Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL Santo

664532
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Perché il personaggio abbisognava di certo colore di fantasia poetica, di certa mobilità sentimentale e queste belle cose non si trovano in un prete italiano, secondo Carlino, a sgusciarne mille. Accadeva un giorno a questo prete di confessare un uomo di grande ingegno, combattuto da terribili dubbi circa la fede. A confessione finita il penitente se n'andava tranquillo e il confessore rimaneva scosso nelle credenze proprie. Qui doveva seguire un'analisi minuta e lunga dei successivi stati di coscienza di questo vecchio, che aspettava la morte di giorno in giorno con lo sgomento di uno scolare il quale attenda nell'anticamera della scuola il suo turno di esame e non si trovi più in testa niente. Egli capita a Bruges. Qui l'ostile interruttrice esclamò: "A Bruges? Perché?" "Perché io sono il suo Papa" rispose Carlino "e lo mando dove voglio. Perché a Bruges c'è un silenzio di anticamera dell' Eternità e quel carillon , che in fondo comincia a seccarmi, può anche passare per un richiamo di angeli. Finalmente perché a Bruges c'è una signorina brunetta, sottile, alta e che si può anche dire intelligente benché parli l'italiano male e non capisca la musica." Noemi porse le labbra e arricciò il naso. "Che sciocchezza!" diss'ella. Carlino proseguì dicendo che non sapeva ancora come, ma che insomma, in qualche modo, la brunetta sarebbe diventata penitente del vecchio prete. Noemi protestò ridendo: come mai? allora non era lei! Un'eretica? Confessarsi? Carlino si strinse nelle spalle. Dramma di follia più, dramma di follia meno, protestantesimo e cattolicismo erano la stessa cosa. Dunque il vecchio prete ritroverebbe la sua fede antica nel contatto di quella semplice e sicura di lei. Qui Carlino aperse una parentesi nel suo racconto per confessare che veramente non sapeva che qualità di fede avesse Noemi. Ella arrossì, rispose che aveva la fede protestante. Protestante, sì; ma semplice? Ma sicura? Noemi s'impazientì. "Insomma sono protestante" diss'ella "e Lei non si occupi della mia fede!" In fatto Noemi era molto ferma nella propria religione non per virtù di ragionamenti ma per affetto riverente alla memoria dei genitori; e in cuor suo non aveva approvato la conversione della sorella. Carlino tirò avanti. Una influenza mistica del sesso conduce il vecchio a ricercare un'armonia di anime con la fanciulla. "Che pasticcio!" fece Noemi con il solito atto delle labbra. E Carlino tirò imperterrito avanti. Il fine, il nuovo, lo squisito del suo libro era l'analisi appunto di questa recondita influenza del sesso sul vecchio prete e anche sulla fanciulla. "Carlino!" fece Jeanne. "Cosa ti viene in mente? Un vecchio di ottant'anni?" Carlino guardò in aria come per dire a qualche invisibile amico superiore: "Non capiscono niente!" Il suo desiderio era d'invecchiare ancora il prete e dargliene novanta degli anni, farne una specie di essere intermedio fra l'uomo e lo spirito, che avesse negli occhi le profondità nebulose delle cose eterne imminenti. E la signorina avrebbe nel sangue quella misteriosa inclinazione ai vecchi, non rarissima nel suo sesso, ch'è il vero stigma della nobiltà femminile, per il quale la donna si distingue dalla femmina. Carlino si sentiva in mente delle cose divine a dire su questo mistico senso che attrae la fanciulla di ventiquattro anni verso l'uomo di novanta, sacerdote, quasi già eternato, diafano, non però curvo né tremolo né infiacchito nella voce. Si vedono di questi vecchioni che lo spirito alto erige, invitti dal tempo. Ma come finirebbe poi tutto ciò? Né Noemi né Jeanne sapevano immaginarlo. Eh già, Carlino lo aveva ben detto fino dal principio, il fico e l'ape che non potevano né scendere né risalire. Se ne consolava però. Questa necessità di finire, in fondo, è un pregiudizio da droghiere. Cosa finisce mai al mondo? Va bene, dicevano le Signore, ma il libro deve pure avere una fine. Oh certo! L'ultima scena, di bellezza ineffabile, sarebbe una passeggiata notturna, al chiaro di luna, del prete e della giovine per le vie di Bruges, dove le loro anime si aprirebbero a confidenze quasi di amanti, a sogni quasi di profeti. I due si troverebbero a mezzanotte davanti alle acque addormentate del Lac d'amour , ascolterebbero immobili il suono mistico del carillon sotto le nuvole e avrebbero allora la rivelazione vaga di una sessualità delle loro anime, di un avvenire di amore nella stella Fomalhaut. "Perché mai proprio in Fomalhaut?" esclamò Noemi. "Lei è insopportabile!" rispose Carlino. "Perché è un nome delizioso, ha il suono di una parola indurita dal gelo tedesco ma piena di anima, che si scioglie nel sole di Oriente." "Dio mio, che chimica! A me piace Algol." "Lei e il Suo pastore andranno in Algol." Noemi rise, e Carlino si appellò a Jeanne. Quale stella preferiva? Jeanne non sapeva, non aveva fatto attenzione. Carlino ne fu irritatissimo, parve volerla rimproverare non tanto della sua distrazione quanto degli occulti pensieri che ne fossero in colpa, e, quasi temendo dir troppo, la mandò a meditare, a sognare, a scrivere la filosofia del fumo e delle nuvole. Ma poi quand'ella, niente malcontenta, se n'andava, la richiamò per domandarle se almeno avesse udito come il romanzo si sarebbe chiuso. Sì, questo lo aveva udito: con una passeggiata dell'eroina e dell'eroe per Bruges, al chiaro di luna. "bene" fece Carlino "siccome stasera c'è luna, io ho bisogno di passeggiare dalle dieci a mezzanotte con Noemi e te per prender note." "Debbo vestirmi da prete?" rispose Jeanne, uscendo. Noemi voleva seguirla ma la stessa Jeanne la pregò di rimanere. Rimase per dire a Carlino ch'egli era indegno di una simile sorella. Carlino andò a pescare nel portamusica un fascicolo di Bach brontolandole che lei non sapeva niente, non sapeva niente. Scaramucciarono alquanto e neppure Bach li poté pacificare subito; per un bel pezzo tennero duro, anche suonando, a insolentirsi, prima per Jeanne, poi per le note sbagliate. Finalmente il musicale rivo limpido che le loro collere rompevano come sassi spumeggianti, le soverchiò, corse via liscio, specchiando cielo e idilliache sponde. Jeanne si portò in camera l' Intruse , ma non la lesse più. Anche la sua camera guardava il Lac d'amour . Sedette presso la finestra contemplando di là da un ponte, di là da vette spoglie di alberi tondeggianti fra casa e casa, il fantasma piramidale di una torre altissima velata di nebbioline azzurrognole. Udiva discorrere pietosamente la vena limpida di Bach e pensava a don Giuseppe col malinconico senso di chi si allontana per sempre da una casa diletta, e vi torna con lo sguardo ogni momento, e ad una svolta del cammino ne vede sparire l'ultimo angolo, l'ultima finestra. La sua tristezza aveva una viva punta inquieta. Le avevano scritto che fra le carte del morto si era trovato un plico suggellato con questa soprascritta di suo pugno: "da consegnarsi per cura del mio esecutore testamentario nelle mani di Monsignor Vescovo" L'incarico era stato adempiuto e voci uscite dall'episcopio dicevano che fossero nel plico una lettera di don Giuseppe a Sua Eccellenza e una busta suggellata con la scritta di altra mano "Da aprirsi dopo la morte di Piero Maironi." Riferivano pure questo motto del Vescovo: "Speriamo che il signor Piero Maironi, d'ignota dimora, ricomparisca per farci sapere che è morto." Jeanne ignorava che Piero Maironi, prima della notte in cui era fuggito di casa senza lasciare traccia di sé, avesse consegnato a don Giuseppe il racconto scritto di una visione della propria Vita nel futuro e della propria morte, visione pure ignorata da lei, avuta da Piero nella chiesetta vicina al manicomio dove sua moglie stava morendo. Che mai poteva contenere la busta suggellata? Certo uno scritto suo; ma quale? Una confessione, probabilmente, delle sue colpe. Il concetto e la forma dell'atto rispondevano bene al suo misticismo innato, al predominio della sua fantasia sulla ragione, alla sua fisionomia intellettuale. Tre anni erano corsi dal giorno in cui Jeanne, disperata, a Vena di Fonte Alta, si era detto che non avrebbe più voluto amare Piero e che niente altro mai avrebbe potuto amare al mondo. Ancora lo amava così e ancora, come in passato, lo giudicava col suo intelletto indipendente dal cuore: indipendenza cara al suo orgoglio. Lo giudicava severamente in tutte le sue azioni, in tutto il suo contegno, dal momento in cui lo aveva conquistato di viva forza nel monastero di Praglia sino al momento in cui le loro labbra si erano congiunte presso la vasca dell' Acqua Barbarena. Egli si era mostrato incapace di amare, incapace di agire, irresoluto, femmineo nella mobilità dell'animo. Ecco, lo era stato fino all'ultimo, femmineo; femmineo, inetto ad esercitare alcuna critica virile sul suo isterismo mistico. Vi era forse in questo giudizio una sincerità imperfetta, un eccesso di acerbità voluto, un proposito vano di ribellione contro il prepotente, invincibile amore. Se si era fatto frate,Jeanne prevedeva che si sarebbe pentito. Era troppo sensuale. Passato un primo periodo di dolore e di fervore, la sensualità si sarebbe risvegliata, lo avrebbe ricondotto alla rivolta contro una fede radicata piuttosto nel sentimento e nelle abitudini dell'età prima che nell'intelletto. Ma si era veramente fatto frate? Jeanne pensò che la torre colossale di Notre Dame colla sua sottile punta saettata nel cielo, e le mura tristi del Béguinage , e il povero stagnante scuro Lac d'amour , e lo stesso silenzio solenne della città morta le significassero di sì, ma che sarebbe superstizioso di creder loro. "Dove andiamo?" chiese Jeanne, alle dieci, mettendo i guanti, mentre Carlino, dato a tenere a Noemi un capo della sua sciarpa sesquipedale ben tesa, se ne fermava l'altro all'occipite e rotava poi sul suo proprio asse come un fuso, sino al farsi il collo più grosso della testa. "E il prete di novant'anni ho proprio a esser io?" Carlino si arrabbiò perché Noemi rideva e non teneva tesa a dovere la sciarpa. "Tu o lei non importa" rispose, quando Noemi, fermatagli la sciarpa con uno spillo, licenziò il romanziere in fasce. "E andate dove volete! Purché adesso si vada verso il centro e si ritorni per l'altro lato del Lac d'amour . E parlate di qualche cosa che v'interessi molto." "Presente Lei?" fece Noemi. "Com'è possibile?" Carlino le spiegò che non si sarebbe accompagnato a loro, che le avrebbe seguite col taccuino e la matita alla mano. Bisognava però che sostassero di tratto in tratto a piacer suo, e che, s'egli significasse loro qualche altra sua volontà, obbedissero. "Va bene" disse Noemi. "Intanto andiamo al Quai du Rosaire a vedere i cigni." Si avviarono verso Notre Dame Carlino dietro le Signore, a venti passi. In principio fu un continuo battibecco, per le vie deserte, fra l'avanguardia e la retroguardia. L'avanguardia camminava troppo forte, e Carlino: "A novant'anni? A novant'anni?" oppure rideva, e Carlino: "Ma che fate? Ma che fate? Zitto!" oppure si fermava a guardare una Chiesa antica, le cuspidi, i pinnacoli strani al chiaro di luna, il cimitero accanto alla Chiesa e Carlino: "Ma parlate, discorrete, fate qualche gesto! Niente il naso all'aria!" Dall'avanguardia venivano le ribellioni; le più acerbe, da Noemi. Ella si voltò sul Dyver battendo i piedi e protestando di volersene ritornare a casa se il noiosissimo romanziere in fasce non la smetteva con i suoi comandi e rimbrotti. Allora Jeanne le sussurrò: "Parlami del tuo frate." "Ah, il frate, sì!" rispose Noemi e gridò a Carlino che l'avrebbero accontentato ma che stesse più lontano. Dal quai du Rosaire non si vedevano più i cigni che Noemi aveva scôrti la mattina pavoneggiarsi nel canale, turbandovi con le scie lente i languidi spettri di quell'accozzaglia di case e casucce che levano dall'acqua, come bestie satolle, le lunghe facce orecchiute, e guardano stupide, quale a un verso, quale a un altro, nella custodia dell'imminente torrione delle Halles . Ora la luna batteva di sghembo alle case, stampava sulle une l'ombra delle altre, e glorificava comignoli e pinnacoli, l'aguzzo cappello da mago caldeo di una vecchia torricciula, e sopra la intera scena il sublime diadema ottagonale della torre possente; ma non toccava l'acqua nera. Tuttavia Jeanne e Noemi, chine sulla sbarra del parapetto, guardarono a lungo,Noemi parlando sempre, nell'acqua nera; tanto a lungo che Carlino ebbe tempo di riempire tre o quattro pagine del suo taccuino e anche di disegnare i fregi onde un ambizioso mercante brugitano cinse sulla facciata della propria casa cifre dell'anno memorabile 1716, in cui fu veduta per la prima volta dal sole, dalla luna e dagli astri. Il frate era un benedettino del monastero di Santa Scolastica in Subiaco. Si chiamava don Clemente. Era un conoscente dei Selva. Giovanni lo aveva incontrato la prima volta per caso sul sentiero di Spello, presso certe rovine. Gli aveva chiesto della via, eran venuti a discorrere. Mostrava aver passato di poco i trent'anni, aveva modi e aspetto signorili. Il discorso era stato prima delle rovine, poi dei monasteri e della Regola, poi di religione. Dalla stessa voce del benedettino spirava come un aroma di santità. Si sentiva però in lui uno spirito avido del sapere e del pensiero moderno. Si erano lasciati col desiderio reciproco e la promessa di rivedersi. A Giovanni era stata benefica l'aura spirituale del giovine monaco illuminato nel viso da una bellezza interna; e il giovine monaco aveva sentito il fascino della cultura religiosa di Giovanni, degli orizzonti che la breve conversazione aveva pure aperti alla sua fede cupida di lume razionale. Giovanni aveva inteso parlare a Subiaco di un giovine di nascita nobile, venuto a vestir l'abito benedettino in Santa Scolastica per morte di una donna amata. Non dubitava che fosse lui. Ne aveva poi chiesto ad altri monaci senza poterne cavar niente. Ma si erano riveduti più volte e trattenuti lungamente insieme. Giovanni aveva prestato dei libri a don Clemente e don Clemente era venuto a casa Selva, aveva conosciuto Maria. Si era rivelato musicista, aveva suonato un "Salmo dell'aurora" composto da lui per organo e canto, dopo aver udito Selva paragonare il lento manifestarsi del sole, dal primo punto rutilante fra i vapori alla gloria trionfale del mezzogiorno, con il manifestarsi lento di Dio dal fumo lampeggiante intorno agli alti dirupi del Sinai fino alla gloria trionfale che ancora tutta non si è svolta nello spirito dell'uomo. Un'altra volta Giovanni gli aveva proposta certa questione già da lui dibattuta con Noemi: se le anime umane all'uscir di questa Vita sieno subito fatte conscie della loro sorte futura. La risposta di don Clemente era stata che dopo la morte ... A questo punto della narrazione di Noemi, Carlino domandò se dovesse piantare lì tre tabernacoli per passarvi la notte. Le Signore si rizzarono e si avviarono per la rue des Laines . "La risposta" riprese Noemi "era stata che probabilmente dopo la morte le anime umane si troveranno in uno stato e in un ambiente regolati da leggi naturali come in questa Vita; dove, come in questa Vita, l'avvenire potrà prevedersi per indizi, senza certezza." Un viandante, che avevano incontrato all'entrata della stretta via tenebrosa, tornò indietro e ripassando accanto alle Signore, le guardò fisso. Jeanne pretese di aver paura di quell'uomo, si fermò, chiamò Carlino, propose di ritornare a casa. La sua voce era veramente alterata ma Carlino non poteva credere che avesse paura. Paura di che? Non vedeva là davanti, a pochi passi, i lumi della Grande Place ? Egli conosceva, del resto, quell'uomo e lo avrebbe posto nel suo romanzo. Era il fratello di Edith dal collo di cigno, ora spirito delle tenebre, condannato a vagare la notte per le vie di Bruges, in pena di avere tentata la seduzione di Santa Gunhild, sorella di re Harold. Ogni volta che Carlino si era avventurato la notte per i quartieri più deserti di Bruges, aveva veduto aggirarvisi come a caso quell'uomo sinistro. "Bel modo" fece Noemi "di rassicurare la gente!" Carlino si strinse nelle spalle e dichiarò che l'incontro era stato fortunato perché gli aveva fatto venire in mente il nome di Gunhild per la sua eroina,Noemi essendo un nome da suocera. Nell'ombra nera delle Halles enormi, torreggianti da manca sulla via, l'uomo sinistro ritornato sui suoi passi sfiorò quasi il fianco di Jeanne che stavolta rabbrividì davvero. In quel mentre le innumerevoli campane suonarono fra le nubi sopra il suo capo. Ella strinse convulsivamente, senza parlare, il braccio di Noemi. Attraversarono la piazza in silenzio. Carlino le mise per una via a sinistra, pure deserta ma tutta chiara della luna imminente ai dentati culmini bruni delle case. Jeanne mormorò alla sua compagna: "Affrettiamo, ritorniamo a casa presto". Ma Carlino, udendo un suono di musica da ballo venire dall'Hôtel de Flandre ordinò loro di fermarsi e diede di piglio al taccuino. Noemi stava dicendo qualche cosa sull'Hôtel de Flandre dove aveva alloggiato anni prima, quando Jeanne le domandò di scatto: "È Maria che ti scrive una storia tanto lunga?" Noemi rispose, non sorpresa ma piuttosto trepidante: "Sì, Maria." "Non capisco," replicò Jeanne "perché si sia presa tutta questa briga." Noemi non rispose. Carlino diede l'ordine di rimettersi in cammino. S'incamminarono e Noemi non parlava. "Eh?" riprese Jeanne. "Perché si sarà presa tutta questa briga?" Noemi non parlò. Jeanne le scosse il braccio che teneva ancora. "Non rispondi? Cosa pensi?" Benché ambedue, ora, tacessero, non udirono Carlino che gridava di piegare a sinistra. Egli sopraggiunse arrabbiato, le spinse, tempestando, per le spalle, alla volta di un'altra via, ed esse ubbidirono senz'accorgersi mai di quelle voci né di quel modo. "Non rispondi?" ripeté Jeanne fra risentita e attonita. Noemi le strinse il braccio alla sua volta. "Aspettiamo di essere a casa" diss'ella. Carlino gridò: "Fermatevi sotto gli alberi!" Ma Jeanne si fermò subito, nell'affacciarsi a un improvviso largo, a piccoli alberi, a un gran fianco di cattedrale vetusta, battuto dalla luna. Si fermò e allungando il braccio che teneva sotto quello di Noemi, le afferrò la mano, le disse vibrando affannosamente: "Noemi, dimmelo subito; hai raccontato qualche cosa a tua sorella?" Carlino gridò che potevano fermarsi anche lì, ma che simulassero un discorso interessante. Noemi rispose all'amica un sì così debole, così timido, che Jeanne capì tutto. Maria Selva credeva che il suo frate, questo don Clemente, fosse Piero Maironi. "Oh, Signore!" esclamò stringendo forte forte la mano di Noemi. "Ma lo dice, lo dice, anche?" "Cosa?" "Eh, cosa!" Santo cielo, che ci voleva per farla parlar chiaro, questa creatura? Jeanne si sciolse da lei che subito, spaventata, le si riappiccò al braccio. "Brave!" gridò Carlino. "Ma non troppo!" "Perdonami!" supplicò Noemi. "È un dubbio, dopo tutto, è una congettura. Sì, lo dice." "No!" fece Jeanne, risoluta, scotendo via il dubbio e la congettura. "Non è lui, non è possibile. Non è mai stato musicista!" "No, no, non sarà lui, non sarà lui" si affrettò a dire a Noemi, sotto voce, perché veniva Carlino. Questi sopraggiunse, lodò, espresse il desiderio che si inoltrassero lentamente fra gli alberi. Sotto gli alberi Jeanne si dolse, quasi sdegnosamente, che l'amica avesse aspettato quel momento a farle un discorso simile, che non avesse parlato prima, in casa. E tornò a protestare che questo benedettino non poteva essere Maironi, che Maironi non era mai stato musicista. Noemi si giustificò. Aveva avuto in animo di parlare al ritorno dall' Ospitale di S. Giovanni, dalla visita ai Memling, ma Jeanne era già tanto triste! Però ne avrebbe parlato se non fosse venuto Carlino. E ora, a passeggio, interrogata, non aveva saputo schermirsi. Se, quando erano ferme presso l'Hôtel de Flandre,Jeanne non avesse ricondotto il discorso a quel tema, sarebbe stata cosa finita; e lei,Noemi, non ne avrebbe riparlato che a casa. "E tua sorella crede proprio...?" disse Jeanne. Ecco, Maria dubitava. Pareva che il persuaso fosse Giovanni. Giovanni era certo; almeno Maria scriveva così. A questa risposta di Noemi Jeanne scattò. Come poteva esser certo, suo cognato? Che ne sapeva? Maironi non era capace di metter giù un accordo, sul piano. Ecco la bella certezza!Noemi osservò sommessamente che in tre anni poteva avere imparato, che i frati hanno interesse a educare i musicisti per l'organo. "Allora lo credi anche tu?" esclamò Jeanne. Noemi balbettò un non so così incerto che Jeanne, agitatissima, dichiarò di voler partire subito per Subiaco, di voler sapere. C'era già l'intelligenza con Maria Selva di condurle sua sorella. Adesso penserebbe lei a persuadere Carlino di partire immediatamente. Noemi si mostrò spaventata. Suo cognato non avrebbe voluto che la Dessalle venisse più a Subiaco, tanto per la pace di lei quanto per la pace di don Clemente. Noemi aveva la missione di farle comprendere la convenienza di una tale rinuncia. Selva era guarito e offriva di venir lui a prendere la cognata; anche nel Belgio, se fosse necessario. Ella si trovò a combattere, intanto, l'idea di partire subito. Non fece che irritare Jeanne, la quale protestò e riprotestò che i Selva s'ingannavano; né seppe dare altra ragione del suo violento resistere. Carlino, udito un aspro "basta!" di sua sorella, accorse. Litigavano, il prete e la signorina? Adesso che dovevano cominciare le tenerezze mistiche? "Ci lasci in pace" rispose Noemi. " A quest'ora il Suo prete di novant'anni sarebbe morto dieci volte di stanchezza. Non ci dia più ordini. Guiderò io, che conosco Bruges meglio di Lei. E Lei stia cento passi indietro." Carlino non seppe replicare che "oh oh! - oh oh! - oh oh!" e la D' Arxel si portò via Jeanne avviandosi lungo la cancellata del piccolo cimitero di Saint-Sauveur . Le parve giunto il momento di metter fuori l'ultima rivelazione. "Credo che Giovanni abbia ragione, sai" diss'ella. "Questo don Clemente è di Brescia." Allora Jeanne, presa da un impeto di dolore, cinse con un braccio il collo dell'amica, ruppe in singhiozzi. Noemi, atterrita, la supplicò di chetarsi. "Per amor di Dio, Jeanne!" Questa le domandò, fra un singhiozzo soffocato e l'altro, se Carlino sapesse. Oh no, ma che direbbe adesso? "Qui non può vedere" singhiozzò Jeanne. Erano nell'ombra della Chiesa. Noemi ammirò che Jeanne, in preda a quell'emozione, se ne fosse accorta. "Per carità, non sappia niente! Per carità!" Noemi promise di non parlare. Jeanne si venne a poco a poco chetando e fu la prima a muoversi. Ah esser sola, esser sola nella sua camera! La vista della torre di Notre Dame saettante il cielo con la guglia affilata le fece male come la vista di un nemico vincitore e implacabile. Lo comprendeva bene adesso, si era illusa per tre anni di non avere più speranza. Come soffriva e si dibatteva la sua speranza creduta morta, come si ostinava a tempestarle nel cuore: no, no, non si è fatto frate, non è lui! Ella strinse con uno spasimo di desiderio il braccio di Noemi. Lo voce consolatrice si affievolì, venne meno. Probabilmente era lui, probabilmente tutto era proprio finito per sempre. Il silenzio della notte, la tristezza della luna, la tristezza delle vie morte, un'aria gelida che si era levata, consentivano con i pensieri amari. Oltrepassata di poco Notre Dame ecco ancora scivolare lungo il muro, dalla parte ombrosa della via, l'uomo sinistro. Noemi affrettò il passo, desiderosa ella pure di arrivare a casa. Quando Carlino si avvide che le Signore andavano diritte alla villetta invece di pigliare il ponte che conduce all'altra sponda del Lac d'amour , protestò. Come? E l'ultima scena? Avevano dimenticato? Noemi voleva ribellarsi, ma Jeanne, trepidante che Carlino venisse a scoprire qualche cosa, la pregò di cedere. "Sul ponte" gridò Carlino "fermatevi due minuti!" Si appoggiarono alla sbarra, guardando l'ovale specchio dell'acqua immobile. La luna si era nascosta dietro le nuvole. "Questa illunità è Divina per me" disse Carlino "Ma ora io darei metà della mia gloria futura perché nelle nuvole si aprisse una piccola finestra con una piccola stella nel mezzo, che si potesse veder nell'acqua. Voi non sapete immaginare come mi verrà quest'ultimo capitolo. Sentite. Sul quai du Rosaire voi guardavate i cigni." "Ma non c'erano" interruppe Noemi. "Non importa" riprese Carlino "voi guardavate i cigni illuminati dalla luna." "Ma la luna non batteva sull'acqua" fece ancora Noemi. "Ma che importa?" replicò Carlino, seccato. E siccome Noemi osservò che allora era inutile di trascinarle attorno per Bruges a quell'ora, egli paragonò poeticamente il suo studio preparatorio, le sue note quasi fotografiche, all'aglio che in cucina serve ma in tavola non si porta. E continuò a dire dei cigni e della luna. "Voi avete allora paragonato il candor vivente e il candor morto. Il vecchio prete viene fuori con questa squisita cosa che forse il candore vivo della giovinetta s'irradia ai suoi pensieri scolorati come i suoi capelli da un principio di morte e ch'egli si sente ora nell'anima un'alba di candore tepido. Mormora poi fra sé involontariamente: "Abisag". Allora la fanciulla dice: "Chi è Abisag?" perché è ignorante come voi due che non conoscete chi è Abisag, il mio primo amore. Il prete non risponde, si avvia con la ragazza per la rue des Laines . Ella domanda ancora chi sia Abisag e il vecchio tace. Ecco quell'ombra torva, nera, che va, che viene, che si dilegua al suono delle ventiquattro campane. "Non è esatto" mormorò Noemi. Carlino fu per dirle: stupida! "Il prete" proseguì "paragona quell'ombra nera a uno spirito maligno che va e viene intorno agli spiriti candidi, voi non capite il legame ma il legame c'è, avido di cacciarvisi a star dentro, lui con altri peggiori di lui. Poi, qui il legame non l'ho ancora trovato ma lo troverò, si viene a parlar dell'amore. Voi avete traversato la Grande Place Questa sera non c'era la musica, ma di solito c'è, e suppongo che allora vi si faccia molto all'amore cogli occhi come in tutto il mondo. Il vecchio torrione e il vecchio prete mostrano certa indulgenza; invece la giovinetta trova stupide queste forme dell'amore, le sdegna. È l'amore della terra, dice il prete. Ed ecco l'Hôtel de Flandre la musica del ballo di nozze. "Come?" esclamò Noemi "Era un ballo di nozze?" Carlino strinse, scrollò i pugni, soffiando dall'impazienza; e proseguì, dopo un sospiro: "La giovinetta domanda: vi è un amore del cielo? Allora io vi ho detto di fermarvi sotto gli alberi di Saint-Sauveur e voi vi siete invece fermate all'entrata della piazza. Fa niente, si vedeva la cattedrale, basta. Il prete risponde: sì, vi è un amore del cielo. La maestà della cattedrale antica, della notte, del silenzio, lo esalta. Egli parla. Io non posso dirvi adesso la sua tirata, l'ho in mente assai confusa, ma insomma il succo è questo che anche l'amore del cielo nasce sulla terra e che non vi matura mai. Il vecchio si lascerà andare quasi a delle confessioni. Confesserà col petto ansante, colla parola accesa, di aver sentito, non particolari inclinazioni a persone, né inclinazioni da doversene vergognare, ma un'aspirazione intellettuale e morale a congiungersi con una femminilità incorporea che fosse complemento dell'essere suo incorporeo, restandone però insieme tanto divisa da poter intercedere amore fra l'una e l'altro." "Misericordia!" mormorò Noemi. Carlino si era tanto riscaldato che non la udì. "Pare al vecchio" diss'egli "d'intravvedere in questa unione una trinità umana simile alla Trinità Divina e trova quindi giusto, trova Santo che l'uomo vi aspiri. Finalmente egli tace, tutto pieno, tutto fremente delle cose che ha dette; e s'incammina verso Notre Dame La fanciulla gli prende il braccio. Ecco l'uomo sinistro, lo spirito tentatore. Lo avete ben veduto! Dite se tutto questo non è ben trovato, non è combinato bene! Il vecchio e la fanciulla lo sfuggono, ma, come il cielo, anche il loro cuore si oscura. Adesso mi occorrerebbe un finestrino nelle nuvole, una stellina nel mezzo. Il vecchio e la fanciulla guarderebbero silenziosi la stellina tremolare nel Lac d'amour e tanti movimenti segreti dei loro pensieri metterebbero capo a quest'idea: forse, oltre le nuvole della Terra, là, in quel mondo lontano!" Jeanne non aveva mai detto parola né mostrato di fare attenzione al racconto di suo fratello. China sulla sbarra, guardava nell'acqua scura. A questo punto si rizzò impetuosamente. "Ma tu non lo credi!" esclamò. "Tu lo sai che sono illusioni, sogni! Tu non vorresti mai che io credessi così! Saresti capace di cacciarmi!" "No!" protestò Carlino. "Sì! E per fare della bella letteratura ti metti a fomentare anche tu questi sogni che snervano già tanto la gente, che sviano già tanto dalla Vita vera! Non mi piace niente! Un incredulo come te! Uno persuaso, come sono persuasa io, che noi siamo bolle di sapone, che si brilla un momento e poi si ritorna non nel niente ma nel Tutto!" "Io?" rispose Carlino, intontito. "Io non sono persuaso di niente. Io dubito. È il mio sistema, lo sai bene. Se adesso uno mi dicesse che la religione vera è quella dei Cafri o quella dei Pelli Rosse, direi: forse! Non le conosco! Io vedo la falsità di quelle che conosco e per questo non vorrei certo che tu diventassi cattolica sul serio. Cacciarti di casa, poi...!" "Intanto ci posso andare, prima di esserne cacciata?" Così dicendo, Jeanne prese il braccio di Noemi. Carlino pregò che facessero il giro del Lac d'amour . Chi sa, forse intanto si aprirebbe il finestrino nel cielo. Ci teneva. Noemi espresse il dubbio, ricordando la conversazione di poche ore prima, che alla finestra ci venisse proprio la signorina Fomalhaut. "Già" fece Carlino, pensieroso. "Non avevo più pensato a Fomalhaut. Se non sarà Fomalhaut adesso, sarà Fomalhaut allora." Ma Noemi non aveva finito con le sue difficoltà. Se alla finestra non ci venisse nessuna stella, né grande né piccola? A questo, Carlino trovò subito rimedio. La stella ci sarà. Potrà essere telescopica, perduta in una profondità immensa, ma ci sarà. La fanciulla non la vede; la vede il prete, con i suoi occhi di presbite decrepito. Dopo la vede anche la fanciulla, per fede." "E così quella povera fanciulla" disse Jeanne amaramente "sulla fede di un vecchio prete mezzo cieco vedrà delle stelle che non ci sono, perderà il suo buon senso, la sua giovinezza, la sua Vita, tutto. La farai bene seppellire lì al Béguinage , dopo?" E si avviò con Noemi senz'attendere la risposta. Fatto il giro del Lac d'amour , le due Signore si trattennero lungamente sull'altro ponte; ma nessun finestrino si aperse nel cielo. Il torrione lontano delle Halles, il campanile enorme di Notre Dame una tozza torre imminente allo stagno, gli acuti comignoli del Béguinage si disegnavano, venerabile concilio di alti vecchioni, sulle nubi lattee. Carlino, non potendo far di meglio, incominciò un ragionamento ad alta voce sul posto più opportuno per la sua finestra. "Che giorno è oggi?" chiese Jeanne all'amica, sotto voce. "Sabato." "Domani parlo a Carlino, lunedì e martedì si regolano tante cose, mercoledì si fanno i bagagli e giovedì partiamo. Puoi scrivere a tua sorella che saremo a Subiaco l'altra settimana." "Non decidere così! Pensaci!" "Ho deciso. Voglio sapere. Se è lui, non lo impedirò nel suo cammino. Ma voglio vederlo." "Ne riparleremo domani, Jeanne. Non decidere ancora." "Ho pensato e ho deciso." Mezzanotte suonò al torrione delle Halles; suonò nelle nuvole, a lungo, il solenne canto malinconico delle innumerevoli campane. Noemi, che prima voleva insistere, tacque, piena il cuore di sgomento; come se quelle malinconiche voci del cielo notturno parlassero a lei di un destino dell'amica sua, di un destino di amore e di dolore, che si dovesse compiere.

Malombra

670400
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Il conte, indovinando che padre e figlia desideravano rimaner soli, osservò che forse la viaggiatrice abbisognava sopra tutto di riposo e invitò Steinegge ad accordarsi con Giovanna per la stanza di madamigella Edith, la quale avrebbe potuto farsi recar da cena colà più tardi, se lo desiderasse. Giovanna condusse Edith in una stanza attigua a quella di suo padre. Questi camminava intanto su e giù pel corridoio, entrava e usciva dalla sua camera, parlando forte alle pareti, al pavimento e sovra tutto al soffitto, fermandosi ad ascoltare i passi e le voci delle due donne nella camera vicina, con lo sguardo torbido e il viso ansioso, come se temesse di non udire più nulla, di trovar che il vero non era più vero. Finalmente Giovanna uscì e discese le scale. Poco dopo quell'uscio si schiuse da capo e una voce disse piano: "Papà." Steinegge entrò e abbracciò sua figlia. Non potevano parlare, si guardavano. Ella sorrideva fra le lagrime silenziose; egli si mordeva il labbro inferiore, mostrava negli occhi un dolore pungente, uno spasmo in ogni muscolo del viso. Edith comprese, gli appoggiò la testa sul petto e mormorò: "Ella è contenta, papà." Il povero Steinegge tremava come una foglia, faceva sforzi incredibili per frenare la commozione. Edith si trasse dal seno un piccolo medaglione, l'aperse e lo diede al padre. Questi non lo volle guardare e glielo restituì subito dicendo "Sì, sì" battendosi una mano sul cuore. Stette muto per qualche minuto ancora, poi andò risolutamente a spegnere il lume. "Adesso racconta" diss'egli. "Perdonami se faccio così. Voglio solo udire la tua voce e figurarmi che non sono passati tanti anni. Ti rincresce?" No, non le rincresceva. La immagine che aveva serbata di suo padre nella memoria era venuta lentamente trasformandosi col tempo, s'era elevata e abbellita; proprio all'opposto del pover'uomo. Anche per Edith v'era adesso qualche cosa di straniero nell'aspetto di lui; anch'essa aveva bisogno di abituarvisi prima di potergli parlare a cuore aperto. Nelle tenebre, invece, la voce di cui tante volte, lassù a Nassau, aveva cercato di ricordare il timbro esatto, la cara voce paterna le correva dentro per tutti i nervi, le riempiva il petto, le riportava impetuosamente nel cuore i più minuti ricordi dell'infanzia. Anche a lei piaceva parlare così, all'oscuro. E raccontò quei dodici anni passati con il nonno materno, due zii e le loro famiglie. Il nonno, morto da pochi mesi, era stato assai buono per lei, ma non aveva permesso mai che in casa si pronunciasse neppure il nome del proscritto. Edith ne parlò con delicata pietà e temperanza, dissimulando, scusando, per quanto era possibile, gli odii tenaci del vecchio, imbevuto di pregiudizi che nessuno della famiglia si era mai curato di combattere. Steinegge non la interruppe mai; era ansioso di udire l'ultima parte del racconto, di sapere come Edith, che aveva lasciate senza risposta tutte le sue lettere, si fosse poi decisa di abbandonare patria e parenti per venire in traccia di lui. Quest'ultima parte fu la più difficile e amara per la narratrice. Fino alla morte del nonno essa non aveva ricevuto alcuna lettera di suo padre. Morto il nonno, ne aveva trovata per caso una direttale da Torino e aveva saputo in pari tempo che fino a due anni prima moltissime altre lettere erano arrivate per lei da vari paesi e che tut te erano state trattenute e distrutte. Qui il racconto fu interrotto da un'espansione di Steinegge contro quei maledetti bigotti ipocriti furfanti vili che son capaci di queste azioni da assassini. Tempestò sbuffando per la camera buia e non si fermò se non quando ebbe rovesciate due sedie. Allora udì un passo leggero venire a lui, si sentì una mano sulla bocca. Tutta la sua ira cadde. Egli baciò quella mano e la tolse con ambo le sue. "Hai ragione" disse "ma è orribile!" "Oh no, è basso, basso, molto più basso di noi, papà." Ella continuò narrando come quella lettera vecchia di due anni e mezzo, l'avesse quasi fatta impazzire. La sapeva a memoria. Ripeté le preghiere appassionate fatte agli zii onde ricuperare qualche altra lettera. Ma erano tutte scomparse e neppure una ne poté tornare in luce. Si spezzarono invece i fragili legami che tenevano unita Edith alla famiglia materna dopo la morte del nonno. Ella ebbe la sua parte dell'eredità, modicissima perché gli eredi erano parecchi e la famiglia, non molto ricca, aveva sempre vissuto signorilmente. Chiese di poterne disporre subito e l'ottenne a condizioni inique che ella accettò senza discutere. Partì subito per l'Italia, sola, con la sua piccola eredità, seimila talleri, e una lettera per un impiegato della Legazione di Prussia a Torino, che prestava i suoi buoni uffici anche ai cittadini del Nassau. Si recò difilata a Torino; quel signore si adoperò molto per lei e fu presto in grado di farle sapere dove avrebbe potuto tr ovare suo padre. Edith terminò con dire come si fosse accompagnata ai Salvador. Steinegge osservò allora ch'era forse suo dovere scendere nel salotto prima che gli ospiti del conte si ritirassero. Accese il lume per Edith e la pregò di attenderlo, si sarebbe sbrigato in pochi minuti. Escì in fretta e scese la scala senza badare che la lampada sospesa sul pianerottolo del primo piano era spenta e che nessuna voce si sentiva tranne quella dell'orologio. Scoccò da questo, mentre passava Steinegge, un tocco sonoro. Pareva dicesse: "Ferma!". Quegli si fermò, accese uno zolfanello. Le undici e mezzo! Lo zolfanello si spense e Steinegge rimase immobile con la mano distesa in aria. Possibile? Avrebbe creduto che fossero le nove e mezzo. Risalì la scala in punta di piedi e spinse pian piano l'uscio della camera di Edith. Ella era ritta davanti alla finestra aperta, teneva stretta alla persona con le mani giunte la spalliera d'una seggiola e curva sul petto la testa. Steinegge si fermò; gli si era stretto il respiro. Sentiva forse gelosia dell'Invisibile cui saliva allora, oltre le stelle, il pensiero di sua figlia? Non lo sapeva bene neppur lui, che sentisse. Era un freddo, un'ombra fra Edith e sé. Egli non aveva mai nella sua mente distinto Iddio dai preti, dei quali parlava sempre con disprezzo, benché fosse incapace di usare la menoma scortesia al più zotico e bigotto chierico della cristianità. Aveva spesso pensato con dolore che sua figlia sarebbe stata educata da i preti, e ora, solo per averla veduta pregare, gli pareva che lo avrebbe amato meno, si sgomentava del futuro. Edith s'avvide di lui, depose la seggiola e disse: "Avanti, papà." "Ti disturbo?" Ella si meravigliò del tono sommesso e triste della domanda e rispose con un no attonito, levando le sopracciglia come per dire: "Perché mi domandi così?". Lo volle accanto a sé, alla finestra. Era una notte senza luna, quieta. Il lago non si distingueva dalle montagne. Appena si vedeva a piedi dell'alta finestra una striscia biancastra, il viale di fronte all'arancera, lungo il lago. Tutto il resto era un'ombra che cingeva da ogni parte il cielo grigio, e dentro a quell'ombra si udiva di tratto in tratto il breve e dolce mormorar dell'acque chete, che, rotte dal guizzo d'un pesce, si dolevano e si riaddormentavano. Edith e suo padre conversarono ancora lungamente a voce bassa, per un inconscio rispetto alla silenziosa maestà della notte. Ella gli domandava mille cose della vita passata, dalla separazione in poi; faceva domande disparatissime, perché ne aveva preparato un tesoro da lunga pezza e ora le venivano sulla bocca alla rinfusa, alcune gravi come questa: se avesse mai sofferto di nostalgia, alcune puerili come quest'altra: se ricordasse il colore della tappezzeria del salottino dov'ella aveva dormito e sognato di lui per dodici anni. Al povero Steinegge si spandeva nel petto una dolcezza ricreante, un calore d'orgoglio. Raccontando ad una ad una le sue tribolazioni alla giovinetta che ne palpitava e ne piangeva, quel che aveva sofferto gli pareva niente a fronte della consolazione presente. Un suono di campane passò sul Palazzo, andò a echeggiare nelle valli, a perdersi nei fianchi selvosi dei monti. V'era l'indomani una sagra in Val... "Perché suonano, papà?" "Non lo so, cara" rispose Steinegge. "Die Pfaffen wissen es, il pretume lo sa." Appena pronunciate queste parole, sentì di aver detto male e tacque. Tacque anche Edith. Il silenzio durò qualche minuto. "Edith" disse finalmente Steinegge "sarai stanca non è vero?" "Un poco, papà." Era sempre tenera quella cara voce argentina; Steinegge si consolò. Era sempre tenera quella voce, ma vi suonava dentro stavolta una nuova corda delicatissima, mesta, appena sensibile. Poi che Steinegge si fu congedato con un bacio, Edith tornò alla finestra e parve parlare a lungo con Qualcuno al di là delle nubi. Intanto suo padre non poteva trovar posa. Tornò cinque o sei volte a picchiar all'uscio per chiederle se aveva acqua, se aveva zolfanelli, a che ora voleva essere svegliata, se le dovevano portare il caffè, se desiderava questo, se desiderava quello. Fu tentato d i coricarsi lì all'uscio, come un cane fedele; finalmente, poco prima dell'alba, andò a coricarsi bell'e vestito sul suo letto.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675878
Garibaldi, Giuseppe 3 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Il prelato avea tosto dato ordine al suo procuratore di mettersi in relazione con Muzio, fornirlo di quanto abbisognava e procurare di tirarlo all’ovile. Il cardinale lo aveva incaricato pure di fargli sapere che nel suo testamento lo avrebbe fatto padrone degli immensi suoi beni e rimesso anche in possesso di quelli del padre, fraudolentemente passati nelle ugne dei Paolotti avoltoi. Tutto questo rasserenarsi dell’orizzonte del nostro mendico, era dovuto poi al cambiamento di temperatura politica, occorso verso la fine del 1866, in cui gli Italiani, sebbene in modo indecoroso, rientravano in possesso di casa loro. Non era indifferente per il cardinale A... il poter dire «anch’io ho un nipote liberale

Fra i compagni d’Orazio ve n’erano di ricchi, di nascosto dal governo ricevevano sussidi dalle famiglie di Roma e quindi potevano provvedere la loro nuova dimora di quanto abbisognava; l’abbondante caccia della foresta forniva ogni specie di selvaggina e la galanteria dei nostri giovani romani, specialmente verso la perla di Transtevere, non era poca e, mi perdoni il bel sesso per cui vecchio come sono conservo una vera adorazione, benché afflitta dall’assenza dell’amante che ella ama con tutta l’anima, la donna un po’ di galanteria l’accetta sempre volentieri, s’intende bene senza far torto al lontano suo prediletto. Clelia sarebbe stata felicissima d’avere seco il suo Attilio, anche a patto di star tutta la vita nella foresta; Silvia, la buona Silvia talora sospirava incerta del destino del suo Manlio, e John? Oh! John poi era l’essere più felice di questa terra. Orazio lo aveva armato di una delle carabine prese ai briganti che assaltarono la carrozza di Giulia e di più lo teneva come compagno inseparabile in tutte le sue escursioni di caccia. Un giorno Orazio e John si trovavano nella foresta cacciando un cervo. John doveva fare la battuta ed allontanossi seguendo le istruzioni del suo compagno. Orazio rimase alla posta. Le disposizioni d’Orazio furono efficaci, poiché dopo circa mezz’ora un grande cervo venne a pascere sulla sua posta. Col primo tiro lo colpì, ma l’animale non cadde; allora Orazio lasciò andare il secondo colpo e la belva diede un lamento e stramazzò. Aveva appena Orazio scaricato i due tiri della sua carabina quando un movimento dei cespugli lo fe’ accorto che qualche cosa s’avanzava verso lui dalla parte più folta del bosco. Non poteva essere John, egli era troppo lontano ancora. Un sospetto balenò alla mente d’Orazio ed un brivido involontario lo percorse nel sentire le due canne della carabina vuote. Non s’era ingannato: appena aveva posto il calcio dell’arme a terra per ricaricarla, un ceffo molto più somigliante a quello d’una tigre che d’un uomo sbucò dalla macchia a pochi passi di distanza. Sui valorosi ancorché colti all’improvviso il timore non ha forza, e col pugnale alla mano il nostro Coclite s’avanzava impavido contro l’apparizione quando questa gli gridò: ferma!, con tanta autorità e sangue freddo che ne fu sorpreso il nostro prode Orazio e fermossi. Armato da capo a piedi il nuovo venuto aveva un aspetto veramente straordinario. Un cappello puntato alla calabrese copriva il suo capo irsuto di folta capigliatura bianca come la neve. La barba bianca, sprizzata qua e là di qualche ciocca del primitivo colore ed irta come quella d’un cignale, copriva l’intero volto ad eccezione degli occhi. Eretta e posata su poderosa spalla gli anni non eran stati capaci di piegare quella testa maestosa e selvaggia. Sul largo suo petto teneva affibbiato un giustacuore di velluto stretto al cinto dall’indispensabile cartucciera. Di velluto oscuro era pure il resto del vestito e dal ginocchio in giù, uose calzava elegantemente affibbiate. «Io non ti sono nemico Orazio - disse Gasparo (poiché era egli stesso) - anzi io vengo ad avvisarti di un pericolo che ti sovrasta e che potrebbe essere la tua e la rovina de’ tuoi compagni». «Che non mi sei nemico - rispose Orazio - lo prova il tuo contegno; tu avresti potuto uccidermi se lo fossi pria ch’io mi trovassi in istato di difesa, e so di più: che Gasparo sa servirsi assai bene della sua carabina». «Sì, - rispose il bandito - vi fu un tempo in cui di rado mi occorreva di tirare un secondo colpo al cervo ed al cignale ed oggi stesso, benché gli occhi miei comincino a fallirmi io non starò indietro ad alcuno, quando si tratti di assalire un nemico. Ma sediamo, devo narrarti cose importanti». Seduti sul fusto di una vecchia pianta rovesciata, Gasparo cominciò a favellare dei disegni della corte papale coadiuvata dal Principe C. Narrò che lui stesso era stato inviato dal Principe per scoprire ove potevano trovarsi i liberali ed infine che egli, Gasparo, bramoso di vendicarsi del governo dei preti offriva invece il suo concorso ad Orazio colla sola condizione di esser accolto nella banda liberale. «Ma voi avete molti delitti, mio povero Gasparo, se è vero ciò che si racconta di voi e noi non potremmo accogliervi in nostra compagnia». «Delitti! - rispose altiero il bandito. - Io non ho altro delitto che di aver purgato la società d’alcuni prepotenti e dei loro sgherri, il delitto d’aver soccorso gli oppressi ed i bisognosi. E credete voi che se io fossi un miserabile delinquente, il governo dei preti avrebbe di me tanta paura e che io sarei così generalmente amata dalle popolazioni? Il Governo mi teme perché sa che io non temo di lui come glielo provai in tanti incontri. Il governo mi teme perché sa d’avermi vigliaccamente ingannato e tradito e s’io ritorno alla testa de’ miei coraggiosi compagni egli sa che gli farò pagar caro la sua malafede ed i suoi tradimenti. Sì, alcuna volta io mi son servito dell’avvocato Carabina per far giustizia ed ho la coscienza d’averlo sempre fatto conformemente ai dettati del diritto. Posson dire lo stesso i preti?». Qui giungeva John, ed Orazio pensò bene di marciare colla preda ed il nuovo compagno verso il castello, per provvedere agli avvenimenti che si preparavano.

Pure d’un secondo egli abbisognava e profittando d’un momento di calda discussione tra gli amici, con un’occhiata chiamò Attilio al balcone, e lo richiese di fermarsi con lui per quella notte. Orazio, Muzio e Gasparo si congedarono, ed Attilio rimase col pretesto d’affari particolari. Alla prima alba, un giovine in camicia rossa picchiava alla porta della stanza N. 8 dell’Albergo Vittoria e presentava al principe T. un cartello firmato Morosini espresso in questi termini: «Io accettai la vostra sfida e vi sto aspettando alla porta dell’albergo nella mia gondola. Ho meco delle armi ma se non vi convenissero, portate le vostre. I padrini stabiliranno le condizioni del duello». Alzatosi il principe e fatto chiamare Attilio lo presentò al secondo di Morosini ed in pochi minuti le condizioni furono fissate. Armi: pistole. Distanza: venti passi. Facoltà di marciarsi incontro, sparando a volontà. Il sito era dietro i murazzi, ove i contendenti potevano recarsi subito, essendo tale il piacimento dello sfidato. In verità se s’ha a morire od ammazzare è meglio si faccia subito poiché anche alle anime più risolute tanto una cosa che l’altra ripugna e quindi si desidera abbreviare il termine della decisione. Cosa diavolo dirò del duello? Io fui sempre d’avviso che fosse vergognoso il non potersi intendere senza uccidersi ma d’altra parte, tocca a noi, iloti ancora dei prepotenti della terra, paria dell’Europa, a predicare la pace individuale e generale? a noi, il perdono dell’oltraggio! a noi! così oltraggiati da tutti! a noi cui è vietato di passeggiare sulla nostra terra!? di fregiarci delle nostre glorie!? A noi calpestati nei nostri diritti, nella nostra coscienza e nel nostro onore dalla più vile scoria della nazione nostra!? A noi, che per vivere, per essere considerati, protetti, ci bisogna prostituirci!? Via! non duelli quando saremo costituiti, ben governati e godremo nei nostri diritti all’estero ed all’interno ma di fronte alla prepotenza, all’arbitrio e al privilegio no! non si può patrocinare la pace. Intanto vogano verso i murazzi le gondole che portano i contendenti. Uscite da Malamocco costeggiano per un pezzo l’argine immenso costrutto dalla Repubblica, contro le furie dell’Adriatico e sbarcano finalmente alla spiaggia esterna e deserta che fuori dei murazzi è a secco quando gl’impetuosi bora o scirocco stanno in riposo. Saltarono sulle sabbie, scelsero un sito a proposito, e dopo aver misurato i venti passi i secondi porsero le pistole agli avversari che si collocarono sui due segni marcati nell’arena. Attilio doveva batter tre volte palma a palma ed alla terza i combattenti potevano avanzare e far fuoco a volontà. Già i due colpi eran battuti e le mani erano alzate per il terzo segno quando una voce dal lido, ove si trovavano le gondole gridò: «Fermi!» ed i quattro volgendo lo sguardo videro uno dei gondolieri, canuto e di aspetto venerando, che si affrettava correndo verso di loro. «Fermi!» ripeteva ancora il vecchio venendo avanti e non si fermò se non giunto che fu tra i due armati. Allora cominciò con voce alquanto tremante ma maschia e sonora, tanto che pareva incompatibile col mucchio d’anni indicato dalla sua canizie: «Fermi! figli d’una stessa madre, l’atto che voi siete per compiere, macchierà l’uno dei due col sangue d’un concittadino! Non potrebbe essere versato invece a prò di questa terra infelice, cui tanto ancora resta a fare, per raggiungere la indipendenza a cui agogna da secoli. Tra voi, il vinto morirà senza una parola d’affetto, una benedizione de’ suoi cari: il vincitore rimarrà coll’aspide del rimorso nel cuore tutta la vita! Oh voi! che ai lineamenti gentili io conosco nati su questa terra di pianto. Non ha l’Italia molti nemici ancora, e non abbisogna essa di tutte le braccia de’ suoi figli per scuoter le secolari catene? Cessate dalla lotta fratricida, ve lo chiedo, ve lo impongo in nome della madre comune! Cessate! non rinnovate le gare antiche, retaggio fatale degli incauti, scellerati padri vostri, che precipitarono questa bella patria in tanta abbiezione! Tornate amici. Tornate fratelli! Domani voi proverete allo straniero che tenterà ancora di strapparvi le vostre sostanze e le vostre donne, chi dei due sia più valoroso». Le onde dell’Adriatico infrangevansi contro gli scogli granitici che arginano i murazzi con più effetto delle parole patriottiche ed umanitarie del vecchio sull’ostinata risoluzione di quei due assetati di sangue ed il principe, con certo piglio di dispetto, che chiariva l’aristocratica origine intimò al vegliardo: «ritiratevi». Si ripresero da capo i segnali, le battute di mano si seguirono, ed alla terza gli avversarii marciarono ad incontrarsi colla pistola armata nella destra e coll’occhio fisso l’uno sull’altro senza battere palpebra col meditato intento dell’omicidio. A dodici passi sparò il principe e la palla sfiorò passando la parte destra del collo di Morosini: lo ferì e ne sgorgò il sangue, ma fu ferita leggera. Il soldato di Calatafimi, più freddo dell’avversario, s’avvicinò di più a forse otto passi. Sparò ed il fratello della nostra Irene si aggomitolò cadendo sul terreno come uno straccio. La palla gli avea traversato il cuore. Il Sant’Ufficio dal Vaticano sorrise di quel sorriso infernale con cui si rallegrò ogni volta che un olocausto di sangue sparso dal pugnale della discordia bagnava questa terra infelice. E chi lo versò quel sangue italiano? Una mano italiana, consacrata alla redenzione del suo paese.

Oro Incenso e Mirra

678747
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Al disotto di loro i chierici si aspreggiavano anche più biricchinescamente nella contesa dei piccoli servigi, pagati a soldi, così che abbisognava davvero il caso di una gran festa o di un mortorio molto ricco perché il povero Giannino vi potesse penetrare. Il suo incasso più lauto in un mese furono tre lire. Siccome nessuno era più magramente vestito di lui, si divideva dai compagni sulla porta del seminario per tornare a casa coi libri stretti da una correggia fra due assicelle, scantonando vergognoso ai vicoli, colla bocca sempre sorridente per un difetto del labbro superiore e gli occhi buoni ombrati da ciglia lunghissime. I suoi giorni migliori erano quelli di vacanza, il giovedì e la domenica, perché poteva restare a letto fino alle dieci leggendo qualche libro prestatogli da don Riva, mangiando ad un'ora dopo mezzogiorno la minestra calda colla vecchia Geltrude. Questi erano sempre giorni di fornello: Giannino vi metteva tre soldi, essa quattro per cucinare generalmente dei maccheroni: talvolta la vecchia vi aggiungeva un pezzo di formaggio o di tonno o una pera. Due volte l'anno - per santa Geltrude e per la madonna della chiesa di San Francesco, la madonna mora come la chiamavano le treccole - ella lo convitava per quel bisogno anche nei più miseri, specialmente quando vivono solitari, di fare un sacrificio a qualcuno. Ma il ragazzo alla prima occasione rendeva l'invito aggirandosele intorno con una festosità di cagnolino, mentre l'altra cucinava il suo regalo: e quei giorni egli parlava anche di più, colla illusione di aver mangiato il doppio, sebbene qualche po' di fame gli fosse egualmente rimasta. La vecchia invece discorreva sempre pochissimo, stava molte ore del giorno fuori guadagnando misteriosamente quanto le serviva a campare, poi rincasava con un grosso caldano pieno di carbonella, che si metteva sotto le sottane, e nell'angolo della prima stanzetta presso la finestra ricominciava a fare la calza. Passavano dei giorni interi senza vedersi. Ella non saliva al granaio se non per spazzarlo perché il ragazzo si rifaceva il letto e si tirava l'acqua necessaria da sé. E nei momenti più tristi della sua solitudine, appena sbocconcellato in piedi, alla finestra, il poco pane, scendeva da lei per sentirsi dire qualche parola con uno di quei bruciori di essere amato, così dolorosi nella giovinezza quando la mamma sola potrebbe ancora accarezzarci come un bambino, ed è morta invece da gran tempo, ella lo salutava senza parlare con una occhiata, reclinando subito dopo la testa sulla calza. La finestra di quella cameretta, come l'altra del suo granaio, davano sui tetti di contro; non si vedeva che un piccolo piano inclinato, rigato, muffoso, scuro: quasi nessuna voce arrivava fino lassù, i vetri erano appannati, il freddo più intenso che nella strada. La vecchia andava a letto sull'avemaria per non accendere il lume, chiudendosi dentro a catenaccio; egli rincasava un'ora e mezzo o due ore dopo per fare altrettanto, spesso sorpreso da un gelo, che nemmeno il letto bastava a vincere, perché gli veniva dallo stomaco non abbastanza pieno. Faceva tutto a letto, le preghiere, le lezioni, i conti, i sogni, nei quali la giovane fantasia si rifugiava coll'istinto degli uccelli, che cercano il bosco, ma dai quali usciva spesso con una stanchezza desolata. Quanti anni gli occorrerebbero per diventare prete? Anche senza perderne alcuno, fra rettorica, filosofia, morale, teologia, tutti gli ordini e il tempo della coscrizione, sarebbero sette; sempre così solo, come un piccolo viaggiatore smarritosi al primo viaggio verso una mèta, che gli s'intorbidava nel pensiero. Infatti il seminario e il duomo grande della città colla pompa delle loro scuole e delle loro funzioni gli avevano offuscato quel primo ingenuo ideale di prete orante fra gl'increduli e i derelitti. E però la sua devozione più dolce era per la madonna, che gli ricordava la mamma morta pregando che lui, il primogenito maschio, si facesse prete: in famiglia non aveva altra tenerezza di ricordo perché la vita dura vi rendeva più esigenti tutti gli egoismi, e fuori non aveva ancora trovato un cuore che rispondesse al suo. Tutti lo avevano più o meno deriso, anche i migliori; gli altri, i preti, avviandolo per la loro carriera, erano stati anche più freddi. Ma per quanto desolata quella solitudine dei suoi sedici anni in un granaio, con dieci franchi al mese per vivere, rare volte la malinconia lo vinceva sino al pianto, anzi nelle giornate più rigide e caliginose di quel primo inverno il suo coraggio si mantenne imperterrito come nella tensione delle prime ore in una battaglia; poi la primavera lo vinse. Si sentì più solo: nella scuola gli pareva quasi d'essere smarrito fra i compagni, mentre le parole dei professori vi passavano lentamente come un gorgoglio e le orazioni stesse, rompendoglisi nella testa, svanivano in alto simili ai bioccoli bianchi delle siepi fra il vento e il sole. Era la prima volta che questo gli accadeva. Una tristezza accorata gli veniva dalla ebrietà della natura in quei primi giorni di fecondazione, mentre le donne passavano per le strade con uno splendore sul viso pari a quello dei santi dipinti nelle vetriate, e tutti, anche i monelli, presi nell'allegria di quella immensa festa, non lo guardavano più. Egli invece, deposto il pesante mantello regalatogli dall'arciprete, se ne andava entro quella veste talare appena sufficiente per disegnare un'ombra sul selciato: era più pallido, senza appetito nemmeno per mangiare il poco che aveva. Ma nessuno se ne accorgeva. Allora lo ripigliavano improvvisi pentimenti. Sarebbe stato meglio per lui rimanere col padre a fare il cantoniere: a sedici anni avrebbe avuto già mezza paga con poca fatica, e passerebbe la giornata nella strada sbadilando un fosso fra una chiacchiera ed un saluto, lieto nel sole primaverile come i suoi compagni. Invece era un malato, vestito di un ragnatelo che gli faceva freddo anche adesso che tutti incominciavano ad aver caldo, segregato dalla vita comune in una esistenza claustrale, senza la fraternità del convento e la sua quiete studiosa. I suoi condiscepoli nel seminario potevano forse soffrire per la mancanza di libertà, ma avevano tutte le ore occupate e si tenevano l'un l'altro compagnia. Egli invece, solo con don Riva, finirebbe come lui. Il vecchio prete peggiorava tutti i giorni, giacché avendo bisogno di cibi sostanziosi non ne aveva neppure abbastanza di quelli più ordinari, e gli altri preti lo sfuggivano appunto per la sua miseria; mentre il vescovo, arricchito per la terza volta da un'altra eredità di centomila franchi, fingeva d'ignorare come l'antico professore di filosofia nel seminario morisse quasi di fame. Adesso per condurlo a spasso bisognava dargli il braccio portandolo quasi di peso, quantunque Giannino anch'esso male in gambe si sentisse soventi la schiena bagnata da cattivi sudori. Una domenica fuori di Porta Pia, mentre passavano lentamente dinanzi alla bottega dei sali e tabacchi, il vecchio ritirò il braccio disotto al suo, ed appoggiando ambo le mani sulla canna disse col viso quasi nascosto dietro il bavaro rialzato del soprabitone: - Pagami un soldo di caradà... non ne ho... non ne ho! Il ragazzo provò alla gola uno stringimento improvviso di pianto a quella voce così sorda, ed entrò nella bottega.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679076
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Madonna Laura addestrava Chiara nei fini lavori d'ago; Amato le insegnava a leggere le canzoni della Provenza, e la bambina cresceva bellissima nel castello di Fronzola, ed era così buona di carattere e così pia e caritatevole, che tutti ricorrevano a lei per soccorsi; ed ella, che non abbisognava di nulla, cingeva per i poveri il grembiule filatole dalla madre e scendeva di continuo dai castello per recare soccorsi di vesti e di cibo ai poveri del contado. Queste uscite di Chiara furono osservate da una donna del castello di Fronzola, certa Geltrude, creatura astiosa e maligna, la quale, non osando fare alla contessa insinuazioni contro Chiara, andò dal Conte a dirgli che la ragazza, raccolta per pietà dalla signora, rubava tutto ciò che trovava. - Osservatela, messere, quando ella esce furtivamente dal castello, e domandatele che vi mostri ciò che reca nel grembiule. Il Conte, senza dir nulla alla moglie, spiò Chiara quel giorno stesso mentre varcava il ponte levatoio, e fermatala le domandò bruscamente: - Che cos'hai nel grembiule? La bambina arrossì e lasciò andare le cocche, ma invece di cadere in terra cibi e vesti di cui era pieno in quel momento, piovvero ai piedi del Conte rose e garofani. Si pentì il Conte di averla, anche per un momento, sospettata, e aiutandola a raccattare i fiori, le disse: - Portali pure dove vuoi; suppongo che sieno destinati al tabernacolo della Madonna. Chiara, senza rispondere, corse via, ma aveva fatto pochi passi che, gettando appena gli occhi nel grembiule, vide che i fiori ne erano spariti e che esso conteneva di nuovo cibi e vesti per i poveri. Chiara capì però che qualcuno doveva averla calunniata presso il Conte, e non volendo che nessuno sapesse la virtù miracolosa del suo grembiule, fu più guardinga e non lo cinse altro che quando era già fuori del castello. Così passarono alcuni mesi, e Geltrude, la quale non aveva raggiunto l'intento suo, che era quello di far cacciare Chiara dal castello, perché era gelosa della preferenza che la contessa concedeva alla figlia della Forestiera sopra a tutte le sue donne, non cessava di spiarla, e saputo che portava soccorsi nelle case dei poveri, tornò alla carica col Conte, nominandogli le case dov'ella andava e la roba che vi recava. Il castellano, insospettito, chiamò a sé Chiara, e con fare burbero le disse: - Tu non hai nulla e vivi della carità nostra. - È vero, messere, e io vi sono così grata del bene che mi fate, che non cesso di pregare per voi e la vostra famiglia. - Ma intanto tu la danneggi, privandola di ciò che costituisce la sua ricchezza per darla a questa masnada di bisognosi che si aggruppa intorno al castello. - Io non ho mai donato un boccon di pane che vi appartenesse, - rispose Chiara con la voce strozzata dal pianto. - E di chi è dunque tutto quello che dispensi? - domandò il Conte. - Dei poveri, soltanto dei poveri, - disse con accento di sincerità la fanciulla; quindi aggiunse dignitosamente: - Signore, credetemi, poiché non ho mai mentito. - Allora tu hai fatto un patto col Diavolo, ed è lui che ti fornisce tutto. - Ho cercato di star sempre in grazia di Dio e non ebbi mai rapporti con l'eterno nemico. - Dunque c'è un mistero, e io voglio saperlo. - Cacciatemi, messere, poiché siete nel vostro diritto; ma dalla bocca mia non saprete mai nulla. - Ebbene, vattene, e guarda bene di non parlare prima di partire a madonna Laura, poiché non voglio che ella interceda per te. Chiara, offesa di tanta durezza, mostrò al Conte un volto afflitto, ma non lacrimoso, e disse, prima d'uscire: - Signore, concedetemi che io vi ringrazi dei vostri benefizî, e se le preghiere di una infelice non vi sono discare, io pregherò sempre per voi. Il Conte non rispose, e Chiara se ne andò dal castello senz'altro bagaglio che il grembiule miracoloso e l'anello di sua madre, e col cuore afflitto da tanta ingiustizia si rifugiò nella grotta del Serpente. Ma prima di coricarsi ornò di fiori il tabernacolo della Vergine, sua protettrice. Ho detto più sopra che Fronzola era una continua minaccia per il forte Castello di Poppi, e il conte Guido, che ne era signore, non meditava altro che la rovina del conte Tarlati, suo natural nemico. Erano continue guerre per impossessarsi di Fronzola, che finivano sempre con perdite dalle due parti, ma senza che i Guidi riuscissero a togliere ai Tarlati la fortissima rôcca. La notte dopo che il conte Tarlati ebbe cacciata Chiara dal suo castello, una numerosa schiera di uomini d'arme di Poppi salirono quatti quatti sul colle Tenzino e poi sul poggio di Fronzola, e prima che le vedette delle torri dessero l'allarme, erano penetrati nelle case del paese, avevano fatti prigionieri gli abitanti e stretto d'assedio la rôcca. Il conte Tarlati, quando fu destato da questa notizia, andò su tutte le furie e ordinò di lanciar sassi e quadrella sugli assedianti; ma essi resistettero all'offensiva e le file loro si accrebbero il dì seguente di nuovi armati, spediti da Papiano, da Porciano e da Romena. Il castello di Fronzola era ben fornito di vettovaglie, e per più giorni resisté all'assedio; ma le persone che vi stavano rinchiuse erano molte, e il conte Guido, disperando di prendere la rôcca con le armi, attendeva che la mancanza di cibo inducesse il conte Tarlati a offrire la resa. All'autunno era succeduto l'inverno crudissimo; e la povera contessa Laura, desolata della scomparsa di Chiara, e afflitta, vedendo che la gente intorno a lei languiva di fame e soffriva il freddo, temeva da un momento all'altro che la più orribile delle sventure si abbattesse sulla sua famiglia e che il conte Guido s'impossessasse di Fronzola. È vero che il marito e il figlio, giovinetto, davano l'esempio della più energica resistenza e dividevano le privazioni degli assediati; ma la fame é cattiva consigliera, e il grano era esaurito, esaurite le provviste di carne, e i soldati si stimavano felici quando potevano mettere in pentola qualche civetta o qualche corvo, scovati nei merli del castello. L'assedio, nonostante la carestia, si protraeva ancora. I cavalli erano stati uccisi, uccisi i muli, e non restava agli assediati che una scarsa razione di fagioli per otto giorni ancora, quando una sera Chiara, che dalla Grotta del Serpente aveva assistito alle vicende dell'assedio, si presentò nella casetta dalla quale il conte Guido dirigeva le operazioni della guerra, e chiese di essere ammessa alla presenza del signore. - Che vuoi? - le domandò bruscamente il signore di Poppi. - Messere, - rispose ella, - io sono una infelice immensamente beneficata dal conte e dalla contessa di Fronzola. So che la difesa è ormai inutile e che essi debbono arrendersi o morire. Concedetemi di penetrare nella rôcca e di morire insieme con i miei benefattori. La soave espressione del volto di Chiara, la voce dolcissima di lei, e più di tutto la nobiltà dei sentimenti che ella esprimeva, commossero il conte Guido, il quale ordinò ai suoi valletti di sventolare bandiera bianca per chiedere di parlamentare. Fu abbassato il ponte levatoio e un drappello di assediati, pallidi e macilenti, si avanzò verso i valletti del signore di Poppi, i quali consegnarono ai fronzolesi la bionda fanciulla. Il ponte levatoio fu rialzato, e Chiara venne condotta nella sala d'armi, dove passeggiava inquieto e turbato il conte di Fronzola. - Che vieni a far qui? - le domandò il signore. - Vengo a portarvi la salvezza, se la rôcca può resistere ancora. - Non far nascere nel mio cuore vane speranze, - disse il Conte. - La fame c'incalza e fra breve non avremo più forza di resistere. - Questa forza, signore, ve la saprò procurare io con l'aiuto della Vergine Santissima. Destinatemi un luogo ove io possa esser al coperto dalla curiosità, e ad ogni ora venite a prendere quanto può occorrervi di vettovaglie. Il conte di Fronzola aveva poca fiducia in Chiara e credeva che ella macchinasse un tranello per vendicarsi di essere stata espulsa dal castello; ma, ridotto a quei ferri, credé obbligo suo di non respingere l'aiuto che ella gli offriva. Tuttavia, a fine d'impedirle di nuocere agli assediati, la rinchiuse in una stanza attigua alla sala, che prendeva luce dalla vôlta, e si allontanò. Dopo un'ora il Conte andò ad aprire e fu molto meravigliato di vedere la stanza, che prima era vuota, essere ora piena di mucchi di farina, di cacciagione e di agnelli scannati. - Con quali arti ti sei procurata tutto questo ben di Dio? - domandò. - Con l'aiuto della Vergine Santissima, come mi procuravo tutto quello che dispensavo ai poveri del contado. Il signore riprese coraggio e ordinò subito che fosse fatto il pane e arrostita tutta la carne, che dispensò ai difensori. Intanto la stanza ove stava Chiara si riempiva sempre, ora di vino, ora di carbone, ora di sassi per lanciare sugli assedianti, e la rôcca resisteva validamente agli attacchi del conte Guido, il quale, dopo lunghi mesi d'assedio, stanco alla fine di tanta resistenza, tornò a Poppi insieme con i suoi, e Fronzola riprese a fronzolore con grande molestia di lui. Figuriamoci se, dopo quel fatto, Chiara si ebbe ringraziamenti dal conte e dalla contessa Tarlati! La chiamarono col nome di "liberatrice", e se fosse stata figlia loro, non avrebbero potuto amarla di più. Anzi, per non separarsi mai più da lei, le offrirono di sposare il loro Guglielmo. Le nozze furono celebrate con molta pompa, e quel giorno, quando Chiara cinse il grembiule, la Madonna glielo fece trovar pieno di pietre preziose, degne di una regina di corona. Così non entrò povera nella famiglia dei conti Tarlati, di cui fu la benedizione, poiché col grembiule miracoloso non solo sollevò tutti i miseri del contado, ma assicurò ai conti di Fronzola la ricchezza. Disgraziatamente, quando ella era già vecchia, un incendio distrusse le stanze di madonna Chiara e anche le vesti di lei, nonché il grembiule miracoloso, che era stato la salvezza del castello. Questo, dopo la morte di madonna Chiara, cadde in potere del conte Simone di Poppi, che lo prese con l'aiuto de' fiorentini. Il Conte ne rese grandi grazie al comune di Firenze, e andando egli in quella città vi mandò la campana di Fronzola in segno di ricordanza. - Oh, se l'avessi io pure un grembiule come quello! - esclamò l'Annina. - Che ne faresti? - domandò la nonna. - Vorrei farvi stare bene tutti e empir la casa di tanta roba che non si potesse finire per anni e anni. Me lo rammento, sapete, quando càpitano gli anni cattivi, quando le raccolte vanno male, quando il babbo si arrabbia e soffre e voi vi affliggete. - Bambina mia, tutto non è sempre sereno nella vita, e i giorni tristi sono più frequenti di quelli lieti; ma quando si lavora e si cerca, nell'adempimento del proprio dovere, il coraggio per resistere alle avversità, si finisce per vincere l'avversa fortuna. Il grembiule miracoloso sarebbe una bella cosa, ma noi dobbiamo invece affidarci al lavoro, nient'altro che al lavoro. La terra è il nostro grembiule miracoloso; le affidiamo un chicco di grano e ci rende una spiga granita. - Le vostre parole sono d'oro, mamma! - esclamò Cecco facendosele accosto, - e se i vostri nipoti le ricorderanno, sapranno certamente trionfare sempre in ogni avversità. - Per quest'anno, - disse Maso che era un po' superstizioso come molti contadini, e non sentiva parlar volentieri di disgrazie, - se Dio vuole, la raccolta promette bene. Già siamo alla porta co' sassi, e se non si scatena qualche diavolo contro di noi, potremo contarlo fra gli anni migliori. - Ma anche se fosse cattivo, - ribatté la vecchia, - voi trovereste la forza di lottare contro l'avversità. Avete fortuna di volervi bene, di star d'accordo, e l'unione nella famiglia è già una forza. Le famiglie disunite sono quelle che vanno in perdizione. Vi rammentate dei Ducci? Avevano un podere che era una fattoria, braccia robuste per lavorarlo; ebbene! Non andavan d'accordo, ognuno tirava l'acqua al suo mulino, e ora son tanti pezzenti. - A proposito, nonna, - disse l'Annina, - m'ero scordata di dirvi che oggi, su a Camaldoli, abbiamo visto il capoccia dei Ducci, il cieco, guidato dal nipotino. - L'avete incontrato lassù? E che faceva? - domandò la Regina. - È venuto dall'ispettore Carli a chiedere l'elemosina. Aveva il bussolotto di stagno in mano, proprio come gli accattoni di professione. - E i figliuoli lo lasciano andare a chieder la carità? - domandò commossa la Regina. - I figliuoli sono ora tutti sparsi per il mondo; - rispose Maso, - i nipoti si sono allogati per garzoni nei poderi, e se il capoccia mangia, è in grazia della gente caritatevole, se no sarebbe morto di fame, lui e quel piccinuccio che gli hanno lasciato. - Se lo aveste conosciuto, quel capoccia, una trentina d'anni fa, - riprese a dire la vecchia, - sareste anche più meravigliati di vederlo elemosinare. Pareva il padrone di questi posti. Non c'era fiera, non c'era mercato, non c'era festa dove non si recasse, guidando un cavallo che andava come il vento; e spadroneggiava, dava consigli, s'intrometteva nelle contese fra contadini, insomma era per tutto, sapeva tutto, pagava da bere e da fumare a quanti gli si accostavano. Intanto i figliuoli, seguendo le sue orme, trascuravano il podere, e la povera massaia se ne stava a casa a piangere e a disperarsi. È morta di dolore, quella infelice; poi, sparita lei, che lavorava, tutti sono andati in rovina, e quel che è peggio, hanno preso a odiarsi scambievolmente. I figli accusavano il padre, questi accusava loro, e adesso tutti soffrono. Brutta fine hanno fatto, ma il loro esempio è stato giovevole a molti, e ora, quando si vede fratello questionar con fratello o padre con figli, si dice: "Faranno come i Ducci". I bimbi avevano ascoltato con il solito religioso silenzio le parole della nonna, e Gigino, per mostrarle che ne aveva capito il significato, tirò per la manica l'Annina, che gli era seduta accanto, e le disse: - Io ti voglio tanto bene! Quella scappata del Rossino fece rider tutti, e l'ilarità dileguò nell'animo dei bimbi il ricordo delle meritate sventure della famiglia Ducci.

Se questo è un uomo

680929
Levi, Primo 1 occorrenze

Charles, il mestolo levato, tenne loro un vigoroso breve discorso che, pur essendo in francese, non abbisognava di traduzione. I più si dispersero, ma uno si fece avanti: era un parigino, sarto di classe (diceva lui), ammalato di polmoni. In cambio di un litro di zuppa si sarebbe messo a nostra disposizione per tagliarci abiti dalle numerose coperte rimaste in campo. Maxime si dimostrò veramente abile. Il giorno dopo Charles ed io possedevamo giacca, brache e guantoni di ruvido tessuto a colori vistosi. A sera, dopo la prima zuppa distribuita con entusiasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi per essere profondamente inquieti, tendevamo l' orecchio agli scoppi di misteriose artiglierie, che parevano localizzate in tutti i punti dell' orizzonte, e ai sibili dei proiettili sui nostri capi. Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati che sonnecchiavano, e quando fui sicuro che tutti ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio migliore tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai di ritornare a casa, e che, per quanto dipendeva da noi, alcune cose era necessario fare, altre necessario evitare. Che ognuno conservasse attentamente la sua propria gamella e il cucchiaio; che nessuno offrisse ad altri la zuppa che eventualmente gli fosse avanzata; nessuno scendesse dal letto se non per andare alla latrina; chi avesse bisogno di un qualsiasi servizio, non si rivolgesse ad altri che a noi tre; Arthur particolarmente era incaricato di vigilare sulla disciplina e sull' igiene, e doveva ricordare che era meglio lasciare gamelle e cucchiai sporchi, piuttosto che lavarli col pericolo di scambiare quelli di un difterico con quelli di un tifoso. Ebbi l' impressione che i malati fossero ormai troppo indifferenti a ogni cosa per curarsi di quanto avevo detto; ma avevo molta fiducia nella diligenza di Arthur. 22 gennaio. Se è coraggioso chi affronta a cuor leggero un grave pericolo, Charles ed io quel mattino fummo coraggiosi. Estendemmo le nostre esplorazioni al campo delle SS, subito fuori del reticolato elettrico. Le guardie del campo dovevano essere partite con molta fretta. Trovammo sui tavoli piatti pieni per metà di minestra ormai congelata, che divorammo con intenso godimento; boccali ancor colmi di birra trasformata in ghiaccio giallastro, una scacchiera con una partita incominciata. Nelle camerate, una quantità di roba preziosa. Ci caricammo una bottiglia di vodka, medicinali vari, giornali e riviste e quattro ottime coperte imbottite, una delle quali è oggi nella mia casa di Torino. Lieti e incoscienti, riportammo nella cameretta il frutto della sortita, affidandolo all' amministrazione di Arthur. Solo a sera si seppe quanto era successo forse mezz' ora più tardi. Alcune SS, forse disperse, ma armate, penetrarono nel campo abbandonato. Trovarono che diciotto francesi si erano stabiliti nel refettorio della SS-Waffe. Li uccisero tutti metodicamente, con un colpo alla nuca, allineando poi i corpi contorti sulla neve della strada; indi se ne andarono. I diciotto cadaveri restarono esposti fino all' arrivo dei russi; nessuno ebbe la forza di dar loro sepoltura. D' altronde, in tutte le baracche v' erano ormai letti occupati da cadaveri, rigidi come legno, che nessuno si curava più di rimuovere. La terra era troppo gelata perché vi si potessero scavare fosse; molti cadaveri furono accatastati in una trincea, ma già fin dai primi giorni il mucchio emergeva dallo scavo ed era turpemente visibile dalla nostra finestra. Solo una parete di legno ci separava dal reparto dei dissenterici. Qui molti erano i moribondi, molti i morti. Il pavimento era ricoperto da uno strato di escrementi congelati. Nessuno aveva più forza di uscire dalle coperte per cercare cibo, e chi prima lo aveva fatto non era ritornato a soccorrere i compagni. In uno stesso letto, avvinghiati per resistere meglio al freddo, proprio accanto alla parete divisoria, stavano due italiani: li sentivo spesso parlare, ma poiché io invece non parlavo che francese, per molto tempo non si accorsero della mia presenza. Udirono quel giorno per caso il mio nome, pronunziato all' italiana da Charles, e da allora non smisero di gemere e di implorare. Naturalmente avrei voluto aiutarli, avendone i mezzi e la forza; se non altro per far smettere l' ossessione delle loro grida. A sera, quando tutti i lavori furono finiti, vincendo la fatica e il ribrezzo, mi trascinai a tentoni per il corridoio lercio e buio, fino al loro reparto, con una gamella d' acqua e gli avanzi della nostra zuppa del giorno. Il risultato fu che da allora, attraverso la sottile parete, l' intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le inflessioni di tutte le lingue d' Europa, accompagnato da preghiere incomprensibili, senza che io potessi comunque porvi riparo. Mi sentivo prossimo a piangere, li avrei maledetti. La notte riservò brutte sorprese. Lakmaker, della cuccetta sotto la mia, era uno sciagurato rottame umano. Era (od era stato) un ebreo olandese di diciassette anni, alto, magro e mite. Era in letto da tre mesi, non so come fosse sfuggito alle selezioni. Aveva avuto successivamente il tifo e la scarlattina; intanto gli si era palesato un grave vizio cardiaco, ed era brutto di piaghe da decubito, tanto che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con tutto ciò, un appetito feroce; non parlava che olandese, nessuno di noi era in grado di comprenderlo. Forse causa di tutto fu la minestra di cavoli e rape, di cui Lakmaker aveva voluto due razioni. A metà notte gemette, poi si buttò dal letto. Cercava di raggiungere la latrina, ma era troppo debole e cadde a terra, piangendo e gridando forte. Charles accese la luce (l' accumulatore si dimostrò provvidenziale) e potemmo constatare la gravità dell' incidente. Il letto del ragazzo e il pavimento erano imbrattati. L' odore nel piccolo ambiente diventava rapidamente insopportabile. Non avevamo che una minima scorta d' acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione; né si poteva certo lasciarlo tutta la notte sul pavimento a gemere e tremare di freddo in mezzo alla lordura. Charles discese dal letto e si rivestì in silenzio. Mentre io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal pagliericcio e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da terra Lakmaker colla delicatezza di una madre, lo ripulì alla meglio con paglia estratta dal saccone, e lo ripose di peso nel letto rifatto, nell' unica posizione in cui il disgraziato poteva giacere; raschiò il pavimento con un pezzo di lamiera; stemperò un po' di cloramina, e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e anche se stesso. Io misuravo la sua abnegazione dalla stanchezza che avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva. 23 gennaio. Le nostre patate erano finite. Circolava da giorni per le baracche la voce che un enorme silo di patate fosse situato da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal campo. Qualche pioniere ignorato deve aver fatto pazienti ricerche, o qualcuno doveva sapere con precisione il luogo: di fatto, il mattino del 23 un tratto di filo spinato era stato abbattuto, e una doppia processione di miserabili usciva ed entrava dall' apertura. Charles ed io partimmo, nel vento della pianura livida. Fummo oltre la barriera abbattuta. _ Dis donc, Primo, on est dehors! Era così: per la prima volta dal giorno del mio arresto, mi trovavo libero, senza custodi armati, senza reticolati fra me e la mia casa. A forse quattrocento metri dal campo, giacevano le patate: un tesoro. Due fosse lunghissime, piene di patate, e ricoperte di terra alternata con paglia a difesa dal gelo. Nessuno sarebbe più morto di fame. Ma l' estrazione non era lavoro da nulla. A causa del gelo, la superficie del terreno era dura come marmo. Con duro lavoro di piccone si riusciva a perforare la crosta e a mettere a nudo il deposito; ma i più preferivano introdursi nei fori abbandonati da altri, spingendosi molto profondi e passando le patate ai compagni che stavano all' esterno. Un vecchio ungherese era stato sorpreso colà dalla morte. Giaceva irrigidito nell' atto dell' affamato: capo e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle patate. Chi venne dopo spostò il cadavere di un metro, e riprese il lavoro attraverso l' apertura resasi libera. Da allora il nostro vitto migliorò. Oltre alle patate bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri malati frittelle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine. Ma non ne potè godere Sertelet, il cui male progrediva. Oltre a parlare con timbro sempre più nasale, quel giorno non riuscì più a inghiottire a dovere alcun alimento: qualcosa gli si era guastato in gola, ogni boccone minacciava di soffocarlo. Andai a cercare un medico ungherese rimasto come malato nella baracca di fronte. Come udì parlare di difterite, fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire. Per pure ragioni di propaganda, feci a tutti instillazioni nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convincermene. 24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l' immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno. Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte. Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate, la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati in grado di muoversi, o non avevano avuto l' energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano. Gli altri erano tutti spaventosamente stanchi: dopo mesi e anni di Lager, non sono le patate che possono rimettere in forza un uomo. Quando, a cottura ultimata, Charles ed io avevamo trascinato i venticinque litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla camera, dovevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur, diligente e domestico, faceva la ripartizione, curando che avanzassero le tre razioni di "rabiot pour les travailleurs" e un po' di fondo "pour les italiens d' à côtè". Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni più gravi e più deboli si spegnevano a uno a uno in solitudine. Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori. Mi udì, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la sponda, verso di me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso, l' altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome. Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo. Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si presumeva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa. Ritornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di meraviglie mai viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite. A sera, nella baracca 14 si cantava. Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col carico. Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella nostra cameretta dall' atmosfera mortale, nacque una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 assorbivano l' intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina. Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell' Elektromagazin; ricordo l' espressione di disappunto di coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguì: _ Che te ne vuoi fare? Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di essere "buoni prigionieri", gente adatta, che se la sa sempre cavare; _ Ich verstehe verschiedene Sachen .... _ (Me ne intendo di varie cose ...). 25 gennaio. Fu la volta di Sòmogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l' olandese, era convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprì bocca quel giorno e disse con voce ferma: _ Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò più. Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccammo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro. Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare "Jawohl" ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, "Jawohl" ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell' artiglieria. Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché nei Lager si perde l' abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite. Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, così anche dell' attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere. A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell' armistizio in Italia, dell' inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell' uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne. Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sòmogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. 26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L' ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L' opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell' uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l' esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l' uomo è stato una cosa agli occhi dell' uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo. Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi più raffinati strumenti. Un loro gesto del dito poteva provocare la distruzione del campo intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi. La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del monologo di Sòmogyi. In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto. "L' pauv' vieux" taceva: aveva finito. Con l' ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l' urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo. _ La mort l' a chassé de son lit, _ definì Arthur. Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci restava che riaddormentarci. 27 gennaio. L' alba. Sul pavimento, l' infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sòmogyi. Ci sono lavori più urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E inoltre, "... rien de si dégoûtant que les débordements", dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti possono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno. I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sòmogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia. Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto. Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sòmogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest' ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana più tardi, nell' infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno. Qualcuno, molto tempo fa, ha scritto che anche i libri, come gli esseri umani, hanno un loro destino, imprevedibile, diverso da quello che per loro si desiderava e si attendeva. Anche questo libro ha avuto uno strano destino. Il suo atto di nascita è lontano: lo potete trovare in una delle sue pagine, la p. 17. di questa edizione, là dove si legge che "scrivo quello che non saprei dire a nessuno": era talmente forte in noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita. Ma ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro. Rifiutato da alcuni grossi editori, il manoscritto è stato accettato nel 1947 da una piccola casa editrice, diretta da Franco Antonicelli: si stamparono 2500 copie, poi la casa editrice si sciolse e il libro cadde nell' oblio, anche perché, in quel tempo di aspro dopoguerra, la gente non aveva molto desiderio di ritornare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati. Ha trovato nuova vita solo nel 195., quando è stato ristampato dall' editore Einaudi, e da allora l' interesse del pubblico non è più mancato. È stato tradotto in sei lingue, ridotto per la radio e per il teatro. È stato accettato dagli studenti e dagli insegnanti con un favore che ha superato di molto le aspettative dell' editore e mie. Centinaia di scolaresche, in tutte le regioni d' Italia, mi hanno invitato a commentare il libro, per iscritto o possibilmente di persona: nei limiti dei miei impegni, ho soddisfatto tutte queste richieste, tanto che ai miei due mestieri ne ho volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e commentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso che aveva vissuto l' avventura di Auschwitz e l' aveva raccontata. Nel corso di questi numerosi incontri coi miei lettori studenti mi è accaduto di dover rispondere a molte domande: ingenue o consapevoli, commosse o provocatorie, superficiali o fondamentali. Mi sono accorto presto che alcune di queste domande ricorrevano con costanza, non mancavano mai: dovevano dunque scaturire da una curiosità motivata e ragionata, a cui in qualche modo il testo del libro non dava una risposta soddisfacente. A queste domande mi sono proposto di rispondere qui. 1. Come mia indole personale, non sono facile all' odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione; per questo motivo, non ho mai coltivato entro me stesso l' odio come desiderio primitivo di rivalsa, di sofferenza inflitta al mio nemico vero o presunto, di vendetta privata. Devo aggiungere che, a quanto mi pare di vedere, l' odio è personale, è rivolto contro una persona, un nome, un viso: ora, i nostri persecutori di allora non avevano viso né nome, lo si ricava da queste stesse pagine: erano lontani, invisibili, inaccessibili. Prudentemente, il sistema nazista faceva sì che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori fossero ridotti al minimo. Avrete notato che, in questo libro, si descrive un solo incontro dell' autore-protagonista con una SS (p. 200), e non per caso esso ha luogo solo negli ultimi giorni, nel Lager in disfacimento, quando il sistema è saltato. Del resto, nei mesi in cui questo libro è stato scritto, e cioè nel 1946, il nazismo e il fascismo sembravano veramente senza volto: sembravano ritornati al nulla, svaniti come un sogno mostruoso, giustamente e meritatamente, così come spariscono i fantasmi al canto del gallo. Come avrei potuto coltivare rancore, volere vendetta, contro una schiera di fantasmi? Non molti anni dopo, l' Europa e l' Italia si sono accorti che questa era una ingenua illusione: il fascismo era ben lontano dall' essere morto, era soltanto nascosto, incistato; stava facendo la sua muta, per ricomparire poi in una veste nuova, un po' meno riconoscibile, un po' più rispettabile, più adatta al nuovo mondo che era uscito dalla catastrofe della seconda guerra mondiale che il fascismo stesso aveva provocata. Devo confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indulgenze, a certe connivenze, la tentazione dell' odio la provo, ed anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all' odio antepongo la giustizia. Proprio per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi. Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico. 2. Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L' informazione è oggi "il quarto potere": almeno in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dappertutto, nessuno può fermarli né allontanarli né farli tacere. È tutto facile: se vuoi, senti la radio del tuo paese o di qualunque altro paese; vai in edicola e scegli il giornale che preferisci, italiano di qualunque tendenza, o americano, o sovietico, entro un vasto ventaglio di alternative; compri e leggi i libri che vuoi, senza pericolo di venire incriminato di "attività antiitaliane" o di tirarti in casa una perquisizione della polizia politica. Certo non è agevole sottrarsi a tutti i condizionamenti, ma si può almeno scegliere il condizionamento che si preferisce. In uno Stato autoritario non è così. La Verità è una sola, proclamata dall' alto; i giornali sono tutti uguali, tutti ripetono questa stessa unica verità; così pure fanno le radiotrasmittenti, e non puoi ascoltare quelle degli altri paesi, perché in primo luogo, essendo questo un reato, rischi di finire in prigione; in secondo luogo, le trasmittenti del tuo paese emettono sulle lunghezze d' onda appropriate un segnale di disturbo che si sovrappone ai messaggi stranieri e ne impedisce l' ascolto. Quanto ai libri, vengono pubblicati e tradotti solo quelli graditi allo Stato: gli altri, devi andarteli a cercare all' estero, e introdurli nel tuo paese a tuo rischio, perché sono considerati più pericolosi della droga e dell' esplosivo, e se te li trovano alla frontiera ti vengono sequestrati e tu vieni punito. Dei libri non graditi, o non più graditi, di epoche precedenti si fanno pubblici falò sulle piazze. Così era in Italia fra il 1924 e il 1945; così nella Germania nazionalsocialista; così è tuttora in molti paesi, fra cui duole dover annoverare l' Unione Sovietica, che pure contro il fascismo ha eroicamente combattuto. In uno Stato autoritario viene considerato lecito alterare la verità, riscrivere retrospettivamente la Storia, distorcere le notizie, sopprimerne di vere, aggiungerne di false: all' informazione si sostituisce la propaganda. Infatti, in tale paese tu non sei un cittadino, detentore di diritti, bensì un suddito, e come tale sei debitore allo Stato (ed al dittatore che lo impersona) di lealtà fanatica e di obbedienza supina. È chiaro che in queste condizioni diventa possibile (anche se non sempre facile: non è mai agevole violentare a fondo la natura umana) cancellare frammenti anche grossi della realtà. Nell' Italia fascista riuscì abbastanza bene l' operazione di assassinare il deputato socialista Matteotti, e di mettere l' impresa a tacere dopo pochi mesi; Hitler, e il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels, si mostrarono di gran lunga superiori a Mussolini in quest' opera di controllo e di mascheramento della verità. Tuttavia, nascondere al popolo tedesco l' esistenza dell' enorme apparato dei campi di concentramento non era possibile, ed inoltre non era (dal punto di vista nazista) neppure desiderabile. Creare ed intrattenere nel paese un' atmosfera di terrore indefinito faceva parte degli scopi del nazismo: era bene che il popolo sapesse che opporsi a Hitler era estremamente pericoloso. Infatti, centinaia di migliaia di tedeschi furono rinchiusi nei Lager fin dai primi mesi del nazismo: comunisti, socialdemocratici, liberali, ebrei, protestanti, cattolici, e tutto il paese lo sapeva, e sapeva che in Lager si soffriva e si moriva. Ciò nonostante, è vero che la gran massa dei tedeschi ignorò sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager: lo sterminio metodico e industrializzato sulla scala dei milioni, le camere a gas tossico, i forni crematori, l' abietto sfruttamento dei cadaveri, tutto questo non si doveva sapere, ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della guerra. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva "sterminio" ma "soluzione definitiva", non "deportazione" ma "trasferimento", non "uccisione col gas" ma "trattamento speciale", e così via. Non senza ragione, Hitler temeva che queste orrende notizie, se si fossero divulgate, avrebbero compromesso la fede cieca che il paese gli tributava ed il morale delle truppe combattenti; inoltre, sarebbero venute a conoscenza degli Alleati e sfruttate come argomento propagandistico: il che, del resto, avvenne, ma per la loro stessa enormità gli orrori dei Lager, descritti più volte dalle radio degli Alleati, non furono generalmente creduti. Il riassunto più convincente della situazione tedesca di allora l' ho trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS) di Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore di Scienze Politiche all' Università di Monaco: A mio parere, nessuna di queste affermazioni è falsa, ma un' altra dev' essere aggiunta a completare il quadro: a dispetto delle varie possibilità d' informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere. È certamente vero che il terrorismo di Stato è un' arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l' illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta. Sapere, e far sapere, era un modo (in fondo non poi tanto pericoloso) di prendere le distanze dal nazismo; penso che il popolo tedesco, nel suo complesso, non vi abbia fatto ricorso, e di questa deliberata omissione lo ritengo pienamente colpevole. ". Queste sono fra le domande che mi vengono rivolte più di frequente, e perciò esse devono nascere da qualche curiosità o esigenza particolarmente importante. La mia interpretazione è ottimistica: i giovani di oggi sentono la libertà come un bene a cui non si può in alcun caso rinunciare, e perciò, per loro, l' idea della prigionia è legata immediatamente all' idea della fuga o della rivolta. Del resto, è vero che secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a cercare di liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente, e che secondo la Convenzione dell' Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Il concetto dell' evasione come obbligo morale è continuamente ribadito dalla letteratura romantica (ricordate il conte di Montecristo?), dalla letteratura popolare e dal cinematografo, in cui l' eroe, ingiustamente (o magari giustamente) incarcerato, tenta sempre l' evasione, anche nelle circostanze meno verosimili, e questa è invariabilmente coronata dal successo. Forse è bene che la condizione del prigioniero, la non-libertà, venga sentita come indebita, anormale: come una malattia, insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione. Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello vero dei campi di concentramento. I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L' evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasi, abiti a strisce subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, e in generale non parlavano il polacco, che era la lingua locale, né avevano contatti nella zona, che del resto neppure conoscevano geograficamente. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappresaglie feroci: chi veniva ripreso era impiccato pubblicamente sulla piazza dell' Appello, spesso dopo torture crudeli; quando veniva scoperta una fuga, gli amici dell' evaso venivano considerati suoi complici e fatti morire di fame nelle celle della prigione, l' intera baracca veniva fatta stare in piedi per ventiquattro ore, e talvolta venivano arrestati e deportati nel Lager i genitori del "colpevole". Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio: perciò accadeva sovente che una SS sparasse ad un prigioniero che non aveva alcuna intenzione di fuggire, solo allo scopo di conseguire il premio. Questo fatto aumenta artificiosamente il numero ufficiale dei casi di fuga registrati nelle statistiche; come ho accennato, il numero effettivo era invece molto piccolo. Essendo questa la situazione, dai campi di Auschwitz evasero con successo solo alcuni prigionieri polacchi "ariani" (cioè non ebrei, nella terminologia di allora), che abitavano poco lontano dal Lager, e che quindi avevano una meta verso cui dirigersi e la sicurezza di essere protetti dalla popolazione. Negli altri campi le cose si svolsero analogamente. Per quanto riguarda la mancata ribellione, il discorso è un po' diverso. Prima di tutto occorre ricordare che in alcuni Lager delle insurrezioni si sono effettivamente verificate: a Treblinka, a Sobibor, ed anche a Birkenau, uno dei campi dipendenti da Auschwitz. Non ebbero molto peso numerico: come l' analoga insurrezione del ghetto di Varsavia, rappresentano piuttosto esempi di straordinaria forza morale. In tutti i casi, esse furono disegnate e guidate da prigionieri in qualche modo privilegiati, e perciò in condizioni fisiche e spirituali migliori di quelle dei prigionieri comuni. Questo non deve stupire: solo a prima vista può apparire paradossale che si ribelli chi soffre meno. Anche fuori dei Lager le lotte raramente vengono condotte dai sottoproletari. Gli "stracci" non si ribellano. Nei campi per prigionieri politici, o dove i politici prevalevano, l' esperienza cospirativa di questi si dimostrò preziosa, e si giunse spesso, più che a rivolte aperte, ad attività di difesa abbastanza efficienti. A seconda dei Lager e dei tempi, si riuscì ad esempio a ricattare o corrompere le SS, raffrenandone i poteri indiscriminati; a sabotare il lavoro per le industrie di guerra tedesche; ad organizzare evasioni; a comunicare via radio con gli Alleati, fornendo loro notizie sulle orrende condizioni dei campi; a migliorare il trattamento dei malati, sostituendo medici prigionieri ai medici SS; a "pilotare" le selezioni, mandando a morte le spie o i traditori e salvando prigionieri la cui sopravvivenza avesse per qualsiasi motivo importanza particolare; a prepararsi, anche militarmente, a resistere nel caso che, con l' avvicinarsi del fronte, i nazisti decidessero (come infatti spesso decisero) di liquidare totalmente i Lager. Nei campi con prevalenza di ebrei, come quelli della zona di Auschwitz, una difesa attiva o passiva era particolarmente difficile. Qui i prigionieri, in generale, erano privi di qualsiasi esperienza organizzativa o militare; provenivano da tutti i paesi d' Europa, parlavano lingue diverse, e perciò non si capivano fra loro; soprattutto, erano più affamati, più deboli e più stanchi degli altri, perché le loro condizioni di vita erano più dure, e perché spesso avevano già alle spalle una lunga carriera di fame, persecuzione e umiliazione nei ghetti. Come ulteriore conseguenza, la durata del loro soggiorno in Lager era tragicamente breve, erano insomma una popolazione fluttuante, continuamente diradata dalla morte, e rinnovata dagli incessanti arrivi di nuovi convogli. È comprensibile che in un tessuto umano così deteriorato e così instabile non attecchisse facilmente il germe della rivolta. Ci si può domandare perché non si ribellassero i prigionieri appena scesi dai treni, che attendevano per ore (talvolta per giorni!) di entrare nelle camere a gas. Oltre a quanto ho detto, devo aggiungere qui che i tedeschi avevano perfezionato per questa impresa di morte collettiva una strategia diabolicamente astuta e versatile. Nella maggior parte dei casi, i nuovi arrivi non sapevano a cosa andavano incontro: venivano accolti con fredda efficienza ma senza brutalità, invitati a spogliarsi "per la doccia", talvolta veniva loro dato asciugamano e sapone, e promesso un caffè caldo dopo il bagno. Le camere a gas, infatti, erano camuffate come sale di docce, con tubazioni, rubinetti, spogliatoi, attaccapanni, panchine eccetera. Quando invece i prigionieri davano anche il più piccolo segno di sapere o sospettare il loro destino imminente, le SS e i loro collaboratori agivano di sorpresa, intervenendo con estrema brutalità, con urla, minacce, calci, spari, e aizzando contro quella gente perplessa e disperata, macerata da cinque o dieci giorni di viaggio in vagoni sigillati, i loro cani addestrati a sbranare uomini. Stando così le cose, appare assurda ed offensiva l' affermazione che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono. Vorrei infine aggiungere una considerazione. La coscienza radicata che all' oppressione non si deve acconsentire, bensì resistere, non era molto diffusa nell' Europa fascista, ed era particolarmente debole in Italia. Era patrimonio di una cerchia ristretta di uomini politicamente attivi, ma il fascismo e il nazismo li avevano isolati, espulsi, terrorizzati o addirittura distrutti: non bisogna dimenticare che le prime vittime dei Lager tedeschi, in numero di centinaia di migliaia, furono appunto i quadri dei partiti politici antinazisti. Essendo venuto a mancare il loro apporto, la volontà popolare di resistere, di organizzarsi per resistere, è risorta molto più tardi, grazie soprattutto al contributo dei partiti comunisti europei, che si gettarono nella lotta contro il nazismo dopo che la Germania, nel giugno 1941, aveva aggredito improvvisamente l' Unione Sovietica rompendo l' accordo Ribbentrop-Molotov del settembre 1939. In conclusione, rimproverare ai prigionieri la mancata ribellione rappresenta oltre a tutto un errore di prospettiva storica: significa pretendere da loro una coscienza politica che oggi è patrimonio pressoché comune, ma allora apparteneva solo ad una élite. 4. Sono ritornato ad Auschwitz nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa della liberazione dei campi. Come ho accennato nei miei libri, l' impero concentrazionario di Auschwitz non era costituito da un solo Lager, bensì da una quarantina: il campo di Auschwitz propriamente detto era costruito alla periferia della cittadina dello stesso nome (Oswiecim in polacco), aveva una capacità di circa ventimila prigionieri, ed era per così dire la capitale amministrativa del complesso; c' era poi il Lager (o più precisamente il gruppo di Lager: da tre a cinque, a seconda dei momenti) di Birkenau, che giunse a contenere sessantamila prigionieri, di cui circa quarantamila donne, ed in cui erano in funzione le camere a gas ed i forni crematori; ed infine, un numero continuamente variabile di campi di lavoro, lontani anche centinaia di chilometri dalla "capitale": il mio campo, chiamato Mònowitz, era il più grande di questi, essendo giunto a contenere circa dodicimila prigionieri. Era situato a circa sette chilometri ad est di Auschwitz. L' intera zona si trova attualmente in territorio polacco. Non ho provato grande impressione nel visitare il Campo Centrale: il governo polacco l' ha trasformato in una specie di monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e verniciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C' è un museo in cui sono esposti cimeli miserandi: tonnellate di capelli umani, centinaia di migliaia di occhiali, pettini, pennelli da barba, bambole, scarpe da bambini; ma è pur sempre un museo, qualcosa di statico, riordinato, manomesso. Tutto il campo mi è sembrato un museo. Quanto al mio Lager, non esiste più; la fabbrica di gomma a cui era annesso, ora in mani polacche, si è talmente ingrandita che ne ha completamente occupato il territorio. Ho provato invece un' impressione di angoscia violenta entrando nel Lager di Birkenau, che non avevo mai visto da prigioniero. Qui niente è cambiato: c' era fango, e c' è ancora fango, o polvere soffocante d' estate; le baracche (quelle che non sono bruciate durante il passaggio del fronte) sono rimaste com' erano, basse, sporche, di tavole sconnesse, col pavimento di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno nudo, fino al soffitto. Qui niente è stato abbellito. Era con me una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di m 1,.0 per 2 dormivano fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla finestrella si vedono le rovine del crematorio; a quel tempo, si vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle anziane: "Che cosa è quel fuoco?", e le avevano risposto: "Siamo noi che bruciamo". Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager "per disgrazia", cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri "politici", o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia. I Lager nazisti sono stati l' apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c' era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell' Uomo, e l' uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel "loro" campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti. 5. Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subìte e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi. Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un' opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze. La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell' umanità: all' antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press' a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l' orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24 000 morti in un solo giorno, nell' agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva. Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 90-9. per cento. Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecnica non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell' autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili. Per contro, e per quanto riguarda appunto l' aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di "Amnesty International" (un' associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila. In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno nulla a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell' assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Chi legge le "Memorie di una casa morta", scritte da Dostoevskij nel 1.62, non stenta a riconoscervi gli stessi lineamenti carcerari descritti da Solzenicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile. 6. La maggior parte dei personaggi che compaiono in queste pagine sono purtroppo da ritenere scomparsi già nei giorni di Lager o durante la tremenda marcia di evacuazione di cui si parla a p. 196; altri sono morti più tardi per malattie contratte durante la prigionia, e di altri ancora non sono riuscito a ritrovare le tracce. Alcuni pochi sopravvivono, ed ho potuto conservare o ristabilire il contatto con loro. È vivo, e sta bene, Jean, il "Pikolo" del Canto di Ulisse: la sua famiglia era stata distrutta, ma si è sposato dopo il ritorno, ed ora ha due figli, e conduce una vita molto tranquilla come farmacista in una cittadina della provincia francese. Ci incontriamo talvolta in Italia, dove viene per le vacanze; altre volte sono andato io a trovarlo. Stranamente, ha dimenticato molto del suo anno di Monowitz: in lui prevalgono i ricordi atroci del viaggio di evacuazione, nel corso del quale ha visto morire di estenuazione tutti i suoi amici (fra questi era Alberto). Vedo anche abbastanza sovente il personaggio che ho chiamato Piero Sonnino (p. 66), e che è lo stesso che compare come "Cesare" in La tregua. Anche lui, dopo un difficile periodo di riinserimento, ha trovato un lavoro e si è fatta una famiglia. Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande vivacità, le traversie che ha subìte in campo e durante il lungo viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diventano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che quelli tragici a cui ha assistito passivamente. Ho rivisto anche Charles. Era stato preso prigioniero sulle colline dei Vosgi, presso la sua casa, dove era partigiano, solo nel novembre 1944, ed era stato in Lager soltanto per un mese; ma questo mese di sofferenza, ed i fatti feroci a cui aveva assistito, lo avevano segnato profondamente, togliendogli la gioia di vivere e la volontà di costruirsi un avvenire. Rimpatriato dopo un viaggio non molto diverso da quello che io ho raccontato in La tregua, ha ripreso il suo mestiere di maestro elementare nella minuscola scuola del suo villaggio, in cui insegnava ai bambini anche ad allevare le api e a coltivare un vivaio di abeti e pini. Da pochi anni è in pensione; ha sposato di recente una sua collega non giovane, ed insieme si sono costruiti una casa nuova, piccola ma comoda e graziosa. Sono andato a trovarlo due volte, nel 1951 e nel 1974. In quest' ultima occasione mi ha detto di Arthur, che abita in un villaggio non molto lontano: è vecchio e ammalato, e non desidera ricevere visite che possano ridestare in lui antiche angosce. Drammatico, imprevisto, e pieno di gioia per entrambi, è stato il ritrovamento di Mendi, il "rabbino modernista" a cui si accenna in poche righe alle pp. .5 e 132. Ha riconosciuto se stesso leggendo casualmente nel 1965 la traduzione tedesca di questo libro: si ricordava di me, e mi ha scritto una lunga lettera indirizzandola presso la Comunità Israelitica di Torino. Ci siamo scritti a lungo, informandoci a vicenda dei destini dei nostri amici comuni. Nel 1967 sono andato a trovarlo a Dortmund, in Germania Federale, dove allora era rabbino: è rimasto com' era, "tenace, coraggioso e acuto", ed inoltre straordinariamente colto. Ha sposato una reduce da Auschwitz, ed hanno tre figli ormai grandi; l' intera famiglia ha intenzione di trasferirsi in Israele. Non ho più rivisto il Doktor Pannwitz, il chimico che mi aveva sottoposto ad un gelido "esame di Stato", ma ho avuto sue notizie da quel Doktor Müller a cui ho dedicato il capitolo "Vanadio" del mio ultimo libro "ii sistema periodico". Nell' imminenza dell' arrivo dell' Armata Rossa nella fabbrica di Buna, si è comportato con prepotenza e viltà: ha ordinato ai suoi collaboratori civili di resistere a oltranza, ha vietato loro di salire sull' ultimo treno in partenza per le retrovie, ma ci è salito lui all' ultimo momento approfittando della confusione. È morto nel 1946 di un tumore al cervello. 7. L' avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo, è un caso particolare di un fenomeno più vasto, e cioè dell' avversione contro chi è diverso da noi. È indubbio che si tratti, in origine, di un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma appartenenti a gruppi diversi, manifestano fra di loro fenomeni di intolleranza. Questo avviene anche fra gli animali domestici: è noto che una gallina di un certo pollaio, se viene introdotta in un altro, è respinta a beccate per vari giorni. Lo stesso avviene fra i topi e le api, e in genere in tutte le specie di animali sociali. Ora, l' uomo è certamente un animale sociale (lo aveva già affermato Aristotele): ma guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell' uomo dovessero essere tollerate! Le leggi umane servono appunto a questo: a limitare gli impulsi animaleschi. L' antisemitismo è un tipico fenomeno d' intolleranza. Perché una intolleranza insorga, occorre che fra i due gruppi a contatto esista una differenza percettibile: questa può essere una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l' accento (lo sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord); la religione, con tutte le sue manifestazioni esteriori e la sua profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o gesticolare; le abitudini pubbliche e private. La tormentata storia del popolo ebreo ha fatto sì che quasi ovunque gli ebrei manifestasse o una o più di queste differenze. Nell' intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta con caratteristiche particolari. Esso era (ed in parte è tuttora) depositario di un legame interno molto forte, di natura religiosa e tradizionale; di conseguenza, a dispetto della sua inferiorità numerica e militare, si oppose con disperato valore alla conquista da parte dei romani, e fu sconfitto, deportato e disperso, ma quel legame sopravvisse. Le colonie ebraiche che si andarono formando, su tutte le coste del Mediterraneo dapprima, e successivamente in Medio Oriente, in Spagna, in Renania, nella Russia meridionale, in Polonia, in Boemia ed altrove, rimasero sempre ostinatamente fedeli a questo legame, che si era andato consolidando sotto la forma di un immenso corpo di leggi e tradizioni scritte, di una religione minuziosamente codificata, e di un rituale peculiare e vistoso, che pervadeva tutti gli atti della giornata. Gli ebrei, in minoranza in tutti i loro stanziamenti, erano dunque diversi, riconoscibili come diversi, e spesso orgogliosi (a ragione o a torto) della loro diversità: tutto questo li rendeva molto vulnerabili, ed infatti furono duramente perseguitati, in quasi tutti i paesi ed in quasi tutti i secoli; alle persecuzioni gli ebrei reagirono in piccola parte assimilandosi, ossia fondendosi con la popolazione circostante; in maggior parte, emigrando nuovamente verso paesi più ospitali. In tal modo si rinnovava però la loro "diversità", che li esponeva a nuove restrizioni e persecuzioni. Sebbene nella sua essenza profonda l' antisemitismo sia un fenomeno irrazionale di intolleranza, esso, in tutti i paesi cristiani, ed a partire da quando il cristianesimo si andò consolidando come religione di Stato, assunse una veste prevalentemente religiosa, anzi teologica. Secondo l' affermazione di sant' Agostino, gli ebrei sono condannati alla dispersione da Dio stesso, e ciò per due motivi: perché in tal modo essi vengono puniti per non aver riconosciuto in Cristo il Messia, e perché la loro presenza in tutti i paesi è necessaria alla Chiesa cattolica, che essa pure è dappertutto, affinché dappertutto sia visibile ai fedeli la meritata infelicità degli ebrei. Perciò la dispersione e separazione degli ebrei non dovrà mai avere fine: essi, con le loro pene, devono testimoniare in eterno del loro errore, e di conseguenza della verità della fede cristiana. Dunque, poiché la loro presenza è necessaria, essi devono essere perseguitati, ma non uccisi. Tuttavia, non sempre la Chiesa si mostrò così moderata: fin dai primi secoli del cristianesimo fu mossa agli ebrei un' accusa ben più grave, quella di essere, collettivamente ed eternamente, responsabili della crocifissione di Cristo, di essere insomma il "popolo deicida". Questa formulazione, che compare nella liturgia pasquale in tempi remoti, ed è stata soppressa solo dal Concilio Vaticano ii (1962-65), sta all' origine di varie funeste e sempre rinnovate credenze popolari: che gli ebrei avvelenano i pozzi propagando la peste; che profanano abitualmente l' Ostia consacrata; che a Pasqua rapiscono bambini cristiani, col cui sangue impastano il pane azzimo. Queste credenze hanno offerto il pretesto per numerosi e sanguinosi massacri, e tra l' altro, per l' espulsione in massa degli ebrei dapprima dalla Francia e dall' Inghilterra, poi (1492-9.) dalla Spagna e dal Portogallo. Attraverso una serie mai interrotta di stragi e di migrazioni, si arriva al secolo xix, contrassegnato dal risveglio generale delle coscienze nazionali e dal riconoscimento dei diritti delle minoranze: ad eccezione della Russia zarista, in tutta l' Europa cadono le restrizioni legali ai danni degli ebrei, che erano state invocate dalle Chiese cristiane (a seconda dei luoghi e dei tempi, l' obbligo di risiedere in ghetti o in zone particolari, l' obbligo di portare sugli abiti un contrassegno, il divieto di accedere a determinati mestieri o professioni, il divieto dei matrimoni misti, ecc.). Sopravvive però l' antisemitismo, vivace soprattutto nei paesi dove una rozza religiosità continuava ad additare negli ebrei gli uccisori di Cristo (in Polonia e in Russia), e dove le rivendicazioni nazionali avevano lasciato uno strascico di generica avversione contro i confinanti e gli stranieri (in Germania; ma anche in Francia, ed alla fine del XIX secolo, i clericali, i nazionalisti ed i militari si trovano concordi nello scatenare una violenta ondata di antisemitismo, in occasione della falsa accusa di alto tradimento mossa contro Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo dell' esercito francese). In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie ininterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una teorizzazione fanatica, secondo cui il popolo tedesco, per troppo tempo diviso ed umiliato, era depositario del primato in Europa e forse nel mondo, era erede di remote e nobilissime tradizioni e civiltà, ed era costituito da individui sostanzialmente omogenei per sangue e per razza. I popoli tedeschi avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero, egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina. Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi rafforzata dall' umiliazione del trattato di pace di Versailles. Se ne impadronisce uno dei personaggi più sinistri ed infausti della Storia, l' agitatore politico Adolf Hitler. I borghesi e gli industriali tedeschi porgono orecchio alle sue orazioni infiammate: Hitler promette bene, riuscirà a deviare sugli ebrei l' avversione che il proletariato tedesco tributa alle classi che l' hanno condotto alla sconfitta ed al disastro economico. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1933, egli riesce a trarre partito dalla collera di un paese umiliato e dall' orgoglio nazionalistico suscitato dai profeti che l' hanno preceduto, Lutero, Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche: il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania dominatrice, non nel lontano futuro ma subito; non attraverso una missione di civiltà, ma con le armi. Tutto ciò che non è germanico gli appare inferiore, anzi detestabile, ed i primi nemici della Germania sono gli ebrei, per molti motivi che Hitler enunciava con furore dogmatico: perché hanno "sangue diverso"; perché sono imparentati con altri ebrei in Inghilterra, in Russia, in America; perché sono eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspira ad essere venerato come un idolo, e non esita a proclamare che "dobbiamo diffidare dell' intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti". Infine, molti fra gli ebrei tedeschi hanno raggiunto posizioni chiave nell' economia, nella finanza, nelle arti, nella scienza, nella letteratura: Hitler, pittore mancato, architetto fallito, riversa sugli ebrei il suo risentimento e la sua invidia di frustrato. Questo seme d' intolleranza, cadendo su di un terreno già predisposto, vi attecchisce con incredibile vigore ma in forme nuove. L' antisemitismo di stampo fascista, quello che il Verbo bandito da Hitler risveglia nel popolo tedesco, è più barbarico di tutti i precedenti: vi convergono dottrine biologiche artificiosamente distorte, secondo cui le razze deboli devono cedere davanti alle forti; le assurde credenze popolari che il buon senso aveva sepolte da secoli; una propaganda senza soste. Si toccano estremi mai sentiti prima. L' ebraismo non è una religione da cui ci si può allontanare col battesimo, né una tradizione culturale che si può abbandonare per un' altra: è una sottospecie umana, una razza diversa ed inferiore a tutte le altre. Gli ebrei sono solo apparentemente esseri umani: in realtà sono qualcosa di diverso: di abominevole e indefinibile, "più lontani dai tedeschi che le scimmie dagli uomini"; sono colpevoli di tutto, del rapace capitalismo americano e del bolscevismo sovietico, della sconfitta del 191., dell' inflazione del 1923; liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono sataniche invenzioni ebraiche, che minacciano la solidità monolitica dello Stato nazista. Il passaggio dalla predicazione teorica all' attuazione pratica è stato rapido e brutale. Nel 1933, solo due mesi dopo che Hitler ha conquistato il potere, nasce Dachau, il primo Lager. Nel maggio dello stesso anno si accende il primo rogo di libri di autori ebrei o nemici del nazismo (ma più di cento anni prima Heine, poeta ebreo tedesco, aveva scritto: "Chi brucia i libri finisce presto o tardi col bruciare uomini"). Nel 1935 l' antisemitismo viene codificato in una monumentale e minuziosissima legislazione, le Leggi di Norimberga. Nel 193., in una sola notte di disordini pilotati dall' alto, vengono incendiate 191 sinagoghe e distrutti migliaia di negozi di ebrei. Nel 1939 gli ebrei della Polonia testè occupata vengono rinchiusi nei ghetti. Nel 1940 viene aperto il Lager di Auschwitz. Nel 1941-42 la macchina dello sterminio è in piena azione: le vittime saliranno a milioni nel 1944. Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l' odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c' era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani; l' empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l' oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli. Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di dileggio e di disprezzo. Come è noto, l' opera di sterminio fu condotta molto avanti. I nazisti, che pure erano impegnati in una durissima guerra, ormai difensiva, vi manifestarono una fretta inesplicabile: i convogli delle vittime da portare al gas, o da trasferire dai Lager prossimi al fronte, avevano la precedenza sulle tradotte militari. Non fu condotta a termine solo perché la Germania fu disfatta, ma il testamento politico che Hitler dettò poche ore prima di uccidersi, coi russi a pochi metri, si concludeva così: "Soprattutto, ordino al governo e al popolo tedesco di mantenere in pieno vigore le leggi razziali, e di combattere inesorabilmente l' avvelenatore di tutte le nazioni, l' ebraismo internazionale". Riassumendo, si può dunque affermare che l' antisemitismo è un caso particolare dell' intolleranza; che per secoli ha avuto carattere prevalentemente religioso; che, nel iii Reich, esso è stato esacerbato dalla predisposizione nazionalistica e militaristica del popolo tedesco, e dalla peculiare "diversità" del popolo ebreo; che esso fu facilmente disseminato in tutta la Germania, e in buona parte dell' Europa, grazie all' efficienza della propaganda fascista e nazista, a cui occorreva un capro espiatorio su cui convogliare tutte le colpe e tutti i risentimenti; e che il fenomeno fu condotto al parossismo da Hitler, dittatore maniaco. Tuttavia devo ammettere che queste spiegazioni, che sono quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spiegare. Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all' impressione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi pare unica nella storia. Questa follia collettiva, questo sbandamento, viene di solito spiegato postulando la combinazione di molti fattori diversi, insufficienti se presi singolarmente, e il maggiore di questi fattori sarebbe la personalità stessa di Hitler, e la sua profonda interazione col popolo tedesco. È certo che le sue personali ossessioni, la sua capacità d' odio, la sua predicazione di violenza, trovavano sfrenata risonanza nella frustrazione del popolo tedesco, e da questo ritornavano a lui moltiplicate, confermandolo nella sua convinzione delirante di essere lui stesso l' Eroe profetizzato da Nietzsche, il Superuomo redentore della Germania. Sull' origine del suo odio contro gli ebrei si è scritto molto. Si è detto che Hitler riversava sugli ebrei il suo odio contro l' intero genere umano; che riconosceva negli ebrei alcuni suoi stessi difetti, e che odiando gli ebrei odiava se stesso; che la violenza della sua avversione proveniva dal timore di poter avere "sangue ebreo" nelle vene. Ancora una volta: non mi sembrano spiegazioni adeguate. Non mi sembra lecito spiegare un fenomeno storico riversandone tutta la colpa su un individuo (gli esecutori di ordini orrendi non sono innocenti!), ed inoltre è sempre arduo interpretare le motivazioni profonde di un individuo. Le ipotesi che vengono proposte giustificano i fatti solo in misura parziale, ne spiegano la qualità ma non la quantità. Devo ammettere che preferisco l' umiltà con cui alcuni storici fra i più seri (Bullock, Schramm, Bracher) confessano di non comprendere l' antisemitismo furibondo di Hitler e della Germania dietro di lui. Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: "comprendere" un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l' autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l' esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la "comprendiamo". Ma nell' odio nazista non c' è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell' uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano "capi carismatici", possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Ho5ss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent' anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent' anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate. È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitù, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall' interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. Allora i consigli di saggezza non servono più, e bisogna trovare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di quanto è avvenuto nel cuore dell' Europa, e non molto tempo addietro, può essere di sostegno e di ammonimento. .. Parlando rigorosamente, non so e non posso sapere che cosa sarei oggi se non fossi stato in Lager: nessun uomo conosce il suo futuro, e qui si tratterebbe appunto di descrivere un futuro che non c' è stato. Ha un certo significato tentare previsioni (del resto sempre grossolane) sul comportamento di una popolazione, ed invece è difficilissimo, o impossibile, prevedere il comportamento di un singolo, anche sulla scala dei giorni. Allo stesso modo, il fisico sa pronosticare con grande esattezza il tempo che impiegherà un grammo di radio a dimezzare la sua attività, ma non sa assolutamente dire quando si disintegrerà un singolo atomo di quel radio. Se un uomo si avvia verso un bivio, e non infila la strada di sinistra, è ovvio che infilerà quella di destra; ma quasi mai le nostre scelte sono fra due sole alternative: poi, ad ogni scelta ne seguono altre, tutte multiple, e così all' infinito; e infine, il nostro futuro dipende fortemente anche da fattori esterni, in tutto estranei alle nostre scelte deliberate, ed anche da fattori interni, di cui però non siamo coscienti. Per questi notori motivi non si conosce il proprio avvenire né quello del nostro prossimo; per gli stessi motivi nessuno può dire quale sarebbe stato il suo passato "se". Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l' esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di scrivere pur senza mai sottrarre neppure un' ora al mio mestiere quotidiano: mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta. Adesso sono passati molti anni: il libro ha avuto molte vicende, e si è curiosamente interposto, come una memoria artificiale, ma anche come una barriera difensiva, fra il mio normalissimo presente e il feroce passato di Auschwitz. Lo dico con esitazione, perché non vorrei passare per un cinico: nel ricordare il Lager oggi non provo più alcuna emozione violenta o dolorosa. Al contrario: alla mia esperienza breve e tragica di deportato si è sovrapposta quella molto più lunga e complessa di scrittore-testimone e la somma è nettamente positiva; nella sua globalità, questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al Lager femminile di Ravensbrück, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo. Devo però affrettarmi a precisare che questo esito positivo è stata una fortuna toccata a pochissimi: dei deportati italiani, ad esempio, solo circa il 5 per cento hanno fatto ritorno, e fra questi, molti hanno perduto la famiglia, gli amici, gli averi, la salute, l' equilibrio, la giovinezza. Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l' animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l'incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso. - Perchè sei pallido allora? - Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall'impressione provata, - rispose il pilota. - Tu menti come un ragazzo, - disse Yanez. - Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai. - Che cosa volete fare, signore? - chiese il miserabile con voce tremante. - Tangusa, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio. - Lega le mani a questo traditore, poi conducilo in coperta. Se cerca di resistere bruciagli le cervella. - La mia pistola è carica, - rispose l'intendente di Tremal-Naik. Yanez uscì dal quadro e salì sul ponte, mentre il meticcio metteva in esecuzione l'ordine ricevuto, senza che il malese avesse osato ribellarsi.

CONTRO IL FATO

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Steno, Flavia 1 occorrenze

E quasi cominciava a temere d'avere sbagliato, di non aver scelto bene il soggetto, e disperava quasi di poter trovare la donna vana e senza scrupoli che gli abbisognava. Ma Yvonne gli sorrideva con certi occhi intelligenti e profondi, che gli diedero un po' di speranza; dopo tutto, avrebbe sempre tentato!... - Siete a Parigi da molto tempo, signor Rook? chiese essa per avviare la conversazione in un modo qualunque. - Nossignora. Vi sono da alcuni giorni appena. - Venivate dall'America? - No, ero già in Francia. Oh, è molto tempo che non vado più in America. - Ma avete sempre i vostri affari laggiù, non è vero? - Ah, sì! le mie miniere! ma le amministrano i miei agenti. - E voi non fate che goderne i frutti, eh? Tanto meglio così! - esclamò essa sorridendo. Il signor Rook colse la palla al balzo, quantunque fosse forse un po' presto. - Io non domando di meglio che di avervi per compagna a dividere quei frutti! Yvonne arrossì di gioia. L'americano era pratico e molto miglior amico degli altri. Egli poneva nette le carte in tavola; l'oro prima delle dichiarazioni e dei baci. Si pagava anticipato in America! E poichè egli era tanto schietto, tutta la commedia di una certa resistenza pudica diventava inutile. - Come siete gentile! - sussurrò guardandolo e sorridendogli. - Davvero? Voi siete invece molto gentile se mi accettate per vostro amico fedele!... Essa gli stese la mano ch'egli baciò per cortesia, e il patto fu concluso. - Sentite, - proseguì William, cui stava molto a cuore di spiegarsi bene - voi siete divinamente bella, e ciò ve lo devono aver detto già tante volte, che la mia asserzione diventa forse inutile; ma mi sembrate, e siete certo intelligente, quanto bella. Yvonne sorrise d'orgoglio. Dove mai voleva andare a finire l'americano? - E poiché siete intelligente, credo di potervi parlare con franchezza. - Dite.... - essa incoraggiò. - Ciò che devo dirvi vi sembrerà molto strano, molto curioso.... - Oh! siete americano! - essa spiegò con un certo tono malizioso e furbo che lo fece sorridere. - Ne avete già conosciuti molti d'americani? - Oh, no! - protestò arrossendo. - Ebbene, certo mi troverete molto strano anche per un americano. Ma voi m'avete promesso d'essere la mia piccola amica, non è vero? Yvonne confermò, chinando il bellissimo capo. - Ed alle amiche si può ben chiedere un favore.... - Certamente. - Vi prego, perdonatemi se vi dico subito tutto, brutalmente, in un modo che forse vi farà dispiacere. Io non sono uso alle circonlocuzioni, e non so vestir di belle parole un pensiero ingrato. Io vengo a voi attratto dalla vostra splendida bellezza, eppure non offendetevi, vi prego! le meraviglie del vostro corpo perfetto non mi hanno bruciato le carni, non mi hanno acceso il sangue, non mi hanno sconvolto il cuore, perché nel mio cuore, nel mio sangue e nella mia carne vive una sola tremenda passione che mi uccide e mi strazia e contro la quale purtroppo sono inutili tutti i miei miliardi! Yvonne ascoltava stupita, con un certo malcontento per quella confessione che umiliava un poco la sua vanità, abituata a un perpetuo trionfo. Qual passione poteva agitare tanto quell'uomo ed accenderlo così, da trasformarlo tutto quando parlava? - Amore? - interrogò ansiosa. - Odio - rispose cupamente l'americano. - Una donna? - Un uomo! Allora il viso di lei si compose ancora sereno, e dal petto le uscì un sospiro di soddisfazione. Non che le importasse dell'amore di William, ma le sarebbe dispiaciuto un po' se avesse dovuto constatare che esisteva al mondo una donna più potente di lei.... - E che cosa posso farvi io? - domandò. - Avete indovinato; voi potete far molto, voi dovete aiutarmi a compiere la mia vendetta. Nonostante il profondo pervertimento di quella donna, un lungo brivido le passò nel sangue a quella parola pronunciata con una selvaggia voluttà. William se ne accòrse, perché facendosi dolce e astuto: - Ascoltatemi! - esclamò. - Io sono americano, avete detto, e dovete sapere come da noi si sente l'odio e l'amore. Voi non potete immaginare tutta l'infelicità della mia vita avvelenata da quell'uomo che m'ha fatto un male immenso.... Sono stanco di soffrire e voglio vendicarmi: vi ho veduta! vi voglio amare e voglio sentirla tutta anch'io, una volta, la felicità inebriante dell'amore, ma non posso, non posso.... fin che quest'odio divoratore esiste in me!... Parlava con tale impeto selvaggio, con tanto strazio nelle parole di fuoco, che giunse quasi a comunicarle un po' della sua stessa smania. - Aiutatemi ad uccidere quest'odio – esclamò - aiutatemi ad estinguere questa sete di vendetta, e tutte le mie ricchezze, tutta la fortuna e gli splendori della vita che una donna può desiderare, saranno vostri!... Yvonne,proseguì, facendosele più vicino e passandole un braccio attorno alla vita - volete che noi godiamo un giorno insieme tutta la fortuna inesauribile che mi danno le mie miniere laggiù? Che cosa debbo fare? - essa interrogò, guardandolo. Ve l'ho detto, non è vero, che m'avete trovato molto strano? Non meravigliatevi adunque. Vi chiedo che voi partiate con me stasera: andremo là dove so esservi quell'uomo; certo egli s'innamorerà di voi per la meravigliosa vostra bellezza.... Ebbene, lasciatevi amare. – Yvonne fece un gesto di somma sorpresa. - Sì, - proseguì lui - vorrei ch'egli vi amasse tanto da abbandonare per voi la sua casa, sua figlia, il suo paese, vorrei ch'egli fosse il vostro schiavo, e voi capace di rovinarlo completamente. Ecco: vi ho detto tutto! Certamente siete meravigliata; forse anzi anche indignata; non sapete comprendere come si possa rinunciare a voi e gettarvi in braccio al proprio nemico! Ma voi ignorate anche che cosa siano la vendetta e l'odio.... Yvonne taceva, profondamente stupita del contratto che quell'uomo le proponeva, dubbiosa se dovesse accettarlo o no, un po' umiliata nel suo amor proprio di donna, solleticata invece nella sua cupidigia di cortigiana. Milioni! egli le offriva de' milioni solo per lasciarsi amare da un altro! Oh, il cómpito era facile, e non era certo per scrupolo che esitava. Rovinare un uomo? Che cos'era in realtà? Piacergli e farsi pagare cara! Quanti non s'erano già rovinati ed uccisi per lei? Che cosa importava dunque uno più, uno meno? E i milioni del signor Rook valevano invece assai. - Yvonne, - supplicò William vedendola esitante e temendo un rifiuto - siete sdegnata, Yvonne? - Sdegnata? perchè dovrei esserlo! Non mi avete detto prima di non meravigliarmi? E d'altronde la vostra sete di vendetta non spiega tutto? Il signor Rook mandò un sospiro di sollievo. - Accettate adunque, e m'aiuterete? - interrogò ansioso. - Veramente.... - proseguì essa fingendo un po' di tristezza - veramente sarei stata molto più felice se avessi potuto riuscire a guarirvi io stessa dalla vostra triste passione facendovela dimenticare; l'amore trionfa di molto tristezze, ed io vi avrei amato tanto.... - soggiunse piano con un sottinteso pieno di promesse. William sospirò. Egli pensava al suo amore lontano che non aveva potuto conquistare ancora, e il cui pensiero ormai non lo abbandonava più. - Grazie; - rispose dolcemente - voi siete molto buona, ed io vi sarò infinitamente grato.... O Yvonne, anch'io voglio provarlo il vostro amore, anch'io vi voglio mia per deporvi ai piedi tutti i tesori della terra, ed è appunto perché voglio godere la vita con voi, che vi chiedo prima di fare l'enorme sacrificio e d'aiutarmi nella mia vendetta. Io non avrò mai pace, finché essa non sia compiuta. - Dove mi condurrete? - chiese Yvonne esitando. - A Biarritz ora: vi piace Biarritz? - Non vi sono stata mai. Ed a chi dovrò piacere io? Il signor Rook esitò. Ella se ne avvide e: - Non avete dunque fiducia in me? - chiese. - Non siamo uniti per sempre? - Accettate, dunque? - chiese lui. - Poiché lo volete.... - ed essa aveva l'aria d'una vittima pronta pel sacrificio, rassegnandosi così. - Chi è il vostro nemico? - proseguì. - Il duca d'Eboli! - disse Willian senza più esitare. Yvonne aggrottò un poco le ciglia come pensando. - Non lo conosco - soggiunse piano. - Lo so. - E avete un programma? - interrogò lei, diventata più cinica del suo complice. - Perderlo. - In che modo, con quali mezzi? - Oh, non è un delitto! - disse lui sorridendo. Non avete che a farvi amare! Non sono tutti perduti gl'infelici incatenati dal vostro fàscino? - Non voi. - Un giorno forse perderete me pure. - Oh! - protestò essa. - Ma non abbiate paura. Quel giorno è ancora lontano, perché le miniere di Wyoming sono molto più forti dei tesori europei.... - disse con un certo orgoglio. - E se il duca resistesse? Il signor Rook sorrise. - Allora sarete la padrona della mia vita. Essa comprese la sicurezza e la fiducia immensa ch'egli aveva nel potere della sua bellezza. - Credete adunque ch'egli mi amerà? - Perché farvi ripetere ciò che tanti anni di esperienza devono avervi già detto? - Partiremo presto? - Domani se non vi disturba. Ho molta premura. - Va bene, domani. - Intanto - soggiunse lui, sovvenendosi del dono che aveva seco - permettetemi d'offrirvi questo misero attestato della mia profonda ammirazione e della riconoscenza che mi lega a voi. Essa diede un'esclamazione di meraviglia alla vista di quegli splendidi rubini, che brillavano come brace ardenti al fioco lume della lampada. Non aveva sbagliato accettando lo strano patto di William. L'americano era splendido, quelle gemme valevano un patrimonio. - E - disse ancora il signor Rook, traendo di tasca il libretto degli chèques - siccome la partenza, soprattutto così improvvisa, esigerà delle spese, non permetto certo che voi abbiate a sopportarle sola. Qui vi sono tanti chèques chèquesper cinquecentomila lire - disse staccandoli e deponendoli sulla tavola sotto una fotografia di Yvonne - forse vi basteranno sino a domani. Gli occhi della giovane donna ebbero un lampo di gioia infinita. Ah, quell'americano! - Troppo gentile, - sussurrò chinandosi verso di lui, offrendosi tutta con un invito provocante nello sguardo improvvisamente lascivo. Ma William sfiorò appena colle labbra quella fronte bianca, poi si alzò per uscire. - Ho fatto tardi e dovete essere annoiata, non è vero? - disse galantemente coll'aria d'un gentiluomo che parli ad una contessa. - Tutt'altro! non volete restare a colazione con me? - Come, non avete ancora fatto colazione? Ma io ho mangiato da più d'un'ora! - esclamò lui fingendosi desolato. Yvonne sorrise. - Debbo venire a prendervi per l'Opéra, stasera? chiese ancora William. - Sarà meglio ch'io vada a letto presto, se dobbiamo metterci in viaggio domani! - Come volete; arrivederci a domani, allora. Ella suonò, ma nello stesso punto Maria entrava colla nota di Beudy per la piccola commedia combinata. Yvonne comprese e sorrise. Era ormai inutile quella farsa! Altro che diecimila lire! E quando Maria ritornò in salotto, dopo avere accompagnato il signor Rook fino sul pianerottolo, essa esclamò mostrandole gli orecchini e gli chèques: chèques:- Finalmente eccone uno che paga e che non sarà geloso di certo!...

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