Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Aristotele esposto ed esaminato vol. II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Quindi la sola mente passiva perisce, secondo Aristotele, colla morte dell' uomo, e non si conserva la memoria delle specie acquistate, perchè queste si vedono nelle sensazioni e nelle immagini che sono sottratte all' anima insieme all' organo corporale di cui abbisognano (1). All' incontro non perisce nè la mente attiva, nè la mente in potenza, benchè rimangano senz' azione, e ciò perchè sono la stessa mente innata. E veramente, che quando Aristotele nomina come peritura [...OMISSIS...] , intenda le specie acquistate coll' uso dei sensi per induzione, vedesi chiaramente dall' unirla alla memoria , che suppone tali specie già acquistate. All' incontro che la mente tanto fattrice quanto fattibile ossia in potenza, si conservi separata dal corpo, si può provare così. Tutti i commentatori sono d' accordo nell' ammettere immortale la mente fattrice od agente: basta dunque per noi provare che sia immortale anche la mente fattibile, ossia in potenza. Questo poi si prova dalla qualità che attribuisce Aristotele d' impassibile , e però priva di memoria, [...OMISSIS...] , tanto alla mente fattrice, quanto alla mente in potenza. Ora nel III, 4 dell' «Anima » cerca come si produca il conoscere [...OMISSIS...] . Cercare come si produca il conoscere è lo stesso che cercare come si produca la mente passiva . Ma per dichiarare questo, conviene: 1 stabilire qual sia la mente anteriormente al conoscere; 2 qual sia la mente dopo acquistato il conoscere. La mente anteriormente al conoscere non è solamente la mente fattrice che fa il conoscere, ma anche la mente fattibile cioè in potenza a conoscere. Dice dunque che questa mente, che non ha ancora ricevuto le specie « deve essere impassibile, suscettiva delle specie, e che sia queste specie in potenza »(2). Qui parla chiaramente della mente ancora in potenza. E dice che questa è la mente d' Anassagora senza mistura di sorta, [...OMISSIS...] . Onde dice, che la sua natura è puramente il possibile (3), non avendo ancora niuna delle specie naturali in atto, ma solo il possibile, che è quanto dire l' essere possibile , che la rende capace di ricevere tali specie. Questa è quella mente, con cui l' anima pensa e percepisce, [...OMISSIS...] : onde evidentemerice e fattibile , e che è una stessa ed identica mente, anteriore all' acquisto delle specie naturali, che poi formano la mente passiva . Questa mente dunque fattrice e fattibile non si mescola al corpo, e però non ha bisogno del corpo per sussistere, e non è ancora le forme se non in potenza, [...OMISSIS...] , onde la chiama il luogo delle forme (1). E prova che questa mente in potenza è separata di natura dal corpo per la differenza che passa tra essa e il senso, il quale dipendendo dall' organo s' istupidisce se sente qualche cosa di troppo forte, la mente all' opposto s' avvalora col fortemente conoscere (2), perchè è ella stessa l' intelligibile in potenza, e diventa poi l' intelligibile in atto. Si fa ancora la domanda perchè la mente non pensi sempre, e l' attribuisce all' essere le specie unite colla materia, onde il pensiero intermittente, di cui parla Aristotele, è quello che si riferisce alle cose sensibili e materiali. Intorno a queste, dice, non pensa sempre perchè ell' ha bisogno di fare un' operazione per arrivare a pensare queste specie, ha bisogno di separare le specie dalla materia perchè la mente se le approprŒ (3). Ma per ciò che riguarda la mente stessa, ella si intende sempre e tuttavia alla condizione dell' altre cose: poichè tutte le cose s' intendono a condizione che siano senza materia, semplici, immiste. Ora la mente è tale per sè e, appunto perchè tale, rende anche l' altre cose scevre di materia e così intelligibili (4). Dunque ella si conosce sempre, e questa mente conosciuta è la mente in senso obiettivo, il possibile, [...OMISSIS...] . C' è dunque sempre un atto nella mente, ed è con quest' atto primo e sostanziale che fa tutto il resto, [...OMISSIS...] , ed è come abito a guisa del lume, [...OMISSIS...] . Poichè come il lume, essendo in atto, rende colori in atto i colori che sono in potenza (5), così la mente fa delle specie che sono ne' sensibili e nelle cose materiali. La mente in potenza dunque si riferisce a queste specie, ma ella in se stessa è in atto, e però rispetto a sè è mente teoretica o contemplativa, di cui si può dire che l' intelligente e l' inteso sia il medesimo, [...OMISSIS...] . E` dunque la stessa mente quella che è in atto e quella che è in potenza: poichè è in atto rispetto a se stessa ed è in potenza rispetto alle specie che sono unite colla materia negli enti naturali (1). Aristotele si fa delle obbiezioni, che servono non poco a render chiara la sua mente, alle quali dà certe risposte, di cui non fu bene intesa generalmente la forza. Avea detto, che la mente è semplice, impassibile, e non ha nulla di comune coll' altre cose, [...OMISSIS...] , secondo la sentenza d' Anassagora: come dunque ella intende, domanda, se pensare è un certo patire, chè, solamente in quanto c' è qualche cosa di comune in ambedue i termini, l' uno sembra agire e l' altro patire? (2). Oltre ciò, essendo l' intelligibile uno di specie, o che è ella stessa la mente questo intelligibile o che questo intelligibile è diverso da essa e si trova nelle cose naturali. Se è ella stessa l' intelligibile, convien dire, che quando intende l' altre cose, ella stessa sia nell' altre cose, il che è assurdo: se poi l' intelligibile è diverso da lei, in tal caso ella sarà mista e dovrà semplificarsi prima d' essere intelligibile (3). Risponde Aristotele a queste difficoltà, che l' intelligibile è nella mente stessa, [...OMISSIS...] , e che l' intelligibile, essendo al tutto privo di materia, non può rendere mista la mente; che si dice, che la mente intendendo patisce, unicamente perchè l' intelligibile è in essa in potenza, e quando esce all' atto è ella medesima (4). Onde tra ciò che sembra agire, cioè l' intelligibile, e ciò che sembra patire, cioè la mente, non solo c' è qualche cosa di comune, ma c' è identità, che è l' identica mente quella che è in potenza, e quella che poi è in atto. Non patisce dunque dalle cose esterne, ma da se stessa (dalla mente in senso obiettivo), se questo si vuol dir patire: e da questo non procede, che la mente subiettiva sia nelle cose esterne, poichè nelle cose c' è la materia, e però in esse l' intelligibile è solo in potenza. Se quest' intelligibile nelle cose è una specie sostanziale tale, che giunga a spogliarsi della potenza e divenire entelechia, come nella generazione umana, in tal caso egli diventa mente, e questa mente o entelechia è « « la potenza priva di materia di tutte l' altre specie che sono nelle cose » » [...OMISSIS...] (1). Dal qual luogo vedesi la connessione che pone Aristotele tra la mente umana, e le specie che sono negli enti composti di materia e di forma. Una di queste specie sostanziali diventa mente ed ha in potenza tutte le altre. All' occasione delle sensazioni, le altre specie che ha in se stessa in potenza, si attuano, e così s' arrichisce di cognizioni. Le specie dunque nelle cose sono identiche a quelle nella mente (2), e sono contenute nella mente come in una specie maggiore che è in atto, quasi accidenti della medesima, i quali possono essere in potenza e passare all' atto: « « l' intelligibile dunque propriamente è uno di specie » », [...OMISSIS...] , il che è quanto dire, è una specie sola, che abbraccia l' altre come sue attuazioni accidentali, e questo intelligibile unico è la mente, che «to auto esti to noun kai to noumenon». Così è perfettamente congiunta la mente colla natura delle cose mondiali: il che tuttavia non rimove le gravi difficoltà, che abbiamo già indicate. La mente dunque è di natura sua teoretica cioè contemplatrice; questa mente poi quando si considera in relazione all' altre specie che sono miste di materia e di forma, dicesi da una parte fattrice o agente in quanto ha virtù d' attuare in sè le specie naturali scevre di materia, all' occasione delle sensazioni, e dicesi mente in potenza , in quanto ha queste stesse specie in potenza; dicesi poi mente passiva , in quanto ha attuate già in sè queste specie e le conserva in atto, la qual conservazione dicesi memoria: e questa è quella che perisce, rimanendo la mente teoretica, e anche la fattrice e la fattibile, ma senza più operare, mancando le sensazioni, onde dice «kai aneu tutu uden noei». Questa mente passiva poi è atto, quando le cognizioni sono acquistate, ma quest' atto non è continuo, ma abituale, e però ritiene ancora della potenza; può però passare alla contemplazione per un certo tempo e in que' momenti ella stessa è mente contemplativa (3). La prima mente dunque, fondamento dell' altre, è contemplatrice o teoretica. Ma che cosa contempla? Aristotele risponde: il principio, senza il quale non si può conoscere nessun' altra cosa, e questo è l' essere. Questo dunque, e ciò che in lui si trova, «taa prota», è il più noto per natura, ma, dice, non il più noto rispetto a noi; con che non vuol negare, come abbiamo osservato, che si conosca da noi anteriormente a tutte l' altre cose, ma nol conosciamo da prima colla mente passiva e riflessa, e quindi quella cognizione immediata, priva di coscienza, non ci soddisfa, non pare cognizione nostra, e non è cognizione scientifica (1). Questo principio dunque di contemplazione che ha l' anima dell' eterna e prima essenza rispetto alle specie mondiali è l' attività conoscitiva, e così acquista la denominazione di mente fattrice, e poichè queste forme le ha in se stessa virtualmente comprese nel suo oggetto essenziale, acquista pure la denominazione di mente in potenza, o quando le ha già ottenute in atto, acquista finalmente quella di mente passiva o patetica. Tutto il sapere dell' uomo, quello che lo rende atto a far uso delle cose mondiali, ed a riflettere anche sopra se stesso, sta in quest' ultima, e però Aristotele s' applica a dichiarare la formazione della mente passiva, e di questa dice che nella vecchiezza perviene alla sua maturità (2). Osserva dunque che sebbene la mente sia la specie eccellentissima di tutte pervenuta a costituirsi come atto, entelechia, tuttavia ci sono delle altre specie sostanziali nella natura che arrivano ad attuarsi per via di generazione, il cui atto però non essendo ultimo, non hanno la natura di menti. Questi atti costituiscono una certa gerarchia di basso in altro, e i loro principŒ moventi sono quattro, [...OMISSIS...] (3), cioè il vegetativo o nutritivo (4), l' appetitivo (5), il sensitivo, il motivo di luogo. Le quali specie sostanziali sono così connesse tra loro, che sebbene possano attuarsi in diversi enti, tuttavia le susseguenti non possono trovarsi scompagnate dalle precedenti. Nell' uomo poi nel quale c' è la specie ultima cioè la mente, conviene che ci sieno pure quelle quattro specie anteriori e d' inferiore eccellenza, e nascendo la generazione dall' imperfetto al perfetto, dalla potenza all' atto, conviene altresì che ultima sia la mente a comparire in atto, e che questa anche possa sopravvivere alle altre: chè questa è il fine di quelle, e il fine altresì di tutta la natura (1): ma esistendo la mente nell' uomo, questa deve ridurre in se stessa in atto le specie della natura e così rendersi mente patetica. Per questo appunto accade, che tutte quelle quattro specie sostanziali, il vegetale, l' appetitivo, il sensitivo, il motivo di luogo, sieno parti della stessa anima di cui è la mente. La mente essendo nella stessa anima, e in senso subiettivo formando un chè uno col sensitivo, raccoglie da questo gli intelligibili, al sensitivo poi serve e la parte vegetale e l' appetitiva. Come poi la mente raccolga tali intelligibili per induzione, fu da noi veduto. La mente subiettiva dunque nell' uomo, essendo diversa da' suoi proprŒ intelligibili, ha bisogno d' acquistarseli, nel modo detto, laddove la mente suprema, essendo ella stessa come subietto il suo proprio intelligibile, non ha punto bisogno di ciò. E dico i suoi proprŒ intelligibili ; perchè la mente umana, uscita dalla natura, si tiene, fino che l' uomo vive, subiettivamente radicata nella natura per mezzo dell' altre parti dell' anima, e così è naturalmente ordinata a raccogliere tutte le specie naturali, che ha in sè e di cui è essa il contenente, cioè a dire ad attuarle in sè medesima. Iddio all' incontro è pienamente beato di se medesimo, e quest' unico intelligibile continuamente e perfettamente da lui contemplato è tanto eccellente che tutte le specie mondiali lo deteriorerebbero se vi si mescolassero, come mescolandosi l' imperfetto col perfetto questo si deteriora. Ma la mente umana, secondo Aristotele, non attinge il sommo intelligibile, se non con languidissimo sguardo. « « Poichè, dice, come gli occhi della nottola sono al lume del giorno, così la mente dell' anima nostra a quelle cose che per loro natura sono manifestissime fra tutte »(2) », e alla sua vita naturale ha bisogno di conoscere le specie della natura, e per questa via non solo acquistarsi le scienze naturali, ma ben anco rendere a se stessa più note quelle cose, che per natura sono manifestissime, ma a noi visibili appena: « « poichè l' apprendere ha luogo così in tutti, mediante le cose che sono meno note, a quelle che sono più note »(3) », e ciò per difetto del nostro occhio e non per difetto d' evidenza nelle cose (4). Quando poi Aristotele parla della mente data all' anima come strumento col quale possa formarsi la scienza, non può intendere che della mente insita nella costituzione dell' uomo; quando parla della mente pienamente generata soltanto nella vecchiaia, è evidente che egli intende della mente acquisita o patetica (1): onde conviene che quella si distingua da questa: della prima dice che è de' soli principŒ, che riduce egli stesso a un primo intelligibile, della seconda dice che è di tutti gl' intelligibili, [...OMISSIS...] la prima ha per oggetto «ta te physei phanerotata», la seconda «panta noei»: la prima è lo strumento dell' anima [...OMISSIS...] , la seconda è l' effetto prodotto dall' uso d' un tale strumento ed è ella stessa tutte le specie naturali in atto: la prima è la tavoletta su cui si scrive, la seconda è le cose scritte (2): anche la tavoletta è in atto come tavoletta, ma non è ancora le cose scritte, così la mente è la prima e l' ultima (3). Adunque tra il primo stato della mente, priva delle specie mondiali e fornita solo d' un primo atto che contiene in potenza tutti gli altri, e che perciò è «dynamei ta eide,» e l' ultimo stato in cui ha acquistate queste specie in atto, c' è la disciplina [...OMISSIS...] , che è come la generazione nelle cose naturali, media tra una entelechia e l' altra. L' atto poi con cui si fa questa disciplina è il pensiero, [...OMISSIS...] , che è pratico, o fattivo o teoretico (4). Il pensiero pratico è il principio delle azioni umane, e circa lui più abiti si distinguono ne' libri morali (5): al pensiero fattivo appartiene l' arte (6): l' uno e l' altro di questi pensieri non sono delle cose necessarie, ma delle contingenti (7); ma l' arte è sempre del vero, la pratica poi del bene e del male (.). Oltre l' arte, versa intorno al vero la prudenza e la sapienza (9), ma i due abiti che hanno per oggetto il vero necessario sono la scienza e la mente . Questa somministra a quella i principŒ; quella movendo da questi principŒ ragiona, cioè deduce le conseguenze, e dimostra, chè la scienza è una cognizione dimostrata (1), laddove la mente è una cognizione intuitiva de' principŒ. Questi principŒ si raccolgono coll' induzione (2), ma questi non si potrebbero raccogliere se non ci fosse prima il luogo dove raccoglierli [...OMISSIS...] , la tavoletta, [...OMISSIS...] , dove scriverli. Questo luogo è in atto come luogo, e questa tavoletta è in atto come tavoletta, e tale è la mente in atto, che Aristotele dice essere data all' uomo da Dio stesso, come uno strumento con cui procacciarsi coll' induzione e col raziocinio tutte le specie della natura (3). Questa raccolta delle specie naturali fatta dall' anima coll' organo della mente, per via dell' induzione e del raziocinio, dopo aver prodotte le scienze naturali, perviene alla filosofia prima, cioè alla dottrina de' principŒ: ritorna dunque ond' è cominciata, e poichè questi stessi principŒ si chiamano mente da Aristotele, perciò il principio e il fine dell' opera è la mente, ma il principio è la mente insita per natura nell' anima, e il fine è la stessa mente convalidata dal lungo esercizio (4). L' una e l' altra è de' principŒ; ma la prima è intuizione de' principŒ senza riflessione, la seconda de' principŒ conosciuti con riflessione e consapevolezza; la prima ha un solo principio in atto e gli altri in potenza, il più universale di tutti, l' essere; la seconda ha molti principŒ in atto, e non solo i primi, ma per principŒ Aristotele intende anche tutte le essenze specifiche prive di materia, che sono principŒ degli enti naturali composti di materia e di forma (5). Distingue dunque la mente in due, [...OMISSIS...] . Il qual luogo, non dee già intendersi che la mente sia lo stesso senso de' singolari, ma che sia un senso che raccoglie le specie ultime , che noi chiamiamo specie piene, o le specie astratte (non generi ancora) (2). Per riassumere adunque, gl' intelligibili sono sparsi nella natura mondiale, congiunti alla materia, cioè alla potenzialità, che è quanto dire non pervenuti all' ultimo atto, che da intelligibili in potenza li renderebbe intelligenze. Ma cotesti intelligibili sparsi nella natura sono limitati più o meno, e niuno di essi è intelligibile illimitatamente e pienamente. La natura dunque mancherebbe del suo comignolo e la serie degl' intelligibili mancherebbe del suo primo, se non ci fosse uno intelligibile in atto perfetto e illimitato senz' alcuna potenzialità di sorte. Questo intelligibile primo non può a meno d' esistere necessariamente, perchè ciò che è perfetto atto, è, per la stessa definizione, esistente, essendo il medesimo atto ed essere: ed esiste separato e da sè, appunto perchè non dipende da alcuna potenza e materia. Egli non è la natura, per la stessa definizione, essendo « « la natura ciò che ha potenza e movimento » ». Quest' intelligibile puro e perciò pura intelligenza è Dio, e non può avere altra natura ed essenza che quella dell' essere puro , poichè se qualche altra cosa gli s' aggiungesse sarebbe dipendente, e avrebbe potenzialità e materia o limitazione. Fino a che la natura non giunge a toccare questo puro intelligibile, niente in essa e è condizione dell' intelligenza, ossia della mente, d' essere un atto privo al tutto di materia (3), e quest' atto non essendo che Iddio, la natura deve pervenire a toccare Iddio, acciocchè s' approprŒ quell' atto purissimo e attualmente intelligibile , e così anch' essa diventi intelligenza, poichè coll' avere in sè ciò che è attualmente intelligibile non può a meno d' intendere. Essendo quest' intelligibile per sè l' essere , la mente è formata dall' essere. Ora quest' ultimo atto della natura c' è sempre stato (1), e per mezzo della generazione umana si perpetua. Ma l' anima umana non tocca quest' atto che imperfettamente, e non essendo ella stessa quest' intelligibile in atto, da lui dipende come da un principio maggiore, e si distingue colla sua subiettività dal suo obietto essenziale, che le serve di strumento agli altri suoi atti. Così Aristotele dice, che Iddio ci dà la mente (2). Infatti conoscendo l' essere si possono conoscere tutte l' altre cose in esso contenute, ma senza l' essere, niente si può conoscere, perchè tutto è essere. Laonde Aristotele fa dipendere le verità dalla prima, come gli esseri dal primo essere. [...OMISSIS...] E qui già si scorge meglio la conciliazione tra ciò che dice dell' universale e ciò che dice del singolare. Poichè dopo avere esaltato questo sopra di quello e aver detto che in questo solo si deve cercare l' atto compiuto, involgendo quello imperfezione e potenza, sembra che in alcuni luoghi cangi il discorso e magnifichi sopra tutto l' universale. La conciliazione è questa. Iddio primo principio è l' essere sussistente. Questo è subiettivamente singolare. Ma l' uomo lo tocca obiettivamente, come primo ed assoluto intelligibile e questo tocco forma la mente innata: il tocco però è debolissimo e dà una languidissima e abituale notizia dell' essere, non sufficiente all' uomo nella sua vita terrena. L' essere così conosciuto è la mente in senso obiettivo e lo strumento, ovvero organo dato all' uomo con cui conoscere l' altre cose (1). Con questo dunque l' uomo dee acquistarsi la scienza propria di lui, cioè dee raccogliere gl' intelligibili sparsi nella natura (2). I quali intelligibili separati dalla materia (3), sono gli universali; e senza questi non si dà scienza (4). Questi poi sono l' essere delle cose; «to ydati einai» è la pura specie sostanziale dell' acqua, «to megethei einai» è la specie pura della grandezza, e così via (5). Raccogliendo dunque le specie, raccoglie l' essere sparso nella natura. Ma come in molti enti reali inesiste una specie comune, così in molte specie inesiste un genere comune, e in tutti i generi poi trova comune l' essere stesso. L' essere dunque nella natura è comunissimo, se non che è più ristretto nelle specie, più esteso ne' generi, più comprensivo in quelle, meno comprensivo in questi. Ora Platone, come l' intende Aristotele, avea detto che quest' essere comunissimo esiste da sè separato dalla natura, e che gli enti della natura ne partecipano e così sono (6). Aristotele si oppone a questo, e dice che l' essere comunissimo non può esistere separato, e nè pure è un genere (7). Ma cangia piuttosto le parole che la cosa: poichè qual principio sostituisce? L' essere stesso, non più comunissimo, ma singolare e sussistente, al quale aspirando come a fine tutte le diverse materie della natura, giungono a parteciparne limitatamente qual più qual meno. C' è dunque l' Essere primo singolare, ma preso questo per obietto dalla mente umana ed applicato alla natura diventa comunissimo per la ragione che questa mente riporta e identifica con esso lui tutto l' essere limitato che è sparso nella natura, cioè le specie. Queste sono essere come quello, ma si distinguono per la loro limitazione: così suppone che ci sia in fondo a tutto un essere solo immateriale, il quale sia limitato e illimitato ad un tempo, ma in quant' è illimitato sia Dio, in quant' è limitato sia unito colla materia e sia natura (1), allo stesso modo come suppone che la specie nella materia e la specie separata sia una e la stessa, ma in quant' è nella materia non è intelligenza, in quant' è separata è Intelligenza o Mente. Se dunque si considera l' essere come attualissimo in se stesso, egli è singolare, prima causa finale fuori della natura; se si considera come meno attuato, è in tutti gli esseri della natura, e in essi è ancor singolare: ma raccolto l' essere che è ne' molteplici della natura dalla mente, è universale perchè ne' molti inesistente (2). Trovando dunque la mente l' Essere assoluto, questo in quant' è sussistente, è singolare fuori della natura, ma riportato da essa mente e riscontrato alla natura, come misura comune di tutte le cose, è comunissimo . E però l' uomo che trae la scienza dalla natura, nulla può sapere senza l' ente comunissimo, e la prima filosofia che tratta dell' essere come essere, il dee considerare ad un tempo, dice Aristotele, e come singolare e primo, e come comunissimo. Osserva dunque Aristotele che la parola ente ha un primo significato, dal quale tutti gli altri derivano, e al quale tutti si riferiscono, e che perciò la scienza che tratta dell' ente deve riportare tutto ciò che dice a questo primo significato, come a un solo principio (3). L' essere dunque si considera da Aristotele come una sola natura, [...OMISSIS...] . Qual è dunque il primo e proprio significato di ente? Quello di essenza sostanziale , risponde Aristotele, chè tutte l' altre entità espresse nell' altre categorie sono posteriori ad essa (4). Di questa dunque dee propriamente trattare quella scienza che ha per oggetto l' essere come essere, e anche d' ogni altra entità, ma ad essa riferendola (5). Se l' essere dunque in questo senso primo e proprio, cioè l' essenza sostanziale è l' oggetto precipuo della filosofia prima, si prende qui l' essere ancora come un genere , sia come il genere universalissimo, sia come il genere dell' essenza sostanziale (6), d' altra parte la scienza non può far di meno dell' universale, e la filosofia prima ha lo stesso oggetto della dialettica (1). Come dunque sembra negare che l' essere sia universale? (2). Conviene osservare come Aristotele concepisca l' universale; il concetto, che s' è formato dell' universale, è inerente alla espressione greca «kath' holu», che è come dire « ciò che si dice di tutto » onde è preso dalla predicazione e non dall' intuizione . Ora il medesimo essere non si predica di tutte le cose, e però «me tauto epi panton,» perchè l' essere d' una cosa non è il medesimo di quello dell' altra, ma varia secondo la specie. [...OMISSIS...] . Ciò che si predica di tali cose in un modo anteriore e posteriore (4), è il genere: il genere dunque non c' è propriamente fuori delle specie. Or come l' essere si predica in un modo anteriore della sostanza, e in un modo posteriore degli accidenti, non è dunque un genere comune a quella e a questi. Ma non si predicherà dunque in comune di tutte le sostanze, o anche di queste si predicherà in un modo anteriore e posteriore? Secondo Aristotele l' essere si predica in un modo anteriore della essenza attualissima, cioè di Dio, e in un modo posteriore dell' altre essenze naturali composte d' atto e di potenza: e perciò non c' è null' altro fuorchè Dio, e le sostanze naturali: non c' è un universale comune. Ma dopo di ciò torna la perplessità, [...OMISSIS...] . Ma egli stesso s' accorge che questo è un tornare agli universali; laonde soggiunge che: [...OMISSIS...] . Il fondo di questa questione « se i principŒ degli enti siano gli universali o i singolari »nasce da questo. Nelle idee c' è da notarsi l' estensione e la comprensione (2). Se si considerano le idee dalla parte dell' estensione, cioè dalla maggiore universalità, le più universali contengono le meno universali, e però quelle sono principŒ di queste. Se si considerano dalla parte della comprensione, ciò che è più comprensivo contiene quello che è meno comprensivo, e però i più comprensivi ossia meno universali sono i principŒ de' più universali (3). Quali dunque sono i principŒ degli enti, universali o singolari? (4). Tale in sostanza è la difficoltà che Aristotele chiama « « difficilissima di tutte e insieme necessarissima » » [...OMISSIS...] (5): egli la presenta sotto molti aspetti, e la fa comparire come questioni diverse (6); ma in nessun luogo ne dà una chiara e diretta soluzione: convien raccogliere a fatica quella sentenza ch' egli avrà probabilmente insegnata apertamente nella scuola. Noi non dubitiamo, che sia quella che abbiamo già data, e che ripeteremo in altre parole. Ci sono delle cose che si predicano d' altre, e queste devono avere un subietto di cui si predicano, e che egli stesso non si predica. Il subietto e il predicato sono relativi, e l' uno non istà senza l' altro, onde suppongono una composizione di materia, - subietto - e di forma - predicato - (1). Parliamo delle sole forme o essenze sostanziali, alle quali le accidentali si riducono (2). Le forme o essenze sostanziali, oltre essere nella natura, esistono anche separate nella mente. Le forme dunque si possono considerare sotto due rispetti: 1 in se stesse, pure da materia, e sotto questo aspetto ciascuna è perfettamente una ; e 2 o congiunte nella materia, nel quale aspetto una sola forma veste più materie, ed essa è da Aristotele rassomigliata al maschio che feconda più femine (3). Stabilisce dunque Aristotele l' unità dell' essenza sostanziale , giacchè essendo essa puro essere, e l' essere essendo indiviso dall' uno, anch' essa è una, e singolare in se stessa e pienamente determinata (specie piena?) (4). Ed è così che l' uomo intende, perchè c' è l' uno in più enti naturali (5), cioè la specie sostanziale che è una e singolare e che rimane nell' anima fornita di mente, in occasione della sensazione (6). Onde a questa specie attribuisce ad un tempo d' esser uno , e d' esser universale. [...OMISSIS...] Ma s' osservi attentamente, che Aristotele usa, senz' accorgersi, in due significati diversi «to katholu:» poichè talora lo considera manifestamente come un predicato , e allora dice, che non può esistere separatamente, perchè suppone un subietto; talora poi lo considera come quell' essenza sostanziale che, essendo una, è causa a più cose di essere, e di essere uno (1), e a questa concede l' esistere separata (2). In tal caso non è più il predicato d' un altro subietto, ma è l' essere della cosa stessa. Tutte le altre cose accidentali si predicano di questa specie sostanziale, e sotto questo aspetto, ella diventa subietto, ma ella stessa si predica della materia (3), e sotto questo aspetto ella stessa diventa predicato, e predicato universale, perchè si può predicare di più materie, rimanendo ella una ed identica. Ma la materia non esiste se non per lei e però non è un subietto indipendente da lei: ella dunque è antecedente al subietto materia, e in quant' è antecedente non è predicato, perchè il predicato è relativo e contemporaneo ed anzi posteriore al subietto (4). Sotto questi diversi aspetti, ne' quali si può riguardare la specie sostanziale, disputa lungamente e ritorna spesso Aristotele, opponendo ragioni a ragioni, e non venendo mai a una netta e del tutto esplicita conclusione. Del rimanente, la conclusione si è che Aristotele tiene costantemente divise le specie , sparse nella natura, dalla specie massima divisa da essa totalmente: eterne quelle e questa, ma quelle dipendenti da questa, perchè poste in atto dall' appetito insito nella materia o potenza, che costituisce la natura e s' avvicina a quella, ma imperfettamente (1). Essendo le specie che sono sparse nella natura determinate, distinte ab eterno, inconfusibili, esse formano come una serie, e non hanno altra unità se non quella del numero (2). Ora, come ciascun numero ha unità, perchè si concepisce come contenuto nell' uno; così le diverse specie della natura hanno unità, perchè contenute nella specie massima, cioè nell' essere, che è una. Infatti non esisterebbe un numero se non fosse concepito come uno, non fosse informato dall' unità: così le specie non avrebbero nè continuazione nè unità, se tutte non fossero contenute nell' essere. E poichè la mente in senso obiettivo è l' essere, perciò Aristotele or dice della mente suprema che forma la continuità e l' unità delle cose e de' tempi, ora lo stesso dice della mente nell' uomo (3). E quest' è la ragione, per la quale Aristotele ora parla d' un principio solo, e or tosto appresso converte il discorso di singolare in plurale parlando di più principŒ (4). La ragione si è che «he de noesis, ta noemata» l' intellezione, essendo una, è insieme obiettivamente molti intelligibili, come un numero è uno ed è insieme molte unità, [...OMISSIS...] e lo stesso che dell' intellezione, che è l' atto, è a dir della mente che è la potenza, [...OMISSIS...] . Se dunque considera l' essere come contenente, Aristotele parla d' un principio solo, se considera l' essere come contenuto, ne parla come fosse più principŒ. E` ancora l' uno formale de' Pitagorici e di Platone. Ancora i principŒ, dice, sono i medesimi secondo la loro ragione «he to ana logon». Questa ragione comune è la contenente, l' essere in cui tutti si risolvono. Di che procede che dove si trova l' uno, ivi si trovi il primo, e dove il primo ivi anche l' universale. Infatti ne' soli enti della natura non si trova il primo universale, [...OMISSIS...] (5). E veramente essendo gli enti in numero finito, il comune che è in essi, è comune bensì a quel numero di enti esistenti, ma non è universale , estendendosi questa parola a un numero infinito d' individui. Quindi a ragione Aristotele ne cerca il fondamento nell' Essere supremo. [...OMISSIS...] . Fa dipendere dunque l' esistenza dell' universale dall' esistenza del primo ente. Non basta dunque per Aristotele, acciocchè ci sia l' universale, che colla mente s' astraggano le specie dalla natura: questo fa anche il matematico; ma le entità che ne cava non sono separabili e indipendenti dalla materia, e però non danno il vero e puro universale, nè costituir possono una scienza universale (2). La scienza universale dee trattare « « dell' ente come ente, e della quiddità, e degli universali inesistenti nell' ente come ente » », [...OMISSIS...] (3). Secondo Aristotele adunque l' universale si riduce all' essere come essere, e l' essere come essere non esiste separato nella natura, ma esistono delle specie unite alla materia, le quali non sono universali, se non sono contenute nell' essere. Questo deve esister dunque come causa suprema separata dalla natura, e come cosa divina. E qui di novo si alterna in Aristotele il discorso in singolare e il discorso in plurale per la ragione detta. [...OMISSIS...] . Ma tra le cause eterne quella che è separata e di tutte le altre più divina è la finale (5), e la causa finale ultima e separata è il Bene, ossia il Dio supremo. La prima filosofia dunque, che è universale e tratta degli universali altrettanto che la dialettica (6), ma più profondamente, tratta specialmente di Dio e del Bene (7), e perciò si chiama teologia. Per trovare dunque il fondo della dottrina aristotelica, conviene investigare com' egli assegni alla filosofia prima, quale unico oggetto: 1 il trattare del supremo essere, certamente singolare, essendo attualissimo, senz' alcuna potenzialità, e quindi incapace di essere in modi diversi; 2 e il trattare dell' universale . Come Dio e l' universale sono unico oggetto? Ecco quello che Aristotele non dice che oscuramente, e dove sta pure il nodo della dottrina. Quante sono le essenze, dice, tante sono le parti della filosofia (1). L' essenza di cui tratta la filosofia prima, è l' immobile e separata dalla natura. Ma d' altra parte, l' oggetto di questa filosofia è l' essere come essere. Dunque l' essere come essere è quell' essenza immobile e perfetta a cui appartiene il nome di Dio. Ma anche le specie ossia i generi delle cose naturali sono essere, [...OMISSIS...] . La filosofia dunque tratta d' un' essenza che contiene le specie, come il circolo contiene il poligono, e però tratta anche delle specie e de' generi diversi, e de' contrarŒ e delle negazioni, non per parti, come fanno le scienze speciali, ma in quanto sono essere. [...OMISSIS...] La filosofia prima dunque è scienza universale, perchè tratta dell' essere non solo in quanto è essenza sussistente, ma in quanto è universale. Laonde riferendo le opinioni intorno a quella scienza a cui s' appartiene il nome di sapienza, le assegna questi caratteri: 1 che in essa si conoscano in qualche modo tutte le cose; 2 e le più difficili; 3 e le più certe; 4 e che con essa si possa conoscere ed assegnare le cause; 5 e che sia tale che si cerchi per sè stessa, cioè unicamente per saperla, e non per altro. Ora questi cinque caratteri si riscontrano nella scienza che tratta dell' universalissimo che è l' essere come essere. [...OMISSIS...] ; dove esclude manifestamente dalla scienza più sublime il conoscimento degli enti singolari, riponendola nel conoscimento di quell' universale che tutti li contiene. [...OMISSIS...] . E continua a provare che in quegli che sa l' universalissimo o gli universalissimi si riscontrano anche gli altri quattro caratteri del sapiente: [...OMISSIS...] . Si osservi su questo luogo importante, che dalla prima e suprema scienza vengono sempre esclusi i subietti, e certamente vuol dire la materia considerata come subietto degli enti naturali. Per aver questa scienza, non fa bisogno conoscere i singolari enti numericamente distinti in natura, [...OMISSIS...] . I subietti materiali non si conoscono per se stessi, ma quello che li fa conoscere è l' universale oggetto della prima scienza, [...OMISSIS...] . In fatti, esclusa la materia, non ci rimane che la specie pura, che è già un universale, in quanto essendo unica può unirsi a più materie, e così esser causa formale di più enti distinti numericamente. Ma questa scienza suprema non si ferma a questo primo universale, bensì va agli ultimi che sono l' ente e l' uno, ond' ha per oggetto, «ta malista katholu», e questi Aristotele li dice i più rimoti da' sensi, [...OMISSIS...] . Ora questi universalissimi e da' sensi remotissimi, che si riducono all' essere, sono ciò che è massimamente scibile, [...OMISSIS...] . Ora ciò che è massimamente scibile non riceve l' essere scibile da altri, ma è per sè scibile; e in ciascun genere, secondo Aristotele, ciò che è massimo è quello che dà agli altri della propria natura. Così ciò che è massimamente scibile, dà all' altre cose scibili l' essere scibili; ciò che è scibile per sè, dà all' altre cose scibili d' esser scibili per partecipazione. [...OMISSIS...] . L' universalissimo dunque, cioè quello che è massimamente scibile e remotissimo da' sensi, deve esser conosciuto dall' uomo prima, acciocchè questi possa poi raccogliere da' sensi la scienza sua propria per induzione, e quello perciò è la mente in atto, [...OMISSIS...] (1). Di poi l' universalissimo o gli universalissimi che sono ciò che è scibile al sommo grado, è anche quello che contiene « « i primi che cadano nel pensiero e le cause » », [...OMISSIS...] . Certamente conviene anche qui lasciar da parte la causa materiale, perchè non merita nè pure a vero dire la denominazione di causa, avendo ella stessa bisogno d' una causa per esistere, cioè della forma, e non essendo essere, ma solamente una cotal potenza all' essere. Riguardo all' altre tre, se la specie è la causa prima e immediata degli enti naturali (2), l' universalissimo sarà la causa ultima di quest' ordine, la specie di tutte le specie, il che ci ricaccia alla dottrina di Platone, che l' uno sia la forma o causa formale delle specie. Ma in quest' universalissimo la cui scienza è chiamata da Aristotele «theia ton epistemon» e «ton theion», e «theiotate kai timiotate», c' è anche il Bene, la causa finale, e propriamente tra le cause finali l' ultima, [...OMISSIS...] . Ora questa è anche l' ultima causa motrice, [...OMISSIS...] (3), e questa immobile, appunto perchè è l' intelligibile per sè, e appetibile perchè intelligibile, [...OMISSIS...] (4). Ora questa è l' una delle tre essenze sostanziali ammesse da Aristotele, l' essenza sostanziale immobile, [...OMISSIS...] (5). Se dunque tutto ciò è l' universale anzi l' universalissimo; convien dire, che Aristotele prenda indubitatamente in altro senso l' universale, quando dice che « « nessuno degli universali esiste separato dai singolari » » (6), e che gli universali non sono essenze sostanziali, e non indicano essere, ma semplicemente modo di essere (7). Parmi che i luoghi frequenti in cui s' esprime in questo modo, e rifiuta le idee separate di Platone, abbian fatto gabbo ai commentatori, e impedito che s' intendesse pienamente la sentenza aristotelica. E` dunque da osservare attentamente, che Aristotele prende qui l' universale in senso di qualità comune agli enti, e nega che ciò che è comune agli enti possa essere la loro essenza, e nega questo per la stessa ragione, anche de' comunissimi, l' ente e l' uno, [...OMISSIS...] . Non nega dunque che l' essenza, oltre che inesistere nell' ente (composto [...OMISSIS...] ) di cui ella è essenza, esista anche in sè stessa: anzi questa è la costante dottrina ch' egli professa: [...OMISSIS...] . E per essenze incomposte [...OMISSIS...] intende tutte le specie, separate che sieno dalla materia, le quali sono puro ente, ente determinato. Ma quest' esistenza separata che dà all' essenza, questo inesistere in sè stessa, intende che sia soltanto nella mente umana, e che una sola essenza esista al tutto separata e da sè, e questa, come dicevamo, è la stessa mente. Accorda dunque a Platone che la specie esista eternamente in atto, ma solo nell' ente di cui è specie unita colla materia, e nella mente umana come incomposta. Ma gli nega, che questa sia ù una, ed è quella che dà l' unità alla materia; considerata poi nelle cose in ciascuna di esse è unica di nuovo. Ma il pensiero, paragonando queste cose tra loro, trova il comune : quest' è una vista del pensiero, e non è cosa che appartenga nè all' essenza separata, nè all' essenza propria de' singoli enti dov' è unita con materie diverse. Nè si può dire tampoco che la specie separata, e la specie negli enti sia una specie comune (il che condurrebbe all' infinito), perchè la specie separata è anteriore, e la specie negli enti è posteriore, e tra l' anteriore e il posteriore non c' è il comune: questo non essendoci che tra gli uguali. E veramente egli stabilisce, che comune non si può dire, se non ciò che si trova simultaneamente ne' molti (1). Ma l' uno , a ragion d' esempio, si dice bensì dei molti, ma non simultaneamente (2), perchè si concepisce l' essenza dell' uno anteriormente ai molti, e dei molti si predica posteriormente: ora tra ciò che è anteriore e ciò che è posteriore non c' è il comune, secondo Aristotele (3). Conchiude dunque « « esser cosa evidente che niuno degli universali esiste separato fuori de' singolari » » (4), pigliando la parola « universale » per comune . Egli dichiara ancor meglio il suo pensiero con quello che dice immediatamente in appresso: [...OMISSIS...] . Ammette dunque che la specie abbia un' esistenza separata, come un' essenza determinata, ma ciò che trova a riprendere nel sistema platonico si è d' aver fatto che questa essenza, che in quanto è separata è un individuo, ella stessa si trovi in molti, quando solamente si trova in ciascuno. Che cosa dunque sostituisce per ispiegare la partecipazione della specie a molte materie? Sostituisce la priorità e la posteriorità, e abolisce il comune. Dice, che la specie ha un' esistenza anteriore e così è una e individua; ha un' esistenza posteriore e così è ancora una e individua in ciascuna materia che la riceve; che la specie non ha dunque un' esistenza comune , e che questo comune non è che una relazione che aggiunge il pensiero. Vuole dunque, che l' essenza sostanziale rimanga sempre singolare o che si consideri in se stessa (esistente nella mente), o che si consideri negli enti che ella informa: vuole di più che l' uno o l' altro modo di essere appartenga alla stessa singolare essenza (1), e riprende Platone, come se avesse detto, esserci per ogni ente della natura due essenze, l' una separata ed eterna, l' altra sensibile che esiste per partecipazione di quella prima, poichè « « un' essenza non può comporsi di più essenze » » (2). Riconosce non di meno con Platone stesso la necessità, che indipendentemente da ogni materia, e quindi fuori della natura, esistano delle essenze sostanziali. Ma riprende Platone per aver confuse queste essenze separate dalla natura con quelle che sono nella natura, ed eterne colla natura stessa (3). Platone non conobbe, viene a dire, quali sieno le essenze separate al tutto dalla natura, e non potendo dire quali sono, prese gli enti della natura, e aggiungendovi il vocabolo stesso , per esempio dicendo: « « l' uomo stesso, il cavallo stesso » » [...OMISSIS...] , pretese così d' aver trovato l' essenza eterna, separata dalla natura, dell' uomo e del cavallo (4). Aristotele si dà tutta la cura di distinguere interamente le specie che sono nella natura e da questa passano nella mente umana, dalle specie che stanno fuori della stessa natura, intorno alle quali vuole che si faccia un discorso a parte (1). Queste essenze dunque separate dalla natura sono quelle che dice lontanissime da' sensi, per sè stesse i primi e più intelligibili, nelle quali è immedesimata la scienza e la cosa. Esse non vengono in composizione con alcuna cosa della natura, non sono le specie degli enti naturali (2), sono perfettamente singolari, esistono in atto, e non avendo potenza non si possono concepire con modi diversi, non ammettono contrari. In se stesse considerate adunque nega che tali essenze sieno universali . I principŒ supremi del ragionamento appartengono a queste essenze. Tra le quali ce n' è una ultima perfettissima che è il principio immobile del moto, e la causa finale di tutte le cose naturali. Tutte le cose tendendo all' atto tendono all' ultimo atto, che è pure il fine, ottimo e remoto, del loro movimento. Da quest' unità di tendenza nascono le loro qualità comuni ; ma anteriormente a queste c' è la radice materiale delle cose propria di ciascuna, distinta e contrapposta al fine ultimo, e di questa radice materiale non c' è una ragione comune (3). La prima causa dunque non è propriamente l' essere comune ; ma questo deriva dalla prima causa; e in questo senso anche questa causa dicesi universale . Di che la prima filosofia, appunto perchè tratta del primo, dice Aristotele, è anche universale, [...OMISSIS...] . Fa dunque dipendere l' universale dal primo , e dice che questo è l' ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] (6). Quest' è semplice, attualissimo, non ammette contrarŒ, perchè non ha potenza di sorte: questo non costituisce propriamente le specie degli enti naturali, ma bensì il loro comune principio, di cui dice: « « C' è negli esistenti un certo principio, circa il quale non si può mentire » » (1). Ma la parola ente , che talora si prende per essenza sostanziale , che sola è davvero ente, secondo Aristotele, si adopera anche come un predicato universale accomunato a tutte le categorie. Quando dunque Aristotele combatte que' filosofi, che usano dell' ente e dell' uno come generi (2), allora egli s' appiglia a questo secondo e più esteso significato, e mostra che l' ente e l' uno non possono esser generi , perchè si predicano delle stesse differenze (3). Dice ancora, che se l' ente e l' uno fossero essenze sostanziali, tutti gli enti sarebbero essenze sostanziali, e non ci sarebbero gli accidentali, raccolti nelle nove categorie susseguenti alla sostanza, laddove «hekaston de to genos on» (4). Ma quando per ente intende la sola essenza sostanziale, allora l' ammette separato, ed anche universale. E della scienza, che tratta di esso, cioè della prima filosofia dice: « « La scienza è da per tutto propriamente del primo , e da cui dipendono l' altre cose, e per cui si dicono » » (5). Poichè dunque la prima scienza è dell' ente come ente, deve trattare del primo ente. Che se questo è la « « sostanza, conviene per certo che il filosofo abbia i principŒ e le cause delle sostanze » » (6). Ora il principio e la causa, secondo Aristotele, deve poter avere un' esistenza separabile (1), e così tra le essenze sostanziali ce ne deve essere una prima che sia al maggior grado essenza sostanziale, alla quale le altre sieno posteriori, come la cosa di cui il principio è principio, al principio, e la scienza di quella deve essere anteriore alla scienza di quest' altre (2). Ma questa prima essenza sostanziale, priva d' ogni materia, è conseguentemente il primo intelligibile. E quantunque ogni specie sia anche numericamente una, tuttavia la sua unità dicesi specifica (3), e quest' unità della specie è l' uno primo causa o principio, pel quale le essenze sono uno, il che è pur la dottrina di Platone (4). La prima essenza sostanziale dunque, una di specie, è anche separabile. [...OMISSIS...] Quello che è puro ente è appunto una causa che ha questi caratteri, perchè egli è anteriore ai contrari, e però non può aver contrari in sè, se è puro ente, non essendovi nulla fuori dell' ente (6). La prima essenza sostanziale dunque, separata e principio e causa di tutte le altre essenze sostanziali, è il puro ente, eterno, incorruttibile. Ma l' ente essendo uno di specie ne viene che egli, oltre esistere numericamente uno e primo e senza contrarŒ in se stesso, possa anche, senza perdere l' unità di specie, esistere nella materia, secondo che questa ha virtù di riceverne: e così accade che sia principio delle essenze sostanziali nella natura, e che si divida in generi (7), benchè egli in sè, puro d' ogni materia, non sia genere. E però la prima scienza, dice, tratta anche de' generi dell' ente, con tutte le sue differenze e contrarietà, che li costituiscono, in quanto tutte queste cose si derivano e si riportano al primo ente (1). E però il filosofo tratta di tutte le cose in relazione all' ente come ente, tratta cioè dell' ente, e di tutte le sue passioni (2). Dopo aver dunque detto che la prima filosofia tratta della prima essenza sostanziale separata e però principio e causa che non ha nè può avere in sè contrarŒ; domanda come questa si può trovare da noi, per qual via si può arrivarci, considerando sì la natura, che la cognizione nostra propria che ci formiamo per via d' induzione. [...OMISSIS...] Dal qual luogo mi sembra poter raccogliere che il progresso della ragione umana, col qual giunge alla prima causa, sia questo, secondo Aristotele: la ragione raccogliendo per induzione il comune perviene al comunissimo : quest' è l' essere svestito delle differenze: da questo salendo ancora, intende la necessità che ci sia l' Essere separato al tutto, prima causa dell' essere nelle cose; e ciò perchè essendo l' essere comune ci vuole un' unica causa che spieghi questa comunanza od universalità: convenendo ricorrere al primo uno, per ispiegare l' uno ne' più. Di qui assegna per oggetto della prima filosofia non solo l' essere separato, ma l' essere comune: [...OMISSIS...] . E dopo aver detto che tutto ciò che si riferisce al genere medicativo o salutare spetta alla medicina, continua dicendo, che in egual modo ciò che si riduce all' ente come ente spetta alla prima filosofia. [...OMISSIS...] La ragione poi, per la quale Aristotele dice, che il pensiero umano concepisce che esista fuori de' singolari un principio unicamente, perchè trova che c' è qualche cosa d' universale che si predica di tutte le cose, si è primieramente quella di Platone, che l' universale non può essere ne' singolari, perchè eccede da ciascuno e da tutti. Di poi perchè nell' universale si rinviene il necessario . [...OMISSIS...] . E ciò perchè l' universale abbraccia in potenza tutti i contrarŒ: onde se una cosa è in qualunque sia modo, deve di necessità essere, acciocchè abbia quel modo (4). [...OMISSIS...] . E così la prima necessità è una causa che rende necessarie l' altre cose che non sono tali per sè. [...OMISSIS...] , Tali sono i primi, [...OMISSIS...] , cioè l' ente e l' uno universalissimi da cui viene la dimostrazione (6). Questi universalissimi dunque non possono essere altramente in più modi o diversamente da quel che sono (7): non hanno dunque in sè stessi potenza alcuna. Quando dunque in altri luoghi dice che l' universale è sempre potenza, l' intende in altro modo e non intende l' universale in sè: nè intende i primi universali: ma intende l' universale delle cose finite : i generi delle cose finite, e non l' ente e l' uno, benchè li chiami primi generi. Ma altrove nega che sieno generi, ed è quando pone la questione diversamente, benchè non si spieghi chiaro: dico quando intende di domandare: « se l' ente e l' uno sieno generi delle essenze naturali ». Alla questione così posta risponde di no: chè non sono divisibili in ispecie: stantechè il genere che si divide in ispecie non si predica delle loro differenze, e l' ente e l' uno si predicano delle differenze: ma si dividono bensì in generi, cioè nelle dieci categorie, o piuttosto l' ente e l' uno esistono ne' vari generi come di conseguenza, [...OMISSIS...] (1). Poichè Aristotele distingue l' essere per sè, e il sussistere dell' essere, e aver l' essere, [...OMISSIS...] , e questo non è senza materia, benchè l' essere per sè sia da ogni materia purissimo (2). Il primo necessario adunque giace nel semplice ed universalissimo: questi sono i primi che tutti si riducono ad un primissimo, l' essere , il quale è il primo tra le cose scibili e verissimo, da cui procede all' altre cose l' essere scibili e l' essere vere; e questo essendo separato da ogni materia è intelligibile e intellezione ad un tempo: atto purissimo, causa finale, verso a cui tutti gli enti mondiali sono portati per un loro proprio impeto, [...OMISSIS...] , in tutt' essi insito per natura (3): questo è l' Essere necessario, il principio da cui pende il cielo e la terra (4), Iddio. Questo è il principio di tutte le cause, [...OMISSIS...] (5), e unisce in sè tutti i caratteri del principio, essendo egli il primo , pel quale o sono, o si generano, o si conoscono le cose (6). In quanto sono, egli è la forma delle forme, perchè Mente, [...OMISSIS...] (1): in quanto si generano, egli è il principio immobile del moto, perchè atto purissimo: in quanto si conoscono, egli è il primo intelligibile, da cui i principŒ del ragionamento, e quindi stesso il principio dell' Arte: dall' essere poi intelligibile procede che sia anche la causa finale, il desiderato dalle intelligenze, l' ottimo, il fine dell' Universo. Dopo di ciò s' intende come, secondo la mente d' Aristotele, convenga rispondere alla difficoltà che egli fa incessantemente intorno al definire il proprio oggetto della prima filosofia. Questa, dice, deve trattare indubitatamente de' principŒ e delle cause. Ma questi principŒ sono essi singolari o universali? [...OMISSIS...] Ci ha dunque da amendue i lati difficoltà: ci ha difficoltà ugualmente a dire che i principŒ sieno singolari, come a dire che sieno universali. Aristotele scioglie questo nodo al modo che vedemmo: riconosce tutto ciò, che è privo di materia, come un' essenza o specie singolare ed una, e, se trattasi della specie prima, come esistente di necessità separata, [...OMISSIS...] , poichè il primo necessario semplicemente è, [...OMISSIS...] (3). Ma questo che in sè stesso è attualissimo e non ha modi nè possibilità di contrari; se si considera rispetto alla natura e nella natura, non è nessuno degli enti naturali, ma è tutti gli enti naturali in potenza. Poichè « « l' universale, dice, è un certo tutto; comprendendo l' universale i molti come parti »(4) »: e quindi la prima filosofia appunto perchè ha per oggetto il primo e il comunissimo, tratta di tutte le cose, [...OMISSIS...] . Il Primo dunque cioè l' essere attualissimo in sè, è anche comunissimo rispetto al mondo, e però è la potenzialità del mondo, che esiste per questo, che gli atti, a cui questa potenzialità trapassa naturalmente, sono variamente limitati e non sciolti al tutto dalla stessa potenzialità, onde le specie mondiali: per il che l' essere intransmutabile (e veramente anche nel mondo l' essere è incorruttibile, e intransmutabile), è detto da Aristotele «pan,» e questo è il divino del mondo, [...OMISSIS...] (1). Ma sebbene l' essere comunissimo sia la causa e il principio formalissimo di tutti gli enti naturali, non è la loro essenza sostanziale, o la loro quiddità, che in tal caso sarebbero tutti un ente solo, perchè l' essere comunissimo è un solo, nè è separabile dagli enti naturali, non potendo esistere separato come comune (2), ma soltanto come singolare. Lo stesso essere dunque, uno di specie (3) perchè specie, è considerato da Aristotele sotto due riguardi o come atto purissimo o come potenza. Come atto purissimo è il primo ente, Dio. Come potenza è l' essere comunissimo, non sostanza, e non separato dalla natura (4). Ora ciò che è in atto e ciò che è in potenza, dice Aristotele, appartiene allo stesso genere. Ogni scienza ha per suo oggetto un genere. La filosofia prima dunque ha per oggetto l' ente come ente, sia questo considerato in atto o in potenza. Tratta dunque di Dio e dell' essere comunissimo: e riducendosi all' essere come essere tutte le cause, c' è una scienza sola di tutte le cause non meno nell' ordine della mente, cioè nell' ordine logico, che nell' ordine fisico cioè nell' ordine della natura (1). Non ho fatto menzione fin qui del frammento che ci rimane della « Metafisica » di Teofrasto, coll' intenzione di darne qui in fine un breve sunto. Per quanto a noi pare, il discepolo non s' è scostato molto dal suo maestro, e ci sembra piuttosto un compendiatore e un interprete d' Aristotele, che un filosofo che abbia voluto stabilire un' altra dottrina. In questo prezioso frammento sono proposte le principali questioni, ed esposte le difficoltà per scioglierle: ma la soluzione di esse o manca, o è indicata appena in poche e non sempre chiare parole: nel che pure non va lontano dalla maniera nella quale sono scritti i « Metafisici » aristotelici. Comincia da quelli che al modo d' Aristotele chiama «ta prota». Dice che, secondo la sentenza d' alcuni, i primi non possono esser raggiunti da' sensi, sono intelligibili, diversi da ciò che è nella natura perchè immobili e immutabili. Laonde la teoria di questi è la più eccellente e maggiore. Ciò posto, espone per ordine le diverse questioni intorno ai primi , alle quali si riduce quella che Aristotele chiama prima filosofia. Ripassiamole brevemente. Comincia da questa questione: « Se gl' intelligibili abbiano un certo consenso e quasi una società colle cose della natura, o no ». Quest' è in fatti la questione di tutte principale e difficile, il poter conoscere ed assegnare il nesso tra il mondo e i primi , tra la natura reale e l' ideale: a questa principalmente si volse la greca filosofia: noi abbiamo veduto quanto Aristotele vi si travagliò. Da diversi luoghi dello Stagirita si raccoglie che tra i migliori filosofi, cioè tra quelli che ammettevano la mente, c' era dissensione circa la soluzione da darsi: due erano le sentenze principali, quella d' Anassagora e quella di Platone: e tra queste prendeva il suo posto Aristotele. Anassagora aveva unita la mente alla natura, Platone separò al tutto dalla natura le idee delle cose naturali, come essenze da sè esistenti. Aristotele concesse a Platone che ci sia una specie separata, la mente; negò che le specie intelligibili delle cose, benchè eterne e semplici, esistessero separate e da sè, ma solo unite perpetuamente colla materia e costituenti la natura. Del pari concesse ad Anassagora che la mente fosse nella natura, perchè c' erano le specie intelligibili, una delle quali si costituiva da sè, e diveniva mente umana; ma negò contro di lui che altra mente non esistesse, e pose la mente divina o più menti divine separate dalla natura e da ogni contagione con essa. Disse poi che il nesso tra questa mente separata e la natura consisteva nell' esser ella sostanza per priorità, e per posteriorità così chiamarsi la mente umana e tutte l' altre essenze sostanziali. Al che sembra conforme la risposta che soggiunge Teofrasto alla proposta questione: [...OMISSIS...] Ammessa dunque l' esistenza eterna de' primi intelligibili e la loro società colla natura, viene la seconda questione: « « Qual sia la natura di questi intelligibili » ». Fa qui menzione di due sentenze, l' una che ammette essere i detti intelligibili nelle sole entità matematiche, che sono punti, linee, figure, ecc.: l' altra essere il numero, che alcuni, dice, fecero « « il primo e al sommo principale » ». E trova l' una e l' altra insostenibile, perchè tali cose non presentano sufficiente cognazione co' sensibili, che valgano a darne spiegazione, non potendo somministrare a' sensibili nè la vita, nè il movimento. Di che conchiude che convien ricorrere « « a un' altra essenza antecedente e più prestante » » lasciando però in dubbio « « s' ella sia una di numero o di specie o di genere » », dove si vede la perpetua esitazione aristotelica, di cui abbiamo fatto menzione. Riconosce però che quella essenza, sebbene esistente in più subietti, deve esistere avanti tutto in un primo . Così pure Aristotele che pone il divino negli enti naturali, e in certe essenze o menti separate, ma primieramente nella Mente suprema principio del moto, principio unico di numero, ma specie egli stesso. Ecco come Teofrasto compendia questa dottrina: [...OMISSIS...] . E venendo a indicare la connessione di questo principio coi sensibili, la trova nell' essere esso causa di moto, ma causa immobile, onde esige un altro, che, desiderando quello, si mova il primo, e questo è il primo motore naturale - il primo Cielo. [...OMISSIS...] Qui propone diverse questioni sul natural desiderio che move da prima i cieli: e dice che il primo movimento è massimamente quello del pensiero, da cui l' appetito: domanda perchè solamente quelli che si movono in giro siano mossi da questo desiderio, e non le cose mobili che occupano la parte media del mondo. Domanda se questo avvenga per impotenza del primo, che non può trapassare, e dice che sarebbe assurdo: e pare lo attribuisca all' esser quel primo incomprensibile alle nature inferiori e non composto, quando queste sono composte; in una parola « « all' impotenza che hanno queste di ricever di più » ». Domanda in appresso se i principŒ sieno informi e indeterminati, ovvero già finiti e aventi la forma, come dice, si insegna nel « Timeo ». E inclinando a questa seconda sentenza soggiunge: « « Poichè l' ordine, e il finimento sono al sommo familiari alle cose eccellentissime » ». Ma oltre le sentenze di quelli che reputano tutti i principŒ essere formali, e di quelli che ammettono solamente principŒ materiali, Teofrasto accenna la terza di quelli che vogliono essercene degli uni e degli altri, e « « in amendue asseriscono consistere la perfezione, facendosi ogni sostanza dai contrari » ». Ma che ci sieno dei principŒ materiali pare non doversi ammettere; poichè se il cielo e l' altre cose sono determinate con ordine, ragione, forme, forze, e circuiti: come non ci sarà nulla di tutto ciò ne' principŒ? Conviene d' altra parte che ci sieno nella natura le specie, acciocchè si possano ridurre le cose naturali alla prima causa, in grazia di cui esse operano. Reca quindi la questione: « Se i principŒ sieno in moto o in quiete »: e mostra che colla quiete può stare un' azione immanente, e questa come cosa più onorabile appartiene a' principŒ, non il movimento che è de' sensibili: dice finalmente riferirsi da taluno il movimento « alla mente e a Dio »come primo motore. Cercando poi come si divida l' ente in materia e forma, dice, che questo accade per la natura dell' ente che è uno in potenza ed in atto, e di qui anche la ragione, perchè l' universo consti di contrari, e gli enti differiscano tra loro. Le differenze si riscontrano nello stesso sapere umano: gli universali, altri sono specie, altri generi. « « Ciò che diciamo propriamente appartenere alla scienza è d' intuire il medesimo ne' molti, o secondo un rispetto universale e comune, o secondo una qualche cosa singolare. - Il fine poi da entrambi questi rispetti. Ci sono anche alcune cose che sono fine degli universali: poichè qui sta la causa » ». E dice che il medesimo è medesimo o di essenza sostanziale, o di numero, o di specie, o di genere, o d' analogia: e questi sono altrettanti modi o generi di sapere, ciascuno de' quali ha qualche cosa di principale e di massimo : e questo c' è ne' primi , negli intelligibili , ne' mobili : da questo principio adunque in ciascun genere si dee discendere colla specolazione alle cose inferiori. Il che ben dimostra come il sistema aristotelico difficilmente possa ridursi all' unità di un solo principio: ond' anche gli scappano molte cose, che prive d' ogni ragione rimangono abbandonate al caso, a cui Teofrasto, fedele al suo maestro, ne lascia una gran parte. Confessa ingenuamente trovare cosa molto difficile il definire, che cosa sia lo stesso sapere: gli universali sembrano non bastare perchè si predicano in molti modi: i sensibili non costituiscono alcun sapere senza gli universali. Come e di quali cose investigare le cause tanto de' sensibili quanto degl' intelligibili, o conduce al dubbio o involge in un discorso assai oscuro. Certo tanto rispetto agli uni quanto rispetto agli altri nella ricerca delle cause non si può andare all' infinito: lo stesso sensibile e lo stesso intelligibile è come un principio: l' uno principio nostro, l' altro principio assolutamente, ovvero questo fine , quello a noi principio . Vuole dunque che per noi sia principio il sensibile, ma quello che è principio assolutamente e che è anche fine sia l' intelligibile. Pare dunque che queste due cose le divida assolutamente tra loro, assegni loro due principŒ irreducibili. Nello stesso tempo però riconosce che non possiamo partire da' sensibili per arrivare ai principŒ assoluti se non per mezzo della causa . Non è dunque da' soli sensi che noi caviamo la cognizione, ma dee precedere la cognizione della causa, e con questa, come mezzo del conoscere, possiamo da' sensibili ascendere ai primi : il che conferma quello che noi abbiamo osservato dell' induzione aristotelica, che suppone, acciocchè possa aver luogo, un intelligibile primo abitualmente esistente nell' anima. E` dunque notabile questo luogo di Teofrasto: [...OMISSIS...] . Ancora due altre sentenze di Aristotele si possono confermare con questo prezioso frammento del suo discepolo: l' una che le forme della natura non si potrebbero spiegare senza supporre l' esistenza di Dio, l' altra che esse vengono da Dio come desiderato, come fine a cui si slancia la natura, il quale slancio è appunto la forma di cui ciascun ente naturale si veste.

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