Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

"Isacco figlio di Abramo, mi abbisognano dugento lire, altrimenti non posso saldare una cambialuccia al barbiere, il quale ha meno spirito di te, e mi caccierà dritto in prigione". "Non lo farà. Dovrebbe pagarti il vitto". "Pagherà, tanto è puntiglioso. E poi vuol dare un famosissimo esempio agli altri suoi avventori morosi, cui ha prestato al cento per cento". "Non lo farà, ti ripeto; ma se quell'usuraio sordido lo facesse, che cosa ne importerebbe a me?". "Non te ne importerebbe, cuore di vero soprano! È dunque sban- dito dal tuo animo ogni resto di pietà? Vuoi che ti canti una melo- dia in Mi minore per impietosirti? Poi, pensaci be- ne, l'umidità del carcere, la mancanza di moto, l'arrugginirsi della gola (perché non mi lascierebbero forse solfeggiare dalla mattina alla sera), gli insetti, il cattivo mangiare, e sopra tutto l'avvili- mento: in una settimana sarei bello e spacciato". E il tenore parlava con enfasi melodrammatica, mutandosi di ca- micia e mettendosi i calzini. "Anzi" replicava l'altro con lo sforzo di un sogghigno, che in quella faccia triste e macilenta diventava una contorsione pietosa "anzi la continenza forzata ti farebbe un gran bene. Usciresti di gattabuia, al pari d'un canarino, più grasso e più canoro". "Giacobbe figlio d'Isacco, sai che non mi piacciono gli scherzi, massime quando escono da una bocca tetra come la tua. Sono un buon figliuolo, ma non farmi scappare la pazienza. In fondo, chi mi spinse a chiedere danaro al factotum della città? Tu, che non volesti darmelo; ed io ne avevo urgenza per comperare musi- ca, pastiglie pettorali, eccetera, eccetera. Del rimanente non ignori che la mia vita costa una miseria. Il più è questa camera piccola e buia. A desinare e a cena sono spesso invitato, in grazia delle se- renate, dei concerti di famiglia o delle orgie musicali tra scapoli; e le donnette per me, piuttosto che una uscita, sono una entrata; la lavandaia mi serve gratis; il sarto confida nella mia prossima glo- ria, come confidi tu, mio protettore generoso". Parlava a intervalli, badando a vestirsi, finché, dopo essersi unto bene i capelli, i baffi ed il pizzo con una pomata di muschio, si ac- comodò i solini e la cravatta. Intanto l'antiquario lo seguiva con lo sguardo e lottava dentro di sé. Finalmente disse: "Insomma, anche questa volta farò un sacrifizio. Ti darò le du- gento lire". "Oltre la mesata, s'intende". "Oltre la mesata; ma, per carità, regolati nelle spese, non mi rovi- nare, se no avrai sulla coscienza la sventura d'un padre e di sei fi- gliuoli. A proposito, ieri pensavo a te". "Grazie di cuore. Vuoi dire che pensavi all'affar d'oro, che hai fatto meco". "No, proprio al tuo bene: pensavo a darti moglie". "Così subito?". "Fossi matto! Fra un anno o poco più, quando sarai entrato nel- l'arte sul serio ed avrai uno stato sicuro. Intanto si potrebbe gettare l'amo". "Intendo. Quel che ti preme è che io non pericoli in alto mare o non vada a frangermi in uno scoglio. Preferisci di farmi arenare tranquillamente, come una gondola, in secco. Poi un uomo inna- morato mangia meno, si svaga meno, spende meno. Poi la dote, perché ci deve essere una dote...". "Sicuramente". "La dote servirebbe subito a risarcirti col trecento per cento (altro che il parrucchiere!) delle tue liberali anticipazioni, senza nemme- no il disturbo di aspettare qualche anno". "Sei ingrato". "E chi è la bella?". "Ora non te lo voglio più dire". "Dimmelo, mio buono, mio adorato Giacobbe". Era, insomma, la nipotina del maestro Chisiola; la quale aveva ereditato dal babbo un capitaletto, che, fatto fruttare per molti anni e ingrossato dal nonno, poteva ascendere oramai ad una trentina di mila svanziche, senza contare che il nonno, benché rubizzo, non avrebbe tardato molto a lasciarle il resto. Il tenore dichiarò di non avere mai guardato molto attentamente quella monachetta, pure avendola veduta molte volte in chiesa e in istrada mentre accom- pagnava il vecchio, ed anche in casa di lui, ma di rado. Gli era sembrata una piccola beghina scipita; ma in conclusione, trattan- dosi di un affare lontano, non diceva né sì, né no. Avrebbe guar- dato e pensato meglio. I due si lasciarono questa volta pienamente rabboniti, sebbene in Mirate, malgrado la lettura di romanzi e poesie, cui s'era dato, e la nuova compagnia di persone abbastanza civili, rimanesse inalte- rata l'indole volgarmente sarcastica e impertinente del barcaiuolo. Ma nell'animo dell'altro era cresciuto un affetto quasi paterno e indulgente ed ansioso verso quel giovine, nel quale in principio non aveva veduto altro che l'utile vittima dell'usuraio; tanto che ora si compiaceva, in fondo, della bellezza, della forza, della spa- valderia, degli stessi vizi del suo pupillo musicale, idealizzando ogni cosa, e gli sarebbe sembrato impossibile che una fanciulla lo rifiutasse per marito ed una famiglia non si tenesse orgogliosa d'imparentarsi con lui. Trascorso poco più di un anno, Mirate entrò nella cappella di San Marco quale supplente del vecchio tenore sfiatato; ed, una setti- mana dopo, il soprano aveva già persuaso lo Zen di chiedere al maestro Chisiola per il novello cantore la mano della sua nipotina. S'è visto come il nonno rispondesse con una negativa tanto riso- luta ed asciutta, che lo Zen non ebbe più ardire d'insistere. Il ri- fiuto stupì e addolorò lo strozzino, in cui interesse e cuore cospi- ravano insieme; ma offese vivamente, nel suo amor proprio di bel giovane conquistatore e di famoso cantante, Mirate, il quale per la prima volta guardò con interessamento la modesta fanciulla, giu- rando a sé medesimo che di quel no il vecchio si sarebbe presto pentito.

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