Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbienti

Numero di risultati: 4 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

257101
Vettese, Angela 1 occorrenze

Al contempo, però, egli si pronuncia sul ruolo sociale dell’arte denunciando chi sfratta i ceti meno abbienti dai centri storici e riconfigura la città in senso classista. Un tema, questo, che ha toccato la sensibilità di molti altri artisti seppure con risultati diversi: Dan Graham, Hans Haacke e Rachel Whiteread tra questi.

Pagina 132

Demetrio Pianelli

663141
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Il commendatore, dolcemente acceso e sorridente, brandí il coltellino del formaggio e alzandolo in aria soggiunse: "Imperciocché, o signori, non è né la forza degli eserciti, né i baluardi delle fortezze, né le difese alpine, né le trincere ferrate dei nostri porti che potranno mantenere la pace, salvare il paese, favorire il miglioramento delle classi meno abbienti, diffondere i lumi della pubblica istruzione, ecc.; ma bensí l'unità, la concordia, l'ordine nei principii, l'ordine nelle amministrazioni locali, il disinteresse dei funzionari ... ." " Un po' anca mo' ... ." Tutti si voltarono a questa brusca interruzione, molti risero, e cercarono chi aveva parlato. La frase poco rispettosa era sfuggita dalla bocca del Bianconi, che credeva in coscienza di sussurrarla in un orecchio al Caravaggio. Ma fosse l'allegria, fosse il vino bianco, fosse il diavolo, che ha sempre gusto di rovinare un galantuomo, uscí una voce falsa, a contrattempo, che tutti poterono sentire. Rosso, infocato in viso, colle orecchie scarlatte, il povero Bianconi si rannicchiò sulla sedia e avrebbe voluto sprofondare in cantina. L'oratore, turbato un momento, non si smarrí, ma alzando un po' la voce rincalzò: "La giustizia nei superiori, il rispetto nei subalterni, in una parola un'armonia di sentimenti in quell'unico ideale, in cima al quale siede il benessere del paese ... ." "..issimo." "Nel ringraziarvi, adunque, cari amici e colleghi, permettete che unisca agli auguri per voi e per le vostre famiglie un augurio anche a quell'illustre magistrato che regge questa provincia, il quale si è compiaciuto di mandare un suo rappresentante nella persona del mio buono e vecchio amico, il commendator Ranacchi, un vecchio avanzo delle patrie battaglie ... ." Il Ranacchi si mosse sulla sedia e fece molti gesti pieni di modestia. " ... e a quell'alta mente, a quell'integro statista, a quel veterano delle lotte parlamentari che regge con prudenza antica il timone degli affari interni: per arrivare infine ove arrivano sempre i voti di tutti gli italiani, che non sanno distinguere piú il trionfo del progresso da quello della dinastia che ne tien alta la bandiera ... ." "Viva, viva!" "Bravissimo!" "Molto bene! Proprio toccata la nota giusta." "M'è piaciuto quell'appello ai principii." "Mi congratulo, bravo!" Il commendatore ricevette tutti questi mirallegri, stringendo tutte le mani che lo assalivano, sorridendo a tutti ringraziando; poi la conversazione continuò animata fino ad ora tarda. Il povero Bianconi non aspettò il caffè per prender l'uscio. Quando mai era venuto! il pranzo gli si cambiava in tossico. Tanta prudenza, tanta cautela, tante umiliazioni per non contraddire, per non compromettere quella piccola gratificazione a Natale, e ora una frase, due parole, una sciocchezza gli faceva forse perdere il frutto di tre anni di buoni servigi. "Aspetta ora che ti aggiusti nel nuovo organico" seguitava a brontolare dentro di sé, mentre andava verso casa grondon grondoni, "non ti manderà mica in Sardegna per questo, ma se speri di maritare le tue figlie cogli avanzamenti, stai fresco. Non ti ha risparmiata la sassata, e come ha sottolineata quella frase: il rispetto dei subalterni ... Se quell'asino di Pianelli fosse venuto, forse avrei avuto un altro posto, avrei bevuto un bicchiere di meno ... ." E voltando nella porta di casa, salendo le scale, cacciandosi in letto, non cessò mai di pigliarsela con qualcuno, che non era sempre il Bianconi; anzi spesso confondeva sé stesso con quell'asino, che egli considerava quasi come la causa involontaria della sua disgrazia. Al telegramma ministeriale tenne dietro una lettera, in cui si diceva che, "avendo avuto riguardo ai precedenti incensurati dell'applicato Demetrio Pianelli, accogliendo le generose insistenze della parte offesa, S.E. il Ministro si limitava a traslocare il nominato Pianelli, senza promozione, all'ufficio del Bollo e Registro di Grosseto (Maremma toscana) a cominciare dal primo agosto prossimo venturo, col qual giorno avrebbe datata pure la decorrenza dell'assegno mensile". In parole meno solenni era un castigo di due mesi di sospensione dall'impiego, durante i quali il nominato Pianelli avrebbe dovuto vivere con qualche economia, vendere qualche superfluità, preparare il baule e riflettere sulla necessità che un regio impiegato abbia in ogni circostanza a conservare un contegno corretto e come si deve. Il Caramella, che gli portò la lettera, lasciò anche il fagotto delle sue poche robe. Non mancava nulla, né il boccaletto, né il bicchiere, né il paio di manichette di tela; mancavano soltanto le cento lire della sua mesata di maggio. "Andremo a Grosseto!" declamò Demetrio, dopo aver letto e riletto il ministeriale documento, accompagnando la lettura con molti tentennamenti del capo. "Grosseto, Maremma toscana: sarà aria buona ... Bisognerà mettere nel baule anche una buona dose di chinino. Impareremo cosí anche il bel linguaggio toscano." E crollando la testa, gli venne voglia di ridere. Sí, gli venne voglia di ridere, non capiva perché. In un altro momento, in altro stato d'animo forse avrebbe sofferto atrocemente di quella punizione: ora, gli veniva da ridere, come di una commedia. Che male, infine? morir qui, morir là, tanto per lui, adesso, era la stessa cosa. Era questa anche un'occasione per vedere un po' di mondo, al di là dei suoi prati ... Che gl'importava ora di Milano e delle sue magnificenze? Fino i suoi dintorni, fin anche quei prati verdi che formavano la sua delizia, oggi gli erano diventati antipatici. "Andiamo a Grosseto!" ripeteva tra sé, nella quieta solitudine della sua stanzetta, mentre a Sant'Antonio ribattevano le nove, le dieci, le undici, mentre tutti i suoi colleghi erano già in ufficio a lavorare, ciascuno al suo posto; ed egli invece, pacifico e beato come un signore che vive d'entrata, se ne stava a casa a fumare i piccoli mozziconi di sigaro, che andava pescando in fondo alle tasche, a far il conto di quel che avrebbe dovuto vendere per tirar là quei due mesi con ventidue lire e centesimi, e poi un altro mese a Grosseto prima della scadenza, oltre alle spese del viaggio, e a qualche debituccio arretrato ... "Andiamo a vedere Grosseto! ... " Se egli fosse stato pittore, oh! che bei quadrettini da dipingere! Meglio ancora se avesse dovuto scrivere un romanzetto. I letterati vanno alle volte a cercare argomenti inverosimili e strani nel mondo delle nuvole e non si accorgono che hanno sottomano dei casetti curiosi da far morire la gente dalle risa ... e anche da far piangere. Piangeva egli forse? mai piú. Gli passava soltanto per gli occhi una nube di malinconia. È una sciocchezza piangere perché il signor Ministro si compiace di traslocarti a Grosseto. Poteva forse per un giorno o due far dispiacere di romperla cosí bruscamente colle vecchie abitudini; il vedere il cappello attaccato al chiodo, il bastone appoggiato al muro, in un cantone, coll'aria di roba stufa di stare in casa; ma non c'erano motivi per piangere. Ci si fa l'osso anche al far niente. Non dava nemmeno torto al suo superiore. Guai se un capo d’ufficio non provvedesse energicamente a salvaguardare — come dicono — il prestigio dell'autorità! Come mai un Pianelli, di natura cosí impacciato e scontroso e cosí duro di lingua, avesse potuto cantare a quel bravo signore delle cose che non si devono mai dire a un superiore, specialmente quando sono vere, era un mistero anche per lui. Non sapeva ripensare neppure quello che gli era uscito di bocca in quel momento. S'era frenato un pezzo colle corde e colle catene: ma quando quel bravo signore osò insultare Beatrice e chiamarla pettegola, allora il cuore scattò come una molla. Non era dunque morta del tutto quella donna nel suo cuore; o non era morto del tutto il suo cuore per lei? Misteri, misteri. Se un resto d'illusione si muoveva ancora in lui, il Ministro provvedeva ora energicamente a togliergli fin l'ultima speranza. La bella storia era finita del tutto. T-o-tto ... finito. Ora aveva piú tempo di far delle belle passeggiate sui bastioni e in piazza Castello, e di stare a sentire le cicalate delle sonnambule e dei venditori di mastice. Aveva anche il tempo di leggere un giornale e di occuparsi di politica, come un uomo che vive di rendita, colla differenza che per vivere e tirar là tutto il tempo stabilito dal signor Ministro bisognava vendere qualche cosa. E cominciò dall'orologio. Era un vecchio orologio d'argento, di quelli che diconsi a cipolla, grande come uno scaldaletto, ma d'una solidità e precisione che gli orologini moderni, intisichiti anche loro come i padroni, non conoscono piú. Pà Vincenzo l'aveva ereditato dal padre suo, che l'aveva ricevuto in pagamento da un delegato austriaco, il quale alla sua volta ... , insomma era un magnifico orologio tedesco, che dopo aver segnate molte ore belle e brutte ai vecchi di casa, continuava a segnare al nuovo e ultimo padrone un tempo inutile. Dopo aver tentato due volte di venderlo come orologio, spaventato del poco o nulla che gli offrivano nelle botteghe, provò a spacciarlo come oggetto antico e fu piú fortunato. Un rigattiere che sta di casa in San Vito al Pasquirolo, che forse era sulla traccia d'un oggetto simile, dopo un lungo tirare si rassegnò a dare trentacinque lire, una somma favolosa in confronto di ciò che gli offrivano gli altri, ma lo acquistò come roba fuori d'uso, non come orologio. Demetrio nel venir via provò un senso di rincrescimento e di dolore, che finí, a furia di pensarci, in un altro senso piú profondo e misterioso di mortificazione. Si paragonò al suo vecchio orologio di Vienna e si accorse che anche lui era un oggetto fuori d'uso, colla differenza — sempre qualche differenza! — che per trentacinque lire nessuno l'avrebbe voluto. La grossa cipolla riempiva di solito un taschino del panciotto, premendo sulle costole a sinistra, facendo un grosso e un duro che il corpo era abituato a sentire, come una parte di sé stesso. Ora quel taschino vuoto e floscio che pendeva giú, dava un senso di freddo e di mancante, come se coll'orologio avesse levata una costola; e piú volte nei movimenti di distrazione le due mani andarono a frugare sull'orlo della tasca, irritate di non trovar subito la chiavetta di ottone, che sporgeva attaccata a due cordicelle di seta. Piú melanconico di notte. Nelle ore di veglia — e adesso gli capitava spesso di non poter dormire — era solito sentire il tic tac del vecchio amico, che vegliava con lui nell'alta e oscura solitudine sopra i tetti e che gli teneva una cara compagnia. Non è il caso di dire che in quel tic tac, ingrossato dalla cassa armonica del tavolino, egli sentisse la voce dei vecchi che avevano scaldato l'orologio col calore del loro corpo e che avevano da un pezzo finito di battere il loro tempo: questo potrebbe essere della poesia e del romanticismo. Ma è certo che egli vegliava volentieri colla sua "vecchia cipolla", e nell'accordo dei palpiti tornava a rivivere, guardando nel buio, molte pagine della sua vita passata, risuscitando immagini lontane, che davano quasi il senso d'una vita vissuta in un altro mondo. Anche questo: t-o-to ... finito! Eppure in fondo a questa catastrofe, benché si sentisse quasi schiacciato dalle sue stesse rovine, — va a spiegare anche questi misteri ... — non gli dispiaceva d'aver cantato, almeno una volta, una bella verità a un potente. Gli era cara, dolce, consolante l'idea d'aver osato alzare la voce —lui solo in mezzo ad una bega di ipocriti e di maliziosi — per difendere l'onestà di una povera donna. — Egli solo aveva avuto il coraggio di rispondere alle perfide malvagità del Quintina, alle offese del commendatore, parlando chiaro, chiamando gobbo il gobbo, vile il vile, sollevando di peso, quasi sulle sue braccia l'onestà di Beatrice al di sopra del fango. Cesarino non era uscito dalla sua fossa ad aiutarlo; e nemmeno il signor Paolino delle Cascine s'era fatto vivo in quel momento. Di quell'opera buona e di coscienza il merito spettava a lui solo; nulla di piú giusto quindi che ne godesse egli solo l'intima e gelosa consolazione. A questa coscienza si appoggiava come a un bastone, e se ne faceva quasi uno scudo. No, non avrebbe cambiata la sua coscienza orgogliosa con quella del suo superiore e de' suoi adulatori. Paolino, piú fortunato di lui al di fuori, di dentro non era né capace, né degno di certe convinzioni. Egli sí; c'è il suo tornaconto anche a soffrire per la giustizia. Con questa orgogliosa sicurezza di sé, qualche giorno dopo la burrasca, come se nulla fosse accaduto, andò passino passino in Carrobio, montò le note scale, suonò il campanello. Sentí un passo piú greve del solito, la chiave girò nella toppa, e i due cugini si trovarono in faccia l'uno all'altro. "O Demetrio!" esclamò Paolino, aprendo le braccia e stringendo poi la testa del cugino nelle mani grandi come foglie di zucca. "Beato chi ti può vedere, Paolino!" "Vuoi dire che merito d'essere bastonato? Hai ragione. Tu sei stato molto malato e non mi son lasciato mai vedere. Ma se sapessi quante cose in questa testa ... ." "Sappiamo tutto." Demetrio, mentre deponeva il cappello e il bastone, diede ascolto al cuore e si rallegrò di sentirlo quieto e rassegnato. Il passo piú difficile è quello della soglia, dice il proverbio: ed egli l'aveva fatto "C'è Beatrice?" "È di là. È venuta in questo momento la sua sarta." "E i ragazzi?" "Son presso la signora Grissini. Aspettano Ferruccio che oggi s'è vestito da prete." "Son venuto a disturbarvi?" "Birbante, tu fai delle maligne supposizioni." Paolino prese il buon cugino sotto il braccio e lo trascinò nel salotto, dov'era ancora stesa la tovaglia. "Qui si pranza." "Abbiamo finito. Sono scappato a Milano per combinare la faccenda del domicilio legale. È necessario che Beatrice, per non perder tempo, si stabilisca subito in campagna. Abbiamo scelto Chiaravalle." "Lei dunque ci ruba la signora Beatrice" disse Demetrio con un tono di recitativo d'opera. Ascoltò di nuovo il suo cuore: e gli parve di non sentirlo piú, come l'orologio. "Questo andare e venire è noioso per tutti. La voce del matrimonio è corsa, e i vicini vogliono dire ciascuno la sua. Un po' di campagna farà bene anche ai ragazzi." "Va bene, va bene." Sedettero davanti alla tavola dov'erano rimasti gli avanzi del pranzo. Non era piú il piatto di carne bollita o di pesce stantío, o il pezzo di vecchio formaggio che un certo Demetrio soleva portare a casa nella cesta, lesinando sul quattrino: ma si vedevano molte bottiglie in tavola, dei piatti non troppo puliti, dei cartocci di dolci, e un mezzo panettone. L'abbondanza cacciata dall'uscio era tornata dalla finestra. "E dunque, sei proprio contento, Paolino?" "Se io sono contento?" ripeté il cugino, come se tornasse indietro per prendere la corsa. "Bevi, Demetrio." "Non bevo, grazie." "Un gocciolino ... ." "Mi farebbe male." "È un vino bianco dolce che faccio io." "Un'altra volta ... " insisté Demetrio, voltando di sotto in su il bicchiere, per non voler assaggiare il vino dell'altrui felicità. "Verrai un giorno alle Cascine. Sento anch'io che sono un mostro d'ingratitudine. Tu mi dimandi se io sono contento ... , capisco: è un rimprovero." "Che rimprovero!" "È un rimprovero giusto e meritato, perché io avrei dovuto darti subito questa notizia, scriverti una parola, farmi vivo una volta. Ma se ti dicessi che ho perduto la testa?" "Capisco ... del resto ... ." "Dopo che ho sofferto tutte le pene del purgatorio — come ti ho contato — dopo che senza Beatrice mi pareva che sarei morto asfissiato, quel giorno che la Carolina tornò a casa colla fausta notizia che tutto era combinato, che essa aveva detto di sí, che era contenta, eccetera, eccetera, crederesti che io son rimasto freddo e indifferente come questa bottiglia?" Paolino prese la bottiglia, la collocò con un colpo in mezzo alla tavola, indicandola col dito. I due cugini rimasero un momento immobili a contemplarla. "Misteri del cuore umano!" esclamò Demetrio, usando una frase di un suo vecchio ragionamento. "E cosí fu per due o tre giorni. Uscivo di casa la mattina, andavo in campagna, per istinto, come un cieco, che ha gli occhi aperti e non ci vede, scorgevo gli uomini alla lontana, ma non capivo quel che mi dicevano. Tratto tratto mi arrestavo di botto per chiedermi se ero io che dovevo sposare Beatrice — alle Cascine la chiamavano la bella vedovina. — Non poteva essere che un sogno anche questo come ne avevo fatti altre volte, che poi sfumavano al cantare del gallo? Per accertarmi che non era un sogno, toccavo colla mano i sassi, le piante, mi davo dei pizzicotti, facevo fin dei salti al sole per vedere se con me si moveva anche l'ombra del mio corpo ... ." "Ah! ah! ah!" proruppe Demetrio con una risata larga, aperta, esagerata apposta per spaventare qualche cosa che si moveva in lui. "Bevi, Demetrio ... ." "No, caro ... , e poi?" "E poi cominciai a capire qualche cosa. La Carolina anche in questa faccenda mi aiutò come si aiuta un bambino da latte. Se avessi dovuto muovermi e fare da me, morivo vergine e martire, caro Demetrio." Paolino vuotò il bicchiere del suo vin bianco dolce. "La Carolina mi condusse a Milano una volta per la presentazione, — tu eri malato con una gran febbre quel giorno — mi insegnò quel che dovevo dire, precisamente come si fa alla dottrina cristiana: "Chi vi ha creato e messo al mondo?" scelse lei dall'orefice il primo regalo, e mi tirò su per queste scale come si tira — scusa il paragone — un vitello per le orecchie ... ." "Ah! ah!" tornò a ridere Demetrio. "E poi?" "Una volta seduto vicino alla sposa mi pareva di essere un campanile in suo confronto: io non sentivo che sonar campane nelle orecchie. Parlò sempre la Carolina, che ha tutte le chiavi delle guardarobe e anche quella del mio cuore. Per me, se mi facevano un salasso, giuro che non mi veniva una goccia di sangue. A poco a poco la lingua si snodò. Due giorni dopo venne lei alle Cascine ... ." "Ah sí?" "A casa mia sono piú a posto. L'ho condotta a vedere gli asparagi, i meloni novelli, il molino, il torchio dell'olio e cosí ho potuto salvare l'onore delle armi. Un'altra volta son venuto solo a Milano — tu cominciavi a star meglio — e a furia di mescolare le carte il gioco s'impara. Ah, Demetrio!.." soggiunse lasciando cadere un gran colpo di mano sulle spalle del cugino "quando verrà quel giorno, tu vedrai Paolino volare come una farfalla. Giugno, luglio, agosto: s'è fissato per il matrimonio il 24, giorno di san Bartolomeo." Paolino, colto da una improvvisa tenerezza, alzò gli occhi al soffitto, e non li abbassò finché fu sicuro di essere un uomo e non un ragazzo piagnulone. Demetrio, rannicchiato in sé stesso, quasi rimpicciolito nelle spalle, — fatte sottili dalla malattia — andava grattando coll'unghia dell'indice il tessuto della tovaglia. Passò un momento di silenzio, nel quale scoppiò come un fuoco di festa una risata di donna allegra. L'uscio della stanza si aprí e Beatrice, con indosso un magnifico vestito di seta color ulivo, appuntato con spilli, corse di qua a prendere le forbici, chiedendo scusa alla bella compagnia; entrò e scomparve come una visione nel morbido fruscío del lungo strascico fosforescente. Paolino abbassò gli occhi. Demetrio sollevò i suoi. Quei quattro occhi s'incontrarono, si fissarono, si parlarono. Quelli di Paolino parevano dire: "Hai visto? ho ragione di perdere la testa?" Gli occhi di Demetrio avevano invece un'espressione acuta di invidia e di gelosia. La bocca gli si riempí di un fiotto di saliva amara, che si sforzò di inghiottire. Si spaventò come se gli venisse addosso il mal caduco. Abbassò in fretta gli occhi, che sentí asciutti e quasi bruciati nell'orbita, e gli parve di vedere una chiazza sanguigna scorrere come una macchia di vino sul bianco della tovaglia. Paolino non era tal uomo da accorgersi di questi piccoli fenomeni psicologici, e tutto pieno de' suoi pensieri non aveva posto per i pensieri degli altri. Il caso aiutò l'uno e l'altro a levarsi da quel silenzioso imbarazzo. I due maschietti entrarono in furia ad annunciare che Ferruccio, vestito da pretino, veniva su per le scale. I voti del Berretta erano compiuti, e il piccolo ricciolone, tosato come una pecorella e vestito di roba larga e regalata, veniva a farsi vedere, a salutare i vicini prima di entrare in seminario. Il Berretta, piú felice egli del papa, andava mostrando quel suo figliuolo in nicchio e in veste talare a tutti gli inquilini, che, a seconda degli umori, gliene dicevano di belle e di brutte. La signora Grissini, tutta commossa, Arabella, Mario, Naldo, un po' mortificati, Beatrice, l'Elisa sarta, Demetrio stesso in curiosità, e, in fondo, mezzo nascosto dall'uscio, anche Paolino, uscirono a vedere questo nuovo chiamato da Dio, che col ciuffo tagliato, coi capelli rasi dietro le orecchie, veniva su coperto da un enorme e peloso cappello a tre punte, non suo, col passo impacciato nelle pieghe della veste, colla bocca aperta, colle mani ancor nere d'inchiostro di stampa, che non sapeva dove collocare. Il Berretta, nel suo solito panciotto di fustagno sparso di filaccie, esprimeva la sua paterna contentezza, ridendo in faccia a tutti e alzando ora una mano ora l'altra, come una marionetta. Arabella per un po' fu presa anche lei dalla curiosità e non tolse gli occhi da quel gran cappello: ma assalita a un tratto da una strana commozione, si attaccò al braccio dello zio Demetrio. Ferruccio, il bel ricciolone che essa aveva istruito nel catechismo, il suo piccolo cavalier servente, quando fu in cima alla scala si levò il cappellaccio e si atteggiò in una posizione stanca e umiliata di brutto martire in vergogna. Pareva un uccello spennacchiato. Quella sua testa rasa, quasi ignuda, da cui uscivano le orecchie come due manichi d'una marmitta, quell'annientamento morale e fisico di un bel ragazzo, trasse dal petto della fanciulla un tale scoppio d'ilarità, che per vergogna essa nascose il volto nel panciotto dello zio Demetrio. Questi la trasse in un cantuccio dell'anticamera, e stava per dirle che non bisognava ridere: ma quando le sollevò la testa, vide che invece erano singhiozzi, e che la faccia era un torrente di lagrime. "Ah poverina!" balbettò lo zio Demetrio. "Cominci male anche tu ... ." La curiosità della gente fu in quel momento sviata da un altro grande personaggio, che montava le scale, con un catafalco in testa. I ragazzi, guardando tra i ferri del pianerottolo, non potevano discernere chi fosse e che cosa fosse. "Chi è?" "Che roba è?" "È Giovann dell'Orghen ." "Che cosa porta sul capo?" "Guarda ... che diavoleria ... !" Demetrio si avvicinò a Beatrice e le disse con una voce di umiltà e di preghiera: "L'altro giorno mi avete manifestato il desiderio che fosse vostra: l'ho fatta aggiustare alla meglio, e non potendo regalarvi altro per la circostanza ... ." Giovann dell'Orghen veniva su col passo pesante del sordo, portando sulle spalle e sul capo come un'enorme cuffia la vecchia poltrona di vacchetta a grosse borchie, l'ultima memoria della mamma, salvata dal naufragio di ca' Pianelli. Il piú felice uomo del mondo rideva sotto quel catafalco, come un santo nello splendore della beatitudine. L'Elisa dovette fuggire in camera a buttarsi colla bocca sul cuscino per non farsi sentire. E fece ridere anche la signora Pianelli sulla magnifica idea di regalare a una sposa una poltrona di arcivescovo.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676106
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Una ciurma di equilibristi impaziente e fatta audace dall'esito delle elezioni, minacciava di realizzare immediatamente le utopie del partito, invadendo e saccheggiando le case degli abbienti privilegiati. Uno dei più reputati stabilimenti di pigiatura, occupato dai convalescenti più doviziosi e dalle etère più famigerate, era preso di assalto. I sopraintendenti e i subalterni resistevano debolmente; le belle pigianti si sbandavano ignude e rosseggianti di mosto pei vasti corridoi, invocando soccorso. Uno dei capi della rivolta, entrato per la finestra di una cabina di pigiatura, si dibatteva furiosamente sulla scaletta di una piscina uvaria colla bella moglie di uno czarre, la quale con ceffate e con graffi da pantera tentava di schermirsi. Frattanto, al vedere gli agenti di sicurezza attrupparsi per marciare verso il centro della sommossa, in altri punti dell'agro si formavano degli assembramenti minacciosi. I coscritti, affigliati per la più parte alle sètte anarchiche, affiggevano ai berettoni solari le coccarde riottose. L'uragano della sommossa si annunciava terribile e spietato. Le botteghe si chiudevano; i merciaiuoli smontavano le baracche; le madri paurose traevano i bambini fuor della folla; altre più audaci, invase da un ardore di ribellione, coi pargoli in sulle braccia, animavano all'azione i giovani esitanti. Ciò che accadeva in quel momento nei due agri collegati di Stradella e di Broni non era che un minimo episodio della grande rivoluzione, suscitata per naturale coincidenza di passioni politiche, in ogni quartiere popolato dei dipartimenti dell'Unione. - Che si fa? - chiese il Virey all'Albani, traendosi in disparte per dar passo ad un pelettone di sorveglianti i quali si avanzavano intimando l'ammonito ad un gruppo di rivoltosi. - Io sarei d'avviso che ci imbarcassimo bravamente in una volante, e ci facessimo condurre a Milano, senza preoccuparci dei nostri bagagli, i quali, c'è da scommetterlo, a quest'ora devono aver già assaggiate le garbatezze dei nostri futuri governanti. - Credi tu che a Milano si abbia a godere maggior sicurezza? ... Ma, via! Si può tentare ... Forse giungeremo in tempo da poter assistere al saccheggio della mia villa. Vorrei che di quell'edifizio maledetto, nel quale ho sommerso tutti i milioni da me guadagnati coll'invenzione della pioggia artifiziale, non rimanesse più vestigio. Oggimai è penetrata nel mio animo questa convinzione, che ogni attentato violento fatto alla natura è opera da pazzo, per non dire da scellerato, e che io, al par di altri orgogliosi della mia specie, colla mia superba invenzione mi sono reso complice dei più grandi disastri che affliggono il mondo. - Tu, dunque, vorrai essere dei nostri? - chiese il Virey radiante di gioia. - Sì! per la vita dell'umanità! - rispose l'Albani con ardore entusiastico. - Torniamo alla natura! Il vostro programma quindi innanzi sarà il mio. - Dunque? ... A Milano? ... - A Milano! ... - Presto! Facciamo calare una volante! ... Ecco là una aerea da due posti, che pare fatta per noi. Diamo il segnale! Il conduttore della volante, all'udire il fischio, lasciò calare il veicolo a quattro metri dalla testa dei reclamanti. - Più basso! - gridò il Virey; - si vuol partire immediatamente. - Più basso? - esclamò l'auriga di cielo in tono più beffardo. - Io son disceso di quattro metri, ora spetta a voi di salire altrettanto. Siamo, o non siamo equilibristi? Animo, dunque! Salite! - Bella pretesa davvero! - sclamò l'Albani irritato. - Via! non son momenti di celie codeste! Vien giù! ... Sarai pagato lautamente. - Non potete salire? peggio per voi - rispose l'auriga di cielo; - e nemmen io posso scendere. Sono uomo di principii. Il vostro denaro non mi tenta ... Chi più ha, meno ha diritto di avere. Il Bigino ha l'onore di augurarvi la buona notte. Viva Antonio Casanova e l'abolizione della moneta! Viva l'equilibrio sociale! E cantando una gaia ballata, l'auriga fece risalire la volante, che andò a smarrirsi nelle brume vespertine. Il tumulto cresceva nell'agro. Ai ribelli si aggiungevano i curiosi; pochi atti di violenza si commettevano, ma lo strepito saliva alle stelle. I rappresentanti del governo legale ripetevano indarno le ammonizioni. Plochiù, il generale comandante della spedizione eletta a sedare la rivolta, prima di ricorrere ai mezzi estremi, esitava, temporeggiava, attendendo rinforzi. Verso le cinque pomeridiane, in luogo delle truppe arrivò un telegramma. Il generale lo lesse esprimendo cogli accenni del capo la più viva soddisfazione: Assemblea generale in seduta permanente delibera ed ordina nessuna resistenza movimento anarchico generale - passi la volontà del paese - passerà presto. Dato a Berlino, ore quattro. - A meraviglia! Lasciamo che si arrabattino fra loro. Se la godano un paio di giorni la loro anarchia! Nessuno dei militi volonterosi da me dipendenti rischierà una scalfittura per mettere al dovere questi pazzi! Di là a pochi minuti, i rappresentanti del potere legale si ritiravano dai centri tumultuosi. Una grande aerostata governativa e duemila volanti di seconda mole ancoravano alla stazione centrale per accogliere e trasportare i ben pensanti Un razzo fosforescente proiettò sull'agro una luce azzurrognola, che subito si spense. Era un segnale ben noto ai ribelli; un segnale che voleva dire: il governo si dichiara nolente o impotente a resistere: si salvi chi può L'Albani e il Virey si gettarono nella corrente dei fuggenti, incalzati dagli urli, o piuttosto dai ruggiti di quella belva capace di tutti gli orrori, che è un popolo scatenato. A Stradella ed a Broni si saccheggiava impunemente, e, diciamolo ad onore del vero, con ordine, con garbatezza, coi più delicati riguardi alle suscettibilità dei saccheggiati. Sulle aree, la ripartizione e l'equilibrio dei beni faceva le sue prime prove gaiamente. Ad un cittadino che aveva nel portafoglio diecimila lussi, si accosta un nullabbiente per esigere la metà del suo avere. - Presto fatto! Eccovi cinquemila lussi, e buona notte ... per ora! La ripartizione amichevole è approvata dall'applauso popolare; ma ecco i due equilibristi son presi in mezzo da altri equilibristi che esigono la metà della metà toccata a ciascuno. - È troppo giusto. A ciascuno duemila e cinquecento lussi - siete soddisfatti? - Ma non è finita, convien ripartire anche i duemila cinquecento; e così via, via. di ripartizione in ripartizione, i capitali vanno siffattamente assottigliandosi, che all'ultima fase dell'equilibrio generale ciascuno risulta possessore di circa dieci centesimi. Ci vorrebbero dei volumi per riprodurre gli episodi tragi- comici di quel breve trabordo di anarchiche utopie. Basti dire che ad un lacero nullabbiente il quale si era fatto cedere il paletot dal droghiere Pirotta, toccò indi a poco di dover dividere le sue spoglie con un correligionario sprovveduto di giubba. E ciascuno dovette andarsene mezzo vestito, con un solo braccio insaccato in una manica e un frammento di bavero attorno al collo. Malgrado le irritazioni inevitabili in ogni attrito di popolo, la giornata prometteva di chiudersi con un allegro chiasso di canti e di balli. Un fratellevole accordo si produceva dalla comunanza degli interessi; dall'uguaglianza nella miseria tutti si attendevano l'età dell'oro; dal deprezzamento delle intelligenze, l'uniformità del sapere e lo schianto di ogni supremazia. Ma sul far della notte, le cose mutarono aspetto. I caporioni della sommossa, che pei primi si erano slanciati all'assalto degli stabilimenti di pigiatura, non riflettendo al pericolo, dopo essersi immersi nel mosto fino alla gola e aver tracannato a larghe fauci il licore effervescente, avean levate le spine alle botti. Il vino inondava gli appartamenti e scorreva a rigagnoli per le scale. L'esalazione alcoolica saliva ai cervelli; i bevitori quasi asfissiati si avvoltolavano come giumenti in una melma rossiccia; i meno briachi, per uscire da quell'afa irrespirabile, si aprivano il varco rompendo la folla coi pugni. Frattanto, irrompevano altri bevitori. I fanciulli camminavano carponi leccando i pavimenti; le donne succhiavano dalle spine le ultime sgocciolature. Nelle cantine dei ricchi proprietari, i coscritti stappavano bottiglie di vecchio barbera; decapitavano l'Asti spumoso e trincavano senza freno. La fede equilibrista era scossa; non vi era più alcuno in Stradella ed in Broni che fosse in grado di tenersi in equilibrio. Si vedevano dei vecchi avvinazzati strappar le gonnelle alle donne, affermando il diritto all'uguaglianza dei sessi; le donne, a loro volta, pretendevano all'onore dei calzoni. Rotolavano come botti, sul pendio dello stradone curricolare, delle coppie di ubbriachi, strettamente collegate. L'agro era invaso dalla follia contagiosa; abbracciamenti e ceffate, lacrime di tenerezza e invettive, danze a suono di calci, baci e morsi di lussuria impotente, tutte le maniere di amplessi imaginate dall'Aretino e dal Carnicci; l'orgia del sabbato antico coi raffinamenti e gli orrori della sensualità alcoolizzata. Chi porrà fine a questo orrendo scompiglio? ... Udite! Udite! Un muggito reboante, che par quello di cento tori riuniti, ha percosso l'aria con spaventose vibrazioni. Dalla via De-Pretis è uscito un gran fragore di terremoto; un padiglione è crollato, è un fuggi fuggi di gente che urla come fosse pigiata. Cos'è avvenuto? Pressoché nulla: un leggerissimo errore di calcolo nella mente di un grande scienziato. Chi farà la storia delle infinite sciagure derivate alla famiglia umana dalle lievi abberrazioni dei forti intelletti! L'illustre primate Piria avea perfettamente costruito il suo gigante automatico-chimico-vitale. La macchina umana era riuscita; tutti gli elementi essenziali che la chimica poteva prestare alla formazione dell'ossatura, dei muscoli, dei condotti, delle parti viscerali, dei glutini nervei, erano stati da Piria impiegati e coordinati sapientemente. Un gigante dell'altezza di trenta metri, proporzionatamente sviluppato nelle singole membra, giaceva disteso nel padiglione di via De-Pretis. Verso le cinque pomeridiane, in presenza di un centinaio di spettatori, l'illustre scienziato aveva operato la trasmissione del sangue e del movimento. Incisa la carotide del mostro inanimato e messala in comunicazione, a mezzo di un tubo elastico, con quella di un toro parimenti svenato, l'illustre creatore dell'uomo colossale avea veduto realizzarsi con rapidità l'assorbimento e la dejezione. Si volle il sangue di dieci tori per fornire al vasto cuore ed ai grandi condotti arteriosi del gigante il liquido vitale occorrente. L'azione simultanea di due pile elettriche di quadrupla potenza diede impulso alla circolazione, suscitò l'irritazione nervosa e il movimento dei muscoli. La materia inerte si scosse ... Due grandi occhi si spalancarono assorbendo la luce, le nari si gonfiarono, il petto parve scoppiare pei forti aneliti di aria ossigenata, le braccia si agitarono, le mani si distesero per afferrare l'ignoto; e finalmente ... Chi poteva prevedere un tal impeto di vita? Dalle fauci del gigante elettrizzato proruppe un muggito spaventoso. L'immane corpo si sollevò, atterrò con un calcio poderoso l'enorme banco sul quale stava adagiato, e lanciandosi colla violenza di un toro inferocito verso la porta di uscita, si diede a percorrere la via, sorpassando ogni barriera. Trecento baracche di merciaiuoli andarono capovolte; quattro olmi secolari, urtati da lui, si rovesciarono sradicati. Egli cozzava, rompeva, abbatteva ogni ostacolo, impiegando a tal uopo, con istinto taurino, la catapulta di un cranio resistente ad ogni urto. Imaginate il terrore di quella apparizione, in una folla esaltata dagli entusiasmi politici e dai fumi del vino! Dove la gente non era lesta a sgombrare, il gigante si faceva largo coll'impeto della persona, colle irruzioni del capo, colla violenza dei calci. I più accorti tentavano schermirsi da lui passandogli fra le cosce o saltandogli sul capo per scivolare al suolo tra le curve della schiena interminabile; ma i fortunati ai quali riusciva di salvarsi, se la davano poi a gambe esterrefatti, annunziando il finimondo e la comparsa dell'anticristo. Quello sgomento generale aveva fatto passare la generale ubbriacatura; in meno d'un'ora il vasto agro di Stradella e di Broni si era mutato in un deserto. La popolazione che prendeva il largo, sbandandosi pei vigneti e cercando rifugio nei letti dei fiumi, verso le otto della sera fu colpita da un nuovo terrore. Nell'impeto bestiale della corsa, il gigante aveva dato il capo in un campanile, quattro metri più alto di lui. La torre era crollata, ma anche il grosso cranio, con tanta sapienza di mezzi chimici confezionato dal Piria. si era spezzato nell'urto. Slanciando il suo uomo chimico-meccanico, il dabben Piria non aveva riflettuto che in ogni essere animato la percezione sensuale non può svilupparsi che gradatamente. Per la conservazione di quel mostruoso fenomeno vitale si esigeva un trattamento di neonato; supponendo in lui ingenita quella facoltà di discernimento che può formarsi soltanto nell'adulto per una successione di esperienze, l'illustre primate vide sfasciarsi in un attimo la più ardita creazione che mai fosse concepita e realizzata dal genio umano. Coll'ultimo muggito del gigante chimico-meccanico, e col fragore di un campanile in rovina, a Stradella ed a Broni ebbe fine in quella notte il baccanale rivoluzionario degli equilibristi. A dieci ore l'ordine più perfetto regnava nell'acro.

Il dialetto milanese

682110
Rajna, Pio 1 occorrenze

Che, siccome in generale gli abbienti parlano scorretto, e relativamente corretto i non abbienti, si riuscirebbe ad un capovolgimento nella distribuzione delle ricchezze; i ricchi diventerebbero poveri, e i poveri ricchi ; che è l'unica soluzione del gran problema atta a contentare davvero, non dico chi predica le riforme stando comodamente in alto, ma chi le chiede dal basso.