Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

. - Figliuola mia, temo abbiate dimenticato qualche cosa nella confessione delle vostre colpe... Meditate, cercate ancora... Pensate che siete forse sul punto di presentarvi al giudice supremo. La Principessa allibiva, singhiozzando. - Vediamo - diceva Cassandrino, imitando la voce dell'amico - non ricordate d'aver sottratto... rubato qualche cosa? - Ah, Padre! - singhiozzò la Principessa. - Ho rubato una borsa miracolosa a un Principe forestiero. - Bisogna restituirla! Confidatela a me e gliela farò avere. La Principessa indicò col gesto stanco uno stipo d'argento: e Cassandrino prese la borsa. - E altro... altro ancora, non ricordate? - Ah Padre: ho rubato una tovaglia fatata allo stesso forestiero: prendetela. è là, in quell'arca d'avorio. - E altro, altro ancora? - Un mantello, Padre! Un mantello incantato, allo stesso forestiero. É là, in quell'armadio di cedro... E Cassandrino prese il mantello. - Sta bene - proseguì il falso prete - ora mordete questo pomo: vi gioverà. La Principessa addentò il frutto e subito le squamme verdi si diradarono lentamente e scomparvero del tutto. Allora Cassandrino si tolse la parrucca e la veste. - Principessa, mi riconoscete? - Pietà, pietà! perdonatemi d'ogni cosa! Sono già stata punita abbastanza! I Sovrani entrarono nella camera della figlia e il Re, vedendola risanata, abbracciò il medico. - Vi offro la mano della Principessa: vi spetta di diritto. - Grazie, Maestà! Sono già fidanzato con una fanciulla del mio paese. - Vi spetta allora metà del mio regno. - Grazie, Maestà! Non saprei che farmene! Sono pago di questa borsa vecchia, di questa tovaglia, di questo mantello logoro... Cassandrino, fattosi invisibile, prese il volo verso il paese natio, restituì ai fratelli i talismani recuperati e, sposata una compaesana, visse beato fra i campi, senza più tentare l'avventura.

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - II fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Viceré, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava : - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo ? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re ? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva , non vedi che stenta per mantenere tuo figlio ? Non credi che questo sia uno strazio per me ? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole : - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perché aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre : - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza ! - Ma che pazienza ! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo ! - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente ? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia ! Chi se la piglierà così nuda bruca ? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo.- Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera ! - II Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici ? - domandò. - Una bella sentenza ! Hanno dichiarato che l' abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l' abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine ! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo : - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo ? - Poi prese lo scettro e lo scaraventò in terra dicendo : - A che mi vale questo scettro se non comando nulla in Sicilia e i giudici comandano più di me? - Poi prese il manto d'ermellino e lo strappò tutto, dicendo : - A che mi vale questo manto mentre nel mio Regno mi contano quanto Pulcinella ? - II fabbro, nel vederlo così infuriato, credeva che se la sarebbe presa anche con lui e l'avrebbe mandato a marcire in qualche prigione o a remare su qualche galera. Invece il Re, tutto buono si volse a lui e, mettendogli in mano una borsa piena di doppie d'oro, gli disse : - Andate a Palermo e udrete di gran notizie! - Il pover uomo ringraziò ed uscì lesto lesto. Più presto che potè s'imbarcò su una nave che faceva vela per la Sicilia e con quelle doppie d'oro rabbonì la moglie e levò il Principino da battere il ferro sull'incudine e da limare chiavi e toppe. Ma torniamo al Re. Subito subito fece chiamare un suo fido servitore. - Don Josè, - gli disse - io debbo partire per un lungo viaggio, ma non voglio partire da Re. Qui farete credere che sono all'Escurial a far gli esercizi religiosi e che non voglio esser disturbato, avete capito ? - Maestà, sì. - Procuratemi un vestito da abate, ma vecchio e bisunto, tagliatemi i baffi, fatemi la chierica.... - Don Josè credeva che il Re fosse impazzito. - Presto, don Josè, andate e stasera portatemi il vestito che v'ho chiesto. Non vi movete? Sono o non sono il rè di Spagna, d'Aragona, di Castiglia, di Leone, di Sicilia e del Nuovo Mondo ? Il discendente di Ferdinando e d'Isabella di Castiglia, sono o non sono Carlo V re e imperatore ? - Sì, Maestà, siete il più potente sovrano del mondo e sui vostri domini non tramonta mai il sole; ma appunto per questo, mi pare che l' etichetta richieda che il Re ne' suoi viaggi sia accompagnato.... - Al diavolo l' etichetta e tutto il resto, obbedite ! - E don Josè obbedì e la sera stessa portò il vestito da abate al suo Sovrano e dovette tagliargli i fieri baffi, la barbetta prepotente e col rasoio fargli una bella chierica nel centro della testa. Così trasformato il Re uscì dal Palazzo Reale di Madrid senza esser riconosciuto da nessuno, montò un ronzino, procurategli pure da don Josè e su quello pian piano percorse solo le strade maestre del suo Regno, accorgendosi che molte cose andavano male, che molte altre non erano come gli davano ad intendere ministri e cortigiani, e s' imbarcò finalmente a Barcellona. Una burrasca gettò la nave sulle coste di Trapani, dove il Re comprò un mulo e su quello si avviò alla capitale dell' isola. Ma se le cose andavano male in Ispagna, andavan peggio in Sicilia. Strade non ce n'erano, le campagne erano incolte e deserte, e il Re fu fermato tre volte nel viaggio dai malandrini. I primi gli presero la borsa con le monete d'oro, i secondi il mulo, i terzi, non potendo prendergli altro, gli levarono le scarpe con le fibbie d' argento, il mantello e l'abito talare, cosicché dovette fare il viaggio a piedi e scalzo e senza nulla che lo riparasse dal freddo e dalla pioggia. Figuriamoci che umore avesse quando pose finalmente il piede nella sua fedele città di Palermo. Se gli fosse capitato davanti il Vicerè che governava in suo nome, lo avrebbe per lo meno mandato alla forca. Fortuna che sapeva l' indirizzo del fabbro e andò a trovarlo! Il brav'uomo lo riconobbe subito e lo ristorò, lo calzò e lo vestì, altrimenti il Re sarebbe morto di fame ne' suoi felicissimi Stati. Il fabbro tempestò, fece l'ira di Dio perché di nuovo il Tribunale discutesse la causa e la discusse. Il Re quel giorno era nell'aula vestito da misero abate. A. un certo momento s'accorse che un giudice faceva una soperchieria, e pian piano disse : - Ma perché, signor giudice, non usate giustizia? - Ah, padre abate, occupatevi dei fatti vostri ! Se non ve ne andate, vi tiro il calamaio ! - II Re non voleva altro. Si sbottona la tonaca, si apre il colletto della camicia e fa vedere il Toson d'oro. I giudici rimasero come morti. - Giudici infami, - esclamò il Re drizzandosi - così vendete la giustizia ? Ordino e comando che subito questi cinque furfanti siano legati alle code dei cavalli e trascinati per la città. Voglio che il popolo veda che le loro ingiustizie, le loro infamie non sono approvate dal Re. - Subito questi giudici furono presi, legati alle code di focosi cavalli, trascinati per le strade e in un battibaleno erano bell'e morti. Poi furono squartati, scorticati e con la pelle dei giudici il Re fece fare tanti seggi e su questi seggi ordinò che sedessero sempre i giudici quando dovevano giudicare e condannare, perché non dimenticassero quel che era capitato ai loro predecessori. Il perfido abate perdette la causa e finì la vita in una prigione, e il Principino fu reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni e per riconoscenza sposò Angelina, la figlia del fabbro. Il Re fece alla sposa doni sontuosi e volle che le nozze fossero celebrate nella cappella Palatina, nel Palazzo Reale. Il Vicerè, poveretto, la passò brutta e così tutti i funzionari che governavano l' isola a nome del Re, il quale, facendo giustizia, si acquistò l' amore e la riconoscenza dei Siciliani. Il principe di Cattolica gli fece fare una statua che fu messa di fronte alla casa del presidente Airoldi nel Vicolo degli Agonizzanti. Il vicolo prese il nome di Cortile del Re, e la strada per la quale furon trascinati i giudici rei, fu chiamata la Calata dei Giudici e così si chiama ancora. Angelina e il Principe furono felici e contenti e lei fu Viceregina e il Principe Vicerè dell'isola per anni e anni.

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I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Ci andremo, signore; non abbiate premura. La corvetta non corre alcun pericolo; qui i salsiciotti affumicati ed il buon vino non mancano; la miss è presso di voi, al sicuro dagli attacchi del marchese. Che cosa vorreste desiderare di più? - Desidererei trovarmi sulla mia corvetta. - Pazienza, comandante. Lasciate fare al vostro vecchio mastro. Per questa notte non c'è più nulla da fare, e credo che faremmo bene a chiudere nel nostro magazzino ... Mastro Taverna! Viene sì o no questo Medoc? Vogliamo andare a dormire. L'albergatore salì precipitosamente la scala, tutto affannato, e depose sulla tavola mezza dozzina di bottiglie, che portavano la loro brava etichetta ammuffita con tanto di "Medoc". - Le ultime - disse. - Non ne ho trovate altre. - Uhm; esclamò il mastro. - Sempre le ultime. Domani verrò con te in cantina, e vedremo se non ce ne saranno altre. I tuoi occhi sono troppo grossi, perciò ti servono poco bene. Se fossi in te, andrei a chiedere consiglio ad un oculista. - Me l'aveva detto anche mio padre. - E non l'hai obbedito: male, male. Si devono sempre ascoltare i genitori. I tre corsari, messi un po' di buon umore alla prima bottiglia, diedero lestamente fondo alla seconda, poi raggiunsero mastro Taverna che stava preparando loro i letti. - Se la signora chiama - gli disse sir William - verrai subito ad avvertirmi. Questa notte non devi dormire. - No, mio gentleman; ve lo prometto - rispose l'albergatore, prendendo al volo un'altra sterlina che gli aveva gettato il Corsaro. - Se poi torna quel tedesco che ieri mattina è venuto a bere con me - aggiunse Testa di Pietra - mi verrai a svegliare. Tieni pronta una di quelle bottiglie, dove conservi i tuoi scorpioni. - Vorreste berla? - Io no, amico: bevo il Medoc. Sarà il soldato che manderà giù il tuo aguardiente scorpionato. Quel bravo ragazzo non ci farà caso. Preceduti dall'albergatore, passarono nella loro stanza-magazzino, posate le pistole sui tavolini da notte, messe le spade e le sciabole sguainate in fondo ai letti, si gettarono sulle coperte, senza nemmeno togliersi i pesanti stivali, per essere più pronti a saltare in piedi e menare le mani nel caso che qualche pattuglia inglese fosse riuscita a scovarli. Le bombe cadevano sempre su Boston, poiché gli americani durante la notte scavavano nuove parallele per ridurre al silenzio le batterie inglesi. I corsari non se ne preoccupavano. - Ci sono tante altre case da scoperchiare - aveva mormorato Testa di Pietra, girando sull'altro fianco. - Che debba proprio cadere una sopra le nostre teste? Non aveva finito di parlare, che già russava come una vera marmotta. Dormiva da cinque o sei ore quando una mano vigorosa lo scosse. Aprì gli occhi e vide sopra di sé mastro Taverna. - Chi ti ha detto di svegliarmi così presto? - chiese. - Così presto? Sono già le otto, gentleman. - Potevi lasciarmi dormire fino a mezzogiorno e prepararci una colazione abbondante a base di salciccie affumicate. - C'è il tedesco. - Perbacco! - esclamò il bretone, slanciandosi dal letto. - Bell'affare! Guardò il Corsaro e Piccolo Flocco: dormivano ancora. - Lasciamo che si riposino - disse. - Me la caverò da solo. Poi guardando il taverniere, gli chiese: - Hai preparata la bottiglia piena di scorpioni? - Due, mio signore. - E salciciotti ne hai ancora? - Posseggo una discreta provvista di carne di maiale, anzi, se volete, ho ancora un prosciutto che mi sono fatto mandare da Chicago. - Tu o tuo padre? - Io, io. - Allora va' a dire al tedesco che fra cinque secondi sarò da lui. Prepara intanto la tavola. Qui, come vedi, si paga a colpi di sterline. - Lo so bene. - Va'. Si ravviò rapidamente i capelli, si lisciò alla meglio la barba ispida, ringuainò la sciabola d'abbordaggio e si mise nella rosseggiante fusciacca la lunga pistola a due colpi, poi uscì in punta di piedi per non svegliare sir William. - Per il borgo di Batz! - brontolò. - Come me la caverò con quel pappagallo? Cacciò una mano nella fusciacca e fece saltare parecchi dollari. - Hulrik è più avaro del notaio di Batz - disse. - Con questi mi prenderò non solamente la sua testa, ma anche la sua anima ... Si tirò su i calzoni, e lasciò la stanza-magazzino senza far rumore. Il soldato stava seduto dinanzi ad un tavolino, centellinando un miserabile bicchierino di gin Vedendolo, si era alzato dicendo: - Pon giorno, patre! Aver dormito bene? - Io? - esclamò Testa di Pietra. - Dormo sempre a casa mia, figliuol mio, e sempre in compagnia del catrame, delle àncore e delle gomene. Il tedesco fece un gesto di stupore. - E come? - disse. - Che cosa? - chiese il mastro. - Tu essere uscito dalla torre, patre? - Avevo portato con me una solida corda, e di quella mi sono servito per calarmi giù senza che nessuno mi vedesse. - Allora quella corda servire ai latri! - A quali ladri? - chiese il mastro, fingendo di cadere dalle nuvole. - Tu non sapere quello che è toccato a mio colonnello? - Al tuo colonnello? Chi è? - Il marchese d'Halifax. - E dunque? - Averlo quasi assassinato con un colpo di spada. - E la mia fidanzata l'hanno pure uccisa? - No, essere sempre viva, ma i latri avere portata via sua patrona. - Erano ladri in carne ed ossa? Non ho mai udito parlare di tali individui. - Io non sapere - rispose il tedesco, allargando le braccia. - Corpo d'un albero fulminato! - esclamò Testa di Pietra, simulando il più grande stupore. - Che storia è questa? - Patre, quando afere lasciata torre? - Saranno state circa le dieci. - Penissimo: altri afere subito approfittato tua fune. - Infatti la cosa mi pare chiara. E hanno svaligiato la torre? - No; solo patrona afere portato via. - E la mia fidanzata, la mia dolcissima Nelly? Questa è strana! È morto il tuo colonnello? - No, ma afere perduto molto sangue. - Ah, se ne rimetterà dell'altro mangiando buone bistecche e bevendo Bordeaux. C'è qui mastro Taverna che possiede ancora qualche dozzina di bottiglie. Te ne farò dare un paio e gliele regalerai, ma non a nome mio, vè! - Oh, io non parlare. - Hai fame? - Io afere sempre, patre: generale Howe non dare che mezza razione. - Mentre per voi tedeschi ce ne vorrebbero due. Il tedesco sorrise, facendo col capo un cenno affermativo. - Mastro Taverna, - disse il bretone, volgendosi verso l'albergatore - dà da mangiare a questo bravo figliuolo; pago tutti io. - Tu sempre pacare, patre - disse il soldato. Il taverniere fu pronto a portare una libbra di prosciutto, una mezza dozzina di salciciotti, pane duro quanto le pietre ed una bottiglia. - Mangia, figliuolo. - disse, il bretone. Il tedesco, dotato d'un appetito formidabile, compatibile d'altronde coi suoi venticinque anni e le magre razioni che il comandante della piazza passava ai suoi soldati, si era gettato sul prosciutto, impregnato di sale in modo detestabile e che doveva muovergli una sete inestinguibile. Testa di Pietra sturò la bottiglia e gli riempì il bicchiere che gli stava innanzi. Un superbo scorpione montò subito a galla. Il tedesco, occupato a far lavorare i suoi denti, non vi aveva fatto caso, ma quando prese la tazza, fece un gesto di sorpresa. - Piccola pestia nera - disse, prendendola fra due dita. - Scorpione? - Ma che scorpione d'Egitto! - rispose il mastro. - È una mosca nera della Gran Canaria. - No, scorpione! - No, no! Il tedesco gettò via la bestiolina e vuotò il bicchiere succhiandosi le labbra. - Ponissimo! - disse. - Sfido io! È madera che costa un dollaro la bottiglia. Bevi pure figliuolo mio. Il giovane non si fece pregare, ed un altro scorpione galleggiò nel suo bicchiere. - Non badarci, figliuolo, - disse il bretone vedendolo esitare. Devi sapere che nel Madera, che viene dalla Gran Canaria, ci mettono appositamente dentro quel genere di mosche per dare al vino maggior forza e maggior sapore. - Tu non pere con me, patre? - Presi una volta, nella Gran Canaria, una sbornia così fenomenale, che mi ha fatto odiare per sempre, con mio grande dispiacere, il Madera. - Capito - rispose il soldato, ridendo. Levò anche il secondo scorpione tracannò, assaltando poi subito i salsicciotti. Testa di Pietra si era fatto portare una bottiglia di Medoc, che aveva fatto sturare dopo l'aguardiente, e spiava attentamente il soldato, stupito che resistesse così tenacemente a quel liquore di nuovo genere, che doveva contenere principii tossici. - Se mangia le candele fuse dentro la minestra - brontolava fra sé - può bere anche quel Madera, che viene, viceversa, dal Messico. Il tedesco, intanto continuava a divorare le durissime pagnotte che dovevano sembrargli biscotti. Di quando in quando s'interrompeva, si empiva il bicchiere, e beveva fino all'ultima stilla. Era giunto al quinto salsicciotto, quando Testa di Pietra lo vide rovesciarsi sulla spalliera della sedia, colle braccia penzoloni e il viso congestionato. - Che sia avvelenato, o colto da ubriachezza fulminante? - si chiese Testa di Pietra un po' inquieto. - Non è la sua pelle che voglio; bensì il suo vestito. Prese la bottiglia e la capovolse: era completamente vuota. - Per il borgo di Batz! - esclamò. - Un litro d'aguardiente in meno di venti minuti. Sfìdo io! Nemmeno un vecchio marinaio avrebbe potuto resistere. È vero che ha in corpo una buona libbra di prosciutto, quattro salsicciottì e non so quante pagnotte ... Mastro Taverna, bada che non cada. Testa di Pietra si slanciò nella stanza-magazzino, e trovò Piccolo Flocco seduto sulla sponda del letto che fumava tranquillamente. - E il capitano? - chiese subito il bretone. - È salito dalla miss per augurarle il buon giorno. E tu, l'hai finita col tuo tedesco? - Vieni a vederlo, e aiutami. Tornarono insieme nella taverna. Il soldato pareva morto; non respirava nemmeno più. - Ah, corpo d'una bombarda! - esclamò il bretone, grattandosi la testa. - Che l'abbia proprio avvelenato? Non dovevo giocargli questo tiro; ma anche lui poteva bere un po' meno. Che te ne pare, mastro Taverna? L'albergatore scosse il capo, poi rispose - Non so. - E se fosse proprio morto? - Lo vado a seppellire in cantina sotto l'ultima botte. Ne abbiamo abbastanza di questi tedeschi, che ci piovono addosso da tutte le parti come lupi affamati. - Ecco un parlare d'oro! - disse il bretone. - Non credo però che questo bravo ragazzo abbia già rimandata la sua anima al di là dall'Atlantico. Sono resistenti questi giovanotti. Orsù aiutatemi a portarlo a letto. Mi occorrono le sue vesti. - Per farne che cosa? - chiese Piccolo Flocco. - Lo saprai dopo. Sollevarono il soldato, che pesava quanto un giovane toro, lo portarono nella stanza magazzino, lo spogliarono della sua divisa e lo cacciarono sotto le lenzuola.

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