Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbigliarsi

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 3 occorrenze

La futura regina è nella propria casetta, sola con la madre, alla quale raccomanda di svegliarla presto l'indomani per avere il tempo di abbigliarsi: domani è la gran festa, si dà il premio della bellezza, la più bella sarà nominata regina. Essa ha già contato i voti, sono tutti suoi. Nella ingenua vanteria dei primi trionfi la regina non sa frenarsi e come Delfi particolareggia alla madre piangente di gioia le proprie bellezze. L'apertura della scena è vera, il ritornello, che come un'eco delle ovazioni imminenti interrompe quel soliloquio, ha una grazia e una leggerezza inimitabili. Come le frasi leggermente retoriche tornano e vibrano nelle sue spezzature! Ma ecco che dalla ragazza prorompe la vergine. Ella non ha mai amato e non ama: la hanno detto che ha un cuore selvaggio, ma non ha risposto perché non avevano colpito nel segno. Molti giovani, dei quali non ricorda più il nome l'amarono. Uno solo, Rubino l'ha colpita. Ella lo vide sempre solo, raccolto in sé stesso, schivo della gente: Rubino l'ama senza averglielo mai detto. Questo riserbo è la sua superiorità sugli altri giovani, l'unica ragione per la quale ella talvolta pensa a lui; anche Rubino deve essere vergine, ma ha una fisonomia pura e malinconica, il riflesso dei lunghi sogni sulla fronte. Ma la ragazza ripiglia il sopravvento, e perdendosi già con la fantasia nel tumulto glorioso dell'indomani, con versi esultanti e sapienti, forse troppo sapienti, dipinge alla madre il quadro della festa entro il paesaggio calmo della valle che somiglia alle valli di tutte le descrizioni. Vi è persino il rivolo, che mormora tra i sassi, il sole, che al tramonto indora le cime delle colline. All'ultimo scoppio del ritornello si sente lo scoppio del bacio, che la futura regina dà alla mamma intenta a rimboccarle le coperte. Passò un anno. La regina è ammalata di tisi, la malattia delle vergini e delle sante: quando l'anima sola vive il corpo non ha che morire. Si è levata sentoni sul letto e prega la madre di svegliarla all'alba per vedere l'aurora del nuovo anno. Il soliloquio prosegue lento e stentato: un lumicino rischiara la camera, nell'aria pesa la nausea di un alito viziato, ma l'inferma perdendosi nei ricordi della propria incoronazione vorrebbe vivere fino alla prossima primavera. Perché? È un rimorso, che le sale dal corpo disfatto come un bisogno supremo di sentire la natura prima di abbandonarla? O il desiderio di avere molti fiori al proprio funerale? Chi lo sa? Quindi coll'intenerimento contagioso dei malati parla della chiesetta parrocchiale, rammenta il piccolo camposanto, finché ripresa improvvisamente dalla vanità della ragazza, con un irresistibile impeto d'affetto espresso in versi mirabili, scongiura la mamma a seppellirla sotto la spinalba, che nel mattino trionfale di maggio le fece da baldacchino al trono. La vanità è dunque la sua unica passione, come la tisi doveva essere la sua unica malattia, s'ella non vuole che corone e non sogna che di mostrarsi dall'alto, sui gradini di un altare o di un trono? Forse, ma i sermoni del buon pastore le sovvengono a tempo e, soffocando tutte le voci dell'orgoglio, le sgorgano dalle labbra scolorite in tante consolazioni per la mamma. Povera mamma! Come dev'essere dolorosa la morale evangelica in bocca di una figlia morente, come consolerebbe di più il sentirla piangere nel dolore dell'abbandono che il vederla rassegnata alla necessità della partenza! Il desiderio dell'ammalata fu esaudito: la primavera è tornata battendo con le foglie delle pianticelle rampicanti ai vetri della sua finestra. Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d'inferma, o è stato un difetto nel poeta. L'agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell'azzurro, la chiama. - Addio sorella, addio mamma! La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell'anima, e in quel sogno s'addormenta. Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell'angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l'altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione. L'idillio di Tennyson è dunque un'elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell'accompagnamento, nella voce o nell'accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson? Adesso l'Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d'amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità. Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell'elegia e aspirammo alla sana giocondità dell'idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch'essa di ritornare all'antico per interrogare la natura con nuove intenzioni. La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l'Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell'atrio del proprio monumento un'altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro "all'ingresso di ogni opera d'arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano".

Prudenza doveva avere un comò più bello per le proprie camicie più fine e una specchiera per abbigliarsi. Ella aveva sorriso della spiegazione. Poi il comò era uscito un giorno dall'alcova e il canterano vi era rientrato. - Perché? - chiese Gaspare tornato a casa. - Non sono più bella. Non era vero, ma egli lasciò che Prudenza facesse il voler suo. Gaspare si alzò; fossero quelle memorie o il riverbero del camino, aveva il volto acceso: cominciò a passeggiare fermandosi tratto tratto in un pensiero col volto sempre più animato da una gaiezza giovanile. - Che cosa dirà mai! - esclamò improvvisamente. Aveva una grande idea. Intanto che Prudenza assisteva alle tre messe del Natale egli rimetterebbe il comò al posto del canterano e stenderebbe sul letto la coperta di seta gialla che c'era stata solamente la prima notte di matrimonio e il giorno del battesimo. La coperta doveva essere nell'ultimo cassetto del comò. Chissà che cosa Prudenza direbbe di questa sorpresa: era l'ultimo scherzo, egli ne rideva e ne sorrideva. Colla mano già leggermente tremula tirò il cassetto e cercò la coperta: era ravvoltolata in quattro fazzoletti rossi di cotone ancora tutti di un pezzo. Ma s'interruppe, perché quella doveva essere l'ultima cosa: prima bisognava portare il canterano in mezzo alla camera e sostituirlo col comò. Vi si accinse. Siccome tutte le biancherie grevi da tavola e da letto erano nell'armadione, il canterano non pesava troppo. Lo scostò d'ambo i lati, e lo piegava già verso la colonna ai piedi del letto, quando intese cadere qualche cosa lungo il muro con un suono secco di carta. Nel timore di aver commesso qualche malanno corse a prendere la candela e, curvandosi sino ad inginocchiarsi, cercò: era un piccolo pacco. Per istinto, prima ancora di formare un pensiero, ricollocò con due spintoni il canterano a posto e tornò al camino: quindi cercò gli occhiali. La prima era una lettera indirizzata a Prudenza; disciolse il plico, lo aperse a ventaglio: tutte le lettere andavano a Prudenza. Che cosa erano? Egli non ne sapeva niente; sulle prime si vergognò, erano forse lettere di famiglia, pettegolezzi che essa gli aveva nascosti con bontà di sposa, forse di gente già morta. Istantaneamente gli venne quasi fatto di gettarle sul fuoco per ritornare al canterano, ma la curiosità aguzzata dalla solitudine lo punse più profondamente, e ne aperse una. Alla prima parola impallidì, la lettera incominciava: "Angelo mio! Il nostro bambino sta dunque bene...". Ma egli non comprendeva ancora. Tremante, ansante, portandosi istintivamente la mano agli occhiali, quasi dubitasse di leggere bene, proseguì; non v'era dubbio, quelle lettere venivano a Prudenza. A un certo punto era scritto: "perché il nostro bambino non potrà mai chiamarsi Fernando di Steinmetz?". Gaspare ricadde sulla poltrona. La camera aveva sempre lo stesso aspetto calmo, le bragie del camino sorridevano ancora: si sentiva strozzare. Il significato di quelle lettere era così assurdo, il racconto di quel fallo sino allora ignorato così incomprensibile, che in sulle prime non arrivava ad orizzontarsi. Sussulti nervosi gli scrollavano il cuore, convulsioni indefinibili gli capovolgevano il cervello: poi gli si fece come una pace morta nell'anima; e si rammentò l'aneddoto dell'ufficiale al battesimo. Sicuramente era lui. Nullameno era strano. Tutta quella vita di Prudenza che egli conosceva non dava presa al minimo sospetto; le maniere di lei erano sempre state le stesse, i suoi occhi sempre calmi, sempre quieti, il suo sorriso sempre casto. Una simile avventura era dunque impossibile. Ma allora la sua lunga esperienza del mondo gli ricordò centomila casi egualmente impossibili e veri, e rammentandosi la sua antica inferiorità di omino brutto ed insipido vicino a quella donna bella come una divinità, e che aveva sempre vissuto nella modestia della sua vita d'impiegato con una rassegnazione inalterabile quasi da essere strana per lui stesso, allibì. Quindi interpretandola più esattamente gli parve come una rassegnazione di prigioniero; ma tutti i prigionieri non erano colpevoli. Egli lo sapeva, sulle prime non osò condannare. Prudenza aveva dunque amato un altro? Quell'ufficiale, egli ricordava, aveva tutto quanto mancava a lui; era bello, nobile, ricco: naturalmente doveva esserle piaciuto più di un povero impiegato mal vestito, senza spirito, che aveva appena un buon cuore, e non sapeva che amare e rispettare. Quindi una malinconia dolce, piena di generosi rimpianti per se stesso, gli strinse l'anima. Poi si ribellò ancora. Infine egli non ci aveva colpa di essere stato così: perché ella dunque lo aveva sposato? Che cosa poteva rinfacciargli? Non l'aveva sempre tenuta sopra un altare? Non era sempre stato un uomo onesto? Tutti non lo rispettavano? E riandando agli ultimi cinquant'anni della sua vita, così morigerata ed attiva, si disse che valeva bene quella di un altro, giacché egli non aveva d'arrossire in faccia a nessun gran signore. Ma una voce sorda ed ostinata gli gridava nullameno dal fondo della coscienza che il torto era suo: la primavera è dei fiori, e nella stagione dei fiori un buon frutto è senza pregio. Egli non era mai stato altro. Prudenza infatti lo aveva sempre apprezzato, ma un fiore misterioso le aveva fatto un giorno girare la testa. Povera donna! Mentre tutte le altre fanno scontare al marito la propria colpa di sensi o di cuore, ella invece lo aveva egualmente prediletto. Allora l'immagine di Prudenza ai bei giorni gli riapparve, quando il suo volto puro come quello di una madonna imponeva quasi silenzio alle voglie brutali dell'amore; o lungo i passeggi nella domenica quando tutti la guardavano, ed egli sentiva in quella ammirazione di tutti come dei rimproveri per se stesso. Egli non era degno di Prudenza; se non avesse profittato della sua inesperienza per sposarla, forse Prudenza sarebbe diventata una gran signora. Ed ella non se n'era mai lagnata. Ma con tutte queste ragioni il suo cuore soffriva sempre. Sciaguratamente per tutti la vita era fatta così, la bellezza aveva anch'essa i propri diritti e la gioventù era piena di passioni. A settant'anni egli doveva saperlo quanto un altro. Perché dunque se ne lamentava? La sua vita, legata con quella di Prudenza a una profondità prima d'ora nemmeno sospettata, si era sempre pasciuta di una illusione, illusione l'amore delle prime notti, illusione l'amore del primo ed unico bambino! Adesso gli sembrava di non avere più passato. La sua vita, semplice impiego nell'amministrazione di un gran signore, serie di conti e di conteggi, perdeva ogni significato: che cosa era dunque venuto a fare nel mondo? E ora tutto era fatto! Persino questa suprema e totale disgrazia era così lontana che non si poteva più parlarne. Nell'oppressione di quest'ultima idea gli parve che una mano di ferro stringendogli lo stomaco gli ricacciasse tutte le castagne mangiate nella sera su per la gola con un'amaritudine di purgante. Per reazione si alzò. La sonnolenza tiepida ed onesta della camera gli fece male, forse la camera conosceva tutto quel triste secreto. Girò due o tre volte per l'alcova sempre colle lettere in mano, e si fermò dinanzi al ritratto di Fernando, alto nella parete sopra quello stesso canterano cui voleva mutare posto. Quell'idea di ricordare a Prudenza la prima notte di matrimonio gli morse allora il cuore. Chissà quante volte ella sopportando le sue carezze aveva pensato con un sospiro al bel ufficiale! Ma Fernando era proprio loro? Si appressò al canterano, lo assettò con un altro spintone al solito posto ed allungandovisi sopra con uno sforzo staccò il ritratto dalla parete. Fernando era miniato, nudo nello splendore della innocenza sopra un cuscino. Egli lo strinse nella mano tornando con passi febbrili verso la poltrona: si mise a guardarlo. La delicata e superba bellezza del bambino finì di atterrarlo, gli si smarrirono i sentimenti, gli si confusero le idee: Fernando non poteva essere suo. Quindi tutte le gioie e i dolori provati per lui gli ripassarono lentamente nella memoria come un corteo di funerale per un cimitero. Gli sembrò di averlo ancora in braccio, mentre la mamma col seno slacciato li guardava tutti e due sorridendo; gli sembrò di insegnargli a camminare, di mettersi carponi perché il piccino potesse movere i primi passi reggendoglisi con una mano ai capelli; si ricordò tutti gl'incidenti per strada, a pranzo, a letto, poi, quando il bimbo ammalò, il terrore delle notti insonni, i lamenti della creaturina che soffriva, il medico intenerito che piangeva quasi, le vicine che venivano in punta di piedi e se ne andavano singhiozzando; poi la morte, il vestitino bianco, la bara coll'angioletto, i fiori, i pianti, Prudenza che ebbe a morirne, lui mezzo morto che doveva consolare tutti e bastare a tutto. Si ricordò che di notte era andato diverse volte solo a piangere lungo le mura della città, si ricordò di tutto e in mezzo a tanto squallore di memorie, fra gli echi di questi lamenti, la figura ilare di Fernando sorrideva ancora ai suoi occhi incantati, mentre la sua vocina gli batteva a strilli sul cuore. Perché dunque Fernando non era suo? Non avrebbe potuto anche esserlo? Che cosa aveva avuto quell'uomo per soverchiarlo così in tutto? Forse in quelle carte c'era più di una spiegazione. Si pose il ritratto sulle ginocchia e riaccostando il mazzo delle lettere agli occhiali si mise a cercare nei bolli l'ordine delle loro date. Voleva leggerle in fila per capire meglio, ma all'improvviso un insulto di sdegno, di tristezza, di dignità amareggiata e nullameno trionfante gli fece gettare il pacco sulle bragie respingendo dispettosamente la poltrona da un lato. Le lettere arsero subito, si contorsero sotto le lingue curiose delle fiamme: qualcuna si aperse, s'involarono su pel camino per ricadere in tanti cenci minimi ed aerei. Egli aveva già ripreso il ritratto e se lo teneva dinanzi gli occhi per non vedere le fiamme: forse non vedeva nemmeno cogli occhi il ritratto, ma la sua anima non lo ammirava che meglio. Oramai non sapeva più di avere settant'anni, né quando avesse perduto il bambino; invece gli contava i ricci sulla fronte e mettendogli un mignolo in bocca gli diceva: - Mordi, Nando, mordi, Nando! - E Nando, grosso e biondo come un vitellino, era lì, c'era sempre stato, ci sarebbe sempre, gli saltava sopra un ginocchio ed allungandogli le manine cogli occhi strizzati, i labbruzzi protesi, si metteva a battergli coi talloni gli stinchi strillando: - Cavallone, cavallone! - Egli rideva, ritornava bambino, poi sollevandolo a tutta l'altezza delle proprie braccia gli domandava: - Nandino, vuoi più bene a me o alla mamma? - Una mano lo percosse sulla spalla. Gaspare si voltò di soprassalto rimanendo col ritratto alzato sopra la testa. - Che cosa fai, Gaspare? - chiese Prudenza con voce intenerita, indovinando quella contemplazione. Gaspare ebbe una scossa violenta, si scrollò, la guardò un istante cogli occhi sbarrati, parve che un lampo gli schizzasse dalle pupille, che la bocca gli si contraesse ad una parola: tremava, aveva la faccia smarrita, le mani vibranti. Prudenza affagottata ancora nello sciallone, col viso calmo, un po' giallo, un viso di buona vecchia che ha pregato ed è contenta di se stessa, lo guardava con amorevole rimprovero. - Gaspare.... A quella voce egli si arrese, abbassò la testa, una lagrima, che l'altra non vide, gl'inumidì gli occhi, e baciò il ritratto. Ella più commossa fece un gesto carezzevole per toglierglielo, ma Gaspare sollevò il capo, le prese una mano e stringendogliela esclamò finalmente: - Ah! se fosse vivo....

Ella intenta ad abbigliarsi non pensava invece più a lui in tal momento, perché appena incomincia per una signora la toeletta da ballo, questo solo diventa l'amante, e ogni altro scompare. Lelio aveva acceso una sigaretta quantunque sapesse che la principessa non permetteva mai di fumare nel proprio gabinetto; quindi si era gettato sopra un divano. Poi consultò l'orologio, non erano che le otto e mezzo. Quanto impiegherebbe ella a vestirsi? Per un momento ebbe quasi voglia di andarsene. Che cosa faceva lì? Non gli sarebbe toccato di uscire peggio, solo, a piedi, mentre l'altra monterebbe nella propria carrozza, giacché per nulla al mondo ella avrebbe consentito a farsi accompagnare da lui al ballo? Per così segnalato favore Lelio avrebbe dovuto essere per lo meno il principino; allora il mondo non vi avrebbe trovato nulla a ridire, ma un borghese come lui l'avrebbe resa ridicola. Il mondo riconosce parecchie categorie negli amanti come in ogni altra classe di funzionari. E l'idea di un amore profondo, tenace, con una dama bella ed elegante, che avesse potuto comprendere almeno in parte i bisogni della sua anima e la grandezza dei suoi ideali d'artista, gli appariva dentro la magia di un quadro dalle tinte delicate sopra un fondo misterioso; egli vi si sarebbe sentito più uomo nella forte calma della fede inspirata ad un'altra anima, colla soavità di un abbandono, che lo avrebbe riposato dalle virili fatiche del pensiero. Che cosa direbbe suo padre vedendolo in tal momento ad aspettare come un valletto che la principessa fosse vestita? Gettò la sigaretta e tornò a camminare. Era stanco, irritato di quella attesa troppo lunga anche per un vero amante, e nullameno senza gran cosa di anormale, dacché la festa cominciava alle dieci, e la toeletta di una signora non può in simili casi durare meno di qualche ora. Istintivamente si cercò un libro intorno, fuori nevicava. Egli aveva lasciato la pelliccia in anticamera, ma andando alla festa avrebbe avuto bisogno di trovare subito un fiacre per non sporcarsi le scarpe. Questa preoccupazione gli suggerì di chiamare un servo, che glielo andasse a cercare, poi improvvisamente diventò timido e non l'osò. Che avrebbe pensato costui? Daccapo si distrasse: quindi un altro più meschino pensiero lo fece sorridere quasi con gioia nella speranza che l'abito della principessa fosse brutto e non le attirasse che l'ironia delle signore; sarebbe stata sempre una piccola rivincita per lui, che a quella festa non avrebbe avuto alcuna importanza. Ma gli ultimi quarti d'ora furono addirittura convulsi. Finalmente intese un fruscìo. Ella entrò sorridente col viso in alto: aveva sulla testa un diadema e al collo una collana di oro massiccio ad anella e piastrine, qualche cosa di barbaro e di elegante come il diadema e la collana di Elena, che il dottore Schliemann aveva pochi mesi prima scoperto in Grecia, e già diventati di moda a Parigi. La sua bella testa di gitana ne acquistava un'aria bizzarra d'impero. Rimase un istante sull'uscio quasi incorniciata dalle sue modanature in legno pallido; aveva il busto di un rosso cupo a ricami dorati e, sotto, una campana di merletti rugginosi egualmente ricamati d'oro le copriva la sottana, della quale lo strascico si perdeva al di fuori. Ella s'avanzò guardandolo negli occhi per cogliervi il primo lampo di ammirazione, ma appena nel gabinetto si voltò allo specchio. Un odore acuto di sandalo era entrato con lei. Lelio taceva: allora ella trionfante gli sorrise nello specchio. Le sue spalle brune, nude, parevano più delicate sotto quella pesante fornitura d'oro, senza una gemma, e tutto quell'oro nel busto e nella gonna, che le accendeva intorno una strana fosforescenza. Un'idea passò lampeggiando nel cervello di Lelio. Ella sorrideva ancora. Lelio chinò lievemente la testa al suo sorriso e, affettando la massima circospezione, poiché lo strascico del vestito riempiva quasi tutto il gabinetto, le si accostò per di dietro colle labbra tese per deporle un bacio sulla spalla sinistra. La sua testa spuntò dallo sfondo lucente del cristallo, altrettanto bella, forse più pallida nell'abito nero e sopra quella camicia bianca come la porcellana, mentre ella si aggiustava un riccio sotto il diadema; ma Lelio nel piegarsi per darle il bacio traballò improvvisamente incespicando nell'abito, così che per balzare indietro ne sfondò con un piede la campana dei merletti. Lo stridore della seta lacerandosi anch'essa per oltre la metà della loro altezza fece voltare la principessa, che urtò quasi colla testa in quella di Lelio; era diventata verde come i propri occhi, cogli occhi sfolgoranti. - Villano! - gridò raccogliendo nella mano la strappatura. Lelio attese che rialzasse il capo; i suoi sguardi si urtarono allora in quelli della principessa umidi di lagrime. - Avete perduto la scommessa. Nell'ira di quel dolore ella non comprese nemmeno. - Clelia! - esclamò. - Eppure ve lo aveva detto che non avrei mai avuto per voi il valore di un abito! - soggiunse Lelio tristamente. Ma l'altra l'interruppe con un gesto di disprezzo così violento che l'altro dovette indietreggiare; ella rimaneva sempre così piegata colla strappatura fra le mani. Allora Lelio, che nell'iracondo pentimento di quella vittoria stava per rispondere una ingiuria grossolana, le si inchinò freddamente e, prima ancora che la cameriera accorresse, uscì dal gabinetto. Fuori la neve seguitava a cadere. - Dove vai? - lo chiamò una voce amica all'angolo di via Farini. - sei di ballo? - No. Ho mutato pensiero - rispose abbottonando solamente allora la pelliccia, sotto la quale l'altro aveva veduto il piastrone e la cravatta bianca. - Allora vieni con me, abbiamo una cena con cinque o sei sgualdrine del teatro Brunetti. Staremo allegri. Almeno quelle sono donne che si conoscono prima; non c'è pericolo di essere ingannati. - Tanto peggio, mio caro! - replicò l'altro. E si lasciò trascinare.

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