Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbigliare

Numero di risultati: 2 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Oro Incenso e Mirra

678753
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Poscia vennero il romanticismo e la musica; il primo invece di abbigliare le pastorelle di seta le ornò di sentimenti anche più fini, ed ebbe per la natura entusiasmi di sacerdote, tenerezze di amante; la seconda, più intima e quindi anche più vera della poesia, accennava già di riuscire quando il contatto del romanticismo e le false abitudini del teatro la viziarono così che nello stesso capolavoro immortale di Bellini, malgrado la freschezza dell'ispirazione e la grazia delle movenze, manca troppo spesso la semplicità. Finalmente l'idillio passò in Inghilterra, e là, dentro una letteratura, nella quale si era sempre notato il predominio di quanto oggi chiamasi con brutta parola realismo, si disse che Tennyson era risorto. Infatti a prima vista tutte le condizioni vi sembravano riunite. Un popolo coltissimo e non ancora in decadimento, abbastanza ricco per avere il gusto e l'abitudine della campagna, con un sentimento schietto della vita e una predisposizione alla malinconia corretta dalla fortezza della tempra. La sua campagna era feracissima, la sua religione quasi ragionevole, la sua filosofia poco teoretica, la sua poesia semplice per indole per tradizione. Tennyson stesso non poteva essere meglio dotato dalla natura ed esercitato nello studio. Ma il ferreo carattere inglese diventato di acciaio al fuoco della grande rivoluzione puritana, si era ancora più indurito nel lungo e fortunato esercizio commerciale: la religione agghiacciatasi dopo il trionfo aveva come coagulato il sentimento del popolo, il classicismo rimasto nelle lettere e nei costumi malgrado l'influenza di Byron e di Shelley irrigidiva ancora il gusto dell'aristocrazia. In Inghilterra più che altrove il concetto della vita e dell'amore erano in antitesi coll'idillio, L'agricoltura vi ha ridotto il podere come una fabbrica cogli stessi operai, le stesse macchine, la stessa speculazione crudele e trionfante: la bigotteria protestante, molto peggiore della cattolica, aiutata dall'indole del popolo e dalla sua storia vi ha costretto l'arte ad un ufficio puramente morale; quindi negate tutte le passioni, contati i generi e i tipi. Da molto tempo il teatro inglese è chiuso, per molti anni non si aprirà se la vita non vi ritorni coll'arte, quella vita, che oggi non si vuole nel romanzo perchè si condanna il romanzo nella vita. Così la ragazza inglese, ammirabile per la sua superbia d'individuo capace di bastare a sé medesimo, è forse meno di ogni altra incline all'idillio, mentre nella dignità del proprio carattere deve giudicare sconveniente ogni più ingenua confessione dell'amore. Nella Grecia non era così. La Simetha di Teocrito non è cortigiana, ma una piccola borghese come la Margherita di Goethe, camuffata così miseramente dal Gounod in angelo. Innamorata e tradita dall'amante ricorre agli scongiuri. La scena è la stessa che ai nostri giorni, solamente il rito n'è cambiato. Invece dei lauri oggi si usa il mazzo delle carte. È notte, il luogo deserto, un cortile o un giardino. La luna sogguarda dalle nubi. Simetha accompagna lo scongiuro cantando, e il suo canto esalato a voce bassa è di un effetto terribile. Si direbbe quasi un canto calmo se il ritornello indirizzato al fuso, che girando sopra sè stesso deve attirare l'assente, non avesse uno stridore di arma omicida. I cani salutano dai boschi la luna, poi il mare si queta, il vento tace, ma non le tace nel petto la passione per colui, che doveva sposarla e invece ha fatto di lei una miserabile disonorata. Questo lamento di una bellezza funebre nei versi greci è tutto di amore. Simetha non piange la verginità perduta, ma l'amante involatosi dietro un altro amore, mentre ella mostrata a dito dalle compagne più fortunate dovrà subire le baie dei giovanotti più depravati del paese. Allora il ricordo delle passate voluttà torna a fermentarle nel sangue e, levando verso la luna, che le confonde il proprio pallore sul volto, ella invoca la pianta famosa dell'Isyomane, che fa delirare cavalli e puledre lungo le valli di Arcadia. - Ah! ah! odioso amore, perchè attaccandoti al mio petto come una mignatta di palude hai bevuto tutto il sangue nero del mio corpo? - esclama cacciando un grido quasi per un morso improvviso. Questo urlo la esaurisce, ha bisogno di restare sola. La stessa presenza della vecchia Testili le diviene insopportabile, quindi la manda ad ungere la porta di Delfi con una atroce mistura di veleni. Qui la scena muta, e comincia la seconda parte dell'idillio. Simetha si sdraia per terra come una bestia, in tormento e singhiozzando, cantando, racconta a sè medesima colla passione di tutti gli infelici il proprio male. Il racconto è un capolavoro di verità e di poesia. Il ritornello della invocazione a Diana, che lo riannoda interrompendolo, invariabile nelle parole muta significato ad ogni strofa coll'accento della voce languida o minacciosa, famelica o supplichevole. Un giorno, non è molto, la sua amica, Anasso, venne ad invitarla per la festa di Diana; vi si recarono coi canestri e videro molte fiere, fra le altre una leonessa, della quale le è rimasto il ricordo. Simetha aveva fatto la più accurata toeletta, perchè la giornata era splendida ed avrebbero incontrati molti giovanotti. Infatti a mezza strada s'imbatterono in due dei più belli, Delfi e Eudamippo, che uscivano dalla palestra rossi, sudanti. Vederlo, amarlo, fu un punto solo, un colpo di vento, uno scoppio di fulmine. Forse l'amore covava da lungo tempo nel suo cuore: l'atmosfera era favorevole, la stagione di primavera, il cielo quasi bianco a forza di essere puro, Simetha innamorata di Delfi oblia la festa e scappa a casa; se fosse rimasta, e Delfi le avesse rivolta la parola, sarebbe scoppiato uno scandalo. Così Shakespeare molti secoli dopo ha fatto innamorare Giulietta e Romeo: la prima qualità dell'amore semplice è la prontezza. Appena in casa Simetha si caccia in letto e si ammala. Per dieci giorni, dieci secoli, non mangiò né bevve: un pensiero le tendeva il cervello, uno spasimo le bruciava il cuore, Delfi. La fisonomia le si emaciò, la pelle le divenne gialla come il topazio; allora pensò agli scongiuri, risorsa di tutte le immaginazioni deboli, ma gli scongiuri furono insufficienti. Ad ogni invocazione le crebbe la smania, quantunque volte pronuncia il nome di Delfi le labbra le scottano ancora. Non rimane più che un rimedio, mandare Testili da Delfi; la passione l'aveva trovato subito, ma la ragione esitava. Testili va e torna con Delfi. Qui è il punto culminante del poemetto. Parla Simetha: con un solo tratto Teocrito si rivela poeta ed osservatore di primo ordine, giacchè rivedendo con gli occhi della fantasia Delfi entrare dall'uscio ella interrompe il racconto per gettare il grido del ritornello come se la stessa emozione le si ripetesse nell'anima, e il medesimo strido della prima volta le rompesse dalle labbra. Poi un freddo le tocca tutte le carni, un sudore abbondante come una rugiada la bagna, e non può parlare nemmeno come i bambini balbettano nel sonno vagendo verso la madre. Quest'ultima nota è di un patetico profondamente femminino, giacchè l'amore sveglia sempre la maternità nella donna. Delfi entra bello e fatuo conquistatore, anche adesso le pare di rivederlo; le siede con famigliarità quasi protettrice sul letto e per farle un complimento comincia a parlarle di sé stesso, dicendo che il suo invito lo ha prevenuto come l'altro giorno egli sorpassò il bel Filino alla corsa. Naturalmente cita il più bello fra i propri amici per provarle che non teme confronti. E Simetha gli dà ragione. Per le Delfi non è l'elegante antipatico di tutte le decadenze, ma il Delfi bello, dal petto largo, dalle membra agili, il vincitore della palestra. Simetha non ha torto. Oggi ancora le donne, che si avvicinano al suo modo di sentire, sono forse anche meno esigenti, non pretendono neppure che Delfi sia bello. Ma come tutte le persone troppo amate, Delfi non ama; in pochi giorni si stanca di Simetha e la trascura; ella trema, piange, finché apprende da un'amica che Delfi è innamorato altrove, s'ignora se di un uomo o di una donna. Simetha stessa non lo ricerca: che le importa il nome? Ella non è gelosa, giacchè la gelosia discende quasi sempre dalla testa mentre ella ama coi sensi: esige Delfi, ma trova forse naturale che altri lo desideri, solamente non vorrebbe perderlo. In questo ultimo caso giura piuttosto di ucciderlo, ma anche allora non si preoccupa della rivale. Simetha ama troppo Delfi per odiare un altro. Giammai vi fu idillio più povero e più bello; oggi dopo tanto mutamento di età noi lo sentiamo ancora, noi che non possiamo più scriverlo e, quello che è peggio, rifarlo. Teocrito ha messo l'elegia, fors'anche la tragedia, in fondo all'idillio giacchè Simetha può bene ammazzare Delfi in un incontro, a certe ore, in date circostanze. Tennyson ha fatto altrettanto, ma invece di Delfi è la regina che morirà: idillio, elegia e tragedia si seguono formando un solo componimento. Là un fatto che rivive in un racconto, qua un soliloquio nel quale si perde un fatto; Teocrito ha scolpito un gruppo, Tennyson fuso una statua; il gruppo è molto nudo, la statua molto panneggiata, il primo prorompe dalla vita, la seconda rientra nel sogno. Siamo alla vigilia della festa di Maggio. La futura regina è nella propria casetta, sola con la madre, alla quale raccomanda di svegliarla presto l'indomani per avere il tempo di abbigliarsi: domani è la gran festa, si dà il premio della bellezza, la più bella sarà nominata regina. Essa ha già contato i voti, sono tutti suoi. Nella ingenua vanteria dei primi trionfi la regina non sa frenarsi e come Delfi particolareggia alla madre piangente di gioia le proprie bellezze. L'apertura della scena è vera, il ritornello, che come un'eco delle ovazioni imminenti interrompe quel soliloquio, ha una grazia e una leggerezza inimitabili. Come le frasi leggermente retoriche tornano e vibrano nelle sue spezzature! Ma ecco che dalla ragazza prorompe la vergine. Ella non ha mai amato e non ama: la hanno detto che ha un cuore selvaggio, ma non ha risposto perché non avevano colpito nel segno. Molti giovani, dei quali non ricorda più il nome l'amarono. Uno solo, Rubino l'ha colpita. Ella lo vide sempre solo, raccolto in sé stesso, schivo della gente: Rubino l'ama senza averglielo mai detto. Questo riserbo è la sua superiorità sugli altri giovani, l'unica ragione per la quale ella talvolta pensa a lui; anche Rubino deve essere vergine, ma ha una fisonomia pura e malinconica, il riflesso dei lunghi sogni sulla fronte. Ma la ragazza ripiglia il sopravvento, e perdendosi già con la fantasia nel tumulto glorioso dell'indomani, con versi esultanti e sapienti, forse troppo sapienti, dipinge alla madre il quadro della festa entro il paesaggio calmo della valle che somiglia alle valli di tutte le descrizioni. Vi è persino il rivolo, che mormora tra i sassi, il sole, che al tramonto indora le cime delle colline. All'ultimo scoppio del ritornello si sente lo scoppio del bacio, che la futura regina dà alla mamma intenta a rimboccarle le coperte. Passò un anno. La regina è ammalata di tisi, la malattia delle vergini e delle sante: quando l'anima sola vive il corpo non ha che morire. Si è levata sentoni sul letto e prega la madre di svegliarla all'alba per vedere l'aurora del nuovo anno. Il soliloquio prosegue lento e stentato: un lumicino rischiara la camera, nell'aria pesa la nausea di un alito viziato, ma l'inferma perdendosi nei ricordi della propria incoronazione vorrebbe vivere fino alla prossima primavera. Perché? È un rimorso, che le sale dal corpo disfatto come un bisogno supremo di sentire la natura prima di abbandonarla? O il desiderio di avere molti fiori al proprio funerale? Chi lo sa? Quindi coll'intenerimento contagioso dei malati parla della chiesetta parrocchiale, rammenta il piccolo camposanto, finché ripresa improvvisamente dalla vanità della ragazza, con un irresistibile impeto d'affetto espresso in versi mirabili, scongiura la mamma a seppellirla sotto la spinalba, che nel mattino trionfale di maggio le fece da baldacchino al trono. La vanità è dunque la sua unica passione, come la tisi doveva essere la sua unica malattia, s'ella non vuole che corone e non sogna che di mostrarsi dall'alto, sui gradini di un altare o di un trono? Forse, ma i sermoni del buon pastore le sovvengono a tempo e, soffocando tutte le voci dell'orgoglio, le sgorgano dalle labbra scolorite in tante consolazioni per la mamma. Povera mamma! Come dev'essere dolorosa la morale evangelica in bocca di una figlia morente, come consolerebbe di più il sentirla piangere nel dolore dell'abbandono che il vederla rassegnata alla necessità della partenza! Il desiderio dell'ammalata fu esaudito: la primavera è tornata battendo con le foglie delle pianticelle rampicanti ai vetri della sua finestra. Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d'inferma, o è stato un difetto nel poeta. L'agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell'azzurro, la chiama. - Addio sorella, addio mamma! La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell'anima, e in quel sogno s'addormenta. Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell'angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l'altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione. L'idillio di Tennyson è dunque un'elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell'accompagnamento, nella voce o nell'accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson? Adesso l'Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d'amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità. Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell'elegia e aspirammo alla sana giocondità dell'idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch'essa di ritornare all'antico per interrogare la natura con nuove intenzioni. La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l'Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell'atrio del proprio monumento un'altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro "all'ingresso di ogni opera d'arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano".

IL RE DEL MARE

682260
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Sir Moreland fece cenno ai due prigionieri di andarsi ad abbigliare, poi sturò una bottiglia e riempì due bicchieri offrendone uno al portoghese. - Voi mi assicurate che non vi lascerete catturare, è vero? - chiese l'anglo- indiano, dopo d'aver vuotato il suo. - Se vedo qualche pericolo mi getterò alla costa, capitano, - rispose Yanez. - Sono valorosi i vostri uomini? - Sono i migliori della guarnigione di Kohong. Quando avrò l'onore di rivedervi? - Salperò all'alba e muoverò subito verso la cittadella, a meno che i pirati della Malesia non mi arrestino. Tuttavia ho fiducia di vincerli. Yanez sbozzò un sorrisetto ironico. - Ve l'auguro, capitano, - disse poi. - È ora di finirla con quei fieri e pericolosi scorridori del mare. Tremal-Naik e Darma erano in quel momento rientrati. Il primo si era coperto il capo d'un immenso turbante e la seconda si era gettata sulle spalle una mantiglia di seta bianca che l'avvolgeva tutta. - Vi scorterò fino alla spiaggia, - disse il capitano, - quantunque nessun pericolo vi minacci. Yanez, udendo quelle parole, aggrottò lievemente la fronte. - Che prenda con sè degli uomini? - mormorò, assai contrariato da quella proposta. - Bah? Li ridurremo a dovere appena saremo in vista del mare. Uscirono tutti insieme nel cortile, dove si trovavano sempre allineati i dieci pirati, appoggiati alle loro carabine. Vedendo apparire il capitano, presentarono le armi con un insieme che fece stupire lo stesso Yanez. - Sono uomini solidi, - disse sir Moreland, dopo d'averli osservati uno ad uno. - Andiamo. Quattro pirati formarono l'avanguardia, dietro si misero Yanez e Tremal-Naik, poi Darma col capitano a qualche distanza, quindi gli altri sei. I primi portavano il fanale e tre torce per illuminare la via, essendosi il cielo coperto di un fitto velo di vapori che intercettava completamente quel vago chiarore che proiettano gli astri, specialmente attraverso la limpida atmosfera delle regioni equatoriali. Un profondo silenzio regnava nelle pianure sottostanti alla collinetta, rotto solo dal passo leggero del drappello. Anche la risacca pareva che si fosse calmata in causa forse del riflusso. Yanez taceva, ma scambiava di quando in quando uno sguardo con Tremal-Naik e lo urtava col gomito, come per raccomandargli la massima prudenza. Dietro di lui il capitano diceva qualche parola, sotto-voce, alla fanciulla, che il portoghese non riusciva ad afferrare per quanto aguzzasse l'udito. I pirati, muti come pesci, col dito sul grilletto delle carabine, li seguivano pronti al primo comando ad avventarsi contro il capitano. Discesa la collinetta, il drappello s'avanzò in mezzo alle piantagioni e, siccome il sentiero era stretto, Yanez ne approfittò per distanziare il capitano. - Sii pronto a tutto, - sussurrò a Tremal-Naik, quando credette che il capitano non lo potesse più udire. - E Sandokan? - chiese sotto-voce l'indiano. - Ci aspetta al largo. - A quale rischio ti sei esposto, Yanez. - Bisognava ben tentare un colpo di testa. Senza di voi non saremmo stati liberi di cominciare le ostilità. - Del capitano che cosa ne farai? Ti chiedo la sua libertà, perchè egli ci ha trattati più come ospiti che come prigionieri. - Non ho alcuna intenzione di ucciderlo. Sarebbe una vigliaccheria assassinarlo. Chi è quell'uomo? - Un inglese ai servigi del rajah, e che prima faceva parte della marina indiana. - Lui, inglese, con quella pelle così abbronzata e quegli occhi! No, io lo credo un anglo-indiano piuttosto. - Anche a me è venuto il sospetto; comunque sia, si è comportato verso di noi come un vero gentiluomo. - Zitto: ecco il mare. S'accostò ai quattro pirati che lo precedevano, fra i quali si trovava Sambigliong e sussurrò loro qualche parola. - Va bene, - rispose l'antico mastro della Marianna. - Me ne occuperò io. Pochi minuti dopo giungevano sulla spiaggia del mare, là dove la scialuppa si trovava arenata. A tre o quattro gomene la barcaccia fumava. Il macchinista americano non aveva perduto il suo tempo a quanto pareva. - Spingete in acqua la scialuppa, - comandò Yanez. Mentre quattro uomini eseguivano l'ordine, gli altri si erano disposti intorno al gruppo formato da Tremai-Naik, da Darma e dal capitano. Sambigliong anzi si era messo dietro a quest'ultimo. Appena Yanez vide la scialuppa a galleggiare, s'accostò a sir Moreland che stava presso Darma e gli stese la mano, dicendogli: - Fidatevi di me, capitano: io condurrò i prigionieri in salvo. Nel medesimo tempo strinse la mano dell'anglo-indiano con tale forza da fargli scricchiolare le dita e da paralizzargli il braccio. Mentre lo teneva, impedendogli in tal modo che sguainasse la sciabola, Sambigliong afferrò a mezzo corpo il capitano e con un colpo solo l'atterrò. Sir Moreland aveva mandato un grido di furore: - Ah! Miserabili! I pirati si erano precipitati su di lui e in meno che lo si dica gli avevano legato le mani dietro al dorso e l'avevano privato della sciabola e delle pistole che portava alla cintura. Appena potè rimettersi in piedi, avendogli lasciate le gambe libere, fece atto di scagliarsi su Yanez che lo guardava, sorridendo silenziosamente. - Che cosa significa questa aggressione? - gridò, pallido d'ira. - Chi siete voi? Yanez si levò l'elmetto e salutandolo ironicamente, gli rispose: - Ho l'onore di presentarvi i saluti del mio amico, la Tigre della Malesia. - Chi siete voi? - Yanez de Gomera, sir Moreland. La sorpresa fu tale, che il giovane capitano fu per qualche istante incapace di pronunciare una parola. - Yanez, - disse finalmente, guardandolo quasi con terrore. - Voi il compagno della Tigre della Malesia! - Ho quest'onore, - rispose il portoghese. Il capitano girò lo sguardo verso Darma. La fanciulla non aveva mandato un grido, nè aveva fatto un gesto durante quell'improvviso attacco. Era rimasta immobile e silenziosa, a cinque passi dall'anglo-indiano, quantunque il suo pallore tradisse una certa angoscia. - Uccidetemi dunque, se l'osate, - disse rivolgendosi a Yanez. - Ci chiamano pirati, ma sappiamo essere generosi forse più degli altri, - rispose il portoghese. - Se io fossi caduto nelle mani del rajah, a quest'ora mi avrebbe fatto fucilare; io, signore, vi dono invece la vita. - Che io avrei chiesto, - disse Tremal-Naik. - E che io non ti avrei rifiutata, - aggiunse Yanez. - Che cosa volete fare di me, dunque? - chiese il capitano coi denti stretti. - Lasciarvi libero di tornarvene a Macrae, signore. - Potreste pentirvi d'una simile generosità, perchè domani vi darò la caccia colla mia nave. - E troverete sul vostro cammino un avversario degno di voi, - rispose Yanez. - Se volete attendere l'equipaggio della barcaccia, fra pochi minuti sarà qui. - Si sono arresi quei miserabili? - Li abbiamo sorpresi e non potevano misurarsi con noi. Capitano, buona notte e buona fortuna. - Ci rivedremo più presto di quello che credete. - Vi aspettiamo, sir Moreland. Su, imbarcate! Tremal-Naik prese per mano Darma, che non aveva mai aperto bocca e la trasse dolcemente verso la scialuppa facendola sedere a poppa, poi s'imbarcarono tutti gli altri, mentre il capitano passeggiava nervosamente sulla spiaggia, cercando di spezzare le corde che gli legavano le mani. La scialuppa prese subito il largo dirigendosi verso la barcaccia che fumava sempre e che aveva a prora il fanale acceso. Darma, dopo d'aver stretta mestamente la mano al portoghese ed averlo ringraziato con un sorriso, si era appoggiata con un gomito al banco di poppa e teneva gli sguardi fissi sulla riva. Anche il capitano aveva cessato di passeggiare. Ritto su una duna di sabbia guardava la scialuppa ad allontanarsi e forse non era la scialuppa che guardava. - Ebbene, Tremal-Naik, che cosa ne dici di questo colpo di testa? - chiese Yanez, ridendo. - Che voi siete dei demoni, - rispose l'indiano. Non dubitavo che un giorno o l'altro sareste venuti a salvarci, non però così presto. Come avevate saputo che ci avevano condotti a Macrae? - A Labuan; più tardi ti narrerò tuttociò che è avvenuto dopo il vostro rapimento. Sappi intanto che abbiamo una delle più potenti navi del mondo e che ci prepariamo a fare la guerra al rajah di Sarawak e all'Inghilterra, per vendicarci di averci scacciati da Mompracem. - Tanto osate? - E devo aggiungere un'altra cosa che ti farà stupire. - Quale? - Che quel pellegrino che ci diede tanto da fare era un emissario del figlio di Suyodhana. - Tu dici ... - Quando saremo a bordo del Re del Mare ti spiegheremo meglio. Vorrei ora sapere se nessuno ti disse mai che Suyodhana avesse un figlio. - Mai ne ho udito parlare e poi, come capo dei thugs, non poteva ammogliarsi. Sicchè sarebbe stato lui a muoverci la guerra? - Sembra, e appoggiato dagli inglesi e dal rajah di Sarawak. - E come gli inglesi possono aver accordata protezione al figlio d'un thug perchè venga a misurarsi con noi che abbiamo estirpata quella piaga che disonorava l'India? - È un mistero che noi non siamo riusciti a spiegare. - E dove si trova quell'uomo? - Ecco un altro mistero, mio caro Tremal-Naik. Speriamo in qualche luogo d'incontrarlo e di fargli fare la fine di suo padre. Signor Horward! La scialuppa era giunta presso la barcaccia e l'americano era salito prontamente in coperta. - Tutto bene, signor Yanez? - Meglio non la poteva andare. Avete la massima pressione? - Da un'ora. - Ed i prigionieri? - Sembrano conigli. - A bordo, ragazzi. Aiutò Darma a salire sulla barcaccia, poi tutti si issarono sulla tolda. - Sbrighiamoci, - disse Yanez. Fece slegare uno ad uno gli indiani che formavano l'equipaggio della barcaccia, fece scivolare nelle tasche del sergente un pugno di sterline e li fece scendere nella scialuppa dicendo loro: - Il capitano Moreland vi aspetta sulla spiaggia. Portate a lui i miei saluti ed i miei ringraziamenti per la bella barca a vapore che mi ha regalato. Signor Horward, a tutto vapore. L'americano fece fischiare ripetutamente la macchina, come un ironico saluto agli indiani della scialuppa, e la barcaccia, sbarazzata dell'ancora, filò rapidamente verso l'uscita della baia. Yanez, affidata la barra del timone a Sambigliong, si era collocato a prora assieme a Tremal-Naik e scrutava attentamente le tenebre per cercare di discernere la nave di Sandokan, che doveva incrociare a non molta distanza dalla costa. Dovendo però avere i fanali spenti non era cosa facile scoprirla. - Si sarà portata più al largo a menochè non siano avvenute delle novità durante la mia assenza, - disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava. - Da un praho che veniva da Labuan abbiamo saputo che una squadriglia d'incrociatori inglesi ha lasciato Victoria per darci la caccia. - Che Sandokan li abbia incontrati? - Avremmo udito il cannone e poi Sandokan non è un uomo da lasciarsi sorprendere, specialmente colla nave che possiede. Vedo laggiù delle scorie accese alzarsi. È il Re del Mare! Signor Horward, caricate le valvole! La barcaccia, che era davvero una buona camminatrice, s'avanzava sempre più rapida sul tenebroso mare, lasciandosi a poppa una scia che talvolta diventava luminosa per effetto d'un principio di fosforescenza. Ad un tratto una massa enorme, che scivolava sulle acque con un sordo fragore, comparve dinanzi alla scialuppa a vapore sbarrandole la via, mentre una voce formidabile gridava: - Puntate il pezzo di prua! - Alt! - aveva comandato prontamente Yanez. - Ehi, Sandokan, cala la scala. Sono le tigri di Mompracem che tornano! La barcaccia, che aveva rallentato il cammino, abbordò l'enorme nave presso l'anca di tribordo, sotto la scala che era stata abbassata d'un colpo solo.

Cerca

Modifica ricerca