osservazione trarne tutte le altre cognizioni che vengono a costituire la scienza, la scienza di quella cosa, e con questa completarne la definizione. E nel vero, acciocchè la definizione sia compiuta e piena, quanto più esser può, conviene che nasca dalla scienza perfetta, conviene, come dicevo, che riunisca in sè e ricapitoli tutta la scienza stessa. V' hanno adunque due definizioni, tutte due vere e proprie: ma l' una sommamente imperfetta, cioè indistinta, e l' altra sommamente perfetta, cioè a pieno distinta: l' una che si deve sempre supporre fino da principio del ragionamento, e l' altra, che si va col ragionamento stesso lavorando sempre più e perfezionando sino alla fine. Si potrà avere un esempio di questo progresso nella serie delle formule, che io ho usate per esprimere la legge morale (1), la prima delle quali messa in queste parole « segui il lume della ragione », sebben vera e propria, era la più imperfetta di tutte, la quale ricevette però nel progresso un continuo sviluppo e perfezionamento, che la mutò in forme migliori, più distinte, più espresse e luminose. La definizione esprime l' essenza della cosa (1). Questa proposizione è vera secondo me in tutta l' estensione dei termini, purchè si prenda la parola essenza in quel significato che io le attribuisco, e che credo esserle attribuito dal senso comune, cioè per significare ciò che si pensa coll' idea della cosa (2): e non le si dia un senso arbitrario, come fanno a mio credere i filosofi moderni, che intendono per la parola essenza qualche cosa di intimo, di misterioso, d' inesplicabile, che costituisce il fondo delle cose sussistenti. Ora, se la definizione esprime l' essenza della cosa, e la definizione deve sempre venir supposta fino dal principio in ogni trattazione, come un filo conduttore col quale si conduce diritto l' argomento, egli è manifesto, che il principio di ogni scienza è l' essenza di quella cosa sulla quale la trattazione si volge. In questo modo ogni scienza viene ad avere un principio semplice; ed è l' unicità di questo principio che forma l' unicità della scienza: tante debbono essere le scienze quanti i principii, e in quel modo che i principii sono ordinati gli uni sotto gli altri, così le une alle altre debbono essere sotto ordinate le scienze. Ecco quali sono le basi di una giusta partizione delle scienze; ecco la regola secondo la quale si può disporre lo scibile umano nel suo ordine nativo, vero, necessario. Ove le umane cognizioni fossero trattate in quest' ordine, esse riceverebbero una assai maggiore semplicità, verrebbe sgombrata una farragine immensa di ripetizioni, di nessi artificiali e falsi, tornerebbe un aumento mirabile di facilità nell' apprenderle, di luce, di evidenza, ed è questo gran lavoro che resta ancora a fare per intero ai dotti, a por mano al quale è desiderabile che oggimai si rivolgano. Egli è poi, quando un discorso non perde mai di veduta l' essenza della cosa, quando tutto ciò che vi si dica esce da essa essenza, che egli soddisfa appieno: allora la questione è posta bene, è portata al suo termine: nulla resta più ad obiettare, nulla a desiderare. Per questa lezione mi pare che La possa trovare materia abbondante nel « Nuovo Saggio », dove si parla della volontà come causa degli errori; e così pure nei trattati morali, specialmente in quello della « Coscienza » dove si torna sullo stesso argomento. Si può cominciare dallo stabilire che il filosofo deve esser guidato in tutti i suoi passi dall' amore della verità. - Dimostrare quanto facilmente all' amore della verità si associ qualche altra passione, e principalmente l' amore della gloria, il desiderio di inventare cose nuove. Se poi l' animo è dominato da altre passioni, s' aggiunge una segreta tendenza, per la quale l' uomo brama di trovare che sia vero ciò che favorisce le sue passioni e aborrisce di trovare il contrario. - Perciò la regola tanto inculcata dai pittagorici e dai platonici di accostarsi a filosofare coll' anima purgata, dove si può fare un cenno delle purgazioni istituite da questi filosofi, le quali avevano un fondo di verità, benchè anche mescolate di arbitrario e di superstizioso. - Quindi passar a dimostrare che l' animo quand' è purgato, cioè non è mosso da altra passione che dall' amore del vero, procede colle due regole dell' umiltà filosofica e del coraggio. L' umiltà filosofica consiste in una ragionevole diffidenza di se stesso, e in una stima dei filosofi precedenti. - La superbia filosofica all' opposto consiste nella presunzione di sè, e nel disprezzo di quelli che hanno filosofato nei tempi anteriori. - La filosofia non può esser l' opera di un individuo, ma sibbene l' opera lenta e faticosa dei secoli, quindi la ragionevolezza dell' umiltà dell' individuo che non è che un anello quasi infinitesimo della serie dei pensatori. - Storia degli errori, in cui incapparono i più grandi intelletti. - Altra ragione dell' umiltà filosofica, ossia della diffidenza di se stessi. - Vantaggi dell' umiltà filosofica per la scienza e per l' umanità. Ella sola mette a profitto tutta l' eredità delle cognizioni lasciateci dai nostri padri, e lega le diverse generazioni umane fra loro: in bocca dell' umile si sente filosofare l' umanità intera, non l' individuo. Il coraggio filosofico consiste in una moderata e ragionevole confidenza nelle proprie forze, e in una moderata e ragionevole diffidenza dell' altrui autorità umana: consiste ancora nell' intraprendere grandi fatiche per giungere al vero. - Al coraggio filosofico è opposta l' inerzia e la viltà che spegne lo spirito d' investigazione. Esempio del coraggio filosofico sono le varie fatiche fatte dai più grandi filosofi per giungere al vero e fondare le scienze: meditazioni, vigilie, astinenze, viaggi, ecc.. Quelli che hanno una stima superstiziosa verso i filosofi precedenti, non osando sottoporre ad una prudente critica le loro sentenze e giurando in verbo magistri , non possono ragionevolmente essere annoverati fra i filosofi: perchè nè sono in caso di aggiugner nulla alla scienza, nè hanno l' animo pur di tentarlo. Il perfetto filosofo deve unire in sè le due virtù dell' umiltà e del coraggio filosofico, perocchè la prima lo conduce a prendere esatta cognizione di quanto il mondo possiede di scienza prima di lui; la seconda gli mette nell' animo il proponimento di tentare con tutte le sue forze di accrescere alquanto il patrimonio degli avi. La prima produce in lui uno spirito di conciliazione fra le diverse opinioni conciliabili, onde si fa seguace di un giudizioso eclettismo; la seconda produce in lui lo spirito di investigazione che il difende da ogni vizioso sincretismo. Dimostrare che dalle due regole dell' umiltà e del coraggio filosofico nascono due regole più speciali, che sono: 1 non doversi pronunciare un giudizio temerario, che si riduce ad affermar ciò che non si sa; 2 non dover esitare a pronunciare ciò che si sa. Infatti a queste due si riducono le cause prossime degli errori. E quanto alla prima egli è evidente che se non si affermasse mai se non quando si conosce bene la cosa, difficilmente si commetterebbero errori. Ma invece di voler veder la cosa coll' occhio della ragione prima di pronunziare, la si crea coll' occhio della fantasia e si pronunzia quest' idolo invece del vero. - Si illustri la cosa coll' esercizio del metodo che usano i sensisti, dimostrando quanto a torto essi si chiamino la scuola sperimentale. Non si dà esperienza che non abbia queste due parti: la parte del fenomeno sensibile, la parte di ciò che vi aggiunge la ragione. Il fenomeno sensibile non basta a costituire un' esperienza: convien che ciò che vi aggiunge la ragione sia secondo la verità; e questo è appunto quello che manca ai sensisti; poichè dalla sensazione saltano alla cognizione arbitrariamente e fantasticamente: pronunciano, non ciò che dà loro il senso, ma ciò che dà loro la fantasia. Vedono essi forse la cognizione nella sensazione? non la possono vedere perchè non c' è. Dunque pronunziano quello che non vedono, quello che non sanno, il loro giudizio è temerario. Qui si passi a dedurre queste due altre regole che vengono quai corollarii: 1 Il filosofo prima di pronunciare deve rendere un conto esatto a se stesso dei propri ragionamenti per assicurarsi ch' egli sa ciò che pronunzia. 2 Per far questo egli deve ridurre il suo pronunciato a rigorosa dimostrazione, esposto in proposizioni esattamente connesse l' una coll' altra, badando che fra una proposizione e l' altra non resti fuori alcun anello intermedio, giacchè, ove manca l' anello, ivi è un falso arbitrario, ivi si passa da una proposizione all' altra senza ragione, e perciò temerariamente. Obiezione. In tal caso il filosofo potrà pronunziare pochissime sentenze. - Risposta. Sì, ma quelle poche saranno verità: la filosofia si purgherà dagli errori un poco alla volta e acquisterà una solida base - Qui si entra a parlare del sistema degli accademici, i quali dicevano che il filosofo si deve contentar di trovare ciò che è probabile, senza pretendere di giungere alla certezza. Si dimostri che questo sistema non è che un' esagerazione di una verità. L' esagerazione consiste nell' escludere qualunque certezza; ma la verità importantissima consiste nel riconoscere che ben sovente il filosofo particolare deve contentarsi del probabile, quando non arriva a formarsi delle sue opinioni una dimostrazione rigorosa. Si faccia vedere quanto gran campo possa prendere il metodo accademico, e come ciascuno deve usarne secondo che più o meno gli riesce di giungere al vero dimostrato. - Ancora, che un tal metodo è utilissimo per la disputa urbana, nella quale il filosofo deve rispettare l' altrui opinione anche dov' egli crede di possedere la certezza, benchè possa sforzarsi di dimostrarla altrui. Nella storia degli Accademici premessa alle opere di Cicerone in molte edizioni « cum notis variorum » si troverebbe molta materia. La seconda regola è più difficile da svolgersi, poichè converrebbe fare una delicata osservazione sull' esitanza di molti filosofi nel persuadersi della forza di certe dimostrazioni, per es., vi hanno alcuni i quali non trovano mai una prova che per loro sia convincente dell' esistenza di Dio. Questa loro esitanza non nasce già perchè la dimostrazione non abbia in se stessa tutta la forza, ma perchè, dipendendo la persuasione dalla volontà, manca loro il coraggio e la forza di aderire ad essa coll' animo pienamente assenziente. - Altro esempio si può trarre dalla « Teodicea », dove si dimostra che, per quelli che ammettono la esistenza di Dio, deve logicamente cessare ogni dubbio sulla giustizia e bontà, colla quale egli dispone delle cose umane: eppure ciò non si verifica in molti, non perchè manchi la dimostrazione logica, ma perchè non vi danno un pronto assenso, e quindi tengono sospeso il giudizio, mentre dovrebbero darlo. Introduzione . - Tratta dall' importanza della questione - Stato della questione - Ella è una questione di fatto: perciò si debbono applicare le regole di metodo che riguardano la verificazione dei fatti - La prima regola si è, che l' osservazione preceda il ragionamento - A qual classe di fatti appartiene la questione che vogliamo trattare? Due specie di fatti vi sono. I fatti esterni che appartengono all' osservazione esterna; e i fatti interni, che appartengono all' osservazione interna. La questione nostra appartiene all' osservazione interna. Conviene adunque esaminare colla osservazione interna, se il senso conosca qualche cosa. Il conoscere ed il sentire sono fatti interni. Convien dunque riflettere sopra di essi; osservarli attentamente e paragonarli per conoscere se si identificano, o se sono fatti diversi, l' uno de' quali non si possa ridurre all' altro. Già il senso comune coll' applicar loro due vocaboli distinti mostra di distinguerli; ma non adoperiamo l' autorità del senso comune, ma l' osservazione nostra propria. L' osservazione ci dimostra, che la sensazione è sempre particolare. - Si illustri con esempi e si dimostri che è un' illusione il credere che nelle sensazioni vi sia qualche cosa di universale, illusione che nasce all' uomo, perchè egli, avendo dei concetti universali all' atto del sentire, gli unisce alle sensazioni, e se ne compone degli oggetti sensibili, ne' quali vi sono sensazioni e concetti universali; e in questo consiste la sagacità del filosofo nel dividere coll' analisi ciò che ha unito nella sintesi, e nel distinguere quale elemento sia mera sensazione, e quale elemento sia concetto o pensiero, dando il suo ad ogni potenza senza attribuirvi nè più nè meno. - Qui si insisterà dimostrando che il soggetto uomo e la sua attività radicale è una, la quale però muove molte potenze contemporaneamente a produrre un unico risultato per via di sintesi, il quale essendo unico, se non si pone molta attenzione, si attribuisce ad una sola delle potenze che l' hanno prodotto, e così si cade in errore. Ora alla potenza del senso non si dee attribuir che solo ciò che è sensazione e nulla più: e se si trova un altro elemento che non sia sensazione, ma altra cosa per esempio concetto, in tal caso si dee attribuire ad un' altra potenza e non a quella del sentire. Veduto che la sensazione è particolare e non universale, si deve inferirne primieramente che per lo meno vi sono alcune cognizioni che non sono sentite; perocchè vi sono indubitatamente alcune cognizioni universali. Qui si dimostra l' esistenza di queste cognizioni universali confutando i nominali, e specialmente Stewart, che pretendono che l' ufficio degli universali si compia per mezzo di nudi vocaboli [...OMISSIS...] . Stabilito che alcune cognizioni almeno sono universali, discende la conseguenza, che almeno queste non sono sensazioni, e che, se il sentire tuttavia è conoscere, dunque il conoscere non è più una cosa sola, non è una facoltà identica, ma sono facoltà genericamente distinte. In tal caso la parola conoscere attribuita al sentire mancherebbe di significato, e così la pensa infatti Aristotile, il quale dice che la cognizione che si ha per via di sensi non si chiama cognizione se non per una certa similitudine che ha colla cognizione vera (si mostri brevemente quanto sia incomoda e antifilosofica una tal maniera di parlare). Ma stabilito che vi hanno alcune cognizioni almeno, che sono universali, convien vedere quali siano queste cognizioni, e quali siano le cognizioni particolari che ci rimangono, le quali sole, se pure esistono, si possono attribuire ai sensi. Ora primieramente la cognizione dell' essenza delle cose appartiene agli universali, perchè le essenze sono sempre universali. A ragion d' esempio, l' essenza dell' uomo non è ella stessa nessun uomo particolare. Dunque tutte le essenze che si conoscono sono cognizioni che certamente non si possono attribuire ai sensi. Dunque se vi ha una cognizione somministrata dai sensi, mediante questa cognizione non si conoscerà l' essenza di nessuna cosa. Ma una cosa di cui non si conosce l' essenza in nessun modo, non si può neppur affermare, poichè per affermare una cosa conviene in qualche modo conoscere che cosa è, e conoscere che cosa è una cosa, è conoscerne l' essenza. Dunque se egli è vero che i sensi ci somministrano qualche cognizione, questa cognizione è però tale che nè ci fa conoscere che sia una data cosa, nè ci dà la possibilità di affermarla. Avete veduto, miei signori, qual conseguenza legittima da ciò proceda? La conseguenza legittima si è, che i sensi non ci fanno conoscere niente; poichè se ci facessero conoscere qualche cosa, noi sapremmo che cosa ella sia. Ora il sapere che cosa sia, è sapere l' essenza della cosa. Ma siamo convenuti, che i sensi non ci possono far conoscere l' essenza della cosa, perchè l' essenza della cosa è universale e i sensi non danno che particolari. Ancora, se i sensi ci facessero conoscere qualche cosa, noi potremmo affermarla o negarla. Ma noi siamo convenuti, che i sensi non ci danno la possibilità di affermare cosa alcuna e però nè pure di negare. Se dunque i sensi non fanno conoscer niente, convien dire che il senso corporeo nulla conosce. Convien dir ancora, che se si spoglia la cognizione dell' elemento universale, si annulla affatto la cognizione stessa, e perciò se ci rimane qualche cosa, quello che rimane non è più cognizione, poichè non si dà cognizione senza cognito, non è cognizione quella che non ci fa conoscer nulla. Voi mi direte che i sensisti deducono dai sensi le idee. - Qui si dimostri che le idee non sono che le essenze ideali delle cose, e che però se non possono far conoscere le essenze, non fanno conoscere nè pur le idee. L' illusione dei sensisti nasce perchè la sensazione o l' immagine serve all' uomo per dirigere il suo pensiero e per fissarlo: quindi da tali filosofi si crede or che la sensazione sia l' oggetto del pensiero, ora, poco coerenti con se stessi, che sia il pensiero stesso. Ma questo anche esigendo un lungo sviluppo, potrebbe dare argomento ad un' altra lezione. Dimostrare che il senso niente conosce, e però non è una facoltà di conoscere, è confutare il sensismo. Infatti il sensismo non consiste mica in escludere la cognizione, ma in attribuirla ad una facoltà a cui non appartiene. Nei sistemi sensistici adunque si ritiene e talora campeggia il ragionamento: ma questo vi rimane in aria, introdotto arbitrariamente senza congrua spiegazione. Talora accade, che il ragionamento prenda in quei sistemi un amplissimo campo, e che si cangi in idealismo ed in razionalismo. Allora il sensismo vi giace ancora, ma rimane nascosto; e gli autori di quei sistemi ricevono quasi per ingiuria l' appellazione di sensisti. Tanto più conviene svelare quel sensismo che in essi si giace nascosto; e per isvelarlo convien definir bene che cosa sia il sensismo. Definizione. - Tutti quei sistemi che attribuiscono al senso qualche cognizione vanno macchiati di sensismo. Dunque non è sufficiente a purgarli dalla taccia di sensismo il dire che non tutte le cognizioni si traggono dai sensi. E per vedere quali questi sieno, convien stabilire il carattere proprio della cognizione, e poi esaminare se le produzioni, che si attribuiscono da vari filosofi ai sensi, abbiano questo carattere: perchè in tal caso essi fanno che ciò che è cognizione sia prodotto dai sensi. Ora il carattere proprio della cognizione è l' oggettività. Dunque tutti quei sistemi filosofici, i quali distinguono l' atto del sentire dall' oggetto del sentire invece di distinguere il principio dell' atto del sentire dal termine del medesimo atto, peccano di sensismo. - Spiegazione di questa proposizione. Questi sono: 1 Tutti quelli che prendono le sensazioni per altrettante idee, o che prendono le idee per un aggregato di sensazioni. - L' idealismo di Berkeley è un sistema di questo genere. Infatti ne' suoi dialoghi fra Filonous e Filhylas, ne' quali pubblicò il suo sistema, egli altro non fa che partire da questa definizione del corpo: « Il corpo è un aggregato di sensazioni ». - Quindi mostra che le sensazioni sono modificazioni dell' anima, e non cose esteriori, e ne induce che dunque non esistono realmente i corpi, ma solo le idee, prendendo manifestamente la parola idea per un aggregato di sensazioni. 2 Quelli che aggiungono altri fonti soggettivi di cognizioni, ma lasciando però intatta la sentenza che anche le sensazioni sieno o anche costituiscano le idee coi loro aggregati - Così fa la filosofia scozzese. Reid, malcontento di veder ridotti i corpi esterni a puri fenomeni, dichiara di non saper rispondere agli argomenti di Berkeley se non supponendo che nell' uomo, oltre i sensi esterni, vi sia una speciale facoltà o tendenza naturale, che lo obbliga ad ammettere i corpi esterni come reali. Questo dimostra che il filosofo scozzese non giunse a conoscere che l' errore di Berkeley consisteva nel sensismo, e quindi ritenne il sensismo sorreggendolo coll' aiuto di un nuovo istinto di una facoltà soggettiva. 3 Quelli che dichiarano che tutto ciò che viene a priori è soggettivo, e tutto ciò che viene dall' esperienza è oggettivo. Tale è Galuppi, il quale nella Lettera filosofica XIV definisce gli empirici quelli che non ammettono altri elementi nella cognizione che gli oggettivi! - Qui è da farsi la strada, che viene naturalissima, a confutare quanto dice Galuppi nella citata lettera contro il nostro sistema. 4 Quelli che riducono il ragionamento alla stessa forma e natura della sensazione, cioè che prendendo la sensazione per modello, il cui carattere è di essere soggettivo, riducono anche le altre potenze dell' anima ad essere meramente soggettive. Tale è Kant. - Leggasi il primo libro della « Teodicea ». 5 Quelli che credono di poter fare una sola cosa dell' oggettivo e del soggettivo, con che dimostrano di non conoscere la differenza che corre fra il carattere proprio della sensazione che è il soggettivo, e il carattere dell' intelligenza che è l' oggettivo: i quali non si possono guardare dal sensismo appunto perchè non conoscono la differenza immensa che passa fra il sentire e l' intendere. Tale è il sistema di Hegel e di Gioberti. Questi filosofi immaginosi pongono una loro idea (giacchè così chiamano Iddio), la qual sia ad un tempo soggetto ed oggetto, e dalla quale procedano l' intelletto, il senso e la natura, a quel modo come il particolare procede dal generale. 1 In cui si riassumono le regole di metodo che più importano aver presenti nello studio della psicologia, e sono: I La scienza comincia da una definizione volgare (non analizzata), ma giusta, di ciò di cui si vuol trattare; II Le scienze di percezione usano per primo loro istrumento o modo di conoscere l' osservazione; III Le scienze di percezione interna, una delle quali è la psicologia, usano per primo loro istrumento o modo di conoscere l' osservazione interna. 2 Spiegazione e difesa del primo principio. Spiegazione - La definizione volgare (non analizzata) può semplicemente indicare l' oggetto, cioè determinarlo in modo che non si confonda con altri (per via di relazioni, definizioni negative), o anche esprimerne l' essenza positiva . Quando l' oggetto è tale che si può conoscere per via di percezione, allora la definizione volgare da cui deve incominciare la scienza, benchè non analizzata, deve esprimere l' essenza positiva . Difesa - Obbiezione: Non si possono conoscere le essenze delle cose - Risposta tratta dallo stabilire che cosa è l' essenza . - Delle essenze conoscibili e non conoscibili. Le prime solo sono nominabili, ed atte ad essere argomento dell' umano sapere; altre non sono. Varie specie d' essenze conoscibili, Vedi « Nuovo Saggio » (1). 3 Spiegazione e difesa del secondo principio. 4 Spiegazione e difesa del terzo principio. 5 Quarto principio. - Per trovare il vero è necessario osservare ciò che il lavoro della mente aggiunge o toglie all' oggetto. 6 Definizione volgare dell' anima umana, da cui conviene incominciare la Psicologia. « L' anima è il principio del sentire, dell' intendere e dell' operare di quell' essere che pronuncia se stesso col monosillabo Io ». 7 Applicazione del quarto principio alla definizione non analizzata dell' anima. - Si scevera dall' Io ciò che appartiene alla natura dell' anima e ciò che vi aggiunsero le operazioni della mente. . « La psicologia è una scienza di percezione. Il principio della psicologia è la percezione di noi stessi ». 9 L' anima in ciascun uomo è unica. - S' argomenta dalla coscienza dell' Io. 10 Difficoltà. - Questione dell' identità. - L' anima è unica e identica, benchè abbia più facoltà. 11 Continuazione della stessa questione. - L' anima è unica e identica, benchè abbia più atti. - Ogni facoltà è unica, benchè abbia più atti. - Qual sia il principio che moltiplica le facoltà, quale il principio che moltiplica gli atti di una stessa facoltà. 12 Se sia vero, come sostiene Condillac, che le facoltà dell' anima non siano innate, ma acquisite. - Distinzione fra le facoltà e i principii d' operare. 13 Unità dell' anima in generale. - Il principio sensitivo d' operare, se è diviso, forma un' anima a sè. - Unità e identità dell' anima umana, dove i due principii sono uniti (dalla coscienza). 14 Immaterialità dell' anima umana. 15 Spiritualità dell' anima umana (per escludere l' idea ch' ella sia un punto matematico). - Dell' anima noi abbiamo un concetto positivo e non meramente negativo. 16 Immortalità dell' anima umana. 17 Durazione perpetua dell' anima provata da due principii: I L' uno cosmologico « niuna cosa creata può annichilarne un' altra »; II L' altro teologico « Iddio non annulla ciò che una volta ha creato ». 1. Dell' anima sensitiva de' bruti. - S' incomincia l' analisi di quest' anima (principio senziente - termine sentito). 19 Del nesso tra il senziente e il sentito - si combatte il principio ontologico7materialista, che « una sostanza non può inesistere nell' altra ». - Varietà di maniere onde una cosa può inesistere, o esser legata sostanzialmente con un' altra. 20 L' animato non si può produrre - è dato in natura. 21 Continuazione. - Legge ontologica del sintesismo: « una cosa ha la sua esistenza condizionata ad un' altra ». 22 Il principio senziente, che per esistere è condizionato al sentito, da poi che esiste ha un' attività sua propria. - Istinto animale. - Istinto vitale. - Istinto sensuale. 23 Si continua l' analisi dell' anima sensitiva dei bruti (1 sentimento d' estensione; 2 sentimento d' eccitazione; 3 perpetuità dell' eccitazione, ossia organismo). 24 Semplicità dell' anima dei bruti. 25 Principio sensifero. - Sua identità col sentito. - Esistenza del corpo esterno e naturale. - Distinzione di corpo e di materia. 26 Base di una classificazione specifica degli animali - la natura dell' eccitamento fondamentale stabile dipendente dall' organizzazione. 27 Sviluppo dell' animale. - Modificazione accidentale del sentimento d' eccitazione. 2. Malattie dell' animale. - Contrasti che trova il principio istintivo a dar luogo all' eccitamento perpetuo normale. 29 Moltiplicazione dell' animale. - L' animale non può dividersi, ma moltiplicarsi. 30 Generazione spontanea. - Ipotesi della animazione de' primi elementi. 31 Dell' anima umana. - Distinzione dell' anima dallo spirito puro. - L' anima per esser tale dee animare, ossia dar vita a ciò che non l' ha. 32 Delle diverse definizioni della vita. - Vita comunicata. - Vita propria (condizionata all' animato). - Vita del corpo (comunicata). - Vita dell' anima sensitiva (propria). - Vita del principio sensitivo (altra propria, altra comunicata). - Vita dell' anima intellettiva (propria). - Vita soprannaturale dell' anima intellettiva (comunicata). 33 Nesso del principio sensitivo coll' anima intellettiva. - Percezione fondamentale. 34 Spiegazione del modo come l' anima intellettiva influisce sopra il corpo. - Virtù del percipiente sul percepito. 35 L' anima intellettiva informata dall' essere in universale. 36 L' essere in universale si riduce in Dio, come in una sua appartenenza. 37 L' essere in universale è la verità. - Ogni verità si vede dall' uomo nella verità prima ed essenziale. 3. L' uomo dalla verità è scorto al bene assoluto. - Niun altro bene può saziare l' uomo. 39 L' uomo è fatto pel godimento di Dio, a cui è condizione il riconoscerlo per quello che è (Religione). 40 Il pieno possesso di Dio non si ha che nell' ordine soprannaturale, nel quale Iddio si comunica realmente e sostanzialmente all' uomo. Cominciare dallo stabilire per principio che le menti finite, quantunque abbiano per loro oggetto la verità, tuttavia per la limitazione degli atti con cui la conoscono v' intramischiano del soggettivo, e così in qualche modo la spezzano e la limitano: il che però non le conduce necessariamente in errore; perchè hanno sempre la facoltà altresì di depurare le proprie cognizioni da ciò che coll' atto d' apprenderle v' hanno intramischiato di straniero ed eterogeneo. Questo si scorge in tutti gli atti del conoscere umano, quando a parte a parte si considerano fuor che in quell' atto ultimo col quale l' intelletto emenda e compie la deficienza degli atti precedenti, il quale è quello che cerca e perviene all' assoluto. - Hanno bisogno tutti gli atti precedenti di esser in qualche modo emendati, fino che il pensiero è giunto all' assoluta cognizione. Per fare intendere come ciò sia, convien discendere alle speciali funzioni dell' intendimento; e per non andar troppo a lungo limitiamoci all' analisi ed alla sintesi. Analisi . - Dimostrare come l' analisi dello spirito divide le cose che sono in se stesse indivisibili. 1 Divisione dei relativi. - Pensa lo spirito la causa senza badare all' effetto - il contingente senza il necessario - il sentito senza il senziente - l' inteso senza l' intelligente, ecc., e viceversa. Ora egli è chiaro che le une di queste cose nel fatto non istanno senza l' altre; e però conviene, se non si vuol prendere errore, che sopravenga la facoltà del conoscimento assoluto a riunire tali cose considerate in separato, e così emendare la cognizione smembrata, e in quanto smembrata altresì falsa, se non fosse poscia corretta. - Dal non avere i filosofi sempre emendata e completata la cognizione che divide i relativi nacquero molti sistemi falsi come quelli de' sensisti e soggettivisti che credettero di poter cavare l' idea di necessità da quella di contingenza, quando questa suppone quella, e viceversa, ecc.. Gli esempi qui abbondano, con un po' di meditazione. 2 Divisione degli astratti. - Questi sono pensati soli dalla mente e considerati come altrettanti enti. Ma la facoltà emendatrice dimostra che non sono che enti di ragione . - Molti degli Scolastici errarono, perchè convertirono quelli che sono puri enti di ragione in veri enti compiuti, e si perdettero così nelle sottigliezze dialettiche come in un inestricabile labirinto. Sintesi . - La mente colla sintesi unisce tutto ciò che vuole, anche ciò che non è unito in se stesso. Quindi tutti que' sistemi, il cui errore consiste nella confusione di cose affini; e principalmente poi l' errore degli errori, il panteismo, che tutto avvolge e confonde in una sola sostanza. - Ogni qual volta adunque la mente unì per suo comodo, per comodo de' suoi ragionamenti, in una sola concezione o in una sola formola più cose che non sono unite in natura, la facoltà emendatrice dee correggere e disfare questa unione, acciocchè non rimanga l' errore. Questo accade principalmente ogni qual volta si applica lo stesso vocabolo a cose intieramente diverse, unendole in una sola classe, p. es., quando s' applica a Dio ed a Salomone l' appellativo di sapiente; supponendo così che Iddio e questo Re appartenessero alla stessa classe di sapienti. Allora sarebbe irreparabile l' errore, se la facoltà emendatrice con una riflessione più elevata non soccorresse dimostrando che la parola sapiente applicata a Dio ha un altro senso d' allorquando s' applica all' uomo; disfacendo così quella comunità di sapienza che s' era supposta, e secondo la quale si favellava. NB . Allorquando considero l' anima colla coscienza di se stessa ed involgo la coscienza nella stessa essenza dell' anima, allora commetto una di queste sintesi erronee che si vogliono disfare. - Questo per la Lezione VII. In questa lezione si dovrebbe fare una critica delle diverse definizioni dell' anima dimostrando che quelle che si censurano definiscono l' anima da cose estranee ad essa, e confirmando la propria definizione col senso comune dandone una spiegazione conveniente. Prima classe. - Sistemi che confusero l' anima colla materia. Seconda classe. - Sistemi che ridussero l' anima umana ad un soggetto senziente. Terza classe. - Sistemi che riposero la natura dell' anima nelle idee, ossia confusero il soggetto coll' oggetto. Quarta classe. - Sistemi che confusero l' anima umana con Dio. Quinta classe. - Sistemi che la riposero bensì nel soggetto, ma errarono tuttavia nel determinarne la natura. La questione dell' identità, benchè proposta nella lezione precedente, giova che si riproponga in questa; perchè è questione difficilissima ad intenderne bene lo stato [...OMISSIS...] . La questione dell' identità, che si riferisce alla moltiplicità degli atti, si è « come l' anima in quanto fa un dato atto non debba esser diversa dall' anima in quanto fa un altro atto, ma debba essere identica ». Egli pare che l' esser principio d' un atto sia altra cosa che l' esser principio d' un altro; che si debbano moltiplicare i principii e però le anime. Questa difficoltà si dee far sentire collo svolgerla lungamente. La risposta poi sta nel ben separare il principio degli atti dagli atti, il quale come tale non è determinato a nessun atto particolare nè speciale, e mostrare come questi si cangino, mentre quello conserva la sua identità. I principii prossimi degli atti sono le facoltà, e però la questione cade propriamente sull' identità delle singole facoltà. - Il dubbio che nasce, e che si dee levare, si è « se forse ciò che si chiama facoltà sia una collezione di principii e non un unico principio ». Il dubbio nasce perchè sembra che si trovino le facoltà col considerare ciò che hanno di comune più atti: ond' alla causa di ciò che hanno di comune si suppone che presieda una sola facoltà. Ma ciò che diciamo comune è un' astrazione; onde pare che anche le facoltà sieno astrazioni. - Convien provare che la cosa non è così; ma che la facoltà è causa di tutto l' atto, e non dell' elemento comune che in esso si trovi. Le facoltà sono certi principii d' azione che contengono virtualmente una specie astratta di atti , e che gli producono quando ne hanno lo stimolo od eccitamento opportuno. - Si prova che non è assurdo il concetto di tali virtualità, e che è ammesso dal senso comune e dall' osservazione del fatto. La virtualità specifica e semplice è sempre uguale, faccia ella più atti o meno: e qui si dee rinvenire l' identità delle facoltà rispetto alla moltiplicità de' loro atti, che sono aggiunte che vengono fatte alle facoltà, non mutazioni di esse. Conviene avvertire: 1 Che la moltiplicità numerica degli atti ha per ragione la moltiplicità degli stimoli o eccitamenti individuali applicati alle facoltà o potenze che vengono tratte ai loro atti secondi. 2 Che la varietà accidentale degli atti della stessa facoltà ha per ragione le accidentali diversità ne' detti stimoli, o anche le disposizioni abituali delle facoltà stesse. 3 Che la varietà poi delle facoltà ha per sua cagione la diversità specifica delle virtualità che costituiscono le facoltà, ossia anche la diversità specifica degli atti secondi determinati dai loro termini. (E` necessario aver qui a mano la dottrina delle specie e de' generi, quale è data nel « Nuovo Saggio »). Per questa lezione parmi che si possano raccogliere de' pensieri dall' ultimo libro dell' « Antropologia » e specialmente a faccia 494, nella nota, e faccia 519 - 522 dove si distinguono i principii d' operare delle persone. Esporre il sistema condillacchiano sulla genesi delle potenze, e confutarlo con gli indicati cenni, darebbe sufficiente materia alla lezione. Quando non bastasse questa materia, si potrebbe soggiungere alla confutazione di Condillac qualche altra difficoltà che si presenta nell' ammettere le potenze innate. Eccone la principale: « Nello stato primitivo dell' anima, cioè anteriormente ai suoi atti secondi, niuna facoltà s' è ancora manifestata. Le facoltà sono modi diversi dell' operare del medesimo soggetto. Ora fino a tanto che quest' operare non è passato al suo atto, l' attività rimane immersa nell' essenza dell' anima. Essendo questa essenza semplice, non si vede in che modo i modi del suo operare possano essere in essa distinti, e non piuttosto confusi in un' attività sola, principio unico di tutti gli atti futuri ». Si risponde esser vero che l' anima è semplice. Ma, consistendo questa semplicità nel ridursi tutta la sua attività ad un solo soggetto, non è tolta la semplicità di questo dal risultare composto di più atti primi semplici l' uno subordinato all' altro. Ora questo è appunto il caso dell' anima umana. Ella ha due atti primitivi: l' uno superiore, ed è l' atto che la rende intellettiva, l' intuizione dell' essere; l' altro inferiore, ed è l' atto del sentimento fondamentale - corporeo. Ora questi due sono atti distinti per la loro natura, e però sono innati. La distinzione poi delle altre potenze nasce dall' applicarsi questi due primi principii a diversi termini, e in diverso modo; e però possono dirsi prodotte e acquisite le potenze speciali. « Ricordati sovente », dice Giovanni Gersen, « di quel proverbio delle sacre carte: che la vista non si sazia per vedere, nè per sentire s' empie l' udito » (2). In fatti, non già le cose che noi leggiamo ci giovano per se medesime, ma la disposizione dell' animo, che dentro di noi in certo modo le cuoce e muta in nutrimento, è profittevole. Perciò una cotale delicatezza nello scegliere i libri, non accontentarsi di veruno, o volerne di troppi, e sperare di trovare ognora lumi migliori nei recenti, e in quelli che per avventura non si hanno, ma si sentono nominare, appalesa lievità di pensare, o mal uso formato. E' vuol dire, che non si guastano nè intendono bene que' che si leggono, che non si vede l' estensione e l' applicazione delle massime che quelli insegnano. Bisogna persuadersi di questo: a trovare eccellenti precetti, che pure abbraccino i bisogni tutti della vita, non è gran fatto difficile all' età nostra. E non è da gran tempo il Vangelo di GESU` Cristo in mano di tutti? Se non ce ne accontentiamo, manchiamo di riflessione e di vigore nell' intenderlo, amarlo, ed usarlo. Soli i due precetti della carità non contengono tutta la legge? San Giovanni ripeteva sempre quell' amarsi a vicenda (1): ei vedeva la forza e l' ampiezza di tale sentenza. Quelli all' opposto che l' ascoltavano, non penetravano nel midollo; perciò alla ripetizione si annoiarono, e il richiesero di cose nuove. E altrettanto avviene d' ordinario. Si addimandano nuove cose, perchè non si masticano, nè assaporano le vecchie; e perciò di esse non sentesi altro che la nausea della vecchiezza. I Cristiani primitivi non avevano tanti libri come noi, e ne sapevano tuttavia di virtù più che noi. Per nulla dire de' filosofi antichi, molti fondatori di ordini e società religiose non lasciarono regola veruna scritta a' discepoli loro, e si osservò, che la tradizione vocale serba più freschezza e spirito alle dottrine. Nell' Antico Testamento Iddio diede agli Ebrei scritta la legge sulle tavole di pietra; ma in Geremia promise, che il Messia la scriverà nel cuore (2). Quindi GESU` Cristo non lasciò cosa alcuna in iscritto, e fu sollecito in quel cambio di mandare a' suoi Apostoli lo Spirito divino dal cielo. Sentite, a questo proposito de' libri, i sentimenti del gran patriarca San Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] . Così la sente ancora Sant' Agostino nel libro primo della « Dottrina cristiana », dove mostra, che al perfetto vivente in grazia nè pure le sacre Scritture fanno bisogno, essendo la carità, che non cessa nè pure in cielo, sola necessaria, la quale anche le cose non necessarie fa utili. Ed ella è dunque ben pazza cosa l' insuperbirsi, come fanno i savi del mondo, per molti libri, i quali sono un rimedio alla nostra ignoranza; come è cosa pazza pavoneggiarsi di quelle vesti, che rammentano all' uomo la propria nudità, ed il proprio peccato. Oltrechè, come fanno i buoni, è cosa ben giusta, che almeno di questo secondo rimedio, che il Signore ci dà ne' buoni libri, profittevolmente usiamo, leggendoli con ispirito, con gusto, insomma con quella cristiana carità, che assennatamente riflette, e in tutto si edifica. Sono adunque nello stato nostro utili i libri, se di essi sappiamo nutrire lo spirito. [...OMISSIS...] A questo fine fuggite ne' libri ogni lusso: partiteli tutti in due classi. Gli uni vi formino una piccola libreria, nella quale abbiate il pascolo dell' anima vostra. Degli altri, se qualcheduno fra i migliori vorrete leggere, non sarà male, quando non perdiate mai l' amore ed il gusto a que' primi. Quali poi saranno que' primi? Le divine Scritture, il « Catechismo romano », alcune opere de' Padri, tutti i libri che si adoprano nella Chiesa, e le più sicure memorie de' Santi, specialmente de' primi tempi, come sarebbero gli « Atti sinceri de' Martiri », e i « Costumi dei primitivi Cristiani ». E se volete avere un bel corso di « Vite de' Santi », non saprei suggerirvi opera scritta con maggior saggezza di quella del signor Albano Butler, che dal francese del signor Godescard si rende pur ora italiana (3). Appartiene però ancora a ciascun cristiano in particolare la storia ecclesiastica della sua diocesi, perchè sappia chi ci abbia recato il lume dell' evangelio, per mezzo di quai Santi si sia diffuso, e successivamente mantenuto o aumentato (1). A direzione poi particolare dello spirito le opere di S. Francesco di Sales, il « Combattimento Spirituale » del P. Scupoli, e il libro « Dell' Imitazione » sono i primi. Se pochi altri ne vorrete, vi sovvenga nella elezione di quel ricordo scherzevole che dava un vero saggio (2), cioè che gli autori migliori incominciano da S , volendo dire che sono i Santi. In quanto alla sacra Scrittura, i nostri antichi Cristiani ne erano insaziabili, nè mai i Padri sono tanto eloquenti come allora, quando inculcano la lettura di questa lettera preziosa, dall' Onnipotente scritta agli uomini. Mirabile è l' ardore che avevano d' intenderla a propria e altrui edificazione anche le donne stesse, come veggiamo in Paola, in Eustochio, in Fabiola, delle quali Dame romane parla S. Girolamo. Accuserò io i moderni di non leggere le Scritture? Gli accuserò più tosto di leggerle poco santamente. Le leggono con freddezza, e come qualunque altro libro umano; pare quasi che si leggano per giudicarle, e non per esserne giudicati. Voi leggetele senza posa, e abbiatevi a regola nella lettura quanto v' insegna l' aureo Gersen nel capitolo quinto del libro primo della « Imitazione di Cristo », che altri non può dirne meglio. E` però a distinguere nella santa Scrittura da libro a libro; poichè nè a tutti, nè a tutte le età conviene lo stesso cibo. Così i Cristiani antichi, e gli Ebrei stessi proibivano la lettura di certe parti della « Bibbia » a' giovani. Generalmente attenetevi al Vangelo di GESU` Cristo, e al « Nuovo Testamento » tutto. Questo è il libro soprammodo fatto per noi che viviamo nel tempo della grazia; questo la chiave e il lume di tutte le antiche carte; e questo venìa raccomandato a preferenza degli altri dagli antichi Padri. [...OMISSIS...] Quanto agli antichi libri poi, i « Salmi » e i « Proverbi » sono di somme istruzioni fecondissimi; e lo stesso santo dottore Basilio disse una volta agli abitanti di Cesarea in una sua omelia: [...OMISSIS...] . Onde anche le varie parti della Scrittura a varie maniere di persone sono specialmente accomodate; sebbene diverse parti di lei idonee sieno a ciascuno, sì come i « Salmi » e il « Testamento Nuovo ». Per altro in questo studio vi sarà vantaggiosissimo qualche esperto conduttore. Il Direttore di tutti gli uomini è GESU` Cristo, e tanto è più savio ciascuno, quanto più ode questo Direttore. [...OMISSIS...] Di fatto, certa disposizione sincera del cuore, un vero amore della verità santa, e una vera indifferenza a tutte le altre cose, ci rendono facile udire la voce di questo Direttore, che in mille modi ci parla. Tante volte non si può avere un Sacerdote che ci diriga, fornito delle tre gran doti richieste da S. Francesco di Sales ad un valevole Direttore; cioè della Dottrina, della Prudenza, e della Carità (4); ma GESU` Cristo, che di tutto questo ha la pienezza, non ci manca mai. La principal cosa adunque è di rendere l' animo nostro capace della istruzione. Senza di questo nè pure un uomo fornito di tutte le doti ci potrebbe dirigere. Poichè tutta la virtù sta nell' ubbidire. E chi non ubbidisce al maggiore, come ubbidirà al minore? Da questo però, che non solo ogni perfezione, ma ben anche ogni bontà di vita consiste nell' ubbidire a quanto i superiori c' impongono, dovete conoscere il pregio infinito dell' ubbidienza, e di più, che nella sincera disposizione di ubbidire consiste ogni vantaggio, che un Direttore ci potrebbe apportare. Quando disse il nostro Signore: « Se alcuno vuol venire dopo di me, anneghi se stesso, e prenda la croce sua e mi segua » (1), allora parlò di questa disposizione di animo, per cui siamo sommessi ai nostri superiori; sieno tali o per la natura loro, o per l' offizio, o per la elezione nostra. A Dio e ai pastori da lui stabiliti nella sua Chiesa noi dobbiamo assoggettare la nostra volontà. E perchè non v' ha cosa più eccellente della volontà umana, per questo non v' ha sacrifizio più a Dio gradito nè più a lui dovuto di quello, con cui la volontà nostra a lui si sottomette. Questa è la negazione di noi medesimi come precetto. Se poi eleggiamo qualche persona opportuna, a cui sottometterci in tutte le nostre operazioni, e da cui esser diretti in cambio di dirigerci da noi medesimi; questa è un' ubbidienza di consiglio. Alla quale se ci obblighiamo per voto, entriamo in quella che si dice perfezione religiosa. Della ubbidienza di consiglio tutta è formata la vita di GESU` Cristo. Poichè egli umiliò se stesso fatto ubbidiente sino alla morte, e morte di croce (2). E tant' è vero che ciò consiste nella negazione e rinunzia della propria volontà, che Cristo dicea nell' orto: «. In due cose adunque sta il pregio dell' avere una persona che ci diriga, cioè nel soggettamento elettoci per nostro volere, e nel facilitamento che tiriamo da' suoi consigli a vivere santamente. Per altro S. Francesco di Sales v' insegna ad esercitare l' ubbidienza verso di tutti, e a sentire anche da per tutto la voce del Signore (1). E voi felice se esercitar sapete l' una e l' altra di queste virtù, e felice in particolar modo se sapete rinvenir quel consigliere esperto, quell' amico fedele, quella guida sicura, che fra le migliaia ci avvisano i Santi di ricercare, e che lo Spirito divino chiama « medicina della vita e della immortalità, e tesoro più ricco d' ogni ammasso d' oro e d' argento » (2). L' educazione altrui è un affare gravissimo, se riguarda la religione. Poichè con essa sono affidate alla nostra attenzione le anime, il prezzo delle quali è in qualche modo infinito. Perciò nella cura delle povere ragazze che prendete, viene ad essere a voi dato un tesoro in deposito, che vi dee fare e temere e vigilare a custodirlo fedelmente. Sono oltrecciò queste anime giovani e innocenti, di cui il nostro Signore parlò con sì grande affetto, [...OMISSIS...] . Ecco quanto incarico abbiate! Se per negligenza vostra quest' anime soffrono danno, voi siete entrata mallevadrice. E sapete che cosa dice il divino Spirito a chi ha tolto sopra di sè malleveria di anime? [...OMISSIS...] . Le quali cose voglionsi credere dette non già a sconfortarci di prendere la cura d' altrui; sì bene a confortarci di prenderla con ardore. Perciocchè noi ai soggetti dobbiamo la nostra diligenza, non già la loro guarigione (1). Così Dio diceva ad Ezechiello, a cui era stato commesso l' offizio di ammonire gl' Israeliti: [...OMISSIS...] . Così parimenti il Savio nei « Proverbi » insegna a liberar se medesimo appunto col mezzo di non trascurare attenzione da parte nostra nè fatica, perchè l' amico si debba risentir dal suo sonno. Che anzi Dio, il quale diè precetto a ciascuno del suo fratello, a pigliarci tali cure di carità ci chiama in molti luoghi nelle Scritture. Così prima d' impaurirci dallo scandalezzare i fanciulli colle parole surriferite, ci incoraggia a edificarli, [...OMISSIS...] . Vedete se a tali parole dobbiamo avere fiducia, che ci darà anche forze valevoli a sostenere il carico. Dio medesimo è che prendiamo in cura. E quando mandò Ezechiello agli Israeliti, missione dura e difficile, gli disse ancora così a confortarlo: [...OMISSIS...] . All' opposito, a voi è destinata d' istruire una famigliuola dolce e pieghevole. Fate però cuore. Avrete dal Signore, che v' esorta a prendere il peso, la grazia necessaria a portarlo, e secondo la misura della grazia quella della gloria. Perciocchè in Daniele leggiamo: [...OMISSIS...] . Al nostro tempo (diciamolo senza riguardo) si sogliono prendere comunemente le cose della religione con non so quale indifferenza e lievità di spirito. Perchè Iddio rendette frequenti i misteri suoi, le sue dottrine, gli uffizi della perfezione, per questo con ingratitudine si dimentica il pregio loro, se le riguarda quai volgari cose, e si smarrisce coll' assuefazione la forza dell' impressione, la vivezza del concepire. All' incontro nelle prime età della Chiesa, i Cristiani pieni dello spirito di verità vedean le cose nella loro giusta misura, tutto nella Chiesa trovavano santo, tutto di grandezza immensa, e richiedente una fedeltà e rigore sommo. Se quegli avessero eletto donna, a cui affidare comechessia l' educazione di una parte della greggia di Cristo, dopo delle preghiere a Dio, sarebbero venuti alla scelta cauti e circospetti; avrebbero chiesto de' buoni testimoni di sua vita, dei saggi di specchiata condotta, di conosciuta virtù, di frugalità, di lavoro delle mani, di carità, ritiratezza, orazione, di tutto in somma quello che forma la cristiana vita. Tante diligenze non si usano adesso: ma tanto maggiormente però vi bisogna riflettere e rispondere alla vocazione. Come pensava e diceva S. Paolo della Chiesa di Corinto, voi avete a dire della piccola vostra congregazione: « Io sono gelosa di voi per zelo di Dio. Poichè vi ho sposato a un uomo solo, a Cristo, e con intenzione di presentarvi a lui come pura vergine » (1). Che dunque fare? Apparecchiarvene. Per non rimuovermi dai luoghi sopraccennati della Scrittura, sentite di Ezechiello quando Dio il mandò a riprendere gl' Israeliti: [...OMISSIS...] . Questo è il volume della legge. Iddio l' ha dato anche a voi, e vi comanda mangiarlo. Se ubbidirete, ve ne farà sentir la dolcezza. Ma se nol mangiate, non potrete avere nè adempire missione alcuna non solo determinata e peculiare, ma nè pure ordinaria e generale, di cui qui si parla. D' ora innanzi meditate adunque più addentro nella santa legge. In una parola fate quello che disse GESU` Cristo di se medesimo: « Io santifico me stesso per essi » (1). GESU` Cristo era santissimo, e non bastò. Si rese sacerdote e vittima, il che vale in quel senso santificarsi , cioè « entrare nel Sancta per mezzo del proprio sangue, ritrovata una redenzione eterna » (2); redenzione non già sua, ma nostra. Così compiè tutto quello che poteva fare per le sue pecore. Compitelo dunque anche voi, essendo egli il modello. Voi non siete santa come lui. Avete dunque due maniere di santificarvi per le fanciulle affidatevi. L' una di crescere nella virtù e nella fervidezza dello spirito, l' altra di sofferire tutti i dispiaceri e travagli e anche persecuzioni, che aveste la grazia d' incontrare, offerendovi così in sacrificio tutta insieme con Cristo, « affinchè esse pure sieno santificate nella verità » (3). Sentenza è di S. Agostino, che la obbligazione di esercitare la carità verso altrui è merito d' ottenerla anche verso se stessi (4). Perciò quanto alla prima santificazione voi siete aiutata dall' offizio stesso che avete preso. Fatelo dunque con tutta cura. « Correte in questa e in quella parte, affrettatevi, svegliate quelle vostre amiche ». Senza dubbio avrete da incontrare difficoltà e fatiche; ma « vi siete legata colle parole della vostra bocca ». Se voi non le affronterete con forza « non iscapperete come daino dal laccio, e come uccello dalle mani dell' uccellatore ». Avrete ancora dei gravi dispiaceri, veggendo talvolta il riuscimento cattivo delle vostre fatiche, e l' asprezza del vincere indoli ritrose. Vi sovvenga perciò, che d' altra parte vi sarà aggiunta della fortezza. [...OMISSIS...] Sarannovi fatte ancora delle dicerie, date delle molestie, e supponiamo ancora che veniate perseguitata o per malizia, o per errore. Quanto alla prima cagione, qual conforto non ci dà Cristo quando ci disse: « Il mondo gli ha odiati perchè non sono del mondo, sì come io non sono del mondo? » (6). E a malgrado dell' odio del mondo così aveva detto innanzi GESU` Cristo parlando al padre: « Adesso poi vengo a te: e tali cose dico essendo nel mondo, affinchè abbiano in se stessi compito il mio gaudio » (7), cioè « il gaudio del nostro Signore » (.). Quanto a' buoni, anche Ezechiello preso dallo spirito fu legato dai domestici, credutolo forsennato: ma fu Iddio che dispose così, come gli aveva detto (1); e fu per un fine grande, come sono tutti quelli d' Iddio, cioè di profetare nella figura di quelle catene la schiavitù di Gerusalemme. Tenete fermo, che « Iddio dispone soavemente tutte le cose » (2). Quindi da tutte, qualunque sieno, anzichè venirci dolore, ce ne verrà grande allegrezza, e « il gaudio nostro sarà compito ». E si avverranno queste cose prosperamente in voi, se le domanderete al Signore. Il buon vostro padre non vi può niegar nulla, ma voi siete nel dolce obbligo di domandargliele. [...OMISSIS...] Oltre la continua preghiera, e a tempi stabiliti, raccoglietevi un fascicolo di brevi orazioni da dire spesso per la giornata, adattate all' uopo, e che possano cadere in acconcio alle varie circostanze in cui vi trovate. Eccovene a ragione di esempio alcune tratte dalla Scrittura, e dall' uso della Chiesa: 1 Il segno della croce, che viene dagli Apostoli, e in tutte le cose l' adoperavano i primi Cristiani. Poi queste altre: 2 « Crea, o mio Dio, in me un cuor mondo » (4). 3 « Non rigettarmi dalla tua faccia » (5). 4 « Rendimi la letizia del tuo Salvatore » (6), che è appunto quel gaudio sovraccennato. 5 « Signore, tu aprirai le mie labbra, e la mia bocca annunzierà le tue lodi » (7). 6 « Come tempera il giovinetto le sue inclinazioni? coll' osservare le tue parole » (.). 7 « Benedetto sei, o Signore: insegnami le tue giustificazioni » (9), cioè le sublimi ragioni, con cui si può confondere ogni temeraria censura, che gli empi fanno alla divina provvidenza. . « Togli il velo a' miei occhi, e considererò le meraviglie della tua legge » (1). 9 « L' anima mia al suolo è distesa: dammi vita, secondo la tua parola » (2). 10 « Assonnò vinta dal tedio l' anima mia: colle tue parole dammi vigore » (3). 11 « Dammi intelletto, e studierò e osserverò con tutto il cuor la tua legge » (4). 12 « Togli gli occhi miei da ogni vanità della terra » (5). 13 « A chi mi dileggia dirò, nelle tue parole aver io posta la mia speranza » (6). 14 « Non toglier mai di mia bocca la parola di verità » (7). 15 « Ti ringrazio, o Signore, perchè sono partecipe di tutti quelli che ti temono », per la comunione dei Santi (.). 16 « Insegnami la bontà, la disciplina, e la scienza » (9). 17 « Nel tuo verbo ho riposta la mia speranza » (10). 1. « Se meditato non avessi alla tua legge, nell' afflizione sarei perita » (11). 19 « Configgi col tuo timore le mie carni » (12). 20 « Il Signore si è il mio Pastore: ei mi ha collocata in paschi ubertosi » (13), cioè nella sua Chiesa. 21 « A te il povero si abbandona: tu sarai l' aiuto dell' orfano » (14). E tante altre simiglianti, adoperate da' Santi, come son quelle di S. Filippo Neri; raccomandandovi anche in ciò di non variare sì spesso, ma di dire quella che vi suggerisce lo spirito ne' vari momenti, con tutto il fervore e la simplicità del cuore. La educatrice debbe essere specchio alle sue giovani, come Cristo è a lei: altrimenti edificherebbe con una mano, e distruggerebbe coll' altra. Ascolti ancora l' Apostolo: [...OMISSIS...] . « In tutte l' opere vostre siate precellenti », dice l' « Ecclesiastico » a quelli che presedono a qualche adunanza. Andate innanzi in tutto. Non trasgredite adunque mai nè per freddezza di stagione, nè per noia che v' assalga, nè per piacere, nè per dolore parte veruna della regola prefissavi a principio. Non errate l' ore prescritte. Nè le giovani che educate, nè le femmine cooperatrici s' accorgano mai, s' egli è possibile, che siate stanca o affannata; non fate lamento; porgetevi sempre egualmente ilare con loro, rigorosa con voi, saggia con tutti; che è quella bontà , quella disciplina , quella scienza , che dimandate a Dio nella giaculatoria decimasesta di sopra proposta. Il Savio aduna tutte le lodi di donna perfetta nell' epiteto forte (1). Però se avete affanni e noie (2), cercate il momento di ritirarvi sola, e col Signore sfogatevi pure senza timore, lamentatevi, e ditegli, che siete quella miserabile che sentite d' essere. Egli sì vi risponderà nel fondo del cuore parole divine che vi ritorneranno la serenità, l' alacrità, e più forze che prima: [...OMISSIS...] . Non potendovi ritirare a lungo, vi aiuteranno in ciò le giaculatorie terza, quarta, nona, decima, decimaterza, decimasettima, decimaottava, decimanona, che potete dire col cuore in brevissimo tempo. Costante in questo pensiero, d' essere con voi stessa severa in ogni cosa che appartenga al vostro incarico, porrete peculiare attenzione in alcuni doveri particolari. Secondo mio parere gioverebbe, che a voi stessa riserbaste tutto quello che appartiene all' istruzione di spirito: sopra l' altre cose vigilando, in modo però, che non avvenga nè si faccia cosa senza che voi l' abbiate preveduta e approvata. Gli offizi dell' istruzione spirituale possono ridursi a questi: leggere, insegnare, confutare, consigliare, esortare, riprendere, e castigare . Dal modo di leggere pende buona parte del profitto che si tira dalle letture. Non sarà dunque inutile di farne un piccolo cenno. Nel leggere si vuole accompagnare la lezione in bel modo e spontaneo colla voce e col gesto, sicchè il senso venga, per quanto è possibile, ad apparire e sporgere con quella forza, che egli ha, nè più, nè meno: e tenga la sua propria indole. Se adunque voi leggete loro alcuna cosa da muovere al riso, non le inducete a serietà col portamento: se qualche cosa seria, non apparisca nel modo di esprimerla cosa alcuna da riso. Checchè sia quello si legge, farassi sentire spiccato, battendo le lettere raddoppiate, serbando la puntatura, dando energia al concetto. Onde vedete, che non è al tutto facilissimo uffizio far bene non che l' istruzione, ma nè pure la lezione spirituale. S. Benedetto volle, che chi leggesse nel refettorio si apparecchiasse con una orazione apposita (1); e ciò perchè vedeva da un canto, che il leggitore ha molta parte al profitto degli uditori se con ispirito legge; dall' altro, che leggendo con ispirito da produrre questo profitto, facil cosa è, che sottentri anche in ciò furtivamente qualche poco di vanità. Nella Chiesa, ove tutto è grave, decoroso e perfetto, esemplare sommo della vita regolata, v' ha un Ordine apposito per leggere, cioè il Lettorato, a cui però non è commessa la lettura dell' Epistola, di cui n' ha offizio il Sottodiacono; nè a questo la lettura del Vangelo è affidata, la quale al Diacono si appartiene. Quanto all' istruire , l' « Ecclesiastico » dice: [...OMISSIS...] ; e notate tutte le parole della sentenza. Ma chi crederebbe oggidì, che l' offizio di istruire fosse quello, che a S. Agostino fece versare lagrime, sommamente scontento di se stesso quando ordinato prete se ne provò, per le difficoltà che sentì d' incontrare ad adempierlo quale ei bramava, sì come ne scrisse a Valerio vescovo (3), scongiurandolo di volerlo lasciar alcuni giorni sino alla prossima Pasqua in ritiro per apparecchiarsene colle preghiere e lo studio? E fra l' altre cose dice così: [...OMISSIS...] E fate ragione, se S. Agostino così dicea (1), che dovremo dir noi? Non badate dunque se gli spensierati si prendano come celia cosa tale: non falliremo a stare sempre attaccati a' primi maestri. Rispetto al modo voi dovete impicciolirvi alla misura altrui, e distribuire a tutte secondo lo stomaco, per così esprimermi, di ciascheduna, a cui latte, a cui minuzzoli di pane, a cui cibo più solido. Fate sempre precorrere il pensiero alle parole, parlate a rigore d' espressione, con placidezza, ilarità, e spirito. Frapponete qualche racconto, di cui è avida la tenera età, e qualche piacevolezza, acciocchè con moderato riso si ricreino, e non istanchino di troppo le forze della mente. Fate nel tempo dell' istruzione che abbiano fra mano un lavorìo, perchè difficilmente possono star fermi i fanciulli senza muoversi in qualche modo, e se non assegnate il movimento, movendosi come loro viene voglia, si divagano. Se poi a qualche tratto del vostro discorso, che le colpisce, ristanno dal lavoro, e si mettono in atto di maggior attenzione; lasciate facciano così, che tanto è meglio. Del rimanente in tutto ciò vi rimetto all' aureo opuscolo di S. Agostino, « Del modo di catechizzare gl' idioti », per me reso volgare (2). Sebbene in esso non tutto sia adatto pel caso nostro, essendo diverse le circostanze, tuttavia ne caverete meravigliosa istruzione bene meditandolo. Specialmente apprenderete ivi, con qual gusto si debba porsi ad istruire, e quanto tal gusto giovi a farci uscir l' istruzione spontanea e fervente. Quanto al vostro confutare , non è già un venire a tenzone con perverse opinioni e ostinate: ma tutto l' affare sarà in risolvere qualche difficoltà proposta, o qualche erroruzzo di non perfetta intelligenza. La massima principale che in ciò vi conduca sia questa, di trascegliere fra molte risposte, che talora dar potrete, quella che maggiormente acquieti ed illumini chi propose la difficoltà. Sovente uno schiarimento maggiore delle cose dette, un esempio, un racconto, una parabola, dileguerà dalle menti giovanili ogni difficoltà. Talora sarà meglio eludere la risposta, o pure far loro un argomento appoggiato solo su' lor principii, secondo che la circostanza dimanda. Sì dell' una che dell' altra maniera ce ne diede esempio Cristo stesso. Vedete in S. Matteo, c. XX e XXII, e in S. Giovanni, c. X. Fino a qui de' vostri offizi come maestra. Ora toccheremo alcuna cosa del consigliare , che è, più che altro, uffizio di amica. Avete accolte quelle pargolette; fate altresì di appareggiarvi a loro. Resa quasi una del loro numero, abbiano esse con voi tutta l' amichevole confidenza. Allora s' apriranno con voi de' loro animi, e voi potrete accorrere co' salutari consigli. Potete bensì darne alcuno di moto proprio, senza esserne chiesta; ma sarà più vantaggioso avvezzandole a dimandare. Se il vostro consiglio sarà sì dolce, sì amico e saggio, che esse partano da voi contente, vi torneranno altre volte. E questa è gran via per far del bene. Dite loro di spesso questo detto dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . D' una cosa finalmente vi avverto, che potete benissimo consigliare dove è precetto, ma guardatevi dal precettare là dove è consiglio. In questo anche S. Paolo usava somma avvertenza, come potete vedere nell' Epistola I ai Corinti, c. VII, e nella II, c. VIII. L' esortare ha una gran forza sugli animi. Li fortifica, gl' infiamma, li fa operare. Per questo S. Paolo raccomanda spesso tale offizio a Timoteo e a Tito. Dovete farlo con sommo calore, persuasione e autorità. Quando parla una persona, che mostra di non avere il menomo sentore di dubbio di quanto dice, anzi di essere penetrata di zelo ardente, difficile è che l' uditore possa resistere, in guisa che ei non entri poco o molto nei sensi dell' esortante. L' esortazione però, come dice Paolo, sia sempre congiunta coll' edificazione e colla consolazione (3). Di più, avendo voi a fare con docili fanciulline, non avverrà che offendiate mai il loro amor proprio esortandole a virtuosa condotta. Perciò state sicura, che più che sarete in sull' esortarle, farete più bene. Fatelo dunque spessissimo, anzi continuo. Vengo all' offizio di sorella, che è quello di riprenderle ne' mancamenti. Lo spirito di dolcezza deve brillare in tutto; qui poi come in sua sede. Nè la dolcezza escluderà la forza. Il riprendere debb' essere come il « favo di mele in bocca al leone » (1). Farete la cosa con energia se sarete addolorata del mancamento loro, mettendovi ne' lor piedi. Ecco Ezechiello mandato a rimproverare gli Ebrei: [...OMISSIS...] . Ora saranno ben picciole dispiacenze, ma nulla ostante gioverà che facciate sentire alle fanciulle un dispiacere da vera sorella, non già amaro nè ostinato, ma dolce e facile a rasserenarsi dove ne venga tolto il motivo. Quanto alle regole del correggere, tenete quell' avviso di S. Agostino, di non farlo, trattandosi della privata correzione, a norma solo del male commesso, ma della disposizione dell' animo a cui si fa: a quello stesso modo che non si vuole già mangiare a ragione della bontà del cibo, ma della forza che ha lo stomaco di digerire. Il fine unico debb' essere il vantaggio. Onde si vuol fare in quella maniera che giovi: e parimenti cercare i luoghi, i tempi, e tentare gli aditi più facili de' cuori, e sempre con carità, dolcezza e gaudio della corretta. Per altro è pur malagevole anche questo offizio a farlo bene; e leggete la lettera novantesimaquinta di S. Agostino diretta a Paolino e a Terasia se volete vedere quanto ei per sè n' era turbato. [...OMISSIS...] Quanto al gastigare , è l' uffizio di madre. Anche qui vi bisogna spiare le varie indoli delle giovani, e calcolare il vantaggio che ne prendete. A questa norma attemperate i castighi. Quello però che potete ottenere coll' istruzione, col consiglio, coll' esortazione, colla correzione, non vogliate ottenerlo mai con un castigo: quello che potete avere con una correzione leggiera, non vogliate con una forte. Quello che potete con una occulta, nol vogliate con una pubblica: quello che con una pubblica, non con un castigo; e parimenti quello cui conseguir basta un leggiero o celato castigo, non tentate di averlo con un pubblico e grave. Tutto insomma sia ragionevole, circospetto, richiesto. [...OMISSIS...] Mi restano a dire poche cose sull' altra parte del vostro ministero, che è quella di sopravvegliare agli uffizi, che non prendete a far voi medesima. Questa vigilanza risguarda sì le donne assistenti che le fanciulle. Colle assistenti donne contenetevi sì come consorella affettuosissima. Non ostentare mai superiorità, tenerle in dovere colla voce, ma più coll' esempio, grave ed amabile contegno, parlare che nulla abbia di superfluo e nulla di mancante. Tutto quello che dite tenga in sè o istruzione o sincero amore verso di loro, senza che nè l' una produca noia, nè l' altro mostri affettazione. Se voi condirete con qualche buon sale il vostro discorso, tornerà ancora più caro. Sempre poi sia famigliarissimo, pieno di stima verso di tutte. E` grande e bella ed utilissima cosa mostrare vera stima a tutti. Faceva così s. Paolo coi fedeli. [...OMISSIS...] E non si può credere quanto incoraggi altrui a far bene mostrar di presumere a vantaggio di loro, che opereranno lodevolmente. Colle fanciulle poi a un di presso dovete fare lo stesso. Osservate ogni cosa, rimediate tosto a' piccioli sregolamenti che non si sono potuti evitare colla previdenza, e tutto ciò manco sia fatto con azione diretta e faticosa, di quello che sia con indiretta e soave. La donna forte del Savio regge la casa sua coll' attività, non co' gridori nè colla forza, ed ogni cosa va bellamente. « Ella cinge di fortezza i suoi fianchi e fa robusto il suo braccio » (3); e dopo averla esso Savio lodata per l' opere, che pare ella faccia quasi in silenzio, così dice del suo parlare: « Con saggezza apre ella la bocca sua, e la legge della bontà governa la sua lingua ». Dalla pratica della virtù sembra inferire, che ella abbia appreso a virtuosamente parlare. Così avvierete bene la famiglia, e rassomiglierà ad una macchinetta. Messa in movimento seguirà a rivolgersi portata dal primo moto senza bisogno quasi di altra spinta, ma bensì di molto vigilare a rimovere i filuzzi o sassolini o come che sia i piccioli intoppi d' ogni maniera, che mettendosi fra le ruote la potessero rallentare, o rompere, o fermare. « Il regno de' cieli è somigliante ad un tesoro nascosto in un campo. Scoperto il luogo da alcuno, questi nol dice a veruno; ma se ne va tutto allegro, vende quanto ha, e compera il campo » (1). Or se di qui debbe pigliar regola l' uomo cristiano, forte dubbio s' affronta: Se l' uomo vende tutto per solo il cielo, come vivere? come tener gli amminicoli della vita? come fare alcune azioni di vita civile, mangiare, bere, dormire, camminare, parlare? Pur è così: tutto debb' essere venduto pel tesoro nascosto nel campo. Ma udite bene. Può comperare, anzi è costretto di comperare ancora il campo, ma lo compera a cagion del tesoro, può, cioè, anzi ha l' uomo necessità di fare delle cose, che di loro natura spirituali non sono, ma farle a lui conviene per lo scopo spirituale, che in esse vi mette. Anzi col lume del nostro unico maestro traggo avanti il mio discorso, e vi dico a piena fiducia, che voi dovete non solo cercare in ogni cosa lo spirito, ma la perfezione dello spirito. [...OMISSIS...] Chiudiamo il ragionamento, e diciamo: nessuno dunque entrerà in quel regno celeste, se non vorrà farsi il più picciolo, cercando quella perfetta semplicità, umiltà ed innocenza, di che la natura medesima fa dono ai fanciulli. Egli basta dunque essere cristiani a dover sapere, che il pregio vero di qualunque azione nostra è quello d' essere volta a Dio, e d' essere investita perciò nel celeste tesoro. Vi sia dunque nell' animo fitta questa somma e incommutabile massima della dottrina di nostro Signore, che ad ogni uomo conviene attendere alla sublimità, e alla somiglianza con Dio: non venendo ciò mai in opposizione colle oneste condizioni degli uomini. Non vi vergognate pure di dire con ogni franchezza, che nella educazione delle ragazzine vi proponete di farle sante e perfette quanto è da voi. Ecco l' altezza e la nobiltà del cristiano pensare. Conosciuto ora di che natura sia l' edifizio che prendete ad erigere, delineate il disegno. Abbia quasi due piani: le verità cristiane, e le virtù. Formiamo adunque breve trattato ne' fogli seguenti sì delle verità da insegnare, che delle virtù da infondere. La intelligenza è quel dono magnifico di Dio, che distacca infinitamente l' uomo disopra degli animali tutti, e per cui è fatto ad immagine e similitudine della divinità (1). [...OMISSIS...] Mirate dunque la nobiltà umana! vedete l' altissimo fonte di lei ascendendo in sull' orme di questo gran Dottore nella somiglianza con Dio formata dalla intelligenza da lui a noi comunicata, sopra la quale non v' ha nulla fuori che Dio, e sotto alla quale pure nulla, fuori che cosa infinitamente da lei distante. Quanto dunque è per noi da educare quella illustre facoltà, e la cultura di lei con ogni amore studiare! Dipoi considerando a' disordini e alle sregolatezze umane, facile è avvedersi, che quasi sempre divengono da ignoranza, o ignoranza hanno congiunta. Eh! se gli uomini fossero più dotti, egli sarebbero ancora migliori. La morte stessa di Cristo fu figliata da trista ignoranza, e non sarebbe avvenuta, se « quegli avessero compreso che si facessero » (1). E sembra che basti conoscere Iddio perchè dolcemente spinti veniamo ad amarlo! Di più ancora dicono nella nostra sentenza quelle parole: « La vita eterna non è che conoscere un solo vero Dio, il Padre, e Gesù Cristo mandato al mondo da lui » (2). In queste apparisce come una viva cognizione torni quasi ad una cosa medesima coll' amore, e proprio col godimento di Dio. Qual raccomandazione più grande ad una pia istruzione? Di qui molti Santi, di zelo e d' esperienza pieni, facevano dell' insegnamento tal conto, che desideravano sempre un predicare tutto a famigliare ammaestramento; e ben sapevano quanto indi vantaggio se ne coglieva. Adunque proponete di volerle bene ammaestrate e dotte. Avvi modo, chi sa farlo, che continua sia l' istruzione: preziosa cosa: e solo con essa s' ottiene quanto S. Paolo diceva a' Colossesi: « La parola di Cristo abiti in voi con pienezza » (3). Le cose poi da insegnare loro, quanto allo spirito, si possono, come a me pare, ripartire acconciamente in tre capi: Della vita civile: della Dottrina cristiana, e di un più perfetto insegnamento . [...OMISSIS...] Questo insegnate alle fanciulle vostre. E fate loro intendere come ciò sia: come le nostre azioni, se fatte non sono in nome di Gesù, non abbiano che merito naturale, il quale è nulla per la vita eterna. Mostrate, che un' azione fatta in nome di Gesù Cristo vuol dire fatta per dare piacere a lui, per fare la volontà sua, e quasi per incombenza ricevuta da lui medesimo, fatta ancora insieme con lui o sia rivestiti di lui e spogli d' Adamo, cioè dell' uomo del peccato, e quindi fatta per virtù della grazia sua, fatta in somma rendendo per mezzo di Cristo grazie a colui, che è Dio di Cristo uomo, e che è padre di Cristo Dio, e il quale ci mandò Cristo Dio e Uomo in una congiunto . Dopochè ben a dentro loro avete impressa tale istruzione intorno alla comune vita, esponete, che cosa da essa ne consegua. Primieramente di essa viene, non avere già più per l' uomo cristiano azione veruna onesta in questo mondo, la quale sia veramente bassa e ignobile; anzi essere grandi e nobilissime tutte, perchè tutte possono e debbono essere sante e valgono la vita eterna, e perchè il discepolo di Cristo le fa, come dicemmo, con esso lui insieme. « Dunque non v' abbia alcuna fra voi, soggiungerete, la quale si lamenti della condizione sua, o ricusi di fare alcuno offizio per la ragione che a voi sembri vile, non avendo esso che una viltà apparente, e agli occhi di quelli che della nostra santa legge poco bene si conoscono. Quando GESU` Cristo lavorava in bottega o in casa di Giuseppe, credeva bensì il volgo che egli facesse mestiere plebeo, ma in sostanza faceva allora uffizio infinitamente più illustre innanzi alla verità di Dio di quello che facesse il romano imperatore. Non è vile cosa alcuna, la quale possa essere santa, e la quale non canserebbe di farla GESU` Cristo stesso: è vile, ignobile, e degno di sprezzo il solo fasto del mondo, e qualunque cosa che offenda Dio ». Tali massime riposte nel loro cuore, daranno di bonissimi frutti. Ma di questa generale dottrina conviene, perchè bene l' assaporino, fare loro delle applicazioni a tutte le opere della vita. Di spesso accade, che la virtù e la perfezione ci sia mostrata, ma non ci sia indicata la via d' andarvi. Voi poi dovete anzi prenderle per mano e condurvele. Per esempio, intorno al mangiare ammaestratele del modo come si mangia, unendo insieme col cibo del corpo quello dell' anima. In primo luogo persuadetele, che il mangiare per sè è azione che non aggiunge dignità veruna all' uomo, poichè anche gli animali, direte loro, mangiano come noi. Appresso andate più avanti. Osservate, che il mangiare discuopre la nostra infermità. Tutti i bisogni nostri ci mostrano limitati e miseri. Quando la fame ci avvisa di prender cibo, ci avvisi anche che abbiamo peccato. Perocchè sebbene anche non peccando l' uomo avrebbe mangiato, tuttavia non avrebbe avuto il dolore e la morte che gli viene del non mangiare. Onde siamo fatti schiavi del cibo, perchè l' uomo col cibo tentò schivare di essere servo di Dio. Potete poi sopra ciò aggiungere, che il mangiare a noi sarà non solo di disonore, ma altresì di colpa se non l' useremo secondo suo legittimo fine. Il fine del cibo è di supplire alla nostra necessità. Quanto al diletto del palato fate loro comprendere, che è pure cosa vilissima, e che Iddio ce l' ha dato per confortarci nella miseria che abbiamo di prendere cibo; ma molto più per farci esercitare la virtù di ordinarlo a lui o a lui sacrificarlo: non volendoci sì nell' uno che nell' altro caso dilettare altro che d' Iddio, benchè potessimo dilettarci ancora di qualcos' altro. Quindi venite più in particolare bel bello sponendo i cinque vizi, ne' quali si può cadere mangiando, distinti da S. Gregorio nei Morali: [...OMISSIS...] . I quai modi tutti bello è che illustrati sieno cogli esempi della Scrittura, cui lo stesso Santo ivi appresso somministra. Dopo ciò si possono indicare i modi così generali, come particolari di ripararci da somiglianti vizi. Finalmente mostrerete con bel modo come il nostro Signore apportò veramente a noi, per così dire, la pietra filosofale (spiegando loro che cosa s' intendea per essa) onde possiamo fare oro da tutte cose le più spregiate o indifferenti. Di qui i modi delle virtù intorno al cibo contrari a que' cinque vizi. In fine persuaderete una bella indifferenza per qualunque maniera di cibo, l' amore alla sobrietà, e a quelle virtù. Deplorerete la tristezza umana di servirsi sì poco di quest' arte preziosissima di Cristo. Narrerete che cosa erano le antiche agapi cristiane, e perchè si chiamavano con questo greco nome che significa dilezione . E a modello finalmente proporrete loro GESU` Cristo stesso: quando pregato da' suoi discepoli a prendere un po' di conforto, sebben dopo lungo viaggio, rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di colui, che mi ha mandato, e di compiere l' opera sua » (1). E se lo figureranno commensale, e così anche rammenterete que' primi fedeli, i quali « spezzando il pane per le case, prendevano cibo con gaudio e simplicità di cuore, lodando Iddio » (2), e loro mostrerete come questo gaudio e questa simplicità giovi alla stessa salute del corpo assai più che la crapola e l' intemperanza , di cui aprirete gli effetti funesti. Nè tutte queste cose, ed altre simiglianti, che saranno vostro dolce studio, facendo in voi tesoro di esempi, di fatti, di similitudini, e d' ogni lume del discorso, le direte già loro così tutte in una fiata talchè n' abbiano sopraccarico, ma ora l' una or l' altra trarrete fuori a tempo e luogo acconcio. E quando le legherete loro in mente con qualche arguta sentenza, o dove venga bene anche con alcuna puntura contro de' vizi; quando le stempererete loro nell' animo con più distese parole, secondo l' opportunità e la voglia che vedrete in esse di sentirvi parlare. Poichè dovete esser sollecita di prepararle sempre vogliose, e di non parlare loro (almeno a lungo) se non quasi pregata; come ponendo osservazione nel Vangelo si vede che faceva quasi sempre il sommo nostro Maestro. Alla stessa maniera sappiano di tutte le parti della vita. Così otterrete con ogni verità, che « la legge di Dio sia lucerna a' loro piedi » (3); otterrete che di tutto traggano merito, e però la loro vita sia tutta orazione , colla quale impetrino nuove grazie. Sono da meditare singolarmente a quest' uopo le lettere di Paolo e di Pietro che traboccano non solo di concetti sublimi intorno lo stato e la vita cristiana, ma sì ancora d' immagini e di simboli i più vivi ed opportuni a facilitare la intelligenza del cristiano spirito, a distinguerne la bellezza, e a tenere delineati e freschi, dirò così, i precetti nella memoria. Aggiungete lo studio de' libri sapienziali e de' « Salmi », mirabile libro, che giova a tutto, e a cui sì spesso richiama il « Nuovo Testamento ». A maggiore vostra regola ed esempio rechiamo tuttavia un altro saggio di questa familiare istruzione sulle cose della comune vita, ed egli sia intorno al dormire. Puossi cominciare a descriver lo stato dell' uomo preso dal sonno. Egli non fa più uso di ragione, giace inerte, simile ad uomo raggiunto da morte; per cui i poeti sogliono dire il sonno fratello di morte. E` il sonno cosa comune alle bestie. Quindi da non attaccarvi per nulla affetto umano, da prendere per la sola necessità, nè dormire di più del necessario, da che viviamo tanto meno, quanto dormiamo. Allora per tanto che andiamo a riposo, ricordiamoci della morte, effetto della colpa, della quale morte esso è sì viva immagine. Quando poi ci svegliamo è da sovvenirci della futura risurrezione, effetto de' meriti di Cristo. Avanti Cristo ci dovea il sonno sembrare la morte; dopo Cristo la morte a noi dee sembrare un sonno. Per questo Cristo della figliuola di Jairo capo di una sinagoga dicea: « Non è morta la fanciulla, ma dorme » (1); e in mille luoghi colla stessa immagine c' indolcisce il nostro divino Salvatore la morte. Quindi anche presso noi cristiani ne venne il nome greco di cimiteri , che italianamente suona dormitori . Ma guai se mentre Cristo rese a noi un sonno la morte, noi ci rendessimo una morte il sonno, e morte dell' anima! Questo potrebbe avvenire se fossimo dormiglioni usando il sonno a fomentare la nostra pigrizia e poltroneria contro il precetto di Cristo: « Vigilate in ogni tempo facendo orazione » (2). - « Lo spirito veramente è pronto, ma la carne è stanca » (3). E bene, dorma quanto è necessario la carne, ma vegli lo spirito. - Si faccia dall' uom cristiano, come la Sposa de' sacri Cantici, che cantava: « Io dormo, e veglia il mio cuore » (4). E voi insegnerete, che se terranno il loro cuore chiuso nella giornata ad ogni perverso affetto, se prima di coricarsi faranno orazione, se si metteranno dormendo nelle braccia di Cristo, egli che deve essere il loro cuore e il loro spirito farà la scolta sopra di esse contro al nemico, che pure « s' aggira intorno come leone ruggente cercando cui divorare » (5). Direte ancora, che dormendo col corpo vigilavano col cuore que' Profeti e Santi, a cui nel sonno rivelava Iddio le cose future ed i suoi segreti. Che vigilava col cuore il figliuolo d' Iddio alloraquando navigando sul lago di Genesarette, [...OMISSIS...] : loro narrerete finalmente del poco dormire che fa la donna forte ne' « Proverbi » descritta (7), delle vigilie degli antichi cristiani; e come la santa Chiesa nel ripartimento delle ore notturne e diurne dà l' immagine della vita del cristiano, che veglia sempre ed òra, di cui mi verrà in acconcio di parlare altra fiata. E finalmente direte, la quiete del corpo presa nella pace del Signore quaggiù rappresentare ancora quella quiete dell' anima che in cielo si assaggia nel gaudio divino: tal quiete essere veramente santa, veramente una orazione, perchè fatta col fine di ristorare il corpo, e rimetterlo in istato di servire e lodare Iddio attualmente, e perciò merita e impetra; per il che anche sobriamente dormendo puossi conservare il precetto della continua vigilanza e della continua preghiera; che molto pur giova la sobrietà del vitto ad aver men bisogno del dormire, e a dormire più santamente secondo quello di s. Pietro: « Siate sobrii, e vegliate » (1), ed altri sì fatti documenti consegnerete nell' anime loro, che vi somministreranno in copia le sante Scritture, e i Padri e scrittori ecclesiastici. In somma si vestano o spoglino, passeggino o stieno, parlino o tacciano, sieno sole o in altrui compagnia, facciano de' mestieri nobili o de' servili, si divertano, lavorino, studino, qualunque cosa operino nella vita, esse sappiano altresì dalla bocca vostra come convenga operarlo a utilità del loro spirito, come amarlo a fine di questa utilità solamente, e nella memoria arricchita d' una raccolta di sentenze, d' esempi, di fatti da voi uditi spesse volte ripetere con efficacia sopra i loro atti quotidiani, abbiano argomento continuo di meditazione, ed « un' armatura di Dio », per esprimermi con Paolo, « contro alle insidie del diavolo » (2). Così soleano fare i fervorosi cristiani de' primi tempi. [...OMISSIS...] Nel capo precedente ho parlato di quella dottrina, che può essere argomento alle vostre famigliari conversazioni. Oltre a questo poi è bisogno avere delle ore stabilite e conservate diligentemente, nelle quali diate la istruzione ordinata della Dottrina cristiana , o sia il Catechismo . In generale avvertite, che questa dottrina non è punto vostra, ma di Cristo. Appresso considerate come l' uomo peccando era traboccato nell' ignoranza, e perciò nella morte, essendo « la vita eterna il conoscere Iddio » (1); ma che per mezzo del Vangelo « si spoglia quell' uomo vecchio e si veste il nuovo , cioè si veste un uomo che si rinnovella a conoscimento, secondo l' immagine di colui che il creò » (2). E questo conoscimento è solo la salvezza dell' uomo. GESU` Cristo erede dell' eterno regno, ha fatti noi pel Vangelo suoi coeredi. Descrivete questa eredità con acconci argomenti e similitudini, innamorandole del paradiso, svogliandole dell' altre cose, e facendo lor venire il salutare timor dell' inferno. Ora dottrina tale toglie loro le infinite pene, e le rende eternamente ed immensurabilmente felici. In somma pingete la necessità, la bellezza, la perfezione, e la bontà di questa dottrina con ogni colore. E quando vi venga il destro, descrivendo la deformità del mondo prima di Cristo, assomigliatelo ad una notte , nella quale Cristo mandò gli Apostoli suoi a predicare quasi folgori per lo splendore e la celerità dell' opera loro (3): lo riformò e raggiornò « sgombrandovi l' opere delle tenebre, ed apportandovi l' arme della luce » (4); di cui l' una è essa dottrina, di cui ragioniamo: « ragguagliando con mirabilissimo artifizio divino tutti gli uomini in un solo ». Perciocchè dice Paolo a' Colossesi, che nel rinnovellamento dell' uomo « non havvi più Greco, nè Giudeo, circonciso, nè incirconciso, Barbaro, nè Scita, servo, nè libero; ma Cristo è ogni cosa ed è in tutti » (5). Queste sono sublimi cose, e sta in voi abbassarle e porgerle loro quando e come le possano ricevere; non tutte a principio, bensì divise in brani e particelle adattate. Dal conoscere che non è nostra cotesta dottrina, nè tolta dalla terra, ma che essa è di Cristo e dal cielo discesa, ne viene, che dobbiate essere esatta assai nelle parole, ritenendo le sicure della cattolica fede, senza volere dar loro troppo sottili dilucidazioni di propria mente; e in quanto a' precetti morali, non esagerare mai nè in più nè in meno, per non produrre de' falsi giudizi sulla gravità de' peccati; appresso risecare tutto quello che è controverso; non potendo voi asserire di esso con sicurezza che sia di Cristo. [...OMISSIS...] Il quale Spirito Santo, che solo può custodire in noi con ogni sicurezza questo prezioso deposito, e colla vita e collo zelo e col cuore e colla bocca chiamare lo deve il cristiano maestro ad abitare dentro di sè. Dopo aver poi mostrata a queste, che chiamerò figliuoline vostre in Cristo, l' altissima preziosità di quella dottrina, e la bellezza singolarissima, e finalmente la bontà infinita, sono da destare in esse sensi di gratitudine verso un Dio sì buono: buono non solo per aver egli rivelata e portata agli uomini tanta ricchezza, ma sì ancora per aver avuto special cura di esse, senza padre e senza madre com' erano, e raccoltele in luogo dove possano a tutto lor agio e con frequenza sentire e mettere in pratica sì preziose verità, salvandole dall' avversario di tutte l' anime. Indi quella casa ove abitano la farete loro riguardare come casa di Dio, dove egli quasi padre di famiglia apre loro scuola di paterne istruzioni, e facile arringo di sante virtù. E se il « poter udire e custodire la divina parola è più beata cosa che lo stesso esser madre di Dio », come insegnò Gesù (2), e se esse hanno ricevuto questo immenso beneficio d' udirla, si guardino dal non volerla, a malgrado di ciò, custodire: il che sarebbe loro maggiore condanna. Tornate spesso sopra il divino beneficio dell' averle raccolte e provvedute; [...OMISSIS...] . Ora in fine so, che dovrete abbassarvi a quelle menticine tenere ancora, e a cui propriamente è mestieri mollificare e tritare il cibo cominciando da' primissimi rudimenti, e facendo loro apprenderli prima quasi per consuetudine di memoria che non sia per chiara intelligenza: e so altresì che tal cosa riesce faticosa e importuna. Ma l' amore di Cristo rende questo abbassamento lievissimo e dilettosissimo. Oh! non dee per avventura bastare a un cristiano l' esempio del suo Signore, che « s' impicciolì tanto con tutti noi »? [...OMISSIS...] E santo Agostino nell' aureo libro sovraccennato del « Catechizzare i rozzi » di ciò ne conforta meravigliosamente col cap. X. Ma chi ama Cristo, e tien presente il modello, non ha bisogno d' altro conforto. Parrebbe addomandare la natura di questo mio discorso, che vi delineassi la forma e l' ordine delle dottrine, che dovete fare alle fanciulle vostre. Ma poichè il pregio di questa forma e di quest' ordine consiste, come ho accennato, nel non rimuoversi dalle vestigia dei « Santi, a' quali fu data la fede sola una volta » (2): avete già alle mani que' quattro capi, cioè il Simbolo Apostolico , i Sacramenti , il Decalogo , e l' Orazione del Signore , ai quali da' nostri padri fu ridotto il cattolico insegnamento. Questi adunque porgono il filo del ragionare, questi i confini, questi il richiamo e la ricapitolazione di tutte le cose che insegnerete. Perciocchè qualunque cosa insegniate, dovete sempre ritornare a quelli. E quanto allo svolgimento di tali dottrine, siamo provveduti del « Catechismo Romano », opera messa insieme da varii dotti nel secolo XVI per decreto del sacro Concilio di Trento, e approvato da' Sommi Pontefici. Tale opera fatta pe' parrochi, non si può veramente dare in mano di fanciulle. Se dunque chiedete come fare a stemperar loro questo cibo, rispondo doversi premettere innanzi tratto la meditazione della dottrina. Vi bisogna poi conoscere la capacità dell' intelletto delle vostre discepole, l' indole, quai cose influiscano a tenerle più raccolte, quali lor facciano impressione maggiore, come debbano concepirsi le cose, e apparecchiarle acciocchè siano meglio accolte. In somma studiare le varie forme degli animi con diligenza, ciò che insegna anche il Romano Catechismo a' parrochi (1). Appresso raccoglietevi, e invocate il Santo Spirito, purificate l' intenzione, protestate dinanzi a Dio che non volete insegnare errore, e che qualunque v' uscisse di bocca ignorandolo, tale il rigettate, nè all' onor vostro pensare, ma a profitto di chi vi ascolta. Masticando poi fra voi quelle dottrine, anzi pure dirò così ruminandole, le faciliterete, apparecchierete espressioni e parole proprie, naturali ed atte a loro istillarle. Pe' libri avete quelli che il vostro Vescovo approvò nella diocesi, e dà in mano ai catechisti suoi, come anche giovarvi potrete delle dichiarazioni vocali del vostro Parroco, che sarà bene con diligenza seguire. Solo due cose aggiungerò ancora al capitolo. La prima che l' istruzione sì del dogma che della morale sia intessuta colla Storia Sacra, e su questa io direi, usando una similitudine tolta ai lavori donneschi, come su tela distesa si rilevi il dogma e i precetti della vita quasi ricamo. Conciossachè quanto creder si deve consiste principalmente in due uomini, che sono Adamo e Gesù Cristo, e per questa maniera si vede la grande unità e continuità della religione cristiana come in quadro meraviglioso risplendere nella Chiesa di Cristo, da Adamo venuta insino a noi invitta e immacolata. Per questi sacri racconti più salde si figgono nelle menti singolarmente de' fanciulli le rivelate verità, più dolci vanno al cuore, e si fanno non meno regola che pungolo ed eccitamento alle virtuose operazioni. Colla storia si fu che i primi padri mandarono ne' figliuoli il dogma e la morale prima ancora che fosse scritta la legge. Onde il Signore, determinato d' incenerire la Pentapoli, giudicò di fare che Abramo il conoscesse: [...OMISSIS...] . Così ne' « Proverbi » e ne' « Salmi » quanto e come spesso non si raccomandano a' padri questi racconti e queste tradizioni! Quando poi Dio volle che 'l suo popolo avesse legge scritta, che fece egli, se non ordinare a Mosè il « Pentateuco », dove è appunto alla legge la storia congiunta? Su queste vestigie de' primi Santi della Chiesa, anzi di Dio stesso, tanto essendo avvenuto per suo comando, camminarono anco i primi maestri della legge di grazia nelle loro istruzioni, come facile è di vedere sia ne' quattro libri dell' Evangelio, sia negli « Atti Apostolici », nelle « Apostoliche Epistole », ne' « Sermoni » e « Omelie » dei santi Padri, ne' lor « Catechismi », che alcuni n' abbiamo pe' catecumeni, e nelle cinque « Catechesi di S. Cirillo a' battezzati »; singolarmente poi nel libro nominato avanti di sant' Agostino. L' altra cosa è il fine di tutto l' insegnamento, lo spirito e il frutto, a corre il quale volger si dee l' attenzione. [...OMISSIS...] Alla doppia carità adunque, fine e pienezza di tutte le Scritture (2), rivolgete e conducete continuo l' insegnamento. Che è poi questa carità? [...OMISSIS...] Tutto adunque se ne vada a questo, a farle amare la parola d' Iddio, a migliorar la vita, [...OMISSIS...] . L' Apostolo Paolo nel capitolo XII della sua maravigliosa « Lettera a' Romani » insegna anch' egli il gran conto che far si deve della cognizione. Poichè da prima con breve tocco, ma da insigne maestro, effigia la vita cristiana, dicendola un' ostia de' nostri corpi: e dopo distinta co' suoi caratteri di vivente, santa, gradevole a Dio , all' ultimo egli l' appella altresì ragionevole ossequio: riassumendo, io mi credo, e quasi ricapitolando in questa sola nota qualunque cosa, che o di lei disse o dir si potrebbe. Conciossiachè riconosce l' Apostolo nella ragionevolezza quasi un fonte, da cui tutti i pregi a quell' ostia si derivano, come maggiormente apparisce da quanto segue: [...OMISSIS...] . Chi ha dunque rinnovellata colla grazia la propria intelligenza ha riformato se stesso. Nella mente dunque, nel senno della intelligenza sta il vivo fonte della vita cristiana. Ed eccovi, ond' egli è che viene incontanente S. Paolo a dettar regole intorno al sapere: [...OMISSIS...] . Di gran senso è l' uso di quella voce traslata di sobrietà , virtù che regola l' uomo circa gli alimenti. Paragona il sapere all' alimento, e di qui mostrane l' eccellenza. Dacchè sì come l' alimento conserva la vita, la sanità, la robustezza ed ogni pregio al corpo, così simigliantemente fa la dottrina all' anima. Ma nel tempo stesso, che intendo di conciliare a questa parte, in cui tratto dell' istruzione cristiana più sublime, l' animo vostro, mi conviene così guarentir l' opuscolo, e per così dire assieparlo, che non vi entri non pure errore, ma nè anche pericol d' errore, acciocchè voi favorevolmente disposta nè a quello aderiate, nè in questo corriate rischio. Al che opportune mi occorrono le parole di S. Paolo: « non sapere più là, che sia opportuno sapere, ma sapere a sobrietà ». La sobrietà insegna di nutrirsi de' cibi quanto è mestieri al corpo. A ciò ottenere si vuole in prima risguardare alla qualità del cibo, di poi al masticarlo, e finalmente al digerirlo sì, che in succhi salubri si tramuti. Quanto allo sceglierlo ed apparecchiarlo non ogni genere di animali si nutre dello stesso cibo, nè ogni animale lo vuole per egual modo disposto. Perciò nuovamente è da vedere la natura di quello, a cui esso si dà, e s' appresta. Ora la natura delle vostre fanciulle è primieramente di esser cristiane, appresso membri della Chiesa discente, non già della docente, di essere donne a cui si conviene meditare in silenzio sull' esempio di Maria quanto è loro insegnato, di esser fanciulle, e di condizione bassa, persone che faranno forse poi servigio nelle famiglie signorili, o prenderanno il velo in qualche monistero, ovvero farannosi madri di famiglia in povere case. Come a cristiane dite loro che se « avranno fame e sete della scienza della salute, ne saranno altresì satollate » (1). Facciano prima ogni cosa per assaporare quella sapienza, e nutricarsene; di poi non vogliano sapere altro, e principalmente sprezzino tutto quello, che a questo è contrario. Col primo di questi insegnamenti stillate in esse la virtù della docilità , per la quale l' uomo si apre a comprendere quanto di vero, di buono, e di bello vede od ascolta. Col secondo sradicate il pernicioso vizio della curiosità circa quelle cose, che non edificano. Quanto è fuori o della fede, o della carità è bello di ignorare al Cristiano. Così S. Cipriano dicea in certa lettera ad Antoniano: [...OMISSIS...] . E ben vi dico che i primi nostri padri col fresco precetto di Cristo (2) e degli Apostoli (3) non solo poco conto faceano di una dottrina che di Cristo non fosse, nè si curavano punto d' apprenderla, ma fin anzi di non apprenderla si curavano moltissimo, e si sequestravano da quelli, che o insegnavano errori colla bocca, o colla vita li professavano. Vi sia dunque frequente sulle labbra quella sublime preghiera del reale Profeta. « Rivolgi gli occhi miei, perchè non veggano la vanità . » Egli non volea nè pure vederla. Questa è quella grande virtù della Semplicità , che solo tiene fitti gli occhi nel bene, e lo fa senza nè anche dare al male uno sguardo. Come poi non debbono amare di saper nulla di quanto è fuori della fede e della carità, così quello che non intendono di quanto è dentro non deve turbarle. Ma cessando dalla inquieta sollecitudine d' intendere alcuna cosa difficile, con tutta pace la meditino meglio, e, non riuscendo a ottenerne chiara conoscenza, pongan giù l' ardore di saperla con eguale contentezza, facendone sacrifizio a Cristo, a cui ogni ragione si deve sottomettere, anco traendo di là argomento di umiliarglisi dinanzi, e confessare la propria meschinità. [...OMISSIS...] Voi dovete dunque scerre questo cibo come più loro giova. La regola è in S. Paolo subito appresso alle parole allegate. [...OMISSIS...] E in vero se insegnerete loro cosa sopra il lume della loro fede, o non trarranno profitto non capendo l' istruzione nella lor mente, o ricaveranno svantaggio, volendo pure intendersela col lume naturale, e perciò capendola male o angosciandosi per accorgersi di non capirla. Oltracciò segue Paolo a mostrare come ciascun cristiano occupa nella Chiesa posto ed uffizio diverso, essendo i vari membri a varie funzioni destinati. Secondo le funzioni Dio dà la fede, e secondo queste funzioni fa bisogno la dottrina. Or voi sapete chi sieno, di qual tempra, e a che destinate le vostri giovani donzelle. Sapete dunque anche come scerre lo spirituale nudrimento. Ben è vero che non pigliasi talora crudo quel cibo, che cotto e ben condito utilmente si mangia. A voi dunque sta di farne la più acconcia preparazione: ma di ciò è abbastanza. Per quello che fa al masticare, codesto cibo dell' intelletto è come del corporeo. In bocca si fa la prima digestione. Ciò vuol dire, che come vedemmo Ezechiello sentir dolce quel volume anche dopo averlo mangiato (2), quasi la dolcezza sua in bocca gli ritornasse; così avvezzar si debbono le fanciulle a far riflessione a tutto quello che havvi nella sacra dottrina da voi loro spiegata, non sopra svolazzandovi coll' ingegno senza posare in alcun luogo. Rendetele d' uno spirito sodo e riflessivo, non tenue e leggero. « Nella mia meditazione il fuoco si rinfiamma », havvi nella Scrittura (3), e il fuoco vuol dire l' amor di Dio. Nè intendo già, che le costringiate a meditazione lunga e sforzata in ore fisse. Ciò sarebbe loro gravoso, arido, intollerabile, poichè nè per l' età, nè pel sesso hanno bastevol forza di raccorsi e di lavorare colla mente in punti assegnati. La meditazione prescritta dunque sia breve: ma quel ch' io bramo si è un abito di riflettere naturalmente sopra di tutto, e quindi un meditare sempre senza gravezza. Finalmente il cibo vuole esser ben digerito. Questa è la cosa che più rileva. Questo dà la misura vera di esso cibo. Tanto se ne mangi, quanto si ha forza di convertirlo in nutrizione. Or che è questa forza? Quella carità di cui è detto al fine del capitolo precedente. Ella fa, che il cibo che mangiasi non vada a male, ma sia di quello, di cui Cristo dicea: « Procacciatevi non quel cibo che perisce, sì quello che fino alla eterna vita permane » (4). Dico la carità di Dio, e del prossimo. Quanto alla prima Paolo, vaso d' elezione, rapito al terzo cielo, uditore d' arcane parole che uomo non può favellare, diceva ai Corinti: [...OMISSIS...] . Tali cose adunque menino a Cristo, ad esso crocifisso; in esse si pensi a lui. Tutte quelle cose pertanto, nelle quali Cristo non si trova, sono quelle di cui leggesi nell' Ecclesiastico: « Non volere lambiccarti il cervello in cose superflue » (3). Ora tornate a leggere il passo dell' Apostolo, e vedete quale umiltà operi nell' uomo l' amore di Dio, mercè del quale la scienza « non gonfia ma edifica ». Quanto poi all' amor del prossimo dice novellamente il Dottor de' gentili: [...OMISSIS...] . E in questo capo intero vi porge Paolo la scienza come sorgente di tutte le virtù, e tutte le virtù trae fuori quasi a farle corteggio. Quando adunque innanzi ci diede a misura della scienza la fede , parlò di una fede che « opera per mezzo della carità » (5). Ma in questo passo, che ultimamente ho citato del cap. XII della lettera ai Romani, voi scorgerete singolarmente la carità del prossimo nella umiltà riposta, e quindi vedrete come la duplice carità non solo renda operativa la scienza a gloria d' Iddio e a vantaggio dell' uomo, ma contenga altresì l' antidoto contro al veleno, che essa scienza suol mandar fuori occultamente a danno nostro: e quindi come la scienza sceverata da ogni pernicioso elemento, per mezzo di sola la carità torni utilissima. Adunque date alle vostre zitelle tanta scienza e non più quanta vedete che hanno forza da ben digerirla, o sia da cangiarla nel salutevolissimo nudrimento dell' anima. Fermate le regole della moderazione nell' insegnamento, richiedesi, che delle cose stesse da insegnare diciamo alcun poco sopra quelle di stretta necessità; e ciò così in generale, che abbiasi onde assumere, come da serbatoio di varie cose, quanto a' particolari usi viene bisognevole. E per aver un filo, che sicuri ci conduca e ci scorga in tanta ampiezza di dottrina, e diversità di vie, caviamo qualche picciolo brano della « Scrittura », libro a tutti i bisogni, e fontana inesauribile d' acque salutari. E sia il luogo da noi scelto il cominciamento del capo quarto della lettera, che scrisse Paolo dalle carceri romane alla Chiesa di Efeso, capitale dell' Asia Minore, cominciando dal primo fino al sedicesimo versicolo di quel capo. Parmi acconcio questo luogo, come quello, in cui si dà la nozione ben fondata e chiara della Chiesa di Cristo, di cui siamo membri. Ed ho fermamente l' avviso, che il conoscere bene addentro questo nostro stato, sia il nerbo di tutta la cristiana istruzione. Oh! quanto poco si sente la dignità e la vera dolcezza della nostra professione! Noi cristiani siamo di presente come a dire sparpagliati, e gli uni scuciti dagli altri: perciò non sentiamo bastevolmente qual forza ci lega e aduna insieme, e ci dovrebbe formare una cosa sola per lo scambievole amore. Quando i fedeli colà ne' tempi primi e felicissimi erano più pochi e ferventi, in un solido corpo fra di loro si sentivano fortemente compaginati, e raggiunti in un sol corpo, nelle membra armonioso, e avente un capo solo, ed un medesimo spirito! Oh consensione ammirabile che quella era di volontà! oh armonia soave di funzioni! oh carità e pace invidiabile di cuori! A quella prima immagine perciò della Chiesa di GESU` Cristo noi dobbiamo tenere l' occhio ben fermo, e operarla in noi stessi. A questo di certo è necessario richiamare i fedeli, come faceano gli Apostoli e i più grandi padri, a considerare continuo quali essi sieno fatti dalla redenzione di GESU`, e per quale porta entrati in questa santa città o regno di Cristo, o mistico corpo di lui. Porrò adunque da prima le parole dell' Apostolo, e poi verrò estendendo un cotal picciolo commentario di quelle; acciocchè voi vi abbiate un esempio del come possiate bellamente introdurre le vostre discepole alle nobili dottrine della fede, mediante il legger loro e lo spiegare acconciamente, in sulle vestigie dei santi maestri, i luoghi più opportuni delle divine Scritture. Questo studio egli è quasi abbandonato dalle nostre cristiane, ma nei secoli più fioriti le donne fedeli leggevano i divini oracoli colle spiegazioni che ne avean date i Vescovi, i quali soleano pubblicare in libri le spiegazioni dette al popolo acciocchè più largamente giovassero. Or voi perita nella lingua latina e di ogni buona erudizione fornita, egregiamente fate ad imitare le Eustochio e le Paole; e voglia il Cielo che altre ed altre vi vengano dietro; acciocchè il popol santo ritorni, come già fu, illuminato e fervente. Or le parole dell' Apostolo sono le seguenti. [...OMISSIS...] Letto dunque questo brano dell' Apostolo, voi prenderete a dichiararlo. Io raccorrò qui solo alcune delle cose, che potreste opportunamente trar fuori in simiglianti istruzioni, e a distinzione maggiore le compartirò in alcuni articoli. « « Io dunque, che sono ne' ceppi, vi scongiuro nel Signore, che camminiate degnamente in quella vocazione , onde siete stati chiamati ». » Nella parola di vocazione , se bene considerate, si ricapitola in certo modo tutto il mistero dell' umana salute sposto innanzi da Paolo nel capitolo secondo della lettera stessa, a cui qui riferisce. Date le nozioni della Chiesa di Cristo, e dichiarato com' essa cominciasse in Adamo penitente, e seguisse in sino a noi dividendosi a mano a mano in tre gran parti, cioè nella Chiesa Militante, nella Purgante, e nella Trionfante, e qui messo in vista l' ammirabile corpo, che tutte e tre compongono insieme, è a trattenersi precipuamente sulla Militante come il principio, da cui quell' altre due si staccarono, crescendo alla perfetta loro grandezza. Dirassi di questa, che il pregio e la beltà sua non istà tanto nel numero de' suoi membri, quanto nella eccellenza che trae origine da Cristo: e come, sia ella o non sia numerosa, Cristo tuttavia sposo di lei amorosissimo dispone in suo bene, e per suo amore tutte l' altre cose di questo mondo. Appare questa bellissima verità dallo scarso numero de' giusti dalla creazione insino al diluvio, al tempo del quale la sola famiglia di Noè salvata dall' acque formava forse la Chiesa di GESU` Cristo: a' quali giusti però servivano tutti i tristi, esercitando la loro pazienza, e mettendo a tutte prove la loro virtù, che in tal modo cresceva, e più meritava. Appresso tornarono a corrompersi gli uomini insieme con quasi tutta la loro propagazione fino che il Verbo si chiamò Abramo dalla Caldea, e in tutto il mondo, adoratore degli idoli e schiavo de' demoni, scelse quella famiglia a sua Chiesa ed a suo peculiare dominio, e con essa come e' fosse un altro uomo (vedete già fino d' allora immagine del Cristo venturo!) patteggiare, e nominarla la « funicella della sua eredità » (1). A questa generazione singolarmente si fecero vedere i prodigi di sua onnipotenza e misericordia, fur mandati profeti continui, consegnate nelle mani di lei le promesse d' un Redentore. Ma i figliuoli di que' Patriarchi erano anche essi razza umana immalvagita nella radice. Si mostrarono dunque ciechi, ingrati, di dura cervice, di cuori incirconcisi secondo l' espressione della Scrittura, nè si arresero agli infiniti benefizi di Dio, anzi nè i portenti gli scossero se non momentaneamente, e i profeti accolsero con mal piglio, battendoli, lapidandoli, ed uccidendoli; e finalmente lo stesso figliuolo dell' eterno padre, il Redentore del mondo, lo disconobbero, oltraggiarono, e confissero in croce. Quindi il misterio del gran ripudio della Nazione Ebraica, a compimento degli oracoli profetici, e la gran VOCAZIONE delle genti alla salute dell' Evangelio. Ecco di che vocazione parla S. Paolo. « Per la qual cosa », aveva già detto innanzi (2), « ricordevoli siate », o Efesini, « che voi un tempo eravate gentili, e secondo l' origine carnale detti incirconcisi » per contumelia « da quelli che circoncisi s' appellano secondo la carne per la manofatta circoncisione », pegno della predilezione di Dio. « Voi eravate in quel tempo senza Cristo, alieni dal consorzio d' Israello », cioè dalla famiglia prescelta, « e ospiti de' testamenti », perchè solo come ospiti potevate essere ricevuti nella ebraica chiesa essendo il patto di Dio stretto colla stirpe sola d' Abramo, « senza la speranza della promessa del Salvatore », consegnata a' Patriarchi, « e senza Dio in questo mondo », avendone smarrita la traccia. « Ma adesso in Gesù Cristo siete fatti da presso, voi che una volta stavate da lungi, in virtù del sangue di Cristo. Perciocchè egli è nostra pace e unione che delle due cose n' ha fatta una », cioè dei gentili e de' giudei convertiti al Vangelo, « dissolvendo la muraglia di mezzo », la divisione, che fra gli Ebrei eletti da Dio, in peculiar suo popolo, e i Gentili lasciati a se stessi vi aveva, rappresentata dalla parete, che nel tempio di Gerusalemme tenea dal luogo santissimo divisi i laici, e così distruggendo le inimicizie e le divisioni fra gli uomini assunte in quella sua carne , che diede in preda alla morte. Parole di profondi sensi ripiene! Ma con questi sensi soli si può fare acconcia spiegazione di quella vocazione , di cui parla Paolo in questo luogo, mostrandola primieramente infinito beneficio, e doppiamente, se si può dire, gratuito, non essendo noi tutti della nazione eletta, ma delle perdute. « Edificati adunque sopra il fondamento degli Apostoli e dei Profeti, pietra maestra e angolare essendo lo stesso Gesù Cristo » (1), la nostra vocazione è questa, d' innalzarci sopra sì ferma pietra in tempio santo del Signore, e di non infrangerci e spiccarci da questo edificio nobilissimo e divinissimo. Per questo Paolo dopo aver detto, che dobbiamo camminare nella nostra vocazione, la quale ci chiama ad essere tempio vivo d' Iddio, ce ne viene insegnando il modo colle surriferite parole. Colle quali l' Apostolo primieramente esclude da noi la superbia , dacchè com' è scritto ne' Proverbi (2): « fra superbi v' hanno sempre delle altercazioni »; e pone ogni umiltà, cioè sì l' interna come l' esterna. Appresso ne caccia l' ira , di cui si dice ne' Proverbi (3): « L' uomo iracondo provoca risse », e chiama in suo luogo la mansuetudine mitigatrice delle brighe e serbatrice della pace; ancora allontana l' impazienza , che se non si vendica come l' ira, mostra però vista di partire lamentandosi all' altrui vessazioni, ed avvicina la pazienza , che secondo l' Apostolo S. Giacomo « fa l' opera perfetta » (4); per ultimo poi spurga lo « zelo inordinato ». Conciossiachè nè per superbia, nè per ira, nè per impazienza solamente, ma nè anche per inconsiderato fervore e zelo si può romper la pace. Per questo aggiunge: « sopportandovi gli uni gli altri nella carità », attendendo l' ora ed il luogo opportuno da fare avvertito il fratello de' falli; e quanto a certi difettuzzi, di cui non si corregge (perciocchè qual uomo arriva a torseli tutti?), sopportandosi scambievolmente con vera carità ed indulgenza. Tolti via questi quattro vizi, e introdotte le opposte virtù, e tutto ciò coll' occhio rivolto all' unità degli uomini, che ne è il fine, « solleciti », così dice l' Apostolo, « di conservar l' unità dello spirito », sorgerà da ciò quella beata pace, che come dolce legame vincolerà tutti i cuori, e come un legame solo, perciocchè è pace della stessa specie in tutti, cioè in tutti una partecipazione di quella di GESU`, che sorpassa ogni senso. Questo vincolo solo della pace avvera quell' unica vocazione, nella quale siamo chiamati da Dio: sebbene quaggiù di tale pace altro che un cotal saggio non possa esserne fatto quasi a fior di labbra, ed è in cielo che l' uomo se ne pasce a ribocco. Ora questa VOCAZIONE UNICA, questa PACE Cristo addomandò per noi all' eterno Padre [...OMISSIS...] . Per mezzo adunque di queste virtù dall' Apostolo annoverate, e di questa pace, che da esse stilla per così dire qual mele e come olio odoroso dilata per tutto la fragranza sua, è fatta e vien mantenuta la unione delle membra fra loro, e coll' unico spirito che le avviva. Quindi l' Apostolo segue immediatamente a descrivere questa doppia unione colle riferite parole: « Un solo corpo e un solo spirito sì come chiamati siete in una sola speranza della vostra vocazione ». Ma non si possono esercitare rettamente quegli atti di virtù fra le membra, nè si possono ordinare all' abbondanza della vita o sia all' unità dello spirito, se non si conosce in che esse membra fra di loro sono differenti, e in che si convengono. Conciossiachè è proprio delle unità formate di diverse parti, che queste parti abbiano alcune cose comuni fra di loro, e alcune cose proprie. Perciò l' Apostolo trapassa quindi a descrivere ciò che vi ha di comune in questo corpo della Chiesa, e ciò che vi ha di proprio. Quanto a quello che v' ha di comune dice così: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra di tutti, e fra tutte le cose, e in tutti noi . Di fatti in un corpo, perchè vi sia unità e perfetta armonia, abbisognano tre cose. Primieramente, che egli abbia uno stesso capo; appresso che le membra sieno tutte al capo incorporate; infine poi che le operazioni di questo corpo non si distruggano le une coll' altre, ma anzi sieno indirizzate ad un solo fine , la perfezione del corpo stesso. Ora l' unità del capo viene espressa dall' Apostolo con dire un solo Signore . E questo nostro Signore, come spiega egli stesso nella prima a' Corinti, è GESU` - « E il solo Signor nostro Gesù Cristo » (1) è veramente il capo , come dice di sotto al vers. 15. Veniamo poi a Cristo incorporati e congiunti per l' abito della fede, che è pure unica in tutti, e questo insieme coll' abito delle altre virtù il riceviamo dentro a noi nel cristiano battesimo: pure unico; poichè da un solo istituito, da un solo avvalorato, in nome di un solo Dio conferito. Che se avessimo senza il battesimo la fede, questa, unita che fosse al proposito del battesimo, a Cristo ci incorporerebbe, per dir così, mentalmente, o, a esprimermi meglio, ci farebbe accostare e disporre alla vera incorporazione che pel battesimo si fa. Il battesimo adunque sia reale, o, ne' casi estremi, di desiderio, rigenera l' uomo, e dà a lui la vita spirituale; e di questa vita nuova Paolo diceva a' Galati: « E vivo non già io, ma vive in me Cristo; e la vita che io vivo nella carne, la vivo nella fede del figliuolo di Dio ». Adunque e la fede ed il battesimo sono di necessità per esser l' uomo raggiunto con questo capo. All' adulto la fede prima del battesimo, al bambino il battesimo prima della fede. All' adulto anche l' atto della fede, al bambino l' abito solamente. Senza l' atto della fede l' adulto non trae dal battesimo il vantaggio della salute, perchè non esercita le opere della vita. Per mezzo poi della fede ricevuta dalla grazia del battesimo si principia in noi, come dice S. Tommaso, « la vita eterna » (2), quella vita eterna, che si termina e perfeziona colla gran fruizione di Dio. Tale è la perfezione ultima del mistico corpo, di cui parliamo, tale il fine delle sue operazioni, la terza cosa che a questo corpo dona unità. Quindi Paolo la soggiunge dicendo: « Un solo Dio e padre di tutti, che è sopra tutti, e fra tutte cose, e in tutti noi ». Adombrano chiaramente queste parole la Trinità, perciocchè « essere sopra di tutti » è proprio del Padre, fontale principio delle altre due persone a cui compete stare sopra tutto; « essere fra tutte le cose » è proprio del Figliuolo, cioè della sapienza, che « tocca da un' estremità all' altra con possanza » (3); e « stare in tutti noi » dello Spirito Santo, di cui noi siamo templi (4). E dice innanzi tratto Dio , per indicarci questi fare la nostra beatitudine infinita ed unica, di conserva a cui facciamo cammino seguendo la voce che ne chiama; e appresso padre , per confortarci, avvisandoci, che colui, che acquieta i desiderŒ nostri col beato godere, è quegli stesso che ci ama con paterno affetto, e a sè ci scorge; anzi dice padre di tutti , cioè tanto di Cristo come di noi, tanto del capo come delle membra, acciocchè riconosciamo l' amore, che ci vuole mercè del nostro capo, e i doni che dobbiamo aspettare di ricevere da Cristo unigenito figliuol suo come Dio, e primogenito come uomo. Voi dovete fermarvi assai, secondo l' uopo, su questi tre vincoli della cattolica società, mostrando la infinita nobiltà che le viene dal suo principio, dallo scopo a cui tende, e dalla abbondante vita che ne consegue. Dopo avere l' Apostolo noverate le giunture, che uniscono le membra in un solo tutto, e fatto vedere come questa unità sia stretta ed intima; annovera le proprietà che distinguono i membri l' uno dall' altro. Esse sono formate dalle varietà della grazia; la quale parte, come abbiamo detto, da unico principio, da Cristo, fu il primo passo dentro a noi col Battesimo e colla Fede, e termina coll' unione di Dio in cielo. E` sempre quella stessa grazia; ma formalmente variata nella misura e materialmente anche nelle operazioni che ha per oggetto. Quindi prosegue Paolo: « Ma a ciascheduno di noi è stata data la grazia, secondo la misura della donazione di Cristo ». Mostra qui la varietà delle membra dalla diversa abbondanza di vita che ricevono dal capo. Di qui si vede come giovò di premettere quanto a tutte le membra è comune anche a mettere in chiaro come ciascun membro è diverso. L' Apostolo adunque vuole, che questo modo, onde tutti i membri sono uniti in un corpo col capo, ed onde ciascuno è distinto, ben si consideri. Poichè venendo tutto da Cristo in gratuito dono, nessuno ha ragione nè d' insuperbire se assai possede, nè di lamentare, o invidiare altrui se possede poco; e questa è grande ragione di stare umili, mansueti, pazienti, sopportatori degli altrui difetti, che sono le quattro virtù innanzi proposte. E maggiormente segue a mettere in chiaro i motivi, che le persuadono. Egli soggiunge: « secondo la donazione di Cristo ». E appresso: « Per la qual cosa dice il Salmo (1): Asceso in alto ne menò schiava la schiavitù, distribuì doni agli uomini. Ma che è quell' ascese, se non che prima anche discese alle parti infime della terra? Colui che discese è quegli stesso che ascese sopra di tutti i cieli per empiere tutte le cose ». Colle quali parole recando un testo di Davide, spiega onde traesse Cristo per noi tali doni. A voi è noto, dice l' Apostolo, come non potete essere regalati di doni spirituali se non da Dio. Cristo dunque, che ve li regalò, è Dio. Come adunque se è Dio, Davide dice che ascese? Vuol dire che prima discese, perchè Iddio altrimenti non poteva ascendere. Ma come poteva Iddio discendere? Apparentemente, o a meglio dire, quanto all' esteriore maestà, congiungendo a sè l' uomo intimamente, e così scendendo « per un poco di tempo di sotto agli angeli » (1). Di più, quest' Uomo reso insieme Dio mediante l' unione permanente del Verbo, è propriamente e realmente quegli che s' è umiliato. Competeva, alla sua natura, che per se stessa contiene un bene morale infinito perchè connessa col Verbo, infinita santità, infinita gloria; competeva, dico, non un posto sulla terra, ma nel più alto de' cieli sopra tutti gli angeli. Si può dire adunque che questo Uomo Dio nascendo in terra siasi umiliato infinitamente; ma di più, egli volle tenere quaggiù figura e aspetto presso il mondo « dell' ultimo fra gli uomini » (2). Nè contento d' essere abbassato di sotto a tutti col patibolo della croce, scese nel sepolcro, e fino a' luoghi inferiori; di dove ne cavò l' anime giuste dell' Antico Testamento dentro a quel luogo prigioniere. In questa maniera, dice Davide, secondo la lettera ebraica, « ricevette doni per gli uomini ». Da chi li ricevette? Certo da quello, che è Dio e padre di tutti, e di lui primieramente è Dio come Uomo, e Padre come Dio. Ma Paolo invece di riportare la lettera ebraica tradusse « ha dati doni agli uomini », come hanno varie versioni. E conveniva però meglio all' Apostolo così riferire quel passo notissimo; chè il senso non viene cangiato, ma spiegato all' uopo; mostrando in un solo tratto e la profezia e lo avveramento di quella. Chè di fatti al tempo di Paolo avea già il Verbo distribuiti questi doni ricevuti per gli uomini. Ma come mai bisogno aveva il Verbo di ricevere doni? Avea bisogno: non per sè, che come Dio aveva tutto dal Padre per necessità di natura, e come uomo per necessità di merito o sia di perfezione di volontà mediante l' unione; se pure fra questi doni non si conti l' unione medesima. La necessità di ricevere doni o grazie era per gli uomini, che niente meritavano; e ciò vuol dire di ricevere facoltà di distribuire i doni. Ma come non aveva egli tale facoltà? Egli sarebbe stato contro la giustizia divina il felicitare quell' uomo, che meritava infelicità sempiterna. Era l' uomo inimico di Dio, schiavo del demonio; come dunque regalarlo? Che fece pertanto il Verbo? « Ascese in alto », risponde il Profeta, « menò schiava la schiavitù ». Ci narra il suo trionfo, a detta di Paolo, per farci intendere la sua battaglia. Perciocchè l' Apostolo così argomentò: « Che è quell' ascese, se non che prima discese nelle parti più infime della terra? » Coll' umiliazione adunque Cristo guadagnò il trionfo per se stesso, cioè l' ascensione sopra tutti i cieli, e menò seco schiava la captività. Dove notate, che non dice i captivi , ma la captività; indicando in questo modo, che ancor più fece di quello che abbisognava, e più conquistò di che fosse necessario conquistare in terra. Chè aver menata seco la captività captiva viene a dire, che non solo non vi ha oggimai più alcuno prigione che non possa liberarsi, ma che nè pure vi potrebbe essere. Così quella parola captività indica un valore ed una conquista infinita; poichè per quanti fossero peccati e delitti, poniamo numero infinito, ancora nessun uomo potrebbe di necessità esser prigione, mentre fino la possibilità d' una necessaria prigionia, la prigionia stessa condusse via dal mondo. Ma considerate insieme altra conseguenza che qui se n' esce, cioè che se anche gli uomini tutti si dannassero, ancora Cristo avrebbe menata schiava la captività , vale a dire, avrebbe fatta quell' opera infinita. Poichè dice la captività , non i captivi . Cattività vale lo stesso che esser gli uomini nelle mani del demonio, in modo che non solo alcuno non uscisse, ma nè pure uscirne potesse. Per il che in quello stato di cose non potea Cristo distribuir doni. Cristo poi fece, che tutti si potessero salvare. L' opera dunque di Cristo è infinita, e la salvazione degli uomini particolari è altra opera, che non tocca la infinità di quella prima, e rispetto a quella è come un accidente. Condotta dunque schiava la schiavitù , cioè data all' uomo coll' amicizia dalla parte d' Iddio la possibilità di salvarsi; possiede Cristo la facoltà di distribuire i doni suoi, cioè la salute stessa, in varia abbondanza. Francato dunque da questa schiavitù infernale, da questa necessaria dannazione, per un tratto d' infinito amor gratuito di Cristo, e pel trionfo di lui sopra l' inferno venuto in sua mano il cuore dell' uomo; nel solo arbitrio di Cristo ora è riposto di eleggere uomini a salvamento. Può Cristo distribuire tali doni a sua volontà, avendo fatto per avere questa facoltà quello che fece. E` però certo che egli ne distribuisce in copia secondo il pietoso eterno decreto di suo Padre. Anzi l' Apostolo dice francamente: « Diede doni agli uomini ». O Efesini, voi stessi il vedete continuamente; là dove Davidde nel tempo primo non volle dire di più se non che « ha ricevuto dei doni per gli uomini », o sia il potere di compartirne. Ne compartisce adunque, e ne compartisce secondo la grandezza del suo amor per gli uomini, secondo la bontà e tenerezza del suo cuore. Onde chi potrà diffidare di lui, se ama salvarsi? Peraltro considerate che questi sempre sono doni , cioè non cose dovute; e in primo luogo questi doni sono appunto i meriti. Per questa maniera « empiuto ha egli tutte le cose ». Dagli altissimi cieli fino alle parti più infime della terra ha riempiuto tutto della sua gloria; e ciò quanto al suo trionfo. Quanto poi alla salute umana, si può dire a ragione, che « la terra era inane e vota » (1), ed egli la illuminò, ordinò, abbellì, riempì di se stesso. Trionfò in somma conducendosi seco schiava la schiavitù; e salvò gli uomini distribuendo loro i suoi doni. Questi doni tutti sostanzialmente consistono nell' unica grazia, di cui parla Paolo. Chi n' ha più, chi n' ha meno secondo la misura della donazione di Cristo . Ma oltre distinguersi nella Chiesa cotesti gradi di grazia, che più tosto sono a Dio conosciuti che agli uomini, si distinguono ancora varii uffizi e dignità, a cui questi gradi sono ordinati. Doppiamente poi si ordina la grazia all' uffizio e dignità esteriore, che ciascuno tiene nella Chiesa, vale a dire, o dando ad ogni cristiano la possibilità di occupare acconciamente il suo posto, o largheggiando a lui non solo la possibilità di ciò fare, ma il fare stesso. Quella prima maniera di grazia, che sufficiente si può appellare, Cristo a tutti la dona; perciocchè, come l' Apostolo in altro luogo afferma, « Iddio dà colla tentazione il profitto a poterla sostenere » (2). Ma il fatto stesso dell' opera è tal grazia, che non a tutti è conceduta. Perciò Paolo a' Corinti (3) accenna « diversità di doni, diversità di ministeri, e diversità di operazioni ». Pei doni s' intendono le abilità a trattare bene il proprio ministero; per ministeri gl' incarichi a ciascuno affidati; e per operazioni il buon uso di quei doni, ordinato, mercè l' amore d' Iddio, al giusto eseguimento dei ministeri. Sola quest' ultima grazia, che diremo efficace , giova a santificar se medesimi; l' altre più tosto sono date all' altrui santificazione, e all' adornamento della Chiesa. Come poi per queste diverse misure di efficace grazia l' uomo fassi più o meno grato a Dio, viene composta in tal modo una mirabile ma invisibile gerarchia nella Chiesa, che nella sua miglior parte sta in cielo: così per quelle diverse abilità ed uffizi, che rendono rispettabile l' uomo agli uomini, si crea una gerarchia bellissima e visibile quaggiù in terra. Ora di cotesta visibile gerarchia, Paolo tocca i principali gradi dicendo: « Ed egli stesso altri diede apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori ». A cui li diede? Agli uomini diede questi doni; e così parlando, mostra quello che testè osservavamo, essere tali ministeri non doni a chi li possiede, ma doni agli altri: vantaggiosi a coloro che da questi traggono la salute. Ora di tai ministeri andando sull' orma dell' Apostolo, si conviene considerare nella Chiesa in terra due ordini di dignità, una passeggiera e l' altra permanente. Quanto all' ordine passeggiero, novera S. Paolo i tre gradi di Apostoli, Profeti e Evangelisti. Tolte queste parole secondo le origini significano mandati, nunziatori del futuro, e nunziatori di buona novella . Ma parlando di una dignità della Chiesa s' intendono i mandati di Dio. [...OMISSIS...] Nella parola mandato poi non si dichiara nè limita autorità: quindi s' intendono sovente con questa voce i mandati per eccellenza, quelli che hanno ricevuta autorità maggiore: fra questi il primo è Cristo. Egli è chiamato nella Scrittura: « colui che dee esser mandato » (1). Nell' Antico Testamento fur mandati a dar la legge gli Angeli, Mosè ed Aronne. Paolo nella sublime lettera agli Ebrei dimostra peculiarmente che Cristo è superiore a que' tre ministri dell' Antico Testamento. Quanto a Mosè ed Aronne (poichè gli angeli non appartengono alla Chiesa che milita in terra), tutti e due erano mandati: « E mandai Mosè ed Aronne » (2). Ma come erano quelli mandati? Questa grande missione od apostolato racchiude tre uffici o dignità, cioè la dignità sacerdotale, la legislativa e la pastorale. Erano sacerdoti, onde nel Salmo XCVIII si dice: « Mosè ed Aronne suoi sacerdoti » (3). E quando Paolo scrivendo agli Ebrei, chiama Cristo « Apostolo e Pontefice della nostra confessione » (4), paragona bensì col titolo di Apostolo Cristo a Mosè, e col titolo di Pontefice ad Aronne, ma ciò è fatto prendendo il nome di Apostolo non in quel senso comune nel quale si dice tale anche Aronne, come vedemmo, ma in un senso di maggior dignità ed eccellenza. Poichè certo è che nel titolo di Apostolo dato a Mosè si comprendeva anche quello di Pontefice: distingue poi a chiarezza maggiore, e per torre ogni dubbio in sulla trascendente dignità di Cristo. Perciocchè recati in mezzo i tre ministri dell' antica legge, cioè gli Angeli, poi Mosè Apostolo, finalmente Aronne Pontefice: primo lo dimostra superiore senza confronto agli Angeli; e sebbene gli Angeli sieno superiori a Mosè, tuttavia lo vuole anche mostrare a Mosè superiore. Segue per ugual ragione a mostrarlo in ultimo anche superiore ad Aronne, sebbene Aronne sia minore di Mosè. Di fatti dice di Mosè, che « era servo fedele in tutta la casa di Dio », dipingendolo il maggiordomo o il fattore in tutta la casa con quel testimonio grandissimo tratto da' « Numeri » (1). In quest' aspetto generale considera adunque Mosè. Laonde quando appresso paragona Cristo ad Aronne, non fa altro che considerare Cristo superiore a lui nel peculiar incarico di Pontefice. Quello poi che Paolo aggiunge « della nostra confessione », a detta di S. Tommaso d' Aquino (2), si può intendere per quel primo sacrifizio spirituale , di cui sopra parlammo. Di fatti Cristo offerse non cose fuori di sè, ma se stesso. Essendo poi solo egli di interminato valore, solo era sacrifizio degno di Dio; là dove non così quello di qualunque altro uomo. Quindi egli abolì il sacerdozio di Aronne: egli sacerdote veramente unico, e sacerdote « in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » (3). Mosè oltre di ciò aveva nelle sua missione e apostolato l' uffizio di Profeta o interprete rispetto a Dio, e di legislatore o luogotenente di Dio rispetto agli uomini, là dove Aronne era solo profeta rispetto a Mosè, e luogotenente di Mosè rispetto agli uomini. Però Iddio, così dice a Mosè nell' « Esodo » (4): [...OMISSIS...] . Ma di Mosè propriamente era la portentosa verga, colla quale fra' miracoli guidava il popolo, altro suo gregge. Ell' era quella stessa verga, di cui qual pastore di vere pecore soleva far uso, e Aronne l' adoperava come ministro suo: mentre a lui solo aveva Iddio comandato di pigliarla in mano (7) per adempire gli ordini suoi. E s' ella dicesi verga d' Iddio sovente nelle « Scritture », è perchè sì Mosè che Aronne altro non erano finalmente che garzoni d' altro pastor maggiore padron della greggia, al quale Davide rivolgeva il discorso dicendo: « Guidasti il tuo popolo come un branco di pecore per le mani di Mosè e di Aronne » (1). E questo egli è pur Cristo che di sè disse: « Io sono il buon Pastore » (2): pastore veramente buono, che fra' pericoli di questa vita ci conduce nella promessa terra del cielo colla verga della grazia, che solo per la sua potenza è detta di ferro ne' « Salmi » (3). Nell' apostolato di Mosè adunque v' avevan i tre uffizi di Sacerdote dei Sacerdoti , di Legislatore e di Pastore . Lo stesso è in Cristo, ma in grado eminente, e in fonte, da cui tali doni agli uomini si derivano. Come Pontefice fu predetto da Mosè colla storia misteriosa di Melchisedecco spiegata divinamente da Paolo nel cap. VII della « Lettera agli Ebrei ». Come Legislatore nel cap. XVII del « Deuteronomio », [...OMISSIS...] . Come Pastore finalmente nei « Numeri » (4): [...OMISSIS...] . Preghiera, che Iddio esaudì per allora col dare Giosuè a capo del popolo, sì nel nome che nell' uffizio bella figura di Cristo. Così ancora quando il Signore mandò Mosè, questi non si acquetava, sebbene udisse: « Io sarò nella tua bocca, e ti insegnerò quello che dovrai dire » (5). Poichè ardendo di desiderio dell' altro Apostolo maggiore di lui, verso il quale egli si conosceva un nulla, importunò Iddio, e disse ancora: « Ti scongiuro: Signore, manda colui che sei per mandare ». Nel qual titolo di mandato , o Apostolo per eccellenza, racchiuse qui Mosè tutti i pregi e gli uffizi di Cristo. Ecco dunque quale è e come eccellente l' Apostolato di Cristo. Ora Cristo, trascelti dodici de' suoi discepoli, comunicò loro sì grande titolo di Apostolo. Dopo risorto poi disse: « Come mandò me il padre, anch' io mando voi » (6). L' Apostolato adunque dei dodici Apostoli è tutto simile a quello di Cristo, è partecipazione di esso, e partecipazione a cui Cristo non pose limiti. Oltre poi a questa generale missione, per cui gli Apostoli divennero luogotenenti di Cristo presso gli uomini, diede loro in particolare i tre uffizi o dignità di sopra annoverate. Primieramente li fece Sacerdoti, cioè partecipi dell' unico suo sacerdozio, conferendo loro la potestà di consecrare il pane ed il vino, obblazione monda, accettevole, degna d' Iddio, infinita: e glielo comandò nell' ultima cena (1): quando avendo per la virtù di sue parole nel proprio corpo e sangue convertito il pane ed il vino, e fra loro diviso, disse quelle memorabili parole: « Fate questo in mia commemorazione ». E poichè non era tale obblazione meramente legale e priva di un suo vigore, ma anzi d' infinita efficacia; per questo a' mandati suoi aggiunse l' altra facoltà divina ignota agli Apostoli dell' antico tempo, [...OMISSIS...] . Ma singolarmente a Pietro commendò tutto il gregge. Poichè a questo, iterata tre volte quella tenera inchiesta: « Se egli lo amava », anche tre volte quasi a premio della sua sincera risposta dissegli, che pascesse il suo gregge: le due prime colle parole: « Pasci i miei agnelli », e la terza (imperciocchè Pietro la terza volta gli si dimostrò ancora più caldo amatore) con quelle: « Pasci le mie pecore »; indicando con ciò che non solo pascer dovea gli agnelli figli alle pecore, cioè la plebe fedele, ma gli altri pastori altresì, che rispetto a Cristo e qui a Pietro ben s' appellano pecore. Dalle quali cose tutte s' intende come Cristo desse agli Apostoli del Nuovo Testamento la maggiore dignità possibile e senza limiti: imperciocchè Cristo non ne pose alcuno, e come nel ministerio così nella gloria simiglianti li descrisse a se medesimo (7). Bensì gli Apostoli stessi, i quali aveano da Cristo la facoltà di mandare, come Cristo l' aveva dal padre suo, perchè spediti al modo di Cristo, posero limiti a' loro successori. I successori degli Apostoli non furono già messi amministratori in tutta la casa di Dio quale fu Cristo come figliuolo, Mosè come servo nell' Antico Testamento, e gli Apostoli nel Nuovo come amici, anzi tenenti le veci e rappresentanti la persona del Figliuolo. Ebbero i successori degli Apostoli una limitazione, avendo essi il solo carico di reggere e ampliare la Chiesa sull' apostolico fondamento, non quello di fondarla, che Cristo avea dato agli Apostoli (1). Or quegli, a cui è commessa totalmente la fabbrica d' una casa, ne forma il disegno come a lui ne sembra, ed è posta nell' arbitrio suo tutta la disposizione dell' edifizio; all' incontro gli altri cooperatori debbono lavorare sul disegno fatto a principio dall' architetto, e debbono accomodarsi tutti alle incombenze particolari loro imposte. Agli Apostoli commesso era di fabbricare tutta la casa della Chiesa novella, avute a ciò le istruzioni da Cristo: in loro perciò era piena l' autorità, e secondo la sapienza che li reggeva disposero fino a principio tutto il disegno; a' successori all' incontro convenne di lavorare in sulle traccie lasciate dagli Apostoli, ed esercitare ciascuno quel peculiare incarico a loro sortito, a cui di muratori, a cui di manovali, a cui d' altro. Vero è che l' unico sapiente architetto fu Cristo (2). Ma come Mosè fece ogni cosa secondo l' esemplare veduto sul monte (3), così gli Apostoli, come dicevamo, facevano tutto secondo quello che avevano veduto in Cristo, e che lo spirito di lui veniva loro suggerendo; nè operavano a capriccio, ma seguendo Cristo fino a morte, come a Pietro era stato prenunziato (4). Gli Apostoli adunque erano limitati, se così dir si potesse, da sola quella sapienza, che in essi albergava. Ma non è questo accurato parlare. Poichè la sapienza che non ha limiti non limita, là dove l' ignoranza che per sè è nulla, ristringe e impicciolisce l' umana volontà. Somma è dunque l' apostolica dignità. L' Apostolo per eccellenza è Cristo, e i dodici per la partecipazione dell' apostolato di Cristo; Mosè e gli altri messi dell' Antico Testamento più tosto rappresentavano questo apostolato, che non sia ne partecipassero, come l' esterna Chiesa loro affidata era, più che la Chiesa stessa, figura della gran Chiesa, benchè lo spirito interno e l' essenza fosse una medesima. Quanto alla dignità di Profeta dicemmo già secondo la greca origine significare predicitore , là dove Evangelista annunziatore di buona novella. Apparisce in ciò, che come quell' uffizio conveniva all' Antico Testamento, quando ancora il mondo non avea la salute, così questo al Nuovo si avviene, in cui è predicato il sanatore dell' umana infermezza, e l' inventore della perduta felicità. E quando nell' Antico Testamento d' un Profeta si legge che evangelizza, si scorga la similitudine cogli Evangelisti del Nuovo. Prima della venuta di Cristo era diviso il mondo fra i Gentili e gli Ebrei. Nelle tenebre, in cui giacevano le genti inquiete, angosciose, infelici, senza Dio in questo mondo , andavano esse in cerca nell' avvenire di un qualche conforto: chè alcuno nel presente non ne vedevano. Così l' uomo, che non può co' beni presenti appagarsi, è sospinto dal desiderio alla speranza e alla espettazion del futuro. Qual maraviglia, considerando questo fatto, se si veggono i gentili così proclivi a dare orecchio agl' indovini di mille maniere, agli oracoli, e a tutta la loro superstizione, che chi ben a dentro la mira, su questa speranza in gran parte si erigeva? Era per tal modo il Messia l' espettazione non solo di que' Santi, che sparsi per le nazioni e istruiti da Dio con peculiar cura sapevano di lui; non solo di quei sapienti, che meditando sopra se stessi ritraevano per ultimo frutto di loro speculazioni la ignoranza umana, e la miseria, e la necessità palmare d' un inviato dal cielo; ma ben anco l' espettazione era delle nazioni in generale, che sordamente angosciate dall' infinito bisogno che l' umana natura v“ta di beni sentiva, senza conoscerlo il desideravano, l' aspettavano. Questa io credo principale origine de' falsi profeti presso agli uomini fuori d' Israello, i quali prima di Cristo sempre avidissimi e frenetici di scoprire il futuro si dimostrarono. Ma presso gli Ebrei la profezía non fu finzione, ma verità, e d' origine divina. Colla segregazione di questo popolo dall' altre nazioni idolatre Iddio radunò la sua Chiesa in un corpo visibile, mentre avanti ell' era dispersa e disgregata pel mondo, e forma non aveva ad occhi umani di peculiar società. Dalla chiamata di questo popolo doppio vantaggio ne scaturì. Si provvide alla dignità del Messia, e alle prove della sua verità, col sequestrare dall' altre quella generazione di cui voleva discendere. Appresso si provvide alla salute del mondo, stabilendo e apparecchiando con divina sapienza un popolo, che dovesse ricevere questo Messia, e con tutto rigore e scrupolo conservar le prove della verità sua, e mostrarle al mondo tutto. In qual maniera adunque preparossi Iddio questo popolo? « Tutte queste cose », dice Paolo, « avvenivano a lui in figura » (1). Aveva anche questo popolo, perchè porzione egli pure di massa corrotta, e quindi del presente scontentissimo, quella curiosità somma delle future cose, per cui alle pagane superstizioni ognora inchinava. Era tale propensione e amor del futuro d' una parte a lui nocevole, perchè facile il rendeva a venire ingannato. Per l' altra gli fu vantaggiosa: poichè vegliando Iddio alla sua custodia, sempre lo sceverò da' Gentili; e quantunque volte peccasse, con acri gastighi ammonendolo, il facea risentire dell' inganno in cui si trovava. La divina sapienza oltre ciò gli mandò dei veri profeti; e così a bene rivolse quella inclinazione medesima, che da lei era non senza sì grande fine predisposta. Oltre di ciò salvandosi ogni uomo per Cristo, il solo nome in terra, sotto cui si fosse posta una speranza di salvamento; qualunque cosa Iddio facesse manifestare a vantaggio dell' uomo, dovea riguardare il Cristo, dovea essere Profezìa. Per questo Paolo: « Tutte le cose a questo popolo accadevano in figura ». E qualunque uomo ottenesse grazia di qualche divina illustrazione ad insegnamento del popolo fu chiamato presso gli Ebrei ora veggente, ed ora profeta (2). Ma fra gli uomini inspirati dell' Antico Testamento, o vero fra i profeti, si possono discernere quelli che danno una dottrina, e quelli che fanno profezie, o spiegano la dottrina, ma non la danno. La dottrina, o sia la Legge nell' antico patto fu data dal solo Mosè come profeta e bocca del Verbo. Nel nuovo, dal Verbo stesso incarnato come Profeta e Sapienza d' Iddio. Mosè avea comandato di non aggiungere nè torre nulla alla legge sua (3). Il perchè nel « Deuteronomio » dà agli Ebrei per indizio di riconoscere il falso profeta del secondo genere: se egli detrarrà alla legge, e così li rimoverà dal loro Iddio (1). Ma quando nel capo XVIII di questo libro stesso prenunzia il grande Profeta simile a lui, e dice espresso: « Lui ascolterai »; allora non dà più agli Ebrei per indizio di riconoscere l' ingannatore il rimuoverli dalle cerimonie legali, l' aggiungere o il detrarre dalla sua legge, il torgli da Dio; ma solo la verificazione delle profezie, di cui egli stesso è autore (2). Cristo era adunque il gran Profeta e Legislatore simile a Mosè, ma da Mosè tanto distinto quanto Dio è dall' uomo. In questo Profeta riposavano e terminavano tutti i doni del Santo Spirito, al dire d' Isaia (3), come i fiumi s' allettano e riposano nel mare onde escono. Cristo dunque sommo de' profeti, Profeta per eccellenza, quegli da cui gli altri profeti furono ispirati; scopo e termine fisso alle loro predizioni; Cristo solo forma la prova della loro verità, perchè in Cristo si videro verificate. Per opposito essi formano la prova della verità di Cristo, non solo perchè ciò che è detto da profeta, cui l' avvenimento confermi le sue profezie, vuole esser vero; ma ancora perchè avendo Cristo profetato pel loro ministerio, la verificazione delle loro profezie prova lucidamente la dote di vero e sommo Profeta in Cristo. Che poi Cristo abbia per mezzo de' profeti parlato, da tutto ciò si argomenta, da cui si fa chiara la sua divinità. Ma veggiamo qual differenza v' abbia tra le dignità di Profeta e di Apostolo. Se Mosè si può dire, secondo il concetto di S. Paolo, l' Apostolo dell' antico patto, ecco come Dio lo distingueva dagli altri profeti (4): « Se saravvi tra voi un profeta del Signore » (sono parole rivolte ad Aronne e Maria, che si ergevano per invidia contro a Mosè), « io gli apparirò in visione, o gli apparirò in sogno. Ma non così al mio servo Mosè, il quale in tutta la mia casa è fedelissimo. Perciocchè io a lui parlo bocca a bocca ». Questa espressione, che sembra significare: con tutta chiarezza, mostra assai acconciamente la viva somiglianza resa da Mosè cogli Apostoli del Testamento nuovo, che dalla propria bocca di Gesù udirono le dottrine. « Ed egli chiaramente e non sotto enimmi o figure vede il Signore ». E nel « Deuteronomio » (5) si rende a Mosè simile encomio. Sembra dunque che l' Apostolato di cui parliamo in questo consista, nell' avere dalla stessa bocca di Dio l' istruzione e l' inviamento. Consonano a ciò le parole, che Cristo ai dodici rivolgeva: « A voi è dato d' intendere il mistero del regno d' Iddio: ma per quelli che sono fuori, tutto si fa per via di parabole » (1). Paolo nella « Epistola a' Galati » volendo dimostrar se stesso Apostolo egualmente ai dodici (2), comincia dicendo, non essere egli « stato eletto » a tal dignità « dagli uomini nè per mezzo d' uomo, ma da Gesù Cristo e da Dio Padre, che risuscitò Gesù Cristo da morte ». E appresso segue: « Or vi fo sapere, o fratelli, come il Vangelo che è stato evangelizzato da me non è cosa umana. Perciocchè non hollo io ricevuto, nè l' ho imparato da uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo »: e ancora conferma il medesimo mostrando, che appena chiamato quale Apostolo delle genti non andossi già egli in Gerusalemme dagli Apostoli a impararlo; ma tostamente in Arabia, indi si tornò a Damasco, e solo trascorsi tre anni fu a Gerusalemme dagli Apostoli a visitar Pietro, col quale rimase quindici giorni, e, fuori di Giacomo, nessuno altro degli Apostoli avea veduto, oltre a Pietro. Di poi si condusse ne' paesi della Siria e della Cilicia, e, quattordici anni passati, fu di nuovo a Gerusalemme per rivelazione a confrontare col collegio apostolico il Vangelo fra le nazioni predicato, non già al fine di verificarlo, ma di autorizzarlo presso gli uditori suoi pel mirabile consenso con quello degli altri (3). Or poi sebbene la profezia, come è detto, propria cosa fosse dell' Antico Testamento; non di meno tal dono apparve anche nel Nuovo. Ciò avviene a edificazione; e non è più però alla Chiesa così sustanziale come era prima di Cristo. Il perchè appresso S. Matteo si legge: « Tutti i profeti e la legge profetarono sino a Giovanni » (4). Onde quando Cristo disse: « Ecco, che io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (5), s' intende esser detto alla maniera degli Ebrei, i quali per profeti toglievano qualunque veggente, e per la natura dell' antico patto aveano ragione. Ora Cristo mandò loro gli Apostoli, che erano profeti per eminenza, come Mosè tra' profeti del Testamento Antico; ed occupavano però il posto degli antichi profeti con assai vantaggio. Il perchè Cristo mandò loro non solo profeti, ma più che profeti. Questi ancora della futura gloria e dell' avvenire della Chiesa profetavano, come avevano udito da Cristo, e come lo spirito loro suggeriva. Venne ancora nel Nuovo Testamento un nuovo genere di profezie, cioè lo spirito d' interpretare i profeti antichi. [...OMISSIS...] Quello Spirito Santo adunque che nel patto antico facea predire le cose del Messia, nel nuovo le fa interpretare; e tanto quegli uomini antichi, del cui mezzo si servì, come questi, di cui si serve, non malamente mi pajono chiamati profeti, perchè sì gli uni sì gli altri colle profezie confermano Cristo; i primi proferendole, e dilucidandole i secondi. Ma l' incarico maggiore di questi profeti mandati da Cristo è d' annunziare al mondo quella buona novella, che una volta solo si profetava. Come adunque gli Apostoli occupano, ma con dignità maggiore, il luogo di Mosè; così gli Evangelisti tengono il luogo de' profeti, e profeti si possono chiamare, non differendo nell' oggetto di cui favellano, ma solo nel tempo: mentre annunziano questi venuto colui, che quelli futuro prenunziavano. Sostanzialmente sono persone dallo stesso spirito inviate a ben degli uomini. Che poi non sia delle predizioni sustanzial bisogno nella Chiesa, da questo s' intende, che essendo Cristo il fonte della verità, e la pietra di paragone, a cui di ogni vero si fa il saggio; già non dobbiamo, a provare gl' insegnamenti che dati ci vengono, al futuro ricorrere, ma solo all' esemplare passato appareggiarli. [...OMISSIS...] E per la ragione medesima noi veggiamo in Isaia (3) Iddio argomentare co' Gentili, mostrando loro, come gli Dei non sanno rispondere a loro inchieste, non possono coi predicimenti aprire le grandi mire della provvidenza ne' successi delle nazioni, e profetando un Cristo, a cui que' successi si riferiscono, giustificarla; nè avendo essi Gentili nè i loro Dei cosa alcuna ad opporre con verità in questa disputa, così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dice adunque, senza profeti esser le genti, e però vivere tristi senza speranza del futuro, senza Dio in questo mondo. Alla fine promette, che non da' loro Iddii avranno questi profeti sì bisognevoli all' uomo nella condizione di quel tempo, ma che egli sarà il primo , il quale colla possanza sua faralle partecipi di Sionne. Pur non dice loro di dare oggimai un Profeta , bensì un Evangelista: che veniva a dire non dovere esser le genti chiamate a lui nel tempo del predicimento, ma dell' annunzio della buona novella. Dice bensì che tale Evangelista darallo a Gerusalemme; ma prima dice che a Gerusalemme si rivolteranno le genti, anzi si ridurranno intorno tutte a Sionne, monte sopra il quale è « costituito Re Gesù Cristo », come è scritto ne' Salmi, « a predicare il precetto di Dio » (1). Tengono adunque nel nuovo patto gli Evangelisti quel luogo, che i Profeti nell' antico; ma hanno uffizio e più lieto e più splendido. Quest' Evangelista poi, di cui per eccellenza Isaia parla, egli è il Cristo, che insieme è buona novella, e apportatore di lei. Egli è quegli, in bocca di cui disse appresso lo stesso Profeta: « Il Signore mi ha mandato ad evangelizzare a' poveri » (2), passo, cui leggendo Cristo nella Sinagoga di Nazarette, adattò a se medesimo (3). Egli è quegli, di cui in un capitolo antecedente avea detto lo stesso Profeta: [...OMISSIS...] . Dall' altezza dunque di Sion Cristo evangelizza Sionne e Gerusalemme, e mostrando se stesso alle città di Giuda, dice altamente: « Ecco il Dio vostro », nel che la grande e fortunata novella consiste. E l' annunzia con alta e sonante voce, acciocchè possa essere anco lontano inteso, cioè da' Gentili, detti « lontani » da Paolo (5), che nelle città di Giuda sembrano raffigurati, le quali, benchè fuori della città santa, pur l' adito hanno e la vicinanza ad essa per l' unità dello stipite suo che le rende tutte una tribù. Non solo poi fa bisogno che forte e sonante tragga la voce, ma la tragga « nella sua fortezza », cioè da grazia accompagnata; fortezza a' profeti non data mai, perchè non avevano essi schiava condotta la schiavitù degli uomini, e ricevuti dei doni da compartire; ma propria di Cristo, e da lui mandata dietro alla voce di quelli, a cui partecipò l' incarico di evangelizzare. Questa voce simigliante alle trombe che annunziano dopo di sè il venir d' un esercito numeroso, si dice in un Salmo sublime: « Il Signore darà la parola e il comando: evangelizzeranno un esercito numeroso » (1). Evangelisti ancora si chiamano in senso più stretto quei quattro santi uomini destinati a scrivere l' Evangelo, e alcuni altri che in sul principio della Chiesa avevano grande spirito e dono di miracoli, ed erano dagli Apostoli eletti ad evangelizzare con ampia podestà secondo che lo spirito suggeriva; a ragion d' esempio il diacono Filippo, che negli « Atti apostolici » è pure chiamato col nome di Evangelista (2). La ragione, per cui S. Paolo a' Corinti (3) mette gli Apostoli ed i Profeti, e lascia d' annoverare gli Evangelisti, può essere perchè, come dicemmo, gli Evangelisti non erano altro che un supplemento agli Apostoli, che non poteano esser per tutto; a cui provvedere furono eletti anche i diaconi, e però dicendo Apostoli hassi a intendere, co' loro compagni , come sarebbero stati Silla e Barnaba compagni a Paolo. Di fatti proprio era de' Profeti, come spiega Paolo, edificare la Chiesa già credente; là dove era proprio degli Apostoli ed Evangelisti chiamare alla fede, e fondare così la Chiesa (4). Quando Cristo adunque dice agli Ebrei che loro manderà dei Profeti, invece di dire che manderà degli Evangelisti, a loro parla assai dolcemente sì come a suo popolo, e mostra che egli non vuole fondare fra essi Chiesa nuova, nè introdurre nuova religione; ma solo compiere e perfezionare l' antica. Spiegati questi ampi e generali uffizi della Chiesa nascente; ora è a dire di quelli, che essendo istituiti a conservarla e fregiarla vie più di pio decoro, permangono sino alla fine. Questi non sono da Paolo specificati, ma solo tocchi colle parole di pastori e dottori , che esprimono in genere tutto l' ecclesiastico durevole ministero. Per dirne alcun poco è a sapere, come anco l' antico Israele ebbe due tempi o quasi epoche come ebbe il nuovo. Conciossiachè lasciando età più rimota e cominciando da Mosè, d' onde il popolo ebraico ritrae forma di regolata e compiuta società; troviamo, che da quel legislatore e profeta principale fino ad Esdra, cioè pel corso d' anni mille, mandò Iddio i profeti suoi, i quali con istraordinaria missione, colle profezie, e coll' inculcamento della legge reggessero l' Ebraica Chiesa; trapassato il qual tempo, furono solo reggitori ordinari e permanenti. Così nella Chiesa a principio v' ebbero gli Apostoli , i Profeti , e gli Evangelisti; e appresso, cessate queste dignità, rimasero i pastori e dottori . La ragione perchè nell' antica Chiesa fu sì lungo il tempo della missione straordinaria, e sì breve nella nuova, è molteplice. Primieramente essendo oggetto unico dell' istruzione del mondo in tutti i tempi Cristo, questo oggetto allora era futuro, come ora è passato. Non poteva essere dunque senza straordinario dono, che nell' antico tempo di questo oggetto si favellasse, fino che da straordinari mandati non fosse stato predetto tutto ciò, che esser predetto dovea. Ma queste cose a predirsi del Messia ed erano molte, e voleva la dignità di lui che da lunga serie di uomini ispirati fosse descritto; come anche ciò richiedeva la necessità che Cristo avesse prove di molte guise, replicate, evidenti; ciò che dimandava anche il bisogno dell' umana imbecillità, essendo a questa acconcia l' istruzione gradata, e lenta, e quasi a sorsi, sì come di oggetto arduo e spirituale. All' incontro nel Nuovo Testamento Cristo non più si profetizza, ma si narra: e se v' ebbe bisogno a principio di straordinari commissari per fondare la Chiesa tutta spirituale, com' ella è, di GESU` fra uomini che avevano lo spirito affisso alla carne, e quasi da essa assorbito, di straordinario potere appresso non fu bisogno per reggerla. L' essere stata poi fondata con sì rapido e maraviglioso eseguimento, sì come piacque alla virtù divina, per una parte domandò uomini fuori dell' usato sì per autorità e potere, che per doni di spirito, dall' altra abbreviò il tempo di sì fatto bisogno. Ed a quel modo che la lunga missione de' Profeti confirmava meglio la religione, così la religione e la potenza del capo suo meglio appariva quant' era più breve la mission degli Apostoli. Ma aggiugnete ragione di maggior peso. Nell' antico Israello si può dire messo straordinario qualunque uomo, a cui avesse Iddio data podestà soprannaturale; non così nel nuovo. Poichè nel nuovo anche l' ordinaria dignità di soprannatural potere è fornita. Sono ordinari ministri quelli che o con ordine stabilito e continuo si succedono e permangono sinchè dura la Chiesa, o sieno questi messi da Dio, o dalla Chiesa stessa istituiti. De' primi nell' antico Israello erano i Sacerdoti, de' secondi i sapienti e gli scribi che da Esdra cominciarono. Ma nè i sapienti, nè gli scribi faceano nulla sopra natura, nè i Sacerdoti atto facevano, a cui effetto soprannaturale conseguitasse: il perchè i Sacerdoti nostri sopra quelli sommamente s' innalzano per la consecrazione del pane e del vino, e per gli effetti di questo divino sacrifizio, che vengono disponendo a' fedeli con divino potere. Questione è degli eruditi diffinire il tempo a cui si debbano richiamare i Sapienti e gli Scribi . Quanto agli Scribi (non de' profani , ma di quelli che sacri o ecclesiastici si nomano), forse derivano da Mosè stesso nella prima loro origine, come vogliono alcuni (1), e da Esdra furono solo ristorati: e forse diffinirne il tempo dipende dall' idea più o meno larga, che di essi altri si forma. Noi di quelli parliamo, che nella sacra Storia dopo Esdra compariscono. Certo questo uomo illustre dagli Ebrei è detto « Principe dei Dottori della legge », e affermano i Rabbini ch' egli stabilisse in Gerusalemme scuola d' interpreti, acciocchè la legge giammai non dovesse per falsa intelligenza essere contraffatta. Tornano tali Scribi a un medesimo coi Legisperiti, e forse un po' differiscono non nella qualità dell' uffizio, ma nel grado di dignità. I Sapienti riuscivano una cosa medesima co' Farisei ambiziosi di tali titoli, che loro dava il vulgo, benchè appresso vollero piuttosto essere chiamati con più coperto titolo « discepoli de' Sapienti ». Questi molto insistevano sulle tradizioni loro, che premettevano di pregio alla Legge; là dove gli Scribi più tosto attendevano all' interpretazione di essa legge. A questo proposito veggiamo nel capo XI di S. Matteo, che i Farisei apponevano a Cristo il mangiare e 'l conversare co' pubblicani e co' peccatori: cosa disdicevole alle loro consuetudini; là dove gli Scribi gl' imputavano la bestemmia, peccato contro la legge. Erano bensì nel tempo di Cristo e gli uni e gli altri della stessa pece macchiati; rigidi con altrui, larghi con se medesimi; imponitori di importevoli pesi, mentre, come dice il Vangelo, non sollevavano essi di terra una paglia (2). L' uffizio però d' ambidue era buono. Tanto le legittime tradizioni e costumanze, come la scritta dottrina si doveano curare; dicendo Cristo, che questa conveniva serbare, e quelle non trasandare. Paolo poi nella prima a' Corinti (1) nomina una terza maniera di dottori, che sottili indagatori erano dagli Ebrei appellati, e interpretavano la Scrittura con istudiate allegorie, e sottigliezze fredde: e questo modo d' esporla è dannato da Paolo in quella a Timoteo (2) come generatore di quistioni e altercazioni infinite. Per questo Cristo non fe' parola di costoro quando disse: « Ecco io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (3). Ma a chi poi Cristo dicea così? Appunto a' Farisei e a' Legisperiti, a que' sapienti e scribi. Ben da ciò si vede quanto questi Savi di Cristo avanzino quelli. Poichè come quegli erano mandati al popolo, e in risguardo ad esso popolo sapienti e scribi s' appellavano; così que' di Cristo fur mandati anche a' sapienti e scribi, e a rispetto di loro altresì si voleano appellare in tal modo. Il vocabolo di dottori poi fu anche appresso gli Ebrei di significato generale; con cui si nomavano tanto i sapienti, che i legisperiti o gli scribi. Quindi Paolo nella prima a' Corinti (4) accenna col solo nome di dottori l' uffizio, che nel luogo che abbiam fra mano dell' « Epistola agli Efesini » indica con due, di pastori e dottori . Con queste due parole adunque esprime ogni governamento della Chiesa: e di più ce ne mostra la natura. Poichè il reggimento ecclesiastico istituito da GESU` è così dolce, come di pastore che corregge il gregge. E` di nulla ha più cura se non ch' ei cresca e prosperi: mai non l' offende, nol castiga mai troppo aspramente: e se travia qualche pecora, e' va con gran destrezza a raggiungerla, pigliarla senza nuocerle, se la reca in ispalla, e torna così al branco. Tutt' altro è questo reggimento che quel de' re della terra, che dominano su' soggetti (5), e che governando civilmente e non spiritualmente, usano ancora la forza meccanica, non quella solo di persuasione e di amore. All' incontro l' unica arma in mano al pastore evangelico, l' unica verga è la voce: con questa apre la verità, con questa svela il falso, con questa lega e condanna. In somma i reggitori ecclesiastici non sono monarchi; sono pastori; non sono re , ma sono maestri degli uomini . Cristo poi, dice il Dottor nostro, li ha spediti « per lo perfezionamento de' Santi ». Ecco il fine di tutte le cose, la santificazion degli uomini. Qual bontà non è ella questa di Dio di avere il tutto fatto pe' suoi eletti? [...OMISSIS...] Ma se tutto ha fatto perchè gli eletti fossero santificati, a qual fine poi quest' opera stessa? Ogni santità degli eletti è di Cristo; da esso la ricevono si può dire a prestito, non a proprio. Tutto adunque tornar debbe a Cristo stesso, perchè tutto è di Cristo: e quando Paolo dice, che avemmo in dono tutte le cose, aggiunge però in Cristo; perchè nessuna cosa può darla così a noi che la tolga a sè, ma se stesso dà a noi, e così ci dà tutto, perchè tutto in sè possede. Cristo veramente è lo stesso « splendore della gloria e la figura della divina sostanza (2): è la virtù e la magnificenza di Dio » (3). Dio adunque è l' ultimo fine di tutte le cose, e tutte cose ha fatto per sè (4). [...OMISSIS...] Cristo adunque è quegli, nel quale Dio vuole essere per noi glorificato. La santità nostra dee fruttare gloria a Cristo qual capo dei fedeli, e la gloria di questo capo gloria a Dio. A Cristo poi si riferiscono quaggiù tutte le cose in due modi, come in due modi è con noi: nel suo corpo reale, cioè nella Eucarestia, e nel suo corpo mistico, cioè ne' fedeli che fanno la Chiesa. Quindi è rivolta tutta la Chiesa col reggimento suo a questi due scopi: a Cristo nel pane e nel vino, e a Cristo in se stessa. Ell' ha perciò due potestà, l' una deputata al primo di questi corpi, l' altra al secondo, la prima costituisce l' Ordine sacro , l' altra la ecclesiastica Giurisdizione . Quanto alla prima dice Paolo: « in opus ministerii », per « l' opera del mistero »; quanto al secondo, « in aedificationem corporis Christi », per « l' edificazione del corpo di Cristo ». L' una di queste potestà Cristo la conferì alla Chiesa quando pochi momenti innanzi la passione sua consecrò, e distribuì il pane, e appresso fatto il simigliante del calice aggiunse: « Fate questo in mia commemorazione » (1). L' altra podestà da Cristo fu promessa prima di sua morte (2), ma conferita agli Apostoli poscia che fu risorto, [...OMISSIS...] . E con grande ragione disse queste parole solo dopo risorto. Poichè a Cristo si debbe conformare in tutto la Chiesa. Cristo ha le primizie in tutto, in tutto la precede; il primo egli de' risorgenti: nella sua risurrezione soltanto risurse la Chiesa a eterna vita. Ei la trasse con sè del sepolcro, risurgendo, e perciò con quest' atto acquistò sopra lei ogni potere. Quindi allora solo convenìa che partecipasse agli Apostoli tal podestà sopra il suo mistico corpo, là dove la podestà sul suo corpo reale andava bene che gliela conferisse quando non era ancor morto, ma morire poteva: non essendo altra cosa la sacra cena che una immolazione del divino agnello. E poichè alla podestà del governar la Chiesa è necessario che sia congiunto divino lume, nell' atto di darla agli Apostoli soggiunse ancora: « Ricevete lo Spirito Santo » (4), e: « Io sono con voi sino alla consumazione del mondo », non muojo più, non m' è tolta più mai quella podestà, che come uomo mi ho guadagnata morendo, perciò nè pure mancherammi giammai la sposa mia, la mia Chiesa, voi miei ministri non avrete a temere nulla in governarla, perchè io v' ho dato questo potere mio indeficiente, questa mia divina autorità e virtù. Per tanto la prima di queste due podestà, che ha l' incarico del ministero , costituisce la natura del Sacerdozio. Sacerdote è quegli, « che offerisce a Dio doni e ostie » (5), e chi avesse la sola facoltà di consecrare sarebbe sacerdote perfetto. Essendo poi l' unico dono, e l' unica ostia accettevole GESU` Cristo, l' unico sacerdozio vero è il suo, tutti gli altri sacerdoti non possono essere mezzani fra Dio e gli uomini. L' altra podestà dell' edificazione del corpo mistico di Cristo è quella, che forma propriamente i Vescovi, questi fur posti « a reggere la Chiesa di Dio » (1), questi sono i pastori e i dottori , questi gli sposi della Chiesa, i compiuti esemplari di GESU` Cristo. Per questo non si può dare Vescovo senza Chiesa, come non si dà sposo senza sposa; poichè Vescovo vuol dire appunto quegli che ha Chiesa, come sposo vuol dire quegli che ha sposa. Ma se il Vescovo presiede al mistico corpo di Cristo, se il capo di questo corpo non è altri che Cristo stesso, se perciò Cristo come uomo è anch' egli membro di questo corpo, quel membro nobilissimo, che agli altri membri dà l' unione in un corpo e la vita: chiaramente apparisce come la Podestà vescovile suppone la sacerdotale, la podestà sul corpo suppone quella sul capo: poichè senza il capo più corpo non vi ha: non si comanda al corpo altro che pel suo capo: a quello solo ubbidisce: non si santifica il corpo altro che col sacrifizio del capo: quello solo è la nobil vittima di salute: non discende nè podestà alcuna nè grazia alle membra se non per la via del capo: da lui hanno tutto, in guisa che in lui spirano, in lui vivono per mirabile modo e nascosto. Onde conviene che solamente il Sacerdote, che ha podestà di sacrificare Cristo, e placare in tal modo Iddio, e che può così agli uomini dar salute, e quasi guadagnarli a somiglianza di Cristo col gran sacrifizio; possa sopra di loro esercitare autorità. Per questo i pastori hanno sempre obbligo di pregare e sacrificare per le pecore. Or questa podestà sopra il corpo reale di Gesù, fonte e radice della episcopale, contiene tutti gli uffizi necessari per sì fatto sacramento. [...OMISSIS...] Tutti questi uffizi sono bisognevoli al sacramento eucaristico, e tutti uniti negli Apostoli gl' istituì Cristo, quando loro diede podestà sopra il suo corpo reale. Perchè poi i fedeli formano il compimento e la pienezza del corpo di Cristo, come le membra quella del capo, o come il vestimento quella del corpo (2): per questo il Vescovo è denominato compimento del Sacerdozio . Ben è vero, che Gesù Cristo è così perfetto in se stesso, che dalle membra nessuna perfezione ritrae, ma loro solo comunica: a differenza della testa nel corpo umano, che senza l' altre membra non vive. Tuttavia avendo voluto congiungere a sè degli altri uomini, in questi estende e dilata la propria santità, loro comunicandola: è sempre quella santità stessa, ma in molti trasfusa in molti risplende. Dai Santi adunque riceve Cristo il compimento da lui voluto e preordinato, non perchè egli perfettissimo non sia, ma per l' opera della sua bontà, per la quale volle patire a redenzione di molti. E come i fedeli da Cristo ogni perfezione ricevano, nulla Cristo dai fedeli, mostrasi nel Vangelo stesso: là dove la Chiesa viene rappresentata, secondo i Padri, nella veste di Cristo, che ricevette in sul Taborre dal corpo, cui vestiva, candidezza di neve (1). Per questa parte adunque Cristo è veramente un corpo in tutte sue parti perfetto, nè la veste aggiunge al corpo veruna cosa, se non un certo fornimento esteriore, che parte alcuna non forma della sustanza del corpo stesso. Ma per tornare alla similitudine delle membra e del capo, in che dunque consiste questa pienezza di podestà vescovile? a che è rivolta questa autorità in sulle membra di Gesù Cristo? Coll' autorità in sul capo, cioè col sacrifizio, unisce e riconcilia l' umanità alla divinità: o almeno pone il fonte e la possibilità di questa riconciliazione. Del resto prosegue Paolo spiegando quel vescovile potere così: [...OMISSIS...] . Adunque lo scopo di quella podestà, che il corpo mistico risguarda di Gesù, si è quello, di fare che le membra non pure sieno unite al capo, ma sieno della proporzione stessa del capo. Molte parti ha un corpo (2). Queste diverse parti sono nella Chiesa di Dio i diversi doni e' diversi ministeri (3): ognuna necessaria, ognuna vantaggiosa all' altre, ognuna nobile perchè cooperante a formare l' armonia del tutto (4). Ma nel corpo non solo ci vogliono membra che lo compongano, ma è conveniente che tengano proporzione al capo: sicchè essendo il capo da adulto, non sieno le gambe o le braccia da fanciullo. Il corpo della Chiesa è perfetto: il suo capo è Cristo compito in tutte le cose. Egli giunse anche coll' età sua al mondo alla compita misura di uomo, perchè nel suo corpo reale avesse esempio il mistico. Poichè adunque questo nostro capo è della grandezza perfetta, così debbono ancor le membra venir crescendo sino che membra si formino di uomo adulto e compito. Questo avviene colla carità, cioè col perfetto eseguimento dei precetti divini, come insegna Paolo nella prima a' Corinti. Poichè nel capo XII descrive le membra di questo corpo, i doni, e i ministeri; e nel seguente parlando delle operazioni, o sia « de' doni spirituali (1), della via più eccellente », della carità, mostra, che doni e ministeri nulla sono senza questa che gli avviva: essi soli formano i membri morti. Ma chi al mondo arriverà a crescere colla carità sino a perfezione? Quella perfezione che fa le membra proporzionate al capo consiste nella mancanza di ogni colpa, quantunque diversi sieno i gradi del merito come diversa è la qualità ed il vigor delle membra. Chi però morisse imperfetto (ma senza colpa grave), chi morisse cioè bensì membro vivo, ma non cresciuto ancor pienamente, non reso pura carità di Dio: e' si purgherebbe nel fuoco fino a che cresciuto al giusto segno cogli altri Santi si unisse alla gloria. Pur troppo solo in cielo il corpo di Cristo è adulto! quaggiù siamo sempre attorniati d' alcuna imperfezione, che sembra quasi necessaria alla fragile umana natura: quaggiù ancora siamo come in quel tempo della gioventù destinato al crescimento di nostra statura. Questo tempo cessa, uscendo noi della Chiesa militante colla morte: que' mancamenti e difetti non gravi in quell' altra vita si purgano col fuoco. [...OMISSIS...] Quando adunque sarà da noi lavata ogni colpa ed imperfezione, e quando cesserà il nostro tempo di crescimento, allora saremo quei membri di giusta misura, quali Iddio ci aveva destinati ab eterno, che bene s' avvengono al capo, non più fanciulli ma interamente formati. Acciocchè ci rendiamo tali, Cristo pose i governatori della Chiesa. Ecco il fine della podestà di giurisdizione: essere fatti membri acconci pel Cielo. Per lo che a quella foggia che il corpo reale di Cristo in questa vita (1) venne crescendo, cresce in questa terra il suo mistico corpo. Qui si rende adulto, quanto può essere uomo perfetto, per la fermezza della medesima fede: in Cielo poi per la cognizione del Verbo , non più per ispecchio o enimma, ma faccia a faccia. Questa fede è quella che ne giova acciocchè « « non più siamo fanciulli vacillanti, e portati qua e là da ogni vento di dottrina pei raggiri degli uomini, per le astuzie onde seduce l' errore; ma seguendo la verità nella carità, andiamo crescendo per ogni parte in lui, che è il capo, cioè Cristo » ». Ecco adunque come crescono le membra: crescono per la fedel carità che ci incorpora in Cristo, e ci fa partecipe del suo già compito accrescimento. Quanto non è a dire di questa carità fondata nella fede, che schermisce il credente dall' errore, il rende adulto, e dopo morte gli mostra svelato lo stesso Dio? « Dal quale capo , prosegue Paolo, tutto il corpo compaginato e commesso per via di tutte le giunture di comunicazione, in virtù della proporzionata operazione sopra di ciascun membro prende l' aumento proprio del corpo per sua perfezione mediante la carità ». Nel che nuovamente si mostra come ogni ingrandimento e nutrimento di questo corpo viene dal capo, cioè Cristo. Le giunture poi, per cui è somministrato quel nutrimento, sono i Sacramenti della Chiesa, veicoli di grazia, li quali mediante la carità comunicano proporzionatamente l' aumento loro alle membra. Dice mediante la carità , perchè senza questa nulla valgono i Sacramenti. Questo è il sommo precetto, il germe degli altri. Chi non ama Gesù è anatema (2): non v' ha per lui giuntura che l' attenga al corpo, dacchè essere non può. Dice proporzionata , non meno cioè alla quantità dell' amore, che alla qualità del membro, poichè ognuno ha d' uopo della grazia per lo stato suo, e questa tanto gli è donata, quanto egli ama. Non è questo il luogo ov' io mi trattenga di più sui Sacramenti: basta qui avere imparato da Paolo come essi sieno le giunture dei membri al capo, i canali di grazia, di vita, e di perfezione. Soggetta a' Vescovi è l' amministrazione de' Sacramenti, perchè ha per fine l' edificazione del corpo mistico di Gesù Cristo: per questo stesso il Vescovo deve necessariamente essere Sacerdote, conciossiachè fra questi Sacramenti v' è quello del corpo e del sangue di Gesù Cristo, opera sacerdotale. Rimane a dire in quest' ultima parte della pratica della virtù. Ella s' esercita verso Dio, verso se medesimi, e verso gli altri. Primamente parleremo de' due primi risguardi, e appresso del terzo. Ogni atto di virtù verso Dio si può agevolmente raccogliere sotto questo solo titolo di Divozione; giacchè tutto si contiene nella dedicazione che si fa di sè a Dio, la quale viene espressa nella origine della parola. Non deve essere parte nell' uomo, che a Dio non sia devota, o dedicata: non tempo, in cui dalla unione con Dio ci possiamo dividere. Questo è il precetto dell' amor divino, questo il fine ed il voto dell' umana natura, che anela alla felicità, all' unione con Dio. Ma questa unione non si può avere compiutamente altrove che in Cielo. Quaggiù l' infermità di nostra natura non ci permette di stare attuati mai sempre in pura contemplazione. La congiunzione dell' anima con questa mole crassa ed inferma di corpo rende quella incapace di perfettissimo contemplare: la carne ne patisce (1), e gli obbietti esterni e corporei la strappano d' ogni parte da tale raccoglimento e meditazione sublime. Gesù però recando la perfezione della Legge e della Vita insegnò, che noi dobbiamo, malgrado di questo, tenere il vivere de' celesti per imagine del viver nostro, se nol possiamo conseguire compiutamente, dobbiamo tuttavia affaticarci per conseguirlo nella parte maggiore che per noi è possibile. « Vegliate », dic' egli con grande animo, « in ogni tempo, orando » (1). « Vegliate ed orate » (2). « Senza intermissione pregate » (3); le quali cose, a dir vero, sono all' uso de' beati del Cielo. Questo precetto della vigilanza cristiana, della continua preghiera, con quello si aduna del camminare alla presenza divina, col quale insegnò Dio ad Abramo a conseguire la perfezione. [...OMISSIS...] In vero colui che riflette Iddio essere in ogni luogo, e astante ad ogni suo atto, questi consapevole ogn' ora di qual compagno egli s' abbia, e di che dignità sia fornito, di che autorità, di che giustizia, di che bontà; non saprebbe peccare giammai. Ed in questa innocenza alla fine ritorna ogni cosa; e in essa si raccoglie veramente la abituale divozione. « Mi basta », diceva il buon S. Filippo a' giovanetti, « che voi non facciate peccati »; avvegnachè chi ha la coscienza monda, tiene altresì un animo sereno, una mente tranquilla, la pace, e Dio con sè. Esigete dunque, e commendate sopra ogni particolare ancorachè virtuosissima pratica questa astinenza da' peccati. Con questa, avendo il cuore puro da strani affetti, e privo dell' inquietudine de' rimorsi, si può volgere anche attualmente con grande soavità sè stessi a Dio, esser frequenti nell' attuale preghiera e continui nell' abituale, cioè nello spirito di preghiera. Chi nello spirito di orazione rimane, rimane in Dio, “ra sempre. A conseguire poi l' abito d' avere sempre il Signore innanzi alla mente, molte meditazioni conducono, e qui ne toccherò alcune. Chi pensa, che tutte cose da lui dipendono, che egli empie il cielo e la terra (5), che si trova tanto dall' empio come dal giusto, così nei sommi come negli infimi luoghi (6), che in somma il tutto ha creato di nulla (7): questi colle cose esteriori avrà ancora presente l' onnipotenza: Dio primo essere, Dio verità e fortezza, umiliatore degli enti tutti, anguste creature sue di sotto alla sua grandezza. Chi medita la sua provvidenza, la quale leggiadramente « scherza nell' orbe dell' universo (.), la quale tocca da una estremità all' altra, e soavemente tutte le cose dispone », sebbene con disegni rimoti dall' umano vedere (1); questi avrà ognor in sugli occhi la sapienza infinita e la bontà: Dio conservatore, e consolatore de' buoni. Chi ravvisa sparsi nelle creature de' pregi, ma imperfetti o limitati, e unisce questi e li perfeziona colla sua mente fino a illimitabile perfezione: costui in tutte le cose visibili trova una scala, che lo solleva al perfettissimo esemplare di tutto, a cui la ragionevol natura aspira e tende (2). Chi non conversa con persona al mondo senza contemplare in essa la divinità, che in quella o colla giustizia o colla misericordia sarà un giorno glorificata: senza compatir per conseguenza i suoi difetti, che Dio permette, senza congratulare a' suoi pregi, che Dio colla sua grazia produce: questi non sarà dalle persone distratto dal suo Signore, ma tratto anzi a star sempre con lui. In tutte le cose dell' universo si può sentire la voce del nostro maestro Gesù. [...OMISSIS...] Quando nella primavera si abbellisce la natura pomposamente, la terra si ricopre di erbe, gli alberi di foglie, scorrono limpide le acque, cantano canori gli uccelli: noi di ragione forniti intendiamo, che anche l' uomo viene invitato dal suo Signore a rinnovellarsi, e unire la più bella sua voce di lode nel concento che fanno al Creatore le inanimate e irragionevoli cose. Quando la state fa biancheggiar le sue messi, e il sole colla nuova sua forza va conducendo tutti i frutti alla loro maturità, e a' corpi stessi degli animali dà uno sviluppo maggiore; pensiamo di maturarci ancor noi per quel tempo in cui l' agricoltore celeste ci spiccherà per riporci nella sua dispensa. E allorchè già viene l' autunno, il tempo delle frutta e della ricolta; veniamo in noi eccitando i santi desiderŒ del nostro fine, e i sospiri verso quel celeste ripostiglio, dove saremo serbati eternamente senza ritrarre giammai macula o corruzione. Finalmente nell' invernale stagione qual meditazione più ovvia che quella della caducità di tutte le cose umane, della instabilità di tutte le umane apparenze, del fine di coloro, i quali a queste s' affidano, e del proporre ed effettuare l' intero distaccamento da tutti i beni momentanei e ingannevoli? Così da per tutto ci parla la sapienza nel succedere delle stesse visibili cose ed esteriori, quando noi l' ascoltiamo, e sappiamo intendere le sue gravi parole. E quanto poi non c' istruisce coll' aspetto del mondo morale, delle passioni, e de' traviamenti degli uomini, colle avventure e cogli accidenti della vita, co' beni, co' mali, cogli avvenimenti a seconda ed a ritroso del cieco nostro ed avventato volere! Quest' è un campo, ove fare voi stessa, e far fare altrui innumerevoli considerazioni, che tutte come tante strade mettono in Dio. Camminerà parimente presente al Signore, chi forma sì fatta consuetudine, per cui ad ogni suo atto consulti ed interroghi l' eterna Verità, e ami di fare il meglio in tutte le cose; non però perdendo il tempo a questionar con se stesso sopra minuzie, quale sia migliore; perchè tal modo molti avviluppa, facendo il peggio, mentre ne indugiano a trovar che cosa sia il meglio. A chi non fa cosa, che prima colla divina legge non l' abbia affrontata , sta Dio presente; e ciò è dovere, non v' ha dubbio, dell' uomo cristiano: costume però tanto difficile da formare quanto è bello e perfetto. Ancora se noi fisseremo il pensiero in quello che dice Giovanni, che tutto nel mondo « è concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne, e superbia della vita » (1); e se persuasi saremo della guerra perpetua che fa il mondo a Cristo, e come queste due parti giammai non si fanno fra sè, nè s' intendono in modo alcuno: terremo allora continuamente vita e contegno di soldati viventi in campo e in guardia dell' inimico. [...OMISSIS...] Gl' inimici nostri sono da fuori, e da dentro. Quelli consistono nella lusinga delle cose fuori di noi, questi siamo noi stessi: quelli si vincono colla mortificazione esteriore, questi colla interiore. Non è forse tanto faticoso vincer quelli; ma superar sè medesimo è la cosa più ardua di tutte: in questa è la sequela di Cristo: « Chi vuol venire dopo di me anneghi sè medesimo, tolga la sua croce e mi segua » (3). Questo annegamento di sè stessi, questa mortificazione interiore, che ne riduce alla bella perfetta conformità del nostro volere col divino senza mai prevenirlo, ma susseguendolo quasi come ombra segue il suo corpo, e come raggio il suo astro: quest' arte sincera della cristiana vita è ciò, in cui si vuole con tutte forze occuparsi. La mortificazione esterna è sola una sussidiaria, una serva di questa. In ciò avete a scorta il gran santo Francesco Salesio. Con ciò conseguite, che se sempre avrete nemici, abbiate altresì sempre vittorie; e se c' insegue dovunque con mille artifizj l' avversario, dovunque ci stia sempre presente con mille ajuti il comune difensore GESU`. Aveano i Cristiani de' primi secoli le recenti imagini di Gesù Cristo ancora vive in sugli occhi. La misteriosa sua vita, il suo divino conversare, la dolorosa morte, la gloriosa risurrezione, le istruzioni de' quaranta giorni erano rimaste vivamente segnate ne' loro animi, e rendevano loro Gesù ognor presente, ognor sui labbri: faceano ch' ei fosse l' oggetto di loro intrattenimenti, la consolazione di loro angustie, il caro argomento de' lor canti, e di tutti i loro trastulli lo scopo ed il condimento. Lo stato miserabile del mondo a que' tempi ingolfato in cieche sozzure di paganesimo faceva risplendere più la bellezza, la luce, la perfezione del nuovo istruttore celeste: le persecuzioni rendeano necessaria una unione più continua e più stretta con quel primo martire compagno ed esempio a' loro dolori, e fonte di loro robustezza: gli Apostoli vicini, che predicavano quel Gesù che veduto avevano e toccato colle loro mani, da cui tanti atti d' amore, tanti saggi della più dolce amicizia aveano divinamente ricevuto, imprimevano altamente in que' bei tempi la presenza del loro Signore in tutte le cose. Erano di Cristo piene le loro prediche, di Cristo piene le loro lettere, di Cristo piene le loro vite. « Innanzi a' cui occhi », scrivea Paolo ai Galati, « fu dipinto Gesù Cristo tra voi crocifisso (1), dipinto » colla mia predicazione, « tra voi crocifisso » nella persecuzione che sofferiste, anzi egli con voi. Oh famigliarità che aveano col nostro Signore! Oh santissima dimestichezza, vera fratellanza con questo amabile Dio, in cui il maestro, il padre, l' amico, tutto trovavano; e fuori di cui cosa alcuna non volevano ritrovare! Adesso Gesù Cristo al più de' Cristiani è lontano: e anche a molti de' buoni si rappresenta più come Dio che come uomo: e sembra che si tema, per dire così, di accostarsegli. Non si discorre di lui con quella frequenza, non con quell' ardore nelle unioni nostre: si ha quasi ribrezzo ad aprirci con ingenuità vicendevolmente, e dire i sensi amorosi, che pur da molti si nutrono di dentro per lui: l' unirsi a caso fuori della chiesa o delle ore stabilite, proporre d' intuonare qualche cantico al nostro Signore, proporre di fare a lui orazioni, e così occupare quel tempo del conversare; parrebbe cosa fuori del costume, e se ne avrebbe ripugnanza, o anche superata e proposta la cosa, verrebbe accettata con freddezza e con titubanza; se pure taluno non si trovasse che ne ridesse. Comunemente i Cristiani nostri hanno, è vero, divozioni particolari, pratiche a' Santi, formole in onore di qualche particolare oggetto religioso. Commendabili sono queste, se dalla Chiesa approvate; ma chi può negare che non per difetto di esse, ma talvolta per imperfezione di chi le usa, molti non sieno trattenuti in queste pie usanze, e quasi tenuti indietro e indugiati dall' adito alla fonte della divozione, alla cognizione e al vagheggiamento immediato di Gesù, al cui onore quelle pratiche pure si riferiscono? Quanto è bello, quant' è utile pensare sempre a Gesù! e sulle vestigie apostoliche lui fissare in tutte le cose! e non solo rammentar che è Dio, il che più tosto ci sbalordisce e ci perde; ma averlo presente qual uomo, qual uno di noi, uno vestito dello stesso corpo: uomo suggetto veramente alle umane infermità, fuor del peccato, che con noi gusta e patisce, ci compassiona, ci conforta, ci allegra, c' incoraggia, ci ajuta, ci riprende, ci minaccia; e in tutto fedele, in tutto amico, presente in tutto, compagno, partecipe. Ah sì! illanguidita è presso a molti la divozione di Gesù! Io vorrei che ogni cosa si facesse per ristorarla e raccenderla dai Cristiani. Alle vostre ragazzine parlate spesso di questo dolce maestro, abbiano nell' orecchio il nome di Gesù, l' abbiano nelle loro occupazioni presente, intervenga egli a tutti i loro divertimenti. Se voi potete far loro prendere quest' abito d' imaginarsi Gesù a loro compagno indivisibile in tutti i luoghi, i momenti, le opere della vita; elle hanno già conseguito egregiamente l' uso della presenza divina, della cristiana vigilanza, della incessante preghiera, del dolce e abituale raccoglimento: questo è il più bel modo di tutti. Giova ancora per rimanere in ispirito d' orazione, come ci è comandato, l' uso ben disposto d' ogni parte di tempo, e la frequenza di brevi orazioni, e di tratti momentanei d' affetto a Dio. Se qualche ritagliuzzo di tempo avanza fra l' una e l' altra delle opere esteriori; non l' ozio, ma la preghiera lo occupi. Le brevi preci, di cui ho toccato anche sopra, tanto usate dagli antichi solitari d' Egitto, come santo Agostino riferisce, sono anche da questo santo Dottore commendate, perchè eccitano viva e spessa attenzione, e non lasciano raffreddare l' affetto, come avviene frequente in orazioni prolungate. Per le quali cose, questa innocenza della vita, questo vegliare sopra se stessi, e camminare in presenza di Dio con annegamento del proprio volere, e conformità al divino; è, non v' ha dubbio, l' apparecchio più eccellente e più bello all' attuale adorazione. Quel Cristiano, che in ispirito d' adorazione si tiene, apre sempre la bocca sua in modo gradito al Signore. Questo insegnava Gesù alla Samaritana quando diceva: « I veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità » (1). Sono qui delineate le proprietà tutte del vero adoratore: lo spirito riguarda l' interno affetto, la verità l' esterior forma della preghiera. Se nel discorso, che in suo cuore tiene, l' adoratore di Dio pone cosa, che o disconvenga alla maestà sua, o proporzione non serbi coll' umana bassezza, che non si faccia bene all' infinita misericordia, e alla viva nostra confidenza, ovvero che offenda la giustizia e la fede, o che supponga una credenza vana, e non degna di Dio, la verità vien meno, manca un principal distintivo di vera adorazione. Ma colui che prega Iddio in ispirito , cioè col cuore bene per ogni parte disposto, questi prega in Dio che è spirito, e però anche la forma di sua orazione ne uscirà acconcia e vera. Questo è quello spirito, di cui Cristo disse: « Lo spirito è ciò che vivifica, la carne non giova nulla » (2). Suppone tale spirito intera rinunzia a quello che spirito non è, a quello che non è Dio, perchè ciò nulla giova; ciò è carne, ciò è mondo, ciò è peccato. Di queste cose parlava Paolo a' Romani quando scrivea (3): « « Io vi scongiuro, o fratelli, per la misericordia di Dio, che presentiate i vostri corpi ostia viva, santa, a Dio gradevole » ». L' ostia ed il sacrifizio suppone cosa, che si strugga in onore della divinità. Avanti Cristo s' immolavano corpi di buoi, di pecore, e d' altre bestie. E or l' uomo che cosa sacrifica? Sè stesso. Dovrà dunque struggere quanto in sè v' ha di buono? No: ma quanto v' ha di cattivo, quanto dalla carità viene escluso, il corporeo, il carnale. Le fiamme di questa carità incenerir debbono appunto tutte le altre cose, esse sole ardere. Così l' uomo si purifica, e si rende spirito, e in ispirito prega, e tanto meglio prega, quanto in tal modo è meglio purificato. Tale sacrifizio più vivamente splendeva ne' martiri, che, secondo il letterale incoraggiamento apostolico, offerivano i propri corpi, e con essi ogni mondano possesso. Ma la virtù, l' interiore mortificazione, con cui si rinunzia alle cose nostre, e a noi stessi; e finalmente quell' apparecchio alla morte, per cui in essa non altro veggiamo che lo scioglimento del nostro corpo quale vittima alla giustizia, e tale volonterosamente s' incontri: questo fa, che pur noi, sacrificate le vane cose che ci aderiscono, siamo resi puri, resi spirito, emulatori de' martiri. Non basta dunque il moto de' labbri nella preghiera, e 'l componimento del corpo; non la scelta del luogo, o l' esterno apparato: l' affetto dell' animo si richiede: affetto tanto più puro, quanto è la vita; se pur in sull' atto della preghiera la grazia divina non operi alcuno de' suoi mirabili effetti in chi prega. Iddio non ci ha lasciati però senza guida, anche rispetto alla forma della preghiera: acciocchè come lo spirito ottimo suol produrre ottime forme di preghiera, così da buone forme di preghiera sia eccitato ed aiutato lo spirito, s' egli al tutto non è perfetto. Guida a noi data è la Chiesa; ella c' insegna a pregare con ogni verità . Nella Chiesa ogni Cristiano ha pascolo sì abbondevole, che s' egli a quello si nutre, altro non brama. Perchè dunque o ricercare nuove pratiche divote, o anteporre le private alle pubbliche, se in quelle della Chiesa abbiamo qualunque cosa che a Dio convenga, qualunque che alla propria santificazione confaccia? Non niego libertà al vostro cuore di sfogarsi con quelle orazioni spontanee, che egli vi suggerisce; queste assai volte sono frutti dello spirito di Dio; e però allo spirito, e alla Verità conformi: ma parlo di molte pratiche esteriori particolari. Le quali, se anche rette fossero e vere; saranno sempre false, ove verranno anteposte alle pubbliche, o per quelle queste posposte; essendo sconvolto l' ordine che d' anteporre comanda ciò che ha più pregio. Poichè, lasciate le altre cose, tanto queste più giovano quanto più giova la preghiera di molti sopra quella d' un solo (1). Santa poi oltracciò essendo la Chiesa, chi a questa si unisce nell' orare, santifica la propria orazione: e a' difetti propri riparando colla comune virtù, e col fervore de' molti, fortifica fuormisura l' efficacia della preghiera. Parliamo adunque al Signore colla bocca della Chiesa, e pregheremo secondo la VERITA` . Ma è però vero, che nulla varrebbe usare a pubbliche funzioni, e recitare preci ecclesiastiche, quando la favella del cuore non s' aggiungesse. Poichè si direbbero cose vere e giuste, ma non in modo al tutto giovevole. Si adorerebbe Iddio in verità, ma non in ispirito; si peccherebbe come coloro, a cui fu detto: Questo popolo mi onora colle labbra; ma il loro cuore è lontano da me (1). Riprova molte invenzioni di pietà lo stesso Agostino, [...OMISSIS...] . E chi non sa quanto il moltiplicare fra noi di certe pratiche religiose porse occasione alla malizia o alla grossezza degli eretici di enfiare le gote sclamando, accusando, e calunniando la Chiesa? Per serrare la bocca a' quali, quanto è possibile, comandava Paolo, che « non solo dal male s' astenessero » i fedeli, « ma anche dall' apparenza del male » (3). Nè da ciò s' inferisca, che meriti alcuna disapprovazione la Chiesa o il Sommo Pontefice, il quale, secondo il precetto dell' Apostolo: « Provate tutte le cose, tenete quello che è buono » (4), non rigetta veruna di quelle pratiche inventate dalla cristiana pietà, che dopo esame maturo buone rinvenga, anzi coll' autorità apostolica le commenda quali aiuti ed amminicoli novelli, che il Santo Spirito aggiunge alla pietà illanguidita, e alla carità, pel succedere de' mali tempi infermata. Qui si ragiona soltanto de' trovati dello spirito particolare, e che la Chiesa o tollera se li conosce, o ancora li condannerebbe se li conoscesse; ma veruna approvazione non ebbero. Quelle prime sono venerabili, e se le calunnia l' eretico, è a suo gran danno: queste seconde, sebbene lo spirito spiri ove vuole (1), tuttavia restano incerte al comune de' fedeli, alle altre senza dubbio alcuno da posporsi; e se il buon cristiano le esamina avanti di praticarle, quest' è a sua lode, e a salute. Anzi anche quando la Sede Apostolica approva nuove forme di preghiere, lascia però sempre al retto spirito de' fedeli farne il discreto e ragionevole uso che si conviene, lascia loro di pregiar più quelle, che per antichità, solidità, dignità e istituzione hanno eccellenza maggiore: e tanto è saggia, che mentre ella ama ed impone ad ogni fedele che alle grandi sorgenti s' accosti, non chiude però a nessuno le picciole vene e gli spruzzi d' acque, quando sieno puri e salutari. Non però sono queste necessarie giammai, come il rigagno non è necessario a chi ha il fiume; e pur giovano principalmente a chi non sa, per propria imperfezione, all' abbondanza delle maggiori pienamente abbeverarsi. La Chiesa, come dice Agostino, non è aggravata da importevoli pesi servili, come la Sinagoga da sue cerimonie. Ella è libera: ella signora: pochissimi, manifestissimi sono i suoi sagramenti, cioè le sue funzioni essenziali. Ma che immenso frutto trae quel Cristiano, che pone lo studio suo nello intendere quelle semplici voci della Chiesa, gravi di sensi, e le cerimonie e gli emblemi e le espressioni che variamente li vestono! L' Orazione dominicale, l' angelica Salutazione, il Credo, la Salveregina: ecco pochissime , e manifestissime formole. Che semplicità, che facilità, e brevità! E pure, chi dentro vi penetra, oh in che ampiezza di cose interna la mente e il cuore! Il Sacrifizio della Messa, gli Uffizi pubblici, e i Sacramenti: ecco pochissime, manifestissime e uberrime istituzioni! In queste non che esser vi possa anima tanto arida, che satollar non si debba; ma non ve n' ha alcuna nè pure sì affettuosa e fervente, che sappia tutta abbracciare e pascere la pinguezza degli affetti divini in esse contenuti, e de' modi d' avvicinarsi ed intimarsi per Cristo con Dio. Ma sulle bellissime e semplicissime forme di preghiera, che mette in bocca la Chiesa a' Fedeli, non farò io discorso: solo un cenno farò della orazione del Signore, come eccellentissima di tutte. E questo picciolo cenno torrò da antica e pubblica spiegazione. Essa è conservata nel Sacramentario di Gelasio Papa, pubblicato dall' egregio uomo Cardinal Tommasi nel 16.0, e riprodotto dal Muratori nell' « Antica Liturgia Romana ». Si costumava di leggere tale spiegazione a' Catecumeni sotto la Messa qual Prefazione della dominicale preghiera. Raccomandata è dall' antichità sua, dal libro da cui è tratta, e da' bei sensi di cui è piena. [...OMISSIS...] Parleremo ora de' soli esercizŒ principali della cristiana pietà, cioè, come fu indicato innanzi, del Sacrosanto Sacrifizio; poi degli UffizŒ di Chiesa, e all' ultimo alcun poco de' Sacramenti. [...OMISSIS...] Se si riguarda però alla eccellenza e sublimità di questo divino Sacrifizio, ell' è tale, che nè pure in cielo non si dà alcuno atto di culto più augusto: gareggia per questo la terrestre Gerusalemme colla celeste, nè a' cori degli angeli può increscere di scendere dall' empireo, e assistere in terra al Sacerdote ne' divini misteri occupato, adorando intorno all' ara un' ostia, che l' uomo tratta colle mani sue, e colla sua bocca si mangia e si bee. Ecco fonte copiosa di vive acque! Qui ogni pietà si può dissetare. Ecco pane angelico! Di lui si può nutrire a piena abbondanza qualunque sopraumana divozione. Che manca qui di grande, che manca di santo, di dolce, di benefico, misericordioso, e commovente? che cosa fuori di questo si può cercare o trovare di religioso, di pio, ed utile, e buono, e bello, e ricco ed eccelso, che già in questo eminentemente non sia, dove la sorgente è di ogni santità, grazia, amore, bellezza ed altezza? [...OMISSIS...] Deh come potrà andare in cerca con molto studio e quasi lambiccandosi il cervello di nuove divozioni, di strane forme di culto, colui, il quale sappia d' averne già in questo solo atto, da Gesù instituito, sì abbondevole pascolo, che non solo pel suo povero e angusto cuore, ma per quello di tutti gli angeli del Cielo ne sia trabocchevolmente d' avanzo? Quale adunque sia l' ubertà e la ricchezza delle pochissime e manifestissime pratiche da Gesù Cristo instituite, e per mano de' santi Vescovi della Chiesa successivamente tramandateci, non punto s' intende: ovvero, per meglio dire, essendo queste purissime, divotissime, celesti, in cui s' esercita la Fede, la Speranza si pruova, e lo spirituale Amore, l' amor sceverato da strani affetti, si fa necessario: non vengono penetrate dagli uomini grossi e imperfetti, ed eglino non trovano in esse, come dice il Gersen, o da appagare la curiosità, o da pascere la leggerezza, o da satollare i sensi crassi ed oscuri, che solo cose visibili e corporee appetiscono, e oltre queste niente trovano, niente veggono. Per sì grande infermità, postergate o poco curate o non istimate almeno a giustizia le sante istituzioni di Cristo, si studiò spesso di comporre più materiali invenzioni, in cui essendo alcuna cosa o un nome di santità, credesi d' esercitare il culto divino, e si nutrica invece sua la propria carnalità. Vorrei per tanto richiamare lo spirito di costoro alla santissima e sapientissima intenzione della madre comune, della cattolica Chiesa. La quale sebben condiscenda di richiamare gl' imperfetti cristiani cogli esteriori aiuti alla spiritual divozione: tuttavia e ripruova le divozioni false o indegne della divina Maestà; e regola quelle, le quali, non essendo principali e tali che contengano il fine della divozione, a quelle precipue, che il fine racchiudono di ogni culto, si ordinano e riferiscono. Onde ne' Santi adora essa l' autore della santità; e nelle imagini venera il santo oggetto, che per esse è figurato o dipinto; e nelle reliquie onora quella spoglia, che, sebben di carne, fu già il tempio di Dio, e un giorno, ricomposta a vita, verrà riedificata novellamente in una casa, ove la divina gloria abiterà eterna; ed in tutte le sante cose e le pie memorie esalta e glorifica il Signor de' Signori, il Dominatore de' Dominanti: al quale è dovuto l' onore e la gloria, e da cui non è lecito nè rimuovere una scintilla di amore, nè qualunque particella di culto senza ingiustizia e senza punizione. Chi ama dunque d' essere nella divozione perfetto pensi d' udire bene la Messa, e di gustare degnamente questo divin Sacrifizio. Ogni dì, s' egli se ne dia cura, parragli nuovo; perchè imparerà nuove cose, in frequentandolo, nuovi affetti sentirà; gli parrà ogni dì più dolce, ogni dì conoscerà qual v' abbia distanza fra questa e le altre divozioni serve di questa: compiangerà coloro, che assistono alla Messa indivoti, che l' hanno per cosa triviale; perchè resa frequente dalla profusa generosità del Signore: insomma ogni dì formerà bei desiderŒ di poter penetrar meglio in quest' atto di culto, meglio incorporarsi alla vittima che s' immola, meglio unirsi alla comunion de' Santi, che per mano del Sacerdote fa all' Infinito un dono, niente minore di quello, che a lui conviene: finalmente imparerà sempre più quella verità, che la divozion grata a Dio non è posta in moltitudine o varietà di pratiche, ma nella VERITA` e nello SPIRITO . Nè si deve credere, che colui, che assiste alla Messa non abbia parte nell' atto del Sacerdote. Poichè è così: che Cristo offerto nella Messa offerisce, e sacrificato sacrifica: in persona poi di Cristo il Sacerdote; ma unita in Cristo al Sacerdote la Chiesa tutta, ed ogni fedele, e segnatamente colui che è presente. Per la qual cosa chi ascolta la Messa deve pensare all' atto che fa egli stesso, e non credersi solo testimonio, ma ministro nell' offerire insieme col Sacerdote, e colla Chiesa, e con Cristo; e in questo pensiero udirà ottimamente la Messa: ottimamente, in questo spirito tenendosi, l' udirà anche colui, che non sa accompagnare il Sacerdote nelle diverse orazioni, e viene facendo altre sue preci: come fanno gl' idioti. Sono adunque due cose principali nella Messa, cioè l' Offerimento dell' ostia, che si fa a Dio qual supremo Signore di tutte cose; e la Consecrazione, ovvero immolazione della medesima ostia. Questa è proprio atto del Sacerdote in persona di Cristo; quella di ogni cristiano presente alla Messa. Il che si ricava dalle stesse parole del Sacerdote. Poichè proferendo le parole della consecrazione in singolare come se Cristo solo parlasse, all' incontro offerisce in plurale come si vede nel canone. [...OMISSIS...] Ricorda poi questa offerta fatta in numero plurale quel tempo, nel quale il Diacono distribuiva al popolo il sangue, dopo che il Sacerdote avea dato il corpo. E dicevano quelle parole il Sacerdote ed il diacono insieme (come ancora nella Messa cantata è in uso), affinchè quello che il Sacerdote avea ministro e compagno nella distribuzione, avesse compagno anche nell' offerta. Che se innanzi in offerendo il pane disse in numero singolare, fece egli solo per gli astanti, ed offerì veramente prima per li suoi peccati, e poi per quelli del popolo (1). Queste parole perciò, o questo sentimento almeno, dovrebbe essere proferito ed espresso dagli astanti insieme col Sacerdote. Plurali poi sono altresì le parole che succedono: « « In ispirito d' umiltà ed animo contrito veniamo da te accolti, o Signore, e il Sacrifizio oggi si faccia al cospetto tuo per modo che a te sia gradevole, Signore Iddio » ». Le quali non solo insieme col Diacono, ma con tutti i presenti certamente s' intendono dette. E queste significano, che dopo essere già offerto il pane ed il vino pel sacrifizio, si esibisce e presenta sè medesimi a Dio quai vittime insieme con Cristo. Poichè solo unito a Cristo l' uomo può fare di sè grato dono e grata ostia a Dio. E che ciò sia il senso dell' orazione si ricava dal libro di Daniello; donde sono tratte le parole e il concetto. In esso i tre forti giovani Ebrei salvati in Babilonia da ardente fornace, fra le fiamme, dove di sè facevano offerta, cantavano appunto così: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] E per doppia ragione il Sacerdote chiama quel Sagrifizio suo, e dei presenti. Prima, perchè tutti l' offeriscono; dipoi, perchè si porge in Sagrifizio insieme con Cristo, e il Sacerdote, e gli astanti. L' una e l' altra di queste cose indicate nelle dette orazioni, sono più chiaramente espresse nel Canone, la parte più antica ed augusta della Messa, compilato da parole di Cristo, da tradizioni Apostoliche, e da pie istituzioni di santi Pontefici. Poichè in esso, tolta fuori la consecrazione, tutte le orazioni d' offerta sono plurali. [...OMISSIS...] Nella quale orazione tutti gli astanti offeriscono; e « SagrifizŒ illibati » si dicono non solo il pane e il vino, ma i cuori offerti al Signore. Si dicono illibati ed immacolati , spiega Innocenzio III, perchè ciascuno si deve offerire senza macchia nè di cuor nè di corpo: che il cuore abbisogna purgato da iniquità, ed il corpo da immondezza (1). Onde quest' aggiunto è principalmente posto pel sacrifizio interiore dell' animo. Appresso poi preghiamo il Signore perchè si rammenti dei circostanti tutti, pe' quali offeriamo il Sacrifizio di lode e propiziazione, e nuovamente di quelli, che lo offeriscono. E, fatto ricordo della comunione co' Santi del Cielo, uniti a' quali preghiamo e adoriamo Iddio, stende il Sacerdote le mani sue sopra il calice e sopra il pane, a quella guisa che nell' Antico Testamento esso Sacerdote ponea le mani sulla vittima: volendo con tale rito indicare, come egli stesso ad essa si congiungeva e con essa a Dio dedicavasi ed offerivasi (1). [...OMISSIS...] Ben è pertanto a meditare e pregiare per noi un sì bello offerimento della servitù nostra, e di tutta la cattolica famiglia: essendo questo il Sacrifizio che dà la salvezza: mentre niente ci varrebbe la stessa morte di Cristo, fuori che a condanna, se di quella non partecipassimo bevendo lo stesso calice, tenendo i suoi vestigi, e colla croce in ispalla porgendoci pronti e di dare il sangue per la legge sua e di sacrificare la concupiscenza nostra all' onore della sua legge. Ora anche dopo la consecrazione, favellando del pane e del vino sacrato, pregasi, che con propizio e sereno volto risguardi Iddio su quelle cose divine, e le riceva quasi doni d' Abele, sacrifizŒ d' Abramo, e di Melchisedecco; in quanto che nè pure il sacrifizio di Cristo, non che quegli antichi, ci potrebbe giovare cosa alcuna, se non unissimo il sacrifizio di noi stessi come que' Santi fecero, mercè un cuore spirituale, e conformato in ogni cosa a Cristo. Di questa grazia per la stessa ragione se ne prega già avanti Iddio, là dove dopo nominata l' offerta di nostra servitù, segue così: « La quale obblazione, o Dio, ti preghiamo, che tu ti degni di farla benedetta » (noi stessi così veniam benedetti in essa), « ascritta » (al numero delle cose aggradite: noi veniam con ciò ascritti in Cielo), « rata » (cioè valida ad ottenerci gloria: veniamo con ciò numerati tra i legittimi fratelli di Cristo, per cui patì, fra i molti per cui effuse il sangue), « ragionevole » (vengono in tal modo in noi ordinate le facoltà inferiori sotto all' imperio di ragione), e « accettevole » (per sì fatto modo che non solo qui su l' altare venga il corpo e il sangue di Cristo, ma venga questo) « a noi » (a vantaggio nostro, sicchè a noi incorporato, in noi più non vegga il Padre celeste quanto ha di spiacevole, e di schifoso, ma vegga Cristo, vegga gratissima cosa e accettevolissima) (2). Questi offerimenti di noi, e rinunzie alla vita, e a quanto è nella vita per Cristo, sono ciò che rendono verissimo Sacerdote qualunque cristiano cattolico; come dice Tertulliano (1) in consonanza cogli apostolici insegnamenti. Poichè sacerdote è chi sacrifica a Dio. E sebbene Cristo solo per sua eccellenza sia il Sacerdote eterno giusta l' ordine di Melchisedecco, e solamente immolando sè stesso abbia reso all' Altissimo gradevole Sacrifizio: tuttavia ed ogni Sacerdote, qual ministro di Cristo, in persona sua rinnovella detto sacrifizio della croce; e di più ogni Cristiano con Cristo incorporato pel battesimo, partecipa del sacerdozio suo, in quanto può offerire ed immolar sè stesso colla contrizione, col distaccamento di sè e coll' umiltà. Questa distanza però v' ha fra Cristo, il Sacerdote, e 'l Laico fedele, che Cristo è Sacerdote per sè in eterno; gli altri partecipano del Sacerdozio suo: che il Sacerdote poi ne partecipa sì altamente, che può offerire ed immolare, non che sè stesso, lo stesso Cristo; il Laico all' incontro solamente in tal modo, che non immolare, cioè consacrare, ma può offerire Gesù Cristo, e immolare o sacrificare sè medesimo, struggendo in sè quanto non sia puro amore di Gesù Cristo. Dalla quale unione, come dicea, di noi colla vittima sacrosanta, è il massimo frutto della Messa. [...OMISSIS...] Laonde offerisce il discepolo di Cristo sè stesso in tutto a lui conformato « osservando i precetti suoi, tenendosi nella sua carità » (1): e in questa unione di sacrifizio pregando il Padre, non può non ottenere quanto egli brami, nè altro e' brama se non le cose del suo Signore. Or poi cotesta unione nasce non solo per mezzo del Sacrifizio, con cui noi ci diamo a Dio; ma ben anco per mezzo del sacramento, con cui Dio e Cristo in sue carni ed in suo sangue si dà a noi da mangiare. [...OMISSIS...] E tale comunione di Cristo a noi forma la terza parte principale della Messa. Ell' è così quasi una vicenda di divino amore ineffabile, che dopo avere offerto noi a Dio in sacrifizio Cristo, e con Cristo noi stessi (cose per altro tutte sue), esso Iddio tutte ce le restituisce, e sè stesso a noi si dona in tutto nostro potere e in nostra natura: unendosi con noi sotto specie di cibo, e con noi immedesimandosi: per cui questo convito chiamossi con vera ragione: « Principio in noi della divina sostanza » (3). Oh amore immenso! Oh carità smisurata di Dio! Contraccambio, vicenda, gara di divina benevolenza! nella quale l' uomo, che niente ha, prima si fa comparire ricco d' altrui ricchezza a poter presentare Iddio di tesoro degno di Dio, e poi si ritorna questo tesoro: quasi non perchè Dio benefichi; ma giocando, come a dire, di liberalità, paia regalato e beneficato, e poi ridonando e ribeneficando vinca non per l' eccellenza del dono, ma per l' eccellenza del contraccambio! Il che dee mettere nell' uomo quella confusione, che s' esprime dal Sacerdote, quando, ricevuto il pane, e perduto, e smarrito nella grandezza del divin dono, dimanda al Signore: « « Che ti darò, Signore, per tutte cose che tu m' hai regalate? » » e non sapendo che, soggiunge: « « Riceverò il calice del salutare, e il nome invocherò del Signore » ». Cioè, non darò: che non ho cosa a dare; ma seguirò a ricevere i benefizŒ tuoi; ed essere, come da nuove onde di divina misericordia, nuovamente coperto ed inabissato. Ad un così benedetto convito pertanto, ad una sì divina mensa imbanditaci dal Signore colle sue carni « incontro a quei che ci tribolano », tutti ne invita e ne chiama l' amorosissimo convitatore. [...OMISSIS...] Gli ardentissimi desiderŒ poi di Gesù, che cioè si nudriscano a questa cena e si satollino seco i discepoli suoi, nella santa Chiesa passarono, la quale mai sempre di cotesto angelico cibo mostrossi, a così dire, famelica ed insaziabile. Nominollo spesso le delizie sue, la sua vita, la sua fortezza, il suo tesoro, il misterio della sua pace, il suo regale indumento, la porpora sua nel sangue tinta del suo Signore, il sommo suo bene, l' altissima sua bellezza, le care reliquie di Cristo, di Cristo l' ombra sotto a cui siedono i desiderosi di lui, il principio della sostanza divina nell' uomo, l' ostia della salute del mondo, le divine ricchezze, il singolar sollievo dell' amata nell' assenza dello sposo, il presagio carissimo della divina misericordia e dell' eterna rimunerazione. Basta accostarsi alle memorie de' Santi d' ogni tempo per ammirare e l' avidità incredibile che a questo pane celeste avevano, e le dolcezze che ne sentivano, e le grazie che ne cavavano. Basta ancora leggere le orazioni della Messa pertenenti al comunicare, perchè si comprenda, essere desiderio grandissimo della Chiesa, che gli uditori tutti, se potesse essere, della Messa ogni dì partecipassero col Sacerdote alla sacra mensa, sì come avveniva ne' tempi primitivi a ragione beatissimi: in cui tanto era il fervor de' Cristiani, che potean dire con verità, il corpo ed il sangue di Cristo essere loro cibo cotidiano: e tanta venerazione s' aveva all' ineffabile Sacrifizio, che non si teneva degno di starvi presente chi degno ancora non fosse di comunicare del divino nudrimento. Nel canone IX degli Apostolici si comanda, che tutti i fedeli, i quali, udite le Scritture, non persistono all' orazione, e alla comunione, vengano divisi: e lo stesso si trova in altri documenti dell' antica disciplina. Allo spirito della quale, poichè non possiamo alla lettera, noi ci dobbiamo conformare. Assistere cioè alla Messa così mondi, raccolti, ferventi, da essere degni di comunicare ogni dì; e tanto spesso comunicare, quanto spesso amiamo di ricevere cosa di tutte desiderabilissima, giovevolissima. Intorno alla quale frequenza di comunione cercando S. Bonaventura come ella giovi, assai acconciamente disse, [...OMISSIS...] . In somma tanto è giovevole comunicare, quanto bene noi siamo disposti: come cibo, il quale, ancorachè eccellentissimo, nulla giova; anzi può dar morte a chi ne sopracarichi uno stomaco indisposto e ammalato. E tanto è a dolere in questo fatto dei nostri dì, che manifestando il Concilio di Trento quel voto della Chiesa, che tutti comunicassero coloro che assistono al sacrificio, il santo Sinodo non dice desidera , ma desidererebbe , quasi non osando di formare in tai tempi tal desiderio, di cui pure una volta, vergogna nostra! non si formava nè un desiderio, nè una speranza; ma un precetto, o per lo meno un universale costume. Essendo adunque « le cose sante pe' santi, le cose monde pei mondi » (2); tremenda verità dice Paolo, allorchè risguardo agli indegni parla così: [...OMISSIS...] . Cioè a dire: Ricevendo il corpo santissimo si testifica il sacrifizio. Perchè sebbene sia Cristo intiero sotto ciascuna specie, non potendo oggimai esser diviso quegli che risorto da morte non muore più, ma regna eterno in Cielo a destra del Padre: tuttavia nel pane si considera il solo corpo, nel vino il solo sangue, acciocchè rappresentandosi corpo e sangue divisi, imitino la violenta morte del Signore. Dunque ogni volta che alcuno presume di ricevere il pane eucaristico, riceve Cristo sacrificato, e in suo aiuto invoca ed usa la morte di Cristo. Così la testimonia ed annunzia: ed esprime, che e' la vuole a quel modo, che la volle Cristo in salute propria e del mondo; poichè fa quell' atto che pose Cristo perchè l' uomo se n' applichi il merito. Chi adunque tiene in quest' atto un animo reo ed indegno, simile a Giuda tradisce il Maestro, e più neramente che d' un bacio: il vende agli appetiti suoi, e non per altra ragione il vuol morto: non vuole il sacrifizio che salva, ma il sangue del giusto, che al Cielo grida vendetta. E` reo dunque del corpo e del sangue del Salvatore, abusando di sua morte: e in questo sacrilegio si può dire del Salvatore come i figliuoli di Giacobbe dissero del fratello: « Una pessima fiera lo ha divorato ». Perciò un tal cristiano, non pensando quello che fa, e disconoscendo il cibo che prende, si beve e mangia la sua condanna (2). Non è questo partecipare alla cena divina: conciossiachè (come dicea Paolo di chi mangiava le cose immolate agli idoli) non si può partecipare in un tempo alla mensa del Signore e a quella dei demoni (3). Doppia maniera dunque è di mangiare il corpo di Cristo: altra colla bocca, e altra collo spirito. Può alcuno mangiare il divino corpo colla bocca senza che collo spirito se ne pasca. Non è proprio dire che questi si nutre di Cristo, bensì che trangugia la sua condanna. Non si dice propriamente che partecipa a mensa divina, ma ad una mensa umana, e, rispetto al frutto ch' egli ne porta, diabolica. Ecco l' orazione, con cui nella Messa il Sacerdote, e quelli che con esso comunicano, ringraziano il Signore: [...OMISSIS...] . Col corpo vedemmo e toccammo le specie di Cristo, che è dono temporale: Cristo stesso coll' animo si riceve, e colla mente pura e divota. [...OMISSIS...] Adunque chi crede in lui, e crede, che questo pane sia Cristo a salute nostra sagrificato, e non lo tiene quale altro cibo; chi ne mangia non col corpo ma collo spirito, questi ha vita eterna. Nudrire l' anima nostra di Cristo è essenziale a salute: con questo Cristo tutto promette, senza questo dichiara che non possiamo avere la vita in noi. E questo spiritual nudrimento è pur quello stesso, che nell' altra vita si gusterà; e di cui Cristo disse nell' ultima cena: [...OMISSIS...] Altrove ancora paragona la beatitudine del Cielo ad una cena e ad un convito nuziale (2). Nè il regno di Dio è egli cibo o bevanda corporea, ma spirituale, cioè giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo (3). E` adunque il cibo eucaristico rinovazione, figura e saggio: e segna passate cose, presenti e future. Rammenta e rinnova la passione di Gesù; figura la grazia, e l' autor suo a noi dato a pascere; e presagisce la rimunerazione futura, l' eterna vita. E` poi il cibo vero, e ne ha tutti gli effetti. Mantiene la vita in virtù del sangue di Cristo, accresce e rinforza in virtù della grazia, che in noi aumenta; e soavemente diletta sì per imagine de' celesti diletti come per una parte di quelli che in lui si pregustano. [...OMISSIS...] Al mangiare pertanto che il nostro corpo fa le specie sacramentate, l' anima bene disposta riceve dentro a sè Cristo, e a Cristo s' incorpora. Sebbene niente valga quella corporale nutrizione senza questa spirituale; tuttavia a quella questa è connessa: essendo stato conforme alla sapienza del divino inventore di questo banchetto, che come nell' uomo quanto v' è di essenziale e pregevole è la natura intelligente, ma questa però non è sfornita di veste corporea; così il cibo, che all' anima si presta, di corporea forma sia circondato. Allora però, che s' assiste alla Messa, e non si partecipa del Sacrifizio insieme col Sacerdote, si possono eccitare ciò nulla ostante in noi de' pii desiderŒ ed affetti a quel divino alimento, e alla comunione del Sacerdote unirsi col cuore: il che chiamasi comunicare spiritualmente . E sebbene questo non sia sacramento: può però dare abbondevol frutto di grazia, secondo il merito di quell' atto. Ma perchè impariamo come degnamente ci dobbiamo accostare alla divina mensa; dicendo Paolo, che « ogni uomo provi prima sè stesso » (1); dopo avere osservata quella fervorosa frequenza dell' antica Chiesa al santo Altare, è anche da vedere la riverenza sua, e la severa cura, affinchè nissuno indegno ad esso non si avvicinasse. E` certissimo, a chi ricerca l' antica disciplina, essere stato sempre fermo giudizio della Chiesa, che l' angelico pane non si debba ricevere da quelli, che o conservata non hanno la innocenza del battesimo, o avendola con mortale peccato perduta, non l' abbiano con virtù e col Sacramento di penitenza racquistata. E questo è detto ancora e dichiarato nel Concilio di Trento (2). Ma se osserviamo al modo della penitenza antica; di cui, se mutata è la lettera, non fu nè sarà mai abrogato lo spirito; noi possiamo in quell' augusta severità de' Canoni di penitenza ravvisare assai bene, quanto sia enorme fallo di chi mangia indegno il pane santo, e che mondezza e riverenza da noi esiga l' Altare. Poichè i peccati pubblici, e tal fiata ancora gli occulti, si vedeano espiati con pubblici atti di pentimento, prima che si ammettessero a comunione i peccanti: e molti anni, e talora l' intera vita si separavano dal consorzio de' divini misteri. La quale penitenza andava per certi gradi, secondochè proprio è dell' uomo, che tutto ad un tratto non si converta. Primo era il grado de' piangenti , i quali sulla porta della chiesa, non potendo entrarvi, si buttavano a' piedi del popolo fedele che entrava al Sacrifizio per dimandare co' pianti caritatevole aiuto di sue orazioni. Divenivano poscia ascoltanti: così detti perchè negli ultimi luoghi della chiesa stavano udendo la spiegazione delle sante dottrine. Elli poi se n' uscivano di conserva co' catecumeni. Così stimavasi che avessero poco compreso i doveri contratti nel battesimo quelli che gli aveano infranti, e perciò avessero bisogno di nuova istruzione intorno al vivere de' battezzati. Passavano dopo alcun tempo al grado dei prostrati , i quali entrando in chiesa quando li chiamava il Diacono, si prostravano innanzi al Vescovo, ed ei pregava su loro insieme con tutta l' adunanza fedele; ma prima che cominciassero le preci del Sacrifizio erano licenziati. In ultimo ascendevano al grado de' consistenti , chiamati così perchè a loro era conceduto finalmente assistere a' misteri, ma non ancora però parteciparne. Chi crederebbe oggidì, che a questa esteriore e pubblica penitenza, venuta di tradizione apostolica, si vedessero in quel felice tempo sommessi gli stessi personaggi più illustri, più ricchi e potenti? Fra gli altri ricordo il notissimo fatto dell' imperador Teodosio, non meno cristianissimo che potentissimo; a cui S. Ambrogio in Milano pubblicamente ricusò la comunione, solo pel castigo inconsiderato e troppo universale dato a Tessalonica città ingrata e colpevole di gravi insulti alla imperiale podestà. Il pio imperadore più grande nella umiliazione di sè stesso, che nelle vittorie con cui avea pur allora raffrenati i nemici dell' Impero, fu visto piangere fra i pubblici penitenti. [...OMISSIS...] Molti altri esempŒ simiglianti non mancano di personaggi chiarissimi. E` però a vedere, come questa disciplina nella Chiesa mutasse senza che sofferisse cangiamento il suo spirito. Quello spirito di penitenza è fondato nell' opera stessa di nostra redenzione: nè può mutare. Ei venne da Cristo, che S. Girolamo chiamò il « principe della penitenza, e 'l capo di coloro, che per la penitenza si salvano » (1). Laonde volle mai sempre la Chiesa penitenti, e sempre vi furono. Ma quanta sapienza non si vede nel modo, con cui il Signore provvide la Chiesa sua in ogni tempo di pubblici penitenti? Vi fece comparire ne' secoli primi la penitenza de' Martiri; cessati i Martiri, ecco la Penitenza de' SolitarŒ, i quali ne' deserti d' Asia e di Africa fecero, in mezzo alla pace della Chiesa, fiorire un novello modo di Martiri per austerità e mortificazioni incredibili. In quel tempo di pace ebbero luogo anche nella Chiesa tutti i Canoni di Penitenza, i quali non vennero meno, fino che i barbari, scompigliando ogni cosa, nuove e gravissime tribolazioni alla Chiesa apportarono, e di tribolazione ai Santi. Ma non furono dimenticati o dismessi i Canoni penitenziali senza che il Signore provvedesse a risarcirne la Giustizia sua. Che ne' secoli XII e XIII, cresciuta la durezza del cuor de' laici, e l' ignoranza de' cherici; suscitò degli uomini maravigliosi, un Francesco, un Domenico, un Brunone, un Bernardo, uno Stefano di Grammont, un Norberto, un Alberto, ed altri tai Santi; i quali apersero pubbliche case di penitenza, e trassero un numero grande di uomini a vita mortificata, e a pubblica professione di patimenti e di asprezze. Così in quel freddo tempo riparò la misericordia alla giustizia, facendo istituire innumerevoli monasteri, e fondare severissimi ordini religiosi. E ancora questi durano: e Dio li muta, li riforma, li accresce secondo i bisogni. Quanto alla disciplina poi della comune penitenza, se la Chiesa ne mitigò il rigore, fece con quel senno medesimo con cui un tempo il pose; nè cangiò lo spirito. E non raccomanda essa ancora a' suoi ministri lo studio degli antichi canoni per regolarsi nell' amministrazione della penitenza collo spirito stesso? E vorrebbe pure, che tutti i fedeli ne prendessero notizia, per conoscere l' enormità de' peccati, e la purezza desiderata in comunicando. Sicchè alli buoni nulla è tolto da quella mutazione di disciplina, perchè tengono lo stesso spirito; ma per li cattivi oggidì è rimosso uno scandalo, o pietra d' inciampo, perchè verrebbero da loro trasandate quelle severe ordinazioni per lo poco fervore, e produrrebbero nuove colpe. Perciò, dalla frequenza del comunicare in antico, nessuno pretenda di persuadere il comunicare frequente agli indisposti, e nessuno da quel rigore si creda di potere impaurire e rimovere i disposti. Ciascuno pensi, che non ci è comandata tale frequenza prima che la rettitudine della vita. Vivi in modo di potere comunicare ogni dì; ma in ragione sempre di tuo ben vivere comunica. Dottrina è di S. Francesco di Sales, che a comunicare ogni ottavo giorno convenga non cadere in peccati gravi, nè avere affetto a' leggeri, e sopra ciò grande desiderio del comunicare; ma per comunicare ogni dì bisogni di più avere superata la maggior parte delle cattive inclinazioni, e farlo a consiglio del direttore (1). [...OMISSIS...] Il desiderio poi e la fame di questo divino cibo è altresì requisito necessario di chi se ne pasce. Nulla più abborre che la sazietà. Con queste cose sentirete tutti i Santi a incoraggiarvi allo spesso comunicare. San Filippo col rinfiammare in Roma l' amore alla frequente comunione, e secondo l' esempio suo altri piissimi uomini migliorarono in molte parti i costumi; e per cooperare a detta frequenza, Buonsignore Cacciaguerra, compagno di S. Filippo, scrisse in quel tempo il suo divoto libro della Comunione. [...OMISSIS...] Mi sono allungato parlandovi del Sacramento della Comunione qui, dove il discorso fu della Messa, perchè elle sono cose congiunte. Il comunicare poi alla Messa si fa all' intenzione della Chiesa, che, come fu detto, ordina in plurale le orazioni del Sacerdote, supponendo, che con esso comunichi il popolo: si fa alla natura del Sacrifizio, che dal Sacerdote per sè e pel popolo s' offerisce; onde è ragione che egli e 'l popolo ne partecipino: si fa in fine al vantaggio di chi si comunica, poichè in comunicando alla Messa gode i frutti del Sacramento, e insieme del Sacrifizio, offerendo a Dio la gran vittima di espiazione e di lode, e da Dio avendo un cambio così ineffabile e prezioso. Cantare a Dio lodi, non solo singolarmente, ma in unione di molti, e con vicenda di cori; celebrare con più o meno solennità, ed ancora con musiche, ornamenti, cerimonie le divine perfezioni, e i divini benefizŒ: è cosa conforme non che al dovere, ma ben anco alla inclinazione, ed alla retta natura degli uomini. Per questo l' antichità tutta e tutto il mondo fu sempre pieno di religiosi costumi: sebbene solo nella famiglia de' giusti, special cura del Signore, si trovi il culto puro da superstizione ed empietà, e gradito all' Eterno. Negli uffizŒ della Chiesa alcune cose, come il canto degl' inni, i giorni festivi, le sacre pompe, le orazioni, i sacrifizŒ, non sono nuovi per intero: avvegnachè tutte le genti antiche usavano, sebbene impuramente, tai cose. Si conosce però di qui, come in sostanza queste pratiche si fondano nella ragione delle cose; mentre anche quelli, che abbandonarono il vero Dio e confusero le verità tutte di religione, ebbero però, chiariti da un po' di lume di natura e di ragione che loro rimase, riti somiglianti. Ma quantunque il culto esterno si fondi in natura ed in ragione; tuttavia la Rivelazione sola cel purga, cel nobilita e perfeziona, e cel dichiara rato ed accetto al Signore. Una somiglianza più vicina, nè solo nell' esterno ma nello spirito stesso, hanno i nostri uffizŒ con quei dell' Antico Testamento. Ivi la partizione del dì e della notte all' uso delle preghiere (1). Ivi il salmeggiare, che tutto avemmo da que' Santi antichi (2). Ivi i cantici, e gl' inni (3); ivi le lezioni delle Scritture; ivi le acque lustrali, il balsamo, l' olio, e gli stromenti di musica, e i lumi accesi, e gl' incensieri, e le are, e l' ordine de' Sacerdoti; e assaissime altre cerimonie conformi alle nostre. Le Mosaiche però erano molte pel numero, gravi per rigore, e mere figure di quell' esemplare veduto da Mosè in sul monte; e però, quanto alla lettera loro, convenivano solo a quella Gerusalemme, che è serva, e madre di servi; non alla celeste madre nostra, che è libera (4). E non di meno chi si fa dentro nel loro spirito, come hanno fatto i Santi in tutti i tempi, si udirà agevolmente in que' riti una voce sola, e un solo costume con noi. Perchè sempre uno fu lo spirito di quella adunanza di giusti, che cominciata in Adamo penitente, terminerà col mondo. Fu adunque quando Cristo fondò il nuovo Israello, che dall' antico scelse alcune cose convenienti, e ne fece passare l' uso agli Apostoli: sebbene anche queste le lasciò loro come cose sue, non come cose altrui. Del cantare inni e salmi, dice Agostino (1), abbiamo del Signore stesso o degli Apostoli i documenti, gli esempŒ, i precetti. Sentiamo in fatti, che dopo l' ultima cena, « detto l' Inno, uscirono sul monte Oliveto » (2). E Paolo esorta que' di Efeso ad essere nelle loro adunanze pieni di Spirito Santo. [...OMISSIS...] Questo ancora raccomanda a que' di Colosse (4), e vuole che escano sì fatte lodi del cuore, ed essi sieno portati a quelle da interiore esultanza di santo spirito, da pienezza di pace di Cristo, da abbondanza di sua parola, che schiumi per dire così, e travasi dal petto ricolmo. Ecco in poco quando l' orare e 'l salmeggiare è ben fatto. Scrive ancora a' Corinti (5): « « Qualunque volta vi adunate insieme, ciascuno di voi ha il salmo, la dottrina, la rivelazione, la lingua, l' interpretazione: tutto giovi ad edificare » ». L' egregio Baronio ravvisa in queste parole effigiata la forma dei nostri uffizŒ (6). Poichè ecco quanto abbiamo negli uffizŒ: i salmi; di poi le lezioni , che rispondono alla dottrina; i responsorŒ , che tengono luogo della rivelazione , perchè con questi ci desidera la Chiesa il possesso dei beni celesti, operando ciò, che udimmo prescritto nelle lezioni, od almeno questo è il loro uso solito (7). Invece poi della lingua abbiamo l' Evangelio, per la manifestazione del quale ne' tempi primi era dato il dono delle lingue; e per l' interpretazione del medesimo, che allora si facea da que' fratelli che più sentiano interiore illustrazione e fervore a parlare, or noi abbiamo le Omelie de' Padri, nelle quali l' Evangelio si dichiara. E poichè molti in que' primi tempi di amore infiammati ardevano di manifestare nell' adunanza quanti intorno all' Evangelio sentivano pii sentimenti: per questo Paolo tempera e regola quel fervore, insegnando che lo spirito de' profeti è soggetto a' profeti (1). Non si vede di questo traccia nel Mattutino, ove chi legge le Lezioni dimanda prima benedizione al Superiore, indicando con ciò, che ogni zelo, ed ogni esultanza di spirito se è da Dio, è pure tranquillo, ragionevole, mantenitore dell' ordine, sommesso a' maggiori? Tengono dunque ancora i nostri uffizŒ que' primi delineamenti messi dagli Apostoli; e sopra quelli di mano in mano furono regolate e compite le preci secondo i bisogni: e con leggi e rubriche fu reso costante e uniforme il numero, l' ordine, il modo di esse: e tutto recato a stabilità ed esattezza. Ogni Cristiano venuto nel Tempio alla pubblica orazione forma parte di quella adunanza di Sacerdoti e di popolo fedele che prega ivi raccolta. E` dunque necessario o conveniente, che tal Cristiano sappia che cosa e' preghi cogli altri, e che cosa dica quell' adunanza di cui è membro. La Chiesa oltre di questo è madre al Cristiano: e quante belle cose a lui non dice, quanti bei sensi a lui non esprime ne' sacri templi? Non sono segni di idee solamente le parole: anche gli atteggiamenti della persona indicano gl' interiori sensi. E ancora per mezzo delle cose esterne l' uomo rappresenta e parla: formando di quelle simboli ed imagini di quanto ha nell' animo. Non lascia pertanto la Chiesa di favellare in tutti tre questi modi: e non meno a Dio, supplicandolo, che a' suoi figliuoli insegnandoli e innamorandoli delle cristiane verità. Poichè in essa come in perfetta persona tutto è armonioso e decente, le parole, le cerimonie, gli adornamenti. Con tutto parla. Quanto dicono le parole sue agli orecchi, tanto pongono i suoi riti sotto gli occhi. E sì come grave matrona al decoroso discorso fa convenire decoroso atteggiamento, nè alle gravi parole, e a' nobili cenni discorda l' abito ricco e maestoso, sicchè da tutto quello che è in lei nasca il concetto medesimo di gran donna a chi la sente e vede, e dal parlare, e dall' accennare, e dal vestire: così parimenti è nella Chiesa del Signore, dove le orazioni, i riti, e l' esteriore apparato armoniosamente consuonano, e danno a divedere di che qualità donna ella sia o che risguardiamo il contegno suo in trattando con Dio, o in trattando con noi. Ignominioso è dunque al Cristiano non intendere, quanto può, il linguaggio della madre sua, sì piena di sapienza e di tenerezza: al quale linguaggio ella studia di avvezzare i balbettanti suoi figli, e cui eglino debbono apprendere se vogliono esser di sua famiglia. Impariamo adunque il linguaggio della madre, studiamo di ben penetrare i sensi della pubblica preghiera. Che questa è a Dio carissima: a questa ci giova conformare la privata, che allora è fatta rettamente quando somiglia a quella. Sugli esteriori oggetti adunque della Chiesa, sulle cerimonie, e sulle sue vocali preghiere alcuna cosa dirò: perchè qui non manchi qualche nozione sopra quella triplice lingua, nella quale la Chiesa esprime i suoi alti concetti. Al cominciamento della Cristiana Società ne' tempi Apostolici e' pare, che le chiese fossero le case de' fedeli. Così dalla lettera di Paolo a Filemone veggiamo, che la Chiesa avea luogo nella casa di questo fedele: ivi tenevansi le sacre adunanze. Surte poi le persecuzioni, spesso non poteano avere luoghi costanti, nè agiati. S' adunavano que' pii nelle arenarie, nelle caverne, usavano singolarmente raccogliersi a' sepolcri de' Martiri. Ivi facevano loro Stazioni, ivi ricevevano i Sacramenti. La perfezione poi di que' primi padri nostri li rendeva in vero meno bisognosi di chiese pel culto divino. Essi stessi erano i tempŒ di Dio. E il martire Giustino dimandato dal Prefetto di Roma in che luogo i Cristiani s' adunassero, rispondea: che dovunque pareva meglio erano soliti di congregarsi, perchè l' ineffabile Dio de' Cristiani non è circoscritto, nè ristretto da luogo, ma invisibile essendo riempie il Cielo e la Terra; e dappertutto è adorato dai fedeli (1). Tali congregazioni di tali adoratori formavano le chiese vere, costrutte di vive pietre, opere artifiziose del fabbro divino, e sacrate dall' eterno pontefice: delle quali chiese le materiali non danno che un emblema: ed è per questo, che il Vescovo consacra i templi murati con alcune bellissime e simboliche cerimonie, che alludono ai templi vivi. I luoghi però usati da que' Cristiani per le sacre unioni, o fossero nelle case private, o ne' sotterranei e nelle catacombe, o talora in luoghi spartati ed eretti appositamente; essi veniano disposti in forma di cappelle, o chiesuole semplicissime, di solito rozze, ma piene di decoro e santità. Ivi l' altare, ivi le reliquie de' martiri, ivi delineate e scolpite con rozza opera in sulle pareti e 'n sulle sepulture imagini di sacre verità, storie, simboli, ed iscrizioni, come più suntuosamente si fa nelle nostre. E fu allora quando a Dio piacque di convertire Costantino Imperadore, e dare così pace alla Chiesa per trecento e più anni vessata e sbattuta da' feroci Signori del mondo, che si videro alzarsi al vero Dio templi maestosi; ed i sacri vasi formati di legno divenire d' oro e d' argento: e d' oro risplendere il tetto, le muraglie, i sacri addobbi, le vesti de' Sacerdoti: e statue insigni, e pitture preziose ornar la casa del Signore. Del quale spettacolo niente si potea dare di più commovente e consolante pe' buoni. Poichè dopo tempi tristi e d' ingiustizia verso l' Eterno, apparivano giorni pii, ne' quali in onore al Signore dell' universo si dedicavano le cose da lui create e dagli uomini tenute in pregio, che prima s' usurpavano a fomentar o la umana superbia, o la diabolica superstizione. Di questo tempo per la Chiesa felice in tutto il mondo s' onorò Iddio con gran templi e ricchi; come veggiamo per grazia divina anche a' dì nostri. Osservarono alcuni, come nelle chiese semplicità a decente mondezza unita più eccita divozione sincera: mostrando essa al cuore come il nostro Dio non ama grandezze umane, nè fasto: ma ama interiore affetto, purezza e sincerità di tutto e non maschera; e fino povertà di mondane cose; come povera vita fu quella di Cristo. In questo avvi ad osservare, che l' ornamento della chiesa si considera, o rispetto a Dio, o rispetto all' uomo. Rispetto alla maestà divina nessuno onore è troppo, e sarebbe ragione che tutte le ricchezze del mondo giovassero ad onorarlo. La dignità del tempio viene sostenuta con ciò, che gli uomini reputano dignitoso: quelle ricchezze dunque si mettono in chiesa non già per dare a queste il prezzo che non hanno, ma anzi per farle a quello servire, che di ogni pregio è fornito: apparendo anche in ciò la bontà di quegli uomini pii, che da sè togliendo tali vanità, al Signore ne hanno fatto sacrifizio. Sono perciò le ricchezze delle chiese trofei, che Gesù ha portato sovra il mondo. Così nell' antico patto le egiziane dovizie servirono, per comando del Signore, alla vera religione degli Ebrei. Rispetto all' uomo: quanto egli è più infermo e più soggetto a' sensi, tanto ha maggior bisogno d' essere tratto a Dio per mezzo di esteriori oggetti, quasi per gradi che a Dio l' innalzino. Quindi la pompa della chiesa, la soavità della sacra musica, e delle altre esteriorità ecclesiastiche a quello stato della chiesa più abbisogna e più conviene, nel quale gli uomini sono più raffreddati e aderenti alle mondane cose; come inverso de' primi tempi è a dire de' nostri. Quanto l' uomo è più perfetto più ama la solitudine degli oggetti esteriori, perchè lo tolgono da' penetrali di sua mente, ove si tiene in gioconda pace nascosto: ma se è dissipato, alcuni oggetti esteriori possono dare a lui motivo di raccogliersi. Quindi regola di S. Agostino è questa, che « « allora è buono l' uso delle cose umane, quando negli inferiori oggetti non veniamo intoppati, ma solo dilettati de' superiori » ». Per la quale non meno la semplicità antica si commenda, che la pompa presente si giustifica. Per altro, molto si lagnano i Padri del veder le chiese riccamente apparate di cose umane: nude e sfornite di cose divine, dello spirito e delle virtù de' Cristiani. Quegli ornamenti sono buoni, ma questi migliori; nè quelli sono cari a Dio senza questi. Quando dunque venite in alcun tempio ampio e dovizioso, godete allora della gloria divina fra gli uomini; godete, che il Signore abbia tratte a sè quelle ricchezze del mondo, e fatte servire al culto suo; godete, perchè gli uomini infermi che stimano quelle cose, da quelle vengono bel bello stimando Dio, a cui quelle cose tributano onore. Se poi vi fate dentro alle chiese semplici e povere, come quelle dei Cappuccini, vi tornino a mente i bei tempi primi: e godete in esse il vostro Dio immediatamente senza ingombro o senso di cosa mondana; e tenete egualmente venerabile e ricco quel luogo, dove abita la vera ricchezza, il Signore. Con quegli ornamenti adunque Madre Chiesa v' insegni a levarvi alla divina Maestà: con questa semplice povertà v' insegni a sprezzare la mondana vanità. Sono nelle chiese, oltre agli ornamenti, delle altre cose; e farò qui un piccolo cenno delle principali, notandovi di che cosa possano essere figure o segni. L' altare è la mensa su cui si fa il Sacrifizio. Rappresenta il desco, a cui cenò Cristo quando consecrò prima il pane e il vino. E come quello effigiava la croce, così l' altare nostro è imagine anche della croce, su cui patì. Per questo a' tempi apostolici gli altari erano costrutti di legno. Ancora più propriamente per l' altare si esprime Cristo stesso; avvegnachè, essendo il merito di suo sacrifizio opera del suo spirito, Cristo fu veramente e altare e vittima e sacrificatore. Onde Giovanni dice, che l' altare è Cristo (1). E perchè Cristo nelle antiche carte detto è pietra angolare, fianco dell' edifizio, che unisce le due muraglie del tempio, cioè gli Ebrei e i Gentili (2), e ancora pietra perchè percossa co' patimenti sgorgò acque di salute (3), e pietra perchè ad essa s' infrangono e spezzano quelli che in lei cozzano; già per antica legge gli altari si fanno di marmo, e si sacrano coll' olio, perchè Cristo è l' Unto, di cui era imagine il sasso, su cui Giacobbe sparse l' olio ed eresse a monumento, sopra del quale dormendo, come Cristo in sulla croce, avea veduto la scala degli Angeli, che congiungeva insieme la terra ed il cielo (4). Nell' altare s' inseriscono reliquie di Santi, specialmente martiri, pel consorzio che hanno con Cristo fatti una cosa con lui nel Sacrifizio; e le tre tovaglie benedette dell' altare rappresentano pure le vestimenta di Cristo, che sono i Santi suoi. I candelieri accesi, e il Crocifisso nel mezzo, mostrano i popoli credenti uniti dalle due parti opposte, giudaica e gentile, a quello che elevato in alto trasse a sè ogni cosa. A pie' dell' altare stanno de' gradini, che sono le virtù, per cui si va a Cristo. Prima di ascenderli nella Messa il Sacerdote fa la confessione de' peccati, e recita a vicenda col ministro, e un tempo già con tutto il popolo, l' opportuno Salmo « Giudicatemi Signore » (5), col quale prega, che, abbattuti gli avversarŒ, mandi a lui la sua luce e la sua verità, per essere da queste condotto nel santo suo monte, ne' diletti suoi tabernacoli. [...OMISSIS...] L' uso delle cose necessarie nella Messa e nelle altre funzioni facilmente apparisce. Laonde dirò delle loro mistiche significazioni, essendo queste atte a nudrire divozione, conforme all' intenzione della Chiesa, desiderosa che tutto e in tutti i modi spiri edificazione e pietà. Dunque nel Calice s' imagini di vedere il sepolcro nuovo del Signore; nella Patena la pietra rivoltata sopra la bocca del monumento: il corporale sia la sindone monda, ove Giuseppe d' Arimatea involse il corpo del Signore. Le vesti poi del Sacerdote tutte alludono a vestimenta spirituali. La bianca cotta indica l' innocenza di una vita sacerdotale. L' ammitto è l' elmo della salute, che guarda il capo dall' avversario, e protegge il collo o sia gli organi della voce, onde facile è il peccare. Il camice mostra il vestito tutto mondo della santità; il cingolo in particolare la virtù della purità; il manipolo, drappo con cui una volta s' asciugavano le lagrime, significa la penitenza, che, seminando in pianto, coglie frutti di letizia. La stola, che pendente dal collo s' incrocicchia in sul petto, segna la fortezza, o la veste d' immortalità acquistata per la croce di Cristo, e la pianeta finalmente raffigura il giogo della soave sua legge, cioè la carità, che dal Vescovo nella ordinazione s' appella abito sacerdotale, e nel Vangelo veste nuziale soprapposta alle altre, perchè a tutte dà compimento e perfezione. Nella tonicella poi del Soddiacono è l' imagine delle interiori virtù, come nella dalmatica del Diacono delle esteriori: poichè si spetta a' Diaconi la cura de' poveri, e debbono essere assistiti da' Sottodiaconi, cioè da ministri incorrotti pieni d' interior santità. Il piviale finalmente dimostra la grave e santa conversazione de' superiori ecclesiastici, che abbraccia la carità di Dio e del prossimo. Ora i colori diversi de' sacri indumenti si conformano alle feste, che con essi si celebrano. Il bianco indica letizia, gloria, gaudio; il rosso segna il sangue de' Martiri, e il fuoco del Santo Spirito; il violaceo significa mestizia e passione; il nero morte: il verde poi è un colore medio, che s' usa in alcune Domeniche meno solenni forse qual indice della nostra speranza. Le conche poi dell' acqua benedetta, che anticamente erano certe urne con una fontana posta in mezzo all' atrio delle chiese, ove si lavavano le mani e la faccia i fedeli avanti entrare in chiesa, figurano la lavanda interiore, e lavano da veniali peccati chi n' ha dolore, in virtù di benedizione fatta su quelle acque dal Sacerdote. D' alcune altre cose, che sono in chiesa, cade di toccare nel capo seguente. Dalla meditazione de' riti e delle cerimonie dalla Chiesa usate quali cose e quante non impara il Cristiano! Raccoglie da quelle gli alti sensi di essa Chiesa verso a Dio, ed eccita in sè stesso que' sincerissimi e perfetti atti di culto. Vede ancora in quelle, il che non è a dire quanto sia giovevole, una cotal forma bellissima di cristiano conversare in questo mondo, gastigato alle regole di perfetta vita; mentre, dovunque e' si trovi il Cristiano è nel tempio del Dio suo, e quasi ministro, per dire così, insieme cogli altri fratelli suoi, e con tutte le creature dell' universo, esercita atti di religione. Tuttavia non vengono per avventura sotto questo aspetto bastevolmente considerate le ecclesiastiche cerimonie. E pure verissimo è, che nella Chiesa si ha quel trattare vicendevole, che a Cristiani perfetti conviene: e così perfette essa l' ha poste, perchè convenienza avessero con sè, col carattere de' suoi ministri, e coll' altezza delle cose divine. Or facciamoci addentro alcun poco nel loro spirito. Che diversità fra queste e le cerimonie del mondo! Alcuni distintivi delle cerimonie della Chiesa paragonati a' corrispondenti delle cerimonie del mondo ne mostreranno, quanto le une dalle altre si dispaiano. Il primo carattere delle cerimonie di Chiesa è la SINCERITA`. Essendo santa essa Chiesa, sinceri sono quegli atti con cui la santità appalesa. Oltracciò sono fatti a Dio, col quale non si scherza, poichè vede nell' interiore del cuore. E se nel mondo l' interesse sospinge gli uomini a finzione esterna, qui gli spinge ad esterna sincerità, come la sola che ottenga favore. Perciò le ecclesiastiche cerimonie sono ancora semplici e naturali . Per esempio: levarsi in piedi al Vangelo dopo essere stati seduti all' Epistola, per dimostrare prontezza di sostenerlo e difenderlo quali prodi soldati di Gesù: stare in piedi nella Domenica al recitare delle antifone di Maria, in memoria del Signore risorto; e usare positura ritta ogni qual volta vogliamo significare solennità ed esultanza: genuflettere, a indizio di mestizia e lutto, quasi col lasciare cadere il corpo, dimostrando di confessare la caduta dell' anima, o l' umana abbiezione dinanzi alla Divinità: piegare il capo in segno di riverenza, battersi il petto in atto di pentimento, variare la voce come si fa nella Messa, adoperandola talora alta, talora sommessa, alcuna volta al tutto segreta secondo i misterŒ proferiti, i quali si vogliano fare intendere od a' ministri soltanto, od a tutto il popolo, o vero dall' unico Sacerdote si trattano con Dio in alto raccoglimento, conforme alle intime cose, sacrosante, e misteriose che esprimono (1), ed altrettali atteggiamenti, riti, e cerimonie, i quali, nati, per così dire, insieme colla cosa ch' esprimono, non hanno sforzo veruno nè affettazione, e mostrano in sè medesimi la propria sincerità e verità . Sieno adunque anche gli atti di noi Cristiani, in trattandoci nella vita civile, così semplici, facili, sinceri, acconci, e proprŒ alle opere che trattiamo, e in un tempo così espressivi e decorosi. Tutto altro è il trattare del mondo, simulato, artifizioso, ed insulso. Altro carattere di questo trattare esteriore nella Chiesa è il BELL' ORDINE, la quiete, la placidezza , con cui tutto si move. Ogni cosa è bene disposta e regolata. Sono prescritti a' Sacerdoti i movimenti e gli atti più minuti, perchè ogni picciola sconcezza si fa grave in quel luogo. La distribuzione de' ministri, cominciando dal Pontefice insino a' turiferarŒ, agli ostiarŒ, a' lettori; le incumbenze assegnate a ciascuno, accordo insieme e varietà, ed un succedere di nuovi oggetti bene fra sè congiunti, rende ciò che è santo anche dilettoso e ammirabile a' sensi. Così queste sacre funzioni esprimono il fervore dell' uomo cristiano, che nasce da serena mente, quieta, e tutta pace: edificano colla pietà, non agitano colla passione. Che distanza dal tumulto, dal fracasso, e confuso agitamento delle mondane feste, le quali mescolano o sconvolgono tutto l' esteriore e l' interiore dell' uomo! E se noi mireremo alla gravità ed alla MAESTA` del sacerdotale apparato, principalmente in festa solenne, facilmente diremo, che quel così augusto spettacolo, e quel grave portamento, quegli ampli addobbi de' Sacerdoti e del Tempio ci parlano di Dio; e che mentre glorificano Dio insegnano al Cristiano chi sia lui stesso, che Signore serva, e che servigio sia il suo. Insegnano, che a lui sommamente disconviene in ogni tempo piegarsi alle scurrilità del mondo; ma sempre al grave contegno attenersi e dignitoso. E perchè i mondani uomini sono avvezzi nelle loro smorfie, e in certi loro attucci, colle idee picciolissime che queste cose presentano non sogliono capire le gravi e somme verità, nè prezzare le ecclesiastiche cerimonie: non potendo dilatare il pensare ed il cuore a quelle grandi cose, nè reputarle perciò belle o dilettevoli; ma sì tenerle, come le altre cose di Dio, austere, penose e secche. E loro avviene questo come a colui, che ode dignitosissimo personaggio favellare, ma non intende la lingua in cui favella. Noi all' incontro, che intendiamo e gustiamo questi riti maestosi, veggiamo nel Sacerdote, che ascende l' altare, l' umanità ascendere al « Sancta Sanctorum », a Cristo; quando lo bacia intendiamo ch' ei bacia Cristo, saluto usato anticamente a' re; quando incensa le obblazioni, le reliquie, l' altare, sappiamo che adora con quest' atto in tutte quelle cose Iddio, veggiamo i vortici del profumo odoroso ascendere in alto, e in quelli ci vengono a mente i nostri preghi che ascendono a Dio per Cristo; e per Cristo, giusta la frase scritturale, si odorano dal Padre, essendo Cristo il solo odore in cielo gradito. E così nella pompa de' doppieri e de' torchi accesi e de' candelabri, ove splende il fuoco che Cristo venne a mettere in terra, e nel trono del Pontefice, e nelle schiere de' ministri, e nell' ordine de' Sacerdoti, e nella turba de' cantori, e ne' suoni degli organi, e in tutto il lento e variato procedere della cerimonia ci troviamo agevolmente colla mente in Cielo, nella corte di Dio, nel tempio del sommo Pontefice; d' intorno al quale gli Angeli con divini riti celebrano eterno giorno festivo. Il quarto carattere delle cerimonie ecclesiastiche è quello di RIVERENZA, di cui sono piene verso tutti i membri della Chiesa, cioè i fedeli che a quelle assistono, e di quelle sono gran parte. Ciò pure insegna come dobbiamo portarci a vicenda. San Paolo esortava a prevenirsi scambievolmente in rendersi onore (1). Ora, poichè i ministri sacri in chiesa non trattano solo con Dio, ma ben anco tra sè, e talora col popolo; così come con Dio la maestà e la dignità è richiesta, i Cristiani trattando fra sè hanno legge di scambievole riverenza. Rispetto e riverenza può essere dato tanto dagli inferiori a' superiori, come dai superiori agl' inferiori, e ancora da uguali ad uguali. Questo rispetto di tutti fra tutti nella chiesa apparisce in tanti inchini, che si fanno i sacerdoti e cherici. Verso il superiore il mostrano le benedizioni dimandate prima di leggere, i baci della mano fatti dal ministro, l' essere tutto il coro regolato a suo esempio: poichè nessuno siede prima di lui, nè si alza prima che egli alzato non sia, e in altri simili segni di onore: i preti stessi si stanno in coro regolati secondo la dignità o l' età. Ma se il Cristiano venera nel maggiore l' autorità divina; il maggiore altri non trova nell' inferiore che un fratello suo compartecipe della stessa cristiana adozione. Onde quale umiltà e dolcezza non dimostra il Pontefice stesso in tutta sua pompa in onor degli astanti? Viene alla celebrazione della Messa, e si pone prima di tutto a' piè dell' altare; fa una accusa pubblica de' suoi peccati, e sente rispondere in bocca del popolo: Iddio ti faccia misericordia . Dopo offerito il pane ed il vino e' si volge agli astanti, li chiama fratelli, li prega di orazioni, perchè il Sacrifizio comune sia accettato dal Signore. Dimanda anch' egli ad un Sacerdote la benedizione prima di leggere le lezioni nel Mattutino. E per tutto s' umilia di sotto agli altri, quando prende aspetto d' uomo; benchè in figura di Dio venga nella funzione stessa altamente onorato. Quella cerimonia però, che più al vivo mostra l' onore, di cui fa la Chiesa degni tutti i Cristiani, si è l' incensamento, il quale non pure al celebrante e al clero, ma al popolo stesso viene dato, perchè si tengono tutti pieni di Dio, templi vivi, come essere dovrebbono, del Santo Spirito. Cessiamo forse d' esser tali fuori di chiesa? No. Ecco adunque l' onore, in che reciprocamente, se cristiani siamo, ci dobbiamo tenere. Quanto civile, umano, riverente non è dunque il tratto dell' uom cristiano? quanto lontani ci conviene essere ne' nostri modi dallo sprezzo, dalla non curanza, dalla freddezza verso a nessuno, non che io dica dalla presunzione, dall' alterigia, e dall' insulto, che sono pur le belle costumanze di questo mondo? Ma il carattere precipuo, più soave e più bello delle cerimonie ecclesiastiche si è il quinto, cioè l' essere piene di amore , LA CARITA`. Oh bellissima unità di cuori, che spirano le funzioni di chiesa! che concordia e carità non adorna i sacri riti? Nella Chiesa, tolte di mezzo tutte distinzioni e separazioni mondane, forma un corpo solo nell' unione al comune capo Gesù, il re col suddito più abietto. A vicenda colà si prega e canta. E perchè i due cori in nulla cosa sembrino salmeggiando divisi, nell' antifona, alla fine del salmo, s' uniscono concordi ad esprimere perfetta consensione di anime. Nella Messa poi quai soavi parole non usa il Sacerdote ciascuna volta che parla agli astanti? Quando li saluta si volta ad essi allargando le mani sue in atteggiamento di abbracciare, e loro dice: Sia con voi il Signore. Essi rispondono all' incontro: Sia pure collo spirito tuo. E tale saluto forma preparazione alla preghiera, poichè la preghiera accetta è quando il Signore è con quelli che pregano, ed essi nel Signore sono uniti, per cui al Dominus vobiscum segue l' Oremus , cioè l' invito a pregare insieme. Altra volta esortali ad innalzare gli animi al Cielo, essendo oggimai vicino il Sacrifizio, a rendere grazie, e cantare in una con lui e cogli Angeli: « Santo, Santo, Santo il Signor degli Eserciti », e benedire colui, che già in nome del Signore sen viene. Questo pio consorzio di affetti si va poi accrescendo in perfezionando il Sacrifizio. E quando il Sacerdote divide l' Ostia in due parti, e un frammento ne stacca, e con tre segni di croce lo ripone nel calice, dice allora a tutti: « La Pace del Signore sia sempre con voi ». E già messo nel calice il pezzetto, aggiunge: « Questa meschianza e questa consecrazione del corpo e del sangue del nostro Signore Gesù Cristo torni a noi, che siamo per riceverlo, a vita eterna; così sia ». Colla quale cerimonia rappresentando il ricongiungimento del corpo col sangue di Cristo, cioè la nuova ed eterna vita da lui per la risurrezione racquistata; si prega, che noi, membra sue, parimente partecipiamo di questa immortale vita del glorificato nostro Capo. Nel quale istante il Sacerdote, dimentico quasi che pur siamo in terra, ov' è solo principio d' eterna vita, quasi trasportato in Cielo a quel tempo, in cui l' opera di nostra salute sarà perfetta e compita, prega alla Chiesa di Dio Pace; e pace a tutti i fedeli desidera dal Signore: e bacia l' altare per riceverla da Cristo, che l' altare rappresenta, e abbraccia il Diacono, e a lui la comunica: il Diacono poi al Clero la reca, che tutto pure a vicenda si viene abbracciando, da cui l' abbracciamento un tempo passava anche al popolo: rito pieno di affabilità, e santissima amicizia, dopo il quale non più dovrebbe rimanere alcuno rancore negli animi, non più avvenire una rissa in sulla terra fra' battezzati, e solo Amore regnare, Concordia, Pace di Cristo. Il perchè, se le sacre cerimonie si guardano rispetto all' animo della Chiesa, si trovano pure e sincere , in sè stesse sono belle e ordinate , verso Dio sono gravi e maestose , verso i fedeli sono piene di rispetto e d' amore . Che se, in trattando fra noi nella vita, queste cose serbassimo, noi toccheremmo ogni perfezione di un conversare cristianissimo e amabilissimo. Chi mira all' ordine delle preghiere, che la Chiesa usa, può acconciamente dire colla Cantica, che il Signore ha ordinato in lei la carità (1). Veggiamolo brevemente. La Chiesa, come abbiamo toccato di sopra, regolò fino da tempo antichissimo le sue preghiere nelle diverse ore del giorno e della notte. Partito il dì, e così pure la notte in dodici ore, ad ogni terza ora era l' orazione. Le ore più solenni però del giorno furono Terza, contandosi dallo spuntare del sole, Sesta, Nona, e Vespro o duodecima. Introdotto poi il costume di orare anche al principio del dì e della notte, ne vennero Prima e Compieta . Queste ore sono santificate anche da' fatti della Passione di Cristo. A Prima fu condotto da Pilato: a Terza crocifisso colle lingue de' Giudei, flagellato, coronato di spine: a Sesta inchiodato in croce: spirò a Nona e scese agl' Inferi: a Vespero si depose di croce: e a Compieta fu collocato nel monumento. Col sovvenirsi de' quali fatti può assai agevolmente santificare queste ore anche chi non dice i salmi delle Ore canoniche. Gli OffizŒ divini, come sono al presente, si possono ancora dividere in tre parti: nel Mattutino, col quale principiamo il giorno; nelle Ore diurne, con cui fra il giorno si prega; e nella Compieta, che chiude la giornata. Ognuna di queste parti ha il suo cominciamento opportuno. [...OMISSIS...] Quando cominciamo il giorno, non ancora distratti da occupazioni terrene, nè sbattuti da tentazioni del dì, apriamo più degnamente i labbri a lodare Iddio. Nel giorno, fra tante cure e pericoli, ci bisogna un peculiare sostegno divino ad ogni passo, e questo si chiede colla seconda preghiera. Alla sera, dopo avere passato il giorno tutto negli affari di questa vita, dove è molto difficile non esser qualche volta caduti, che cosa evvi di meglio che a Dio tornare in quella notturna quiete, e pregarlo, come si fa col principio di Compieta, che e' ci voglia ricondurre ad esso e ritenere il suo sdegno. I padri nostri hanno diviso il Salterio di Davidde ne' sette giorni della settimana per modo, che dentro a ciascuna si svolgeva cantando tutto quel libro. Poichè, lasciando essi le voci gentilesche de' giorni, li chiamarono tutti ferie , ossia vacanze: intendendo di mostrare con questo vocabolo, come i Cristiani dovevano vacare sempre dalle terrene cose, e riposarsi in contemplare le divine, e cantarle. Come poi gli Ebrei dal loro Sabbato numeravano i giorni, così i Cristiani dalla Domenica presero a numerare le loro ferie. E come il Venerdì presso gli Ebrei veniva chiamato anche Parasceve, ovvero preparazione al Sabbato, così i Cristiani ritennero all' ultima feria il nome ebraico di Sabbato: volendo mostrare con questo, che la festa degli Ebrei altro non era che uno apparecchio alla cristiana. E sì come alla Domenica, che significa giorno del Signore, celebravano e celebrano il risorgimento, col quale un Cielo nuovo e una Terra nuova apparì, e cantavano in questo giorno il più solenne cantico, quello de' tre fanciulli di Babilonia; così nel Sabbato rammentavano e rammentano la fine del mondo vecchio, e dicevano il Cantico, che Mosè disse moriente. La Feria sesta serbò sempre la grande memoria del sangue del Signore in quel giorno sparso, ed in essa s' intonò il Cantico di Abacucco, dove è accennata la croce. Della quinta è propria prerogativa l' istituzione in essa fatta della Cena eucaristica, e in quella si può ricordare ancora l' istituzione degli altri Sacramenti, dove s' onora il più grande. In fatti, il Cantico Mosaico, composto dopo il passaggio del mare Rosso, che a questo giorno è stabilito, conviene, come diremo più sotto, al battesimo. Negli altri giorni altri argomenti si ricordano e onorano, come la creazione, e il gran decreto della redenzione, l' umana impossibilità a risorgere dal primo peccato, e la morte sua pena; la consolazione del Santo Spirito, e di sua grazia; pe' quali giorni si leggono i Cantici d' Isaia, d' Ezechia, e di Anna. In tali argomenti può pascere santamente il suo spirito, chiunque ne sia informato, ne' diversi giorni della settimana con pia meditazione, e così unirsi alla Chiesa orante, sebbene non reciti il Breviario, e non sappia punto di latino. Gli Ebrei nel primo giorno di ciascun mese celebravano certa festa solenne, chiamata da loro Neomenia , ossia luna nuova . In luogo di questa noi abbiamo fra l' anno sparse le feste della Madonna, rassomigliata dalla Chiesa per la sua spirituale bellezza alla luna. Ogni mese poi, nel primo giorno non impedito da festa maggiore, noi suffraghiamo i defunti. Occorrono oltracciò in ciascun mese alcune feste, delle quali brevemente diremo appresso. Nel tempo, in cui la Chiesa nostra era in sul primo svolgersi, pochi erano ancora i Santi del Nuovo Testamento, e perciò poche le nostre feste. Fra settimana si recitava, come è detto, il Salterio, cioè gli OffizŒ feriali , che sono uffizŒ di penitenza e di apparecchio alla Domenica, grande giorno del Signore. Ma venne di mano in mano la Chiesa arricchendo sempre più di glorie e di eroi, da prima in ispecial modo co' Martiri, e appresso coi Confessorì: e da questi nuovi acquisti ebbe sempre nuove ragioni di allegrezza. Il perchè, festa a festa aggiungendo, e solennità a solennità, è pervenuta Chiesa santa in uno esaltare continuo ogni giorno nuovi trionfi, ogni giorno nuove azioni di grazie, nuove memorie de' suoi prodi. Il quale perenne succedere di fasti gloriosi quale gaudio non dee produrre ne' fedeli, ammirando le inesauribili ricchezze divine ne' Santi suoi, e la inesprimibile varietà e preziosità di abbellimenti, con cui la sposa di Gesù in ciascun giorno quasi a foggie novelle si ammanta! Ogni giorno dunque Chiesa santa esulta; e questo suo esultare crescerà insino alla fine de' secoli. Non dà egli un tanto rallegrare qui in terra imagine del Cielo? In fatti la numerosità delle feste, dice S. Bernardo, spetta ai cittadini e non agli esuli (1). Il perchè v' ebbero de' santi uomini, che, desiderosi più del pianto, proprio di questo pellegrinaggio, che della letizia propria del Cielo, hanno mostrato desiderio, se essere potesse, che minorato fosse il gran numero degli uffizŒ de' Santi, e avessero luogo que' delle ferie. Noi poi e nelle feste de' Santi la magnificenza ammiriamo del regno di Cristo, che ci dà quaggiù un cotale saggio di celeste gloria, ed amiamo lo spirito di que' virtuosi, i quali preferiscono alla consolazione lo squallore ed il pianto, come più proprio a noi, Chiesa che milita in fra cotanti avversarŒ. E` però di grandissimo vantaggio quell' avere ogni giorno sott' occhio novelli esemplari di virtù maravigliose. Che se noi venissimo in tutto il corso dell' anno seguendo dietro le orme sue la Chiesa, oh di quante alte cose meditazione faremmo! Di tutte le verità, le istorie, i motivi, le strade che ne scorgono a Dio. Vi dirò in poco che argomento tolga la santa Chiesa a meditare o celebrare ne' varŒ tempi dell' anno. Apre l' anno Chiesa santa colle quattro Domeniche d' Avvento, colle quali, sì come ne' quattro mill' anni precorsi a Cristo si apparecchiò il mondo a ricevere il grande ospite suo, così la Chiesa noi apparecchia al natale del Signore. Quindi questo divino Sole, che appresso sorge, regola l' anno ecclesiastico, per così esprimermi, come il sole materiale regola l' anno terreno. Qual migliore tempo di questo da meditare la caduta dell' uomo primo, l' impotenza della natura e della legge a rilevarlo, le profezie e promesse di Riparatore, e sopra tutto l' opera della divina incarnazione? Così preparati, ci nasce il Salvatore, viene circonciso, datogli il nome di Gesù, e a' pastori, e a' Magi si palesa: intanto freme la Sinagoga, e la parte delle tenebre si sbrama nel sangue degl' innocenti, mentre se ne fugge in Egitto il cercato Infante. Tali cose nella festa del Natale, della Circoncisione, dell' Epifania e degl' Innocenti si ricordano. Qual pascolo non abbiamo noi nella considerazione dell' umile presepio del Signore, dell' adempimento della Mosaica Legge, della forza del nome di Gesù, dell' annunzio di sua venuta fatto agli Ebrei, della chiamata de' gentili, del malo ricevimento e della riprovazione della nazione santa, colla quale però ci rimane la dolce speranza di riunirci nella fede in fine del mondo, e finalmente della guerra eterna che le tenebre hanno colla luce, il mondo con Gesù Cristo? Nella festa di S. Giuseppe abbiamo sotto gli occhi i doveri di pudico sposo, di vigile padre, e tutta la vita privata del Signore. Nelle sei Domeniche, che seguono dopo l' Epifania, la cecità de' Giudei, e i misteri di predestinazione, e di Grazia. Considerato fino a qui quanto spetta a Cristo e a' doni suoi, succede la considerazione di noi stessi, i danni del peccato d' origine, la moltiplice corruzione del corpo e dell' animo umano, la lotta fra lo spirito e la carne, l' ignoranza, e la necessità della penitenza; le quali cose tutte come apparecchio alla Quaresima cadono nella Settuagesima, Sessagesima, e Quinquagesima, che precedono la Quadragesima. In questa la morte; la natura e i rimedŒ delle tentazioni, il laborioso battesimo, che purga le macchie contratte dell' anima, cioè il Sacramento accompagnato alla virtù della Penitenza: la detestazione della passata vita, la scelta del confessore, la soddisfazione dovuta a Dio, i veri propositi, e i mezzi di non tornare al vomito, sono i frutti di questo sacro tempo. Alla Domenica di Passione incomincia il ricordo delle ultime memorande geste del Salvatore. Che esempio del sommo penitente! l' ubbidienza sua sino alla morte di croce, e tutto lo spettacolo del suo patire cade nella seguente settimana. Poi risorge Cristo dai morti, primizie dei dormienti. Quale mutazione di scena! che frutti consolanti ci promettono le nostre pene offerite al Signore! Abbiamo fatta nel battesimo una prima risurrezione dell' anima morta, nella penitenza una seconda; l' ultima, in cui risorge il corpo, simile a quella di Cristo, compirà la vita nostra in Cielo. Dopo Pasqua ecco il lavacro battesimale, dove s' imbiancano i Catecumeni, ed è la porta degli altri Sacramenti. Il nostro spirito quindi appresso si può nutrire colle verità intorno la Chiesa che milita, purga, e trionfa, facendocene luogo le settimane che seguono alla Pasqua fino all' Ascensione, prima della quale conversò Cristo in terra co' discepoli suoi. La festa di Pentecoste annunzia i doni del Santo Spirito, sublime oggetto a cristiani desiderŒ, pe' quali il Vangelo in tutto il mondo fu scritto in sui cuori degli uomini. Dopo tale solennità adunque il tempo è di pensare all' incremento maraviglioso del Regno di Cristo in terra, al sangue de' martiri, agli scritti dei dottori, alla vita de' confessori suoi, da cui fu fecondato, illuminato, santificato. La Domenica della santissima Trinità, il giorno solenne del Corpusdomini danno grandi cose alla mente. Quest' ultimo ci chiama ancora a riflettere in sulla dignità sacerdotale, e sulla Gerarchia ecclesiastica. Il rimanente dell' anno, che viene dopo la Pentecoste, è acconciamente occupato ne' mezzi, co' quali lo Spirito Santo ci si dona, e nelle opere sue fatte in tutti i tempi. Le Scritture ispirate, le virtù infuse nell' anima della fede, speranza e carità, la preghiera ardente, e in particolare coll' occasione delle feste della Croce, di Maria, degli Angeli e de' Santi abbiamo onde istruirci intorno a' varŒ culti di nostra divozione. Nel giorno, in cui si commemorano li morti nella pace di Dio, occupi il cuore nostro e la nostra mente quella Chiesa purgante. Nelle letture poi de' libri di Giobbe, di Tobia, di Giuditta, di Ester, de' Maccabei, de' Profeti, che fa susseguentemente la Chiesa, impariamo tutte le morali virtù, la pazienza, il savio governo della famiglia, l' eroico e santo coraggio, la prudenza, la fedeltà alla legge santa con iscapito perfin della vita, la provvidenza, con cui il Signore regge la Chiesa sua vigile sopra di lei fino al dì del giudizio, del quale i pubblici uffizŒ trattano nell' ultima Domenica dell' anno ecclesiastico. Non v' ha dunque più bella cosa, che tenere dietro alla Chiesa. Con lei si percorrono nell' anno tutti i dogmi suoi, tutto il sistema di sua fede, tutto il corredo di sue virtù, tutti i mezzi di praticarle, e tutti i frutti ed i premŒ promessi dal Signore. La nostra vita spirituale tiene alcuna similitudine alla corporea, e ci bisogna in quella altrettanto, dirò così, che ci bisogna in questa. Anche in quella dobbiamo primieramente nascere, e a questo Cristo ci ha fornito il Battesimo; dobbiamo crescere, a cui istituì la Confermazione; perchè ci nutriamo, pose l' Eucaristia; ammalandoci dello spirito, ci fornì la Penitenza e l' Estrema Unzione, ordinata la prima a torre il morbo, e la seconda a torre le reliquie del morbo, o la debilezza della convalescenza. E avendo l' uomo nella corporea vita una società, egli la si trova avere anche nella spirituale, e quest' è la Chiesa. Ma perchè alcuno si congiunga a tale società, ha bisogno prima della vita corporea, e poi della spirituale. A questi due fini perciò sono indiritti i Sacramenti del Matrimonio e dell' Ordine. Non è mia intenzione di esporvi qui le dottrine de' Sacramenti, che trovate con ogni facilità in ottimi libri. Farò tuttavia quasi una scorsa in sul Battesimo, col quale in noi s' incomincia la vita eterna, per darvi esempio del modo, con cui giova studiare in questa materia: e a tal fine mi basterà di porgervi quasi un indice di materie, o poco più, per non ingrossare maggiormente il volume senza bisogno. Sarà dunque bello ed utile studio se voi entrerete a conoscere quasi la storia stessa de' Sacramenti, e qui del Battesimo; e cercherete di osservare le figure, e le predizioni sparse nell' Antico Testamento. E` necessario di poi che veggiate ben chiaro la differenza di tutti gli altri battesimi, e di quello stesso di Giovanni da quello di Cristo. Finalmente fermandovi in questo lavacro vivificatore delle anime consiste ogni migliore studio in penetrarne lo spirito, conoscerne gli effetti, e bene intendere quali gravità di promesse in esso per noi si fanno. Queste promesse, da S. Agostino chiamate non pure voto ma il « massimo voto nostro » (1), a' primi Cristiani erano sacri ritegni da peccare, e l' infrangerle si avea, come è, per sommo infortunio (2); riputando dopo il Battesimo più alta la caduta, più difficile il risorgimento, più dura la debita penitenza. Per questo era prolungato il catecumenato: si dava luogo con ciò a' nuovi cristiani di rafforzarsi nella virtù, prima di promettere a Dio vita solennemente cristiana. Dal Battesimo poi scaturisce il sistema tutto di nostra salvezza, il cumulo de' nostri doveri: conosciuto lui, conosciamo lo stato nostro, la nostra nativa infermezza, l' acquisita nostra dignità, alla quale dignità tutte cose sono sommesse e dell' inferno e del mondo. Ma quanto alle promesse, che fanno i Cristiani nel Battesimo, uso antichissimo è, che di tempo in tempo si rinnovino (3). I tempi più accomodati a questo sono: al toccare il libero uso di ragione; e se i giovanetti nol fanno, è peccato degli educatori: il giorno anniversario del battesimo nostro, la festa della dedicazione della Chiesa; essendo quella festa nostra, poichè noi col Battesimo siamo stati fatti le pietre vive del divino tempio (4); e le vigilie della Pasqua e della Pentecoste, nelle quali la Chiesa battezza i catecumeni. Ora a questo proposito parrebbemi assai convenevole e utile una cosa, che qui non voglio preterire. La Chiesa, per ricordare i fatti illustri della bontà divina, che a lei diedero o fondamento o splendore, stabilisce pubbliche feste. Ogni Cristiano ha per simile modo de' fatti privati della divina bontà, i quali all' anima sua peculiarmente apportarono o salute o aumento di grazia. Imiterebbe adunque la Chiesa utilmente il Cristiano, se come la Chiesa celebra i fatti pubblici con pubbliche solennità, così celebrasse egli i privati con solennità private. La principale di tutte essere dovrebbe l' anniversario del suo battesimo. Quanto vantaggioso e bello non sarebbe, come a me ne pare, se i genitori o gl' istruttori facessero celebrare a' loro giovinetti in questo anniversario un domestico giorno festivo da santificare coi santi propositi, colle rinnovate promesse, colla penitenza e col cibo eucaristico, quasi tempo da cui norma prendesse ed esempio l' anno intero, e s' innovasse la vita, aggiungendo anche esteriori segni di letizia, e qualche insolita ma pia ricreazione? Quanto al modo di formare cotesta famigliare solennità, potendo essere vario secondo varietà di circostanze, purchè tutto spiri pietà, compostezza, e santa letizia, non mi fermerò io a descriverlo. Dirò solo, che utile sarebbe ricordarsi in tal giorno i riti, con cui ne venne conferito il Battesimo. Quante belle cose non contengono quelle cerimonie! L' essere lavati nell' acqua in nome della Trinità augustissima dimostra l' effetto primo del Battesimo, lavare il peccato. Ma or che sono queste acque, che hanno tale potestà? che toccano il corpo, e mondano l' anima? [...OMISSIS...] Quelle acque dunque traggono loro potere dal sangue di Gesù. Quando Cristo morì e scese nel sepolcro, morì allora l' uomo vecchio e fu seppellito. Così Paolo. L' uomo vecchio fu insieme con Cristo crocifisso, perchè il corpo del peccato si distrugga, e al peccato non serviamo più mai (2). E questo primo effetto del Battesimo, era specialmente rappresentato dal Battesimo conferito per immersione, mostrando in quello, per così dire, come il figliuolo dell' uom peccatore si sommerga e si seppellisca. L' essere poi tratti da quell' acqua indica la nascita dell' uomo nuovo. [...OMISSIS...] Per questo Cristo dopo risorto comandò agli Apostoli di andare pel mondo battezzando l' uman genere. Prima non era ancora questo uscito con lui dal sepolcro. Poichè insieme con Cristo otteniamo le grazie, e nessuno il previene: essendo egli le primizie in tutto. E poichè nel Battesimo il Santo Spirito dandosi a noi ci applica i meriti di Cristo, gli Apostoli attesero di ricevere lo Spirito stesso prima d' andare battezzando nell' acqua e nello Spirito Santo. Se la Chiesa adunque battezza nelle vigilie di Pasqua e di Pentecoste, insegna con ciò, come il Battesimo ha sua virtù dalla morte e risurrezione di Cristo, e come dal Santo Spirito viene questa virtù a nostra santificazione usata. Ma veggiamo qual sia l' uomo nuovo che surge, morendo il vecchio. Come il vecchio è l' uomo partecipe della malizia, ed erede del peccato d' Adamo; così il nuovo è il consorte della virtù, e dell' eredità di Cristo. Gesù Cristo, assunto sacerdote, fece sè stesso vittima. Frutto del suo sacrifizio fu la corona di re sopra tutte le podestà nemiche. Ogni Cristiano ora è chiamato a parte di suo sacerdozio e di suo regno. Per questo la Chiesa unge in sulla fronte colui che battezza, secondo l' antichissimo uso di ugnere i Re e i Sacerdoti. Avanti il Battesimo poi l' ugne in sul petto e fra le spalle in figura di croce, come s' ungevano gli antichi atleti, in segno di quella pugna, che coll' arma della croce e' vincerà, e per cui sarà coronato: gli dà il lume acceso, additandogli come debba risplendere nel fuoco di carità quale continuo olocausto al Dio suo. La veste bianca, di che il copre, simboleggia risurrezione e gloria, la bellezza e la purità di questo sacerdozio e di questo reame. Quel sacerdozio, che riceviamo, ci dedica al culto divino, imprimendo in noi questo carattere indelebile di essere persone destinate a servire alla divina gloria eternamente: questo reame ci fornisce di sua grazia, con cui superiamo gli avversarŒ santificando e ricevendo gloria noi stessi. Quella destinazione, o carattere, che al culto di Dio ci consacra, nol possiamo perdere più mai: possiamo però perdere la grazia, che ci mette a parte della gloria e della corona. Ogni Cristiano sarà sempre sacerdote, perchè una volta per sempre al culto divino è sacro: ma perderà la corona di re ricevuta nel Battesimo se strenuamente non combatte. Checchè però abbiamo, l' abbiamo in Cristo, cioè come porzione di suo corpo, perchè unico è il sacerdozio, e unico il regno da lui posseduto, di che ci chiama a parte nel possesso. Ciò s' esprime dalla Chiesa con quella cerimonia del mettere che fa il Sacerdote il lembo della stola sua sopra il fanciullo che battezza, volendo mostrare di coprirlo della stessa veste immortale da sacerdote e da re, di cui Cristo è fornito. Stando in questo regio e sacerdotale ammanto la dignità possibile d' uomo, cui non scemano gli esteriori mali, il Signore nel Battesimo non si curò di torci le umane miserie, mentre nulla con ciò ci avrebbe aggiunto o di grandezza o di nobiltà. Considerati i riti sacri, de' quali la Chiesa accompagna il Battesimo, desiderereste voi forse avere a mano qualche cantico od inno, con cui ringraziare nel giorno anniversario del Battesimo nostro il Signore, e lodare le sue misericordie. Questo ce lo indica Paolo. Egli mostra, scrivendo a' Corinti, che tutte cose avvenivano agli Ebrei in figura delle nostre (1). Ora egli vuole, che noi veggiamo viva rappresentazione del Battesimo nel passaggio dell' Eritreo. Nel Battesimo veniamo battezzati in Gesù Cristo; e per li meriti suoi, mentre l' acqua ci lava il corpo, lo Spirito Santo ci lava l' anima. Cristo adunque era in quel passaggio rappresentato da Mosè, l' acqua dal mare, lo Spirito dalla nube. [...OMISSIS...] E quanto acconcio non è il titolo di mare Rosso a quelle acque battesimali, che la fede vede rosseggiare del sangue di Cristo? e che come gran mare recano salute a tutto il popolo eletto in ogni parte della terra? Per quelle acque, in cui si sommerse l' orgoglioso Faraone, trovò scampo il pellegrino Israello, fuggente la schiavitù d' Egitto verso la terra promessa, come uscimmo noi vivi di quelle acque, nelle quali il demonio e il peccato abbiam seppellito. Perciò quale cantico più accomodato da intonare al giorno anniversario del Battesimo nostro di quel Mosaico, che tutto Israello cantò salvato da' nemici e dalle onde in sulla opposta sponda dell' Eritreo, dopo di sè lasciando tanti orgogliosi nemici affogati? Sì, sì; nello anniversario del nostro Battesimo diciamo anche noi uniti collo spirito a tutti i battezzati della terra: [...OMISSIS...] . E a questo luogo in che tenero tratto profetico non entra il vate ispirato, accennando il deserto che loro rimaneva ancora a percorrere, dopo scampati alle acque, prima di toccare la terra santa? Quanto acconcio è a noi, che scampata nel Battesimo la morte, pure militiamo ancora fra mille rischi, e traendoci per lo deserto di questo mondo dobbiamo arrivare alla patria? Ma dopo ciò a Dio si rivolge nuovamente e prosegue: [...OMISSIS...] . Così Mosè dallo scampo di quel primo pericolo vola a chiedere aiuto all' ultimo passo, che metta in terra sicura e felice: così noi pel Battesimo scampati a principio dalle zanne avversarie, prendiamo occasione di quella prima misericordia a chieder l' estrema, per la quale ha suo prezzo la prima. Or se sì alta canzone degnamente canteremo al mondo, potremo cantarla altresì in Cielo, a grato ricordo delle ottenute grazie divine (1). Dopo avere trattata un po' largamente la virtù, che s' esercita verso Dio, origine e fondamento di tutte virtù cristiane, mi resta a fare alcun cenno delle virtù, che si praticano con sè e cogli altri: delle prime toccherò in questo capo, delle seconde nel capo seguente. Ora le virtù rispetto a se stessi mi parve di raccorle sotto il titolo posto qui sopra del Contegno delle vergini , poichè la bella Verginità, precipua di tutte, dietro a se stessa ne conduce quelle altre, quasi sua bella accompagnatura e corteggio. La verginal purezza, dice s. Agostino (2), per questo dalle Scritture è commendata come pregio altissimo, perchè è divota a Dio; dallo spirito ella debbe nascere; da amore dell' amico e sposo suo: e così, quantunque virtù de' corpi, ella s' eleva a grado di virtù spirituale. Il cuore della Vergine vuole essere sgombro da ogni affetto di terra, odiatore di peccato, e a tutte cose indifferente, fuori che a Dio, che tiene in sè stessa. Non parlo solo di quella Verginità consacrata per voto, ma di quella consacrata per affetto, che a tutte le cristiane donzelle vuole essere comune. Si tenga questa origine della verginal ricchezza, e s' intenderanno i bei costumi della vergine cristiana. Sono pertanto consuetudini e virtù di questo stato illustre e nella Chiesa di Dio onorato la modestia negli atti, e la verecondia così cauta e così dignitosa, che non pure in presenza altrui, ma in sua propria sa arrossire e vergognare; la custodia degli occhi, della lingua, delle orecchie, delle mani, di tutti i sensi, suggellati colla croce di Gesù ad ogni impurità. Bell' esempio è la sposa de' Cantici; le mani di cui stillano mirra, liquore che preserva da corruzione; le labbra sono fasciate con nastro vermiglio, segnacolo di verecondia ne' detti; dimostrano mondezza gli occhi suoi di colomba; negli orecchi i pendenti d' oro son contrassegno di purità; e paragonasi il suo naso a' cedri del Libano, legno incorruttibile (3). Ogni licenza appanna la lucidezza di simile gemma, oscura la bellezza di candore vergineo, e fra gli scherzi umani, dove anche non si perda, difficile è, dice il Salesio, che di questo fregio della castità non ne vada l' ineffabile freschezza ed il fiore. Adunque la Vergine ama il ritiro, e pratica la fuga della umana conversazione: ella teme e trepida ad ogni sentore di pericolo, e questo vergineo trepidare produce la Vigilanza . Stassi la vergine, secondo la similitudine del Vangelo, desta, accinta le reni, e in mano tenente la lampada in aspettando lo sposo. Quel cingolo de' lombi indica la Temperanza, che scema al corpo il fomento della concupiscenza; quell' ardente lucerna dimostra la Carità, che accresce allo spirito forze contro alle lusinghe delle sensibili cose. Quanto il Digiuno non gode di stare colla castità quasi padre o nutricatore! Quanto la Mortificazione non le sta assiduamente da presso come sorella prestatrice di sostegno! Non ama la Vergine nè di vedere nè d' esser veduta, non prende piacere di nessuna cosa di terra: l' abbigliamento delle vesti è netto, ma tutto semplice, dimesso, conformato a sincerità, a gravità, a modestia: non conosce amicizie esclusive, e non conosce o le dolci lettere, o i regaluzzi e le smorfie: da tutto staccata, e in tutto grave, ella pienamente adempie l' apostolico precetto « d' usare così del mondo come se non ne usasse » (1). Di piaceri però non è privata; ma essi traggono da più alta fonte; le discendono dal celeste amico. Spesso si troverà in sua stanza occupata nella orazione, spesso in pie letture, spesso nell' altezza del meditare. Imitatrice degli Angeli in terra vivrà col corpo, e in Cielo collo spirito. Guardiana però e quasi sentinella di questo tesoro verginale, perchè o non si perda egli o non invanisca, si è Umiltà che suole sempre essere a lato della cristiana Verginità. [...OMISSIS...] La vergine del Signore sente la propria infermità; sa che quanto possiede è dono: e come quegli, che riceve doni, ha più a piegarsi e confondersi davanti a lui, che li dona, quanto i doni sono più rari; così del dono stesso della purità ha la vergine donde abbassarsi davanti al Dio suo. Ella sa l' esempio di Maria, in cui la Verginità e l' Umiltà così bella gara faceano, che dubbia restava la prova; sa l' esempio del vergine per eccellenza, di Cristo, che chiama tutti a sè perchè tutti da sè imparino la Mansuetudine e l' Umiltà (3). O anima piamente pudica, non se' mandata ad imparare l' umiltà dal peccatore pubblicano: se' mandata a chi è più innocente di te: se' mandata a chi è più santo, a quello, per cui tu se' santa. Ecco il Vergine esempio de' vergini, cui umile rese non l' ingiustizia ma la carità: quella carità, che « non emula, nè si gonfia, nè cerca le cose proprie » (1). Non può aver ribrezzo d' andarsene la santa vergine ad apprendere da questo l' abbassarsi: è scuola conforme alla dignità sua: qui troverà umiliato l' autore della purità, non pel fascio del peccato, ma per lo peso della carità: davanti a lui vedrà sè stessa spoglia di tutto, se a lui renda quanto da lui ebbe, posseditrice solo di un germe doloroso di corruzione; e da lui imparerà a vestire le stesse immondezze de' fratelli suoi, imparerà ad amare ancora la confusione, il vilipendio, l' affliggimento di quella carne, che allora comincia ad esser buona quando comincia ad essere mortificata per la carità o per la fede: perchè allora luce in lei quella Fortezza, che rende la vergine di Cristo inespugnabile a' nemici, e in tutti i combattimenti invitta. Questa verginità illustre, che fiorisce sulla somiglianza di Cristo, consociata alla Umiltà, è quella di cui, al dire de' Padri, si formavano i martiri, e per cui un' Agnese ed altre tali eroine prima, per dir così, d' esser della vita in possesso, attesa la tenera età, ne' tormenti la prodigarono (2). E` dunque la santa verginità da virtù circondata. Ha la temperanza seco, ha l' orazione, ha seco il santo timore, il pio ritiro, l' incorrotto digiuno, ha la nausea delle cose terrene, il gusto delle celesti, è protetta principalmente dall' umiltà, guernita dalla fortezza, esercitata dalla carità. Non si parla di stretta giustizia a chi crederebbe indegno di sè mancare alla misericordia. Ma di questo amore a' prossimi, che si può dire l' arte stessa o la professione della Vergine di Cristo, qui alcun poco è a parlare, soffermandoci principalmente a considerare di questa carità la PRUDENZA: perchè non sia fatua, ma savia quella vergine, che la esercita. Non parlerò pertanto della carità del prossimo distesamente: troppi ne sono e frequenti i trattati. Ognun sa, che il precetto è questo, che Cristo disse il suo (1); ognun sa la sentenza apostolica, che portare i pesi uno dell' altro è adempiere a tutta la legge cristiana (2). Ci sono dati intorno a questo primo comandamento di Cristo gli esempi, i precetti, le promesse. Di lui ridondano le sacre carte, e ad esse principalmente vi mando. Beete pure a quel fonte della carità, empitevi, inebriatevi. Avete Giovanni a maestro, avete Paolo. Il loro stesso modo di scrivere è eccitamento di amore. Io vi farò considerare pertanto sola una cosa, cioè quello di Paolo stesso: che la carità « si fa tutta a tutti »: ch' ella non si spande solo in eroiche azioni e grand' atti; ma ella si gode e s' intertiene ancora in cose più minute e triviali, nelle più inosservate e neglette, ivi talora giace più grande dove meno apparisce, ivi più sicura ove più nascosta. Ella è saggia, e non opera a caso, ella è sinceramente generosa, e non cerca nè i suoi capricci, nè i suoi piaceri. Voi vedete, che con questa magnanima virtù a lato io vi conduco fuori da quello stesso stanzino, dove nel capo anteriore condotta v' avea all' orazione, e vi faccio uscire in mezzo agli uomini, in mezzo alla società. Sì; se la donzella cristiana ama il ritiro, sa però scegliere quello che meno ama a persuasione della carità. Carità non è solo pascere gli affamati, o vestire i nudi: carità è ancora non dispiacere senza bisogno a nessuno. Non permette la Prudenza della carità che alcuno infranga le relazioni dello stato in cui si trova. E` la fanciulla cristiana in numerosa famiglia? Carità è non vivere a capriccio per seguire una perfezione imaginata: la perfezione è nel vivere a seconda degli altri, nel dispiacere a veruno, piacere a tutti. Carità è accomodarsi di buon volere agli usi innocenti, alle costumanze di quelli fra cui si vive, e fino a' loro gusti, se un dovere nol vieta, e prevenirli ancora con amorevole ingegno. Ma s' io meno vita comune mi conviene omettere molta orazione e molta mortificazione. - Orazione più bella e più grata a Dio è, per non dispiacere altrui, diminuir l' orazione. Mortificazione più meritoria è quella della volontà, che nel vivere comune si fa da colei, che amando più la stanza, sceglie prima l' onesta conversazione. Non dico la cerca, ma la sceglie quando a fare questa scelta attenzione di non ispiacere altrui la conduce, e di non ledere dovere di stato in cui è posta, e di non provocare dicerie. Se questi riguardi della civil carità non vi sono, segua la vita amata dal proprio fervore. - Ma nella vita comune mi dissipo lo spirito, trovo scandali ed occasioni di cadute, nè posso giugnere ad emendarmi. - Conosca adunque tale giovane, che questo non è amore di vita più perfetta, il quale l' attrae dall' esercizio d' una virtù più forte, più virile, più meritoria quale è quella della vita comune, ove la carità de' prossimi è in uso continuo, per non esserne capace, ad una vita più parziale e sequestrata. Non è dunque la perfezione che cerca, mentre la impaurisce una virtù più salda e perfetta. Vuol la vita che ha più nome di perfezione, e lascia la pratica della più perfetta virtù. Di poi, se onesta e pia è la casa della cristiana fanciulla, questa fragilità di solito è colpa, che nella solitudine porterà seco; conviene sradicarla, non metterla sana e salva a dormire, perchè ella ben presto si desta. Se poi la famiglia è un po' mondana, o anche libera, allora il riserbo è un dovere. Ma in ogni caso si fortifichi la cristiana donzella: la disposizione dell' animo, non tanto le occasioni al di fuori, nuoce alla vita. Pure, se in questa fortezza tardi procede, che altra regola le si può dare di suo contegno nell' umano consorzio fuor di quella di Cristo: « Se il tuo occhio ti scandalezza cavalti, e gettal via »? (1). Sì bene; le fanciulle si privino di quanto è loro pericolo d' inciampo. Pur se nel viver comune ed onesto la carità le regge, il Signore non le abbandona; mentre anzi ha loro posti i vincoli che altrui le lega, perchè abbiano esse dei doveri da esercitare, dei meriti da ottenere. - Ma io mi sento chiamata a stato religioso. - E bene: se la vocazione è provata, la ascolti e l' abbracci la pia donzella. Non poniamo a lei ostacolo di scegliere uno stato prima che l' altro; ma vogliamo che dello stato, in cui vive, serbi le leggi. La scelta stessa però di stato migliore non può esser da Dio, se in quella o si preterisce qualche dovere della società, o altri debbe patirne. Non trattenga però la pia giovane un terreno e falso dolore, che vegga in altrui, della sua felice elezione; ma bensì un danno vero e grave, che cagionasse il suo divisamento a quelli, co' quali è per naturali legami congiunta. Ma s' ella non è chiamata al chiostro, dimostri al mondo qual sia la conversazione dell' illibato Cristiano. In questo studi come in bel ramo numerosissimo di fronde, le quali colla spessezza emulano la grandezza degli atti della carità più magnifica. Con questo studio della religione sono nobilitate e rese sante le relazioni ed i mutui offizŒ del viver civile. E qui appunto, giacchè spesso da altri si trapassa, a me sarà caro un poco di fermarmi. Veggiamo dunque le regole colle quali la cristiana legge santifica i costumi, e le maniere sociali, e tutto il conversare degli uomini fra di loro. Dico, che gli uffizŒ del vivere civile, suggeriti agli uomini da natura, possono avere due fonti, cioè il piacer proprio, o l' altrui. Piacevole in vero ci è naturalmente la compagnia; essendo noi alla compagnia degli altri formati da natura; piacevoli ancora nell' uso ci si rendono que' bei tratti, e que' gentili portamenti, e tutte quelle leggiadrie, che usate vengono nelle nobili brigate al mondo. Non parlo, come vedete, di nulla che sia peccato in sè medesimo; intendo sempre qui favellare degli atti indifferenti del vivere, e per sè stessi innocenti. Ora conceduto, che questo trattar compagnevole nella pura teoria potesse al Cristiano piacere riferendone a Dio l' uso, asserisco però a tutta fiducia, che quando il civile convivere si tiene mossi da piacere proprio che se ne senta, allora ne debbe essere per lo meno sospetto. Dobbiamo vedere dentro di noi da che ci venga questo piacere; poichè egli può nascere o da certa sensibile amicizia che si eccita in mezzo a questi affabili modi, o da amore proprio lusingato dell' altrui compitezza e buon garbo, o finalmente da quella ambizioncella, per cui si desidera altrui piacere con doti esteriori o di avvenenza di corpo, o di eleganza di vesti, o di vivacità di parlare. Tutte coteste fonti di diletto sono guaste, o poco nette, e per lo meno non eccedono le propensioni naturali. Sì, ve lo concedo: nulla di questo muova il Cristiano a civiltà, egli sia pure morto al mondo, non ami avere piacere, non che di peccato, ma nè pur di quello che superiore a natura non sia, cioè di Dio. Per quanto si possano fare sottili scuse a simili compiacenze, e porre de' limiti, resterà sempre vero, che il cuore di chi le accoglie non è ancora crocifisso bastevolmente con Cristo, morto a se stesso: ei spera ancora qualche cosa dagli uomini: egli in somma è soffermato quaggiù da amore poco puro, non ha cangiate in sè stesso le inclinazioni naturali con quelle di Cristo. Che se io guardo alle conseguenze di questo umano piacere, ond' uomo è tratto ad affabil contegno, al tutto le veggo disopportabili e ree. Voglio adunque che il pio Cristiano non sia mosso a piacevolezza di vivere cogli altri da gusto umano, e suo proprio, da cui sono mossi gli altri; anzi che egli ogni sensibile amore tolga di sè, ogni vezzo dell' amor proprio, ogni gherminella dell' ambizione. Tutto quello che è nel mondo, dice Giovanni (1), è concupiscenza di occhi, concupiscenza di carne, e superbia di vita. Nulla dunque di questo sia fine al Cristiano, nulla ami di quanto è al mondo, e viva nel mondo senza partecipare del mondo. Così in sulla distruzione d' ogni sensibile umano affetto, in sul distacco da quanto è in terra s' innesti appunto in esso la legittima carità. La « carità », il dirò di bel nuovo, « non cerca quello che è suo » (2). E bene: non conversi con altrui il Cristiano per cagione di proprio piacere; conversi per rendere bello ed onesto piacere agli altri. Or quando onesto è questo piacere, quando legittimo? Varie sono le cose, che altrui possono dar piacere; ora egli è bello ed onesto, se apportiamo piacere colla virtù. Così ci insegnò anche Cristo a vivere cari agli altri: « Splenda la luce vostra in faccia agli uomini, sì che essi la veggano, e ne glorifichino il Padre celeste » (3). La virtù ha veramente una così amabile vista, che tutti, purchè la veggano, non possono se non amarla grandemente e ammirarla. Egli è questo quel bello « Amore figliuolo di Sapienza », di cui parlano le « Scritture », più grazioso assai e leggiadro di quello del mondo (4). E tale è l' ornamento, con cui il Cristiano piace al Cristiano. Lo insegnava alle cristiane donne Pietro, loro l' insegnava Paolo. [...OMISSIS...] Dirà taluno per avventura, che questa bellezza interiore dell' anima raccorrà lode e premio da Dio che la vede, giusto e per noi troppo sufficiente estimatore: ma non dagli uomini. Pure e l' animo tutto pudibondo, e che in tutto ama Dio, ben si dimostra al di fuori. Di qui anzi nasca la virtù della cristiana conversazione. E quale amabilissima e santissima virtù? Una virtù, io dico, che tutti, anche i tristi, saranno costretti di commendare: virtù solida, virtù sincera, virtù consentanea a sè medesima, che di sè non fa mostra, ma in sua propria modestia con più dolce lume risplende, virtù che niente esagera, che niente sprezza, che non giudica, che sopporta, che sa rendere ragione di sè, che studia di non uscire in nulla o meno che può dall' umano vivere pel compatimento dei deboli, che s' occupa in favore d' altrui, e negligenta sè stessa con dignità per soddisfare agli altrui desiderŒ, che fa dei servigi a tutti, sobria, grave, parca nelle parole, niente curiosa, ilare, e non rotta al riso, di nulla sollecita fuorchè di fare sempre contenti quelli co' quali vive anche ne' piccioli comodi della vita; virtù umana, dolce, compassionevole, che evita di prestare altrui occasione di scandalo e di dicerie per loro bene e non perchè ella le tema, che porta le altrui debolezze senza stento e con piacere; virtù in somma, che, essendo tutta in Dio fissa e a Dio raggiunta, con divina saviezza vive cogli uomini in sull' esempio dell' amabile conversazione di Gesù, e, mentre è bastevole ad ogni atto di eroica carità, sa raccorre, come ape ingegnosa, anche dalle più minute e giornaliere circostanze della vita, dolci succhi di carità, e formarne mele soavissimo ad altrui e a sè stessa. Oh quanto non torna amica e cara la santità di quel Cristiano, che, con sè stesso rigido, pensa con ogni dolcezza e benignità degli altri! che ignora per fino i difetti loro, di loro virtù si consola ed edifica, da tutti pronto ad apprendere, tutti ascolta, non ammette prevenzione, vede con facilità il vero ovunque ei sia, e pare che nella bocca degli altri con maggior piacere il trovi che nella propria, sagace in prevedere gli altrui incomodi, destro in toglierli, agli infelici s' unisce compiangendo, a' felici congratulando, sostiene talora senza un segno di noia i più noiosi racconti, e le altrui debolezze, gli altrui torti non saprebbero mutare nel suo volto il cortese, usato sorriso! Tutto semplice, grave, sincero, pieno di un franco e nobile tratto, alle leggi attemprato altrove per noi descritte (1); ei rende, un sì vero Cristiano, amabile agli uomini la nostra virtù. E quale atto maggiore di carità? quale più bell' oggetto della Prudenza, della Carità? (2). Onde quest' è ch' io dico: colla propria virtù dovere il Cristiano piacere altrui; non già cogli ornamenti o colle arti del mondo. Poichè allora veracemente giova piacendo. Insisterà alcuno, che se all' interna ornatura non si aggiungerà un poco degli umani vezzi ed ornamento di vestito, non sarà la cristiana donzella piacevole al mondo. Due cose aggiungerò a risposta: la prima, ch' ella non debbe desiderare, come dicea, d' essere piacevole se non per la virtù, e pe' modi di sua carità; e che colei, la quale in tal modo piace a Dio, piace anche a quelli che sono di Dio. A coloro, cui altro non diletta che il puzzo di carne, debbe abborrire ella di piacere. Allora quanto piace a' tristi, tanto spiace a' buoni. Non s' esercita con quelli carità piacendo, ma loro spiacendo; purchè si spiaccia non per altro che per la virtù, cioè pel monile più ricco e più bello di femmina santa. Avvi però nelle maniere sopra descritte della cristiana conversazione assai cose, a dir vero, che anche i mondani debbono amare e lodare, non solo per quello insuperabile segreto testimonio, che forza d' eterna giustizia astringe le anime umane di dare a virtù; ma perchè quella soave carità è anche tutta umana, e appaga molti naturali affetti e desiderŒ, studiando di renderli contenti in tutto quello che può, e stende una sedula ed amorosa cura fino nelle cose più minute, purchè non contrarie a virtù. Tuttavia essendovi tre modi, pe' quali si può dar piacere agli altri uomini, cioè colla virtù, colle cose per sè indifferenti come sono i fregi del vestire, ed ancora co' peccati, co' peccati si piace a' tristi, colla virtù aDio ed a' buoni, colle cose indifferenti poi alle persone naturali o spirituali mezzanamente. Co' peccati grave male è piacere, colle virtù gran bene: nell' uso delle cose indifferenti poi ha luogo una particolare saviezza per la quale nè si usino perchè si amino, nè si usino di più di quello che giovassero ad edificare, quasi funicelle per le quali attenendosi i deboli salgano mano mano a gustare cose migliori. Ma perchè non si erri in sì difficile affare, questa regola è fermamente a tenere, che in queste tali cose che vanamente piacciono si eviti la sconcezza, non si cerchi la raffinatezza . Questa regola tennero i Santi: e piace leggere come quella santa Edwige duchessa di Polonia, che anche a noi appartiene (1), usando veste troppo logora per amore di povertà, e udendo come a una sorella del monastero ove s' era ritirata quella spiacea, incontanente rispose: Se quest' abito vi spiace, son presta a correggermi del mio fallo , e lo mutò volentieri in un migliore. Carità è in vero evitare quello, che agli occhi non solo de' tristi, ma degli uomini naturali è difforme, per non dar luogo senza bisogno a noia, od occasione di mali parlari; come carità è ancora sfuggire quel ricercato e affettato ornamento che i vani vanamente diletta, perchè e col primo modo si toglie un disgusto come suole la carità, e col secondo si toglie un gusto vano come carità ancor più eccellente costuma. In somma in tai cose non si dia occasione nè di spiacere, nè di piacere a veruno: mentre e l' uno e l' altro è un male. Così la Prudenza della carità ricongiunge quanto puote il più insieme gli uomini, e amandoli tutti a tutto ha riguardo, anche alle loro debolezze, cercando nè di offenderle, nè di fomentarle: ad opportuna occasione poi anzi di toglierle.

Teosofia Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Quest' uso d' adoperare la parola essenza per indicare l' ente sussistente è comune alla filosofia di Platone, e a quella d' Aristotele; e questi lo derivò dalla scola del suo maestro, ma nel suo sistema divenne un imperdonabile abuso, qual non era nel sistema di Platone. Platone s' accorse che le essenze sono immutabili ed estramondiali. Le ridusse, è vero, tutte nell' essenza per sé , che è semplicemente essenza, e non essenza di questo o di quello. Venuto al concetto di questa prima essenza, non potea non accorgersi che la prima essenza s' identifica col suo subietto. Dico, se n' accorse nell' ordine logico, nel quale, se si prende per subietto l' essere , questo si fa identico alla sua essenza [...OMISSIS...] . Ma in quest' ordine logico, quando si prende l' essere come subietto, non si ha per questo un subietto reale, ma un subietto dialettico. Onde le due forme di essere e di essenza si possono permutare a piacere dalla nostra mente. Ma questo non avviene in pari modo dell' essere sussistente, il quale è effettivamente subietto , e però non gli conviene esattamente la parola essenza . Per questo è tollerabile il dire, come Platone, che Dio è l' essenza stessa, invece di dire che l' Essere è Subietto. Ma Aristotele, invece di ridurre le essenze in Dio, le fece rientrare nel mondo, e allora fu altro il linguaggio platonico. Ritenendo egli incautamente l' uso che avea fatto della parola essenza il suo Maestro, pel quale l' essenza era Dio subietto sussistente, estese quella parola a significare tutti i subietti sussistenti nella natura; e cosí depravò e confuse il linguaggio, facendo che una parola la quale non poteva, in qualche modo, convenire se non a Dio solo, a cui l' avea riservata Platone, fosse applicata agli enti finiti, il cui subietto è assolutamente distinto dall' essenza. Conosciuto dunque qual sia l' astratto totale , che è l' ente astratto (lasciando da parte l' individuo vago , che è forma d' astrazione imperfetta la quale si può subordinare allo stesso ente astratto), e conosciuti i tre sommi generi d' astratti parziali, subietto, atto, qualità o essenza terminativa, prima d' investigare le classi minori nelle quali ciascuno di loro si distingue, dobbiamo considerare non già solo ciò che essi ritengono dall' ente, obietto, su cui l' astrazione si esercita, ma ancora ciò che pone in essi la mente coll' atto dell' astrazione; di che ci verrà conosciuta la loro assoluta estensione. Si consideri dunque, che il primo genere è somministrato alla potenza astrattiva dall' ente intero, e gli altri tre dalla costituzione dell' ente, altro il pensiero non mettendovi del suo, fuorché la separazione . Si rammenti dopo ciò, che l' oggetto, come conosciuto, è in balía della facoltà astrattiva. Se non fosse cosí, l' astrazione sarebbe inesplicabile. Se dunque la facoltà astraente divide l' oggetto che nella sua esistenza propria è unito, consegue che ella possa unire altresí le parti divise a quel modo che piú le aggrada. Da questo procede, che i quattro astratti da noi accennati, come sommamente generici, sieno in mano alla mente quali forme mobili applicabili da lei, ad arbitrio, a tutto ciò che cade nel pensiero, e quindi che sieno predicabili universalissimi. Ella dunque può anche dare la forma dell' uno all' altro, e con questa applicazione o congiunzione della forma trasformarli. E in quanto all' ente astratto , non solo può rivestire di questa forma gli altri tre astratti, ma è obbligata a farlo, se vuol concepirli separatamente, poiché nulla può concepire senza che ciò ch' ella concepisce sia concepito come ente, altro non essendo il concepire e l' intendere, che l' apprendere l' ente «( Ideol. , 559, 560) ». Può del pari applicare la forma di atto al subietto. In tal caso il subietto stesso entrerà nel genere degli atti. Può applicare la stessa forma di atto alla qualità od essenza, e anche questa in tal modo entrerà nel genere degli atti. Viceversa, la forma di subietto può essere applicata agli altri due astratti, cioè all' atto, e alla qualità o natura. E questa è l' origine de' subietti dialettici «( Logic. , 419 7 424) ». Finalmente, anche la forma di qualità o essenza si può dalla mente applicare agli altri due generi di astratti. Cosí, se si applica al subietto, questo prende la forma di subiettività , che esprime l' essenza o qualità di subietto; e si applica all' atto, questo prende la forma di attualità , che esprime l' essenza o qualità di atto. Gli astratti primitivi dunque, che servono di tipo agli altri, sono pochi; e supremi sono quelli che hanno l' origine nell' ente stesso in sé, e nella sua costituzione. Ma essendo la mente dotata della facoltà di rivestire gli uni della forma degli altri, da questi diversi rivestimenti i pochi astratti primitivi si moltiplicano, e danno nuove forme di astratti non piú semplici, ma composti. Si domanderà: qual differenza passa tra i quattro astratti massimi, e i predicati, e i predicabili? I predicabili non sono che predicati di predicati «( Logic. , 414 7 416) ». Sono predicati riflessi, che caratterizzano i predicati diretti secondo la loro estensione e la loro comprensione. I predicabili sono dunque predicati astratti da' predicati (1). Ma l' astrazione fatta sui predicati non è un' astrazione fatta sull' ente completo, bensí sopra un solo elemento dell' ente medesimo. In fatti il predicato non esprime che l' essenza terminativa o certamente ciò ch' esso esprime, qualunque cosa sia, lo esprime sotto la forma d' essenza terminativa . Dunque tutti i predicati, e cosí parimente i predicabili, che riducono quelli a sette classi, non sono che una sottodivisione del quarto genere d' astratti, a cui abbiamo imposta la denominazione di qualità, ossia di essenza terminativa. Onde volendosi vedere qual luogo tengano nella tavola degli astratti i predicabili, converrebbe innestarli in essa nel modo seguente: 1) Ente astratto, 2) Subietto, 3) Atto, 4) Essenza Terminativa, la quale, se si divide secondo l' estensione e la comprensione delle idee, ci dà i sette Predicabili: Essenze universalissime, essenza generica, essenza specifica, essenza differenziale, essenza integrale (2), essenza accidentale, essenza reale. Dalle cose dette si raccoglie ancora, che i quattro astratti sono contenenti massimi nell' ordine degli astratti. E veramente, potendo ciascuno di essi venir dalla mente rivestito della forma dell' altro, in virtú di questo travestimento accade, che ciascuno non contiene solamente i generi e le specie d' astratti inferiori a sé, ma contiene anche gli astratti degli altri tre generi con tutte le loro classi inferiori. I quattro sommi generi d' astratti dunque sono contenenti massimi nell' ordine delle astrazioni. Contenenti massimi assolutamente sono le tre forme primitive dell' Essere. Qual' è la relazione tra queste due maniere di contenenti massimi? Primieramente, l' Essere nelle sue tre forme è l' identico ente; e in ciascuna sua forma è contenente massimo assolutamente, per modo che abbraccia ogni entità, e anche reciprocamente se stesso nell' altre due forme. I tre sommi astratti, subietto, atto, ed essenza terminativa sono contenenti massimi delle sole entità astratte, e ciascuno anche degli altri due generi reciprocamente. L' altro sommo astratto, cioè l' ente , non è se non la congiunzione del subietto, dell' atto, e della essenza terminativa nel suo stato d' astrazione, e però è anch' egli contenente massimo delle entità astratte, e de' tre primi astratti, in quanto che la mente può rivestire ogni entità della forma dell' ente. Ma l' ente astratto non contiene anche l' ente sussistente ? Si può dire che lo contenga, secondo il pensare imperfetto della mente umana. Ma è piú vero il contrario: cioè che nell' Ente sussistente è contenuto virtualmente l' ente astratto, e non viceversa. Ma la ragione che fa parere all' uomo il contrario si è questa: che l' ente astratto è concepito dalla mente come oggetto, e l' Ente sussistente soltanto come subietto: ora nella forma oggettiva si contiene veramente la soggettiva. Veniamo ai tre astratti parziali. Nell' Essere sussistente colle tre forme la mente umana concepisce un subietto , un atto , e un' essenza terminativa . La separazione di queste tre cose non c' è nell' essere assoluto, ma la mente ve la pone colla sua facoltà astraente. Ora, con questa separazione la mente ha fatto perdere l' identità al suo oggetto. Egli è chiaro, che la semplice distinzione che la mente fa nell' Essere assoluto dei tre elementi non è quella che ci dia il subietto, l' atto e la forma terminativa d' astrazione massima: ci dà solo il primo subietto, il primo atto, la prima forma terminativa. Non sono dunque le tre forme d' astratti, di cui parlavamo, pure da ogni altra determinazione; ma queste forme si possono cavare con un' altra astrazione, cioè separando nel primo subietto la forma di subietto, da ciò che lo fa il primo tra i subietti; nel primo atto la forma di atto, da ciò che lo fa primo tra gli atti; nella prima forma terminativa la forma d' essenza terminativa, da ciò che la fa la prima tra tali forme. La forma di subietto è la possibilità di un subietto qualunque sussistente; la forma di atto è la possibilità di un atto qualunque sussistente; la forma d' essenza terminativa è la possibilità d' un' essenza terminativa sussistente. Essendo quelle tre forme di astratti tre possibilità, la mente con esse non conosce né un subietto, né un atto, né un' essenza terminativa sussistente. Ma intende, che di tali cose ce ne debbono però essere, perché il possibile non può stare senza il sussistente. Nel concetto dunque di possibilità si racchiude virtualmente il sussistente: in quella si vede la necessità di questo, ancorché questo non si veda attualmente. Questa è una nuova forma della dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori. Abbiamo detto che, se la mente umana distingue semplicemente nell' Ente assoluto i tre elementi subietto, atto ed essenza terminativa , questi non sono ancora le tre forme pure degli astratti. Ma è necessario che aggiungiamo una dichiarazione. Cosí avviene come abbiamo detto, quando, tenendo presente l' oggetto, non facciamo che una distinzione in esso, e però intendiamo che si tratta del subietto dell' Essere assoluto, dell' atto dell' Essere assoluto, della essenza terminativa dell' Essere assoluto. Ma se separiamo intieramente il subietto dall' essenza terminativa, noi non sappiamo piú di che sia subietto. Del pari l' atto, separato da questa si rimane pura forma di atto, e noi non possiamo piú sapere qual sia. Ma avviene egli lo stesso dell' essenza terminativa? Questa, che è appunto quella che determina il subietto e l' atto, dev' essere ella stessa determinata, deve dunque ritenere il carattere dell' ente da cui s' estrae. Supposto dunque che l' astrazione di separazione mentale, e non di semplice distinzione, sia esercitata sull' Essere assoluto, l' essenza terminativa del medesimo che ci rimarrà in mano, dovrà essere cosa divina , ed essendo separata dall' atto e dal subietto, ci rimarrà un concetto virtuale di Dio, quasi un Dio in potenza. Esaminiamo dunque, qual sia quest' essenza terminativa nell' Essere assoluto. Noi troviamo ch' essa non è una sola, ma che ci sono tre essenze terminative, cioè tre termini dell' unico subietto e dell' unico atto divino. E queste sono appunto quelle che, non astratte, si chiamano forme primitive dell' Essere, e si trovano poi (unite coll' identico essere) esser tre persone; e che, astratte, costituiscono le tre categorie, cioè la subiettività, l' oggettività, la moralità. Laonde, coll' astrazione teosofica, la mente trova le due prime forme universalissime degli astratti parziali; la terza forma poi, non la trova unica, ma triplice. E per ridurla a una, è necessario aggiungere un altro atto d' astrazione su queste tre, che non è piú astrazione teosofica, ma astrazione comune di quella specie che possiamo chiamare elementare, che è astrazione d' astrazione. Ora, qual cosa le tre categorie hanno di comune, che da esse si possa astrarre? Nulla, fuori del loro inizio, che è l' essere , il quale contiene virtualmente le tre forme. Questa qualità comune dunque delle tre forme, di esser essere, dicesi essenza, che rispetto ad esse è iniziale, ma rispetto al subietto, o all' atto, è terminativa. Possiamo ora delineare la seguente tavola, che rappresenta l' ordine de' primi astratti. TAVOLA DE' PRIMI ASTRATTI Forma dell' astratto totale, Ente. Prima forma degli astratti parziali, subietto puro. Seconda forma degli astratti parziali, atto puro. Terza forma degli astratti parziali, qualità o essenza terminativa: (Essere, nel senso d' essenza); A. Categoria della subiettività; B. Categoria dell' obbiettività; C. Categoria della moralità. Ma qui si affaccia una difficoltà necessaria a discutersi per istabilire chiaramente qual relazione passi tra gli astratti massimi, e le categorie che sono pure contenenti massimi. Le categorie non contengono tutto? Come dunque si fanno esse una parte in questa classificazione, e come rimane fuori di esse il subietto e l' atto, ed esse vengono dopo questi? Rispondiamo che come nell' Essere assoluto si distingue per astrazione l' essere dalle sue forme , cosí in qualunque oggetto della mente si dee distinguere l' entità pensata, che corrisponde al principium quod degli Scolastici, dalla forma nella quale si pensa, che corrisponde al principium quo de' medesimi. Ora la classificazione degli astratti è la classificazione dell' entità pensata, e se in essa s' annoverano anche le forme categoriche, è perché anch' esse si considerano come entità pensate . Che se poi si vuol considerare la forma con cui tutte quelle entità si pensano, ella è sempre la medesima, cioè l' oggettiva che costituisce la seconda categoria. La categoria quindi dell' oggettività, presa come forma con cui si pensa , e non come entità pensata , contiene tutta quella classificazione, e contiene anche se stessa come entità pensata. Laonde, se il pensiero astratto si dovesse rappresentare con una figura, nella quale si vedesse espresso tanto la forma categorica del pensiero quanto le entità astratte in essa contenute, si dovrebbe disegnare la forma categorica dell' oggettività, che contiene in ispecie le entità astratte, colla figura d' un circolo, dentro al quale si trovassero gli astratti distribuiti organicamente come noi abbiamo fatto. Primieramente, il lume della ragione non è un astratto fatto dall' uomo «( Psicol. , 1321) ». In secondo luogo, esso è un contenente massimo, altramente non potrebbe essere un lume atto a far conoscere tutte le cose «( Psicol. , 1376) ». In terzo luogo, è un atto primo «( Psicol. , 1350 7 1356) »; e quest' atto primo è puro atto , senza principio e senza fine, cioè senza subietto e senza essenza terminativa «( Logic. , 354) ». Esso è veduto dall' anima in un modo oggettivo, e per esprimere questo modo con cui è veduto, gli si dà l' appellazione d' essere ideale . Essendo dunque privo di subietto e d' essenza terminativa, ha natura d' astratto, ma non d' astratto che sia fatto dall' uomo, bensí d' astratto che, bell' e formato, è dato all' uomo da Dio. Ora, gli astratti sono le forme intellegibili in balía della mente che può applicarli a tutto ciò che vuole. La sintesi, ossia l' unione del subietto, dell' atto e dell' essenza terminativa, ricostruisce l' ente disciolto coll' astrazione. L' essenza terminativa è quella che determina la natura dell' ente. Se l' essenza terminativa è la subiettività, s' avrà un ente subiettivo; se l' essenza terminativa è l' obiettività, s' avrà un ente oggettivo, quali sono le idee. Se poi l' essenza terminativa sarà ad un tempo la subiettività e l' oggettività, s' avrà un ente subiettivo intelligente; se l' essenza terminativa sarà ad un tempo la subiettività, l' oggettività e la moralità, s' avrà un ente subiettivo intelligente e morale. La mente dunque, possedendo solo quest' astratto, ha in esso il mezzo formale da conoscere tutti gli astratti e tutti gli enti sussistenti, appunto perché ha un contenente massimo. Avendo poi veduto che le somme relazioni nascono dall' essere nelle sue tre forme, le quali prese astrattamente sono le categorie, e che queste, non altrimenti che l' essere e l' ente considerato come essenza terminativa, appartengono alla terza forma d' astratti, ne consegue, che anche le tre somme relazioni appartengono alla terza forma o genere supremo d' astratti parziali, cioè alla essenza terminativa. E in fatti le tre relazioni supreme abbiamo detto essere l' essenza, la verità, la bontà. Ora l' essenza è il quarto genere sommo degli astratti. La verità è una relazione dell' obiettività col subietto intelligente, astrazione fatta da questo subietto, e però a questa appartiene. La bontà è la moralità, astrazione fatta, di nuovo, dal subietto. Il subietto reale è un subietto che esiste in sé, a cui perciò compete la sussistenza; il subietto astratto e il subietto dialettico non esistono che in relazione alla mente, contenuti nel puro oggetto della mente stessa. Perciò il subietto reale non può essere conosciuto come un puro obietto della mente; acciocché il subietto intelligente lo conosca, non basta che riguardi nell' oggetto, ma oltrecciò dee fare un atto d' affermazione, che abbia per termine l' atto con cui il subietto esiste in sé. Il subietto astratto puro differisce poi dal subietto dialettico in questo, che nel subietto astratto puro si contiene virtualmente tutto ciò che può appartenere non solo al subietto dialettico, ma anco al subietto reale. Il subietto astratto puro è dunque un subietto perfetto, ma virtuale. Il subietto dialettico all' incontro non racchiude già, né pure virtualmente, tutte le condizioni d' un subietto perfetto e reale, ma ne esclude alcune. Il subietto dialettico si forma dalla mente, quando questa applica la forma astratta della subiettività a qualche cosa che non è subietto in sé (1). Dalle cose dette risulta, che i sommi generi dei subietti dialettici non possono essere che sei. Poiché questi non sono altro, se non gli astratti che non sieno già da sé subietti, rivestiti dalla mente della forma di subietto. Ora gli astratti massimi, escluso il subietto puro, sono sei, come abbiamo veduto, cioè l' ente, l' atto, l' essenza e le tre categorie. Sei sono di conseguente anche i sommi generi de' subietti dialettici, che servono a tipi di tutti i subietti dialettici. Che se poi si considera, che le tre categorie non differiscono quanto alla forma dialettica da quella dell' essenza terminativa, i sommi generi dei subietti dialettici si devono ridurre a tre, ente, atto ed essenza terminativa presi nel discorso come subietto delle proposizioni. L' ente astratto, come abbiamo detto, può considerarsi come ente per essenza , cioè tale che racchiude tutta la ragione di ente, benché implicitamente; e questo non può esserci dato che dall' astrazione teosofica . E può considerarsi come ente comunissimo che si predica ugualmente d' ogni ente, anche di quelli che non hanno la ragione perfetta di enti; e questo è dato dall' astrazione comune , che in relazione alla prima può dirsi astrazione d' astrazione. Preso l' ente astratto in questo secondo modo, egli non solo s' applica dalla mente a quelli enti che non hanno la piena ragione di enti, come sono tutti i finiti sussistenti, ma ancora a quelli che non sono enti per niun modo, mancando loro ogni ragione di ente, come agli elementi astratti degli enti stessi: e allora questi si dicono enti dialettici. Tutti tre gli elementi dell' ente sono necessari all' ente. Quando dunque l' ente si divide nei tre elementi, questi, cosí separati, non si possono concepire se non supponendoli enti, poiché nulla è concepibile che non sia ente, o non sia rivestito dalla forma dell' ente. Quanti perciò sono gli elementi dell' ente, potendosi tutti rivestire della forma astratta dell' ente, altrettanti sono gli enti dialettici. Come enti dunque, e però come oggetti , appariscono alla mente che li considera a parte, il subietto, l' atto e l' essenza terminativa; e poiché l' essenza terminativa di prima astrazione e d' astrazione teosofica è triplice, cosí anche le tre categorie si concepiscono dalla mente come enti dialettici, ed oggetti. Ora, l' ente puramente dialettico si può anche dire non ente, perché effettivamente egli non è ente, ma sí un elemento dell' ente, a cui la mente ebbe imposta la veste astratta dell' ente. La forma poi dell' ente può essere predicata anche dei negativi, di cui parleremo poscia. Si domanderà perché abbiamo distinti tre soli generi di subietti dialettici (dei positivi), e abbiamo invece distinti sei generi di enti dialettici. La ragione è la seguente. Riguardo ai subietti i generi sono costituiti dalla forma astratta di subietto; onde i generi di tali subietti si devono prendere dal genere di astratti a cui s' applica la forma di subietti, e poiché le tre categorie hanno la stessa forma astratta d' essenza terminativa, perciò esse non costituiscono subietti dialettici separati. Riguardo all' ente all' opposto, esso trova in tutti i sei astratti un elemento identico con se stesso, ma questo varia in tutti i sei astratti, e anche nelle forme categoriche; onde questa differenza, che si replica sei volte, deve costituire sei generi d' enti dialettici. L' atto che possiede la piena ragione di atto è l' atto primo, perché l' atto secondo non è pienamente atto, ma è atto solamente in virtú del primo, onde la natura di atto non l' ha per sé, ma dipendentemente da altro. L' atto che possiede questa piena ragione è quello dell' essere, che è primo. Qualunque cosa dunque si concepisca, si dee concepire come atto di essere, altramente non si concepirebbe, perché il secondo non si può concepire senza il primo. Concependosi dunque sette astratti, cioè l' ente, il subietto, l' atto, l' essenza terminativa e le tre categorie, sette generi d' atti si devono concepire, cioè l' atto puro e l' atto in sei modi parzialmente determinato. Questi sono virtualmente compresi in quello. Ora, essi non sono già semplicemente qualche cosa diversa dall' atto, la quale si rivesta della forma dell' atto, come straniera ad essa, nel qual caso si dovrebbero chiamare atti dialettici; ma sono atti propriamente essi stessi, e però non si debbono dire atti dialettici, bensí atti veri. Ma questi veri atti differiscono dall' atto puro, perché, oltre al concetto di atto, hanno in sé qualche altro concetto che riferito a quello di atto, gli aggiunge qualche determinazione, sebbene, trattandosi di astratti che si prendono singolarmente, niuno lo determini a pieno. Per intendere meglio come la cosa sia, si consideri di novo, che l' atto puro , quale sommo astratto, si può prendere in due modi: 1) o come atto primo che ha la piena ragione di atto; 2) o come atto comune , predicato d' ogni atto anche imperfetto. Se i sei atti si paragonano all' atto primo (essere iniziale), essi non sono che una continuazione del medesimo, e cosí non sono atti, ma sí determinazioni astratte dell' atto primo. Se poi si considerano in relazione all' atto comune , questo si predica ugualmente di tutti, e però si considerano come altrettanti generi d' atti, la cui differenza consiste nell' essere la continuazione dell' atto primo giusta diversi elementi dell' ente. Altro è il concetto della mente, quando questa considera l' atto primo in se stesso, il qual concetto altro non è che l' essere iniziale; ed altro è il concetto, quando ella considera l' atto primo nell' ente . L' atto primo nell' ente è il subietto stesso, è « ciò che nell' ente si ravvisa di primo, contenente, e causa d' unità ». Essendo diversi gli enti, l' atto primo proprio di ciascun ente è diverso, come sono diversi i subietti de' diversi enti. Ora, in tutti gli enti finiti, l' atto primo loro proprio non è l' atto primo astratto: perché questo è l' essere iniziale , e l' essere iniziale è atto primo universale e antecede all' atto primo proprio, che è il subietto ed appartiene alla categoria della subiettività e non è l' essere, ma il reale. Laonde, non solo l' atto come astratto comune , ma anche l' atto primo astratto è universale, e non proprio di alcun ente finito. Ma quest' atto primo astratto è forse proprio dell' ente infinito? Né pure: poiché come atto primo dell' ente infinito non si può considerare se non il subietto infinito . Se però in questo subietto infinito si separa coll' astrazione teosofica il concetto di atto primo dal concetto di subietto , si ha cosí formato l' atto primo astratto , che, come dicevamo, è l' essere iniziale , il quale è un atto subiettivo che si vede però dalla mente nell' oggetto, come l' entità nell' idea. Dopo aver noi parlato dell' ente astratto, del subietto astratto e dell' atto astratto, dobbiamo parlare dell' essenza terminativa. Ora, questa è positiva e negativa. Ma l' essenza negativa non appartiene al genere sommo, come quella che si forma dalla mente posteriormente: tuttavolta allo stesso genere si riduce. Infatti il negativo si riduce al genere del positivo, perché, altro non aggiungendosi che la negazione, conserva il concetto fondamentale del genere. Il negativo non aggiunge altro, fuorché la negazione che fa la mente, e non pone una differenza nel genere. E questo spiega la parola filosofica di riduzione . Quando pertanto un genere conserva il concetto da cui esso è formato, e la mente v' aggiunge qualunque operazione che non restringe punto il genere stesso, allora l' oggetto che risulta da una tale operazione non è un genere novo, ma si riduce nello stesso genere. Parliamo dunque prima delle essenze negative, e poi delle positive, e de' generi subordinati. L' astratto positivo può essere oggetto della semplice facoltà d' intuire, purché l' astratto sia dato alla mente bell' e formato; e quest' è quello che avviene coll' essere puro. Ma qualora l' uomo stesso debba produrre a sé gli astratti, allora non gli basta l' intuire, ma egli deve prodursi l' oggetto, e però l' operazione dell' astrazione o deve essere preceduta dall' affermazione, o deve intervenire questa facoltà dell' affermare nella stessa operazione colla quale si produce l' astratto. L' astratto si riveste sempre della forma dell' ente, e ogni rivestimento di forme astratte implica una specie d' affermazione e di predicazione. Questa è dunque necessaria nella formazione di tutti gli astratti negativi, sí perché nascono dal paragone e dalla sottrazione «( Logic. , 656 7 672) », e sí perché cosa sottratta equivale a dire cosa negata, e sí finalmente perché questa cosa sottratta o negata si dee rivestire della forma dell' ente, acciocché diventi un oggetto della mente. Negare poi ed affermare appartengono alla stessa facoltà, e si raccolgono entrambi nel significato del verbo predicare . L' oggetto negativo dunque si può definire, in quant' è negativo: « una entità che non è », e in quant' è oggetto della cognizione: « un' entità negata ». Ora, « un' entità che non è », non è un' entità, ma nulla. Ma poiché in questa definizione, « un' entità che non è », la parola entità rimane indefinita, ed essa significa qualche cosa dell' ente, perciò può avvenire che « il non essere una data entità »non tolga che fuori di essa entità negata ci sia qualche cosa, a cui quell' entità apparterrebbe se ci fosse. Infatti ci hanno entità appartenenti ad un subietto, il quale rimane ancorché le dette entità non ci sieno, come accade dell' entità accidentali. In tal caso « l' entità che non è »non si può considerare dalla mente in separato dal subietto ma sí in relazione col medesimo, ossia ha la natura di predicato che si nega d' un subietto. Ma poiché le quattro forme astratte sono in balía della mente, che può rivestire di esse tutto ciò che in qualunque modo concepisce, perciò anche il negativo può comparire rivestito di ciascuna di quelle quattro forme, cioè può pensarsi come ente, come subietto, come atto e come essenza terminativa, e può anche essere rivestito della forma affermativa , del quale rivestimento fa grand' uso l' Algebra. Pure abbiamo veduto altra cosa essere che un' entità possa esser rivestita d' una di quelle quattro forme astratte, altra cosa, che ella stessa la abbia in proprio per sua natura. Rimane dunque a cercare quali siano le forme o la forma propria del negativo astratto. Importando ogni negativo conosciuto dalla mente una negazione, cioè essendo « una entità negata », questa non può essere, che un predicabile. Tale è dunque la sua forma propria: « non un predicabile già predicato, che è posteriore, ma un predicabile nel suo senso proprio di esser atto a predicarsi, il che è appunto l' essenza terminativa ». La forma propria dunque de' negativi astratti non è che una, ed è la quarta; onde i negativi non danno una forma astratta di piú, ma sono un genere d' astratti subordinato al quarto dei generi sommi. L' astratto negativo da sé considerato è nulla: rispetto poi alla mente è un negato, cioè il prodotto della negazione. Ma il prodotto della negazione ha sempre la forma d' essenza terminativa che suppone avanti di sé il subietto di cui ella si può negare, e l' atto di questo subietto: non ritiene dunque, che l' ultima parte dell' ente, l' essenza terminativa. Se ora noi vogliamo investigare i generi piú estesi delle essenze negative, converrà che prendiamo la tavola delle essenze positive, e che le applichiamo la negazione. Questa ci dà cinque generi sommi, due appartenenti all' essere, che sono l' entità e l' attualità , e tre appartenenti alle forme dell' essere, che sono la subiettività , l' obiettività e la moralità . Cinque sono dunque del pari i sommi generi delle essenze negative: l' entità negata, l' attualità negata, la subiettività negata, l' obiettività negata, la moralità negata. Ora, poiché ogni essenza affermata o negata si riferisce ad un subietto, a quella maniera che varia il subietto, varia pure il valore della negazione. Cosí, ogni qual volta il subietto di cui si nega è identico alla cosa negata, si ha il concetto del nulla assoluto; hassi sempre il nulla, se si nega l' entità dell' entità, l' attualità dell' attualità, la subiettività della subiettività, ecc.; di maniera che in cinque modi generici si può formare dalla mente il concetto del nulla assoluto. Conviene dunque osservare la relazione tra la natura del subietto di cui si nega, e la natura dell' essenza negata, poiché questa relazione vien variando, e varia con lei anche il prodotto della cosa negata. 1) Se la relazione tra il subietto e l' essenza di lui negata è tale, che la natura di quello escluda quest' essenza, il prodotto prende la forma di limitazione naturale . La limitazione naturale è ciò che un subietto giusta la sua natura non ammette. Ma non sempre quello che si presenta sotto forma di limitazione naturale è vera limitazione . a ) Se la natura dell' essenza che si nega è assolutamente una perfezione, allora c' è una vera limitazione. b ) Se l' essenza che si nega è una quantità della quale il subietto, di cui vien negata, può partecipare piú o meno, senza che perciò si perfezioni la stessa natura del subietto, la negazione dà ancora una limitazione. c ) Se l' essenza che si nega non è assolutamente una perfezione, ma essendo una perfezione relativa ad un altro subietto, non è una perfezione né un aumento pel subietto del quale si nega, anzi per lui sarebbe un' imperfezione; allora la negazione dà un prodotto che ha forma dialettica di limitazione, ma che non è tale, esprimendo in quella vece la rimozione d' una limitazione, e una perfezione del subietto. Cosí, negandosi di Dio le perfezioni limitate delle creature, Egli veramente non si limita, ma in quella vece si dimostra di natura illimitata. Il negare dunque del subietto ciò che è inferiore alla natura del subietto non è un limitarlo, ma un ingrandirlo; benché la forma dialettica sia quella della negazione e della limitazione. d ) E cosí pure, se l' essenza che si nega d' un subietto è negativa, si ha una negazione di negazione, che equivale ad asserire di lui la stessa essenza presa positivamente. E` dunque una limitazione apparente e puramente dialettica. 2) Qualora la relazione tra il subietto della negazione, e l' essenza che di lui si nega sia tale, che questa non venga esclusa dalla natura del subietto, ma non formi la sua essenza specifica, e formi invece qualche suo compimento che, come tale, è richiesto dalla natura del subietto; allora il prodotto della negazione importa privazione . E questa è di piú maniere, le quali si riducono a questi due sommi generi: 1) Privazione d' un' essenza integrale; 2) Privazione d' un' essenza accidentale. Tanto poi l' essenza integrale , quanto l' accidentale , che si nega, può appartenere alla categoria della realità, o a quella dell' obbiettività, o a quella della moralità. Le essenze terminative dunque sono predicabili nel senso proprio di questa parola: non sono ancora predicate d' alcun subietto. Quando poi sono predicate, cangiano forma, cioè prendono quella d' astratti che abbiamo chiamata il comune . Questa forma è posteriore, e però il predicato, in ordine alla sua formazione, è posteriore al predicabile; il predicabile è separato dal subietto e dall' atto del subietto, il predicato è solo distinto . Diciamo qualche cosa di ciascuno dei cinque sommi generi delle essenze terminative. Entità è il nome del predicabile, ente il nome del predicato corrispondente, che è l' entità predicata. Colla predicazione dunque si dà ad un subietto la forma dialettica di ente. Ma la forma dialettica non è sempre la forma propria del subietto stesso; perciò l' ente in sé considerato si distingue dall' ente dialettico . Considerar l' ente in sé, è considerarlo coll' intelligenza necessaria, la quale non ha in sua balía l' oggetto, appunto perché questo è l' ente tal quale è; rivestir l' ente d' una forma dialettica che non gli è propria, è opera dell' intelligenza libera, alla quale spetta l' ente in quant' è da lei riguardato, ed ella come tale può spezzarlo, e prendere questi spezzati come forme da riporre dove vuole, perché sono sue produzioni e stanno in suo pieno dominio. Ora, degli enti dialettici abbiamo già veduto quali sieno le sei prime e supreme classi, a cui si devono aggiungere tutti i negativi che presi insieme costituiscono una settima classe; parliamo dunque dell' entità applicata a quello che è ente in sé considerato. L' ente in sé considerato ha quattro generi che sono: 1) l' ente astratto; 2) l' ente come subietto; 3) l' ente come obietto; 4) l' ente come santo. L' ente è astratto ogni qual volta gli manchi l' esistenza subiettiva; a cui consegue che manchi sempre l' esistenza morale. Quindi tutte le maniere di enti astratti, hanno questo carattere comune, che è la mancanza dell' esistenza subiettiva, e conseguentemente della morale. Differiscono poi secondo il grado dell' astrazione maggiore o minore. La massima astrazione è quando si pensa l' ente, e però si pensa subietto, atto, ed essenza terminativa che sono i suoi elementi, ma questi tre elementi si lasciano nella massima indeterminazione. La minima astrazione è quando si considera l' ente risultante da quei tre elementi determinati fino alla specie piena e pienissima. Quest' ente astratto di minima astrazione è quello che può essere realizzato, perché non gli manca altro che l' esistenza subiettiva. Mediante questa maniera d' astrazione, che, quando è fatta dall' uomo si chiama piú propriamente universalizzazione «( Ideol. , 490 7 504) », Iddio creò il mondo. L' ente non è una essenza terminativa, perché abbraccia tutti tre gli elementi dell' ente; ma egli si riveste dalla mente della forma di essenza terminativa, e cosí diventa l' entità . L' atto astratto non è né pur esso un' essenza terminativa; ma dalla mente è rivestito di questa forma, e diventa l' attualità . Nemmeno il subietto astratto è di sua natura un' essenza terminativa; ma la mente lo riveste della forma terminativa, ond' esso diventa la subiettività . Rimane, dunque, che abbiamo natura d' essenze terminative le sole due dell' obiettività e della moralità . L' atto dunque ha forma propria, e l' attualità è forma sopravvestita, e però quest' ultima parola esprime un concetto posteriore a quello che viene espresso dalla parola atto . L' atto astratto si concepisce come medio tra il subietto e l' essenza terminativa; ma nella sua esistenza reale l' atto non può stare senza il subietto che lo preceda e senza l' essenza in cui termini. Il subietto n' è anzi il principio, e l' essenza qualitativa, il termine. Quindi è che il subietto e del pari l' essenza terminativa non si può pensare senza l' atto. Se leviamo ogni atto scompare anche il subietto e l' essenza qualitativa. Quindi il concetto astratto di subietto è quello d' un atto iniziale, e il concetto astratto dell' essenza qualitativa è quello d' un atto finale. Questi tre atti astratti costituiscono un atto solo nella realità, e quest' atto solo è l' ente in quant' è uno. Quindi procede che non si danno atti dialettici , fuorché i negativi che si concepiscono vestiti della forma dell' ente , e quindi anche dell' atto . In ciò l' atto astratto differisce dall' ente e dal subietto ; poiché si danno de' subietti e degli enti dialettici laddove non si può pensare cosa alcuna di positivo che non sia vero atto, almeno iniziale o finale. Si devono dunque distinguere gli atti in positivi , e in negativi che sono atti dialettici. Di poi i positivi si possono distinguere ne' tre generi d' atti iniziali , d' atti medŒ e d' atti ultimativi . Gli atti iniziali hanno sempre natura di subietto o vero, o dialettico. Gli atti ultimativi hanno natura d' essenza terminativa . Gli atti medŒ hanno la pura e semplice natura di atto . Ora il subietto , fino a che è astratto e separato colla mente dal suo atto e dall' essenza terminativa, non è un subietto compiuto. Qualora dunque si prende un subietto astratto, e di lui si predicano atti reali ed essenze terminative reali, quel subietto astratto diventa un subietto dialettico, e non è piú un vero subietto. Questo appunto è il caso dell' essere , oggetto dell' intuito. Egli è l' atto iniziale di tutti gli enti. Quando si prende per subietto di tutte le idee, egli è loro subietto in sé, quantunque sempre subietto incompleto, perché astratto. Ma quando si prende per subietto di tutti gli enti sussistenti, egli non è piú che un subietto dialettico. Da questa sua relazione colle cose, abbiamo veduto nascere il sistema dell' identità dialettica . Che cosa dunque fa la mente quand' ella considera l' essere iniziale come subietto universale? Ella ha coll' astrazione diviso il subietto intero, il quale è sussistente, e si è riservata il solo iniziamento del detto subietto, cioè l' atto iniziale, e quest' atto iniziale l' ha considerato quasi fosse egli stesso subietto dell' atto medio e dell' atto ultimativo, da lui divisi. Ora, posciaché l' atto assolutamente iniziale è necessariamente il primo concepibile dalla mente, perciò quell' astratto che ha natura di primo concepibile, ella poté assumerlo come subietto universale di tutte le cose. Ma tutto questo rimane nel mondo dell' astrazione, ossia dell' intelligenza libera. Che se la mente volesse trasportare un tale subietto nell' ordine delle realità dichiarandolo sussistente, contraddirebbe a se stessa, perché dichiarerebbe reale quel subietto ch' ella stessa ha tratto dal reale e reso spoglio d' ogni realità; e frutto di cosí grossolana contraddizione sarebbe il panteismo. La mente dunque, che concepisce l' atto iniziale come subietto, può aggiungergli l' atto e l' essenza terminativa, e cosí integrarlo. Se questa essenza terminativa non fa altro che integrare il subietto astratto, riducendolo a subietto completo, dicesi subiettività . In questo modo la subiettività si considera come una forma dell' essere , uno de' suoi tre termini, termini che nell' Essere assoluto s' immedesimano coll' essere, ma che tuttavia l' intelligenza libera, mediante la sua facoltà astrattiva, può dividere, considerando l' essere a parte come atto iniziale, ossia subietto astratto di quelle tre forme. Che cosa vuol dunque dire « predicarsi l' attualità d' un subietto »? Vuol dire attribuirsi ad un subietto il suo atto medio . Ma poiché il subietto, di cui si predica, può variare senza fine, perciò anche l' atto medio , che si predica di lui, acquista diversi valori. Diversi valori ancora acquista l' attualità predicata, secondo l' essenza terminativa diversa che ne determina la qualità. Onde lo stesso atto medio, e la stessa essenza terminativa può comparir vestita della forma dialettica di subietto, il cui atto medio sarà uno degli altri due elementi vestito d' atto medio. Questo sopravvestimento di forme dialettiche è dunque quello che implica e moltiplica all' infinito il numero delle proposizioni, e può facilmente confondere il raziocinio, e dar luogo alla sofistica. Si può cercare finalmente quale sia il nesso dell' atto medio, considerato in se stesso, col subietto e coll' essenza terminativa. Questo nesso è doppio: 1) d' identità; 2) di diversità. Il nesso d' identità interviene allorché, quantunque nell' ordine dell' astrazione si distingua l' atto medio da' due suoi estremi, tuttavia nell' ordine degli oggetti in sé non havvi nulla che ne possa segnare una distinzione. Il nesso di diversità c' è allorquando nell' oggetto in sé esiste qualche cosa che distingue l' atto medio da' suoi estremi. « Ogni qualvolta ciò che si concepisce come atto medio, e come essenza terminativa che lo determina, non è essenziale al subietto, l' atto medio si distingue, in sé considerato, dal medesimo subietto ». « Ogni qual volta, per lo contrario, ciò che si concepisce come atto medio, e come essenza terminativa che lo determina, è essenziale al subietto, non si distingue se non astrattamente dal subietto ». Da questo si scorge che tre sono i casi nei quali non c' è distinzione tra il subietto e l' atto; e sono i seguenti: 1) L' atto dell' essere iniziale è identico coll' essere iniziale preso come subietto. L' essere iniziale è un subietto astratto, spogliato d' ogni essenza terminativa, lasciatogli solo l' atto primo astratto. La distinzione è puramente mentale. Quest' atto poi, che è l' essere stesso, è essenziale, appunto perché è lui stesso. E cosí vedesi che l' atto adegua tutta l' estensione del subietto. 2) L' Essere assoluto, Dio, non ammette nessuna distinzione in sé di subietto e di atto; perché all' Essere assoluto è essenziale l' atto, e questo tanto esteso quanto lo stesso subietto. Se qui si pensa dunque una distinzione, questa non ha fondamento nell' oggetto in sé, ma è l' opera della mente libera che gli applica le due forme concettuali di subietto e di atto. 3) L' atto come subietto non ammette distinzione in sé dal suo atto, perché è l' atto stesso che ne costituisce l' essenza e la forma terminativa adeguata ed identica. E` dunque la mente libera, che applicando piú forme astratte ad un subietto identico e semplicissimo, può moltiplicarlo rispetto a sé, senza che egli perciò sia molteplice in se stesso; il che si dice « distinzione di puro concetto ». Tutte le proposizioni perfettamente identiche si riducono a questo caso. Abbiamo veduto che col pensiero astratto dell' ente, « si pensa l' ente, ma non si pensa qual subietto abbia quest' ente, qual atto, qual essenza terminativa ». Il subietto dunque che si pensa nell' ente astratto è il subietto astratto, non nel senso che sia il primo subietto, ma nel senso che sia subietto comunissimo . L' atto che si pensa nell' ente astratto non è l' atto assolutamente primo, ma l' atto comunissimo . L' essenza terminativa, è l' essenza comunissima , che è un astratto di seconda astrazione. Quindi avviene, che dell' ente astratto si possono predicare le essenze terminative di prima astrazione , che relativamente all' essenza comunissima hanno natura di determinazione. Le essenze terminative di prima astrazione, sono le tre forme categoriche dell' essere, la prima delle quali è la subiettività . Laonde, quantunque la subiettività considerata nell' ente sussistente non abbia altra forma che quella di subietto, tuttavia considerata in relazione coll' ente astratto preso come subietto, si predica di lui dalla mente come essenza terminativa . Che se, invece, noi consideriamo la relazione che essa ha coll' essere iniziale , noi troviamo che col predicare la subiettività dell' essere iniziale non si predica già una determinazione dell' essenza comunissima , ma si predica di questo una delle tre essenze terminative d' immediata astrazione. Cosí, si congiunge un' essenza terminativa all' essere iniziale, che prima non ne aveva nessuna. Prendendo dunque di novo un subietto astratto qual' è l' essere iniziale, la subiettività in relazione al medesimo tiene veramente la forma d' essenza terminativa. La subiettività quindi ha forma d' essenza terminativa solo in relazione con due subietti astratti e dialettici, cioè coll' ente astratto , e coll' essere iniziale . La subiettività poi si può considerare come essenza terminativa, ossia predicabile, di tali subietti in due maniere: cioè o per via d' un giudizio analitico , o per via d' un giudizio sintetico «( Ideol. , 342) ». Il giudizio analitico non aggiunge nulla al subietto della proposizione, ma solo lo spezza e lo spiega. In questo modo, d' ogni entità si può predicare la subiettività. La percezione all' incontro è un giudizio sintetico, che, come abbiam detto, si può anche chiamare giustamente a priori «( Ideol. , 350 n. ; 356 7 360) ». I giudizŒ sintetici sono di tre generi: 1) le percezioni; 2) quelli con cui si trovano le relazioni tra piú subietti; 3) quelli coi quali la mente riveste d' una forma dialettica un oggetto di cui quella forma non è propria. Il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di primo genere, si toglie dal sentimento reale; il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di secondo genere si toglie dall' ordine dell' essere che si manifesta alla mente quando ella confronta piú concetti; il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di terzo genere, è prodotto dalla intelligenza libera. Di qui avviene, che la subiettività non si può predicare dell' ente e dell' essere con un giudizio sintetico , fuorché per via di percezione. Se non che, la percezione è sempre dei reali. Onde la subiettività che si predica dell' essere iniziale e dell' ente astratto con giudizio sintetico è sempre l' essenza terminativa reale . E` facile argomentare, che la subiettività si può intendere in due significati: 1) in un senso comunissimo , che conviene ad ogni proposizione nella quale si predichi la subiettività di qualunque subietto, e con qualunque giudizio, sia analitico o sia sintetico; 2) in un senso meno comune. Di qui i quattro generi sommi della subiettività: 1) La subiettività indeterminata o comunissima. 2) La subiettività formale che è la pura forma di subiettività. 3) La subiettività reale incompleta . 4) La subiettività reale completa . La subiettività indeterminata è quel concetto di subiettività, che si predica di tutto ciò che la mente concepisce come subietto. La subiettività formale è la pura forma di subiettività. Predicare la pura forma di subietto vuol dire « rivestir della forma di subietto un' entità che non è subietto, né ha questa forma ». Questo rivestimento si fa con un giudizio sintetico , perché si unisce una forma dialettica ad un' entità che non la ha. La subiettività, poi, come pura forma di subietto, si predica anche con giudizio analitico: 1) di se stessa (un giudizio identico); 2) del subietto puro, che è ella stessa quand' è stata già predicata e non è piú nella forma di predicabile; 3) di tutto ciò che è stato prima rivestito della forma di subietto col giudizio sintetico. La subiettività reale incompleta è il sentimento animale privo dell' intelligenza, quando si predica dell' essere iniziale, rivestito questo della forma dialettica di subietto. Questa subiettività incompleta si predica, con giudizio sintetico , dell' essere iniziale , ogni qualvolta si pensa un animale irrazionale come un ente e di lui si ragiona; e ogni qualvolta si parla del sentimento animale, astrazion fatta dall' ente; si predica con giudizio analitico , ogni qualvolta si prende per subietto della proposizione l' animale che già col giudizio sintetico s' è formato subietto. La subiettività reale completa è quella che appartiene al subietto compiuto in sé , che è il principio reale intelligente. Con un giudizio sintetico essa vien predicata dell' essere iniziale: con un giudizio analitico si predica dello stesso subietto completo in sé sussistente. Tutto ciò che si pensa ha necessariamente la forma di oggetto. Ma tutto ciò che in qualunque sia modo è, è pensabile. Dunque l' oggettività è una forma universalissima, contenente tutte le cose che in qualunque sia modo sono. Noi abbiamo anche veduto che non si dà subietto completo se non sia intelligente. Se dunque l' intelligenza non esiste senza oggetto, rimane che non ci possa essere un subietto completo se non ci sia un oggetto. Dato quindi, che esista una mente, con ciò è dato che esista un obietto: e dato che esista una mente necessaria, con ciò è dato che esista un obietto necessario. Noi abbiamo pur detto, che nell' oggetto si pensa sempre un' entità . Se dunque c' è l' oggetto, c' è l' entità pensata, e se l' oggetto è necessario, l' entità pensata in esso dev' essere necessaria. Abbiamo detto inoltre che gli oggetti si possono dividere in due generi: 1) gli oggetti astratti, che sono produzione della libera intelligenza ; 2) e gli oggetti compiuti, che sono oggetti dell' intelligenza necessaria . Conviene dunque dire che ci sieno anche due generi corrispondenti di entità: le entità astratte che si pensano negli oggetti astratti, e gli enti compiuti che si pensano negli oggetti compiuti. Egli è poi chiaro che all' esistenza d' una mente non basta che ci sieno oggetti astratti; perocché: 1) se fossero tutti astratti, essendo produzioni libere della mente, starebbe in balía di questa il produrli o il non produrli: onde s' ella non se li producesse, non ci sarebbe piú alcun oggetto, e però non ci sarebbe né pure la mente; 2) se ci fossero solo oggetti liberamente prodotti dalla mente, questa non potrebbe produrli, perché non esisterebbe prima di averli prodotti; 3) la mente produce liberamente a sé degli oggetti coll' operazione dell' astrarre: ma l' astrazione suppone prima di sé un oggetto su cui questa operazione si esercita. All' esistenza dunque della mente è necessaria condizione l' esistenza d' un oggetto compiuto, che contenga un ente compiuto; e trattandosi d' una mente necessaria, uopo è che il suo oggetto sia primo e necessario, e contenga un ente compiuto necessario. Se dunque esiste una mente necessaria, uopo è che ci sia un ente necessario, il quale sia in pari tempo oggetto, e che non si possa fare in esso alcuna distinzione tra la natura di ente e la natura di oggetto, ma sia un ente per sé oggetto . Che se si suppone che la mente di cui si parla sia infinita, l' ente per sé oggetto, in cui termina necessariamente l' atto dell' intelligenza, dovrà essere pure infinito, e però l' ottimo e il massimo ente. E` dunque necessario che in Dio ci sia un ente infinito per sé oggetto, e che questo sia Dio stesso (non potendoci essere altro infinito), il qual ente oggetto, se si considera come affermato dalla divina mente, chiamasi Verbo divino. Questa dimostrazione razionale dell' esistenza del Verbo divino non fu mai trovata dagli antichi, perché le loro menti non erano aiutate, come le nostre, dalla divina rivelazione. Dell' obietto sussistente non si può predicare l' obiettività, che con un giudizio analitico, e identico. Da questo procede che due concetti si devono distinguere dell' oggetto: il concetto dell' oggetto compiuto e sussistente , e il concetto dell' oggetto astratto , dal quale per via d' astrazione si tolse la sussistenza. L' oggetto compiuto e sussistente , è quell' oggetto primo che costituisce la mente divina. L' oggetto astratto dalla sussistenza è rispetto a Dio un oggetto posteriore, ma rispetto all' uomo e l' oggetto primo , la cui entità è l' essere indeterminato , che informa e costituisce la mente umana. La forma terminativa dell' oggettività è questo secondo oggetto astratto nella sua relazione di predicabile , e non ancora predicato. Ora, la mente umana predica l' oggettività di tutte le entità che cader possono nel suo pensiero, sieno astratte, sieno concrete. Queste entità si riducono a quattro generi: 1) l' essere indeterminato; 2) l' essere assoluto; 3) le entità astratte; 4) il reale finito. Dell' essere indeterminato l' oggettività si predica con un giudizio analitico identico: perché l' essere indeterminato è egli stesso oggetto . Nondimeno, distinguendosi l' entità dall' oggetto (nel quale ella si vede), la mente può intendere in quella prescindendo da questo. Per questa maniera d' intenzione mentale accade, che l' essere indeterminato si possa chiamare cogli Scolastici principium quod , o termine dell' intellezione , e la sua oggettività principium quo, , o mezzo di conoscere, o anche idea. E però, parlando a tutto rigore, il lume innato della mente umana non è l' idea , ma l' essere indeterminato . E solo colla riflessione poi trova il filosofo, che quell' essere è oggetto , ossia idea . Questa pertanto, cioè l' oggettività, si predica dell' essere indeterminato, non come cosa da questo divisa, ma come sua forma. Onde il giudizio che si fa con questa predicazione è analitico , benché s' aggiunga qualche cosa alla pura entità dell' essere indeterminato; perché quest' altra cosa che si aggiunge non si trova fuori di lui, ma egli stesso, ben considerato, si vede essere d' una tal forma essenzialmente rivestito. L' Essere assoluto sussiste nelle tre forme, cioè come Subietto, come Oggetto, e come Santo. Quando si parla dell' Essere assoluto Subietto e dell' Essere assoluto Santo, facendo distinzione dall' Essere assoluto Obietto, allora si prendono per obietti della nostra mente, e con una riflessione si può predicare di essi questa obiettività. Ma l' entità qui interviene come mezzo dell' intendere , e non come termine dell' intellezione . Qui si presenta dunque la distinzione tra due maniere di predicare l' oggettività : 1) si può predicarla d' un subietto intendendo d' affermare ch' ella sia una delle sue proprietà, o uno de' suoi elementi; 2) si può predicarla d' un subietto affine di renderlo pensabile, senza intendere ch' ei l' abbia in se stesso. Nella prima maniera si prende l' oggettività come subietto termine ella stessa dell' intellezione: nella seconda maniera si prende l' oggettività come semplice mezzo di conoscere il subietto termine dell' intellezione. Quando pertanto si considerano l' Essere assoluto Subietto e l' Essere assoluto Santo come oggetti intorno ai quali ragiona la mente, non si compone l' oggettività con essi, ma si riconoscono essi nell' oggettività che li contiene, senza che questa sia termine del pensiero. In altre parole l' oggettività è allora forma del pensiero, e non dell' entità pensata. Quando poi si predica l' oggettività dell' Essere assoluto Oggetto, si riconosce l' oggettività nel subietto, come termine dell' intellezione: gli si restituisce quella forma, che, per una astrazione teosofica, è stata tolta da lui: e questo è un giudizio analitico non identico . Quando si predica l' obiettività dell' Obietto assoluto, s' intende predicarla nel primo modo, e però la subiettività acquista, colla congiunzione ad un tale subietto, un valore che non ha come pura forma, perché viene a dire « quell' oggettività che è nel subietto », e questa è assoluta, infinita, prima, essenziale, e non è piú obiettività, né obietto come predicato, distinguibile dal subietto, ma puro obietto sussistente, non predicabile come tale, e non predicato. In quanto alle entità astratte, dell' oggetto astratto , come pure dell' oggettività stessa, l' oggettività pura forma del subietto si predica con giudizio analitico7identico . Dell' altre entità astratte, si predica con giudizio analitico, ma non identico. La maniera colla quale la mente unisce l' oggettività al reale finito è questa. La mente ha l' oggetto, cioè l' essere indeterminato davanti all' intuito, e ha il sentimento e il sentito, cioè il reale . Se questo non è un subietto, come accade della materia corporea, ella gli dà la forma dialettica subiettiva e cosí completa l' ente subiettivo . Ma ciò ella fa nell' obietto, servendosi di questo come di mezzo di conoscere . Con una riflessione posteriore, ella vede che quel subietto reale è oggetto della sua mente, e allora predica di lui questa obiettività. La predicazione dunque dell' obiettività, come pura forma termine dell' intellezione, non si fa del puro reale , ma del reale pensato dalla mente, e rivestito dell' obiettività come forma, mezzo di conoscere . Che se il reale è subietto completo , la forma della subiettività non si distingue da lui, se non per un giudizio analitico posteriore. Ma quel reale che è subietto incompleto s' intende posteriormente a quello che è subietto completo, e se ne produce il concetto, astraendo dal subietto completo l' intelligenza, lasciandogli il principio sensitivo. La moralità è un' essenza terminativa, che non può convenire se non a quell' ente che sia subietto completo, o intelligente. Ma conviene in modo diverso all' Intelligente infinito, e all' intelligente finito. Solo quell' Ente che è per sé Obietto sussistente può essere essenzialmente Santo. Perché, consistendo la Moralità nel pieno ed assoluto riconoscimento dell' essere, conosciuto nell' oggetto, essa risulta da tre elementi: 1) dal subietto intelligente che riconosce l' essere nell' obietto, 2) dall' essere riconosciuto, 3) e dall' oggetto in cui si riconosce. Se dunque il subietto riconoscente non è ad un tempo l' essere o l' oggetto, e non li ha per sé, consegue ch' egli per se stesso non sia né intelligente, né morale. All' incontro l' Ente infinito è egli stesso l' Essere attualissimo ed assoluto, e però è ad un tempo subietto ed oggetto; onde, senza ch' egli esca dalla sua natura, e senza che questa riceva nulla altronde, si trovano i tre elementi della moralità in essa; ed essendo attualissimo, la ricognizione di se stesso essere nell' obietto è pure in sé attualissima. L' Essere infinito dunque dee essere per la sua stessa essenza Santo. In quanto poi l' Essere riconosciuto e infinitamente amato è amato da se stesso subietto che esiste identico nell' obietto, in tanto si concepisce una processione dell' obietto amato dal subietto amante esistente in sé ed esistente identico nell' obietto, la quale nel linguaggio teologico dicesi processione: e comunicando questa, per la sua perfezione, all' oggetto come amato lo stesso subietto, dicesi questo persona, che chiamasi con nome comune Spirito Santo . Questa dimostrazione razionale dell' esistenza dello Spirito Santo non potea esser raggiunta, se non dalla mente umana aiutata che fosse dalla divina rivelazione. Dio dunque è ad un tempo principio e termine del Santo sussistente, cioè subietto ed essere nell' oggetto, e però è anche Santo sussistente, trattandosi di principio e termine attualissimi. L' uomo non è che subietto, e l' essere nell' oggetto non è lui, ma è un altro, che gli è mostrato; e l' essere gli è mostrato solo inizialmente, e non compiutamente: onde anche il subietto è unito a quest' essere iniziale per un atto iniziale che lo costituisce, e del resto trovasi in potenza tanto a conoscere piú addentro l' essere, quanto a riconoscerlo (potenza razionale e morale). Da quest' analisi pertanto si raccoglie, che nel concetto di moralità si presentano sempre all' uomo, secondo la sua natura, due cose distinte: il subietto riconoscente, e l' essere riconosciuto nell' oggetto, come un altro. In Dio, quest' Essere compiuto riconosciuto ed amato è egli stesso subietto compiuto, cioè persona; ma nell' uomo, trattandosi dell' essere iniziale che per astrazione divina è privo di subietto «( Logic. , 334) », quest' essere obietto è impersonale . Nell' uomo dunque comparisce l' essenza terminativa della moralità divisa in due serie: 1) la prima abbraccia essenze morali impersonali , e tali sono gli oggetti in quanto manifestano un' esigenza morale, una morale amabilità, che formolati prendono il nome di leggi morali , e applicati al subietto. di dovere ; 2) la seconda abbraccia essenze morali personali , e queste sono tutti quegli atti ed abiti , pei quali il subietto uomo si conforma alle leggi, adempisce i suoi doveri: i quali atti od abiti perfezionano moralmente il subietto uomo, che diventa morale per partecipazione, e adesione ad un altro. Quando poi, o per divina rivelazione, o per un raziocinio a cui la rivelazione presta l' ali, si arriva a conoscere che l' essere , il quale all' uomo apparisce come impersonale e puro oggetto d' intuizione, sussiste personalmente, allora vedesi che l' essere non è solamente amabile impersonalmente, ma egli stesso è per sua essenza attuale amore; e però quello che è essenza morale impersonale all' uomo, non è in se stesso, ma è un' astrazione divina di una essenza morale personale . Nel libro precedente noi abbiamo dimostrato come l' essere sia uno ne' suoi termini, sí infiniti, che finiti, ed essendo egli uno, come dia loro l' unità. Cosí siamo riusciti a presentare il sistema dell' unità dialettica , e con esso a soddisfare alla prima irresistibile tendenza dell' intelligenza umana, che vuol ridurre tutti i molti a uno. In questo ultimo libro abbiamo preso a dimostrare per opposto, come i tre termini dell' essere sieno nell' essere identico, e gli diano una certa trinità, e come da questi proceda ogni moltiplicità degli enti finiti. Con ciò noi veniamo a presentare il sistema della moltiplicità reale , il quale è destinato a soddisfare alla seconda irresistibile tendenza dell' intelligenza umana, che non si può fermare nel puro uno. Ma di questo alterno o anche contemporaneo movimento del pensiero la mente umana non trova un medesimo risultato; perché il movimento verso l' uno riesce a un uno dialettico puramente, quando il movimento verso i piú trova una moltitudine reale. Questa ha indubbiamente la sua prima sede e la culla in Dio medesimo, sebbene ente unico, e uno, e semplicissimo. Fu già da noi dimostrato, che non si potrebbe concepire e intendere Iddio con un pensiero filosofico, senza renderlo un ente pieno di assurdi, quando si concepisse talmente un ente uno, che non fosse ad un tempo trino ne' suoi modi, e propriamente nelle persone. Questa trinità di persone altresí appare manifestamente necessaria alla mente speculatrice, per ispiegare com' egli potesse esser la causa del mondo. Ci ha dunque una doppia moltiplicità reale : la prima in Dio, ed è quella che non costituisce pluralità di enti, ma di persone; l' altra, che trae la sua origine dalla prima, cioè dalla trinità divina, è nel mondo, la quale è la pluralità di enti relativi. Noi parleremo della pluralità delle persone divine, cercando in esse l' origine prima di tutte le cause . Di poi ragioneremo delle cause in universale: e finalmente della pluralità degli effetti che producono, ai quali appartengono anche gli enti finiti che compongono l' universo. Noi concepiamo in Dio una doppia moltiplicità: una moltiplicità dialettica , che non è in lui, ma è nei nostri concetti che a lui attribuiamo; e una moltiplicità che è in lui indipendentemente al tutto da' nostri concetti, la qual è la trinità delle persone divine . Di queste due maniere di moltiplicità noi dobbiamo parlare ad un tempo. Poiché ci è impossibile ragionar di Dio senza far uso d' una moltiplicità di concetti e di vocaboli, sebbene l' essenze contenute in questi considerate in Dio, diventano una sola essenza, senza piú ritenere la moltiplicità che avevano quando erano considerate solo nei concetti non ancora attribuiti a Dio. E questo ci convien fare necessariamente anche descrivendo l' ordine delle persone divine, che hanno una moltiplicità non puramente nei nostri concetti, ma veramente in Dio. Cerchiamo dunque di dare una nozione delle persone divine, in quella maniera che è a noi possibile. Iddio, dunque, come risulta dalle cose già dette, è Padre, Figliuolo, e Spirito Santo. Ora, l' unica maniera nella quale noi possiamo formarci il concetto di Dio Padre è quella di concepirlo come un atto infinito d' intelligenza, che essendo primissimo ed assoluto, è in pari tempo subietto . Quest' atto infinito d' intelligenza è l' essere puro . Per intendere poi come intelligenza ed essere applicati a Dio esprimano una sola essenza, conviene aver presente, che l' essere da noi intuíto per natura è virtuale. Se noi dunque distinguiamo il concetto dell' essere da quello dell' intelligenza, è solamente perché il nostro concetto dell' essere è imperfetto. Niente osta pertanto ad intendere, che dove vedessimo l' essere nella sua pienissima attuazione, vedremmo la sua natura essere appunto intelligenza. Se noi dunque diamo a Dio questi due concetti di essere e di atto intellettivo , soltanto dialettica è tale dualità. Concependo cosí Dio Padre, intendiamo ch' egli è atto infinito , purissimo, intellettivo. Tuttavia anche questo concetto d' atto non si deve pensare che sia qualche cosa di diverso o di distinto effettivamente dall' essere o dall' intelligenza. Che se noi distinguiamo questi tre concetti, o queste tre essenze, è di nuovo per una concezione imperfetta che abbiamo degli enti finiti, dov' esse si vedono separate, e donde le caviamo per astrazione. In Dio l' atto è un medesimo coll' essere attualissimo, e coll' intelligenza ultimatissima. Abbiamo dunque in Dio Padre il primo atto , e questo è essenziale essere , ed essenziale intelligenza . Quest' atto assoluto d' intelligenza compitissima, che è in pari tempo subietto, ha per obietto sé medesimo, essere assoluto. Ma l' atto intellettivo non sarebbe assoluto e compiutissimo, se non producesse il suo oggetto. Ora il suo oggetto non può esser altro, che se medesimo, essere e subietto assoluto. Dunque egli proferisce l' essere subietto come obietto : e cosí esiste un' altra persona che dalla prima ripete l' origine, avente la stessa essenza della prima, ma in altro modo, cioè in modo obiettivo per sé manifesto, per sé inteso, avente in sé la vita e la subiettività del primo. Oltracciò, se un intelligente che è l' essere intenda se stesso, egli deve necessariamente generare se stesso, perché l' intendere è atto di essere, e tutto ciò che intende deve essere anche come inteso (1). Quest' è l' atto assolutamente primo, principio e causa di tutti gli atti, ed è quella paternità di cui San Paolo disse: [...OMISSIS...] . Questo primo principio dunque contiene in sé virtualmente tutti i generi di principŒ e di cause; e in quant' esso è primo , da esso si derivano realmente nel modo che si dirà; in quant' è poi totale , si possono tutti da esso astrarre per mezzo dell' astrazione teosofica. Ma questo principio non trattiene e ferma il suo atto nell' oggetto generato come persona. Poiché l' atto intellettivo, essenza dell' essere attuale ed assoluto, è infinito e perfetto: e però è intellettivo pratico, volontario, dilettevole, amoroso. Non produce dunque l' oggetto persona come semplicemente intelligibile, ma lo produce insieme come infinitamente amabile ed amato ed amante. Ora il subietto intelligente che è comunicato all' oggetto inteso, e che, in quant' è dato, è in altro modo, cioè nel modo oggettivo, nei due modi, ama l' essere assoluto comune, che è sommamente amabile, con infinito amore; il quale amore non sarebbe infinito, se non lo fosse lo stesso essere e lo stesso subietto, ma in un terzo modo, che è quello d' essere amato per sé in atto; ed essere amato per sé importa essere insieme atto sussistente amoroso; di che necessariamente una terza persona uguale e coeterna alle due prime che con un solo atto di compiacenza la spirano: perché sono un solo essere subietto in due modi, e questo medesimo essere subietto è cosí in un terzo modo o forma, la qual dicesi morale, o santo. In questa maniera, il principio da cui vengono tutti i principŒ e le cause si riduce a perfetta unità. Poiché quell' atto intellettivo efficiente, che è l' Essere assoluto, Dio, è uno, costituente tre persone, che per altro non si distinguono tra loro, se non per le processioni e per le relazioni: e le processioni sono quell' atto stesso. Perocché quest' atto dell' essenza divina assoluta ha un principio e due termini. Laonde se l' atto si consideri come principio in relazione col primo termine , esso è e dicesi Padre, mentre il primo termine dicesi Figlio; se si consideri il secondo termine in relazione collo stesso atto, in quanto è identico nel Padre e nel Figlio, esso dicesi con nome comune e non proprio, ma appropriato, Spirito Santo. Ma se si consideri lo stesso atto senza tener conto delle relazioni, e però astrattamente, allora dicesi essenza divina, che solo mentalmente dalle persone si distingue. In questo discorso facemmo uso di molti concetti, e principalmente di quelli di essere , di atto , d' intellezione , d' intellezione volitiva, ossia volizione , e di produzione . Noi abbiamo preso tutti questi concetti dall' ente finito, dove sono veramente distinti. Cosí abbiamo cavato dal medesimo, per astrazione, concetti affatto diversi, e però essenze diverse. Ma tutte queste essenze astratte sono prive del loro atto ultimo di realizzazione. Quando il loro atto ultimo di realizzazione si cerca in Dio, allora esse perdono la loro moltiplicità. L' atto ultimo di realizzazione per tutte insieme è identico: per modo che cosí realizzate e terminate diventano una sola essenza reale, che noi non vediamo, ma che pure intendiamo dover essere unica. E inferiamo logicamente, che sopra una tale essenza , dove fosse a noi palese, potremmo esercitare una astrazione la quale ci restituirebbe tutti quei concetti distinti. Onde questi concetti e le essenze che per essi si conoscono, si possono da noi denominare altresí astratti teosofici ; e questa stessa denominazione si può dare giustamente a tutti gli attributi ed altri concetti che a Dio si applicano in questo modo. L' essenza divina dunque (benché a noi cognita solo negativamente) ha ragione di tutto , relativamente a tali concetti, che vengono a ricevere la ragione di parti dialettiche formali della medesima. Ma conviene che noi definiamo la differenza dialettica che tali concetti astratti hanno fra loro. Qual' è la differenza dialettica tra il concetto di essere , e il concetto di atto ? Egli è chiaro che non si può pensare l' essere senza atto né l' atto senza essere . Ma l' atto è piú universale e comune, che non sia l' essere ; onde l' atto si può considerar come un concetto elementare dell' essere «( Ideol. , 55.) ». In fatti noi abbiam veduto che ciò che costituisce l' ente finito è puramente il reale , e che questo reale non è l' essere, benché sia un termine dell' essere, che ha bisogno di questo per esser ente. Ora, sebbene l' ente finito non sia l' essere, tuttavia ha un atto suo proprio, di cui l' essere è bensí condizione, ma non essenza propria. L' atto dunque è un concetto comune tanto all' essere, quanto ai termini finiti dell' essere, che per la presenza dell' essere sono enti. Il concetto dunque dell' atto si può raccogliere in questa definizione: « Atto è tutto ciò che esiste , sia come essere, sia come puro termine dell' essere, in quanto esiste, e in qualunque modo esista ». Questa definizione dell' atto si riferisce, come a concetti piú evidenti, ai concetti di esistenza , di essere e di termini puri , ossia finiti, dell' essere . L' essere e i termini finiti dell' essere che si riducono al sentimento finito considerato in relazione coll' essere, sono i due noti per sé «( Antropol. , 10 7 20) ». L' esistenza è astrazione esercitata su questi due primi noti; ed essa in quanto si considera nell' essere è esistenza propria, in quanto si considera ne' termini finiti è esistenza ricevuta dall' essere. Onde l' atto esprime un concetto comune all' essere che è per sé, e ai termini finiti che sono per l' essere. Ma se noi applichiamo il concetto di atto e quello di esistenza all' essere, le due essenze che ci danno questi due concetti diventano la stessa essenza dell' essere . E per vero, non c' è già nell' essere qualche cosa di distinto che sia essere, e qualche cosa di distinto che sia atto, e qualche altra cosa di distinto che sia esistenza o essenza. Questo esser tre significa che possono essere pensate separatamente, ma non toglie che, quando si considerano essenti in una data entità, non si possano riconoscere per una essenza sola indistinta e semplicissima dalla quale per astrazione si può cavarle e distinguerle tutt' e tre. L' atto dunque si trova tanto nell' essere, quanto negli enti finiti che non sono essere; e da questi, che soli cadono sotto la nostra esperienza, noi prima ce ne formiamo il concetto. Perciò questo concetto dell' atto non è perfetto a principio, e nel pensar comune. Poiché quello che prima considera la mente dell' uomo è l' atto transeunte «( Psicol. , 1203 sgg.) ». Solo mediante una riflessione piú elevata e filosofica, perviene poi l' uomo a distinguere gli atti permanenti dagli atti transeunti . Ma poiché il suo primo concetto di atto è quello di atto transeunte , gli riesce poi assai difficile considerare l' atto permanente spoglio al tutto di quei caratteri che all' atto transeunte appartengono. Da questo accade, che l' atto si concepisca volgarmente come un movimento che occupa qualche tempo a compiersi, o che almeno include qualche successione. Questo carattere di formazione successiva , preso come universale ed essenziale ad ogni atto, fu causa che come ontologici si spacciassero certi principŒ, che non sono punto tali. Uno di questi principŒ è il celeberrimo: in actu actus nondum est actus . Questo principio infatti suppone: 1) Che l' atto possa trovarsi in un istante nel quale si comincia a formare, ma non è tutto fatto ancora. 2) Che l' atto non sia atto se non quando ha terminato il suo conato di essere, la sua azione. L' assioma aristotelico dunque, « in actu actus nondum est actus » non è un principio ontologico che esprima una qualche proprietà comune a tutti gli atti: non vale se non per quegli atti transeunti che hanno una continuità fenomenale, e che in fatto sono una serie d' atti minori. Sostituendo il principio veramente ontologico , noi diremo: « L' atto è, o non è », senz' altro di mezzo. Da questo principio: « L' atto è, o non è », si deducono le seguenti proposizioni che dichiarano la natura dell' atto: 1) Se l' atto è, o non è, dunque o egli è l' essere , o dipende dall' essere. 2) Se l' atto è, deve essere con qualche durata immutato, perché altramente non sarebbe. 3) Se l' atto dura immutato, egli dicesi atto permanente o immanente. 4) L' atto transeunte dunque non può essere che un concetto cavato dall' astrazione. 5) Quindi l' azione, con cui l' atto si forma non contiensi nel concetto di esso come distinta dall' atto stesso; ma l' azione con cui si forma è lo stesso atto. Onde nell' atto dell' essere consiste il suo farsi ; identificandosi anche qui in esso i due concetti astratti dell' essere e del farsi «( Logic. , 322) ». Non si possono dunque pensare gli atti transeunti senza pensare gli atti permanenti , perché quelli altro non sono che i punti in cui questi cominciano e finiscono, separati dalla mente per astrazione e considerati come atti da sé dialetticamente. Ma l' inizio e la cessazione non entrano né pure nel concetto puro di atto, poiché ne sono piuttosto i limiti. Laonde l' essenza dell' atto, non racchiudendo i limiti, presenta la permanenza assoluta e immutabile, e perciò eterna: il che dimostra che l' essenza dell' atto è l' essere , che solo esclude i limiti. Se dunque l' atto riceve anche de' limiti, questi non gli vengono dalla sua essenza, cioè dall' essere, ma dai termini finiti dell' essere; e però tutti gli atti limitati sono atti ricevuti da quei termini che, per sé non essendo essere, né pure sono atti. Che dunque il concetto di atto sia piú esteso di quello di essere, ciò non viene dal puro concetto di atto, ma dalle limitazioni che a lui s' aggiungono. La differenza tra il concetto di essere, e il concetto di atto sta ultimamente in questo, che l' essere non può ricevere limiti, e quando si limita, con questo perde il nome di essere ; laddove il concetto di atto riceve dalla nostra mente dei limiti, né per questo cessiamo di chiamarlo atto. L' atto dunque, quale esiste in sé, è sempre permanente: ma o si considera illimitato, e allora è atto puro; o si considera limitato da' limiti di estensione ideale, o di comprensione reale. Essendo limitati gli atti degli enti finiti, avviene che possano essere molti, e legati insieme intimamente. Il maggior legame è quello per cui un atto contiene, e unizza molti atti; l' atto contenente d' un ente reale finito è il suo primo atto, e si denomina subietto . Il subietto, abbiamo detto, è ciò che v' ha di uno, di primo, di contenente nell' ente. E nell' ente infinito non potendoci essere piú atti, forz' è che quest' atto solo, e perciò stesso primo, sia il medesimo che il subietto . Cosí i concetti di subietto e di atto nell' ente infinito esprimono il medesimo, quantunque considerati in se stessi prendansi come due concetti, perché siamo usati a considerare l' atto negli enti finiti, dove non ogni atto è subietto, ma il subietto è il legame di molti altri atti. La mente pone ancora una differenza tra il concetto di essere , e quello di subietto . Ma anche questa differenza nasce dalla limitazione in cui consideriamo l' essere. La virtualità appunto fa sí, che esso non ci appaia come subietto , se non in un modo dialettico. Infatti la parola subietto appartiene all' ente compiuto, e non all' essere in quant' è inizio dell' ente. Ma la limitazione non è mai la cosa limitata. Se dunque noi prendiamo l' essere , lasciando da parte la sua limitazione virtuale, che non è essere, incontanente avremo l' Essere ente compiuto e terminato: e allora lo pensiamo come vero subietto : e questo subietto è il medesimo che atto puro, cioè senza limitazioni. Anche qui dunque la moltiplicità de' concetti non nasce dalle essenze contenute in essi, ma dalle limitazioni entro le quali noi le pensiamo, limitazioni che sono di due specie: 1) limitazioni di virtualità , per la categoria dell' obietto; 2) e vera limitazione del reale, per la categoria del subietto. Per questo nell' Essere infinito, essere, atto, subietto , sono tutt' uno. Ma i due concetti d' atto e di subietto esprimono essenze limitate tanto di limitazione reale , perché li abbiamo cavati dall' astrazione esercitata sull' ente finito, quanto di limitazione virtuale , perché non dicono atto o subietto determinato. Riguardo alla limitazione reale, noi l' abbiam loro tolta d' attorno, e cosí abbiamo trovato che essere infinito, atto e subietto costituiscono un uno identico, e semplicissimo. Ma resta ancora la limitazione virtuale; e questa rimane ugualmente nel preciso concetto di essere infinito , perché con questo solo concetto, che risulta dai due concetti astratti di essere e di infinitezza, non posso capire di che natura sia l' essere infinito . Io argomento dunque cosí: « se è infinito, dev' essere intelligente ». Dunque avrò tre concetti che esprimono l' identica essenza illimitata: « essere infinito intellettivo, atto infinito intellettivo, subietto infinito intellettivo »; dei quali tre potrò prendere l' uno per l' altro, perché tutti significano la medesima essenza. Ma l' argomento stesso che si fa: « se è infinito, dev' essere intelligente », prova che nel concetto dell' infinità dell' essere, dell' atto e del subietto si contiene virtualmente l' intelligenza. Se dunque a questi tre concetti, che esprimono la stessa essenza infinita, noi leviamo la virtualità, avremo, che l' intelligenza esprime un' essenza identica a quella che viene espressa dalle parole essere infinito, atto e subietto infinito: solo che la esprime spiegatamente, quando questi concetti la esprimono virtualmente. L' intelligenza, poi, appartenendo alla forma reale, riceve i limiti di cui questa è suscettiva; ma questi limiti non sono intelligenza, bensí mancanza d' intelligenza. L' intelligenza pretta dunque è senza limiti reali, come senza limiti sono le essenze prette di essere , di subietto , di atto . Perciò le essenze espresse da queste quattro parole, se si considerano prette e senza limiti, sono l' identica essenza. Tra le limitazioni, che riceve l' atto intellettivo quand' è nei reali finiti, c' è quella che lo distingue in intelletto speculativo e pratico. L' intelletto speculativo non penetra e non si appropria tutto il contenuto del suo obietto, ma si ferma alla forma obiettiva. Perciò questo atto intellettivo non è ultimato; e non può bastare a conoscere enti ultimati e completi, come sono quelli che hanno vita intellettiva e amorosa che nel piacere consiste «( Psicol. , 1104) ». Infatti non si può intendere il sentimento, soprattutto il sentimento intellettivo che è l' amore, se non si sperimenta. E l' amore, essendo sentimento intellettivo non si può esperimentare che con un atto intellettivo amoroso. L' atto intellettivo amoroso dunque è un atto intellettivo completo, che si dice anche pratico e volitivo. Esso è un atto solo, ma produce due effetti: perché fa ad un tempo e conoscere e amare; l' uno dei quali non può essere in modo perfetto senza l' altro. Cognizione perfetta di un ente per sé amante ed amabile non ci può essere senza l' amore di quest' ente: né l' amore perfetto di quest' ente ci può essere senza la perfetta cognizione di lui. Affine dunque di non volgersi in circolo, è uopo concepire l' atto come unico, che, in quanto ha un oggetto, dicesi intellettivo , in quanto colla stessa attività s' unisce al contenuto di quest' oggetto e ha per termine tale unione, dicesi volitivo (1). Se dunque noi concepiamo l' essere infinito come atto intellettivo , e questo completo, troviam necessariamente che quest' atto sia anche volitivo ; di maniera che le due parole intellettivo e volitivo indicano bensí lo stesso identico atto, ma con due rispetti diversi, cioè con rispetto a due termini diversi, l' uno de' quali è l' oggetto , l' altro è l' unione di compiacenza . Se poi si prenda l' atto prescindendo dal doppio rispetto che ha al doppio suo termine, o se nell' espressione s' uniscano questi due rispetti, dicendosi intelligenza pratica o amorosa ; in tal caso si esprime l' identico che s' esprimeva co' vocaboli di essere infinito, o di subietto, o di atto infinito. Da tutto questo si vede, che l' essere è vivente e perciò pieno d' azione. Vedesi ancora, che quest' atto è essenzialmente produttivo , perché esso non istà in sé per modo, che non sia in altro; giacché ha due termini uguali a sé, diversi solo per le relazioni d' origine. Ma egli stesso, in quanto origina questi due termini, è subietto nella forma di puro subietto infinito. Laonde quest' atto può dirsi essenzialmente produzione , da producere o condursi avanti; e in questo senso anche il concetto di produzione s' identifica co' quattro primi, se si considera pretto, cioè spoglio di tutte le limitazioni, sieno virtuali, sieno reali. Infatti la produzione del tutto priva di limiti, non può essere che atto infinito il quale rivolgendosi in se stesso si genera come oggetto perfetto e però sussistente, e si esaurisce in amore perfetto e però sussistente. La varietà dunque de' quattro concetti di essere , di atto , di subietto , d' intelligenza volitiva , e di produzione è fondata non in essi stessi, ossia nelle essenze che essi danno a conoscere, ma nelle limitazioni che loro s' aggiungono, sieno queste virtuali o reali. L' identificazione all' incontro di queste essenze in una sola si ottiene collo sceverare da esse tutte le dette limitazioni, e di conseguenza le relazioni coi finiti, considerandole in sé, prette e pure. Allora l' essenza unica che si conosce in essi è ad un tempo ed allo stesso modo essere, atto, subietto, intelligenza volitiva e produzione. Ciò che il pensiero trova difficile nel concetto di causa si è un' antinomia che presenta alla speculazione dialettica. L' antinomia si può esprimere cosí: « L' ente esiste tutto in se stesso, ed è per essenza uno: dunque anche tutta la sua attività, per la quale esiste, si dee conservare entro lui stesso. Il concetto di causa all' incontro suppone, che l' attività dell' ente si riversi fuori di lui: perché l' effetto che la causa produce è un altro, che non ha unità, né identità colla causa. Vi ha dunque antinomia tra il concetto di ente e il concetto di causa. L' ente dunque non può esser causa di un altro ente. Se l' ente non può esser causa, la causa dunque non esiste, il suo concetto è falso, perché non può esistere in sé il non ente ». Per disciogliere questo argomento, conviene disciogliere l' antinomia e conciliare il concetto di ente con quello di causa. A tal fine conviene analizzare e descrivere i concetti affini, e quelli che si devono assumere nel ragionamento. Esaminiamo prima il concetto d' attività . Il concetto d' attività è diverso dal concetto di atto . Quella parola significa l' astratto di attivo : e attivo è un predicato che suppone un subietto . Ma il subietto è un primo atto: dunque atto significa qualche cosa d' anteriore logicamente a ciò che significa attività . Da questo si vede che l' essenza che ci presenta il concetto dell' attività non si può attribuire a Dio colla stessa esattezza, perché contiene in sé essenzialmente il limite di esser qualche cosa di secondo, e non di primo. Nondimeno si applica a Dio anche quel vocabolo nel parlar comune, ma non senza improprietà. L' attività suppone davanti a sé un subietto, a cui si riferisca. Ora, ci sono dei subietti dialettici e dei subietti reali . Per questa finzione dialettica de' subietti, l' attività s' attribuisce col pensiero anche a un subietto che non è essente in se stesso. Il primo e piú universale subietto dialettico è l' essere interminato preso come essenza. Perciò si predica di questa essenza dell' essere dialetticamente ogni attività. Questo subietto dialettico si può considerare o come subietto dell' attività infinita in Dio, o come subietto dell' attività finita nel mondo. Se si considera come subietto dell' attività finita, si trova una distinzione in sé che passa tra l' essere interminato subietto dialettico, e l' attività che in esso si predica (.). Quando noi dunque distinguiamo anche in Dio l' essere iniziale come atto primo o subietto, e a questo attribuiamo un' attività con cui si spiega e si completa ne' tre termini, il subiettivo, l' obiettivo, e il santo; noi introduciamo una distinzione puramente dialettica, che non ha alcuna verità in Dio medesimo. Di piú, il primo di questi tre termini non è in se stesso, ma è solo termine nel modo dialettico di concepirlo. E` necessario quindi emendar colla riflessione superiore quest' altra inesattezza, e riconoscere, che essendo l' essere iniziale un puro astratto non sussistente in sé, l' unico subietto è l' essere sussistente che produce di sé i due termini personali, l' obiettivo e il santo. Rimossa cosí questa doppia inesattezza del modo dialettico di concepire, ne comparisce una terza. Perché noi ancora attribuiamo l' attività di produrre i due termini all' Essere assoluto subietto sussistente e primo atto. Questa distinzione non havvi punto nel fatto. Poiché tutto ciò che possiamo intendere per attività producente è ciò che costituisce essenzialmente questo atto subietto , né piú, né meno; di modo che questo si deve chiamare non altro che essere, subietto, atto producente sempre ab aeterno compiuto, e non già attività di un subietto , come se l' attività e il subietto fossero due cose. Pure, essendo quest' essere atto producente, atto intellettivo infinito, è uopo che abbia un oggetto: e non può avere altro oggetto che se stesso. L' atto intellettivo dunque, che impropriamente si vorrebbe chiamare attività , è anche oggetto, e come oggetto è termine di se stesso, e, a quel modo che abbiamo detto, un' altra persona, nella quale lo stesso atto vitale, oggetto amabilissimo per sé, continua a produrre il secondo termine che è atto oggetto per sé amato : terza persona; relazioni che si trovano cosí nell' atto unico dell' essenza divina, e che distinguono le persone: onde entro all' unico essere apparisce un' essenziale trinità. Dal che si vede, che le persone divine del Figliuolo e dello Spirito Santo non si devono concepire come effetti ; perché l' effetto ha qualche cosa di essere diverso dall' essere della causa, quando le tre persone hanno tutto l' essere identico numericamente, e il solo modo, in cui tutto l' essere identico è, è diverso: e quell' essere è tutto atto primo identico in modo subiettivo, obiettivo e santo. Non potendosi dunque al Figliuolo e allo Spirito Santo rigorosamente applicare il nome di effetti , per la stessa ragione né pure al Padre si può rigorosamente applicare il nome di causa , come né pure al Figliuolo per riguardo allo Spirito Santo. Come nomineremo questa causa? Diremo forse, che l' essenza divina sia questa causa? Ma l' essenza divina separata dalle persone non esiste, onde non le si può attribuire il predicato di causa. Diremo che sia il Padre? Ma dicendo Padre ho già detto anche Figliolo, ho già posto il suo termine: non esiste il Padre avanti e indipendentemente da questo termine: mi manca dunque il subietto a cui io possa attribuire posteriormente l' appellazione di causa: non si trova dunque in Dio una natura che si possa concepire senza i due detti termini, e che perciò si possa chiamar causa di questi. Indi avvenne, che alla maniera di parlare dei padri greci, che dicevano il Padre causa del Figliuolo (1), i Padri latini sapientemente sostituirono una maniera di dire piú esatta, chiamando il Padre principio , e non causa, della Trinità. San Tommaso trova convenientissima la parola principio . Poiché dice: [...OMISSIS...] . Del rimanente, che la parola principio esprima un concetto di maggior estensione della parola causa , o viceversa questo dipende dall' uso. Se si prende dunque la causa per significare « tutto ciò che dà origine », si potrà dire che ci hanno delle cause che sono principŒ , e delle cause che sono cause in senso stretto. Principio è quella causa che non ha un subietto diverso da sé, ma che, in quant' è causa, è anche subietto. Per modo che esso è causa sussistente , ossia gli è cosí essenziale l' esser causa, che questo stesso lo costituisce ente. Causa in senso stretto , cioè in quanto si distingue da principio, è quella nella quale si concepisce l' ente, o il subietto, anche senza pensare ch' egli dia l' origine ad un' altra entità, e posteriormente gli si attribuisce questa potenza o quest' atto di origine di un' altra entità diversa da lui, necessaria a costituire il concetto di lui. La causa principio dunque è ella stessa subietto ; la causa non principio è qualità d' un subietto che si concepisce precedentemente. Finalmente per non lasciar indietro nessun de' concetti affini, richiamiamo alla mente il concetto di potenza che abbiamo definito: « una causa che rimane il subietto del proprio effetto ». Questo concetto è medio tra il concetto di causa in senso stretto e il concetto di principio in senso stretto. Poiché ha questo di comune colla causa in senso stretto, che il subietto esiste anteriormente all' atto con cui produce. Ma ha poi anche qualche cosa di comune col concetto di principio in senso stretto, ed è, che ciò che produce non istà diviso dal producente, il quale rimane suo subietto. La parola attività poi ugualmente conviene tanto al subietto, che è causa in senso stretto, quanto al subietto che è potenza ; non però al subietto principio , se non in modo improprio e dialettico, appunto perché a questo non conviene in senso stretto né la denominazione di causa, né quella di potenza. Fino a qui non siamo ancora pervenuti ad una soluzione dell' antinomia contenuta nel concetto di causa, ma abbiamo fatto de' passi verso essa. E veramente trovammo, che la natura dell' essere non è natura morta, ma vivente, e che racchiude essenzialmente un' infinita azione interna sussistente ed immutabile; che quest' azione è intellettiva e produttiva; che quest' intelligenza infinita vivente, amativa, di necessità è volitiva, sí che intelletto e volontà costituiscono un atto solo, che ha come due gradi, uno dei quali ha un primo termine, l' altro un secondo. Ora, la natura dell' atto volitivo corrisponde all' oggetto. Ma l' oggetto di una intelligenza infinita è tutto l' essere. Di piú l' atto intellettivo volitivo infinito, che è atto primo e subietto di se stesso, è in potere di se stesso, di maniera che è piú vero il dire: « è, perché vuole », che non sarebbe il dire: « vuole, perché è ». In fatti, nell' ordine ontologico, cioè nell' ordine dell' ente in sé la ragione dell' astratto è nel concreto: e il concetto nostro essere è piú astratto del concetto nostro volizione . Conviene dunque meglio l' asserire che la volizione sia lo stesso essere in Dio, anziché l' asserire che l' essere sia la volizione . Se pertanto la volizione stessa sussistente è l' essere divino, convien vedere come si convenga concepire questa volizione, acciocché sia infinita, e d' ogni parte perfetta. Questa volizione non può avere altro per oggetto voluto, se non se stessa che è l' essere infinito: s' intende, che se non volesse questo, null' altro potrebbe volere, e perciò non sarebbe. L' essere dunque vuole se stesso in se stesso oggetto, e cosí è. Perché l' Essere sia, non è necessario che voglia altro. Ma oltre quest' atto assoluto di volere con cui l' Essere vuole tutto se stesso, egli può volere anche l' essere in un modo finito. Questo si deduce dal concetto d' intelligenza, e dal concetto di volizione. Nel concetto d' intelligenza si contiene la possibilità d' intender l' essere tanto senza limiti, quanto co' limiti: nell' uno e nell' altro modo l' essere è per sé oggetto dell' intelligenza. Il somigliante è da dire del concetto di volizione, estendendosi questo concetto a tutti gli oggetti possibili dell' intelligenza. Ma l' intendere e il volere oggetti limitati non è necessario acciocché l' essere sia: rimane quindi che ci sia un atto intellettivo volitivo, non necessario, ma libero, perché non entra necessariamente nel concetto di quell' atto pel quale Iddio è, che è l' atto con cui afferma e vuole se stesso. Ma l' atto con cui l' essere afferma e vuole se stesso (e cosí è) non sarebbe infinito, se non racchiudesse il potere d' intendere, e di volere l' essere ne' suoi modi finiti. Nell' ordine dunque de' concetti precede il concetto di quell' atto intellettivo e volitivo pel quale l' Essere intende e vuole se stesso e cosí è; e in quell' atto si contiene bensí essenzialmente il potere dell' atto con cui intende e vuole l' essere colle limitazioni, ma non si contiene quest' atto stesso, e però il concetto di esso è posteriore : quello è necessario; questo è libero, perché i modi limitati dell' essere non si contengono attualmente nell' essere totale, ma solo virtualmente. Questa virtualità nasce dal concetto di intelligenza libera la quale, oltre lo sguardo con cui oggettivizza tutto l' essere, può limitare questo suo oggetto (forma oggettiva). La limitazione dunque non cade nell' essere stesso sussistente, ma è una produzione della stessa mente che, padrona del proprio atto, vuole oltre il veder tutto l' essere, veder l' essere entro i limiti che liberamente ella vi pone. Nella virtú dunque e nell' atto con cui l' Essere intende e penetra appieno se stesso, si contiene anche la virtú d' intendere, a suo volere, l' essere dentro a limiti volontari dall' Essere liberamente posti. Ma sia dato, che liberamente l' Essere faccia quest' atto d' intelligenza volitiva, col quale egli limita il proprio oggetto. Che cosa ne conseguirà? L' effetto di quest' atto si è di dare al termine reale finito un' esistenza propria, relativa a se stesso; per modo che, quantunque egli non sia a se stesso l' essere, tuttavia abbia e riceva continuamente dalla presenza d' un altro, cioè dell' essere, l' esistenza a sé relativa. Essendo questo subietto, a cui l' esistenza si riferisce, non essere, egli è un ente diverso da quell' ente che è egli stesso essere. E come questo esiste a se stesso per la coscienza che ha di esser l' essere, e quindi di non poter non essere, e però d' esistere assolutamente; cosí l' ente che è non essere esiste a se stesso (supponendo lui dotato di coscienza, e quindi relativamente a lui esistenti gli altri enti inconsapevoli) per la coscienza di non esser l' essere, e quindi di non esistere assolutamente, ma d' esistere solo relativamente all' essere da cui riceve di continuo l' esistenza. L' antinomia che si presenta nel concetto di causa consisteva nella proprietà dell' ente di esser uno, e quindi nel ripugnare ch' egli diventasse due. Ma nella teoria esposta l' ente non esce di sé, e tuttavia produce un altro ente. Il modo consiste in questo, che la denominazione di ente viene cangiata. Perché l' ente che non esce di sé nel caso nostro è l' ente assoluto, e una vera contraddizione ci sarebbe, quando si pretendesse che l' ente assoluto producesse un altro ente assoluto. Ma non c' è più contraddizione a pensare, che, essendo l' ente per sua essenza azione, questa azione abbia un termine tale, che nell' ente che fa l' azione sia assoluto, come è assoluto l' ente, e sia l' ente stesso, come vedremo, e che a un tempo, potendo questo termine anche considerarsi entro a' suoi limiti ne' quali non è piú l' ente assoluto, chiuso entro questi limiti abbia una esistenza relativa a se stesso. Posto dunque, che quell' intelligenza che per sua essenza è l' essere abbia virtú d' intendere e volere un termine finito, questa finitezza è appunto quella che d' un tale termine fa un ente diverso dall' ente infinito, e (posto che sia anche voluto) un ente che ha un' esistenza propria, perché racchiusa entro que' confini di cui Iddio non può essere il subietto. L' atto dunque che si chiude entro tali confini non può esser l' atto che non ha confini. Vedesi pertanto che la proposta antinomia rimane sciolta mediante la dottrina dell' identità e della diversità da noi data avanti. Questa teoria stabiliva che « ogni qual volta l' essenza di un' entità soffre un cambiamento qualunque, non è piú l' essenza di quella entità, ma un' altra ». Se restringiamo questo principio universale agli enti, abbiamo: « ogni qual volta l' essenza d' un ente soffre cangiamento, non è piú quell' ente, ma un altro ». Applicando questo principio al caso nostro: « L' essenza di Dio è l' essere infinito: se dunque ci è dato qualche cosa di finito, questo, qualunque sia non è piú l' ente di prima, ma un altro ente ». Ma l' intelligenza che pensa l' infinito può limitare l' oggetto del suo pensiero, riguardando l' oggetto finito nell' infinito stesso per mezzo di limiti, che ella stessa v' aggiunge liberamente. Fin qui l' operazione della mente non è uscita di se stessa, ma ha pensato la possibilità di un ente finito diverso da se stessa e dal suo oggetto infinito. Ma questa intelligenza è anche volitiva e operativa. Ella può dunque volere ed operare quest' ente o subietto finito. Ora, se lo vuole, è: perché volere è atto di essere. Fa dunque Iddio creante, che è l' essere, una volizione che è atto di essere, e che ha per termine l' ente finito. Quest' atto di essere, fatto da Dio (nel quale è essenzialmente volizione) è il nesso, la comunicazione, il ponte, il tratto d' unione tra Dio creante e la creatura. L' ente finito allora essendo, è in Dio per l' atto dell' essere che è la volizione divina, e come oggetto della mente divina, e come termine finito di essa volizione che lo vuole nell' infinito oggetto in cui lo vede; ma è anche in se stesso dentro la sua limitazione, e in quanto è tale egli ha l' esistenza relativa per la quale non è l' infinito ente, ma un altro. Noi abbiamo descritto Iddio come un solo e semplice atto, il quale è l' essere senza limiti; e quest' atto abbiamo detto essere intellettivo volitivo avente due gradi o termini. Abbiamo detto, che l' ente finito è parimente termine di quest' atto intellettivo volitivo che nel primo suo termine vede l' ente finito. Questa descrizione presenta l' atto creativo come posteriore e diverso dall' atto della processione delle persone, il che farebbe credere che fosse un altro atto, e quindi che Iddio creatore avesse due atti: il primo della processione e costituzione di sé medesimo, nella sua natura propria, uno e trino; il secondo della creazione. Ma questo ripugna alla perfezione della natura divina, la quale esige che in Dio non ci sia un primo e secondo atto, e che ci sia un atto solo e semplicissimo, il quale, se non bastasse a tutto, non sarebbe sufficiente a se stesso, e quindi non sarebbe perfettissimo e infinito. C' è indubbiamente una priorità logica nel concetto dell' atto pel quale Iddio è, e una posteriorità logica nel concetto dell' atto per cui Iddio crea. Questa priorità e posteriorità de' due concetti nasce alla mente da questo, che non si può pensare l' atto creativo che fa Iddio, senza pensare che Dio sia; onde nel concetto dell' atto creativo s' acchiude il concetto dell' esistenza, che è quello stesso della processione delle persone. All' incontro, nel concetto dell' atto pel quale Iddio è, non si racchiude quello dell' atto creativo. Ma la priorità logica non è altro che un ordine che hanno tra loro gli oggetti della mente, cosí che l' uno è inchiuso nell' altro, e quello che è inchiuso e contenuto dicesi posteriore a quello che inchiude e contiene. E però il Verbo divino, come oggetto della mente, ha una priorità logica al mondo che in lui è contenuto nel detto modo. Ma la mente può nondimeno pensare con un atto solo molti oggetti che tra loro hanno la detta priorità logica, e però la priorità e posteriorità logica degli oggetti pensati, che pone tra essi un ordine, non trae seco di necessità né una moltiplicità d' atti della mente, né una priorità e posteriorità di questi atti. Cosí accade, che lo stesso atto col quale la Mente volitiva sempiterna dice se stessa e genera il Verbo sia lo stesso identico atto con cui dice il mondo nel suo Verbo, e con cui lo crea; e che, come con questo identico atto ama se stessa nel suo Verbo con che spira l' eterno e infinito Amore, cosí ami coll' atto stesso e voglia il mondo ordinandolo all' amore e alla beatitudine. Un unico atto dunque è quello che termina nel Verbo, e nello Spirito Santo, e nel mondo. Ma poiché i primi due termini sono infiniti e sono lo stesso atto e subietto essente in altro modo, perciò sono Dio e persone divine: il mondo poi, essendo finito, non può essere Dio, né persona divina. Perciò l' atto divino in quanto si considera come produttivo del mondo non può ricevere il concetto di processione personale. Se or si ponga mente, che l' atto divino è identico in tutte e tre le persone, sarà facile conchiudere, che l' atto divino il quale ha per termine il mondo è atto comune a tutte e tre le persone e all' unica essenza che è uguale e identica in esse. Intendesi da tutto questo, come la divina essenza, senza perdere l' unicità dell' atto ch' essa è, acquista il nome di causa in relazione al mondo ch' ella crea. Onde Dio Padre dicesi principio del Figlio, ma non causa del Figlio in senso stretto. All' incontro, Iddio uno e trino dicesi veramente e in senso stretto causa del mondo. Si domanderà dopo di ciò, se il concetto di attività possa essere applicato a Dio, come Causa del mondo, di modo che si possa chiamare attivo il creatore. Rispondiamo che ciò si può fare mediante un' astrazione. Ma questa maniera di concepire è solamente relativa a noi, appunto, perché dipende da una mera astrazione che spezza l' atto divino in due concetti, e stabilisce una priorità e una posteriorità tra essi. Onde la priorità e la posteriorità sta nei rispetti dello stesso atto, e non in atti diversi. Quando dunque, invece di concepire Iddio come un puro atto, si concepisce come un atto subietto a cui s' attribuisce l' attività creante il mondo, allora s' adopera un parlare improprio, ma adattato al nostro modo di concepire per astrazione. Pertanto abbiamo trovato, che c' è un ente primo nel quale l' essere e il fare s' immedesimano, e questi è Dio. Se dunque l' essere e il fare costituiscono due atti diversi, questa divisione reale comparisce soltanto negli enti finiti, a cagione che i due concetti di essere e di fare ricevano limitazioni e non sono conservati nella loro prima purità: essendo la limitazione il principio generale d' ogni divisione di quelle essenze che per sé sono un' essenza sola. Dopo aver noi trovate due moltiplicità reali, cioè la trinità delle persone divine in Dio, e la qualità dell' Ente assoluto, che è Dio, e dell' ente relativo che è il mondo, e aver conciliata questa moltiplicità reale coll' unità dell' Essere; dopo questo, dico, dobbiam procedere a svolgere il resto della moltiplicità reale che ci apparisce. E questa moltiplicità mondiale risulta parte dal Creatore stesso che ha composto il mondo di piú enti e li conserva, parte dal mondo che ha in sé una catena di cause e di effetti. Conviene dunque, che esaminiamo attentamente il mondo stesso prodotto, e che vediamo ciò ch' esso riceve dalla prima causa, e ciò che opera egli medesimo come contenente delle cause che rispetto a quella prima si dicono cause seconde. A fare ciò è necessario che prima distinguiamo nel mondo stesso quelle che sono cause in senso stretto da quelle che sono principŒ. Secondo i significati piú ristretti, principio si dice: « quel primo atto d' un ente o d' una entità, da cui procede tutto ciò che è nell' ente e nella entità »; causa poi si dice: « un ente o una entità da cui procede un altro ente o un' altra entità che non forma parte dell' ente o dell' entità da cui procede ». Ora, egli è manifesto che nel mondo ci sono dei principŒ e delle cause . Che ci siano de' principŒ, noi l' abbiamo dimostrato coll' analisi nella Psicologia, dove abbiamo a lungo parlato degli enti7principio [...OMISSIS...] . Che ci sieno delle cause , lo provano le azioni vicendevoli che esercitano gli uni sugli altri gli enti mondiali, reciprocamente modificandosi. Noi abbracceremo gli uni e le altre sotto la denominazione generica di cause seconde . Noi non possiamo conoscere le cause e la loro concorrenza a produrre l' effetto, se non esplorando ed analizzando l' effetto stesso. Or dall' esame dell' intima costituzione dell' ente finito, noi abbiamo trovato, ch' egli consta di due elementi di diversa natura: cioè 1) dell' essere (iniziale ed obiettivo); 2) del reale finito, termine improprio dell' essere iniziale. La differenza profonda tra questi due elementi si è: che l' essere è antecedente di concetto al reale finito, e non costituisce il subietto dell' ente finito, mentre l' ente finito subietto è solamente il reale finito. Ma l' unione di questi due elementi è cosí intima, che il reale finito ha di continuo l' esistenza dall' unione coll' altro elemento che non è lui, cioè dall' unione coll' essere ; di maniera che, per un sintesismo, senza l' essere egli non è nulla, ma coll' essere egli è qualche cosa diversa dall' essere: diversità che è quella che passa tra l' assolutezza e la relatività. L' essere è sempre in un modo assoluto, ancorché egli si mostri indeterminato, comune, virtuale: il reale finito è in un modo relativo. Ciò che vi ha di assoluto nell' ente finito, cioè l' essere , non può venire che dalla causa prima, da Dio: e poiché l' ente finito ha l' esistenza continuamente dall' essere , perciò egli stesso tutto intero è un effetto della causa prima, cioè di Dio. Ma il reale finito , posto che esista relativamente, ha per questa sua esistenza un atto primo, e in quest' atto primo ha la qualità di causa , e cosí s' hanno le cause seconde . La causa prima dunque è quella che dà l' essere e con esso l' esistenza del reale relativo. Nell' ordine poi dell' esistenza relativa, il reale esistente produce degli effetti, rispetto ai quali è causa seconda (principio, potenza, causa). L' operare dunque della prima causa è sempre per modo di creazione, e il resto fanno le cause seconde nell' ordine dell' esistenza relativa. L' applicazione del qual principio richiede un discorso non breve. Dopo aver noi veduto come la Mente eterna prima causa possa concepire gli enti finiti, il che abbiamo chiamato tipificazione, dobbiamo vedere com' essi vengono all' esistenza propria e relativa per opera della stessa prima causa, il che diciamo creazione, prima trattando della creazione delle persone finite, poi dell' altre cose impersonali che ad esse si riferiscono. Uopo è dunque richiamarsi alla mente quello che abbiamo detto: che Iddio è l' essere e la natura dell' essere è quella di esser mente, e mente attualissima, cioè pura intellezione. Quest' atto intellettivo, che è l' essere, intende se stesso oggetto essenziale, e in se stesso come unico oggetto gli enti finiti, i quali sono enti completi quando abbiano l' essere personale. Quest' atto intellettivo è perfettissimo, e però l' energia sua è pienissima. Da questo avviene che, intendendo se stesso, il se stesso inteso acquisti una sussistenza propria e personale, che dicesi Verbo. Poiché la cosa che l' intellezione divina vuole intendere è se stessa tutta qual è personalmente esistente, è necessario che la cosa intesa come intesa abbia una esistenza personale pari alla stessa essenza intelligente, e cosí ci sieno due persone aventi l' una e l' altra la stessa intellezione. E lo stesso abbiamo già detto della terza persona, che è la stessa essenza che esiste personalmente come essenza amata, per la perfezione dell' atto dell' amore. L' infinita energia di quest' atto intellettivo lo rende perfettamente vero , perché raggiunge il suo oggetto, che è se stesso, cosí pienamente da produrlo come inteso sussistente, siccome pure lo produce come amato sussistente. [...OMISSIS...] . Pertanto egli è uopo dire una cosa somigliante della creazione degli enti finiti. Poiché s' è visto, che propriamente non ci sono molti oggetti distinti nella mente divina, ma un oggetto solo, e che l' atto creativo della mente è quello che, equivalendo a molti atti, vede quell' unico oggetto come rappresentante di tutto ciò che di finito vuol vedervi. Or questa, che i Teologi chiamano scienza di visione o d' approvazione , è quella colla quale conosce l' ente finito sussistente perfettamente, e il conoscerlo cosí è crearlo. Conviene dunque che la persona conosciuta sia in un modo perfettissimo in Dio, se deve conoscerla perfettamente. In noi, che abbiamo una cognizione imperfetta, non avviene cosí; ma dobbiamo conoscere i sussistenti con due atti. A noi è prima d' uopo l' intuizione della specie, ossia la cognizione dell' ente come possibile, il quale non è ancora ente qual richiede di essere per propria natura, perché all' ente, alla persona, è necessario d' essere in se stessa, acciocché sia persona (2). E dobbiamo aggiungere in appresso un atto d' affermazione , che noi facciamo quando n' abbiamo la percezione sensitiva. Ma la percezione sensitiva non essendo che l' azione d' un altro in noi esercitata, cioè un effetto in noi prodotto, un effetto del quale ci serviamo come di segno per conoscere l' esistenza dell' agente causa d' un tale effetto, è manifesto che la sussistenza della persona non ci è nota qual' è in sé immediatamente, ma per un passaggio che la nostra mente fa dal segno e dall' effetto alla cosa segnata ed alla causa. Questa dunque ci rimane incognita in se stessa, che come tale non è in noi, e coll' affermazione che aggiungiamo alla specie noi altro non facciamo che conoscerne l' esistenza. La natura poi, se si tratta d' una persona, l' argomentiamo trasportando nell' ente, di cui abbiamo conosciuta l' esistenza, la forma della persona nostra, di cui solo abbiamo positiva cognizione. E questo è conoscere imperfettamente: poiché non è già che conosciamo immediatamente la realità dell' altra persona, ma solo pensiamo che deva esser simile alla nostra. Non può esser cosí il conoscere perfettissimo di Dio, il quale dee conoscere anche la realità propria di ciascuna persona e di ciascun ente finito. Onde convien dire, che la realità stessa, che è il punto oscuro della cognizione umana, sia perfettamente conosciuta in Dio. Ma in Dio la realità propria de' finiti si dee conoscere con un atto unico, che è intuitivo, imaginativo, e affermativo ad un tempo; e si dee conoscere sussistente (1). Perocché, all' ente finito è essenziale il sussistere in sé: non può esser quindi conosciuto perfettamente, se non è conosciuto in ciò che appunto lo costituisce perfettamente, che è la sussistenza. O converrebbe dunque negare a Dio la cognizione de' finiti, o dargliela solo imperfettamente, o ammettere che la sua cognizione perfetta degli enti finiti è un atto creativo che rende sussistente il suo obietto, di maniera che la sussistenza in sé degli enti finiti consegue alla perfezione della divina intelligenza. Questa dottrina illustra e determina il significato d' alcune espressioni difficili usate da' filosofi e da' teologi. Dicono, che le cose tutte sono in Dio non solo in quanto a quello che hanno di comune, ma anche in quanto a quello in cui si distinguono le une dalle altre, e che è in Dio anche la loro realità (1). Dicono, che le cose finite sono nella scienza di Dio loro causa (2). Dicono, che c' è un doppio essere degli enti finiti, l' essere naturale e l' essere intelligibile ; e che negli agenti della natura preesiste la forma della cosa da farsi secondo l' esser naturale , in quelli poi che operano per intelletto preesiste la forma della cosa da farsi secondo l' essere intelligibile ; e questo essere intelligibile chiamano similitudine . Volendo noi sottomettere queste diverse espressioni alla critica, e togliendo loro d' attorno quello che possono avere d' equivoco, determinarne il vero significato, primieramente diciamo, che l' essere gli enti finiti in Dio , o nella scienza di Dio , sono espressioni equivalenti, perché in Dio, come dicono, « intelligere est esse (3) ». Se gli enti finiti sono nell' intendere di Dio, ossia in Dio, dunque essi hanno un essere intelligibile , e quest' essere non è diverso da Dio stesso, perché è lo stesso atto divino, che è quanto dire l' essenza divina, poiché in Dio si avvera quello che troppo universalmente fu detto, cioè: che [...OMISSIS...] . Dissi che a questa sentenza si diede troppa estensione, perché s' avvera compiutamente in Dio solo, e negli altri intelletti non s' avvera pienamente. Poiché ciò che v' ha di assolutamente e per sé conoscibile non è che l' essere. Ora, secondo San Tommaso di cui è quella sentenza, l' ente finito non è l' essere, né pure il proprio essere: « nulla forma vel natura creata est suum esse (5) ». Dunque consegue che nessun ente intellettivo che non è l' essere possa intendere cosa alcuna se non uscendo di sé e unendosi all' essere, che è un altro, per la qual congiunzione con un altro egli diviene intelligente. All' incontro Iddio, essendo l' essere stesso, ha l' intelligibile in sé, perché egli stesso è l' essere; e però di lui solo s' avvera pienamente quello che disse Aristotele troppo estesamente, cioè che intelligibile in actu est intellectus in actu . Noi di vero concepiamo l' atto dell' intendere come l' unione dell' intendimento con ciò che s' intende, quasi l' intendere sia l' effetto di questa unione (1). In fatti appresso di noi l' intendimento e l' inteso sono due cose distinte che si considerano anco in separato, e cosí ciascuna di esse in potenza, onde poi rimangono distinte anche quando sieno unite: nella quale unione ciò che sussiste è il solo intelligente in atto come un subietto individualmente unito ad un obietto che non è lui. Ma Iddio è lo stesso intendere attuale (2); è piú che intelligente o che intelligibile: è intelligente in atto ultimato, che noi diciamo per sé inteso . Per questo nell' intendimento della creatura, oltre il subietto intelligente e il reale inteso, c' è di mezzo la specie , che è quella forma obiettiva che attua l' intelligente e che non è l' intelligente, ma è ciò che è per sé intelligibile, cioè l' essere, e però è ciò che il nostro intendimento immediatamente intende (3), e in cui e per cui intende poi i reali con un atto d' altra natura, che è l' affermazione e la predicazione. Iddio invece non ha bisogno d' una specie diversa da sé per intendere, perché è egli stesso intelligibile e inteso per sé, a cagione ch' egli è l' essere stesso: Iddio intende la propria essenza, e con questa, come dicemmo, intende l' altre cose finite. Ma convien che le veda nella propria essenza dove sono virtualmente comprese; se dunque vuol vederle distintamente ed attualmente, il che è in suo potere, conviene che le distingua e attui. Ma posto che le distingua ed attui colla forza del suo atto intellettivo per vederle, esse già esistono in se stesse; il che è quanto dire sono create. Dacché esse non preesistono e però non possono essere conosciute, non possono essere conosciute se non con quest' atto stesso con cui sono create, perché solo create sono distinte dalla divina essenza, e tra loro: e delle cose finite non esistenti non ci può essere in Dio altra conoscenza pratica se non virtuale (1). In Dio dunque non ci sono specie (2), tenendo luogo di specie l' unica essenza divina che è non solo intelligibile, ma il per sé inteso. Pure a Dio si sogliono attribuire idee , intendendo per idea non ciò con cui si conosce, ma la forma separata dalla cosa, la qual forma è ciò che si conosce. San Tommaso infatti cosí definisce le idee: [...OMISSIS...] . Ma, se l' idea è la forma delle altre cose, separata dalle cose esistenti, chi conosce tale forma non conosce ancora le cose nella loro propria sussistenza, ma solo la parte formale delle cose esistenti in sé. Onde le idee, prese in questo senso, non bastano a spiegare la cognizione che Iddio ha delle cose singole esistenti. Né vale il definire l' idea, come fa il Gaetano, « ratio obiectiva rei (4) », perché la ragione obiettiva della cosa non fa ancora conoscere se la cosa sussiste o no. Soggiunge poi San Tommaso, che l' idea serve a due usi, cioè o serve ad esemplare di quella cosa di cui ella è forma, o serve a principio della cognizione della cosa medesima (5). L' idea dunque ella è anche « « principio con cui si conosce » ». Ma il principio con cui si conosce, secondo San Tommaso, è la « specie , » [...OMISSIS...] (6). L' idea dunque è la stessa specie, quando se ne fa uso, come principio della cognizione. Né regge la distinzione che fa il Gaetano tra il principio della cognizione come informante l' intelletto, il che chiama specie , e il principio della cognizione come forma intesa, il che chiama idea (7). Poiché la forma intesa è appunto quella che informa l' intelletto, ed è perciò tanto specie quanto idea . Infatti tale è la natura dell' intelletto, che altra forma non ammette, se non l' obiettiva, benché questa si possa riguardare da noi in due rispetti: come termine interno e forma dell' atto intellettivo, e come principio intellettivo d' un' altra cosa e d' un altro modo di essere. Laonde San Tommaso stesso non si guarda in molti luoghi dall' adoperare specie per idea . E riconosce, che ciò che informa l' intelletto «( principium quo ) » è la prima cosa che l' intelletto intende «( principium quod ) » e che dice « per sé intesa » (1). E` dunque a dire che San Tommaso, quando distingue la specie dall' idea , parla secondo il modo dell' intendere nostro imperfetto: poiché in noi veramente c' è un solo principio con cui intendiamo, e ci sono molte cose intese: essendo il principio con cui intendiamo tutto, l' essere ideale , e le molte cose da noi intese avendo in noi molte forme, si dicono queste idee o specie a cagione che sono distinte in noi per la distinzione reale delle percezioni sensitive, alle quali noi riferiamo l' idea o la specie unica dell' essere; la quale non impropriamente si può dire specie , ove si voglia intendere per questa il principio con cui s' intendono l' altre cose, e idea quando la si considera come l' oggetto per sé inteso. E però quando San Tommaso dice: [...OMISSIS...] , dice certamente una bella verità: ma è da notarsi che sostituisce alle idee le molte cose intese . Ora le molte cose intese da Dio non sono semplicemente molte forme intellettuali, ma sono le cose stesse. Quando dunque il Santo dottore lascia i vocaboli e le forme prestabilite dall' aristotelismo, allor diventa chiaro, e cessa ogni equivoco. Poiché non si limita solamente a dire, che Iddio conosce tutto colla sua essenza come con una specie sola o principium quo , ma dice medesimamente che l' idea in Dio non è altro che la sua stessa essenza come « principium quod ». [...OMISSIS...] (3). Come dunque conosce le molte cose finite ? Risponde San Tommaso: pei diversi rispetti che la sua unica essenza ha alle diverse cose finite. Ma i rispetti diversi tra la essenza divina e le cose finite non ci possono essere, se non ci sono le cose finite che sono un estremo di tale relazione. E le cose finite non ci sono, se Iddio non le produce. Convien dire dunque che è un medesimo atto quello con cui Iddio produce le cose finite e i rispetti di esse alla propria essenza. Non può dunque dividersi in Dio la cognizione attuale e distinta e piena delle cose finite dalla creazione di queste. Onde San Tommaso dice, che il mondo è fatto da Dio per « intellectum agentem (1) ». E da questo viene che i molti rispetti dell' unica essenza divina alle creature, sono essi stessi causati da Dio ab aeterno , secondo che insegna San Tommaso medesimo (2), e costituiscono quella sapienza di cui è scritto: ab initio et ante secula creata sum (2). Le idee dunque sono prodotte ad aeterno ad un tempo colle cose temporanee, e dipendono dalla libera intelligenza divina, come abbiamo già detto (4). Ma questa parola di rispetti produce equivoco, perché riceve un doppio significato. Questi rispetti diversi , come ragioni o idee intese , sono posteriori alla cognizione che ha Dio delle cose distinte, sono rispetti ideali conseguenti e riflessi: non sono dunque necessari acciocché Iddio conosca le molte cose distinte . Come pertanto conosce molte cose distinte? Colle molte idee, dice San Tommaso. Ma come le idee sono molte? Le idee, dice, sono la sua essenza; ma coi diversi rispetti ella acquista la ragione di piú idee, « respectus quibus multiplicantur ideae ». Questi rispetti devono essere anteriori alla cognizione che Dio ha delle cose, perché le costituiscono. Ma anteriormente alle cognizioni che Dio ha delle cose distinte, non ci sono le cose: i rispetti dunque dell' essenza divina, che costituiscono la cognizione delle cose, devono essere quelli stessi con cui le cose vengono all' esistenza. Anteriormente poi all' esistenza delle cose, e della cognizione delle cose, altro non c' è che l' unica essenza intelligibile per sé di Dio, e l' intellezione divina . Nell' essenza divina per sé intelligibile ci sono tutti gli enti finiti, ma solo virtualmente e indistinti. L' atto dell' intellezione divina li rende distinti, e cosí li crea. Resi cosí distinti gli enti e creati, si possono per astrazione cavare i rispetti ideali tra le cose distinte già e create, e la divina essenza. Conviene dunque dire, con piú proprietà, che non c' è niente di ideale in Dio, se non posteriormente o almeno simultaneamente all' intellezione reale, con cui Iddio e distingue ad un tempo e crea le cose finite. Perciò quando si pongono molte idee in Dio, allora si parla al modo umano. Rimosse le idee distinte dalla divina essenza è salva la semplicità perfetta di questa divina essenza (5). Non ci sono dunque, a rigore parlando, piú idee in Dio, prese queste come forme intelligibili delle cose, ossia non ci sono piú oggetti ideali ; anzi non ci sono affatto idee , ma c' è un solo oggetto intelligibile e un solo atto d' intellezione che intende producendo l' inteso; giacché niente può essere pienamente inteso, se l' intelligente coll' atto d' intenderlo non lo produce (1). Ma se dalla divina natura, a parlar con rigore, si devono affatto rimuovere le idee, che a lei s' applicano solo per una maniera di parlare analogico tolto da ciò che accade nella mente umana, che cosa sarà il cognito della mente divina? Sarà lo stesso reale intelligibile , senza nulla di mezzo: ma questo reale non in quanto è puramente in se stesso, che è la sua esistenza relativa, ma in quanto il reale in se stesso esistente è in Dio. Abbiamo distinto il reale che l' uomo conosce, dal reale che conosce Iddio. Fermandoci all' atto della perfetta intellezione, alla illimitazione di questa appartiene, ch' ella non solo intenda l' essere infinito, ma che intenda tutti gli enti finiti in esso compresi per una virtualità d' eminenza . Questo, niuna intelligenza il potrebbe fare in un' idea vota di realità, come nell' idea dell' essere, che è un essere virtuale dove tutto il reale è nascosto, onde da noi si chiama una virtualità di scadenza ; ma ben il può far l' intelligenza quando un oggetto reale a lei sia dato (2). Può dunque l' intelligenza infinita nell' ente finito conoscere e discernere di cognizione tutti gli enti finiti ch' ella voglia, ossia formarsene, come dicevamo, i tipi. Ma dato che Iddio si formi questi tipi attuali, già esistono in se stessi gli enti finiti. Poiché gli enti finiti, e soprattutto gli enti finiti persone, hanno un' esistenza propria e in sé, e senza questa esistenza propria in sé non sono enti finiti. Una qualunque similitudine ideale dell' ente finito non è l' ente finito, e il conoscer quella non è il conoscer questo. Nessuna idea pertanto o similitudine ideale basta a far conoscere l' ente finito nella sua natura compiuta, che importa l' esistenza in sé. Che cosa dunque a ciò si richiede? Si richiede il verbo della mente, come abbiamo dimostrato nell' « Ideologia (531 7 534, 495 n. , .51 n. , 132. n. , 1355). » Ma altro è il verbo della mente umana, altro il Verbo nella mente divina. Il Verbo della mente umana non produce gli enti finiti assolutamente, ma solo li produce relativamente alla mente umana. Anteriormente dunque al verbo della mente umana, gli enti finiti hanno un' esistenza in sé; ma anteriormente al Verbo divino, niun ente finito esiste; perciò col Verbo divino vengono all' esistenza in sé. La stessa mente umana è uno degli enti finiti che esiste in sé, assolutamente parlando; ma col suo verbo, in quanto termina nello stesso soggetto intelligente, esiste relativamente a sé «( Ideol. , 439 7 443; Psicol. , 61 7 .1) »; del pari col suo verbo conosce gli altri enti, in quanto realmente e in sé sussistono: ma come avviene questo verbo? Primieramente è dato all' uomo l' essere ideale. Ma di questo essere non può far uso come di similitudine, finché a lui non sieno dati gli enti finiti. Questi gli sono dati in un sentimento oscuro e inintelligibile, che è quello che costituisce la sua propria natura subiettiva, atto ad essere modificato col ricevere l' azione che gli altri enti finiti esercitano nel medesimo. Dato questo sentimento e le sue modificazioni (né l' uno né le altre essendo essere), nell' idea dell' essere che intuisce egli le apprende, e allora l' essere ideale comincia ad uscire dalla sua virtualità di scadenza. Allora l' uomo pronuncia il proprio sentimento come un ente esistente, e le azioni fatte in quel sentimento come prove di altri enti esistenti che pure pronuncia ed afferma esistenti. Questi pronunciati della propria esistenza e dell' esistenza d' altri enti sono quelli che si dicono verbi della mente: i quali costituiscono la cognizione che ha l' uomo degli enti reali in quanto sono in sé sussistenti (1). Il verbo dunque della mente umana è il sentimento pronunciato come ente in sé , se trattasi del proprio sentimento sostanziale, o è il pronunciamento d' altri enti in sé . Al soggetto umano intelligente, anteriormente ad ogni suo verbo, è dato dunque in separato: 1) l' atto dell' essere senza termine; 2) de' reali finiti. E il verbo umano consiste nel congiungere quello con questi, cioè nel predicare l' atto dell' essere de' reali finiti, e cosí formarli a se stesso e conoscerli come enti in sé essenti perché « l' ente in sé essente è un reale che ha l' atto dell' essere ». Tale non è il Verbo divino. A questo Verbo non precedono come dati né l' essere ideale, né un sentimento reale finito. Convien dunque concepire in altro modo il Verbo divino. Devesi prima concepire la costituzione dell' Essere Dio, e poi la creazione degli enti finiti. Per concepire in qualche modo la costituzione dell' Essere Dio, si dee movere dal concetto dell' Essere per sé inteso. Quest' essere è compiuto e infinito, e però realissimo vivente e sussistente in sé. L' Essere per sé inteso importa un infinito atto d' intelligenza con cui intende pienamente se stesso come vivente e sussistente, atto sempre compiuto ab aeterno . Quest' atto d' intelligenza dunque non può essere che un pronunciato di sé, cioè un Verbo di tale intelligenza. Ma se quest' atto termina in tutto se stesso come sussistente e vivente in sé, è conseguente di logica necessità, che l' inteso sia ad un tempo inteso rispetto al subietto intelligente, e sussistente in sé come inteso . In quanto è puramente inteso, puramente obietto nell' intelligente, è la sapienza essenziale a Dio; ma in quanto sussiste come inteso, è una persona in se stessa, diversa da quella dell' intelligente come intelligente, ed è il Verbo personale di Dio. Cosí Iddio è costituito, lasciando noi di parlare della terza persona. Ma l' intelligente che intende e ha inteso pienamente se stesso, in se stesso inteso ha tutti gli enti finiti in una virtualità d' eminenza, perché ha tutta la realità e la perfezione. Dunque può pronunciare tutti, o quanti vuole, gli enti finiti che sono in lui, e cosí conoscerli perfettamente. Conoscerli perfettamente è conoscerli in tutta la loro natura, parte della quale è la loro reale sussistenza in sé. Se vuole dunque conoscerli pienamente secondo la loro propria natura sussistente in sé, dee pronunciarli e affermarli. Questo pronunciamento li produce come intesi nello stesso intelligente divino rimanendo in esso la cognizione loro come effetto del pronunciamento, ossia ultimazione dell' atto, non diverso dall' atto stesso; ma questi intesi esistono per ciò anche in sé, ché altramente non sarebbero in sé esistenti e sussistenti conosciuti; e quest' è l' atto della creazione per la quale esistono in sé gli enti finiti perché esistono in Dio come perfettamente conosciuti. Ora, questo modo d' esistere in Dio come intesi, come pronunciati in Dio, è quello che San Tommaso chiama l' « essere intelligibile delle creature »; la loro sussistenza poi in se stesse è quello che egli chiama l' essere naturale delle medesime (1). L' atto dunque dell' intellezione divina è sempre il pronunciamento d' un verbo, sia che pronunci se stesso qual è sussistente, sia che pronunci e affermi gli enti finiti in sé contenuti in una virtualità d' eminenza: questo è il solo modo di conoscenza perfetta, e il solo perciò che conviene a Dio. Ma l' atto con cui pronuncia se stesso sussistente, e l' atto con cui pronuncia gli enti finiti, non sono perciò due atti o due verbi; ma è l' unica intellezione divina, è Dio stesso, l' « intelligere subsistens » di San Tommaso (1). Tutto l' ente è pronunciato dal Verbo. - Ma prima di parlare del Verbo in Dio, conviene che consideriamo il Verbo nella mente umana. Il verbo pronuncia sempre la realità subiettiva. Solo è a porre attenzione che la mente umana talora finge che anche ciò che non ha veramente nulla di subiettivo, l' abbia, per bisogno di ragionare e di operare. Conviene dunque distinguere nell' uomo due sorte di verbi: il verbo vero e primo, e il verbo dialettico e posteriore. Lasciando dunque il verbo dialettico, che n' ha solo la veste, consideriamo il verbo vero e primo dell' uomo. Questo c' è, quando l' uomo afferma qualche ente sussistente o reale. Due generi di enti reali egli afferma: gli enti persone , e gli enti impersonali . Il primo degli enti personali che afferma (almeno implicitamente) è se stesso: le altre persone egli afferma, avuta qualche prova della loro sussistenza, in quanto da se stesso prende la loro specie o idea, con cui ne conosce l' essenza. Afferma poi gli enti impersonali, per l' azione che esercitano in lui: e quelli che non esercitano azione sopra di lui, li afferma, avuta qualche prova della loro sussistenza o realità, immaginandoli e pensandoli sopra una specie cavata dalle azioni di quelli che hanno operato su lui. Il verbo dunque piú perfetto e anteriore della mente è quello con cui l' intelligente afferma se stesso; di poi quello con cui afferma ciò che agisce sul suo sentimento. Ora, quest' attività sperimentata di tali enti non è tutta la natura dell' ente stesso subiettivamente sussistente: rimane quindi, anche pronunciato un tal verbo, intieramente oscura ed ignota la natura del subietto operante, ed è la sua virtú attiva, che tien luogo di subietto. Questi enti si chiamano da noi estra7subiettivi, perché del vero subietto nulla sappiamo, e ne conosciamo solo la virtú di modificar noi. Indi accade che il verbo che noi pronunciamo quando affermiamo la sussistenza delle cose impersonali non sia una perfetta similitudine di tali cose come sussistenti. La qual mancanza di similitudine però nasce dall' imperfezione dell' idea, che non esprime la loro natura, ma solo l' effetto della loro azione in noi. Lasciamo dunque da parte anche questa sorta di verbo come imperfetto, giacché noi cerchiamo il concetto d' un verbo perfetto. L' anima umana pronuncia certamente il piú perfetto verbo che ella possa pronunciare, quando afferma se stessa: questa affermazione in qualche modo le è anche essenziale, come persona. Ella ha di sé l' idea piú perfetta, perché ella è essenzialmente sentimento «( Psicol. , .1 7 123) »; e perciò, quando pronuncia quel verbo con cui afferma se stessa, pronuncia cosa che conosce, la pronuncia, dico, come sussistente. Ma poiché questo sentimento sostanziale non è l' essere, ma solo ha l' essere, che è il solo intelligibile per sé, perciò ella non è per sé intesa, e, come dice S. Agostino, non è luce a se stessa; ma s' intende e si pronuncia nell' essere, che a lei si appalesa come puro obietto, e però come un altro diverso da sé subietto. Sono dunque due questioni diverse: « se l' anima intellettiva intenda sempre se stessa », e « se ella sia intelligibile e intesa per se stessa ». Lasciando noi la prima da parte, diciamo, che il sentimento sostanziale che costituisce il subietto7anima non è intelligibile né inteso per se stesso, ma per l' essere e nell' essere che è un altro da lei «( Ideol. , 439 7 442; 9.0 7 9.2) ». L' uomo dunque conosce se stesso nell' essere come un principio vivente sensitivo, e come tale si pronuncia. Un principio vivente sensitivo che si conosce e pronuncia è un compiuto subietto. Si conosce dunque come subietto e però come un ente, senza aver bisogno di supplire dialetticamente il subietto, come è necessitato a fare nella percezione intellettiva de' corpi. Ma nello stesso tempo, intende, che questo subietto che si conosce non è intelligibile per se stesso nella sua sussistenza; e però rimane anche in questo verbo qualche cosa d' oscuro. Poiché dunque il principio subietto sensitivo e intellettivo, preso da sé solo, non è intelligibile, né pure questo verbo umano , che è il piú perfetto di quelli che possa pronunciar l' uomo, è similitudine dell' uomo sussistente; e cosí molto meno gli altri verbi, co' quali l' uomo pronunzia l' altre cose, hanno natura di similitudine , ma l' hanno solo di affermazione . E indi è che nell' uomo si distinguono profondamente i due modi di conoscere: per oggetto, idea, o similitudine; e per affermazione, o pronunciato, o verbo. Ciò che si conosce nel primo modo è l' ente come oggetto, ma senza sussistenza propria. Ciò che si conosce nel secondo modo, è la sussistenza in sé: non però la sussistenza in sé come oggetto, ma puramente come sussistenza in sé non oggetto. Né pure dunque questo verbo, che è il piú perfetto e il piú luminoso di tutti quei verbi che può pronunciar l' uomo, raggiunge la perfezione del Verbo divino (1). Infatti la realità e sussistenza divina è intelligibile per se stessa come realità e come sussistenza, perché, essendo infinita, è l' essere stesso. Quindi non si dà in Dio quella distinzione che si trova nell' uomo tra ciò che è conosciuto come oggetto, e ciò che è conosciuto come sussistente in sé subiettivamente; ma il cognito divino è insieme tanto oggetto, quanto sussistente in sé, perché l' oggetto stesso è sussistente. Di qui procede, che l' oggetto divino sia la prima e perfettissima similitudine . Ma la vera e prima similitudine è la cosa in quant' è oggetto d' una mente. Lo stesso essere divino dunque da sé pronunciato è prima e perfettissima similitudine di se stesso. L' intellezione dunque sussistente, che è Dio, termina in se stesso sussistente come in perfettissima similitudine e immagine di se stesso, che è quanto dire come per sé inteso (1). Ma come l' intendere divino ha sempre natura di pronunciato e di verbo, che è il modo d' intendere perfettissimo, consegue che tutti gli oggetti di questo verbo non sono puri oggetti, ma oggetti sussistenti. Se dunque il pronunciamento divino non si porta solo in se stesso senza limitazioni, ma si porta anco negli enti finiti, virtualmente in sé contenuti, anche questi devono necessariamente sussistere. Ma la sussistenza di questi enti, finiti in se stessi, non è la sussistenza di Dio, in sé, il quale è essenzialmente illimitato. Conviene dunque che tali enti sussistano della loro sussistenza propria, e cosí ci abbiamo degli enti con una sussistenza subiettiva in sé diversa dalla sussistenza di Dio medesimo. Avendo una sussistenza in sé diversa dalla sussistenza di Dio, si dicono esistere fuori di Dio, perché sussistere in sé è un sussistere fuori d' ogni altro subietto: non potendosi mai i subietti confondere. Cosí dunque accade la creazione. Dalle cose dette intorno la virtú e l' efficacia dell' atto intellettivo divino procede, che la prima e universal causa non sia altro che un intelletto, e, per dir meglio, lo stesso intendere sussistente che è Dio. La qual dottrina è di San Tommaso, che ne trae un' altra conseguenza bellissima, della necessità, cioè, che tutte le cose abbiano un essere intelligibile nella divina mente. [...OMISSIS...] . Tutto è dunque fatto dall' intelletto divino, che è essenzialmente volitivo, pratico, operativo, ed è una sola intellezione. L' essenza divina intesa è ad un tempo esemplare di tutti gli enti finiti; ma contenendoli ella solo per una virtualità d' eminenza, c' è bisogno dell' intellezione libera che ne faccia la tipificazione e la creazione con un solo atto. Questa tipificazione non pone nessuna distinzione nella essenza divina intesa, ma rimane atto dell' intelligente; e della distinzione sono subietto unicamente gli enti che risultano in sé esistenti per quest' atto. Procedono quindi queste conseguenze: 1) che l' essenza divina, come per sé intesa , contiene tutte le perfezioni delle cose create unite insieme in una virtualità d' eminenza, senza distinzione alcuna; 2) che l' essenza divina, come intelligente , avendo in sé l' essenza divina come per sé intesa, oggetto perfetto che anche sussiste come subietto personale, pensa quest' oggetto limitandolo: e questo pensiero limitante altro non è che atto dell' intelligenza divina, e non propriamente un oggetto novo, ma l' oggetto primo, cioè l' essenza divina perfetta per sé intesa in relazione coll' atto divino limitante; 3) che quest' oggetto limitato dalla intelligenza divina sono gli enti finiti, i quali devono oggimai sussistere in se stessi atteso che, se non sussistessero con sussistenza propria, quest' oggetto limitato non sarebbe perfettamente pensato, mancandogli l' ultimo atto, che è il subiettivo. L' azione dunque limitante dell' intelligenza divina unita all' intelligenza di se stessa, che è un solo atto coll' intellezione divina, è la potenza creatrice. Non è dunque necessario ammettere piú oggetti in Dio per ispiegare la creazione. E l' ammettere piú oggetti fu l' errore de' Platonici nato da questo, che non distinsero accuratamente le idee dal verbo della mente, e fermandosi nella contemplazione delle idee, e vedendole causa della cognizione che noi abbiamo delle cose immutabili ed eterne, conchiusero che ci doveano essere molti principŒ per sé essenti ab aeterno , per la partecipazione de' quali fossero informate le cose. Questo sistema, che non istimiamo esser quello di Platone, ma de' Platonici, pecca da piú lati: 1) suppone la materia eterna, come quella che non può essere data dalle essenze ideali, che non la contengono; 2) suppone che ci sia qualche cosa di assolutamente inintelligibile, perché ogni cognizione ideale lascia la realità come un incognito, e quindi viene a negare una intellezione perfetta, la quale solo è Dio. Questi filosofi si contentavano dunque di sostantificare degli astratti, parendo loro tanto piú perfette le idee, quanto fossero piú astratte; senza avvedersi che se guadagnavano in estensione, perdevano in comprensione. E cosí dovevano dividere l' essenza eterna, perfettissima e sussistente, in piú principŒ. In questa maniera s' intende come si dica con verità, che tutte le cose sono in Dio, senza perciò cadere nel panteismo. Questo sistema nasce da una maniera di pensare materiale, che non raggiunge la verità dell' esposta teoria. In fatti, che tutte le cose sieno in Dio, è sentenza della cristiana tradizione. San Paolo già disse: [...OMISSIS...] Esse sono in Dio in due modi, cioè: 1) Sono nell' essenza divina intesa e sussistente, cioè nel Verbo per una virtualità di eminenza, e però senza distinzione alcuna; e cosí si dice che sono in Dio come in causa esemplare eminente . 2) Sono nell' essenza divina intelligente e sussistente come ultimazione del suo atto semplicissimo, dal quale risulta a se stesse un' esistenza propria, per la quale esistenza propria e relativa si dicono fuori di Dio. E cosí sono in Dio distinte come in causa efficiente eminente . Di che viene che la loro distinzione non sia in Dio, quasi che egli sia il subietto della loro distinzione, ma la distinzione rimane nell' effetto che sono esse stesse, rimanendo una la causa. Poiché questa causa è quella che, distinguendole e limitandole, le crea. Questi due modi, sono indicati in queste parole di San Tommaso: [...OMISSIS...] . Dove si distingue Iddio che fa, e cosí si considera come causa efficiente del mondo, e il suo Verbo, in cui egli lo fa, e cosí si considera come causa esemplare. L' atto creativo è quindi lo stesso essere, ente perfetto, che è intellezione divina. In quanto adunque l' atto intellettivo è comune alle tre persone, gli enti sono nell' essenza divina, sono la stessa essenza divina attualissima; in quanto l' atto intellettivo è in diverso modo nelle tre persone, gli enti finiti sono pure in diverso modo nelle tre persone, sono esse stesse. Ma essi sono distinti e sussistenti in se stessi, fuori di Dio. Ciò che è in Dio è lo stesso ente finito sussistente come oggetto reale, di cui tutto ciò che è di positivo, è nell' oggetto reale infinito, e ciò che è di negativo, cioè le limitazioni, appartiene, come a causa, all' atto intellettivo infinito; la qual unione individua del positivo e del negativo, dell' atto intellettivo limitante e dell' oggetto reale costituisce l' ente finito nella mente divina e in se stesso. L' ente finito pertanto ha due forme: in quanto è essere oggettivo reale, è in Dio come pienamente cognito; in quanto poi egli è puramente forma reale sussistente in se stesso, è fuori di Dio. Pertanto, ciò che in Dio si concepisce come Esemplare è lo stesso essere oggettivo reale de' sussistenti finiti . Quest' essere è termine dell' atto intellettivo divino. Non è dunque un esemplare come quello dell' artista umano, composto d' idee v“te d' azione, che dirigono bensí la potenza dell' artista, ma non operano esse stesse. L' esemplare divino è lo stesso atto creante, dal quale pende di continuo la sussistenza del Mondo, è questa stessa sussistenza in atto come cognita , e quindi dentro la forma obiettiva. Se l' atto divino non terminasse immediatamente nelle sussistenze create, ma conoscesse queste per via di molte idee mediatrici, non ci sarebbe piú modo di salvare la semplicità divina. Qualora dunque si voglia conservare, parlando di Dio, la parola esemplare , tolta da quello che avviene nell' artefice umano, conviene mutarle il significato; e non c' è altra definizione piú propria che questa data da San Massimo [...OMISSIS...] . In quanto poi alla parola idea , essa si può lasciare senza difficoltà, riservandola, come noi facciamo, a indicare l' oggetto dell' intuizione umana, non reale, ma puro termine dell' umano intelletto. In questo modo ritorniamo a dire: che gli stessi enti creati in sé sussistenti, non in quanto sono sussistenti relativamente a se stessi, ma assolutamente, sono l' immediato termine dell' atto creativo che è intellettivo verbiforme; in quanto termine della detta intellezione, all' intellezione stessa appartengono, come subietti oggetti; in quanto poi sono in se stessi sussistenti, in tanto hanno l' esistenza puramente subiettiva a sé relativa, e però fuori dell' oggetto. I subietti sussistenti dunque esistono in due modi: inchiusi nell' oggetto divino; e rispetto a sé, che è quanto dire fuori di questo oggetto. Come subietti oggetti, si possono dire similitudini perfettissime de' subietti puri. Ora i subietti oggetti non pongono alcuna distinzione in Dio, perché la distinzione è ne' subietti puri; la distinzione è prodotta dall' intellezione divina come da causa limitante e pronunciante, la qual limita e pronuncia i subietti reali in se stessi esistenti, rimanendo unico il pronunciamento, e rimanendo tutta la distinzione nell' effetto. Vedesi che il verbo intellettivo di natura sua è attivo rispetto alla realità pronunciata, e non è come l' idea che fa solamente conoscere i reali contenuti nell' oggetto, e non i reali come subietti sussistenti fuori dell' oggetto, né agisce in essi. Ma acciocché il verbo intellettivo spieghi quest' azione reale, conviene che sia verbo perfetto, qual' è quello che diciamo concreto «symphyes», ossia fatto per concrezione . Perciò noi dicevamo già che, tra tutti i verbi che l' uomo pronuncia, quello con cui pronuncia naturalmente e immediatamente il sentimento proprio, è il solo che abbia somiglianza in qualche modo col divino, benché rimanga ancora lontano dal rappresentarlo perfettamente. La condizione che rende il verbo concreto, e però attivo nel suo termine, si è questa, che « ciò che l' intelletto pronuncia ed afferma sia cosí fattamente congiunto coll' intelletto pronunciante ed affermante ossia emettente il verbo, che formi con esso un medesimo ente ». Questo s' avvera in Dio compiutamente, non solo quando pronuncia se stesso, e cosí genera quello che si dice Verbo divino, ma anche quando pronuncia gli enti finiti e cosí li crea. E ciò, perché, essendo Iddio quell' ente che non è altro che l' essere stesso, e l' essere essendo di natura sua non solo subietto, ma anche obietto, l' obietto pronunciato è sempre essenzialmente se stesso. Onde tutti gli enti finiti pronunciati, in quanto sono pronunciati e però oggetti del pronunciamento, sono lo stesso Dio pronunciante subietto, terminazioni interne del suo atto subiettivo, sono il suo atto terminante. I quali enti, rispetto a sé e, parlando delle persone, rispetto alle loro coscienze, non esistono come oggetti, ma in se stessi come puri subietti, non entrando nella loro coscienza l' obiettività che è il modo che hanno in Dio, la quale obiettività è la terminazione dell' atto sostantivo di Dio stesso. Dimostrato che l' intelletto è di sua natura una causa attiva e veramente efficiente, ritorniamo a dire, che il suo atto, quando termina a molte cose, o a cose aventi una natura diversa dalla sua propria, non partecipa necessariamente della loro moltiplicità, o della loro propria natura. La verità di fatto di questa proposizione si può almeno cominciare a riconoscere, considerando quello che avviene nello stesso intendimento umano. Quando l' uomo pensa un corpo reale, niuno ha mai creduto, eccetto alcuni insensati materialisti, che l' intelletto con ciò divenisse un corpo materiale, d' una data estensione e durezza, o cose simili. Aristotele ricorse alla specie , dicendo che si conosce la pietra per la specie della pietra (1); ma dato che colla specie della pietra si conosca l' essenza conoscibile della pietra, non resta spiegato come se ne conosca la sussistenza , che non è certo data nella sola specie, e a ciò si richiede il verbo, ossia l' affermazione intellettiva. Il qual verbo si riduce nell' uomo ad un semplice atto di assenso, tutto atto subiettivo: è l' atto del subietto che giunge ad un altro reale, e quasi direbbesi, lo tocca senza confondersi con esso. Come accade che avendo per termine della sua azione la pietra stessa, non ne prenda le qualita? Certamente per questo, che egli afferma esistente la natura della pietra nell' oggetto, o essere ideale, in cui la vede, venendogli ivi rappresentata dalla reale sensazione. Questo prova che la pietra, quand' è nell' oggetto, ha un altro modo di essere, diverso da quello che ha in se stessa, e che perciò l' intelletto non ha bisogno di prendere le qualità della pietra sussistente in se stessa, per conoscerla ed affermarla: ma può far tutto questo, senza che egli, o il suo atto perda le qualità sue proprie. Questa natura del verbo è certamente misteriosa, ma è misteriosa solo per l' abitudine che noi abbiamo di volere che tutte le azioni rassomiglino a quelle che noi vediamo esteriormente ne' corpi, e che prendiam per esempio dell' altre tutte, e crediamo di conoscere, quando in verità men dell' altre spirituali da noi sono conosciute. E` dunque da considerarsi la natura del verbo, con cui conosciamo i sussistenti, in se stessa, consultando la nostra consapevolezza, senza volercela spiegare ricorrendo ad esempi stranieri. Diciamo, che il verbo è un atto dello spirito, e però che non può avere altra natura da quella dello spirito, il quale è semplice e uno: deve dunque conservare la sua proprietà di essere spirituale, uno e semplice, qualunque sia la cosa che pronuncia, la quale non può fargli cangiar natura, benché ella sia il termine del suo atto. Questo termine dell' atto del verbo potrà dunque esistere in sé; ma in quanto è preciso termine interno d' un tal atto, è, per cosí dire, l' atto stesso attualissimo, e perciò della stessa natura di quel subietto che pronuncia il verbo. Si consideri che un principio ontologico universale è il seguente: « ogni qualvolta un subietto agendo o patendo conservi la sua identità, la sua azione o la sua passione è della stessa natura del subietto, perché non è altro che lo stesso subietto paziente od agente ». Il verbo dunque è un atto dell' intelletto e quest' atto, colla sua attualità che lo termina, conserva la natura dell' intelletto che è il principio che lo produce, natura semplice ed una. Pertanto, siccome questo termine, in quanto esiste in se stesso e cosí è un altro, può avere anco diversa natura; cosí questo termine può in se stesso esser moltiplice, senza che questa moltiplicità appartenga al termine, come termine attuale proprio del verbo. Scemerà la meraviglia di questo fatto, quando si considererà non solo in astratto, ma anche nelle sue applicazioni, il principio universale ontologico da noi fermato: « Ogni qual volta un subietto agendo o patendo conservi la sua identità, la sua azione e passione (e non solo quella parte di esse in cui cominciano, ma anche quella parte in cui vanno a terminare) conservano la natura e le proprietà essenziali dello stesso subietto ». Questa legge si può applicare a tutti gli enti7principio, che soli possono esser considerati come subietti reali. Conviene dunque dire necessariamente, che tutto ciò che è esteso o moltiplice in se stesso esiste nel principio senziente e nell' intellettivo in un modo inesteso e uno: sia che, per riguardo al principio intellettivo, questo modo inesteso e uno dicasi specie, nel qual caso non c' è che l' essenza; sia che dicasi verbo, nel qual caso c' è la stessa sussistenza: o sia che dicasi specie7verbo, per l' unificazione di tali due termini interni. E in questo modo si deve intendere e spiegare questa proposizione che pone San Tommaso: [...OMISSIS...] Il principio dunque e causa intellettiva ha questa natura singolare, che col suo atto ella stessa diventa oggetto, e se si suppone che quest' atto sia già ultimato, ella stessa è oggetto. Ma noi che conosciamo il solo nostro principio intellettivo, il quale non è perfetto e perciò molto di esso rimane in potenza, noi distinguiamo l' intelletto come in potenza, dall' intelletto come in atto. Per questa distinzione Aristotele disse, certamente con molta perspicacia, che nell' uomo [...OMISSIS...] . Questo secondo intelletto è quella forma oggettiva del subietto umano, per la quale ha la virtú visiva, o intuitiva: forma che, secondo noi, è lo stesso essere ideale. Ma il primo è quello che diventa tutte le cose quando le intende. Ma Aristotele non s' accorse bastevolmente dell' infinita differenza tra l' intelletto considerato in se stesso, nel suo ideale, nella sua perfezione, e l' intelletto imperfetto, che è piuttosto una partecipazione dell' intelletto, che l' intelletto medesimo (4): o s' egli se ne accorse, non analizzò a sufficienza questa differenza. Se l' avesse fatto, avrebbe veduto che nell' uomo l' intelletto non diventa mai col suo atto l' oggetto inteso, ma solo acquista quella attualità che dicesi cognizione . Or, per far ritorno all' oggetto dell' intendimento umano, esso oggetto è un altro e l' intendimento come un altro lo intuisce. Ma non avviene già che quest' altro sia lo stesso atto intuitivo, nel qual caso sarebbe effetto di quest' atto intuitivo: ma avviene solo che l' intuente riceva in sé l' effetto di tale unione intuitiva, il qual effetto non è l' oggetto, ma la cognizione dell' oggetto come un altro. Quello poi che l' intelletto umano vede e conosce nel suo oggetto, cioè nell' essere, sono primieramente i sentimenti reali. E` dunque da considerarsi, che l' intendimento umano nell' essere intuisce i sentimenti, come determinazioni dello stesso essere ideale. Questa maniera in cui sono davanti alla mente i sentimenti ossia le realità finite, è quella che si dice la loro esistenza assoluta , ossia il mondo metafisico . Il conoscerli in questo modo (che è la prima cognizione, fondamento di tutti gli altri modi di conoscere) è un barlume di quell' esistenza che hanno gli enti finiti in Dio. L' uomo vede dunque gli enti relativi in quanto in se stesso sono relativi, in un modo assoluto. Ma in Dio non sono gli enti relativi in quanto sono relativi, ma sono nel suo atto creativo come nella causa assoluta di essi relativi. Conosce dunque l' uomo l' esistenza relativa in un modo assoluto; quando Iddio conosce l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa in un modo assoluto. Ora, l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa non essendo percepita dall' uomo nella presente vita, accade che la sua cognizione sia manchevole; e ch' egli veda bensí i sentimenti nell' essere, che è il modo assoluto di conoscere, ma non veda la loro esistenza assoluta in Dio, che sola è atta a spiegare come sieno veramente nell' essere. Fino a tanto che l' uomo li intuisce semplicemente nell' essere, non sa ancora se esistano veramente in se stessi, ma solo sa che possono esistere in se stessi. E veduti dall' uomo nell' essere si dicono essenze , ma non sussistenze . Pur quelle essenze sono relative alle sussistenze, perché l' uomo non le vede nell' essere, se non perché le ha sentite sussistenti. Trasportò dunque i suoi sentimenti nell' essere. Ma questi sentimenti reali appartengono al modo d' esistere relativo, quando l' essere stesso appartiene al modo d' esistere assoluto. L' uomo dunque nell' intuizione della specie congiunge insieme il relativo coll' assoluto , e ne fa una sola cosa, cioè una sola specie. Ma il relativo e l' assoluto sono eterogenei; quindi l' impossibilità di vedere la loro congiunzione subiettiva, che è il punto oscuro della cognizione umana. L' uomo dunque non trovando nelle esistenze relative, cioè nei sentimenti, nulla d' intelligibile, che fa? Li veste della forma oggettiva che è assoluta, senza però con questo poterli mutare, e cosí ha delle esistenze relative oggettivate, ossia vestite d' una forma assoluta. Ma poiché esse dentro questa forma non possono portare la loro natura relativa che è la realità sussistente, perciò questa rimane esclusa dalla forma e al di fuori, e non si rimane nella forma assoluta altro che la loro possibilità : onde le vede nella causa in quant' essa è intelligibile, e non nella causa in quanto essa è subietto intelligente e creante. Non essendo conceduto tanto all' umana mente, ella non può vedere nella forma assoluta, cioè nell' essere, altro che i sentimenti come possibili; rimanendo la loro propria esistenza relativa nel senso. Dacché poi questa esistenza relativa e propria non si conosce dall' uomo nell' idea, egli è manifesto che o non la conoscerà punto né poco o dovrà conoscerla con un altro atto, diverso da quello della pura intuizione delle idee. Ma egli è certo che l' uomo conosce in qualche modo anche l' esistenza relativa e propria de' sentimenti, senza di che non ne potrebbe parlare. Con qual atto dunque la conosce? La conosce coll' atto del verbo, che nell' uomo rimane cosí al tutto distinto dall' atto intuitivo dell' idea. Questo verbo umano non è che un assenso, un' affermazione, un' adesione del subietto intelligente, un semplicissimo sí che egli pronuncia, con cui s' acquista la persuasione che ciò che vede assolutamente nell' idea, sussiste in se stesso relativamente «( Lezioni filos. , 33 sgg.) ». Altro è dunque ciò a cui il subietto umano dà l' assenso, altro è l' atto dell' assenso medesimo. Ciò a cui dà il suo assenso coll' affermazione o giudizio, gli è tutto dato antecedentemente nell' idea. L' assenso stesso è puro atto dello spirito che gli dà la persuasione che ciò che vede nell' idea esiste relativamente a se stesso. Questa persuasione è un effetto spirituale che rimane nel subietto intelligente dopo il suo atto d' affermazione. Ma questa modificazione è perfettiva dello stesso subietto intelligente, perché è una nuova attualità subiettiva da lui acquistata, e l' attualità è perfezione. Il verbo umano pertanto è un' attualità e una perfezione dello spirito umano, ma un' attualità che termina in un altro a lui precedente. Di qui potremo ascendere a concepire in qualche modo, che cosa debba essere il Verbo in Dio. Poiché questo Verbo, o pronunciamento di Dio, riterrà le condizioni del verbo, cioè non sarà altro che atto di Dio stesso, e atto sempre compiuto, non atto che si fa e che in parte cessa dopo fatto, come nell' uomo. Di poi, differirà in questo: che quello dell' uomo ha bisogno d' avere anteriormente a sé un oggetto che non è egli stesso, ma un altro: laddove Iddio che pronuncia il Verbo, con questo suo atto terminando nell' essere obiettivo, terminerà in se stesso, nella propria essenza e non in un' altra natura. Pronunciando se stesso totalmente, esiste pronunciato come Verbo divino: pronunciando se stesso parzialmente, fa che esistano gli enti relativi e finiti che non possono esser lui, perché egli è essenzialmente indivisibile e semplice. Il pronunciamento dunque degli enti finiti è in Dio l' esistenza assoluta di questi enti, che non ha nulla della loro imperfezione, e a cui consegue l' esistenza loro relativa in se stessi, come quella che fu pronunciata dall' essere, né può essere pronunciata dall' essere senza che sia prodotta. L' esistenza relativa dunque (gli enti finiti) pronunciata da Dio, in quant' è precisamente pronunciata, ossia, che è lo stesso, in quant' è nel pronunciamento ed è l' attualità di questo pronunciamento si chiama « esistenza assoluta dell' esistenza relativa »ed è ad un tempo similitudine perfetta o esemplare, e causa efficiente degli enti, e non già una pura idea v“ta di realità. Cosí, il termine di questo pronunciamento divino degli enti finiti è logicamente posteriore al pronunciamento di se stesso che è generazione del Verbo, ma questo non importa né una posteriorità cronologica, né una dualità nell' atto divino: perché ab aeterno e con un solo atto Iddio fa l' uno e l' altro, genera e crea. Dico che è logicamente posteriore, perché Iddio deve prima conoscere se stesso che è tutto l' essere, e conosce se stesso pronunciandosi e cosí generando il Verbo. Ma il pronunciato è la persona del Verbo. Avendo dunque Iddio pronunciante in se stesso la cognizione di se stesso pronunciato essere totale, egli pronuncia l' essere parziale limitando l' essere totale, e questa limitazione non passa nel Verbo che non ammette limitazione. Tutta la cognizione poi, sia di se stesso, sia degli enti finiti, in quanto rimane nel pronunciante non è che attualità del Pronunciante stesso, e non è qualche cosa di diverso da lui, come accade nell' uomo che pronuncia le cose in un oggetto, cioè nell' essere, che non è lui stesso, ma un altro. Se dunque quest' attualità in Dio si volesse chiamare specie o specie verbo, conviene dare alla parola specie un tutt' altro significato, perché nell' uomo la specie è cosa diversa dal subietto che l' intuisce e ne pronuncia il contenuto, quando in Dio è il subietto stesso che s' attua o che è attuato. Un' attualità dunque di Dio subietto pronunciante (per sé intelligibile e però obietto) è « l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa, ossia degli enti finiti ». E se Iddio non è altro che essere, consegue che anche quest' attualità divina non sia altro che essere; e questo è l' essere iniziale delle creature tutte, le quali non sono il proprio essere, altro non essendo che una forma finita dell' essere, cioè pura realità finita. Pure altro è l' essere delle creature che a noi si manifesta, altro è l' essere assoluto delle creature che è in Dio e che è Dio. L' essere assoluto delle creature non è le creature stesse la cui natura è di essere enti relativi, e non è né pure l' essere che a noi si manifesta nelle creature; ma quest' essere che a noi si manifesta nelle creature, è la loro causa intelligibile, quando l' essere loro assoluto non è solo la loro causa intelligibile, ma la loro causa totale, immediata e assoluta. L' essere delle creature che a noi si manifesta è uno, semplicissimo e comunissimo, da tutte partecipato, ma è da noi conosciuto nella sua sola relazione colle realità create; e però è puramente l' atto comune e unico di tutti gli atti di queste: onde noi lo vediamo separato dal subietto divino di cui in se stesso è attualità. Ora, tostoché quest' attualità divina si separa dal subietto divino, ella rimane un' altra cosa; perché, tostoché si concepisca qualche cosa di separato, è tolta l' identità, secondo la regola da noi data. L' essere dunque delle creature non è Dio, ma si può chiamare divino o appartenenza di Dio, perché è qualche cosa che ci sta presente come un astratto teosofico, effetto della creazione. E` posteriore « all' essere assoluto delle creature quale esiste in Dio »; essendo quest' essere assoluto delle creature in Dio attualità di Dio, laddove l' essere delle creature nelle creature è l' attualità delle creature. Oltre di ciò il verbo che noi pronunciamo quando affermiamo la sussistenza d' un ente creato suppone come logicamente anteriore nella nostra mente la specie, e questa specie è composta: 1) di essere ideale, v“to di ogni realità; 2) e d' una realità pura senz' essere, e perciò non solo relativa, ma anche essente in modo relativo, che può unirsi all' essere ideale e cosí venire oggettivata, ma non immedesimarsi con lui, perché il modo relativo è escluso dal modo assoluto. In Dio all' incontro lo stesso oggetto è attualità del subietto, perché questo e quello è lo stesso essere, e l' oggetto non è già v“to, ma pieno di essere reale, il qual reale, appunto perché è essere, s' immedesima collo stesso essere. Onde non rimane piú distinzione tra l' essere e ciò che si contiene nell' essere, ma tutto è attualità dell' essere sussistente. Il che fa, che il pronunciamento di Dio, sia che generi il Verbo o sia che crei gli enti finiti, non ha punto bisogno di specie distinte dallo stesso verbo, e molto meno di specie nelle quali ci sia la dualità d' un elemento assoluto e d' un altro relativo, ma il pronunciato è puramente un' attualità dello stesso essere intelligibile per se stesso, specie ad un tempo e verbo, oggetto ad un tempo, e pronunciato, specie che è tutta essere reale pronunciato. Questo modo dunque di creare per via di pronunciamento intellettuale esclude ogni moltiplicità in Dio, e altro non ammette che una semplice attualità che appartiene a quell' atto perfettissimo, semplicissimo, ultimatissimo, che è Dio stesso, e che solo si chiama attualità distinta per astrazione che noi ne facciamo. I sistemi erronei ondeggiano tra due sistemi, e a due opposte classi si possono sempre ridurre, come abbiamo veduto nella questione ideologica. Il medesimo si riscontra nell' Ontologia. Alcuni filosofi non si elevano a conoscere la natura e la potestà della mente, nulla trovano in essa di divino. Questi sono i filosofi piccini piccini, i materialisti e i sensisti, che non hanno punto ontologia; ed essi vi rinunziano con grandigia, trattando gli ontologi, da sognatori, se stessi riputando i soli coltivatori del solido sapere: mendica superbia, che dà ancora il tuono a molte società scientifiche d' Europa, nelle quali i pregiudizi materiali si conservano per tradizione, e per un cotal punto d' onore scientifico si custodiscono con gelosia. Altri filosofi videro con istupore che l' intelletto era piú che non si credesse, e potea far le gran cose. Ma essi andarono all' eccesso contrario, poiché all' intelletto umano diedero ciò che non vale che dell' intelletto considerato nel suo assoluto ideale, cioè dell' intelletto divino, niuna cura ponendo a definire que' limiti, ne' quali era racchiuso l' intendimento speciale dell' uomo. Conosciuta che s' abbia cosí la natura della prima ed assoluta Causa, che è quella « d' essere un Intelletto », s' ha in mano un principio fecondissimo di conseguenze, pel quale si possono risolvere le piú difficili questioni dell' Ontologia, e dare anche una dottrina universale intorno la Causa. Conosciuto che la Prima Causa, causa di tutte le cause seconde, è un Intelletto, noi potremo indurre quali sieno le proprietà comuni a tutte le cause. Poiché ogni dottrina che versa intorno gli universali si trova dal pensiero umano per due vie. Prima via. - Il pensiero può formarsi l' idea della cosa, di cui cerca la dottrina, dall' astrazione comune, e avendo quest' idea, può esaminare diligentemente l' essenza che essa contiene e porge ad intuire alla mente, può analizzarla e rinvenire gli elementi di cui si compone, e il vincolo che li unisce, e cosí venirsi formando una dottrina intorno a quella essenza e alle sue proprietà, dottrina che è universale appunto perché ogni essenza contenuta in un' idea è universale. Seconda via. - Il pensiero può ascendere prima di tutto all' Essere assoluto, e conosciuta la natura di questo, nel quale tutte le essenze eminentemente si contengono unite, può considerare come quella essenza, di cui cerca la dottrina, esista in esso, e poi come possa essere partecipata, e cosí indurre, per una astrazione teosofica, le proprietà di tale essenza dalle proprietà ch' essa ha nel primo suo fonte. Tanto la prima, quanto la seconda via conduce il pensiero umano all' acquisto di cognizioni certe. Ciò che rende piú ricco il processo ontologico, quando non si divida dall' ideologico che presuppone, non è solo il trovarsi per esso la soluzione di tutte le difficoltà dalle quali rimangono avvolte le soluzioni ideologiche, ma è sopra tutto un novo elemento che entra nella dottrina. Poiché l' essenza , intorno a cui versa la dottrina che si cerca, non si considera piú solamente isolata, ma nella emanazione dal suo principio. Fino a tanto ch' essa considerasi da sé sola, si ha un' essenza indeterminata; ma considerata nel suo principio, ella si vede determinata, piena di realità, e vivente. Ora alcune di queste proprietà ch' ella ha inesistente nella sua origine, e che le mancano nell' idea astratta, sono di quelle che vengono comunicate quand' essa è partecipata dagli enti relativi; le quali di conseguente possono essere da questi riportate nell' idea, ma tuttavia rimangono inesplicate e come sopraggiunte alla sua essenza astratta. A ragion d' esempio, nell' idea astratta di causa altro non si contiene, se non il concetto d' una entità che ne produce un' altra. Ma per intendere, che un' entità non ne può produrre un' altra se non dove quella sia un ente intellettivo, conviene considerare la causa, non piú astrattamente; ma nella sua reale efficienza, che si riduce alla Causa prima. La prima Causa dunque di tutte le cause è un Intelletto. Ogni entità che è prima nel suo ordine è perfetta ed assoluta, perché quando quella stessa si presenta posteriormente alla mente, altro non significa questa posteriorità se non ch' ella ha ricevuto qualche limitazione: ché se niuna limitazione avesse, sarebbe ancora la prima e perfetta entità. Di qui avviene che, per conoscere l' essenza di quella entità in tutta la sua pienezza, conviene considerarla nel suo primo ed assoluto essere. A conoscere dunque che cosa esiga assolutamente l' essenza della Causa, conviene considerare qual è la Prima Causa, anteriore ad ogni circoscrizione e limitazione: essa è infatti la causa essenziale, ma non astratta e però indeterminata, ma compiuta e sussistente. In questa Causa pertanto troviamo queste tre proprietà: 1) Che essa è un Intelletto, il quale ha virtú di moltiplicare i suoi oggetti. 2) Ch' essa è un Intelletto che è un subietto libero della sua azione. 3) Ch' essa è un Intelletto perfetto che ha virtú, come tale, di dare l' essere subiettivo e relativo a' suoi oggetti, altri e diversi da se stesso, cioè di crearli. Tale è la Causa nella sua essenza compiuta e sussistente. Or se da questa prima Causa noi per astrazione teosofica vogliamo derivare l' idea, ossia l' essenza astratta, come procederemo? Abbiamo già dimostrato che il principio dell' incomunicabilità è l' illimitazione . Se noi ci proponiamo davanti alla mente la prima Causa, e, in quant' è oggetto della mente, le togliamo l' illimitazione, ci rimane il concetto della causa limitata , con tutto ciò che dee avere. Essendo dunque la prima ed essenzial Causa un Intelletto, se noi limitiamo quest' intelletto, in quant' è oggetto della nostra mente, ciò che ci rimane è un intelletto limitato. Questa dunque è la vera e compiuta nozione comune di causa, dedotta per astrazione teosofica. Ora, se non si dà alcuna causa che non sia intellettiva, consegue che la causa deva anche essere un subietto liberamente operante. E veramente un intelletto opera in due modi: poiché o fa un' azione con cui pone se stesso nel suo atto naturale, o fa un' azione che ha oggetti diversi da se stesso già posto e costituito nel suo atto naturale. Per riguardo alla prima di queste due azioni egli è propriamente principio subiettivo , e non ha alcuna ragione di causa . Colla seconda azione egli è causa, perché la causa è « quella attualità, nella quale noi concepiamo un subietto appieno costituito nella sua propria natura, prima di pensare ch' egli dia l' esistenza a qualche altra entità, e al quale posteriormente attribuiamo la potenza o l' atto che è origine d' un' altra entità diversa da lui stesso ». Se dunque un subietto intelligente pensa entità diverse da se stesso, pensa cose non necessarie alla sua sussistenza e alla sua natura. Dunque tali entità possono esser pensate, o non pensate, senza che manchi perciò nulla al subietto che le pensa e che esiste prima e indipendentemente da esse. In tal caso il subietto è libero a pensarle, e a non pensarle. Vi ha dunque una specie di libertà, che è essenziale al concetto della causa, e che consiste in questo, che « l' effetto non sia necessario a costituire la causa come subietto nella sua propria natura, ossia che questo subietto non dipenda dal suo effetto »(1). Laonde il Padre dicesi Principio, non dicesi Causa, della Trinità. Ma il concetto dell' atto creativo del mondo è posteriore, e suppone l' Intelletto creante già costituito pienamente nella sua natura; perciò non è obbligato a creare per costituire se stesso nella propria natura, e in questo senso egli crea liberamente, ed ha la ragione di Causa. Che se si considera attentamente la natura di questa libertà dell' atto creativo, si discopre un' altra sua proprietà. Poiché la natura del subietto è costituita prima che il subietto si concepisca come causa. Questo subietto nella sua natura reale altro non ha dunque che la potenza di creare . Acciocché quindi questa potenza di creare esca al suo atto, è necessario che lo stesso subietto intellettivo ecciti, e per cosí dire mova se stesso ad operare, per una ragione morale. La qual ragione è non l' amore che è termine perfettivo della sua natura, pel quale pone se stesso come Amato sussistente, ma l' amore che porta a se stesso come fine dell' ente finito. Egli dunque, che già è come Amato sussistente, vede che può essere amato anche da enti finiti; e per questo fine move se stesso a crearli. Questi dunque non movono il subietto creante a creare, perché ancora non sono: neppur la loro possibilità lo move, perché anch' essa è posteriore all' atto creativo: lo move il conoscere di poter essere amato dagli enti finiti, ma ciò, finché resta una mera possibilità mentale , non ha alcuna forza attiva, ma solo conoscibile «( Antropol. , 606 sgg.) ». Rimane dunque che il solo subietto reale sia quello che mova la propria potenza al suo atto; e questo muoversi da se stesso senza altra causa è un muoversi spontaneo d' una spontaneità libera e primitiva. La quale spontaneità primitiva dee al tutto distinguersi da quelle spontaneità posteriori che hanno avanti a sé de' moventi reali, e che perciò non possono ricevere nello stesso senso le qualità di libere . Vero è, che la potenza di creare il mondo fu tratta al suo atto ab aeterno dal subietto divino, e che però in Dio non ci fu mai né la cognizione del mondo nel grado imperfetto di pura idea o mera possibilità, né la potenza nella condizione di mera potenza senza il suo atto. Ma la cognizione perfetta, cioè la cognizione verbale, non toglie la cognizione di ciò che si conosce nell' idea, sí la perfeziona; e l' atto della potenza non toglie la potenza, sí la perfeziona. Il che fa pure a noi lecito distinguere il concetto che costituisce la possibilità ideale del mondo, dal verbo divino che produce il mondo stesso nella sua propria esistenza, considerando quello contenuto eminentemente in questo. Onde da una parte dicesi Iddio Onnipotente , e dall' altra dicesi atto purissimo e assoluto , non perché queste due cose sieno separate in Dio, ma perché l' onnipotenza è un concetto virtualmente contenuto nell' atto purissimo e assoluto , dal quale noi possiamo coll' astrazione della mente dividerlo (1). Nell' Essere divino in quanto è relativamente alla mente che lo pensa, e puramente come oggetto di questa, si distinguono due entità diverse, l' una delle quali si dice la sua propria natura , l' altra si dice l' operazione creatrice posteriore e conseguente a questa natura. Ma se si pensa l' Essere divino senza questa relazione ai detti concetti della mente, non si trova piú quella dualità che risulta solo dalla relazione dello stesso identico Essere a que' concetti mentali. Niente dunque vieta, che nell' Essere divino in se stesso sussistente sieno un medesimo atto semplicissimo, quella entità che risponde al concetto della natura divina e quell' entità che risponde al concetto dell' operazione creatrice : sono due ne' concetti, due fuse in uno nel sussistente. Se dunque tale è la Prima Causa, se il concetto della causa in universale hassi col ritenere tutto quello che è nella Causa Prima tranne la sua illimitazione, dalle cose dette si deduce, che il concetto di causa in universale si presenta alla mente in due forme, come causa in potenza , e come causa in atto . E unendo questo risultato a quello che abbiamo avuto prima, la nozione di causa esige: 1) che sia intelligenza; 2) che sia volontà libera, e come tale, potenza ; 3) che questa volontà libera abbia un fine ideale , o puro oggetto; il quale appunto perché ideale, non esiste ancora in se stesso, e perciò non ha nessuna forza con cui, agendo realmente sulla volontà, determinarla e muoverla, ma la volontà determina se stessa all' ottenimento di quel fine spontaneamente da essa amato. Ma qui si presenta la questione metafisica della libera volontà. Poiché sembra che la causa, cioè la volontà libera, passi dalla potenza all' atto senza una ragion sufficiente. Infatti, se essa volontà è disposta ugualmente all' uno e all' altro, ad operare e a non operare, come può eleggere uno a preferenza dell' altro? Qual causa le toglie l' equilibrio? Rispondiamo, che la volontà è bensí una potenza, ma quale? è la potenza d' eleggere «( Antropol. , 636 sgg.) ». Se dunque ella fa un atto, con questo elegge. Ma che cosa la move ad eleggere? Ella ha sempre un conato verso l' elezione, poiché ella stessa è un atto d' amore, per la sua stessa essenza. Dunque basta che si presenti il bene perché lo elegga, cioè perché lo preferisca al suo contrario «( Antropol. , 624 sgg.) ». Ma se le si presentano piú beni che cadono in collisione tra loro, ella elegge il maggiore. Che se i detti beni sono tali che non sieno paragonabili, perché la loro differenza non è quantitativa, ma categorica, come sarebbe il bene relativo all' individuo umano che elegge, bene subiettivo, e il bene assoluto in sé considerato, ossia obiettivo, allora conviene pure eleggere, e per eleggere non basta paragonar la quantità de' due beni, ma conviene paragonar le loro forme categoriche che non hanno nulla di comune: onde alla volontà, che non può non eleggere perché è a ciò per natura attuata, non rimane che fare un atto che tutto viene da lei stessa potenza d' eleggere, il quale appartiene a quella libertà che noi chiamiamo bilaterale «( Antropol. , 564 7 566, 606 sgg.) ». Ma questa libertà bilaterale, in quanto entra come elemento del merito, non si trova in Dio, dove il bene subiettivo e l' obiettivo non possono venire in alcuna collisione, perché non si dà altro bene del subietto che il bene obiettivo ed assoluto infinitamente amato. Non passa mai dunque la causa volontaria e libera al suo atto senza una ragione sufficiente , ma questa, è composta di due parti: a ) una parte è l' atto fondamentale della volontà, continuo conato d' eleggere il bene; b ) un' altra parte è il fine ideale , che le mostra il bene non ancora esistente a cui ella può dare esistenza. Mancando la seconda parte, ella si rimane causa in potenza . Ma poiché questa seconda parte senza la prima non potrebbe determinarla, perciò ella è libera determinandosi da se stessa, quasi direbbesi, col proprio peso, e cosí ad un tempo è compiuta la ragione sufficiente della sua determinazione, ed è resa causa7atto . Consideriamo ora la terza proprietà della Prima Causa: che sia un intelletto che abbia virtú, come tale, di dar l' essere subiettivo e relativo a' suoi oggetti ideali (1), cioè di crearli. Questa proprietà è evidentemente incomunicabile agli enti finiti i quali non sono, ma hanno l' essere, appunto perché ella non è una proprietà limitabile. Le due prime proprietà erano pur limitabili, e però comunicabili; perché « è limitabile tutto ciò nel cui concetto non si comprende l' illimitazione », e questa non si comprende né nel concetto d' intelletto, che è la prima proprietà, né nel concetto di libera volontà, che è la seconda proprietà. Ma l' illimitazione si comprende all' opposto nel concetto d' una potenza di dare altrui pensando l' essere; perché questo intelletto che dà altrui l' essere conviene ch' egli stesso sia l' essere; e l' essere di natura sua è illimitato. Nel concetto dunque universale e comune di Causa conviene esprimere l' effetto in una maniera piú comune. Questa nozione piú comune sarà dunque quella di cosa o di entità; e diremo « esser proprietà della Causa in comune, aver la virtú di produrre qualche cosa o qualche entità, idealmente concepita, diversa da se stessa ». Raccogliendo le tre proprietà della Causa, diciamo che nella perfetta nozione di Causa in universale si comprendono queste tre proprietà: 1) Ch' ella sia un subietto intellettivo. 2) Ch' ella operi liberamente. 3) E che ella abbia virtú di produrre qualche entità diversa da se stessa. La prima Causa dunque è l' Essere, e l' Essere è Intelletto in atto, ossia Intellezione perfetta, e l' intellezione perfetta e sussistente importa una Trinità di persone, che rispondono a tre forme dell' Essere, cioè alla forma subiettiva, alla forma obiettiva e alla forma amativa o morale. Ora l' Essere nella sua forma subiettiva ci presenta la Causa efficiente, è un reale subiettivo che produce un reale subiettivo: l' Essere nella sua forma obiettiva ci presenta la Causa esemplare, tipica, ossia ordinante, da cui l' ordine nelle cause mondiali; l' Essere finalmente nella sua forma amativa ci dà la Causa finale. Questi si prendono volgarmente per tre sommi generi delle cause. Veramente sono i tre modi o forme dell' unica Causa. E infatti, riprendendo la definizione: « la Causa è un' entità che ne produce un' altra diversa da sé, di cui essa non è il subietto, ma è tale che si concepisce come un subietto senza che nel concetto di questa s' acchiuda l' entità prodotta », vediamo che un intelletto non può produrre un' entità diversa da sé, se non ha in sé essenzialmente questa legge, ch' egli operi e produca con una sola operazione , ma che questa operazione abbia contemporaneamente tre modi . Quando da noi e da' filosofi che ci precedettero si distinsero le tre cause efficiente, esemplare e finale, altro non s' è fatto che dividere coll' astrazione i modi coevi d' operare dell' unica causa, dando a ciascun di essi il nome di causa in separato dall' altro. In tutto il creato niente si trova, che non mostri d' esigere una causa trina: niente, vogliam dire, si trova che non mostri nella sua causa la necessità e d' una efficienza reale che ne spieghi la reale sussistenza, e d' una sapienza che ne spieghi l' ordine ammirabile, e di un fine che spieghi come tutto sia subordinato al bene delle creature intelligenti. Ma nello stesso tempo apparisce chiaramente, che niuna di queste tre ragioni o cause sarebbe stata sufficiente, ove avesse operato separata l' una dall' altra. Conveniva, quindi, che quelle tre ragioni o cause fossero congiunte insieme in una sola operazione; altramente non sarebbero potute esser causa del Mondo. Il Mondo dunque mostra in se stesso manifestamente i vestigŒ dell' unità e della trinità insieme della Causa che lo produsse. Cosí, per la necessità di spiegare il mondo come un effetto, la mente trova nel mondo i vestigŒ manifesti dell' unità e della trinità di Dio, e ascende a posteriori a concepire una Causa una e trina nel tempo stesso. Da questo pure si dimostra a posteriori , che una causa perfetta non può esistere, se ella stessa non sia tutt' insieme e efficiente, e tipica, e finale, il che è quanto dire subiettiva, obiettiva e amativa o morale. Si può domandare ciò non ostante, se l' astrazione che fa comparire tre cause sia una pura astrazione arbitraria della mente umana, o abbia anche la sua ragione in qualche vera separazione che ci sia tra quelle. Alla quale domanda convien rispondere in questo modo: o le tre cause si cavano per via d' astrazione teosofica, cioè esercitata sul concetto di Dio, o si cavano per via d' astrazione comune. L' astrazione teosofica, s' esercita sopra una tal Causa, nella quale i tre modi d' operare non hanno da essa né divisione né distinzione alcuna; e però le tre cause astratte non sono che pure astrazioni ipotetiche. L' astrazione comune all' incontro esercitata sugli enti del mondo trova gli effetti de' tre modi d' operare della prima Causa uniti bensí, ma distinti di natura, in maniera che il primo passo dell' astrazione conduce ad ammettere tre cause diverse; e solo posteriormente, colla meditazione filosofica sopra di esse, conchiudesi che non sono tre cause, come appariva, ma devono essere tre modi d' operare d' un' unica causa. Se noi consideriamo Iddio nella sua interna costituzione, troviamo che nell' intellezione sussistente, che è la sua natura, si distingue un principio o atto intellettivo, che continuamente si porta in se stesso come obietto sussistente, e amato in modo che come amato è ancora se stesso sussistente. E qui l' atto di quella intellezione è eternamente compiuto, e come in suo fine eternamente riposa. Ma quest' atto è per se stesso ab aeterno . Non si può dunque dire che in sé sia causa né efficiente, né esemplare, né finale, nel senso della definizione data della causa, « un' entità che ne produce un' altra diversa da sé », perché i due termini non sono produzioni diverse dal principio. Acciocché dunque si trovi la ragione di causa in Dio, conviene, come già dicemmo, considerarlo rispettivamente all' ente finito da lui creato. Ma se nella costituzione interna ed attiva di Dio non si trova il concetto di causa, è però da por mente all' azione che di continuo è in Dio, ossia nell' Essere assoluto, azione che è ab aeterno perfetta. Se consideriamo la vigoría di quest' azione, non troviamo misura che le si possa applicare, ed abbiamo il concetto di vigoría assoluta, e però infinita. Dunque concepiremo l' Essere assoluto come assoluta azione, e per la vigoría assoluta che è in essa, la concepiremo, giustamente, come una forza in atto, sempre tesa a costituirsi in ente compiuto . L' ente dunque, di novo diremo, non è cosa inerte, ma è una forza, o energia sempre in atto «( Psicol. , 1015 sgg.) ». Ma poiché noi uomini concepiamo la forza in atto come qualche cosa di mezzo tra il subietto che la possiede, e il termine a cui la forza posta in atto perviene, cosí la forza si concepisce con astrazione e dal subietto principio e dal termine che essa ottiene, perciò la forza dell' esser che emette di sé i suoi termini, co' quali compie se stesso quale ente, vien da noi concepita come una forza che pone e costituisce l' ente. Questa forza noi chiameremo forza entica , in quanto costituisce l' essenza stessa dell' ente: in quanto poi essa è anche atta a produrre altri enti, la chiameremo entifica . E` dunque essenziale all' ente una forza , la quale tende continuamente, come a suo termine: 1) a fare che esista l' ente stesso; 2) a fare che esista compiuto e perfetto; e quindi, 3) resiste continuamente alla distruzione dell' ente, e 4) resiste continuamente al deterioramento dell' ente. Queste quattro tendenze della forza entica si possono considerare come quattro leggi nascenti dalla natura, ossia dal concetto stesso dell' ente; e tali leggi ontologiche sono d' un grande uso nella scienza. Ma cosí il subietto che si concepisce come agente, essendo l' essere iniziale o virtuale altro non è che un subietto dialettico, non sussistente, ma solo essente alla mente. Colla forza entica cosí concepita si spiega dunque la costituzione dell' ente quale sta davanti alla mente nostra, piú che la costituzione dell' ente in se stesso. Per arrivare a questa, è uopo ascendere con il pensiero a quell' ente che è puro ente, cioè senza limitazione, il quale è Dio. Sebbene in questo ente essenziale uno e trino tutto sia connesso e indivisibile, tuttavia l' astrazione concepisce l' eterna azione intima, e, per un' altra astrazione, nell' eterna azione concepisce un' eterna forza o energia, e questa entica , cioè intrinseca ed essenziale all' ente senza limitazioni, semplice e puro. Si conchiude dunque di novo, che l' ente nella sua purità e semplicità essenziale è forza assoluta e azione assoluta; la qual forza e azione intrinseca all' ente, per distinguerla da ogni altra, dicesi da noi entica . Ma poiché i concetti di forza e di azione sono astratti per modo, che non presentano al pensiero né un principio, né un termine, possiamo ancora domandare donde venga quest' azione, e dove tenda. Se non che, già subito si urta nell' imperfezione del concepire, poiché il venire e il tendere somministra alla mente nostra il concetto di successione, di progresso, di movimento, e perciò di qualche cosa d' imperfetto che tenda ad esser perfetto, secondo la sentenza aristotelica, che « il movimento è l' atto dell' imperfetto ». Tutti questi concetti d' imperfezione devono al tutto rimuoversi dal pensier nostro. Ma ciò è difficile, perché si presenta questa antinomia: « Come si può fare un' azione che è già fatta »? Il farsi attualmente , e l' essere fatta pare una contraddizione. Basta, per intendere l' identificazione di questi due concetti, concepire un farsi non già con successione, e a poco a poco, ma un farsi tutt' insieme ad ogni istante assegnabile. Se in ogni istante assegnabile col pensiero si trova l' atto semplicissimo del farsi, senza successione di sorta, è assolutamente necessario, che il pensarsi quell' atto che si fa, sia il medesimo che il pensarsi quell' atto medesimo che è fatto; perché nello stesso istante che si fa è fatto compiutamente. Quelle due qualità, dunque, che troviamo divise nell' atto transeunte, il farsi e l' esser fatto , si trovano unite nell' atto permanente, senza l' imperfezione della successione e della cessazione che è in quello. Rimossa ogni imperfezione da quest' atto immanente, perfettissimo e compiutissimo, che è l' Essere assoluto, noi, per astrazione, possiamo ancora concepire in esso una continua forza vitale agente, di cui possiamo, sempre per astrazione, cercare il principio ed il termine, benché coevi. E in quanto al principio noi dobbiamo concepirlo come attualmente agente , e come quello che ha sempre compiutamente agito . Se lo consideriamo come puramente agente, noi non abbiamo che un inizio astratto dell' azione dell' essere, ma un inizio reale (non piú l' essere ideale e virtuale). Allora il termine di quest' inizio reale che si distende coll' azione è l' ente uno e trino , che pone continuamente sé medesimo. Ma questo inizio reale non è la prima persona della Trinità, ma sí un inizio reale astratto. Che se poi consideriamo di piú, che quell' agente non è solamente agente, ma è tale che ha sempre compiutamente agito, allora troviamo che è un principio sussistente che, avendo sempre raggiunto il primo e il secondo suo termine, è con essi ab aeterno una perfetta persona già costituita, come sono persone già costituite i due suoi termini. E cosí considerato l' Ente assoluto è ancora un' infinita energia, che non solo di continuo pone, ma di continuo ha posto compiutissimamente se stesso per un atto, che sempre facendosi, sempre è fatto, con identità perfetta del farsi e dell' esser fatto. In tre modi dunque si pensa dalla mente umana il principio dell' attività o attualità entica: 1) Come un inizio ideale , l' essere indeterminato, che emette di sé, davanti alla mente nostra, i suoi termini ; e cosí pone se stesso come ente assoluto esistente in sé. 2) Come inizio reale , cioè inizio dell' azione eterna che pone e costituisce l' ente assoluto. 3) Come principio sussistente che ha continuamente posto i suoi termini, e ha posto continuamente l' ente assoluto uno e trino. In questa natura d' intrinseca energia ed azione dell' ente assoluto, per la quale esso è quello che è, si trova l' origine teosofica delle quattro leggi ontologiche, cioè tali che si riscontrano in tutti gli enti, per le quali leggi entra nell' essenza dell' ente il concetto d' una forza che fa esistere l' ente stesso, e tende a farlo esistere nella maggior sua compiutezza possibile, e resiste alla distruzione e al deterioramento del medesimo. Questa forza entica , che costituisce ogni ente anche finito, è di sommo momento nella scienza, perché ella costituisce il principio supremo, che rende ragione di tutte le azioni e movimenti spontanei negli enti, e di quelle leggi, secondo le quali si move ed opera continuamente la vita. Ma come noi di sopra abbiamo distinto il concetto di principio dal concetto di causa , cosí qui dobbiamo distinguere il concetto di termine dal concetto di fine nel senso di causa finale . E veramente un termine della loro azione entica e di quella che da questa consegue, hanno tutti gli enti in qualunque modo concepibili; ma un fine in senso di causa finale , o, come propone di chiamarla Giuseppe De7Maistre, « intenzionale (1) », averlo non possono se non gli intelligenti nel loro operare (2). E gli intelligenti stessi, in quanto si considera in essi solamente la forza e l' azione entica, non si può dire che operino per un fine come causa finale, ma solo che in loro si distingua un termine di quella forza od azione. Infatti, la forza entica si pensa nell' ente già costituito da essa, e non anteriormente a questo, e però non ha natura di causa, come dicevamo, ma solo di principio. Ma ci ha un' essenzial differenza, tra la forza entica dell' ente infinito, e la forza entica degli enti finiti. La forza entica infinita ha trovato sempre il suo termine infinito ab aeterno , senza successione, il quale termine è l' ente infinito con tutta la sua perfezione. La forza entica finita all' incontro opera anch' essa con tutta sé, ma essendo ella finita pone un ente finito ; e alla perfezione di questo ella tende, ma non sempre la raggiunge. Ella ha dunque per lo piú due gradi e generi di limitazione: 1) La limitazione che le fa porre un ente finito; 2) La limitazione che le impedisce di porre, nello stesso tempo che pone l' ente finito , anche la perfezione propria di quest' ente. La forza entica dunque nell' ente finito pone sempre l' ente, ma non sempre la sua perfezione: ben ella tende sempre a questa, e non è mai ch' ella non sia inarcata, per cosí dire, e tesa a produrla: solo le manca il varco, le manca quel termine che non produce ella stessa, ma le è dato, in cui portandosi, ponga e costituisca la perfezione dell' ente. Quindi apparisce, che dalla natura della forza entica si deduce la spiegazione ontologica di quel modo d' operare, che si dice spontaneità , e che è un atto nascente da una forza che per natura sua lo produce, la quale si trova, come in sua prima sede, nella forza entica che è contenuta nel concetto stesso universale dell' ente. La spontaneità dunque è quel modo d' operare che ha una forza che è per se stessa in atto, ma che talora per cagione esterna rimane impedita di spiegarsi. E piú brevemente: « la spontaneità è il modo d' operare del principio dell' ente », ed è l' opposto dell' operare violento , il quale non nasce dal principio dell' ente, ma da un altro ente, onde non è un semplice operare, ma è un patire. La forza entica dunque pone l' ente o producendolo il suo termine, e quindi avendolo in suo pieno dominio, nel qual caso lo pone perfetto come avviene nell' Ente assoluto; o agendo e unendosi col suo termine, nel qual caso il termine le è dato. E nell' uno e nell' altro caso la sua azione è spontanea, e ne preesiste in essa la causa spiegata in atto, o in potenza attiva che dicesi tendenza . In tutte queste operazioni spontanee si trova sempre un principio ed un termine, ma non si trova ancora un fine , cioè una causa finale. Anche l' atto intellettivo, in quant' è un atto della forza entica, cioè in quanto pone e costituisce l' ente intellettivo, ha questo per termine; ma questo non è un fine ch' egli si proponga d' ottenere, non potendo proporsi un fine, perché non è ancora ente intelligente. Conviene quindi che l' ente intelligente sia pienamente costituito dalla forza entica, acciocché, cosí costituito come subietto per sé, possa proporsi un fine delle ulteriori sue operazioni. Il fine, dunque, preso come causa finale, non è mai l' ente stesso intelligente che lo si proponga come tale, cioè non è la costituzione di esso ente, ma è qualche cosa di diverso dalla costituzione di esso ente intelligente che opera per un fine. Due sono gli enti intelligenti già costituiti: l' assoluto, che è Dio, e gli enti relativi, che sono le persone finite. E` dunque da ricercarsi come Iddio possa proporre un fine al suo operare, e come si possano proporre un fine gli enti intelligenti. In quant' è a Dio, risulta ch' egli non può proporsi un fine, se non per riguardo al suo operare esterno, perocché in quanto alla azione interna che lo costituisce, ha termine, ma non causa finale. Nell' opera della creazione si devono distinguere due cose, gli enti finiti creati e l' atto creativo. Egli è evidente che gli enti finiti e relativi non aggiungono a Dio niuna perfezione. Non hanno alcuna ragione necessaria in sé medesimi; né pur quella di fine. Se dopo di ciò si considera l' atto creativo , non si può negare che questo sia una perfezione di Dio, un' attualità di Dio stesso. Ma esso è una perfezione conseguente alla divina natura e alla bontà essenziale di questa natura. Il mondo dunque esiste perché Dio è buono; ché da lui come buono viene l' atto creativo, che noi chiamammo perciò un' attualità in Dio conseguente alla sua naturale bontà. L' atto intellettivo, con cui Iddio pone se stesso oggetto sussistente e amato sussistente, si fa da Dio necessariamente, spontaneamente, immediatamente, come atto della forza entica infinita, e quindi senza bisogno ch' egli assuma perciò alcuna causa finale, cioè ch' egli si proponga un fine (1); ma l' atto intellettivo con cui Iddio pone e crea il mondo si fa da Dio proponendosi un fine, assumendo una causa finale, perché il mondo non è necessario alla natura di lui, e non è alcuna parte di questa. Egli è chiaro da questo che il mondo, in quanto esiste in sé relativamente separato, o, come si suol dire, fuori di Dio, non può esser voluto per se stesso, perché non si può volere se non il bene; e il mondo non ha alcun bene in se stesso che possa esser appetito da Dio. E` dunque necessario che Iddio voglia il mondo non per se stesso, ma per un fine che si propone; ed è qui, che incomincia a comparire la causa finale. Ma se Iddio non vuole il mondo pel mondo, e deve avere un altro fine acciocché lo voglia, e non ci può essere altro fine che sia bene volibile per Iddio, tranne se stesso: dunque Iddio, che non può creare il mondo se non volendolo, e non può volerlo se non per un fine buono, deve necessariamente creare il mondo non per il mondo, ma per se stesso, cioè se stesso ponendo a fine del mondo. Cosí dunque Iddio diventa causa finale delle creature, ma non causa finale a se stesso, che non ha causa di sorta. Pure è buono a se stesso, ed è buono alle creature, perché è il bene per essenza. Laonde, come abbiamo distinto i due concetti di principio e di causa , e gli altri due che ad essi corrispondono, di termine e di fine ; cosí dobbiamo pure distinguere il bene come bene , che è sempre termine della volontà ma non è fine, e il bene come fine . Iddio è bene a se stesso come termine , non come fine ; ma questo termine che è il bene, è bene alle creature come loro fine . Iddio dunque non poteva creare il mondo come fine del suo atto creativo; perché, se il mondo stesso fosse fine di Dio operante, avendo sempre il fine ragione di bene, il mondo sarebbe stato per Dio un bene, e in tal caso Iddio avrebbe avuto per suo bene qualche cosa fuori di sé, e cosí non sarebbe stato piú perfettissimo e sufficiente a se stesso. Se dunque in Dio stesso doveva essere il fine pel quale Iddio creava il mondo, rimane a vedere come ciò potesse essere, e che cosa potesse in Dio aver ragione di fine, rispetto a questa sua operazione creativa. Ora, in quanto il mondo esiste fuori della divina essenza per l' esistenza sua relativa, non può essere nessuna perfezione di Dio, né costituisce parte alcuna della natura divina. Ma noi vedemmo però, che oltre l' esistenza relativa il mondo ha un' esistenza assoluta in Dio stesso, cioè nell' essenza divina. Anzi propriamente il mondo non è la propria essenza , e però la propria essenza non è lui; ma egli altro non è che la realizzazione della propria essenza , la quale appartiene al mondo in Dio; poiché l' essenza del mondo è l' essere limitato dalla mente divina, e il mondo non è il proprio essere. Tutto questo giova non a spiegare il fine che Iddio potesse avere nella creazione del mondo, ma a farne sentire maggiormente la difficoltà di stabilirlo. Poiché se il mondo nella sua esistenza propria relativa non è la propria essenza, il proprio essere il quale è in Dio, pare doversi inferire che non solo il mondo in se stesso esistente, ma né pure il mondo nella sua essenza in Dio, non potesse esser fine di Dio nella creazione, e che Iddio cosí non potesse avere nessuna ragione o cagione finale di creare il mondo. E veramente il mondo in se stesso non ha alcun valore per Iddio operante. Come dunque o perché potrà muoversi a crearlo; a dargli l' essere, quell' essere che è in lui e che è una sua attualità volitiva? Conviene dire, che non avendo il mondo alcun valore in se stesso in modo da poter divenire fine del divino operatore, è necessario che quest' operatore dia al mondo stesso un fine o un termine fuori di esso mondo, dal quale gli venga quel valore che non ha per se stesso in se stesso. Ora, a niun fine o termine che sia fuori del mondo può essere ordinato il mondo, se non a Dio stesso: sí perché fuori dell' universo non c' è altro che Dio, e sí perché Dio solo può avere un prezzo assoluto degno d' essere una causa o ragion finale atta a movere Iddio ad operare. Resta adunque solo a dimostrare, come Iddio possa rendersi fine o termine del mondo: il che dimostrato, s' avrà nel mondo, nobilitato da questo suo fine o termine, un oggetto che potrà acquistare la ragione di fine per Dio stesso (1). Il mondo è un complesso di varŒ enti gli uni concatenati e inservienti agli altri, tra tutti i quali tengono la sommità gli intelligenti. Queste creature poi intelligenti, possono conoscere Iddio, e riconoscerlo per quello che è, colla lode, coll' adorazione, coll' amore, e possono altresí fruirlo. Possono dunque unirsi con Dio, qualora Iddio a sé le unisca; e unite con Dio individualmente, avere Dio stesso in sé. A questa condizione e stato nobilitate, per la partecipazione di Dio, acquistano un cotal valore infinito; onde smettono in qualche modo il difetto che loro viene dalla naturale limitazione. Essendo dunque Iddio per sé comunicabile, può esistere e dimorare nella sua creatura, come fine e termine di questa. Ora amando Iddio se stesso infinitamente per la propria essenza e costituzione, è conseguente che s' ami anche dimorante nella creatura come fine di questa. Cosí Iddio può amare la sua creatura non per se stessa e in se stessa, ma pel fine a cui è ordinata e che ottiene, che è quello di esser deificata, cioè fatta partecipe della stessa divinità. Poiché dunque il mondo è distinto dal suo fine, il quale è un altro, cioè l' infinità di Dio stesso partecipabile dal mondo, perciò esso poté avere una causa finale , e non solo un termine. Da questo si vede che il mondo, preso a sparte dal suo fine, nella sua pura natura ha relativamente alla causa intellettiva, che lo fa esistere, ragione di mezzo . Ma il mondo in verso a se stesso ha ragione di subietto della perfezione finale. Poiché è cosí ordinato al fine, che, raggiuntolo, viene dal fine stesso informato come da una sua perfezione sopraggiunta, e allora, per questa sua forma, partecipa egli stesso il concetto di fine relativamente alla sua causa intellettiva, il che è quanto dire è amato da Dio. Perocché ci hanno due generi di mezzi. Ci hanno de' mezzi che non sono altro che mezzi ordinati a servigio di qualche altro ente da essi diverso; e questi non diventano mai fini , ma tutto il loro valore sta unicamente nella ordinazione a quel fine a loro straniero. Ci hanno de' mezzi, che, essendo tali nella mente di chi li produce, sono ordinati ad un fine che è di natura diversa dalla loro (che se fosse della stessa natura avrebbe ragion di termine e non di fine, come avvien nelle forme naturali subiettive), e che tuttavia costituisce la loro stessa subiettiva perfezione. Tali sono nell' universo le nature intelligenti; e questa è la ragione ontologica di ciò che s' insegna nell' Etica, che le persone hanno condizione di fine , quando le nature prive d' intelligenza altra condizione non hanno che quella di mezzo «( PrincipŒ della scienza morale , C. III, 9; IV, .) ». Di che procede, che una persona priva del suo fine , e divenuta affatto incapace di piú acquistarlo, non ha piú valore, e si trova degradata alla condizione di puro mezzo «( Teod. , 965, 9.2, 9.3) ». La perfezione morale dunque della natura umana è la causa finale della creazione: e questa natura umana, presa da sé, e insieme con essa tutte le nature prive d' intelligenza che compongono il Mondo, sono altrettanti mezzi e condizioni dell' ottenimento di quel fine. In Dio s' unificano i due significati di fine , perché quella causa che deve essere, quella anche necessariamente è causa finale del suo operare, nel modo detto, che riassumeremo cosí. Iddio ama infinitamente se stesso; si ama dunque in tutti i modi in cui può essere: ma può essere da se stesso, e può essere come fine partecipato dalle creature: si ama dunque partecipato dalle creature, ama se stesso nelle creature. Egli dunque crea gli enti finiti perché, potendo essi partecipare di Dio, possono cosí in sé avere oggetto degno del divino amore e della divina eterna azione, il qual oggetto è Dio stesso. Questa è dunque la causa finale per la quale Iddio crea il mondo, e il mondo è condizione e mezzo; quando poi ha ottenuto quel fine come sua forma, diventa egli stesso, per questa forma divina, fine al divino operare. Distinguasi dunque il fine della creazione formalmente considerato , e il fine concreto della medesima. Il fine formale è Dio nella creatura, il fine concreto è la creatura unita in modo da formare uno con Dio. Il fine poi è voluto immediatamente, e pel fine sono voluti i mezzi. Essendo dunque tutte le cose fatte per un fine unico da una prima Causa che è un Intelletto , consegue che tutto sia ordinato, tutto fatto con sapienza: che tutte l' altre cose, le loro quantità, le loro forme e modi, i loro nessi reciproci, i loro atti e movimenti, abbiano la loro ragione, e niente ci sia o avvenga di casuale o d' inutile. Riconosciuta la verità di questo principio, sarà conveniente e possibile che ciascuno, il filosofo principalmente, s' adoperi a conoscere non solo il fine ultimo del mondo, ma ancora i fini subordinati sí de' singoli enti e loro parti, e sí dell' ordine della loro coesistenza. Ma si dirà forse esser questo impossibile, sia perché i detti fini subordinati sono innumerevoli, sia perché le nature dell' universo conoscendosi dall' uomo imperfettamente, non si può ben definire a quali fini immediati o mediati possano essere diretti dalla mente altissima di chi le creò. Rispondiamo che questa obiezione prova solamente che l' uomo non può discoprire tutti e pienamente i finiti immediati e mediati degli enti mondiali, e delle loro leggi e azioni, ma non prova punto che non ne possa rilevare alcuni. Appunto perché tutto ciò che è nel mondo è opera d' un Intelletto perfettissimo, niente c' è od avviene d' inutile e senza ragione finale. Se dunque si domanda quali sono i fini subordinati degli enti mondiali e delle loro parti, si può rispondere: 1) Che ciascuno ha per fine prossimo nell' intenzione divina la propria natural perfezione. 2) Che tutti gli usi a cui servono reciprocamente, cioè tutto ciò che ciascuno colla sua azione contribuisce alla perfezione degli altri, sono altrettanti fini della loro costituzione ed azione. Potendosi dunque da noi conoscere, almeno in parte, quale sia la naturale perfezione di ciascun ente, e molti degli usi a cui servono, ed essendo tanto quella come questi altrettante ragioni finali de' medesimi, molti di questi fini subordinati possiamo conoscere, benché non tutti (1). Ma questa perfezione naturale di ciascun ente, e questi usi di reciproco vantaggio non s' ottengono sempre. Questi dunque sono fini ideali ; ma quando e quanto di fatto s' ottengono, sono fini voluti e reali del divino Intelletto che n' è la causa. Il non realizzarsi di alcuni tra quelli si concepisce come un' eccezione. Il realizzarsi degli altri è ciò che conduce la nostra mente a conoscere i fini ideali . L' eccezione poi conduce la nostra mente a indagare fini ulteriori, perché anche queste eccezioni devono avere il loro fine; e questo non consistendo nel fine prossimo, resta che un fine piú grande, ed un bene o piú universale, o piú magnifico e prezioso in se stesso, stia nell' intenzione e nella volontà del primo Intelletto. Rimane dunque a concludersi, che « il fine ideale di ogni parte del mondo è tutto ciò che ciascuna parte può produrre od ottenere di bene », e che il fine reale e voluto è « tutto ciò che di bene s' ottiene, per mezzo di tutto ciò che esiste e di tutte le operazioni di ciò che esiste », e che la mancanza stessa di ogni bene parziale, è un mezzo ad un fine di bene ulteriore, piú universale, o piú cospicuo, e certamente poi al fine ultimo che non può non ottenersi, per l' onnipotenza della prima Causa. A' fisici materiali, che condannano lo studio delle cause finali, come impossibile, inutile o nocivo all' avanzamento delle scienze fisiche, si risponde «( Logic. , 95. sgg.) »: 1) Non essere impossibile; e l' abbiamo veduto fin ora: quello che può dirsi impossibile è solo il conoscere tutti i fini subordinati : se ne possono conoscere ognor piú e meglio, quanto piú se ne continui lo studio, come in ogni altra materia scientifica. 2) Non essere inutile; e apparisce da questo che non sono le sole cognizioni fisiche che cerchi ed ami l' uomo: lo studio delle cause finali appartiene principalmente ad una scienza libera , come la chiama Aristotele, che s' ama per sé, e non perché serva alle altre, nel che ella è di gran lunga superiore alle fisiche vicende. A cui s' aggiunge, esser falso che lo studio delle cause finali subordinate in nulla possa giovare all' avanzamento della fisica: i sommi fisici, il cui pensiero non si chiuse entro la cerchia della fisica, hanno giudicato il contrario. 3) Non essere nocivo, appunto perché utile. Ogni cosa buona si fa nociva per abuso, o per errore. Due sono gli errori principali ed opposti intorno alle cause finali. L' uno è di quelli che le negano, attribuendo tutto al caso. L' altro è di quelli che, vedendo i vestigŒ d' intelligenza sparsi nell' universo, danno l' intelligenza a quelle cose che non l' hanno, quasi tutte operassero per un fine; di cui un esempio ci presenta la storia della filosofia moderna negli Sthaliani, i quali pretesero che l' animalità operasse con intelligenza «( Psicol. , 391 sgg.) ». Né tampoco favellò con chiarezza Aristotele sopra ciò, quando, confondendo il concetto di termine col concetto di fine , disse che la natura opera per un fine (1), e che la forma è il fine a cui tende. Poiché la forma in quant' è conseguita dagli enti non è altro che il termine reale della loro forza entica; in quanto poi è nella mente che li crea e move, in tanto è fine o causa intenzionale. Ma la forma stessa è parola di piú sensi. Poiché significando essa atto, non solo ciascun ente ha il suo atto costitutivo, ma tutta la serie e l' ordine loro complessivo, e ogni loro gruppo ha un fine nella divina mente, che ottenuto, cioè realizzato in que' gruppi, o complessi, può dirsi forma , o atto. Ma l' ultimo atto o forma eccede la natura, perché consiste nell' unione coll' ente infinito, che è un altro e diverso da ogni forma naturale. La causa dunque è necessariamente ad un tempo efficiente, esemplare, e finale; e se uno solo di questi suoi modi mancasse, non sarebbe causa, ma solo potrebbe essere un elemento astratto della causa. Questi tre modi, sebbene devano coesistere, acciocché ci sia la causa, hanno un ordine tra loro. Ora, l' ordine col quale si costituisce la causa ne' suoi tre modi, se per via d' astrazione analogica si paragoni all' ordine col quale si costituisce l' ente infinito ne' suoi tre modi, si trova che è inverso a quest' ultimo. Poiché nell' ordine dell' essere infinito si concepisce da noi, o certo si nomina, prima il Principio o il Padre, a cui per analogia si riferisce la causa efficiente, e di poi il suo primo termine ossia il Verbo, a cui per analogia si riferisce la causa esemplare, e di poi il secondo termine ossia lo Spirito Santo, a cui per analogia si riferisce la causa finale ossia il fine. Ma l' ordine che si ravvisa nell' interna costituzione della causa è il contrario, concedendosi prima il fine, poi l' esemplare, poi l' efficiente. Il qual ordine però dee meglio considerarsi, per ben intendere come sia. Se un ente intellettivo non avesse un termine datogli precedentemente dalla sua propria natura, sarebbe impossibile ch' egli mai si proponesse un fine. Esaminiamo il fatto nell' uomo. Perché mai l' uomo si propone de' fini nel suo operare? La ragione si è, perché egli ha una naturale tendenza verso il bene in universale. Il bene in universale è il termine naturale dell' umanità, ed anzi d' ogni ente intellettivo. Acciocché dunque esista in atto la causa finale, cioè acciocché un subietto intelligente si possa proporre un fine, dee esserci prima il bene del detto subietto come suo termine posseduto, o almeno la tendenza al bene come suo termine possedibile. Dal termine amativo dunque sorge la causa, cominciando ad essere un fine che si propone il subietto intellettivo. Ma il bene , termine naturale delle nature intellettive, è un relativo, che può essere in modo assoluto ed essere in modo relativo . Il bene che è in modo assoluto è il bene terminativo e perfettivo dell' essere stesso. Il bene che è in modo relativo è ciò che è appetito da un subietto particolare. Il bene che è tale in modo assoluto, si pensa di natura sua assolutamente, ossia obiettivamente, cioè senza riferirlo ad un subietto particolare; ma il bene che è tale in modo relativo, non si può pensare senza riferirlo al subietto particolare che l' appetisce. Nella creatura questi due modi di bene si distinguono, e costituiscono quello che si dice il bene soggettivo , e il bene oggettivo «( PrincipŒ della scienza morale , C. 4) ». Ma nell' Essere infinito non si distinguono, perché egli stesso è l' Essere, e il bene in modo assoluto è la forma ultima e personale che lo perfeziona, ed è egli stesso, ond' egli stesso è bene assolutamente e essenzialmente, bene a tutti i subietti capaci di appetirlo. Ma amare il bene obiettivo è amare ciò che è bene a tutti gli enti che ne sono capaci. Quindi il naturale istinto della bontà divina di comunicarsi. Cosí viene spiegata la possibilità che Iddio si determinasse alla creazione, senza esservi obbligato dalla necessità di costituire se stesso in modo completo, ma posteriormente a quella perfetta costituzione. La causa finale dunque, cioè quel modo di causa che si dice fine, e che altro non è in Dio, se non il proposito di rendere se stesso (bene essenziale e assoluto) fine di enti finiti intelligenti, è la prima attualità che si può pensare in Dio nel processo dell' atto creativo. Propostosi questo fine, l' eterna intelligenza doveva concepire l' ente finito, nel quale un tal fine si realizzasse. E questa seconda operazione è l' eterna tipificazione, ossia la formazione dell' esemplare del Mondo. In questa maniera, alla causa finale nella divina volontà (terza forma personale) s' aggiunge la causa esemplare nella divina mente, ossia nell' assoluto obietto (seconda forma personale). Concepito l' Esemplare di tutto il creato, altro non rimaneva che coll' energia dell' eterna volontà dell' essere produrne la realizzazione; il qual atto energico è quello che si chiama causa efficiente , e sorge nel principio della prima intellezione (prima forma personale dell' essere divino). Il qual processo dell' attuazione in Dio delle tre cause del mondo non ammette successione di tempo, né trinità di atti, poiché tutto si fa con un atto eterno, e solo la mente astraente produce in esso tali distinzioni. Del pari, quest' atto unico appartenendo all' essenza divina, è comune alle tre divine persone, ciascuna delle quali lo ha identico nel suo proprio modo di essere; ma, appunto a cagione di questo altro e altro modo, s' appropria al Padre la causa efficiente, e al Figliuolo l' esemplare, e allo Spirito Santo il fine, come abbiamo altrove spiegato. L' ordine logico dunque dell' atto creativo è inverso a quello che esiste nella costituzione dell' essere divino; di maniera che tutta la catena dell' essere infinito e finito si compone logicamente di questi sei anelli l' uno all' altro attenentisi: 1) Principio; 2) Verbo; 3) Spirito Santo; 4) Causa finale; 5) Esemplare; 6) Efficiente. I quali sei anelli d' oro esprimono l' ordine della causa. Ma la catena si continua per altri sei anelli, se noi consideriamo il causato nella sua piena costituzione; sempre però con questa legge, che « ad ogni tre anelli seguono tre altri che procedono con un ordine inverso ». Laonde, se noi vogliamo aver presenti tutti gli anelli di questa catena delle azioni entiche, ecco i dodici anelli ond' ella si compone e continua: 1) Principio; 2) Verbo; 3) Spirito Santo; 4) Causa finale; 5) Causa esemplare; 6) Causa efficiente; 7) Reale finito; .) Forma intelligibile; 9) Appetito finale; 10) Operazione dello Spirito Santo, per la quale s' incarna; 11) il Verbo, che rivela; 12) il Padre. Vedasi in questa Tavola: i tre primi anelli dimostrare l' eterna costituzione dell' Ente infinito; i tre secondi l' eterna costituzione della Causa; gli altri tre la costituzione del Causato, cioè dell' ente finito; i tre ultimi la sublimazione del Causato, o ente finito, nell' Infinito, ossia l' ordine soprannaturale inserto nel creato, con che il creato è compiuto secondo l' eterno prestabilito disegno. Vedesi ancora che ognuna di queste quattro triadi tiene successivamente un ordine inverso a quello della precedente. Questi dodici anelli dunque si attengono e si continuano tra loro, e dimostrano una continuità di vita e di azione in tutto l' essere, in qualunque modo egli sia, nell' università del tutto. Questa dunque è la catena d' oro, che avvolge e stringe il tutto, e che noi chiamiamo catena ontologica; dalla dottrina della quale si vede, come le diversità e le opposizioni stesse, che distinguono le entità e moltiplicano gli enti, non impediscano punto che ci sia in tutto una continuità d' azioni, e quasi un trascorrimento non interrotto dell' essere dal principio alla fine di tutte le cose. Cosí conciliasi la grande antinomia tra l' unità dell' essere, e la moltiplicità de' relativi e degli enti stessi, e si completa quella dottrina che ha solo il suo principio nel sistema dell' unità dialettica. Poiché nella catena ontologica non si vede solo l' unità dialettica, ma una unità d' azione reale altresí. E quest' azione unica non toglie, anzi produce la diversità e la moltiplicità degli enti. Poiché l' identità dell' ente non dipende dall' identità dell' azione entica e creativa che si ravvisa nella catena, ma è relativa ai subietti . Ma acciocché meglio si veda il modo, per quanto è possibile, di questo continuamento d' azione, conviene considerare che cosa influisca la Causa eterna nel causato. Questo è quanto ricercare: « Che cosa la causa influisca nell' effetto ». Avendo noi veduto: 1) che la Causa prima opera per via d' intelletto astraente; 2) che tali astratti, come contenenti, cioè come idee, sono d' una forma categorica diversa dal subietto infinito da cui sono presi per opera della mente, e come contenuto, cioè come essenze, sono diverse dallo stesso subietto infinito per quell' opposizione massima che abbiamo detto trascendente; 3) che ciò che le rende diverse è appunto l' averle staccate col pensiero dal subietto infinito; 4) che tali astratti, quando vengano dalla mente stessa determinati in modo che non resti piú in essi da nessun lato nulla d' indeterminato, possono essere realizzati; 5) che appartiene ad un intelletto perfetto e infinito la virtú di realizzarli, volendo; 6) che l' intelletto divino non può essere che perfetto, e oltracciò essendo un tale intelletto l' essere stesso, il suo atto e il suo termine altro non può essere che attualità di essere subiettivo, onde il conoscerli a pieno in sé esistenti è realizzarli, realizzarli è un dar loro l' atto dell' essere subiettivo, ossia un crearli: avendo noi, dico, veduto la verità di tutte queste proposizioni logicamente necessarie e connesse tra loro, possiamo ora dedurre le seguenti conseguenze che risolvono la questione proposta: 1) La natura creata non partecipa niuna porzione della sostanza di Dio stesso; ma è una natura totalmente diversa da quella di Dio. 2) La natura creata ha un ordine di derivazione dalla natura di Dio, per mezzo del divino intelletto che la crea. 3) La natura creata partecipa di quelle essenze che sono cavate per un' astrazione divina dalla natura subiettiva di Dio, poiché essa è la loro realizzazione. 4) Quando si dice che la natura creata partecipa delle qualità e delle perfezioni di Dio, si deve intendere non d' una partecipazione immediata, ma d' una partecipazione mediana, cioè mediante le essenze astratte che furono create per opera della mente divina dalla natura subiettiva di Dio. Le quali essenze tuttavia partecipano di Dio non nel senso di vera partecipazione; perché esse sono, in se stesse, in tutto diverse dalla divina natura, nella quale esiste in loro vece un' essenza sola, che, in quanto è oggetto della mente, dà alla mente soltanto la miniera, per cosí dire, da cui ella può cavarle per astrazione, senza che l' essenza unica soffra cosa alcuna da quest' operazione puramente mentale. E tale perciò è la partecipazione mediata che s' attribuisce alla natura creata delle qualità e perfezioni di Dio; partecipazione che altro non significa, che un ordine di derivazione. 5) Dicendo similitudine e comunità astratta , altro non intendo se non questo: che quello stesso astratto che determinato che sia è realizzato, è quello che è stato tolto dalla natura subiettiva di Dio per opera della mente. Di che avviene che l' astratto tipico , o idea, si presenti alla considerazione della mente, come un termine medio tra la natura creata subiettivamente esistente e la natura subiettiva di Dio. Con questo la mente concepisce come una proporzione tra la natura creata, e Dio, della quale proporzione il detto astratto forma il termine medio: e questo è ciò che costituisce quello che si chiama grecamente analogia , o come alcuni dicono, similitudine d' analogia tra la creatura e il Creatore. 6) Ma poiché l' astratto tipico è contenente e contenuto, e in quanto è contenuto dicesi essenza ed ha forma subiettiva (non però da sé sussistente, ma contenuta), in quanto poi è contenente e dicesi idea è obietto; perciò rimane a cercare il rapporto tra la natura creata, e l' astratto tipico come obietto. Or questo rapporto è di opposizione categorica, poiché la natura creata non appartiene che alla forma subiettiva, e però ha un' opposizione massima coll' obietto. Niente dunque vieta, che l' astratto tipico nella sua forma d' obietto contenente sia un' attualità divina, e però sia l' Esemplare del mondo, contenente il mondo subiettivo. Ma attentamente si badi: il Mondo cosí considerato non è il mondo sussistente in sé fuori d' ogni contenente, ma è il Mondo sussistente nel contenente: non è dunque il mondo che noi esperimentiamo, non siamo noi stessi questo mondo, né sono gli agenti che operano nel nostro sentimento, perché tutto ciò è fuori del contenente, ed è tale in quant' è fuori dell' oggetto. Per non aver conosciuto ciò e non aver fatte queste distinzioni, è avvenuto che la questione del Panteismo sia divenuta cosí difficile a snodarsi, non vedendosi come si potessero conciliare queste due proposizioni: « il Mondo è in Dio », e « il mondo non è Dio ». Poiché quando si dice: « Il mondo non è Dio », si parla del mondo nella sua esistenza propria e relativa a se stesso, e cosí è verissimo; quando si dice: « Il Mondo è in Dio »si parla del Mondo contenuto nell' oggetto eterno. Questi due modi d' esistere del Mondo non hanno tra loro alcuna similitudine, ma solo un rapporto d' origine, e un' analogia, hanno un essere totalmente diverso, e un' opposizione massima; e però anche la seconda sentenza è verissima, né punto contraddittoria alla prima. Abbiamo fin qui esaminato, se la natura dell' ente finito sia influita in esso dalla prima Causa per via d' emanazione di sostanza; e abbiamo risposto negativamente, facendo vedere che l' ente finito nulla partecipa della sostanza infinita, ma partecipa di ciò che si contiene nell' essenze finite astratte dal divino intelletto dell' Essere subiettivo infinito. Ora ci rimane a vedere, se la prima Causa creando le nature finite, col dare loro l' atto dell' essere subiettivo, pel quale esistano in se stesse, dia loro qualche cosa di se stesso, cioè del proprio essere subiettivo. Tante volte abbiam detto che « l' ente finito non è il proprio essere ». In questa proposizione, colla parola essere può intendersi la propria essenza , ovvero l' atto dell' essere subiettivo che realizza quell' essenza. Ella è vera nell' uno, e nell' altro significato. L' essere infatti è comune a tutte le essenze, ed è comune del pari a tutti gli enti finiti realizzati. Questi due significati della parola essere, cioè l' essere delle essenze e l' essere de' reali finiti, hanno il loro fondamento nelle due prime forme dell' essere, l' obiettiva, e la subiettiva. Poiché l' essenza è contenuta nell' essere obiettivo, i reali finiti all' incontro esistono per un atto d' essere relativo a sé puramente subiettivo. Che cosa è dunque quest' essere? appartiene esso alla natura divina? Ora, che cos' è l' essere subiettivo de' reali finiti? Di nuovo, ove se ne consideri l' origine, esso è quell' atto della mente divina, appartenente alla facoltà del Verbo, con cui pronuncia che sia in sé ciò che intuisce nell' essenza tipica. Nella coscienza di Dio l' atto creativo non è cosa distinta da Dio stesso, poiché Dio è consapevole di creare, e quest' atto creativo è sua propria attualità indivisa da se stesso essere assoluto. Nella coscienza della creatura quest' atto apparisce come l' atto con cui essa creatura esiste, perché ha coscienza d' esistere: ma quest' atto del suo esistere non è altro, è separato interamente da Dio, perché Iddio che lo fa si rimane nascosto: è solamente il termine, o l' estrema punta, per cosí dire, dell' atto, poiché la creatura è appunto termine per rispetto all' atto creativo. La creatura nello stesso tempo è consapevole di non esser ella stessa l' atto nel quale esiste, ma d' esser quella che è fatta esistere per quell' atto, ond' ella sente di avere una relazione necessaria a quell' atto come a un suo altro, e quindi si chiama un ente relativo perché esiste per una tale relazione che ha coll' essere. E di conseguente ancora, quell' atto dell' essere le apparisce relativo a lei, come quello che non fa altro che farla esistere nella sua propria natura, la qual natura varia e costituisce le diverse e differenti creature. Ma il relativo, e l' assoluto non solo sono diversi, ma hanno un' opposizione massima e trascendente. Onde, tanto è lungi che l' atto creativo, che è Dio stesso Essere assoluto, sia il medesimo coll' essere che è partecipato dall' ente finito, che anzi questo si diparte dall' identità con quello, d' una distanza massima. Siccome dunque noi prima abbiamo detto che la limitazione ontologica cangia un ente in un altro, un essere in un altro, cosí l' essere che attua le nature finite, a queste congiunto, essendo reciso da Dio per rispetto a queste, non può menomamente confondersi coll' atto creativo, o coll' attualità stessa di Dio, o con Dio stesso: le quali tre maniere dicono in fine lo stesso. L' ente finito dunque partecipa di quell' essenza dell' essere, che s' intuisce nell' essere astratto, e non della sostanza dell' essere sussistente. Ma l' essere di cui partecipa l' ente finito ha un ordine d' origine coll' essere sussistente, perché da questo è tratto per opera della mente astraente di Dio creatore. Né l' uno, né l' altro dunque, de' due elementi, di cui si compone l' ente finito, cioè la sua natura e l' essere subiettivo , è una partecipazione immediata delle qualità, e perfezioni in Dio sussistenti, ma mediata, cioè per mezzo degli astratti di queste qualità e perfezioni. Tuttavia si frappone una differenza tra la partecipazione della natura, e la partecipazione dell' essere. La natura è partecipazione di tutto ciò che si contiene nell' astratto tipico ; e la sola forma categorica è diversa, essendo la natura dell' astratto in forma obiettiva, e nel reale in forma subiettiva. L' essere subiettivo non è partecipazione di tutto ciò che si contiene nell' astratto essere, poiché vi si contiene l' essenza pura dell' essere, la quale è illimitata; ma partecipa tanto dell' essere, quanto n' è suscettiva, e questo quanto è pari alla limitazione della natura che viene attuata. Che poi l' essere astratto senza dividersi in se stesso, possa essere partecipato parzialmente dalle molte nature finite, nasce da quello che abbiam detto, che la detta partecipazione non è identificazione; ella invece è congiunzione di presenza, rimanendo l' essere sempre un altro dalla natura che lo partecipa, onde egli non si predica delle nature col copulativo è, ma soltanto col copulativo ha, come dicendosi: « quest' uomo ha l' essere ». Nella teoria che abbiamo data dell' origine che han gli enti finiti dalla loro causa, si trova altresí la ragione ontologica dell' attività e passività che si ravvisa nell' ente finito, di quella legge di sintesismo di cui abbiam fatto grand' uso nella Psicologia, e dello stivamento delle stesse nature finite, che, come abbiam detto, sono appoggiate e quasi addossate l' una all' altra, e insieme stipate nell' universo. Il proprio e immediato subietto della limitazione è la sola essenza che ha natura di termine; il principio nell' ente non è limitato come tale, ma riceve appunto la limitazione per questo che finisce il suo atto in un termine limitato o determinato quantitativamente. La limitazione dunque determina il termine, e il termine limitato limita ad un tempo e determina il principio. Se pertanto si tratta de' due principŒ, l' intellettivo e il sensitivo, separati per virtú della mente astraente da' loro termini, il problema della loro determinazione ha queste principali condizioni: 1) che sia loro dato un termine determinato; 2) che questo termine determinato non abbia l' essere identico col principio a cui si congiunge. Sorge indi da sé la domanda: che cosa sia questa congiunzione , che tiene separate di natura quelle entità, cioè il principio ed il termine, in modo che la mente può pensarle come enti diversi. E la risposta si è: che la natura di quella congiunzione e separazione consiste nelle opposizioni di attività e di passività , di dazione e di ricevimento , ossia di presenzialità e di ciò a cui l' altro è presente. Questa è l' origine ontologica di tali opposizioni, che solo nell' essere finito possono aver luogo. Perché l' opposizione di dante e di ricevente nell' infinito appartiene alle opposizioni originarie , e a quelle d' alterità modale , passando ella tra le forme personali; laddove l' opposizione di dante e di ricevente nel finito, o piuttosto di presenzialità, appartiene all' opposizione categorica ad un tempo e trascendente , tra il subietto finito (forma categorica) e l' obietto ideale (essere). Ma qual' è, si domanderà, la differenza tra l' atto di ricevere semplicemente, e l' atto d' agire? - Non deve intendersi certamente, che l' atto di ricevere sia un non7atto, una cosa senz' azione, come in un senso traslato si dice che una cosa morta, per esempio un vaso, riceve in sé un' altra cosa morta, un liquore. Trattasi di vero atto del principio ricevente, atto che nel caso nostro diciamo intuizione. Per atto di ricevere intendiamo dunque quell' atto, con cui un principio attua se stesso in relazione al suo termine, ma non passa nel termine stesso. L' effetto quindi, che l' atto del ricevere lascia nel principio che lo fa, è una sua propria attualità, per la quale egli ha posto se stesso in relazione al termine, è l' attualità del principio ultimata e determinata. Quando invece il termine dato non differisce di forma categorica dal principio che lo riceve, allora questo, coll' atto di riceverlo e di porlo come correlativo a sé medesimo, agisce sul termine stesso e lo modifica, gli dà con ciò una nuova attualità. L' essere oggetto, per divenire correlativo d' un principio intellettivo finito, non ha bisogno di ricevere alcuna nuova attualità o modificazione, perché è per sé assolutamente un correlativo al subiettivo; non fa dunque bisogno di renderlo tale. La cosa non va cosí quando la natura del termine sia la realità pura subiettiva, che è il termine proprio d' un principio che sia puramente sensitivo, poiché il subiettivo non è per sé correlativo al subiettivo. Allora dunque questo principio subiettivo dee, ricevendo il termine, pure appartenente alla forma subiettiva, operare su di esso, per dargli quell' attualità che gli manca, acciocché possa divenire un suo correlativo. Riassumendo noi dunque, altro è creare altro è ricevere , e altro è agire . Creare è un atto della Prima Causa Intelletto perfettissimo, che nel modo detto pensa per astrazione le idee tipiche degli enti finiti, e realizza le essenze contenute in esse, realizzazione che segue di necessità all' atto volontario pel quale l' eterno intelletto vuole liberamente conoscerli. Non c' è in questa divina operazione un subietto in sé esistente che riceva, ma c' è solo un subietto nell' idea, che riceve la realizzazione, e in quanto il subietto della realizzazione è nell' idea divina, in tanto esso e la sua realizzazione è in Dio: il reale poi di quell' essenza, in quanto esiste solo rispetto a sé e subiettivamente, in tanto è l' ente finito in sé esistente. Il ricevere , e l' agire sono atti dell' ente finito. Come nel tipo eterno di questo ente ci ha necessariamente la composizione di principio e di termine distinti di natura, essendo questa composizione la condizion necessaria dell' ente finito, cosí tale composizione è anch' essa realizzata nell' ente reale. Questo ente reale non appartiene che alla forma subiettiva , non è essere, non è forma obiettiva, né forma morale. Nell' ente subiettivo si distingue dunque il principio ed il termine a guisa di nature separate. Il termine può tanto appartenere alla forma obiettiva dell' essere, quanto alla forma subiettiva. Se il principio subiettivo reale ha per suo termine l' essere nella forma obiettiva, egli è con ciò costituito subietto intelligente: la sua natura non si confonde mai colla natura di questo suo termine obietto, ma egli ha con ciò una comunicazione subiettiva colle cose eterne, e divine. Egli però nulla agisce su questo termine, ma non fa che riceverlo . Se poi il termine dato al principio subiettivo appartiene anch' egli alla forma subiettiva, in tal caso 1) lo riceve , e 2) nell' atto stesso del riceverlo agisce su di lui, e agendo lo modifica, lo attua in modo che egli possa essere termine conveniente. Quest' unione dunque del principio e del termine non si fa solo con un atto di ricevimento , ma con un atto altresí d' azione sul termine . Se or noi riassumiamo, dovremo dir cosí: 1) Il concetto di azione, e di passione nasce dalla relazione che passa tra il principio, e un termine di natura diversa dal principio. 2) Quella maniera d' azione che consiste nel solo ricevere ha luogo quando la natura del termine è tale, ch' essa è per sé termine , e non ha bisogno d' altro che d' essere ricevuta, acciocché sia termine. Tale è l' essere obiettivo che informa il principio intellettivo. Questa maniera d' azione che riguarda l' essere obiettivo, sia intuizione o altra operazione intellettiva, è bensí causata dalla presenza del termine, tale per essenza, ma non passa nel termine, finendo nel subietto: onde noi la chiamiamo azione intransitiva . 3) Quella maniera d' azione che è ad un tempo ricevere e azione modificatrice è un' azione del principio, il quale non solo riceve il termine, ma per potere pienamente riceverlo e in sé congiungerlo, il modifica . Quest' azione ha luogo quando la natura del termine, diversa da quella del principio, non è termine per se stessa, ma deve esser fatta termine dal principio stesso, mediante una modificazione ch' egli le imprime. Da quest' analisi risultano diversi modi d' azione e di passione: a ) Nel termine corporeo due elementi si manifestano: 1) forza, ossia causa di moto; 2) estensione «( Ideol. , 750 7 753, .71, 1207 n. ) ». La forza non ha propriamente natura di puro termine, perché è attività, e ogni attività è propria de' principŒ. Questa forza, che si manifesta nel corpo, non appalesa il principio subietto al quale possa appartenere; ma pur questo, che rimane nascosto, ci deve essere, e noi l' abbiamo chiamato principio corporeo «( Ideol. , ..5) », mentre la forza quale apparisce ne' corpi fu da noi chiamata attività finale , che è quella in cui finisce l' azione d' un principio senza uscire da se stesso. L' attività finale dunque che è ne' corpi, e che trae l' origine da un principio corporeo come da un suo subietto nascosto, s' unisce col principio sensitivo, per un atto di questo che se l' appropria e la rende a se stesso termine, cioè sensibile «( Psicol. , 291 sgg.) ». Nell' esser data quell' attività finale che è ne' corpi al principio sensitivo come sua continuazione, e nell' atto dello stesso principio che se l' appropria rendendolo suo sentito, consiste l' unione dell' anima sensitiva e del corpo, ed è la costituzione dell' ente animato . E qui si osservi attentamente che ciò che il principio sensitivo fa in rispetto alla detta attività finale, è di renderla suo sentito , onde il sentito si distingue dalla detta attività come un fenomeno sensibile sopraggiunto alla medesima. A questo fenomeno, che ha ragione di puro termine, appartiene l' estensione . Questa è l' azione entica e costitutiva del principio sensitivo corporeo, la quale, essendo determinata dall' atto creativo, non può mai, per alcuna forza finita, interamente annullarsi «( Psicol. , 663 sgg.) ». b ) Il principio sensitivo dunque, già costituitosi ente nel suo termine coll' aversi unita ed appropriata l' attività finale, può produrre, dentro certi limiti, il movimento tanto nel proprio corpo, quanto ne' corpi esterni connessi col suo, come abbiamo dichiarato nella « Psicologia (2.. sgg., 1.13 sgg.) ». Questa sarà da noi detta in generale azione motrice dell' animale che si distingue dall' azione entica dell' animale, da cui però trae la sua origine. c ) In queste due maniere d' azione del principio sensitivo comincia ad apparire la passività . Poiché nell' una e nell' altra il termine viene modificato dal principio: nella prima maniera venendo reso sensibile e vestito d' estensione, nella seconda venendo esso mosso, e cosí modificato non in se stesso, ma nella sua relazione collo spazio. Questi dunque sono i primi due generi di passività che si ravvisano nella natura, l' uno e l' altro appartenente al termine del principio sensitivo: 1) passività dell' attività finale manifestantesi ne' corpi, che consiste nell' esser fatta un esteso sensibile - sentimentazione ; 2) passività d' esser mosso - mobilizzazione . Noi abbiamo veduto che l' Essere è necessariamente uno e trino. Abbiamo parlato dell' essere uno, e delle questioni che si presentano allo spirito quando questo si scontra nella antinomia tra la speculazione e l' esperienza. Le quali questioni sono indipendenti dalla triplice forma dell' essere, e però appartengono al trattato dell' essere uno. Ma, dopo di questo, il pensiero meditativo scopre questa sorprendente verità, che, sia l' ente uno o molteplice, esso ad ogni modo ha per necessità assoluta una triplice forma, vogliam dire, è in tre maniere, che noi abbiamo chiamato soggettiva o reale, oggettiva , e morale ; ed essendo queste di una estensione illimitata, stanno fuori di tutti i generi, e a tutti i generi sono superiori. Onde esse costituiscono la base della classificazione massima, e le classi massime furono da noi dette Categorie. Di quelle tre forme abbiamo dunque parlato sotto questo aspetto, in quanto esse prestano la base delle categorie, o de' predicati massimi degli enti. Convien ora che noi ragioniamo dell' essere quale è in ciascuna di quelle tre forme. Ma in quale primieramente? Nell' oggettiva. Poiché il ragionare appartiene alla scienza: quello dunque che è il primo della scienza, cioè che primo si conosce, conviene che sia anteposto nella serie del ragionamento. Ora niente si conosce se non sia oggetto dell' intendimento; e se non è oggetto, convien che si faccia oggetto acciò sia conosciuto. La forma dunque oggettiva dell' essere è quella che immediatamente si conosce, e che tocca, quasi direi, la mente; e conviene che le cose tutte, affinché sieno conoscibili, prendano questa forma. Fino a tanto che si tratta di una cognizione di cose finite, la loro forma oggettiva, per la quale si conoscono, fu da un tempo molto rimoto, denominata idea (1). Che cosa divenga (si tratta sempre di un divenire relativo alla mente umana) quando si tratti di conoscere l' infinito, noi l' abbiam già detto, e di nuovo ne tratteremo dipoi. Si consideri ora la sorpresa e la gioia intellettuale di quella mente speculativa, che meditando sulle diverse nature componenti questo mondo, le riscontra tutte limitate e soggette a varie passioni e corruzioni, eccetto però una sola, che al pensiero si presenta impassibile, immobile, incorruttibile, necessaria, eterna perché necessaria. Quale scoperta maggiore di questa? Quale entusiasmo non dee sollevare nel pensatore che la prima volta la coglie? Convenientemente doveva l' idea, questa natura cosí diversa da tutte le altre, essere chiamata il divino «to theion», come la chiamò Platone. Poiché in tutto quanto è ampio il circolo delle cose dell' universo, l' idea è il solo elemento che vi si rinvenga, il quale abbia del divino, e il solo nesso che unisca il mondo con Dio, e quasi il punto di contatto delle due sfere, del finito, vogliamo dire, e dell' infinito, e però l' unica via di comunicazione, per la quale l' uomo possa innalzarsi sopra se stesso, riconoscendo la sua natura quasi cognata alla divina, col suo punto piú eminente appesa a questa. Il che s' intenda del solo ordine naturale. Poiché se l' umana intelligenza per via di determinazioni logiche può argomentando pervenire a formarsi un concetto di Dio sussistente, anche in questo slancio ella appoggia il suo ragionamento sul punto fermo dell' idea, che sola contiene e svela qualche cosa di quel divino, di cui l' intero, nascosto, dirò cosí, dietro alla simbolica cortina della realtà di cui si compone il mondo, si viene argomentando e divinando. Ché l' idea arreca veramente in questo modo all' umana mente l' ammirabile facoltà d' una cotale divinazione. Avendo dunque Platone trovato l' unico elemento divino nella natura, cioè l' idea, non è a stupire, che egli, arricchito del principio di tutta l' umana scienza, ponesse come capo e cardine [...OMISSIS...] della filosofia « la dottrina degli intelligibili » [...OMISSIS...] ; la quale lo rese il maggiore tra' filosofi: se non fosse parola invidiosa, vorrei dire l' unico avanti Cristo. E l' idea, l' essenza sempre eguale a sé della cosa, gli parve dotata di tanta lucidità, che pose in essa l' evidenza, e da essa, quasi da un postulato non possibile a rifiutarsi, fece partire ogni ragionamento filosofico. Cosí nel Fedone: dicendo ch' egli suole prima di tutto supporre quella ragione, che è di tutte fortissima, e indi cercar quali cose consuonino ad essa, e queste giudicar vere; quelle poi, che da essa discordano, false. E volendo ivi dimostrare l' immortalità dell' anima, la ragione fortissima che presuppone, e da cui parte, è « « che ci sia qualche cosa di per sé bello, buono e grande, e del pari l' altre essenze » » [...OMISSIS...] ; e questo richiede gli sia conceduto senza provarlo. Onde le ragioni d' ammettere le idee, di cui Aristotele fa una critica che merita d' essere criticata, come vedremo, si riducono per Platone ad osservazioni interne su quell' atto d' intuizione immediata, con solo il quale s' apprendono le idee; e però non tendono ad altro, che a persuaderci che noi vediamo colla mente le essenze, piuttosto che a dimostrarci che ci debbano essere. E perciò Socrate poco appresso, nello stesso Fedone, cercando perché le cose sieno belle, dice [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire, una sí fatta proposizione essere evidente, e niuno, comeché pensi sull' altre cose, poterla ragionevolmente negare. Trovata pertanto l' idea, e vedute le eccelse proprietà di essa, e la sua fecondità, era trovata quella via, di cui Socrate dice nel Filebo, che [...OMISSIS...] . E però l' analisi delle idee, ciascuna delle quali da una diventava piú, e la loro ricomposizione, che restituivale all' unità, erano il nativo carattere della platonica filosofia; ed offrivano alla mente la gran questione dell' antinomia tra l' uno e i piú, incominciata già a suscitarsi tra i Pitagorici e tra gli Eleatici, ma di cui non si conobbe la profondità e la perplessità se non quando Platone, che amava piú la verità che la vana disputa, ne cercò lo scioglimento nella misteriosa, ma natural connessione tra le idee stesse, come l' attestano il Parmenide, il Sofista e altri suoi dialoghi. Quest' unità e questa moltiplicità che ad un tempo si trova in ciascuna idea, quando si va ripensando, conduce alle piú curiose questioni, e fa errare lungamente lo spirito per gli interminabili andirivieni della dialettica. Cosí dopo Platone la dottrina delle idee divenne ad un tempo e argomento di gravissime meditazioni, e un luogo comune degli Eristici e de' Sofisti, che colle loro sottili fallacie la resero spinosissima (1). Ma chiuse le scuole greche, essendo prevalso Aristotele, il gran nemico delle idee platoniche, questa questione principale e vitale per la scienza fu riguardata come d' importanza secondaria, e le dispute che divisero il Medio Evo intorno agli universali non erano che una piccola parte della gran questione, a cui dava occasione la dialettica e lo studio dell' Organo di Aristotele e dell' Isagoge di Porfirio. Era un rimettiticcio del pedale dell' albero della dottrina delle idee troncato da Aristotele. Il solo che abbia sentito altamente l' importanza di questa dottrina dopo i greci filosofi, e che abbia conosciuto che da essa cominciava e ad essa appoggiavasi tutto lo scibile, fu Sant' Agostino (2). Egli si lamenta che al tempo suo manchino del tutto i filosofi, e che atterriti gli uomini dal dubbio, stato sparso su tutte le cose dall' ultima Accademia, disperino di trovare essi quello che non aveva potuto trovare Carneade, onde il torpore e la pigrizia degl' ingegni; e per rompere e da sé rimuovere quest' odioso impedimento al filosofare, dice avere scritti i libri contro gli Accademici, dove mostra che si dà e che si può trovare la verità. Cosí, egli a Ermogeniano (3). Piú tardi il maggiore sforzo, che sia stato fatto per restituire la dottrina delle idee al posto che le compete, fu quello dell' Accademia medicea (1). Ma per le sciagure pubbliche, e per la nostra mollezza, o Italiani, perí troppo presto quella nobile istituzione; e ora, chi mai appresso di noi ne parla piú, o chi scuote la polvere ai volumi scritti da que' generosi ingegni, che si conservano come cose preziose, essendo divenuti rari nelle nostre biblioteche? Queste idee dunque sono l' essere nella sua forma oggettiva, quando si parla di enti finiti; che se si parla dell' infinito, l' oggetto allora è più che idea, come noi dicevamo. Ma non può essere completo il discorso dell' essere ideale, che forma l' argomento di questo libro, se non si considera la sua forma oggettiva in tutta la sua ampiezza. Onde, quantunque non ci proponiamo al presente d' esporre la teoria dell' essere oggettivo in quanto è infinito, il che appartiene alla Teologia, ma solo in quant' è ideale; pure non possiamo parlare di questo, senza avere un continuo riguardo a quello. Converrà dunque, che noi in questo libro consideriamo l' essere oggettivo sotto tre aspetti: come essere per sé manifesto , come essere manifestante , e come essere manifestato . Trattando dell' essere per sé manifesto, benché involga una relazione ad una per sé mente, noi lo considereremo in un modo assoluto, ossia indipendentemente dalla mente umana. Ma in quanto l' essere oggettivo è anche manifestante, lo considereremo in congiunzione colla mente umana. In quanto poi esso è l' essere manifestato, noi parleremo della sua congiunzione colle cose reali che fa conoscere. Il rispetto poi da noi dovuto a quel filosofo originale, che il primo arricchí il mondo di una magnifica dottrina intorno alle idee, e cosí del vero e solido fondamento di tutta l' umana scienza, al quale saremmo ingrati se non ci dichiarassimo discepoli di quest' ordine della naturale speculazione, ci muove a investigare, se anche Platone distribuisce a questo modo le ricerche che si possono fare intorno all' essere ideale, o se altramente. Al che fare mi sembra opportuno un luogo del Filebo. Parmenide avea ridotte tutte le cose all' uno. I Fisici, avanti e dopo Parmenide, volevano i molti, e non l' uno. Successero di quelli che nell' uno trovavano i molti, e nei molti l' uno. Ma queste questioni astratte rimanevano perdute ne' viluppi delle sottigliezze dialettiche perché non si distingueva accuratamente l' ideale dal reale (giacché l' uno e i molti possono appartenere all' uno e all' altro, spettando all' essere e non alle forme dell' essere), e non era ancora trovata la dottrina delle idee, né conosciuto come queste costituissero la forma degli enti reali. Qui stava il segreto dell' involuta questione, e il solo Platone pienamente il possedeva. Or questa maniera, nella quale si pretendeva dimostrare che i molti fossero l' uno, e l' uno fosse molti [...OMISSIS...] dice Socrate nel Filebo, esser già divenuta volgare ed acconsentita da tutti senza maraviglia, né consistere in essa la questione importante e difficile. Dove dunque? - Risponde Socrate, che dell' uno si può discorrere in due modi. Poiché, o si parla di tal uno, che non ha a far nulla colle cose che nascono o periscono, ed è quanto dire dell' uno astratto; in tal caso non si può rifiutarlo; né è da farci sopra contrasto. O si parla dell' uno partecipato; [...OMISSIS...] Platone dunque primieramente distingue la questione dell' uno separato, che è quanto dire dell' essere, da quella delle idee piú o meno determinate, che come altrettante unità danno l' unità ai singoli enti; e intorno a queste vuole che si domandino tre cose, se veramente sono, se sono immutabili, e come si comunichino ai reali rendendo uno ciascuno di questi. La questione dell' essere unico e semplicissimo, che costituisce il fondo di tutte le idee, e dell' unità astratta che è un concetto elementare del medesimo, si discute da noi nella prima parte di questo libro, dove si parla dell' essere per sé manifesto; e qui pure cadono i due primi quesiti intorno alle idee: se sono, e di quali proprietà vadano fornite. Il terzo quesito che propone Platone riguarda la congiunzione delle idee colle cose reali, e questo si discute da noi nella terza parte. Ma quello, intorno a cui versa la seconda parte del libro presente, cioè della congiunzione delle idee colla mente, non si trova indicato nell' accennata distribuzione di Platone. E veramente pare, che il grand' uomo non abbia posto eguale attenzione a quest' ultima ricerca importantissima. Perocché quantunque non gli potesse sfuggire, essendo tanto capitale, tuttavia non la propone mai direttamente e separata dall' altre, ma ne parla quasi per incidenza in varŒ luoghi, e senza bastevole distinzione e chiarezza: al che forse dee attribuirsi tutto ciò che rimase di oscuro nella teoria delle idee esposta da Platone; poiché, come vedremo, dall' intendere chiaramente in che modo l' essere ideale e le idee comunichino colle menti umane, dipende l' intendere come esse comunichino coi reali. Di che consegue, che l' investigare in che modo le idee illustrino la mente, dee precedere all' investigare in qual modo esse facciano l' ufficio di forme delle cose reali. Riassumendo adunque tutta la serie della trattazione che si contiene nel presente libro, diciamo ch' ella si distingue nelle tre parti seguenti: Parte I Dell' essere per sé manifesto. Parte II Dell' essere per sé manifesto in congiunzione colla mente umana; ossia dell' essere manifestante. Parte III Dell' essere per sé manifesto all' uomo in congiunzione colle cose reali; ossia dell' essere manifestato. Il concetto del per sé manifesto , come s' esprime con due locuzioni, per sé e manifesto , cosí si può analizzare dividendolo in due altri concetti: 1) Il per sé unito al manifesto significa, che l' essere non sarebbe se non fosse manifesto, onde gli è essenziale questo: di essere manifesto. Un tal essere dunque o non è, o è manifesto. Ma poiché l' essere non può non essere, perciò l' essere è; e collo stesso atto con cui è, è anche manifesto. 2) Il concetto di manifesto abbraccia i due concetti di manifestante e di manifestato, e di piú la loro identificazione; ed anzi in questa identificazione consiste il concetto di manifesto , e hanno origine le differenze di questo concetto da quelli di manifestante e di manifestato singolarmente presi. Il che significa, che per sé manifesto è quello che coll' atto stesso con cui si manifesta, e però è manifestante, è anche manifestato; laddove quello che è semplicemente manifestato non è per ciò manifestante, e quello che è manifestante, benché sembri dover essere manifestato, non è che deva essere manifestato per sé, ma può essere anch' egli manifestato da un altro. L' essere dunque per sé manifesto conviene che manifesti, e cosí sia manifestante; e che manifesti se stesso, e cosí sia ad un tempo manifestato; e di piú, che queste due qualità di manifestante e di manifestato costituiscano l' identico atto della sua natura; a queste condizioni, l' essere è per sé manifesto. L' essere, se non si manifestasse da se stesso, egli non potrebbe essere manifestato da niun' altra cosa, perché fuori dell' essere non ci sono altre cose. Il nulla non può manifestare ciò che è, il nulla non può manifestar nulla. L' essere dunque dee per prima dote aver questa: di manifestarsi per se stesso, di esser luce. Dunque l' essere per sé manifesto contiene due intrinseche relazioni distinguibili dalla sola mente, e non punto distinte in se stesse: 1) di essere manifestante, 2) di essere manifestato: due relazioni che si distinguono mentalmente nello stesso atto di essere, la quale identità di atto acquista semplicemente il nome di essere manifesto. Che si conosca dalla mente umana l' essere manifestato, questo non ha difficoltà alcuna. Ma perciò appunto, come possiamo noi conoscere o possiamo ragionare dell' essere manifestante?. Questo prova all' evidenza, che la mente umana non potrebbe arrivare a conoscere il manifestante, se non ci fosse un essere il quale identificasse in sé le due qualità di manifestato e di manifestante , il che è quanto dire, se l' essere non fosse per sé manifesto. Onde conviene incominciare di necessità dall' essere per sé manifesto , che dialetticamente è la sintesi del manifestante e del manifestato . E di vero, se l' essere coll' atto stesso con cui è manifestato non fosse manifestante, giammai la mente umana non potrebbe salire al concetto di manifestante, e senza questo non ci sarebbe piú l' umano ragionamento. Ma il ragionamento c' è, e c' è il concetto di manifestante. Dunque è necessario, per ispiegare l' uno e l' altro, ammettere un essere che sia del pari manifestante come l' idea , e manifestato come l' essenza . E` dunque necessario che l' essenza si veda nell' idea, come abbiam detto altrove (1). La riflessione è quella che s' accorge che l' essere davanti all' intuito ha queste tre condizioni, di manifestato, manifestante e manifesto. Ma come se n' accorge ella? E nell' ordine logico della riflessione, qual è la prima di esse che si presenta? La prima è quella dell' essere manifestato ; nulla potendo essere oggetto del pensiero, che restasse nascosto al medesimo. E acciocché il pensiero giunga a dare all' essere che gli sta presente quest' attributo di manifestato, la mente pensante dee: a ) aver prima percepito se stessa nell' essere, b ) aver riflettuto sopra di sé, e resasi consapevole di conoscer l' essere, c ) averne altresí dedotta la conseguenza, dicendo che l' essere è dunque a sé manifestato. Dopo di tutto questo la riflessione domanda, chi può averle manifestato l' essere. E non trovando davanti a sé altro che l' essere manifestato, non può ricorrere ad altra causa; e d' altra parte, vede che qualora anche ci fosse questa causa, sarebbe anch' ella essere, onde di necessità l' essere sarebbe il primo cognito ; di che si conchiude, che l' essere manifestato è essenzialmente manifestante . Ma dopo aver conosciuto che l' una e l' altra di queste attribuzioni gli appartiene per la sua essenza di essere, la quale essenza è atto semplicissimo; conchiude che la qualità di manifestante e di manifestato è una sola nell' essere, distinta in due per opera della mente: onde, per esprimere l' identificazione di queste due qualità, ella dà all' essere la qualificazione di essere per sé manifesto ; e questa è l' ultima e piú completa notizia, che raccoglie la riflessione. Prima di venire a quest' ultima, il pensiero umano dimora lungamente nella considerazione dell' essere e degli enti in sé, cioè dell' essere e degli enti anoetici; e a considerar l' essere non perviene che di poi. Laonde giustamente Aristotele distingue le cose che sono piú note per loro natura, da quelle che sono piú note relativamente a noi; e dice che coll' umano discorso si deve procedere [...OMISSIS...] : dove per piú note a noi si deve intendere le prime a noi note per riflessione; e per piú note secondo natura, si devono intendere quelle che sono intelligibili per se stesse. Questo progresso della riflessione della mente è quello, che apparisce nella storia della filosofia. La filosofia italo7greca cominciò dalla considerazione degli enti in sé, cioè dalla Fisica degli Jonici. Ma non trovandosi nella natura nessun elemento che fosse necessariamente costante e scevro da ogni possibile cangiamento; convenne confessare che nella natura non c' era un ente immutabile, col quale si potesse spiegare lui stesso e l' altre cose; cioè non c' era un ente che contenesse in sé la ragione di sé medesimo e delle altre cose. Allora vennero i Dorici a dire che conveniva cercare quest' ente al di là delle cose sensibili, e s' abbatterono nell' essenza intelligibile «noeten», che è quanto dire portarono la riflessione sull' essere ideale. Questi furono gli Eleatici, a cui aveano già spianata la strada i Pitagorici (2). Giunti colla riflessione all' essere ideale, trovavansi già nel campo dell' essere manifestante, manifestato e manifesto; e indi prese un nuovo corso la filosofia: potremmo anzi dire che indi incominciò. Ma poiché la riflessione, anche pervenuta all' essere per sé manifesto, è obbligata a fare questo progresso, che prima il consideri come manifestato (essenza), poi come manifestante (idea), finalmente come manifesto (essere oggetto); perciò noi vediamo esser comparso prima Parmenide, che l' essere manifesto considerò, piú che altro, come essere manifestato, trattando dell' essere come essenza: di poi esser venuto Platone, che insegnò la teoria delle idee. Ma dell' essere manifesto, come manifesto, e dell' essere in tutta la sua pienezza, rimane a considerare. Essere manifestato, vuol dire essere conosciuto. Convien dunque cercare la nota caratteristica ed evidente della cognizione. Ora, la cognizione prima di tutto dee avere un oggetto. Conoscere qualche cosa, è proposizione identica a quest' altra: « sapere in qualche modo, che sia quella cosa ». Sapere che sia quella cosa è proposizione identica a quest' altra: « sapere l' essenza di quella cosa ». Ora, il conoscere l' essenza di un ente, importa egli necessariamente che quell' ente sussista realmente? No, ché noi possiamo conoscere l' essenza di molte cose possibili, e non sussistenti. Ne viene spontanea la conseguenza, che la cognizione di certe cose, di certi enti, si può avere senza che essi sussistano. Dunque la sussistenza di tali cose non è quella, che le manifesti a noi. Dunque rispetto alle cose contingenti l' essere loro reale e sussistente è bensí manifestato, ma non è manifestante, e però non è l' essere manifesto. All' incontro, se noi abbiamo quella prima cognizione dell' essenza, noi potremo aggiungere ad essa altre cognizioni, e prima di tutte, che quell' ente, a noi già noto, sussiste. E qui si consideri bene, che il sapere che un ente a noi noto sussiste o non sussiste, non cangia l' essenza a noi nota dell' ente. La nuova cognizione dunque della sussistenza di un ente a noi noto è cosa accidentale rispetto alla cognizione dell' ente. Ma l' esserci data la sussistenza, conoscendone noi l' essenza o in sé o in un' altra essenza che la contiene, fa sí che noi possiamo conoscere l' ente a noi noto per l' essenza, perché nell' essenza già si contiene la sussistenza possibile. L' essenza dunque è quella che fa a noi conoscere la sussistenza di un ente, quando questa sia a noi data; l' esserci data, non ce la fa conoscere, ma è una condizione, posta la quale, noi la riconosciamo. Perciò noi chiamiamo l' essenza, ossia l' idea, che è l' essenza in quant' è manifestante, forma della cognizione; e la sussistenza del contingente abbiam chiamato materia , come quella che non è manifestativa. L' essenza adunque della cosa intuíta dallo spirito manifesta la sussistenza delle cose, quando questa sia data. Ma poiché questa seconda manifestazione non altera l' essenza; dunque la mutazione, che v' ha nell' aggiunta di questa nuova notizia, rimane unicamente nello spirito reso intelligente dall' essenza. E` lo spirito che ha fatto un nuovo atto, che acquistò una nuova notizia intorno allo stesso oggetto che conosceva; ma non acquistò una nuova essenza. La notizia dunque della sussistenza della cosa è di tutt' altra natura dalla notizia dell' essenza della cosa: questa è l' oggetto che sta davanti allo spirito, quella è una notizia per la quale lo spirito conobbe un nuovo modo del noto oggetto: la prima è quella che Platone chiama mente «nus», la seconda è quella che egli chiama opinione vera «doxa alethes» (1). La realità dunque è un modo dell' oggetto, non è l' oggetto dello spirito intelligente. Se dunque la notizia della sussistenza nasce per un nuovo atto dello spirito intorno allo stesso oggetto; dunque ella si riduce ad un nuovo atteggiamento dello spirito intelligente relativamente all' oggetto del conoscere: e come la notizia dell' essenza è la parte oggettiva della cognizione, cosí la notizia della sussistenza è la parte soggettiva , che si sopraggiunge all' oggettiva, da cui riceve natura di cognizione. Ma se l' essenza della cosa contingente ha natura di essere manifestante , ha ella poi anco natura di essere manifesto ? Abbiam detto, che per aver notizia di un sussistente a noi dato nel sentimento, faccia mestieri, che noi ne conosciamo l' essenza. Ora, l' essenza che ha l' estensione massima è l' essenza dell' essere privo di qualunque limitazione. Onde basta che uno spirito abbia l' intuizione dell' essere , che sappia che cos' è essere senza piú, a ciò ch' egli possa acquistarsi la notizia di qualsivoglia sussistente che gli sia dato. Perocché, quantunque non preceda l' intuizione dell' essenza speciale di quel dato sussistente, tuttavia precede nello spirito un' essenza assai piú estesa, che riceve la sua limitazione dalla stessa sussistenza che fa conoscere. Quindi procede, che le limitazioni poste dal nostro spirito all' essenza dell' essere, secondo i sentiti a cui si applica, sieno quelle che convertono l' essenza universale dell' essere nelle essenze specifiche e poi, per astrazione, nelle generiche . E però quanto nelle essenze c' è di limitato, tutto è dovuto ai reali sussistenti da noi sentiti; onde queste limitazioni non appartengono all' essere manifestante , ch' è l' essere puramente oggettivo. Rimane dunque che il puro essere senza limitazione sia il solo manifestante, come è per se stesso manifestato: e però egli solo sia l' essere per sé manifesto . Dai quali ragionamenti discendono i seguenti corollarŒ: I Non tutti gli enti sono manifestati e manifestanti . II Tutte le essenze specifiche e generiche hanno in sé un elemento, che è ad un tempo manifestato e manifestante. III La sussistenza de' contingenti non essendo contenuta nella loro essenza ; questa può essere senza di quella. IV La parola essenza applicasi all' ente in quanto è manifestato e manifestante, considerandolo nella relazione di manifestato ; e la parola idea o concetto esprime lo stesso ente nella relazione di manifestante . E come alla parola essenza risponde la parola sussistenza , cosí alla parola idea corrisponde la parola realità . V La natura del reale o sussistente, che può esser manifestato, ma non è manifestante, consiste nel sentimento e in tutto ciò che cade nel sentimento. VI Come le essenze sono l' oggetto del conoscere; cosí le mere sussistenze, riducendosi al sentimento, riduconsi di conseguente a quello che si chiama soggetto . VII Tutte le essenze degli enti limitati si riducono in una essenza sola veramente oggetto puro, e tutte le altre sono quella medesima essenza, ma limitata. VIII L' essere puro è dunque il solo per sé manifesto : collo stesso atto, manifestante e manifestato. In quanto è manifestato, si prova essere semplicemente in sé (anoetico); in quanto è manifestante si prova essere in sé presente ad una mente (dianoetico). Ora che l' essere manifesto all' uomo sia uno, scorgesi da queste osservazioni: 1) L' atto della mente, ossia l' intuizione (1), colla quale noi ci affissiamo nel puro essere, prescindendo affatto dalle sue determinazioni, è uno e semplicissimo; e ciò, perché a lei risponde un unico e semplicissimo oggetto, l' essere puro (essere universale, ideale, possibile, sono voci che indicano lo stesso essere con qualche relazione annessa) (1). 2) Dall' idea dell' essere universale si distinguono gli altri concetti col limitare e determinare quella prima. Ella dunque rimane in se stessa la medesima; ma lo spirito la considera in diverse relazioni colle cose che manifesta; e per ciò ella è una ed identica in tutti i concetti, né si distingue da questi, se non per le dette limitazioni e relazioni che ella riceve. Quindi le maniere di dire della Scuola: che la sostanza, la quantità, la qualità, ecc. contengono l' ente (2), il che è quanto dire sono sue limitazioni; ovvero che l' ente si divide ne' dieci predicamenti (3), e il dividere qui non è che un limitarlo colla mente. I concetti inferiori al concetto dell' ente, 1) si riducono all' idea dell' ente per ciò che hanno di positivo nella loro idealità; 2) si distinguono per ciò che hanno di negativo; 3) si distinguono di nuovo per ciò che hanno di positivo reale; il quale ultimo elemento li rende anche re et non ratione tantum distinti dall' idea dell' ente, che è purissima da ogni elemento reale. Ma prima che la mente speculativa pervenga a discernere questo fondo comune di tutte le idee, ella si persuade che molte sieno tra loro assolutamente separate. Ora, sia in quello stadio di filosofia, in cui si credono le idee esser molteplici, e l' una all' altra incomunicabile, sia in quello piú avanzato in cui se ne considerano i legami che le congiungono, accade che l' uomo divinizzi le idee. Poiché, osservandosi nelle idee tutte qualche cosa d' immutabile, di necessario e d' universale, attributi che appartengono alla natura divina, è agevolissimo a conchiudersi, che dunque alle idee spetta questa natura. Quindi due diversi errori: il politeismo idealistico ; e il monoteismo idealistico . L' uno e l' altro è un ideoteismo . Quanto al primo, se ne trovano le traccie ne' poeti che hanno preceduto Platone, i quali diedero alle idee i nomi di Dei. Cosí Epicarmo uditore di Pitagora (1), scriveva: [...OMISSIS...] : dove sotto il nome di Dei sono indicate le essenze immutabili. Platone nel Parmenide dice doversi concedere a Dio la scienza piú squisita, cioè quella delle essenze ossia delle idee; e quello che dice di Dio, lo dice appresso degli Dei. Qui sembra che distingua tra le idee possedute, e la divina natura che le possiede. Ma ben si vede, che queste idee in Dio non sono per Platone puramente oggetti di conoscere, ma sono altrettante essenze reali che informano la divina natura. Cosí pure nel Timeo dice che gli Dei sono partecipi dell' intelligenza, che è quella che comprende le idee, perché queste sono i puri intelligibili ( «eide noumena monon») (3); colla quale sentenza sembra che distingua di novo le idee dagli Iddii che le possedono. Ma nondimeno quelle idee, come si vede in appresso, sono in Dio (poiché qui usa il singolare) altrettante virtú reali ed operative. Ma d' altra parte sembra che queste idee, in quanto sono in Dio in una unità ordinatissima, costituiscano Dio stesso, secondo Platone; poiché dopo aver egli detto che Iddio le comunicò alla materia per quanto questa n' era capace (4), e cosí diede ordine al mondo, considera quest' opera come una comunicazione che Dio fa di se stesso quasi producendosi e generandosi nel mondo. Ed è a notarsi che incontanente soggiunge: « « Poiché convien distinguere due specie di cause, l' una il necessario [...OMISSIS...] , l' altra il divino [...OMISSIS...] » ». Il necessario è la materia, ossia la pura realità senza forma: il divino dunque rimane la pura forma, la pura idea partecipata. Cosí Platone cade nel razionalismo (non però senza qualche felice incoerenza con se stesso), ossia nella deificazione delle pure idee, perché chiamando queste il divino , loro contrappone e però esclude da esse il necessario , cioè la realità pura ed informe. Dal divino poi e dal necessario, come da due cause elementari, fa nascere il congiunto, cioè il mondo e i singoli enti che lo compongono. E perciò chiama il mondo « « un unico animale, contenente in sé tutti gli animali mortali ed immortali » » [...OMISSIS...] . La natura divina dunque per Platone non è che la natura delle idee. Ma poiché è impossibile separarla al tutto dal reale, vi aggiunge questo senza accorgersi che alla loro essenza non appartiene. Ora a tutti que' filosofi, che non hanno ben colta la diversità tra questi due modi di essere , il reale e l' ideale, accade che li confondano rendendoli un solo: taluni facendo che il modo reale prevalga quasi non ci fosse altro che esso, e questi senza confessarlo, e senza accorgersi, all' ideale attribuiscono anche le proprietà del reale; taluni altri facendo che prevalga il modo reale, a cui pure danno le proprietà dell' ideale. Lasciando questi ultimi, che sono volgari e di minor conto, i primi vedono facilmente la diversità de' due modi quando considerano la realità finita , perché questa si pensa direttamente come immune dalle idee; e cosí Platone, introducendo il Demiurgo a fabbricare il mondo, pose da una parte la materia qual causa necessaria, dall' altra la forma qual causa divina: ma non vedono piú quella diversità, quando si tratta d' una realità infinita e invisibile, di quella cioè di cui abbisogna lo stesso essere ideale per esistere. E allora accade loro che, attribuendo una realità alle idee stesse, non s' accorgono d' attribuir loro una cosa che non è idea, né parte d' idea, ma tutt' altro. Nello stesso tempo però tali dotti filosofi dal linguaggio stesso rimangono traditi; ché non trovano maniere di dire, se non tali che attestano quanto quelle due forme di essere si dispaiono tra loro, e restano sempre due, inconfusibili. Cosí Platone nel Filebo, dopo aver posto come principŒ l' uno cioè le idee, e i molti cioè la materia indefinita, e in terzo luogo il misto che dall' unione di que' due risulta, trova necessario un quarto principio, cioè la causa di quell' unione, la quale causa è Dio (2). Qui dunque Iddio apparisce distinto dalle idee stesse; e però questo discorso non consuona col chiamarsi da Platone cosí sovente le idee assolutamente il divino ( «theion»). Essendo dunque Platone espresso con maniere cosí incerte e vacillanti, non è maraviglia che i suoi discepoli si sieno in appresso divisi. Perocché alcuni ponendo mente all' unificazione delle idee in Dio, e spingendo l' uno di Platone all' eccesso, hanno collocata la natura divina in una nudissima astrazione sulle stesse idee esercitata; altri hanno concepito un Dio organato, per cosí dire, d' idee molteplici; e i piú, di queste stesse idee, separate le une dalle altre, fecero altrettanti Dei. Ma in fine tutti, si può dire, nel fondo idolatrarono le idee. A questa confusione mostruosa, o almeno oscurità di parlare, si deve attribuire lo scredito del Platonismo. Rare volte i discepoli hanno il coraggio di analizzare le idee non analizzate dal maestro, nel che sta il vero progresso; e in quella vece, spogliando il maestro stesso delle sentenze piú nobili e del linguaggio da lui trovato e arricchito di forme opportune, in mille modi giuocano di questi materiali della scienza, quasi come colle noci i fanciulli, senza romperle e cavarne il gheriglio. Cosí certe frasi e parole della scuola, di altissimo significato, che tanto dilettano e innalzan la mente quando si sentono nella bocca o negli scritti del maestro, inviliscono appresso i discepoli e annoiano per l' abusata loro ripetizione. L' uomo dunque ha per oggetto del suo naturale intuito l' essere puro, ma indeterminato; e quest' essere E` per sé manifesto. Ora una speculazione ontologica piú avanzata trova pure che l' Essere divino od assoluto deve essere per sé manifesto (1). Nasce dunque il dubbio, se l' essere naturalmente intuíto dall' uomo sia Dio. Le ragioni che potrebbero persuadere a una risposta affermativa, sono principalmente le due seguenti: 1) La qualità di essere per sé manifesto è una qualità ultima, e perciò divina: perché se l' essere manifesto non riceve la luce altronde, ma egli la dà alle cose che non sono per sé manifeste; dunque, come tale, egli è indipendente da ogni altro essere, e primo nel suo ordine: il che non può appartenere che a Dio. 2) Se l' essere per sé manifesto all' uomo non è Dio, dovendo essere anche Dio per sé manifesto, procede che ci sarebbero due esseri per sé manifesti, e quindi due principŒ intelligibili, il che sembra assurdo: che è assurda la dualità di principŒ supremi dello stesso ordine. Le quali difficoltà cadono davanti alla dottrina dell' essere assoluto, e dell' essere relativo. Poiché l' essere che è un modo unicamente relativo di esistere non pregiudica alla pienezza dell' assoluto, e neppure alla sua unicità [...OMISSIS...] . Onde non v' è che un solo essere assoluto per sé manifesto. Ma ciò non toglie che ci sia un altro essere per sé manifesto relativamente, cioè relativamente all' umana intelligenza, o ad altre intelligenze finite che sono esse stesse enti relativi. E poiché gli enti relativi non sono necessari, ma contingenti, perciò potrebbero cessare, con che cesserebbe l' essere manifesto relativo ad essi: onde non c' è che un solo essere che sia necessariamente manifesto, e questo è Dio. Laonde l' essere per sé manifesto relativo alle intelligenze finite, non è già indipendente dall' essere per sé manifesto necessariamente e assolutamente, perché, quantunque sia per sé manifesto, e come tale non abbia nulla al di là di sé, tuttavia è dipendente come essere relativo: di maniera che, come ha cominciato col cominciare delle intelligenze finite, onde può dirsi ad esse concreato, cosí cessando esse coll' annullamento, anche egli verrebbe a cessare. Né involge alcuno inconveniente, che gli enti relativi e contingenti partecipino qualche cosa di divino, purché questo elemento divino non costituisca la loro base; che anzi ragion vuole che conservino qualche traccia del suo autore, e però qualche elemento o relazione divina. E quindi abbiamo veduto che tutti i contingenti, sebbene non sieno l' essere, tuttavia hanno l' essere, che è cosa divina, non come loro base , né come loro propria appendice , ma come un loro antisubietto e condizione necessaria ad esistere in sé. Né s' incontra in ciò alcun pericolo di panteismo, perché tali enti non sono tal elemento divino, ma solamente lo hanno . Il nulla non può manifestar nulla; quello che manifesta è necessario che sia l' essere stesso [...OMISSIS...] . Dunque l' essere manifesto all' uomo non è il nulla. E tuttavia non fa maraviglia che i pensatori abbiano trovato tanta difficoltà ad ammettere che il puro essere indeterminato stia davanti alla mente, non accorgendosi che neppure lo potrebbero negare se non ci stesse. L' origine della difficoltà nasce da quel carattere che ha l' essere d' apparire come un nulla relativo [...OMISSIS...] , che è quanto dire, di non avere comprensione alcuna. Questo stato d' indeterminazione, che ha l' essere davanti alla mente, presenta la difficoltà di riflettervi, tra gli altri, sotto tre aspetti. Da parte della sua indeterminazione , non si può concepire come possa stare davanti alla mente la pura esistenza separata da tutti gli esistenti. Da parte dell' unità deficiente , riesce difficile a concepire un oggetto, a cui manca il termine per essere un ente. Da parte della sua somma semplicità , pare all' uomo di non conoscere, quando egli non avendo due o piú cose da mettere a confronto, di conseguente non conosce differenza di sorte alcuna. I filosofi che si lasciarono scuotere da queste difficoltà, omettendo di esaminare accuratamente il valore, presero diversi sistemi per eluderle. I primi, superficiali, dissero che l' idea d' esistenza, come gli altri astratti, si traeva per opera della mente dagli enti reali percepiti; senza accorgersi di due inconvenienti, cioè: 1) che se l' idea di pura esistenza si tolga coll' astrazione dagli enti percepiti, questa già s' ammetteva per data nella percezione, in maniera che restava a spiegare la percezione stessa. Perocché l' astrazione non fa che separare, e separare a parte, gli elementi che già ci sono, e però non crea né l' idea d' esistenza, né alcun altro elemento che cada nel percepito; 2) che se l' idea d' esistenza si può pensare astratta da tutto il resto, dunque convien conchiudere ch' ella possa stare davanti alla mente anche separata da ogni esistente. Dunque la difficoltà rimane la stessa (1). Altri, piú superficiali ancora, negarono al tutto l' essere ideale, non solo perché non rappresentava un contenuto reale, ma per una ragione assai piú sciocca; cioè perché non lo vedevano e toccavano, ond' anche lo mettevano in derisione: ché i filosofi volgari e minuti ricorrono sempre a questo argomento del riso. Fra quelli che riducevano a un nulla l' essere ideale, meritano in terzo luogo d' essere accennati i Nominali di tutti i tempi. Altri credettero che l' essere che sta davanti alla mente come suo lume fosse Dio stesso. Finalmente v' ebbero de' filosofi che negarono al tutto i possibili eterni, e con ciò le idee. Tutti questi filosofi erravano per non aver distinti i due modi di concepire l' essere, cioè come avente un' esistenza subiettiva indipendente dalla mente, e come avente un' esistenza obiettiva, la quale è bensí un' esistenza in sé, ma essenzialmente condizionata alla mente. Videro che non poteva avere il primo modo di essere, e però gli negarono ogni modo. E veramente l' essere indeterminato non può sussistere in un modo indipendente dalla mente, e in sé solo. Ma che sia in sé davanti alla mente, non c' è ripugnanza. E che sia distinto dalla mente, è manifesto, avendovi contraddizione nel dire che la mente fosse l' essere indeterminato, o viceversa. E che l' essere indeterminato non sia il nulla, del pari è evidente, poiché il nulla e l' essere sono contraddittorŒ. E se non c' è il contenuto, c' è però il contenente, e il contenente non è nulla, ed anzi pare che il contenente abbia qualche cosa di piú ampio del contenuto. Nullismo si chiama quel sistema di filosofia, che suppone che l' ente si annulli quando si riduce ad una mera possibilità, e che tuttavia da questo annullamento in cui si sommerge di continuo, di continuo altresí egli emerga, facendo cosí che tutto l' essere proceda dal nulla come da suo principio, e nel nulla ritorni come in suo fine, per un circolo sempiterno. Questo sistema si fonda adunque sulla supposizione che l' ente possibile, che è l' ente manifestante, sia nulla. Ma noi abbiamo veduto che non è il nulla. Dunque un tale assurdo sistema rimane pienamente abbattuto. Medesimamente consegue dalle cose dette, e dall' immediata osservazione, che l' essere manifesto , o manifestante all' uomo le cose, non è l' uomo, perché anzi l' uomo è ricettivo di quell' ente. Oltre di che è manifestamente assurdo che l' uomo sia l' essere in universale, perocché l' uomo è un essere particolare e proprio. Né tampoco l' essere universale può credersi una modificazione dell' anima umana. Perocché tutte le modificazioni di un ente particolare sono particolari. L' essere manifestante adunque essendo presente all' uomo, ma non l' uomo, né alcuna sua modificazione: ed essendo tale che in se stesso e per se stesso si manifesta, egli è l' oggetto in cui l' atto conoscitivo del pensiero si porta e termina. Il Soggettivismo ossia Psicologismo è quel sistema che riduce l' oggetto della mente, l' idea, ad essere il soggetto stesso, od una sua modificazione. Quindi due sono i sistemi di soggettivismo. Il primo confonde l' idea colla mente intuente, che n' è il soggetto. Questa confusione è frequente in tutti gli scrittori Alessandrini. Essi confondono l' intelletto divino , che ha ragione di soggetto, coll' idea che è l' intelligibile , e che ha ragione di oggetto (1). Essi talora dicono che l' idea è la mente, e viceversa la mente la chiamano idea (1). Il secondo sistema de' soggettivisti dichiara che le idee non sono che modificazioni dell' anima; ed a questi appartengono i sensisti moderni di tutte le classi, da Locke fino a Galluppi. Tuttavia confondono essi le idee colle sensazioni; perché queste sono modificazioni dell' anima; cosí pongono che anche quelle sieno tali. Tostoché si ammette che le idee sieno modificazioni soggettive dell' anima, nasce incontanente l' impossibilità di spiegare l' esistenza del mondo, l' esistenza di un diverso da noi. Quindi pressoché tutti i soggettivisti dotati d' ingegno si danno vinti a questa questione e non sono mai contenti per qualunque dimostrazione voi lor proponiate del mondo esterno. Quelli adunque, che invece di osservare come la cosa è, invece di rilevare il fatto, sentenziano a priori che l' essere , finché è solo possibile a realizzarsi, altro non può essere che una modificazione del soggetto intelligente; questi che non s' accorgono di suppor sempre il contrario in tutti i loro ragionamenti, né s' accorgono che senza suppor ciò non potrebbero aprir bocca; questi, che vedono direttamente insieme con tutti gli uomini la verità che noi annunziamo, e non la trovano piú quando come filosofi la vanno cercando colla riflessione; questi, dico, né possono dimostrare l' esistenza del mondo, anzi neppure di se stessi, né di cosa alcuna, ma la debbono ammettere alla cieca supponendo, colla scuola scozzese, un cotale istinto irresistibile; né possono accontentarsi di nessuna dimostrazione, benché validissima, del mondo, perché, fin che dimorano nel loro pregiudizio, non possono intenderla. Noi veggiamo che i piú famosi traviamenti nel campo dell' ontologia provennero dal non aver i filosofi bastevolmente osservata la detta natura dell' essere manifesto all' uomo. Quindi essi peccarono per eccesso o per difetto, e cosí vennero a dividersi i sistemi in due grandi classi estreme, i filosofi in due fazioni inconciliabili. I primi, cioè quelli che diedero troppo all' essere manifesto all' uomo, cioè all' idea, videro una verità; cioè ben videro che un tal essere non era punto il nulla, ma non sapendo concepire altra forma dell' essere che la reale, tosto conchiusero che dunque l' essere ideale era Dio. I secondi, cioè quelli che diedero troppo poco all' essere ideale, videro pure una verità, cioè videro che un tal essere non era punto Dio, ma anch' essi, ammettendo, con pregiudizio, che l' essere non avesse altra forma che quella della realità, dissero che l' essere ideale era nulla, onde i nullisti ; o che era una voce, onde i nominali ; o finalmente che era una modificazione dello spirito, onde i soggettivisti . Fra questi due sistemi erronei sembra ce ne possa essere uno di mezzo: di quelli che all' essere ora attribuiscono le qualità dell' idea, ora quelle della realità, contraddicendosi, senz' accorgersi. Perocché l' essere talvolta apparisce loro nella sua nudità ideale, e allora cosí lo descrivono; tal altra volta poi non potendo stare entro questi confini, scadono al supporre in esso gli attributi della realità. Ma chi ben considera, questo avviene universalmente a tutti quelli che professano il primo sistema, i quali non possono mantenere la coerenza ne' loro detti. Mi valgano ad esempio gli Eleatici. Essi ridussero tutta la filosofia a stabilire, che cosa fosse ciò che meritasse il nome di essere (1). A tal fine Parmenide stabilí una natura, che i Greci chiamarono «usia», semplicissima, priva di qualità, anteriore ad ogni composizione, natura ossia essenza che costituiva il fondo d' ogni pensiero. In questo riguardando, si poteva conoscere tutto ciò che era, cioè che avesse l' essere (2). Questo era un avere descritto ottimamente l' essere senza i suoi termini, ossia l' essere ideale. A malgrado di questo, tosto appresso attribuisce all' essere i termini ( «peras») e cosí lo rende ente assoluto senza accorgersi che questo era in contraddizione con quello che aveva detto prima; poiché l' essere co' suoi termini non è piú semplicemente quell' «usia», colla quale la mente conosce ciò a cui può dare il nome di ente. E questo parlar dell' ente come indeterminato, e poi senz' accorgersi prenderlo per determinato, è lo sdrucciolo in cui cadono i filosofi di questa sorte, fino all' Hegel. Nel libro terzo noi abbiamo dovuto indicare i caratteri dell' essere che sta presente per natura all' intuito umano, e gli abbiamo ridotti a due principali, l' estensione infinita e la nulla comprensione . Da questi due caratteri generali abbiamo dedotti i caratteri specifici, dieci de' quali vedemmo procedere dalla stessa natura di quell' essere: 1 essenza pura dell' essere , 2 oggetto essenziale dell' intelligenza , 3 possibilità dell' ente finito , 4 universale , 5 necessario , 6 eterno , 7 semplice , . intelligibilità , 9 forma delle menti ; 10 forma della forma delle cose finite ; e tre altri dalla natura dell' umano intuito: 1 ideale , 2 un nulla relativo , 3 la possibilità dell' ente infinito . Se ora noi consideriamo questi caratteri in relazione all' analisi fatta dell' essere per sé manifesto all' uomo , ci bisogna classificarli diversamente. Poiché que' caratteri: 1) parte appartengono all' essere come essere, cioè anoeticamente considerato, quale sta davanti all' intuito; 2) parte appartengono a quell' essere considerato come per sé manifesto; 3) parte appartengono a quell' essere considerato come manifesto all' uomo , cioè come intuito dall' uomo imperfettamente. E cosí considerato, o lo si riguarda come essere in sé, anoeticamente, e il suo carattere è quello di essere un nulla relativo . O lo si riguarda come manifestante, e il suo carattere è di essere idea . O lo si riguarda come essere manifestato, e allora non presenta per carattere dialettico, che la possibilità dell' ente infinito . Per non rifare quello che abbiam fatto nelle opere ideologiche e ne' libri precedenti a questo, troviamo solo necessario di dichiarare il concetto del possibile, come quello che riassume quasi in sé tutta la dottrina intorno all' essere manifesto all' uomo, e che è piú difficile ad intendersi degli altri. A tal fine conviene che in primo luogo rendiamo accorto il lettore degli errori che si possono prendere, e che furon presi, intorno a questo concetto. In primo luogo convien distinguere il concetto dell' ente possibile da quello dell' ente ipotetico . L' ente possibile non è mai un reale, ma sempre un ideale, cioè è l' essenza che s' intuisce nell' idea e si scorge atta ad essere realizzata. L' ente ipotetico all' opposto è un reale, che si suppone esistere a fine d' instituire su tale supposizione qualche ragionamento. Dee badarsi altresí di non confondere il possibile coll' idea del possibile . Alcuni infatti confusero due concetti cosí distinti. L' essere manifesto può bensí chiamarsi ente possibile, ovvero anche idea; ma non idea del possibile; che altro verrebbe ciò a dire, se non l' idea dell' idea dell' ente? Rimossi questi equivoci, cerchiamo di ben intendere il concetto dell' ente possibile (1). E` una di quelle cose che Aristotele dice le piú manifeste secondo natura, e le piú oscure all' uomo: il che veramente vuol dire piú oscure alla riflessione dell' ontologo. Poiché già subito in questo concetto si manifesta una singolare antinomia. Da una parte l' ente possibile non è ancora, e ciò che non è, è nulla; dall' altra, v' ha ripugnanza manifesta a dire che l' ente possibile sia il nulla. Che cosa è dunque il possibile? Rispondere che « è ciò che non involge contraddizione »è sufficiente all' esigenze della logica e della ideologia; ma l' ontologia, non se ne contenta; poiché ella vuol sapere che cosa sia ciò che non involge contraddizione, e che non esiste, ma che pure è possibile. Poiché eziandio quello che esiste non involge contraddizione, e però anch' esso è possibile; e in questo senso è possibile anche Dio, che non solo esiste, ma è necessario, di modo che non può non essere. Si vuol dunque sapere, che cosa sia ciò che non involge contraddizione e che non esiste, il che viene a dire che cosa sia il puro possibile. Si dirà che ciò che è possibile è un oggetto che sta davanti alla mente, e che non esiste fuori della mente, ma sí nella mente. E questo è già qualche cosa: poiché distingue due modi d' esistere, l' uno nella mente e l' altro fuori della mente; onde, quando si asserisce che il possibile non esiste ancora, allora si parla dell' esistenza fuori della mente, e non d' ogni esistenza. Con che viene a comporsi la predetta antinomia, rimanendo fermato che il possibile non sia il nulla, perché esiste davanti alla mente. Ma poiché tutto ciò che sta davanti alla mente, le sta davanti come essente in sé [...OMISSIS...] , rimane ancora a cercare che cosa sia in sé l' ente possibile che sta davanti alla mente, che non è la mente e non è neppure il nulla; e conviene che anche considerato in se stesso, l' ente in sé non involga contraddizione. Poiché se l' ente possibile è qualche cosa in sé (astrazion fatta dalla mente in cui è), che cosa rimane di lui, se è solo possibile e però non ancora esiste? Convien dunque sciogliere questa antinomia. E` dunque da rammentarsi la distinzione da noi fatta tra l' essere e l' ente [...OMISSIS...] : è da osservare che l' essere non è mai possibile, ma l' essere assolutamente è, che è l' essenza stessa dell' essere. L' ente all' incontro è l' essere co' suoi termini. Ma questi si possono pensare sussistenti, e non sussistenti. L' essere con alcuno de' suoi termini sussistenti dà il concetto di ente sussistente , l' essere senza i suoi termini dà il concetto di ente possibile . Da questo si vede: 1) Che nel concetto di ente possibile si contiene l' essere , il quale non è già possibile, ma assolutamente è; e perciò che l' ente possibile ha per sua base ciò che non è meramente possibile, ma che assolutamente è; con che cade l' antinomia che si fondava sul nudo concetto di possibilità escludente l' esistenza. I) Che l' essere che forma la base dell' ente possibile, dicesi ente possibile in quanto contiene virtualmente i suoi termini. Rimane dunque solo a dichiarare la possibilità di questi termini. L' essere ha due relazioni essenziali, l' una d' essere in sé , l' altra d' essere in sé davanti alla mente , con che acquista il nome di essere manifesto , e come è davanti alla mente umana, d' essere ideale . In quanto è essere ideale contiene tutte le idee meno estese, che noi chiamiamo concetti , ma solo virtualmente , il che è quanto dire che non è necessario, acciocché egli sia manifesto, che in esso si distinguano questi concetti. Ma nello stesso tempo noi siamo consapevoli di poter intuire in lui anche i concetti , cioè vederlo determinato. Questo equivale a dire che nell' essere ideale c' è la possibilità de' concetti . Spiegata cosí questa prima possibilità , non ha piú quella difficoltà che presentava da prima; perché essa riducesi alla potenza di un ente, nel caso nostro la mente umana, l' uomo. Ora che un ente finito, non sia totalmente in atto, ma abbia del potenziale, e quindi abbia una virtú d' uscire all' atto, la quale tuttavia non sempre esca all' atto, questo è un fatto ontologico che, sia pur difficile a spiegare, non ha però quella difficoltà che presentava il nudo possibile , a cui non si sa qual esistenza dare; poiché infine la potenza reale , (benché senza qualche suo atto) non è un mero possibile, ma un esistente reale; e il possibile non è piú che una semplice relazione, che vede la mente, tra l' atto implicito virtuale, e l' atto attuale. A quali condizioni poi la mente umana ponga delle determinazioni all' essere, e cosí ella si formi esplicitamente i concetti , piú o meno determinati, investigheremo nella terza parte di questo libro. I concetti dunque possibili compresi nell' essere ideale, altro non significano, se non che l' essere ideale è suscettivo d' essere intuito dalla mente umana con certe sue determinazioni. L' essere dunque tali concetti attuali, o meramente possibili, dipende unicamente dall' atto del subietto intelligente , e non dall' essere. Ma se si considera l' essere in sé , non come idea, ma come essenza , allora s' offre il concetto d' una seconda possibilità , cioè non d' una possibilità di concetti , ma di enti reali . E questa seconda possibilità ne racchiude tre, poiché si pensa una possibilità logica , una fisica ed una metafisica . Quando si dice l' ente reale possibile perché nel suo concetto non si trova niuna contraddizione, si ha una possibilità logica . E questa si distingue dalla prima possibilità , cioè dalla possibilità del concetto. Poiché il concetto : ha una possibilità anteriore , di cui egli è il subietto dialettico, e una possibilità posteriore , che nasce da lui attualmente essente e che ha per subietto il reale (pensato); ché altro è dire: il concetto è possibile a pensarsi, ed altro il dire: l' ente reale corrispondente al concetto è possibile ad esistere. La possibilità logica viene a dire, che si può pensare l' ente reale sussistente, senza che il pensiero trovi in ciò niuna opposizione alle sue leggi. Alla possibilità fisica non basta questo, ma si richiede di piú, che esista una potenza atta a produrre quell' ente di cui si ha il concetto, cioè a farlo sussistere. Ora, questa possibilità fisica manca del tutto nel puro essere reale, o nei concetti. Ma c' è in terzo luogo quella possibilità che si dice metafisica , e questa è la possibilità assoluta , non relativa al pensiero, o ad una potenza produttrice dell' ente, e neppure riguardante l' assenza di contraddizione di un concetto, ma una possibilità assoluta ed incondizionata. Questa possibilità metafisica è annessa alla possibilità logica di maniera, che data quella, c' è questa, cioè la mente appena che intuisce un' idea o un concetto, il quale è naturalmente immune da contraddizione, dice: « il tal ente è possibile », e pronuncia questo della sua realizzazione. Questa possibilità assoluta è cosa d' osservazione : la coscienza lo dice; il discorso e il senso comune degli uomini attesta questa coscienza. Su questo fatto i geometri dimandano, e tutti accordano loro, que' postulati, su cui poi ragionano. E tutti gli uomini istituiscono una gran parte de' loro ragionamenti sulle possibilità. Anzi il ragionamento e la dimostrazione non suole acquistare una forza apodittica, se non quando muove dalla possibilità assoluta, e all' evidenza di questa ci conduce; poiché allora solo si conchiude a necessità, quando si dimostra impossibile l' opposto, e l' impossibile suppone il possibile, dal cui concetto procede. La possibilità assoluta dunque è una verità necessaria, e però una verità primitiva , che non si dimostra con un' altra antecedente, perché è una di quelle notizie elementari che l' essere ideale indeterminato (idea), o determinato (concetti), produce colla stessa sua luce allo spirito che lo intuisce, tosto che la riflessione giunga ad osservare queste elementari notizie, che ella poi formola in proposizioni componenti la scienza. Dunque la possibilità assoluta non può esser negata per nessuna ragione posteriore. E questa è appunto la differenza tra la possibilità fisica e la metafisica: che la possibilità fisica è quella che s' induce dal sapere che esiste la causa; la possibilità metafisica è quella che la mente asserisce assolutamente e incondizionatamente senza pensare alla causa. Che anzi, qualora venisse tratto in mezzo il pensiero d' una causa efficiente, la mente, senza curarsi di sapere se esiste, o senza poterlo sapere, direbbe anche di essa assolutamente: è possibile. Da questo procede che, partendo dal punto luminoso della possibilità assoluta, si può argomentare e conchiudere all' esistenza d' una causa efficiente, con quella argomentazione che va dal condizionato alla condizione . Poiché se il condizionato è certo e indubitabile, come nel caso nostro della possibilità assoluta, dacché è evidente; giustamente si conchiude, che del pari indubitatamente ci sieno tutte quelle condizioni, senza le quali egli non sarebbe. Rimarrà a cercare quali sieno queste condizioni. Ora si trova che l' una di esse è l' esistenza d' una causa efficiente che lo produca: dunque questa causa esiste. La quale è una nuova prova a priori dell' esistenza di Dio. Poiché la causa di cui si parla deve essere necessaria, ché la possibilità delle cose è necessaria; e se è necessario il condizionato, tale anche la condizione. Poiché se la condizione, che nel caso nostro è la causa efficiente, non fosse necessaria, potrebbe non essere. E se potesse non essere, potrebbe essere impossibile il possibile che è condizionato. Ma questo involge contraddizione: dunque sussiste una causa efficiente necessaria di tutti gli enti reali possibili. E questa causa necessaria deve essere anche causa ultima . Che se essa non fosse immediata, ma tra l' effetto ed essa intervenissero altre cause, queste non sarebbero necessarie, e però la mente non le può mettere a priori che come possibili, e però esigerebbero sopra di esse un' altra causa esistente come loro condizione, la quale sarebbe l' ultima. C' è dunque nella mente umana dotata dell' intuizione dell' essere un' implicita e profonda disposizione a dar fede all' esistenza di un Essere assoluto potente di effettuare tutto ciò che non involge contraddizione, e il fatto universale della religiosità dell' uman genere lo conferma. Se questa questione fosse di sole parole, non la tratteremmo. Ma quello che diremo intorno ad essa tende a dichiarare meglio la natura di quel lume che è forma della mente umana, ond' è la potenza del conoscere e quindi la mente stessa. Ora, l' atto dell' intelligenza è duplice, cioè l' atto primo , che ha per suo termine l' essere indeterminato, e gli atti secondi . Coll' atto primo, col quale è costituita l' intelligenza, il soggetto non fa che ricevere irresistibilmente, cioè aver presente l' essere: egli non opera ancora come intelligente, perché come tale non è costituito, ma si costituisce in quell' atto medesimo. In tutti gli atti secondi, opera il soggetto già costituito intelligente. Se dunque per cognizione s' intendono quelle notizie, che gli vengono dalle sue proprie operazioni mentali, non si può dare il nome di cognizione alla notizia dell' essere indeterminato presente all' intuito. Importa distinguere bene la prima intuizione dalle intellezioni che vengono appresso. Se ci riduciamo all' intuito e mettiamo da parte tutto il resto, il soggetto intuente rimane privo d' ogni modo intellettuale: egli non può né ripiegarsi sopra se stesso e avere la coscienza di sé, né riflettere sull' essere che gli sta davanti per analizzarlo ed esercitarvi sopra qualunque altra operazione, né pensare al nesso tra l' essere e sé, e cosí acquistare la consapevolezza della sua propria intuizione. Poiché l' essere oggetto dell' intuito quieta l' atto di questo; ché ogni facoltà si quieta, trovato che abbia il suo termine «( N. Sagg. , n. 54. 7 550) ». Ci vuole dunque un altro termine perché si mova all' atto un' altra delle facoltà intellettive, che sono quiescenti nell' anima, e non c' è altro termine, oltre l' ideale, che il reale ; poiché l' essere morale non viene che in ultimo, dopo questi due. Il reale eccita la percezione, che è la prima funzione della ragione «( Psicol. , 1012, sgg.) ». Ora in questa funzione l' uomo trova l' ente, cioè l' essere fornito di termine e però compiuto. Di che procede, che il primo degli atti secondi ha per suo termine non l' essere indeterminato, ma l' ente; e che l' ente posto davanti alla mente sia la condizione di tutti gli atti secondi. Quindi il principio di cognizione «( Psicol. , n. 1294 7 1325) » riceve due forme: I L' essere è l' oggetto dell' intuizione naturale. II L' ente è l' oggetto delle operazioni intellettive. Questa seconda formola adunque viene a dire, che niuna operazione (atto secondo) può fare l' intelligenza umana, avendo solo presente l' essere , e non ancora l' ente . Quando poi è presente l' ente il che avviene la prima volta nella percezione, allora è possibile all' uomo di riflettere non solo sull' ente, ma ancora sugli elementi di esso, e di considerare astrattamente ciascuno di questi. Questo può far la mente, perché allora tutti gli elementi dell' ente ella vede nell' ente stesso, che le sta davanti, e che è la condizione del pensare, ed altresí la forma ch' ella applica agli elementi acciocché le si rendano pensabili in separato, rendendoli cosí enti dialettici. E invero le operazioni del pensare, che sono gli atti secondi, non potrebbero fermarsi a ragion d' esempio, in un mezzo ente, ché il mezzo non si può pensare se non dopo il tutto a cui si riferisce, e per la stessa ragione ciò che veramente si conosce deve esser uno. E quindi è che l' essere al tutto indeterminato non raggiungendo l' uno compiuto [...OMISSIS...] , non può esser l' oggetto d' un compiuto atto di conoscere, ma piuttosto d' una potenza di conoscere (1). E la condizione della potenza intellettiva è simile appunto a quella del suo oggetto; poiché questo, che è l' essere indeterminato, ha l' uno in sé, ma in un modo virtuale, in quanto è suscettivo di termini. E cosí la prima intuizione, non fu computata dagli antichi tra le cognizioni, non senza ragione, a dir vero; chè essa merita, in sé considerata, la sola denominazione di cognizion virtuale , come l' essere è l' ente virtuale, e considerata in relazione colla sola esplicazione, le si deve il nome di potenza di conoscere. Conviene però guardarsi da una falsa conseguenza; la qual conseguenza apparente si è, che l' ente finito contenesse piú di cognizione formale, che non l' essere il quale è oggetto d' una cognizione non compiuta. Poiché altro è che la cognizione sia compiuta , ed altro che sia formale : la cognizione compiuta è quella che ha davanti un oggetto compiuto, la cognizione formale all' incontro è quella che ha davanti un oggetto per sé noto, ossia per sé manifesto, ancorché non sia compiuto. Non è dunque manchevole il pensare, perché sia formale, ché per questo è anzi eccellente; ma è manchevole il pensar formale nell' uomo, perché gli è dato in scarsa dose, avendo il pensar formale per oggetto l' essere per sé manifesto. Ma altro è l' essere per sé manifesto indeterminato, altro l' essere per sé manifesto assoluto: il primo è dato all' uomo per natura, e costituisce il pensar formale limitato e manchevole; quando gli fosse dato a vedere l' essere assoluto, la sua cognizione sarebbe pure assoluta e tutta formale: questa è l' ultima perfezione del pensare formale. Da tutto quello che abbiamo ragionato fin qui, risulta che la forma dell' uomo, ossia dell' ente razionale, è l' essere per sé manifesto, in quanto è indeterminato. L' essere, senza i suoi termini, è l' inizio di ogni ente: contiene dunque la possibilità degli enti. Ma di quali enti? L' essere indeterminato non ne specifica alcuno, ma neppure ne esclude alcuno. Dunque egli è la possibilità tanto dell' essere finito , quanto dell' essere infinito . Ma la seconda l' abbiamo risposta tra i caratteri venienti dalla limitazione del nostro intuito [...OMISSIS...] , e però essa non è un carattere che appartenga all' essere in se stesso, e ciò perché l' ente infinito non ha possibilità, ma necessaria sussistenza. Rimane pertanto che l' essere indeterminato in verità altro non sia che la possibilità, ossia l' inizio degli enti finiti. Si ritenga dunque ben fermo nella mente questo vero, che « l' ente razionale umano è costituito o formato dall' essere per sé manifesto, in quanto è inizio degli enti finiti ». Come questo è il fondamento della natura umana, cosí convien che sia anche il tema del suo sviluppo e del suo perfezionamento. E quindi lo sviluppo della natura umana deve poter farsi da due lati; dal lato degli enti finiti, e dal lato dell' essere, in quanto è inizio di questi. Ma l' inizio degli enti finiti essendo dato immobilmente dalla natura, rimane sempre lo stesso davanti al soggetto, e però non ammette naturale sviluppo o accrescimento. Se dunque l' essere come inizio degli enti finiti manifestasse se stesso piú copiosamente, già non sarebbe piú ordine naturale, ma avrebbe luogo un altro ordine, un ordine soprannaturale. Gli enti finiti all' incontro sono quelli che costituiscono la natura, de' quali l' uomo stesso è uno; e però lo sviluppo dell' umano pensiero e affetto intorno a questi, costituisce l' ordine naturale. Vero è che anche intorno all' essere, come inizio degli enti, molto può travagliarsi l' umano ragionamento; ma questo rimane sempre nella cognizione dell' essere iniziale, e in questa stessa incontra un' immensa lacuna, la qual consiste in non trovare alcun nesso necessario tra l' essere e i reali finiti. Perocché questi non sono termini propri e necessari dell' essere, onde la loro esistenza non si può argomentare a priori . Come dunque esistono? La gran voglia, che ha l' uomo di conoscere la ragion sufficiente dell' esistenza de' reali contingenti di cui si compone l' universo, trasse Platone a dire che le idee (l' essere ideale) sono causa delle cose. Ma qui ebbe buono appicco Aristotele a redarguirlo, perché osservò che le idee non sono principio del moto, né cause sufficienti dell' esistenza; tant' è vero che si possono avere idee di cose che non sussistono (1). L' idea dunque dell' essere o quella dell' ente non racchiude in sé la ragione dell' esistenza delle cose contingenti. E però non ha alcun valore ontologico, né alcuna verità a priori , la formola testé proposta qual principio di tutta la filosofia: « « L' ente crea le esistenze » ». Laonde a trovare la ragione sufficiente perché sussistano quelle cose, che possono tanto sussistere come non sussistere, non basta il nudo concetto di essere e di ente oggetto dell' umano intuito, ma convien ricorrere ad una volontà libera ed eterna, il cui atto non s' intuisce. Ed appunto quel denso velo che ricuopre agli occhi intellettuali dell' uomo quest' atto volontario dell' essere assoluto, è la cagione per cui tutto questo universo sta davanti al pensare umano come un grand' arcano, un mistero impenetrabile. Questo affrena l' umana intelligenza. Ed ella spera talora di spuntare la sua voglia giungendo per via del ragionar formale, e di determinazione logica, a conchiudere che quell' atto creativo de' contingenti ci deve essere . Ma poi non rimane soddisfatta appieno di questa conquista. Poiché quantunque conosca che ci deve essere , tuttavia no' l vede questo atto, e però non sa come sia; onde spiega a se stessa l' esistenza dell' universo, ma con una incognita. Gli imprudenti si buttano a sistemi erronei, pei quali col favore di molte idee confuse persuadano a se stessi di vedere indubitatamente la prima causa. I prudenti dicono quello che diceva Socrate in que' dialoghi di Platone: « « aspettiamo che la prima Causa si manifesti da sé medesima » ». Perocché avendo noi conosciuto, che questa Causa ci deve essere, e deve avere prodotti noi stessi; di conseguenza, come ottima, manifesterà a noi se stessa, e cosí compierà quel voto, quella necessità intellettuale di conoscerla, che ella stessa ha lasciato in noi. Sarà questo il compimento dell' opera sua, che ella non può lasciare imperfetta (1). La dottrina dell' idea, come ogni altra dottrina speculativa, ha due maniere di processo ragionativo. Il primo processo parte dall' osservazione del fatto, e la sagacità del filosofo si dimostra in questo, che coglie e stabilisce il fatto in tutte le sue parti, e si assicura bene della sua verità con ogni cautela. Ciò che dà l' osservazione è in ogni caso un punto fermo. Ma se il fatto osservato è di tal natura, che mostri in se stesso necessità; allora s' avrebbe non solo un punto certo, ma eziandio evidente. E si scopre la forza dialettica del filosofo, quando da questo principio procede per via di continue illazioni. Poiché quando il fatto sia tale, che l' illazione si derivi a rigor di logica, egli non ha piú cagione di dubitare del fatto suo. Ma questo processo, il piú eccellente, è di pochi. Il secondo processo ragionativo, buono anch' esso se accompagnato dal primo, ma secondario e amplissimo fonte di sofismi ove se ne vada senza il primo, come per lo piú avviene, è quello che muove dai dubbi e dagli apparenti paradossi, e domanda che questi sieno rimossi e spiegati prima di assentire alla loro dottrina. Qualora questo processo ragionativo sussegua al primo, egli produce una nuova copia di sapere, e quasi una nuova scienza; conduce alle piú profonde investigazioni per cogliere le piú intime verità. Ma se si comincia da questo processo deontologico, cioè che cerca quel che deve essere invece che dal primo ontologico, che cerca quello che è, se n' hanno molti inconvenienti, e principalmente questo, che si parla di cose di cui non sono ben chiarite le idee; poiché è col primo processo che si chiariscono. E questo è il difetto del metodo degli Scolastici che, educati dalla logica di Aristotele tutta argomentativa, incominciano sempre dai dubbi. Noi dunque abbiam tenuto sempre nelle nostre ricerche per massima l' incominciare dal primo processo ragionativo. Onde, nell' Ideologia, colla quale abbiamo incominciato il nostro discorso filosofico, dichiarammo di prendere a punto di partenza l' osservazione , e non il dubbio metodico . Ma or che crediamo aver alquanto dato opera al primo processo, prendiamo la seconda fatica. Intendiamo dunque, in questa parte, di risolvere le principali obbiezioni che si sono accampate contro l' essere ideale. Le difficoltà, che s' incontrano meditando sull' essere manifesto e sui concetti, derivano da quattro fonti: 1) Dalla natura dell' essere stesso, qual si rappresenta all' intuito naturale dell' uomo; e queste abbiamo procurato di risolverle nella prima parte di questo libro, e nel libro terzo. 2) Dalla relazione coll' essere divino. 3) Dalla comunicazione coll' essere e dell' essere per sé manifesto colle intelligenze finite. 4) Dalla comunicazione dell' essere per sé manifesto co' reali finiti. Queste due ultime classi di difficoltà somministrano l' argomento alla seconda e alla terza parte di questo libro. Dobbiamo dunque ora svolgere le difficoltà che traggono l' origine dalla comunicazione che l' essere manifesto ha colla mente umana. Dobbiamo dunque trattare due questioni: Questione I Delle difficoltà che s' incontrano nello spiegare la congiunzione delle idee colla mente da parte delle idee, cioè dell' oggetto. Questione II Delle difficoltà che s' incontrano nello spiegare la congiunzione delle idee colla mente da parte della mente, cioè del subietto. Prendiamo dunque a considerare la congiunzione dell' idea, ossia dell' essere, colla mente, in primo luogo per rispetto all' essere stesso ideale. Questa ricerca ci conduce a due risultati: 1) Che la natura dell' essere ideale è tale, che unendo in se stessa senza alcuna contraddizione due modi d' esistenza, uno in sé, e l' altro relativo alla mente, o per meglio dire avendo un modo d' esistenza che abbraccia questi due, rende possibile la comunicazione di sé ad una mente. 2) Che questa comunicazione non solo è possibile, ma è necessaria; di maniera che sarebbe ripugnante alla stessa natura dell' essere ideale, che una tale comunicazione non avesse luogo. Tutta la difficoltà a intender questo nasce dall' inclinazione di applicare all' esistenza dell' essere ideale le leggi dell' esistenza subiettiva. E infatti l' esistenza subiettiva è tutta relativa al subietto, cioè s' esaurisce e termina nel subietto stesso, onde ripugna che il subietto, se esiste solamente rispetto a sé, esista come subietto in altro modo. Vero è che il subietto intelligente può considerare se stesso come obietto. Ma in tal caso interviene il modo obiettivo di essere: onde riman fermo che il puro subietto come tale finisce in se stesso. Ma totalmente diverso e opposto si è il modo di essere obiettivo. Questo è un modo per la sua stessa essenza relativo ad altro. Vedesi dunque che dalla parte della idea, ossia dell' oggetto della mente, cessa ogni difficoltà al concepire ch' ella abbia un' esistenza che involge in sé la necessità d' esser ella presente a una mente, e che questa necessità non le toglie punto l' essere per sé distinta dalla mente. Poiché il modo d' esistere per sé, e il modo d' esistere relativo ad un altro non s' escludono, e possono entrare tutti e due ad un tempo in una sola essenza. Quello che impediva di conoscere questo vero alla mente, si era il non abbastanza conoscersi la natura della relazione e dei relativi. E la difficoltà, viene da questo, che gli uomini considerano esclusivamente le cose che loro cadono sotto i sensi nella loro esistenza subiettiva o estra7subiettiva, la quale è per sé, e non ha bisogno di relativi per essere concepita. Poiché l' esistenza subiettiva riguarda il subietto e non sorte da esso; e questa cognizione coll' aggiunta di quella di alcune relazioni accidentali tra le cose basta alla vita comune. Appartiene soltanto all' ozio della filosofia l' indagare la natura piú in là, e pervenire alla considerazione dei relativi essenziali ed assoluti, il che, direbbe Platone, è di tutti gli Dei, ma tra gli uomini d' assai pochi. Convien dunque che la mente speculatrice si persuada, lasciati a parte i relativi accidentali, che si dà un genere di relativi i quali sono per sé; di maniera che nel genere di quelle entità che per sé si dicono si contiene una specie di relativi. Onde il genere delle entità per sé e il genere dei relativi non al tutto s' oppongono e s' escludono fra di loro, ma una specie di questi secondi è in pari tempo una specie che appartiene al genere delle entità per sé, di maniera che nell' ordine logico dei predicati prima appartiene loro l' essere relativi a quel modo che la specie appartiene ad una data quantità prima del genere; con questo solo sono già divenuti una specie del genere de' relativi. Ma sopravvenendo loro per opera della mente l' attributo di essere questi relativi per sé, essi mediante questa giunta sono resi una specie del genere delle entità per sé. Onde non repugna che appartengano a due generi opposti perché vi appartengono a cagione di due predicati che si sovrappongono successivamente l' uno all' altro. L' essenza delle cose, come abbiam detto, è la loro quiddità (1). Ogni qualvolta si ha l' idea di una cosa, si sa che cosa è, a tal che si può in qualche modo definire; e tuttavia la cosa potrebbe egualmente sussistere e non sussistere (2). Dunque la mera essenza delle cose contingenti non involge la loro sussistenza, non è la sussistenza, che ce ne faccia conoscere la quiddità, ma la loro quiddità stessa presente alla nostra mente è l' essere che le manifesta. L' osservazione adunque, l' osservazione ontologica dimostra che le essenze delle cose contingenti appartengono all' essere manifestante, sotto la quale relazione acquista il nome d' idea. Questa è dottrina evidente insegnata dal maggiore e piú saldo filosofo che avesse mai l' Italia, l' Aquinate. Egli dice chiaramente che l' essenza è ciò che vien significato dalla definizione (1). L' Aquinate esprime ancora piú chiaramente il suo pensiero dove dice che « « l' essenza è ciò di cui l' essere è l' atto »(2) ». L' essere come atto è il reale; perciò l' essenza non ha in sé questo atto, ella dunque è in potenza, è la possibilità della cosa. Dove convien sempre ritenere, che tutte le essenze delle cose si riducono a una sola, cioè all' essere universale . Attesa la precedente sentenza di San Tommaso, Guglielmo Tennemann, nel suo « Compendio della storia della filosofia », ripone il Santo Dottore fra gli idealisti, scrivendo di lui cosí: « « Egli era idealista, e considerava l' oggetto dell' intelligenza, o la forma astratta delle cose, come la loro essenza originale »(3) ». Ma questo è abuso della parola (4) « idealista », la quale significa la setta di quei filosofi che negano la realità de' corpi od altre realità, riducendo la realità alle idee. Laonde, quantunque San Tommaso riconosca che l' essenza è ciò che s' intuisce nell' idea, ond' anco definisce l' essenza « « ciò che viene significato dalla definizione »(5), tuttavia egli è ben lontano dal negare la realità de' corpi od ogni altra realità. Ché anzi, paragonando il reale all' ideale, considera quello che nel suo linguaggio è chiamato essere come l' atto; e l' essenza rispettivamente come la potenza o per dir meglio, la possibilità; onde un' altra definizione che dà il Santo Dottore dell' essenza cosí: « Essentia est illud, cuius actus est esse (6) »; la quale consuona a capello con ciò che noi diciamo. Secondo la qual dottrina ancora San Tommaso insegna, che i particolari (contingenti) sono fuori dell' essenza (1). E veramente i particolari individui appartengono per primo all' ordine delle realità , e nascon da questa, né hanno la loro ragione sufficiente nella semplice idea della cosa. Ed egli è per questo, che noi abbiam già detto, ogni idea qualsiasi essere una specie, cioè la base d' una specie, ossia quel lume, pel quale non si conosce già l' individuo nella sua particolare sussistenza, ma tutti gli individui senza numero che venissero realizzati da un agente reale che n' avesse il potere. E qui potrebbe cadere la questione « se il proprio appartenga agli accidenti », della quale sentenza si dimostra l' Aquinate (2). A cui noi rispondiamo, che se s' applica la parola proprio all' essenza stessa delle cose, ogni essenza è propria, e questo proprio non è né accidentale né sostanziale, ma essenziale . Se poi s' applica il proprio ai reali, diciamo che nulla v' ha in essi di veramente proprio se non la stessa realità , e quindi che ove il reale è necessario (Iddio), in tal caso il proprio non può essere accidentale, ma ove il reale di cui si parla è contingente anche il proprio è accidentale, perché è accidentale la realità stessa che lo costituisce. Un' altra qualità dell' Essere manifestante è l' universalità. Egli dicesi universale non già perché in se stesso considerato come ente non sia uno, e in questo senso, particolare. L' unità è propria d' ogni ente concepibile. Dicesi adunque universale unicamente perché egli è il mezzo necessario a conoscere tutte le cose. Questa parola universale adunque esprime una relazione dell' essere manifestante, colle cose manifestate; e questa è scoperta dalla riflessione del filosofo che è pervenuto a raffrontare insieme l' Essere manifestante colle cose manifestate, e a rilevare che quello è il mezzo di conoscere queste. Laonde questa relazione non cade propriamente cosí distinta, da potersi enunciare nell' intuizione dell' essere stesso; perocché l' uomo ha tre passi di sviluppo avanti di pervenirci: 1) intuisce l' essere, senza sapere che sia mezzo di conoscere; 2) adopera l' essere qual mezzo di conoscere, senza riflettere alla relazione di quel mezzo al fine; 3) riflette a questa relazione, giacché altro è l' adoperar un mezzo ad un fine, e altro è il riflettere sulla sua qualità di mezzo e astrarre questa qualità, e cosí astratta enunciarla e ragionarne. Quest' ultimo passo il fa soltanto la filosofia. Stabilito adunque che la notizia che ha l' uomo per natura è quella dell' esistenza senza alcun' altra determinazione, consegue che l' esistenza cosí intuita dalla mente (Essere manifestante) sia pura forma di cognizione senza alcuna materia. Per forma della cognizione intendiamo quell' elemento, pel quale la cognizione è cognizione, pel quale ogni cosa cognita è cognita. Questo elemento dunque non può mancare in niuna cognizione. Di piú, questo elemento dee essere cognito per se stesso, poiché è egli stesso quello che fa sí che qualsivoglia cosa sia cognita. Dee dunque esser noto immediatamente, per sé noto. Ora in ogni nostra cognizione niente si conosce, se non si conosce l' esistenza; perocché ogni cosa nota non è altro, che cosa della quale si conosce l' esistenza (possibile) e le determinazioni. Ma ciascuna delle stesse determinazioni non si conosce, se non si conosce la sua esistenza possibile; e il conoscerle è lo stesso che il conoscerle esistenti nella loro possibilità. Dunque ogni conoscere è conoscere l' esistenza almeno possibile. Dunque l' esistenza ideale ossia possibile, ovvero l' idea di esistenza, è la forma di tutte le cognizioni. La materia delle cognizioni sono le determinazioni dell' esistenza, o ideali, o reali, o morali. E materia qui significa ciò che è conosciuto e che non fa conoscere, cioè che ha bisogno di altro cognito per essere conosciuto, ciò in cui finisce la cognizione come un suo termine. La mente trova questa distinzione che separa nella cognizione la pura forma del conoscere dalla materia. Ma come la stessa cosa può esser forma ad un tempo della cognizione e della potenza di conoscere? Questo è conseguenza della natura speciale di questa forma a differenza di tutte le altre, la qual natura consiste nell' esser forma oggettiva «( Psic. , n. 23.) ». Quindi accade che ella abbia le due relazioni, di cui abbiamo parlato, cioè che ella sia ad un tempo manifestante e manifestata . Sotto la relazione di manifestante dicesi forma della mente, perocché senz' essa la mente non sarebbe mente. Sotto la relazione di manifestata dicesi forma della cognizione, perché costituisce l' oggetto cognito, ciò che v' ha di oggettivo e però di formale in ogni cognizione. Quindi l' Essere ideale, se si considera come oggetto manifesto alla mente, e però distinto dalla mente, è causa immediata per la quale la mente acquista l' attitudine di conoscere. Ma se si considera quest' attitudine rispetto a quelli che si chiamano comunemente atti conoscitivi, se si considera che l' attitudine a far questi atti non è mai altro che l' attitudine a veder l' Essere stesso variamente determinato, egli è chiaro che l' Essere è la forma stessa del conoscere, perché ha la condizione di manifestante. Attesa poi questa doppia relazione dell' Essere ideale, accade che, nel ragionarsi di lui, egli prende quasi due faccie diverse: perocché talora ci appare come è in se stesso, indipendente da ogni mente, in questo senso, che si pensa a lui senza bisogno di pensare nello stesso tempo alla mente; talora poi ci appare come posseduto dalla mente stessa, legato alle menti particolari e cosí quasi direbbesi particolareggiato. In quest' ultimo rispetto egli è propriamente forma delle menti singole, e da questo legame colle menti singole divien singolare, e si moltiplica, non per sé, ma pel legame: come un' idea qualsivoglia, benché universale, dicesi particolare se si considera unita ad un particolare che fa conoscere, il che accade nella percezione, e nell' ente ipotetico. E già l' Angelico vide, che il lume del naturale intelletto doveva essere forma ad un tempo della mente e della cognizione. Onde gli attribuisce due funzioni, o due effetti, come li chiama: l' uno di rendere le cose attualmente intelligibili, « cuius est intelligibilia facere in actu », il che è quanto dichiararlo forma della cognizione; l' altro di perfezionare l' intelletto possibile, « perficere intellectum possibilem ad cognoscendum », il che è dichiararlo forma dell' intelligenza (1). L' Essere adunque in quanto è manifestante, o intelligibile per sé, informa la mente. In quanto poi è manifestato, è forma della cognizione. L' Essere in quanto è manifestato, per la sua propria virtú di manifestarsi, è ancora la forma degli enti sussistenti concepita dalla mente, a cui la sussistenza stessa fa l' ufficio di materia. La forma adunque delle cose è oggetto dell' intuizione, all' incontro la sussistenza è termine dell' atto di sentire: di maniera che la forma e la materia sono unite nell' universo di quel nesso appunto, del quale è unito il sentimento coll' intelligenza; nesso che non si scioglie mai, se non per via d' astrazione e d' ipotesi non conseguente a se stessa. Ora, fin a tanto che non si pensa ad altro, fuorché la forma ideale, questa forma pensata è meramente possibile, mancante dell' atto della realità; e però si dice in potenza ad essere realizzata. Ma ciò che è in potenza è anteriore a ciò che è in atto, l' atto compie ciò che è in potenza, e la potenza non è che il principio dell' atto. Quindi è che l' Essere ideale dicesi ancora non impropriamente Essere iniziale , perché da lui comincia la cognizione e la possibilità dell' Essere, da cui muove l' atto della sussistenza, che assolve e compie l' Essere stesso. Se poi si considera l' Essere tal quale cade nel primo intuito, egli non porge allo spirito la forma completa di nessun essere particolare, ma presenta l' Essere stesso non già completo, sibbene del tutto iniziale. Quest' è dunque anteriore sí nell' ordine del pensiero (ordine dell' Essere manifestante), e sí nell' ordine degli oggetti del pensiero (ordine dell' Essere manifestato), a tutte le forme particolari degli enti: e però se queste sono iniziamenti degli enti particolari, l' Essere qual cade nel primo intuito è iniziamento di questi iniziamenti, perché è la prima cosa che sia in essi, ed in essi si conosca. Dalla condizione poi d' iniziale solamente, che ha l' essere qual cade nell' umano intuito, conseguita che egli si predichi univocamente di tutte le maniere di enti, e sí bene di Dio, come delle creature. Perocché se non si potesse predicare l' esistenza delle creature, queste non sarebbero, e dicasi lo stesso di Dio (1). Predicare univocamente l' esistenza vuol dire: predicar l' esistenza, pigliata la parola nello stesso significato. Però non è a credersi che si predichi nello stesso modo, perocché predicare significa unire, attribuire qualche cosa ad un subietto. Ora la mente che considera le cose create siccome enti non attribuisce mica ad esse l' esistenza nello stesso modo, che a Dio; ma ella dà a Dio l' esistenza come cosa sua propria, alle creature come cosa partecipata, a Dio come essenziale e necessaria, alle creature come accidentale, la unisce a Dio identificandola con lui stesso, alle creature distinguendola da esse. I modi possibili della comunicazione degli enti fra loro sono due, perché due sono i costitutivi d' ogni ente contingente, l' essenza e la realità . Quei due modi di comunicazione possono stare separati, cioè effettuarsi l' uno e non l' altro. Cosí le bestie sono enti i quali non ricevono comunicazione cogli altri enti, se non nel secondo modo. All' incontro, allorquando un uomo intuisce l' essenza di un ente senza che gli si comunichi la realità di lui, la comunicazione dell' ente all' uomo è fatta nel primo modo, ed è comunicato il primo elemento degli enti contingenti, l' essenza . Allora, quando la comunicazione di un ente all' altro, si fa in entrambi i modi, e quindi si comunicano entrambi gli elementi dell' ente, l' essenza e la realità, allora vi è comunicazione perfetta, la comunicazione di tutto l' ente, la compiuta cognizione (1). L' essenza di un ente distinta dalla realità comunicata ad un altro dicesi idea ; e l' atto con cui è ricevuta la comunicazione, intuizione , conoscenza (per intuizione). La realità di un ente comunicato ad un altro dicesi percepita sensitivamente, e l' atto con cui è ricevuta la comunicazione, percezione sensitiva . Potendo trovarsi divisi que' due modi di comunicazione, niuna meraviglia è che allo stesso modo possano negli enti contingenti trovarsi divisi i due elementi della essenza e della realità; e che l' uno possa aver natura assai diversa dall' altro. Il primo elemento, l' essenza, è sempre immutabile ed eterna. Il secondo elemento, la realità, può essere eterna ed immutabile, nel qual caso s' adegua e continua all' essenza dell' essere in universale, e tutt' insieme è la natura divina; ovvero è contingente, ed in tal caso costituisce gli enti limitati e creati. Questi due elementi entrano nella composizione di ogni ente perfetto conosciuto. Lo scoglio della filosofia suol essere il non potersi intendere come si componga in un solo ente l' ideale e il reale. Ma perché questo è scoglio in cui s' infrange il naviglio? Perché la mente, avvezza a vedere ogni cosa nello spazio e nel tempo, va pure ripensando come anche quell' unione dell' ideale e del reale si faccia quasi nello spazio e nel tempo; il che è cosa impossibile ad avvenire e del tutto assurda. Quest' unione si fa in presenza della mente, non in alcuno spazio, ma nel mondo, per cosí dire, dell' essere stesso, nel mondo metafisico che è quello della verità. Quegli enti, ai quali si comunica l' essenza per via d' intuizione, sono fatti con ciò intellettivi; gli altri, a cui non è data questa comunicazione, sono privi d' intelligenza. Dal detto pertanto si trae in che differiscano l' essenza e l' idea ; quella è ciò che s' intuisce in questa (ente manifestato, oggetto): colui che l' intuisce la intuisce come cosa diversa da sé. Ma se questa cosa diversa dall' intuente si considera in rapporto coll' intuente, come atta ad intuirsi (ente manifestante), allora chiamasi idea . Come idea ella è nella mente; ma come essenza è la cosa in sé senza alcun rapporto colla mente stessa. Gli Scolastici distinsero l' idea , che dissero essere « quod cognoscitur (1) », dalla specie che dissero « quo cognoscitur », il mezzo formale con cui si conosce. Ma propriamente ciò che si conosce (nell' ordine ideale) è l' essere manifestato, cioè le essenze , e non le idee; ciò poi con cui si conosce sono le idee. La qual distinzione è importante perché se ne ha il conseguente, che le essenze possono essere molte, e l' idea cioè la loro intelligibilità una sola. Infatti noi abbiamo provato che colla sola idea dell' essere si conoscono tutte le essenze delle cose, solo che queste sieno date nel sentimento. Onde, a propriamente parlare, l' idea , il « quo cognoscitur », è una sola (2); ma aggiungendosi a lei diversi sentimenti, ella viene moltiplicandosi, e le molte idee che sembrano venirne, piú acconciamente si chiamano concetti , o ragioni delle cose (3), e specie se possono servire di fondamento alla specie, generi poi se possono servire di fondamento ai generi delle cose. Ora la specie , ossia il concetto specifico, ha questo di proprio, che è il primo che si trae dalla percezione, onde rappresenta alla mente tutta la cosa (possibile), laddove il genere non la fa conoscere tutta, ma solo qualche elemento che ha comune con altre cose. Quindi Platone distingue la specie dall' idea come l' essenza veduta nelle cose reali da ciò con cui si conosce. « Io stimo che tu reputi ogni specie ( «eidos») esser una per questo, che quando si mirano da te piú cose grandi, a te che le vedi tutte pare una sola idea ( «idea») ». Sicché le specie sono per Platone le essenze, e queste in quanto sono nella natura, son le forme delle cose, e in quanto sono intuite dalla mente, gli esemplari , perché, rappresentando tutt' intera la cosa, a differenza dei generi, possono essere condotti al loro atto esterno e reale dall' artefice che ha virtú di ciò fare, onde dice Platone, che « « le specie stanno nella natura siccome esemplari »(1) ». Platone talora invece di specie usa dire la nozione delle specie ( «eidon noema»), la qual parola nozione viene ad indicar l' atto della mente che intuisce le specie o forme nella natura, ovvero le stesse specie o forme o essenze in quanto sono intuite dalla mente, laonde mentre pone le specie nella natura, colloca la nozione delle specie negli animi (2). Le specie dunque per Platone sono le essenze compiute , l' ente ideale vestito co' suoi termini, ond' anco le chiama, distinguendole dall' ente, «ton onton eide» (3). Dal che si vede che la natura di esemplare non conviene propriamente all' idea , perché ella presenta un' essenza determinata, né ai concetti generici, per la stessa ragione, ma unicamente alla specie che presenta un' essenza al tutto determinata. Del resto è da distinguere l' essenza indeterminata dall' essenza determinata. L' indeterminazione dell' essenza non appartiene già all' essenza, ma altro non è che la limitazione del modo in cui si comunica, comunicandosi senza le sue determinazioni. Fra l' essenza dell' essere, poi, e quella delle altre cose v' ha questa somma differenza, che quella nelle sue determinazioni racchiude la realità, laddove l' essenze delle altre cose non la racchiudono. Indi è che l' essenza determinata dell' Essere, che è l' essenza di Dio, non si può comunicare se non comunica anche la sua realità, onde la comunicazione di lei non si fa per mera idea, ma per via di verbo, come altrove dichiarammo. La natura del conoscere giace nella sua oggettività, cioè il conoscere è la comunicazione di un ente (il cognito) ad un altro ente (il conoscente) fatta per modo, che colui che riceve la comunicazione dell' altro ente lo possiede non come se stesso, ma come un altro ente, e l' atto con cui riceve la comunicazione di quest' altro ente, e con cui lo possiede, finisce in quell' altro ente non in quanto sussiste in sé, ma in quanto è posseduto. All' incontro, la natura del sentire giace nella sua soggettività, poiché il principio senziente tende a costituire se stesso, non ad uscire di sé e trovarsi in un altro; e quantunque abbia un termine diverso, nol possiede come ente, ma quel termine coopera solo a costituire il principio che sente e variamente modificarlo. E` proprietà dell' ente oggettivo comunicarsi nel primo modo, la qual comunicazione è, come dicevamo, ciò che si chiama cognizione. Un ente in quanto riceve tale comunicazione dell' ente oggettivo, dicesi conoscente o intelligente. L' osservazione del fatto dimostra che gli enti contingenti in quanto sono tali, cioè in quanto sono meramente reali, non hanno questa qualità di essere enti, e però né pur di essere oggetti; quindi per se stessi non producono cognizione, ma solo appartengono al senso; e per essere cogniti conviene s' uniscano all' ente oggettivo, ed insieme con esso si comunichino. All' incontro dimostra il ragionamento, che l' ente per sé oggettivo (l' Essere) dee avere la sua propria realità, la quale però non si comunica all' uomo in questa vita, di modo che questa stessa realità appartenga all' oggetto, come essenza veduta nell' idea. Quindi una doppia difficoltà: 1) la difficoltà d' intender come la realità dell' Essere, oggettiva com' è, possa essere comunicabile come realità. 2) La difficoltà d' intendere come la realità contingente, che non è per se stessa oggettiva, possa essere comunicata oggettivamente. La prima difficoltà sorge nella mente di chi pensa, per due ragioni: 1) Perché non conoscendo noi per esperienza in questa vita altra realità che quella degli esseri contingenti, e trovando che questa realità è oscura per se stessa e non intelligibile, non7ente; non possiamo facilmente concepire che v' abbia una realità intelligibile per se stessa. Il che però non è ragionamento, ma forza di quell' abitudine che ci impicciolisce e limita alle cose dell' esperienza, dalla quale limitazione la mente del filosofo si scioglie solo che rifletta, come la ripugnanza ad ammettere cose diverse dalle sperimentate non è argomento a dimostrarne la impossibilità. D' altra parte, se egli è manifesto che noi comunichiamo colle essenze degli enti (la qual comunicazione si dice idea) apparirà manifesto, che per intelletto (che è la potenza dell' idea) noi potremo comunicare colla realità, se si trovi un' essenza reale per se stessa; ora tale si prova dover essere l' essenza divina. Onde non è punto assurdo che la divina essenza, realissima com' è, si possa comunicare a noi per via d' intelletto, pel quale ci è data la comunicazione delle essenze degli enti. 2) Perché l' essenza porgendosi all' intelletto nella sua condizione d' oggetto, e l' oggetto non cagionando che il conoscere senza operare nel soggetto; pare che non si possa manifestare giammai come reale, se prima non ha operato nel senso, modificandolo; perché il carattere della realità è appunto questo, di essere operativa nella realità dell' ente a cui viene comunicata, cioè nel sentimento. Il quale ragionamento non riceve per vero una soluzione di facile intelligenza, ma irrefragabile tuttavia. Perocché, si risponde che, quantunque la realità per se stessa oggettiva si comunichi come oggetto di maniera che l' ente che ne riceve la comunicazione possieda questa realità come un altro, un diverso da sé, e termini non in sé ma in quest' altro l' atto di tale ricevimento, e di tale possesso; tuttavia in quest' oggetto reale possederà la sua propria causa, e in essa troverà se stesso da cui emana (1): onde la comunicazione oggettiva sarà comunicazione oggettiva di un sommo bene: cioè di cosa che si comunica soggettivamente, cioè operando creando e perfezionando e dilettando, la qual dilettazione poi si compie col vederla nell' oggetto. Cosí avverrà che l' intelletto nell' oggettivo troverà il soggettivo, e quindi l' intelletto riceverà quella comunicazione non pure come principio di conoscere, ma ben anche come principio di sentire: onde in tal fatto la comunicazione oggettiva e la soggettiva unite insieme si alternano e insieme si unificano (1). Passiamo alla seconda difficoltà cercando se l' intelletto come senso nulla opera in questa vita, oltre attingere l' idea. « Se il senso intellettivo nella vita naturale dell' uomo si estenda alla percezione dei reali »: la risposta negativa, che altrove abbiam data a somigliante quesito, è ella vera? All' intelletto appartiene la sola intuizione ; la potenza dell' affermazione o della predicazione consegue ad esso, e però non produce un oggetto novo, ma solo pronuncia la reale ossia soggettiva sussistenza dell' oggetto intuíto. Il dubbio adunque può nascere solo rispetto alla intuizione delle essenze determinate dai sensibili, dei concetti specifici pieni, ed astratti conseguenti. Cioè si può dimandare: « se questi sensibili sieno intuiti dall' intelletto, ed intuendoli, se da ciò ne venga che l' intelletto puro percepisca de' reali ». A cui si risponde, 1) che i detti sensibili non sono sensibili all' intelletto in questo senso, che l' intelletto sia il principio sensitivo che li costituisce sensibili (giacché il sensibile o il sentito viene costituito dal principio sensitivo, come da sua causa); 2) che il soggetto umano intellettivo apprende il sensibile già formato in lui in quant' è anco soggetto sensitivo, lo apprende, non lo forma come fa il principio sensitivo, e lo apprende come entità determinata, il che è quant' a dire come essenza. Ora l' essenza, oggetto dell' intuizione, non è propriamente il reale a quel modo che sta nel senso, ché anzi ogni reale contingente considerato a questo modo è fuori dell' essenza, non è l' essenza stessa, come accade del reale necessario (di Dio), il quale dove si manifestasse all' uomo, si percepirebbe nella stessa essenza, oggetto dell' intuito, e come essenza egli stesso. A questa dottrina, certamente sottile ad intendere (la cui difficoltà consiste ad osservare ciò che si contiene nell' essenza determinata, senza aggiungervi nulla ad arbitrio), che stabilisce non poter mai l' intelletto, preso come senso, estendersi alla intuizione e percezione de' reali contingenti, si dee tuttavia qui aggiungere qualche cos' altro che la perfezioni e compia. E questo si è, che quantunque l' intelletto quando intuisce l' essenza determinata non abbia per suo oggetto il sensibile come reale, tuttavia ha per suo oggetto il sensibile nel suo modo di essere intelligibile. Perocché il sensibile stesso si può considerare: 1) o qual' è senza alcuna relazione coll' intelletto, ed in tal caso egli è realità, ma non è ancor ente, né ideale né reale; è un ente imperfetto, incoato, a cui manca la forma dell' ente, è materia, quello che gli antichi dicevano non7ente; 2) o qual è in relazione coll' intelletto, ed in tal caso egli diviene ente7essenza, iniziale, ossia ideale; e qui il sensibile, come tale, è bensí supposto qual materia, ma non la forma stessa, l' essenza stessa; 3) o finalmente qual è in relazione colla ragione affermante, e solo in quest' ultimo stato egli acquista il nome di ente7reale. Onde si può dire, che quantunque l' oggetto dell' intelletto puro in tal caso non sia l' ente reale, tuttavia è un oggetto che in altra relazione, cioè in relazione al senso, è sensibile (realità non7ente), e in altra relazione, cioè in relazione alla ragione affermante, è ente7reale. Il termine è identico, ma senza relazioni all' intelligenza, non è ente: intuíto poi dall' intelletto è intuíto solo in quella sua relazione, per la quale è ente7essenza; percepito dalla ragione, è percepito in quella sua relazione, per la quale è costituito ente7reale. Dove è da notarsi, che si parla di una relazione con una intelligenza in genere, non coll' intelligenza dell' uomo. Perocché l' intelligenza dell' uomo dà al sensibile quelle relazioni che lo costituiscono ente7essenza, ed ente7reale rispetto all' uomo; ma l' intelligenza assoluta e divina è quella che gli dà tali relazioni in modo assoluto e permanente, e cosí tale lo costituisce. Ma qui giova che noi ci tratteniamo un poco a svolgere i concetti di cognizione in potenza e di cognizione in atto ; i quali sono dei piú comuni in sulle labbra e in sulle penne dei filosofi, e perciò dei piú difficili e d' una difficoltà celata; perocché i concetti piú elementari e piú necessari al ragionare si ammettono tanto facilmente per veri, che si crede di conoscerli a pieno solo perché si adoperano. E poiché Aristotele stabilí tutta la sua teoria dell' umana cognizione sulla distinzione fra ciò che si conosce in potenza e ciò che si conosce in atto, la dichiarazione di tali concetti che manca totalmente in quel filosofo, farà meglio conoscere il difetto di quella teoria. Il concetto della virtualità e della potenza è infatti dei piú oscuri e misteriosi. Perocché fra essere e non essere non si dà mezzo; ora ciò che è in potenza, egli sembra che ancora non sia, e però che sia nulla. E se non è nulla, che cosa è? Questa domanda è generale, estendendosi ad ogni essere in potenza; restringiamola per ora alla sola cognizione. Che cosa è dunque la cognizione in potenza? Che cosa è la cognizione in atto? Come vi hanno due modi di essere, l' ideale o iniziale, e il reale o sussistente; cosí vi hanno due modi di cognizione: la cognizione dell' universale, e la cognizione del particolare o singolo reale. Di piú, la cognizione dell' universale è indeterminata o determinata; e la indeterminata è piú o meno tale, onde v' ha quella che è indeterminata del tutto (l' essere in universale), v' ha quella che è solo in parte determinata, come accade dei concetti generici e specifici astratti. Ora l' universale quant' è piú indeterminato tant' è piú universale, perocché l' indeterminazione è l' universalità dell' universalità. Comprendendo dunque nell' universalità l' indeterminatezza che di tanto l' aumenta, che l' aumenta cioè nella proporzione che tengono le serie delle potenze la cui prima radice sia l' universale, cioè l' infinito, diciamo in generale che « conoscere checchessia per via d' universali è conoscere in potenza, e conoscere per via di realità è conoscere in atto ». Di che consegue: 1) che la piú attuata cognizione è quella dei particolari reali; 2) che di poi ogni cognizione degli universali è tanto piú cognizione in potenza, quanto gli universali conosciuti hanno piú d' universalità; 3) che perciò la cognizione di ciò che è meno universale è cognizione in atto, rispetto alla cognizione di ciò che è piú universale; e ciò che è piú universale è cognizione in potenza, rispetto alla cognizione di ciò che è meno universale. Dove si parla di piú e meno universali rispondentisi: a ragion d' esempio, del genere rispetto alle sue specie, e della specie rispetto al suo genere. Chi conosce il genere e nulla piú, conosce le specie in potenza solamente, come quelle che sono nel genere virtualmente contenute, ma non ancora distinte; e chi conosce solamente la specie astratta, si dice che conosce in potenza, ma non in atto ancora, la specie7piena; e chi conosce la specie piena, conosce l' individuo reale in potenza. Sicché cognizione in potenza o virtuale altro non significa, se non una relazione della cognizione di ciò che è piú universale, in rispetto a ciò che è meno universale: e cognizione in atto significa la relazione della cognizione di ciò che è meno universale, in rispetto a ciò che è piú universale. E quantunque la cognizione in potenza, ancora non sia; tuttavia si dice che è, perché non lei, ma la sua parte formale è già. Conciossiaché il piú universale è la parte formale della cognizione che ha men d' universale. I vocaboli dunque di cognizione in potenza o virtuale divengono cosí assai chiari, quando si conosca che furono inventati per significare un fatto gnomico, il servigio che fa l' universale all' intelligenza quando le è dato il meno universale, di mostrare in sé questo secondo contenuto, il che è lo stesso che farlo conoscere in atto. Queste dottrine non isfuggirono a quel grande filosofo di cui l' Italia inorgoglirà santamente piú che mai, quando riacquisterà un po' di spirito nazionale, e smetterà il suo fanciullesco attenersi alle gonne delle altre nazioni, dico a San Tommaso, il quale piú volte disse che: « qui cognoscit in universali tantum, cognoscit rem solum in potentia (1) », detto che doveva essere prezioso, se non ad interpretare, certo a dare una grande spinta innanzi all' Aristotelismo. La distinzione di cognizione in potenza e di cognizione in atto , a cui risponde l' altra di intelletto in potenza (intelletto possibile) e d' intelletto in atto (intelletto agente) fu proposta da Aristotele in occasione della difficoltà mossa da Platone nel Menone, dove sostiene che nel fanciullo dee preesistere la scienza, perché, interrogandolo opportunamente, pronuncia di belle e nuove verità, quasi ricordandosi di esse prima obliate. Aristotele sciolse la questione dicendo, che il fanciullo in parte sa, ed in parte ignora (1): sa in un modo, e in un altro ignora, poiché (soggiunge): [...OMISSIS...] . Queste due maniere di sapere sono appunto il sapere in potenza e il sapere in atto . Ma che è sapere in potenza o in virtú? E` appunto sapere le conclusioni ne' principŒ, i particolari o i meno universali negli universali o nei piú universali (2). Ma sapere i meno universali ne' piú universali è veramente saperli? Risponde, che questo non si può dire semplicemente sapere , ma si dee aggiungere sotto un rispetto ( secundum quid ), non usando gli uomini di adoperare semplicemente le parole sapere, conoscere, ecc. per indicare una tale cognizione. Piú volte San Tommaso ripete che questo è un conoscere il meno universale nel piú universale. [...OMISSIS...] . Cognizione virtuale adunque è modo, che significa un concetto tutto fondato nella relazione fra il meno universale e l' universale; e però non è un concetto vano. Dicesi cognizione , perché conoscendo il piú universale già si conosce un elemento, l' elemento formale del meno universale . Ma non dicesi cognizione semplicemente , perché non si conosce ancora il meno universale fino a tanto che si conosce solo un suo elemento, il suo elemento formale. Ma perocché, dato questo, basta che sieno poi date le sue determinazioni, a fare che incontanente si conosca il meno universale, quindi si dice che nell' universale si conosce virtualmente il meno universale. E poiché questo meno universale non è fatto conoscere dalle sue determinazioni per se stesse non intelligibili, ma in virtú del piú universale che precede nella mente e la collustra, perciò si dice che nel piú universale vi ha contenuta virtualmente la cognizione del meno universale. Aristotele dunque e San Tommaso conobbero assai chiaramente, che la virtú del conoscere il particolare o il meno universale sta nel piú universale, e però che questo è la forma della cognizione di quello: [...OMISSIS...] . E questo è già un essere andati molto innanzi. Perocché chi è pervenuto a conoscere che il piú universale è la causa del conoscere il meno universale, e conseguentemente è la forma della cognizione, non è molto lungi dal doverne conchiudere, che dunque l' universalissimo dee essere la luce prima, quella che non ha innanzi di sé altra causa nell' intendimento. Quindi Aristotele riconosce, che ogni dottrina e disciplina intellettiva « ex praeexistente fit cognitione (2) », e nel primo libro de' Fisici dice che gli universali, quanto a noi, sono anteriori ai particolari. Ma egli sembra che si contraddica nel primo degli Analitici posteriori , dove pone innanzi la cognizione particolare, perché la nostra cognizione, egli dice, incomincia dal senso. I quali due luoghi San Tommaso concilia dicendo, che negli Analitici posteriori Aristotele paragona la cognizione intellettiva, e la cognizione sensibile, e mette questa prima di quella: nei Fisici poi paragona due cognizioni intellettive, una piú universale dell' altra, come del genere e della specie, e la piú universale pone anteriore nell' uomo di tempo alla meno universale. Secondo la qual interpretazione l' ordine cronologico delle nostre cognizioni sarebbe questo: 1) cognizione del senso, non ancora intellettiva; 2) cognizione dell' intelletto, universalissima; 3) cognizione dell' intelletto meno universale. Quando poi si determina quale sia la cognizione universalissima, non cade piú dubbio che sia quella dell' ente , di che conchiude San Tommaso, che « ens est prima conceptio intellectus (1) », e poiché la metafisica tratta dell' ente, perciò non dubita che tutte le scienze ricevono i loro principŒ dalla metafisica (2). Onde Aristotele dice che negli universali (noi diremo piú coerentemente nell' universalismo) non solo vi ha scienza, ma di piú il principio della scienza, « Principium scientiae (3) », e propriamente quello che chiamarono gli Scolastici « principium quo cognoscitur », che è principio formale. Posto dunque che Aristotele accorda che la prima concezione dell' intelletto è l' universalissimo, l' ente, e che quest' è il principio d' ogni altra concezione intellettiva, rimane di vedere come a questa anteponga di tempo la cognizione che chiama sensitiva. Si riduce questa forse ad una questione di parole, cioè a veder, se ai sentimenti si possa con proprietà applicare il vocabolo di cognizione? Se la fosse cosí, sarebbe da rimettersi ai filologi. Per saperlo, convien cercare che cosa Aristotele attribuisca alla cognizione sensitiva, cioè ai sentimenti. Egli dà veramente al senso il giudicare ; ma posciaché riserba ogni universale all' intelletto, non rimane al senso che un giudicare metaforico, un giudicare senza alcun predicato universale, che però Aristotele stesso non osa dire che sia un affermare o negare (4). Riman dunque fermo, che nel senso non ci ha universale di sorta; or bene, noi quando parliamo di cognizione e di giudizio, intendiamo sempre un conoscere, un giudicare, dove l' universale intervenga. E solamente di questo conoscere trattasi di investigare l' origine. Chiarita cosí la questione, rimane a vedere come l' uomo giunga all' universale, ed anzi prima all' universalissimo che lo precede. Aristotele in alcuni luoghi dice, che vi giugne immediatamente, che l' intuizione dell' universalissimo, e dei primi principŒ che da esso derivano, si fa senza mezzo di sorta, e che però a tutti son noti per una natural intuizione senza dimostrazione alcuna (1). Ma anche dopo ciò rimarrebbe la questione: dove, e per quale occasione la mente intuisca l' universale. Ora scioglie Aristotele questa questione là dove insegna, che la mente trova l' universale nelle percezioni e sensazioni corporee, e da queste lo astrae e segrega. L' astrazione dell' universale dalle percezioni corporee si può intendere adunque in due modi: 1) nel modo in cui fu inteso volgarmente Aristotele, quasiché l' ente universale fosse già nelle percezioni corporee, e da queste si separasse come si separa un elemento da un altro: il che contraddirebbe all' altra dottrina aristotelica, che l' ente universale non si apprende dal senso, e che il solo intelletto l' apprende, e immediatamente; 2) nel modo, come l' abbiamo or ora noi proposta, che Aristotele introduca la percezione corporea unicamente come un' occasione, data la quale l' intelletto fa il suo atto d' intuire immediatamente l' universale, il quale però non è nel senso (come espressamente Aristotele dichiara), e però né pure in quello che il senso presenta. A vedere come questa seconda interpretazione sembri piú conforme alla mente aristotelica, ripassiamo la dottrina di questo filosofo circa la potenza intellettiva. Perocché egli distingue questa potenza dal senso; ma in un luogo sembra che la consideri piuttosto come un grado piú elevato del sentire, e cosí la faccia proceder dal senso; il che fu cagione che gl' interpreti rendessero Aristotele sensista, che pure se il fu, nol fu con coerenza. Ei dunque dice nel primo degli « Analitici Posteriori », che tutti gli animali hanno una potenza di discernere le cose, che si chiama da tutti senso. Ma questa potenza generica consta di tre potenze specifiche. Perocché, dato per natura a tutti il senso, 1) in alcuni non ci ha la permanenza del sensibile ; nei quali non vi ha conoscere eccetto il puro sentire; 2) in altri dopo le avute sensazioni permane il sensibile , ed in questi la forma sensibile che rimane è un quid unum , e la chiama memoria (piú propriamente direbbesi ritentiva); 3) finalmente in alcuni di questi ultimi le diverse forme sensibili che rimangono impresse si uniscono sí fattamente, che riman distinta la loro differenza, e ciò che hanno di comune e questo comune è la ragione , il concetto. Onde conchiude che [...OMISSIS...] . Questo è il luogo principale, al quale fermandosi, egli pare che Aristotele parteggi interamente coi sensisti. Ma non è da pigliare l' interpretazione cosí alla leggiera. E primieramente è notabile che in tutta la descrizione del modo onde la mente intuisce l' universale, punto non memora l' astrazione ; ma dice solamente che l' universale, il comune, rimane nell' anima da sé. In secondo luogo, soggiugne, che questo non può avvenire se l' anima non sia cotale, che possa questo patire . La qual parola patire è degna di osservazione; perocché non indica un' astrazione attiva. Il che solo, quand' anche non sapessimo altro della aristotelica dottrina, ci darebbe già forse a dubitare, se la spiegazione aristotelica dell' umano conoscimento sia conforme a quella dei moderni sensisti. In terzo luogo, l' intento aristotelico nel precitato discorso si è il dimostrare, che non vi hanno nell' uomo abiti determinati , e nominatamente l' abito dei principŒ , che chiama anco intelletto de' principŒ , ed è quanto dire la cognizione abituale de' primi principŒ del ragionamento. Ora noi concediamo tutto questo ad Aristotele, perocché non sosteniamo già che i principŒ del ragionamento, siano innati in noi, ed anzi non perveniamo ad acquistarli e formolarli se non coll' applicazione dell' idea dell' essere. E la loro formazione dee conseguentemente essere preceduta dalla percezione e dalle idee generiche e specifiche . Ma rimettiamoci sulle sue orme, e su quelle dell' Angelico che l' ha illustrato, e vediamo dove ci conduce quand' egli toglie a spiegare come deve esser fatta quell' anima che possa patire l' esperimento, pel quale rimane in essa l' elemento comune di piú cose sensibili, ossia l' universale. Allora quando l' anima è atta a ricevere in sé il comune di piú forme sensibili in essa rimaste, allora ella ha fatto l' atto d' intendere; allora i sensibili sono intesi. Ma i sensibili sono intelligibili per loro propria virtú? I sensibili hanno come tali un elemento universale da mostrare all' anima? poiché se essi hanno questo oggetto dell' intelligenza, già essi sono intelligibili per sé. Aristotele dice di no; dice anzi, che i sensibili rimasti nell' anima, che chiama anche fantasmi , sono intelligibili in potenza, ma non in atto. Se essi dunque sono conoscibili in potenza, ciò non può essere che rispetto a quell' anima, la quale intuisca l' universale dove potenzialmente si conoscono. Quell' anima dunque che può patire ciò che Aristotele chiama esperimento , dee possedere precedentemente qualche universale; altramente né conoscerebbe in potenza i fantasmi, né questi sarebbero in potenza conoscibili (1). Ma sotto questo nome di universale forse da niuna parte il rammenta, ma bensí sotto nome di lume. L' anima dunque, che può patire l' esperimento d' Aristotele, è quella che ha prima di tutto un lume, e che però non è un puro principio soggettivo; perocché il lume si distingue sempre dall' occhio che lo rimira. Ora quali sono gli effetti di questo lume dell' anima? Secondo Aristotele e l' Aquinate, essi sono due: il 1 si è di informare l' anima e perfezionarla per modo, che possa fare l' atto proprio dell' intelligenza; il 2 si è quello di rendere i fantasmi o forme sensibili, rimaste nell' anima dopo passate le sensazioni, intelligibili in atto (1). Quando dunque i fantasmi son essi resi intelligibili in atto? Secondo Aristotele e San Tommaso, quando l' anima aggiunse loro il lume che in sé possiede, cosí illustrandoli. Ma cosa è essere conoscibili in atto? Secondo i filosofi di cui parliamo, altro non è che essere conosciuti nel loro concetto, appunto l' universale, come Aristotele afferma espressamente. Dunque il lume senza il quale, secondo Aristotele, nessun' anima può patire lo sperimento deve essere l' universalità stessa, la quale tostoché s' aggiunga ai sensibili, senza bisogno d' altro lume sono conosciuti. Ma che cos' è questa universalità? e che perciò è il proprio oggetto dell' intendimento? Aristotele e San Tommaso ci dicono chiaro: « Intellectus est cognoscitivus omnium entium , dice San Tommaso, quia ens et unum convertuntur, quod est objectum intellectus (2) ». Dunque, convien dire, che l' universalità che aggiunge l' intelletto ai fantasmi, e cosí gl' illustra, sia appunto l' ente, che è concetto universalissimo onde tutti gli altri concetti ripetono veramente la loro universalità. Ma come mai dice dunque Aristotele, che l' anima nell' esperimento patisce, quando se ella dovesse aggiungere il detto lume, piuttosto opererebbe, e anzi che ricevere, darebbe del suo? Primieramente Aristotele considera il lume proprio dell' anima intellettiva, come forma o qualità passibile della stessa (3). Di poi, dice che vi deve essere nell' anima una potenzialità, di cui sia proprio omnia fieri , e chiama questa potenzialità intelletto possibile o intelletto in potenza. Ora l' intendere in potenza egli insegna non esser altro, che intendere nell' universale. Quello adunque che si può convertire in tutte affatto le cose conoscibili, non può esser altro che l' universalissimo, e questo è l' ente. Perocché: « « illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ens »(4) ». L' ente in universale adunque è quello che si cangia in tutte affatto le concezioni della mente, e a cui solo appartiene l' omnia fieri di Aristotele. Ed è da notarsi, che tutte generalmente le concezioni dell' intelletto, nel sistema aristotelico, sono considerate come qualità passive, o forme dell' anima (1). Quindi venendo l' ente in universale, che luce all' anima, a ricevere le determinazioni degli enti sensibili, in lui si fissa il comune generico e specifico di essi mediante le determinazioni del senso, e cosí l' ente in universale riceve o almen sembra che in tal fatto riceva. E considerandosi esso come parte dell' anima, dicesi che l' anima lo possiede, è atta a patire tali cose. Laonde, se Aristotele suppone che l' anima nell' intendere patisca; riconosce però, che l' anima ancora agisce nel suo atto d' intendere le cose sensibili, e in quanto ella agisce le dà la potenza dell' intelletto agente. Ora, come spiega egli quest' azione dell' anima? Primieramente egli dice che ella illustra i fantasmi, cioè aggiugne loro il lume, e cosí li fa conoscibili in atto; di poi ella astrae da essi, divenuti conoscibili in atto, l' universale. Ma che cosa è conoscibile in atto? L' ente: dunque, secondo Aristotele, l' anima considera nei fantasmi, nelle forme sensibili l' ente , e poiché con esso sono conoscibili in atto e senz' esso conoscibili solo in potenza; dunque l' ente è altresí il lume dell' intelletto agente, e i fantasmi vengono illustrati perché l' anima v' aggiunge questo lume ch' ella possiede. Dai fantasmi illustrati (2) l' anima astrae la specie, il genere, ecc., insomma gli universali di Aristotele (poiché la mente di Aristotele in quelli si fissa); e questo è facilissimo, poiché il lume aggiunto ad essi è appunto l' elemento universalissimo, che diviene genere e specie tostoché si può limitare e determinare. Conchiudasi adunque, che secondo Aristotele, in quanto l' anima possiede l' ente, ella ha un elemento che diviene ogni cosa conoscibile, e però dicesi ch' ella ha un intelletto possibile ; in quanto ella ricevendo le sensazioni, e ritenendone i vestigŒ, se ne serve come di determinazioni dell' ente, e cosí conosce intellettivamente gli enti, dicesi che ella ha l' intelletto agente . L' anima non ha dunque innata la cognizione abituale dei principŒ, né alcun abito determinato, ma solo la potenza di conoscere. Quell' anima adunque è intellettiva, e può patire l' esperimento , la quale avendo in sé l' universalissimo, lume che illustra i sensibili, ha conseguentemente la potenza di conoscere le cose tutte, mediante un primo atto di conoscere innato; perocché l' intelletto agente, come anco indica la parola intelletto, è per Aristotele un conoscere in atto, in atto cotale, nel quale si conoscono in potenza tutte le altre cose determinate (1). L' Aquinate insegna che l' intelletto possibile di Aristotele sta all' intelligibile in atto, come l' indeterminato al determinato; ed è appunto questa la maniera di dire da noi adoperata ad esprimere la relazione fra l' essere puro, che è al tutto indeterminato, e le specie e i generi, che sono lui stesso piú o meno determinato. Dice l' Angelico, che l' intelletto possibile non ha determinatamente la natura di alcuna cosa sensibile; e questo diciamo noi dell' essere in universale. Quindi Aristotele paragona l' intelletto alla tavola, che non porta ancora pittura determinata. E questa similitudine oltremodo conviene all' essere in universale. Aggiunge San Tommaso, che se vi avessero nell' intelletto gli oggetti determinati, cesserebbe il bisogno de' fantasmi ad intendere le cose sensibili. Dice ancora, che come il lume non ha in sé alcun colore, eppure riduce ad atto tutti i colori; cosí fa l' intelletto agente perché fornito del lume; ed aggiunge che egli partecipa questo lume dalle sostanze separate. Questo lume non è dunque l' intelletto soggettivamente preso, ma è l' oggetto indeterminato che informa l' intelletto, come il lume materiale non è l' occhio, ma quella forma visibile all' occhio per se stessa, per la quale e nella quale vede tutti i determinati colori. Finalmente lo stesso Angelico Dottore osserva, che Aristotele chiama l' intelletto agente anche abito , benché non abito determinato. Ora ogni abito intellettivo suppone un oggetto. Convien dunque dire, che l' intelletto differisca appunto in questo dalle altre potenze intellettive, ch' egli ha in sé la natura di potenza e di abito primitivo (1). Le quali cose tutte intorno alla mente di Aristotele e di San Tommaso ho voluto dire, perché noi non ne vogliamo già spezzare il filo della tradizione della scienza e della verità, ma ci studiamo anzi con tutte le nostre forze di rannodarlo. Dall' analisi adunque della nostra cognizione dei reali o sussistenti, risulta: 1) che la sua base è il puro sentimento (o ciò che cade nel sentimento), il qual sentimento nella mente umana non è ancor ente, perché si prende qui come è anteriormente alla percezione; 2) che la mente lo apprende come termine dell' essere iniziale (il quale è l' essenza dell' ente), e cosí appreso il sentimento è divenuto per la mente un ente, è divenuto sentimento7ente; 3) ma l' ente è cosí fatto, che egli ha due modi, ideale e reale. Quindi la mente, come ogni ente, cosí pure quell' ente7sentimento, di cui si tratta, può considerarlo come ideale e come reale ; 4) ma la forma ideale contiene sempre la stessa essenza dell' ente: dunque niun ente può essere concepito dalla mente privo di questa forma. All' incontro la forma reale non sempre contiene l' essenza dell' ente: ciò non s' avvera che nell' Ente essenzialmente reale, che è l' Ente necessario ed assoluto: gli altri tutti si dicono contingenti, appunto perché la loro realità non abbraccia l' essenza dell' ente. Quindi acciocché si percepisca anche la realità di questi, l' intendimento deve esperimentarne (sentirne) l' azione: mosso da questa esperienza, egli fa quell' atto di affermazione, col quale percepisce l' ente contingente anche come reale. Prima di riprendere il cammino, conviene che qui riassumiamo il problema dell' Ontologia. Il problema dunque è questo. L' essenza dell' essere è una; e ciò perché ogni essenza è una. E di vero, se io penso piú esseri, questi non possono esser piú, se non perché ciascuno ha l' essenza dell' essere: ma questa essenza deve essere la medesima, non un' altra; perocché se fosse un' altra, non sarebbero piú esseri, come si suppone, ma l' uno sarebbe essere, e l' altro sarebbe qualche altra cosa. Or quinci appunto si fa innanzi il problema dell' Ontologia: « Se l' essenza dell' essere è una, come gli esseri sono piú? ». Il rispondere solamente, che i piú esseri partecipano l' essenza unica dell' essere ma non sono dessa, è insufficiente a scioglierla; perocché si replica: « Supponendo che i molteplici enti partecipino l' essenza dell' essere, si suppone che v' abbiano due cose: un ché partecipante, e l' essenza partecipata: ma questo ché partecipante è egli essere? e se non è essere, che cosa è, quando nulla v' ha fuori dell' essere? ». [...OMISSIS...] come si disse in Italia, fin da quando si cominciò a filosofare. Intendere la difficoltà di questo problema è aver fatto un gran passo avanti nella filosofia. E ad intenderlo giova conoscere quante disputazioni sieno state agitate intorno ad esso: come tutta l' antica filosofia classica, cioè la filosofia italiana (perché anche la greca non è che la filosofia italiana continuatasi a svolgere) si dibatté continuamente e s' infranse entro la cerchia di questo sommo problema. A tre si riducono tutte le sètte dei filosofi. La prima è di quelli che atterriti dalla difficoltà del problema di conciliare l' unità dell' essere colla pluralità degli enti, negarono questi, e presero per motto «hen ta panta» ( unum omnia ), e ancora piú propriamente «hen to on» ( unum esse ): motto con cui fu designata la filosofia di Parmenide (1). Altri presero l' opposta via, negando l' unità dell' essere, e il motto di questa sètta fu «ta polla» ( multa ). Finalmente vennero le filosofie piú mature di Platone e d' Aristotele, i quali s' accorsero che né si poteva negare l' unità dell' essere, né la moltiplicità degli enti: ond' ebbero per loro motto «hen aei polla» ( unum et multa ), ovvero «hen polla» ( unum idemque multa ). Le due prime sètte non isciolsero il nodo, ma lo tagliarono annullando l' uno dei due termini; la terza tolse veramente la fatica di scioglierlo. Vero è che lasciarono a noi dei semi preziosi di verità, ma mancarono ad essi tre cose. 1) Non giunsero a discoprire che v' ha in questo problema una parte oscura ed invincibile. Essi s' accorsero bensí che rimaneva sempre qualche cosa di vago, di oscuro, d' incerto, onde molto dissero, specialmente Platone, sulla necessità d' un intervento dell' Essere supremo, acciocché ci si scoprisse con pienezza e certezza la verità, e l' arcano della natura ci fosse disvelato (2); ma, non avendo potuto trovare questo punto oscuro, ben sovente trapassarono il confine della mente, cioè pretesero di dire ciò che non si può sapere. Noi crediamo d' avere con precisione dimostrato in che consista questo punto ignoto, che sparge ombra su tutta la scienza ontologica conceduta all' umana mente: abbiamo detto che l' elemento ignoto è precisamente l' atto creativo , perocché, non cadendo questo nell' intuito dell' umana intelligenza, si può bensí colla riflessione conchiudere che ci deve essere, ma non si vede quale. 2) Ciò che dissero di vero, appena il toccarono, con un linguaggio breve, misterioso, né poterono quindi svolgere con chiarezza i loro concetti. 3) Finalmente riuscirono in frequenti contraddizioni, le quali o non si possono comporre o, se si possono, altrettanto studio e travaglio addimanderebbero, quanto la soluzione del problema medesimo. Delle due prime sètte la seconda, piuttosto che filosofia è volgare opinione, ed essa formò appunto que' filosofi che Cicerone chiama plebei: ma l' altra contiene un altissimo errore, e cosí ingegnoso e profondo, che può far gabbo alle menti piú perspicaci; anzi questa sola fu quella che vide il nodo della questione e ne fu vinta. Parmenide mise questo nodo in aperto, forse il primo di tutti, con mirabile sforzo d' ingegno ed eleganza di esposizione, come si scorge da' frammenti del suo poema «peri physeos» che ancor ci rimangono. Fissò l' acume del suo ingegno nell' essenza dell' ente, e argomentando da questa, tutto ridusse all' unità assoluta: attribuí l' origine della varietà ai sensi, e li dichiarò ingannevoli: onde disse ciechi gli occhi e ottusi gli orecchi e la lingua (1). Con questa maniera d' argomentare, dove non si può a meno di scorgere una mirabile forza logica, egli prova che l' essere è semplicissimo, ed è ogni cosa; e che perciò tutto è uno; e la pluralità non sono che fenomeni, cioè illusioni vane de' sensi. Il lettore sagace non potrà a meno di sentir qui tutta la difficoltà che presenta il problema ontologico a scioglierlo; la difficoltà che si trova a rispondere con rigore logico all' arguire dell' eleatica filosofia; di questa filosofia che fu indubitatamente quella che fecondò l' ingegno di Platone. In Platone stesso, come dicevamo, invano se ne cercherebbe una compiuta soluzione. Ma ciò che vide di vero questo gran filosofo, si fu il fatto che da una parte l' essere è uno, dall' altra gli enti sono piú, e che non conviene distruggere né l' un membro né l' altro del gran problema. Se egli è certo che l' essere è uno, e gli enti sono piú; dunque convien dire che la parola essere in questa proposizione « l' essere è uno »abbia un significato diverso dalla parola ente in quest' altra proposizione « gli enti sono piú »: altrimenti le due proposizioni sarebbero contraddittorie. Che cosa significa adunque la parola essere in questa proposizione: l' essere è uno? Certamente significa « l' essenza dell' essere »senz' altra minima giunta, sia che una qualche giunta le si possa fare, o no. Ora che cosa è l' essenza dell' essere senza piú? Noi vedemmo ch' egli non è già l' essere compiuto con tutti i suoi atti e termini, ma solamente l' essere iniziale «( N. S. , n. 1437) », l' iniziamento dell' essere. Ma nell' essenza dell' essere non si contiene egli ogni essere, ogni ente, ogni entità, ogni atto, ogni termine? Perocché ciò che è fuori dell' essenza dell' essere, se c' è, non essendo essere, sarà dunque nulla; come Parmenide arguiva. Qui appunto è dove sta il piú forte della questione. Ma noi abbiamo detto: I « Che nell' essere iniziale si contiene certamente tutto l' essere, ogni ente, entità, atto, termine, modo » - e questo è quel che vide Parmenide - ; ma che tutto ciò vi si contiene in un modo solo , e questo è quel che Parmenide non vide; il qual modo si chiama appunto iniziale, ideale, manifestativo, ecc.. Ora, posciaché l' essenza dell' essere contiene tutto, ella si chiama semplicemente essere . Ma, posciaché ella contiene tutto solo in un modo, non è assurdo che l' essere possa ancora avere altri atti diversi da quello, benché questi stessi atti sieno compresi nel primo, non al modo loro, ma al modo del primo. Laonde noi ci siamo spinti nell' investigazione dei varŒ modi dell' essere, e ne trovammo tre primordiali, ideale, reale, morale : e quest' è la prima divisione dell' ente, o moltiplicità che si trova nell' ente stesso, che denominammo « divisione categorica dell' ente ». E poiché questi modi sono la base delle categorie, rimase in tal modo sciolto il problema delle categorie. Ora ciò in cui si deve porre soprattutto attenzione, è sulla denominazione d' iniziale data all' essere in quanto è nel modo ideale . Poiché quando si dice che quell' essere è l' inizio di ogni essere , si prende la parola inizio in quel senso nel quale si dice « che l' idea o tipo ideale d' una torre è l' inizio d' una torre ». L' idea della torre e la torre materiale differiscono categoricamente (la qual differenza è la massima di tutte le differenze); e pure dall' idea della torre e dalla torre materiale caduta sotto gli organi sensorŒ si forma per noi un solo ente, un solo oggetto di percezione; il qual oggetto ha un inizio (torre ideale) e un termine (torre reale); e solo quando questi due elementi si compongono nella mente, allora ci ha per la mente l' ente reale che denominasi torre. Ogni qualvolta dunque si applicano i vocaboli di principio e termine entro l' ordine dell' essere reale, il principio è reale, il termine pure è reale; non differiscono categoricamente. Ogni volta che s' applicano entro lo stesso genere o entro la stessa specie di enti reali, il principio e il termine appartengono allo stesso genere o alla stessa specie. Ma nella percezione intellettiva (dove si forma l' oggetto del pensiero, l' ente) il principio e il termine né appartengono allo stesso genere, né alla stessa categoria, ma sí allo stesso ente. Poiché l' ente ha due faccie, coll' una delle quali guarda l' eternità, coll' altra il tempo: cosí giacendo nel talamo della mente il nesso della composizione dell' ente percepito, fanno tra sé il connubio il temporale e l' eterno (1). Fin qui si spiega come l' essere, benché uno nell' essenza , abbia nondimeno una trinità di modi. Questo è già un passo immenso; perocché si è già introdotta una pluralità a lato dell' unità , senza contraddizione. II Quando dunque si dice « l' essere è uno, non generato, unigeno, immobile, eterno, infinito », nel senso di Parmenide, la parola essere viene presa a significare bensí l' essere, tutto l' essere, ma in uno solo de' suoi tre modi, nel modo ideale . Quel primo modo contiene l' essenza dell' essere. Ma quest' essenza si manifesta ella a noi intieramente? Ecco un' altra questione. Ora, il fatto dimostra che l' essenza dell' essere essa sola contiene bensí ogni cosa, ma in potenza; fa conoscere tutto, ma solo potenzialmente, non attualmente: e che è la fina osservazione d' Aristotele. Appunto perché lo contiene unicamente in potenza, ella appare cosí uniforme e senz' alcuna moltiplicità. Ma primieramente noi vedemmo che l' essere ha tre suoi atti primi assoluti e totali, ossia che è in tre modi. Questi tre modi debbono certamente appartenere all' essenza dell' essere, appunto perché son modi ed atti primi dell' essere. Ma in quella guisa, onde la mente umana intuisce la pura essenza dell' essere, questa non vi trova ancora né il modo reale, né il modo morale. Dunque il modo reale e il modo morale vi è come sommerso, non apparente, indistinto; e in somma in potenza. Dunque se questi due ultimi modi appartengono all' essenza dell' essere - nel modo proprio dell' essenza - e tuttavia l' uomo, quando intuisce la semplice essenza, non ve li distingue, convien dire che l' essenza dell' essere è data all' uomo ad intuire incompletamente; e per questo difetto, dalla parte dell' intuizione dell' uomo, quella essenza appare cosí uniforme ed uguale come la ha descritta Parmenide. Questo gran filosofo adunque non si accorse di questa limitazione della mente umana; e ragionò di quell' essenza dell' ente, che è data vedere alla mente, come fosse la essenza intera, completa ed assoluta dell' ente. Tale è la sostanza delle cose ragionate precedentemente: rimane a vedere qual sia la via che ci resta ancora a percorrere per conciliare la moltiplicità degli enti e delle entità coll' unità dell' essenza dell' essere. L' essere è uno, ma egli identico ha tre atti essenziali. Se non si avesse altra distinzione dell' essere che questa, la questione sarebbe in qualche modo ultimata. Ma l' esperienza ci porge ben altra pluralità (1). Ella ci mostra in primo luogo che in ciascuno dei tre ordini cade pluralità, vi ha una pluralità ideale, una pluralità reale, una pluralità morale. In secondo luogo, l' esperienza ci mostra che almeno nell' ordine reale la pluralità degli enti e delle entità eccede l' essenza dell' ente; perocché gli enti che si dicono contingenti, non si mostrano racchiusi nell' essenza stessa dell' ente, eziandio che questa fosse a noi tutta manifesta. Ma, se si considera che è solo il contingente che introduce pluralità nell' ordine ideale e nell' ordine reale, di maniera che questa pluralità ne' due ordini è spiegata solo che si spieghi la pluralità de' contingenti; le due questioni che rimangono son queste: 1) Come può darsi un ente fuori dell' essenza completa dell' ente, come sembra che sia il contingente, quando fuori dell' essenza completa dell' ente non si concepisce che il nulla? 2) Onde la pluralità dell' essere contingente? La prima di queste due questioni è quella della possibilità della creazione; la seconda è quella della creazione stessa. L' una e l' altra riguardano il rapporto che ha l' essere contingente coll' essenza completa dell' ente; e l' essenza completa è l' essere assoluto, Iddio. Spettano dunque entrambe alla parte teologica e cosmologica della scienza. Le stesse quistioni nondimeno diventano ontologiche, quando si considera il contingente in rapporto coll' essenza astratta quale cade nell' intuito della mente. Ora, sotto questo aspetto le due questioni accennate si cangiano in altre: 1) Come noi possiamo vedere nell' essenza dell' essere quello che in quell' essenza non è, cioè il contingente? 2) Che cosa costituisca la pluralità dei contingenti? Cioè, non già come si origini il contingente, ché con ciò si torna alla creazione; ma come dall' esame del solo contingente si possa trovare e determinare precisamente ciò che lo renda cosí multiplo, come l' esperienza ce lo rappresenta. Quanto alla prima questione, noi abbiamo veduto: in primo luogo che la possibilità logica e metafisica di tutti i contingenti si contiene nell' essenza dell' essere, e quindi niuna meraviglia è che coll' essenza dell' essere si conoscano. In secondo luogo essi non sono enti se non perché si considerano uniti alla essenza dell' essere; e in quanto poi sono mere realità, precise dall' essenza dell' ente, intanto non sono punto conoscibili né tampoco concepibili. Ma come queste realità si possono unire coll' essenza, e cosí renderle concepibili, se sono all' essenza dell' essere straniere? E se sono straniere all' essenza, non sono essere. E se non sono essere, che sono? Queste domande ci riconducono alla questione teologica e cosmologica. Ma posciaché ne toccammo qualche cosa, qui riassumerò il detto. E` dunque da considerarsi che l' essere è in tre modi, l' ideale, il reale, il morale. Ora il contingente si riferisce al modo morale, perché la causa di lui non può essere che un agente libero «( N. S. , n. 299 n. ) », e la libertà appartiene all' ordine morale. Se dunque l' essere per essenza è libero, egli per essenza altresí può terminare l' atto suo liberamente. I termini di quest' atto libero, sono le realità contingenti. Dunque anche queste realità, come termini dell' atto libero, vengono ad esser compresi nell' essenza dell' essere. Rimane dunque l' altra questione: « Che cosa costituisca la pluralità de' contingenti? ». E qui si presenta tosto una gravissima domanda che forma l' argomento di questo libro. E` ella la dialettica, quella che moltiplica gli enti, come pretende Hegel? O la pluralità delle cose è ella indipendente affatto dalla mente umana? ha un fondamento nelle cose stesse? Ecco la gran questione: questione che a chi non s' è addentrato nelle profondità dell' Ontologia sembra superflua; ma che riesce tuttavia piú difficile a sciogliersi piú che la mente la penetra a fondo. Noi dobbiamo adunque, prima di tutto, esporla con chiarezza, e farne sentire la difficoltà. Qualunque cosa, di cui l' uomo ragioni, affermi o neghi, distingua o confonda, divida od unisca, ella è sempre una cosa da lui conosciuta. Da questa considerazione generale fu mosso l' autore dell' idealismo trascendentale, Emanuele Kant, a conchiudere: [...OMISSIS...] . Ma per una incongruenza, di cui fu redarguito da' suoi successori, escluse da questa sentenza le cose spettanti all' esperienza sensibile, alle quali lasciò una cotale realità pratica indipendente dalla mente; dicendo delle insensibili, che esse certo erano nella mente, incerto se anche fuori di essa. Fichte, credendo di partire da un vero inconcusso che tutte le cose non eran per l' uomo se non entro la sfera dell' Io pensante, disse di piú che non poteano esser al di fuori dello stesso Io: anche perché da' visceri dell' Io pensante si vedevano derivare; giacché tutte si ponevano con altrettanti atti dell' Io. Cosí la questione logica passò ad essere pienamente ontologica : non si trattò piú come le cose tutte si conoscessero, ma come si producessero. Ma in questo sistema rimaneva distinto ciò che poneva l' Io co' suoi atti, dall' Io ponente: l' atto del porre non poteva essere la cosa posta. Di piú l' Io poneva piú che se stesso, perché poneva l' assoluta perfezione, a cui egli sempre aspirava senza però raggiungerla. A Schelling questi parvero altrettanti difetti di quel sistema. Onde egli credette di aver fatto una grande scoperta dicendo che bisognava identificare l' Io ponente e l' Io posto, od anzi l' Io ponente con tutto ciò che l' Io poneva, e però anche coll' Infinito: il soggetto coll' oggetto; e persuaso d' aver fatto con ciò un sistema nuovo, l' intitolò il sistema dell' Identità assoluta . Applaudí Hegel al pensiero del suo maestro; ma pensò di togliere il vago e l' indeterminato di quest' identità assoluta col darle il nome d' Idea , quasiché con un nome si potesse raggiustare una dottrina: e cosí pose un' idea che fosse tutto, e divenisse tutto. A tal fine conveniva, che l' Idea fosse pensiero, e che il pensare fosse tutto, e l' Idea, essendo pensante, tutto divenisse con atti di pensiero. Essendo questa la necessità del suo sistema, tutte queste cose asserì della sua Idea; giacché, secondo il metodo di filosofare della scuola tedesca, l' asserzione continua ed imperterrita toglie ogni difficoltà. Quindi la dialettica divenne per questo filosofo la creazione stessa di tutte affatto le cose, che altro non erano se non determinazioni dell' Idea, determinazioni che l' Idea poneva con atti di pensiero, uscendo da se stessa, e rientrando continuamente in se stessa con movimento dialettico. Noi abbiamo piú volte indicati i profondi errori e i grossolani assurdi di questi sistemi. Ma, posciaché niun sistema erroneo sarebbe possibile se non tenesse del vero, nel libro presente dobbiamo tornare sull' argomento per additare altri errori. La questione dialettica è dunque questa: « Se il pensiero ponga una separazione reale tra le cose »: ossia « se la pluralità degli enti contingenti dipenda dal pensiero ». A nostro parere, si deve prima di tutto distinguere il pensiero in se stesso, e nel suo movimento. La dialettica , propriamente parlando, altro non è che il movimento del pensiero ordinato dalle sue proprie leggi; cosí presa la dialettica niente produce di reale, niente separa, niente moltiplica, ma solo distingue, e produce degli esseri di ragione. Ma, se si considera il pensiero in se stesso; se per dialettica s' intende tanto il movimento del pensiero, quanto lo stesso pensiero: in tal caso ancora la dialettica, il pensiero, niente produce e moltiplica da sé solo considerato, ma co' suoi aggiunti contribuisce alla produzione e moltiplicazione degli enti contingenti, di cui l' uomo pensa e ragiona, nel modo che si dirà. Noi crediamo di avere stabilita una base immobile all' umana certezza, il punto fermo su cui posare la leva del ragionamento, nell' essere ideale. Abbiamo mostrato che questo è ciò che tutto il mondo appella verità . All' uomo dunque è data per natura la verità stessa, e basta che ad essa ei si attenga, e la accetti dovunque ella si mostra, perché la sua mente conseguisca pienissima pace. Ma vogliamo ora solamente dimostrare, che tutti, anche quelli che non conoscono né intendono scientificamente come sia che il pensiero dell' uomo si fondi sulla verità stessa e perciò solo esista, forz' è che credano al pensiero. Infatti gli scettici stessi, quando vogliono provare col ragionamento il loro scetticismo, mostrano che credono e pretendono che gli altri credano a que' principŒ su cui fondano il loro ragionamento: credono dunque al pensiero che somministra loro quei principŒ. I Kantiani, quando dicono che le forme del ragionare sono soggettive, e però non hanno virtú se non di provare entro la sfera del soggetto pensante, tolgono al pensiero la fede in ciò ch' egli dice: perocché il pensiero dice anzi il contrario; esso dice che quelle forme sono assolute e assolutamente veraci. E tuttavia credono al pensiero, perocché essi partono da questo principio: « Gli atti di un soggetto non possono uscire dal soggetto di cui sono atti; dunque né pure i loro oggetti possono esser altro che condizioni, modificazioni, leggi d' operare del soggetto stesso ». Ma chi ha somministrato loro questo principio? Il proprio pensiero: credono dunque al pensiero; e la questione non riguarda « se si debba credere sí o no al pensiero », ma unicamente « se il pensiero dica questo, o dica quest' altro ». Gli Hegeliani dicono che altro non v' ha che un' idea, la quale pel proprio movimento si trasforma in tutte le cose. Ebbene questa maniera di ragionare suppone che l' autore di essa creda al pensiero; creda ai principŒ, su cui egli ragiona, che gli sono somministrati dal pensiero; creda all' idea, al pensiero dell' Idea, alle determinazioni che ne nascono; insomma a tutto ciò che il pensiero somministra. Convien dunque partire dal principio ammesso da tutte le parti, che « al pensiero non si può negar fede »: resta solo a consultare per sentire ciò ch' egli dice di se stesso. Movendo da questo punto fermo, possiamo pervenire a conoscere qual sia il primo errore dialettico della filosofia di Hegel, dal quale errore tutti gli altri provengono. E a scoprirlo e metterlo in evidenza, useremo il seguente discorso. Alcuni pensieri non si possono concepire senza averne precedentemente concepiti altri nei quali quelli sono virtualmente contenuti. Di qui procede che i pensieri posteriori i quali si ammettono in virtú degli anteriori in cui si contengono, non possono mai di loro natura distruggere gli anteriori che gli hanno generati, e da cui ripetono ogni loro autorità. Quindi sarebbe cosa assurda il pensare che la conseguenza, tratta da un principio, avesse virtú di annullare il principio da cui è tratta, giacché ella stessa non esiste, né ha nessun legittimo valore, se non in quanto esiste ed ha valore il principio. Per tale ragione dei contrarŒ, accade che se una conseguenza è assurda, sia assurdo anche il principio da cui si trasse. Quindi ogni qualvolta taluno stabilisce qualche argomentazione fondata sopra un ordine di pensieri posteriori, e pretende con tale sua argomentazione di distruggere l' autorità e il valore dei pensieri anteriori, vi dev' essere indubitatamente un vizio logico nel suo modo di argomentare. Or tale appunto è il vizio che corrompe nella sua radice il sistema di Hegel, e tutta la scuola tedesca da Kant a noi. Perocché ella, partendo da pensieri derivati ed ammettendoli come certi, si sforza di adoperarli a perdizione e distruzione dei pensieri anteriori, onde quelli derivano, e tolti via i quali, anche quelli son tolti. Questo è il primo errore dialettico del kantismo e dell' hegelismo: vediamolo. Qual' è l' ordine dei pensieri puri? Egli può esser espresso nel seguente schema. I Intuizione dell' essere in universale e indeterminato. II PrincipŒ supremi del ragionamento. III PrincipŒ medŒ . IV Forma del sillogismo. Quindi conséguita, che chi movesse il suo ragionamento dalla considerazione delle forme de' sillogismi, o pretendesse servirsene per distruggere l' autorità dei principŒ medŒ o supremi, cadrebbe nell' errore di logica che abbiamo indicato, poiché le forme sillogistiche non si possono ammettere senza già aver ammessi per buoni quei principŒ. Del pari errerebbe colui che, partendo da qualche principio medio pretendesse di distruggere i principŒ supremi. Finalmente sarebbe viziosa l' argomentazione di colui che, fondando il suo argomentare sui principŒ supremi, togliesse a negare e annullare quella verità che presenta l' intuizione dell' Essere, e che è fonte e vita di tutti i principŒ e di tutte le verità. Di che potremo trovare la formola del primo e universale paralogismo dialettico, la quale è questa: « ogni qualvolta si ammette il valore de' pensieri posteriori, e si pretende di stabilire su di questi una argomentazione v“lta a distruggere il valore del pensiero anteriore, vi ha paralogismo ». Kant muove il suo filosofare da un principio medio, e de' piú bassi, il quale è questo: « « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi » ». Su questo principio fonda un' argomentazione colla quale pretende distruggere il valore oggettivo dei principŒ supremi, e dell' intuizione dell' essere, e per conseguenza anche delle forme del sillogismo, argomentando in questo modo: « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi; Dunque anche il pensante pensa secondo le proprie leggi; Dunque il pensiero dell' uomo, soggiacendo alle leggi del soggetto limitato come l' uomo, non può avere un valore oggettivo ed assoluto, ma soltanto un valore soggettivo e relativo. Dunque i principŒ anche supremi del ragionamento, l' intuizione dell' Essere, le forme del sillogismo, non provano già quello che mostrano di provare, ma altro non danno che apparenze soggettive, che hanno valore per l' uomo, ma non in se stesse, o almeno non si può sapere se l' abbiano ». Questa argomentazione pecca del vizio indicato, di far cioè che il pensiero posteriore distrugga i pensieri anteriori, da cui esso è nato. E veramente muove dal principio « che ogni soggetto opera secondo le proprie leggi ». Questo principio si ammette come assoluto: egli è universale: abbraccia tutti i soggetti; suppone dunque che il pensiero conosca i soggetti possibili, e il modo del loro operare. Questo è il medesimo che supporre che il pensiero abbia una virtú e autorità oggettiva: che le cose siano com' esso dice che sono. Dunque questo principio: « il pensiero ha un' autorità ed un valore oggettivo, il pensiero fa conoscere le cose come sono in se stesse », è un principio che appartiene ad un ordine anteriore a quello dell' altro principio su cui si fonda l' argomentazione kantiana: « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi ». Questo secondo pensiero non può essere adoperato giammai per annullare il valore oggettivo del suo antecedente, che è appunto questo: « che il pensare ha un valore oggettivo ». Si dirà forse: E bene, anche il principio da cui muove Kant abbia un valore subiettivo: cosí sarà tolta la contraddizione, e tutto il sapere umano, non avrà mai piú che un valore subiettivo. - Rispondo: Per dir questo dovreste aver prima provato che « ogni pensare ha un valore subiettivo »; ma questo è appunto quello che si tratta di provare, e che non si può provare, stando alla vostra argomentazione, se non si ammette come oggettivamente certo il principio « ogni soggetto opera secondo le sue proprie leggi ». Non potete dunque addurre alcuna dimostrazione che ci provi che questo principio « ogni soggetto opera secondo le sue proprie leggi »sia valido solo rispetto al soggetto, e non lo sia assolutamente ed oggettivamente. Che vi abbia dunque nell' argomento kantiano un esiziale paralogismo, risulta evidentemente dal conoscere che « con un principio posteriore si toglie ad annullare quanto attestano i principŒ anteriori, da' quali quel principio posteriore dipende »(1). I successori di Kant, e specialmente Hegel, lungi dall' accorgersi del paralogismo, altro non fecero che spingere avanti la fabbrica, lasciata difettosa dal suo fondatore, solo perché incompleta. Dice Hegel che Kant pretese di togliere via le contraddizioni della ragione - contraddizioni per altro che non sono della ragione, ma de' nostri filosofi, i quali imputano la brevità e il difetto delle loro proprie vedute alla ragione stessa - e la lotta che hanno insieme le nozioni opposte, per esempio quelle di finito ed infinito, attribuite entrambe da Kant all' universo, trasportandole dal di fuori dentro allo spirito. Ha ragione dicendo che un cosí fatto ripiego non sana l' assurdo di quelle contraddizioni, non pacifica quella lotta, perocché altro non se n' ha, se non che invece d' esser diviso contro sé e squarciato il mondo, rimane diviso contro sé lo stesso spirito. Ma qual nuovo rimedio propone Hegel? Egli fa scomparire, è vero, con Schelling dalla sua idea le dette contraddizioni, supponendo che in essa nulla v' abbia di distinto e di determimato; e dove niente è distinto e determinato, certo è tolta la pluralità, e cosí la possibilità di piú elementi contrarŒ. Ma finalmente quell' idea col suo movimento dialettico genera, secondo Hegel, quelle istesse contraddizioni fino a dichiarare l' essere uguale al nulla e la mancanza di questa derivazione dialettica di tali forme è il difetto che Hegel rimprovera a Kant. Or dunque se l' idea - e non v' è altro che l' idea per Hegel, giacché ella è tutto, ella divien tutto - è quella che produce le nozioni contrarie e le supposte contraddizioni e antinomie della ragione, non rimane cosí ne' suoi visceri lo stesso assurdo? Come Kant adunque rimosse la pretesa lotta dal mondo, e la lasciò nello spirito; cosí Hegel la rimosse a dir vero anche dallo spirito, nella condizione di atto e di effetto, ma ve la lasciò poi nella condizione di potenza, cioè la lasciò in causa nell' idea. Perocché se l' idea la produce, la deve altresí virtualmente contenere, giacché l' effetto trovasi sempre nella virtú della causa; e quest' è quello che Hegel stesso confessa: onde, venendo tolto il principio di contraddizione nella sua stessa radice, torna qui l' oppugnazione d' un pensiero anteriore - qual è il detto principio - da cui debbono pure ricevere il loro valore, se ne hanno, tutte le posteriori argomentazioni del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . Non si può negare che qui si rilevi con molta acutezza una interna contraddizione del kantismo. Kant riconobbe che le forme logiche per se stesse hanno un valore oggettivo, hanno valore di far conoscere le cose in sé (1); ma poscia disse che mancava loro la materia, che questa non era che fenomenale, perché fuori di esse, data dall' esperienza de' sensi; onde quelle forme fatte per conoscere le cose in sé, mancavano tuttavia di valore, non si conosceva per esse che fenomenalmente. Questa contraddizione del Kantismo è importantissima a notarsi. Fichte cercò rimediarvi col supporre, che anche la materia, non solo le forme, provenisse dall' anima. Ma questo era un lasciar il solo soggetto produttore del suo oggetto: in tal caso né le forme logiche né la loro materia avevano piú un valor oggettivo. Questa loro oggettività era apparente, fenomenale; se si toglieva con ciò la contraddizione Kantiana, non si ammigliorava la condizione del conoscere. Che anzi, a dire il vero, anche la contraddizione rimaneva, perché da una parte il conoscere pareva oggettivo, dall' altra si dichiarava soggettivo. L' apparenza oggettiva lottava dunque colla natura soggettiva: l' Io ingannava dunque se stesso. Che cosa fece Hegel? 1) Hegel ritenne quello che aveva ritenuto Kant, che le forme logiche avessero un valore oggettivo; 2) disse, che il far venire la loro materia dal di fuori, cioè dal senso, importasse altrettanto che renderle inutili a produrre una conoscenza oggettiva. Questo era quello che aveva preteso Kant. Ma Hegel ammettendo che se la materia venisse dal di fuori alle forme logiche, queste sarebbero inutili, pensò con Fichte che dal di fuori elle non dovesser venire; 3) disse ancora, che Fichte aveva invano preteso di rimediare al male, col dedurre tanto le forme logiche quanto la loro materia dal soggetto, dall' Io; perocché con ciò non solo la materia rimaneva di una verità soggettiva; ma le stesse forme logiche incorrevano nella stessa rovina; e però il loro mostrare la cosa in sé diveniva apparente; 4) disse che dunque conveniva ammettere che le forme logiche avessero un valore oggettivo, e che portassero altresí la loro materia in se stesse, con che anche la materia loro diveniva oggettiva, ed il sapere oggettivo ed assoluto veniva cosí assicurato. Questo ragionamento facilmente illude, parendo che sia rigorosamente logico. Ma ch' esso non possa esser tale, il dimostrano anche i falsi ed assurdi conseguenti che ne derivano. Uno di questi si è che in tale sistema non potrebbe piú aver luogo l' errore (1), né rimarrebbe piú luogo a spiegare come il sapere umano fosse limitato. Una verace e compiuta filosofia deve dar ragione sufficiente non solo di ciò che l' uomo sa, ma ben anco di ciò che non sa: deve non solo spiegare tutti i progressi dello spirito umano, ma ben anco giustificare i lamenti altissimi che mandò la filosofia di tutti i tempi, d' accordo in questo col senso comune, sulla brevità dell' umana mente, sulla difficoltà di trovare il vero, sull' impossibilità di trapassare certi confini, sulla facilità d' errare. Dove sta dunque il vizio del mentovato ragionamento di Hegel? Esso sta qui, nell' aver egli accettata per buona quella sentenza di Kant che sosteneva non potere le forme logiche avere un valore oggettivo, quando la materia, a cui venivano applicate, giacesse fuori di esse. Ammessa quella sentenza tanto da Kant quanto da Hegel, essi si divisero solamente sul fatto: perocché a Kant parve che il fatto fosse appunto questo, che la materia venisse presa dallo spirito umano fuori delle forme logiche, e ne seguitasse quindi la rovina del sapere oggettivo; invece Hegel, trovando assurda questa conseguenza, negò il fatto, e disse che nelle stesse forme logiche dovea esser contenuta anche la materia del sapere. Il pensiero di Hegel aveva contro di sé: prima di tutto, il senso comune degli uomini, che attesta il fatto andare altrimenti; e di poi l' autorità di tutti i piú gravi filosofi antichi e moderni. Hegel rispose ingegnosamente a queste difficoltà osservando, che ciò che attestavano gli uomini era da essi attinto dalla propria coscienza. Ora, ei disse che la coscienza si formava e svolgeva a gradi. V' avea dunque una coscienza comune ordinaria; e l' opposizione, che questa faceva contro al sistema da lui proposto, potea venire dal non essere ancora formata quella coscienza a cogliere quegli ultimi fatti dell' umano conoscere, su cui egli poneva le basi del suo filosofare. Premesso dunque ciò, disse, che il lavoro del filosofo avea due parti: la prima storica; la seconda propriamente speculativa. Colla prima il filosofo dovea partire dall' ordinaria coscienza degli uomini, e, notando e narrando tutti gli stati successivi, pe' quali ella può passare, condurla fino all' assoluto sapere. Colla seconda poi dovrà, facendo il viaggio contrario, mostrare la necessità dell' origine di quegli stati della coscienza procedenti tutti dal sapere assoluto, dall' Idea. Del quale lavoro Hegel tolse a fare la prima parte nella « Fenomenologia »; la seconda nella sua « Scienza della Logica ». Ma il risultato di questa filosofia - ed è anco il principio di essa - si è questa proposizione: che « « l' essere puro e il puro niente è lo stesso » »: [...OMISSIS...] : ecco la formola di questa filosofia. La formola, che fa un' equazione dell' essere e del niente, è la formola suprema de' contraddittivi: tutte le contraddizioni sono in essa comprese; ella tutte le rappresenta come il piú alto genere rappresenta tutte le specie: e questa contraddizione prima ed universale, è la scienza di Hegel. Hegel dunque, non fa che sostituire ad una contraddizione psicologica, una contraddizione ontologica; trasportarla da un ente particolare a tutti gli enti, allo stesso essere. Egli non fa che dire, che l' ente e il niente stanno insieme; l' uno trapassa nell' altro, anzi l' uno è passato nell' altro, l' uno è nell' altro come in se stesso (2); quindi a cagione dell' identità che v' è tra loro, cessare la contraddizione! Quasi che contraddizione e identità non significassero l' opposto, non fossero contraddizione elleno stesse. Coll' ammettere quindi nel primo pensiero stesso l' assurdo, egli pretende di distruggere l' assurdo. L' annunziare una tale dottrina sembra dover bastare a confutarla. E pure quanti scioli in Germania, colla gravità e coll' autorità di professori, non l' hanno bevuta e la insegnano tuttavia come la chiave dell' universo sapere? Non è già che noi neghiamo ad Hegel molto ingegno: senza molto ingegno non si fanno bere altrui di cotali paradossi. Sia pure un Protagora, un Gorgia, un sofista qualsiasi; ma un sano filosofo, no. Anzi, appunto perché l' ingegno fu speso a piene mani per vaghezza di persuadere al mondo a rinunziare affatto al lume della ragione, egli è necessario non passare sotto silenzio i sottilissimi artifizŒ adoperati a sí tristo e funestissimo intento. Tutti gli argomenti adunati da Hegel, altro non fanno che ribellarsi contro a quel pensiero anteriore a tutti, da cui cavano il loro apparente valore, tentando di torlo via del tutto ed annichilarlo: il qual principio è quello di contraddizione. Onde tutti debbono necessariamente peccare del paralogismo dialettico da noi segnalato. Ritornando dunque al principio di Hegel che « essere e niente s' identificano », egli va cercando di levare d' attorno a un cosí strano principio l' odiosità di quell' assurdo che pur contiene, ricorrendo ad una speciale sua interpretazione. Dice che il niente, di cui egli parla, non è il puro nulla, ma quel nulla che risulta dalla negazione, o, come ancora s' esprime, dalla contraddizione: perocché, afferma, non si può arrivare al progresso scientifico, se non si giunge ad ammettere « « che il negativo è appunto il positivo » », ossia, « « che il contraddittorio non si scioglie nel nulla, nello astratto niente, ma solo nella negazione dello speciale suo contenuto » », ossia ancora, [...OMISSIS...] Ma primieramente, tanto se si tratta di una cosa particolare, quanto presa la proposizione in generale, il negativo non sarà mai e poi mai il positivo. Una cosa particolare, o piuttosto limitata, avrà bensí certe limitazioni, ma non si potrà mai dire che queste limitazioni sieno la cosa stessa. Di poi egli è vero che nella dottrina di Hegel la proposizione « « l' essere e il niente sono identici » » si restringa a quel niente che è negazione di una cosa particolare, e non al nulla assoluto ed astratto? Basta aprire la sua « Scienza della Logica » per convincersi che la cosa non è tale. Hegel incomincia in essa a parlare dell' essere semplicissimo ed astrattissimo, e questo appunto ei lo fa perfettamente uguale al niente, e il niente a lui. [...OMISSIS...] : ed è da questo essere7niente che si pretende sorgano tutte le cose. In terzo luogo, fosse anche vero che, quando il nostro filosofo dice che « « l' essere è il niente » », intenda sotto la parola niente tutto ciò che è particolare, tutto ciò che determina e restringe l' essere; non sarebbe ciononostante uno sformato abuso di parole chiamare niente l' essere indeterminato? Perocché: o si vuole che, tolte all' essere tutte le determinazioni, resti ancora qualche cosa, e in tal caso l' essere puro è essere, e però non è niente; o si vuole che, tolte all' essere le dette determinazioni, s' annulli lo stesso essere, e in tal caso si ha bensí il nulla, ma non piú l' essere. Essere e niente non possono stare insieme in un solo concetto, appunto perché essenzialmente contraddittorŒ. Coll' ammettere una tale compenetrazione e identificazione dell' essere e del nulla, la contraddizione non si toglie già, ma si accresce, si erige in principio della filosofia. L' assegnare poi alla parola niente altro significato da quello che ella ha, non è egli un introdurre gli equivoci a bel principio della filosofia? Ma Hegel ripeterà: « Che cosa è mai l' essere senza alcun contenuto? ». Rispondiamo che, se si trae dai visceri dell' essere ogni suo contenuto affatto, si avrà certo il nulla, ma in tal caso non si avrà piú l' essere; onde non si verificherà mai che l' essere e il nulla sieno identici: se poi si vorrà conservare l' essere, egli non sarà senza qualche contenuto, perché almeno conterrà se stesso. Ma egli è di piú da por mente all' equivoco della parola contenuto «( Inhalt ) » tanto usata da' filosofi tedeschi. Questa parola involge la relazione col contenente: contenente e contenuto sono concetti relativi. Onde non sono applicabili in nessun modo all' essere puro, il quale è semplicissimo: e, considerato senza relazione con altro, egli non è né contenente né contenuto; ma unicamente e semplicemente essere. E` dunque una maniera impropria il dire, che l' essere puro non ha alcun contenuto, se non si aggiunge, che non è neppur contenente: egli non è né forma né materia, in quanto queste parole involgono una relazione tra loro, ma è puro essere: l' essere cosí preso è superiore alla forma e alla materia; ma non per ciò conseguita ch' egli sia niente, appunto perché è essere. Che se si replica, che l' essere in questo stato di astrattezza e purità non è, e che perciò esso è il nulla; conviene rispondere che se non è, dunque ha cessato. In tal caso resta il solo nulla, e non resta piú l' essere. Ma sarà a dirsi in appresso esser falso, che l' essere astratto e puro al tutto non sia per la ragione che egli esige qualche determinazione, se pur la esige; a quel modo che non si può dire che l' accidente sia il nulla per la ragione che esige d' essere concepito nella sostanza. Che se la mente nostra nel concepire l' accidente lo astrae dalla sostanza, questo altro non significa se non un modo imperfetto del concepire; ma la stessa mente non potrebbe fare ciò se non conoscesse la sostanza e nel pensare compiuto non unisse la sostanza coll' accidente «( Psicol. , n. 1372 sgg.) ». L' accidente dunque è, ma la separazione dell' accidente dalla sostanza è solo nella mente. Onde si vede che le cose hanno due modi di essere, l' uno nella mente e l' altro in se stesse; i quali due modi sono appunto quelli che Hegel vuole ridurre a uno, senza che gli possa riuscire, appunto perché non può riuscire ad alcuno il dimostrare ciò che è assurdo. Si dica il simile dell' essere: se si piglia in una totale astrattezza, si potrà forse sostenere che in tale stato non sia in se stesso, ma è nondimeno nella mente: o, per dir meglio in se stesso è: ma la separazione di lui da ogni sua determinazione è solo nella mente. L' essere adunque in nessuna supposizione s' identifica col niente, sebbene la separazione di lui da ogni sua determinazione sia un' operazione o una funzione della mente: e però neppure essa è il niente. Che se poi si cerca l' origine dell' errore di Hegel, si scopre che questa giace nel concetto del diventare , preso da lui secondo l' intelligenza del volgo. La mente di Hegel manca affatto d' analisi: e questo è pure il difetto di tutte le filosofie della sua nazione, onde nasce la loro oscurità. L' ingegno germanico è certo naturalmente robusto, ma la sua coltura è troppo prematura: un paio di secoli di studio non bastano a rendere analitica una nazione. La preziosa dote della mente italiana, sommamente chiara, perché sommamente analitica, è il frutto di tre mill' anni: ogni secolo ci ha lavorato a formarla, ci ha importato altresí qualche nuovo elemento: la civiltà di questa nazione è un abito - ahi pur troppo negletto! - non è uno sforzo momentaneo e contro natura, che dopo un momento di eccessiva energia ricade sopra se stesso. In fatti che cosa significa diventare preso alla volgare? Significa che un ente passa dal non essere all' essere, o che un ente ne diventa un altro. In questo significato si suppone che ci abbia un ente, soggetto identico del non essere e dell' essere, soggetto identico di due enti successivi, l' uno che cessa e l' altro che sopravviene. Nel primo caso è un soggetto pari al nulla perché non è, e diventa un ente che è: il nulla dunque si suppone effettivamente identico all' ente. Nel secondo caso parimenti il soggetto è prima un ente, che per diventare un altro deve annullarsi. Vi ha dunque un momento nel quale questo soggetto è nulla; ma questo soggetto medesimo è l' uno e l' altro ente: dunque il soggetto medesimo pari al nulla, è ente. Ma con un po' d' accurata analisi si scorge che questo soggetto identico è una pura immaginazione e illusione; che non s' avvera mai il diventare preso cosí alla materiale, anzi non può avverarsi, perché è assurdo. Già gli scolastici, S. Tommaso principalmente, dimostrarono (non asserivano come fanno i filosofi di cui parliamo) che un ente non può divenire un altro; perché dovrebbe prima annichilarsi, onde mancherebbe l' identico soggetto della mutazione. Oltre questa prova intrinseca, l' esperienza non pone sotto gli occhi che cangiamenti di forme: mai e poi mai enti novi, o passaggio di un ente in un altro. E` inutile la questione tanto agitata dagli antichi, se si cangino le forme sostanziali, o le sole forme accidentali. Perciocché ad ogni modo trattasi sempre di cangiamenti di forme , e non veramente di enti. E poi questo cangiamento di forme è egli forse un vero diventare? Niente affatto di ciò, ma v' ha la cessazione dell' una, e la comparsa dell' altra, senza che quest' altra sia la prima, la quale anzi è cessata. E` una puerilità filosofica di Hegel il dire che vi ha un vero passaggio dell' una nell' altra. Questo passaggio realmente non esiste: è la sola mente che lo s' immagina, perché ad essa rimane presente la prima forma anco quand' è passata: ond' ella dice, di quella forma che non è piú, ma cui tuttavia la mente pensa come se esistesse, che essa è passata nell' altra. Né manco s' avvera che la forma prima cessando passi allo stato di nulla, come Hegel pretende. Ma anche qui v' ha l' illusione medesima. La forma cessata non è piú, ma è bensí ancora nel puro pensiero, che l' ha presente benché passata: onde lo stesso pensiero ad essa congiunge il nulla, come se il nulla fosse qualche cosa perché il nulla nel pensiero è qualche cosa. Ma il vero si è che il cessare di quella forma non è un passaggio, ma è un mero cessare. Onde quella forma non è già un soggetto identico, il quale si vesta ora dell' esistenza, ora del nulla. Ciò che si disse della forma intera, si dee dire delle sue parti. Ciascuna particella non si cangia, non diventa: è l' ente che rimane identico, il quale per ciò appunto non si cangia, né diventa. Onde il diventare nel senso Hegeliano, ossia volgare, non s' avvera mai: è un puro pregiudizio, un concetto confuso ed in se stesso ripugnante. Veniamo al concetto di creazione, sul quale Hegel tanto insiste, e troveremo la stessa mancanza di analisi, come pure la mancanza totale di dottrina teologica, effetto anche questo del protestantesimo, che, rinunziando a' fonti antichi della teologia, si è ridotto a fare miseramente colla filologia una teologia, come chi volesse colla grammatica comporre un libro di matematica sublime. Anzi udiamo parlare lo stesso Hegel: [...OMISSIS...] . Ecco a quali miseri equivoci s' appiglia il nostro filosofo. La cristiana filosofia non sostenne giammai, che l' essere sia venuto fuori dal niente come dall' uovo; molto meno che il niente sia il soggetto che divenne un ente, e che perciò il niente e l' essere sieno lo stesso. Ammise bensí la creazione dal nulla, ma in questo senso, che prima che un ente creato fosse, egli non era; e però egli non era il niente, né il niente era lui: il niente e l' essere sono successivi, dinanzi alla mente. Tra il niente dunque e l' ente non v' è il passaggio d' un soggetto unico a due stati diversi, e molto meno v' è il diventare. E perciò la prova che Hegel pretende cavare dal concetto di creazione, dato dalla cristiana teologia, altro non prova se non ch' egli non ha molto approfittato nello studio di questa scienza. Di poi egli dice, che, senza ammettere l' unità e inseparabilità dell' essere e del nulla, che si ravvisa nel concetto del diventare, non si può spiegare né il cominciamento né la fine dell' Universo. Egli ci fa questo sofisma. [...OMISSIS...] . Questo argomento è ineluttabile, ma che prova? Prova unicamente che niun ente è cominciato, e niun ente cessa, prendendo le parole incominciare e cessare secondo la significazione volgare e materiale, che Hegel introduce senza esame e senz' analisi nella filosofia: ma non prova mica che niente incominci e niente cessi nel vero senso filosofico di queste parole. Nel senso filosofico, non si vuol mica dire che l' incominciare sia atto dell' ente, quasicché sia l' ente quello che dà a se stesso l' esistenza: certo che se si dovesse cosí intendere, l' ente farebbe un atto prima di essere; l' ente dunque sarebbe il nulla che fa quest' atto di passare all' esistenza. Cosí la intende il filosofo tedesco; ma cosí non l' ha mai intesa la tradizione de' grandi maestri. Dicendosi che un ente incomincia, altro non si vuol dire che in un dato istante un dato ente fu, quando nell' istante anteriore non c' era nulla. Lo stesso si dica del cessare di essere: il cessare di essere non fa che significare due istanti tra quali non passa alcuna relazione di causa e d' effetto: ma nel primo istante l' ente è; nel secondo non è piú, ogni suo atto è già cessato. - Hegel può replicare: prima che l' ente, che incomincia, e prima del suo annullamento vi deve dunque essere una causa che il faccia esistere, o l' annulli. Dunque prima che l' ente sia, non v' è il nulla: dopo che l' ente è cessato, di novo non v' è il nulla. Verissimo; ma la causa non è l' ente di cui si parla. E non v' è alcun bisogno di sostenere che l' ente sia il nulla, o il nulla sia l' ente, a potersi ammettere una causa distinta dall' ente. Non ne vien mica che questa causa sia il nulla, o che sia col nulla indivisibile; appunto perché il nulla è nulla; e non si può unire né dividere, in senso proprio, con cos' alcuna. Non vi ha dunque la contraddizione che pretende di trovare Hegel in quelli, che d' una parte ammettono, che l' ente non sia il nulla, dall' altra ammettono l' incominciamento del mondo. Del resto il sofisma che adopera Hegel per dimostrare in contraddizione quelli che danno al mondo un principio, egli lo adopera puramente come un argomento ad hominem , perocché non è già egli, non può essere egli un di coloro che riconoscano che il mondo è cominciato. Il concetto del diventare in quel senso materiale, in cui egli lo prende, esclude qualunque possibilità che il mondo abbia veramente cominciato ad esistere. In vero, prendendosi il diventare come un atto dell' ente che diventa, egli è chiaro che quell' ente, che con atto proprio diventa, era prima un falso nulla, perché era un nulla che operava, e però un nulla identico all' ente. Cosí non è piú possibile altro sistema che quello dell' eternità del mondo che da se stesso continuamente si sviluppa: e questa infatti è la dottrina che Hegel confessa dichiaratamente di professare. Divien cosí il mondo una serie di mutazioni infinite, una serie di cause e di effetti, che non ha principio. Che cosa è da raccogliersi da tutto ciò? Certamente non altro che il concetto del diventare, cosí rozzo e volgare come lo prese Hegel per metterlo a fondamento del suo edifizio filosofico, è intrinsecamente assurdo, e ch' esso non è somministrato né da cangiamenti che avvengano nella natura, né dal domma della creazione, né dall' infinitesimo de' matematici. Rimane dunque, in tutta la sua nudità, la duplice contraddizione che contiene il principio della filosofia Hegeliana: cioè che l' essere sia niente; e che da un essere, che è niente, possano diventare tutte le cose. Alle quali contraddizioni assurdissime conviene aggiungere questa terza. L' Hegel inveisce amaramente contro tutti i filosofi, che lo precedettero, perché divisero le forme logiche dal contenuto di esse, e dissero che questo si prendeva dal di fuori, dal sentimento; quelle erano date dalla mente. Dopo di ciò egli pone a fondamento di tutta la filosofia l' essere senza alcun contenuto (1), e da questo essere, che non ha contenuto e che è niente, fa venir fuori, svolgendosi, tutte le cose: anzi fa lui stesso uguale al Tutto. Se quest' essere non ha alcun contenuto, dove lo prende? Dal Niente? Certamente, Hegel risponde, dal Niente : e volea dire dalla negazione . Ma se il contenuto è il niente, o si trova nel niente, dunque il contenuto stesso è l' essere, o si trova nell' essere; perché l' essere è lo stesso che il niente. Non è dunque piú vero, che l' essere puro sia privo di contenuto. E se il niente ha egli qualche contenuto da dare, in tal caso si domanda di novo dove lo prende. Tali sono le difficoltà sulle quali Hegel trapassa leggiero, senza dare alcuna soddisfacente spiegazione. Dal fin qui detto apparisce che il nostro filosofo in sostanza altro non fa che considerare i diversi concetti della mente (e ben inteso della mente umana, checché egli sogni: ché altra mente non ha in cui fare le sue osservazioni), lasciando soli questi concetti senza la mente, dichiarandoli altrettanti enti; onde l' andare e il venire di questi (nella mente) è tutto il movimento dialettico che egli vi trova, e che ei loro attribuisce, quasi si movessero da se stessi, e l' uno passasse nell' altro; ma ciò egli fa senza addurre nessuna prova ch' essi abbiano questa vita supposta, senza rendere alcuna sufficiente ragione del preteso suo movimento: meno ancora addurre ragione, perché il moto cessi, o perché non cessi mai quasi non avesse mai raggiunto il suo fine. Cosí il problema dell' Ontologia, che domanda una ragione sufficiente della moltiplicità degli enti e de' loro mutamenti, rimane colla filosofia di Hegel pienamente insoluto e lasciato da parte, e non vi si fa che un' aggiunta d' indicibili contraddizioni. Ma egli è oltremodo utile alla scienza d' investigare le origini logiche degli errori in cui si perdettero i piú celebri filosofi: e però noi vogliamo qui tornare alquanto su quella confusione tra l' idea e il verbo della mente, che abbiamo additata come la stirpe degli errori dell' Hegelianismo. Ignorare la distinzione dell' idea dal verbo della mente, è il medesimo che ignorare la differenza che passa tra il conoscere per intuizione e il conoscere per affermazione . Hegel sostiene che il niente è lo stesso dell' ente. [...OMISSIS...] . Che sia pensato il niente, si può dire: passi dunque; ma che sia rappresentato, questo poi no: molto meno ch' esso sia. Onde è dunque questo sofisma? Il conoscere per via d' intuizione è un conoscere oggettivo : ogni intuizione ha un oggetto, fa conoscere un oggetto. Il conoscere per via di affermazione o di negazione è soggettivo ; non fa conoscere un oggetto novo, ma dispone in un dato modo il soggetto in verso l' oggetto dato dall' intuizione; cioè, altro non produce che una persuasione del soggetto circa l' oggetto dato dall' intuizione. Ora quando si dice di pensare il niente, si parla di un conoscere per intuizione, o d' un conoscere per affermazione, e negazione? Certo, conoscere il niente è un conoscere per negazione. Infatti il concetto del niente non si ha che per la negazione dell' ente. L' ente è l' oggetto, l' oggetto è sempre l' ente. Questo è dato dall' intuizione. Sopravviene il verbo della mente, cioè la negazione dell' ente, e che cosa ella produce? Produce una disposizione del soggetto intellettivo verso l' ente; la persuasione che l' ente non sia: il niente dunque non è; non v' è altro che la persuasione dell' essere intelligente che l' ente intuito non sia, non esista. L' ente, che si nega dalla mente, può esser un ente particolare, possono essere tutti gli enti: ciò è indifferente: l' oggetto è sempre l' ente, e mai e poi mai il niente; ma il soggetto fa un atto riguardante quell' ente, o quegli enti, e quest' atto è la negazione, e l' effetto di quest' atto è la persuasione che quell' ente o quegli enti non sieno: e questa persuasione appartiene al soggetto, è uno stato della mente: nessun oggetto novo s' è formato: la affermazione, o la negazione, o il loro effetto, la persuasione, non producono niun oggetto novo. Questo errore di Hegel è uno sbaglio rozzo e volgare: la sua origine è nell' uso della lingua. Una parola è un segno arbitrario, non è già la cosa stessa significata; quindi l' uso della parola dipende dall' arbitrio dell' uomo. L' uomo può usare la parola anche a significare l' ente negato. A tal fine s' inventano i vocaboli niente, nulla e simili. Ma poiché solitamente le parole, e particolarmente i nomi, significano enti, perché vi è già l' abito di attribuire ad ogni parola un oggetto, un ente; quindi chi non ne considera il valore, non ne analizza il significato, si dà a credere volgarmente che tutto ciò che viene significato da un nome sia un ente, un oggetto. All' incontro, accade che si trovino delle parole, de' nomi, che non significano già novi oggetti, novi enti; ma sí anzi enti negati dall' intelligenza. Tali parole dunque sono inventate a significare quel conoscere che si fa per via di negazione, e non quello che si fa per via d' intuizione; e quindi non suffragano menomamente al sofisma hegeliano. I vocaboli dunque niente, nulla , e simili, ingannano, perché hanno una forma positiva, ma diversa da tutti gli altri vocaboli. Il significato di tali vocaboli, pensato in generale, e però supposto positivo, è un' altra classe di concetti che abbiamo chiamati virtuali : classe che denomineremo virtuali7segnativi , quali sono le lettere dell' alfabeto nell' algebra, di cui non si considera il valore, ma si suppone che abbiano tutte un valore; ond' accade poi che quando si discende a determinare questo valore in particolare, facendo passare il concetto da semplicemente virtuale in attuale, allora si trova che alcuna di quelle parole non ha valore alcuno, perché è .uguale . 0. Or questo errore è perpetuo nella filosofia di Hegel: in esso consiste essenzialmente la sua dialettica, di cui mena tanto vanto che in essa fa consistere tutt' intera la sua filosofia: quell' errore è in una parola l' argomento dialettico, col quale fabbrica que' suoi ragionamenti, che il conducono al paralogismo dialettico indicato di distruggere i pensieri anteriori mediante pensieri posteriori. E veramente la singolare scoperta di Hegel consiste in una pretesa di dedurre per via di negazioni dall' essere puro e astratto tutte le idee, e tutte affatto le cose che sono nel mondo e fuori. Egli dice, come abbiam veduto, che quando l' essere ha prodotto in sé il niente, allora è già nell' essere quell' elemento che genera e produce il contrario dell' astratto, e quindi il passaggio dell' essere astratto al sussistente e a tutte quelle che egli chiama determinazioni concrete (1). Prende dunque il niente come un oggetto novo che è, e che sorge nel seno dell' essere. Ma noi vedemmo che il niente non è un oggetto novo, ma altro non è che l' ente colla negazione: la qual negazione non è un oggetto, na una disposizione soggettiva della mente negante. Cangia dunque in oggetti queste disposizioni soggettive, che niun oggetto producono; anzi si tolgono via: e questa è la creazione dialettica del nostro filosofo. In un altro luogo spiega il suo pensiero dominante dicendo che [...OMISSIS...] . Questo, secondo lui, è il vero metodo della scienza filosofica, da lui definito [...OMISSIS...] . Ora questo movimento di sé, che da se stesso fa il contenuto della coscienza, è per Hegel una continua negazione ripetuta con continuo progresso. Perocché dice: [...OMISSIS...] . Cosí vuole che il secreto del processo dialettico consista in un continuo negare, e che quindi escano tutti affatto gli oggetti ideali e le loro realizzazioni, insomma tutte le cose. Di che procede questa conseguenza, che mentre Hegel pretende di essere filosofo oggettivo per eminenza, di modo che per lui la logica oggettiva già prende luogo della metafisica formale di Kant, e cosí divien la Critica della Critica (3), in fatto, chi va al fondo e non si contenta di parole, trova che Hegel altro non fece se non comporre la sua filosofia di elementi soggettivi, quali sono appunto tutte le negazioni; né coll' appiccar loro i nomi di oggetti si possono rendere oggetti, perché un nome non fa mutar natura alle cose. Onde questo filosofo appartiene a quella classe che altre volte ho denominata di falsi oggettivisti ( Psicol. , 13). Il filosofo nostro confessa che quella negatività, che è l' anima dialettica, è una subiettività , e pure in questa subbiettività giace tutto il vero, e per essa solo il vero è. La verità hegeliana adunque è soggettiva, anzi è un prodotto del soggetto, perché ella è solo mediante questa subbiettività «( durch die es allein Wahres ist ) »: la subiettività dunque è anteriore alla verità, appunto perché questa è per quella. Hegel non è dunque piú che un soggettivista. In fatti il negare non può essere che l' atto di un soggetto negante. E che fa un soggetto che nega? Certo non produce alcun oggetto, che né pure il produce coll' affermare. Ma altro non fa che produrre in se stesso una persuasione relativa ad un oggetto che non esiste già per l' affermazione, né cessa per la negazione; ma in ogni caso è anteriore: ed è dato nell' intuizione. Ma Hegel pretende il contrario: egli converte dunque la persuasione soggettiva in oggetto: e poiché la negazione è per lui « l' anima dialettica che ha tutto il vero in sé, e per cui solo il vero è », perciò tutto il vero, tutti gli enti, tutti gli oggetti si riducono a disposizioni, a persuasioni, modificazioni del soggetto negante. Non essendovi dunque che il soggetto negante e le sue negazioni, quindi tutte le cose sono ridotte ad una sola: al soggetto, il quale, modificandosi, per via di negazioni diviene ogni cosa. Tale è il panteismo hegeliano. Or poiché il negante non può che negare se stesso (non essendovi altro da negare in tal sistema), il se stesso è anche oggetto, e quindi è Idea. Tale è l' Idea di Hegel, che ha il movimento dialettico in sé, ha l' anima dialettica, ha il diventare, ossia il negare, che è la mediazione tra sé e ciò che diventa. E che diventa? Diventa quelle disposizioni e persuasioni che da se stessa suscita in se stessa; le quali di novo negandosi rientrano nel soggetto Idea. Onde quell' Idea, soggetto, definisce anco « l' identità della teoretica e della pratica; della forma e del contenuto », e in generale di tutte le contraddizioni. L' errore sta sempre nell' aver convertite le persuasioni , che sono stati dello spirito intelligente prodotti dalle sue operazioni soggettive dell' affermare e del negare, in altrettanti oggetti; di non avere in una parola distinto il modo di conoscere per intuizione dal modo di conoscere per affermazione e negazione; l' uno oggettivo, soggettivo l' altro. Di questo primo errore dovea nascere e nacque che un oggetto negato sembrasse due oggetti che s' identificano. Quindi l' assurda proposizione che « l' essere e il niente sono lo stesso », supponendosi che l' essere negato altro non sia che l' identificazione di due oggetti: 1) l' essere, 2) il niente. E poiché l' essere si può sempre negare, e dopo averlo negato si può negare la negazione, perciò si disse che « l' essere passa nel niente, e il niente nell' essere », e che la mediazione di questo passaggio è la negazione. E` verissimo che nella negazione, per esempio nel nulla, s' inchiude una relazione colla cosa negata, per esempio coll' ente. Ma quali sono i termini di questa relazione? L' ente è l' uno, la negazione è l' altro. La mente che nega, deve indubitatamente conoscere (per intuizione) ciò che ella nega. Ma che perciò? Ne vien forse che questi due termini facciano un solo oggetto? Né Hegel stesso può talora dissimulare, che nella maniera di parlare, che egli usa, vi ha difetto. In un luogo, dove si sforza di trasportare la negazione nell' oggetto negato, e di farla qualche cosa che con esso lui s' immedesima, confessa nello stesso tempo che le proposizioni che ne risultano non possono soddisfare (1). Quest' è una confessione ben chiara; ma manca d' integrità. Non è solo inadeguata la forma di tali giudizŒ e proposizioni; ma le proposizioni stesse sono false, contraddittorie, assurde. Ma se sono tali, perché mantenerle? Perché riguardarle anzi come le proposizioni fondamentali di tutto lo scibile? Egli dà la colpa di ciò alla natura del giudizio stesso (poiché questi filosofi incolpano di continuo la natura e la mente, sopra di cui pongono se stessi come esseri dominanti!) [...OMISSIS...] . Certo è incapace, se lo speculativo e la verità è quella appunto che vuole Hegel, la contraddizione, l' unità degli opposti: nel che ei fa consistere, come vedemmo, l' apice del sapere. Ma se all' opposto si abbandona una cosí strana sentenza, perché non si potrà esprimere in un giudizio la verità? Quelle proposizioni assurde, diventano in qualche senso vere, se si convertono in queste altre: « Il finito è l' infinito colla negazione dell' infinità; l' uno è i molti colla negazione della pluralità; il singolare è l' universale colla negazione dell' universalità ». E perché anteporre l' imaginoso, il misterioso, il falso, l' assurdo, al linguaggio semplice e vero? Certo perché, usandosi questo, il prestigio è cessato: il sofisma cade: il sistema tutto intero crolla dalle fondamenta. Del rimanente, per restringere in breve l' osservazione principale che avevamo in animo di porgere in questo capitolo, allorquando la mente pensa una relazione fra opposti e contrarŒ, allorquando pensa un positivo e v' aggiunge una negazione; ella non ne fa già risultare un solo oggetto; ma anzi stanno a lei presenti i due termini della relazione senza confondersi, e la relazione quale anello tra essi. Il gioco di voler confondere tutto ciò in uno, è dunque una mera puerilità. A torto dunque Hegel inveisce contro i logici che ammettono il principio che « la contraddizione non sia pensabile », quando secondo lui « « pensare la contraddizione è il momento essenziale del concetto »(3) ». Anzi qui scorgesi venir meno ad Hegel l' accennata distinzione tra il conoscere per intuizione, oggettivo, e il conoscere per affermazione o negazione, soggettivo. Le contraddizioni che cadono nel conoscere per intuizione e quelle che cadono nel conoscere per affermazione o negazione sono di tutt' altra natura; e quelle prime non si chiamano con proprietà contraddizioni, ma piuttosto opposizioni, ovvero relazioni di contrarŒ. Hegel poi parla indistintamente delle une e delle altre senza conoscerne la differenza: e cosí calunnia i logici. Perocché questi dicono non pensabili le sole contraddizioni per via d' affermazione o di negazione. Onde il loro maestro Aristotele definisce la contraddizione: l' « affirmare et negare idem de eodem secundum idem ». Dove apparisce che egli non riconosce altra vera contraddizione che in quel pensare che si fa per via d' affermazione e di negazione. E bene, noi qui domandiamo al sig. Hegel s' egli si reputa cosí valente da saper dire di sí e di no nello stesso tempo, dello stesso attributo, dello stesso soggetto, sotto lo stesso aspetto. Mal per lui se ci risponde di sí: sarebbe lo stesso che dirci, aver egli questa facoltà singolare di fare e di non fare nello stesso tempo lo stesso atto: di avere intorno alla stessa semplicissima questione due persuasioni tra loro contrarie: di mentire essenzialmente. All' incontro l' intuizione non fa che presentare alla mente gli oggetti nella loro pura essenza e possibilità: essa non afferma che sussistano, né lo nega. L' essenza, per essere conosciuta, non abbisogna di essere affermata, né negata: la possibilità che l' essenza ideale venga realizzata, è una relazione tra l' ente ideale e la sua realizzazione. Il giudizio, « la tal cosa è possibile », non appartiene all' essenza pura, ma alla relazione che ella ha col suo realizzamento. E` necessario ben distinguere ogni giudizio dalla mera intuizione. Del resto l' intuizione pura può avere oggetti opposti, perché egli è manifestamente vero che piú cose, opposte fra loro ed escludentisi a vicenda, sono egualmente possibili: hanno di conseguente un' essenza atta ad essere intuita. Questo accade perché la contraddizione non giace mai nelle semplici essenze attualmente intuite, ma solo nel loro realizzamento. A ragion d' esempio, io posso pensare un dato individuo umano di color bianco o di color nero; l' uno e l' altro è possibile; come possibile l' uno e l' altro non si contraddicono; ma se si trattasse di passare alla realizzazione di un individuo umano, e potess' io crearlo, non potrei già fare lo stesso individuo tutto di colore bianco e ad un tempo tutto di colore nero. Ciò dunque che non è contraddittorio pensato come possibile, diviene contraddittorio pensato come reale. L' ordine de' possibili, considerato come l' ordine delle pure essenze, appartiene all' intuizione: e quest' ordine ammette opposizione e contrarietà, ma non ammette contraddizione: l' ordine de' sussistenti appartiene all' affermazione o alla negazione, e quest' è quel solo che ammette contraddizione (1). La stessa parola contraddizione , giusta l' etimologia, significa dizione o pronunciato contrario, e le dizioni, i giudizŒ, sono appunto affermazioni e negazioni. Queste sono le contraddizioni, che a sentenza de' logici, cosí alteramente dispregiati da Hegel, non si possono pensare dall' umana mente; appunto perché l' essere reale, che esclude da uno gli altri individuati, non può aver lotta intima seco stesso. Hegel vide, che nell' intuito si possono pensare i contrarŒ, come anco si può pensare la stessa relazione di contrarietà. Da questo conchiuse che si può pensare la contraddizione ( « Widerspruch »). Certo, che la mente intuisce cose opposte, e vede la relazione fra loro di contrarietà: ma con ciò la mente non si contraddice, né in veggendo tale relazione unisce e confonde in uno le cose contrarie, anzi in virtú di tale relazione, le tiene innanzi a sé perpetuamente distinte e separate. L' unica conseguenza che si può trarre dal fatto, che il nostro filosofo osserva, non è già quella che egli ne vuol cavare, che i contrarŒ si unifichino; ma sí questa sola, e a dir vero importante, che le cose contrarie ed opposte, dalla mente pensate, debbono avere qualche unità: ma non mica una unità in loro stesse, quasi che l' una sia l' altra reciprocamente; ma un' unità fuori di loro in qualche altra cosa unica che le contenga. Infatti, non è già contraddittorio il pensare, che cose opposte ed escludentisi si trovino contenute in una terza cosa, come non è contraddizione neanco che sussistano piú cose, l' una delle quali escluda da sé l' altra. Or, che i contrari pensanti dalla mente trovino unità non in se stessi, ma in altro, l' antica logica nol negò mai, e l' accagionarla di ciò è un mostrar di ignorarla. La metafisica poi in tutta buona pace con quella logica, la qual si può dispregiare ma non mutare, insegna primieramente, che l' intendimento che ravvisa tra due termini una contrarietà, con un atto solo pensa que' due termini, e li paragona, e l' unità di quest' atto è appunto l' unità che accoglie que' due contrarŒ. Questa unità è soggettiva, e consiste nell' unità, per cosí dire, del continente, cioè nell' unità del soggetto che contiene que' due termini contrarŒ. Ma la metafisica non si ferma qui: ella s' accorge bene, che il soggetto intelligente non potrebbe trovare la relazione di contrarietà tra que' due termini, se non li paragonasse; e non li potrebbe paragonare, se non li riferisse ad un terzo termine, nel quale di novo fossero in qualche modo già contenuti. Noi abbiamo già mostrato, che questo terzo termine c' è, ed è appunto l' essere ideale (1). Si domanda come nell' essere ideale possano contenersi oggetti contrari. Rispondo: la contrarietà rimanersi tra contenuti, non passare nel continente. La quale è una proposizione che nella sua forma non involge certo contraddizione, poiché si predica cose contrarie di due soggetti diversi, e non dello stesso. Si rifletta che l' essere nella sua forma ideale è unicamente l' essere possibile, ed apparisce ben chiaro che piú oggetti anche contrari possano essere, senza perciò contraddirsi. Perocché ogni contraddizione sta sempre nell' ordine della realità, a cui si riferisce l' affermazione e la negazione. La ragione di questo si troverà riflettendosi, che l' essere ideale non porge da sé solo l' attualità delle cose contrarie, ma solo le contiene virtualmente, e la contrarietà non ritrovasi che nell' attualità delle cose stesse. Non essendo adunque l' attualità delle cose nel concetto virtuale di esse, niente vieta che questo concetto si possa riferire a cose contrarie, come a una loro comune possibilità e virtualità, a quella foggia appunto come il concetto specifico si riferisce ad infinito numero d' individui, l' attualità di ciascuno de' quali esclude l' attualità degli altri, e però in questo sono contrarŒ. Ma un altro errore di Hegel, si è ch' egli riduce ogni cognizione a quella che si ha per via di negazione, di modo che nella stessa prima cognizione dell' essere puro pretende che vi si contenga la negazione: onde il suo principio, che « l' essere è il nulla, e il nulla è l' essere ». Egli abbracciò senza esame il pregiudizio universale dei sensisti, che la cognizione dell' essere puro s' acquisti per via d' astrazione , nella quale egli vide rinchiusa una negazione , benché anche questo non sia del tutto vero, potendo nascere l' astrazione senza positiva negazione (2), bastando una dimenticanza, o un lasciar indietro, un non osservare: che sono tutti atti diversi dal negare. Ma l' astrazione non può darci l' essere puro che nell' ordine della riflessione. Pigliando dunque il filosofo alemanno per principio del suo sistema mischiato senz' accorgersi di sensismo, l' essere puro riflesso , egli, invece di sollevarsi, come pur si propone, al di sopra della riflessione , comincia anzi la serie delle sue idee da un prodotto di questa. A torto adunque egli chiama il suo essere puro un primo, un immediato: questo è anzi un degli ultimi mediati, giacché la riflessione astraente non giunge a formarsi il concetto dell' essere puro se non assai tardi. Conviene con tutta diligenza distinguere le diverse operazioni dello spirito umano. La negazione propriamente è un atto dello spirito, col quale esso nega un' entità: la è insomma un giudizio negativo. Altro è dunque che alcuni atti dello spirito intelligente non abbraccino tutte le cose, ma abbraccino una sfera di cose limitate: altro è che lo spirito neghi quelle cose che sono fuori di quella sfera. Egli è questo uno de' principali sbagli di Hegel, il credere che l' intelligenza non possa conoscere una cosa se non nega tutte le altre. Posto quest' errore, ne viene che deve primieramente esser posta come nota la totalità , e che quindi si rendano note le cose singole per mezzo di negazioni limitanti quella totalità: questa totalità nota è l' idea assoluta di Hegel . [...OMISSIS...] . Ma questa totalità nota , quest' idea assoluta , che è tutto l' essere e tutti i modi dell' essere, non avrebbe ella bisogno di venir provata? non si dovrebbe dichiarare qual relazione abbia ella coll' uomo? Convien dunque dire che quest' idea assoluta sia presente all' uomo. Ma in tal caso l' uomo che la contempla non può essere l' idea contemplata, né l' idea contemplata può essere il contemplatore. Eppure in quell' idea, secondo Hegel, si contiene tutto anche il reale e il sussistente, conseguentemente l' uomo stesso. Ma se l' uomo stesso reale e filosofante è in quell' idea, rimane a sapere se in quell' idea altro non si abbia che quest' uomo, o vi sia troppo piú. Se in quell' idea non v' è altro che l' uomo filosofante, in tal caso l' uomo che pensa se stesso sarà quell' idea che pensa se stessa, e non potrà l' uomo pensar altro che se stesso. Ora l' uomo, che pensa se stesso, ha con ciò la coscienza di sé; ma secondo Hegel quell' idea assoluta è al di là d' ogni coscienza: non può adunque quell' idea essere unicamente l' uomo che pensa se stesso. Ma l' uomo non sa d' esser uomo, se non in quanto è consapevole di sé: l' uomo dunque non è cosa alcuna di piú di quanto la coscienza gli dice lui essere. Ma la coscienza gli dice di non essere piú che un ente limitato. L' uomo dunque è questo e nulla piú. Dichiarare adunque che l' uomo sia quello che non gli dice di essere la coscienza, è una posizione gratuita, e propriamente una stoltezza filosofica. Se dunque l' uomo non ha ragione di credersi piú di una minima particella dell' universo, egli non può essere tutta l' idea di Hegel, la quale è la totalità nota per se stessa, l' unità di ogni ideale e di ogni reale. Rimane che quest' idea assoluta sia troppo piú dell' uomo, e che l' uomo sia il prodotto dell' idea assoluta che dialettizza e va negando se stessa. Or bene, se la cosa è cosí, quest' uomo posteriore al dialettizzare dell' idea assoluta, siccome da essa prodotto, come può egli conoscere questo dialettizzare che non è il suo proprio dialettizzare, ma che è anteriore alla sua esistenza? Questo è ciò che Hegel passa in silenzio. Che se pure a quest' uomo, si concedesse l' intuizione di quell' idea sua madre; in tal caso già quest' idea intuíta, che tutto comprende, non sarebbe piú l' idea assoluta: poiché nell' intuizione di quell' idea, l' intuente, in quanto è intuente, sarebbe fuori di essa; e però essa non abbraccierebbe piú tutta la realità, com' è necessario che l' abbracci secondo Hegel, acciocché ella sia idea assoluta. Rimane dunque che Hegel ci dica com' egli parli e proponga la teoria di una tale idea assoluta. Poiché lo stesso fatto del filosofare distrugge il sogno di quell' idea assoluta che Hegel prescrive. Egli si dimentica, filosofando, di essere uomo, e il volo ch' egli prende coll' immaginazione, e non punto colla ragione, non è solamente temerario e funesto come quello di Icaro, ma è di piú oltremisura ridicolo. Ma se fosse vero ciò che egli afferma, le negazioni di cui parla, dovrebbero essere negazioni fatte dall' uomo. Se sono negazioni dell' uomo, in tal caso esse tutt' al piú proveranno che debbono essere precedute da una cognizione positiva abbracciante la totalità dell' essere, da una cognizione, dico, presente di continuo all' umano intendimento. Dunque, l' argomento, tratto dal conoscere per negazione, condurrà tutt' al piú ad un' idea presente all' uomo, e perciò contrapposta all' intuito umano: perciò escludente da sé la realità sussistente di quest' intuito. Questo solo fa crollare tutto l' edifizio hegeliano, che intende di stabilire una idea dove ogni realità si contenga. Ma l' argomento si appoggia oltrecciò sopra il falso supposto che l' uomo conosca tutte le cose particolari e limitate solamente per via di negazione. Ma onde venne ad Hegel questo errore di credere che tutti i limiti delle cose conosciute sieno posti dall' atto della negazione? Questo è un errore da lui ereditato: fu Fichte quello che introdusse il primo l' affermazione e la negazione nella filosofia tedesca, come elleno fossero fonte di tutto l' umano sapere, o certo delle sue limitazioni, disconoscendo il sapere intuitivo e limitato per natura (1). Fu osservato anche da Tedeschi di buon senso (1), che Hegel prende il concetto di una cosa per la cosa stessa; egli vuole che la dialettica sia la stessa cosa sussistente che dialettizza. Questo per altro è coerente coll' aver supposto che esista un essere assoluto (l' Idea), il qual contenga ogni modo di essere, e il quale abbia un moto interno suo proprio che lo rechi a spezzarsi in piú, per via di continue negazioni, limitandosi, determinandosi. Questo moto di negazioni è quella che Hegel chiama dialettica. Ora Hegel dice che questo essere assoluto, o come egli lo chiama idea assoluta , oggetto della filosofia, rimane sempre presente nel principio, nel progresso e nella fine, appunto perché ogni ente è lui stesso negato in qualche sua parte o determinazione. Essendo dunque quest' assoluto ogni cosa per via di negazioni, niuna meraviglia piú è se ogni cosa abbia la sua dialettica, e se ogni mutazione dell' universo altro non sia che un' operazione dialettica. Tutto ciò vien esposto da Hegel in un modo oscuro, lambiccato, forzato, senza addurre mai una prova che abbia forma di prova, accumulando asserzioni sopra asserzioni; e non dandosi cura di ciò che ad ogni passo gli si potrebbe opporre. Innumerevoli osservazioni noi potremmo fare su questa dottrina: ci restringeremo ad aggiungerne alcune poche a quelle che abbiamo fatto sopra. I Osservazione . - L' esistenza dell' idea assoluta di Hegel non può essere considerata tutt' al piú che come un presupposto gratuito. Questo supposto è introdotto dal nostro filosofo pel bisogno di rispondere agli argomenti degli scettici. Tutto l' argomento con cui si crede di provare l' esistenza di quell' idea si riduce a questo entimema: « Gli enti come sono concepiti siccome pure i loro concetti, hanno in sé la contraddizione, sono assurdi in se stessi considerati, come dimostrarono gli scettici. Ma non può ammettersi che sieno assurdi intieramente. Dunque debbono avere un altro modo di essere, nel quale non sono assurdi. Questo modo è il considerarsi in un' idea che tutti gli contenga senza distinzione, e però senza contraddizione che nasce loro dall' essere distinti. Dunque quest' idea, avente l' universalità e la totalità degli enti e dei concetti, esiste ». A convincere d' invalidità questo modo di argomentare, basta negare la maggiore. Noi abbiamo già sopra avvertito che negli enti e ne' concetti v' ha bensí distinzione, ma non per questo contraddizione: questa ce la pone Hegel del suo. II Osservazione . - L' ipotesi d' un' idea che contenga la sussistenza, è assurda. Perocché la sussistenza non si conosce per via d' idee, o per via di concetto, ma per via di sentimento e di affermazione. Nell' idea e nei concetti non s' intuisce che l' essenza possibile delle cose, la loro conoscibilità. Si confonde dunque l' essenza possibile col sentimento che la realizza. Converrebbe dimostrare che questi due modi dell' essere s' immedesimassero; ma quest' è quello che Hegel non fa né può fare, perocché una cosa semplicemente conosciuta come possibile, e una cosa sentita come reale, porge due modi di essere affatto distinti. Queste due cose potranno annodarsi in un essere intelligente; ma confondersi no. La conoscibilità e la sussistenza delle cose rimarranno sempre distinte e incomunicabili, niuna di esse potrà perdere la sua natura passando nell' altra. III Osservazione . - Si suppone che l' idea si presenti da prima come un universale, puro essere; e che poi quest' idea, negando se stessa, produca in sé le distinzioni contraddittorie. Ma quest' attività che ha l' attività di negare se stessa, onde viene? Tutto ciò è asserito gratuitamente. Non basta: tutto ciò ripugna. Se l' idea da principio è un universale, senza distinzioni; dunque non può avere la forza di negare se stessa, perché già non sarebbe piú semplicemente universale, essere purissimo; ma un essere determinato, appunto perché avrebbe una speciale facoltà. Le determinazioni dunque non sarebbero l' effetto dell' esercizio di tale facoltà, essendo la facoltà stessa una di esse; l' avrebbe senza darla a se stessa. IV Osservazione . - L' idea, negando se stessa, diviene il nulla. Ma: o s' intende con ciò che l' idea veramente diviene il nulla, nel qual caso s' avrebbe l' assurdo d' un essere, del sommo essere, che annulla se stesso; cosa ripugnante alla natura dell' essere; o s' intende che negando se stessa produce a sé il concetto del nulla, restandosi ella quel di prima. In tal caso la negazione non produrrebbe che concetti, e non s' avrebbe piú una negazione veramente efficace, operante la realità. V Osservazione . - L' idea diviene ogni cosa negando le proprie determinazioni contraddittorie, correlative. Ma non si può negare ciò che non si conosce. Dunque l' idea conosce in se stessa tutte queste determinazioni, prima che le neghi; e le conosce distinte, perché la negazione nega l' una e lascia l' altra. Dunque non è la negazione che produce tali determinazioni, ma prima già sono, e sono conosciute. E se si dice che non sono conosciute, ma che l' idea s' affissa in se stessa, e cosí vedutele, va poi negandole; in tal caso: 1) Ad ogni modo prima di negarle le viene a conoscere per intuizione o percezione, e però non è la negazione che le produce. 2) Oltre la facoltà di negare, e ancor prima, convien dare all' idea la facoltà di riflettere su di se stessa (cosa oppostissima al sistema di Hegel), d' intuire o di percepire: cosí si aggrava la difficoltà; perché non si può supporre quell' idea come un semplice universale, ma è giocoforza che fin da principio si presenti come un soggetto fornito di varie facoltà, e variamente determinato in se stesso. 3) Finalmente, se la cosa è cosí, in quell' idea non possono scomparire la contraddizione, e tutti i correlativi, ma debbono esser in essa distinti fin da principio. Torna dunque in pieno vigore l' argomento di Jacobi: o quell' idea è un semplice, e in tal caso come da sé sola produce il moltiplice? o è un moltiplice, e voi facendola semplice vi contraddite fin colla prima parola. Ora tutta la ragione del sistema hegeliano è la necessità di conciliare ed abolire le pretese contraddizioni, che gli scettici trovarono negli enti e ne' loro concetti. A questo nulla giova l' ipotesi di quell' idea: dunque il nostro filosofo ha buttato la sua fatica indarno. VI Osservazione . - Fichte diceva che l' Io pone contro se stesso il Non7Io. Hegel, che l' idea poneva tutti i suoi contrari per via di negazione. Ma altro è che l' Io e il Non7Io si trovino esistere in una certa opposizione; altro asserire che l' Io stesso è l' autore del suo contrario. Quest' asserzione, oltre essere del tutto gratuita, oltre essere una illazione falsa, perché quel che è un fatto si converte in un causale, non rimedia punto al difetto della contraddizione supposta, anzi raddoppia la difficoltà, perché, oltre rimanere a spiegare come esista una contraddizione in natura, rimane di piú a spiegare come un termine di questa contraddizione possa produrre la contraddizione stessa, producendo un suo contrario. La stessa osservazione si deve applicare al sistema di hegel. VII Osservazione . - Se davanti ad una mente fosse un' idea generica e nulla piú, detta mente potrebbe considerare quest' idea generica come un' entità particolare, ma non potrebbe mai trovare le specie subordinate a quel genere, né gl' individui di questa specie, e molto meno la reale sussistenza di questi individui. Sieno pure le specie virtualmente contenute nel genere, è impossibile che ella ve le distingua traendole fuori a priori . Soltanto quando le sono date a posteriori , allora le può trovare. Questo è un fatto somministrato dall' esperienza; ed ancor dalla natura dell' universale e della sua virtualità. Hegel dirà, che egli non distingue la mente dall' idea, ma che è la stessa idea universale quella che trova in se stessa i meno universali distinti e i reali sussistenti. Ma la difficoltà rimane la stessa; poiché è dalla natura dell' universale che quella difficoltà procede: se è universale non ha in sé distinti i concetti minori, né le realità, altramente non sarebbe universale. Quando anche dunque l' universale si ponga vivente e pensante, egli non potrebbe vedere in sé ciò che gli manca, né potrebbe uscire di sé per sapere ciò che gli manca. VIII Osservazione . - Il reale abbraccia Iddio e il mondo; e il mondo si compone di innumerevoli enti fra loro distinti. Questi possono essere piú o meno, maggiori o minori, di varie forme e nature. Di piú l' uomo non li conosce tutti, e ne va scoprendo di piú ogni giorno. Egli sa, che per quanto pensi non ne può scoprire un solo e conoscerne la natura positiva ragionando a priori . Cosí, per quantunque pensi, se gli manca uno de' suoi sensi, egli non può piú conoscere la natura positiva di quegli enti che si riferiscono al senso che gli manca. Niuna idea gli produce il sentimento corrispondente. Di piú ancora non dipende dal suo pensiero, che gli esseri vengano sottoposti a' suoi sensi. Questo è quello che accade all' uomo. Ora una teoria del sapere umano deve dare ragione di tutto ciò: ma l' idea assoluta di Hegel nulla spiega di tutto questo. Quest' idea, secondo lui, si trasforma nell' uomo stesso, nello spirito soggettivo e nel mondo, mediante altrettante negazioni, che le fa fare: la consapevolezza dell' uomo riceve le sue leggi da quell' idea, ed è quell' idea stessa. Ma quell' idea, opera ella a capriccio? od ha in sé qualche ragione che la obblighi ad operare piuttosto in un modo che in un altro? e qual è questa ragione? Di tutti questi fatti il sistema di Hegel non dà la menoma ragione; né solo li lascia inesplicati, ma li rende inesplicabili; perocché la sua idea, da cui tutto dipende, non è sapiente, e pur non può essere capricciosa. Non è sapiente, perché non è indicata la ragione che la possa movere a negare se stessa. Non può essere capricciosa, volendosi ch' ella sia la ragione stessa, l' autrice di tutte le cose, il fonte d' ogni sapere; e il mondo mostra vestigi di sapienza luminosissima, e la sapienza non può essere senza sapienza. Dobbiamo parlare della vuota visione , dove Hegel ripone il principio della scienza, e l' Assoluto stesso che col principio della scienza s' immedesima. Hegel conviene che per ciascun uomo la scienza deve muovere dalla propria coscienza (1). Ma egli fin da principio confonde la coscienza cogli oggetti contenuti nella coscienza definendo l' Io « « La coscienza di sé qual mondo moltiplice all' infinito » » [...OMISSIS...] . Or quest' è idealismo (piú propriamente il soggettivismo) ricevuto da Hegel come cosa già passata in giudicato, come un nuovo pregiudizio. E su questo errore il nostro filosofo erige il suo gotico edifizio. Or, la coscienza, interrogata a dovere, attesta ad ogni uomo che il proprio Io non è il mondo . Conviene dunque non già supporre preventivamente e senza esame, che il Mondo sia nell' Io, come il vino è in una botte, ma piuttosto diligentemente osservare la natura che ha la relazione che passa tra l' Io e il Mondo. L' Io può essere considerato nella sua parte sensitiva; la relazione peraltro del mondo materiale con un principio sensitivo, se ben si esamina, suppone un extra7soggettivo, una virtú che non cade nel sentimento, ma sí agisce in lui modificandolo (relazione di azione modificante); suppone altresí un esteso sentito, termine del sentimento, ma opposto al principio senziente, e però molto piú inconfusibile con lui (relazione di sensilità). In tutto ciò non si tratta ancor dell' Io, ma del mero principio sensitivo: l' Io è il principio razionale, e la relazione di questo col mondo è quella di percipiente a percepito. Ora, in nessun modo mai il percepito è il percipiente, o viceversa; esigendo la natura della percezione, che l' uno non sia l' altro. La coscienza lo attesta, e nessuna argomentazione vale a indebolirne la testimonianza; perocché, l' attestazione della coscienza è appunto uno di que' pensieri anteriori, dalla cui autorità dipendono tutti gli altri. E` dunque da tener fermo questo primo errore psicologico di Hegel di confondere il percipiente col percepito, di voler identificare l' uno all' altro, e ciò per via di una semplice asserzione, e di un mero postulato, quantunque ei si mostri tanto contrario a' postulati. Hegel dunque, dopo aver detto, che ciascun uomo move necessariamente dalla coscienza, dice, che il filosofo deve innalzarsi da questa al puro sapere . E che cos' è il puro sapere? « E` l' ultima assoluta verità della coscienza »(1). Suppone dunque che la coscienza abbia bisogno di prova e di giustificazione, che la sua assoluta verità stia nel puro sapere. Questo si potrebbe accordare qualora il nostro filosofo non avesse identificati gli oggetti della coscienza colla stessa coscienza. Perocché se questi oggetti sono distinti da lei, in tal caso ella potrà trovare in essi, in alcuno di essi, la sua verità e la sua giustificazione. Cosí appunto accade nel nostro sistema, nel quale l' essere (la verità) sta presente alla coscienza senza immedesimarsi con essa, ed essendo quest' essere la verità, il primo lume, tutto viene per lui dimostrato: anche la coscienza riceve da lui la sua autorità, il suo valore. Ma se gli oggetti tutti si identificano colla coscienza, nulla piú resta di distinto da essa, onde possa mutuare la sua verità, e provare la sua veracità; perocché essi sono gli oggetti conosciuti, e gli oggetti conosciuti sono la coscienza. Ma tornando al sapere puro di Hegel che costituisce l' assoluta verità della coscienza, è egli questo sapere puro nella coscienza o fuori di essa? Il nostro filosofo dice, che il sapere puro è « « risultato dal sapere finito della coscienza » » [...OMISSIS...] ; dove alla coscienza attribuisce un sapere finito, prendendo la coscienza come sinonimo di sapere: all' incontro il sapere puro secondo lui è infinito. Quindi il puro sapere, essendo infinito, sembra fuori della coscienza, che è un sapere finito. Dice ancora che [...OMISSIS...] : dove sembrerebbe che la coscienza stessa si trovasse nell' assoluto sapere in cui è portata nel suo sviluppo. Ma veniamo piú d' appresso alle sentenze del nostro autore. Dopo aver detto che la filosofia deve cominciare dal puro sapere, paragonando il puro sapere coll' Io , cioè colla coscienza, dice che [...OMISSIS...] . Non approva quindi di cominciare la scienza dall' Io come fece Fichte. All' opposto si deve cominciare da un semplice dove non v' abbia oggetto distinto dal soggetto. Laonde dice, che l' Io non potrebbe essere principio della scienza, se non si divide dalla moltiplicità de' suoi oggetti, che il rende concreto, e che cosí separato non è piú l' Io comune. [...OMISSIS...] . Al qual ragionamento noi opponiamo le seguenti osservazioni: L' Io è un principio razionale riflesso «( Psicol. , 61 sgg.) ». Non v' ha alcuna speranza di far cessare in lui la distinzione del soggettivo e dell' oggettivo, perché un principio non è intellettuale o razionale, se non a questa condizione, che egli abbia un oggetto da intuire o percepire, il quale nella sua forma di oggetto da lui si distingue. La distinzione dell' oggetto e del soggetto cessa soltanto allora che cessa l' intelligenza. Di che si raccoglie che il concetto fisso nella mente del nostro filosofo non poté essere altro che quello della materia e del senso, dove solo è l' abolizione del soggettivo e dell' oggettivo, posta da lui a condizione del suo puro sapere. Non vi ha dunque un atto, il quale possa sollevare il concetto dell' Io al puro sapere, come il nostro autore s' esprime, senza che ne rimanga affatto distrutto l' Io medesimo. Del resto egli è vero che in quel puro sapere, onde incomincia la scienza, non cade la distinzione dell' oggetto e del soggetto; ma è vero in tutt' altro senso, e a tutt' altra condizione. Cessa la distinzione nel puro sapere, perché non rimane altro che l' oggetto intuíto: il soggetto vi è del tutto escluso. Onde rimane escluso il Sé dalla sua cognizione; il Sé vi è solo come operante, non come conosciuto. E questo si avvera prima di tutto nell' intuizione di quell' essere essenziale, che è il vero principio della scienza. Dove si noti che quando noi diciamo che l' oggetto permane, diciamo ciò, intendendo che non rimane come oggetto, involgendo questo vocabolo la relazione col soggetto, ma vogliamo dire che rimane quell' ente, al quale poscia la riflessione attribuisce la qualità e denominazione d' oggetto, inserendolo al suo soggetto. Ora questo che facciamo noi, non può fare Hegel, il quale immedesima l' oggetto colla coscienza. Egli volendo evitare una dualità in quel primo vero onde incomincia la scienza, e perciò sbrigarsi dalla distinzione dell' oggetto e del soggetto, che fa? Immagina che questi possano andare insieme, e svariarsi l' uno nell' altro, ciò che è assurdo ed affatto opposto alla natura della cosa. E perché viene egli a cosí arbitrario partito? Per amore del suo sistema di cavare dal primo vero non pure tutta la scienza, ma tutte le cose reali e sussistenti altresí, quasiché l' essere non avesse altro modo che il scientifico. A tal fine doveva dunque stabilire un principio che contenesse il germe dell' ideale e del reale, e che non fosse tuttavia né l' uno, né l' altro, ma virtualmente fosse l' uno e l' altro: questo principio, non trovandolo, se lo immaginò. E pure aveva egli stesso detto questa buona sentenza che [...OMISSIS...] ; ma non gli valse. Egli si ridusse alla vuota visione degl' indiani filosofi, dove scomparisce ogni ente determinato, e credette d' essersi rinvenuto in essa al fonte di tutte le cose e di tutte insieme le idee. [...OMISSIS...] . Vi ha bensí un pensare puro; ma questo altro non è che il pensare naturale all' uomo, l' intuizione dell' Essere ideale indeterminato. Nel puro essere non è ancora compreso l' ente pensante, né è compresa alcuna realità, e però l' uomo pensando all' essere non pensa a soggetto, e non pensa alla relazione che l' essere ha con sé pensante. Questa relazione la scopre in appresso per via di riflessione, ed è allora che l' essere intuíto è diverso e contrapposto a sé intuente: il che è quanto dire, lo ravvisa nella sua relazione di oggetto e soggetto. Nel puro semplice pensare non è ancora la coscienza incominciata. La coscienza dell' Indiano che nomina Brama, dicendo sempre: Om, Om, Om, può essere bensí illusa, ma non vuota. Può bensí l' Indiano contemplare, non pensare ad un oggetto determinato: ma se veramente pensa, egli deve avere un oggetto almeno indeterminato, avrà il tutto senza distinzione, avrà l' origine delle cose, o checché altro egli attribuisca al suo Brama. Ora un oggetto anche indeterminato, non è certamente un nulla: perché neppure un concetto o un astratto è nulla: ed appunto perché non è il nulla, appunto perché è un oggetto, egli si distingue dall' atto del pensare, che ha condizione di soggetto. Fa meraviglia che Hegel non abbia potuto capire che chi pensa, in qualsivoglia maniera pensi, dee pensare ad un oggetto; che un oggetto indeterminato dee ancora essere un oggetto; e che se si toglie via tutto da quest' oggetto, si toglie con ciò stesso anche la possibilità di pensarlo: se poi resta qualche cosa, incontanente sopravviene la dualità del pensare e del suo oggetto sintesizzanti. Ma viemaggiore è l' abuso ch' egli fa della parola coscienza , quasi fosse sinonimo di pensare. Il pensare può essere oggetto della coscienza, e appunto da ciò da lei si distingue. La coscienza è un pensare riflesso, pel quale l' uomo sa ciò che passa in sé. Quindi è una grossolana illusione di credere, come fa Hegel, che la pura e vuota coscienza, possa essere cosí immediata, onde possa cominciare la filosofia. Ancora egli è assurdo parlare della coscienza vuota , quasi potesse essere senza oggetto. Falso è poi che la coscienza possa avere per oggetto immediato un indeterminato; dappoiché la coscienza ha sempre per suo oggetto lo stesso principio intellettuale e razionale a cui la coscienza appartiene, esprimendosi coi vocaboli sé, me, io , e simili. Noi stessi dunque siamo l' oggetto della coscienza, e noi siamo enti attuali, sussistenti, e determinati, benché possiamo essere consci di pensare ad oggetti indeterminati. Finalmente, mai e poi mai si potrà dire che questa coscienza vuota immaginata da' filosofi tedeschi sia l' Essere, l' essere puro; questo è l' oggetto del pensare, non della coscienza: e l' oggetto del pensare è distinto per sua propria natura inconfusibile coll' atto del pensare. Vi ha dunque difetto totale di analisi nel nostro filosofo: ond' avviene che egli confonde in uno i concetti piú disparati. Ora in questa confusione appunto egli si lusinga di aver trovato il principio della scienza e del mondo. Perocché a lui pare di aver fatta scomparire ogni distinzione fra soggetto ed oggetto, fra reale e ideale, fra sapere ed essere, fra essere e nulla; e che tuttavia gli rimanga in mano un germe fecondo, avente un movimento dialettico che riproduce dal proprio seno, dopo averle ingoiate, tutte quelle distinzioni. Ma in sostanza, se si désse veramente, o se concepir si potesse quella coscienza vuota, altro ella non sarebbe che un soggettivo, o il concetto astratto di un soggettivo, affatto incapace di produrre cosa alcuna da sé medesimo. E questo soggettivo dimostrerebbe nuovamente che il sistema hegeliano pecca di soggettivismo fino dalla prima sua mossa: perché quella coscienza non può essere finalmente altro che il concetto del soggetto intuente con astrazione da ogni oggetto. Coll' invece cominciare dall' oggetto, che solo è essere puro, incomincia da un soggetto, ossia dal principio soggettivo astratto, e il fa produrre fuori di sé tutti i concetti e le cose (gli oggetti) che si possono pensare a lui contrapposti (1). Ma, che questi sieno per loro natura a lui contrapposti, è un fatto; ch' egli poi li produca per proprio spontaneo e necessario movimento, non si dimostra in tutte l' opere voluminose del nostro filosofo; onde il passaggio, la pretesa loro generazione, il mirabile loro parto dalla coscienza vuota, non si vede, né niuna levatrice v' ebbe mai assistito, né può quindi attestarlo, foss' anco la madre di Socrate. Altrove abbiamo indicato, che i pensamenti ontologici, fino al cominciamento della filosofia in Italia, si divisero in tre sentenze. Alcuni sostennero che l' essere era uno ed immobile: tutto il resto esser fenomeno e illusione. Altri dissero che non s' aveano se non esseri moltiplici, trascorrenti, continuamente mobili, nascenti e morienti. Finalmente la filosofia matura di Platone e di Aristotele disse che v' avea l' uno e l' altro essere. Hegel retrocede e s' aduna colla seconda schiera. Infatti ponendo Hegel a principio della scienza il diventare , egli non potea piú riconoscere nulla di veramente stabile ed assoluto. Egli ci dice che « non vi è nulla né in cielo, né nella natura, né nello spirito, né ovunque sia, che non contenga tanto l' immediatità «( Unmittelbarkeit ) », quanto la mediazione «( Vermittelung ) », cosicché queste due determinazioni si mostrano come indivise e indivisibili , e la loro opposizione «( Gegensatz ) », come un nulla «( Nichtiges ) » »(1). Di vero, se per immediatità e per mediazione il nostro filosofo intendesse semplici vedute dello spirito, volendo significare che ogni cosa può essere dallo spirito pensata in modo immediato e in modo mediato, considerandosi come un immediato quand' ella si prende quale principio onde dedurre altre cognizioni, e come mediato quando si deriva e deduce essa stessa da un altro; in qualche modo potrebbesi lasciar passare quella sentenza. Ma no: ché per Hegel la veduta dello spirito è la stessa cosa, lo stesso oggetto: la diversità di veduta viene cosí trasportata nell' oggetto. Onde tutto, anche Dio stesso è : ed intanto è un immediato; e diventa , s' annulla, e torna a diventare: e intanto è un mediato. Tale è il circolo dialettico di Hegel. Laonde all' essere stesso, e però ad ogni essere, Hegel attribuisce di fare equazione al nulla. [...OMISSIS...] : di maniera che Dio stesso non avrebbe la verità se non isvanisse nel nulla; e alla sua volta non diventasse: lo stesso fluire di tutte le cose è il divino di Hegel. Hegel fu accusato di Panteismo e di Ateismo: vediamo se la cosa sia fondata. I sistemi di Panteismo si possono dividere in due classi: tutti fanno di Dio e del mondo una sola sostanza: ma alcuni a questa loro unica sostanza lasciano tutti gli attributi divini; altri le tolgono questi attributi e non le lasciano che quei soli che appartengono alle nature limitate. I primi sono manifestamente incoerenti, perocché gli attributi divini escludono quelli delle nature limitate, e il legare insieme cose sí opposte è contraddizione manifestissima. Tuttavia, non annullando essi direttamente le proprieta di Dio, non si possono dire assolutamente atei; benché il loro sistema tenga in seno il germe dell' ateismo, bastando levargli la contraddizione grossolana in cui cadono, perché ne riesca un ateismo puro. Ai secondi assai meglio conviene il titolo di atei che di panteisti, perocché in fatto annullano i caratteri della divina natura. Ora vediamo se all' una o all' altra classe di questi s' accosti il nostro filosofo. Tutte le cose si riducono alla sua idea assoluta: il movimento dialettico, che ha in se stessa, per via di negazione la trasforma in tutte le cose: ella è Dio, ella il Mondo, ella la Natura, ella lo Spirito. Tuttavia gli ripugna assai la parola di Panteista. Vediamo dunque com' egli se ne purghi: [...OMISSIS...] . Pianta dunque la sua difesa sulla definizione del Panteismo. Se questa definizione è accurata, egli se ne va netto ed assoluto, venendo tutta la colpa a ricadere su tutti gli altri uomini del mondo, i quali tengono che essere sia essere, e niente, niente. Perocché egli all' incontro tiene che essere sia niente, e niente sia essere, ed essere e niente sieno lo stesso, e costituiscano il diventare di tutte le cose. Dio stesso per lui diventa, come diventa il Mondo e lo Spirito. Ora, poscia che ciò che diventa non può essere Iddio, conseguita che, sebbene nel suo sistema tutto si riduce ad un solo principio, il diventare; tuttavia egli non sia panteista, perché Iddio manca affatto nel suo sistema, mancando la proprietà e il carattere di Dio di essere immutabile e non poter diventare cosa alcuna. In una parola egli si colloca cosí nella seconda classe de' Panteisti, che propriamente Atei devono denominarsi. Del resto noi abbiamo udito il nostro filosofo dichiarare che: [...OMISSIS...] . Né giova il dire che queste negazioni sono ne' limitati nostri concetti, perché Hegel nega questa limitazione del pensare e del concepire dell' uomo; e di questo appunto mena vanto, di aver tolto i confini all' umana mente, e d' esser giunto a trovare il pensare infinito: perocché, dice, l' infinito è il ragionevole , onde, secondo lui, il dire che la ragione è incapace di conoscere l' infinito, equivale a un dire che la ragione è incapace di conoscere il ragionevole, il che sarebbe assurdo! (2). Né vale il dire, che altro è la ragione assoluta che è quella di Dio, altro la ragione dell' uomo: perché Hegel attribuisce alla ragione il conoscere, o piuttosto l' essere o il far l' infinito, come cosa a lei essenziale; onde, là dove è la ragione, forz' è che sia l' infinito: la sua essenza è una sola. Perocché anco il filosofo che ragiona è la ragione stessa, ossia l' idea assoluta, che, negando se stessa, si è trasformata nel filosofo. Se non che supponiamo vero tutto ciò: che l' idea assoluta, negando se stessa, si sia trasformata nel signor Giorgio Guglielmo Federico Hegel. Ora quest' idea trasformata o è limitata, o illimitata ed infinita. Consideriamo i due lati di questo dilemma. Se ella è illimitata ed infinita, di conseguente è anche infallibile ed onniscia. Convien dunque dire, che il signor Hegel sia infallibile ed onniscio. E per la stessa identica ragione debbano essere infallibili, ed onniscŒ i suoi predecessori, ed ancora tutti gli umani individui. Ma questi diversi filosofi si negano e si accusano d' errore scambievolmente. O dunque tutti sono in errore, o ha ragione l' uno d' essi e torto gli altri. Nel primo caso la ragione trasformata de' filosofi non fa che cadere in errore, il che è assai peggio che l' esser solamente limitata. Nel secondo caso la ragione, contraddicendosi, mente a se stessa. Né gioverebbe ad Hegel rispondere, che, quando i filosofi si contraddicono, è la ragione, ossia l' idea assoluta, che, negando se stessa, si fa piú ricca, e solo quand' ella assorbe in sé ed abolisce queste contraddizioni, torna allo stato di idea assoluta. Poiché (lasciando stare il gergo frivolo di queste parole) rimane sempre a vedere se l' idea, che cosí si fa assoluta, è la mente de' filosofi che cosí opera, o non è questa mente. Se non è questa mente, rimane un mistero inesplicabile come Hegel, che è pure un filosofo individuo, sappia dire tutto ciò uscendo necessariamente da se stesso: per quale rivelazione? Se poi è la sua mente stessa, che fa tutto ciò: egli è evidente, che, per restituirsi allo stato d' idea assoluta, dee perdere la sua individualità, quella individualità che filosofeggia. Dee svanire il filosofo di Stuttgarda. Che diremo dunque al nostro filosofo? Diremo: tacete; parla l' idea assoluta, lasciatela far da sé. Non vi sono orecchi che l' ascoltino, è vero, poiché se v' avessero, ella si sarebbe trasformata in orecchi, sarebbe caduta nello spazio, nel tempo, non sarebbe piú assoluta. Ecco il requiem aeternam della filosofia. Passiamo all' altro membro del dilemma. Se l' idea trasformata, cosí trasformandosi si è limitata, in tal caso la ragione individuale del filosofo urta nel limite dell' infinito, e non è piú vero che il ragionevole del filosofo sia l' infinito, e non s' abbia altro infinito che questo. Rotta questa maglia, tutta la calzetta filosofica del nostro autore si discioglie fino all' ultimo punto. Ma consideriamo come il nostro filosofo aguzzi l' ingegno a voler provare che anche in Dio vi ha il negativo. [...OMISSIS...] . Di che egli deduce, che il vero concetto dell' infinito e la sua assoluta unità non è altro che temperare, vicendevolmente limitare, mescolare (2); e conchiude che dunque Iddio [...OMISSIS...] . Ora è evidente, che i ragionamenti che fa Hegel per dimostrare che in Dio cade il negativo, e che s' identifica col niente, non possono generare alcuna convinzione: perché tai ragionamenti partono tutti dal principio, supposto come certo, che le negazioni e determinazioni che fa l' umano intelletto quando dapprima tenta formarsi il concetto del sommo Essere, sono quelle che producono questo stesso Essere sommo, e insieme con lui il suo concetto. Quei ragionamenti adunque suppongono dimostrato che il pensare umano produca Iddio producendo il suo concetto; e le negazioni e astrazioni del pensare umano sieno gli elementi che costituiscono Iddio. A questa condizione quei ragionari hanno valore. Ma si osservi con quale confidente sicurezza, egli conchiude che se gli attributi di Dio debbano perdere la loro distinzione e ridursi in una unica essenza, non se ne possa aver altro che l' essere astratto vuoto di contenuto e però pari al niente: che non si possa adunare quegli attributi nell' essenza divina se non per via dell' astrazione che lascia da parte la differenza e serba solo quello che hanno di comune. Egli non rinviene colla sua perspicacia altra via d' unirsi a quegli attributi se non solo per astrazione; non ne sospetta neppure un' altra. E qui è da notarsi, che non è neppur necessario saper indicare un' altra via di identificazione dei sopraddetti attributi, ma basta che sia possibile avervene alcuna, benché incognita, acciocché la sentenza di Hegel ne vada in fumo: giacché questa non ha forza se non a questa sola condizione che « non ve ne possa essere alcun' altra ». Perocché si può in primo luogo dimostrare che per la via di Hegel non si perviene ad un essere perfetto sussistente e attualmente infinito, cioè a Dio; e però la sua via non condurrebbe ad altro se non a stabilire l' ateismo. Di poi non è impossibile il dimostrare che l' unificazione di quegli attributi, come non si può fare per via d' astrazione, perché l' astratto essere o anco l' astratta perfezione non è la loro unificazione, ma unicamente la loro abolizione; cosí si deve poter fare unicamente per via d' integrazione , la quale senza loro tor nulla di positivo, loro si aggiunge, e non mai per via di negazione; non è impossibile il dare in qualche modo ad intendere come far si possa questa integrazione, che pur supera cotanto l' umana esperienza. Già i teologi s' ingegnarono di farla intendere per via di analogie. Ma la migliore delle analogie, se ella non può fors' anco aspirare al titolo di vera similitudine, si è quella del principio razionale, il quale racchiude in sé tutte le entità sentite sotto la condizione di enti: dove accade che l' unica virtú dell' intelligenza sia anco senso, ma in un modo eminente «( Psicologia , 255 7 264) ». Oltrecciò egli è a stupirsi che il nostro filosofo sia cosí rozzo nell' analisi delle idee. Perocché egli si contenta di pigliare gli attributi della bontà, della sapienza, della potenza, ecc. al modo volgare, supponendoli tante essenze reali per sé separate. Che se invece ei si fosse data la cura di sottometterli all' analisi per ben conoscerne l' intima natura, avrebbe trovato ch' essi sono, piú che altro, relazioni dell' essenza divina al creato: nelle quali relazioni un termine, cioè Iddio, è semplicissimo; le creature sono molteplici, e di molteplici doti fornite. Onde niente vieta che le relazioni di Dio alle creature sieno molte, senza bisogno che questa moltiplicità cada in Dio. La scuola dei sofisti aperta da Kant in Germania ha formato dei pensatori, ciascuno dei quali vuol essere originale ed unico trovatore della vera teoria: il che non toglie che rubino là dove possono. Cosí si scorge, per poco che si consideri, come il pensiero motore della mente di Hegel nella formazione della sua logica fu questo principio di Spinoza: Omnis determinatio est negatio . Qui egli prese la sua negazione, quel portentoso mediatore che trasforma le cose, le une nelle altre; l' idea assoluta in tutti gli enti, e tutti gli enti nell' idea assoluta. Egli stesso parla di quella sentenza dello Spinoza dichiarandola d' infinita importanza (1). Dice che l' unica sostanza è la necessaria conseguenza di tale proposizione (2). Ma quanto non è equivoca e capricciosa una tale sentenza! Se ella si prende alla lettera, la parola determinatio e la parola negatio non significano che operazioni soggettive, le quali non appartengono all' oggetto. Onde se io determino, se nego qualche cosa in un ente, queste operazioni, che fo io, non alterano l' ente; e non pongono in lui nulla, o nulla realmente a lui tolgono: tutt' al più il mio concetto si rimane determinato soggettivamente. E quest' è appunto l' errore fondamentale di Hegel di fare del concetto e dell' essere una cosa sola, o per dir meglio, di supporlo. E pure questa identità del concetto e dell' essere, ch' ei pone a principio della logica (3), è il punto principale della questione che dovrebbe esser provato a rigore, acciocché tutto il castello, privo di solido fondamento, non vada a terra. Se dunque il determinare e il negare è un operare del soggetto determinante e negante, quest' operare non può produrre che un conoscere soggettivo. Rimane adunque l' altra questione, rimane a sapere, mediante la ragione integratrice, di quanto questo nostro conoscere soggettivo è aggiustato e conforme all' oggetto conosciuto, e di quanto non è, ma solo è una via imperfetta di conoscere, la cui imperfezione rimane nel soggetto e non passa all' oggetto. Questa questione non si può evitare né pure secondo i principŒ di Hegel, perché anche questo filosofo riconosce diverse maniere di pensare: il pensare comune, il dialettico e lo speculativo o razionale, al qual ultimo solo attribuisce il cogliere il vero. Rimane adunque ancora la questione: « Se ogni determinazione ed ogni negazione appartengono al pensare speculativo », e lo stesso Hegel dice di no; « se appartengono al pensare dialettico », e questo stesso non vorrebbe Hegel stesso sostenere, io mi credo; perocché con ciò verrebbe a disconoscere che anche il pensare comune nega e determina, cioè verrebbe a disconoscere un fatto evidente ed innegabile. Vi hanno dunque delle determinazioni e negazioni che finiscono nel soggetto; sono forme e modi limitati di concepire, e nulla affatto pongono di negativo nell' oggetto. Starà adunque a vedere quali sono. Ora Hegel stesso confessa che la negazione di negazione è un' affermazione (1), sebbene abbia, rispetto al soggetto che la fa, forma di negazione. E che cosí vuol dire essere un' affermazione? Vuol dire che nell' oggetto di cui si nega qualche negazione, non s' intende con ciò di negar cosa alcuna, ma di riconoscervi anzi il positivo. Ora tali appunto sono le negazioni che la mente umana fa intorno a Dio per formarsene il concetto. Queste non pongono nulla affatto di negativo in Dio, ma altro non fanno che negare il negativo, e però, vi riconoscono tutto il positivo senza elemento alcuno di negativo, che incontanente distruggerebbe il divino concetto. Dunque ella è falsa la sentenza di Spinoza che ogni determinazione è una negazione in senso oggettivo, com' egli la prende; tutt' al piú può essere vera in senso soggettivo. Sia pure l' operazione della mente umana negativa, cioè abbia pur la forma di negazione di negazioni: questa non è che la via che ella dee fare per la sua limitazione: non è l' oggetto, il termine a cui vuol pervenire: le negazioni rimangono anteriori ad esso termine. Erra dunque Hegel e si contraddice quando vuol provare che in Dio stesso v' è il niente: perocché egli con ciò trasporta nell' oggetto le operazioni del soggettivo pensare. Dalla maniera di questo pensare non si può ridurre quella dell' oggetto: dunque, se nel pensare vi è la forma negativa mescolata colla forma positiva, non ne viene per questo la conseguenza hegeliana che [...OMISSIS...] ; non ne viene « che il risultato di questo pensare sia identico al suo principio », il qual principio, secondo Hegel, è l' essere uguale al niente, il diventare (2); non ne viene che l' unità dell' essere e del niente sia la definizione dell' assoluto (3): dunque il diventare è un concetto imperfetto, appartenente al pensar comune , e non piú al pensare speculativo . L' Hegel dunque si propone di trovare il pensare speculativo razionale ultimo perfetto, e poi scambia questo pensare col comune imperfetto, e col dialettico che non è altro che la via a quello, sulla qual via rimangono le negazioni senza fondersi nell' ultimo oggetto. Dunque l' oggetto non essendo identico ad un tale pensare, egli è da un tale pensare indipendente. L' oggetto è sempre identico; il pensare muta e rimuta, e si perfeziona in ragione che accoglie piú in sé dell' oggetto non mutabile (1). Dunque l' hegelianismo è insussistente: reca ne' suoi visceri i germi della sua assoluta confutazione e distruzione. La via dunque tenuta dall' Hegel non conduce a rinvenire la soluzione del problema dialettico che ci proponemmo. Cercavamo se dal pensiero dipende la pluralità degli enti e delle entità. Abbiamo già veduto, che non è il pensiero, e molto meno il movimento del pensiero, quello che costituisce la trinità delle forme dell' essere. Ove si voglia assegnare al pensiero il suo posto in dette tre forme, conviene collocarlo nella categoria dell' essere reale, perocché il pensiero è un atto del soggetto, e il soggetto è reale, come pur sono reali i suoi atti. Vero è che il pensiero intuente quand' è diretto, risiede cosí fattamente nel suo oggetto che non fa ritorno su di sé: onde non conosce se stesso, ma l' oggetto, l' essere. Questo fatto ingannò Giorgio Hegel; il quale ne indusse che in tal atto il pensiero è abolito, e non rimane piú che l' essere . Ma l' unica conseguenza che si può raccogliere da quel fatto si è che l' essere è il solo cognito , il pensiero rimane incognito . Ma ne viene forse ch' egli non sia piú? Questo ne verrebbe qualora fosse vero il supposto « « ciò che non è cognito non è » ». Tale è in fatto, a ben considerare, il continuo supposto hegeliano: ma quel supposto che cosa è se non ciò appunto che si deve provare? Di piú, quel supposto, si può dimostrare del tutto falso. Infatti dopo l' atto diretto del pensiero affissato nell' essere, sopravviene nell' uomo l' atto riflesso per mezzo del quale si conosce lo stesso pensiero. Nella riflessione sul pensiero diretto quali sono gli oggetti? Questi sono due: cioè il pensiero diretto e l' essere suo oggetto. Il pensiero è azione : e l' oggetto non è azione, ma puramente essere . Ora, se la riflessione rende cognito il pensiero che prima era incognito, dunque il pensiero esisteva prima, perché non si può rendere cognito ciò che non esiste. Dunque poteva esistere un pensiero incognito di fronte all' essere cognito . Dunque è falso il supposto che ciò che è incognito non ancora esista. Si noti che questa dimostrazione s' appoggia al principio già stabilito che in ogni sistema conviene prima di tutto credere al pensiero. Ora la riflessione è anch' ella pensiero; pensiero della stessa natura del pensiero diretto, non variando dal pensiero diretto se non per la diversità de' suoi oggetti. Se non si volesse adunque prestar fede al pensiero riflesso, converrebbe egualmente negar fede al pensiero diretto; e quindi non si crederebbe piú al pensiero: non sarebbe piú possibile la filosofia, né il ragionamento. La quale considerazione abbatte dalle fondamenta il sistema dell' identità assoluta, e ogni altro de' falsi7oggettivisti. I quali attribuiscono alla riflessione il distinguere le cose e il moltiplicarle. Onde fanno che la riflessione sia quasi la creatrice della pluralità delle cose. Ma essi confondono l' ordine degli enti cogniti coll' ordine semplicemente degli enti. Poiché è bensí vero che la pluralità degli enti cogniti nasce dalla riflessione, ma non è vero che la pluralità degli enti, per sé, sia produzione del pensiero riflesso. Perocché, o si crede al pensiero riflesso, o no. Se non gli si crede, si dee negare fede ad ogni pensiero, ed allora è resa impossibile la scienza; se gli si crede, egli ci attesta due cose innegabili: la prima che non produce, ma solo conosce; la seconda che conoscendo non altera l' oggetto, ma il lascia tale quale è in se stesso (1). L' una e l' altra delle quali cose suppone che la pluralità degli enti preceda la riflessione, sia indipendente e sia una condizione necessaria di questa. La stessa cosa si rileva qualora si considera, che, se la riflessione producesse la pluralità degli enti, questi dovrebbero prima esser oggetto del pensiero diretto sotto la forma di unità. Ma il fatto ci dà il contrario; poiché nell' oggetto del pensiero diretto vi ha l' essere come unico cognito, senza il pensiero che rimane incognito. Dunque, la riflessione, di cui parliamo, non divide l' oggetto del pensiero diretto in piú; ma lasciandolo stare qual' è, vi aggiunge un oggetto nuovo, cioè il pensiero diretto oggettivato. La riflessione dunque è un atto della stessa natura del pensiero diretto: colla sola differenza che il pensiero diretto ha un oggetto solo; e la riflessione ne ha due legati insieme: cioè lo stesso oggetto, piú il pensiero che lo contempla. Se dunque il pensiero diretto non produce il suo oggetto, neppure la riflessione può produrre i suoi due oggetti e la loro relazione, ma questa pluralità d' oggetti dee antecedere la riflessione. Un' altra prova dello stesso vero si trae dalla dottrina intorno a Dio. Egli è fuori di controversia, che in Dio non v' ha riflessione, ma solo pensiero diretto. Se dunque fosse vero, che la riflessione cagionasse la pluralità degli enti, ne verrebbe l' assurdo, che Iddio non conoscerebbe la loro pluralità. Ma non potrebb' essere che l' ente stesso fosse in fine non altro che il pensiero? E da prima concediamo, che, essendo l' essere, pigliato nel suo puro concetto, indeterminato, non si porge immediatamente come assurda la sentenza che l' essere abbia per sua determinazione essenziale la natura di pensiero. L' essere è un atto: il primo atto: non par dunque assurdo, che, cercandosi che cosa sia determinatamente questo primo atto, si trovi che egli è pensiero, giacché il pensiero è anch' egli un atto. In tal caso la distinzione tra l' essere e il pensiero sarebbe unicamente mentale. Ma l' analisi del pensiero dimostra che la cosa non va cosí; e a quest' analisi si deve credere, poiché ella non è che la riflessione, che distingue le differenze e non le crea. E veramente noi già vedemmo, che l' essenza stessa del pensiero importa una dualità: cioè un' azione e un oggetto ; e che l' azione non è l' oggetto, né l' oggetto come oggetto è l' azione: il pensiero è azione; l' oggetto, non essendo azione, conseguentemente non è pensiero. Ma se il pensiero ed il suo oggetto, l' ente, sono distinti hanno fra loro nondimeno una essenziale relazione, cosí fattamente che l' uno non può star senza l' altro. I filosofi della Germania sognarono un pensiero senza oggetto (1), ma un tal concetto è del tutto assurdo: nella dualità del pensiero sta la sua differenza dal sentimento, il quale è uno. Del pari, sognarono l' oggetto senza pensiero, l' essere puro di Hegel. Ma l' essere non si può concepire senza che sia oggetto. Che se la prima condizione dell' essere è quest' appunto di potersi concepire, che ne costituisce la possibilità logica e metafisica; dunque egli per sua essenza è oggetto. E se per sua essenza è oggetto, dunque s' appoggia al pensiero, cioè al principio che il concepisce. Tenendo innanzi agli occhi questa verità, ne abbiamo una chiara dimostrazione della limitazione del pensare umano. Poiché vedemmo che il pensare umano è incognito a sé medesimo, e non si rende cognito se non per via di un altro atto di pensiero riflesso. Questo pensiero riflesso è ancora incognito a se stesso, e ci vuole un' altra riflessione acciocché si possa dall' uomo conoscere. E cosí è da dirsi di tutti gli atti riflessi, l' ultimo de' quali si resta perpetuamente incognito, perché non si oggettiva. Ma pensiero e realità sono tutti gli atti del pensiero appartenenti al soggetto pensante, che è l' ente reale. Quest' ente reale è; ma noi vedemmo che niente può essere se non è oggetto, perché la qualità di oggetto è essenziale all' essere. Il pensiero umano adunque non abbraccia tutto l' essere, ma una porzione si rimane fuori di lui: dunque il pensiero umano è limitato e inadeguato all' essere reale in tutta la sua estensione. Il che novamente abbatte que' sistemi che mettono l' umano pensiero in capo a tutto: lo vogliono infinito, lo divinizzano, e finiscono nell' ignominioso orgoglio dell' antropolatria. E questo stesso ragionamento ci condusse a conoscere l' esistenza di una mente suprema. Poiché ce ne dà in mano questo argomento: 1) Ogni ente reale deve essere conosciuto: poiché tutto ciò che è, è possibile; e tutto ciò che è possibile, è tale, perché è concepito da una mente: non può esser dunque alcuna cosa reale se non a condizione che sia oggetto d' una mente. 2) Ma molte cose reali si dànno, che non sono conosciute dalla mente umana. 3) Dunque vi ha una mente superiore, che conosce tutte le cose reali, tutta affatto la realità, compreso sé medesima; che la conosce senza riflessione, giacché ogni riflessione esclude se stessa dall' oggetto cognito; che la conosce ab aeterno , poiché se vi fosse stato un tempo, in cui la realità non fosse stata conosciuta, ella sarebbe stata impossibile, e non si sarebbe potuta conoscere giammai; che conosce tutta la realità anche futura, e perciò tutta la realità possibile, la quale è infinita. Ora, questa mente eterna ed infinita dicesi Dio. Or, come abbiam veduto che il pensiero sintesizza col suo oggetto, cosí viceversa l' oggetto sintesizza col pensiero. Questa relazione essenziale è già inchiusa nel significato della parola oggetto . Ma qualunque cosa s' esprima con un nome somministrato da un linguaggio qualunque, sempre si esprime la cosa sotto forma di un oggetto. Quindi procede che il pensiero e il suo oggetto sono due entità distintissime, ma però tali che l' una è sempre in presenza dell' altra, sicché né si dà pensiero senza oggetto, né oggetto senza pensiero per la relazione essenziale che li congiunge. Ma che cosa è l' oggetto? - Noi distinguiamo l' oggetto per sé dall' oggettivato, che è l' oggetto per partecipazione. Quand' io sto osservando una colonna di porfido, quali atti fa la mia mente? Quali notizie ne trae? La mia mente fa due cose: 1) ha un oggetto; 2) e attribuisce a quest' oggetto una potenza d' azione attuale sui miei sensi e sopra i corpi che lo accostano, la quale esterna azione tutta presa insieme dicesi reale sussistenza . La reale sussistenza adunque si riferisce al sentimento: l' oggetto proprio della mente non è che la colonna con tutti i suoi accidenti. Questa colonna co' suoi accidenti, se si divide dalla sussistenza, cioè dalla reale attività sul sentimento, rimane ancora, ma rimane non altro che una colonna ideale, l' essenza della colonna presente alla mente. Quest' essenza è per sé oggetto. Alla colonna, dunque, in quant' è per sé oggetto, non appartiene la sussistenza: la sussistenza adunque della colonna non è per sé oggetto. E tuttavia anche la sussistenza può diventare oggetto per partecipazione: il che si dice essere oggettivata. La sussistenza si oggettiva congiungendosi all' oggetto, con una maniera speciale, che qui descriveremo. Il principio umano è razionale; ma al principio razionale costituente l' uomo è naturalmente congiunta un' attività sensitiva, che da se stessa non è umana, ma dicesi umana in quanto è unita e sottostà al principio razionale. Questo sentimento, come pure ogni altro sentimento, presta materia alla cognizione umana. Ma il sentimento non si fa materia alla cognizione umana, se non quando il principio razionale con un atto suo proprio lo percepisce. Tale atto è duplice: e noi gli abbiamo imposto i nomi di universalizzazione , che è una funzione speciale dell' intuizione, e di affermazione . La materia del conoscere data dal sentimento viene oggettivata coll' universalizzazione, e non coll' affermazione. Infatti, che cosa è l' oggetto? Egli è un ente o un' entità considerata dall' intendimento nella sua pura essenza. Dunque, quando considero la colonna di porfido, ho oggettivato colla mente tutto ciò che mi ha somministrato il senso. Ho considerato quella pietra nella sua possibilità. Formato una volta nel mio intelletto un tale pensiero, l' azione della colonna su' miei sensi può cessare del tutto, la stessa colonna può essere annullata. L' oggetto del mio pensiero rimane tuttavia. L' oggetto del mio pensiero è bensí la colonna sensibile, ma solo nella sua possibilità, non nella sua realità: la realità dunque, l' azione attuale e reale, è cosa straniera all' oggetto del pensiero, giace fuori di quest' oggetto; ma la possibilità di tutte queste cose entra nell' oggetto. Ma qualora la colonna sensibile mi cagioni attualmente le sensazioni, allora non solo ne conosco l' essenza, ma ben anco dico: « quest' essenza di colonna, quest' oggetto possibile, non è soltanto possibile, ma è attualmente sussistente ed operante in me ». Con dir questo non ho mutata l' essenza; ma di quest' oggetto ho predicato l' attualità. Si dirà: ma se l' oggetto è divenuto reale, se acquistò l' attualità, non s' è egli aumentato con ciò stesso? - No; qui è il punto piú difficile ad asseguirsi. Quand' io pensavo la colonna nella sua pura essenza, io pensavo anche la sua attualità e realità, ma non la sentivo: ciò che mancava non era che il sentimento, e il solo sentimento è per se stesso fuori della sfera della cognizione, è un eterogeneo: tutto ciò dunque che è per sé conoscibile nella colonna, io lo possedevo nell' oggetto. L' attualità e la realità è conosciuta appieno dalla mente che ne contempla la natura. Dunque l' affermazione di questo sentimento non aggiunge nulla all' oggetto della mente, neppure la cognizione dell' attualità e della realità; ma aggiunge qualche cosa al soggetto uomo, il quale non è solamente mente, ma mente unita al sentimento (1). L' oggetto dunque essenziale è l' essere ideale, o sia puro da ogni limitazione, o sia limitato dalla relazione sua al reale limitato che nel modo detto si oggettiva. Un recente scrittore, disconoscendo questa verità la travolge siffattamente, che, il reale egli afferma essere il solo oggetto e dichiara soggettivo il puro ideale: cioè a dire, quello che è oggettivo lo fa soggettivo, e viceversa. Primieramente egli tolse dai sensisti l' erroneo pregiudizio che l' essere ideale si faccia per via d' astrazione (1). Di poi non s' accorse che anzi i veri astratti sono per sé oggetti, e che il soggetto intuente non è autore di essi, ma unicamente della loro limitazione e determinazione: onde questa si può dir soggettiva, ma non l' astratto in se stesso (2). Su questi due errori è fondato il paralogismo su cui cammina tutta l' opera sua Degli errori , ecc.; la quale tende a provare che l' essere ideale è cosa soggettiva, accagionandoci poi di panteismo e d' altri assurdi, perché diamo a ciò che è soggettivo attributi divini. Il quale argomento a troppo maggior ragione si rivolge contro di lui, poiché, divinizzando egli il reale, che è veramente soggettivo, e facendo che l' ideale vero oggetto sia opera della mente umana, confonde il divino coll' umano e l' umano col divino (1). Convien dunque conchiudere che l' essere ideale non è produzione della mente astraente, non è opera della dialettica, ma è per sé distinto dall' essere reale. Quelli che negarono non solo l' astratto, ma l' universale, cioè l' ideale, come cosa per sé esistente, non sapendo concepire altro che il reale a cui tutto vogliono ridurre: sogliono usare del sofisma detto da noi del Creatore e della creatura . Questo sofisma consisteva in questo dilemma: « « tutto ciò che è, è Creatore o creatura » ». Onde deducevano che chi pone l' ideale essere qualche cosa distinto per se stesso dal reale lo dovevano dichiarar Dio. Ma quel sofisma antico si scioglie con una distinzione pure antica, da noi piú volte adoperata, fra Dio e le cose divine : poiché le idee sono cose divine, appartenenze di Dio e riducibili in Dio: però non viene che sieno Dio nel loro stato proprio d' idee. I platonici, lungi dal voler negare l' ideale, lo innalzarono ad essere Dio stesso, onde venne prima quel razionalismo che, cangiando Iddio in un' idea, riduce tutta la comunicazione coll' Essere supremo a freddissime speculazioni ideali. Quindi la dialettica è divenuta per tali filosofi teologia, come divenne recentemente Ontologia allo Hegel e seguaci di lui. Ma egli era impossibile che questi filosofi, i quali dall' aver veduto che nell' idea sta qualche cosa di divino, erano corsi a conchiudere che l' ideale stesso è Dio, avessero cosí ferma e costante la mente in questo primo loro concetto. Ostava a ciò primieramente il non essersi ancora marcata la distinzione fra l' ideale e il reale. Dipoi il comun senso concepiva Iddio come un realissimo. Laonde, senza che pur se ne accorgessero, nel loro Dio ideale introdussero tutte le proprietà del reale; e le idee furono tosto cangiate in anime, eroi, deità, supremi Iddii. Ora, posciaché il commercio dell' uomo colle idee è frequentissimo e naturale, ne doveva venire, e ne venne la conseguenza che si supponessero frequenti e naturali comunicazioni con Dio e cogli Dei minori: onde tutte le superstizioni degli ultimi platonici, la Teurgía e la magía. Ma per tornare a coloro che tolgono via l' essere ideale per sé essente dichiarandolo produzione dell' umano soggetto, essi si partono in due sètte. L' una e l' altra vuole che sia l' astrazione quella che lo produce: ma i primi danno per oggetto reale su cui opera l' astrazione, gli esseri finiti; quelli dell' altra sètta, che procede dall' Hegel, vogliono che l' astrazione si eserciti sull' essere reale infinito, che a detta di Vincenzo Gioberti è termine primitivo e naturale dell' umano intuito. I primi sono i sensisti e i nominali; i secondi denominarono il loro sistema ontoteismo. Gli uni e gli altri convengono finalmente in questo: che il solo reale per sé esiste, e l' ideale non è che un' astrazione, un essere mentale che dal reale non è per sé distinto, ma solo per opera della mente. Noi riconosciamo bensí una relazione essenziale dell' ideale colla mente; ma neghiamo che l' ideale, in quant' è oggetto, sia un prodotto della mente: anzi la mente umana da lui dipende e dalla sua presenza è creata. La mente poi divina è compresente al suo oggetto né a lui inferiore. E veramente se l' ideale o universale è puramente soggettiva produzione dell' umana mente, non è piú in lui che possiamo trovare un dettame autorevole per la nostra condotta morale: egli non può imporre obbligazione piú di quel che l' uomo possa imporla a se stesso (1). Quindi la legge dovrà ridursi al positivo volere di un essere reale, senza che le azioni abbiano in se stesse alcuna differenza che le rendano per sé buone o per sé cattive. Questa conseguenza fu tirata dal celebre discepolo di Scoto, Giovanni Occamo. Occamo fu seguitato da Pietro Alliaco, da Andrea di Castelnovo e da altri. L' eredità di questi passò in Gregorio da Rimini e in Gabriello Biel (2), e da questi in Lutero, divenuta cosí per qualche secolo proprietà dei Protestanti (3). Occamo e tutti i suoi successori furono condannati dalla Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica aveva troppa ragione di condannare una dottrina che toglieva l' intrinseca distinzione fra le azioni buone e cattive. Perocché, se non vi ha differenza morale fra le azioni, ne procede che la volontà, la quale prescrive le une e condanna le altre, operi senza ragione, di puro arbitrio. Laonde si verrebbe cosí a spogliare la volontà dello stesso supremo Legislatore di ogni bontà e di ogni lume e per conseguente di ogni autorità. Le stesse leggi positive conviene che abbiano in qualche modo un fine buono, altrimenti ne cessa la possibilità. Dee considerarsi attentamente che fra la volontà del legislatore e ciò che essa comanda o proibisce passa quello stesso sintesismo che trovasi tra l' intelletto e il suo oggetto l' ente: poiché la volontà è la stessa intelligenza in quant' è attiva; e il bene, oggetto necessario di lei, è lo stesso ente termine di tale attività. Ora, se l' universale e l' ideale non è luce autorevole che dimostri il buono ed il reo, non vi ha piú ragione di ubbidire ad una volontà legislatrice. Ma se l' ideale non è un vero oggetto, ma è cosa soggettiva ed umana, cessa ogni suo valore di mostrare e di provare checchessia; quindi è tolta via l' autorità stessa della volontà divina. Doveva dunque la Chiesa cattolica condannare quel sistema dei Nominali. Ma l' errore di quelli che non riconoscono l' ente sotto altra forma per sé che quella della realità, racchiude in seno molt' altre conseguenze, sovversive de' principali dogmi del cristianesimo; onde la Chiesa fu mossa a ripetere piú volte la condanna di quel sistema (1). E veramente, se l' ente in se stesso non è che reale, come potranno distinguersi le tre divine persone senza cangiarle in tre Iddii? Il nominalista Roscelino si appigliò al Triteismo, argomentando appunto cosí: Il solo essere reale è per sé, e il reale è sempre singolare e individuale. I singolari individui niente hanno di comune, poiché il comune è universale, e quindi ideale, che non è per sé: dunque le persone divine sono tre individui uguali, bensí, ma non aventi in comune la stessa identica natura. Un altro errore del Roscelino, conseguente al primo, si era: che col Figlio si fossero incarnate le altre due persone (2). Laonde sant' Anselmo chiamò i nominali dialetticamente eretici (3). E qui vuolsi diligentemente notare, che quelli che non riconoscono l' ideale come per sé distinto dal reale, distruggono il dogma della cristiana trinità: non già perché la divina natura sia qualche cosa d' ideale; ma piuttosto perché, distrutto l' ideale, non sono piú concepibili relazioni di sorta alcuna, né accidentali, né essenziali, né personali. Che anzi lo stesso Roscelino non fu abbastanza coerente all' error suo quando diede alle persone una uguale volontà e potenza (1). Ci son di quelli, che pretendono non avervi distinzione sostanziale fra il nominalismo e il concettualismo (2). Io credo che ci sia: credo che i nominali non riflettessero nemmanco al bisogno de' concetti, ma non s' avvisassero che i soli nomi potessero surrogare gli universali, onde sant' Anselmo li appella [...OMISSIS...] ; i concettualisti all' incontro s' accorgessero del bisogno de' concetti, ma li avessero come produzioni soggettive della mente. Per questo cadevano negli stessi errori teologici de' nominali, ovvero in errori simili, poiché, se l' essere ideale è un prodotto soggettivo, egli non è piú per sé ente distinto dal reale; il che equivale a negare la sua originale dignità, la sua divina natura. Se dunque la filosofia de' giorni nostri non ispezza il filo che la raggiunse a quella de' nostri maggiori; se vogliamo da' naufragŒ de' precedenti navigatori, dotati diligentemente in sulla carta, conservar memoria de' banchi in cui arenarono, e cosí render sicura la nostra filosofica navigazione: da quale epoca della storia filosofica potremo cavare migliori indirizzi, che dalle disputazioni, cioè, de' nominali, de' concettualisti e de' realisti, soprattutto poi dalle venerabili sentenze pronunciate in mezzo a quelle dispute dalla Chiesa? Non sarebbe egli tempo di sbandire oggimai dalla filosofia quel principio che produsse tante eresie? Or tuttavia, a che si riduce la filosofia de' moderni filosofi? Ella ricade perpetuamente in quell' errore. Per non dir che de' nostri, onde è mai che il Galluppi, il Mamiani, il Romagnosi, il Testa, il Gioberti, e tant' altri, deducono l' essere ideale, se non dal reale che dichiarano anteriore e per sé ente dando a lui solo l' oggettività, che pure al solo ideale veramente appartiene? Tutti questi filosofi soggettivisti di varie forme, non riconoscendo che un ente originale, il reale, debbono riuscire, qualor sieno conseguenti a se stessi, al sistema degli unitarŒ o a quello dei triteisti, e a tutti gli altri pe' quali fu condannato dalla Chiesa il nominalismo ed il concettualismo. Rimane dunque provato: 1) Che parlando dell' essere senza piú, questo è identico sotto due forme, cioè sotto la forma ideale e sotto la forma reale. La prima delle quali dà all' uomo l' universalità, la seconda la singolarità. Questa distinzione dell' essere è primitiva: forma parte dell' ordine intrinseco dell' essere stesso, e senz' essa non sarebbe l' essere, né la mente, né il pensiero. Onde è cosa falsissima farla una produzione della dialettica. 2) Che queste due forme o modi dell' essere sintesizzano tuttavia insieme per modo che l' una racchiude l' altra, l' una non può stare senza l' altra. Fermato questo, giova ora che noi vediamo che cosa l' ideale, che è per sé oggetto, in se stesso contenga. Noi abbiamo veduto che in sé contiene l' essenza dell' essere precisa dalle sue determinazioni , la quale fu anche per noi detta essere iniziale . Che contiene adunque la pura essenza dell' essere, che si rivela al soggetto umano? Ella contiene quanto segue: 1) Il primo elemento di ogni cognizione . - Perocché in qualunque cognizione il primo elemento è l' esistenza della cosa che si conosce, o della quale si conosce qualche cosa. Ma qui già è da porsi in guardia di non prendere equivoco: perocché altro è il conoscere il primo elemento di ogni cognizione, il che non è altro se non sapere che cosa sia esistenza, e altro è sapere che una cosa realmente esista, il che si fa affermandola. Nell' essere adunque puro e indeterminato, di cui io ho notizia per natura, posseggo benissimo l' idea dell' esistenza, della realità, della sussistenza; ma non sono mica messo in comunicazione colla realità e sussistenza degli enti. Onde, quando la reale sussistenza degli enti entra meco in comunicazione, allora io riconosco in essi e affermo quella sussistenza di cui io m' avevo l' idea. Il sapere in generale che cosa è sussistere, ossia l' averne l' idea, è il primo elemento di ogni cognizione; è ciò da cui la cognizione incomincia. E poiché, se manca il primo atto mancano tutti gli altri, perciò questa notizia è la forma dei conoscimenti, il lume dell' intelletto, spento il quale non restano che tenebre. 2) La ragione dell' ordine intrinseco dell' essere . - Questa è verità di altissima conseguenza. Ciò che noi vogliam dire con essa si è, che allorquando si ponga che l' essere, quasi aprendo il suo seno allo sguardo dell' uomo manifestasse tutto sé, sicché l' uomo intendesse a pieno come egli è organato, di quale ordine maraviglioso abbellito, scevro da ogni disordine e causalità: l' uomo vedrebbe manifesta la necessità di ogni parte di quell' ordine ed organismo dell' essere; e tale necessità consisterebbe in questo che egli non sarebbe piú essere, se non fosse cosí ordinato, gli mancherebbe l' essenza di essere se una sola porzione di quell' ordine gli mancasse. Il che è quanto dire, che la pura essenza dell' essere (l' essere ideale indeterminato) è la ragione suprema dell' ordine intrinseco all' essere, la ragione del modo o de' modi in cui è. Ma qui si osservi attentamente che altro è la ragione dell' ordine, ed altro è l' ordine dell' essere. Questo è moltiplice, non essendovi ordine senza pluralità; quella è una e semplicissima. Di che viene la conseguenza che l' essenza dell' essere può conoscersi senza ordine dell' essere, perché quella è diversa da questo; ma solo allora quando sta presente all' intelligenza nel tempo stesso l' essenza dell' essere e l' essere ordinato e compiuto, solo allora l' essenza dell' essere acquista dinanzi all' intelligenza stessa la qualità di ragione del detto ordine, qualità che non si poteva prima conoscere, perché racchiude una relazione coll' ordine dell' essere per anco ignoto. Indi è che si può dire, che, quantunque l' essere ideale non faccia conoscere da sé solo qual sia l' ordine interiore dell' essere, tuttavia lo contenga virtualmente o implicitamente appunto perché egli n' è l' altissima ragione; e però egli diventa il lume a conoscere quest' ordine, tostoché quest' ordine sia comunicato all' uomo nel sentimento. 3) La ragione delle determinazioni dell' Essere . - La parola determinazioni significa i termini, i finimenti e completamenti dell' essere, giacché in ciascun essere la mente concepisce un principio ed un fine. Che se la mente concepisce l' ente solo nel suo principio, senza il suo fine o termine, si chiama essere indeterminato. Ora i termini possibili e finimenti dell' essere sono diversissimi, e variatissimi, e possono essere di condizione finita o infinita ed illimitata. Quindi la parola determinazioni è assai diversa da quella di limitazioni , sicché di Dio, a ragion d' esempio, si può dire che è un essere determinato , benché non si possa dire che sia limitato. Diciamo adunque che l' essere ideale, ossia l' essenza pura dell' essere, contiene la ragione di tutte le determinazioni possibili dell' essere o finite o infinite. Non diciamo già ch' ella presenti la ragione piuttosto di queste che di quelle determinazioni possibili, ma bensí di tutto il complesso di tali determinazioni. Non già del perché una determinazione sia realizzata e l' altra no, ma la ragione del perché una determinazione qualunque sia possibile a realizzarsi. Tuttavia tale prerogativa ed attitudine non si manifesta se non al caso di usarne; e il caso si dà solo allora che ci sono dati degli esseri reali, e con essi insieme le loro determinazioni. E qui di passaggio giova distinguere tra gli esseri reali finiti, e l' Essere reale infinito. Poiché l' Essere reale infinito, posto che ci sia dato da percepire, non è piú un essere nuovo, ma solo il compimento e la determinazione dell' essenza dell' Essere, ma gli esseri finiti nello stesso tempo sono esseri nuovi in quanto alla loro realità, e sono parziali determinazioni dell' essenza dell' essere in quanto alla propria essenza. 4) La ragione dell' Essere assoluto . - Da ciò che dicevamo risulta questo vero, che se ci fosse dato a concepire l' Essere assoluto, noi troveremmo la ragione di lui nell' essenza dell' Essere. Dicendo « la ragion di lui »non dico solo la ragione dell' ordine, o delle determinazioni dell' Essere assoluto (il che già indicammo), ma della sua realità e sussistenza; perocché non sarebbe assoluto se non fosse reale e sussistente; di maniera che questo è solo quell' essere, nell' essenza del quale entra la realità. Che l' essenza dell' essere sia ragion dell' ordine e delle determinazioni, questo non si può sapere se non allora che si contrae questo ordine e queste determinazioni. All' incontro che l' essere ideale sia ragione di una realità infinita, questo si può sapere, purché si abbia conosciuta qualche realità, e se n' abbia tratto la notizia generale della realità. E ciò perché essa stessa l' idea dell' essere mostra d' essere un cotal tema non compiuto ed intero. E nel vero, supponendo che già si sappia che cosa sia realità, si sa tantosto che questo è il termine dell' idea. Avendovi adunque un essere ideale, illimitato, infinito, e necessario, egli è gioco forza che ci sia pure una realità illimitata, infinita, necessaria che costituisca il suo proprio termine. Argomentando dunque dall' essere ideale, la mente perviene a conoscere l' esistenza divina. Quindi dicevamo che l' essere ideale si porge a noi come ragione dell' Essere assoluto; ossia dà a noi la ragione, perché la mente nostra è obbligata ad ammetterne l' esistenza. Né ciò conduce già all' assurdo, che Iddio abbia una ragione fuori di sé; giacché l' argomento, che noi facemmo, importa anzi che Iddio ha la ragione di sé in se stesso; la qual ragione è a noi comunicata, precisa dall' essenza divina, ma tale che ben si scorge esser essa un' appartenenza di Dio medesimo. - Ma Iddio ha egli una ragione? - Non ripugna ammetterla, purché si ponga in lui stesso, e non fuori di lui. La quale dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori non può essere direttamente impugnata; ma dà occasione a considerare certe verità che, a primo aspetto sembrano non certo assurde, ma misteriose ed inesplicabili le quali possono benissimo proporsi in forma di obbiezione. Eccone una: « Voi dite che l' essenza dell' essere ha d' avere i suoi termini: e lei unita co' suoi termini, e compiuta, dite esser appunto l' Essere assoluto. Ma voi chiamate termini di quell' essenza anche gli enti contingenti, onde pare che facciate di questi una cotal porzione di Dio ». La verità difficile, esclusa la quale si presenta una tale obbiezione, si è il distinguere i termini dell' essenza dell' essere che compiono quest' essenza e le sono necessarŒ acciocché sia, dai termini che non le sono necessarŒ né la compiono. Onde gli enti contingenti si dicono termini dell' essere ideale, o essenze pure dell' essere, in tutt' altro significato da quello nel quale si dicono termini di lei i termini suoi necessarŒ. A conclusione di tutto ciò noi riassumeremo cosí: 1) E` a noi nota per natura l' essenza pura dell' essere, e in questo non può cadere inganno alcuno, perché l' essenza dell' essere è la verità stessa (1). 2) L' essenza pura dell' essere che è a noi data è la pura notizia di che cosa sia esistenza , onde questa notizia si chiama anco idea dell' esistenza . 3) L' essenza pura dell' essere è la nozione della pura esistenza, perché manca de' suoi termini necessarŒ e completivi (come pure d' ogni altro); e però dicesi anco essere iniziale, perché è ciò onde incomincia ogni ente concepibile acciocché sia ente: quindi anco il primo elemento d' ogni cognizione. 4) A malgrado che l' essere da noi intuíto non sia che iniziale, egli è la ragione di tutti gli enti; e però al confronto con essi, egli ci fa conoscere perché sieno cosí, e non altramente. 5) La notizia dell' essere iniziale ci fa conoscere altresí la necessità che esista un Essere assoluto, cioè la necessità che l' essere iniziale sia in se stesso compiuto; e però contiene un principio che ci conduce alla cognizione dell' esistenza di Dio; non però della sua natura. Se dunque l' essere ideale è essente per sé; coesistente e non posteriore al reale; non prodotto da alcuna mente, ma termine di ogni mente: e se nell' ideale si contiene la ragione suprema e la possibilità di tutti gli enti reali, del loro ordine intrinseco e delle distinzioni che si possono fare in essi: dunque la dialettica non è la causa né la ragion suprema della pluralità che dicevamo; ma essa anzi deve ricorrere all' essere ideale per trovarci dentro questa ragione, onde la pluralità degli enti e delle distinzioni originariamente procede. Vero è che la ragione della pluralità non è la pluralità stessa, benché virtualmente la contenga. Questa pluralità è propia dell' essere reale, e dalla natura di questo si deve desumere: quando poi la pluralità esiste realmente, allora si vede attuata nell' ideale; e in esso se ne contempla la ragione altresí, che prima ci stava occulta in modo virtuale. Nell' essere ideale trovano un corrispondente le stesse finzioni, gli stessi errori dello spirito umano; né perciò essi sono dall' ideale giustificati, perocché li presenta per quel che sono, cioè per finzioni ed errori. La cognizione umana è limitata, è imperfetta: ne vien quindi ch' ella sia necessariamente fallace? V' ebbero alcuni filosofi i quali credettero poter fare questa illazione. Perocché nell' ente, se questo non si presenta all' intelligenza tal quale è in se stesso, l' intelligenza vedrebbe l' ente come non è, e quindi vedrebbe il falso. Ma l' ente in se stesso è illimitato. Se dunque la mente non vede tutto l' ente, e però è fallace e priva di verità la sua cognizione. Al quale argomento rispondiamo accordando che la verità esige una certa infinità. Ma questa condizione si avvera appunto mediante l' intuizione dell' essere ideale. Perocché in questo vi ha tutta l' essenza dell' essere, la ragione come vedemmo di tutto l' ordine dell' essere: lo stesso essere reale e morale vi si comprende, benché solo virtualmente. Di che avviene che la cognizione dell' ente è sempre vera purché si riferisca a tutto l' ente, quantunque non sia cosí intensa e vivace e cosí esplicata come potrebbe essere. A quella guisa appunto che una formula algebrica può contenere la vera soluzione d' un problema benché non sia tratta fuori in numeri. Il qual vero è importantissimo all' argomento di questo libro. Nel quale noi ci siamo proposti di parlare delle diverse apparizioni dell' essere nella mente umana, e di cercare: « quali appartengono alla dialettica, quali sono superiori ed anteriori ad essa: se è vero che la dialettica o il movimento del pensiero sia quello che spezza l' ente, uno per sé; se le apparizioni dell' ente ci ingannino necessariamente ». Ora tutte le apparizioni dell' essere si riducono a tre generi, che costituiscono altrettanti modi di conoscere proprŒ dell' uomo: 1) Quello dell' essere ideale , che la natura dà all' uomo, onde quel modo di conoscere che si chiama intuizione . 2) Quello dell' essere reale , che in misura limitata si dà alla natura dell' uomo, onde il modo di conoscere che si chiama percezione . 3) Quello che ha luogo in virtú dell' attività stessa dell' anima, la quale si esercita su quell' ideale e reale che le è dato da natura, onde il modo di conoscere che si chiama riflessione . L' intuizione è illimitata. La percezione è limitata dalla natura. La riflessione viene dall' attività dell' anima e non solo è limitata, come è limitata questa attività, ma in quanto ella contiene il modo di conoscere per via di predicazione soggiace al vero ed al falso; poiché il vero ed il falso sta sempre in questa maniera di conoscere. La prima di queste tre maniere di conoscere, essendo illimitata, presenta allo spirito la stessa verità, e quindi la norma colla quale vengono perfezionate e rettificate le altre due. Il conoscere per via di percezione, quando si riscontra a quella norma, si ravvisa limitato: e questo basta per impedire che egli non inganni l' uomo: giacché il sapere che è limitato, è sapere il vero e non il falso, il qual si avrebbe soltanto qualora si giudicasse illimitato quello che è limitato. Il conoscere per via di riflessione talora è solamente limitato; talora è un conoscere falso, nel qual caso non è, a dir vero, piú conoscere, ma solo credere di conoscere. In quanto al conoscere riflesso egli è limitato riscontrato alla norma, cioè alla verità, che si conosce nel primo modo; viene perfezionato in questo senso che se ne conosce la limitazione, ond' è ch' egli non può piú ingannare. Ché quando il conoscere limitato si conosce fornito di quella limitazione che gli è propria, già diventa con ciò stesso un conoscere verace e non può piú ingannare. Quando poi nella riflessione cade errore, vi è sempre la via di rettificarlo, bastando che si riscontri alla norma suprema, e cosí l' errore è tolto appunto perché è conosciuto. Quindi in tutte affatto le apparizioni dell' essere non vi ha mai inganno od errore necessario, benché possa esservi necessaria limitazione. La ragion prima d' ogni limitazione dell' umano sapere sta in questo, che la natura comunica l' essere reale limitato. Infatti l' essere ideale è dato dall' intelligenza senza limitazione. Or onde che l' oggetto dell' intuito umano sia l' essere ideale senza il reale? Questa separazione del reale dall' ideale vien' ella dal soggetto umano? dalla sua limitata realità? Appunto cosí. E veramente noi dimostrammo che l' essere in sé non può avere la sola forma ideale. La separazione dunque dell' una dall' altra non dipende dall' essere, ma dal soggetto, che per sua propria limitazione riceve l' una e non l' altra. A chiarire la questione noi porremo un principio generale: « Riducendosi ogni realità al sentimento e a ciò che cade nel sentimento, niun essere può apprendere l' ente reale se non per via di sentimento: quindi ogni essere finito essendo un sentimento finito per natura, non può apprendere che un sentimento piú o meno finito secondo che è quel sentimento che lo costituisce ». Dal qual principio deriva questa importantissima conseguenza che niun ente finito può apprendere o percepire per natura l' essere reale infinito. Consegue che di necessità l' essere ideale risplenda alle menti finite solo, senza il suo corrispondente reale. Si dirà: se l' ideale è relativo al reale, come può starsene tutto solo nella mente? Rispondo che ei contiene il reale virtualmente e questo basta a fare ch' egli si possa comunicare, e a dar indizio della necessità del reale corrispondente: ma non basta a fare che si percepisca attualmente il reale stesso. Contenere virtualmente il reale, e averne in sé la ragione, viene al medesimo. Quindi è che s' abbia nel sol reale un punto nel quale la mente appoggiandosi si può slanciare a indovinare per cosí dire che un reale corrispondente all' ideale debba esistere, benché non lo percepisca, né sappia determinarne le positive qualità. Vi è dunque nell' ideale una cotal scienza di semplice indicazione del reale: scienza che noi diciamo negativa, perché non sa indicare le positive qualità del reale, di cui però quasi divina la necessaria esistenza (1). E` dunque da conchiudersi che l' essere reale infinito non può essere percepito da nessun essere finito per sua propria natura; ma solo l' infinito reale può percepir se stesso per sua natura, perché la realità infinita è la sua natura. Se dunque l' essere finito percepisce il reale infinito, non può concepirlo che come cosa sopraggiunta e datagli altronde. E questo è quello che insegnano anco i teologi cristiani quando dicono che niun essere finito può vedere Dio per natura, ma solo per grazia. Ma rimane dopo di ciò a ricercarsi come questi reali finiti, possano aver luogo. Ciascun di essi è forse il sentimento infinito che pone de' confini a se' medesimo? Come si possono concepire de' sentimenti finiti fuori dall' intuito se questo già abbraccia tutto? Poiché come sarebbe infinito se non abbracciasse tutto, se non comprendesse ogni sentimento? Le quali ricerche appartengono tutte al problema della Creazione, che noi ci riserbiamo di trattare a parte. La ragione dunque del perché la percezione sia limitata ad un reale finito si riduce al perché un reale finito possa essere creato; giacché, supposta la creazione d' un reale finito, ne vien qual necessaria conseguenza che la natural percezione di questo reale finito non possa eccedere i confini di esso reale finito. L' intuizione e la percezione precedono dunque la riflessione, giacché sono atti semplici: in essi non vi ha discorso da un pensiero ad un altro. La dialettica adunque, che è il movimento del pensiero, il passaggio d' un pensiero in un altro, è posteriore all' intuizione ed alla percezione; e però quella divisione dell' ente, come pure quelle determinazioni e quelle limitazioni che sono poste dall' intuizione e dalla percezione, non procedono dalla dialettica, ma sono a questa anteriori: sono date o dalla natura dell' ente senza piú, quali sono le distinzioni categoriche, o dalle leggi della Creazione. I limitati creati non procedendo adunque dalla dialettica, come vuole Hegel, ma essendo ad essa anteriori, né pure è vero ciò che pretende questo filosofo che quelle limitazioni sieno passeggiere e mortali, perché si perdono nell' essere dialetticamente (1): niuna dialettica può fare rientrare nell' essere infinito le cose finite, come niuna dialettica poté farle uscire. La dialettica di Hegel è l' esagerazione d' una verità: tali sogliono essere tutti gli errori de' filosofi. Noi ammettiamo di buon grado una maniera di ragionare, che si può chiamare acconciamente dialettica trascendentale . Ma si restringerebbe ad arbitrio il significato della parola dialettica . L' arte di ragionare si dice dialettica, e ogni ragionamento è dialettico, se rettamente procede. Or noi diciamo dialettica trascendentale quello speciale ragionamento pel quale la riflessione, avente a materia l' intuíto ed il percepito, trova le relazioni di questi coll' essere assoluto. Questa dialettica trascendentale ha due uffici: 1) Trova ciò che nella percezione vi ha di assolutamente vero, e ciò che vi ha di vero relativamente, confrontando il percepito coll' essenza dell' ente. Nel che s' avverta che questa critica, che la dialettica trascendentale fa della percezione, non riguarda propriamente parlando la percezione stessa, ma quel primo giudizio che segue alla percezione, col quale diciamo a noi stessi o piuttosto presumiamo di conoscere il percepito d' assoluta condizione. Di questo errore ci scioglie la Dialettica trascendentale, e il fa, paragonando il finito percepito coll' infinito intuíto, ossia coll' essenza dell' essere. 2) L' altro ufficio della Dialettica trascendentale consiste nell' estendere la cognizione umana dal finito all' infinito, che è quella funzione che altrove chiamammo dell' Integrazione , la quale si compie raccogliendo le relazioni essenziali e necessarie fra il finito e l' infinito, o le relazioni categoriche. Se il negativo è il solo principio del movimento del pensiero, ne verrà che la Dialettica si rimarrà del tutto sterile, cioè non potrà uscire dalla percezione mescolata quanto si voglia colla negazione dello spirito. E questa sterilità è veramente il carattere della dialettica di Hegel, il quale non può uscire dal circolo del Mondo e delle cose contingenti come vedemmo. Poiché, per quante negazioni e negazioni di negazioni egli accumuli, altro non fa che maneggiar sempre la stessa pasta e darle forme nuove senza accrescerla pur d' una sola molecola. Il dir poi che la negazione della negazione equivale alla affermazione, è bensí vero, ma nulla conchiude a suo pro. Perocché, se il negare del negare è affermare, perché sarò io obbligato a procedere per quella doppia negazione piuttosto che a dirittura per l' affermazione? E se posso affermare senza bisogno d' altro, dunque il movimento dialettico non istà nel negare solamente, ma egualmente nell' affermare. Ma, tanto per affermare, quanto per negare, io ho bisogno di una ragione. Non è dunque il negare o l' affermare preso in astratto che dia movimento al vero pensiero dialettico; ma quella ragione che presiede alle negazioni o alle affermazioni, le giustifica e le conduce. Or questa ragione non è ella stessa né negazione né affermazione, ed ella manca al tutto alla dialettica hegeliana la qual non conosce che la scienza di predicazione. L' intuizione né afferma, né nega, ma talora omette di considerare, cioè restringe il proprio oggetto ideale. Restringendo l' oggetto dell' attenzione intuitiva, non si pronuncia nulla di falso, ma solo si limita il conoscere intuitivo. Gli antichi distinsero accuratamente la limitazione , che il soggetto intellettivo pone al suo oggetto, dalla negazione . Quella può esser fatta ad arbitrio senza questa: questa dee esser fatta con una qualche ragione, altrimenti produce un errore (1). Ora questa ragione è il vero principio del movimento dialettico del pensiero. Hegel confonde la semplice limitazione dell' oggetto colla positiva negazione, il che lo travolge ad interminabili errori. E di vero, se noi consideriamo que' modi d' argomentare, pei quali noi siamo stati condotti dal reale limitato percepito a trovare l' esistenza d' un reale infinito non percepito, vedremo che non dobbiamo cotanta scoperta alla semplice negazione, né tampoco alla limitazione; ma piuttosto a quella ragione superiore che ci ha fatto conoscere la stessa limitazione del reale percepito, e ci ha fatto conoscere esser ella di tal indole, da dimostrare assurda l' esistenza di quel reale se non si ponga un altro reale incognito ma pur esistente che lo produca e mantenga. Infatti due furono le vie del nostro ragionare che ci condussero allo stesso termine. La prima mossa dall' ordine intrinseco e necessario dell' ente reale; il quale esige che ogni ente reale debba avere un atto assolutamente primo. Onde ogni atto reale che non è assolutamente primo, esige, per poter essere, un altro atto reale che sia assolutamente primo. Questo principio ontologico diede la mossa al nostro ragionamento, e non la sola limitazione del percepito (molto meno alcuna negazione). Il qual principio non è finalmente altro che la relazione categorica fra l' essere reale e l' essere ideale applicata all' essere reale limitato, e cosí trasformata in un giudizio che dimostra l' insufficienza di questo solo. Ma questa legge ontologica, che ci condusse a trovare una prima causa reale dell' ente reale da noi percepito, non ci bastò tuttavia a dimostrare che questa causa dovesse essere in atto, giacché nell' idea d' una causa reale non si contiene la necessità della sua attuazione, potendosi pensare tanto in atto quanto in potenza. Non contenendosi adunque nel concetto d' un primo ente reale assoluto l' atto stesso produttore della realità limitata, noi dovemmo supporre, per la stessa necessità logica, che questo primo essere siasi determinato liberamente a produrre il reale limitato, essendo questa la sola supposizione che ne spieghi l' esistenza. Ma quell' atto libero, per sé solo considerato, mancava della sua ragione, di natura sua essendo possibile egualmente che fosse posto e che non fosse. Or egli è posto, noi lo sappiamo: perché è posto il suo effetto, il percepito. Ma l' affermare che quell' atto sia posto, quando può esser l' una cosa e l' altra, suppone la scienza di predicazione andata al di là della scienza d' intuizione. Or questo è assurdo. Convien dunque restituir l' equilibrio fra l' una e l' altra scienza. A tal fine ricorremmo ad una legge dell' essere morale. Questa legge risulta dalla relazione categorica fra l' essere morale e l' essere ideale. L' essere morale supremo (perfetto, essenziale) ama, vuole, produce l' ordine perfetto dell' essere reale che è conoscibile nell' ideale. Acciocché dunque l' idea e l' affermazione riescano equilibrate, io debbo ricorrere ad un' altra idea che giustifichi l' affermazione, e quest' è l' idea d' un reale operante come prima causa. Se nell' idea di questo reale supremo non si contiene l' operazione, debbo ricorrere alla ragione morale, come abbiamo già detto. Per questa maniera di dialettizzare la mente trapassa tutti i confini dello spazio e del tempo, della materia e dello spirito umano, e in una parola del creato universo: Hegel colla sua negazione non può mai varcare questi confini, onde l' ateismo ed il materialismo del suo sistema. Egli cerca invero di divinizzare il pensiero ed il mondo, che è per lui nel pensiero, rifuggendosi cosí nel panteismo: ora questo stesso egli fa ad arbitrio, perché a giusta ragione né il pensiero umano né il mondo può cangiarsi nella divinità. Que' due primi errori sono conseguenti al suo sistema; quest' ultimo è di piú una inconseguenza. L' intuizione e la percezione non ammettono errore. L' errore adunque incomincia colla riflessione. Noi abbiamo parlato di quella riflessione ben ordinata che tende a completar la cognizione dell' essere acquistata coll' intuizione e colla percezione, il qual uso della riflessione appellammo dialettica trascendentale . Or prima d' inoltrarmi a svolgere le altre maniere d' adoperare la riflessione, giova che noi separiamo il fenomeno dell' errore, che non è propriamente cognizione, ma cosa eterogenea al conoscere. Ogni errore si riduce ad atto dello spirito: il quale pronuncia che qualche cosa sia, quando ella non è, e viceversa. Che cosa è il vero? - Il vero è l' essere pronunciato dallo spirito. Il vero ed il falso adunque è una qualità dei pronunciati dello spirito. Se ciò che lo spirito pronuncia è l' essere, il pronunciato ha per sua qualità l' esser vero; se ciò che pronuncia non è l' essere, il pronunciato dello spirito ha per sua qualità l' esser falso. Se il pronunciato dello spirito è vero, l' uomo per esso conosce l' essere che ei pronuncia a se stesso, ha la cognizione. Se il pronunciato dello spirito è falso, non ha la cognizione. Il falso ed il vero convengono nell' essere pronunciati dello spirito, ma non nell' essere cognizione. Quanti uomini dotti apparirebbero ignoranti, se si separasse tutto ciò che v' ha di erroneo nelle loro opinioni! Dare il nome di dotti a quelli che insegnano grandi cose, ma erronee, è abuso di vocaboli: sarebbe tempo che il mondo se ne vergognasse. Ma nell' errore non vi ha ignoranza solamente; vi ha di piú falsa credenza. La credenza è una disposizione soggettiva: la cognizione non è mai puramente soggettiva; dee avere un oggetto. Se l' oggetto non c' è, l' uomo può fingerlo, ma il fingerlo non fa che sia. Quindi si deduce: 1) che l' errore appartiene a quella forma di conoscere che dicemmo di predicazione; 2) che quantunque l' errore tenga la forma di questo conoscere, tuttavia egli non è mai propriamente cognizione; 3) che egli è una disposizione soggettiva; 4) che questa disposizione pone il soggetto intellettivo in contraddizione coll' oggetto; 5) che l' errore suppone un' attività intellettuale, la qual muove se stessa, non verso l' oggetto, ma a ritroso di lui; 6) che l' errore non istà nell' oggetto, ma in ciò che si afferma o si nega intorno all' oggetto. L' errore dunque è un conoscere privo d' oggetto: la sua natura per questo consiste nel negativo, e non punto nel positivo, qual è sempre la natura del male (1). Ma per ben intendere come l' errore sia privo di oggetto, conviene porre attenzione a queste tre cose: 1) che ciò che v' ha di oggettivo nel pensiero erroneo, non è ciò che costituisce l' errore; 2) che il credere ad un oggetto assurdo, non è aver veramente dinanzi alla mente un oggetto; 3) che l' affermare, o il negare, non è cosa che appartenga all' oggetto, ma al soggetto, e non produce un oggetto, ma semplicemente una disposizione soggettiva che dicesi fede, persuasione, ecc.. Rimane dunque il credere senza oggetto. Rimane l' atto soggettivo, la persuasione che termina nel nulla. Or che cos' è dunque questo credere? Questo persuadersi che certi elementi di conoscere con certi nessi abbiano un risultamento quando non l' hanno? Abbiamo detto che è una disposizione soggettiva di un essere intelligente, la quale rimane senza oggetto. E una disposizione soggettiva è del pari l' affermazione e la negazione. Non è poco difficile a intendere bene la natura di tali disposizioni soggettive. In prima, tali maniere di disposizioni non possono cadere che in un soggetto intelligente. Egli da se stesso si muove verso l' oggetto per prenderlo e farlo suo: questo impossessarsi dell' oggetto e appropriarselo, fa sí che la cognizione diventi una disposizione che il soggetto dà a se stesso; poiché lo sforzo posto in essa, il possesso di essa, è tutta operazione e atteggiamento soggettivo. Tale è il verbo della mente; è un pronunciato del soggetto. Tale è la credenza: questo aderire, questo assentire, o affermare, ovvero fare il contrario di tutto ciò, è attività soggettiva suscettibile di vero e di falso. Se si assente ad una proposizione falsa, vi ha l' errore. Ma se il falso della proposizione fosse evidente, niuno potrebbe assentirvi. Conviene adunque sempre che il falso si nasconda: onde in ogni errore cade nel soggetto qualche oscurità; assente a ciò che non vede chiaro, a ciò di cui non vede chiaro la ragione. Ogni qualvolta adunque lo spirito umano impera a se stesso di assentire e credere a proposizioni che esprimono ciò che non è ( errore semplice ), o ciò che non può essere ( assurdo ), vi ha errore: il qual si può definire « un atto dell' essere intellettivo che non raggiunge l' essere ». Dalle quali considerazioni in primo luogo s' intende che gli errori e gli assurdi non sono punto entità; e che perciò la ricerca ontologica non ha bisogno d' occuparsi intorno alla generazione degli errori e degli assurdi, che come tali non sono punto entità. In secondo luogo, si ravvisa quanto vanamente l' Hegel abbia infarcito l' ontologia delle negazioni, de' negativi, del nulla, pareggiando il nulla all' essere, perché anche il nulla viene pensato. Egli non ebbe c“lta la distinzione fra la cognizione oggettiva e la soggettiva, e quindi molto meno egli poté vedere che vi hanno degli atti del soggetto intellettivo i quali si rimangono senza loro proprio oggetto. Coll' aversi ben dichiarato pertanto questo fenomeno dello spirito intelligente di poter fare degli atti che non raggiungono alcun oggetto, si ha dissipato intieramente il prestigio della dialettica di Hegel. Il cui sofisma sta sempre nel prendere il segno dell' oggetto per l' oggetto; i componenti dell' oggetto, cioè gli oggetti che si suppongono componenti, per l' oggetto che essi debbon comporre; gli atti del soggetto intelligente e le relazioni di questi atti con qualche oggetto, per l' oggetto stesso. Nel pensare erroneo adunque interviene sempre un oggetto fattizio composto di segni, d' idee e di nessi d' idee, il quale oggetto fattizio si adopera a determinare l' oggetto ultimo del pensare, ma invano; poiché nel pensare erroneo quest' oggetto ultimo non si trova, è affatto nulla: e l' errore sta appunto in questo, nel voler che il nulla sia qualche cosa. Quindi l' errore non istà negli oggetti fattizŒ; neppure in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che non deve avere, ma in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che deve avere, che pretende d' avere quando non l' ha. S' io dico il nulla è nulla, il mio pensiero non ha oggetto, perché il nulla non è oggetto, e tuttavia non è erroneo, perché non pretende di averlo, anzi sa ed afferma di non averlo; ma s' io dico « il nulla è qualche cosa », erro, perché fo un pensiero che, mentre non deve aver alcun oggetto, vuole, pretende, afferma d' averlo (1). Questa contraddizione fra la intenzione del pensare e l' oggetto, è propriamente l' errore. Vi è dunque un pensare per via di oggetti fattizŒ, il quale non è erroneo: e di questo giova che ora parliamo. Al pensare umano presiedono queste due leggi: L' oggetto del pensiero è l' essere. L' attenzione del pensiero non può fissarsi in un essere determinato se non vi è tirata e tenuta dal reale sentito. Queste due leggi reggono il pensare oggettivo. Dato questo pensare, sopravviene l' affermazione e la negazione, cioè il pensare di predicazione. In virtú di queste due leggi accade: 1) Che l' uomo non possa limitare colla mente e determinare ad una forma speciale l' essere ideale se non prevalendosi di un reale che attiri e trattenga la sua attenzione e serva a lui di segno determinante e limitante l' ideale. Nulla di meno gli ideali determinati, cioè le specie piene, sono oggetti fattizŒ in questo senso che risultano dalla relazione categorica che passa fra l' ideale e il reale finito mediante l' intelletto. 2) Quando si comincia ad esercitare su di essi l' astrazione, interviene l' azione della riflessione soggettiva che limita vie piú l' oggetto (l' essere universale) che in natura non è limitato. Or non potendo la mente pensare una tale limitazione senza l' aiuto d' un reale, e non giovandole a ciò quel reale a cui corrisponde come tipo l' ideale, ella deve ricorrere ad un altro reale che le presti l' ufficio meramente di segno. Egli è per questo che gli astratti non si possono avere senza il linguaggio o altri segni che giovano a dirigere e fissar l' attenzione in qualche elemento dell' ideale, cioè della specie piena rattenendola dal fissarsi nell' intera specie «( Psicologia , Vol. II, n. 1515 sgg.) ». Ma, cercandone la ragione ontologica, questa si trova ne' bisogni parziali dell' uomo, e la ragione di questi bisogni molteplici e parziali dee riferirsi alla condizione del sentimento che costituisce l' uomo: soprattutto al sentimento animale, avente per termine il corpo e la materia divisibile senza termine alcuno. Diamo un esempio. Considerare le sostanze materiali nella loro qualità di alimentari, egli è un considerarle astrattamente. Ora che cosa induce l' uomo a questa astrazione? L' aver egli il bisogno di alimentarsi. E questo bisogno onde procede? Dal sentimento animale, dall' organismo, e in fine poi dalla materia. Altro dunque è l' ideale , altro le diverse vedute dello spirito che lo considera secondo i diversi bisogni dai quali è mosso a considerarlo. Onde, se la specie piena è l' ideale nella sua relazione col reale finito intero, gli astratti sono pure l' ideale considerato in relazione delle diverse parti, elementi, virtú, attitudini, bisogni del reale medesimo. L' azione dunque del soggetto intelligente è quella che moltiplica i concetti, o sieno universalmente determinati, o sieno astratti. L' oggetto, ossia l' essere ideale, in queste operazioni rimane sempre presente allo spirito, ma egli viene moltiplicato, e questa moltiplicazione è quindi l' opera del pensiero. Ma si noti bene di qual pensiero: di un pensiero i cui atti sono limitati. Quindi la domanda: « qual' è la ragione, perché gli atti del pensiero riescano cosí limitati ». A cui si risponde: « perché il pensiero è limitato al reale ». Nel che si osservi che una limitazione del pensiero ne porta un' altra. E veramente, posto che i primi atti del pensiero sieno limitati a cagione della limitazione del reale, e cosí quelli astratti che vengono tosto appresso la percezione, avviene che l' uomo sia spinto a moltissime altre astrazioni di astrazioni senza fine, tutte anch' esse limitate. Del che la ragione è questa. Il primo pensiero dell' uomo, l' intuizione naturale, ha un oggetto infinito; ma in questo primo suo atto intellettuale egli è ricettivo. La sua perfezione consiste nell' aderire all' infinito essere colla sua propria attività. Per questo il suo pensiero attivo si mette in moto. Ma questo pensiero attivo trova incontanente la limitazione del reale. Egli quindi si sforza d' uscirne per arrivare all' essere assoluto. A tal fine non gli rimane che accumulare pensieri sopra pensieri, i quali sono tutti limitati, perché sono limitati i primi ai quali è dato un termine limitato. Quest' è la ragione ond' accade che le speculazioni di quelli uomini che si danno alla contemplazione della verità sieno interminabili, e che gli uomini, per quanto sappiano, non si chiamano giammai soddisfatti: il solo sapere naturale non felicita l' uomo, perché non conduce all' intera cognizione e percezione dell' essere assoluto. Gli astratti, noi dicemmo, non si pensano dalla mente se non legati ad un reale che serve loro di segno. Questo pensare per via di segno, è un pensare limitato d' una speciale maniera. Il segno reale è oggetto certamente del pensiero; ma non è l' ultimo oggetto, il termine di un tal pensiero: questo è la cosa significata. Si pensa dunque un oggetto per mezzo di un altro. Il segno è un reale, e l' astratto significato è un oggetto ideale. Si pensa dunque un ideale per mezzo, ossia coll' aiuto, di un reale. Abbiamo veduto che il pensare limitato non è un pensare erroneo, ma che l' errore facilmente ad esso si accoppia ed è quand' egli si prende e giudica per assoluto. Ora il pensare gli astratti, come pure generalmente il pensare per via di segni, benché in se stesso non erroneo, diviene all' uomo occasione d' errori. Un primo errore prende l' uomo quando si dà a credere che gl' ideali determinati ed astratti sieno in se stessi cosí disgiunti come sono nella mente dell' uomo. Quando l' uomo pensa l' un di essi, non pensa l' altro, onde gli pare che ciascuno sia indipendente dall' altro. Un altro errore sarebbe, se, l' associazione fra il segno reale e l' astratto segnato oscurandosi dinanzi all' attività soggettiva del pensiero, l' uomo prendesse il segno per la cosa segnata. Questo errore è molto frequente e apparisce in piú forme, divenendo piú errori. Uno di questi errori si è quello de' dialettici che talora danno corpo e realità alle astrazioni: ma di questo maggiore è quello di coloro che tolgono via l' idealità, non riconoscendo altro ente che il reale; ovvero che abusando di parole chiamano reale l' ideale. Un altro errore della stessa specie fu quello dell' idolatria, onde gli uomini adoravano le immagini e i simulacri invece delle cose divine che dovevano rappresentare. Questo errore grossolano mostrava come la percezione del reale sensibile legasse a sé le menti per modo che non lasciavale piú andare all' ultimo termine insensibile a cui era v“lto il pensiero. I segni, oltre aiutare il pensiero a fissare gli astratti, lo aiutano altresí a fissare gli enti in quanto sono negati dalla mente. La parola nulla , a ragion d' esempio, significa l' ente assolutamente negato. La parola male, difetto, errore , ecc., significa l' ente in cui manca qualche cosa che vi dovrebbe essere. Questo pensare è intieramente soggettivo rispetto al suo oggetto proprio e finale, perché questo manca del tutto, e solo vi ha l' oggetto immediato che è il segno della mancanza dell' oggetto ultimo. Un tal modo di pensare non è ancora erroneo per se stesso; ma l' uomo, vi mescola facilmente degli errori, come accade se giudica che l' oggetto negato, o l' oggetto mancante a cui si riferisce il segno, sia un oggetto vero o un oggetto reale. A spiegare la facilità con cui l' uomo sdrucciola a questi errori, conviene rammentare il principio di cognizione pel quale l' uomo non può pensare nulla che non abbia la condizione di ente. Quindi allorché egli restringe la sua attenzione a pensare un astratto, il quale astratto talora è anche negativo, per esempio, limitazione, privazione, niente , ecc., egli è obbligato di considerare questi termini del suo pensiero siccome enti, altrimenti non li potrebbe pensare cosí nudi e da per sé presi. Cosí diventano oggetti fattizŒ e non veri. Vi è dunque bisogno che la riflessione critica sopravvenga, e glieli faccia riconoscere per fattizŒ, acciocché non lo ingannino. Ma questo lavoro della riflessione critica costa qualche fatica all' uomo, e però si lascia andare a prender quegli oggetti per veri: e allora ei cade in errore. Vedesi adunque che v' ha un seme d' errore nella stessa limitazione a cui soggiace l' umano pensare. Non conviene dimenticare che tutti i ragionamenti, fin qui da noi esposti, intesero ad indicare le origini delle diverse apparizioni dell' essere, di quella moltiplicità nella quale esso all' uomo si presenta. A chiarir meglio tutte queste dottrine egli è uopo dichiarare la natura dell' essere intellettuale, giacché l' uomo è un essere intellettuale, e noi parliamo della pluralità e delle diverse apparizioni dell' ente in relazione a questo. L' essere intellettuale è una conseguenza del sintesismo fra l' ideale ed il reale, perocché l' essere intellettuale è reale, ma accoppiato e informato dall' ideale (1). Ora quest' essere reale informato dall' ideale, può esser finito o infinito. Come può esser finito? Questo è quel nodo che dicemmo appartenere al problema della creazione, e qui ne supponiamo la possibilità. Ora, se l' essere reale a cui risplende l' ideale, è infinito, egli è quell' istesso essere che nell' ideale si vede, perocché nell' ideale si vede la realità infinita, ma nella forma ideale. Ma se il reale è finito, dalla congiunzione di questo coll' ideale nasce l' intellettuale finito, il quale non può vedere nell' ideale direttamente se stesso: onde l' essere ideale apparisce come fosse solo e veramente separato dal reale. Questa divisione adunque dell' ideale dal reale viene, come abbiamo detto piú sopra, unicamente dalla limitazione dell' intellettuale: la qual verità si svela dalla Dialettica critica. Quindi anche accade che l' intuizione d' un ente intellettuale limitato non facendo conoscere il reale, è necessario che il detto ente intellettuale per conoscere se stesso usi di un altro atto, quello della percezione, laddove l' intuizione propria dell' intellettuale infinito è tutt' insieme percezione di se stesso. Come poi il reale è finito, cosí di sua natura è chiuso in se stesso e non percepisce che se stesso, e quindi non percepisce il nesso di creazione che lo lega e continua al reale infinito. In tal modo egli si percepisce come una sostanza separata; benché la Dialettica critica ritrovi che questa sostanza non apossa esister sola senza che v' abbia un reale infinito che la faccia sussistere. Posta questa costituzione dell' ente reale intellettivo finito, s' intende come a prima giunta, ai primi atti dell' intelligenza, e quindi al pensar volgare, rimanga nascosto il sintesismo dell' essere. I nessi essenziali, che raggiungono le forme e le sostanze fra loro rimangono nascosti: quindi quelle e queste sembrano del tutto separate e non pur distinte. Se non ci fosse un essere intellettuale, non esisterebbero relazioni. Il confronto di due termini suppone un terzo termine oggetto in cui si operi il confronto; perocché i termini della relazione, fin che restano distinti, non si confrontano, né basta, per confrontarli a scoprirne la relazione, che si accostino; ma si debbono in qualche parte immedesimare e legare insieme. Qual è dunque questo legame? Certo che il soggetto intellettivo dee esser uno egli stesso per poterli confrontare: ma, poiché le cose conosciute sono nel soggetto intellettivo come oggetti e il soggetto intellettivo non pensa a se stesso in quant' è soggetto, le cose che si confrontano non possono ricevere l' unità dal solo soggetto intellettivo. E` dunque necessario che v' abbia un oggetto in cui si confrontino, e quest' oggetto è l' essere ideale nel quale tutti gli enti e tutte le entità si trovano co' loro nessi e vincoli sotto la forma ideale. Ma l' essere ideale, appunto perché è per essenza oggetto, sintesizza col reale, e non con ogni reale, ma propriamente col reale intellettivo. Il sintesismo adunque fra l' essere ideale e il reale non consiste solamente nel dovervi avere questi due modi di essere acciocché l' essere sia; ma consiste nel trovarsi essi cosí fattamente annodati da doverne risultare per la loro unione l' essere intellettuale. Ora, dato l' essere intellettuale, questo va discoprendo ogni ente nell' ideale, e quindi anche va discoprendo nell' ideale tutte le relazioni e tutti i legami degli enti. Tutti questi vincoli e relazioni nell' idea non si fanno già di nuovo né procedono con successione, ma vi sono tutte eterne: onde dicemmo che l' idea già contiene la ragion della pluralità degli enti [...OMISSIS...] . Ma non è per questo che l' uomo ve le veda tutte sino a principio, ma ve le va discoprendo successivamente a cagione della limitazione dei suoi atti e della poca realità che gli è comunicata. Cosí è che l' uomo va discoprendo le verità da se stesso nell' eterno specchio dell' essere (ché cosí si può chiamare l' idea) con replicati sguardi successivi. La sede dunque di tutte le relazioni è nell' idea, e suppongono l' esistenza di un essere intellettivo che in essa le intuisca. Noi ne proponiamo qui la classificazione ontologica. In prima vi hanno le relazioni eterne e per sé essenti fra le tre forme supreme dell' essere, ciascuna delle quali non sarebbe se le altre due non fossero. L' uomo, attesa la sua limitazione, intuisce l' essere ideale diviso dalla realità; cosí pure pensa in qualche modo l' essere reale diviso dall' idealità. Cosí l' uomo afferma la realità senza badare all' idealità di cui si serve per apprenderla (1). Solo colla riflessione integrante ne discopre in appresso il sintesismo. Ma l' essere morale non è oggetto de' primi pensieri dell' uomo, ma diviene oggetto della stessa riflessione; e però questa forma non si presenta semplice e divisa dalle altre due, anzi non si può concepire senza le altre due. La relazione categorica fra l' essere ideale e reale giace in un nesso ontologico fra loro, il quale nesso produce l' essere intellettuale. L' atto, pel quale l' essere intellettuale vive nell' ideale realizzato, è l' essere morale. Tale è la congiunzione intima dell' essere essente nelle tre forme. All' essere infinito, all' essere come essere, appartengono le seguenti relazioni: 1) La soggettività o realità informata dall' oggetto, e però soggettiva, la quale ha la relazione opposta coll' oggetto. 2) L' oggettività, ossia intelligibilità, in quant' è intelligibile ossia ideale, ovvero anche oggetto, ha una relazione col reale e propriamente col reale intelligente da esso ideale informato. 3) L' amabilità. L' essere, in quanto è inteso, in tanto è amabile; e perché egli è inteso nell' oggetto, è amabile nell' oggetto, e non da sé solo. Onde questa relazione non può essere costituita se non dalle due prime, in quanto il reale è conosciuto nell' ideale. 4) La soggettività o realità intellettiva informata dall' amabilità, la quale ha la relazione opposta all' amabilità. Quest' ultima relazione non è un nuovo modo di essere, ma è il modo soggettivo in quanto trovasi nell' oggettivo. Di queste primitive ontologiche relazioni noi piú innanzi favelleremo ampiamente: ci basti l' osservare come le esposte dottrine ci pongono in caso di giudicare di quella sentenza che chiama effetto della dialettica ogni pluralità che si scorga nell' ente. Discendiamo ora adunque a classificare le relazioni che ci presentano gli esseri contingenti. Le relazioni ontologiche surriferite, appunto perché intime all' essere, non possono del tutto mancare neppure ne' contingenti, perché loro non manca intieramente l' essere. Ma se l' essere non manca in essi, vi è tuttavia limitato: e la limitazione dell' essere limita altresí la partecipazione delle relazioni categoriche. Vediamo con quali distinzioni e differenze si ravvisino nell' essere contingente quelle supreme relazioni. In primo luogo, l' essere contingente non esiste come tale che sotto la forma reale. Quindi, da sé solo considerato, non si può concepire; è non7ente «( Psicologia , n. 1305 sgg.) », ente incoato, rudimento di ente. Non potendo dunque l' ente essere sotto un' unica forma, l' essere contingente dovette venir sostenuto e sorretto dall' essere eterno, acciocché non si risolvesse nel nulla. Quindi unita all' essere reale contingente, trovasi la forma ideale sempiterna. Ora il morale non è che quell' atto di vita pel quale il soggetto si compiace di tutto l' essere conosciuto nell' ideale. Quindi il morale appartiene in proprio alla totalità dell' essere, all' essere assoluto. Rimane che: il contingente non è per sé intellettuale, ma è intellettuale per partecipazione; né esso è per sé morale, ma è morale per partecipazione, o piuttosto è ordinato alla moralità. Queste sono le relazioni categoriche dell' essere partecipate dal contingente. Ma un altro fonte delle relazioni proprie dell' essere contingente nasce dalla sua stessa limitazione. La limitazione è ella stessa quella che lo rende contingente; perocché: il suo concetto è correlativo all' illimitato; questo si concepisce senza di quello, preso nel significato di prima intenzione (1). Ma quello non può essere concepito senza di questo. Il limitato è logicamente posteriore all' illimitato (2): quello si può pensare e non pensare, ma il concetto di questo è tale che, quando si pensa, s' intende impossibile di pensare il contrario: ogni limitato è dunque necessariamente contingente. Il limitato adunque e contingente ha una relazione coll' assoluto, e questa è relazione di creazione, come vedremo. Ma poiché l' assoluto è in tre modi, triplice è pure la relazione del limitato reale contingente coll' assoluto. In quanto l' assoluto è ideale, si manifesta al contingente (e il manifestarsi è una relazione ideologica). In quanto l' assoluto è morale, intanto si comunica al contingente semplicemente come legge morale, ossia obbligazione, la quale è una relazione deontologica: cosí l' essere morale non è dato al contingente, ma mostra la via di pervenirvi. In quanto poi l' essere assoluto è reale, intanto ha relazione di causa col contingente. Non gli manifesta se stesso, non essendo proprio del reale il manifestare, né comunicare se stesso, poiché non potrebbe comunicarsi all' ente contingente se prima quest' ente non fosse: e per far che sia, il che è crearlo, deve restringerlo entro i suoi confini; e produrlo entro i suoi confini è lo stesso che non comunicargli l' infinita realità (1). Ma qui è d' uopo penetrare piú addentro nella natura propria delle relazioni. La relazione in generale è un nesso fra due termini veduto dall' intelletto. Se vi potessero essere due termini veduti simultaneamente collo stesso sguardo dell' intelletto che non avessero fra loro nesso di sorta alcuna, allora si direbbe che avessero la relazione di assoluta separazione: cioè l' intelletto produrrebbe egli stesso una relazione fattizia, il vero valore della quale sarebbe intieramente negativo. La ragione, per la quale l' intelletto ha questa facoltà di considerare come positive le relazioni negative, è quella stessa che egli ha di produrre a se stesso quelle entità fattizie di cui abbiamo ragionato. Cosí l' intelletto pensa il nulla ed il negativo con un pensiero che passa per oggetti che non sono nulla. Ma sebbene l' uomo pensi di queste relazioni negative, tuttavia è impossibile che si dieno due termini del pensiero, i quali sieno privi di qualsivoglia relazione. Perocché, hanno almeno la relazione d' analogia di questo stesso che sono pensabili. Che se l' un d' essi fosse negativo, fosse il nulla a ragion d' esempio; in tal caso la relazione v' avrebbe tra il termine positivo e le operazioni dello spirito negante. Se i termini sono entrambi negativi, la relazione giace fra le due persuasioni che li costituiscono. Ma se i termini sono entrambi positivi, essi convengono almeno nell' essere, e però non può mancar loro la relazione d' identità quanto all' essere. Ora consideriamo le relazioni che cader possono fra i termini positivi, che sono vere entità. La prima cosa da notarsi si è la distinzione delle relazioni che passano fra termini della stessa natura, e quelle che passano fra termini di diversa natura. Diciamo adunque che, se, i due termini essendo della stessa natura, il primo sta al secondo in quanto alla natura come il secondo al primo, la relazione è uguale considerata da una parte e dall' altra. Ma se i termini sono di diversa natura, allora la relazione che il primo ha col secondo è anch' essa di diversa natura dalla relazione che il secondo ha al primo. Or questo stesso, si dee anche dire, proporzion fatta, di que' termini che convenissero o variassero negli accidenti: cangeranno le relazioni come cangiano gli accidenti. Questo dimostra chiaramente che ogni relazione fra due termini è duplice, e non semplice come comunemente si crede, potendosi considerare i due termini con due vedute diverse dell' intendimento, l' uno rispetto all' altro, e l' altro rispetto al primo. Ciascuna di queste relazioni abbinate suole appellarsi abitudine , poiché manifesta come l' uno de' due termini se habeat rispetto all' altro. Or poi i termini delle relazioni possono essere d' altrettante maniere quanti sono i termini del pensiero. Ora i termini del pensiero sono di quattro maniere: 1) essenti; 2) fattizŒ; 3) falsi; 4) assurdi. I soli due primi sono interamente veraci. Quindi il pensiero concepisce o crede di concepire quattro maniere di relazioni, ciascuna delle quali tiene la natura di que' termini. I termini essenti sono compresi nelle tre categorie, cioè sono entità reali, ideali e morali. L' abitudine che ha ciascun agli altri due è diversa, come è diverso l' un modo dall' altro. Ma poiché l' essere è identico in tutti i tre modi, sembra che abbiano altresí una relazione d' identità. Tuttavia è da considerarsi che l' identità non appartiene ai modi, ma all' essere; onde il dire che i tre modi hanno una relazione d' identità non è proposizione esatta: perocché non è vera se non in quanto nei modi si considera l' essere e non il modo. Qui il pensiero umano aggiunge del suo. Poiché non sapendo egli concepire in un modo perfetto l' essere assoluto, che è ad un tempo nei tre modi uno senza replicarsi, egli considera l' essere successivamente, prima in un modo, poi nell' altro, poi nel terzo; ma, sopravvenendo la Dialettica trascendentale, questa pronuncia che quell' essere, che pareva triplicarsi, è identico. Oltre questa relazione fattizia d' identità, se ne presenta al pensiero un' altra fra l' essere e il modo categorico. Ma anche questa è puramente fattizia, poiché l' essere in ciascuna delle tre forme è tutto e puramente essere: onde non v' ha mica un modo suo che non sia lui stesso, ma egli stesso è i tre modi ed è ciascun modo. Questo linguaggio adunque, nel quale appariscono distinti i modi e le forme categoriche dell' essere dall' essere stesso, manifestamente dimostra quel pensare umano imperfetto che ha prodotto un tal linguaggio; e la Dialettica trascendentale sopravviene a correggerlo. Ma torniamo a considerare le abitudini dell' essere assoluto, in ciascuna delle sue forme, coll' essere limitato. Abbiamo veduto che fra l' essere ideale qual si concepisce nell' ente assoluto e l' essere ideale qual si osserva nell' ente limitato, apparisce una relazione d' identità. Ella nondimeno è imperfetta da parte dell' intelletto reale che lo contempla. Ma se si considera la relazione che ha l' ideale coi reali finiti percepiti realmente, o supposti, questa relazione è quella di possibilità. Nell' essere ideale noi vediamo la possibilità logica delle cose. E la possibilità logica ci si presenta come possibilità assoluta, ossia con altra parola come possibilità metafisica. Quando noi abbiamo il concetto di un ente qualsiasi, se poi troviamo che questo ente esiste, non ce ne facciamo maraviglia, perché sapevamo che poteva esistere. Questo fatto dimostra che la possibilità logica contiene virtualmente l' indizio d' una cotal potenza infinita atta a fare che le cose (le essenze) passino all' esistenza. Ma appunto perché questa potenza infinita è compresa soltanto virtualmente nella possibilità logica, quindi noi non sogliamo cosí facilmente accorgercene, ma pure senza accorgercene operiamo e ragioniamo a tenore di quella secreta persuasione (1). Nati poi i concetti mediante il rapporto dell' essere reale finito coll' ideale veduto dall' intelletto, questi si moltiplicano coll' astrazione; e colla riflessione si trovano fra loro le relazioni d' identità e di differenza. Queste sono le abitudini dell' essere ideale verso il reale finito, delle quali fondamentale è la categorica; segue l' ideologica; e finalmente la relazione di possibilità logica metafisica. Le abitudini poi dell' essere reale finito coll' essere nelle tre forme supreme sono quelle d' intuizione per l' essere ideale; per l' essere reale, quella di creazione passiva; pel morale, come vedremo, quella di obbligazione e attività morale. L' essere reale infinito col reale finito ha l' abitudine di creazione attiva. L' essere morale poi prende col reale finito l' abitudine di legge (relazioni deontologiche), in quanto questo morale è nella forma ideale; in quanto poi è nella forma reale, in tanto non ha relazione naturale col finito, ma ha relazione di grazia nell' ordine soprannaturale. Gli antichi distinsero le relazioni in reali e mentali . Che è da giudicare di una tale distinzione? Primieramente le relazioni non si dicono mentali perché sieno condizionate ad un intelletto in generale, all' intelletto assoluto; ma si chiamano mentali qualora sieno enti fattizŒ dell' intendimento umano. In secondo luogo conviene anche spiegare l' appellativo di reali . Questo appellativo altro non può volere dire che le relazioni che sono indipendenti dall' intendimento umano. Premesse queste dichiarazioni, noi domandiamo come una relazione possa essere dell' oggetto, indipendentemente dall' intelletto umano. Di poi domandiamo come una relazione possa essere fattizia. Affine di rispondere alla prima di queste due questioni, riduciamo le relazioni ad abitudini di una cosa verso l' altra. Si presenta primieramente questa difficoltà: « L' abitudine non può essere in un oggetto solo, perché è relativa ad un altro; non può essere in entrambi gli oggetti, perché in tal caso sarebbero due abitudini distinte; non può essere frammezzo gli oggetti, perché frammezzo non v' ha nulla, e se vi fosse qualche cosa, sarebbe un terzo oggetto. Dove sta dunque l' abitudine di un oggetto all' altro? ». In quanto alle abitudini categoriche è da osservarsi che ciascuna forma dell' essere inesiste nell' altra, come abbiamo detto. Ciascuna forma è unita all' altra cosí essenzialmente, che senza questa unione non sarebbe. L' abitudine adunque è qui l' identico essere considerato come modo suo proprio. Tale abitudine risiede in ciascuno de' termini. Non vi ha dunque un vacuo tra un termine e l' altro, ma l' essere costituente entrambi i termini. Queste abitudini per sé essenti si spiegano adunque per via dell' inabitazione dell' un termine nell' altro. Questa inabitazione delle tre forme si ravvisa anche quando l' essere reale è finito; nel qual caso l' inabitazione rimane però imperfetta a cagione della limitazione dell' essere reale. Diciamo dunque qualche parola anche di questa inabitazione imperfetta, a cui si riduce la seconda classe di relazione: quella cioè che corre tra l' essere infinito nelle tre forme, e l' essere finito. La maniera con cui l' essere reale finito inabita nell' essere ideale non è cosí perfetta come quella nella quale l' essere reale infinito inabita nell' ideale. Il reale finito, non essendo nell' ideale che virtualmente, non si può sentire nell' ideale, perché il sentirsi è attualmente essere; e quindi il sentimento suo proprio non è per se stesso cognito, ma cieco ed incognito, giacché niente è cognito se non per l' ideale e nell' ideale. Ora l' essere un sentimento per se stesso incognito equivale al concetto di una separazione, di un esser fuori dell' ideale. Questa parola esser fuori dell' ideale riferita al reale finito, non significa che esser per sé incognito , e convien guardarsi di non attribuirle il concetto di un esser fuori materiale come la parte di un corpo è fuori di un' altra. Ma appunto perché l' ideale inabita nel reale finito, questo per natura sua intuisce l' ideale, senza percepire in esso immediatamente e con questa stessa intuizione se stesso, intuendovi solo il reale virtualmente. La relazione dunque del reale finito coll' ideale inabitante in lui è quella d' intuizione. Ora l' intuizione, essendo il primo atto intellettivo dell' essere finito, egli è l' atto sostanziale di questo essere, quell' atto pel quale l' essere intellettivo è. La sostanza dunque dell' essere intellettivo finito, questo stesso essere intellettivo inabita nell' ideale; ma non vi inabita, come necessario all' ideale, come identico con esso lui; ma come aderente a lui in modo accidentale e contingente, alla similitudine dell' atto del vedere rispetto alla forma visiva. Or poi la reciproca inabitazione dell' essere reale finito intellettivo e dell' essere morale trovasi ancora piú imperfetta. Perocché l' essere morale infinito è l' essere reale infinito che per sé cognito si dimostra infinitamente amabile a se stesso; ma il finito reale nell' ideale non percepisce punto l' essere reale infinito nella sua attualità, ma solo virtualmente: quindi solo virtualmente altresí ne intuisce l' amabilità. Onde l' essere finito intellettivo non ha per se stesso che l' elemento morale in potenza. Quando poi percepisce degli enti finiti proporzionati alle sue facoltà percettive, allora ravvisa in questi un' amabilità limitata, la quale, appunto perché limitata, non è ancora morale; ma quando poi s' accorge che l' amabilità dell' ente reale è proporzionata ai gradi di quest' ente, ha concepito una proposizione universale, che riguarda la totalità dell' essere e non piú una parte. Di piú, sentendo egli che questa amabilità appartiene alla natura stessa dell' essere, e che è assoluta, s' avvede che qualora i suoi affetti non si lasciassero regolare da tale amabilità, egli si porrebbe in contraddizione con tutto quanto l' essere e con se stesso altresí che n' è una porzione; sente in una parola quella che si dice obbligazione morale, necessità deontologica. L' essere morale adunque non inabita nella natura umana se non sotto la forma di legge obbligante; la legge obbligante adunque è l' essere morale virtualmente compreso nell' ideale e applicato dall' uomo agli enti finiti da lui percepiti, e piú tardi poi all' ente infinito in quel modo che gli riesce conoscerlo. Se poi si cerca come l' essere reale finito inabita nel morale, questa inabitazione per natura non si concepisce distinta dalla inabitazione di quello nell' ideale. Ma perché tale inabitazione si fa nell' intuizione, l' intuizione non è ancora l' attività libera (1) del soggetto, e però non si dà in atto un elemento morale; onde la facoltà morale, a cui si richiede un primo atto, nasce posteriormente, e da prima non ve ne sono che gli elementi. Per natura adunque il soggetto intellettivo finito non è ancor morale, e non ha che la sola disposizione a divenire cotale. Ma nell' ordine soprannaturale l' essere intellettuale finito inabita veramente nell' essere morale, di cui gli è data la percezione, e l' essere morale in lui: il che dichiara l' Antropologia soprannaturale. Qui osserveremo soltanto che allora dicesi vera inabitazione nell' essere morale quando tutta l' attività del soggetto si accoglie in lui come suo oggetto percepito e nel proprio sentimento sentito, quasi extrasoggettivo, poiché allora l' atto del compiacimento non compiacendosi piú di altra cosa, è tutto accolto in tale oggetto, in lui solo vive e come tale esiste. E qui giova richiamare quella sentenza di sopra accennata, che a far che sia una relazione è sempre necessario che intervenga l' essere intellettuale. Quest' essere stesso è la relazione categorica dell' essere reale coll' ideale: in questa prima relazione si fondano tutte le altre: l' intelletto interviene sempre, è sempre presente come una condizione senza la quale sparirebbero le relazioni fin qui descritte: esse non sono prodotte dall' intelletto, poiché egli stesso è una di esse: ma in quanto sono, in tanto sono anche intese nel primo intelletto, poiché l' intelletto è in tutte esse. L' umana riflessione poi posteriore a tale relazione non fa che riconoscerle in modo riflesso: ma avanti questa riflessione le relazioni categoriche non sono note per se stesse. E cosí appunto sono reali, non perché appartengono alla sola realità, o perché sieno senza ogni intelletto; ma perché sono nell' essere stesso, ne costituiscono l' ordine intrinseco, e quindi non sono già produzioni posteriori dell' intelletto umano. L' essere in una delle tre forme non ha relazione alcuna con se stesso. All' incontro l' essere reale finito ha moltissime relazioni con se stesso, perocché egli non è uno, ma moltiplice. La costruzione intima degli enti finiti produce certe loro interne relazioni, perocché niun ente finito è semplice, ma composto di piú entità finite che concorrono a formarlo. L' unione di queste entità, è la piú stretta di tutte dopo quella che abbiamo chiamata inabitazione delle forme categoriche. Ora, se fra questi componenti vi ha l' intelletto, o se l' ente reale risultante dai componenti è l' ente intellettivo, in tal caso la relazione è formata, poiché non si può dare relazione senza la presenza dell' intelletto, essendo proprio del solo atto intellettivo l' andare quasi fuori di sé in altro, e quindi l' essere acquista la frase scolastica ad aliquid . Ma se niuno dei componenti dell' ente è intellettivo, in tal caso il loro nesso in cui si forma l' ente non si può dire relazione, ma soltanto fondamento di quella relazione che risulta nell' intelletto quando questo scompone quel nesso e ravvisa come ciascuno è legato coll' altro (1). Convien accuratamente distinguere il fondamento della relazione dalla relazione stessa. Il fondamento può essere qualche cosa di reale; ma non è ancora l' abitudine stessa fino a tanto che un intelletto non considera quest' entità reale nel nesso ch' ella ha coll' altro termine. La piú intima delle unioni adunque è la categorica, perfetta nell' essere assoluto, imperfetta in quel modo che abbiamo detto nel limitato, e a quest' unione l' intelletto è sempre intrinseco; dopo la categorica la piú stretta unione è quella degli elementi che costituiscono un ente finito, e in questa unione talora l' intelletto è intrinseco, talora estrinseco, quasi uno straniero contemplatore: nel qual ultimo caso nei componenti dell' ente vi ha la materia ossia il fondamento della relazione ed abitudine, ma la relazione formale è posta dalla contemplazione dell' intelletto, e nell' ente. La terza maniera di unione si ravvisa nell' essere reale finito, ed è quella di azione e di passione. Per l' azione e la passione un ente non inabita totalmente nell' altro, ma entra nell' altro, non colla sua essenza, cioè col primo e totale suo atto, ma colla sua potenza, cioè, con un suo atto parziale. Rimane ad accennare la terza classe di abitudini relative che l' intendimento umano suole scorgere negli enti finiti; e abbiam detto esser quelle che nascono dal vario grado di conoscibilità che hanno le entità finite e dai diversi modi nei quali l' uomo le concepisce e le pensa. Queste si possono ancora suddividere in tre classi minori: 1) quelle che risultano dal diverso grado di conoscibilità; 2) quelle che risultano da un pensare puramente fattizio; 3) quelle che sembrano ovvero si credono risultare da un pensare erroneo ed assurdo. Tutte queste relazioni sono, almeno in parte, razionali. Da tutte le quali cose si scorge che volendo avere una suprema classificazione di tutte le abitudini relative, noi potremo dividerle in quattro grandi generi, ciascuno de' quali ammette molte suddivisioni. I Relazioni categoriche nell' essere assoluto ed infinito. II Relazioni categoriche partecipate nell' essere finito. III Relazioni dell' essere reale finito con se stesso. IV Relazioni mentali, ossia razionali, prodotte dai modi limitati di pensare dell' essere intelligente finito. A questa classe appartengono tutte le relazioni di relazioni, le quali non hanno fine, come non hanno fine gli atti possibili del pensare limitato. Vi hanno adunque tre maniere generiche o tre gradi di pensare: il pensare imperfetto , il dialettico trascendentale e l' assoluto . Noi abbiamo parlato del pensare imperfetto e del dialettico trascendentale; ci rimane ora a dire dell' assoluto. Il pensar comune è quello che s' arresta ai primi giudizi offerti alla spontaneità della mente dai vari sentimenti e principalmente dalle sensazioni esterne, come volgarmente si chiamano, i quali giudizi pongono quella stessa divisione dell' essere che il senso presenta, com' ella fosse assoluta. Su questi giudizi, mediante la riflessione, si edifica una logica ed una metafisica (e tale è quella di Aristotele eccetto qualche breve tratto dove s' innalza piú alto senza pure avvedersene), e insomma un sistema intiero di scienze. Il pensar dialettico trascendentale sopravviene a suo tempo, e convince il pensar comune di contraddizione, e quindi, spingendo il passo innanzi, tenta la via di abolire la contraddizione sgombrando cosí la strada al pensare assoluto. Quando poi dal pensare comune si cava l' edificio scientifico allora le antinomie dànno talora cosiffattamente nei piedi che non si può a meno di incastrarle nel sistema della scienza come altrettante obbiezioni. Ma gli uomini si affaticano a sciorre quelle antinomie, a rispondere a quelle obbiezioni collo stesso pensar comune che le ha nel seno; onde, o dànno risposte insufficienti di cui s' appagano, ovvero s' involgono in un raddossamento di obbiezioni sopra obbiezioni, di distinzioni sopra distinzioni, che rende la scienza un ginepraio. Questa è la ragione delle infinite sottigliezze della scolastica, le quali hanno finito collo stancare gli ingegni, e cosí la resero meno stimabile presso i dotti. Ma alto e arduo è l' investigare del pensare assoluto. In prima ogni pensare ha qualcosa di assoluto in se stesso; se no, non sarebbe pensare. Quest' è appunto quello che distingue il pensare dal sentire. Il sentire è un modo di essere relativo a chi sente: niente è d' assoluto se non il sentir di Dio, perché quello è il sentire dell' essere stesso. In che sta dunque l' essere assoluto? In che sta l' essere relativo? L' essere assoluto è l' essenza dell' essere: tutto ciò che si contiene in quell' essenza e si rimane essenza dell' essere, è assoluto. All' incontro il relativo è tutto ciò che non è l' essenza dell' essere, che non rimane piú tale essenza, a cui non compete piú tale denominazione. Da questa definizione dell' assoluto e del relativo si vede che il modo di essere relativo suppone un soggetto a cui sia relativo, un soggetto senziente o pensante, di maniera che il modo relativo dell' essere risulta dal sentimento o dal pensiero. All' incontro l' assoluto non involge nel suo concetto questa duplicità, perocché sotto questo nome non si concepisce che l' essere, l' essere come egli è. Il pensare assoluto è quando l' oggetto del pensiero è l' essenza dell' essere e tutto ciò che è in essa si pensa senza dividerla da essa. All' incontro il pensare è relativo quando il suo oggetto e termine è un' entità relativa, come sarebbe un sentimento limitato, considerato in se stesso: il che si dice anche l' esser fuori dell' essenza dell' essere, o esser da quest' essenza distinto. Dalle quali definizioni si scorge, che nel pensare vi ha sempre alcuna cosa dell' assoluto, perché niente si può pensare senza pensare insieme l' essenza dell' essere che in quanto è manifesta alla mente dicesi idea. Ma è da avvertirsi che nel pensare comune l' essenza dell' essere interviene come mezzo del pensare, piuttosto che come oggetto. Questa distinzione deve essere diligentemente considerata e chiarita. Diciamo adunque in primo luogo che v' ha un atto primo di pensare immanente, costitutivo della potenza degli atti secondi. A questo atto primo è oggetto unico e permanente l' essere ideale, l' essenza dell' essere manifesta. Quindi cotest' atto primo appartiene al pensare assoluto e non al relativo. Ed è questa la ragione perché di poi in ogni atto di pensare, anche relativo, si mescola il pensare assoluto e lo suppone innanzi a sé; innestandosi ogni atto secondo di pensare sul tronco dell' atto primo, il pensare relativo sull' assoluto. Questa è la ragione altresí per la quale in fondo ad ogni pensare giace una verità assoluta; la ragione per la quale gli scettici, cercando l' assoluto senza coglierlo, hanno il torto; la ragione perché la mente ha per norme de' suoi giudizi delle ragioni assolute (1); e finalmente la ragione perché l' essenza dell' essere, ossia l' idea dell' essere in universale, costituisca il vero criterio della certezza. Ma veniamo agli atti secondi del pensare: questi sono provocati dal sentimento, da un sentimento finito come quello dell' uomo, da sentimenti parziali di questo sentimento finito, come sono le sensazioni. Ora, fra gli atti secondi del pensare, quelli che precedono gli altri sono le percezioni, le quali hanno per oggetto gli enti sensibili: quindi questi atti di pensare si dicono relativi ed imperfetti perché hanno a loro materia delle entità relative. Vero è che interviene l' essere; ma, in quanto l' essere è universale, non vien se non come un precedente e come un mezzo per arrivare al particolare, né si pon mente a lui nella sua universalità, ma in quanto rimane limitato dal sentimento: onde non si pensa piú l' essere in se stesso, ma invece di lui rimane l' essere relativo a proprio termine del pensiero e dell' attenzione. Le percezioni adunque delle cose sensibili appartengono al pensare imperfetto e relativo, non all' assoluto; e tuttavia presuppongono un primo atto anteriore di pensare assoluto. Ora, posciaché la riflessione comune si fa sulle cose percepite, o certo con un continuo rapporto ad esse; quindi tutte le riflessioni comuni tengono della stessa loro materia primitiva alcuna imperfezione, e non possono giungere al pensare assoluto. Ma la riflessione analitica e l' astrazione aggiungono al pensare de' nuovi elementi d' imperfezione, mediante sempre nuove limitazioni apposte all' essere, ciascuna delle quali è una esclusione e quasi eliminazione della essenza dell' essere dinanzi al pensiero. Ma questa è la differenza tra il pensare ed il sentire, che il sentire non ha alcun bisogno dell' intuizione dell' essenza dell' essere, e però non ha niente in sé di assoluto; ma pensare non si può senza l' essenza dell' essere, e però è sempre qualche cosa di assoluto che forma la base di ogni pensiero, benché le percezioni e le riflessioni che ne conseguono tengono del relativo a cagione che non sono puro pensare, ma mistura di due atti congiunti di pensare e sentire (2). Sembra che quando si dice pensare assoluto si dica cosa semplice e non suscettibile di piú gradi, pigliandosi la parola assoluto , quanto un dire d' ogni parte perfetto. Ma non è questo il significato. Chiamiamo assoluto il pensare ogni qualvolta egli ha per oggetto l' essere nella sua propria semplicissima essenza. Ora questa essenza si fa presente alla mente umana in varŒ modi: ella rimane sempre dessa, ma non perciò è uguale la congiunzione di lei colla mente. Il che consuona con ciò che ragionammo del pensare attuale e virtuale. Quando l' oggetto del pensiero è l' essere stesso, allora la virtualità non è un difetto che sia nell' essere, ma sí nella mente. Questa virtualità dell' essere, come oggetto del conoscere umano (giacché in se stesso e come oggetto del conoscere divino non ha virtualità alcuna), è il mistero della finita intelligenza: è un fatto, e perché oscuro e misterioso non è meno un fatto. Quando noi parliamo di virtualità nella cognizione, non si creda che si parli di cognizione totalmente in potenza, la qual non sarebbe cognizione: parliamo di vera cognizione, avente un oggetto, abbracciante tutto l' essere, l' essenza dell' essere; ma egli è in quest' oggetto stesso, come oggetto non come essere, che trovasi la virtualità il che è quanto dire che quell' oggetto virtualmente contiene tutto, tutto l' essere. Ora i gradi di questa virtualità variano grandemente, ed è perciò che dicevamo anche il pensare assoluto avere diversi gradi. La prima comunicazione dell' essere essenziale alle creature non si fa che per via d' intelligenza. Or nell' intelligenza vi ha prima l' essere ideale che la informa; di poi si copula ad esso il reale onde nasce l' atto della percezione e gli altri atti a cui la percezione apre la via; finalmente si manifesta l' essere conosciuto come amabile e beante, che è quanto dire come essere morale. Ora, secondo quest' ordine delle tre forme dell' essere, si ravvisa anche nel pensare assoluto tre gradi, ad ognuno de' quali si scema la virtualità, e tuttavia non cessa del tutto. Il primo grado è quello della semplice intuizione dell' essere. L' oggetto dell' intuizione è virtualissimo di tutti, poiché non solo niente in esso si distingue idealmente, ma le stesse forme della realità e della moralità, non appaiono in esso attuali, ma si nascondono nella sua virtualità. E questo nascondersi vuol dir questo solo che, allora quando si giunge ad avere la percezione attuale del reale e del morale, vedesi che nell' ideale v' avea già il principio di queste due forme, e queste stavano in lui in modo simile a quello che la specie si sta nel genere. Il secondo grado del pensare assoluto è quando l' essere reale stesso è da noi conosciuto nella sua totalità in un modo distinto dall' ideale e tuttavia virtualmente. Che se noi aderiamo volontariamente all' essenza dell' essere, ci congiungiamo a lui moralmente, cioè attivamente per via di nostra volontà; questa unione in cui sta il sentimento morale dà materia al terzo grado del pensare assoluto, che anche qui può avere la sua virtualità e però ritenere dell' imperfetto. Le tre forme dell' essere adunque danno luogo a tre gradi del pensare assoluto. Ma questi gradi sono in pari tempo maniere distinte di pensare e categoricamente distinte, ciascuna delle quali ha i suoi gradi di virtualità, e però quelli d' imperfezione piú o meno. Del pensare assoluto che ha per termine l' ideale non accade far altre parole. Senza che, egli è cosí semplice, che non ammette altri gradi se non quelli della riflessione che vi si sopraggiunge, e che non accresce né diminuisce l' oggetto. Il pensare assoluto adunque, che ha per termine il reale, ha luogo, secondo la definizione, quando il reale che si pensa non lo si pensa come distinto dall' essenza dell' essere, ma come adunato in essa, come essenza dell' essere egli stesso. Questo può accadere in diverse maniere e con gradi diversi. Prima di tutto è da distinguere a questo proposito il pensare negativo dal pensare positivo. Perocché dicesi pensare negativo quando l' oggetto stesso non si percepisce sensibilmente e direttamente, ma si conosce per via di sue relazioni e differenze ch' egli ha da qualche altro oggetto percepito direttamente e sensibilmente. Il pensiero va negando dell' oggetto, a cui vuol pervenire, quella qualità ch' egli vede negli oggetti percepiti, e sa che l' oggetto di cui si tratta deve averne delle altre in luogo di esse, ma tuttavia non sa dir quali, e di queste qualità incognite conosce solo alcune condizioni ontologiche. E cosí quando la Critica trascendentale giunge a notare le antinomie del pensar comune, e perviene fino a conoscere che quelle antinomie nascono a cagione che il pensare che le produce si ferma nell' essere relativo, e intende che riducendo l' essere relativo all' assoluto quelle antinomie dispariscono: già con questo solo il pensare è pervenuto negativamente a rendersi assoluto, in quanto che è arrivato a vedere che l' essere assoluto non può fallire che ci sia. E qui giova osservare che anche nel comune delle intelligenze va quasi sott' acqua serpendo e lavorando un pensare assoluto. La cosa si spiega, tostoché si ponga mente a quello che abbiamo detto, che il primo atto dell' umana intelligenza appartiene al pensare assoluto, e quest' atto si mantiene sempre vivo, e accompagna e regge tutti gli altri atti. Né fa maraviglia che talora l' uomo ragioni senza aver coscienza del ragionamento che fa, perché va da sé, come vanno pure da sé tante altre potenze dell' uomo, e l' uomo non se ne può render conto se non vi riflette; e talora egli non vi riflette punto né poco. Il pensare assoluto che si fa, non per la primitiva intuizione o per la percezione dell' assoluto stesso, ma per via di ragionamento, è sintetico nel piú alto grado. Che cos' è la forza sintetica della ragione? Questa preziosa facoltà non consiste solamente in raccogliere o aver presenti molti fatti reali e circostanze, e molti dati del pensiero, ma consiste assai piú in saper unire questa pluralità, riducendola in uno quasi risultamento psicologico e ontologico di quei piú. Se ben si considera qual sia l' intima natura dello spirito quando sintesizza, si troverà che ella si riduce a pensare il particolare congiunto coll' universale o col tutto (1): il che far non potrebbe se alla percezione o considerazione del particolare la forza mentale s' alienasse dall' universale o dal tutto. Quegli ingegni che dalla percezione de' particolari rimangono quasi assorbiti e legati divengono inetti ad afferrare e stringere insieme l' universale coi particolari, e quindi i particolari fra loro, formandone unità; i quali tutt' al piú possono avere ingegno analitico, ma non sintetico. Quella forza adunque della mente di vedere i piú nell' uno, e quella inclinazione a non esser paga la mente de' particolari se non li vede raggiunti negli universali o in un cotale organismo (sia questo ontologico, logico o fisico), varia grandemente negli uomini e da questa varietà dipende che gli ingegni siano piú o meno sintetici e comprensivi. Or devesi qui osservare che l' universale è bensí necessario a formare quel pensiero che si dice sintetico, ma questo pensiero non è la semplice intuizione dell' universale, ma la congiunzione di particolari per via dell' universale e nell' universale. La ragione dunque di un problema, è come cappio di tutti i fili, la sintesi di essi. Or vi hanno delle menti che afferrano piú facilmente questa ragione. Quando un uomo di vaglia scrive o ragiona, gli vengono sul labbro o sulla penna filate e ordinate tutte le proposizioni del suo ragionamento, i lumi e gli amminicoli del discorso, cotalché l' uditore o il lettore è costretto a dire: « Questi ragiona bene! che connessione, che coerenza, che efficacia di prove! ». Ebbene, questo possente oratore e logico ragionatore, nel momento in cui incominciò a dire, aveva egli dinanzi al pensiero tutte quelle proposizioni bene concatenate? Di niuna di quelle aveva coscienza; ma, poiché gli uscirono fuori, convien dire che vi avesse in lui il pensiero fecondo ond' egli le trasse, come la filatrice il filo dal pennacchio. Ora quel pensiero che era in lui, doveva essere un pensiero sintetico, un pensiero fecondo di tutto il suo ragionare che aveva in seno, e pure quel pensiero rimaneva egli stesso inosservato ed occulto fino a tanto che il ragionatore non vi pose l' attenzione, che ne dedusse i lunghi suoi ragionari. Questo fatto dimostra due cose. La prima, che i pensieri della mente umana hanno due stati: l' uno d' involuzione, ed è sintetico; l' altro d' evoluzione, ed è analitico. La seconda, che il pensiero in istato d' involuzione sfugge facilmente alla coscienza, sfugge almeno dalla coscienza la sua fecondità, anche quand' egli è attualmente presente; laddove il pensiero analitico facilissimamente soggiace alla consapevolezza, se egli è attuale e presente, e non abituale come accade quando rimane nel deposito della memoria senza che ci si pensi. Or questo pensiero involutissimo e insieme attissimo a svolgersi, non è puramente l' intuizione dell' essere in universale, perché questa sola, benché pensiero involutissimo ed assoluto, non è atto a svolgersi, mancandole ancora l' elemento reale e quasi maschile che la fecondi. Oltre adunque l' essere ideale, per termine del pensiero assoluto, di cui parliamo, vi ha l' essere reale (la totalità dell' essere); ma questo concepito come un incognito di cui sono cognite piú o meno relazioni, e conseguentemente piú o meno qualità negative ed anche analogate (1). E poiché il pensiero assoluto, di cui parliamo, può risultare da piú o meno di queste relazioni, e da queste qualità relative ed attributi analogati; perciò il pensiero assoluto ha una gradazione, giacché forma una sintesi or piú or meno complessa di piú o di meno elementi risultanti: la qual gradazione appartiene sempre al pensare assoluto, perché abbraccia tutta l' essenza dell' essere nella sua realità, mancando tuttavia la percezione di essa, ma in suo luogo formando termine del pensiero l' incognito determinato dalle riflessioni dette. Questo pensiero assoluto è il fonte da cui proviene la Teosofia, la quale non è altro che quel pensiero stesso analizzato e dedotto in conclusioni, e tutte queste conclusioni sintesizzate e ridotte in quel pensiero. Perciò la Teosofia è la scienza che può aver anch' ella piú o meno di svolgimento, piú o meno di perfezione. E questo pensiero sommamente sintetico, difficilissimo a cogliersi dalla coscienza, tiene, rispetto al suo sviluppamento, la legge comune di tutti i pensieri sintetici. Il pensiero sintetico non ancora svolto sta nella mente come un' unità infeconda: tale sembra alla mente stessa. Ora egli accade che, se la mente si fa a contemplarlo fissamente per un tempo notabile senza adoperarvi intorno alcuna analisi, pare a lei di starsene per poco oziosa, e di meditare senza costrutto. E tuttavia questa meditazione, cosí unita ed asciutta, fortifica la mente; la quale poi in altro tempo incomincia e prosegue l' analisi di quel pensiero con grande facilità e ricchezza. Questa legge è comune ad ogni pensiero sintetico. Il pensare assoluto che ha un termine reale, se non eccede i confini della ragion naturale, non può esser altro che negativo. Di che la ragione è chiara: perché quello si dice pensare assoluto che termina nell' essere assoluto; ma l' assoluto reale non si percepisce dall' uomo entro i confini di sua natura. Per andare al di là, conviene che s' aiuti coll' ideale; e con quest' ala egli perviene a conoscere che deve esistere il reale assoluto, non percepisce lui stesso esistente. Che adunque a un soggetto finito come l' uomo sia dato a percepire il reale assoluto quest' è opera soprannaturale, poiché soprannaturale è il reale assoluto non avendo la natura che un modo di essere relativo. Questa comunicazione soprannaturale si fa in questa vita per due modi: per via di carattere e per via di grazia , secondo il favellare de' teologi; il primo de' quali si riferisce all' intelletto, il secondo alla volontà: nel primo caso si comunica l' essere assoluto come reale , nel secondo come morale . E quantunque questo argomento spetti all' Antropologia soprannaturale , tuttavia, egli era mestieri che qui s' additasse: cosí a fine di tenere distinto accuratamente ciò che è dell' ordine soprannaturale da ciò che è dell' ordine naturale; come altresí per la ragione che il pensare assoluto non si perfeziona che mediante l' ordine soprannaturale, solo in questo divenendo positivo. Onde manifestamente si vede come la creatura abbia bisogno del Creatore pel suo compimento, non che questo compimento appartenga alla natura o si possa dir naturale: che anzi è d' un' indole tutta soprannaturale e gratuita. Se dunque vogliamo tradurre nel linguaggio della filosofia quel carattere indelebile che giusta l' insegnamento di Cristo viene impresso nell' anima nella rigenerazione battesimale, diremo che è una percezione primitiva dell' assoluto reale principio dell' uomo soprannaturale la quale corrisponde all' intuizione dell' assoluto ideale principio dell' uomo naturale. Sono questi due pensieri assoluti: l' uno naturale avente per oggetto l' essere nella sua forma ideale; l' altro soprannaturale avente per oggetto l' essere assoluto nella sua forma reale. Questo nuovo pensiero assoluto è nell' uomo continuo, benché l' uomo non abbia piú coscienza di lui di quello che se l' abbia del natural suo pensiero assoluto l' intuizione dell' essere. Ma come quest' intuizione presiede alla produzione di tutti i ragionamenti naturali dell' uomo; cosí il pensiero assoluto proprio del cristiano che ei trasse dall' impressione della verità reale si manifesta come un senso o facoltà di sentire, giudicare, e ragionare rettamente di ciò che è soprannaturale e divino; ed è quella luce a cui camminano non pure gl' individui, ma ancora i popoli battezzati, giusta la profezia: ambulabant gentes in lumine tuo (1); benché anche questa luce sia il piú senza che n' abbia l' uomo coscienza (2). La ragione poi, per la quale di questa percezione soprannaturale non v' ha coscienza da principio, si è quella stessa per la quale di niun atto dello spirito s' ha coscienza senza una riflessione, la quale per lo piú non è contemporanea all' atto, ma a lui succede. Ma perché la coscienza della perfezione soprannaturale neppur di poi vi si aggiunge, o vi si aggiunge almeno molto difficilmente? Primieramente perché ella è immanente, ha forma d' abito: e gli atti abituali non sono stimolo della facoltà riflessiva. In secondo luogo perché l' attività divina, che in tali percezioni a noi si comunica, è quella attività creatrice che finisce unicamente in noi, e però ella non ha altro effetto ed espressione che noi stessi; e poiché è tanto difficile riflettere su di noi stessi cadendo la riflessione sugli atti nostri, e ancor piú difficile è distinguere in noi, che abbiamo natura sí semplice, ciò che è naturale da ciò che è soprannaturale, due elementi che fusi insieme costituiscono l' uomo cristiano; perciò si mostra cotanta la difficoltà che ha l' uomo di formarsi la cognizione riflessa dell' elemento soprannaturale che è in lui. Vi ha poi questa notabile differenza fra il ragionare che scaturisce da quel pensiero assoluto che s' ha per natura e il ragionare che scaturisce dal pensare assoluto cristiano: che il primo, pigliando la sua materia dal reale finito, cessa d' essere un pensare assoluto, e se rimane assoluto procede da un pensiero negativo dell' assoluto reale; all' incontro il ragionare che logicamente scaturisce dal pensare assoluto cristiano, è sempre assoluto egli stesso, pigliando la sua materia dall' assoluto reale positivamente pensato. Conviene anche avvertire che il pensiero assoluto cristiano tiene la sopraindicata legge del pensar sintetico, per la quale la mente, solo col tenersi raccolta a meditare il reale assoluto percepito, benché ancora non l' analizzi e sembri sterile quella sua immota contemplazione, si fortifica divenendo piú adatta a dedurre poi particolari conclusioni e ragionamenti in copia. Questo anco si dimostra dal fatto giornaliero, che, coltivandosi il sentimento generale della pietà cristiana, anche senza alcuna analisi e passaggio a proposizioni determinate, come accade nel popolo assistente alla liturgia in lingua che non intende: lo spirito intelligente ne rimane grandemente avvigorito, e si trova assai piú pronto e ferace al bisogno di documenti e ragionamenti speciali nell' ordine morale religioso e meno incerto di ciò che è da fare nei diversi casi della vita per conservare una cristiana condotta. Questa facilità e sicurezza di giudizio pratico e speculativo in persone rozze ed inerudite, ma pie, non si sa dire talora onde venga; ma il vero si è che viene dalla forza che ha preso in esse quel primo pensiero assoluto, che è la base occulta della vita cristiana e la luce prima soprannaturale onde pendono tutti i ragionari della mente. Vi è anco un pensiero assoluto morale: questo è quello che occultamente domina tutta la vita dell' uomo quando esso si rende pratico. Questo pensiero morale che presiede alla moralità di fatto di ciascun uomo, è anch' esso per lo piú occulto alla coscienza dell' uomo stesso, che alla luce di quello pensa ed opera senza fermare punto né poco la sua riflessione in quella pura luce. Questo pensiero morale assoluto non è semplicemente l' idea astratta della moralità d' un bene e d' un male morale; ma è un pensiero sintetico che ha del reale e del pratico; tanto sintetico che pare all' uomo piú che altro un sentimento e può ancora considerarsi come un atto abituale razionale della volontà. Infatti si può dire che sia ciò che l' uomo vuole nel piú intimo dell' animo suo, ciò che l' uomo vuole quando crede di operare secondo coscienza in tutti gli atti che egli fa, ciò per cui elegge e vuole piuttosto questi atti che quelli; il qual ciò è uno e identico in tutti gli atti. Il pensiero adunque sintetico morale che giace in fondo a ciascun uomo e ne determina l' operar morale, varia in piú modi; ed è perfetto solo quand' è assoluto, cioè quando contiene con piú o meno di virtualità tutto ciò che è veramente bene morale, senza esclusione di cosa alcuna. Tutti quelli, il cui pensiero sintetico morale principio del loro operare è assoluto, operano bene; ma quelli, il cui pensiero intimo fondamentale nell' ordine morale non è assoluto, hanno una falsa probità, non vogliono veramente ciò che è morale, benché osservino gli offici morali parzialmente. E` da notarsi che il pensiero morale rettore della vita può essere assoluto con piú o meno di virtualità. Ma oltracciò il pensiero sintetico7morale, che trovasi in fondo dell' animo, può essere assoluto e non essere tuttavia puro , in quanto che l' assoluto può andar vestito d' una forma speciale che non gli toglie l' essere assoluto, ma gli aggiunge qualche cosa che senza scemare la perfezione del primo pensiero gl' impedisce di svolgersi da tutti i lati, limitandolo ad un cotal modo determinato di svolgimento. Da questo procede principalmente la diversa fisionomia per cosí dire che ha la pratica della virtú negli uomini virtuosi. Il pensare assoluto, di cui parliamo, non è semplicemente quello: « evita il male e fa il bene »poiché è ancora astratto e negativo non determinando punto che cosa sia il male morale che si dee cansare e il ben morale che si dee fare, ma supponendogli conosciuti. All' incontro la prima vista del bene e del male che cade in un animo, questa vista interiore, immediata, colla quale l' uomo conosce direttamente che cosa sia il ben morale, vista che subito si cangia in un sentimento: questo è il pensiero assoluto morale di cui parliamo. Questo pensiero morale assoluto, il piú intimo di tutti i pensieri morali, sfuggente per lo piú alla coscienza, e costituente il carattere morale dell' uomo, spiega come si manifestino talora nelle persone piú rozze gli atti della piú eroica o delicata virtú; e come il senso morale, che distingue colla maggior giustezza le morali convenienze, sia sovente piú squisito in quelli che hanno minor sapere e coltura: è anteriore alla scienza che non può altro che svilupparlo. Or come poi rispetto all' essere reale abbiamo distinto un pensiero assoluto naturale e un pensiero assoluto soprannaturale: lo stesso dobbiamo dire rispetto all' essere morale. E il pensiero assoluto naturale è del pari negativo, mancando nell' ordine della natura quel bene ultimo assoluto che viene sempre dal pensiero morale supposto: onde nacque il gran vuoto alla morale stoica, come abbiamo altre volte dimostrato (1). L' essere assoluto è il bene assoluto. E, posciaché l' essere assoluto è dato all' uomo positivamente solo per quell' opera soprannaturale che si compie nel battesimo; quindi nel cristiano è infuso un nuovo principio morale, un nuovo pensiero assoluto positivo ed efficace, il quale dà all' uomo una nuova vita e una nuova potenza morale; ed è questo secreto principio che rimutò il mondo pagano e che rimuta interamente di male in bene quelle nazioni dov' entra il cristianesimo, vi emenda i costumi, vi fa pullulare azioni eroiche in ogni virtú, le incivilisce e le incammina in sulla via del progresso. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto viene costituito dall' assolutità dell' oggetto; e che ogni pensare imperfetto e relativo viene dal soggetto, il quale termina l' atto del suo pensare in ciò che non è essere assoluto. E tuttavia non è da credere che il pensare riesca imperfetto e relativo per l' unica ragione ch' egli ha degli oggetti finiti; ma la ragione di tal pensare è che si ferma unicamente in questi, non dando attenzione all' infinito, alla relazione che hanno con questo. Ma, che la mente non badi a questo nesso del suo pensare ordinario, dee procedere da qualche ragione naturale, non da difetto accidentale dell' individuo; perocché si vede che cosí fanno tutti gli uomini colle loro riflessioni e prime percezioni. Or questa causa noi l' abbiamo già indicata quando abbiamo detto che rimane occulto all' uomo il nesso che congiunge l' universo con Dio, l' essere relativo coll' assoluto. Ma colla fatica della mente si giunge alla dialettica trascendentale, la quale scorge a vedere la necessità di quel nesso e a conoscerlo negativamente. Vi è dunque un pensare assoluto primitivo naturale d' intuizione; vi ha un pensare assoluto per una cotal sintesi che si fa nell' anima spontanea e che vi dimora abituale (oltre il pensare assoluto infuso che è una via di percezione); finalmente vi ha un pensare assoluto per via di attuale riflessione speculativo scientifico. Quest' ultimo solo fa sí che l' uomo si chiami appagato del suo sapere. Dei due primi, fin che stanno soli, l' uomo non giudica cosa alcuna, né se ne loda, né se n' attrista, perché non se n' è reso consapevole; ma se v' aggiunge la riflessione, a prima giunta non li trova, o gli pare di non conoscer nulla di essi, e in ogni caso non se ne chiama soddisfatto. Appunto perché le due prime maniere di pensare assoluto mancano di questi due caratteri necessari alla soddisfazione dell' animo umano: 1) l' essere, il conoscere positivo; 2) l' essere, il conoscer conscio. Al pensare assoluto dell' intuizione innata mancano entrambi questi caratteri, poiché 1) l' oggetto è puramente ideale; 2) egli è occulto, non riflesso, senza espressione di sorta. Ma perché l' uomo tanto cupidamente desidera che l' oggetto del suo pensare sia reale, positivo, attuale? Ciò che soddisfa il soggetto deve esser cosa del soggetto: perciò conviene che la notizia il soggetto la faccia sua propria acciocché lo soddisfi. Ma appropriarsela, è quanto unirla a sé, a sé riferirla, altro non essendo la proprietà che l' unione d' una cosa esterna al soggetto per via di sentimento razionale (1). Ora non può far questo, fintanto che null' altro conosce che il solo essere ideale. Egli vede l' idea, non la possiede ancora. Il soggetto dell' intuizione è ricevente , non ancora agente ; e dove non vi ha azione propria, esso non può trovare un diletto che gli soddisfi, venendo al soggetto la soddisfazione dalla propria attività, o certo essendo a questa condizionata. Questa mancanza di attività soggettiva nell' intuizione è ancor meno che il non aver coscienza, poiché gli atti stessi dell' attività soggettiva possono rimanere senza coscienza od acquistarla. Or dunque, che l' essere ideale vuoto d' ogni reale non soddisfi all' umano intendimento, apparisce per due cagioni. La prima, perché questa cognizione si presenta come principio di un' altra cognizione che non si ha, ed a questa si richiama e riferisce; onde, tant' è lungi che possa appagare, che anzi essa è l' origine dello stesso desiderio che l' uomo ha di conoscere. La seconda, perché l' essere ideale non ha espressione alcuna, né alcun segno reale che sia stimolo all' attenzione, onde si rimane del tutto inosservato non producendo nell' anima altro sentimento distinto da quello che ha l' anima stessa nella sua condizione d' intellettiva. Passiamo a considerare come non soddisfaccia alla brama di conoscere, che ha l' uomo, il pensare assoluto negativo che riguarda il reale lasciato solo senza le sue deduzioni. La ragione di ciò non è che egli sia al tutto privo di reale, come accade dell' idea dell' essere; ma il reale che ne forma il termine non conoscendosi che per via di esclusione e di negazione, s' intende esser cosa esistente sí, ma incognita: onde eccita la voglia di conoscerla, anziché acquietarla. Ma quello che piú mi preme di osservare, si è quell' insufficienza all' appagamento che il pensare assoluto del reale ha in comune con molti altri casi di pensare sintetico. Il carattere di questo pensare è quello di esser privo di ogni espressione, di ogni segno sensibile che attiri l' attenzione. Questo pensare occulto, privo di espressione, perfettamente sintetico, ha luogo soprattutto nel pensare assoluto positivo del reale, costituente, come dicevamo, l' ordine soprannaturale. Essendo positivo questo pensare, esso ha per materia un sentimento; o piuttosto, il reale nell' idea dell' essere non si vede solo, si sente. Che cosa aggiunga il sentimento alla pura intuizione non si può insegnare a parole, convenendo rimettersi all' esperienza. Nondimeno, poiché il sentimento varia secondo che nasce dall' azione d' un essere piuttosto che d' un altro, per esprimere questa verità, noi abbiamo inventata una parola, non avendone trovata alcuna che ciò significasse nelle lingue: l' abbiamo chiamata, cioè, il tocco del sentimento , onde quel proprio sentimento dell' essere assoluto noi possiamo dirlo il tocco dell' essere . Ed ora possiamo tornare sul problema dell' Ontologia. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto ha, quasi direbbesi, tre faccie. Quella che riguarda l' essere sotto la forma reale; quella che riguarda l' essere sotto la forma ideale; quella che riguarda l' essere sotto la forma morale. Anche il problema ontologico si conforma a questi tre aspetti. Egli nasce dalla relazione tra l' essere finito, quale si conosce da noi per via di percezione che appartiene al pensar relativo, e l' essere infinito, quale si conosce da noi coll' intuizione ingenita che appartiene al pensar assoluto. Queste due maniere di pensare, la percezione e l' intuizione dell' essere, raffrontate fra loro, dànno l' antinomia ontologica, poiché si trova di piú nel finito, quale sta nella percezione, che nell' infinito, quale sta nell' idea dell' essere. « Come è egli possibile che nel finito sia piú che nell' infinito? che nell' infinito ideale non si trovi la ragione, la spiegazione, la causa del finito reale? ». Non iscade allora di trono la ragione, non perde ogni autorità? Cessa cosí d' essere vero che l' intelligenza presieda a tutte le cose di necessità ontologica. Non solo ritorna la confusione del caso, ma l' essere stesso ha perduto l' interno suo ordine, che risulta dall' essenziale rapporto fra la sua realità e la sua idealità: e l' essere senza ordine non si concepisce piú, è annichilato, rimane il nulla. Cosí il problema ontologico si riduce alla conciliazione fra il pensare relativo e l' assoluto, l' assoluto, dico, spettante alla categoria ideale. Ma la triplice faccia del problema apparisce allorquando si considerano i diversi modi del pensare relativo, confrontando ciascun de' modi di essi coll' assoluto. Perocché il pensare relativo: 1) talora termina colla sua attenzione nel reale, come accade nella percezione, ecc.; 2) talora termina colla sua attenzione nell' idea, come accade nell' universalizzazione, ecc.; 3) talora termina colla sua attenzione nel morale, come quando sente o pronuncia l' obbligazione, la bontà di una azione, ecc.. Ora se ciò in cui bada il pensiero è un ente finito reale, il problema ontologico si manifesta sotto quella forma che abbiamo espressa, e dimanda: « Come mai l' idea della cosa ne mostri la possibilità senza dare alcuna ragione della sussistenza? ». Il che si risolve in questa antinomia: 1) Il reale finito, l' universo, deve avere una ragione necessaria che ne determini la sussistenza. 2) Il reale finito, l' universo, può essere e non essere, e però non ha ragione che spieghi perché sussista, piuttosto del contrario. Ma se il pensiero si ferma nell' idea della specie e de' generi, allora la difficoltà prende un' altra forma: « Queste essenze sono reali? sono ne' reali, sono fuori de' reali? ». Di che l' antinomia: « Sono ne' reali, poiché di essi si predicano né si potrebbero di essi predicare se ad essi non appartenessero: - Non sono ne' reali, poiché essi sono comuni, e ogni reale è particolare: reale e comune si contraddicono ». Finalmente se il pensiero si ferma nell' essere morale, lo stesso problema acquista una terza forma: è l' antinomia morale che dimanda una conciliazione. Le due proposizioni opposte formanti cotesta antinomia sono le seguenti: 1) « Il soggetto non può tendere che al bene suo proprio, perché il bene, se non è proprio del soggetto, non è per lui bene; e se non è bene, non può tendervi ». 2) « Il soggetto, lungi dal dover cercare il proprio bene, anzi deve unicamente porre ogni suo rispetto ed affetto nell' oggetto, e con piena annegazione di se stesso riconoscere praticamente quell' essere secondo ciò che è oggettivamente ». Trattasi sempre di sciogliere un' antinomia che presenta il pensare relativo, sia nell' ordine reale, sia nell' ordine ideale, sia nell' ordine morale. Questa antinomia non si può conciliare che col pensare assoluto: senza di questo, o rimane insoluta, o di piú conduce gli uomini ai piú mostruosi errori. Ora le tre antinomie categoriche, che esprimono il problema ontologico, appartengono al pensare critico, e ciascuna mette il pensare relativo in contraddizione con se stesso, o col pensare assoluto proposto dubbiosamente. Ma nello stesso pensare assoluto si trova la conciliazione delle antinomie, purché tal pensare a trovarla si applichi. Cosí, per rispetto alla prima antinomia, la ragione perché il mondo sussista, non si trova è vero nell' idea del mondo, ma piú la si rinviene nelle profondità dell' essere morale: è una ragione deontologica, la quale non induce necessità fisica, ma deontologica soltanto. Or questa ragione è sufficiente a determinare l' azione del primo essere, come quello che è perfettissimo. La soluzione della seconda antinomia si trova pure facendo uso del pensare assoluto semplicemente che si può dire assolutamente assoluto, e consiste nel concepire l' essere come uno nelle tre categorie. Se dunque si tratta di spiegare come le idee specifiche e generiche sieno da una parte eterne ed affatto distinte, dall' altra molte; basterà riconoscere che l' elemento eterno che hanno le idee si riduce ad uno, cioè a quello dell' essere, onde tutte quelle che comunemente si dicono idee specifiche e generiche sono propriamente concetti di un' idea sola, dell' idea dell' essere; e cosí col pensare assoluto categorico rimane sciolta questa antinomia. Ma se l' antinomia prende un' altra forma, nella quale l' abbiamo esposta di sopra, ponendo da una parte che le essenze debbono essere nei reali di cui si predicano, e dall' altra che non possano essere nei reali; allora convien ricorrere, per uscirne, al pensare assolutamente assoluto, cioè a quello che apprende l' unità dell' essere nella trinità categorica. Anche l' antinomia morale si scioglie con quel pensare assoluto che ha per oggetto la relazione fra l' essere ideale ed oggettivo e l' essere reale e soggettivo. La qual relazione è questa, che l' essere soggettivo si assolve, perfeziona e beatifica coll' aderire all' oggettivo, non ritornando a se stesso se non in quanto nell' oggetto si ritrova. All' oggetto appartiene l' assolutità dell' essere, al soggetto la relatività ; ma la relatività si assolutizza quando finisce la sua azione nell' assolutità. Questa intrinseca costituzione dell' essere spiega come la morale non possa altrove consistere che nell' adesione del soggetto all' oggetto. Colla quale adesione il soggetto pare che operi in opposizione alla propria natura. Ma ultimamente ritrova se stesso nell' oggetto per amore del quale s' era perduto, e si trova felice: la sua esistenza, se non era assoluta, ha cosí partecipato dell' assoluto. Senza di ciò il soggetto finito mancherebbe della sua piena esistenza ontologica; e la necessità sentita di questa esistenza, acciocché sia completo essere, è la forza veramente ontologica dell' obbligazione. In pari tempo dalle stesse nozioni apparisce che l' attività morale va direttamente nell' essere , e però è universale come l' essere: di maniera che se il segno ultimo a cui tende si restringesse, e da assoluto com' è, l' essere diventasse relativo, non ci sarebbe piú nulla di morale. E questa è la regola a distinguere dalle vere virtú que' falsi concetti che ripongono la virtú in qualche relativo, e non l' estendono a tutto l' essere. Il pensare assoluto, fu già notato, altro è cosí semplice che non mostra nel suo seno distinzione alcuna, né parti, né organi: tale è l' intuizione dell' essere, tale quel pensar sintetico assoluto, occulto nell' anima, che abbraccia tutto il reale, e niente di determinato in esso, sia che spetti all' ordine naturale e negativo, o all' ordine soprannaturale e positivo. Altro è moltiplice, ed è quando si riferisce lo stesso pensare relativo all' assoluto, mettendo accordo tra essi: nel qual fatto il pensare relativo si pensa in un modo assoluto. In questa seconda maniera di pensare assoluto vi è dunque pluralità. Pluralità di termini, di elementi, d' oggetti; e pluralità di modi di conoscere. La pluralità dei modi di conoscere moltiplica gli elementi e gli oggetti; è quella che somministra la materia abbondevole al pensare. E nel vero, la percezione, l' universalizzazione, l' astrazione, la sintesizzazione, sono altrettanti modi di conoscere che producono gli elementi del ragionamento. Dove è da notarsi che la sintesizzazione non è ancora la sintesi assoluta, ma quella che si ferma per cosí dire a mezzo la via. Tale sintesizzazione comincia dal riportare il sentito all' idea dell' essere, che è la sintesi primitiva, o la percezione: dalla quale, se coll' universalizzazione si toglie via la persuasione della sussistenza, rimangono le idee specifiche piene, donde l' astrazione cava i cosí detti astratti. Ma lo spirito, seguitando a sintesizzare, riferisce i percepiti, gli universali e gli astratti all' idea dell' essere, e per essa viene a conoscere le relazioni, e i vincoli attivi e passivi che hanno fra essi. Atteso poi l' esperienza del mancare talora i conosciuti allo spirito, e del loro ripristinarsi e del mancar di nuovo (il che avviene per essere il pensiero umano contingente), si vengono formando le idee del nulla assoluto e relativo, quella delle negazioni. Tali sono gli elementi del ragionamento, i quali appartengono a diversi modi del pensare. Or tutti questi elementi, benché singolarmente presi appartengono al pensare relativo, tuttavia diventano, quasi direbbesi organi dell' assoluto allorquando s' innestano in questo, pensando la relazione che a questo tengono. Ed ora qui, alla fine, siamo in agio di toccare alcune questioni di logica trascendentale, intorno alle quali molto in Germania si fu assottigliato. La prima è, se il sapere umano si volge in circolo, di maniera che dopo le ricerche si torni a quello che si sapeva a principio. Questa questione, o riguarda il sapere, o la certezza del sapere. Rispetto al sapere, se si considera che l' idea dell' essere onde parte la mente contiene virtualmente ogni cosa, si può ben dire che vi abbia negli umani ragionari una specie di circolo, ma solo intendendo cosí la cosa, che nella fine si sa in un modo quello che a principio si sapeva in un altro modo: alla fine lo si sa attualmente, quando al principio lo si sapeva solo virtualmente; alla fine si acquista anche la coscienza di ciò che si sa, la quale al principio non si avea. Onde il sapere assoluto si trova ai due estremi del circolo. Al primo estremo è intuitivo, naturale; al secondo estremo è speculativo, scientifico. Che se trattasi della certezza, fu dimandato se la mente umana debba cominciare dal porre ciò che sa come una mera ipotesi, finendo poi il suo cammino col trovare quell' ipotesi convertita in certezza. Or quest' è vero in parte, non in tutto. Se si parla dell' andamento naturale e spontaneo della mente umana, essa incomincia dalla certezza e va sicura fino che urta nelle antinomie del pensar relativo. Allora nasce dubbio, e, verificata la contraddizione, un periodo di scetticismo nel quale non può riposare; indi il desiderio di uscirne, poi la speranza ai primi albori del pensare assoluto che ritorna a farsi vedere alla mente: il quale diventa pienamente luminoso, concilia le antinomie e restituisce alla mente il riposo. Il quale cammino, se è l' ordinario della mente, non è però cammino dell' animo, che può tenere la mente in briglia coll' autorità della ragione morale e non lasciarla mai perduta nel dubbio. Ma se si vuol parlare non di tutto il cammino che fa la mente svolgendosi, ma del scientifico solamente che è parte del tutto: in tal caso egli è vero che le prime cose, si possono dimandare siccome ipotesi, le quali ricevono poi, da quanto consèguita, il lume dell' evidenza. E cosí noi pure facemmo, cercando il fondamento dell' umana certezza. Supponemmo come un fatto il pensiero, benché non giustificato ancora, non purgato dal dubbio scettico che sia illusione, e nel pensiero trovammo l' essere; e nell' essere la verità stessa, l' evidenza innegabile, dalla quale partendo fu dimostrata la certezza de' fatti dell' esistenza umana, dell' umano pensiero; e come questo, fin che ha per guida la luce dell' essere, non può illudere o mentire (1). La seconda questione si è: « onde incominci la scienza ». E` simile alla precedente, involgendo questa difficoltà: « Se io comincio dire o pensare qualche cosa, e m' occupo a dimostrare questo qualche cosa o a accennarlo almeno come evidente, il pensiero che vi adopero è adoperato gratuitamente, non essendo provato ch' io il possa adoperare o che mi dica il vero, ond' egli è fuori dell' oggetto della scienza ». Come trovar dunque un cominciamento che non lascia fuori nulla, nulla supponga arbitrariamente, non dipenda da cosa che provata non sia, o almeno da cosa che rimane fuori dalla scienza? Di questo labirinto si esce nel modo accennato, cioè: 1) la scienza deve cominciare dal considerare appunto quel pensiero che è l' istromento di lei, e porlo quale ipotesi o postulato sino a tanto che l' osservazione non trovi nel pensiero l' idea dell' essere; 2) trovata questa base fondamentale, tutto l' edificio è consolidato, poiché l' essere porta quasi direi scritto nella sua fronte il suo titolo: pure contemplandolo si vede che non può non essere: anzi egli è la verità che toglie via tutte le illusioni. A questa questione è affine l' altra, che dimanda: « Se si possa definire la prima scienza », il che dall' Hegel si nega. La difficoltà e la soluzione della difficoltà somiglia alla precedente. Diamo che si definisca. Ora, questa scienza definita non sarà la prima: perché non può essere la definizione stessa. Se il definito non è la definizione stessa, dunque la definizione è ciò di cui la definizione si compone. Ciò di cui la definizione si compone, parole, concetti, ecc., nell' ordine del sapere è anteriore al definito: e però la scienza definita non è la prima cosa che si sappia; la prima scienza dunque non si può definire. Ma siffatta difficoltà non è insolubile, se non supponendo arbitrariamente e falsamente coll' Hegel che tutto si riduca alla categoria della scienza. Infatti, posto che sia vero che la scienza dee assorbire ogni cosa, non si può piú definire il suo principio: perocché in qual si voglia modo che si definisca, egli suppone sempre qualche cosa d' anteriore sfuggente alla categoria della scienza. Infatti, il pensiero, il puro pensiero, non è ancora scienza, ma via alla scienza. Scienza non può essere se non l' oggetto del pensiero. Rimane adunque il pensiero come una realità anteriore alla scienza che non si lascia assorbire dalla scienza. Vero è che il pensiero può pensare se stesso: ma questa proposizione suppone che il pensiero in quanto è pensante non sia al modo stesso del pensiero in quanto è pensato, e che tuttavia il pensiero pensante e pensato sia uno. Ma scienza non è il pensiero se non in quanto è pensato. Laonde, quand' anche si ponesse la definizione cosí: « la prima scienza è il pensiero pensato », questa definizione lascia fuori come un antecedente il pensiero pensante, il pensiero della definizione medesima. In somma l' atto, che è quanto dire la realità, è necessariamente anteriore all' oggetto e all' oggettivo, che è quanto dire alla idealità. Si dirà: Se voi cominciate la scienza, lasciando che vi scappi quasi fuor sopra quella un qualche cosa, cioè il reale; questo reale voi dunque lo accettate come uno sconosciuto refrattario interamente al pensiero. - Rispondo che se la scienza umana non raggiunge col suo primo passo questo, ben dimostra la limitazione dell' umano intendimento; ma non è però, che ciò che resta fuori dal primo pensiero, e che è condizione del pensiero stesso non pensato dall' uomo, non venga raggiunto di poi colla riflessione; e se non fosse raggiunto noi pur ora non ne potremmo parlare e dire che egli sfugge alla definizione della scienza prima. Dallo sfuggirci cosí, altra conseguenza non viene se non la distinzione tra la scienza considerata in se stessa nella somma sua perfezione e la scienza limitata dell' uomo. S' intende assai bene che la scienza considerata in se stessa e nella somma sua perfezione dovrebbe esser coetanea ed adeguata a tutto l' essere; anzi non dovrebbe avere che un atto abbracciante tutta la realità, non escluso se stessa; e quest' atto dovrebbe essere la stessa essenza del soggetto conoscitivo. Ma quest' ideale del sapere, che s' avvera in Dio, non s' avvera nell' uomo, al quale nondimeno è dato conoscere in qualche maniera ciò che il proprio essere ha di limitato. La limitazione di esso è pur questa, che sia successivo e abbia bisogno di definizioni e divisioni, ecc., che incominci e non sia stato sempre, che sia contingente e possa cessare, e che in quanto è sapere scientifico sia un atto secondo, il quale suppone innanzi di sé la realità del soggetto conoscente, e la realità dell' atto anteriore in ordine logico a' suoi oggetti che costituiscono la scienza. Poste le quali cose, quando si cerca la definizione della prima scienza deve intendersi di quella che è prima per l' uomo, giacché in Dio non vi è scienza prima né seconda, e la sola espressione di scienza prima involge il concetto di una scienza limitata. Or dovendosi questa e non altra definire, basterà che ciò che si definisce sia primo nell' ordine del sapere, benché non sia primo negli altri ordini categorici, cioè nell' ordine reale e morale. E però, quando si dirà che la scienza dell' essere ideale è la prima, non si andrà lontano dalla giusta definizione, benché questa definizione sia preceduta da un pensiero, che è realità, ma non scienza. All' incontro, la scienza della logica hegeliana, posta da Hegel per la prima, è proscritta dallo stesso Hegel allorquando egli dichiara che non la si può definire, cessando manifestamente d' essere una scienza ciò che non si può definire, ed apparendo contraddittorio che la scienza sia nello stesso tempo una cieca indefinibile realità. La legge ontologica del sintesismo dichiara che « l' essere ha un cotale organismo ontologico, che la mente divellando un organo dall' intero organismo ne ha un tal ente che, se si prende come ente completo, nasconde in sé un assurdo, del quale assurdo tostoché la mente s' accorga, conchiude che quell' organo divelto non può stare cosí solo, è nulla, e neppure si può pensare quando vi abbia vista dentro la contraddizione, ma si pensa fino a tanto che questa vi giace nascosta in istato, come abbiamo altrove detto, virtuale »(1). Dalla quale definizione si vede, che la mente fino ad un certo segno può sciogliere il sintesismo dell' essere, pensando un organo di lui separato dal tutto; ma ciò le avviene solo perché ella dapprima non s' accorge che l' organo cosí separato porta in seno una ripugnanza; e quivi è appunto l' origine di quel pensare che abbiamo chiamato relativo , in opposizione all' assoluto che non dismembra l' organismo ontologico. Or le due maniere di pensare assoluto e relativo, le quali si distinguono pe' loro oggetti, non si devono e non si possono giammai confondere insieme. Molto meno si deve confondere insieme l' essere assoluto e l' essere relativo quasicché questo si potesse ridurre a quello come parte al tutto. L' assoluto e il relativo si oppongono ed escludono per siffatto modo, che mai non si possono congiungere in uno, e restano sempre due; perocché l' essenza stessa del relativo importa che non sia assoluto. E questa relazione fra l' essere relativo e l' assoluto, dove sta veramente il nodo gordiano della Teosofia, è cosí nuova, che si scioglie in due proposizioni, le quali sembrano contraddittorie e non sono. Perocché si può sostenere, non aversi nulla di cosí vicino e legato, come sono vicini e legati l' essere assoluto e il relativo; e si può ugualmente sostenere, niuna cosa essere piú lontana e aliena da un' altra, quanto uno di quei due esseri dall' altro. La prima di queste due proposizioni è vera se si guarda all' origine. Perocché il relativo viene dall' assoluto; ma non si dee credere che sia formato dalla sua materia, che anzi l' assoluto non ha materia; neppure si deve credere che sia una medesima sostanza con lui, perocché l' assoluto non è sostanza, ma puro essere; onde il relativo comincia ad essere d' un tratto, mentre prima non era, per virtú dell' assoluto. Nello stesso tempo la natura dell' essere relativo e la natura dell' essere assoluto sono cosí fra loro contrarie, che nulla v' è nell' uno che sia identico a ciò che è nell' altro, e però sono ancora piú che categoricamente distinti ; infinitamente piú che da sostanza a sostanza: trattasi di una differenza di essere, che giustamente si può denominare differenza ontologica . Per intendere come stia questa cosa, conviene por mente, che l' essere si dice relativo in quanto esprime ciò che si riferisce, ciò che è ad un principio soggettivo. Questo principio soggettivo, e ciò che è a lui, è l' essere relativo (reale, non l' essere relativo ideale o razionale) (2). E chi terrà ferma tale definizione dell' essere relativo, né manco troverà difficile a rispondere s' altri chiedesse: come non sia cosa assurda che l' essere, il quale è pel concetto suo semplicissimo, si raddoppi per modo che v' abbia un essere assoluto e un essere relativo. Perocché: l' essere assoluto è uno e comprende ogni entità assoluta; ma tant' è lungi che comprenda la relativa come relativa, che se la comprendesse sarebbe difettoso e cesserebbe d' essere assoluto. Dove è da osservarsi che l' essere relativo non può concepirsi che come relativo. Né pregiudica alla dignità dell' assoluto, che fuori di lui v' abbia il relativo; appunto perché è un' esistenza relativa e non assoluta, ed è dipendente dall' assoluto, come da causa. Or il tener ben ferme queste relazioni fra l' essere assoluto ed il relativo, è la principale avvertenza che dee avere il teosofo. Si farà qui ancora un' altra obbiezione: se il relativo è anch' egli essere ed essere è pure l' assoluto, vi ha qualche cosa di comune fra l' uno e l' altro, e questa è l' essenza dell' essere. Tanto l' assoluto dunque, quanto il relativo partecipa della stessa essenza dell' essere, non sono dessa: vi hanno dunque due esseri, e di piú l' essenza dell' essere separata da essi, che non è l' essere: assurdo manifesto. A che si risponde che l' essere assoluto è l' essenza dell' essere ultimata e compiuta, e che l' essere relativo ne partecipa non assolutamente, ma relativamente al soggetto che è base dell' essere relativo; e perciò appunto dicesi relativo. Se dunque l' assoluto è l' essenza dell' essere intieramente compiuta, e il relativo non è l' essere, ma l' ha congiunto, vedesi in che modo si può dire che l' essenza dell' essere sia comune: questa non diviene due perciò, né l' assoluto ha qualche cosa di piú dell' essenza dell' essere, come la specie per esempio ha qualche cosa di piú del genere, ma è la stessa essenza dell' essere compiuta. Il relativo per contrario, non è, ma si forma, si genera continuamente, per parlare con Platone. E la generazione del relativo, si può esprimere in questo modo: un termine dell' attività volontaria dell' assoluto ha una relazione con se stesso: e a questo termine, in quanto ha una relazione con se stesso e non in quanto è termine dell' assoluto, si aggiunge dalla mente l' essenza dell' essere, e questa sintesi che fa la mente è la generazione dell' essere relativo. Ma: quando la mente aggiunge a quel termine l' essenza dell' essere, non ve l' aggiunge completa, ma priva de' termini suoi; e ciò perché la mente non conosce per natura che l' essenza dell' essere priva de' suoi termini. Vedesi manifestamente come l' essenza dell' ente rimanga una, e tuttavia per opera della mente ammetta un termine relativo, e cosí sembri accomunarsi a piú. Ma il vero si è che l' essenza dell' essere è solo propria dell' assoluto dove ella è tutta intiera e spiegata, quando il relativo non è propriamente ente per sé, ma si fa tale per operazione della mente stessa. Convien dunque dire che la differenza che passa tra l' essere assoluto e il relativo non è da sostanza a sostanza; e ancor maggiore della differenza da categoria a categoria; perocché s' ha differenza di essere in questo senso, che l' uno è assolutamente ente, l' altro assolutamente non7ente. Ma questo secondo è relativamente ente: ora col porre un ente relativo non si moltiplica assolutamente l' ente; sicché rimane che assolutamente l' assoluto e il relativo sia non già una sostanza sola, ma bensí un essere solo (1), e in questo senso non v' abbia diversità di essere, anzi unità di essere. Ma posto che la mente l' abbia fatto tale, esso dee avere tutte le condizioni dell' essere; altrimenti non potrebbe esser concepito, pel principio di cognizione che è la prima legge della mente (2). Or qui nasce l' obbiezione: non è ella condizione dell' ente anche il suo ordine intrinseco, quello che noi abbiamo chiamato organismo ontologico? E l' ente relativo difetta di questo organismo; che anzi noi appunto riponemmo in questo l' essere un ente relativo, che egli è distaccato relativamente a se stesso dall' intero organismo proprio di ciò che è assolutamente essere. Diciamo che, ogni qual volta l' ente relativo che si pensa non involge errore, egli deve avere tutte le condizioni dell' ente, perché ne partecipa l' essenza che dalla mente gli viene aggiunta. Ma posciaché la mente finita vede l' essenza dell' ente solo nella forma ideale, nella quale è contenuto l' organismo dell' ente solo virtualmente: perciò anche il pensiero degli enti relativi offre bensí tutte le condizioni dell' ente proprie dell' essenza, ma nasconde nella virtualità quella che riguarda il compiuto organismo ontologico. E tuttavia l' organismo, benché limitato, non manca neppure nell' essere relativo; giacché la legge del sintesismo che lo forma s' avvera ovunque è essere. Noi abbiamo veduto che ella ha come tre amplissimi campi. Il primo campo in cui la legge del sintesismo si spiega è lo stesso essere considerato nella sua compiuta essenza, che appar manifesta nei tre modi categorici, tutto intero e identico, nel modo ideale, reale e morale. Di poi si manifesta nel nesso necessario che hanno i termini dell' operare volontario coll' essere assoluto, i quali termini si contengono implicitamente nell' essenza dell' essere, e sono in essa attuati per volontà, e da morale necessità determinati. In terzo luogo, ricorre fra l' essere assoluto e il relativo, per essere la costituzione piena di questo una sintesi fra il sentimento finito e relativo e l' essenza dell' essere nella pura forma ideale, colla qual sintesi sono costituite le intelligenze che sono gli enti relativi completi - e ancora il sintesismo fra l' essere assoluto e il relativo apparisce quando l' intelligenza pensando la sua propria esistenza relativa si concepisce e si pone come ente; la quale operazione è una sintesi fra il sentimento relativo e l' essenza dell' essere. Finalmente allora quando l' ente relativo è ultimato mediante questa operazione sua propria, egli di nuovo si dimostra cosí costruito, che le sue parti sono tutte legate insieme, per modo che, l' una divisa assolutamente dall' altra occulta nel suo seno l' assurdo. Del terzo e del quarto genere, cioè del sintesismo fra l' essere relativo ed assoluto, e fra gli organi dello stesso essere relativo, dobbiamo trattare in questo libro, il quale ha per argomento l' essere nella sua forma reale. La mente adunque che contempla l' essere reale, il trova certo ordinato e ontologicamente organato; ma ella intende che tali organi o parti ontologiche debbono constare di qualche cosa, e questo qualche cosa si può acconciamente denominare materia essenziale dell' essere: ella è quella che costituisce propriamente la realità dell' essere. Non s' introduca qui coll' immaginazione la materia corporea che non ci ha a far nulla. E per evitare questo ravvicinamento fra materia corporea e materia essenziale dell' ente, noi risuscitando una voce antica, chiameremo questa, in quanto cade nella nostra esperienza, stoffo dell' ente (1). Dividendo noi coll' astrazione lo stoffo dell' ente reale dalla sua forma organica, ne abbiamo fatto anche cosí due elementi ontologici i quali sintesizzano insieme per modo che l' uno non istà senza l' altro, ma la mente col suo pensare imperfetto li separa, pensando attualmente ad uno, e sottintendendo virtualmente l' altro. Né tuttavia si prenda lo stoffo dell' ente reale di cui parliamo come fosse lo stesso concetto che gli antichi si formavano della materia prima ; perocché la materia prima degli antichi è concetto piú astratto, è l' astrazione dell' elemento comune a tutti gli stoffi degli enti reali; laddove per istoffo noi intendiamo la stessa essenza d' una realità, quale cade nella nostra esperienza, prescindendo da ogni sua organica costituzione ontologica. Principio di metodo per tutte queste ricerche, che tendono a scoprire la natura delle cose, è questo: doversi cogliere le cose come a noi si presentano in quel primo atto nel quale le conosciamo; perocché in appresso le operazioni della mente e i diversi sentimenti loro s' associano, le opinioni altresí ricevute ce le possono alterare e contraffare. La natura o essenza che si ricerca è certo la natura o essenza conoscibile. Se dunque ella deve cadere nella nostra cognizione, in qual cognizione cadrà, se non in quella, per la quale abbiamo imposto alla cosa un nome? Or questa è quella prima, che ce n' ebbe dato il concetto. Se i ragionamenti bene rispondono a questo concetto, sono veraci; se definiscono la cosa diversamente da quel primo concetto che solo è significato dal vocabolo, vanno forviando. Cosí ancora gli antichi logici sapientemente definivano l' essenza della cosa, ciò per cui da prima la si conosce. Or questo è il buon metodo, il metodo d' osservazione accomodato alle cose spirituali, osservare ciò che cade nella nostra cognizione, e come vi cade: osservare come le cose da noi si conoscono. Come adunque si conosce lo stoffo dell' ente? Lo stoffo dell' ente può essere conosciuto direttamente dall' uomo soltanto col mezzo della percezione ; e appunto perciò, considerando quale cognizione ci somministri la percezione, noi potremo formarci il concetto giusto dello stoffo dell' ente. Nella percezione di un corpo, la mente nostra distingue la grandezza, la forma e oltre di ciò prova una modificazione speciale del proprio sentimento che resta innominata; solo le si applicano in certi casi degli epiteti generali, come a ragion d' esempio si dice esser piacevole o dolorosa, ma niun vocabolo si trova nelle lingue per indicare il proprio di una data sensazione. Ad ogni modo in ognuna delle dette sensazioni vi è questo fondamentale sentimento, che riceve quasi subietto i limiti e accidenti della grandezza, forma, ecc.. Lasciando dunque che la parola sensazione abbracci tutto ciò che cade in lei, noi per esprimere la parte fondamentale e primitiva di essa adoperammo questa espressione: « il tocco della sensazione ». Or quello che abbiamo detto della percezione de' corpi esterni, dobbiamo universalizzarlo a tutte le realità: tutte possono essere percepite, e la percezione di un reale si distingue essenzialmente dalla percezione di un altro pel tocco del sentimento, ehe è l' effetto primo, immediato, proprio che colla sua azione produce nel percipiente; è quello per cui è conoscibile dall' intendimento, è quell' atto, in una parola, con cui un ente reale esiste in un altro pure reale, e però da ogni altro si distingue. Lo stoffo dunque d' un ente reale è conosciuto dalla mente nel tocco del sentimento; e questa è quella cognizione che si suol chiamare positiva . Si prende la denominazione di positiva , data alla cognizione, tanto pel contrario di razionale, ideale, dedotta ; quanto pel contrario di negativa . Nel primo significato vuol dire cognizione d' un fatto posto, attuale, presente, distinguendosi da un fatto possibile, non presente colla sua efficacia in colui che lo conosce. Nel secondo significato, si viene ad esprimere, che nella cognizione che abbiamo del reale, conosciamo ciò che è proprio di lui come oggetto, ciò che costituisce il suo fondamento conoscibile. Mancando questo fondamento, che è appunto il tocco dell' essere, si dice la cognizione del reale rimanersene negativa, cioè orbata di ciò che è proprio del reale, oggettivamente considerato, vuota di ciò che costituisce il suo effetto conoscibile, quella sua azione, per la quale un reale conosciuto vive nel sentimento di un altro reale. Una tale mancanza, che trae dalla cognizione, per cosí dire, la sua propria sostanza, non può essere supplita né surrogata da nessun ragionamento, da nessun' altra maniera di conoscere. Ma onde avviene poi che un reale può avere in qualche modo cognizione d' altro reale, benché non ne riceva l' azione, e il tocco della sensazione non cada nella sua esperienza? Perché, come abbiamo detto, un ente reale, oltre comporsi dello stoffo, si compone altresí d' un cotale organismo ontologico, e, trattandosi d' un essere finito, anche di elementi negativi, di limitazioni. Di piú egli ha molte relazioni esteriori con altri enti reali, che possono essere conosciuti. Allora il complesso di queste determinazioni, conosciute che sieno, si prendono come l' espressione del reale, tengono luogo del reale, e cosí costituiscono la cognizione dell' ente, che dicesi negativa, perché non fanno conoscere propriamente l' ente, ma soltanto lo segnano in modo, che qualora si venisse a conoscere, lo si riconoscerebbe per desso. E` nondimeno da avvertirsi che gli elementi negativi non determinano propriamente un ente reale, ma ne danno una cognizione generica o astratta, che può dirsi ideale. Questa parte di cognizione né pure ne prova la realità sussistente, ma supponendo questa siccome ammessa, ne fa conoscere i caratteri generali. Ma le relazioni d' un ente reale con altri enti reali possono determinare primieramente l' ente, e dimostrarne la sussistenza; il che s' avvera quando l' esistenza degli altri enti reali conosciuti sia condizionata a quello che resta incognito. Allora di questo si conosce che sussiste, ma ci rimane occulta la propria natura, perché manca il tocco del sentimento: la cognizione della sussistenza riman vuota della real essenza, e però dicesi negativa . Queste due maniere di conoscere un reale, quando si trovano insieme, diconsi « cognizione ideale7negativa ». Anche lo stoffo dell' ente ha due modi categorici di essere, l' oggettivo o ideale, il soggettivo o reale. Si chiederà come lo stoffo dell' ente possa essere ideale, se in esso abbiamo fatto consistere la realità dell' ente. E` a rispondere, che le forme categoriche inabitano l' una nell' altra senza confondersi; e che perciò anche la realità inabita nella idealità, e allora prende il modo di questa. E` la realità quasi direbbesi vestita d' idealità. Onde noi prendiamo la realità in due modi: o com' ella è pura e semplice; o com' ella si trova nel seno dell' idealità stessa. Quella prima è da noi chiamata realità senza piú, questa seconda dicesi essenza della realità , o idea della realità, o realità ideale, ovvero anche realità oggettiva, o tipo della realità. Sotto la stessa distinzione adunque deve considerarsi lo stoffo dell' essere, il quale se è nel modo suo soggettivo, costituisce la semplice realità; ma se si prende in un modo oggettivo, costituisce lo stoffo ideale, l' essenza dello stoffo. Lo stoffo non è l' ente, ma un elemento di esso, che la mente col suo pensare imperfetto divide dal resto. Onde, quantunque sia propria dell' ente l' unità «( Psicologia , vol. II, lib. IV, cap. .) », e cosí anco dello stoffo, tuttavia l' unità dell' ente può essere organica; laddove lo stoffo prescinde da ogni organismo, e però è un' unità semplice, cioè a dire priva di moltiplicità alcuna. E di vero né la stessa mente può trovare alcuna moltiplicità dello stoffo dell' ente, perocché ella nol conosce se non come somministratole dal tocco del sentimento, il quale è semplicissimo. Ciò che potrebbe far dubitare che lo stoffo non si presentasse alla mente come un semplice, si è la moltiplicità dei sentimenti e le loro diverse misture. Ma conviene distinguere in tali misture i sentimenti semplici ed elementari, e pigliare ciascuno di questi come rappresentante d' uno stoffo diverso. Un dubbio piú difficile a sciogliersi contro alla piena semplicità dello stoffo, si è quello della gradazione che si trova in un medesimo sentimento. Ora qui è necessario distinguere accuratamente fra la parte soggettiva della sensazione, e l' extra7soggettiva «( Antropologia , n. 199 sgg.) ». Lo stoffo dell' ente reale è appunto di due maniere; come è di due maniere il reale, soggettivo cioè ed extra7soggettivo. Parliamo del reale e del suo stoffo extra7soggettivo. Lo stoffo del reale extra7soggettivo, benché semplice, può essere a dir vero percepito dal soggetto con piú o meno d' intensità, e di perfezione: ma questa gradazione appartiene al soggetto, e non all' extra7soggettivo; il quale rimane semplice. Veniamo allo stoffo del reale soggettivo. Il reale soggettivo è il soggetto stesso sentito e le sue modificazioni. Ora noi abbiamo già detto, che trattandosi d' un soggetto senziente, questo non ha che un' unità organica, e però, benché unico, risulta da piú sentimenti distinguibili col pensiero astraente. Anche il suo stoffo adunque, partecipa di questa moltiplicità, e non è di questo stoffo che noi parlavamo, quando ne affermavamo la pienissima semplicità: il soggetto non è lo stoffo elementare, ma lo stoffo organato e d' ogni parte compito. Tornando ora ai due modi categorici dello stoffo, il modo di essere soggettivo è propriamente il proprio , pigliata questa parola a significare il contrario di comune . E per verità negli enti conosciuti, se sono puramente ideali ed oggettivi, v' ha il comune, e non il proprio; se poi sono enti reali (sussistenti o ipotetici), ciò che in essi vi ha di proprio è unicamente la sussistenza. Il proprio adunque non è altro che la sussistenza, la realità, pura e semplice, nella sua soggettiva esistenza. La sussistenza (il modo soggettivo) è l' ultimo atto dell' essere rispetto ad un ente, pel quale l' ente è in atto; è l' attuazione dell' essenza. Prima che un' essenza sia attuata potrà essere attuata in diversi individui, ma in quanto è già attuata in un individuo non può essere in un altro; perciò quest' atto ultimo è il proprio, non avendone alcun altro in cui ulteriormente attuarsi. Si può bensí trovare il proprio anche nella pura essenza quando si considera il proprio come inabitante nell' essenza (idea del proprio); ma in tal caso non è il proprio semplicemente , ma il proprio come oggetto, che si potrebbe chiamare con una maniera imitata dagli Scolastici, il proprio vago , rispondente al loro individuum vagum . La sussistenza e realità d' un ente non è la sussistenza e la realità di nessun altro; dunque ella sola è ciò che v' ha di proprio nell' ente; per essa sola il comune, sia sostanza, sia accidente, si rende proprio; cosí una sostanza in quanto sussiste è propria, e anche un accidente in quanto sussiste è proprio ma nel mero concetto della sostanza e dell' accidente nulla v' ha di proprio; ed anzi il proprio non vi ha in nessun concetto, ma soltanto nella sussistenza , che è il contrario del concetto o dell' idea: idea o concetto dice comune , sussistente dice proprio . Noi conosciamo due maniere di enti reali, noi stessi, e altri diversi da noi. Ora come conosciamo noi stessi? che cosa è questo noi stessi che conosciamo? - Per quantunque si consideri non si trova da dir altro, se non che ci conosciamo pel nostro proprio sentimento «( Psicologia , vol. I, n. 61 sgg.) », e che nulla conosceremmo in noi, se nulla vi sentissimo; convien dunque conchiudere, che noi siamo fatti di sentimento e non d' altro; non d' un sentimento fenomenale, e transeunte, ma sostanziale e permanente. Noi stessi dunque siamo sentimento. Ma che cosa sono le altre cose, gli altri enti reali distinti da noi? Come li conosciamo? Li conosciamo in due modi, come abbiam detto: o con una cognizione ideale7negativa o con una cognizione positiva. Quelli che conosciamo per via di cognizione ideale7negativa, noi li riferiamo a quelli che conosciamo positivamente. Possiamo sí bene pensare che esistano enti reali assai diversi da quelli che percepimmo, ma non diversi nel carattere generico e fondamentale; altramente ci sfuggirebbe di mano il concetto stesso dell' essere reale, e conseguentemente non potremmo piú ragionare. Gli enti diversi da noi, che noi conosciamo positivamente, si debbono pure distinguere in due classi: 1) quelli che percepiamo ; 2) quelli che ci rappresentiamo coll' immaginazione intellettiva . Gli enti diversi da noi, che noi percepiamo, sono: 1) il corpo nostro soggettivo; 2) il corpo extra7soggettivo; 3) qualche entità mista di corporeità e di spiritualità, come io credo che accada al contatto, se non anco alla vicinanza, di due esseri viventi della stessa specie (1). In tutte le diverse realità che si percepiscono, lo spirito giunge naturalmente alla sostanza e quivi si ferma. Ora tutte le entità percepite dall' uomo si riducono ad avere per loro basi conoscibili due sostanze: la sostanza del nostro spirito, e quella del corpo (2). Ma si vuol distinguere accuratamente fra ciò che si conosce come sostanza nella percezione del nostro spirito, e nella percezione del corpo. Questa differenza fu da noi esposta nella « Psicologia », dove abbiamo dimostrato che la sostanza spirituale che percepiamo in noi stessi ha natura di principio , quando la sostanza corporea non la percepiamo che colla natura di termine ; onde deducemmo che fuori della sostanza corporea, tal quale è da noi percepita e nominata, deve avervi un' altra sostanza che le serve di principio. Ancora da questa diversità, noi deducemmo la classificazione suprema di tutte le sostanze relative alla cognizione dell' uomo, cioè di quelle sostanze di cui l' uomo pensa e parla, o può pensare e parlare, riducendosi tutte a sostanze7principio, e sostanze7termine. Ora qui parleremo del corpo che noi percepiamo come sostanza7termine. Si deve distinguere fra la percezione de' corpi dataci mediante le speciali sensazioni organiche; e la percezione immediata che lo spirito fa del proprio corpo, al quale è individualmente unito. Quella detta da noi percezione extra7soggettiva, ci fa accorti che esiste un corpo extra7soggettivo, non congiunto a noi soggetto; questa, chiamata soggettiva, ha per suo proprio termine un corpo cosí aderente allo spirito nostro percipiente, che per essa il principio s' individua, onde tal corpo chiamasi soggettivo. La sostanza che serve di base conoscibile a tutte le notizie che noi possiamo avere intorno ai corpi, è data dalla percezione soggettiva; a quella si riferisce, in quella si riduce anche l' extra7soggettiva. E però la sostanza corporea si percepisce immediatamente nella percezione del corpo nostro proprio, anteriore a tutte le sensazioni organiche speciali. Ma è necessario che noi qui consideriamo, come le sensazioni speciali organiche si riferiscano al corpo nostro sentito immediatamente e fondamentalmente, non solo rispetto allo spazio, che occupano, ma ben anco rispetto allo stoffo della corporea natura (alla materia). Tutte le sensazioni speciali organiche ci danno dei sentiti , che non possono esser altro che modificazioni del sentito fondamentale (1). Questa proposizione sembra manifesta col solo enunciarsi, essendo un fatto, che quando io provo una sensazione organica qualsiasi, il mio sentimento è modificato. Quindi convien dire, che tutte le sensazioni speciali sieno virtualmente contenute nel sentimento fondamentale, e in esso quasi latenti. Il qual concetto, due cose racchiude. Poiché il sentimento fondamentale consta 1) d' un principio senziente, 2) d' un termine, che nel caso nostro è un esteso. Ora nel principio senziente forz' è ammettere la virtú di tutto ciò che cade nel suo termine, e cosí si può dire che nella virtú del principio senziente sieno virtualmente contenute le sensazioni speciali ed accidentali. Il termine esteso poi è suscettivo di varie modificazioni. E queste, nel principio soggettivo sono altrettante sensioni, benché nel termine considerato come extra7soggettivo sieno movimenti. Si può dunque dire: 1) che le sensioni organiche sieno virtualmente nel termine esteso in quanto egli esiste nel principio senziente, e non in quanto si considera da questo diviso; 2) che le dette sensioni sieno virtualmente contenute nel principio senziente, in quanto questo si considera come suscettivo d' essere unito al suo termine e di subire le leggi con cui questo si modifica. Le sensioni speciali sono dunque in uno stato di virtualità rimota nel principio senziente, e in uno stato di virtualità prossima nel termine permanentemente sentito, e dico sentito perché ciò esprime esistenza del termine nel principio. La causa poi che le determina all' atto non è né nel principio senziente, né nel termine sentito, ma in una potenza extra7soggettiva. Ma se si cerca dove stia la ragione di questa virtualità, convien riporla nella natura certamente misteriosa del principio senziente; in quel primo fatto dell' unione sostanziale del principio senziente e del termine sentito , in questo sintesismo dove sta la genesi contemporanea de' due termini, il senziente ed il sentito. Si prenda il sentito puramente come sentito. Come tale, egli è vero ciò che altrove dicemmo, il principio senziente non essere per sé limitato, ma limitarsi dal solo termine sentito: quello non essere tuttavia per sé nulla, ma essere una energia, e anzi perciò una energia illimitata, ma potenziale; l' atto della quale non ha luogo se non a condizione che sia dato il termine che colla sua limitazione lo limita. Il concetto di questa potenzialità illimitata del principio senziente, degno è che si svolga. Poiché porge alla mente questa difficoltà. Se non ci ha termine alcuno, non ci ha neppure un principio senziente, no' l si può piú pensare, e in tal caso sparisce anche ogni virtualità. Ma se ci ha un termine sentito, allora ci ha l' atto della sensazione, e non piú la mera virtualità. Dunque questo concetto di virtualità è un vero impaccio dell' immaginazione, e non piú. Questo argomento non calza. Quando il principio senziente ha un suo termine e però esiste, l' osservazione del fatto dimostra ch' egli ha un' energia sua propria, per la quale egli agisce siffattamente che l' efficacia della sua azione non può venirgli dal termine, benché il termine sia condizione di sua esistenza. Ora l' osservazione attenta del fatto dimostra parimente, che il principio senziente conserva spesso la sua identità, l' identica energia sua propria radicale anche quando il suo termine si modifica. Se adunque il principio senziente, è perfettamente identico a quello che era quando non sentiva quella cosa, ne viene per conseguenza che quel principio, prima ancora di sentire attualmente quella cosa, la sentiva virtualmente. Convien dunque dire che la nuova sensazione preesiste in un altro modo, quasi nascosta e confusa in sentimento maggiore, in quel sentimento che costituisce l' energia propria del principio senziente. Secondo questo concetto, un principio senziente, un soggetto, contiene in sé (sentimento fondamentale) tutte le sensazioni, di cui è suscettivo restando identico; ma le contiene indistinte, fuse insieme, senza l' ultima perfezione dell' atto, in un primo grado di atto, a cui solo manca l' ultimazione. Dalle cose dette apparisce, che le sensazioni accidentali sono congiunte colla sostanza spirituale (sentimento fondamentale); ch' esse suppongono questa, che questa contiene quelle virtualmente, e che quelle sono modificazioni del termine di questa. Ma perciocché oltre la sensazione, che accusa un ente spirituale, cioè senziente (sostanza principio), cade ancora nell' esperienza nostra una forza extra7soggettiva che accusa un ente materiale (sostanza termine); perciò vediamo come lo spirito vada dalla sensazione esteriore a percepire un ente reale, un corpo. Il passaggio che fa lo spirito dal sentito al pensato, è della stessa natura tanto se egli va dalla sensazione all' ente reale spirituale, quanto se egli va dalla forza extra7soggettiva che nella sensazione è contenuta, all' ente reale corporeo. Onde di questo solo ora noi parleremo. Alto e difficile passo nel cammino della Filosofia l' acquistarsi il giusto concetto del sentimento mero , cioè non pensato, non accompagnato dal pensiero. Una prova della difficoltà, si è il vedere come molti anche dotti scrittori, lungi dall' afferrare la vera natura della sensazione, la concepiscono sempre mista col pensiero della loro mente. Noi diciamo che questo è essenziale alla mente e al pensiero, d' aver per termine un' esistenza oggettiva, un ente oggetto; e che la mente non può pensare l' esistenza soggettiva della sensazione o del sensibile, se non nell' esistenza oggettiva, ossia nell' ente oggetto, e però mediante questa; diciamo dunque, che dee precedere nello spirito l' esistenza oggettiva, e che allora solamente egli ha la facoltà di pensare, perché ha il mezzo in cui e per cui può apprendere quello che è soggettivo; e il dir questo è quanto un dire, che la facoltà cogitativa si forma mediante l' intuizione dell' essere oggetto. Riduciamo la questione a questa domanda: « Allorquando lo spirito pensa un sensibile, l' oggetto del suo pensiero è egli né piú né meno il sensibile come sensibile? ovvero sia quell' oggetto ha un elemento di piú, che manca nel mero sensibile precisamente come sensibile »? La risposta dipende unicamente dal saper osservare qual sia l' oggetto sensibile del pensiero. Ora, per venirne a capo, noi poniamo come principio che ogni diversità che si trova fra il termine del pensiero, e la sensazione precisa dal pensiero, è un elemento da questa non somministrato, il quale deve essere spiegato. Ma egli è manifesto che ci ha gran differenza (piú veramente opposizione) fra un sensibile che si contempla come oggetto , e un sensibile che non è oggetto, ma è soggetto o soggettivo. Dunque l' essere oggetto non è dato dalla sensazione, dal sensibile. Di piú, il sensibile come oggetto può essere affermato o no. L' essenza dunque del sensibile7oggetto è scevra di affermazione. Ma se io penso un oggetto7sensibile senz' alcuna affermazione, egli è tale che io gli posso, volendo, applicare il predicato di possibile, e di universale. Or l' universale non è dato dalla sensazione. Dunque è dato altronde alla mente. Ma l' oggetto è l' ente, l' ente in universale; altramente l' oggetto dato alla mente sarebbe nulla. Dunque la mente non riceve dalla sensazione l' ente in universale; ma intuisce quest' ente con indipendenza da quella: e questa intuizione è la condizione antecedente, è la prenozione, colla quale ella può pensare il sensibile, e la sensazione. Di che si vuol conchiudere, che il sentito o sentimento può dirsi realità , non ancora ente ; perocché quest' ultima espressione acchiude l' oggetto, giacché l' istituzione della parola ente ha in vista il pensato, ossia l' oggetto della mente. In una parola, la realità non è l' ente, ma ella è un modo categorico dell' ente, uno dei modi nel quale è l' ente, e che si dividono da lui per astrazione, assegnandogli un vocabolo che ne esprime il concetto. La quale distinzione fra l' ente e la realità , è necessarissima all' Ontologia: senza di essa, questa aberra in una continua anfibologia. Del pari è necessaria quest' altra fra la sostanza e l' ente reale . E nel vero la sostanza fu da noi definita: « l' atto pel quale sono le essenze specifiche », le quali non sono già per gli accidenti, ma per quell' atto nel quale e pel quale questi sono, il quale atto si chiama sostanza. Ora in quel reale che viene pensato dalla mente siccome un ente, ella distingue un elemento primo, nel quale e pel quale sono gli altri, che perciò si chamano accidenti; e quel primo è la sostanza. Di che apparisce che la distinzione fra sostanza e accidenti proviene dalla forma reale dell' ente, e dalla limitazione a cui questo soggiace. Quindi nel sentimento e in ciò che cade nel sentimento, che sono i due generi del reale, si distingue la sostanza e l' accidente ; e però queste entità soggettive non sono conoscibili per se stesse, perché non sono enti, ma hanno bisogno, acciocché sieno alla mente, di venire oggettivate, cioè vedute nell' ente, che è essenzialmente oggetto della mente, il che è quanto dire unite coll' ente, col quale, e colla mente sintesizzano (1). Quando adunque la sostanza s' unisce all' ente7oggetto; allora ella è divenuta ente; e gli accidenti sono divenuti cosí modificazioni variabili dell' ente . Se si avesse un primo atto di sentimento, il quale per l' essenza sua fosse nella mente, cioè fosse unito all' idea, questo sarebbe ente per sé, inteso per la sua essenza. E tale è Dio. Nel quale ciò stesso che è soggetto, è anche oggetto; e non ha bisogno di venire oggettivato. Laonde la divina sostanza non è puramente sostanza , ma è ad un tempo ente , anzi è l' Ente. Laonde a diritta ragione fu proibito in qualche Concilio il dire che Iddio sia una sostanza in senso proprio, potendosi egli chiamare sostanza solo in senso analogico. Le quali cose ci mettono in istato di dare la teoria della rappresentazione. Vi ha un' opinione comune, che tutto ciò che la mente intende, l' intenda per via di rappresentazione, con che si vuol dire, che il pensiero non coglie gli oggetti stessi, ma qualche altra cosa che glieli rappresenta, la qual cosa dicesi idea. Noi abbiamo mostrato in piú luoghi l' erroneità di questa opinione. Non vogliamo ora ripetere il detto, ma solo succintamente indicare sotto quale aspetto abbia luogo una specie di rappresentazione nell' atto cogitativo. Questa cotal rappresentazione, è di due maniere: l' una consiste nel servigio che presta l' idea al conoscimento dell' ente reale; l' altra consiste nel servigio che presta il sentimento e la sensazione al conoscimento trascendentale dell' ente reale corporeo. Parliamo d' entrambe. L' idea fa conoscere l' essenza della cosa, ma non, da sé sola, la sussistenza. Pure la cosa sussistente non si conosce senza prima averne conosciuta l' essenza, cioè senza averne l' idea. Quindi è che si suol dire, che l' idea, la qual certo non è la cosa sussistente, la rappresenti. Secondo questa maniera di parlare, il primo immediato termine della cognizione è l' essenza la quale è solo rappresentativa. Onde fa bisogno un altro atto col quale lo spirito passi dal rappresentativo al rappresentato. E questo secondo atto è appunto quello che noi chiamiamo affermazione . Veniamo or alla seconda maniera di rappresentazione , ed è quella, nella quale il sentimento e la sensazione si prendono come rappresentanti, e l' ente reale come rappresentato. Qui si debbono distinguere più cose. Primieramente quel sentimento primo e sempre identico che costituisce la sostanza spirituale, non è già rappresentativo di questa sostanza, perché anzi è dessa medesima. Onde qui non si dà rappresentazione. Ma altro è la sostanza abbiam detto, altro è l' ente reale . Questo ente reale è la sostanza stessa, che sintesizza colla mente. Quest' ente reale (nel caso nostro, lo spirito) è conosciuto ancora immediatamente dalla mente senza intervento d' alcuna rappresentazione. Ma dopo di ciò sopravviene il ragionamento dialettico trascendentale, il quale vede che il sentimento finito è un relativo. Questo ragionamento trasporta dunque il pensiero dalla sostanza finita all' ente assoluto; ed è allora, che quella diviene una rappresentazione, o più veramente un vestigio, un geroglifico di questo. Questa specie di rappresentazione appartiene dunque unicamente al pensiero trascendente, ed è quella di cui accenna l' Apostolo, dove dice: Videmus nunc per speculum, in aenigmate . Le sensazioni, considerate quali modificazioni dello spirito, non lo rappresentano, appunto perché sono modificazioni, e però non mai sole, ma unite al sentimento sostanziale, né prime nell' ordine logico. All' incontro il sentito corporeo rappresenta il corpo. Ma dobbiamo spiegare in che senso lo rappresenti. Nel sentito convien distinguere due elementi, la forza e il tocco del sentimento . Ora vi ha una forza che modifica il principio senziente producendo in lui il fenomeno dell' esteso: vi ha pure una forza che modifica questo esteso. Non potendosi conoscere la forza che dal suo effetto, la nozione della forza è relativa, cioè si conosce nell' effetto. Vero è ch' ella suppone un ente soggetto a cui appartenga, ma trattandosi dei corpi, questo ente soggetto della forza corporea si rimane straniero alla nostra percezione, e tutto ciò che noi conosciamo è unicamente la forza. Questa forza, come prima ed unica cadente nella cognizione nostra, diviene per noi la sostanza corporea, e quindi il corpo. Cosí il corpo noi lo conosciamo immediatamente, e non per mezzo di alcuna rappresentazione. Ma questa cognizione è relativa; e desunta dall' effetto. Ora questo effetto essendo doppio, poiché l' effetto è quello che la forza produce in noi producendoci il fenomeno dell' esteso, e un altro effetto è quello che la forza produce nell' esteso stesso, perciò la sostanza corporea ha come due basi, che la farebbero parere due sostanze. Ma colla riflessione poi si trova che trattasi d' una sola sostanza, la quale prende in noi due forme a cagione ch' essa si conosce come termine, e non come principio, e il termine è doppio, benché il principio sia unico. In qualche maniera si potrebbe dire, che le due forme sostanziali nelle quali conosciamo il corpo, sieno rappresentative dell' unica sostanza corporea. Una forza diffusa nell' estensione esprime il concetto del corpo, che hanno comunemente gli uomini. Al qual concetto se si applica la dialettica trascendentale, questa conduce al di là della sostanza termine, e trova un ente soggettivo principio. Ma di questo non altro si conosce che l' esistenza con tale ragionamento, e però il comune concetto di corpo diviene cosí rappresentativo di questo ente trascendente, diviene vicario di lui nella mente nostra, quantunque la cognizione che ce ne dà non sia piú che proporzionale e negativa. Ma veniamo alle sensazioni organiche. Uno stesso corpo produce innumerevoli immagini, come pure sensazioni tattili, acustiche, ecc.. Dunque altro è il corpo, ed altro sono i sentiti organici. Ma questi li prendiamo pel corpo stesso, cioè per la forza che tutte quelle sensazioni produce. Quelli adunque ci fanno conoscere i corpi per una cotale rappresentazione. Questa rappresentazione non è però uguale a quella per la quale un ritratto ci fa conoscere la persona ritratta, perocché né il ritratto è l' effetto della persona ritratta, né in quello vi ha nulla dell' attività reale di questa. All' incontro la sensazione organica è l' effetto della forza, e tiene in se stessa una parte di questa tuttavia in atto. In questo modo adunque le sensazioni organiche rappresentano la sostanza corporea. Né la rappresentano come un incognito, ma come un cognito; perocché la sostanza corporea, è a noi cognita nel sentimento fondamentale. Le sensazioni adunque ci fanno riconoscere la presenza di questa forza. Noi abbiamo fin qui ragionato dell' ente reale a quella maniera, che egli cade nella percezione intellettiva: ora dobbiamo considerarlo come oggetto dell' immaginazione intellettiva. Quello che non può l' immaginazione sensitiva, bene il può l' immaginazione intellettiva, come l' esperienza ci dimostra. Perocché non è dubbio alcuno, che noi possiamo immaginare un altro noi stessi, ed anzi molti. Or egli è necessario che si analizzi questa operazione. In primo luogo noi non potremmo immaginare un altro noi stessi, se non potessimo concepire l' ente in sé quale oggetto, indipendentemente da noi, da quello che noi sentiamo. La quale operazione dell' intelligenza, se bene si perscruta, manifestamente si risolve in un atto che considera il senso per sé soggettivo come entità oggettiva, e, se trattasi di sentimento sostanziale, come ente. La prima operazione adunque dell' immaginazione intellettiva, che è la facoltà d' immaginare enti od entità, consiste in questo, in contemplare il sentimento proprio come un ente o una entità, oggettivamente, universalmente. La seconda operazione è quella di considerar questo sentimento oggettivo come possibile a sussistere in un numero indeterminato di individui. Già, se si tratta di un sentimento sostanziale, l' individualità vi è compresa. Se si tratta di sentimenti accidentali, la mente li individua pigliandoli come subietti dialettici. La terza operazione si è quella di pensare espressamente uno di questi sentimenti individuati possibili, o pensarne piú, in un numero determinato. E questo è appunto cosa che fa stupire chi ben considera: che uno spirito intelligente abbia virtú di formare in se stesso un altro ente, un altro principio senziente, un altro spirito. Questa specie d' inesistenza d' uno spirito in un altro è degna della piú profonda riflessione. Non è da credere che nell' immaginazione intellettiva avvenga solamente un fatto simile a quello che avviene nell' immaginazione sensitiva. In questa tutto si riduce a modificazioni del soggetto. Per l' immaginazione intellettiva si forma un soggetto nuovo nel nostro spirito, il quale noi sappiamo che non è il nostro, ma è naturato e foggiato come il nostro. Questo soggetto, non è un segno, non è un' immagine, non è una pura rappresentazione; molto meno è una modificazione nostra. Noi pensiamo propriamente e direttamente un soggetto sostanziale, quale è in sé, lo pensiamo senziente, pensante, ecc. d' un sentimento e d' un pensiero sostanzialmente e totalmente diverso dal nostro, al nostro incomunicabile. Come ciò si spiega? Vedemmo che l' essenza della realità è tutta nell' idea. Ora egli accade, che noi non vediamo nell' idea la realità della sua essenza, se non a misura che ci viene comunicata nel suo ultimo atto, che costituisce propriamente la realità sussistente, e che è il sentimento nostro e tutto ciò che cade in esso. Dato questo sentimento reale, noi tosto ne vediamo l' essenza nell' idea, e distinguiamo quest' essenza dall' atto di lei, il quale la realizza. Noi stimammo opportuno chiamare la realità nella sua essenza, stoffo della realità ; e nel suo ultimo atto, atto della realità . La realità adunque nella sua essenza, esiste nel mondo metafisico, cioè nell' idea. E se si tratta di realità infinita ed assoluta, vi esiste coll' ultimo suo atto, che a lei non può mancare. Ma se si tratta di realità finita e relativa, questa realità relativa vi esiste assolutamente, cioè nel modo assoluto, che è quanto dire come ideale e possibile. La realità dunque, il sentimento, un determinato sentimento, ha l' essenza sua nell' idea, e quest' essenza è proprio lo stoffo della realità. Questo sentimento che acconciamente si dice sentimento7entità, ha per natura sua un' esistenza oggettiva. Quest' oggetto adunque, che è un soggetto possibile, è ciò in che si affissa l' immaginazione intellettiva, quando forma e compone dentro di noi un sentimento sostanziale ch' ella pensa e contempla. Quest' oggetto dell' immaginazione intellettiva è distinto da noi stessi, appunto perché egli ha meramente un' esistenza oggettiva; laddove noi abbiamo un' esistenza soggettiva, e non ci intuiamo come s' intuisce un' essenza, ma di piú ci percepiamo come un soggetto relativamente esistente , e cosí rispetto a noi l' essenza è appropriata e coll' ultimo suo atto particolareggiata. Egli è degno qui di notarsi, che la distinzione antichissima fra materia e forma fu tratta dalla cognizione che noi abbiamo de' corpi. E` la natura stessa che costituí due termini distinti: 1) lo spazio puro illimitato; 2) ciò che empie lo spazio, limitato. Dallo spazio puro, limitato da ciò che lo riempie, procede il concetto di forma , il quale in rispetto a' corpi abbraccia la grandezza e la figura ; ciò che riempie lo spazio somministra il concetto di materia . Per questo si può concepire in qualche modo la materia senza la forma. Sono separate per natura: sono termini diversi del sentimento. Se non fossero termini diversi del sentimento, né pur l' astrazione potrebbe dividerli. Dalle quali cose acquistano nuova luce i difficili concetti di essere in atto, e di essere in potenza. Anche questi antichissimi concetti filosofici nella loro origine furon tratti dalle percezioni e notizie nostre de' corpi. In fatti la materia corporea non potendo esistere se non vestita di una forma, pel sintesismo che ha con questa si disse che quella, presa puramente, era in potenza alla forma. In tal modo, della materia si fece un essere astratto suscettivo di tutte le forme. Questo concetto rimane spiegato tostoché: 1) si riconosce che la materia ha in natura una distinzione dalla sua forma, trovandosi bensí unita con essa nel nostro sentimento, ma venendo a questo sentimento i due elementi (la materia e la forma) da due fonti diversi; 2) e tostoché si riconosce che la materia sintesizza nel sentimento nostro colla forma, onde senza di questa ella rimane un essere astratto e possibile, e perciò appunto universale; ed essere un' entità universale è il medesimo che essere in potenza (1). Anche la forma poi dicesi in potenza alla materia; ma la forma ha natura d' iniziamento dell' essere, laddove la materia ha natura di termine. Quindi il termine si considera in potenza ad unirsi col principio, quando per astrazione da lui si divide; il principio si considera in potenza ad unirsi col termine, quando del pari si divide da lui coll' astrazione. Quando adunque piú entità dipendono l' una dall' altra per un sintesismo unilaterale, cioè tale che trovasi soltanto rispetto alla dipendente e non rispetto a quella da cui dipende, allora questa può essere realizzata senza l' altra, come accade dello spazio puro che può stare senza il corpo; e quella, cioè la dipendente, rimane ideale, cioè un ente in potenza, e però dicesi che è in potenza quella realità prima rispetto alla seconda, cioè che non ripugna alla realizzazione della realità da lei dipendente. Cosí è che lo spazio, e la forma sono in potenza a ricevere la materia, e il corpo. Quando gli antichi metafisici considerarono tutti gli enti come composti di materia e di forma, essi altro non fecero che generalizzare ciò che avevano osservato ne' corpi. Cosí la loro Ontologia non fu che la Fisica generalizzata. Ma il peccato maggiore che commisero gli antichi generalizzando il concetto di materia si fu ch' essi non giustificarono in modo alcuno tale generalizzazione, né provandola con qualche efficace raziocinio, né deducendola per via di osservazione di tutti gli enti cogniti (cosa per altro assai difficile). Or poi, che questo principio non goda della generalità attribuitagli, ma si debba restringere ad alcuni enti, lo si prova facilmente anche coll' esempio dello spazio puro, il quale non ammette alcuna composizione di materia e di forma benché sia contingente, ma è un ente semplicissimo avente natura di termine dell' anima sensitiva. Al presente nelle scritture filosofiche la parola materia ha due significati ben distinti, l' uno speciale e l' altro generale. Nel primo vale « ciò di cui constano i corpi ». Sarebbe a desiderarsi che si chiamasse questa materia corporea . Nel secondo significato piú esteso significa in generale « ciò di cui un ente è composto ». Ma 1) quando si dice « ciò di cui un ente è composto », allora si suppone che l' ente si componga di piú elementi, come appunto accade de' corpi, i quali risultano de' due elementi, cioè da una forma, e da una materia che la empie; questo dimostra che la materia non si può trovare dove l' ente non sia composto né componibile. 2) Di piú, l' espressione « un ente composto di qualche cosa »suppone che la cosa che compone l' ente di cui si tratta sia concepibile prima dell' ente, e che quand' ella entra nella composizione dell' ente, rimanga identicamente quella che era prima. La materia dunque non si può rinvenire se non in quegli enti, che non sussistendo per sé, vengono alla sussistenza per una via concepita dal pensiero, il quale gli rappresenta a se stesso prima come informi, e poscia come formati: non si dà dunque materia , neppure nel senso piú generale della parola, negli enti necessari, ma solo ne' contingenti . I soli contingenti adunque, e fra questi quelli che constano di ciò che si concepisce identico ancor prima che l' ente sia formato (1), hanno materia , presa quella parola nel suo piú generale significato. Il vocabolo termine ha un significato sempre relativo al suo principio; e il vocabolo principio ha un significato sempre relativo al suo termine. Al che non badando potrà sembrare che tali vocaboli in queste nostre metafisiche trattazioni si prendano a significare cose molto diverse; ma pur non è, e solo avviene quello che incontra di tutti i vocaboli che ammettono una latitudine grande e generalità di significazione, la quale rimane sempre la stessa benché si applichino a cose speciali diverse. Di queste cose diverse, a cui s' applicano i vocaboli di principio e di termine, facciamo una breve enumerazione. Prima è a separarsi l' ente assoluto e l' ente relativo. Nell' ente assoluto distinguonsi tre forme primitive da noi chiamate reale, ideale, morale. Lasciando da parte la morale che complicherebbe il discorso, riteniamo la forma reale e la ideale. Queste si possono anche chiamare forma soggettiva, forma oggettiva. Se si considera la relazione di queste due forme fra loro, trovasi che la soggettiva ha natura di principio , e la oggettiva ha natura di termine immediato. Ma qui, nell' ente assoluto, principio e termine non dividono l' ente; perocché nel termine vi ha tutto ciò che nel principio, eccetto l' esser principio; e nell' ente principio vi ha tutto ciò che nel termine, eccetto l' esser termine; di maniera che la distinzione delle forme può dirsi modale e non entitativa. Ma le due forme oggettiva e soggettiva, se si considerano rispetto all' ente relativo, dividono l' ente, cioè fanno che vi abbia un ente soggettivo diverso dall' ente oggettivo. Il che si vede considerando che la forma oggettiva non appartiene in proprio all' ente relativo, perché la forma oggettiva è l' idea spettante all' ordine delle cose eterne e necessarie; onde l' ente relativo non ha come sua propria, che la forma soggettiva e reale. Rimane adunque la forma oggettiva, separata dall' entità relativa, come un' appartenenza dell' essere assoluto; e dall' altra parte rimane la entità relativa, soltanto soggettiva, che riceve e partecipa il nome di ente unicamente perché s' appoggia alla forma dell' ente assoluto, pel quale appoggio viene oggettivata . Se dunque noi cerchiamo in questa relazione dell' entità relativa colla forma oggettiva ed assoluta, qual sia il principio e qual sia il termine; noi troviamo che la forma cioè idea è principio, e l' entità relativa, soggettiva solamente, è termine. Ciò vale per qualsivoglia ente relativo. Ma quale è poi la ragione che divide l' ente relativo in piú enti? L' ente relativo che è termine, considerato in relazione coll' ente assoluto, costituito che sia come ente, e in se stesso considerato, dividesi in principio e termine. Infatti principio e termine nell' ente relativo divide l' ente, cioè fa che l' ente relativo non sia un ente solo, ma vi abbiano piú enti relativi, alcuni de' quali sieno principŒ ed altri termini. Per vedere come ciò sia, egli è uopo distinguere tutti i termini proprŒ dell' ente relativo. Ora primieramente noi troviamo che l' idea è termine dell' essere intellettivo, intelligente; quell' istessa idea che abbiam detto essere suo principio per modo che da lei riceve la denominazione oggettiva di ente. L' idea dunque, la forma oggettiva, partenenza dell' essere assoluto, sarebbe ad un tempo principio e termine dell' essere relativo intelligente. Non sembra qui intervenire contraddizion manifesta? No; perocché ella è principio in un ordine, ed è termine in un altro. L' essere relativo intelligente è anch' egli, come ogni altro essere relativo, nell' ordine oggettivo, e in quant' è nell' ordine oggettivo egli ha per suo principio l' idea, di cui è termine come soggetto divenuto oggetto ossia oggettivato; ma in quant' è in se stesso come semplice soggetto egli è principio, ed ha per suo termine lo stesso oggetto, cioè l' ente oggetto e l' ente oggettivato. Veniamo ora a quei termini che si possono conoscere coll' osservazione ontologica nell' interno degli enti relativi, e che sono anch' essi enti relativi. L' essere relativo intelligente è separato dagli altri enti relativi per quel suo termine che appartiene all' ente assoluto. Questo termine adunque divide e separa l' essere intelligente e relativo tanto da sé, termine, quanto dagli altri enti relativi. Ora in tutti gli enti relativi il termine a cui s' appoggiano nell' ordine soggettivo è uno straniero, e però un altro ente che per ciò appunto dicesi extra7soggettivo. Or fra gli enti extra7soggettivi non è oggetto per sé se non quello che è termine dell' intelligenza, l' idea; gli altri sono meramente extra7soggettivi; e non essendo oggetto forz' è che appartengano ad un altro soggetto che resta occulto, ma che si rileva appunto mediante questo ragionamento dialettico. Una di queste entità è lo spazio, e un' altra è la materia; e queste due entità sono termini del principio sensitivo animale. Or poiché son termini stranieri, ne viene che l' essere principio e termine divida l' ente per modo che l' ente principio, cioè nel caso nostro l' anima sensitiva, sia un ente diverso dallo spazio e dalla materia. E questa è la confutazione ontologica del materialismo, ricavandosi ad evidenza che l' anima sensitiva non è estensione né corpo; ma che all' estensione e al corpo ella è opposta siccome principio al termine straniero. Nell' ordine adunque degli enti relativi il principio e il termine divide l' ente, perché il termine è straniero. La differenza ontologica poi fra lo spazio e la materia è questa, che lo spazio è illimitato e però unico, né può essere realizzato se non tutto intero. La materia poi non può mai essere realizzata tutta. La sua essenza è inesauribile: quindi ella è subietto di quantità, venendo realizzata piú e meno. Vero è che la materia è anch' essa unica nella sua essenza ideale; ma non potendo l' essenza della materia per quanto di lei si realizza rimanere esausta, tutto ciò che di lei si realizza rimane limitato, e queste limitazioni prendono il nome di forma quando limitano la materia da ogni lato, onde la materia è suscettibile di moltiplicazione per la sua forma, cioè per la sua onnilaterale limitazione. Quindi le forme della materia possono variare all' infinito; la materia all' opposto è identica sotto ciascuna. Ma conviene aver sempre presente, che queste forme della materia sono limiti, e però non sono enti positivi. Di che si può trarre una piú compiuta definizione della materia dicendo « che ella è un ente termine del principio sensitivo, ed è soltanto termine, e termine finito in se stesso d' ogni parte »; dove dicendola termine finito in se stesso intendiamo dire che è finita rispetto alla sua essenza; perché la sua essenza abbraccia sempre di piú di ciò che è la materia realizzata, essendo inesauribile. Cosí la significazione della parola materia involge una relazione colla sua forma sia che l' abbia già in realtà, o che la consideri come atta ad averla. Le quali dichiarazioni premesse, noi potremo tentare una classificazione analitica di tutti gli enti, e per analitica intendo una classificazione fondata sui loro elementi, sui caratteri pe' quali vengono dalla mente concepiti. Ora la materia essendo un concetto relativo alla forma , conviene che noi favelliamo anche di questa. Se si comincia dal considerare accuratamente ciò che volgarmente si dice la forma del corpo, vedesi: 1) che la forma contiene due elementi, lo spazio ed i suoi limiti; 2) che il primo elemento, cioè lo spazio, che è ciò che la forma ha di positivo, viene all' uomo da una fonte diversa da quella, onde gli viene la materia corporea ed i limiti della forma; 3) che i limiti dello spazio, i quali lo determinano ad una forma, non sono suoi propri, ma appartengono alla materia limitata secondo l' arbitrio del Creatore; ovvero all' immaginazione che ha virtú di rappresentarceli; 4) che il corpo non esiste senza una forma, non già perché egli sia spazio, ma perché sintesizza collo spazio. Quindi l' atto primo pel quale il corpo esiste, e a cui viene imposta la denominazione di corpo, può dirsi la forma acquistata dalla materia colla sua estensione nello spazio e co' suoi limiti. Di qui viene che il corpo sia la materia formata. Ma non si potrebbe egli anche definire il corpo la forma materiata? No; e si intenderà considerando che lo spazio il quale è l' elemento positivo della forma, non è già quello che diventa corpo (ente termine) coll' aggiunta della materia; perocché per la sua semplicità e indivisibilità egli non soffre dalla materia alcuna modificazione o perfezionamento, né riceve limiti. Non diviene dunque lo spazio corpo, né soggetto del corpo; ma presta unicamente alla materia il luogo ove ella sia. All' incontro la materia estendendosi nello spazio con dei limiti suoi propri, viene da questi limiti definita. Quindi si considera la materia come il subietto dei corpi, e la forma come un cotal predicato loro essenziale. Se ora prendiamo la parola materia, nel suo significato piú generale, per ciò di cui un ente si compone; ogni qualvolta noi in un ente possiamo pensare una realità (qualche cosa che cada nel sentimento), ma priva di quei limiti di cui abbia bisogno per sussistere, senza quell' ultimo atto che ne rende possibile la sussistenza, noi chiameremo quella realità materia , e quell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto , lo chiameremo forma , nel qual senso la forma si può definire: « il complesso di quelle determinazioni che individuano l' ente », ossia, per le quali l' ente è un individuo. Quando adunque si dice forma si dice bensí l' ultimo atto che perfeziona l' entità rendendola ente compiuto, ma non si creda che per un tale atto s' intenda la sussistenza , perocché, trattasi dell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto, sussista egli o no; non trattasi di quell' ultimo atto ontologico che dicesi sussistenza , ossia realizzazione dell' ente ideale. Onde altro è la sussistenza dell' ente, altro la forma , che non fa se non rendere possibile la sussistenza della materia. Si vede, che il concetto di forma vuol avere un' unità molteplice ed organica, perocché la forma racchiude tutte le determinazioni che dee avere la materia acciocché possa costituire un ente reale. Si può dunque definire la forma anche in questo modo: « il complesso delle determinazioni di cui abbisogna la materia perché somministri il concetto di un ente realizzabile ». Ora, se si suppone che il concetto dell' ente di cui si tratta sia dato nella mente, si può altresí coll' analisi distinguere la sua materia, e tutte le determinazioni che la costituiscono un ente. Il concetto dell' ente determinato precede dunque nell' ordine logico i concetti analitici di materia e di forma. Ma l' ente stesso come viene egli dato? La soluzione di questa questione giace nascosta nell' abisso dell' Essere assoluto : l' essenza dell' essere ci scorge talora a conoscere quali enti (in potenza) sieno impossibili, e son quelli che involgono contraddizione; ma nessun mortale può enumerar e conoscere tutti quelli che non l' involgono: è l' ordine essenziale dell' essere a noi nascosto nella sua origine, che determina e risolve un tanto problema. Tostoché è dato l' ente reale composto di materia e di forma, quell' ente con questi due suoi componenti si disegna nell' ideale, nel quale la mente vede una materia ed una forma possibile. Ma vi ha grandissima differenza fra il concetto di materia (materia possibile), e il concetto di forma (forma possibile). Primieramente la materia non si può pensare come possibile se prima non la si è percepita realmente sussistente; perocché ella risponde a quello che abbiamo chiamato lo stoffo dell' ente; lo stoffo non è altro se non la materia, come sta nella nostra percezione. In secondo luogo la materia è una, e però il concetto della materia non fa conoscere che una cosa sola, e questa cosa che fa conoscere non è un ente completo, e piuttosto, come lo chiamavano i Greci, gli conviene il nome di non ente. Onde una intelligenza col solo concetto di materia non conosce ancora alcun ente; e il concetto facendo conoscere solo l' elemento di un ente, e questo non ancora moltiplicabile, perché la materia non si moltiplica che per la forma, manca di ogni universalità, e quindi tale cognizione soddisfa cosí poco l' intelligenza, che con essa sola a lei pare di non aver incominciato ancora a conoscere; perocché la luce che soddisfa all' intelligenza umana è propriamente quell' idea, quei concetti, pei quali si conosce tutti gli enti possibili di una specie, d' un genere, o di un modo qualsiasi. Or questo è appunto l' officio che fanno i concetti delle forme. Primieramente è da avvertire che i concetti delle forme suppongono già il concetto di materia: perocché la forma non essendo che il perfezionamento della materia, questa rimane sempre presupposta. In secondo luogo, appunto perché la forma perfeziona la materia dandole quegli atti che la costituiscono ente, perciò anche la limita; e cosí la divide e la moltiplica. Onde questa materia che è infinita può ricevere dalla forma quanti confini si vogliano senza che perciò venga esaurita giammai. Di che accade che una forma medesima possa riprodursi e realizzarsi in un infinito numero di individui (1). Cosí accade che il concetto di una forma sia per se stesso universale. E qui si scorge la ragione, perché gli antichi, gli Aristotelici e gli Scolastici specialmente, confusero sovente le idee colle forme (2). Ma il vero si è, che le cose s' intendono non colle loro forme semplicemente, ma colle idee delle forme, cioè colle forme nel loro modo ideale di essere. Questa differenza è importantissima, perocché in primo luogo se ne trae che il concetto della forma non fa conoscere se non quegli enti che sono composti di materia e di forma. Oltre ciò apparisce che le forme in primo luogo appartengono alla realità, in maniera che se si prescinde da ogni realità, non si può concepire né pure nell' idealità alcuna forma, se non creandosi un' illusione coll' immaginazione. Insomma ogni forma è una limitazione, e niuna limitazione cade nell' essere ideale puro; le forme ideali adunque nascono dalla relazione categorica fra il reale e l' ideale, in quanto questo si usa dalla mente a conoscere quello, onde diviene come suo rappresentante. Dalle quali cose tutte si raccoglie: 1) Che l' essere possibili infiniti individui reali d' una stessa specie piena nasce dalla congiunzione della materia colla forma a cagione dell' indeterminazione e illimitazione di quella, e che perciò questo deve aver luogo in tutti gli enti composti di materia e di forma. 2) Che la forma non è il lume conoscibile per sé, ma questo lume è unicamente l' idea; la forma quindi è anch' ella prima reale e poi ideale , risultando il concetto ideale disegnato nell' idea dal confronto colla realità. 3) Finalmente che non si può con proprietà attribuire forma agli enti semplici, che non hanno materia e non sono ordinati ad informare la materia: e qualora si voglia chiamar forme le intelligenze separate, conviene mutare il significato della parola, cioè prescindere dalla relazione della forma colla materia, e pigliare la forma in senso di primo atto o simigliante. Distinti gli enti nelle due classi di principŒ e di termini, se ne può trarre una verità importantissima e fecondissima nell' Ontologia, che « ogni attività dee appartenere unicamente all' ente principio, ed all' ente termine non può appartenere che la facoltà di essere ricevuto e di patire ». Perocché egli è manifesto che il subietto dell' azione è il principio di essa, e perciò appunto si chiama principio perché indi incomincia e si propaga l' azione. All' incontro nel termine l' azione finisce e non incomincia, e perciò ivi non può avervi attività, ma anzi il fine dell' attività. Si dirà che ogni ente per esser tale dee aver qualche azione, almeno l' atto primo che lo fa esser ente, secondo l' assioma degli antichi: « Qui nihil agit, esse omnino non videtur (1) ». Ma è da considerarsi che il termine non sarebbe ente se non fosse unito al principio, e da questa unione di lui col principio riceve l' atto primo pel quale ha condizione di ente; onde anche quest' atto primo non è suo proprio, ma appartiene al principio da cui dipende. Onde l' ente che è soltanto termine dipende dal principio, dal quale ogni atto egli riceve. Ritornando ora al principio, che dee dirigerci nella investigazione dell' ente reale, e che è perciò il principio rettore di tutto questo libro, noi dicemmo che « lo stoffo dell' ente reale non si conosce da noi che per via di percezione » [...OMISSIS...] . Dopo di ciò noi favellammo della veracità della percezione nel capitolo dove esponemmo la teoria della rappresentazione [...OMISSIS...] . Finalmente noi trattammo dell' immaginazione intellettiva , la quale ci rende presente un ente reale benché attualmente nol percepiamo. Egli è necessario indagare qui qual veracità si abbia l' immaginazione intellettiva; e ciò pel pericolo che nella dottrina dell' ente reale si intromettano delle illusioni non conformi alla verità. L' immaginazione intellettiva , come abbiamo veduto, è quella facoltà per la quale, dato un sentimento, la mente pensa un ente non agente attualmente nel senso, e lo pensa di quello stoffo che è somministrato dal sentimento attuale. Ora da questa facoltà dell' immaginazione intellettiva noi abbiamo tenuta distinta l' altra dell' affermazione . Imperocché altro è immaginare un ente fornito del suo stoffo, compiuto di tutto punto, che è appunto la specie piena attuata dinnanzi al pensiero, altro è affermare e persuadersi che quell' ente sussiste. Quell' ente semplicemente immaginato è ancora un ideale, un concetto; ché noi abbiamo pure veduto che anche lo stoffo di un ente è nelle due forme categoriche, la ideale e la reale [...OMISSIS...] : quest' ente all' incontro affermato come sussistente è reale, o supposto come tale (ente ipotetico), o tale creduto (ente illusorio). Da ciò si deduce che l' immaginazione intellettiva è verace; perocché non è funzione di lei affermare che quell' ente sta presente alla percezione; ma questo, se ha luogo, è solamente errore del giudizio (dell' affermazione), che prende l' immaginato per un percepito. La semplice intuizione immaginaria è verace, posto che l' ente immaginato non involga contraddizione. Poiché vi hanno due maniere di vero, come vi hanno due maniere di cognizione: le cognizioni intuitive, e le cognizioni di predicazione. Il vero, ossia la veracità delle cognizioni intuitive, consiste unicamente nell' assenza di contraddizione, poiché, non avendo contraddizione in se stesse, esse appartengono all' essere possibile, e l' esser possibile o ideale è la verità (1). Il vero poi delle cognizioni di predicazione consiste in questo, che ciò che si predica sia nel subietto di cui si predica. Ora l' immaginazione intellettiva appartiene all' intuizione. Nell' oggetto dunque dell' immaginazione intellettiva non vi ha nulla di potenziale; tutto è attuale. Ma noi abbiamo veduto che la contraddizione non si nasconde se non nei concetti potenziali. Dunque l' immaginazione intellettiva non può essere che verace; benché in appresso possa cadere l' errore in quella affermazione colla quale si pronuncia che l' oggetto immaginato è sussistente. Rimettendoci or dunque in via, il primo e originario fonte di ogni nostra cognizione del reale si è la percezione intellettiva, che è quanto dire: « la apprensione del sentimento, o di quanto cade nel sentimento ». Di questa rimane la memoria e poi ella si spezza nei tre elementi dell' affermazione, dell' idea, e del sentimento; e lasciando il primo da parte, gli altri due costituiscono il concetto specifico7pieno. Succede l' immaginazione intellettiva, che richiama in atto questo concetto dopoché è cessato di esser presente all' attenzione. Quindi all' opera dell' immaginazione intellettiva si associa l' astrazione. Vedesi adunque che tutto questo edificio di pensieri intorno all' ente reale ha per sua base e materia prima la percezione; e che perciò se noi osserveremo ciò che ci dà in origine la percezione dei reali, avremo lo sgranellato, per usare una frase del Romagnosi, di tutte le nostre cognizioni intorno al reale; e le classi primitive, per cosí dire, dei reali a noi conosciuti. Queste sono le seguenti: 1) Il sentimento di noi stessi, il quale è la prima sostanza reale, e come conosciuto a se stesso è un ente principio . 2) Il termine corporeo che ha l' anima nostra, termine a cui l' anima è unita per natura, per la percezione fondamentale. 3) La sostanza corporea extra7soggettiva. 4) Finalmente io sono persuaso che anche le anime altrui, si dieno a percepire alla nostra, non però nude, ma insieme co' corpi che esse informano, onde si generano gli affetti dell' anime fra loro. 5) Nell' ordine soprannaturale poi vi ha indubitatamente la percezione di Dio, la quale è fondamento alla dottrina che deve esporsi nell' Antropologia soprannaturale. Le nostre cognizioni intorno all' ente reale possono adunque ripartirsi in due grandi classi, le immediate e le mediate . Le cognizioni immediate sono quelle che ci vengono fornite dalla apprensione immediata dell' ente, cioè dalla percezione , e dall' immaginazione intellettiva che n' è la universalizzazione. Le cognizioni mediate procedono dal ragionamento che si fa sulle immediate, il quale è duplice, analitico e dialettico trascendentale . Fin qui noi abbiamo applicato all' essere reale immediatamente conosciuto il ragionamento analitico. A questo ragionamento appartien la notizia, che l' ente reale risulta quasi da due suoi primi organi, dal reale e dall' ente, cioè dalle due prime forme categoriche: cosí pure, che alcuni enti reali si compongono di materia e di forma. Finalmente anche quelli che non si compongono di materia e di forma, se sono enti finiti, si compongono di positivo e di negativo, cioè di entità reale e di limiti di questa realità «( Teodicea ) ». Vuol notarsi accuratamente, che i limiti degli enti si partono in due classi: altri sono accidentali , i quali si restringono o si dilatano senza che l' ente perda la sua identità; altri sono necessari ; e questi ultimi costituiscono la natura dell' ente e si dicono ontologici. Ma trattandosi di enti completi, cioè di quelli che risultano da un principio e da un termine, le limitazioni ontologiche si suddividono in due altre classi: perocché o limitano il principio, o limitano il termine. Ora, se il termine fosse mutato intieramente, l' identità dell' ente andrebbe sicuramente a perdersi. Ma se il termine rimane della stessa natura, l' aggiungersi un altro termine di tutt' altra natura adduce certamente un cangiamento sostanziale nell' ente; ma non per questo rimane perduta l' identità dell' ente. E questo è ciò che accade nell' ordine soprannaturale. All' incontro quelle limitazioni ontologiche che limitano immediatamente il principio degli enti, li costituiscono altresí per quello che sono, e non si possono alterare se ad un tempo non si smarrisca anche la loro identità. Queste limitazioni ontologiche costituenti , sono state prese alcune volte da' filosofi per la forma degli enti, e furon quelle che ingannarono l' Hegel, e il condussero a far venire il positivo stesso dal negativo. Per altro esse hanno in sé qualche cosa di oltremodo mirabile e misterioso; giacché per esse avviene che un ente limitato non può essere un altro. Acciocché si possa intendere come un ente limitato escluda da sé tutti gli altri, conviene supporre che l' essenza loro dipenda dalla stessa loro limitazione: la limitazione dunque ontologica7costituente entra nella essenza dell' ente, è un elemento negativo, ma che influisce sul positivo, lo determina e propriamente il forma. Acciocché la cosa si possa intendere, conviene ricorrere alla natura dell' ente relativo . Questo è costituito dalla relazione, è ente relativamente a sé; e solo relativamente ad un sé, a un principio di sentire e d' intendere, l' ente può essere limitato. La esclusione dunque nasce dalla relatività dell' ente . E che la cosa sia cosí, si può convincersi maggiormente ripensando a ciò che nasce nella propria coscienza. Ciò che a me non si riferisce, non esiste per me: egli è fuori di me. Cosí questo me è un principio relativo, che limita l' essere; e ne esclude da sé la massima parte. Ma il principio del sentimento non esiste che nel sentimento, senza di questo è nulla. Non vi ha dunque una divisione possibile fra il principio dell' ente e l' ente, ma il principio è nell' ente come un elemento nel tutto. Dunque l' ente di cui si tratta ha una relatività in se stesso: l' intima sua costituzione è dunque quella che lo divide dal mare dell' essere, per cosí dire, lo rende esclusivo, limitato, incomunicabile. Questo fatto è dato dall' esperienza, e non involge contraddizione; né pregiudica all' unità di tutto l' essere; perché quest' unità appartiene all' essere assoluto, e la limitazione è relativa, e appartiene all' essere relativo. Or poi quanti e quali possano essere enti sussistenti limitati, condizionati, relativi; questo è quello che rimane occulto negli abissi dell' essere assoluto, al cui fondo lo sguardo umano non può penetrare. Tornando dunque al ragionamento analitico applicato agli enti reali, a lui è dovuta ancora quella classificazione degli enti, che abbiamo esposto nel capitolo XXVIII di questo libro. Il ragionamento analitico trova ciò che è nell' ente reale conosciuto immediatamente; il ragionamento dialettico trova ciò che deve essere in esso o fuori di esso, acciocché egli sia un ente completo. Il ragionamento analitico non fa che riconoscere parte a parte ciò che è dato dalla percezione e dalla immaginazione intellettiva, senza aggiunger nulla; il ragionamento dialettico considera ciò che è dato dalla percezione e dell' immaginazione intellettiva come un condizionato, e ne cerca le condizioni. Il ragionamento analitico non applica piú l' idea dell' essere, e si contenta di averla come data nel percepito e nell' immaginato; ma il ragionamento dialettico tiene dinanzi l' essere ideale come un esemplare a cui riscontrare il percepito e l' immaginato, e conosce ciò che gli manchi per adempire la compiuta nozione di ente. Il pensiero dialettico, tenendo fissi gli sguardi nella natura dell' essere come in esemplare e norma di giudizi intorno all' ente, domanda che tutti questi caratteri si avverino e dichiara che dove non si avverino, ivi non è un ente completo: dove ne scorge alcuni, conchiude che vi debbano indubitatamente essere anche gli altri, facendo questo sillogismo: « Alcuni caratteri, elementi, organi o condizioni dell' ente sono: la percezione me ne assicura; Ma all' ente non può mancare nessuno de' suoi caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, né questi possono andar divisi; Dunque anche tutti quei caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, che non sono dati dalla percezione, debbono esservi »(1). Cosí il ragionamento dialettico colla guida dell' essere intuíto esce dai confini della percezione e dell' immaginazione intellettiva; e perviene all' invenzione di nuovi enti, e di nuove verità che non cadono nell' esperienza. Or qual' è l' ufficio del pensare dialettico trascendentale? Non altro se non ridurre ad un pensiero attuale ciò che prima era nel pensiero virtuale e potenziale. L' elemento virtuale adunque, che è nella percezione e nell' immaginazione intellettiva, è il germe che si sviluppa col ragionamento dialettico, per un continuo novello confronto fra ciò che si percepisce, e l' essere ideale che nella percezione stessa si comprende. Uno dei piú importanti principŒ, di cui fa uso il ragionamento dialettico trascendentale, è quello che nasce dal quarto carattere ontologico, che l' ente dee essere un atto primo , acciocché sia concepibile, sia possibile. Di qui il principio che, ogni qualvolta l' atto primo è nascosto al pensiero, si dee conchiudere indubitatamente che egli tuttavia non manca, e il pensiero virtuale tacitamente lo suppone, il pensiero poi dialettico ed attuale è autorizzato ad affermarlo. Questo assioma trae seco amplissime conseguenze, la prima delle quali si è che « ogni qualvolta ciò che noi pensiamo è un ente termine, riesce ontologicamente necessario che esista un principio a lui corrispondente, che lo completi ». L' essere ideale ha ragione di principio rispetto a quella esistenza oggettiva che le cose hanno nella mente, è il principio oggettivo , ma non è un principio soggettivo, e noi parliamo ora di questo. Considerando l' essere ideale in rispetto all' ente soggettivo , egli non ha ragione di principio, ma di termine medio , di maniera che nell' ordine ontologico egli ha avanti di sé per suo principio il soggetto. Ma se noi consideriamo l' essere ideale rispetto al soggetto uomo, noi troviamo ch' egli ritiene pure la nozione di termine medio; e si riscontra una singolare analogia fra questo termine medio nel soggetto intelligente, e lo spazio che è pure termine medio nel soggetto senziente. Del rimanente, l' essere ideale nell' uomo è anch' egli un termine straniero. Il principio intelligente riceve dall' essere ideale l' oggetto primo che lo rende intelligente, egli riceve e non dà; dunque l' ente oggetto non può essere produzione del principio intelligente umano, ma egli esige l' esistenza d' un' altra attività, d' un altro principio che rimane all' uomo occulto. Ma qual principio suo proprio può avere l' ente oggetto? Un soggetto, come abbiam detto. Dunque l' ente oggetto suppone necessariamente, e virtualmente contiene l' esistenza d' un soggetto suo proprio, il quale sia principio soggettivo del termine medio oggettivo. Ma il principio dee essere adeguato al suo termine proprio, col quale egli costituisce un solo essere. Ora l' essere ideale è universale, infinito. Dunque egli suppone un soggetto infinito per suo principio. Questa è la dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori , che si presenta in tante guise diverse, ma che è sempre la stessa nel suo fondo (1). Il ragionamento dialettico trascendentale adunque dimostra l' esistenza di enti che non cadono nella nostra esperienza, tanto partendo da quegli enti termini che sono dati nella costituzione del nostro sentimento, quanto partendo da quell' ente termine7medio, che è dato nella costituzione della nostra intelligenza. Ora possiamo sciogliere la questione « se l' essere reale si riduca sempre ad un sentimento ». In primo luogo, se noi poniam mente all' esperienza, questa non ci dà altri esseri reali se non quelli che hanno natura di termine, ovvero di principio. Ora i principŒ sono i soggetti, tutti dotati di sentimento. I termini reali poi sono i sentiti, i quali si riferiscono al principio senziente, e però sono nel sentimento. Ma se noi applichiamo a questi dati dell' esperienza il ragionamento analitico, troviamo: 1) che la parola sentimento significa propriamente l' atto ultimato del principio senziente; 2) che il termine sentito o è proprio, o straniero. Se è proprio, egli è lo stesso principio senziente come sentito. Cosí nel sentimento espresso con il vocabolo Io , il senziente e il sentito s' identificano; 3) ma se il termine è straniero, egli ha bensí un rapporto essenziale col principio straniero col quale è unito, ma non gli appartiene l' atto proprio del principio straniero, e però neppure il sentimento. Quindi egli si rappresenta al veder nostro semplicemente come materia del sentimento, materia bensí sentita, ma che potrebbe anche essere non sentita. Cosí il pensar comune è giustificato; ed egli non deroga menomamente alle verità filosofiche da noi esposte. Fra queste verità vi ha quella che ogni termine straniero addimanda un principio suo proprio, che è al di là della nostra esperienza. Ora il sentimento di tale principio proprio appartiene a quella entità che è a noi termine straniero, e però anche questa rientra nel sentimento. Ma quella entità che è a noi termine straniero non è già sentita dal suo principio proprio come è sentita da noi, poiché da noi è sentita come straniera e priva al tutto di principio proprio. Quindi nel termine del nostro sentire si debbono distinguere tre cose. Esso termine attualmente sentito; la materia che si suppone non sentita, e questa è un' entità astratta che si forma rimovendo dal sentito la qualità di sentito, dopo di che ci rimane un quid incognito, di cui altro non si conosce se non l' attitudine ad esser sentito; e la stessa materia sentita non da noi, ma dal suo principio proprio con un sentimento diverso dal proprio. Onde quella materia che rimane in mezzo ai due sentimenti si considera come materia identica dell' uno e dell' altro. Ma propriamente parlando ella non esiste separata dai due senzienti, ma è un cotal figmento della maniera nostra limitata di concepire; e quindi neppure ella è identica ai due sentimenti. Il concetto adunque di questa materia non ci fa conoscere che cosa ella sia in se stessa, ma solo ci fa conoscere avervi un' entità reale, la quale trovasi in un contatto di sensilità col nostro principio senziente, dal qual contatto esce il nostro sentito. Ora, questo concetto negativo è il concetto di una realità pura ed astratta , che è qualche cosa di anteriore al sentimento, e però appunto dicesi pura; 4) troviamo adunque che in ogni sentimento, come pure in ogni sentito, vi ha un' attività. Ora l' astrazione suol separare anche l' attività del sentimento dal sentimento; e a quest' attività suol pure dare il nome di realità pura , cioè separata dal sentimento che la completa. Ma anche qui non dobbiamo ingannarci prendendo i prodotti dell' astrazione quasi per sé essenti, come enti reali. Perocché se si parla del sentimento, lasciati a parte i termini stranieri, l' attività è sentimento ella stessa. Vero è che l' effetto di questa attività del sentimento si manifesta anche fuori del sentimento, modificando la materia del medesimo. E poiché quest' azione noi poniamo che appartenga ad un principio senziente che non viene raggiunto dalla nostra esperienza, quindi il concetto di azioni reciproche fra principŒ diversi che immutano reciprocamente i sentimenti proprŒ nei loro rapporti attivi. Il qual fatto è importantissimo, e non cosí facile a spiegare. Perocché, che un sentimento sia attivo entro la propria sfera s' intende, ma che egli produca un effetto fuori di questa, egli è un nodo difficile a sciorre. Tanto piú che l' effetto da esso prodotto in un altro sentimento non è da lui sentito, almeno nello stesso modo come lo sente chi riceve l' effetto. E pure il fatto de' termini stranieri dimostra, che il principio proprio di questi, comeché sia, influisce nel principio straniero in modo da somministrargli il termine. Se noi analizziamo questo fatto, dalla descrizione di un fatto cosí meraviglioso, qual' è l' azione e la congiunzione attiva e passiva dei principŒ sensitivi, si possono cavare le seguenti conclusioni. Se si tratta di quella congiunzione attiva e passiva per la quale gli enti relativi si costituiscono, convien dire ch' ella appartiene alla loro natura. E nel vero ella è appunto quel sintesismo, pel quale sussistono e reciprocamente si sostengono, onde gli enti non si possono concepire senza questa loro congiunzione essenziale, senza la quale perirebbero. La ragione pertanto di questa congiunzione dee cercarsi unicamente nell' autore della loro natura. Infatti non si potrebbe in essi trovare ragione che spiegasse tale congiunzione, essendo ciascuno un ente per sé. Or questo è nuovo argomento, col quale il ragionamento dialettico trova la necessità di una terza potenza che, quasi disposando due enti fra loro, li costituisca entrambi. Coll' astrazione si separa quell' azione di uno che è passione dell' altro, come fosse cosa diversa dai sentimenti stessi; ma propriamente è da dire che entra ella stessa in entrambi i sentimenti, come termine in chi lo fa, e principio ma principio straniero in chi la riceve. E cosí s' avvera che l' ente reale non sia altro che sentimento, ma sentimento suscettivo d' azione e di passione. Di che non di meno avviene che si formino colla mente due astratti, separandosi il sentimento dall' azione , e separandosi l' azione dal sentimento ; la quale separazione non esiste in natura, ma solo nell' ontologia scientifica in quant' è frutto dell' astrazione. Di che si passa facilmente all' errore di credere che si dia azione e passione senza sentimento, o che si dia sentimento senza azione o passione; laddove nella natura queste cose non ne formano che una, un ente solo, il quale sentendo agisce o patisce, ed agendo o patendo sente. Del resto, non deve essere leggermente trapassata l' osservazione che noi facevamo di sopra, che l' azione e passione di due principŒ senzienti suppone un terzo ente, o certo una ragione fuori di essi. Un terzo ente che ad un tempo stesso che fa esistere i due principŒ, li mette ancora fra loro in comunicazione: l' uno non può trovar certamente l' altro perché non lo sente; e perciò appunto è necessario che una terza forza sia quella che li congiunge; e poiché il congiungerli è lo stesso che porli in essere, perciò questa terza forza è quella che li pone in essere, che dà loro l' esistenza. Veduto come si distingue il concetto di azione dal concetto di sentimento, dobbiamo vedere come si distingua il concetto di essere dal sentimento medesimo. Il concetto di essere è il medesimo che il concetto di primo atto; e il primo atto è assoluto o relativo. Il primo atto assoluto è quello che è primo assolutamente cioè universalmente, di maniera che non se ne possa pensare un altro avanti di lui. Il primo atto relativo è quello che è primo nella sfera di un sentimento limitato, di limitazione ontologica, cioè tale che lo costituisce separandolo da ogni altro. Or si domanda se il concetto di atto primo, o sia di essere, diversifichi dal concetto di sentimento, di maniera che un ente possa essere non sentimento. Rispondesi, che in quanto all' essere assoluto, il concetto di essere o di atto primo è sotto ogni forma sentimento, ma non nello stesso modo, poiché nella forma reale è sentimento7principio, nella forma ideale è sentimento termine7medio, e nella forma morale è sentimento termine7ultimo. Rispetto poi agli esseri relativi, essendoci data in natura un' azione che non è sentimento rispetto a noi, perché il sentimento suo proprio ci rimane incomunicato e nascosto; perciò egli deve accadere e accade, che movendo da tali azioni l' intendimento nostro si formi il concetto di esseri privi affatto di sentimento. Perocché data a noi l' azione non sensitiva, l' intendimento nostro considera necessariamente o lei stessa come prima azione, primo atto, e però come ente insensitivo; ovvero ascende da essa a trovare un' azione prima, un primo atto che sia l' ente a cui ella appartiene, per quella legge ontologica per la quale la mente è sospinta sempre a pensare il primo atto, cioè l' ente come oggetto necessario del pensiero «( Psicologia , P. II, l. IV, c. VII) ». E cosí è che il pensiero comune giustamente concepisce una materia insensitiva, e in generale degli enti che non sono sentimento. Ma l' ontologo mediante le meditazioni che abbiamo esposte viene ad accorgersi che gli esseri insensitivi sono propriamente entità risultanti e relative di secondo grado, non veri enti primitivi relativi di primo grado. Or qui ci si offre una difficoltà. Se l' ente deve esser uno, come accade egli, che risulti sovente da un principio e da un termine? Si ponga attenzione che il solo termine non può giammai costituire un ente, benché possa costituire una sostanza relativa all' appercezione umana; d' altra parte il principio reale ha natura di soggetto, e però di ente soggettivo che è infine quanto dire di ente reale. Ora ogni principio reale è soggettivo e semplice ed uno: quindi la semplicità e l' unità dell' ente reale risiede nella semplicità e unità del principio reale soggettivo (1). Ma si dirà: il termine adunque non entra egli per nulla nella composizione dell' ente? - Si distingue il termine straniero , e il termine proprio dell' ente . Il termine straniero non è piú che un eccitatore e anche suscitatore del principio; ma tali termini non si confondono punto col principio, questo rimane l' unico soggetto suscitato: e il soggetto, che è uno e incomunicabile, è il solo ente reale. La moltiplicità dunque rimane fuori dell' ente, rimane nel termine che non è ente; l' unità e la semplicità è nel principio, che propriamente è ente. Il termine proprio all' incontro non è che l' ultimo atto dell' ente, e, per cosí dire, la punta dell' atto. Noi non abbiamo esperienza di alcun ente, il cui ultimo atto non abbia bisogno di un termine straniero; questa è la prova ontologica, che tutto l' universo a noi percettibile non è per sé, ma per altro. Tutti gli enti a noi cogniti finiscono adunque col loro atto in termini che non sono dessi. Ma non ripugna il pensare un ente, il quale avesse tali termini, i quali fossero desso. E questo è quello che indubitatamente avviene nell' essere Divino. Imperocché egli deve contenere i tre modi categorici, essere ad un tempo reale, ideale, e morale. Per altro egli è evidente che l' ente che ha un termine suo proprio, sarebbe semplice ed uno, appunto per la perfetta identità che passerebbe fra l' ente principio e l' ente termine; la distinzione sarebbe ne' modi di essere, e non nell' essere stesso; la divisione si farebbe nell' astrazione, ma non nello stesso ente. A rigore: non è ente veramente completo se non l' assoluto. Tuttavia si dicono relativamente completi quelli enti, che sono suscettivi di coscienza, i quali sono in se stessi e virtualmente a se stessi; onde relativamente a sé sono completi; perché essi non sentono il bisogno, per essere, che di se stessi. Ma oltre questi enti ve n' hanno di quelli che sono anche relativamente incompleti, e sono quelli, i quali non sono in sé, né a sé, non hanno veruna relazione seco stessi, perché non hanno sentimento proprio, e quindi non possono avere un sé , ma la loro esistenza è interamente relativa ai primi dotati di un sentimento proprio intellettivo che sono in sé. Tali sono appunto lo spazio, la materia, i corpi. Gli enti relativi dunque si dividono in due grandi classi: 1) in quelli che hanno un' esistenza relativa a sé; 2) in quelli che hanno solamente un' esistenza relativa ad altri, cioè a que' primi. Vero si è che l' uomo ha una naturale inclinazione d' attribuire alle cose diverse da sé un' esistenza simile alla sua subiettiva (1). Egli ha ben anco di ciò fare una cotale necessità dialettica, perocché non può concepire un ente, senza attribuirgli un' esistenza subiettiva. Ma questa necessità è appunto soltanto dialettica , cioè è una necessità che egli ha di cosí supporre ogni ente qual condizione necessaria a concepirlo (2). Ma queste necessità dialettiche , sono mere supposizioni , mere aggiunte provvisorie per arrivare a concepire gli enti; le quali aggiunte l' uomo stesso le abbandona tostoché si pone a ragionare sugli enti già concepiti. La prima classe adunque di enti relativi ha non solo un' esistenza oggettiva , ma ben anco un' esistenza soggettiva ; la seconda classe ha un' esistenza oggettiva , ma non soggettiva . La prima classe contiene gli enti primitivi , nell' ordine della relatività, la seconda classe contiene gli enti risultanti dalla connessione, e dal sintesismo degli enti primitivi fra loro. L' ente completo assolutamente ha un' esistenza oggettiva sua propria, laddove l' ente completo relativamente ha un' esistenza oggettiva partecipata. Sotto il qual aspetto, gli enti si possono distribuire in tre classi, che sono: 1) Ente completo assoluto , il quale ha un' esistenza oggettiva propria , e cosí parimenti una propria esistenza soggettiva ; 2) Ente completo relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata e non propria, ed un' esistenza soggettiva propria ; 3) Ente incompleto relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata , niuna esistenza soggettiva. Ma torniamo al carattere dell' unità , che deve aver l' ente per legge ontologica. Questa investigazione conduce a vedere che l' unità ontologica è tale, che non esclude ogni moltiplicità, e quindi a conciliare la moltiplicità coll' unità ontologica. In fatti, la prima maniera di unità, è quella che essendo semplicissima, esclude ogni moltiplicità. Or questa specie di unità non si riscontra negli enti completi , né tampoco negl' incompleti ; ma tutt' al piú negli astratti, che non sono propriamente enti, ma piuttosto entità divise ipoteticamente col pensiero dal resto che hanno congiunto. Questa maniera di unità astratta , o di uno astratto , si può chiamare acconciamente elementare , perocché non può rappresentare che un elemento , non mai un ente. Ad essa si può ridurre 1) l' unità di numero, l' uno ; 2) l' unità di punto matematico ; 3) l' unità dell' estensione illimitata ; 4) l' unità dei singoli atti, delle singole potenze, dei singoli abiti , ecc.; 5) l' unità della qualità ; 6) l' unità della relazione , e dell' abitudine ; 7) l' unità dell' essere ideale . Questa unità elementare non è l' unità ontologica . Conviene adunque che noi cerchiamo un' altra maniera d' unità, la quale colla moltiplicità si compone; e per agevolarcene la ricerca, investighiamo quali sieno le pluralità che non distruggono l' ontologica unità. Noi possiamo enumerare le seguenti: I) L' essere assoluto è nei tre modi categorici: in ciascuno è identico e intero - quindi la pluralità dei modi categorici, in cui l' ente è identico, non toglie la sua unità. II) Gli esseri relativi completi , considerati nella loro esistenza soggettiva hanno dei termini stranieri; ma essi appunto perché stranieri, non entrano in composizione con quell' ente che in essi termina. Questi enti dunque, per avere tali termini, non perdono la loro unità ontologica. III) In quanto all' esistenza oggettiva degli enti, essa giace nell' essere ideale: ora questo non toglie l' unità ontologica per le seguenti ragioni: 1) Se si parla dell' essere assoluto , l' essere ideale non può distruggere l' unità dell' ente; perché questo è identico nei due modi di esistere, il soggettivo e l' oggettivo; 2) Se si parla degli enti relativi completi, ovvero incompleti, la loro esistenza oggettiva è nella mente; e noi abbiamo veduto che nella mente l' ente ideale e il realizzato è identico «( Sistema Filosofico , n. 23 sgg.) ». IV) Gli enti relativi incompleti, che abbiamo chiamato anche risultanti , o termini risultanti , hanno una moltiplicità relativa al soggetto o principio a cui sono termine, la quale è reale, benché essi non sieno soggetti . Ora, essendo a noi nascosta la natura di questo principio proprio, consegue che noi non sappiamo in che modo questo principio straniero produca que' piú termini, e se egli è un solo principio, forz' è che in lui vi abbia la pluralità del termine, come quello che essendo semplice, la può accogliere in sé medesimo. Tutte le grandi questioni ontologiche si riducono a due; la prima è quella astrattissima che si volge intorno la pura essenza dell' essere che nell' idea si contempla; la seconda è quella che tratta della costruzione dell' essere , e questa discende all' essere reale. Noi ci proponiamo in questo capitolo di entrare in questa seconda questione dell' ontologia, e ne uscirà forse un commentario a quella soluzione data da Anassagora (1) con sí brevi parole, che Socrate se ne lagnava (2). Noi vogliamo adunque dimostrare, che vi deve essere un' intelligenza non già per la necessità di spiegare i vestigi di una causa intelligente che si manifestano nel creato; ma perché senza un' intelligenza l' ente non sarebbe costituito, e però non vi potrebbe essere alcun ente; la quale è necessità ontologica. L' ente infatti è per sé necessario; perocché quello che è per essenza, non può non essere. Dunque è pure necessario tutto ciò che ha natura di condizione o di elemento costitutivo dell' ente. Se dunque si prova che l' ente non si potrebbe concepire, qualora non vi avesse intelligenza, con ciò sarà provata la necessità ontologica di questa. Rammentiamo che l' ente termine non può stare da sé solo senza il principio a cui essenzialmente si riferisce, e quindi che il sentito corporeo non può stare senza il principio senziente. Da questo viene immediatamente la conseguenza, che il pensare che non vi avesse nell' universo se non materia e corpi, è un pensare assurdo, perocché quando si dice materia e corpi si dice termini, e quando si dice termini si dice relazioni con un principio, e cosí si afferma implicitamente il principio. Quando poi si dice che non si hanno se non corpi e materia, allora si nega l' esistenza del principio. Dunque si afferma e si nega nello stesso tempo: dunque vi ha contraddizione. Questa è la prima confutazione ontologica del materialismo. Dimostrata la necessità ontologica dell' essere senziente, rimane a dimandare, se vi abbia contraddizione intrinseca anche nella supposizione che non vi avessero altri esseri fuorché il senziente. In primo luogo, questo essere puramente senziente, per la supposizione stessa sarebbe privo d' intelligenza, e però non avrebbe, né potrebbe avere alcuna coscienza di sé. Un Sé non esisterebbe; neppure esisterebbe chi potesse applicare a questo essere senziente il pronome Tu o Egli. Egli non sarebbe dunque né a se stesso, né ad alcun altro essere. Conviene conchiudere che non sarebbe del tutto. Poniamo l' obbiezione piú ovvia: « un essere senziente, se non vi avesse alcuna intelligenza, certo non potrebbe essere né conosciuto né affermato; ma come dimostrate voi, che egli non potesse essere al tutto, quantunque praticamente incognito a se stesso o ad altro chicchessia? ». In questa obbiezione parlasi d' un principio senziente che si suppone atto ad essere conosciuto, si suppone possibile, si suppone tale che abbia un Egli ed un Sé; il che è quanto dire, si suppone, che insieme con lui esista un' intelligenza, il che distrugge la supposizione fondamentale del ragionamento. Si rifletta che l' obbiezione fatta di sopra si riduce a questa proposizione: « potrebbe essere un ente senziente del tutto sconosciuto ». Ella si appoggia adunque sulla possibilità di un tale ente. La questione adunque si riduce tutta alla possibilità. Or che cosa è la possibilità? Noi abbiam detto piú volte, non è altro che l' intelligibilità. Dunque quando si dice un ente possibile, con questo stesso si ammette che sia intelligibile; ed essere intelligibile è lo stesso che avere una relazione con una intelligenza. Si suppone adunque, senza avvedersene, che una intelligenza esista all' atto dell' essere senziente. L' obbiezione adunque parla di un essere sconosciuto; ma nello stesso tempo suppone che sia conoscibile. Ora acciocché ella avesse forza dimostrativa, dovrebbe parlare di un ente non pure non conosciuto, ma anche non conoscibile, il che è quanto dire non possibile. Si replicherà che quest' essere intelligente basta che sia possibile anch' egli, non è necessario che sia sussistente. Ma si risponde, che il replicare cosí altro non sarebbe che il perdersi entro un circolo vizioso ovvero un progresso all' infinito. Perocché se si riconoscesse necessaria la possibilità , acciocché l' ente senziente sussista (e per vero dire ciò che non è possibile non sussiste); e quindi si riconosce la necessità che v' abbia un' intelligenza possibile; dove poi si porrà la possibilità di questa intelligenza? Converrebbe ricorrere ad un' altra intelligenza possibile. E posciaché la serie di queste intelligenze possibili non può andare all' infinito; cosí conviene di necessità fermarsi ad una intelligenza sussistente, nella quale si trovi la sede della stessa possibilità. La dimostrazione medesima si deriva da altri principŒ da noi stabiliti. Noi abbiamo veduto che il reale non può stare senza l' ideale pel sintesismo di queste due forme. Ora enti sensitivi, senza piú, sono reali. Dunque addimandano i loro ideali corrispondenti. Ma l' ideale è il termine oggettivo dell' intelligenza. Il termine poi non può stare senza il principio. Convien dunque che vi abbia un principio intellettivo nell' universalità delle cose, acciocché vi possa avere l' ideale che in esso essenzialmente dimora; e convien che v' abbia un essere ideale che costituisce la possibilità del reale, acciocché vi possa avere l' ente reale, che è l' effettuamento e l' ultimo atto di quello. E poiché il senziente è un reale; perciò non può esistere nell' universo il solo ente sensitivo. Lo stesso si deduce da un altro vero, cioè dall' essere l' ideale, ente iniziale, sí fattamente che la costituzione di ogni ente reale in lui incomincia. Egli è dunque impossibile che v' abbia la realizzazione di un ente, che v' abbia la sua forma reale la quale è compimento, se mancasse il suo inizio che è il primo passo che dà l' ente verso alla sua compiuta esistenza. Dal che procede, che l' ente che non ha intelligenza è incompleto, ed ha bisogno di appoggiarsi alle intelligenze fuori di lui, alle quali solo egli è relativo : all' incontro l' ente che è dotato d' intelligenza è ente completo , e però questa sola maniera di enti, cioè gl' intelligenti, meritano la denominazione aristotelica di entelechie che viene da «enteleches», perfetto , denominazione ontologica perché tratta dell' intima costituzione degli enti stessi. Cosí tutte le nature delle cose sono connesse, l' una all' altra si continua e si appoggia, e reciprocamente si sorreggono: quindi la mirabile unità del tutto senza alcuna confusione delle parti, l' armonia, e la consonanza di queste: la base altissima delle quali essenziali relazioni degli enti giace nell' originario sintesismo delle tre forme categoriche, nelle quali l' essere uno è medesimamente ancora trino. Il legame ontologico delle cose fra loro è quello che rende la teosofia una scienza sola, e non la lascia partire in piú. Che anzi le sue tre parti, che abbiamo detto essere ontologia, teologia naturale e cosmologia, neppur si possono trattare cosí recise e partire l' una dall' altra, che le materie dell' una non si debbano colle materie dell' altra alcuna volta tramezzare. E questo è quello che qui ci accade. Poiché sponendo noi le attinenze dell' essere reale, e come quello che è privo d' intelligenza s' attenga necessariamente e quasi si aggrappi all' essere intelligente, siamo sospinti a parlare della prima intelligenza a cui ogni ente è condizionato, e a raccogliere la dimostrazione della sua esistenza, che qui da se stessa in nuova forma ci si presenta. Dimostr. - Necessaria è una proposizione, quando la sua contraria involge contraddizione. Ora « che l' essere non sia necessario »involge contraddizione. Perocché se l' essere non è necessario, l' essere potrebbe non essere. Ma essere e non essere sono termini contraddittorŒ. Dunque la proposizione contraria involge contraddizione. Dunque l' essere non può non essere, ossia l' essere è di natura sua necessario; il che dovevasi dimostrare. 1) Questa necessità dell' ente è la proposizione fondamentale della scuola italiana d' Elea [...OMISSIS...] Dalla quale proposizione fu tratto a torto il panteismo perché si applicò all' ente relativo quella proposizione che non vale se non per l' ente essenziale ed assoluto. 2) La necessità dell' essere è la prima fra tutte le necessità; non vi ha alcuna necessità logica che da questa non derivi: non sia questa stessa partecipata. Laonde ogni necessità si riduce a questa, alla necessità dell' essere. Dimostr. - Nelle proposizioni nelle quali si predica qualche cosa dell' ente, il subietto della proposizione è l' Ente possibile, o ideale. E in fatti tali proposizioni, che sono giudizi analitici, riguardano le doti e qualità proprie dell' essenza dell' ente. Ora l' essenza dell' ente è quella che s' intuisce nell' idea. La proposizione adunque, che « l' essere è di natura sua necessario », versa intorno all' essere ideale , il che si dovea dimostrare. 1) Molti scrittori fra gli antichi, e del tempo medio, fra' quali ultimi Sant' Anselmo, credettero di poter dare una dimostrazione a priori dell' esistenza di Dio argomentando dal concetto di Dio. Recando questo concetto che « Iddio sia ciò di cui nulla si può pensar di piú grande » conchiusero che dunque non gli potea mancare la sussistenza. Cosí trovarono la sussistenza nello stesso concetto di Dio, e conchiusero che Iddio è per sé noto, cioè egli è noto tosto che è noto il suo concetto. Ma l' acutissimo San Tommaso trovò difettosa tale dimostrazione. E nel vero questa sussistenza nel concetto è ancora una sussistenza ipotetica , e non una vera e reale sussistenza. Onde San Tommaso giustamente disse: [...OMISSIS...] . Ora questa difficoltà che fa l' Angelico a quelli che vogliono provare l' esistenza di Dio dal concetto, non vale contro la proposizione che pone l' essere necessario, perocché questa proposizione pone l' essere soltanto nel concetto, cioè l' essere ideale. L' essere ideale dunque è per sé noto, e manifestamente necessario, né da alcuno che ragioni giammai negato con coerenza di ragionamento. 2) La necessità dell' essere ideale nell' ordine dell' umano ragionamento è il primo noto . Sopra di questo solido fondamento si erige la teoria della certezza da noi esposta nell' « Ideologia (1) »; perocché ogni certezza si acquista riducendo ogni proposizione che si vuole dimostrare a quella prima, di modo che « se si negasse la proposizione che si assume, si dovrebbe coerentemente negare anche la prima proposizione dell' essere per sé noto »: formola che esprime l' artificio di ogni dimostrazione. Quindi « la necessità dell' essere ideale »è anche il principio della Logica. 3) Nella tesi fu detto « l' essere che apparisce a noi necessario è l' essere ideale », e ciò perché l' essere necessario è anco nelle sue forme reale e morale, ma in queste forme a noi non apparisce immediatamente e intuitivamente, come si raccoglie dalla sensata obbiezione fatta da San Tommaso. Del resto non solo rispetto all' uomo, ma anche in se stesso l' essere ideale è il primo noto , perocché il reale necessario è conoscibile per necessario, appunto perché è nell' ideale: questa adunque è la ragion prima di tutte le cose. Dimostr. - Questo è il noto assioma dei logici, che ab esse ad posse datur consecutio . Ciò che è, appunto perché è, può essere; perocché se non potesse essere non sarebbe. Ma questo in altre parole viene a dire, che dato il reale si può argomentare il possibile, che è la proposizione che si proponeva. 1) Quando tutto il mondo dice che se una cosa è, ella per conseguente è possibile; allora viene a riconoscere che v' ha una progressione entitativa dal possibile al reale; di maniera che il possibile ed il reale si considerano come due passi che fa l' ente per costituirsi; ed è quanto un dire: « il secondo passo suppone il primo, non s' arriva al due se non passando per l' uno ». Noi pensiamo adunque e parliamo col senso comune, quando diciamo che il possibile è « l' ente iniziale »che è quanto dire « il primo passo dell' ente, che si pone ». 2) Se ella è sempre evidentemente vera la proposizione che ab esse ad posse datur consecutio , la sua contraria a posse ad esse non datur consecutio ha bisogno di essere limitata e spiegata cosí: che per essa si dica che « dal potere all' essere non si dà sempre un' illazione », e però che « quando si vuole arguire dal potere all' essere, trattasi di un tal potere, di un tal possibile, che nel suo seno racchiude necessariamente la sussistenza », il che non accade se non trattandosi di Dio, dove lo stesso essere è ideale e reale. Se dunque il reale suppone il possibile, ne viene che il reale solo non può stare nella natura, e però che sarebbe assurdo il pensare che non vi avesse altro che materia, o non vi avesse altro che sentimento corporeo; ma convien dire che se sono questi, dee esser altresí il possibile , ossia l' ideale . Dimostr. - L' essere ideale dunque è necessario. Ma l' essere ideale per la sua definizione è il termine oggettivo, l' oggetto della mente. Né si può concepire oggetto della mente senza che sia la mente di cui egli sia oggetto, né tampoco si può concepire la mente senza alcuna relazione con un oggetto. Se dunque è necessario l' oggetto, è necessaria altresí la mente ossia l' intelligenza soggetto, come diceva la proposizione. Di qui incomincia ciò che di nuovo vogliamo aggiungere secondo il titolo del capo presente. Dimostr. - Diamo che l' essere ideale fosse termine straniero di una intelligenza. In tal caso, quell' intelligenza non è il principio, ossia il soggetto suo proprio. Dunque il termine non cessa di esistere anche considerato diviso da quel soggetto che gli è straniero. Ma diviso da quel soggetto non potrebbe continuare ad esistere se non avesse un altro principio, e questo non gli può esser di nuovo straniero, perocché in tal caso si dovrebbe ripetere lo stesso ragionamento. Non potendosi adunque andare all' infinito nella serie de' principŒ che si suppongono uniti a quel termine, convien fermarsi ad un principio che sia proprio dell' essere ideale; e al quale l' essere ideale sia termine proprio, e questo è ciò che si diceva nel lemma proposto. Dimostr. - L' essere ideale non può stare senza un' intelligenza, di cui egli sia termine proprio. Ma il termine proprio è quello, nel quale l' ente è identico quale è nel principio, secondo la datane definizione [...OMISSIS...] . L' essere adunque è identico nel principio e nel termine proprio. Ma qui il termine è l' essere ideale, il quale ha i caratteri della necessità, della unità, dell' eternità, dell' immutabilità, e tant' altri caratteri divini. L' ente dunque dee avere i medesimi caratteri anche nel principio proprio, perché altramente non sarebbe l' ente identico. Ma il principio proprio dell' essere ideale è l' intelligenza, ossia un ente soggetto intelligente. Dunque l' intelligenza che è principio proprio dell' essere ideale dee essere anch' essa necessaria, universale, eterna, immutabile, ecc.. Ma una tale intelligenza è infinita ed assoluta. Dunque l' essere ideale non può stare senza un' intelligenza infinita ed assoluta, ciò che appunto si dovea dimostrare. 1) Un oggetto intelligente infinito ed assoluto che ha per termine proprio l' essere ideale è Dio. Dunque Iddio è, ed è necessariamente; e Iddio non è una potenza infinita cieca, ma una infinita intelligenza. 2) Dunque Iddio è un ente che è identico nel modo reale (soggetto intelligente) e nel modo ideale (oggetto). E però Iddio è ugualmente ne' due modi di essere accennati: egli ha come sua propria tanto l' esistenza soggettiva, quanto l' esistenza oggettiva. 3) Il primo ente adunque, l' ente essenziale vuol essere intelligente. Noi abbiamo fin qui favellato dell' intima costruzione dell' ente reale, applicando a questo l' osservazione ontologica (1): abbiamo veduto com' è costruito quell' ente reale, di cui abbiamo esperienza. Dall' esistenza del corpo o di piú corpi abbiamo arguito l' esistenza di un principio sensitivo, e dall' esistenza di uno o di piú principŒ sensitivi abbiamo arguito l' esistenza di una intelligenza. Questa maniera di arguire merita il nome di ragionamento sintetico . Ma non ci siamo fermati qui. Noi abbiamo di piú dimostrato la necessità assoluta che sussista un' intelligenza; e l' abbiamo dimostrata come illazione della necessità assoluta dell' essere ideale . Abbiamo veduto che l' essere ideale è un punto fermo, sufficiente a cui appoggiare, per cosí dire, la leva filosofica, e portarci alla certezza indubitabile di un soggetto reale sussistente, e non solo alla certezza della sua sussistenza, ma della sua necessità. Questo nostro si può chiamare a giusto titolo, ragionamento sintetico a priori . Varcato il ponte che unisce la possibilità colla sussistenza, non ci siamo fermati; ma siamo venuti fino a conchiudere con logica illazione che l' intelligenza che dee per necessità sussistere dee anche essere infinita, ed assoluta, e quindi esser Dio. Or fino che arguivamo unicamente un' intelligenza, non eravamo ancora usciti dalle cose che cadono sotto l' umana esperienza; ma quando poi ci slanciammo con un procedimento logico fino all' intelligenza assoluta ed infinita, allora abbandonammo interamente col nostro volo il mondo esperimentale e pervenimmo in una regione incognita, nella regione appunto dell' infinito. Questo è ancora ragionamento sintetico a priori , ma perché egli eccede l' esperienza, merita la denominazione che già abbiam data di ragionamento dialettico trascendentale . Dobbiamo ora continuare ad applicare questa maniera di ragionare agli esseri finiti di cui abbiamo esperienza, per discoprire, al di là dell' esperienza, ciò che è condizione trascendente dell' esistenza delle cose esperimentali: cominciamo applicando questo possente istromento della dialettica trascendentale all' ente sensitivo. Gli studi fatti nei moderni tempi dagli studiosi delle scienze naturali, diedero questo mirabile risultamento, che « tutte le operazioni e i fenomeni della vita e dell' animale organismo si riducono sempre a leggi perfettamente identiche ». Ma la Psicologia va piú innanzi (1): ella dimostra col piú gran rigore d' osservazione e di ragionamento, che: « il sentimento animale, ha in se stesso una virtú attiva capace ella sola di spiegare tutti i fenomeni animali, come pure tutti i fenomeni vegetativi, ed anco corporei dipendenti da ogni specie di attrazione; non però quelli delle leggi del moto meccanico ». Procede che a spiegare i fenomeni animali non si dee assumere altro principio o cagione ipotetica, fermandosi alla virtú insita nel sentimento. Giacché l' esistenza di questa causa è dimostrata, e d' altra parte è sufficiente alla spiegazione de' fatti: la legge adunque della ragion sufficiente vieta che si ricorra ad altra causa incognita non punto necessaria. La Psicologia ancora dimostra, che dalla disposizione degli elementi nello spazio, dipende l' organizzazione, la quale si forma per le attrazioni degli elementi, e modificazioni di tali attrazioni, quelle e queste dipendenti dalla virtú insita al principio sensitivo; e che dall' organizzazione dipendono poi tutte affatto le specie degli animali e i fenomeni della vita in ciascun d' essi «( Psicol. , 542) ». Quindi apparisce ancora in quanto sia vera la proposizione di certi fisiologi che dicono « la vita inesauribile », potersi questa diramare, distendersi senza fine alcuno. Tutto ciò non eccede ancora il regno dell' esperienza: proseguiamo. Il sentimento animale risulta dalla congiunzione di un principio con un termine. Questa congiunzione è cosí essenziale, che se si toglie via il principio senziente non è piú il termine sentito, e se si toglie via il termine sentito non è piú il principio senziente. La cosa è del pari evidente se invece di parlare di sentito si parla di corpi, e invece di parlare di senziente si parla di anime sensitive. Ma egli sta a vedere se il corpo e l' anima suppongono degli altri enti d' innanzi da sé, i quali se essere vi dovessero noi li chiameremmo, in relazione al corpo e all' anima, ultrasostanze. L' anima sensitiva è informata dal suo termine: questo la trae all' atto del sentire: la sua sede è lo stesso termine sentito: in esso ha la sua attualità senziente. La sua esistenza è dunque relativa al sentito: da questo ancora trae la sua individualità «( Psicol. , 560 7 566; 572 7 577) ». A malgrado di ciò, se colla astrazione noi mettiamo da parte il sentito, ci rimane tuttavia qualche cosa: il principio, è vero, non è piú senziente; egli ha perduto ciò che lo individuava; e tuttavia egli rimane ancor qualche cosa dinnanzi al nostro pensiero, rimane un principio. Lo stesso si prova in un altro modo. Il sentito porge la materia in cui esercitarsi quest' attività, e quest' attività si spiega agli atti suoi proprŒ tostoché la materia opportuna le sia preparata. Se dunque coll' astrazione della mente si rimuove questa materia, l' attività del principio rientra in se stessa, si accoglie in una potenzialità, ma non ne segue da ciò che ella sia perita dinanzi alla mente. Questo principio adunque non è piú principio in atto, ma rimane una potenza che riacquistando la materia può ridivenire principio. Vi è dunque anteriormente al principio senziente qualche cosa, che non è nominata in nessun linguaggio, perocché la parola anima o l' equivalente ne' diversi linguaggi non significa punto quella potenzialità anteriore al principio senziente, ma significa lo stesso principio senziente ovvero sia sensitivo. Ora quel qualche cosa che si vede dovervi avere avanti al principio sensitivo, avanti all' anima, è ciò che noi chiamiamo una ultra7sostanza. Il primo atto dell' anima sensitiva adunque è quello del sentimento fondamentale; e in questo primo atto, che termina nel sentito fondamentale, è la sostanza dell' anima, a cui solo conviene il nome. Se si suppone cessato questo primo atto, l' anima non è piú. Rimane ciò che vi era prima di lei, ciò che vi è al di là di lei, di cui il primo concetto che possiamo formarci è quello di una entità potenziale, che è quanto dire una potenza di produr l' anima. Quindi s' intende come l' anima sensitiva sia un ente relativo. A fine di conoscere questa relatività, conviene fissare dove stia il primo atto che mette in essere l' anima sensitiva. Questo atto sta nel sentimento di un esteso: questo sentimento non è l' anima: questo sentimento è chiuso e limitato, che non va fuori del suo termine: questa limitazione, questa sfera del sentimento determina la sua relatività, perocché è talmente relativo a quell' esteso, che fuori di lui quel sentimento non è piú; tutto ciò che è fuori di quel termine non esiste per quel sentimento, né in quel sentimento. Questa è una di quelle che abbiamo chiamate limitazioni ontologiche . Perocché abbiam detto che gli enti finiti si compongono di un elemento positivo, e di un negativo, che è appunto l' essenziale loro limitazione (1). E qui si trova la risposta alla difficoltà: « Come un negativo può essere un elemento che entri nella composizione di un ente? ». A cui si risponde: la limitazione ontologica è nel sentimento, e nel sentimento ella è qualche cosa; perocché anche il negativo è qualche cosa nel sentimento. In fatti un sentimento che sente la propria limitazione, da questo sentire la limitazione rimane determinato ad essere piuttosto un sentimento che un altro, e trattandosi di sentimenti primi, cioè atti primi, ad essere piuttosto un ente che un altro. Cosí la limitazione diventa ontologica anche per gli enti soggettivi e reali, di cui parliamo; non perché ella stessa sia qualche cosa di positivo, ma perché in conseguenza di essa ridonda nell' ente uno speciale sentire, che lo determina e separa da ogni altro sentire. Questa proposizione è conseguente a tutto ciò che abbiamo detto. E nel vero che cosa è il soggetto? Il soggetto è l' atto primo del sentimento; cioè quella cosa che prima di tutto è sentita e che è sentita attivamente, cioè nella sua qualità di atto. Quindi il soggetto ha natura di principio reale, e noi abbiamo già veduto che non si dà ente senza principio; perocché tutto ciò che esiste è principio o termine, niente conosciamo nell' università delle cose, niente possiamo concepire, che non abbia condizione dell' uno o dell' altro. Ma il termine non può stare senza il principio. Dunque senza un principio, che è quanto dire senza un soggetto, l' ente non è possibile. I Da questo si trae primieramente che mutato il soggetto, è mutato l' ente; l' ente non è piú quello ma un altro ente. II Di poi consegue che tutto ciò che è anteriore al soggetto, cioè all' atto primo del sentimento, resta fuori del sentimento, e perciò non appartiene allo stesso ente, ma ad un altro che esige necessariamente un altro soggetto. III Quindi che, se trattasi d' un soggetto intelligente, tutto ciò che è anteriore al sentimento che lo costituisce, non può essere da lui percepito: la limitazione del soggetto limita la percezione e la cognizione, e non lascia alla intelligenza che una conoscenza dialettica negativa. IV Tale è la costituzione dell' essere reale, la quale si riflette nell' ordine logico. In quest' ordine la ragione astraente si forma degli enti senza soggetto reale; ma in facendo quest' operazione, ella è necessitata di trattarli come fossero soggetti. Tali sono i subietti dialettici ossia subietti del discorso. Ora nel discorso vale rispetto a questi la stessa legge annunziata pe' subietti reali, cioè che mutato il subietto del discorso il discorso sia un altro. V Un altro importantissimo corollario, si è che qualora la mente divide un ente e ne lascia da parte il soggetto, quello che le rimane non è piú l' ente di prima. E questa è anche la ragione perché la semplice idea dell' essere non è Dio, giacché ella è puramente oggetto e però manchevole del soggetto divino. Laddove se la si considera quale è in Dio, si vede avere il suo soggetto, cioè lo stesso soggetto divino con cui s' identifica, ed ella stessa diviene altra cosa e cosí cessa di essere pura idea. Possiamo, qui giunti, affrontare una questione non meno ardua, quella dell' unificazione degli enti reali. Certo, non è possibile darne una soluzione completa attesa la limitazione dell' umana esperienza, ma possiamo stabilire un principio, che a lei presieda: « qualora un ente senta un altro ente non solo quanto al termine, ma ben anco quanto al principio, e lo senta come principio, allora i due principŒ si compenetrano, non sono piú due, ma un solo, e però un solo ente; laddove se un principio sente il termine di un altro ente, ma non ne sente il principio, egli è il caso della subordinazione ontologica degli enti, gli enti restano due, e non un solo ». Ora sentire un principio come principio è il medesimo che avere il sentimento proprio del principio; il medesimo che essere quel principio. Dunque un principio che ne sente un altro è il principio sentito, il che equivale alla identificazione de' principŒ e cosí degli enti. Questo non è un caso ipotetico: n' abbiamo l' esperienza nell' anima umana nella quale il principio intellettivo e il principio sensitivo è il medesimo «( Psicologia , 636 7 646) ». Dalla stessa verità dipende la sentenza di San Tommaso e degli Scolastici, che nell' uomo v' ha una sola forma sostanziale e questa è l' anima intellettiva; giacché qui per forma intendono l' atto primo che noi chiamiamo anche soggetto. Or questa dottrina dell' identificazione de' principŒ e quindi degli enti riesce preziosa anche alla teologia, come si vedrà nell' « Antropologia soprannaturale ». Ed ora che abbiamo esposto la teoria dell' ente reale per ciò che riguarda l' intrinseca sua costituzione, possiamo passare a dare la teoria della sua azione; il che esaurirà in qualche modo l' argomento di questo libro, giacché tutto si riduce ad essere e fare. Abbiamo veduto che l' essere stesso è un primo atto, e che l' essere reale è un atto soggettivo, che è quanto dire un primo atto di sentimento. Non è a noi necessario soffermarci a notare le differenze di significato che hanno le parole atto, ed azione: le useremo come sinonime fino a tanto che il ragionamento nostro non dimandi la loro minuta distinzione. Soltanto osserveremo che atto è piú generale di azione convenendo a tutte le tre forme dell' essere; laddove l' azione spetta soltanto all' essere reale e soggettivo. Ogni qualvolta adunque la nostra mente pensa un essere, o un grado di essere di piú che prima, ella pensa un' attività, un atto; e ogni qualvolta pensa un essere o un grado d' essere soggettivo o sentimentale, ella pensa un' attività, un atto, un' azione. Definiremo dunque l' azione « un atto dell' essere reale, pel quale esiste una entità che è nuova rispetto alla mente che la considera ». Dichiarato il concetto dell' azione in universale, dobbiamo discendere alle sue diverse maniere. E queste sono due, la creazione , che fa cominciare un ente del tutto nuovo, e l' operazione degli enti che già sussistono. Noi omettiamo di parlare qui della creazione di cui dobbiamo fare special trattato, e ci limiteremo a dare la teoria dell' operazione; la quale non fu forse mai svolta sufficientemente da' metafisici per non aver essi conosciuta l' intima costituzione dell' essere reale. E nel vero noi abbiamo veduto: 1) avervi degli enti sintesizzanti; 2) degli enti coordinati , cioè individui della stessa specie; 3) degli enti ontologicamente subordinati; 4) degli enti identificati. Ciascuna classe di questi enti ha la sua maniera propria di operare. Una delle questioni piú difficili si è: « come un ente possa agire in un altro ». E veramente ella pareva un nodo insolubile, poiché si ragionava cosí: « un ente non può uscir da se stesso, essendo limitato alla propria sfera; ma l' azione di un ente appartiene all' ente che la fa: dunque anch' essa dee rimaner nell' ente: dunque niun ente può avere alcun' altra azione se non quella che rimane in se stessa: ogni azione è interiore all' ente stesso che la fa ». Questo specioso argomento condusse Leibniz al sistema delle monadi, ed altri a quello delle cause occasionali, ed altri ad altri ancora. Per uscirne invece di ragionare su principŒ ontologici preconcepiti, astratti, imperfetti, gratuiti, conveniva rilevare colla osservazione ontologica l' intima costruzione e organizzazione dell' ente. Ce ne risultò che una quantità di enti finiti sono composti di un principio e di un termine straniero; che la loro entità, propriamente parlando, è il principio: essi non sono altro che principŒ, ma non già principŒ isolati e divisi, ma uniti ad un termine che gli specifica e gli individua, termine che ricevono in se stessi, ma ch' è diverso tuttavia da essi, ad essi opposto. Quindi in ognuno di questi enti giace una opposizione, vi hanno come due poli opposti, che noi chiamiamo la polarità degli enti . Questo non ha cosa alcuna che ripugni; giacché la proposizione che un ente inesista nell' altro non è ripugnante in se stessa, e solo sembra ripugnare a coloro che pretendono giudicare di tutti gli enti da quanto vedono avvenire ne' corpi, i quali sono impenetrabili. Convien dunque lasciare un' ontologia cosí misera e gretta ai soli materialisti. L' esistenza dunque di questa maniera di enti ha per condizione che l' uno, cioè il principio, abbia in sé l' altro come termine opposto. Per tal modo non è piú difficile spiegare l' azione che uno esercita sopra l' altro, perocché consegue da essa che l' uno può agire nell' altro senza uscire di sé medesimo. Il termine agisce nel principio e il principio nel termine: questa è la formula di tutte le azioni degli enti, di cui parliamo. Ma egli conviene che noi dimostriamo come la detta formula comprenda e spieghi tutte le azioni che esercitano fra loro gli enti sintesizzanti. I due primi che ci si presentano sono l' anima sensitiva e il corpo. Se si parla di un corpo animato, anima e corpo sono appunto principio e termine, costituiscono quell' essere completo che si dice animale. Il corpo è nell' anima e l' anima è nel corpo a quel modo che abbiamo spiegato. Qui non v' ha dunque alcuna difficoltà a spiegare la loro mutua azione. Ma i corpi agiscono anche fra loro. Un corpo esterno anche inorganico agisce sul corpo vivente, e modifica il termine del principio sensitivo cioè dell' anima: l' anima sente la mutazione violenta del suo termine. Del pari l' anima modifica il suo termine, ed anche lo muove, e col muoverlo lo accosta ai corpi esteriori e li modifica. Anche questa operazione dell' anima è spiegata, perché si esercita immediatamente sul proprio termine che è il corpo animato. Ma rimane a spiegare come un corpo agisca sull' altro. L' azione d' un corpo sull' altro è duplice. L' una è meccanica, quella che viene prodotta dal moto locale, quando i corpi in moto si urtano. L' altra è fisica, tendente all' organizzazione. Queste due maniere di azione, sono un fatto innegabile dato dall' esperienza. Ma la causa è data dall' esperienza solo in parte, cioè rispetto a que' movimenti che dipendono dal principio sensitivo. A conoscere adunque totalmente la causa de' movimenti altra via non ci resta se non il ragionamento dialettico trascendentale, che dovrà investigar due cose: 1) se la spiegazione de' movimenti che si scorgono ne' corpi si possa avere ponendo altri principŒ animali, fuori della nostra esperienza, che li producano; 2) se questi non bastando, si debba ricorrere ad un altro principio di moto. E nel vero tutto ciò che noi conosciamo ne' corpi tiene natura di termine. Ma tutto ciò che appartiene al termine del principio sensitivo, per la natura appunto che ha di termine, è inerte, passivo, ricevibile, e non piú. La forza dunque suppone un principio attivo e soggettivo. Se dunque là dove è il termine si manifesta una forza, questa non si può attribuire al termine quasi a subietto di essa (1). Con questo abbiamo veduto che oltre il termine corporeo deve esistere un principio corporeo trascendente che spieghi quella attività che si mescola col termine stesso. Or noi abbiamo altrove indagato quale possa essere questo principio attivo, ed abbiamo trovato il sistema degli atomi animati «( Psicologia , 500 7 553, 666, 667) ». Il qual sistema è sufficiente a spiegare il moto organico de' corpi animati. Ma è egli sufficiente a spiegare ogni attrazione, da quella degli atomi fino a quella de' corpi celesti? Finalmente il principio animale preso come causa di moto non ispiega la natura stessa del moto, ma la suppone. Quant' è dunque alla natura del moto, per cominciare da questa ricerca fondamentale, noi crediamo 1) che i corpi non fanno che ricevere il moto, e però non ne sono mai la causa, 2) che il moto è realmente discontinuo, e continuo solo fenomenalmente. La tesi del moto discontinuo conduce necessariamente a distinguere il moto fenomenale dal moto reale, a quel primo rimanendo la continuità e la traslazione della materia, e questo secondo riducendosi ad essere un avvenimento pel quale accade, che la materia si rende sensibile in una serie di luoghi successivi di cui niun senso può percepir la piccolissima distanza. Il che è difficile ad intendere solo a coloro che non pervennero a formarsi il giusto concetto della spiritualità dell' anima; ma la considerano piuttosto come un punto dello spazio; nel qual modo di considerarla ella deve trovarsi sempre in un dato posto dello spazio medesimo. All' incontro il vero si è ch' ella è immune affatto dallo spazio, e per conseguente è immune altresí da' suoi limiti; e di piú, tutto lo spazio semplice ed immisurato è in lei come suo termine, di che procede ch' ella abbia una perfetta indifferenza ad un luogo anziché ad un altro. Ma il suo termine materiale all' opposto occupa sempre una parte determinata dello spazio, e perché ella agisce in questo suo termine, pare che anch' ella sia determinata ad un luogo. Ora, se noi supponiamo che la causa prossima di questo termine materiale sia in parte l' anima stessa, in parte, come abbiam detto, un' altra sostanza spirituale, sicché l' azione di queste due sostanze spirituali concorrano a produrre il termine materiale, sarà facile ad intendere come queste possano assegnargli successivamente colle loro azioni diversi luoghi nello spazio, essendo loro indifferente un luogo o l' altro dove estrinsecare la loro azione. Ma ciò non basterebbe a spiegare perché il corpo nel suo movimento prenda una serie successiva di luoghi cosí vicini l' uno all' altro, specialmente che l' anima umana che a sua volontà può muovere il proprio corpo non è consapevole d' imporgli ella stessa una tal legge. E` dunque da considerare oltracciò, che l' anima umana riceve dal di fuori il suo termine, e ch' ella in quant' è sensitiva concorre a produrlo soltanto rispetto al fenomeno, ma non rispetto all' attività ed alla forza, verso la quale ella è passiva. Quest' attività dunque e questa forza dipende dall' altra sostanza, e da questa dee venir pure principalmente la legge del moto, che appar continuo a cagione della somma vicinanza de' luoghi in cui la materia si rende sensibile all' anima umana. Nel qual sistema né pur si perde, a cagione del moto, l' identità de' corpi, quell' identità, dico, che si può loro attribuire, e che lor viene da tutti attribuita. E qui si avverta bene che dalla tesi, « il corpo, che si muove, trovarsi successivamente in una serie di luoghi vicinissimi »procede che i diversi spazŒ da lui successivamente occupati abbiano una piccola distanza fra di loro, ma non già che per questo debba avervi necessariamente intermittenza nelle azioni delle sostanze spirituali che concorrono a porre il corpo successivamente, perocché il loro operare può essere immune dal tempo. Nulla di meno dandoci l' esperienza che il movimento del corpo impiega tempo, è da dire ch' egli nel suo movimento faccia delle piccole more in ciascun luogo in cui si pone, e che le sostanze spirituali che lo pongono, specialmente il principio corporeo onde viene la forza corporea, abbisogni d' uno sforzo per traslocarlo, il quale sforzo impieghi qualche tempo ad ottener l' effetto. Ma si può credere che questo sforzo che trasloca il corpo sia un' azione diversa da quella che lo fa essere. Questa seconda azione assegnerebbe la direzione alla prima, e potrebbe essere intermittente e consistere in uno sforzo bisognevole di qualche tempo ad ottenere l' effetto. E cosí facilmente si avrebbe in parte la spiegazione alla prima classe di azioni che si attribuiscono a' corpi, cioè la spiegazione della comunicazione del moto d' un corpo all' altro per via di percussione. Il corpo è termine di due principŒ, l' uno straniero che è l' anima, l' altro proprio che è il principio corporeo. Questo termine occupa una porzione dello spazio, e lo spazio è di natura immobile, e quindi una porzione di spazio non può essere trasportata in un' altra porzione, il che involge contraddizione colla natura dello spazio stesso. Se dunque ogni corpo ha bisogno di una data porzione di spazio, due corpi di egual grandezza debbono avere bisogno di due porzioni uguali dello spazio, e non possono stare entrambi in una porzione sola, ripugnando questo alla legge che ogni corpo occupa una porzione dello spazio. Quindi procede l' impenetrabilità de' corpi, che non è altro che questa stessa legge. Qualora dunque una porzione di spazio sia occupata da un corpo, il principio corporeo non può in questa stessa porzione porvene un' altra; di che nasce che se quell' attività che presiede al movimento de' corpi, e che è diversa dall' altra attività che li pone in essere, operando in questa seconda produce il movimento di due corpi in tal senso che tutti e due i corpi tendano ad occupare lo stesso luogo, nasca necessariamente un urto fra loro, l' effetto del quale urto sia appunto la comunicazione del moto. Le leggi della quale si riducono tutte a questa, che « la quantità totale del moto, nella stessa direzione, de' due corpi che si urtano, sia, dopo la percossa, uguale a quella che era prima ». Qui si dimanderà se quella attività che determina il moto, e quella attività che pone il corpo in essere appartengano entrambe ad uno stesso principio. - Io credo evidente che appartengano a principŒ diversi. Ed anco in generale si può dimostrare la necessità che intervengano due principŒ, non potendo lo stesso principio avere due attività che vengano in una cotal lotta fra loro. E nel vero, l' attività che pone in essere il corpo in un luogo dello spazio, tende o a mantenervelo in quiete, o a mantenerlo in moto equabile indifferente all' uno o all' altro stato; onde acciocché il corpo si faccia passare dalla quiete al moto, o dal moto alla quiete conviene che intervenga un' altra cagione. Conservando noi dunque la denominazione di principio corporeo a quello che pone i corpi, chiameremo l' altro in generale principio del moto , e la questione si ridurrà a cercare: « qual sia il principio del moto ». Ora investighiamo: « se il principio corporeo sia un solo per tutti i corpi, ovvero tanti quanti sono i corporei elementi ». A noi pare dover essere vera questa seconda sentenza. Or questa pluralità di principŒ corporei è quella che finisce di spiegare il fatto singolare dell' urto de' corpi, che rappresenta la lotta di piú principŒ e non l' operazione di un solo. Di che viene questa singolar conseguenza, che l' urto de' corpi esprime la lotta di due spiriti che finiscono col mettersi in accordo. I corpi sono enti7termine: l' azione apparente de' corpi fra loro si manifesta negli enti7termine, cioè nei corpi, ma l' azione appartiene sempre al principio, il solo principio è il soggetto dell' azione; tuttavia l' azione si manifesta nel termine perché nel termine risiede il principio, e però avviene che l' azione sembri propria del termine. Il che spiega la volgare opinione che i corpi sieno attivi l' uno sull' altro. Noi poi sappiamo dalla propria consapevolezza, che l' anima muove e modifica il corpo animato. Cosí ci è data dall' esperienza un' azione del principio sopra il termine straniero: in questo fatto noi percepiamo l' azione congiunta al principio; laddove nell' azione de' corpi fra loro non ci è data che l' azione divisa dal suo principio e stante da sé, onde noi siamo costretti dalle leggi del pensiero, cioè dal principio di cognizione, di aggiungerle un subietto incognito e indeterminato, ma pure un subietto, perché altrimenti non potremmo pensare quell' azione, e qui si ferma il pensar comune. Ma sopravvenendo la scienza con ragionamento dialettico, quel subietto volgare e comune, che gli uomini generalmente aggiungono all' azione de' corpi, si cangia in un vero ente sensitivo trascendentale, in un ente principio come abbiamo veduto. Negli enti sintesizzanti adunque ogni azione si riduce all' azione de' principŒ fra loro; ma quest' azione da noi si percepisce in due modi: o divisa dal principio che la produce, quando il principio si nasconde alla nostra esperienza, ond' egli dicesi trascendente perché non si rinviene da noi se non facendo uso del pensiero dialettico trascendente; o unita al principio stesso che la produce e n' è il soggetto, come accade delle azioni che esercita l' anima nostra sensitiva sul nostro corpo, e allora il principio dicesi esperimentale. Ora l' azione divisa dal suo principio e ricevuta da un altro principio, nel caso nostro dall' anima, come termine straniero, è ciò che costituisce la realità del termine stesso, ed è in questo senso che noi abbiamo posto l' essenza de' corpi nella forza, intendendo per forza un' azione7termine divisa dal suo principio. Quindi apparisce in che maniera gli enti7principio agiscano fra di loro senza immedesimarsi. Gli enti sono atti; ma gli atti sono di due maniere che i metafisici usarono chiamare primi e secondi. Gli atti secondi sono contenuti virtualmente negli atti primi, i quali costituiscono l' essenza dell' ente. Ora se gli enti7principio agissero tra di sé cogli atti primi, avverrebbe la loro immedesimazione, perché sarebbero i principŒ stessi che si unirebbero come principŒ. All' incontro, operando fra di loro soltanto con gli atti secondi, non s' identificano, ma solo si congiungono co' loro termini, e accade che quello che è atto secondo di un ente diventi termine straniero dell' altro reciprocamente. Cosí si spiega la generazione degli enti termini e l' azione reciproca degli enti sintesizzanti. La quale azione all' esperienza nostra si manifesta in un modo piú o meno completo. L' azione adunque degli enti sintesizzanti si può considerare sotto tre aspetti diversi: o come azione de' termini fra loro , o come azione reciproca fra un principio e il suo termine straniero , o come azione de' principŒ fra loro . Quest' ultima maniera di considerarla è la piú completa e dialettica; le due prime sono necessarie all' uomo a cagione dell' imperfezione e della limitazione del suo conoscere esperimentale, e relativo. Conviene altresí distinguere nella comunicazione degli enti sintesizzanti ciò che spetta all' azione costituente da ciò che spetta all' azione modificante . L' azione costituente è quella per la quale sono uniti e reciprocamente posti in essere; l' azione modificante è quella per la quale il termine si modifica restando però sempre unito al principio straniero. Nell' ordine degli enti sensitivi la modificazione del termine non procede se non dall' anima, che è il principio straniero del corpo, o dalla natura del corpo stesso; questi due enti sono quelli che obbligano il principio corporeo a modificare in certi casi la propria azione. Ma niente vieta che v' abbiano degli altri ordini di cose, degli altri enti sintesizzanti dove apparisca la libera e spontanea azione dei due principŒ, e certo poi ciò si scorge avvenire almeno nell' ordine dell' intelligenza soprannaturale; dove i lumi superni come termine oggettivo dello spirito variano e si ammodano non per virtú dell' anima che li riceve, né perché l' uno impedisca l' altro come i corpi, ma per l' azione spontanea e libera del loro principio proprio, che è Dio. Del rimanente, la spontaneità stessa dell' anima sensitiva non è un principio libero; anzi è determinato dalle sue proprie leggi. Queste fanno sí che l' anima sia propensa ed inclinata ad avere il corpo, suo termine, costituito in un dato stato, il quale è « lo stato piú piacevole e ch' ella può ottenere coll' operazione sua piú piacevole ». Di che si raccoglie che vi hanno nell' anima certi atti connaturali, e sono quelli ch' ella fa per arrivare alla condizione immanente a cui aspira, e degli atti opposti alla sua natura e alla sua spontaneità, ai quali è mossa per una violenza esterna. Or si rifletta che ogni percezione parziale che l' anima fa in conseguenza di una forza esterna che modifica il suo corpo, nasce da violenza , perché ella è parziale, laddove l' anima tende ad una condizione universale ed armonica del suo organismo. Quindi quella violenza esterna che modifica il suo corpo suscita in lei una nuova attività spontanea tendente a mettere tutto l' organismo in armonia colla nuova modificazione parziale ricevuta nel suo corpo. E quindi si manifesta la ragione, 1) perché l' azione costituente non è mai violenta, essendo universale e connaturale all' anima (eccetto se intervenisse il caso d' un' affezione morbosa), ed è l' anima stessa che spontaneamente la riceve e la produce; 2) perché l' azione modificante , veniente da cagione esteriore, come quella che è parziale, presenti il concetto della violenza , la quale però è piacevole se suscita nell' anima un' attività connaturale volta a restituire una migliore armonia in tutto il corpo animato, spiacevole poi se non presta occasione a questa nuova armonia. Onde nelle percezioni vi ha sempre violenza, non però sempre spiacevolezza, anzi diletto ove non dissipino l' armonia, ma la migliorino. Diamo ora un' occhiata al sintesismo del corpo, del senso e della intelligenza umana affine di conciliare insieme certe sentenze qua e colà da noi stessi pronunciate, che sembrerebbero discrepanti. Il corpo esterno al nostro sintesizza col nostro per la virtú che ha di mutarlo, onde nasce la sensazione organica. Rimossa l' azione del corpo esterno sul nostro organo sensorio, ne rimane il fantasma o l' attitudine di riprodurlo. Quando si pensa il corpo si pensa ciò che ha operato nel nostro organo sensorio, lo si pensa nell' atto di questa operazione: perocché l' atto, quantunque passato, riman presente all' intelligenza che non conosce prima né poi. Quindi è che tutto il concetto che noi abbiamo dei corpi è concetto che ce li fa conoscere nell' atto della loro operazione sopra di noi, e però nell' atto pel quale sintesizzano con esso noi. E poiché il concetto che abbiam delle cose racchiude la loro essenza a noi intelligibile che è quella a cui diamo il nome, nel caso nostro il nome di corpo, e sulla quale formiamo poi la definizione della cosa; perciò la cosa espressa dalla parola corpo acchiude una relazione sintetica con noi, cioè col nostro sentire; e però la cosa espressa dalla parola corpo non esiste piú se sopprimiamo uno dei due termini di tal relazione sintetica; tolto via adunque il principio sensitivo è tolto via anche il corpo. Rimane a vedere qual sia il sintesismo coll' intelligenza. Gli atti dell' intelligenza ossia le cognizioni sono di due maniere, oggettive e soggettive. Le cognizioni puramente oggettive sono le intuizioni, per le quali si contemplano le cose nella loro essenza e di conseguente nella loro mera possibilità. Or queste intuizioni hanno per oggetto o il solo essere senza determinazioni, ovvero l' essere con determinazioni, p. es. l' essenza del corpo. In questo secondo caso l' intelligenza ha bisogno di prendere dalla realità, e per conseguente dal senso, le determinazioni. Or queste determinazioni non potrebbe pensarle come possibili se il senso non gliene presentasse un esempio , che è appunto quello che da lei viene universalizzato. E qui comincia una prima sintesi fra l' intelligenza e il senso, di modo che non si può pensare un determinato possibile, se questo primo determinato non è innanzi dato dal senso. Non è già che il senso porga questa copia all' intuizione intellettiva; ma mentre le sta presente la copia, ella non vede la copia, ma l' esemplare; per quella legge che abbiamo di sopra dichiarata che ogni agente opera secondo la propria natura. Si dirà che per spiegare questo fatto converrebbe supporre che l' ideale e il reale avessero qualche cosa di comune. E la cosa sta appunto cosí; perocché l' essere reale e l' essere ideale hanno di comune o per meglio dire d' identico l' essere, di cui quelle sono forme categoriche. Ciò che rende a molti difficile intendere questa dottrina si è che essi non arrivano a capire che il reale e l' ideale non è disgiunto per se stesso, ma soltanto per la limitazione nostra e per la disgiunzione delle nostre facoltà, per la qual disgiunzione accade che una delle nostre facoltà, cioè il senso comunichi colla sola forma reale, e quindi ci sembri che il reale si stia da se stesso come cosa compiuta; e l' altra nostra facoltà cioè l' intuizione comunichi colla sola forma ideale, e quindi ci sembri che l' ideale pure stia da sé del tutto separato e segregato dal reale. E qui ci sembra utile cosa di toccare alquanto di quelle questioni che agitarono gli scolastici circa le relazioni reali delle cose. Il fiore di quanto insegnarono le scuole ci par contenuto in questo luogo di San Tommaso: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo vi hanno piú verità importanti. E da prima la sentenza che: [...OMISSIS...] , esprime benissimo la natura del reale oscura e inintelligibile per se stessa, dividendosi cioè coll' astrazione dall' intelligenza, quindi bisognosa di trovarsi congiunta coll' ideale acciocché possa essere intesa. Di poi in quelle parole: [...OMISSIS...] , si ha la conferma di quel vero che noi dicevamo che ogni principio opera secondo la propria natura, e però che l' azione del corpo su di noi, è totalmente diversa dall' azione del principio sensitivo che ne è l' effetto. Ma dopo di ciò quella sentenza che la cosa sensibile e intelligibile sia fuori dell' anima, e però non venga tocca dall' atto del principio sensitivo, né da quello del principio intellettivo, esige la debita distinzione, né ella è vera se non limitatamente. Poiché il corpo sensibile si può considerare o nell' atto stesso in cui è unito all' anima e con esso lei sintesizza, ovvero quando si pensa da noi come separato dall' anima. Il corpo nostro sta sempre unito all' anima nostra e con esso lei sintesizza finché dura la vita; egli agisce continuamente nel principio sensitivo, e il principio sensitivo in lui. E` però vero che l' azione della causa ha un modo totalmente diverso dall' effetto, e questo dimostra che sono due nature diverse, due enti affatto diversi; e però la relazione è scambievole: solo si dee dire che questa relazione è formata da due relazioni unilaterali, perché il corpo non è all' anima in quel modo stesso nel quale l' anima è al corpo. Cosí pure, se si considera quella virtú dell' anima intellettiva che muove il principio sensitivo ad operare nel suo termine corporeo, nel tempo in cui essa è in atto, vi ha congiunzione sintetica fra l' intelligenza, il senso ed il corpo; quando poi quella virtú intellettiva non è piú nel suo atto, ella ritiene ancora la congiunzione sintetica o piuttosto l' identificazione col principio sensitivo, ma non immediatamente col corpo. Lo stesso è da dirsi della facoltà dell' intuizione. Or poi se si parla de' corpi esteriori al nostro (a cui soltanto ha posto mente l' Angelico nel luogo allegato), anche questi o si considerano nell' atto in cui sono al nostro congiunti; ovvero si considerano allontanati intieramente da' nostri sensi. Nell' atto stesso in cui essi operano sui nostri sensori, essi sintesizzano con noi mediante il corpo nostro, le cui impressioni da noi sentite diventano segni della loro esistenza, e si prendono altresí quasi cotali rappresentazioni fenomeniche di essi. Ma quando poi i corpi esterni si considerano nel tempo in cui sono rimossi al tutto dal corpo nostro, sono rispetto a questo modo come se non fossero. Non si può dunque dire nell' ordine meramente extrasoggettivo del senso che sieno fuori dell' anima, ma soltanto che non sono nell' anima. Ma l' intelligenza li pensa ancora. Li pensa tali quali erano quando si trovavano nell' atto di agire sull' anima, li pensa con quell' essere che avevano allora come sintesizzanti. Solamente che l' intelligenza con un altro atto si accorge che questi esseri sintesizzanti erano tali per il passato, e che al presente non operano piú sull' anima. Ma la facoltà di predicare il presente o il passato degli enti corporei è diversa dalla facoltà della rappresentazione. Egli è ancora un terzo atto dell' intelligenza, un' altra affermazione dell' anima, quella con la quale l' anima si persuade che esistano al presente i corpi esterni, quantunque rimossi da lei e nulla affatto su di lei operanti. Ella si persuade che esistano perché solitamente è propria dell' ente la permanenza, e ci vuole una ragione per dire che un ente ha cessato di esistere. Ora l' anima non ha poi trovato alcuna causa che li facesse cessare d' esistere. Di che la ragione è questa, che l' intelligenza nostra non percepisce la causa immediata de' corpi cioè il principio corporeo, e però non sa se questa causa continui o cessi di agire. Ma ella suppone che continui ad agire, essendo, come dicevamo, propria dell' ente la perennità e l' immanenza (9). Intendo per enti coordinati quelli che sono della stessa specie. Non abbiamo nessun esempio datoci dall' esperienza di enti coordinati che agiscano immediatamente fra loro, eccetto quello dei corpi che si percuotono e si comunicano il movimento. L' azione di un' anima sull' altra non è puramente immediata, poiché l' un' anima adopera il mezzo de' corpi per agire nell' altra, o agisce investita ne' corpi. I segni stessi che servono di comunicazione fra un' anima e l' altra sono sensibili e corporei. Or come accada l' azione reciproca de' corpi fu da noi già discorso favellando dell' azione degli enti sintesizzanti. Se poi ci possano avere altri enti principŒ coordinati i quali agiscano fra di loro immediatamente, né li possiamo affermare, né negare; non involgendo tale supposizione contraddizione manifesta, benché l' esperienza nulla affatto ce ne riveli. Dall' azione sintetica di cui abbiamo fin qui ragionato conviene distinguere l' azione ontologica , che si manifesta negli enti ontologicamente subordinati. Vi hanno due maniere di azioni ontologiche rispondenti a quelle due maniere di azioni sintetiche, che abbiamo chiamate costituenti e modificanti; trattiamone separatamente. L' esperienza non ci fa spettatori di questa maniera d' azioni, ma ci porge de' fatti, da' quali il discorso dialettico trascendentale vi ci conduce; né esse involgono contraddizione, e sono necessarie a spiegare i fenomeni che ci presenta il mondo. E poiché mediante l' azione ontologica rimane spiegata l' origine degli enti relativi, ci bisogna prima toccare della natura di questi enti relativi non mentali o ideali, ma reali. Il che faremo riassumendo il detto in forma di tesi e di corollari. Tesi I - L' ente reale è costituito dal sentimento. Tesi II - Si danno degli enti reali che sono principio di sentimento, e degli enti reali che sono termine di sentimento. Tesi III - L' ente7principio è incompleto se si separa dal suo termine, ma completo in se stesso se a questo congiunto: l' ente termine è incompleto tanto se si separa dal suo principio, quanto se sta unito ad un principio straniero. Tesi IV - L' ente7principio relativo è costituito dalla limitazione ontologica del sentimento. Tesi V - La limitazione ontologica degli enti relativi è di due maniere: l' una nasce dalla limitazione del termine, e l' altra dalla limitazione del principio. 1) Dalla qual tesi viene il corollario, che se vi avesse un ente il cui termine fosse infinito, e questo non gli fosse straniero, ma proprio, quest' ente sarebbe Dio. 2) Se ne cava anche il giusto concetto della limitazione ontologica, che è quella che fa sí che un ente non sia l' altro, e piú in generale quella che costituisce l' ente. Raccogliendo ora ciò che abbiam detto, possiamo definire in che precisamente consista la limitazione ontologica. Ella consiste nel principio non già separato dal suo termine, ma nel principio unito al suo termine, da questo posto in atto e individuato. Dove è da osservare, che il principio dal termine acquista un' attività che non aveva prima, venendo suscitata e posta in essere la sua attività. Ma l' atto primo di quest' attività suscitata e posta in essere è virtuale rispetto agli atti secondi, di maniera che il principio suscitato ed individuato, oltre essere un atto primo, è una prima potenza o virtú agli atti secondi. E questa prima virtú o potenza non è già conseguente all' atto primo, ma è lo stesso atto primo, il quale è anche virtú o potenza. Quindi il sentimento della prima potenza o virtú è l' elemento sostanziale dell' individuo, è quello che lo costituisce un ente distinto dagli altri enti, è ciò che v' ha nell' ente di immutabile; laddove il sentimento degli atti secondi è ciò che vi ha nell' ente di mutabile. Tesi VI - Ripugna che piú enti coordinati abbiano un termine identico. Tesi VII - Non ripugna che il medesimo termine sia straniero rispetto a un principio, e proprio rispetto ad un altro; ma in tal caso la medesimezza del termine non esiste se non in astratto, e per rispetto alla pura realità; laddove relativamente ai due principŒ egli è un termine diverso. Tesi VIII - Essendo il principio individuato di un ente relativo un sentimento di limitazione, se vi avesse un altro principio il cui termine contenesse tutto ciò che contiene il termine di quello e qualche cosa di piú, ciò non ripugnerebbe, e l' identità parziale dei termini non esisterebbe che in astratto, e per rispetto alla pura realità. Tesi IX - Il principio che ha un termine finito straniero, e il principio che ha lo stesso termine come proprio, sono due enti relativi finiti. Qui può nascere la domanda, se fra l' essere che ha il termine proprio e l' essere che ha il termine straniero vi abbia necessariamente non solo azione del primo sul secondo, ma ben anco reazione del secondo sul primo. E rispondiamo che questa azione e reazione o reciprocità d' azione non è assolutamente parlando necessaria, giacché ella è cavata da un' osservazione e ristretta a ciò che accade in alcuni fenomeni de' corpi (1). E certamente nell' unione del soggetto coll' oggetto non tiene una tal legge, perocché l' oggetto (l' idea) non è suscettibile di passione alcuna. Ma né anche nell' ordine della realità si può dimostrare che dove vi ha un' azione, ivi debba essere anche una reazione. In fatti le azioni del tutto interne di un ente non hanno propriamente reazione, né azione contrapposta. Finalmente né anche dove si scorge azione e passione, la quale trovasi nell' ordine delle cose reali finite, non è necessario che vi abbia sempre reazione, ossia azione reciproca. Tesi X - Come abbiamo veduto che quell' ente che ha un termine straniero può avere nel suo seno altri enti, ciascuno dei quali abbia per termine una parte del termine totale, purché questa parte costituisca un tutto perfettamente armonico ed uno; cosí non ripugna, che quell' ente che ha un termine proprio abbia nel suo seno altri enti aventi un termine proprio, porzione del termine totale, purché questa porzione costituisca da sé sola un tutto armonico e perfettamente uno. Quindi, se quella che presentemente si conosce come potenza di un ente potesse venir separata dal suo soggetto e stare da sé, incontanente ella stessa diverrebbe un soggetto, rimarrebbe una virtú che avrebbe natura di ente principio, di sostanza. E viceversa, se quella che presentemente è la virtú prima di un ente, divenisse la virtú seconda, venendole aggiunta una virtú anteriore come suo principio, egli cesserebbe d' essere un ente, un soggetto, perderebbe la propria individuazione, non sarebbe piú un principio individuato, né una sostanza; ma bensí una mera potenza di un altro soggetto, perdendo la sua limitazione ontologica. Tesi XI - Se si tratta di un ente maggiore che ha un termine proprio, l' ente minore non può nascere nel suo seno se l' ente maggiore non è intelligente e volitivo, e non lo suscita con un atto pratico della sua volontà. Tesi XII - L' ente che ha un termine straniero non può esser la cagione efficiente di quelli enti minori che sorgessero nel suo termine, ma la cagione efficiente di essi vuole essere il principio proprio del termine straniero, benché il principio straniero possa contribuirvi indirettamente. Tesi XIII - L' ente minore relativo, originato dall' azione ontologica costituente, non può avere un termine del tutto proprio, ma deve avere un termine straniero. Tesi XIV - L' ente intellettivo finito è creato immediatamente da Dio. Abbiamo detto che due sono le limitazioni ontologiche degli enti relativi e finiti: l' una nascente dal loro termine limitato, l' altra dall' estraneità del principio. Or nell' ente intellettivo il termine è l' idea, la quale è infinita. Questa dunque non può esser data che dall' infinito medesimo, cioè da Dio. Quindi l' origine dell' ente intellettivo finito deve ripetersi immediatamente da Dio. La sua limitazione nasce dall' essere questo suo termine a lui straniero. L' ente puramente intellettivo è quello che non ha alcun altro atto fuori che l' intuizione dell' idea. Il sentimento di questo ente è tutto oggettivo perché abita nell' idea. In che consiste adunque la sua limitazione ontologica? In questo, che non ha sentimento di alcuna realità. Che altro non sente se non l' idea. Questo sentimento purissimo dell' idea è una limitazione massima. Qui dunque l' azione ontologica costituente si ridurrebbe ad un' azione, per la quale Iddio distingue mentalmente in se stesso il sentimento della pura idea dal sentimento suo proprio, che è il completo sentimento di se stesso, e con atto libero fa sí che il sentimento della pura idea, distinto colla sua mente, sia anche isolatamente preso, e questo sentimento isolato, diverso totalmente dal divino (sentimento d' isolamento e di estrema limitazione), è l' ente intuitivo finito, da Dio in tal guisa creato. Tesi XV - Se l' ente principio ha un termine straniero finito, allora l' ente principio straniero e l' ente principio proprio devono avere un' origine contemporanea. La costituzione dunque degli enti relativi si fa per un' azione, che esercita un ente principio sul suo termine proprio. Ella esige che in questo termine proprio l' ente principio possa distinguere mentalmente qualche porzione, che, considerata da sé, ha unità ed armonia. La qual divisione puramente mentale non potrebbe farsi senza che il principio che la fa sia intelligente. Ma posciaché una parte del termine proprio divisa soltanto mentalmente non è meno realmente unita al tutto, e neppure si può chiamare parte reale di lui, perocché non vi ha neppure da lei col tutto una distinzione reale; perciò un nuovo ente reale non si origina con questo solo, ma è necessario oltre a ciò di supporre, che il principio che lo produce eserciti un' attività, la quale sia volontaria , come quella che opera dietro l' indirizzo della intelligenza, e sia libera , perché quest' azione non è necessaria all' ente principio operante, e non si racchiude nel concetto che n' esprime l' essenza. Ora quest' atto di libera volontà consiste nel far sí che in quella parte che fu distinta mentalmente nel suo termine proprio, e che è dotata di sentimento e di vita perché tutto il termine è sentimento e vita, nasca un sentimento proprio d' isolamento e di limitazione, il quale non s' estenda a tutto il termine, ma, racchiuso in sé, diventi egli stesso un sentimento uno ed armonico. E questo sentimento di limitazione è il nuovo ente individuato surto nel seno dell' ente maggiore, a cui come a sua radice s' attiene, in quanto alla realità pura scevra di sentimento e di cognizione, onde l' ente minore non può sentire né conoscere per se stesso l' ente maggiore. E posciaché in ogni sentimento vi è attività, se questo sentimento è unico ed armonico, l' attività si accentra ed unifica, prendendo la denominazione di ente principio. Attesa questa costituzione degli enti relativi, non è piú gran fatto difficile a dichiarare la natura dell' azione ontologica modificante, e a conciliare l' azione dell' ente maggiore coll' azione dell' ente minore. E veramente, come vi hanno due enti subordinati, il maggiore e il minore, cosí vi hanno pure due cause subordinate, due virtú, due azioni. L' ente maggiore colla sua azione ontologica costituente: 1) limitò il termine uno ed armonico; 2) fece sí che questo termine avesse il sentimento della propria limitazione e del proprio isolamento. Queste due cose che coll' astrazione da noi si dividono, propriamente non ne formano che una, e l' azione costituente è un atto solo, la limitazione del sentimento. Perocché il sentimento è termine ad un tempo e principio, secondo che si considera come finiente o come cominciante, in quanto è senziente o in quanto è sentito. Ogni sentimento ha queste due faccie, e se non le avesse non sarebbe sentimento. Or è da considerarsi che il sentimento della limitazione ontologica che costituisce un ente relativo, è un sentimento primo, il quale virtualmente contiene molti sentimenti secondi, che sono gli atti secondi ne' quali egli si sviluppa. Questi atti secondi non mutano il sentimento primo; ma mentre a principio li conteneva soltanto virtualmente in istato d' indistinzione, poscia li contiene anche in istato di distinzione. Il trovarsi di tali atti secondi nell' atto primo, virtualmente o attualmente, non muta la limitazione ontologica dell' ente. Tuttavia, benché l' ente rimanga identico, il suo modo si muta per gli atti secondi. Qui nasce dunque la questione, qual parte abbia l' attività dell' ente maggiore negli atti secondi dell' ente minore; e quella parte che vi ha l' ente maggiore si dice azione ontologica modificante. Ma qui è da osservare, che agli atti secondi di un ente limitato e finito concorre altresí qual causa l' azione sintesizzante. Nella Psicologia noi abbiamo trattato a lungo di quest' azione. Noi ci riferiamo in questo punto a quello che abbiamo colà ragionato. Ma perciocché gli enti sintesizzanti hanno bisogno di un ente superiore che li costituisca; perciò al di sopra dell' azione sintesizzante sta l' azione ontologica, e non solo quella che abbiamo chiamata costituente, ma ben anco quella che abbiamo chiamata modificante. L' azione ontologica costituente non fa, a dir vero, se non porre in essere il sentimento limitato che costituisce la natura dell' ente minore e prodotto. L' azione sintesizzante da principio è ella stessa un atto primo, e però una virtú rispetto agli atti seguenti. Ma il sentimento limitato e isolato non può esser posto se non col suo modo, perocché un sentimento privo del suo modo di essere non è piú che un astratto. Quindi l' azione ontologica costituente involge di necessità l' azione ontologica modificante, il che si prova cosí: l' azione costituente continua altrettanto quanto continua l' ente, ha natura di azione immanente come l' ente stesso è un primo atto immanente. Ma essa pone non solo l' ente, ma anche il modo dell' ente. In ogni istante dunque essa pone l' ente con quel modo che egli ha in quell' istante. Ma in quell' istante che l' ente sta per fare l' atto secondo, o che lo ha già fatto, il suo modo è costituito anche dall' assetto in cui si trova nell' atto secondo. Dunque l' azione costituente pone l' ente in quell' assetto o in quell' atto secondo; e in quanto pone tali svolgimenti dell' ente ella dicesi modificante. Ma negli enti sintesizzanti l' un ente è determinato all' atto secondo da una mutazione che nasce nel suo termine straniero e questa mutazione immediatamente è prodotta dall' azione del principio proprio del termine straniero. L' azione ontologica modificante adunque non agisce direttamente nel termine straniero, ma agisce prima nel principio proprio di questo termine, e cosí venendo questo principio a cangiare il modo della sua attività, questa attività cangia il termine straniero, e pel cangiamento del termine straniero anche il principio straniero cangia il modo della sua attività. Ma questo cangiamento suppone l' azione ontologica che pone in un altro modo il principio straniero. L' azione ontologica adunque opera in tutti e due i principŒ, ma in modo che le modificazioni de' due principŒ si corrispondono armonicamente. La virtú poi de' singoli enti sintesizzanti ha questo limite, che ella non può svolgersi agli atti secondi se non ne riceve lo stimolo dal suo termine, e quindi rimotamente dall' azione dell' altro ente principio che sintesizza con esso. Onde, data quest' azione stimolante, l' ente principio si modifica. Ma l' azione stimolante non è ancora la modificazione dell' ente principio individuato nel proprio sentimento, ma è un atto che si fa nella realità pura, la quale è base e radice de' due individui, ma non è gl' individui stessi, ond' essa è anteriore di concetto al sentimento individuato. Tuttavia l' azione dell' ente individuato, s' estende col suo effetto alla realità pura nella quale egli è radicato, e nella quale è pur radicato l' ente con esso lui sintesizzante, e la realità pura che riceve quest' azione la comunica all' altro ente, che ella ha pure nel suo seno. L' azione adunque ontologica modificante è quella sola che può spiegare l' azione degli enti sintesizzanti fra loro, e anche quella degli enti coordinati; poiché quest' azione non può essere spiegata senza supporre che v' abbia fra essi qualche elemento comune. Ma niente hanno essi di comune, che anzi nell' essere intieramente divisi l' uno dall' altro consiste la loro individualità e la loro natura di enti. Ma la comunicazione esiste tuttavia fuori di essi mediante l' ente maggiore e quella realità, che gli enti hanno per loro base e che tuttavia non è dessi, che appartiene perciò all' ente maggiore, in cui essi stessi gli enti minori sono. Gli enti che cadono nella percezione si riducono a tre generi soli: cioè agl' insensitivi , materia, corpi, enti termini; ai sensitivi , e agl' intellettivi . Gli enti insensitivi, puri termini, non hanno azione propria, come vedemmo, perché l' azione spetta sempre al principio che ne è il soggetto. Rimane dunque che noi qui parliamo degli altri due. Il principio sensitivo considerato in relazione a' suoi atti secondi è una virtú, ossia una potenza determinata, e condizionata soltanto allo stimolo. Posta questa condizione, l' ente sensitivo ha nello stesso sentimento primo che lo costituisce la determinazione degli atti che deve emettere, e questa determinazione è ciò che si chiama spontaneità. Questa attività ch' egli esprime in atti secondi sotto lo stimolo, dimostra che tali atti a lui appartengono come quelli che muovono da lui, cioè da quella virtú prima che li contiene, e che è egli stesso. Or come la virtú prima che è lui stesso è posta dall' azione ontologica costituente, cosí del pari da quest' azione è posta la sua spontaneità e gli atti da lei esercitati ed espressi, rispetto ai quali ella riceve il nome di modificante. Cosí le due cause sono subordinate, l' ente sensitivo è la causa immediata di tali atti, e il suo ente maggiore n' è la causa mediata. Ma la causa immediata è il soggetto di quelli atti i quali sono in lui contenuti, laddove la causa mediata non è il soggetto di quegli atti, perché colla sua azione pone un altro ente diverso da sé, e pone gli atti di questo ente, che perciò non sono atti suoi appunto perché sono atti d' un ente diverso. La causa mediata, cioè l' ente maggiore, è bensí soggetto dell' azione ontologica costituente e modificante, ma non dell' ente prodotto da quest' azione e de' suoi atti; ché non sarebbe ente se appartenesse egli stesso ad un altro soggetto; relativamente a sé egli non appartiene che a se stesso, perocché niente sente fuori di sé, e il suo sentire è il suo esistere. Ma rispetto all' ente intelligente è da farsi una distinzione; poiché o egli non si trova in istato di libertà bilaterale, o si trova in questo stato. Se non si trova in istato di libertà bilaterale, di maniera che tutti gli atti secondi sieno determinati nella sua virtú naturale, o abituale, in tal caso la concorrenza dell' ente maggiore e del minore, cioè la conciliazione della sua propria azione coll' azione ontologica che lo costituisce e modifica, si spiega in modo simile a quello che abbiamo esposto per gli enti meramente sensitivi. Ma grande difficoltà s' incontra a conciliare la libertà bilaterale coll' azione ontologica modificante. Lo scopo del discorso deve esser quello di difendere la libertà bilaterale rispetto alle azioni morali, come quella che è condizione necessaria del merito. L' ente relativo è un sentimento limitato: in quanto è sentimento egli è positivo, e in quanto è limitato egli è negativo. Ma poiché la natura propria di lui consiste nel sentimento della stessa limitazione, perciò la sua natura consiste nel negativo, la limitazione è quella che lo individua, il sentimento solo non lo costituirebbe ancora ente individuo. Quindi la limitazione appartiene a lui solo, e non all' ente maggiore, laddove il sentimento come positivo, astraendo dalla limitazione, non appartiene piú a lui che già piú non esiste, ma all' ente maggiore. Quindi anche nelle operazioni o atti secondi di un tal ente rimangono i due elementi, l' uno che tiene del positivo, e l' altro del negativo. Ora, che tutta la parte positiva dell' azione venga ad un tempo posta dall' ente minore e dall' ente maggiore, a quel modo che abbiamo detto degli enti puramente sensitivi, può ammettersi senza difficoltà; purché la parte negativa dell' azione non riconosca per sua causa se non l' ente minore. E che cosí debba essere, vedesi da questo, che il limite, il negativo, non appartiene punto all' ente maggiore. Dunque né anco gli effetti negativi e limitativi gli possono appartenere. Ma la natura del mal morale consiste appunto nella negazione o privazione, non essendo il male che cosa negativa. Dunque se il bene dell' azione morale esige la concorrenza delle azioni de' due enti il maggiore e il minore, non è da dire lo stesso del male che si trova nelle dette azioni, il quale non può appartenere che all' ente minore come quello che è solo soggetto della limitazione e della negazione. Ma il positivo e il negativo dell' azione è intimamente congiunto, perocché il negativo non è che il limite del positivo: dunque chi è l' autore del positivo, è necessariamente anche l' autore del negativo, come quello che potrebbe porre una quantità maggiore di positivo e cosí rimuovere i limiti. Quest' obbiezione, fortissima in apparenza, altro non prova se non che non ogni limitazione degli enti è accompagnata dalla libertà, non sempre l' elemento negativo è causa di un male libero. La libertà bilaterale non si mantiene già da noi per l' unica ragione che nell' operare dell' ente libero v' abbia del negativo; ma solamente diciamo, che se non v' avesse del negativo non vi avrebbe libertà al bene e al male morale, di maniera che l' elemento negativo è condizione della libertà bilaterale, non è quello che la forma. E in altre parole, non ogni elemento negativo è segno e principio di libertà, ma sí un dato speciale elemento negativo. Rimane adunque che noi vediamo qual sia questa specie di limitazione e di negazione che origina la libertà. La libertà bilaterale, non ci potrebbe essere, se l' ente intellettivo fosse già per sua natura tanto aderente al bene morale, che in niuna maniera si potesse da lui alienare. E questa è già una limitazione e negazione dell' ente libero, non aderire compiutamente e immobilmente all' ordine morale. Ma egli non sarebbe libero neppure qualora aderisse pienamente e immobilmente al male, perocché in tal caso gli mancherebbe fin anco la possibilità del bene. La libertà bilaterale suppone non l' atto ultimato del bene, ma soltanto la potenza di lui, per dir meglio la potenza di eleggere fra lui e il male. La potenza che si riferisce ad atti perfettivi del soggetto è sempre una limitazione, e cosí la libertà bilaterale si fonda nella limitazione, nell' elemento negativo dell' ente libero. La differenza fra questa speciale limitazione che costituisce la libertà bilaterale e la limitazione dell' ente sensitivo che non ha libertà, è degna da perscrutarsi. L' ente sensitivo, considerato in relazione a' suoi atti secondi, è una virtú che li contiene tutti, benché ancora involuti ed indistinti: condizionati altresí allo stimolo. Tutt' altra cosa è la potenza della libertà bilaterale. Perocché gli atti secondi di lei non sono contenuti e determinati in essa, anche dato qualsivoglia stimolo che non la distrugga; potendo essa determinarsi all' atto buono, o al suo opposto il cattivo. Dirò meglio; il suo atto proprio, e come tale contenuto in essa virtualmente, non è altro che l' elezione stessa, e l' elezione è quella che determina l' ente all' atto buono o al cattivo, e perciò essa stessa non è né bene né male, ma soltanto è la causa del bene e del male. L' azione ontologica adunque, che costituisce questa potenza dell' elezione libera, diversissima da tutte le altre potenze, altro non fa se non costituire appunto la potenza del bene e del male né all' uno né all' altro determinata. Questa azione ontologica adunque non toglie, ma forma la libertà. Ora posciaché l' elezione è l' atto proprio della libertà, a cui poi consegue la determinazione e l' adesione al bene e al male; perciò, quando l' azione ontologica pone l' ente libero nell' atto dell' elezione (e allora dicesi modificante), non determina l' uomo al bene o al male, ma solamente il pone nell' atto di eleggere l' uno o l' altro. Or quest' atto di eleggere altro non è che la stessa libertà in atto, a cui la determinazione al bene o al male conseguita in appresso come suo effetto. Cosí l' azione ontologica o costituente o modificante non pregiudica in modo alcuno alla libertà in potenza o in atto, che anzi è quella che le dà l' essere. Fatta poi l' elezione (atto iniziale e puramente interno) allora segue la determinazione e l' adesione della volontà al bene o al male, e l' azione ontologica modificante pone anche quest' atto di adesione, ma questa determinazione conseguente non pregiudica neppur ella punto né poco alla libertà, poiché l' atto della libertà l' ha preceduta, il quale atto è quella libera elezione che ha determinato l' adesione della volontà al bene o al male. Ora poi la libera elezione non vi potrebbe essere se non vi avesse i due termini fra cui eleggere: che sono il bene ed il male. Ma il bene appartiene all' elemento positivo dell' ente, e il male al negativo della limitazione. Se non ci fosse dunque questo secondo elemento, la limitazione dell' ente, non ci avrebbe libertà al bene e al male. In questo senso dicevamo che la libertà è cosa conseguente alla limitazione, non ad ogni limitazione, ma ad una limitazione propria dell' ente morale, ad una limitazione dell' intelligenza e della volontà. E perciocché la natura di ogni ente principio relativo consiste nel sentimento della propria limitazione che lo individua, per questo la potenza del male è propria dell' ente intelligente e morale; laddove la potenza del bene procede dall' azione ontologica dell' ente maggiore, che non è il soggetto della limitazione del minore, benché ne sia la causa. 1) La realità pura senza determinazione è un concetto astratto che non dice né ente, né sostanza, né accidente, né principio, né termine, né qualità, né quantità, ma dice solamente un modo dell' essere. Se da questo concetto astrattissimo di realità si discende ad uno meno astratto, ma però anch' esso astratto, e si considera quella realità che è termine esteso del sentimento, ella prende il nome di materia . La materia, presa cosí senza altre determinazioni, è illimitata o per dir meglio, indefinita, e però priva ancora di quantità. 2) Niente di reale può esistere indeterminato. Si prova perché ripugna. Infatti l' esistere indeterminato vuol dire essere ad un tempo e non essere. Perocché l' ente racchiude nel suo concetto certe condizioni o qualità, senza le quali non è ente, e queste sono le sue determinazioni; onde senza queste esisterebbe senza se stesso, senza ciò che ha in sé di essenziale. 3) La realità è di due generi, cioè principio e termine . Alla realità termine appartiene la materia, come dicemmo, alla realità principio lo spirito, cioè il principio sensitivo, il principio intellettivo, e il razionale. 4) Quindi quattro generi di forme: A ) La forma che determina e individua la materia (primo genere di forme). Questa forma produce la quantità dimensiva , la figura , il numero degli individui materiali, le parti. B ) La materia formata determina ed individua il principio sensitivo (secondo genere di forme). C ) Ciò che determina e individua il principio intellettivo è l' ente oggetto (terzo genere di forme oggettive pure). D ) Ciò che determina il principio razionale è l' ente oggetto7soggetto (quarto genere di forme con determinazioni venienti dal soggetto). 5) Finalmente noi possiamo anche raccogliere da tutto quello che detto è: A ) Che la moltiplicazione degli individui reali corporei animali e umani nasce dalla divisione della materia, la qual divisione è conseguente alla forma propria di questa. B ) Che la moltiplicazione delle specie nasce dalla varia natura del termine. Cioè, tostoché un termine ontologicamente considerato è cosí limitato, che l' uno esclude da sé l' altro, onde fra l' uno e l' altro non v' ha graduazione, ma intera separazione, per modo che ci vuole un' altra idea a pensarlo; questo termine suscita nel principio un sentimento pure cosí esclusivo , che non è per gradi ma in tutto da un altro sentimento diverso, nel che consiste, come vedemmo, la limitazione ontologica. Perché poi un termine si renda cosí esclusivo, come l' ente sia suscettivo di tale determinazione, quante possano essere tali limitazioni ontologiche, tutto questo, come abbiam detto, giace occulto nell' abisso dell' essere stesso: quei sentimenti specifici hanno radice in altrettanti atti esclusivi dell' essere. C ) Finalmente la moltiplicazione dei generi è dovuta al pensiero astratto, il quale nondimeno si fonda sull' ordine intrinseco dell' ente quando in questo distingue piú cose: in quanto poi le separa e le considera a parte, egli opera secondo le sue proprie leggi soggettive. I generi poi, che si fanno prendendo qualche fondamento puramente mentale, dovrebbonsi, anziché generi , chiamare classi . Le quali cose tutte parendoci che debbano riuscire difficili a ben cogliersi, ed essendo molte a mantenersi distinte nel pensiero, non dispiaccia al lettore se noi ci intratteniamo ad aggiungervi quella chiarezza e quella distinzione maggiore che per noi si possa. Al quale intento nostro primieramente ci proponiamo la questione, se l' ente reale abbia alcun sentimento dei principŒ che sono in lui fisicamente precedenti. Primieramente dee rimaner fermo che il principio si sente unicamente nel termine. Di poi è ancora da aversi presente, che ogni principio fisicamente non è ancora l' ente, il quale esiste soltanto per la sua ultima determinazione. In terzo luogo è da rammentare, che i principŒ precedenti s' identificano col principio proprio dell' ente; perocché è sempre il primo principio quello che, venendogli dati nuovi termini, mette fuori nuovi atti primi nella loro specie, e però è lo stesso primo principio che diviene successivamente tutti gli altri principŒ, e finalmente l' ultimo che costituisce l' ente. Quindi accade, che i diversi termini legati l' un coll' altro, e l' uno all' altro fisicamente subordinati, giungono a costituire un termine solo organato di piú termini, il quale è il termine proprio dell' ente. Le quali cose premesse, egli è manifesto, che tutti i principŒ debbono avere il loro sentimento in questo termine complesso ed organato a cui si riferiscono, un sentimento però, che ha la stessa unità e lo stesso organismo del termine dove risiede. Di qui procede, che il principio proprio di un ente abbia in sé qualche sentimento proprio della sua comunità con altri enti; giacché noi vedemmo che i principŒ precedenti sono comuni a piú enti, e come tali sono indeterminati, e però non costituiscono ancora nessuno degli enti particolari, ossia degli individui a cui sono comuni. Venendo ora a trattar di quel doppio modo dell' essere, pel quale un ente esiste in sé ed anco esiste in un altro ente, noi stimiamo dovere prima di tutto restringere la questione ontologica, cosí ampia in se stessa, riducendoci qui a favellare soltanto di quelle due maniere di essere, onde un ente si concepisce in se stesso, e si concepisce in noi. La parola noi esprime il principio sensitivo ed intellettivo. « Essere in noi »adunque significa, essere nel nostro principio sensitivo e intellettivo. Laonde tutto ciò che fosse del tutto alieno dal nostro sentimento o dalla nostra intelligenza, in una parola dal nostro principio razionale , non sarebbe veramente in noi, qualunque altra attinenza potesse avere coi principŒ ontologicamente anteriori a noi, dai quali pur dipendiamo. Di qui si può raccogliere una dichiarazione dell' espressione piú universale: « un ente esistere in un altro ». Perocché si scorge, che l' esistenza di un ente in un altro (trattandosi di enti sensitivi od intellettivi) è relativa all' ente che comprende un altro, o che è da un altro compreso. In una parola, l' essenza dell' ente reale soggettivo, è sentimento. Acciocché dunque un altro ente sia in lui, deve essere nel suo sentimento: se non ha l' altro ente nel suo proprio sentimento, non ha l' altro ente in sé. Questa relatività dell' inesistenza consegue alla limitazione ontologica, per la quale un sentimento sostanziale esclude l' altro, benché un sentimento sostanziale possa essere piú ampio di un altro. Questa proposizione è provata pur coll' osservare quale sia l' ente da noi intuíto. L' ente da noi intuíto è puro essere, è quell' idea per la quale noi siamo atti a dire che una cosa è, per la quale siamo atti a giudicare. Quest' essere della mente è indeterminato. Se l' essere intuíto è pienamente indeterminato, dunque egli è puro essere , senza i suoi termini: l' essere dunque ci è stato dato nella sua pura essenza, inizialmente, giacché l' essenza è l' inizio degli enti, e molto piú senza l' aggiunta di alcun fenomeno. Quindi l' essere puro da ogni sua determinazione, intuíto di continuo dall' intelligenza, non ha veruna azione in noi, ma la sola presenza ; il che bisogna di spiegazione pe' diversi significati della parola azione . Ogni qualvolta si scorge un effetto, suol dirsi che vi ha un' azione che l' ha prodotto. Qui prendesi azione per causa . Ma il comune degli uomini non osserva, che l' azione che si riferisce all' effetto, talora è la stessa causa, lo stesso ente che ha la relazione di causa; tal altra volta l' azione è distinta dall' ente causante, è un atto secondo di lui, non lo stesso suo atto primo. Eppure vi hanno effetti che debbon la loro esistenza, non già ad una azione distinta dall' ente causante, ma ad un' azione che è l' atto primo dell' ente causante, e perciò è lo stesso ente causante. Se noi vogliamo fissare un canone universale, col quale si conosca quali enti agiscano in altri col loro atto primo, colla loro presenza, potremo esprimerlo in questo modo: quegli enti i quali hanno dalla loro stessa essenza di essere o di poter essere in altri, questi agiscono col loro atto primo: e però non hanno azione nel senso volgare della parola, ma hanno soltanto presenza. Il qual canone applicato all' essere per essenza, cioè all' essere ideale, ci fa conoscere incontanente, che quest' essere sta nell' intelligenza nostra senza alcuna azione seconda ed accidentale; perocché egli ha per sua propria essenza l' essere nelle menti. Ora l' essere per essenza è appunto il termine oggettivo delle intelligenze, come vedemmo. Dunque il suo atto nelle menti è lui stesso. L' essere dunque è in noi quale è in se stesso. Di piú. Se noi consideriamo attentamente che cosa racchiuda il pensiero del puro essere, se meditiamo il significato della parola è , senz' aggiungervi nulla; noi ci convinciamo indubbiamente, che nell' essere pensato in tal modo non entra alcuna relazione con noi, né con alcun altro ente particolare, né con alcun individuo (il quale è formato da termini che determinano compiutamente l' essere). Perciò noi non mescoliamo coll' essere puro, oggetto dell' intuizione, niun nostro sentimento, niente di soggettivo, né manco di relativo; ma pensiamo l' atto primissimo di ogni cosa, prescindendo affatto dalla cosa di cui egli è atto. Quindi nell' essere non cade niun elemento fenomenale . L' essere adunque, qual' è posto nella intuizione, è scevro da ogni relazione colla mente stessa e da ogni sentimento. Onde la mente l' intuisce non apprendendo in lui relazione alcuna, l' apprende in un modo assoluto . Altro è dunque il pensare l' ente assolutamente ossia in modo assoluto, altro è il pensar l' ente assoluto (1). Pensare l' ente in modo assoluto, vuol dire pensar l' essere, prescindendo da ogni sua determinazione, pronunciare collo spirito nostro il monosillabo è , senz' altra aggiunta: questo modo di pensare appartiene al solo oggetto dell' intuizione, sia che quest' oggetto puro s' intuisca (essere), ovvero anche si affermi e si pronunci ( è ). All' incontro pensare l' ente assoluto è pensare l' ente infinito determinato in se stesso coi suoi termini infiniti e categorici (Dio). Quindi l' oggetto dell' intuizione non è l' ente assoluto, ma è il modo assoluto dell' essere, opposto al modo relativo . Ora, perocché l' intuizione è il primo di tutti i pensieri, ogni altro pensiero la suppone e la contiene. Il che dimostra che in niun pensiero manca giammai il modo assoluto dell' essere e del pensare. Che anzi questo modo assoluto è quello che caratterizza il pensare, e costituisce la differenza essenziale del pensare dal sentire . Quindi s' intende che cosa voglia dire « pensare una cosa in sé, o per sé ». Vuol dire pensarla in quella guisa appunto nella quale si pensa l' oggetto dell' intuizione, pensarla come oggetto. Queste maniere di dire esprimono il modo del pensare , e medesimamente il modo di essere . Dunque tutti gli enti, tutte le entità hanno per conseguente quel modo categorico di essere, che s' esprime colla parola oggettivo , ed è quel modo pel quale esistono essenzialmente in una mente intuente; e conseguentemente possono esistere in tutte le menti intuenti. Si può dunque pensare in un modo assoluto anche l' ente relativo , perocché la relazione appartiene all' ente, e l' assoluto appartiene al modo. Tutti gli enti relativi hanno un modo assoluto di essere, e quest' è il loro modo categorico ideale ossia oggettivo. Vero è che questo modo assoluto non è quello che li costituisce enti a se stessi, perché l' essere enti a se stessi è un modo relativo; ma il loro modo relativo è però congiunto al loro modo assoluto che precede ontologicamente e categoricamente la loro propria relativa esistenza (1). Tutto quello che non è ente puro, oggetto per la sua stessa essenza, si può dire fenomenico appunto perché egli non ha in se stesso le condizioni dell' ente fino che si considera separato da quello che per la sua propria essenza è ente per sé. Non è già che v' abbia qualche cosa che sia separata dall' ente, se l' unione e la separazione si consideri rispetto all' ente ontologicamente primo; ma l' entità relativa è separata considerando la separazione rispetto a lei stessa, poiché ella non sente la sua congiunzione coll' ente, attesa la limitazione ontologica del suo sentimento che la chiude in se stessa. Ora il sentire di questa entità essendo tutto ciò che ella è, e il suo sentire, benché sostanziale, essendo separato da quello che per la propria essenza è ente per sé, perché questo non cade in un tale sentire; consegue che fino che rimane questa separazione, ella non sia ente per sé; onde a ragione si chiama fenomeno . Ma per mezzo della mente che unisce il fenomeno sostanziale coll' ente per sé, anche il fenomeno si eleva alla condizione di ente per sé, perché viene considerato nell' oggetto, vien pensato in modo assoluto, viene oggettivato. Dobbiamo avvertire che i fenomeni si partono in due classi, che sono i fenomeni sostanziali , e i fenomeni conseguenti ai sostanziali , a cui si riducono anche gli accidentali. I fenomeni sostanziali sono quelli che ci si presentano come atti primi di un sentimento relativo, che escludono tutti gli altri fenomeni, eccetto quelli che a loro susseguono come atti secondi. I fenomeni conseguenti ai sostanziali sono atti secondi di questi, proprŒ, integrali, accidentali, ecc.. Quando la mente intuente l' essere concepisce per mezzo di questo i fenomeni sostanziali, ella li concepisce senza piú come enti. Ma i fenomeni conseguenti ai sostanziali non può ella concepirli come enti se non in unione coi fenomeni sostanziali dai quali dipendono; perocché ogni ente ha questa condizione, di dover essere un atto primo. I fenomeni sostanziali dunque sono i veri rappresentatori degli enti, e la regola onde giudicare della legittimità delle rappresentazioni che ce ne fanno i fenomeni secondari e conseguenti. Questi hanno anch' essi virtú di rappresentare, ma solo allora che vanno d' accordo coi primi, e discordanti da essi si chiamano a giusta ragione apparenze ingannevoli e illusioni. Dalle cose dette si raccoglie che l' inesistenza di un ente in un altro è proprietà esclusiva di quello che è essere per propria essenza. E nel vero, fuori di quello che è essere per essenza non rimane che il fenomeno nel modo che abbiamo spiegato. Egli è bensí vero che il fenomeno sostanziale, considerato in unione coll' essere per essenza, diventa anch' egli un ente cioè un ente per partecipazione. Ora un tal ente per partecipazione può anch' egli esistere in un altro, cioè in un altro ente intellettivo. Ma quest' inesistenza gli conviene soltanto in quanto egli è ente; ed egli è ente per partecipazione; dunque anche l' inesistenza sua in altro gli spetta soltanto per partecipazione, cioè in virtú di quell' essere per essenza, in cui si contempla e si pone, e cosí si rende intelligibile, ed acquista natura di oggetto. Dunque, soltanto quello che è essere per essenza ha virtú d' inesistere in un altro ente, cioè nell' intellettivo, nella sua purità di ente. Solo dunque l' essere per essenza ha virtú sua propria d' inesistere puro da ogni fenomeno in un altro ente, laddove l' ente per partecipazione inesiste in quanto è ente, ma mescolato col fenomeno dal quale riceve il nome di relativo. Ma i fenomeni stessi possono essi inesistere gli uni negli altri? Sí, hanno anch' essi certi modi d' inesistenza i quali però debbono essere accuratamente distinti. 1) Una parte del fenomeno esiste nel tutto. Questo modo d' inesistenza però è mentale anziché reale, come mentale è il concetto della parte. 2) Il fenomeno conseguente alla sostanza esiste nella sostanza. Questa proposizione si può esprimere piú generalmente dicendo che gli atti secondi inesistono nell' atto primo che li contiene o virtualmente o attualmente. 3) Venendo ora all' inesistenza de' fenomeni sostanziali, il solo principio è quello che contiene, e il termine è il fenomeno sostanziale da lui contenuto. Da quello che abbiamo detto riceve luce e sviluppo maggiore la teoria che abbiam data della rappresentazione. Lasciando da parte la prima maniera di rappresentazione , che spetta all' idea quasi specchio di tutte le cose, diciamo in che modo il fenomeno sostanziale sia rappresentativo dell' ente reale. In primo luogo vedemmo che l' ente è intuíto immediatamente, e in niun modo può essere rappresentato, perocché se vi avesse qualche cosa rappresentativa dell' ente non si potrebbe mai sapere che ella fosse rappresentativa dell' ente se già non si conoscesse l' ente. La rappresentazione adunque suppone sempre dinanzi a sé che si conosca l' ente; e quindi è impossibile spiegare la cognizione per via di semplice rappresentazione o similitudine, nel che sta il difetto della teoria della cognizione data dagli Scolastici. Ma se l' ente è già conosciuto, a che pro la rappresentazione? In primo luogo l' ente potrebbe essere conosciuto in un modo abituale, senza che ci poniamo attuale attenzione, o che lo crediamo a noi presente. In tal caso la rappresentazione ci presterebbe il servizio di attuare in lui la nostra attenzione. Pure non è questo solo il servizio che ci presta il fenomeno sostanziale. Ciò che noi conosciamo immediatamente, ciò che inesiste in noi per natura senza alcun fenomeno, non è che il puro ente spoglio di ogni sua determinazione. Egli è uno e semplice; ma gli enti sono molti, e l' uno di essi non è l' altro, ciascuno anzi è un individuo che ha un atto primo suo proprio. Quest' atto primo individuato qual si presenta nel nostro conoscere è quello che chiamiamo sostanza, e in quanto una sostanza si distingue totalmente dall' altra mediante la sua individuazione, la chiamiamo forma sostanziale. La forma sostanziale fa sí che una sostanza non sia un' altra, e negli enti finiti che cadono sotto la nostra percezione questa forma sostanziale è il fenomeno primitivo che rimane segnato da un nome sostantivo che gli imponiamo. Ma la forma sostanziale nella sostanza non è ancora l' ente; ma viene ad esser ente quando le si aggiunge l' essere che già conosciamo. Mediante quest' unione dell' essere col fenomeno sostanziale, unione individua, avviene che ne risulti innanzi alla nostra mente un ente reale; ma quest' ente reale non è piú un ente indeterminato, ma determinato dalla forma sostanziale in modo che si divide da ogni altro ente. Ora in questo fatto si può considerare l' ente reale conosciuto sotto due aspetti: o pigliandolo nella sua unità, e cosí possiamo dire di conoscere immediatamente quell' ente reale; o considerandolo nei due elementi dai quali risulta, e cosí noi vediamo che il fenomeno sostanziale non è per sé solo l' ente, ma una rappresentazione parziale dell' ente, di maniera che senza il fenomeno sostanziale noi conoscevamo l' ente solo inizialmente, ma ora aggiungendovi il fenomeno sostanziale conosciamo qualche cosa della realità di lui per la rappresentazione che questo ce ne fa. Vero è che questo fenomeno sostanziale è relativo a noi, e in quanto è relativo a noi non ci fa vedere qual sia il modo della realità proprio dell' ente essenziale; ma tuttavia ci presenta ad ogni modo una realità, la quale deve essere analoga alla realità compiuta ed illimitata essenziale all' ente. Cosí si può dire che tutti gli enti finiti che noi conosciamo rappresentano l' ente infinito, e per essi non s' accresce la nostra cognizione se non perché s' accresce la cognizione dell' ente essenziale: entro a tutte le nostre cognizioni adunque degli enti reali vi ha una cotale imperfetta rappresentazione dell' ente infinito. La percezione risulta dai due elementi, dall' ente ideale e dal fenomeno sostanziale dove termina l' affermazione. Quindi il nostro spirito nello stesso tempo che con una tale operazione conosce la sussistenza affermandola, conosce altresí nell' ideale qualche cosa di piú che non conosceva prima, perocché prima lo intuiva del tutto indeterminato, ed ora gli sono manifeste alcune sue determinazioni. Quando adunque noi percepiamo un ente reale, allora non è a credersi che l' essenza dell' ente in universale e il fenomeno sostanziale si uniscano quasi per giusta7posizione, ma eglino si compongono insieme e ne risulta un ente organato; non è da credere che conosciamo soltanto quello che prima era nei due elementi separati, l' essere universale e il fenomeno, ma v' ha qualche cosa di nuovo che risulta dalla loro unione: la cognizione nostra, che n' è l' effetto, si arricchisce di questo elemento nuovo, il quale rispetto all' ente ideale è un ordine che gli si aggiunge, e rispetto al fenomeno è la realizzazione di quest' ordine. Quindi nella percezione non si afferma solo il fenomeno, ma si affermano alcuni elementi che appartengono veramente all' ente come realizzati nel fenomeno sostanziale, si affermano congiunti, e poi si distinguono mediante l' analisi della riflessione: quindi si viene a conoscere distintamente, che l' ente affermato è atto primo , che è uno , che è pienamente determinato , ecc.; le quali sono proprietà dell' ente realizzate nel fenomeno; rispetto alle quali la nostra affermazione ha una verità assoluta. Or le cose ragionate circa il conoscere per via di rappresentazione dimostrano che l' uomo possiede una lingua interiore intima nella sua potenza conoscitiva, della quale si serve come d' istrumento del pensare. Perocché noi vedemmo che il fenomeno è quello che gli rappresenta l' ente, e che la varietà dei fenomeni è quella che gli rappresenta l' ente in diversi modi e gradi. Quindi senza i fenomeni il principio potrebbe avere bensí l' intuizione dell' ente in universale, e poniamo anche la percezione dell' ente assoluto, ma non la cognizione degli enti finiti e molteplici. Tutti i fenomeni sono dunque segni naturali degli enti; ma i fenomeni primitivi sono segni che si compongono cogli enti stessi finiti costituendo le loro forme sostanziali; giacché trattandosi di enti relativi non è maraviglia che anche le forme sostanziali siano relative. Quando s' impone un nome sostantivo ad un dato ente, allora questo nome esprime l' ente sotto quella forma sostanziale; e cosí il fenomeno primitivo resta inchiuso nel concetto dell' ente che si nomina, e nella definizione di lui. E ogni qualvolta senza badare a questo si volle ritenere quel nome per significare quell' ente spogliato del suo fenomeno sostanziale e quindi della sua forma sostanziale, si aprí il varco a innumerabili errori. Questo è uno dei piú ampi fonti della filosofia sofistica, e specialmente del panteismo germanico. I fenomeni poi conseguenti ai primitivi ed accidentali sono anch' essi altrettanti segni dell' ente, ma non sempre veritieri, come abbiam veduto. Quindi il pensiero tende bensí sempre all' ente di sua natura; ma nella condizione in cui siamo egli si serve per giungere a conoscerlo sempre piú di segni rappresentativi, quali sono i fenomeni, i quali formano come una lingua interiore. Questa lingua nello stesso tempo che conduce il pensiero alla cognizione degli enti relativi e moltiplici, lo dirige altresí quasi a ultimo fine di lui all' ente essenziale, di cui non vede a vero dire la realità propria, ma s' accorge di posseder certi segni di questa realità, e cosí in modo imperfetto e negativo finisce in essa come in ultimo punto delle intuizioni cogitative. Or poi merita sopra modo di esser meditata quella individua unione, che questi segni naturali formano coll' ente che rappresentano, sia questo ente principio o termine: per la quale unione individua si rappresenta alla mente una pluralità di enti compiuti e individuati e nella loro propria sostanza, per guisa che la cognizione è positiva e non negativa, onde ci persuadiamo di percepire quegli enti quali sono nella loro propria natura. Il qual fatto ben inteso spiega perché la parola esterna sia anche essa cosí utile all' intelligenza, e come il suono materiale del vocabolo s' associ e s' individui col concetto, per modo che il nostro spirito vede e pensa l' ente nel vocabolo, e senza i vocaboli non può a lungo ragionare, venendogli meno la presenza degli oggetti pensati. Il vocabolo è un suono e il suono è una sensazione. Vero è che questa sensazione è intieramente diversa dall' ente pensato e benanco da' suoi fenomeni; ma la mente non associa però meno la sensazione del vocabolo coll' ente che vuole esprimere; perocchè la legge del pensiero consiste nell' associazione di un fenomeno coll' ente, senza che sia necessario che il fenomeno, cioè il sentimento, sia uno piuttosto che un altro, supplendo la riflessione, la quale avverte se un fenomeno sia proprio e naturale dell' ente o non sia, nel quale ultimo caso il fenomeno sensibile è un segno arbitrario che rammemora insieme coll' ente anche il suo fenomeno o segno naturale. Cosí la lingua esteriore è un complesso di segni de' segni; cioè di segni arbitrari, che richiamano i segni naturali e con questi l' ente da essi determinato. Qui si vede spiegata l' origine, la necessità e la potenza della parola. Dalle cose dette possiamo raccogliere qual sia l' intima costituzione dell' essere umano: quest' essere è un principio unico individuato da tre termini di diversa natura, lo spazio , la materia e l' idea , organati fra loro all' unità. Or da quanto è detto riceve lume la natura della percezione fondamentale. Perocché dall' aver noi veduto che lo spazio e la materia, in quanto sono termini del sentimento fondamentale, sono puri fenomeni, e però termini proprŒ e non termini stranieri del principio sensitivo, col quale s' identifica il principio, ne viene che la percezione intellettiva fondamentale non è la percezione della realità pura straniera, ma è la percezione dello stesso principio, individuato nel fenomeno. Quindi il principio intellettivo, percependo il detto fenomeno, nol percepisce come cosa straniera, ma come cosa propria, il che è quanto dire percepisce il principio sensitivo individuato ne' due termini dello spazio e della materia fenomenale, il qual principio sensitivo viene cosí identificato col principio intellettivo. Per questo l' uomo a principio della sua esistenza ha un sentimento unico, che è quanto dire sente se stesso in quanto è animale, e sentendo se stesso sente anche il corpo, non essendo il corpo in quel primo sentimento se non l' individuazione del principio animale. Se dunque nel sentimento dello spazio e nel sentimento fondamentale non v' ha percezione della realità pura straniera, in qual momento nasce questa percezione? In prima dobbiamo intenderci sul significato di sentimento, di percezione sensitiva e di percezione intellettiva. Il semplice sentimento del tutto spontaneo, naturale, privo di ogni fatica, non è percezione. Quando nel sentimento ci ha ripugnanza, fatica, e tuttavia necessità (il che chiamasi sentimento di violenza), allora vi ha percezione sensitiva. La percezione sensitiva è dunque sentimento, ma non ogni sentimento, né tutto il sentimento, ma solo quell' accidente del sentimento, che dicevamo senso di violenza. La percezione intellettiva poi è quell' atto dello spirito razionale, pel quale egli apprende il sentimento come un ente. Quindi la percezione intellettiva è di tre maniere. Perocché lo spirito può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, o dalla parte del suo termine. Può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, nel qual caso il principio intellettivo s' identifica col principio razionale. Lo spirito intellettivo può percepire il sentimento dalla parte del suo termine, cioè il sentito. Ora, rispetto al suo termine abbiamo distinto il sentimento semplice dalla percezione sensitiva. Se lo spirito intellettivo percepisce il sentimento semplice, il puro fenomeno, in tal caso non percepisce ancora la pura realità straniera; ma se percepisce il senso violentato, incontanente l' intelligenza si porta alla realità straniera come a substratum di un tale sentito, operando in virtú del principio di sostanza. Le tre maniere adunque di percezione intellettiva sono: a ) Percezione intellettiva del principio sensitivo. b ) Percezione del fenomeno sensibile. c ) Percezione di un sentito violento - In questa si percepisce la pura realità straniera. Ora dal sapere noi che tutto ciò che cade nel sentimento è fenomeno, e per ciò appartiene al principio sensitivo, e che la pura realità del sentito è trovata e posta soltanto dalla mente, ma non è quella che costituisce il nostro individuo, deriva che noi piú facilmente possiamo intendere come l' anima separata dal corpo possa conservare la sua individualità, perocché ella non perde quello che è suo. Vero è che il finimento del suo sentire non può esser piú quello di prima, non può esser piú il sentito di prima, perocché il sentito riceveva il suo limite dalla realità sottoposta. In questo caso il sentimento dee ricadere e concentrarsi in se stesso e non piú vestire di sé quella realità. Ora questo raccentramento de' sentimenti è appunto la loro riduzione in abiti , i quali, come abbiam detto, bastano a mantener l' anima quell' individuo che era prima. Finalmente il terzo termine del principio umano è l' idea. Abbiamo detto che nell' ordine logico l' idea diviene termine dello spirito, quando questo è individuato come animale. Il principio individuante l' animale è quello dell' armonia del sentimento eccitato, il qual principio ha in sé necessariamente anche i precedenti, cioè il principio del sentimento eccitato, del sentimento continuo, e del sentimento esteso, o spazio. Or quantunque l' idea non si presti come termine intuibile se non dopo che il principio ha tutte queste individuazioni; tuttavia è da osservarsi, che l' atto intuente l' idea non si fa già dal principio cosí individuato, quasiché quest' atto si ponesse colla mediazione dello spazio e del corpo; ma l' idea è veduta dal principio puro come principio, non in quant' egli è individuo, ma solo a condizione che sia individuo. Il che chiaramente si scorge considerando che l' idea non può soggiacere alla forma dello spazio o a quella del corpo, essendo scevra per sua natura da ogni estensione, da ogni passione, da ogni corporeità, da ogni mutazione, e da ogni limitazione; onde non si può intuire che con un atto immediato, nel quale altro non si distingue che il principio e lei, ed è per questo che l' essere è in noi puro da ogni elemento fenomenico. E qui ci troviamo in grado di rispondere alla questione: « se l' uomo conosca se stesso fin dal primo momento della sua esistenza ». Gli scolastici dicevano, che egli ha una cognizione abituale di sé. La soluzione ci pare troppo vaga: le considerazioni seguenti vi recano luce. Quando il principio che intuisce l' idea percepisce la propria animalità, la percepisce tale qual' è. Ora l' animale è un principio individuato in quella guisa che abbiam detto. Ma un principio percipiente un principio s' identifica con esso. Dunque l' uomo fino dal primo istante in cui trovasi a pieno costituito, ha percepito se stesso come principio animale individuato: la percezione è cognizione, dunque l' uomo fin da principio si conosce in quant' è animale. Ma si conosce egli ancora come principio intellettivo? Primieramente è a dire, che il principio non è il termine dell' atto, e nulla si conosce se non ciò che è, ovvero è divenuto, termine dell' atto conoscitivo. Ogni principio è bensí un sentimento e però anche il principio intellettivo è tale, ma il sentirsi come principio non è conoscersi. L' uomo dunque non si conosce come principio intellettivo colla prima percezione immanente, ma soltanto con una riflessione successiva, colla quale pone se stesso principio come termine dell' atto conoscitivo. Tre dunque sono i termini principali dell' umano principio: quindi tre attività primordiali: quindi non desta piú maraviglia che lo spirito unico nel suo principio ammetta pluralità nelle potenze. L' attività che finisce nello spazio come nel suo proprio fenomeno, è atto semplicemente, non potenza. Or quantunque il principio individuato dallo spazio presti alla mente il concetto di un atto e non di una potenza, tuttavia si può chiamare potenza dello spazio, per la quale il detto principio, quando riceve il termine corporeo, lo veste e l' informa della estensione. Ma se il principio dello spazio prima di ricevere l' individuazione del termine corporeo si può considerare come in potenza al ricevimento di questa forma, quand' è già individuato egli è già in atto, non piú in potenza. E in generale l' atto, pel quale un individuo è posto, non è potenza ma atto. Quindi né il sentimento del continuo né quello dell' eccitamento, né quello dell' armonia, né l' intuizione dell' essere, in quanto costituiscono il sentimento fondamentale, sono potenze, ma atti primi pe' quali l' individuo esiste. L' uno però di tali atti, quando è ancor privo dell' atto susseguente, dicesi in potenza a questo. Ma queste sono potenze a ricever la forma, perocché un subbietto può avere due specie di potenze, che sono: a ) Potenze a ricevere una nuova forma sostanziale mediante il ricevimento di un nuovo termine (1). b ) Potenze relative al cangiamento accidentale dello stesso termine, passive (facoltà di sentire il detto cangiamento) ed attive (facoltà di produrre il detto cangiamento). L' una e l' altra specie di potenze è sempre una facoltà di porre nuovi atti. Ma la prima specie si riferisce ad atti che producono una nuova individuazione, e che sono atti primi ed immanenti relativamente al nuovo individuo che producono; la seconda specie è di atti accidentali all' individuo, che nol cangiano in un altro, e possono essere transeunti. Ora qui egli è d' uopo di mostrare come nel seno stesso dell' ordine inerente alla realità si ravvisi una relazione ed una dipendenza di essa realità dal suo esemplare ideale. Quello che vogliam dire si scorgerà ove si mediti la natura del secondo genere accennato delle potenze, le quali si riferiscono ad atti che non cangiano il proprio individuo in un altro, e che quindi si dicono a lui accidentali. Ond' avviene che un subietto individuo possa uscire in tale genere di atti? - Da questo, che il termine di tali atti può ricevere delle modificazioni accidentali senza che cangi la sua sostanza. Ma queste modificazioni non sono tutte e sempre presenti nel termine, perocché in tal caso il termine non cangerebbe. Acciocché la potenza del principio reale sia possibile, conviene che il principio, oltre avere l' attività attuale di unirsi col suo termine in quel modo reale che gli sta presente, abbia un' altra attività virtuale che si riferisca a tutti i modi che può ricevere il suo termine e che in presente non ha. In altre parole, l' attività del principio deve abbracciare non solo la sostanza del suo termine, ma ben anche tutti i modi possibili di questa sostanza. Ora, i modi possibili non sono reali, e di essi uno solo alla volta può essere realizzato: dunque, il principio reale colla sua attività eccede il termine che ha presente. Convien dire adunque che il concetto della potenza involga una relazione secreta fra la potenza reale e i modi ideali del suo termine, di che si scopre la ragione per la quale nel reale stesso si trovi una virtualità: la virtualità reale suppone adunque e risulta da una dipendenza che ha l' ordine delle cose reali dal loro tipo ideale. Questa dipendenza è prova manifesta che il temporale e finito dipende da un ordine superiore delle cose eterne, ed è una nuova dimostrazione ontologica che vi ha un ordine invisibile di cose eterne ed infinite, tolto il quale le cose visibili reali e finite non potrebbero aver tra di loro quell' ordine che hanno. Non potrebbe adunque sussistere il mondo reale senza il mondo ideale che gli determina continuamente quell' ordine che in lui si ammira. Concludiamo questo capo osservando, che quantunque i tre termini fondamentali dello spirito umano, lo spazio, il corpo, e l' idea, abbian natura diversa, tuttavia sono cosí organati fra loro da riuscirne un termine solo. Perocché il corpo è ricevuto nel seno dello spazio, e il corpo e lo spazio nel seno dell' idea. Onde l' essere razionale nell' idea possiede gli altri suoi due termini, e quest' unità che formasi nell' idea di tutti e tre è quella che individua l' essere razionale «( Psicologia , 567 7 5.4) ». Noi abbiamo parlato delle azioni , come pure delle inesistenze . Dalla diversa indole delle azioni e delle inesistenze si spiega, come si rinvengono certe azioni che non modificano il loro termine. Poiché l' inesistenza non è azione, nel senso comune della parola che esprime un atto secondo; ma se l' inesistenza stessa si considera come un' azione, e costituita da azioni (nel qual caso l' azione si prende impropriamente anche come atto primo), allora si trova che vi hanno azioni che non modificano il loro termine. L' inesistenza è una proprietà del solo essere essenziale : nessuna cosa inesiste in noi tale quale è, se non l' essere. Ora posciaché l' essere ideale ed essenziale talora è indeterminato, talora piú o meno determinato, secondo che costituisce l' essenza dell' essere universale, dell' essere generico, o dell' essere specifico, quindi ogni intuizione o cognizione delle essenze appartiene a quella classe di atti e di azioni, che non modificano menomamente il loro termine, perché altro non suppongono, ed altro non le costituisce, se non la pura inesistenza; questa è dunque la causa delle azioni che non modificano il loro termine. L' azione del principio rispetto al fenomeno sentimentale suo termine è una di quelle azioni, che producono il proprio termine, e però che non lo modificano. Ella è una specie di creazione; differendo dalla creazione soltanto in questo, che la creazione è libera, laddove il principio che produce il suo termine fenomenale è provocato a produrlo, e determinato a produrlo piuttosto in un modo che in un altro. Quest' azione è un atto primo, col quale il principio pone la propria individuazione. Quest' azione si può anche descrivere come un movimento del principio verso la sua forma che lo rende un individuo determinato. Il principio puro dal fenomeno, e cosí pure la realità straniera che sta al di là del fenomeno, nulla hanno di fenomenale, ma appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale. Dico che appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale, considerando unicamente quello che di essi ci porge il concetto che noi n' abbiamo. L' atto dunque della mente, che per via d' astrazione pensa il principio puro e la realità pura, non avendo per suo termine che l' ente, e l' ente inesistendo senza poter offrire alcuna modificazione, egli è di quelli atti, che non modificano il loro termine. Dalle cose dette risulta, che anche la percezione intellettiva non modifica il proprio termine. Perocché se si tratta della percezione intellettiva de' corpi, il termine di quest' atto è la realità vestita del fenomeno unita all' essere ideale. Ora noi vedemmo che la realità appartiene all' essere realizzato, e però non è suscettibile di modificazione; il fenomeno poi che la veste esiste precedentemente alla percezione intellettiva, ed è un termine prodotto dall' azione del principio sensitivo: in quant' è poi percepito dalla mente non è cangiato il fenomeno stesso, ma soltanto considerato in relazione coll' ente oggettivato, e, per cosí dire, entivato . Or l' aggiungere al fenomeno l' ente non lo modifica, anzi v' aggiunge ciò che è immodificabile e che rende lui stesso immodificabile: quest' aggiunta non essendo fenomenale, ma immune da ogni fenomeno, non può recare varietà alcuna nell' ordine del fenomeno. Se poi si tratta della percezione fondamentale con cui il principio intellettivo percepisce la propria animalità, è da dire il medesimo; e tanto piú, che nel sentimento fondamentale non cade la percezione della realità straniera, ma del fenomeno solamente. Avvi bensí la percezione del principio sensitivo nella sua individuazione e quindi avvi pure l' unificazione del principio sensitivo con l' intellettivo, onde se n' ha un unico principio razionale . Or questa unificazione è una specie di inesistenza, e però non distrugge l' attività del principio sensitivo, né punto la altera o modifica, perché niun principio come tale è variabile e modificabile, per la ragione che è semplice e che appartiene all' ente stesso; ma soltanto può essere aggiunto ad un principio piú elevato, mediante la quale unione cessa di essere quel principio individuato per sé solo esistente che era prima, ma si rifonde in un altro principio individuato maggiore, onde l' individuo viene cosí ad aver cangiata la sua forma sostanziale. Se questa si vuol chiamare modificazione, tale è appunto l' unica modificazione che il principio intellettivo fa della propria animalità. L' immaginazione intellettiva è quella che ci rappresenta un ente vestito del suo fenomeno, per esempio, immagina di vedere e di toccare un corpo qui presente quando presente egli non è. Ora il fenomeno sensibile è quello che rappresenta l' ente dinanzi all' immaginazione. Ma il fenomeno non è propriamente l' ente, ma il segno dell' ente. In quanto adunque l' immaginazione intellettiva termina il suo atto in un segno rappresentativo e non nell' ente stesso, ella non può modificar l' ente, perché questo non è il termine del suo atto. In quanto poi la mente dal segno rappresentativo, procede a pensar l' ente segnato, né pur ella lo modifica, perocché già noi vedemmo che l' ente non è punto modificabile, e che a lui spetta la pura inesistenza nella mente. Da tutto ciò si può raccogliere che gli atti conoscitivi non modificano mai il loro termine, perché non fanno che aggiungere al sensibile l' ente, rimanendo il sensibile come la determinazione dell' ente. Tutto ciò che v' ha nel sensibile si vede nell' ente, e, e l' ente nel sensibile. Questa è semplice inesistenza e inesistenza oggettiva, nella quale non vi ha azione, perocché l' agire è solo proprio del soggetto, e dell' oggetto l' inesistere. L' oggetto può esser pensato nella sua totalità, ne' suoi elementi o nelle sue relazioni ecc.; tutto ciò non modifica l' oggetto, ma la modificazione appartiene all' atto conoscitivo del soggetto: soltanto che l' oggetto si pensa piú o meno completamente. Ma non vi sono dunque anche delle azioni che modificano il loro termine? Indubitatamente un individuo, quand' è costituito ed emette degli atti secondi, modifica se stesso modificando il suo proprio termine. Anche ciò che ha natura di termine, come sono i corpi, manifestano in sé delle azioni reciproche, e quindi reciprocamente si modificano. Ma questi atti secondi, il cui effetto è la modificazione del proprio termine, vogliono essere spiegati a quel modo che risulta dalle dottrine piú sopra stabilite. Richiamandone qui le principali possiamo conchiudere: 1) Che solo i diversi principŒ operano e modificano se stessi. 2) Che due principŒ l' uno straniero all' altro, quando sono posti in relazione mediante un termine comune (comune entitativamente, cioè come realità pura (1), benché avente un modo relativo e fenomenale diverso), sono reciprocamente i motori delle proprie attività, perché ciascuno ha potere dal termine comune, e modificato il termine proprio dell' uno, la spontaneità dell' altro principio è necessitata a modificare il termine proprio; perché i due termini, in qualche modo, s' unificano. 3) Che quando i termini sembrano agir fra loro e modificarsi, senza che apparisca l' azione de' loro principŒ, come accade nel movimento e nell' urto dei corpi, l' azione tuttavia non si può attribuire ai termini come termini, giacché come tali sono inerti ma ai principŒ che inesistono ne' corpi, sebbene questi principŒ non si percepiscano. Noi abbiamo fin qui investigata la natura dell' essere reale e svolta la sua intima organizzazione. Oltre al porre questa dottrina generale intorno all' ente reale, noi dividemmo l' ente reale in assoluto e relativo, e convenendoci favellare dell' assoluto piú a lungo nella seconda parte di quest' opera, ci stendemmo a descrivere l' intima costituzione dell' ente relativo. Vedemmo che egli non è completo s' egli non ha un principio ed un termine, oltre il dover egli avere una relazione colla mente che gli dà la forma oggettiva ed ontologica, od esser mente egli stesso. L' ente reale adunque completo si riduce mai sempre ad essere « un ente principio individuato ». Ma vedemmo ancora che gli enti puramente sensitivi sono individuati da un fenomeno posto da essi in quanto sono principŒ senzienti, senza il qual fenomeno non sono ancora enti mancando loro l' individualità, di maniera che sono enti individui soltanto in quanto inesistono nel fenomeno specifico come in loro proprio termine. Questo fenomeno specifico e primitivo costituisce la loro forma sostanziale, e per esso sono piuttosto una sostanza che un' altra. La cosa non è cosí rispetto all' ente intellettivo, il quale, come tale, non ha fenomeno alcuno, ma soltanto ha per suo termine l' essere, e inesistendo in questo suo termine partecipa la condizione di essere senza bisogno d' altro; di maniera che fra gli enti finiti le sole menti sono enti per se stesse, laddove il reale puramente sensitivo (molto meno quello che si concepisce come insensato) non è ente per se stesso, ma soltanto per la relazione con quella mente che lo percepisce, o che in qualunque modo lo pensa. Ora taluno male intendendo questa teoria potrebbe falsamente indurne che ella arrecasse nocumento alla verità dell' esistenza de' corpi e a quella de' reali sensitivi, quasi queste entità fossero pure apparenze, e la dottrina intorno ad esse esposta si riducesse ad un sistema di idealismo con pregiudizio eziandio della certezza delle cognizioni umane. Or quantunque noi ci siamo dati cura di distinguere accuratamente il fenomeno dall' apparenza, e abbiamo anche difesa la certezza del pensare relativo, tuttavia noi vogliamo pigliarne occasione a compiere la teoria della verità e della certezza che abbiamo in parte esposta nel Nuovo Saggio e nel Rinnovamento e in altre opere. Nelle quali noi abbiamo dato la teoria della verità logica : or dunque esporremo quella della verità ontologica . Cominciamo dal chiarire che cosa s' intenda per verità logica, e che cosa per verità ontologica. La verità logica è la verità delle proposizioni. Si suol parlare di questa quando si dice che la verità e la falsità appartiene ai giudizŒ, i quali s' esprimono in proposizioni; ovvero quando si dice che la verità e la falsità appartiene a quella maniera di conoscere, che si appella conoscere per via di predicazione. Diciamo adunque primieramente che ogni proposizione esprime un atto dello spirito intelligente, con cui vede la convenienza di un predicato e di un soggetto e vi dà l' assenso. Il vedere questa convenienza e il dar l' assenso sono atti inseparabili, ed anzi nel primo loro nascere un atto solo. Ma questo primissimo e naturale assenso è differente dall' assenso posteriore libero, o certo volontario. Il primo assenso appartiene all' inesistenza del principio intellettivo nell' essere; perocché il principio intellettivo inesiste nell' essere in quanto lo vede, e se nell' essere vede la convenienza del predicato col soggetto, con questo atto di vederla inesiste ancora nell' essere dove esso trova un tal ordine. Questo è il primo principio della volontà, la potenza volitiva nell' atto del suo nascere. Se l' essere non avesse un ordine intrinseco, giammai dall' intuizione di lui potrebbe uscirne la potenza volitiva, la quale ha sempre per termine un assenso dato o negato all' ordine dell' essere stesso. Or questo assenso ha piú gradi: lo spirito può aderire all' ordine dell' essere con piú o meno di attività e d' intensione, con un atto solo di assenso o con atti replicati. Questo aumento di attività nel detto assenso non è inchiuso naturalmente nell' intuizione, ed è per questo che si distingue l' intuizione della convenienza fra un predicato e un soggetto, e l' assenso dato a questa convenienza. Una proposizione ha tre parti che si sogliono chiamare da' logici il subietto, il predicato e la copula. La copula si può sempre ridurre ad una espressione sola, cioè al verbo è , il quale può supplire a qualunque verbo. Infatti chi dice questa proposizione: « l' uomo muore »non ha fatto che rendere piú breve quest' altra: « l' uomo è mortale », riducendo la copula e il predicato in una sola parola, che esprime effettivamente due concetti in uno. Se dunque si considerano le proposizioni in questa loro forma semplice e primitiva, vedesi che ciò che si dice in ogni proposizione si è che il subietto è ciò che esprime il predicato. Si fa dunque una specie di equazione fra il subietto e il predicato. La forma poi della copula è non esprime solamente tale equazione in se stessa, ma esprime l' assenso di chi forma il giudizio, perocché è è una parola pronunciata da chi giudica e significa in parole il suo giudizio. L' assenso poi ossia il giudizio è vero se vi ha l' identità pronunziata fra il subietto e il predicato, ed è falso se non vi ha. L' identità dunque del subietto col predicato è la verità oggettiva della proposizione; l' assenso dato a questa verità oggettiva è la verità soggettiva, o per dir meglio la verità oggettiva partecipata, posseduta dal soggetto giudicante. Tale è la verità logica, che può essere considerata astrattamente in due modi: in se stessa, quasi nella sua possibilità, e nel soggetto intelligente che le assente. Ma quale è poi la verità ontologica? - E` a considerarsi che il subietto delle proposizioni logiche è supposto in esse, e che l' intento della proposizione non è altro se non di far conoscere che al detto subietto spetta il tale e tale predicato. Rimane dunque a determinare questo subietto, rimane a vedere se egli esiste, o qual modo e grado di esistenza egli si abbia. Il subietto delle proposizioni logiche viene sempre presentato in esse sotto la forma di un ente, ma non sempre è tale, potendo nascondersi sotto quella forma di ente ciò che non è ente, o ciò che non è ente compiuto, o insomma ciò che ha un modo di esistere anziché un altro. Malgrado di tutto ciò la logica verità della proposizione può rimaner intatta; perocché quella verità non consiste che nella copula, cioè nella identità parziale fra il subietto ed il predicato, e quindi non dipende dalla natura del subietto. Questa verità logica che consiste nella convenienza di un predicato con un subietto, e non in altro, non solo non inganna perché è verità, ma è all' uomo preziosissima sicura regola della sua vita prammatica e morale. Ma posciaché l' uomo in tutti questi giudizi pensa il subietto sotto la forma di ente, egli è manifesto che questo pensiero è tanto piú vero, quanto il detto subietto ha piú dell' ente; e questa si è quella verità che diciamo ontologica. Or la verità ontologica non si può ella ridurre alla verità logica, non si può tradurla in un giudizio, in una proposizione? Questa questione si riduce a quest' altra: quando pensiamo un subietto, lo pensiamo noi sempre e necessariamente mediante un giudizio? Ora, noi adesso cerchiamo se nel pensiero stesso di un ente si contenga necessariamente un giudizio. Ora l' ente si pensa in piú modi. E primieramente colla semplice intuizione si pensa l' essere in universale, la quale non racchiude giudizio alcuno, giacché il giudizio suppone innanzi a sé l' esistenza di chi giudica, e però è sempre un atto secondo, laddove l' intuizione è l' atto primo pel quale esiste il principio intelligente, è l' inesistenza d' un principio reale nell' idea come in suo termine, e quindi è la costituzione del soggetto atto a intendere e portare giudizio. Di poi l' ente si pensa colla percezione intellettiva. Questa è un atto del principio che intuisce l' idea, al quale essendo dato il sentimento, lo apprende necessariamente nell' idea in cui egli inesiste, e però lo apprende come ente in quanto nel sentimento gli è dato il principio senziente, ed insieme apprende anche tutto ciò che è richiesto dall' ordine dell' essere intuíto, benché non sia compreso nel sentimento come la realità pura straniera. Noi abbiam trattata la questione: se questa percezione sia un giudizio, e abbiamo detto che avanti ch' ella si formi non esistono i due termini del giudizio, cioè il soggetto e il predicato distinti fra loro; ma che dopo compiuta la percezione si può per via d' analisi risolverla in un giudizio «( Sistema Filosofico , 43 7 50) ». Questa espressione dunque: « egli esiste », esprime l' analisi della percezione dopo che è già fatta, non la percezione nell' atto del farsi, perocché egli, il sentimento, prima che aggiungiamo la parola esiste, essendoci del tutto incognito non è atto a fare da subietto del giudizio. Se dunque attentamente si considera la proposizione: « questo sentimento è un ente », ovvero piú in generale: « il tale oggetto è un ente », manifestamente si scorge che già la prima parola della proposizione: « questo sentimento », ovvero « il tal oggetto contiene l' ente », significa un ente perché significa un oggetto cognito, e quindi la seconda parte della proposizione: « è un ente », non è altro che una ripetizione di ciò che fu già detto nella prima parola; se non che la prima parola esprimente il subietto dinotava l' ente unito individualmente colla sua determinazione come è in natura, quando la seconda parte della proposizione pone l' ente come fosse un elemento separato, il che è un puro arbitrio della mente, che ha virtù di astrarre e dividere ciò che è indiviso ed anche indivisibile. Scorgesi da tutto ciò: 1) Che la verità ontologica consiste nell' ente, e che ciò che si pensa ha piú di verità ontologica quanto piú ha di ente, e ha meno di verità ontologica quanto meno ha di ente, e che l' aver piú o meno di ente è un fatto al tutto indipendente dai nostri giudizŒ e dalle nostre proposizioni, dal nostro assenso o dissenso. 2) Che questa verità ontologica non può essere espressa direttamente in un giudizio o in una proposizione, ma viene pensata immediatamente nel pensiero dell' ente; e che allorquando si scioglie questo pensiero in una proposizione, questa non lo rende con esattezza. Perocché interviene un' operazione della mente che divide quello che è indivisibile, e mentre la verità ontologica sta tutta e compiutamente racchiusa nel semplice pensiero dell' ente, il quale ente pensato non somministra piú che un solo de' termini del giudizio, per esempio il subietto, la mente per via di analisi cerca di scioglierlo e spezzarlo ne' due termini del subietto e del predicato; e per far ciò ella è costretta a replicar due volte la stessa cosa, giacché non può pronunciare il solo subietto senz' avere espresso tutto il pensiero dell' ente a cui spetta la verità ontologica, mentr' ella pur vuole estenderla e diffonderla nella copula e nel predicato, che non le aggiungono se non una inesatta ed impropria superfluità. Ogni intelligenza ha per sua legge fondamentale il principio di cognizione che dice: « il termine del pensiero è l' ente ». In oltre ogni intelligenza ha quest' altra legge « di poter pensare tutto ciò che sente », perocché ogni sensibile è contenuto nella sfera dell' essere come il meno nel piú. Finalmente l' intelligenza umana ha una terza legge, ed è: « dopo aver pensato l' ente, poter limitare la sua speciale attenzione in modo che ella non abbracci tutto l' ente, ma solo un elemento, o una relazione ». Queste sono le tre leggi piú generali del pensare umano. In virtú della prima legge, la mente umana non può pensare che l' ente (perché questo costituisce l' essenza d' ogni pensiero); ma per la seconda e terza legge, ella pensa anche il sensibile e l' astratto . Come dunque si conciliano queste tre leggi? Non sembrano esse in contraddizione? Perocché mentre la prima dice che l' intelligenza, ogni intelligenza, non può pensare che l' ente, le altre due dicono che l' intelligenza umana, può pensare anche quello che non è ente, come il sensibile e l' astratto : perocché l' ente essendo per essenza uno, semplicissimo, indivisibile, se gli manca qualche cosa non è piú ente, e però quello che è parte di lui o elemento di lui, non è lui. Questa conciliazione si fa con una quarta legge dello spirito umano, la quale si è, che « l' umana intelligenza suppone ente quello che vuol pensare, ancorché non sia ente »e con questa supposizione lo pensa. Né per questo il pensare umano necessariamente s' inganna. Perocché quantunque egli pensi gli elementi e le parti relative dell' ente come altrettanti enti, tuttavia l' intenzione del pensare non si ferma alla forma di ente aggiunta pel bisogno della concezione; ma termina in quei relativi e parziali, per intendere i quali s' indusse a vestirli da enti, e le sue azioni stesse riferisce a questi. Oltre di che può sempre colla riflessione tornare su cotesta sua fattura, e in essa discernere l' ente aggiunto e sceverarlo dall' elemento o parte relativa che per quell' aggiunta rese pensabile, e cosí istituisce una critica del proprio pensiero mediante un altro pensiero piú elevato e perfetto. Or la dottrina della verità ontologica viene ad essere questa critica appunto del pensare umano, in quanto egli pensa il non ente sotto la forma di ente. Perocché la verità ontologica è lo stesso ente come oggetto del pensiero, e non come mezzo del pensiero. Onde procedono queste due proposizioni: 1) Che il termine del pensiero ha piú di verità ontologica piú che egli ha di ente non mutuato dalla mente, ma in proprio. 2) Che medesimamente il pensiero ha piú di verità ontologica piú che il suo termine ha di propria entità, e non aggiuntagli dalla mente per necessità di concepirla. La verità ontologica adunque è l' ente per essenza. Ma questa maniera assoluta di definire la verità ontologica uguagliandola, o anzi identificandola all' ente, non dimostra aver relazione con una mente, poiché egli pare che l' ente considerato in se stesso e per assoluto a niuna mente si riferisca. La quale obbiezione cade da se stessa, purché si osservi che la ragione, per la quale il concetto assoluto dell' ente non involge quello di una mente in cui inesista, altra non è se non la stessa imperfezione del pensar nostro. Ma una riflessione piú profonda ci fa conoscere che ogni ente da noi concepito, di cui possiam favellare, è necessariamente oggetto, e che il concetto di oggetto suppone sempre quello di soggetto intelligente, e però qualunque ente di cui si parla involge una relazione intrinseca ed essenziale con una mente. Ma se l' ente di cui lice pensare e favellare è necessariamente oggetto, e se l' oggetto è relativo ad una mente, questa relazione non determina per sé sola a qual mente egli sia relativo. E primieramente apparisce ad evidenza, che egli non ha alcuna necessità di essere relativo alla mente umana, o ad altra mente qualsivoglia finita e contingente; perocché potendo tutte queste menti non essere, ne verrebbe che anche l' essere potesse non essere, il che è un assurdo manifesto. Se dunque si considera che l' ente essenziale è un oggetto necessario, forz' è conchiudere ch' egli abbia una relazione necessaria con una mente necessaria, nella quale per sua propria natura inesista ed essa in lui secondo i diversi rispetti di sciente e di scito. E poiché l' essere essenziale come oggetto inesiste per propria essenza in una mente necessaria, perciò questa mente lo dee conoscere e penetrare in tutto il suo ordine intrinseco, e quindi dee conoscere in lui se stessa, giacché nel suo ordine la contiene e racchiude. Onde se le menti finite non vedono nell' ente oggetto se stesse, e però loro sembra che l' ente oggetto abbia un modo di esistere suo proprio fuori di qualunque mente, la mente infinita all' incontro vede nell' ente oggetto se stessa, e in se stessa vede l' ente oggetto; ond' ella conosce immediatamente che l' ente oggetto esiste per sé, e questo esistere per sé è un esistere nella mente infinita che pure esiste in lui per sé. Quando adunque si dice che la verità ontologica è l' ente per essenza, allora non si piglia già l' ente in quanto è fuori della mente, come apparisce al nostro intuito; ma si piglia l' ente in quanto noi con un ragionamento ontologico trascendente veniamo a conoscere che è per essenza nella mente divina, onde la verità è cognita per la sua propria essenza, e quando i metafisici distinguono il vero non cognito , e il vero cognito , la distinzione non è assoluta, ma soltanto relativa alla mente umana o altra mente finita (1). Indi nella mente divina la verità è conosciuta per sua essenza, onde l' essere oggetto e l' essere conosciuto nella mente divina è il medesimo. Di che la mente divina non solo conosce, ma ha sempre conosciuto l' ente pienamente in tutto l' ordine suo, e niuna cosa che non sia ente è da lei conosciuta come ente, nel qual caso ci avrebbe deficienza di verità ontologica in quella mente, il che è impossibile. La mente umana all' opposto non fa che partecipare di questa verità ontologica con certa misura e contingenza. Diciamo che la mente umana partecipa di questa verità ontologica che risiede nella mente divina come in sua propria naturale sede. Perocché ella intuisce l' ente come oggetto, e questo oggetto lo riceve, non procede da lei, è anteriore a lei. E` ben da riflettersi che l' oggetto veduto dalla mente umana è oggetto per sé, e non in virtú della mente umana che è posteriore a lui, e che dicesi mente soltanto perché intuisce l' oggetto. Diciamo ancora, che la mente umana partecipa della verità ontologica con misura e contingenza. E in quanto alla contingenza, ella è manifesta, poiché la stessa mente umana è contingente. In quanto poi alla misura, ella si scorge in tutte quelle limitazioni del pensare umano che abbiamo a lungo e in varŒ luoghi descritte, le quali si possono ridurre a due, che per la loro generalità abbracciano tutte l' altre sotto di sé, e queste sono: 1) Il non estendersi l' intuito dell' umana mente se non all' essere iniziale, e il resto dell' ente contenersi soltanto virtualmente in quell' ente virtuale, che le è dato a vedere attualmente. 2) Il dover ella percepire o pensare come ente quelle cose che non sono enti, ma sono appartenenze dell' ente; ond' è che tali percezioni e pensieri hanno qualche cosa di ontologicamente falso, il che però non pregiudica alla logica verità de' giudizŒ e delle proposizioni. Dalle quali cose tutte possiamo conchiudere che si può ragionare della verità ontologica in due maniere: o considerandola in se stessa qual' è nella mente divina, o considerandola qual' è partecipata dalla mente umana. Gioverà altresí a chiarire il concetto di verità ontologica definirla in altre parole, dicendo ch' ella è l' identità dell' ente reale coll' ideale. Poco innanzi noi dicevamo che la verità ontologica è l' ente per essenza. Ora l' essenza dell' ente si manifesta nell' essere ideale. L' ente reale adunque quanto piú prende di quell' essenza che nell' ideale si mostra, tanto ha piú di verità ontologica. E quanto egli partecipa del concetto, della ragione, ossia dell' idea dell' ente, tanto egli s' identifica con essa. Quindi quanto è maggiore l' identificazione del reale coll' ideale dell' ente, tanto maggiore è la verità ontologica di cui parliamo. Se questo discorso si fa dell' essere puro, allora parlasi di una verità ontologica assoluta. Ma se si parla di enti limitati, l' identificazione del reale col loro concetto determinato e specifico dà luogo ad una verità ontologica relativa. Ogni maniera di verità suppone sempre una relazione fra due termini, l' uno dei quali può dirsi tipo , e l' altro ectipo . Il concetto di tipo e di ectipo non rappresenta già forme secondarie; perocché il tipo e l' ectipo appartengono allo stesso essere per essenza, sono forme primitive le quali costituiscono una parte di quell' ordine pel quale egli è organato. L' essere come tipo è l' essere nella sua forma ideale, l' essere poi come ectipo è l' essere nella sua forma reale; è sempre una sola essenza, un solo e medesimo essere sotto due forme per le quali è in sé ordinato. Ora qui si può domandare « se i vocaboli di verità e di vero debbano applicarsi al tipo, o all' ectipo, o alla relazione fra loro ». Noi abbiamo detto piú sopra, che una relazione si scioglie in due abitudini . E veramente anche i due termini nominati, il tipo e l' ectipo, hanno un' abitudine l' uno rispetto all' altro; il tipo ha un' abitudine in verso all' ectipo, e l' ectipo ha un' abitudine in verso al tipo, nelle quali due abitudini si scioglie la loro relazione , non rimanendo altro, che sia quasi nel mezzo, fuori di quelle rispettive abitudini. Ciò posto, diciamo che la parola verità esprime l' abitudine del tipo in verso all' ectipo; e che all' incontro la parola vero esprime l' abitudine che ha l' ectipo in verso al suo tipo. Se noi applichiamo questa proposizione al primo tipo e al primo ectipo, a quello che è per essenza tipo, e a quello che è per essenza ectipo, cioè all' ideale e al reale , noi ne avremo che l' idea dell' essere è la verità, e che i reali sono veri in quanto adempiono in sé ciò che quell' idea manifesta, e cosí in quanto sono ectipi di lei. Ora è da avvertire che una cosa qualsiasi dicesi vera in quanto partecipa, adempie, esprime la sua verità ; e però acconciamente di ogni cosa vera si dice che ha la sua verità; il che non toglie che il vocabolo verità non significhi il tipo. Illustriamo tutto ciò percorrendo le principali maniere di veri e di verità rispettive, seguendo l' uso del parlar comune, e in ciascuna distinguiamo il tipo e l' ectipo. 1) Verità ontologica assoluta . - In questa il tipo è l' idea (Verità), e l' ectipo è il reale in quanto adempie in sé l' essere che s' intuisce nell' idea (Vero). 2) Verità ontologica relativa . - Il tipo è il concetto (Verità), e l' ectipo è il reale finito in quanto adempie in sé quell' essere limitato che s' intuisce nel concetto (vero). 3) Verità logica . - Il tipo è la convenienza del predicato col subietto (verità), e l' ectipo è l' assenso dato a quella convenienza, sia soltanto internamente coll' animo (vero logico), sia anche espresso colle parole (vero dialettico). 4) Verità morale . - Il tipo è la legge (verità), l' ectipo è l' azione che adempie la legge (vero). 5) Verità artistica . - Il tipo è la natura, o l' archetipo ideale della natura, o un capolavoro che si piglia a ricopiare (verità), ectipo è l' opera dell' artista, che ritrae tali esemplari (vero). A questa maniera di verità si può ridurre altresí la verità di traduzione d' una in altra favella, dove lo scritto originale è il tipo (verità), la traduzione è l' ectipo (vero). 6) Verità significativa . - Il tipo è la cosa segnata (verità), l' ectipo è il segno (vero). Ma se la verità ontologica è la forma ideale dell' ente, che cosa sarà il vero primitivo ed originale? Egli sarà l' ente stesso considerato nella sua relazione di ectipo all' ideale. Ora l' ectipo primitivo e originale dell' ente si porge essenzialmente in due forme diverse, e sono le altre due forme categoriche dell' ente medesimo, il reale e il morale: quindi egli è essenziale all' ente di esser vero in quanto è realità, e di esser vero in quanto è moralità, come gli è essenziale di essere verità in quanto è idea ossia manifesto. L' essere è conosciuto per sé ed amato per sé: queste sono due condizioni essenziali all' essere, le quali si trovano racchiuse nel suo stesso concetto, quand' egli si arricchisca dalla mente colla realità, e di lui cosí arricchito si mediti l' ordine intrinseco. Quindi è che l' essere è ontologicamente vero, e vero sotto due forme; vero in quanto è conosciuto; vero in quanto è amato. Questa doppia identificazione dell' essere come ectipo coll' essere come tipo è l' intrinseco ordine dell' essere assoluto o assolutamente considerato. L' essere assolutamente considerato è l' essere considerato come puro essere, non aggiungendovi altro. Questa maniera di considerare l' essere può aver luogo in un modo limitato o illimitato. Si considera l' essere assolutamente, ma in modo limitato quando si esclude qualche cosa. Ma si può considerar l' ente assolutamente senza esclusione alcuna, ed è allora che nello stesso concetto dell' ente si trova essere lui per sé inteso e per sé amato. Il che se ci vien dato dal concetto dell' ente, necessariamente si deve trovar ciò nell' ente assoluto, come quello che compie e adegua tutto quel concetto. Veniamo all' ente relativo. L' ente relativo è quello che non è ente per sé: non è ente per sé quello che non si può pensare in sé e per sé e senza ricorrere ad altra cosa che non è lui. Ora niun ente finito non può essere pensato in sé e per sé, cioè assolutamente, senza ricorrere all' essere ideale che è un diverso da lui (1). Dunque egli per se stesso non è ente, e quindi per se stesso non è ontologicamente vero. Questa è una limitazione ontologica degli enti finiti: che non siano veri enti per sé, non avendo per sé e in sé la verità che li renda per sé manifesti. Sí fatta limitazione si riduce a questo, che non hanno per sé la forma ideale, sicché l' essere di questa è diverso dall' esser loro. Ma l' ente è anche nella forma reale: anche sotto questa forma vi è tutto l' ente: quell' ente dunque che non è per sé vero, mancandogli la forma ideale, non potrebbe essere ente tuttavia compiuto nella sola forma reale? No, poiché quantunque sotto la forma reale possa essere e sia tutto l' ente, tuttavia questo non ha luogo se non a condizione che l' ente reale inesista nell' ideale, o per dir meglio, che l' ente reale sia per sé manifesto perocché il reale non è tutto l' ente se non è per sé manifesto e quindi vero, mancandogli in tal caso l' atto del conoscere che è reale, e quello dell' amare che è pur reale, i quali atti reali non potrebbe avere per sé, se egli non fosse per sé inteso e per sé amato. Onde l' ente non può esser tutto sotto la forma reale, se ad un tempo non sia anche tutto e identico sotto la forma ideale e morale. L' ente reale adunque che non è vero per sé conviene necessariamente che sia un reale finito, e per dir meglio, non ente: egli adunque non è ontologicamente vero, ma diviene vero soltanto per partecipazione, quando lo si unisce a quell' ente che è vero per sé. Dopo ciò che fu detto, non è piú difficile intendere la sentenza de' Padri della Chiesa, i quali asseriscono, che le cose finite a Dio paragonate non sono, sono nulla (1): non sono, perché non sono per sé enti. Nello stesso tempo però sono, se si considera che partecipano dell' ente che in sé e per sé non hanno. Onde S. Agostino acutamente scrisse, le cose inferiori a Dio « nec omnino esse, nec omnino non esse ». E prosegue: [...OMISSIS...] . Cioè tu sei per te stesso, e le creature non sono per se stesse. Ora allo stesso modo che le cose finite non sono e sono, cosí pure non hanno verità ontologica per sé, ma ne partecipano. Il gran vescovo d' Ippona pone questa sentenza: « Id vere est, quod incommutabiliter manet (3) ». Qui egli parla della verità ontologica, e non l' attribuisce che a Dio, perché egli solo è ente reale per sé, il che vuol dire, come abbiamo spiegato, è per sé reale nell' ideale, perocché solamente essendo per sé nell' ideale è per sé ente, vero ente, e però non ente per accidente, sempre ente « incommutabiliter manet ». Dice ancora quell' altissimo ingegno, che le cose sono per altro quando inesistono in un altro, cioè in quello che è in sé e per sé ente, e cosí noi abbiam veduto che i reali finiti allora acquistano il concetto dell' essere, quando si contemplano inesistenti nell' essere ideale, quindi nell' essere per sé manifesto, che si riduce a Dio (4), a cui il santo Dottore cosí sublimemente favella: [...OMISSIS...] . Dove vien espressa quella inesistenza di cui parlammo, per la quale egualmente, ma sotto un diverso rispetto, si può dire, che i reali sono nell' essere e che l' essere è ne' reali. In che dunque sta la falsità delle cose? Perocché altro è non essere vere, altro è essere false. La verità ontologica non ha falsità in contrario, perocché consistendo ella nell' ente, questo è o non è, ma non è mai falso. Convien dunque osservare che non si può parlare d' una falsità ontologica, la quale non esiste; ma soltanto d' una falsità logica, o se si vuole, psicologica, cioè relativa alla percezione e alla concezione dell' uomo, non di una falsità delle cose in sé. La falsità adunque non cade nelle cose, ma nell' uomo quando le piglia per enti in se stessi, laddove non sono tali, il che pure insegna S. Agostino con questa sentenza: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già altrove descritti gli errori che prende il pensare imperfetto e comune degli uomini: questi costituiscono la falsità psicologica , che noi cosí chiamiamo per indicare che la è data dalla limitazione della natura conoscitiva dell' uomo, a cui non reca danno piú che non glielo rechi la sua propria limitazione, sia perché non lo impedisce dal conoscere la verità, di cui egli abbisogna, sia perché egli può purgarsi di quella maniera di falsità che si mescola nelle prime sue operazioni, coll' uso di quella verità pura ed assoluta di cui egli partecipa. Questa maniera di falsità psicologica è piuttosto una persuasione istintiva, che un ragionamento, e però non è un giudizio analizzato; non si può dire una falsità logica, perché la logica sta propriamente nel ragionamento, ossia nel sillogismo al quale si appoggiano le proposizioni. Si dà dunque verità, e non già falsità ontologica: ciò che non è vero ontologicamente, non è per questo ontologicamente falso; ma il non vero ontologicamente occasiona nell' intelligenza finita il falso psicologico. Cosí i reali finiti non sono veri per se stessi, perché non sono enti per se stessi: or l' intelligenza finita li percepisce come enti senza piú; onde facilmente la riflessione attribuisce poi loro l' essenza di ente in proprio, e cosí cade nel falso. Ma qui nasce una difficoltà. - Noi abbiamo detto che tutto l' essere è manifesto per sé; che nell' essere ideale si contiene tutto virtualmente; e che questa virtualità non può essere che relativa a noi intelligenze finite, ma suppone che nell' essere ideale, il quale è diverso da noi, tutto sia conosciuto attualmente, il che trae la necessità d' un essere assoluto, nel quale tutto sia conosciuto per se stesso, perciò anch' esse le cose finite e contingenti. Ma se le cose finite e contingenti sono conosciute per se stesse, in tal caso non sono piú finite e contingenti. Questa gravissima difficoltà rimane sciolta nella mente di colui che abbia chiaro il concetto dell' esistenza relativa di cui abbiam favellato. Questa relatività, è inchiusa nella limitazione ontologica. Una tale relatività di esistenza non cade nell' essere assoluto, benché l' essere assoluto ne abbia la cognizione, e cosí l' esistenza relativa, costituente le cose finite, sia tale anche rispetto alla mente divina. Ma appunto perché nell' essere assoluto non cade la stessa relatività e limitazione ontologica, perciò si dice giustamente che la relatività e la limitazione ontologica costituente le cose finite è fuori di Dio, fuori dell' essere assoluto; e in questo senso le cose costituite sono fuori di Dio, da lui essenzialmente diverse, il qual vero annienta il panteismo. Si dirà: se l' essenza ideale delle cose finite è in Dio ed è diversa dall' esistenza reale delle cose, in tal caso ben si vede come le cose finite non sieno conosciute per se stesse, quindi non sieno per sé enti, e ancora si vede come Iddio conosca per sé l' essenza ideale delle cose: ma l' essenza ideale delle cose non fa conoscere che la loro possibilità, e non la loro sussistenza. Come adunque in Dio ossia nell' essere assoluto è ella cognita la sussistenza delle cose finite? Convien qui ricorrere all' azione ontologica anteriore, di cui abbiamo parlato innanzi. Le cose finite incominciano ad esistere per un' azione ontologica che precede la loro esistenza, e che non costituisce la loro esistenza relativa: cotest' azione è l' atto di Dio creante, e quest' atto è in Dio, ed è Dio, e però è noto per se stesso come tutto ciò che è essere assoluto. Tra quest' atto, e i reali finiti non v' ha nulla di mezzo; ma posto quest' atto, i reali finiti sono in quel modo, tempo e misura che determina quell' atto. Ora questo modo, tempo e misura è determinato dall' essenza ideale delle cose e dalla perfetta sapienza del creatore. Dunque l' essere assoluto essendo conscio del proprio atto creante, che è per sé noto perché è lui stesso, ed essendo conscio dell' atto della propria sapienza che lo determina, è conscio altresí della sussistenza relativa delle cose, la cui essenza ideale gli è pure nota per sé. Cosí egli conosce le cose finite aventi un' esistenza relativa in sé medesimo come in causa, dov' esse hanno la loro radice anteriore e la forza d' esistere relativamente, che è lo stesso atto creante. Quello che impedisce d' intendere che la cosa è cosí, è il non conoscersi abbastanza la dottrina della limitazione. Non si suol badare ad altra maniera di limitazione eccetto quella del piú e del meno: quella che determina i gradi accidentali che si osservano nella qualità delle cose. La limitazione qui è accidentale. Il soggetto rimane identico, rimane identico anche il suo termine essenziale, il termine non è che limitato negli accidenti. Ma la limitazione ontologica è totalmente d' altra natura. Perocché ella limita ciò che costituisce l' ente. Ma la costituzione dell' ente risulta da due parti, perocché l' ente è costituito come ente , e l' ente è costituito come ente specifico : la mente distingue ciò per cui un ente è costituito come ente, da ciò per cui un ente è costituito come ente specifico. L' ente specifico è costituito da un principio e da un termine, il qual termine è la sua forma sostanziale. Se si cangia questa forma sostanziale, è cangiato l' ente specifico. La forma sostanziale non è ente, ma soltanto una parte costitutiva dell' ente; ella perciò si concepisce dalla mente come un subietto dialettico. Quando si considerano i suoi cangiamenti e le sue limitazioni, allora questo subietto dialettico non è altro che un concetto generico, cioè il concetto del termine in genere, il concetto della forma sostanziale in genere. Certe limitazioni adunque cangiano l' ente specifico, perché limitano la sua forma sostanziale, e quindi cangiano il principio dell' ente che è il subietto reale, il quale è individuato dal suo termine sostanziale. Questa è la prima maniera di limitazione ontologica, la quale determina la specie degli enti. Veniamo ora a considerare ciò per cui un ente è costituito come ente, il che ci fa conoscere la seconda maniera di limitazione ontologica. Questa non cangia soltanto la specie, ma cangia a dirittura l' essere. L' essere è uno e semplicissimo. Quindi accade che se si concepisce l' essere in qualunque modo limitato in se stesso, non gli può piú convenire la parola essere nel significato puro e semplice, nel quale prima gli si attribuiva. Quando si parla in questo modo dell' essere, allora si parla assolutamente di lui, anzi si parla di lui come assoluto essere. Quindi l' assoluto essere non può ricevere alcuna limitazione. Tuttavia non ripugna la limitazione che non è assoluta, ma soltanto relativa; perocché questa non affetta né limita l' essere nel senso assoluto. Ma se si dà il caso di una limitazione relativa, in tal caso questa limitazione relativa, totalmente straniera all' essere assoluto, non potrà appartenere che ad un essere relativo, il quale non è essere nel senso puro e semplice della parola. Quindi una tale limitazione non solo cangia la specie dell' essere, ma cangia l' essere stesso. Laonde l' essere relativo è lo stesso essere che l' essere limitato, ma questo essere limitato appunto perché è limitato non è piú l' assoluto; né vi ha nulla di comune fra l' uno e l' altro, perocché nell' essere limitato l' essere assoluto, che è il suo contrario, è semplicemente tolto via per l' opposizione delle nozioni, giacché l' assoluto come assoluto non piú s' intende, tosto che vi si apponga una limitazione. Il supporre dunque che fra l' essere assoluto e il relativo vi abbia qualche cosa di comune è intrinsecamente assurdo. Dunque molto meno vi può avere un subietto reale comune. Questo subietto è puramente immaginato dalla mente, è l' essere ideale e iniziale, il quale dalla mente si considera per ugual modo, sia qual subietto sia qual predicato, onde accade che egli si predichi di Dio e delle creature. Ma ciò non toglie che quando si predica delle creature si attribuisca loro un' esistenza soltanto relativa. Perocché questo essere ideale non appartiene in proprio alla creatura, che soltanto lo riceve ad imprestito dalla mente; ma sí appartiene all' assoluto, è un' appartenenza di questo, è una forma primitiva in cui l' essere è. Tolto via adunque dalle creature questo subietto ideale che loro non appartiene, esse non sono piú enti: tolto via da esse per astrazione , esse non presentano altro concetto che di non enti, in via ad essere, rudimenti di enti, entità e non enti, ed entità relative; tolto poi via da esse assolutamente, non per mera astrazione, ma per vera negazione , le creature non danno piú altro concetto che quello di meri assurdi. Le creature dunque non possono essere concepite come enti se non congiungendole colla loro essenza ideale ed eterna, il che fa la mente concependole, e per questo anco si dice che sono enti per partecipazione . Di che procede che i finiti sono veri enti per partecipazione del vero ente , e questa è quella verità ontologica, che loro solo conviene. Ma in quanto i finiti sono in Dio, non hanno essi alcun' altra verità ontologica? Noi abbiamo distinto un triplice modo del loro inesistere in Dio: il modo causale, il modo eminente, e il modo tipico. Iddio contiene i reali finiti in modo causale, come la causa efficiente contiene l' effetto, non come ogni causa efficiente, ma in quel modo proprio in cui li contiene la causa creante. Or questa causa non ha nulla affatto di comune coll' effetto che prima al tutto non esisteva. Quando adunque si dice: « i finiti reali inesistono nella causa creante »s' intende dire unicamente, che in quella causa esiste quella forza che non è dessi, ma che è il loro sostegno trascendente, ed ultra sostanziale. Qui dunque non ha luogo la questione della verità ontologica de' finiti reali in Dio; perché i finiti reali nella loro causa altro non sono che la loro causa, e la verità di questa non è la verità loro, ma la verità ontologica di Dio stesso. Si dice poi che i finiti sono in Dio in un modo eminente, per significare che tutti i pregi delle creature sono in Dio come il meno è nel piú, senza divisione, senza limitazione di sorte alcuna, ben anco senza distinzione, perciò fusi quasi direbbesi nell' infinito. Ma se i pregi che sono nelle creature non hanno piú divisione, sono forse ancora quei dessi di prima? No certamente. Ora quando si dice che i pregi delle creature, e tutto ciò che hanno di positivo, esiste in Dio in un modo eminente, s' intende che que' pregi positivi esistono in Dio senza separazione, senza limitazione e senza distinzione. Ora in questo stato que' pregi non sono piú que' pregi, non è piú nulla di ciò che trovasi nelle creature, ma è tutt' altra cosa, piú eccellente certamente, piú grande, anzi cosa infinita; ma finalmente non sappiamo che cosa sia, sappiamo solo che è Dio stesso. Chi dicesse diversamente, chi dicesse per esempio, che esistono in Dio propriamente i pregi delle creature con qualche giunta, questi professerebbe il panteismo, quella specie di esso che si potrebbe denominare teosincretismo. Finalmente le cose finite inesistono in Dio come nel loro esemplare; o, in altro modo, in Dio esistono le essenze eterne delle cose, non le cose stesse reali, il cui essere è relativo. Ora gli esemplari che stanno nella mente divina determinati dall' atto della creazione sono la stessa verità ontologica delle cose finite. Queste adunque hanno in Dio e non in se stesse la loro verità ontologica. Non si può dunque dire che i reali finiti sieno in Dio ontologicamente veri, ossia veri enti; ma si dee dire che in Dio hanno la loro verità ontologica, e che sono veri in se stessi in quanto partecipano della loro verità che è in Dio: la quale partecipazione nasce per opera della mente che li concepisce, cioè unisce i reali relativi ai loro esemplari, alle loro eterne essenze o ragioni, in una parola vede congiunto il reale finito coll' infinito ideale. Uno dei piú importanti, e nello stesso tempo dei piú difficili concetti della scienza ontologica, si è quello della relatività degli enti finiti. Ove lo studio di tale scienza sia pervenuto ad intenderlo con tutta chiarezza e pienezza, egli ha già nelle sue mani la chiave dell' ontologia intiera. Laonde noi crediamo necessario rifarci sopra questo concetto e perscrutarlo a parte a parte. Il nostro discorso deve riguardare l' ente relativo compiuto, perocché gli enti relativi incompiuti si riducono sempre a quello come parti al tutto: ciò adunque che si può dire della relatività di questi è un' appartenenza, un corollario della relatività di quello. Ora, prima di tutto qui è uopo rammentare che noi già dimostrammo due essere le condizioni dell' ente relativo compiuto: 1) che egli sia un soggetto; 2) ch' egli sia un soggetto intelligente. Dobbiamo dunque chiarire come sia vera questa tesi: il soggetto finito intelligente è un ente relativo. Piú sopra abbiamo supposto la possibilità di un' intelligenza che altro non sia che un' intuizione dell' essere ideale. Convien dunque dimandare se ciò che abbiam supposto per ragion di metodo possa essere veramente. Se possa darsi un ente relativo, che altro non sia che una pura intuizione dell' ideale, di maniera che la stessa intuizione sia anche il principio, il soggetto, l' atto primo dell' ente. Se quest' ente è possibile, non potrebbe avere atti secondi senza cangiarsi in un altro, né potrebbe avere altro sentimento che quello dell' intuizione stessa che sarebbe il suo unico atto. Ma qual è il sentimento della intuizione? A me non vien dato di concepirlo: perocché l' intuizione altro non sente, per quanto mi pare, che l' essere ideale suo termine, e questo essere ideale sentito non è altro che la luce dell' essere ideale posto in atto, perocché l' essere ideale non sarebbe ideale, non sarebbe luce se attualmente non lucesse, se non fosse per sé sentita ossia manifesta. Ora la pura luce dell' essere ideale sentita manifesta non si può distinguere dallo stesso essere ideale qualora non vi sia un altro principio da lei diverso che la sente. Ma questo principio non esiste se egli non ha alcun sentimento proprio distinto da quello che, come dicevamo, è essenziale allo stesso essere ideale. Dunque non può esistere un ente finito che non sia altro che intuizione pura dell' essere ideale, giacché un tal ente non avrebbe nulla che lo distinguesse dall' essere ideale medesimo. Acciocché dunque esista un soggetto finito intelligente, egli è uopo ch' egli si abbia oltre l' intuizione dell' essere ideale un sentimento proprio che lo distingua dall' essere ideale medesimo, e a lui lo contrapponga. Un tal essere sente adunque per necessità di sua natura due cose. Egli sente l' essere ideale termine della sua intuizione; e in quanto lo sente, l' essere ideale relativamente a lui è, è luce a lui: questo lui poi è l' altra cosa che egli sente: per dir meglio è il sentimento proprio. Or noi abbiam veduto, che dato un sentimento proprio il quale abbia l' intuizione dell' essere ideale, inesiste a se stesso nell' essere ideale, di modo che si sente oggettivamente e quindi si sente come ente. Questa è la ragione per la quale, fra gli enti relativi, quello che è intelligente si dice ente compiuto; perocché un tale finito reale ha dalla sua propria natura l' inesistere nell' ente e sentire questa sua inesistenza. Egli non è l' ente, ma si sente nell' ente per la sua propria natura; è il sentimento della sua propria esistenza oggettiva , senza la quale non si dà ente, perocché l' ente è per sé oggetto. Ma l' oggetto in cui si sente, l' essere ideale, non è lui stesso; dunque la sua esistenza oggettiva è partecipata: egli è ente per partecipazione . Ora, se il soggetto finito intelligente è ente per partecipazione, conseguentemente non è ente assoluto, ma relativo . Perocché egli è ente per la relazione che ha coll' ente, o viceversa per la relazione che l' ente ha con esso lui. Alla dottrina esposta circa la relatività degli enti finiti taluno trarrà un' obbiezione, da quelle sacre parole: « facciamo l' uomo a nostra imagine e somiglianza ». Come dunque sta scritto che l' uomo, ente relativo com' è, sia fatto ad imagine e somiglianza di Dio? E` da rammentarsi quello che hanno osservato i Padri della Chiesa, che la sacra lettera vigilantemente dice, che l' uomo fu fatto ad imagine e similitudine di Dio, e non dice che l' uomo sia l' imagine o la similitudine di Dio, e né tampoco che sia simile a Dio. Perocché, che cosa è la similitudine? La similitudine, altro non è che l' idea tipo delle cose: le cose sono simili fra loro quando si conoscono con un' idea comune: quest' idea dunque è quella che forma la loro similitudine (1). La similitudine dunque di tutte le cose, quella che rende simili fra loro tutte le cose in quanto sono enti, è l' essere ideale, il quale si riduce a Dio come una sua appartenenza. L' essere ideale e l' essere oggetto è per sé. Ora la mente inesistendo in lui partecipa dell' esistenza oggettiva. Dunque la mente è fatta alla similitudine di Dio, cioè a quella similitudine, a quell' ideale che è in Dio e che essendo in Dio è Dio. All' incontro la mente non è già questa similitudine, perché, come vedemmo, questa similitudine che è l' essere ideale è oggetto, e come tale, non soggetto, ed è eterno ed infinito; e la mente creata è un soggetto contingente e finito (2). Vi hanno adunque due proposizioni che sembrano contraddittorie e non sono: L' intelligente creato è a similitudine di Dio. Niuna cosa creata ha con Dio similitudine di sorta alcuna. La prima è vera perché l' intelligente creato partecipa dell' esistenza oggettiva dell' idea, che è per sé esemplare, o similitudine, e non si può staccare da quest' idea senza che ne perisca il concetto. La seconda è vera quando si considera l' ente creato solamente per quello che ha di suo proprio, che altro non è se non la relatività, di maniera che non ha di suo proprio nemmeno l' esser ente, dicendosi ente soltanto per la relazione che ha coll' ente, per la quale relazione l' ente s' unisce con lui. Cosí considerato il reale finito ha quella relazione con Dio, che ha il non ente coll' ente, nella quale di questo secondo si nega tutto ciò che si afferma del primo e viceversa, di maniera che neppur resta l' analogia. Ma quando lo si fa partecipare all' ente, o per l' ordine stabilito dalla creazione come accade nei reali intelligenti, ovvero per la concezione della mente, allora il creato partecipante l' ente acquista un' analogia con questo, lo imita in qualche modo, e il reale completo, ossia intelligente, con tutta proprietà si dice fatto alla similitudine dell' ente. Abbiamo detto che i reali relativi sono, come tale, termini esterni della creazione. E veramente il relativo non è fuori del relativo, e però non è nell' assoluto, il che sarebbe contraddizione: dunque il relativo non può essere un termine interno dell' atto creativo, perché se fosse tale sarebbe Dio, giacché l' atto creativo è Dio, e Dio è l' essere assoluto che esclude da sé il relativo. Ciò posto, il concetto di un tal ente è bensí eterno e però deve essere in Dio, ma la realizzazione di questo concetto dell' ente relativo non è altramente in Dio. Vi hanno dunque in Dio dei concetti senza che vi abbia la corrispondente realizzazione de' concetti puri, e questa è la ragione per la quale l' ideale apparisce separato dal reale: egli è separato in quanto rappresenta il reale finito, in quanto è l' esemplare del mondo, e come tale è separato anche in Dio dal reale che è fuori di Dio. Ora questo esemplare del mondo è l' oggetto della sapienza umana, come diremo in appresso, e però l' idea di cui l' uomo per natura è fornito è pura idea separata dalla realità. Or dunque il complesso di questi concetti si può chiamare e fu chiamata prima d' ora la sapienza creatrice (1). Non si deve già credere che questi concetti in Dio sieno realmente distinti l' uno dall' altro; ma tutti insieme costituiscono una sola sapienza creatrice e, come dicevamo, l' esemplare del mondo. E come in Dio debba essere l' esemplare sostantifico del mondo vedesi anche da questo, che l' essere è per la sua essenza manifesto, giacché l' esser manifesto è una delle tre forme primitive in cui l' essere è. Ora, se è manifesto, è manifesto tutto e non una parte. Avendosi dunque mostrato che il mondo esiste per via di creazione, cioè per una azione ontologica anteriore a lui, e però eterna, che s' identifica coll' essere stesso, forz' è che anche quest' azione sia per se stessa, per l' essenza sua, manifesta. Ma quest' azione è quella che pone gli enti relativi componenti il mondo. Or ella non sarebbe manifesta se non fosse manifesto il suo termine, il suo prodotto; dunque anche questo, cioè il mondo, è in Dio manifesto, e questo mondo manifesto è l' essenza ideale del mondo, l' esemplare sostantifico del mondo. Il quale esemplare manifesto per se stesso non può distinguersi realmente dal Verbo, se pel Verbo intendiamo l' essere, tutto l' essere per sé manifesto, appunto perché anche l' esemplare del mondo è per sé manifesto. Ma il mondo reale, l' ectipo di tale esemplare è realmente distinto e separato da Dio. Ora il mondo si riduce a un complesso di reali intelligenti, che sono gli enti finiti completi, e di altri incompleti, relativi a quei primi. Qual' è dunque la sapienza che convenga al mondo acciocché sia ente completo, cioè intellettivo? L' ente finito completo, noi abbiamo detto, si compone di due elementi, del suo elemento ideale e del reale, del tipo e dell' ectipo, dell' essenza e della realizzazione, della verità e del vero. Infatti, se vi ha il solo reale non è ancora ente completo, mancando l' essenza dell' ente; la sintesi di queste due cose, del reale colla sua essenza, completa l' ente. Dunque la sintesi del mondo e dell' esemplare del mondo fa sí che il mondo sia un ente finito completo. Ma questa sintesi si fa nella mente ed è la mente. Convien adunque che nel mondo vi sia una mente o piú menti, dove si scorga fatta o si faccia questa sintesi. Dunque era necessario che nel mondo vi avessero delle menti acciocché egli fosse completo, e la sapienza propria di queste menti doveva avere per oggetto l' esemplare del mondo. Nulla di piú si richiedeva acciocché il creato ottenesse la sua naturale perfezione di ente. Ma l' esemplare del mondo in Dio è ancor piú che esemplare del mondo, perché è ad un tempo il Verbo divino, cioè non è il solo mondo manifesto, ma è tutto l' ente manifesto. L' ente manifesto eccede adunque quella sapienza che è consentanea alla natura delle menti finite componenti il mondo. Di qui si vede chiaramente la distinzione e la separazione fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale delle intelligenze finite. La qual dottrina conviene da noi divisarsi con piú alte considerazioni. Noi abbiamo parlato del mondo in quanto è intellettivo in generale. Questo mondo intellettivo risulta da piú intelligenze. Restringendoci noi a considerare l' uomo, egli non ha tutta la sua perfezione attuale nel primo momento in cui esiste; ma piuttosto trovasi da principio costituito come una potenza che si sviluppa gradatamente, e che sviluppandosi convenevolmente attinge la sua perfezione attuale (1). Ma poiché egli da principio è una potenza reale, quindi come non ha la perfezione attuale, cosí neppure può attualmente conoscerla, ma solo potenzialmente. Di che avviene che nel primo momento della sua esistenza non gli sia dato ad intuire l' esemplare del mondo, ma gli sia dato l' esemplare del mondo in potenza. Or questo esemplare del mondo in potenza è l' idea dell' essere indeterminato costituente, come abbiam veduto, la forma oggettiva della ragione umana. Ma l' idea dell' essere indeterminato ammette due sviluppi, l' uno naturale e l' altro soprannaturale. Il naturale è quello che abbiam detto procedere a mano a mano collo stesso sviluppo naturale dell' uomo, dimodoché in lui si va ognor piú disegnando e manifestando all' uomo il mondo. Il soprannaturale è l' opera di Dio solo, il quale fa sentire all' uomo come l' essere ideale si attui in modo da rendere Dio manifesto, manifestandosi cosí l' identificazione dell' esemplare del mondo col Verbo divino. Se dunque noi pigliamo tutti i concetti, i concetti dico immediati, cavati dalla percezione intellettiva di ogni sentimento proprio; se prendiamo dico tali concetti di tutti gli enti finiti intelligenti, che furono, sono e saranno, e tutti insieme li componiamo e ordiniamo nell' ordine, di cui il loro complesso è suscettibile; noi ci avremo in tal modo composto l' eterno disegno di Dio, l' eterno esemplare del mondo. Di che si scorge che l' eterno esemplare di Dio esprime il mondo nella sua relatività, nella quale solo esiste, e però non fa già conoscere qualche cosa di assoluto, ma di relativo, quale è unicamente l' esistenza, o l' entità degli enti creati. Di che si può e si dee dire, che la verità ontologica degli enti finiti è anch' essa una verità relativa a questi, e non assoluta, altro con ciò non significandosi se non che quell' esemplare non fa conoscere già come è l' ente assoluto, ma come l' ente apparisce relativamente agli stessi reali finiti, e aventi una relativa esistenza. Né da questo si può già dedurre, che dunque quella verità ontologica per essere relativa abbia qualche cosa di falso in se stessa. Abbiamo già veduto, che la verità ontologica, non ammette falsità ontologica a lei opposta. Oltracciò abbiamo distinta la verità ontologica dalla verità logica . Questa seconda, che procede dall' essere ideale, e consiste nell' assenso dell' animo ad una proposizione, è sempre assoluta ed incondizionata, e se non è tale non è verità, ma falsità logica. Ora la verità ontologica relativa non induce necessariamente alcuna logica falsità. Falsità logica sarebbe se noi pigliassimo la verità ontologica relativa per verità ontologica assoluta, cioè se noi asserissimo, che l' esemplare del mondo fa conoscere l' essere assoluto, siccome i panteisti fanno; ma fin a tanto che il nostro sentire si risolve nella proposizione, che « il detto esemplare del mondo fa conoscere l' ente relativo », noi sentiamo il vero, e la proposizione è di una verità logica assoluta. Ora questo appunto è quello che si avvera in Dio, il quale sa che l' esemplare del mondo esprime l' ente relativo ch' egli crea con quell' esemplare. Vero assoluto non è che l' ente assoluto, perché risponde alla verità dell' ente, è l' identità del reale coll' ideale. All' incontro oggettivo è ogni vero, anche il relativo, benché il vero ossia l' ente relativo non sia vero ente per se stesso, ma perché nella mente sintesizza col vero ente, cioè coll' ideale. In questa maniera i reali finiti, divenuti oggetti, si posson dire veri oggettivi, ma ad un tempo relativi, veri oggettivi per partecipazione della verità. Riassumiamo ora le diverse maniere di verità ontologica, di cui abbiamo qua e colà fatto menzione. I primi due generi adunque di verità ontologica sono quelli dell' assoluta e della relativa . Ma la verità ontologica relativa, di cui l' uomo va partecipe, ammette poi varie specie. E le due prime sono quella degli esseri reali, e quella degli esseri mentali. Gli esseri reali si suddividono ancora in due classi, gli uni hanno un solo grado di relatività, gli altri ne hanno due, cioè sono relativi de' relativi. I primi hanno un' esistenza soggettiva, sono soggetti, sono i principŒ senzienti7intellettivi individuati; i secondi hanno un' esistenza soltanto oggettiva, sono i termini de' primi; tali sono quelli, a ragion d' esempio, che si percepiscono come esseri bruti, i corpi, e la materia. Atteso dunque questi due gradi di relatività che hanno gli esseri finiti, si dee dire che il pensar nostro, la nostra immaginazione intellettiva ha piú di verità ontologica quando pensa come ente un soggetto, un principio individuato, che quando pensa come ente un corpo bruto, a cui non si può attribuire alcuna vera e sua propria soggettività, ed ancor meno poi quando pensa come ente un astratto, di che parleremo in appresso. E qui giova distinguere un' astrazione naturale , diversa da quella che l' uomo suol fare ad arbitrio, e alla qual sola si è riserbato sin qui il nome di astrazione, benché le due operazioni non differiscano sostanzialmente, almeno in quanto al risultato. La differenza fra questa specie d' astrazione naturale che fa la mente, e quell' astrazione che chiamammo arbitraria, e che la mente s' accorge piú facilmente di fare appunto perché suol farla scientemente, si è questa. Ogni astrazione si fa sopra un pensiero complesso che precede «( Psicologia , vol. II, n. 1313 sgg.) ». Ma nell' astrazione comune e arbitraria il pensare complesso suol essere quello di un ente attualmente concepito, o almeno per addietro, dalla mente; laddove .asterisco . nell' .asterisco . astrazione naturale, che noi facciamo in percependo i sensibili esterni, il pensare complesso è soltanto quello dell' ente virtuale, perocché noi applichiamo quest' ente virtuale ai reali sensibili senza curarci punto di esaminare quale elemento manchi a tali reali sensibili acciocché sieno enti completi, bastandoci di aggiunger loro questo elemento virtualmente, cioè lasciando questo elemento immerso nella virtualità dell' ente ideale che loro aggiungiamo. E qui, temendo piú l' ambiguità del discorso, che non l' accusa, che ci possa esser data, di prolissità, stimiamo opportuno di chiamare l' attenzione del lettore a distinguere viemmeglio la limitazione ontologica dalla limitazione virtuale . La limitazione ontologica, come abbiamo detto tante volte, è quella a cui soggiace il reale, laddove la limitazione virtuale è quella a cui soggiace l' ideale. Il reale si riduce al sentimento. Quindi la limitazione ontologica non è che la limitazione del sentimento sostanziale. La limitazione virtuale all' incontro nasce dall' essere nella sua forma ideale. L' essere ideale abbraccia sempre ogni cosa, manifesta ogni cosa, ma egli non manifesta all' uomo ogni cosa attualmente , ma virtualmente . Quindi la limitazione virtuale dell' essere ideale non moltiplica lui stesso in piú enti, perocché egli rimane sempre il medesimo essere manifestante ogni cosa, benché non manifesti all' uomo ogni cosa nello stesso grado e modo: onde ella non si dice ontologica, perocché ella non moltiplica l' ente; laddove la limitazione del sentimento sostanziale si dice ontologica, perché moltiplica gli enti, giacché ogni sentimento limitato è un ente diverso ed esclusivo di un altro sentimento. E che il principio della moltiplicazione degli enti non affetti lo stesso essere ideale si vede da questo, che un tal principio è la realità sussistente . Ora questa non cade mai nel puro ideale ossia non diviene mai ideale, onde tutto ciò che è ideale è un comune, o certo una specie, l' ente relativo possibile, non la sua sussistenza. Che se non fosse cosí, si confonderebbero le due forme dell' essere, l' ideale, e la reale, le quali sono inconfusibili ed incomunicabili. Tuttavia si dirà, che quantunque l' ideale non si confonda mai col reale, pure i concetti pieni sono ideali e sono molti, e se non fossero distinti, il creatore non avrebbe potuto creare su di essi gli enti finiti. Della quale istanza la risposta può derivarsi dalla dottrina esposta poco innanzi circa l' astrazione. Non si potrebbe pensare un astratto, se virtualmente non si pensasse l' ente, di cui quell' astratto è, comecchessia, un elemento. Applicando questa dottrina a Dio, noi diciamo che tutti i reali finiti possibili si contengono virtualmente nell' essere assoluto in quanto è ideale, ossia manifesto. E il contenersi virtualmente non è imperfezione di lui, ma degli enti finiti che non hanno da se stessi alcuna realità. Ora tutti i finiti, fino a tanto che sono virtualmente contenuti nell' ideale, non formano che un ideale solo e semplicissimo, perché sono privi di tutte le loro distinzioni. Quando adunque Iddio ne trae alcuni dalla loro virtualità all' attuale esistenza per l' atto creativo, allora essi escono distinti mediante la loro realizzazione. Questo trarli dalla virtualità all' attuale esistenza, secondo la frase di San Paolo, è un « ex invisibilibus visibilia fieri (1) ». Quest' attualità de' reali contingenti e relativi è fuori di Dio, ma essi all' ideale divino in quanto è loro esemplare sostantifico sono congiunti, per l' atto divino. Cosí i concetti sono distinti, distinti per una relazione estrinseca, la quale non moltiplica punto né l' atto del pensare divino, né l' ideale che acquista tali relazioni come subietto dialettico, quando il vero subietto di esse sono le intelligenze finite, che nell' ideale altro non possono conoscere che se stesse. Possiamo ora esaminare qual verità ontologica possieda la realità pura, e il principio puro, che è quello che ci rimane, astrazion fatta dalla sua individuazione. Che cosa è dunque la realità pura? Facilmente si risponde, che il concetto di realità altro non presenta se non una delle forme originarie dell' essere. Quindi questo concetto non ci presenta attualmente un ente, ma soltanto essa forma originaria dell' ente, e l' ente rimane nel pensiero virtuale. La realità pura adunque si pensa con un pensiero che astrae dall' ente. Ma qui si deve osservare, che l' astrazione porge al pensiero umano un doppio risultato; perocché ella o diminuisce o accresce l' oggetto del pensiero: sotto un aspetto lo diminuisce, e sotto un altro lo accresce ed arricchisce. Diminuisce l' oggetto del pensiero allorquando l' astrazione lascia da parte ossia sottrae all' attenzione attuale qualche cosa che è positivo nell' ente; lo accresce ed arricchisce, quando ella lascia da parte qualche cosa che è negativo nell' ente, come sarebbe la limitazione e la relatività. Il che spiega l' apparente contraddizione che occorre nelle dispute filosofiche, nelle quali talora si parla di un astratto come di cosa nobilissima, altissima, ricchissima; talora se ne parla come di cosa assai povera e gretta. A ragion d' esempio, si dice che l' essere è ciò che v' ha di piú nobile e di piú perfetto; ed altre volte si dice che l' essere è il minimo grado di perfezione che possano avere le cose. E` vero l' uno e l' altro. L' essere per la sua potenzialità infinita è il piú grande e nobile oggetto del pensiero. Ma se si considera la sua attualità, egli non ne ha altra che quella della realità (perché parliamo sempre dell' essere reale), e quindi egli fa conoscere una attualità poverissima, la piú povera di tutte, giacché alla realità che fa conoscere non si può aggiungere cosa alcuna, ché allora la si attuerebbe maggiormente, e quindi non si penserebbe piú l' essere reale puro, contro all' ipotesi. E` altresí da considerare, che quanto piú la mente fa rientrare l' essere nella sua potenzialità, togliendogli d' attorno coll' astrazione le attuazioni limitate; tanto piú egli rimane puro essere (1). Ora l' essere assoluto è puro essere, e quindi questo che è l' essere attualissimo , e quello che è l' essere potenzialissimo , convengono in ciò, che sono entrambi puro essere. Di qui è che l' essere si predica di Dio e delle creature in senso univoco. E` vero che Iddio è l' essere assoluto, e che i reali finiti sono puramente esseri relativi; ma il concetto puro dell' essere che chiamammo potenzialissimo prescinde dalla stessa relatività, e in somma prescinde da tutte le limitazioni, e quindi da tutte le qualità limitate degli enti finiti; poiché solo in questo modo rimane innanzi al pensiero il puro essere. Che se noi estendiamo questo discorso e procuriamo di determinare tutto ciò che può appartenere all' essere puro, e quindi tutto ciò che può predicarsi univocamente tanto di Dio quanto delle creature, noi rinverremo che i concetti astrattissimi dotati di questa prerogativa sono quattro né piú né meno, cioè il concetto dell' essere e i concetti delle sue tre forme, perocché in ciascuna delle tre forme vi ha l' essere puro e scevro di ogni altra differenza. Quindi anche la realità pura, cioè tale a cui la mente non aggiunge altro che realità, come altresí la idealità pura, e la moralità pura, sono astratti coi quali pensiamo tal cosa che conviene ugualmente a Dio e alle creature; perocché tali concetti non abbracciano punto il modo onde conviene a Dio ed alle creature, il quale è diverso, dacché questo diverso modo è messo da parte per opera dell' astrazione. E quindi noi siamo in istato di dichiarare che cosa si voglia dire quando si dice che al di là del sentito si riconosce dovervi avere una realità pura. Con questo non si decide se questa cosa al di là del sentito sia l' essere infinito o un essere finito, ma solo si dice che qualche cosa vi ha di reale, qualche cosa che a noi non è nota se non quanto all' elemento astrattissimo della realità. Siamo ancora in istato d' illustrare il concetto di principio puro. Noi abbiam distinto il concetto di principio puro dal concetto di principio individuato. Il principio individuato è l' ente attuale, sia egli finito o infinito; ma il principio puro è concetto astrattissimo, pel quale il pensiero si limita a considerare solamente un principio. Questo principio non è che l' essere reale potenzialissimo. Soltanto che egli esprime altresí la condizione di principio. Ma questa condizione è comune a tutti gli enti completi, che soli si possono dire semplicemente enti, perocché il concetto di principio racchiude le tre idee elementari dell' ente, quella di attività, di unità e di esser primo, giacché il principio è uno, primo, attivo. Quindi ciò che viene espresso colla parola principio appartiene all' essere reale, e non al fenomeno; e fino che si rimane cosí puro da ogni individuazione non rappresenta nessuna creatura, ma cosa anteriore alle creature, un elemento mentale dell' essere assoluto; al quale poi s' appoggia come a sua base la relatività delle creature. Fin qui abbiamo favellato della verità ontologica di cui partecipano gli enti reali finiti. Di poi abbiam cercato qual verità ontologica spetti a quelli ultimi astratti, coi quali non pensiamo attualmente se non un elemento proprio dell' ente per essenza, come sarebbe l' ente potenzialissimo, il principio puro, la realità, o la moralità pura ecc.. Ancora abbiam detto che l' ideale illimitato è la verità ontologica stessa. Abbiam detto del pari, che quando l' ente ideale viene limitato dalla sua relazione con un reale finito, con che egli prende natura di concetto specifico o generico, quest' ideale divenuto esemplare de' reali finiti è la verità ontologica relativa di questi. L' essere mentale fu da noi distinto dall' ideale. All' essere mentale appartiene l' assurdo, ed è di questo che vogliam qui domandare, s' egli abbia alcuna verità ontologica. Facile certamente è il rispondere di no, perocché egli non è ente. Ma nasce il dubbio: se non è ente, come dunque si concepisce? Perocché se egli non si concepisse in alcun modo, non si potrebbe dire tampoco ch' egli sia un assurdo: merita dunque la questione di essere accennata. A risolverla, noi neghiamo che veramente si concepisca l' assurdo, dimodoché sarebbe un' improprietà il dire che si concepisca. L' assurdo non è che un affermare e un negare lo stesso. Ora è impossibile all' uomo affermare e negare lo stesso contemporaneamente, perocché la negazione distruggendo l' affermazione, l' atto che unisce queste due cose sarebbe nullo, cioè farebbe un atto che si farebbe e non si farebbe nello stesso tempo, il che è impossibile. Dire che non si può fare quest' atto affermante negante è lo stesso che dichiarare l' assurdo una cosa inconcepibile, un non oggetto del pensiero, e però un non pensiero. Quando si dice che l' assurdo è inconcepibile allora egli sembra che già lo si concepisca, perocché sembra che non si possa negare ciò che non si concepisce. Ma questa è un' illusione come è un' illusione il credere che si concepisca il nulla, perché si dice che il nulla è il contrario dell' ente. La mente dà ad imprestito al nulla un' entità per potergliela poi ritorre e negare. Del pari la mente dà ad imprestito un' entità fittizia all' assurdo per poter dichiarare poi che egli non ha questa entità. Questa negazione che fa la mente è puramente una verità logica. All' opposto colui che affermasse concepibile l' assurdo pronuncierebbe una falsità logica. Ora l' uomo può certamente pronunziare una falsità logica, può dire quello che non è; ma non ne viene da questo, che perciò quanto egli dice abbia qualche verità ontologica. La falsità logica è relativa all' arbitrio dell' uomo, alla facoltà dell' errore: essendo questa volontaria, l' uomo può voler asserire che sia un ente quando non è; ma quest' atto di volontaria affermazione è impotente a fare che sia l' ente affermato che non è, e quindi non produce alcun vero ontologico. Quello adunque che l' uomo pensa intorno all' assurdo appartiene interamente al pensare soggettivo e non all' oggettivo, appartiene alla facoltà di affermare e non a quella d' intuire, e l' affermazione priva di ogni intuizione non ha e non produce alcun vero oggetto, è puramente un atto del soggetto che riman privo di verità. Fra le nozioni ontologiche piú difficili a dichiarare vi ha quella della potenza, di cui pure e la filosofia e il comune linguaggio fa un uso cotanto frequente. Giova adunque che vi ci fermiamo alquanto, poiché la solidità del sapere dipende soprattutto dall' avere ben penetrata la natura di tali nozioni comunissime. Continuandoci adunque a quello che abbiam detto nella Psicologia (1), prima di tutto osserviamo che la potenza suppone un soggetto a cui ella appartenga. Il soggetto è sempre un principio che almeno deve essere sensitivo, e che non è compiuto se non sia anco intellettivo. Questo soggetto o è individuato, ente completo, o non è individuato, ente incompleto, principio senza termine. Ma la mente umana pensa anco de' subietti dialettici che non sono soggetti, ma dalla mente stessa sono assunti per necessità di conoscere e di ragionare. Quindi si trae una prima classificazione delle potenze che appartengono a veri soggetti, cioè a principŒ, sieno individuati, ovvero solamente astratti; e potenze che appartengono a subietti dialettici. I soggetti o principŒ individuati sono gli enti completi: a questi soli convengono delle potenze reali, perocché essi sono reali. Se un ente fosse tale che non potesse subire alcun cangiamento, egli non avrebbe potenza, ma solamente atto. Le potenze adunque si riferiscono a cangiamenti possibili: secondo che sono questi cangiamenti, sono anche le potenze; queste si ripartono in classi come quelli. Ora i cangiamenti di cui è suscettivo un soggetto finito, dipendono dalle variazioni accidentali de' suoi termini, e però le potenze di un soggetto sono tante, quanti i suoi termini, e le specie di cangiamenti che posson subire. Ma il cangiamento che nasce nel soggetto in conseguenza delle modificazioni del suo termine, dà luogo solamente a potenze passive. Ora lo stesso soggetto, che è il principio, quando è individuato, ha un' attività propria che tiene proporzione alla sua passività. Quindi le facoltà attive che sorgono nel seno delle passive, fra le quali di tutte principali è la libera volontà. Queste potenze attive e passive si riferiscono tutte ad atti accidentali del soggetto: questi atti non cangiano il soggetto, egli rimane in tutti identico. Tali sono le potenze del principio individuato. Non esistono realmente che principŒ individuati. Ma poiché il principio individuato è molteplice, ha un ordine intrinseco, almeno ha una dualità, risultando da principio e da termine. Quindi la mente può collocare la sua attenzione nel solo principio o nel solo termine, considerando ciascuno di questi elementi come un ente, il che ella fa, lasciando l' altro immerso nella virtualità del pensare. Tali sono gli enti incompleti. Quando la mente concepisce un principio separato dal suo termine, allora ella lo pensa in potenza all' individuazione, cioè a ricevere il termine. Ma se la mente considera il principio senza il termine, e prescinde altresí da ogni relazione di lui col termine, in tal caso ciò che le rimane non è altro che il concetto di un qualche cosa, che non è piú neppure principio, perocché il principio involge sempre una relazione al termine. Quindi la mente può considerare il principio diviso dal termine in tre modi: 1) O per una astrazione che non abbandona intieramente l' individuo, come se noi pigliassimo a considerare il principio che è proprio d' un animale o dell' uomo. 2) O per una astrazione che abbandona l' individuo specifico e generico, onde ciò che pensa è un principio puro, e in tal caso è un elemento dell' ente reale. Il principio cosí concepito è in potenza a ricevere qualsivoglia termine. 3) O con una astrazione che abbandona anche ogni relazione con qualsivoglia termine. Qui vi ha la potenzialità di esser principio. Se ora noi vogliamo rilevare il valore di questi tre oggetti della mente, troveremo: 1) Che il concetto di principio specifico o generico porge quello di una potenzialità agli individui d' una specie o d' un genere. Questa potenzialità ha un' esistenza puramente relativa ai termini che individuano il principio, e però non ha nessuna assoluta esistenza. Quindi la mente cadrebbe in errore se giudicasse che un tal principio esistesse, o potesse esistere diviso dai suoi termini. 2) Che il concetto di principio puro, essendo un elemento dell' essere reale, si può riferire tanto all' essere assoluto, quanto all' essere relativo. Che in quanto all' essere assoluto egli è lo stesso essere assoluto, e perciò è realissimo. In quanto poi all' essere relativo altro non è che la stessa potenza creativa di Dio: è un principio anteriore ad ogni genere e specie; non entra in composizione coi reali finiti, perché è ad essi ontologicamente anteriore. 3) Che il concetto di ciò che rimane nella mente quando togliam via dalla nozione di principio ogni relazione ai termini, non può darci altro che l' essere puro che virtualmente si conteneva nel concetto di principio. Qui la potenzialità appartiene all' imperfezione del nostro pensare, e oggimai trattasi di un subietto dialettico, a cui una tal potenzialità si oppone.

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