Diffatti, immediatamente dopo l'articolo 60, dispone lo Statuto che così il Senato come la Camera dei deputati determinino per mezzo di un regolamento interno il modo secondo il quale abbiano da esercitare le loro attribuzioni. Fino allora si era parlato delle relazioni della Camera cogli altri poteri pubblici, qui solo si parla dell'ordinamento interno della Camera; fino allora si era parlato delle attribuzioni della Camera, qui si parla di quelle norme le quali si riferiscono all'esercizio di quelle attribuzioni.
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Ma si parla sempre di imitare gl'Inglesi; miei onorevoli signori, abbiano un po' di pazienza, discutiamo come si imita il popolo inglese con questi provvedimenti che si vogliono imporre alla sovranità popolare d'Italia.
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Ma ammettiamo anche che questi monaci abbiano dei diritti. Ebbene, se essi hanno dei diritti, noi però abbiamo dei doveri, e quello soprattutto di non imporre al paese novelle gravezze nei giorni stessi in cui gli domandiamo non solamente il superfluo, ma il necessario per sopperire alle stringenti necessità dell'erario.
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L'onorevole Catucci alla sua volta sorgeva a dimostrare che, non solo per questa infrazione del limita d'età, ma anche per ciò che riguarda l'altra dell'avere professato dentro o fuori dello Stato, questi monaci, essendo ricorsi ai tribunali ordinari nelle loro controversie collo Stato, ne abbiano avuta piena ragione. Ed egli soggiungeva che, con questo bill d'indennità che noi stiamo per dare, aggraveremmo la loro condiziona invece di favorirla. Se ciò fosse vero, la necessità della legge cadrebbe di per sè; se i tribunali avessero dato ragione ai frati, invece di far loro un bene, noi faremmo loro un danno.
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Io però debbo dichiarare che ciò che ha detto l'onorevole Catucci può esser vero; ma, per quanto consta all'amministrazione del fondo del culto, nessun giudicato esiste, il quale abbia dato ragione a questi frati, ai quali ora noi intendiamo di dare un assegnamento alimentario, nel senso d'interpretare l'articolo 3 come se essi abbiano fatta una professione regolare che dia loro il diritto all'intera pensione. Io spero che queste dichiarazioni soddisferanno gli onorevoli Farmi e Cadolini.
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«Il temperamento, se sia lecito suggerirne alcunchè, potrebbe anche consistere nell'abilitare l'amministrazione a concedere, in somma determinatamente minore della pensione normale, un qualche assegno ai detti religiosi a modo di sussidio, durevole per un triennio ai religiosi che abbiano meno di 60 anni, e perpetuo per quelli che fossero di età maggiore; limitando ancora la concessione del sussidio al caso, in cui il religioso non abbia altronde, o per censo privato, o per impiego qualunque, o per esercizio del proprio ministero i mezzi di sussistenza.»
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Esiste un ordine del giorno della Camera col quale s'invita il Governo a studiare la materia, e sceverare nelle confraternite quelle parti che abbiano scopo di mutua associazione e di beneficenza da quelle che siano rivolte a fini religiosi, ed a queste parti afferenti al culto di fare subire la legge comune a tutte le altre istituzioni religiose soppresse colla legge del 1866.
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Perchè trovandosi i religiosi in un'età tale da non potere abbracciare un altro stato, abbiano i mezzi di tirare innanzi la vita.
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L'onorevole Macchi propone che in fine di questo articolo 3 si aggiunga: «quando abbiano svestito l'abito monacale.»
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Io sono molto lieto che gli onorevoli Morini e Cadolini mi abbiano preceduto nell'accennare ai gravi inconvenienti che produrrà nell'applicazione l'articolo quale è proposto dalla Commissione. Ma io mi permetto di annunciare alla Camera che sono assai più radicale di quello ch'essi non siano.
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So che molti l'hanno fatto valere, sebbene, come dissi, abbiano, prima della promulgazione della legge, vissuto fuori del regno.
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Io di solito, meno nei momenti proprio di aperta rivoluzione, non amo che le leggi abbiano effetto retroattivo. Se la legge che abbiamo votata nel 1866 implica l'obbligo ai frati di svestire l'abito monastico, stia quell'obbligo; ma se non lo implica, non vorrei imporglielo adesso. Solamente, per ora, vorrei imporlo a quelli che, per indulgenza nostra, non per diritto giuridico che essi abbiano, vengono ad ottenere da noi una pensione.
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L'onorevole Macchi ha detto che egli conosce le mie opinioni, ed io spero che i voti da me dati per tre anni consecutivi le abbiano fatte conoscere a tutta la Camera.
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Abbiano pazienza un momento.
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Quindi, se la Camera non è d'altro avviso, io sostituirei alle parole: «abbiano negata la pensione» queste altre: «che non abbiano diritto alla pensione che l'articolo 3 della legge 7 luglio 1866 consente ai membri delle soppresse corporazioni religiose.» Io credo che, così compilato l'articolo, si rimuoverà qualunque dubbio, e l'onorevole Pescatore può essere tranquillo che non vi sarà contraddizione, com'egli accennava. Se l'onorevole Pescatore si accontentasse di questa sostituzione di parole, io credo che non vi sarebbe più bisogno di rimandare quest'articolo alla Commissione.
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Si è creduto di concedere quest'assegnamento a tutti coloro che si trovano nelle condizioni designate dalla legge, abbiano o non abbiano inoltrata domanda; sia o non sia stata loro negata la pensione. È un principio generale quello che si adotta, e io non so come debba ripeterlo più chiaramente; è una conseguenza dell'articolo 3 della legge che escludeva tutti quei frati i quali per avventura non avessero fatto una professione regolare e nello Stato, e questi non avevano diritto a pensione.
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che ammette l'articolo terzo sarà bensì dato a tutti quelli che hanno già sin d'ora promossa la relativa domanda, ma a quegli altri che si sono astenuti quantunque si trovino nel medesimo caso, che cioè abbiano fatta la professione religiosa, e che loro si opponga soltanto il difetto dell'età, o il luogo della professione medesima, sarà negato l'annuo assegnamento.
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Si dice che questa legge si fa per ragioni d'umanità, per ragioni anche di giustizia verso quei poveri religiosi i quali erano nel possesso del loro stato monacale, e che avevano fatto professione prima della età prescritta dalle leggi civili, perchè in questa parte gli stessi governanti tolleravano l'inosservanza delle loro leggi; si crede di dover soccorrere ai religiosi professi quantunque abbiano fatto la loro professione fuori Stato, e poi si fa una distinzione tratta da una circostanza affatto accidentale. Per quelli che promossero la domanda nella speranza che il Governo non osservasse esattamente la legge civile, si accorda il favore; per quegli altri più modesti i quali videro che la legge, come era stabilita, non consentiva loro la pensione, e si astennero persino dal domandarla, per questi, dico, ora si vorrebbe rifiutare l'applicazione del nuovo provvedimento più giusto ed umanitario, onde si mitiga la durezza della legge anteriore.
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Metto dunque ai voti l'emendamento dell'onorevole Macchi che consiste nell'aggiungere all'articolo terzo le seguenti parole: «semprechè abbiano svestito l'abito monastico.»
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Nell'uno si parla della professione fatta nei paesi tuttora soggetti al dominio pontificio, poichè era posto il noviziato in quei paesi; nell'altro si tratta di frati i quali, non appartenendo a Provincie non soggette al dominio pontificio, ma appartenenti al regno d'Italia, abbiano nondimeno dovuto fare la loro professione a Roma, perchè, per regola del loro istituto, vi erano obbligati; dunque, se questi frati, i quali non hanno violata nessuna legge dello Stato andando a fare la loro professione a Roma, debbono avere la pensione, noi dobbiamo accordargliela con un'espressa disposizione di legge; altrimenti incontreranno l'ostacolo della disposizione della legge 7 luglio 1866, la quale non concede pensione a quei frati che, per qualunque ragione, non avessero fatta la loro professione nello Stato; dunque, come ognuno vede, è necessaria, indispensabile questa disposizione.
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Passiamo all'articolo 4: «L'assegnamento di cui si parla sarà vitalizio per quelli che, al momento della promulgazione della presente legge, abbiano compiuti 50 anni, e sarà di un quinquennio per gli altri. Esso non si concederà, ovvero cesserà ogni qualvolta risulti avere il religioso dal privato patrimonio, od altrimenti un reddito netto e stabile eguale all'assegnamento.»
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Gli uffici se ne occuperanno, eleggeranno una Commissione, e quando sia nominata, questa petizione, come le altre che abbiano lo stesso scopo, saranno trasmesse alla medesima.
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Io direi dunque: «i consorzi obbligatorii, quando non si formino volontariamente, sono ordinati dal prefetto;» è ciò, affinchè anche quei comuni i quali sono obbligati ad associarsi in consorzio, abbiano la facoltà di associarsi liberamente; quando non lo facciano, allora provveda il prefetto.
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Ora, l'onorevole relatore suppone che i comuni abbiano questo diritto. Ebbene, io non gli contrasto questa asserzione; imperciocchè io sono largo nel concedere diritti, in quanto che tutto ciò che non è proibito, nel mio concetto, è permesso. Quindi la mia proposta non era suggerita da altro, senonchè dal timore che, essendo con questo articolo imposto un dovere, si credesse essersi perciò voluto impedire l'esercizio di un diritto, il quale compete, secondo che io la penso, ad ogni comune, il.diritto, cioè, di riunirsi liberamente in consorzio.
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Il fatto del prefetto che decreta il consorzio è un fatto posteriore, è un fatto che viene dopo che i comuni abbiano ultimato l'atto di loro volontà per formare il consorzio.
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Ma siccome la Commissione ha detto in termini generali, e senza nulla spiegare positivamente, che i consorzi sono ordinati dai prefetti, ne potrebbe derivare che s'intenda che anche i consorzi volontari abbiano bisogno di essere ordinati dai prefetti. C'è quindi necessità, per togliere questo dubbio, che si dica i consorzi obbligatorii.
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Io non dico che gli altri abbiano dovuto pensare come me, ma dico che questo fu il giudizio mio.
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