Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Centosessanta maniere di di cucinare gli erbaggi e i legumi

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Rimestate il tutto, onde assimilarlo ben bene, e formatene poscia tante polpette della grossezza di un uovo di piccione, le quali avvolgerete nel pangrattato e farete rosolare con burro in una teglia, osservando di rivoltarle delicatamente colla lama di un coltello allorchè abbiano preso il colore da una parte, e così farle poi rosolare anche dall’altra.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 12 occorrenze

. - Che i seikki ci abbiano seguìti nella nostra ritirata attraverso la jungla? Eppure quella sera io non vidi alcuna barca a darci la caccia. - E le rive non le conti? Voi siete tutti corridori insuperabili ed un uomo che avesse seguito la riva sinistra avrebbe potuto facilmente tenersi sempre in vista della bangle e notare il luogo ove aveva imboccato il canale della palude. - E perché non ci hanno assaliti nella jungla? - Può darsi che non abbiano avuto il coraggio di farlo - rispose Sandokan. - Le mie non sono però che semplici supposizioni e potrei benissimo ingannarmi. Tuttavia apriamo bene gli occhi e teniamoci pronti a qualunque evento. Sento per istinto che dovremo lottare con un uomo fortissimo che vale dieci volte il rajah. - Quel greco? - Sì, - rispose Sandokan. - È lui il nemico pericoloso. - È vero. Senza quell'uomo Yanez avrebbe fatto a quest'ora chissà che cosa. - A me basta avere i seikki sottomano. Se il demjadar riesce a persuaderli a mettersi ai miei servigi, vedrai che pandemonio saprò scatenare io a Gauhati. - Accese il suo cibuc e si sedette sulla murata di prora, lasciando penzolare le gambe sul fiume che rumoreggiava intorno alla bangle. Il sole stava allora tramontando dietro le alte cime dei palas, quei bellissimi alberi dal tronco nodoso e massiccio, coronato da un fitto padiglione di foglie vellutate, d'un verde azzurrognolo, donde partono degli enormi grappoli fiammeggianti, dai quali si ricava una polvere color di rosa, adoperata dagli indù nelle feste di Holi. Sulle rive, numerosi contadini battevano, con un ritmo monotono, l'indaco, raccolto durante la giornata e messo a macerare entro vasti mastelli per meglio distaccare le particelle e farle precipitare più presto, avendo gli indiani un modo diverso per trattare tale materia colorante. Altri invece spingevano in acqua colossali bufali per dissetarli, guardandoli attentamente onde i coccodrilli non li afferrassero pel naso o pel muso e li tirassero sotto, cosa comunissima nei fiumi dell'India. La bangle, verso le nove, giunse in vista dei fanali che splendevano nelle vie principali della capitale dell'Assam. Stava per passare vicino all'isolotto su cui si alzava la pagoda di Karia, quando si trovò improvvisamente dinanzi ai due poluar che chiudevano il passaggio. Una voce si era subito alzata sul più vicino: - Ohe! Da dove venite e dove andate? - Lascia che risponda io, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Fa' pure, - rispose questi. Il bengalese alzò la voce gridando: - Veniamo da una partita di caccia. - Fatta dove? - chiese la medesima voce di prima. - Nella palude di Benar, - rispose Tremal-Naik. - Che cosa avete ucciso? - Una dozzina di coccodrilli che andremo a raccogliere domani essendo affondati. - Avete visto degli uomini in quei dintorni? - Null'altro che dei marabù e delle oche. - Passate e buona fortuna. - La bangle, che aveva rallentata la marcia, riprese la corsa a tutta forza di remi, mentre i due poluar allentavano le gomene per lasciarle il passo. - Che cosa ti ho detto? - disse Sandokan a Tremal-Naik, quando furono lontani dai due navigli. - Noi pirati abbiamo un fiuto straordinario e sentiamo i nemici a distanze incredibili. - Me ne hai dato or ora una prova, - rispose Tremal-Naik. - Che ci abbiano proprio seguìti? - Non ne dubito. - Tuttavia ce la siamo cavata benissimo. - Per la tua buona idea. - Dove sbarcheremo? - Nel centro della città. Questa notte desidero dormire nel palazzo di Surama. Forse là troveremo notizie di Yanez. Kubang non avrà mancato di fare una visita ai servi. - È quello che pensavo anch'io. Quel malese è molto intelligente. - Un gran furbo, - disse Sandokan. - Se non lo fosse non sarebbe un malese. Bah! evitata la crociera tutto andrà bene. Domani ci metteremo in cerca di Surama e prepareremo al greco od ai suoi uomini un bel tiro. Credi che nel suo palazzo abbia un chitmudgar? - Certo, Sandokan, - rispose Tremal-Naik. - Un indiano che si rispetta, deve avere una ventina di servi per lo meno ed un direttore di casa. - Che si lasci pescare da me ed il colpo sarà fatto. Non si tratta che di sapere i luoghi che frequenta. - Perché? - Lascia fare a me: ho la mia idea. Ehi, Bindar, possiamo approdare? - Sì, sahib. - Accosta la riva dunque. - La bangle in pochi colpi di remo attraversò il fiume e andò ad ancorarsi dinanzi ad un vecchio bastione che difendeva la città verso occidente. - A terra, - comandò Sandokan, dopo essersi assicurato che dietro la bastionata non vi era nessuno. - Due soli malesi rimangano a guardia della bangle. - Presero le loro armi e scesero sulla riva che era coperta da fitte macchie di nagatampo, alberi durissimi e che producono dei fiori odorosi e bellissimi, dei quali si adornano le giovani indiane. - Seguitemi, - disse Sandokan. - Giungeremo al palazzo di Surama inosservati, se non vi saranno intorno delle spie. - Che cosa temi ancora? - chiese Tremal-Naik. - Eh! Quel greco è capace di aver teso degli agguati, mio caro. In cammino amici e se vi sarà da menar le mani non fate uso che delle scimitarre. Nessun colpo di carabina o di pistola. - Sì, Tigre della Malesia - risposero i malesi. - Venite! - Si misero a costeggiare il fiume coperto da enormi tamarindi, che rendevano colla loro ombra l'oscurità più fitta; poi raggiunto il sobborgo orientale, si cacciarono fra le viuzze interne dirigendosi verso il centro della città. Essendo già molto tardi, pochissimi abitanti si trovavano per le vie e anche quelli s'affrettavano a girare al largo, scambiando probabilmente Sandokan ed i suoi uomini per soldati del rajah in cerca di qualche malvivente. La mezzanotte non doveva essere lontana quando il drappello sbucò sulla piazza dove sorgeva il palazzo, che Yanez aveva acquistato per la sua bella fidanzata. Sandokan si era arrestato lanciando un rapido sguardo a destra ed a sinistra. - Vedo due indiani fermi dinanzi al palazzo, - disse a Tremal-Naik. - Non mi sono sfuggiti, - rispose il bengalese. - Che siano due spie di quel maledetto greco? - Può darsi. Egli ha interesse a far sorvegliare il palazzo. - Cerchiamo di prenderli in mezzo. Ci faremo credere guardie del rajah intenti ad eseguire una ronda notturna. - I due indiani però, accortisi della presenza del drappello, si allontanarono rapidamente non ostante che Tremal-Naik avesse subito gridato dietro a loro: - Alt! Servizio del rajah! - Non devono essere due galantuomini, - disse Sandokan quando li vide scomparire entro una viuzza tenebrosa. - Lasciamoli andare. - Poi volgendosi verso Kammamuri continuò: - Tu resta qui di guardia coi malesi. La nostra spedizione notturna non è ancor finita e prima che sorga il sole voglio fare la conoscenza colla dimora privata di quel cane di greco. - Salì la gradinata seguìto da Tremal-Naik e da Bindar e percosse, senza troppo fracasso, la lastra di bronzo sospesa allo stipite della porta. Il guardiano notturno che vegliava nel corridoio, fu pronto ad aprire e riconoscendo in quegli uomini gli amici della sua padrona, fece un profondo inchino. - Conducimi subito dal maggiordomo, - disse Sandokan. - Sbrigati, ho fretta. - Entra nel salotto, sahib. Fra mezzo minuto ti raggiungerò. - Sandokan ed i suoi due compagni aprirono la porta ed entrarono in una elegantissima stanzetta che era ancora illuminata. Si erano appena seduti dinanzi ad uno splendido tavolino d'ebano di Ceylan filettato in oro, quando il maggiordomo del palazzo, appena coperto da un dootèe di tela gialla, si precipitava nel salotto, esclamando con voce singhiozzante: - Ah signori! Quale disgrazia. - La conosciamo, - disse Sandokan. - È inutile che tu perdi il tempo a raccontarcela. Il sahib bianco della tua signora s'è fatto vedere? - No. - Ha mandato nessuno? - Quell'uomo dalla faccia olivastra, con una lettera per la padrona. - Dammela subito. I minuti sono preziosi in questo momento. - Il maggiordomo s'avvicinò ad un cofanetto laccato con intarsi di madreperla e prese un piccolo piego, porgendolo al pirata. Questi ruppe il suggello e lesse rapidamente ciò che stava scritto dentro. - Yanez non sa ancora nulla, - disse poi a Tremal-Naik - Kubang ha conservato bene il segreto. - E poi? - Avverte Surama di non inquietarsi per lui e che il favorito guarisce rapidamente. Già tutti i bricconi hanno la pelle a prova di acciaio e di piombo. - E null'altro? - L'incarica di far sapere a noi che pel momento non corre alcun pericolo e che si è già guadagnata la stima e la confidenza del rajah. Giacché si trova benissimo alla corte e non sa che gli hanno rapito la fidanzata, lasciamolo tranquillo, operiamo da noi soli. - Poi volgendosi verso il maggiordomo che stava ritto dinanzi a lui, in attesa dei suoi ordini, gli chiese: - È avvenuto nessun altro fatto dopo il rapimento della tua padrona? - No, sahib. Ho notato però che alla sera ronzano attorno al palazzo, fino a notte tardissima, delle persone. - Ah! - esclamò Sandokan. - Si sorveglia qui. Non ne dubitavo. Hai fatto delle ricerche? - Sì, sahib e sempre infruttuose. - Hai avvertito la polizia? - Non ho osato, temendo che la padrona sia stata rapita per ordine del rajah. - Hai fatto benissimo. Tremal-Naik, Bindar, rimettiamoci in caccia. - Ed io, signore, che cosa devo fare? - chiese il maggiordomo. - Assolutamente nulla fino al nostro ritorno. Gli uomini che il sahib bianco ha lasciati a guardia di Surama sono sempre qui? - Sì. - Li avvertirai di tenersi pronti; posso aver bisogno anche di loro per rinforzar la mia scorta. Domani sera, a notte inoltrata, noi saremo qui. Addio. - Uscì dal salotto e raggiunse i suoi uomini che si erano seduti sulla gradinata. - Deponete le carabine, - disse loro. - Conservate solo le pistole e le scimitarre. Ed ora in caccia! -

. - Che abbiano fatto fuoco contro qualche spia? - chiese Tremal-Naik a Sandokan, il quale, curvo sulla prora della bangle, ascoltava attentamente. - Non lo so - rispose il pirata. - Tuttavia le mie inquietudini sono cresciute. Si direbbe che io prevedo qualche tradimento. - Può essere anche un falso allarme, amico, - disse Tremal-Naik. - Taci! - Altri due spari rintronarono in quell'istante, seguìti quasi subito da una scarica nutrita. - Queste non sono le carabine dei miei uomini! - esclamò Sandokan. - Si attacca il nostro rifugio! Presto amici, date dentro ai remi! I minuti sono preziosi! - I malesi non avevano certo bisogno di essere incoraggiati. Arrancavano furiosamente facendo fare alla pesante barcaccia dei veri salti. Ormai nessuno più dubitava che la pagoda sotterranea fosse stata assalita. Le scariche si succedevano alle scariche ed echeggiavano dietro la roccia. Sandokan si era messo a passeggiare pel ponte come una tigre in gabbia. Di quando in quando si fermava per tendere gli orecchi, poi gridava: - Presto! Presto, amici! Assalgono i nostri compagni. - Anche Tremal-Naik era diventato nervosissimo e tormentava il grilletto della sua carabina, ripetendo a sua volta: - Sì presto, presto! - Un combattimento furioso doveva essere stato impegnato dinanzi l'entrata della pagoda. Sandokan distingueva nettamente gli spari delle carabine malesi, le quali avevano un suono più forte di quelle indiane. La bangle finalmente, sotto un ultimo e più poderoso sforzo dei rematori, toccò la riva quasi di fronte alla roccia. - Gettate l'ancora e seguitemi! - gridò Sandokan: - Ed il fakiro? - chiese Tremal-Naik. - Che un uomo, ma uno solo, rimanga a guardia di lui, - rispose Sandokan. - Già non potrà scappare. Su, lesti e non fate rumore. Prenderemo gli indiani alle spalle! - Balzarono a terra e si cacciarono fra le macchie, mentre la fucileria continuava a rumoreggiare con crescente intensità ripercuotendosi sotto le immense volte di verzura dei tara e dei fichi baniani. I pirati correvano veloci senza però far troppo rumore, quantunque le detonazioni delle carabine coprissero il rompersi dei rami. Giunti a trecento passi dall'entrata della pagoda, Sandokan arrestò il drappello dicendo: - Fermatevi qui, e che nessun si muova finché non sarò ritornato. Vieni Tremal- Naik: prima d'impegnarci a fondo andiamo a contare i nostri avversari. - Approvo pienamente la tua prudenza - rispose il bengalese. - Se noi venissimo distrutti, Yanez e Surama sarebbero perduti. Non precipitiamo quindi le cose. - Si gettarono a terra e si allontanarono, strisciando attraverso ad una folta macchia di banani selvatici. Raggiunto il margine di essa si fermarono. - Eccoli, - aveva sussurrato Sandokan. - Sono i seikki! Me l'ero immaginato. - Molti? - Una quarantina per lo meno. - Tremal-Naik si spinse un po' più innanzi, sporgendo il capo attraverso le immense foglie d'un banano. Una quarantina d'uomini sparava senza interruzione verso l'entrata della pagoda sotterranea. Erano tutti seikki e li comandava un capitano che portava sull'elmetto un grosso ciuffo di penne rosse. Per offrire meno bersaglio, erano tutti stesi bocconi, tuttavia sette od otto soldati giacevano senza vita dinanzi alla pagoda. Probabilmente quei valorosi guerrieri avevano cercato di prendere d'assalto il rifugio ed erano stati respinti. - Che cosa dici di fare, Sandokan? - chiese Tremal-Naik. - Di assalirli alle spalle, senza ritardo, - rispose il pirata; - affido però a te un pericoloso incarico. - Quale? - Quello d'impadronirti del capitano dei seikki. Quell'uomo mi è assolutamente necessario. - Vivo o morto te lo porterò. - È vivo che mi occorre. Andiamo a chiamare i nostri uomini. - Riattraversarono la macchia e raggiunsero i malesi che parevano frementi di menare le mani, incominciando ad ubriacarsi coll'odore della polvere. - Siete pronti? - chiese Sandokan. - Tutti, Tigre della Malesia, - risposero ad una voce. - Tu Kammamuri seguirai il tuo padrone e non lo lascerai un istante. - Poi volgendosi verso i malesi aggiunse: - Vi avverto di fare una scarica; una sola, mandando nel medesimo tempo il vostro grido di guerra onde avvertire i compagni che si trovano nella pagoda, poi caricate colle scimitarre. Mi avete bene compreso? - Sì, Tigre della Malesia. - Avanti allora, e non dimenticate che le vecchie tigri di Mompracem hanno sempre vinto. - Partirono quasi a passo di corsa, tanto erano impazienti di prendere parte al combattimento, tenendo il dito sul grilletto delle carabine. Sandokan li precedeva con Tremal-Naik e Kammamuri. Quando giunsero sull'orlo della macchia, i seikki erano a soli venti passi dall'entrata del rifugio ed il fuoco degli assediati cominciava a rallentare. - Giungiamo in buon punto, - disse Sandokan. Snudò la scimitarra, impugnò una delle due pistole che portava alla cintura, due splendide armi a doppio colpo, e si slanciò gridando con voce tuonante: - Su, tigri di Mompracem! - Un urlo selvaggio, acutissimo, il grido di guerra di quei formidabili scorridori dei mari della Sonda, echeggiò coprendo il fragore della fucileria, seguito subito da una scarica. I seikki che non s'aspettavano certo quell'attacco, balzarono prontamente in piedi, mentre dall'interno della pagoda gli assediati rispondevano al grido di guerra dei loro compagni. Sandokan ed i suoi valorosi si erano slanciati furiosamente all'attacco, caricando colle scimitarre e urlando come ossessi onde farsi credere in maggior numero. Sette od otto indiani erano caduti sotto la scarica, quindi il loro numero erasi considerevolmente diminuito; tuttavia quantunque fossero presi fra due fuochi, poiché gli assediati si erano pure slanciati all'assalto, non smentirono nemmeno in quel momento la fama di essere i più valorosi guerrieri della grande penisola indostana. Colla rapidità del lampo si disposero su due fronti, mettendo anche loro mano alle scimitarre e per qualche istante sostennero il doppio urto dei selvaggi figli della Malesia, difendendosi disperatamente. Disgraziatamente avevano dinanzi a loro il più famoso guerriero della Malesia. Con un impeto irresistibile Sandokan s'era gettato in mezzo alle file sciabolandole terribilmente e scompaginandole. Nessuno poteva resistere a quell'uomo, che atterrava un nemico ogni volta che la sua scimitarra calava. Le linee sfondate da quel fulmineo attacco, si ruppero nonostante gli sforzi che faceva il capitano per tenerle salde, poi si sbandarono. Nel momento però in cui scappavano da tutte le parti inseguiti vigorosamente da una dozzina e mezzo di malesi, che facevano fuoco onde impedire loro di riordinarsi, Tremal-Naik e Kammamuri si erano gettati addosso al capitano, atterrandolo di colpo e legandolo solidamente. Sandokan frattanto si era avvicinato al vecchio Sambigliong che teneva ben stretto il ministro Kaksa Pharaum che pareva più morto che vivo. - Quanti uomini hai perduto? - gli chiese con una certa ansietà il pirata. - Due soli, Tigre della Malesia, - rispose il vecchio tigrotto. - Ci eravamo subito trincerati dietro le rocce, dove le palle dei seikki non potevano raggiungerci. - Prepariamoci a sgombrare subito. - Lasceremo questo comodo rifugio? - È necessario: domani i seikki torneranno in maggior numero ed io non ho alcun desiderio di farmi chiudere in una trappola senza uscite. - Dove andremo dunque? - A questo penserà Bindar. - I malesi in quel momento ritornavano. Avevano inseguite le guardie del rajah per cinque o seicento metri, sbandandole completamente, poi temendo di cadere in qualche agguato, si erano ripiegati in buon ordine verso la pagoda sparando qualche colpo di fucile per far meglio comprendere ai fuggiaschi che si trovavano sempre nei dintorni. - Preparatevi alla partenza, - disse loro Sandokan. - Prendete tutto ciò che ci può essere necessario per accamparci in mezzo alle foreste e raggiungeteci alla bangle. Vi raccomando il ministro ed il comandante dei seikki. A me Bindar! E anche tu Tremal-Naik, con quattro uomini di scorta. - Sicuro ormai di non essere più molestato dalle guardie del rajah si diresse verso il fiume accompagnato dai due indiani e dai quattro malesi. - Ora a noi, Bindar, - disse Sandokan all'indiano. - Tu conosci i dintorni? - Sì, sahib. - Dove potremo trovare un nuovo rifugio sicuro? - L'assamese pensò un momento, poi disse: - Non potresti essere sicuro che nella jungla di Benar. - Dove si trova? - Sull'opposta riva del fiume, a quattro o cinque miglia di distanza, però ... - Continua. - È evitata perché le tigri la frequentano. - Non preoccuparti di ciò, - rispose Sandokan alzando le spalle. - Siamo tigri noi, quindi ben poco avremo da temere di quelle a quattro zampe. Nessuno la percorre? - Oh no! Hanno troppa paura. - È folta? - Foltissima. - Non vi è alcun rifugio? - Sì, un'antica pagoda semi-diroccata. - Non domando di più. - Si crede però, sahib, che serva di ricovero a delle bâgh. - Ah! Benissimo, le manderemo a passeggiare altrove se non vorranno regalarci la loro pelle. Con un po' di piombo pagheremo loro l'affitto, è vero Tremal-Naik? - Il nostro è di buona qualità, - rispose il bengalese. - Vale più dell'oro, quando esce dalle nostre carabine. - Raggiungiamo il fiume ed imbarchiamoci, - concluse Sandokan. - Quando saremo al sicuro faremo parlare Tantia e poi vedremo d'intenderci col comandante dei seikki. - Io non comprendo perché tu l'abbia sempre con quei guerrieri. - Seguo un'idea, - rispose Sandokan. - Se vi riesco, la corona sarà assicurata a Surama. Ecco il fiume: appena giungeranno i malesi ed i dayachi partiremo. - Salirono a bordo della bangle che si trovava sempre ancorata presso la riva. I due malesi di guardia chiacchieravano tranquillamente col fakiro, che avevano però strettamente legato, quantunque quel disgraziato, col suo braccio anchilosato, si trovasse nell'assoluta impossibilità di tentare la fuga. - Nessuna barca sul fiume? - rispose Sandokan. - No, Tigre della Malesia, - rispose il malese. - Tutto è tranquillo. - Salpate l'ancora per ora e aspettiamo gli altri. - Credevo che ti avessero ucciso - disse il gussain dardeggiando sul pirata uno sguardo feroce. - Se speri di sfuggire alla vendetta del rajah t'inganni e di molto, ladro! Non ti do una settimana di vita. - Ed a te nemmeno due giorni se non confesserai, amico - disse Tremal-Naik. - Sono indiano come te e so quali mezzi adoperano i nostri compatriotti per sciogliere le lingue. - Tantia non ha nulla da dire: è sempre stato un povero gussain. - Vedremo quale parte tu hai avuta nel rapimento di quella giovane indiana, canaglia - disse Sandokan. Il fakiro ebbe un brivido, però rispose subito, affettando un grande stupore: - Di quale indiana intendi parlare? - Di quella alla quale tu hai levata l'occhiata. - Sii maledetto da Brahma, da Siva e da Visnù e che la dea Kalì ti divori il cuore! - urlò il gussain. - Non sono un indiano io, quindi me ne rido delle tue maledizioni, birbante - rispose Sandokan. - Brahma è il dio più possente dell'universo. - Io non credo che in Maometto, e anche quando mi pare e piace. - Ma il tuo compagno è indù! - E se ne ride anche lui delle tue divinità. Chiudi la bocca e non seccarmi per ora; avrai più tardi tempo di sfogarti. - Ecco i tuoi uomini, - disse in quell'istante Tremal-Naik. I malesi ed i dayachi, ventisei in tutto, giungevano correndo, carichi di pacchi, di coperte e di grosse borse di pelle contenenti viveri e munizioni. In mezzo a loro si trovava il demjadar, ossia il comandante dei seikki. - V'inseguono? - chiese la Tigre accostandosi alla murata. - Ci danno la caccia, - rispose Kammamuri. - A bordo! - Malesi e dayachi salirono lestamente sulla bangle, si sbarazzarono dei loro carichi e delle armi e si precipitarono ai remi. - Otto uomini si tengano pronti a far fuoco, - disse Sandokan. - Ed ora lavorate di muscoli! - La pesante barca si staccò dalla riva e filò rapidamente verso l'opposta onde non rimanere esposta al tiro delle carabine dei seikki, nel caso che fossero riusciti a scoprirli. La traversata si compì felicemente, e prima che il nemico fosse giunto sulla riva, la bangle navigava sotto le immense arcate delle piante curvantisi sul fiume. Essendo colà l'ombra assai fitta, in causa delle immense fronde dei tamarindi che crescevano in gran numero, bagnando le loro colossali radici nell'acqua, era ormai quasi impossibile che i seikki potessero scorgere i fuggiaschi. D'altronde la larghezza del Brahmaputra era tale in quel punto, da non permettere che una palla di carabina lo attraversasse. Sandokan, dopo essersi ben assicurato che nessun pericolo lo minacciava, almeno pel momento, potendo avvenire che più tardi le guardie del rajah lo inseguissero con delle pinasse, od altro genere di barche, s'avvicinò a Bindar che stava osservando attentamente la riva insieme a Tremal-Naik. - Vi sono dei villaggi da queste parti? - No, sahib - rispose l'indiano. - Qui comincia la jungla selvaggia e nessuno oserebbe abitarla per paura delle bestie feroci; solo al di là delle paludi, dove il terreno comincia a salire, si trovano dei bramini drauers. - Chi sono? - La risposta te la darò io, - disse Tremal-Naik. - Sono sacerdoti di Brahma che hanno conservata tutta la purezza della loro antica religione, che parlano una lingua affatto sconosciuta agli altri, che si dipingono la fronte ed il corpo come tutti i bramini, aggiungendo solo alla toeletta alcuni grani di riso, che portano incollati sopra le sopracciglia. Sono d'altronde persone tranquille che si occupano di pratiche religiose e che quindi non ci daranno alcun fastidio. - E vasta la jungla di Benar? - Immensa, sahib, - rispose Bindar. - Faremo di quella il nostro quartiere generale, - disse Sandokan. - Se è lontana solo quindici o venti chilometri, in tre o quattro ore potremo trovarci nella capitale dell'Assam. - M'inquieta però la sorte di Surama, - disse Tremal-Naik. - Per Yanez non sono preoccupato; quel diavolo d'uomo saprà sempre cavarsela bene e sfuggire a tutte le insidie. E poi ha sei malesi, i migliori della banda. - Che cosa temi per Surama? - Che il rajah la faccia uccidere. Non ha distrutto forse tutti i suoi parenti? - Non l'oserà, - rispose Sandokan. - Egli crede che Yanez sia veramente un inglese e ci penserà cento volte prima di commettere un delitto, sapendo che Surama è sotto la sua protezione. Questi principotti hanno troppa paura del viceré del Bengala. - Questo è vero, tuttavia questo tempo perduto in questi momenti mi dispiace. Se perdessimo le tracce dei rapitori? - Il gussain ci metterà sulla buona via. - E se si ostinasse a non parlare? - Lo costringeremo, non temere amico, - rispose Sandokan freddamente. Levò dalla larga fascia il suo cibuc, lo caricò di tabacco e accesolo, si sedette sulla prora della bangle, tenendo una carabina fra le ginocchia. Intanto i malesi ed i dayachi arrancavano con gran lena, mentre Bindar teneva il timone. Essendo la corrente debolissima, non avendo i grandi fiumi dell'India molta pendenza, l'imbarcazione, quantunque fosse pesante e avesse la prora assai rotonda procedeva abbastanza rapidamente, filando sempre sotto le arcate degli alberi che si succedevano continuamente, senza la minima interruzione. Ora erano colossali tamarindi, ora mirti, o sangore drago o nargassa, meglio conosciuti sotto il nome di alberi del ferro, perché differiscono ben poco da quelli brasiliani, che sono così resistenti da rompere il filo delle scuri meglio temprate. Di quando in quando comparivano sulla riva delle bande di sciacalli e di lupi indiani; ma dopo aver ululato o latrato su vari toni contro i remiganti, s'affrettavano a rinselvarsi onde cercare delle prede più facili. Alle quattro del mattino, nel momento in cui i pappagalli cominciavano a strillare in mezzo ai rami dei tamarindi, e le anitre e le oche ad alzarsi al disopra dei canneti, Bindar, che da parecchi minuti osservava attentamente la riva, con un poderoso colpo di timone fece deviare la bangle. - Che cosa fai? - chiese Sandokan balzando in piedi. - Vi è una laguna, sahib, dinanzi a noi, - rispose l'indiano. - Entro nella jungla di Benar e là saremo perfettamente sicuri. - Vira allora. - La bangle si trovava dinanzi ad una vasta apertura. La riva era tagliata da un canale ingombro di piante acquatiche, le quali però non impedivano il passaggio, essendo radunate in gruppi piuttosto lontani gli uni dagli altri. Un numero straordinario di uccelli volteggiava gridando, al disopra di quella laguna. Cicogne di dimensioni straordinarie, grossi avvoltoi che avevano le penne bianche ed il petto quasi nudo; miopi, volatili meno forti delle prime e dei secondi, ma che per destrezza li vincono entrambi; piccoli uccelli del paradiso e moltissime anitre scappavano in tutte le direzioni descrivendo dei giri immensi, per tornare poco dopo a calarsi intorno alla grossa barca, senza dimostrare soverchia paura. Se in quel luogo si trovavano tanti volatili, era segno che gli abitanti mancavano assolutamente. Oltrepassato il canale, dinanzi agli sguardi di Sandokan e di Tremal-Naik apparve un bacino immenso, che rassomigliava ad un lago e le cui rive erano coperte da alberi altissimi, per lo più manghieri, già carichi di quelle grosse e belle frutta che si fendono come le nostre pesche, delle quali se ne servono gli indù per metterle nel carri, onde dare a quell'intruglio un gusto di più, e da splendidi banani dalle foglie immense. - Approdiamo, - disse Bindar. - Dov'è la jungla? - chiese Sandokan. - Dietro quegli alberi, sahib. Comincia subito. - A terra. - La bangle sfondò le erbe galleggianti lacerando vere masse di piante di loto e si arenò sulla riva che in quel luogo era molto bassa. - Copriamola onde non la trovino e se la portino via, - disse Sandokan. - È inutile, sahib - disse Bindar. - Questa palude è più pericolosa e perciò più temuta del terribile lago di Jeypore. - Non ti comprendo. - Guarda in mezzo a quelle piante acquatiche -. Sandokan e Tremal-Naik seguirono cogli sguardi la direzione che l'indiano indicava loro e videro comparire tre o quattro teste mostruose e aguzze. - Coccodrilli! - esclamò la Tigre della Malesia. - E molti, sahib, - rispose Bindar. - Qui ve ne sono delle centinaia, fors'anche delle migliaia. - Che non ci faranno paura. L'amico Tremal-Naik conosce quei brutti sauriani. - Nella jungla nera pullulavano, - rispose il bengalese. - Ne ho uccisi moltissimi e ti posso anche dire che sono meno pericolosi di quello che si crede -. I malesi ed i dayachi si caricarono dei loro pacchi, presero le armi e scesero a terra, dopo aver saldamente ancorata la bangle. - È lontana la pagoda? - chiese Sandokan. - Appena un miglio, sahib. - In marcia. - Formarono la colonna e s'inoltrarono sotto gli alberi, tenendo in mezzo il fakiro, il demjadar dei seikki ed il ministro Kaksa Pharaum. Oltrepassata la zona alberata che era limitatissima, il drappello si trovò dinanzi ad una immensa pianura coperta di bambù altissimi, appartenenti quasi tutti alla specie spinosa. Rari alberi sorgevano qua e là, a grandi distanze, per lo più erano borassi dal fusto altissimo e dalle larghe e lunghe foglie disposte ad ombrello. - Cercate di non fare rumore, - disse Bindar. - Le belve non hanno ancora raggiunti i loro covi e potrebbero assalirci d'improvviso. - Non aver paura per noi, - rispose Sandokan. Tutti si tolsero le carabine che fino allora avevano tenute a bandoliera e la piccola colonna si cacciò in mezzo a quel mare di verzura, nel più profondo silenzio. Fortunatamente Bindar aveva trovato un largo solco, aperto forse dall'enorme massa di qualche elefante selvaggio, o da qualche rinoceronte, sicché il drappello poteva avanzarsi rapidamente senza aver bisogno di abbattere quelle canne gigantesche. Di quando in quando l'indiano, che camminava alla testa della colonna, si fermava per ascoltare, poi riprendeva la marcia più velocemente, lanciando occhiate sospettose in tutte le direzioni. Dopo mezz'ora si trovarono improvvisamente dinanzi ad una vasta radura, ingombra solamente di sterpi e di kalam: quelle erbe altissime che sono taglienti come spade. In mezzo s'ergeva una costruzione barocca, che rassomigliava ad un immenso cono allargantesi alla base, con molte fenditure in tutta la sua lunghezza. Tutto il rivestimento esterno era crollato, sicché si scorgevano accumulati a terra pezzi di statue, di animali e soprattutto un numero infinito di teste d'elefante. Una gradinata, la sola forse che si trovasse ancora in ottimo stato, conduceva ad un portone che non aveva più porte. - È questa la pagoda? - chiese Sandokan fermando il drappello. - Sì, sahib, - rispose Bindar. - Non ci crollerà addosso? - Se ha resistito tanto alle ingiurie del tempo, non saprei perché dovesse sfasciarsi proprio ora, - disse Tremal-Naik. - Andiamo a vedere in quale stato si trova l'interno. - Stava per dirigersi verso la gradinata seguìto da Sandokan e dai malesi che avevano accese due torce, quando Bindar gli si parò davanti dicendo: - Fermati, sahib. - Che cosa vuoi ancora? - Ti ho già detto che questa pagoda serve d'asilo a belve feroci. - Ah! è vero - disse Sandokan. - Me n'ero scordato. Sei sicuro però che abbiano là dentro il loro covo? - Così ho udito raccontare. - Che cosa dici tu, Tremal-Naik? - Talvolta le tigri si servono delle pagode disabitate, - rispose il bengalese. - Andremo a rassicurarci se la notizia è vera o falsa, - disse Sandokan. - Kammamuri prendi una torcia e seguici. Voialtri fermatevi qui, formate una catena e se le belve cercano di fuggire ... - In quel momento un grido rauco, poco sonoro, echeggiò verso la porta della pagoda e quasi subito due punti verdastri, fosforescenti, scintillarono fra la profonda oscurità che regnava dentro quell'enorme cono. Bindar aveva fatto due passi indietro, mormorando con voce tremante: - Le kerkal! Non si sono ingannati quelli che me l'hanno detto. - Sono tigri? - aveva chiesto Sandokan. - No, sahib: pantere. - Benissimo - rispose il pirata colla sua solita calma. - Vieni, Tremal-Naik, andremo a far conoscenza con quelle signore. Finora non ho ucciso che delle pantere nere che pullulano nel Borneo. Andiamo a vedere se quelle indiane sono migliori o peggiori. -

. - Vuoi dire che abbiano dinanzi a noi altri nemici. - Sì, e non mi sembrano pochi. - Saccaroa! - esclamò Sandokan con ira. - Sono uccelli questi indiani per percorrere in così breve tempo tali distanze? Quei guerrieri devono essere quelli sbarcati a monte del fiume. - Certo, - disse Tremal-Naik. - Dove sono? - Imboscati a quattro o cinquecento passi da noi, - rispose Sambigliong. - Quando sono giunti? - Pochi minuti fa. Correvano come gazzelle, attratti senza dubbio dall'incendio. - Vi hanno scorti? - Sì e per questo si sono arrestati. - Ebbene li attaccheremo e passeremo attraverso le loro file, - disse Sandokan. - Formiamo due piccole colonne d'attacco, con Surama ed i prigionieri in coda guardati da sei uomini. Siete pronti? - Non aspettiamo che il vostro segnale, - rispose Kammamuri per tutti. - All'attacco, Tigrotti della Malesia! - Dayachi e malesi si sparpagliarono alla bersagliera e si spinsero innanzi attraverso le erbe ed i cespugli, guidati gli uni da Tremal-Naik e da Kammamuri, e gli altri da Sandokan e da Sambigliong. La fucileria incominciò intensissima da una parte e anche dall'altra. Gli indiani però, che non contavano fra di loro alcun seikko, tiravano come coscritti alle prime prove del bersaglio, mentre gli uomini di Sandokan, che erano tutti meravigliosi bersaglieri, di rado mancavano ai loro colpi. Sandokan che non voleva esporre troppo i suoi uomini al fuoco, per quanto irregolarissimo e pessimo, spingeva alacremente l'attacco, desideroso di venire all'arma bianca. Si era gettato a bandoliera la carabina ed aveva impugnata la sua terribile scimitarra, quell'arma che manovrata dal suo formidabile braccio, non poteva trovare alcuna difesa. Correva dinanzi ai suoi uomini, balzando come una vera tigre a destra ed a sinistra, urlando come una belva feroce: - Sotto, Tigrotti di Mompracem! All'attacco! - I dayachi ed i malesi, che non erano meno agili di lui, piombarono colle scimitarre in pugno addosso alla colonna assamese, come uno stormo di avvoltoi affamati. Sfondarla e fugare i nemici a gran colpi di sciabola, fu l'affare di pochi secondi. Una scarica di carabine li decise a sgombrare completamente la fronte d'attacco ed a rifugiarsi nella jungla. - Tutta quella gente non vale un seikko, - disse Sandokan. - Se il rajah conta su questi guerrieri è perduto. - Prima che possano riunirsi e ritentare l'attacco, raggiungiamo la collina, - disse Tremal-Naik. - Potrebbero ritornare alla caccia e tormentare la nostra marcia verso il villaggio. - E poi lassù potremo opporre una maggior resistenza, - aggiunse Sambigliong. - Voi parlate come generali prudenti, - disse Sandokan, sorridendo. - Riprendiamo la nostra corsa amici. - La collina non distava che cinque o seicento metri e sorgeva perfettamente isolata. Era una montagnola che spingeva la sua vetta a sette od ottocento piedi, e coi fianchi coperti da una lussureggiante vegetazione. La colonna, che si era riformata, attraversò a passo di corsa la distanza, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile. L'ascensione fu compita in meno di mezz'ora, non ostante gli ostacoli opposti da tutta quella massa di piante e senza che gli assamesi avessero ritentato l'attacco. Giunti sulla cima, Sandokan fece accampare i compagni, onde accordare a loro un paio d'ore di riposo, ben meritato d'altronde, dopo una così lunga corsa attraverso la jungla, sempre battagliando; poi con Tremal-Naik e Kammamuri si inerpicò su una roccia che formava il culmine della collina, e che era affatto spoglia di qualsiasi vegetazione. Di lassù lo sguardo poteva dominare un immenso spazio, estendendosi tutto intorno la pianura. L'incendio continuava ancora nella jungla minacciando di estendersi fino sulle rive del Brahmaputra e verso la palude dei coccodrilli. Era un vero mare di fuoco, che aveva una fronte di cinque o sei miglia e che tutto divorava sul suo passaggio. Enormi colonne di fumo nerissimo e getti immensi di scintille, ondeggiavano su quell'immane braciere, avvolgendo già la foresta che si estendeva dietro la jungla. Perfino la vecchia pagoda di Benar era crollata, e non era rimasto in piedi che qualche pezzo di muraglia. Sandokan ed i suoi compagni volgendo gli sguardi verso levante, non tardarono a scoprire un piccolo villaggio, formato da una minuscola pagoda e da qualche centinaio di capanne. Si trovava molto lontano dall'incendio e fuori da qualsiasi pericolo, perché vaste risaie, coi canali pieni d'acqua, lo circondavano. - Non può essere che quello, - disse Sandokan additandolo ai compagni. - Non ne vedo altri in nessuna direzione. - E nemmeno io, - rispose Tremal-Naik. - Quanto credi che disti da noi? - Cinque miglia. - Una semplice corsa. - Sì, se gli assamesi ci lasceranno tranquilli. - Li vedi? - Sono sempre nascosti fra i kalam. - Che ci spiino? - Ne sono certo. Ci proveremo a ingannarli scendendo l'altro versante della collina. - Si lasciarono scivolare lungo la parete rocciosa, che aveva già una notevole pendenza e raggiunsero i loro compagni, che si erano accampati fra le piante. - Tutto va bene, almeno per ora - disse Sandokan a Surama. - Io spero di poter raggiungere il villaggio in un paio d'ore, tenuto conto delle difficoltà che incontreremo nella foresta. Se troveremo gli elefanti, faremo correre i seikki, se vorranno darci la caccia. - E Yanez? - chiese la giovane con angoscia. - Come ben puoi comprendere, pel momento, nulla possiamo fare per lui. La sua liberazione richiederà un certo tempo. D'altronde non inquietarti: egli non corre alcun pericolo, perché il rajah, convinto che sia un inglese, non oserà torcergli un capello. Tutt'al più lo farà tradurre alla frontiera bengalese. - E come potremo ritrovarlo poi? - Oh! Sarà lui che muoverà incontro a noi, quando gli giungerà la buona notizia che le Tigri di Mompracem ed i tuoi montanari hanno preso d'assalto la capitale del tuo futuro regno. Ah! mi dimenticavo di chiederti una preziosa notizia. Il Brahmaputra attraversa le tue montagne? - Sì. - Ha delle barche quella gente? - Bangle e anche dei grossi gonga. - Non speravo tanto, - disse Sandokan. Si sdraiò poi sotto un banano selvatico, accese la sua pipa e si mise a fumare con studiata lentezza, tenendo gli sguardi fissi sui kalam, in mezzo ai quali dovevano trovarsi ancora gli assamesi, non potendo allontanarsi in causa dell'incendio, che sbarrava a loro la ritirata verso il fiume. Gli altri lo avevano già imitato, chi fumando e chi masticando noci d'areca. Era trascorsa un'ora e fors'anche di più, quando Sandokan vide delle ombre umane scivolare fra i kalam e radunarsi presso una doppia fila di cespugli, che s'allungavano quasi ininterrottamente verso la base dell'altura. - In piedi amici, - comandò. - È il momento di sloggiare. - Che cosa succede ancora? - chiese Surama. - I tuoi futuri sudditi si preparano a snidarci, - rispose Sandokan, - ed io non ho alcun desiderio di aspettarli quassù. Preparate le vostre gambe, perché si tratta di fare una vera corsa. Tenetevi sempre fra le piante, finché avremo raggiunto il versante opposto. - Strisciando fra i sarmenti ed i cespugli e tenendosi al riparo dalle larghe foglie dei banani, la piccola colonna girò intorno alla roccia e raggiunse, inosservata, il pendio settentrionale, che si presentava ingombro di superbe mangifere, che formavano dei gruppi giganteschi di manghi e di areca dai tronchi contorti, legati strettamente fra di loro da un numero infinito di piante parassite, che avevano raggiunto delle lunghezze straordinarie. L'avanguardia fu costretta a riprendere il suo faticoso lavoro, per praticare un passaggio attraverso a quella muraglia di verzura, che non presentava alcuna apertura. Sandokan, sempre prudente, aveva rinforzata la sua retroguardia, non potendo venire il pericolo che dal versante opposto. Forse in quel momento gli assamesi avevano già attraversata la distanza che li separava dalla collina e stavano salendo, sicuri di sorprendere i fuggiaschi ancora accampati. Se loro salivano in fretta, anche i malesi ed i dayachi, scendevano non meno rapidamente, sfondando rabbiosamente quel caos di piante. Gli uomini dell'avanguardia, si cambiavano di cinque in cinque minuti, onde vi fossero sempre alla testa lavoratori freschi. La fortuna proteggeva certamente la colonna, poiché questa poté finalmente raggiungere la foresta, che Sandokan e Tremal-Naik avevano scorta dall'alto della roccia, e senza che fosse stato sparato un colpo di fucile, né da una parte, né dall'altra. Contrariamente a quanto avevano dapprima creduto, quella foresta era poco folta, essendo composta di piante di tek e di nagassi, ossia di alberi del ferro, vegetali che conservano una certa distanza e che non permettono, ai cespugli che nascono sotto le loro foglie, di svilupparsi troppo. La marcia poteva quindi ridiventare rapidissima come nell'ultimo tratto della jungla. Era bensì vero che anche gli assamesi, se avevano scoperta la pista, ciò che non era difficile col sentiero aperto dalle scimitarre, potevano a loro volta spingere l'inseguimento; ma già a Sandokan ormai poco importava, essendo sicuro che Bindar avrebbe già preparato gli elefanti. Già non distavano dal villaggio che un mezzo miglio, quando Sandokan e Tremal- Naik, udirono a echeggiare alle loro spalle alcuni spari, seguìti subito da una nutrita scarica di carabine. - Ci sono già addosso! - esclamò il primo arrestandosi. - La retroguardia ha risposto con un fuoco di fila - aggiunse il secondo. - Dieci uomini con me: gli altri con Kammamuri continuino la via. Vi raccomando di far preparare subito gli elefanti. - Dieci malesi si staccarono dalla colonna e seguirono a passo di corsa i due capi, che già rifacevano la via percorsa, armando le carabine. Dopo trecento passi s'incontrarono colla retroguardia, che era condotta da Sambigliong. - Siete stati attaccati? - chiese Sandokan. - Sì, da un piccolo gruppo di esploratori, che è fuggito a rompicollo alla nostra prima scarica. - Abbiamo dei feriti? - Nessuno, Tigre della Malesia. - Come mai quegli uomini ci hanno raggiunti così presto? - Correvano come gazzelle. - Sei ben sicuro che si siano dispersi? - Li abbiamo inseguiti per due o trecento metri. - Affrettatevi: il villaggio non è che a due passi e forse troveremo gli elefanti pronti. - Radunò i due piccoli drappelli e tornò indietro sempre di corsa, temendo che il grosso degli assalitori, si trovasse a poca distanza. Quando raggiunse la colonna, questa si trovava già intorno a cinque colossali elefanti, montati ognuno da un cornac e forniti della cassa destinata a contenere gli uomini. Bindar era con loro. - Ah, sahib! - esclamò il bravo ragazzo. - Quante inquietudini ho provato per te, vedendo l'incendio divorare la jungla e udendo tante scariche! Temevo che tu fossi stato sopraffatto ed i tuoi guerrieri distrutti. - Siamo gente diversa dagli indiani noi, - si limitò di rispondere Sandokan. - Vi sono altri elefanti nel villaggio? - Due soli ancora. - Basteranno questi a trasportare tutta la mia gente? - Sì, sahib. - Fece salire Surama sul primo elefante, poi diede ordine ai suoi uomini di occupare gli altri e di tenersi pronti a salutare con una buona scarica gli assalitori, nel caso che si mostrassero sul margine della foresta. Bindar s'arrampicò anche lui, coll'agilità d'una scimmia, sul primo elefante, che era montato, oltre che dalla futura regina, da Sandokan, da Tremal-Naik, da Kammamuri e da tre malesi, che si erano accomodati dietro la cassa sull'enorme dorso del bestione. - Avanti, cornac e spingete la corsa. Venti rupie di regalo, se li farete galoppare come cavalli spronati a sangue, - gridò Sandokan. Non ci voleva di più per incoraggiare i conduttori, che forse non guadagnavano tanto in un anno di servizio. Mandarono un lungo fischio stridulo impugnando, nel medesimo tempo, i corti arpioni e tosto i cinque colossali pachidermi si misero in marcia con passo rapidissimo, con quello strano dondolamento che dà l'impressione, a chi li monta, di trovarsi su un battello scosso ora dal rollio ed ora dal beccheggio. Bindar, che come abbiamo detto, si trovava sull'elefante montato da Sandokan, aveva dato ordine ai cornac di risalire verso il sud-est, seguendo la lunga e stretta frontiera bengalese, che si frappone come un cuscinetto fra il Boutam e l'Assam, avvolgendo quest'ultimo stato a settentrione ed a levante, in modo da separarlo dai montanari dell'Himalaya e dai montanari della vicina Birmania. Makum, l'antica capitale del piccolo principato, retto dal padre di Surama, ultima cittadella della frontiera assamese, doveva essere la meta della loro corsa. Appena oltrepassate le risaie, che si estendevano tutte intorno al villaggio per uno spazio considerevole, i cinque elefanti si trovarono in mezzo alle eterne jungle, che seguono, per centinaia e centinaia di miglia, la riva destra del Brahmaputra, spingendosi quasi ininterrottamente fino ai primi scaglioni della catena del Dapha Bum e dell'Harungi. La foresta che stavano per attraversare, non era così fitta come quella di Benar, tuttavia aveva anche questa immense distese di bambù di dimensioni straordinarie, ottime per servire d'agguato a uomini ed a belve, infinite distese di kalam e di cespugli; però non mancavano le piante d'alto fusto, come tara, pipal, palas e palmizi splendidi, che allargavano smisuratamente le loro foglie dentellate o frangiate. Sandokan che s'aspettava da un momento all'altro qualche brutta sorpresa da parte degli assamesi, i quali potevano essersi accorti della nuova direzione presa dai fuggiaschi, raccomandò ai suoi uomini di non deporre le carabine e di sorvegliare attentamente le macchie. Era sicuro di non passarla liscia, quantunque gli elefanti s'avanzassero colla velocità di cavalli spinti a buon galoppo. Più innanzi le cose si sarebbero certamente cambiate, poiché i nemici per quanto lesti corridori, non avrebbero potuto resistere a lungo alla corsa indiavolata degli elefanti, ma pel momento era da aspettarsi qualche brutto giuoco. - Tu temi qualche altra sorpresa, è vero? - gli chiese Tremal-Naik, senza cessare di osservare attentamente le folte macchie dei bambù, che gli elefanti costeggiavano, aprendosi un passaggio a gran colpi di proboscide, quando se le trovavano dinanzi. - Dubito sempre, e poi mi sembra impossibile che quegli uomini abbiano interrotto così bruscamente l'inseguimento. Devono averci scorti e mi aspetto, fra queste macchie, qualche colpo di testa. - In quel momento, con sorpresa di tutti, gli elefanti, che fino allora avevano continuato ad accelerare la corsa, la rallentarono bruscamente. - Ehi, cornac, che cos'ha il tuo elefante-pilota? - chiese Tremal-Naik, che si era subito accorto. - Sente la vicinanza di qualche tigre forse? Noi siamo uomini da ammazzarne anche una dozzina. - Pessimo terreno, signore - rispose il conduttore crollando il capo. - Vuoi dire? - Che le ultime piogge hanno reso il terreno eccessivamente fangoso e che le zampe dei nostri animali affondano fino al ginocchio. Non mi aspettavo una simile sorpresa. - Non possiamo deviare? - Altrove il terreno non sarà migliore. Vi è dell'argilla sotto questa jungla e le acque stentano a filtrare. - Sandokan e Tremal-Naik si alzarono guardando il terreno. Apparentemente sembrava asciutto alla superficie, ma guardando le larghe impronte, lasciate dagli elefanti, si poteva facilmente comprendere come sotto esistesse una riserva d'acqua, poiché quei buchi si erano subito riempiti d'un liquido fangoso ed a quanto sembrava, tenacissimo. - Ehi, cornac, cerca di spingere più che puoi il tuo elefante, - disse Sandokan. - Farò il possibile, signore. - I cinque pachidermi non sembravano troppo contenti di aver incontrato quel terreno, che arrestava il loro slancio. Barrivano sordamente, agitavano la tromba e le grandi orecchie e scuotevano le loro teste massicce, manifestando il loro mal umore. Nondimeno, quantunque affondassero di quando in quando fino al ginocchio e provassero talvolta qualche difficoltà ad estrarre le loro zampacce da quel fango tenace, come se avessero compreso che dalla loro velocità dipendeva la salvezza degli uomini che li montavano, facevano sforzi prodigiosi, per non rallentare troppo la corsa. Disgraziatamente, di passo in passo che s'avanzavano, il terreno diventava sempre meno resistente. L'acqua ed il fango sprizzavano da tutte le parti, macchiando le rosse gualdrappe dei pachidermi. Era soprattutto sotto i bambù che si trovava maggior copia di materia liquida: là gli elefanti non potevano scorgere dove ponevano i piedi; avanzavano a passo quasi d'uomo e non cessavano di barrire, segnalando così la loro presenza, mentre Sandokan avrebbe desiderato il più scrupoloso silenzio. Una buona mezz'ora era trascorsa, da che avevano lasciato il villaggio, quando Bindar, che si teneva dietro al cornac del primo elefante, con una mano stretta sull'orlo della cassa, avendo nell'altra la carabina, si lasciò sfuggire una esclamazione. Quasi nell'istesso momento l'elefante si fermava, alzando rapidamente la tromba e fiutando l'aria a diverse altezze. - Che cos'hai, Bindar? - chiese subito Sandokan, alzandosi precipitosamente. - Ho veduto dei bambù ad agitarsi, - rispose l'indiano. - Dove? - Sulla nostra sinistra. - Che vi sia qualche tigre? Mi pare che l'elefante sia inquieto. - Una bâgh non spaventerebbe questi cinque colossi, che marciano uno addosso all'altro. Deve aver fiutato qualche cosa d'altro. - Fermo, cornac! - L'elefante non avanza più, - rispose il conduttore. - Preparate le armi! - continuò Sandokan, alzando la voce. Malesi e dayachi si erano alzati come un solo uomo, armando le carabine. Anche gli altri elefanti, che si erano stretti contro il primo, manifestavano una certa inquietudine. Trascorsero alcuni minuti senza che alcun che di straordinario accadesse. I bambù non si erano più mossi, eppure i pachidermi non si erano ancora interamente tranquillizzati. Sandokan, che era impaziente di guadagnare via, stava per ordinare ai cornac di riprendere la marcia, quando alcune detonazioni scoppiarono entro un macchione di bambù, che si estendeva a circa duecento metri dai pachidermi. - Gli assamesi! - esclamò Sandokan. - Fuoco là in mezzo! - I malesi dapprima, poi i dayachi con un intervallo di pochi secondi, fecero una scarica poderosa, mentre l'elefante-pilota mandava un barrito spaventevole, rovesciandosi addosso ai compagni. Qualche palla doveva averlo colpito, poiché gli altri si mantennero impassibili, come brave bestie, abituate al fuoco. Gli assamesi non risposero più. A giudicare dai movimenti disordinati dei bambù, dovevano aver battuto precipitosamente in ritirata, per paura forse di dover subire una carica furiosa da parte dei pachidermi. - Quindici uomini vadano a esplorare quella macchia! - gridò Sandokan. - Se il nemico resiste, ripiegatevi verso di noi facendo fuoco. - Le scale furono gettate ed un drappello composto di dayachi e di malesi, sotto la guida del vecchio Sambigliong, si slanciò attraverso il pantano, balzando fra i bambù e le erbe, le cui radici opponevano una certa resistenza. Sandokan e gli altri, dall'alto delle casse, sorvegliavano intanto la macchia, pronti a sostenere i loro compagni. L'elefante-pilota continuava a lanciare barriti formidabili e ad indietreggiare, non ostante le buone parole che gli diceva il suo conduttore. - Ha ricevuto certamente una palla nel corpo, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Mi spiacerebbe che fosse stato ferito gravemente, - rispose la Tigre della Malesia. - È bensì vero che ce ne rimangono altri quattro. - Cornac, va' a un po' a vedere dove è stato toccato. - Sì, signore - rispose il conduttore raggiungendo rapidamente la scala di corda e lasciandosi scivolare sul pantano. Girò intorno al pachiderma osservandolo attentamente lungo i fianchi e si arrestò presso la gamba sinistra posteriore. - Dunque? - chiese Tremal-Naik. - Sanguina qui, signore - rispose il cornac. - Ha ricevuto una palla presso l'articolazione. - Ti sembra grave la ferita? - Il conduttore scosse il capo a più riprese, poi disse: - Durerà finché potrà. Questi colossi posseggono una forza prodigiosa, eppure sono d'una sensibilità estrema e guariscono difficilmente. - Puoi fare una fasciatura? - Mi proverò, signore, tanto per arrestare il sangue. Estrarre il proiettile, che si è cacciato sotto la pelle, sarebbe impossibile. - Fa' presto. - In quel momento Kammamuri ed il suo drappello ritornavano. - Fuggiti? - chiese Sandokan. - Scomparsi ancora - rispose il maharatto. - Canaglie! Non hanno il coraggio d'affrontarci in campo aperto. - Li ritroveremo più innanzi, se gli elefanti non trovano un terreno migliore. Subiremo delle imboscate finché non potremo galoppare furiosamente. - Continua il fango? - Sempre. - Montate e tenete sempre pronte le carabine. - Malesi e dayachi s'inerpicarono come tanti scoiattoli su per le scale di corda, seguiti poco dopo dal cornac dell'elefante-pilota, che era riuscito ad arrestare l'emorragia. - Avanti! - comandò Sandokan. - Vedremo che cosa sapranno fare quei dannati assamesi. -

. - Sembra che le grida e le fucilate non abbiano ancora guastato il sonno agli abitanti di questa casa - rispose Sandokan. - Chi è che ha una torcia? - Io, sahib - rispose Bindar. - Accendila, ragazzo previdente. - Eccola padrone. - La Tigre della Malesia sfondò la stuoia strappandola completamente; prese la torcia, armò una pistola ed entrò in un bugigattolo ingombro solamente di vecchie mobilie fuori d'uso. - Che tutti mi seguano, - comandò - e tenete pronte le armi. - Con una semplice spinta aprì una porta e trovata una scala, si mise a scendere tranquillo, come se fosse stato in casa sua. Molte porte s'aprivano a destra ed a manca, però tutte erano chiuse e nessun rumore si udiva. - Si direbbe che questa casa è deserta, - mormorò Sandokan. S'ingannava, poiché mentre stava per scendere il primo gradino d'uno scalone, due servi indiani, due sudra, gli si pararono dinanzi roteando minacciosamente nodosi randelli e gridando: - Ferma! - Sgombrate, - rispose invece Sandokan puntando contro di loro la pistola. - Siamo in quaranta e tutti armati. - Che cosa vuoi tu? - chiese il più vecchio. - Come sei entrato qui, senza il permesso del padrone? - Noi desideriamo solamente andarcene, senza disturbare nessuno. - Siete ladri? - Nessuno dei miei uomini ha toccato le cose appartenenti al tuo padrone. Orsù, metti fuori la chiave e aprici il portone. Abbiamo fretta. - Io non posso aprire senza l'ordine del padrone. - Ah, occorre il suo ordine? La vedremo. - Si volse verso i malesi che l'avevano raggiunto e disse loro: - Legate ed imbavagliate questi due servi. - Non aveva ancora terminato quell'ordine, che già i malesi si erano scagliati come tigri sui sudra disarmandoli ed imbavagliandoli. - La chiave! se non volete che vi faccia gettare giù dalla scala, - disse Sandokan con voce imperiosa. - Vi ho detto che abbiamo fretta. - I due indiani spaventati non osarono più rifiutarsi e porsero la chiave. Sandokan riprese la discesa seguito da tutto il drappello e aprì non senza qualche difficoltà il portone. Nessuno pareva che si fosse accorto di quell'invasione, poiché nessun altro servo erasi mostrato. - Eccoci finalmente liberi, - disse Sandokan. - Come hai veduto, mio caro Tremal-Naik, la cosa non poteva essere più facile. - Tu sei sempre l'uomo straordinario che la Malesia intera ha temuto e ammirato. - Venite tutti. - Non essendo ancora sorta l'alba, la via era deserta, sicché poterono allontanarsi indisturbati e raggiungere le viuzze d'un vicino sobborgo, che terminava sulle rive del Brahmaputra. In lontananza il cielo era tinto di rosso. Erano i riflessi dell'incendio che divorava il palazzo di Surama. Vedendoli, la giovane principessa non poté trattenere un lungo sospiro, che non isfuggì a Sandokan che le camminava a fianco. - Tu rimpiangi la tua casa, è vero amica? - disse il pirata. - Non lo nego. - Fra non molto ne avrai una più bella: il palazzo del rajah. - Tu dunque speri sempre, signore? - Non avrei lasciata la Malesia, - rispose Sandokan, - se non fossi stato certo di condurre a buon fine l'impresa. Fra me, Yanez e Tremal-Naik, rovesceremo quell'ubbriacone sanguinario, che regna sull'Assam e gli strapperemo la corona che egli ha conquistata con un semplice colpo di carabina. Egli ha mandato te a fare la bajadera e noi manderemo lui a fare ... il bramino od il gurum. - Intanto erano giunti sotto i folti tamarindi che ombreggiavano la riva del fiume. Sandokan si era fermato rivolgendosi verso i servi e le donne, che si erano raggruppati dietro di lui. - È questo il momento di lasciare la vostra padrona, - disse loro. - Riceverete ognuno cinquanta rupie di regalo, che vi consegnerà domani mattina Bindar nel bengalow di passaggio. Appena avremo bisogno di voi riprenderete il vostro servizio. - Grazie, sahib - risposero i sudra commossi da tanta generosità. - Disperdetevi e non dimenticatevi dell'appuntamento. - Le donne baciarono le mani di Surama, gli uomini l'orlo della veste, poi si allontanarono rapidamente prendendo varie direzioni. - Ora a noi, Bindar, - riprese Sandokan; - posso contare sulla tua assoluta fedeltà? - Mio padre è morto difendendo quello della principessa ed io, che sono suo figlio, sarei ben lieto di fare altrettanto - rispose con nobiltà l'assamese. - Comanda, sahib. - Andrai, innanzi tutto, a presentare questa tratta di cinquantamila rupie al banco anglo-assamese e pagherai i servi. - Bene sahib: ti riporterò fedelmente la rimanenza non più tardi di domani sera. - Non c'è premura - disse Sandokan. - Hai altro da fare qui, prima di raggiungermi nella jungla di Benar. - Comanda, sahib. - Tu andrai al palazzo reale e cercherai di vedere Yanez o qualcuno dei suoi uomini. - Che cosa devo dire al sahib bianco? - Narrargli tutto ciò che è avvenuto e dirgli dove noi ci troviamo. Se ti darà una lettera noleggerai una barca e verrai a raggiungermi nella jungla. Sii prudente e bada di non farti prendere. - Non mi lascerò sorprendere, signore, - rispose Bindar. - Va', bravo ragazzo: la tua fortuna è assicurata. - L'assamese baciò l'orlo della veste di Surama, poi si allontanò velocemente scomparendo sotto gli alberi. - Alla bangle ora, - disse Sandokan. - Speriamo di trovarla ancora nel medesimo posto dove l'abbiamo lasciata. - E facciamo presto - aggiunse Tremal-Naik. - Noi non saremo interamente sicuri finché non ci troveremo nella pagoda di Benar. - Se lo saremo anche là. - Dubiti? - Eh! chi lo sa? Il greco non mancherà di spie, mio caro Tremal-Naik, e tu sai meglio di me quanto sono astuti e soprattutto intelligenti i tuoi compatriotti. - Questo è vero - rispose il bengalese. - E faremo perciò bene a guardarci alle spalle. Alla bangle amici, e andiamocene prima che il sole sorga. - Si cacciarono in mezzo agli alberi seguendo la riva che era popolata solamente di marabù, ritti e fermi sulle loro zampe, in attesa che la luce si avanzasse per recarsi a pulire le vie della città, essendo quegli ingordi volatili i soli spazzini dei quartieri indù, spazzini economici, ma non meno utili di quelli umani perché tutto divorano: ossa, vegetali marci, avanzi di qualunque genere che i cani più affamati sdegnerebbero. Le stelle cominciavano ad impallidire quando il drappello giunse nel luogo dove era stata lasciata la bangle. - Niente di nuovo? - chiese Sandokan ai due malesi che erano rimasti a guardia della barca. - Sì: siamo spiati, Tigre della Malesia, - rispose uno dei due. - Che cos'hai notato? - Alcuni uomini sono venuti a ronzare presso la bangle. - Molti? - Cinque o sei. - Soldati del rajah? - No, non erano guerrieri quelli. - Sono ritornati? - Due ore fa li abbiamo riveduti, - rispose il malese. Sandokan guardò Tremal-Naik. - Che cosa ne dici tu? - gli chiese. - Che la nostra presenza è stata notata e che il rajah o il greco tenteranno di fare qualche colpo contro di noi, - rispose il bengalese. - Che vengano ad assalirci nella jungla? - Ho proprio questo dubbio. - Bah! Abbiamo laggiù forze sufficienti per opporre una terribile resistenza. Se vogliono seguirci lo facciano pure: saremo pronti a dar loro una tale lezione che non dimenticheranno facilmente. - Salirono sulla bangle; i malesi presero i remi e si spinsero al largo risalendo la corrente del Brahmaputra. Sandokan, come era sua abitudine, si era collocato a prora con Tremal-Naik e Surama. Gli occhi vigili del pirata sorvegliavano attentamente la riva, poiché, dopo quanto gli avevano riferito i due malesi lasciati a guardia della barca, un dubbio lo aveva assalito. Ed infatti la bangle non aveva ancora percorso duecento metri, quando da una piccola insenatura, nascosta da giganteschi tamarindi, vide avanzarsi sul fiume una di quelle leggere barche, che gli indiani chiamano mur-punky e che rassomigliano nelle forme alle baleniere, quantunque abbiano la prora un po' elevata ed adorna d'una grossa testa di pavone. - Ah! furfanti! - mormorò. - M'aspettavo questo inseguimento. - E ci lasceremo dare la caccia da quegli uomini? - chiese Surama. - Non siamo ancora giunti nella jungla di Benar, - rispose Sandokan. - Chissà che cosa può succedere prima d'imboccare il canale che conduce nello stagno dei coccodrilli. Io spero di offrire a quei brutti sauriani una cena appetitosa, quantunque li detesti. - Quegli uomini possono diventare un giorno miei sudditi. - Ne avrai sempre abbastanza, - rispose freddamente Sandokan. - Se io avessi risparmiati tutti i miei nemici, non sarei diventato la Tigre della Malesia, né avrei potuto rimanere per tanti anni nella mia Mompracem. D'altronde io non potrei tenere troppi prigionieri: ne ho già due nella jungla, uno dei quali potrebbe darmi dei gravi fastidi. - Chi è? - Il fakiro che ti ha rapita, mia cara Surama. Se quello riuscisse a scapparmi, a noi non resterebbe altro che di rifugiarci al più presto nel Borneo, e allora la tua corona sarebbe perduta. Ah! ci corrono dietro! La vedremo, signori miei: abbiamo palle e polvere ancora. - Il mur-punky che era montato da otto rematori e da un timoniere, filava rapidissimo tenendosi sulla scia della bangle. Che quegli uomini fossero semplici rematori, vi era da dubitare, poiché gli sguardi acuti di Sandokan avevano veduto, quantunque cominciasse solo allora a rischiararsi il cielo, le estremità di parecchi fucili che s'appoggiavano sui due bordi. Poteva darsi che fossero cacciatori in cerca di anitre bramine e di oche, volatili che abbondano sempre sulle rive dei grandi fiumi dell'India, specialmente su quelli che bagnano le terre orientali di quella immensa penisola. Ad un tratto però la leggera baleniera si gettò fuori dalla scia, piegando a destra e con uno sforzo di remi sorpassò la bangle, che in causa della sua pesante costruzione e dei suoi larghi fianchi, non poteva vincerla in velocità, e con non poca sorpresa di Sandokan e di Tremal-Naik, si diresse verso la riva sinistra, dove si scorgeva vagamente, sotto le immense fronde di tamarindi costeggianti il fiume, una massa nera. - Che cosa significa questa manovra? - si chiese il pirata corrugando la fronte. - Che ci siamo ingannati? - disse Tremal-Naik. - Adagio, amico - rispose Sandokan. - Che cos'è, innanzi a tutto, quell'ombra grossa che si nasconde sotto le piante? - Da' ordine al timoniere di accostarsi alla riva. Voglio vederci chiaro in questa faccenda. - Toh! Guarda, Tremal-Naik. Il mur-punky l'ha abbordata. - Che sia qualche bangle? In tale caso non dovremmo spaventarci. Quegli uomini del mur-punky possono essere marinai che tornano a bordo del loro legno. - Uhm! - fece Sandokan. - Non sono affatto rassicurato. Ehi, Kammamuri, poggia ancora! - La bangle deviò verso la riva sinistra mentre i malesi rallentavano la battuta e passò dinanzi alla massa oscura a trenta o quaranta metri di distanza. Un doppio grido di stupore sfuggì dalle labbra del pirata e del bengalese. - Il poluar! - Si guardaron l'un l'altro interrogandosi cogli occhi. - Sarà poi quello che ci ha seguiti quando scendevamo il fiume? - chiese finalmente Tremal-Naik. - Quando io ho veduto una volta una nave non la scordo più, - rispose Sandokan. - Quello è il poluar che ci ha dato la caccia. - E che si prepara a seguirci ancora, - aggiunse Kammamuri, che aveva ceduto il timone ad un malese. - Stanno spiegando le vele. - Eppure non devono scoprire il nostro rifugio, - disse Sandokan che era diventato pensieroso. - Vorresti assalirlo? - chiese Surama, - Un equipaggio ben più numeroso del tuo. - Ho un'idea, - disse Sandokan, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso. - Tu, Kammamuri, saresti capace di fabbricarmi una bomba? Basterà una scatola di latta, una di quelle che contengono le conserve. Ne dobbiamo avere qui. - Ne ho fatto imbarcare una dozzina piene di biscotti, prima di lasciare la jungla. - Basterà una di quelle: con un chilogrammo di polvere si può produrre un bel guasto. Lega però solidamente la scatola, con del filo di ferro se lo puoi trovare e mettici una buona miccia, che non sia più lunga di cinque centimetri. - E con quale cannone la lancerai a bordo del poluar? - chiese Tremal-Naik. - Andrò io a regalarla a quei signori, - rispose Sandokan. - Saremo costretti ad aspettare la notte poiché il sole già si alza; ma noi non abbiamo fretta ed i nostri amici, che sono nella jungla, non si inquieteranno pel nostro ritardo. - Non riesco a comprendere il tuo progetto. - Lo capirai quando mi vedrai all'opera. Va' a riposarti, Surama, tu devi essere molto stanca. Ti sveglieremo all'ora della colazione e tu Kammamuri va' a fabbricarmi la bomba e metti fra la polvere più palle di carabina che puoi. Vedremo poi come se la caverà quel poluar. - Accese la pipa e si portò a poppa della nave per sorvegliare le mosse di quei misteriosi naviganti. Il piccolo naviglio, levate le ancore e sciolte le sue due vele quadrate, aveva lasciata la riva ed avendo il vento favorevole, si era messo dietro alla bangle tenendosi ad una distanza di tre o quattrocento metri. Dietro la poppa rimorchiava il mur-punky. Se avesse voluto avrebbe potuto superare facilmente la pesante barca di Sandokan, essendo quei piccoli bastimenti velocissimi, anche con vento scarso; ma si vedeva che il suo equipaggio non aveva alcun desiderio di fare troppo cammino, poiché di quando in quando abbassava ora l'una ora l'altra vela per rallentare la marcia. Essendosi il sole ormai innalzato sopra le immense foreste del levante, Sandokan e Tremal-Naik potevano distinguere facilmente le persone che montavano quel poluar. Non erano che dieci o dodici e parevano battellieri, non avendo per vestito che un semplice dootèe annodato intorno ai fianchi per esser più lesti a montare sull'alberatura, ma forse altri si tenevano nascosti nella stiva. Una cosa aveva subito colpito il pirata ed il bengalese: era un enorme tamburo, uno di quelli che gl'indiani chiamano hauk e di cui si servono nelle feste religiose, tutto adorno di pitture e di dorature e sormontato da mazzi di penne variopinte e che si trovava collocato fra i due alberi, quasi in mezzo alla coperta. - Quello non è un istrumento da guerra, - disse Sandokan, a cui nulla sfuggiva, - né fino ad oggi ho veduto quei tamburoni sui velieri indiani. - E nemmeno io, - rispose Tremal-Naik. - Lo hanno collocato là per qualche motivo e che io forse indovino. - Vuoi dire? - Che quegli istrumenti quando sono vigorosamente percossi si possono udire a distanze incredibili. - Sicché servirebbe? - Per trasmettere dei segnali. - Sono della tua opinione, - disse Sandokan. - Si prepara qualche cosa contro di noi. Ormai abbiamo fatto troppe osservazioni. - Bah! aspettiamo questa sera e anche quel tamburone andrà a tenere allegra compagnia ai pesci del Brahmaputra. - La bangle intanto continuava la sua marcia, senza troppo affrettarsi, non volendo Sandokan allontanarsi di troppo dal canale che conduceva alla laguna, seguìta ostinatamente dal poluar, il quale si sforzava di mantenersi sempre alla medesima distanza, quantunque la brezza mattutina fosse diventata più forte. Il fiume che si svolgeva superbo, scendendo dolcemente, invece di restringersi tendeva ad allargarsi, scorrendo fra due magnifiche rive coperte di palas, di palmizi tara, di mangifere splendide e di nim dal tronco enorme e dal fogliame cupo e foltissimo. Di quando in quando compariva qualche risaia, chiusa tra arginetti alti alcuni piedi, destinati a trattenere le acque, tutta coperta da lunghi steli d'un bel verde e che producono dei chicchi enormi; ma ben presto la foresta riprendeva il suo impero svolgendosi fra un caos di liane che formavano dei pergolati bellissimi. Numerose bande di semnopiteci, svelte e leggere scimmie che gli indiani chiamano langur, alte un metro e mezzo, ma così magre da non pesare oltre dieci chilogrammi, si mostravano sugli alberi e salutavano i naviganti con fischi acuti, scagliando nel medesimo tempo frutta e ramoscelli, essendo insolentissime. Sulle rive invece, fra i canneti, svolazzavano gruppi di bellissime anitre bramine, di cicogne, di bozzagri e di marabù e sonnecchiavano indolentemente, scaldandosi al sole, grossi coccodrilli dai dorsi rugosi e coperti di piante acquatiche. A mezzogiorno, Sandokan fece dirigere la bangle verso la riva sinistra e affondare l'ancora, onde permettere ai suoi uomini di far colazione. Il poluar continuò la sua marcia per altri tre o quattrocento metri per non destare forse dei sospetti, ma poi poggiò verso la riva destra gettando le sue ancore in un minuscolo seno, dove l'acqua era ancora abbastanza profonda. Dal fumo che sfuggiva dal casotto di poppa, Sandokan s'accorse subito che anche quell'equipaggio si preparava il pasto del mezzodì. - Hai ancora qualche dubbio sulle intenzioni di quegli uomini? - chiese a Tremal-Naik. - No, - rispose il bengalese che appariva preoccupato. - Se non troviamo il mezzo di sbarazzarci di quel legno, non ci lasceranno più. Quegli uomini devono aver ricevuto l'ordine di spiarci. - Aspettiamo questa notte. - Fecero chiamare Surama e pranzarono sulla tolda, dopo d'aver avuto la precauzione di far stendere una vela sopra le loro teste onde preservarsi da qualche colpo di sole. Non fu che verso le quattro del pomeriggio che Sandokan fece dare il segnale della partenza. La bangle si era appena mossa che anche il poluar spiegava una delle sue due vele, prendendo la medesima via. - Ah, non volete lasciarci? - disse il pirata. - La bomba è pronta e penserà essa ad arrestarvi anche in piena corsa. - Le due barche continuarono a navigare di conserva, l'una a remi e l'altra a vela, mantenendo la medesima distanza che variava dai trecento ai cinquecento metri. La regione era diventata deserta. Non si scorgevano più né risaie, né capanne e nemmeno barche. La jungla, sfuggita da tutti gli abitanti che non avevano alcun desiderio di ricevere le visite poco gradite delle tigri e delle pantere, non doveva essere lontana. Infatti verso il tramonto, la bangle che si era avanzata assai, benché lentamente, passava dinanzi al canale che conduceva nella palude; ma Sandokan vedendosi sempre alle costole il poluar, si guardò bene dal dare il comando di cacciarvisi dentro. Lasciò che la barca risalisse il fiume per un paio di miglia ancora, poi, quando le tenebre scesero, fece gettare di nuovo le ancore presso la riva sinistra. Il poluar, come aveva fatto al mezzodì, proseguì la sua marcia per alcune centinaia di metri e si ancorò non già sulla riva opposta, bensì in mezzo al fiume, onde sorvegliare più strettamente la piccola barca. - Cenate pure, - disse Sandokan a Tremal-Naik ed a Surama. - E tu? - chiese il bengalese. - Mangerò dopo il bagno. - Che cosa vuoi tentare? - Non te l'ho detto? Voglio sbarazzarmi di quegli spioni. - E come? - Il tuo bravo Kammamuri m'ha preparato una bomba veramente splendida. Quando tu, Surama, diventerai la regina dell'Assam lo nominerai generale dei granatieri. - Io farò tutto quello che desidereranno i miei protettori, - rispose la giovane con un amabile sorriso. - Pensiamo ora al nostro affare, - disse Sandokan. - La notte è oscura e nessuno mi vedrà attraversare il fiume. - Tu vuoi farti divorare! - esclamò Tremal-Naik spaventato. - Da chi? - Vi sono coccodrilli e anche squali d'acqua dolce nelle acque del Brahmaputra. - Sandokan alzò le spalle, poi levandosi dalla fascia il kriss malese disse con noncuranza: - E quest'arma a che cosa dovrebbe dunque servire? - chiese. - Quando il vecchio pirata di Mompracem l'ha bene in pugno, se ne ride degli uni e anche degli altri. La mia carne non fa per loro, tranquillizzati. - Lascia che t'accompagni. - No, amico. In queste faccende non può agire che un solo uomo. - Non mi hai spiegato ancora il tuo progetto. - È semplicissimo. Vado ad appendere la mia bomba ai cardini del timone del poluar, accendo la miccia e ritorno tranquillamente a bordo della mia bangle. Vedrai che guasto farà quel chilogrammo di polvere! Kammamuri, sono pronto. - Il maharatto accorse portando con una certa precauzione la famosa bomba, la quale non consisteva che in una scatola di latta, bene cerchiata con filo di rame tolto dai bordi della bangle, con una miccia lunga otto o dieci centimetri ed un gancio, ad una delle due estremità, formato pure di filo di rame, per poterla appendere ai cardini del timone. Sandokan la esaminò attentamente, fece col capo un gesto come d'uomo soddisfattissimo, poi entrato nel casotto di poppa, si spogliò rapidamente stringendosi ai fianchi un dootèe e passandovi dentro il kriss. - Ora tu, mio bravo Kammamuri, mi legherai sulla testa la bomba e vi unirai l'acciarino e l'esca. Assicura bene l'una e gli altri, onde non costringermi a rifare il viaggio. - Kammamuri non si fece ripetere due volte l'ordine. - Fa' calare una fune ora, - riprese Sandokan. - Bada ai coccodrilli, signore, - disse Surama che sembrava commossa. - Tu arrischi la tua preziosa vita per me. - E per gli altri, - rispose il fiero pirata. - Sii tranquilla, mia bella fanciulla. La carne delle vecchie tigri di Mompracem è troppo coriacea. - Stese la mano alla giovane ed a Tremal-Naik, raccomandò il più assoluto silenzio, poi si lasciò scivolare lungo la fune, immergendosi, dolcemente, nella corrente dal fiume. Surama, Tremal-Naik e tutto l'equipaggio, avevano seguìto ansiosamente cogli sguardi il formidabile pirata chiedendosi, non senza sgomento, come sarebbe finito quell'audace tentativo, ma dopo pochi istanti lo perdettero di vista essendo l'acqua oscurissima ed il cielo coperto di vapori. Sandokan si era messo a nuotare silenziosamente, tagliando la corrente, che era d'altronde debolissima, senza far rumore. Con frequenti colpi di tallone si teneva ben alto, temendo che qualche spruzzo bagnasse l'esca o la miccia. Il poluar si trovava a soli quattrocento metri: una distanza derisoria per un uomo dell'arcipelago della Sonda. Nessun nuotatore può competere con un malese ed un bornese della costa. Si può dire che quegli audaci pirati nascono nel mare e che vi muoiono dentro. Sandokan, di passo in passo che s'accostava al piccolo veliero indiano, diventava più prudente. Non era il timore d'incontrare qualche coccodrillo o qualche squalo d'acqua dolce, bensì il timore che degli uomini vegliassero a bordo e che potessero scorgerlo. Di quando in quando si fermava per ascoltare, poi rassicurato dal profondo silenzio che regnava sul fiume e sul veliero, riprendeva la sua marcia silenziosa, agitando le braccia e le gambe con somma prudenza e sempre più dolcemente. A cinquanta passi dal poluar subì un urto. Credette per un istante che qualche sauriano cercasse di assalirlo; trovò invece sotto mano un corpo molle, che lo appestò col suo puzzo nauseante di carogna imputridita. - Un cadavere, - mormorò, respirando. S'allungò lasciando il passo al morto e con cinque o sei bracciate giunse sotto la poppa del veliero. Quantunque avesse avuta la precauzione di non levare le mani dall'acqua, gli uomini che vegliavano sul poluar, s'accorsero certamente di qualche cosa d'insolito, poiché udì distintamente una voce a dire: - Si direbbe, Maot, che qualcuno ha rasentato il bordo della nave. Hai udito nulla tu? - Solo il timone a cigolare sui cardini, - rispose un'altra voce. - Bah! qualche coccodrillo lo avrà urtato. - Sarà meglio accertarsene, Maot. Mi hanno detto i seikki che quelli che montano la bangle non sono indiani. - Guarda dunque. - Sandokan si era prontamente cacciato sotto la poppa, aggrappandosi al timone. Trascorse un mezzo minuto poi la medesima voce di prima riprese: - Non si vede nulla con questa oscurità, Maot. Ti ripeto che sarà stato un coccodrillo. Quelle brutte bestie non mancano su questo fiume. Dammi un po' di betel e riprendiamo la nostra guardia a prora. Dal castello osserveremo meglio. - Sandokan, che ascoltava attentamente, udì uno stropiccìo di piedi nudi allontanarsi. - Stupidi! - mormorò. - Al vostro posto non mi sarei accontentato di chiacchierare come pappagalli. Ah! sapete che noi non siamo indiani? Ecco una ragione di più per farvi saltare in aria. - Attese ancora qualche minuto, poi rassicurato dal profondo silenzio, che regnava sul poluar, levò con una mano la scatola, si mise fra le labbra l'acciarino e l'esca, badando bene di non bagnare quest'ultima e appese la bomba al secondo cardine. Ciò fatto strinse le gambe contro il timone e con grande precauzione, diede fuoco all'esca accostandola alla miccia. Il rumore però, per quanto lievissimo, prodotto dalla selce battuta contro l'acciarino, fu certamente udito dai due battellieri di guardia, poiché Sandokan s'accorse che s'avvicinavano. Si lasciò andare a picco nuotando sott'acqua con estrema velocità, onde non saltare insieme con la nave. Emerse a cinquanta metri e fissò subito gli occhi sul poluar. Piccole scintille cadevano sotto la poppa. Era la miccia che ardeva. - Eccovi serviti, - mormorò, tornando a tuffarsi e percorrendo sempre sott'acqua altri cinquanta o sessanta metri. Quando tornò a galla, urla acutissime partivano dal poluar: - Al fuoco! al fuoco! - Quasi nell'istesso momento un lampo squarciò le tenebre, seguìto da una detonazione che parve un colpo di cannone. La poppa del piccolo veliero era stata squarciata dalla bomba, e per l'enorme falla l'acqua entrava a torrenti. Il timone era stato già mandato in pezzi. A quel rimbombo, che si propagò lungamente sotto le interminabili volte di verzura che si estendevano sulle due rive, tenne dietro un breve silenzio, poi le grida dell'equipaggio tornarono a farsi udite: - Il poluar affonda! Si salvi chi può! - Sandokan con poche bracciate raggiunse la bangle e afferrata la fune, che non era stata ritirata, si issò sul ponte. Surama e Tremal-Naik erano accorsi. - Ah! Tigre della Malesia! - esclamò la prima. - Io ormai non dubito più di diventare una regina, quando l'uomo che mi protegge possiede tale audacia. - Tu sei un demonio, - aggiunse il bengalese. - Lascia che me lo dicano quei poveri diavoli che affondano, - rispose Sandokan, scuotendosi di dosso l'acqua. Il poluar s'inabissava rapidamente, inclinandosi verso la poppa. Numerosi uomini saltavano in acqua, mentre altri si salvavano sull'alberatura mandando grida di terrore, colla speranza che il fiume non fosse in quel luogo così profondo da inghiottire tutta la nave. - Lasciamoli urlare e raggiungiamo il canale, - disse Sandokan freddamente. - Se la cavino da loro. Ai remi, amici. - I malesi che avevano assistito impassibili a quel disastro, per loro già non nuovo, afferrarono le lunghe pagaie e la bangle ridiscese velocemente il fiume, aiutata dalla corrente, che si faceva sentire piuttosto forte lungo la riva sinistra. Per alcuni minuti i fuggiaschi udirono ancora le urla disperate dei disgraziati che venivano tratti a fondo insieme col naviglio, poi il grande silenzio tornò ad imperare sul Brahmaputra. Sandokan che si era affrettato ad indossare le sue vesti, aveva raggiunto Surama e Tremal-Naik, che dall'alto della poppa cercavano ancora di discernere il poluar. - Non mi ero ingannato, - disse loro. - Ho avuto la prova che quei battellieri avevano avuto l'incarico di sorvegliarci e fors'anche di catturarci. A bordo vi erano dei seikki del rajah. - E come l'hai appreso? - chiese il bengalese stupefatto. - Da un discorso fatto da due di quegli uomini, nel momento in cui stavo appendendo la scatola al timone. È un vero miracolo se non mi hanno scoperto. - Sanno dunque chi siamo noi? - chiese Surama. - Forse non lo credo, - rispose Sandokan, - ma qualche cosa è trapelato di certo dei nostri progetti. Tu devi aver parlato, Surama. - È possibile, se mi hanno dato da bere qualche narcotico. - E ciò m'inquieta per Yanez. - Non spaventarmi signore! - esclamò la bella assamese. - Tu sai quanto io ami il sahib bianco. - Tu finché Yanez non ci manda qualche messo, non devi preoccuparti. Aspettiamo che torni Bindar. - Tu però sospetti che possa correre qualche pericolo. - Pel momento no, e poi mio fratellino è un uomo da cavarsela anche senza il mio aiuto. Come ha giuocato James Brooke, il rajah di Sarawak, saprà burlare anche il rajah dell'Assam. Aspettiamo sue nuove. - La bangle che scendeva il fiume con grande rapidità, era già giunta dinanzi al canale che conduceva alla palude. Kammamuri che aveva ripreso il suo posto al timone, guidò la barca entro il passaggio, dopo essersi prima ben assicurato che nessun'altra nave spiava la bangle. Venti minuti dopo affondavano le ancore in mezzo al vasto stagno. Essendo la jungla pericolosissima di notte, Sandokan mandò a dormire i suoi uomini, che cadevano per la fatica, vi mandò poi Surama, e lui si stese sul ponte, su una semplice stuoia accanto a Tremal-Naik, dopo essersi messa a fianco la sua fida carabina. L'indomani, dopo aver assicurata bene la bangle che era loro necessarissima e d'averla nascosta sotto un enorme ammasso di canne e di rami, Sandokan ed i suoi compagni attraversarono felicemente la jungla e giunsero alla pagoda di Benar. I malesi ed i dayachi si trovavano riuniti, sorvegliando attentamente il fakiro ed il demjadar dei seikki. Durante l'assenza della Tigre della Malesia, nessun avvenimento aveva turbato la calma che regnava in quella parte della jungla. Solo qualche tigre e qualche pantera avevano fatto la loro comparsa, senza però osar di assalire l'accampamento, troppo formidabile anche per quei feroci animali. Sandokan fece allestire alla meglio, in una delle stanze dei gurum, un modesto alloggetto per Surama, non presentando la vasta sala della pagoda, in parte diroccata, molta solidità, ed attese pazientemente il ritorno di Bindar. Fu la sera del settimo giorno che il fedele assamese finalmente comparve. Aveva risalito il fiume su un piccolo gonga, ossia su un battello scavato nel tronco d'un albero, e aveva attraversata la jungla prima che le belve, che l'abitavano si fossero messe in cerca di preda. Egli recava una terribile notizia. - Sahib, - disse appena fu condotto dinanzi a Sandokan che stava fumando sotto un tamarindo, godendosi un po' di fresco insieme con Tremal-Naik, - una catastrofe ci ha colpiti. - Sandokan ed il bengalese balzarono in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Che cosa vuoi dire tu? - gridò il primo. - Il sahib bianco è stato arrestato ed i suoi malesi sono stati decapitati. - Un vero ruggito uscì dalle labbra del pirata. - Lui ... preso! - E tu stai per essere assalito. La jungla domani sarà circondata. -

. - Quelle bestie sono di una prudenza estrema e pare che non abbiano fretta di assaporare le nostre carni. - Puzzano troppo di selvatico quelle dei nostri uomini, - disse il portoghese, che non perdeva mai il suo buon umore. - Dove sono? - Sono dinanzi a noi, ma socchiudono troppo di frequente gli occhi e così non si lasciano scorgere, - rispose Sandokan. - Eppure dobbiamo far presto. L'alba non è lontana e poi vi è il pericolo che giungano le guardie del rajah. Ritiriamoci verso il pozzo e, se ci seguiranno fin là, daremo a loro battaglia prima di tuffarci. - In ritirata, amici! - gridò Sandokan. I malesi ed i dayachi si alzarono rapidamente, mostrando sempre la fronte alle tigri e si ritrassero in buon ordine verso il corridoio, che conduceva al pozzo. Fra l'oscurità, di quando in quando s'alzava terribile quell'impressionante ahu, delle regine delle jungle indiane. - Ci siamo, - disse Yanez, indicando a Sandokan il pozzo. - Che oscurità, - mormorò Tremal-Naik. - Confesso che il rumoreggiare di quest'acqua non giunge gradito ai miei orecchi. - Non vi è altra via da scegliere, - rispose Yanez. - A te Bindar. - Sì, sahib, - rispose l'indiano. Scese la gradinata senza manifestare la menoma apprensione. Si udì un tonfo, poi più nulla. - Agli altri ora, uno ad uno! - gridò il portoghese. Un malese fu il primo, poi seguirono gli altri. Non erano rimasti che Sandokan, Tremal-Naik ed il portoghese, quando degli ahu spaventevoli echeggiarono all'entrata della galleria. - Le tigri! - aveva gridato il bengalese. - Ah! canaglie! - gridò Yanez. - Hanno aspettato il buon momento! - Sandokan si era precipitato innanzi, colla scimitarra alzata e la pistola montata. Due lampi, che per poco non spensero la torcia che era stata infissa in un crepaccio della rivestitura del pozzo, balenarono. Una massa enorme attraversò lo spazio dinanzi al terribile pirata della Malesia, dibattendosi disperatamente e tentando di afferrarsi colle zampe anteriori. - A te il resto dunque! - gridò Sandokan. La sua scimitarra fischiò in alto e troncò d'un colpo solo il collo della belva. - Va'! - continuò il formidabile uomo. - Tu non sei degna di misurarti colla Tigre dell'arcipelago malese! - Le altre tre belve però erano pure comparse, e non sembravano affatto impressionate per la fine miseranda della compagna. Tremal-Naik, che oltre le pistole aveva una splendida carabina indiana, fece fuoco sulla più vicina, senza troppa precipitazione. La signora delle jungle spiccò un salto in aria mandando una specie di ruggito e cadde pure per non più alzarsi. Era stata fulminata. - A te, Yanez, finché ricarico le pistole! - gridò Sandokan, balzando indietro. - Eccomi, - rispose il portoghese. Oltre le armi da fuoco che portava appese alla cintura, aveva estratto il kriss mettendoselo fra le labbra. Le due altre tigri s'avanzavano strisciando e mugolando. Tremal-Naik sparò la sua pistola alla distanza di appena dieci passi e sbagliò entrambi i colpi. I due lampi però spaventarono le belve facendole indietreggiare rapidamente fino all'estremità del corridoio, prima che Yanez avesse avuto il tempo di far fuoco. Quel momento di sosta era stato però sufficiente a Sandokan per ricaricare le sue armi. - Yanez, - disse il pirata, - le tigri tarderanno l'attacco dopo un così brutto ricevimento. Approfitta senza ritardo. - Per che fare? - Per scendere nel pozzo e gettarti nel Brahmaputra. Tu devi salvare la pietra di Salagraman e quel cofano ti darà non poco impiccio se dovrai nuotare sott'acqua. - E voi? - Non occupartene. Da' a noi le tue pistole che in acqua non ti servirebbero. Il kriss ti basterà. Sarà meglio però che tu ti sbarazzi almeno degli stivali. - Esito. - Perché? - Siete in due contro due. - E le armi? Abbiamo coi tuoi sette colpi e poi sai che noi non abbiamo paura. Metti in salvo il cofano, se ti è assolutamente necessario per conquistare la corona. - Più che necessario. - Allora salta in acqua. Le tigri brontolano, ma non si muovono e probabilmente lasceranno anche a noi il tempo di andarcene senza troppi pericoli. Spicciati! - Il portoghese si levò gli stivali e la giacca, si fissò bene il kriss nella cintura dei calzoni, si assicurò il cofano e scese la gradinata, dicendo ai suoi due valorosi compagni: - L'appuntamento è nel nostro sotterraneo. - Scese dieci gradini viscidi per l'umidità e si trovò dinanzi ad un foro circolare entro cui gorgogliava la corrente. - Preferirei vederci, - disse. - Bah! Posso fidarmi delle mie forze. - Alzò le mani e si precipitò nelle cupe acque del Brahmaputra, scomparendo sotto la galleria sommersa. Si era appena tuffato, quando un ahu terribile annunciò a Sandokan ed a Tremal- Naik che le due tigri si erano finalmente decise a ritentare l'assalto e vendicare le loro compagne. - In guardia, Tremal-Naik, - disse la Tigre della Malesia. - Vengono a grandi slanci. - Sono pronto a riceverle, - rispose l'intrepido bengalese. - Nella jungla nera ne ho ammazzate un buon numero, quindi sono pure mie vecchie conoscenze. - Le due belve erano sbucate dalla galleria, mugolando ferocemente. Erano due splendidi animali, che avevano raggiunto il loro pieno sviluppo, con un collo da toro. Vedendo i due uomini in piedi, colle armi puntate, dinanzi alla torcia che mandava dei bagliori sanguigni crepitando, si erano fermate, raccogliendosi su loro stesse, come se si preparassero allo slancio supremo. - Fuoco, Tremal-Naik! - aveva gridato precipitosamente Sandokan. Il bengalese scaricò la carabina ed una delle due tigri, colpita sul muso, s'inalberò come un cavallo che riceve una terribile speronata, poi si accasciò. - Salta in acqua, Tremal-Naik! - gridò Sandokan. Il bengalese si precipitò giù per la gradinata, credendosi seguìto dal pirata; questi invece era rimasto fermo dinanzi all'ultima tigre che cercava di avvicinarsi, strisciando lentamente. - Non voglio che nemmeno tu difenda più mai il tesoro del rajah, - disse il formidabile uomo, - La Tigre della Malesia ti aspetta a piè fermo. - La belva aveva risposto con una specie di miagolìo strozzato e aveva fissati i suoi occhi fosforescenti sull'uomo che osava offrirle l'ultima battaglia. - Ti aspetto, - ripeté Sandokan, che impugnava la pistola sua e quella di Yanez. - Spicciati: ho fretta di raggiungere i compagni. - La tigre spalancò la bocca, mostrando i suoi aguzzi denti, duri come l'acciaio e dalla gola uscì una nota spaventevole che terminò in un vero ruggito, quasi simile a quello che irrompe dal petto dei leoni africani, poi scattò. Sandokan, che s'aspettava quell'assalto, fu lesto a gettarsi da una parte, poi sparò i suoi quattro colpi con lentezza studiata, cacciando tutte le quattro palle nel corpo della belva. - La Tigre della Malesia ha vinto un giorno la Tigre dell'India uomo - disse, mentre un sorriso d'orgoglio gli compariva sulle labbra. - Ora ho ucciso anche la tigre dell'India animale. - Si rimise le pistole nella cintura e mentre la fiera esalava l'ultimo respiro, scese la gradinata e si gettò, senza la menoma esitazione, nelle tenebrose acque del Brahmaputra.

. - Credi tu che gli uomini che hanno risalito il fiume, abbiano già circondata la jungla verso oriente? - È impossibile: da quel lato è molto vasta e anche se fossero già sbarcati, sarei più che certo di passare attraverso alle loro sentinelle senza correre il pericolo di venire scorto e fucilato. - Amico, tu tieni nelle tue mani la sorte di tutti, - disse Sandokan con voce grave. - Parti subito, additaci la via che noi dovremo tenere per giungere al villaggio, acquista gli elefanti e non preoccuparti per noi. Questa sera noi leveremo il campo e attraverseremo la jungla a dispetto dei seikki e dei guerrieri assamesi. Ah! mi scordavo una cosa importantissima. Tu sai dove rivedere Kubang? - Sì, nella casa del chitmudgar, che il rajah aveva messo a disposizione del sahib bianco. - Mi basta. - Sandokan, - disse Surama che aveva ancora i lucciconi agli occhi, - che cosa vuoi fare? Non abbandonerai il mio fidanzato è vero? - Un lampo terribile avvampò negli occhi del formidabile uomo. - Fossi sicuro di perdere ambe le braccia, ti giuro, Surama, che Yanez, l'uomo che io amo più che se fosse mio fratello, sarà libero, e che vendicherò anche i miei uomini caduti sotto le zampe dell'elefante-carnefice. Quando saremo sfuggiti all'accerchiamento, il rajah ed il greco avranno da fare i conti con me. - E perché vuoi quegli elefanti? - chiese Tremal-Naik. - Desidero, prima di ridiscendere verso Gauhati, vedere le montagne dove nacque Surama. E poi mi occorre della forza in mano, ed una forza terribile da scaraventare addosso a quei due miserabili. I seikki li tengo in mano e quando vorrò, il demjadar s'incaricherà di metterli a mia disposizione; ma quelli non bastano per spazzare via un trono. Che io possa avere cinque o seicento montanari e vedrai come prenderemo d'assalto la città e come l'Assam intero griderà: Viva la nostra regina! Orsù, facciamo i nostri preparativi. - Ed i prigionieri? - Verranno con noi, per ora. - Due ore prima del tramonto, come già era stato convenuto, i dieci uomini mandati in esplorazione, fecero ritorno alla pagoda. Recavano tutti notizie poco rassicuranti. Molti uomini erano realmente sbarcati nello stagno dei coccodrilli, e si erano accampati sul margine della jungla. - Bindar non si è ingannato, - disse Sandokan. - È proprio contro di noi che si preparano ad operare. Ebbene prenderanno d'assalto la pagoda vuota. - I malesi ed i dayachi si caricarono dei loro fardelli, contenenti tappeti, tende, coperte, munizioni ed un po' di viveri e si misero in marcia su una doppia fila, tenendo nel mezzo i prigioneri e Surama. Tremal-Naik e la Tigre della Malesia, con sei uomini scelti fra i migliori tiratori, aprivano la marcia, mentre Kammamuri e Sambigliong con altri quattro, pure scelti, la chiudevano per coprire la colonna alle spalle. Le tenebre calavano rapide e le grida dei numerosi volatili, appollaiati sulle cime degli altissimi bambù, a poco a poco si spegnevano, mentre invece in lontananza cominciavano a farsi udire le lugubri urla dei cani selvaggi. Di passo in passo che la piccola colonna si allontanava dalla pagoda, la via diventava sempre più difficile, poiché in quella direzione non esistevano sentieri. Gigantesche macchie di bambù, di quando in quando, sbarravano il passo, obbligando gli uomini dell'avanguardia a lavorare colle scimitarre per aprirsi un varco. Fortunatamente di tratto in tratto s'incontravano delle radure abbastanza vaste; ma anche là i fuggiaschi si vedevano costretti ad avanzare con infinite precauzioni, perché il suolo era tutto irto di quelle erbe taglienti e rigide come sciabole, chiamate kalam, che hanno le punte così acute, da traforare le suole delle scarpe. La marcia, in conseguenza di quegli ostacoli, diventava lentissima, mentre Sandokan avrebbe desiderato che fosse stata velocissima, temendo, e non a torto, che anche le truppe, sbarcate nella palude dei coccodrilli, approfittassero delle tenebre per avanzarsi nella jungla, colla speranza di sorprendere gli abitatori della pagoda ancora addormentati. Dopo un'ora la colonna aveva appena percorse due miglia, ed il margine orientale della jungla era ancora lontanissimo. - Eppure bisogna raggiungerlo prima che spunti l'alba, - disse Sandokan a Tremal-Naik, - se vorremo passare inosservati. Gli indiani che hanno risalito il fiume possono essere già sbarcati ed essere in agguato. La nostra salvezza sta nella nostra rapidità e negli elefanti, se Bindar riuscirà a procurarceli. Con quegli animali ci lasceremo indietro seikki e assamesi. - Di quando in quando qualche animale, disturbato dal rumore prodotto dalle scimitarre e dal cadere delle gigantesche canne, balzava fuori dai cespugli vicini e fuggiva a precipizio. Non erano però sempre dei nilgò o degli axis, gli eleganti cervi delle jungle indiane, che scappavano davanti alla colonna: qualche volta era una pantera che mostrava qualche velleità di resistenza, ma che si decideva, dinanzi al lampeggiare delle scimitarre dell'avanguardia, a battere in ritirata, pur ringhiando e brontolando. Altre tre miglia erano state guadagnate ed in lontananza cominciava a delinearsi qualche albero, quando una detonazione debole, si propagò attraverso i bambù della jungla. - La detonazione viene da oriente, è vero, Tremal-Naik? - chiese Sandokan. - Sì, - rispose il bengalese che ascoltava attentamente. - Allora vuol dire che gli indiani hanno raggiunto il margine della jungla. - Un altro sparo, un po' più distinto però, si udì in quel momento e non già verso oriente, bensì verso occidente. - Le due colonne si corrispondono, - riprese Sandokan, la cui fronte si era rabbuiata. - Quella che viene dalla palude dei coccodrilli, ci è ben più vicina dell'altra. - Abbiamo però un vantaggio di tre o quattro miglia per lo meno, - disse Kammamuri. - Che perderemo se riescono a trovare la nostra pista, - rispose Sandokan. - Mentre noi saremo costretti ad aprirci la via, loro invece seguiranno quella che ci lasciamo alle spalle. Affrettiamoci! - L'avanguardia fu accresciuta di altri quattro uomini: due armati di bastoni, fiancheggiavano l'avanguardia tirando furiose legnate a destra ed a manca, per far fuggire i serpenti, i quali preferiscono abitare le macchie più fitte per meglio sorprendere le prede. Già tutte le jungle indiane, sia del settentrione, del centro che del mezzodì, sono infestate di serpenti del minuto, che in meno di quaranta secondi fulminano l'uomo più robusto; di gulabi, chiamati anche serpenti rosa; di cobra-capello, i più terribili della specie, e di cobra manilla, lunghi appena un piede, di colore azzurro e sottilissimi e pure pericolosi, e di colossali rubdira mandali, che raggiungono talvolta la lunghezza di dieci e perfino undici metri, e di pitoni che posseggono una forza così prodigiosa da stritolare, fra le loro possenti spire, i formidabili bufali e perfino le ferocissime tigri. A mezzanotte Sandokan concesse un po' di riposo ai suoi uomini, sia per riguardo a Surama che doveva essere stanchissima, quanto per mandare Kammamuri con due dayachi a fare una rapida esplorazione alle spalle della colonna. Quella corsa, eseguita dal maharatto con velocità straordinaria, non diede però alcun risultato apprezzabile. I guerrieri sbarcati nella baia dei coccodrilli dovevano essere ancora lontani. Una detonazione che rimbombò verso oriente, più chiara della prima, decise Sandokan a levare frettolosamente il campo. Una seconda rispose, dopo qualche minuto, in direzione opposta. - Ci stringono, - disse Sandokan a Tremal-Naik. - Se deviassimo verso il nord? - Ed il villaggio dove Bindar ci aspetta cogli elefanti? - chiese il bengalese. - Lo ritroveremo più tardi. Quello che ora preme di più è di non lasciarci rinchiudere in un cerchio di ferro e di fuoco. - Proviamo, - concluse il bengalese. - Riformarono la colonna e dopo d'aver percorso il tratto di sentiero aperto dall'avanguardia, piegarono decisamente verso il settentrione. L'idea di Sandokan fu ottima, poiché dopo che ebbero percorso altri cinque o seicento metri, la jungla pur rimanendo sempre tale, e conservando le sue inestricabili macchie, cominciò a diradarsi. La colonna incontrava con maggior frequenza degli spazi liberi, dove non vi erano che delle erbe che non avevano la rigidezza dei kalam e dove poteva avanzare con maggior rapidità, però aumentava il pericolo da parte degli abitatori della jungla. Se cervi e caprioli scappavano, di tratto in tratto qualche gigantesco bufalo o qualche rinoceronte, si precipitava all'impazzata addosso all'avanguardia e non voltava il dorso se non dopo d'aver ricevuto una mezza dozzina di palle di pistola nel corpo. Alle due del mattino Sandokan fece fare un secondo alt. Era inquieto, e prima di piegare verso oriente, non volendo discostarsi troppo dalla linea, sulla quale doveva incontrare il villaggio, voleva avere almeno qualche notizia delle due bande indiane, per sapersi regolare sul cammino che doveva tenere. Avendo scoperto un fico baniano, che da solo formava una piccola foresta e la cui cupola immensa era sorretta da parecchie centinaia di tronchi, come il famoso ficus chiamato dagli indiani cobir-bor, che è celebre nel Guzerate, fece nascondere là in mezzo la sua colonna, poi chiamati due uomini e Tremal-Naik, partì alla scoperta, dopo aver raccomandato agli accampati il più assoluto silenzio. - Rifacciamo la via percorsa, - disse al bengalese. - Noi non dobbiamo procedere così alla cieca senza prima sapere se i nostri nemici ci sono alle calcagna o se ci preparano qualche nuovo agguato. - Si erano messi in corsa, seguendo la medesima via tenuta da prima, segnata da bambù abbattuti e da kalam decapitati. Un silenzio profondo regnava sulla jungla. Non si udivano né urla di bighama, né ululati di sciacalli: quello non era un indizio rassicurante. Se estranei non avessero percorso le macchie, quegli eterni cacciatori non sarebbero stati zitti. Se tacevano, ciò voleva dire che erano spaventati. Bastarono venti minuti, a quegli infaticabili corridori, per giungere al sentiero che avevano aperto prima di cambiare direzione. Sandokan, non udendo alcun rumore e non parendogli di scorgere nessun nemico, stava per spingere una breve esplorazione anche su quello, quando Tremal-Naik, che gli stava presso, gli posò energicamente una mano sulle spalle, spingendolo poi quasi con violenza verso un gruppo di banani selvatici, i quali stendevano in tutte le direzioni le loro gigantesche foglie. Erano trascorsi appena due minuti, quando udirono distintamente i bambù ad agitarsi e scricchiolare, poi quattro uomini, armati di fucili, sbucarono nella piccola radura che s'apriva fra le gigantesche canne ed il gruppo di banani. Erano non già seikki, bensì scikari, ossia battitori delle jungle, persone abilissime, anzi impareggiabili nel seguire le piste, sia degli uomini come delle belve feroci. Si erano subito arrestati esaminando attentamente il terreno e rimovendo le erbe che lo coprivano. - Hanno cambiato direzione, Moko - disse uno di quegli scikari. - Non marciano più verso oriente. - Lo vedo, - rispose colui che doveva chiamarsi Moko. - Devono essersi accorti che noi marciamo sulle loro tracce e filano verso il settentrione. - Allora sfuggiranno all'accerchiamento. - E perché? - Non abbiamo truppe in quella direzione. Uno di noi raggiunga i seikki che ci seguono, e noi continuiamo a camminare sulla pista. - Mentre uno partiva di corsa rifacendo la via, gli altri tre si erano rimessi in cammino, curvandosi di quando in quando al suolo, per non perdere di vista le piste della colonna fuggente. Sandokan e Tremal-Naik attesero che si fossero allontanati, poi, a loro volta, si misero in cammino, girando la macchia di banani dal lato opposto. - Dobbiamo gareggiare di velocità e sorpassarli, - disse la Tigre della Malesia. - E se tendessimo invece un agguato a quegli scikari? - chiese Tremal-Naik. - Un colpo di carabina in questo momento tradirebbe la nostra presenza. Penseremo più tardi a sbarazzarci di loro. Corriamo, amici! - Tremal-Naik, che aveva trascorsa la sua gioventù fra le grandi jungle delle Sunderbunds, possedeva un'orientazione naturale, cosa comune a molti popoli dell'oriente, quindi era più che sicuro di condurre i suoi compagni là dove la colonna si era accampata. Per timore però d'incontrare nuovamente gli scikari sui suoi passi, deviò verso ponente, descrivendo un lungo giro. Quella corsa rapidissima, poiché tutti avevano ancora le gambe solide, quantunque il malese e l'indiano non fossero più giovani, durò una ventina di minuti. - Pronti a ripartire senza indugio, - comandò Sandokan ai suoi uomini, quando ebbe raggiunto l'accampamento. - Ci seguono? - chiese Surama. - Hanno scoperto le nostre tracce, - rispose Sandokan. - Non inquietarti però, fanciulla. Noi sfuggiremo all'accerchiamento, dovessimo sfondare qualche linea. - La colonna si riformò, mettendo i prigionieri nel mezzo e partì a passo accelerato. Sandokan aveva raddoppiato gli uomini della retroguardia, temendo da un istante all'altro un attacco da parte degli scikari. Aveva però raccomandato a Kammamuri, che la comandava, di respingerli colle armi bianche non volendo segnalare, con spari, la sua direzione al grosso degli assamesi. La jungla continuava a diradarsi e tendeva a cambiare. Alle macchie intricate e difficili ad attraversarsi, si succedevano, di quando in quando, gruppi d'alberi, per lo più palmizi tara, circondati però da cespugli foltissimi, che avevano delle estensioni straordinarie, ottimi rifugi in caso di pericolo. La marcia diventava sempre più precipitosa. Tutti sentivano per istinto che solo dalla velocità delle gambe, dipendeva la loro salvezza e che stavano per giuocare una partita estremamente pericolosa, anzi la corona di Surama. Che cosa sarebbe avvenuto se le truppe del rajah li avessero schiacciati nella jungla? Chi avrebbe salvato Yanez? La catastrofe sarebbe stata completa e avrebbe segnata la fine assoluta delle ultime e formidabili tigri della gloriosa Mompracem. Alle tre del mattino Kammamuri, che era rimasto sempre colla retroguardia, ad una notevole distanza, raggiunse Sandokan. - Padrone, - disse con voce affannosa per la lunga corsa, - gli scikari ci hanno raggiunti. - Quanti sono? - Sei o sette. - Sono dunque aumentati di numero? - Sembra, Tigre della Malesia. Che cosa devo fare? - Tendere a loro un agguato e distruggerli. - E se fanno fuoco? - Farai il possibile di sorprenderli e d'ucciderli prima che pongano mano alle carabine. - Kammamuri ripartì a corsa sfrenata, mentre la colonna continuava la ritirata fra le macchie e gli alberi. Altri dieci minuti trascorsero, minuti lunghi come ore per Sandokan e per Tremal-Naik, poi delle grida orribili ed un cozzar d'armi ruppero il silenzio, che regnava sulla tenebrosa jungla, seguìto qualche istante dopo da un colpo d'arma da fuoco. - Maledizione! - esclamò Sandokan, fermandosi. - Questo sparo non ci voleva. - E nemmeno questi, - aggiunse Tremal-Naik. A quella detonazione isolata aveva tenuta dietro una scarica di carabine fortissima. Dovevano essere stati i seikki e gli assamesi a far fuoco. - Sono ancora lontani! - esclamò Sandokan, il cui viso si era subito rasserenato. - Un miglio almeno, - rispose Tremal-Naik. - Aspettiamo Kammamuri. - Non attesero molto. Il maharatto giungeva di corsa seguìto dalla retroguardia. - Distrutti? - chiese Sandokan. - Tutti, padrone - rispose Kammamuri. - Disgraziatamente non abbiamo potuto impedire a uno degli scikari di scaricare la sua carabina. - Ha ucciso nessuno dei nostri? - chiese Tremal-Naik. - Ho avuto il tempo di fargli deviare la canna del fucile. - Tu vali una tigre di Mompracem, - disse Sandokan. - Riprendiamo la corsa. Abbiamo qualche miglio di vantaggio e potremo forse aumentarlo. - O perderlo, - disse in quel momento Sambigliong. - Perché? - chiese Sandokan. - I kalam ricominciano al di là di queste macchie e ci faranno nuovamente tribolare, padrone. - Sono secche quelle erbe? - Bruciate dal sole. - Benissimo, avremo, in caso disperato, una riserva preziosa. - In quale modo? - chiese Tremal-Naik. Invece di rispondere Sandokan si bagnò l'estremità del dito pollice e l'alzò come fanno i marinai, per indovinare la direzione del vento. - Soffia da settentrione la brezza, - disse poi. - Allo spuntare del sole sarà più viva. Dio, Maometto, Brahma, Siva e Visnù, tutti uniti, ci proteggono. Dateci la caccia ora, miei cari seikki! Amici, avanti, io rispondo di tutto! -

. - Che gli assamesi ci abbiano raggiunti? - Io credo, padrone, che si tratti invece di qualche viandante che si difende dai cani selvaggi. - Uhm! - fece Tremal-Naik. - Chi oserebbe inoltrarsi nella jungla, solo, di notte? Tu t'inganni, mio bravo Kammamuri. - Si posero tutti in ascolto, ma non udirono nessun altro sparo. Anche i cani non avevano più riprese le loro urla. - Tu che sei un figlio delle jungle, che cosa proponi di fare? - chiese Sandokan rivolgendosi verso Tremal-Naik; - di lanciare un drappello d'uomini in mezzo ai bambù? - Sarebbe un pessimo consiglio, - rispose il bengalese, - che non lo darei a nessuno. Le jungle si prestano troppo bene alle imboscate. - Tu sospetti che si cerchi di attirarci in qualche agguato. - Nel tuo caso sai che cosa farei, amico Sandokan? Leverei senza indugio il campo e prenderei il largo spingendo gli elefanti alla massima corsa. - Ed io accetto la tua proposta, senza cercare nemmeno di discuterla. - Poi alzando la voce, comandò: - Ohe, cornac! Fate alzare gli elefanti e fate prendere a loro la corsa. Tutti pronti a salire! Vi accordo, amici, cinque soli minuti per ripiegare le tende. - Malesi e dayachi si erano slanciati attraverso l'accampamento, come uno stormo di avvoltoi, sciogliendo le tende e arrotolando con rapidità fulminea tappeti, materassini e coperte, mentre Sandokan, Tremal-Naik e Kammamuri, varcata la cinta improvvisata, si spingevano per qualche centinaio di passi nella jungla, colla speranza di scoprire qualche cosa. I cinque minuti non erano ancora trascorsi, che gli elefanti si trovavano pronti a ripartire, quantunque dimostrassero il loro mal umore per quella inaspettata marcia, con sordi barriti e con un alzare e abbassare d'orecchi. Dayachi, malesi e prigionieri erano tutti al loro posto, chi entro le casse, chi sui larghi dorsi dei pachidermi, tenendosi ben stretti alle corde. Sandokan ed i suoi compagni, dopo aver fatta una breve punta senza nulla vedere di sospetto, si erano affrettati, a loro volta, a raggiungere l'elefante-pilota, il solo che si mantenesse tranquillo. - Siamo pronti? - chiese Sandokan quando si fu accomodato nella cassa a fianco di Surama. - Tutti! - risposero ad una voce malesi e dayachi. - Via! - Gli elefanti, quasi avessero compreso che un grave pericolo minacciava i loro conduttori, avevano cessato di barrire ed avevano preso un vero galoppo, e così rapido, che difficilmente un buon cavallo avrebbe potuto tenere dietro a loro. A vedere quelle masse enormi, che hanno qualche cosa di antidiluviano, si giudicherebbe che essi fossero eccessivamente tardivi, mentre invece posseggono un'agilità straordinaria ed una forza di resistenza incredibile, che permette a loro di gareggiare, e senza svantaggio, coi mahari, i famosi corridori del deserto di Sahara. Avevano appena preso lo slancio, quando un grido di rabbia ed insieme d'angoscia, sfuggì da tutte le bocche. A destra ed a sinistra, dalla via presa dai pachidermi, come per un segnale convenuto, i bambù e le erbe secche della jungla, arse dal sole, avevano preso fuoco su diversi punti! ... - Me l'aspettavo questo brutto giuoco! - esclamò Sandokan. - Cornac! Spingete la corsa, o morremo tutti arrostiti! - I conduttori, senza attendere quel comando, vedendo il fuoco propagarsi con rapidità incredibile, avevano già afferrati i loro corti arpioni, lasciandoli cadere violentemente sui crani dei pachidermi, lanciando contemporaneamente fischi stridenti. Vampe immense s'alzavano di già minacciando di rinchiudere i fuggiaschi in un cerchio di fuoco. I malesi ed i dayachi avevano aperto il fuoco, sparando all'impazzata in tutte le direzioni, mentre gli elefanti, atterriti, raddoppiavano lo slancio, barrendo spaventosamente e sfondando, come mostruose catapulte, le folte macchie che si paravano a loro dinanzi. Quella fuga rapidissima aveva qualche cosa di spaventoso ed insieme di fantastico. Cominciando a cadere le scintille addosso agli elefanti e anche sulle persone che stavano nelle casse, Sandokan sciolse rapidamente una coperta e la gettò addosso a Surama, avvolgendola completamente, mentre Tremal-Naik gridava agli altri: - Sciogliete le tende ed i materassini! Copritevi e riparate le groppe degli elefanti! - L'ordine fu subito eseguito ed appena in tempo, poiché le due linee di fuoco, ormai diventate giganti, stavano per raggiungersi e chiudere completamente la ritirata. - Poggia verso il fiume, cornac! - comandò Sandokan che conservava, anche in quel terribile momento, tutta la sua calma di grande capitano. - Là sta la nostra salvezza! Getta questa coperta sulla testa dell'elefante e bendagli gli occhi! Fate altrettanto voialtri! Su, forza, attraverso al fuoco! - I pachidermi, spaventati di vedersi dinanzi quelle cortine fiammeggianti, pareva che esitassero a proseguire la corsa. Quando però si sentirono avvolgere la testa dalle coperte e dalle tende, presi da un maggior spavento, si slanciarono innanzi all'impazzata, mandando clamori orribili. Le due cortine di fuoco non distavano che pochi metri l'una dall'altra. Ancora un mezzo minuto di ritardo e si sarebbero raggiunte. Scintille, cenere ardente, foglie accese, cadevano da tutte le parti e l'aria minacciava di diventare, da un istante all'altro, irrespirabile. I cinque elefanti giunsero, come un uragano, là dove le due linee fiammeggianti stavano per operare la loro congiunzione, e attraversarono il passo coll'impeto dei proiettili, raddoppiando i loro spaventevoli clamori. Quattro o cinque colpi di carabina li salutarono al passaggio, sparati però a una così notevole distanza, che le palle non produssero alcun effetto contro il grosso cuoio che rivestiva quei colossi. I cornac s'affrettarono a togliere le coperte che avvolgevano le teste degli animali, mentre i malesi ed i dayachi gettarono via materassini e tende, che avevano già preso fuoco. - Non credevo di avere tanta fortuna, - disse Sandokan che appariva di buon umore. - Se gli elefanti continueranno questa corsa indiavolata per tre o quattro ore, non avremo più nulla da temere da parte degli assamesi. Che cosa ne dici, Tremal-Naik? - Dico, - rispose il bengalese, - che da questo momento noi potremo proseguire tranquillamente il nostro viaggio verso Sadhja, senza essere più disturbati. È vero, Bindar? - Sì, sahib - rispose il fedele giovanotto. - Tra due giorni noi saremo fra le montagne dove regnava il padre della principessa, il valoroso Mahur. - Come rivedrò volentieri il mio paese natio! - esclamò la futura regina dell'Assam, con un sospiro. - Purché si ricordino ancora del capo dei kotteri. - Non ci sono io forse? - disse Bindar. - Mio padre era uno dei più fedeli servitori del tuo e, lassù, fra le montagne, ho molti parenti. Basterà che io ti presenti a Khampur. - Chi è costui? - Il nuovo capo dei kotteri. Era un amico intimo di tuo padre e sarà ben lieto di rivederti e di mettere a tua disposizione tutti i suoi guerrieri. Egli odia Sindhia e non si rifiuterà di prestarti man forte. - Speriamolo, - rispose Surama. - A me basta di liberare il sahib bianco, che tanto amo. - Lo rivedrai più presto di quello che credi, - disse Sandokan. - Non lascerò l'Assam, checché debba accadere, senza aver prima strappato il mio fratellino bianco dalle zampe di quell'ubriacone di Sindhia e senza aver saldato i conti con quel cane di greco, causa principale di tutte le nostre disgrazie. Fra quindici giorni, e fors'anche prima, tutto sarà finito e andrò a respirare una boccata d'aria marina, della quale sento un bisogno grandissimo. - Come! Non ti fermerai alla mia corte, ammesso che io possa diventare la rhani dell'Assam? - Sì, per un paio di settimane, ma poi tornerò laggiù, al Borneo, - disse Sandokan che era diventato improvvisamente cupo. - Anche nelle mie vene scorre sangue di rajah ed un giorno mio padre fu potente, e dominava una regione forse più vasta dell'Assam. Pensiamo a dare ora un trono a te ed a Yanez: poi penserò a posare anche sul mio capo una corona. Sono vent'anni che medito una vendetta e sono vent'anni che un miserabile straniero siede sul trono dei miei avi, dopo d'aver spazzato mio padre, mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle! Quel giorno che comparirò sulle rive del lago di Kini Ballù sarà un giorno di sangue e di fuoco. - Sandokan! - esclamarono Tremal-Naik e Surama. Il terribile pirata si era alzato cogli occhi accesi, il viso alterato da un furore spaventevole, agitando la destra come se brandisse una scimitarra assetata di sangue e di stragi, ma dopo qualche istante tornò a sedersi, calmo come prima, dicendo con voce rauca: - Aspettiamo quel giorno! - Caricò rabbiosamente la pipa, l'accese e si mise a fumare con furia, guardando la jungla che fiammeggiava sempre dietro gli elefanti. Tremal-Naik gli batté su una spalla. - Quel giorno, - gli disse, - spero che mi avrai per compagno. - Ti accetto fin d'ora, - rispose la Tigre della Malesia. - Ed io, - disse Surama, - metterò a tua disposizione tutti i tesori dell'Assam e tutti i seikki. - Grazie fanciulla, ma a tuttociò, preferisco Yanez, il mio buon genio. Il principe consorte potrà assentarsi per un paio di mesi. - Anche per dodici se lo vorrai. - Gli elefanti, ancora spaventati dai bagliori dell'incendio, continuavano intanto la loro rapidissima corsa, ansando fortemente ed imprimendo alle casse tali scosse, che le persone che le montavano, di quando in quando, cadevano le une nelle braccia delle altre. La jungla continuava ad estendersi lungo la riva destra del Brahmaputra, però a poco a poco tendeva a cambiare. I bambù sparivano per lasciare il posto alle alte graminacee, ai folti cespugli, alle mangifere che formavano dei superbi gruppi, ai tara ed ai latania. Era però sempre una regione senza villaggi, senza capanne, non amando gli indiani abitare là dove imperano le tigri, i rinoceronti, le pantere ed i serpenti dal morso mortale. Quella corsa velocissima durò fino alle dieci del mattino, poi Sandokan, vedendo che gli elefanti rallentavano, diede il segnale della fermata. Ormai gli assamesi non erano più da temersi. Anche se avessero avuto dei cavalli di buona razza, non avrebbero potuto tenere dietro a quei colossi, che avevano mantenuto per cinque o sei ore una velocità assolutamente straordinaria. Quella fermata si prolungò fino alle quattro del pomeriggio, poi gli elefanti ripresero, di buon umore, la loro corsa, senza aver bisogno di essere aizzati dai loro conduttori, avendo trovato, durante quel riposo, un'abbondante provvista di typha e di rami di bâr (ficus indica), il cibo che preferiscono sopra tutti gli altri, quando non trovano delle foglie di pipal (ficus religiosa). A mezzanotte marciavano ancora, avanzandosi verso le non lontane catene di montagne, abitate dai sudditi del defunto Mahur, il padre di Surama. Le jungle erano a poco a poco scomparse, per lasciare il campo a pianure ondulate e coperte da fitti gruppi di alberi, all'ombra dei quali, cominciavano a succedersi piccoli villaggi, circondati da risaie. Un'altra fermata fu fatta che si prolungò fino alle sette del mattino: poi gli instancabili elefanti ripresero la corsa rimontando verso il nord-est, dove già si delineavano alcune catene di altissime montagne, coperte da foreste immense. Altre due tappe, poi i pachidermi, sempre agili e sempre rapidi, salivano il giorno dopo i primi scaglioni di quelle boscose catene, innalzandosi gradatamente. Il paese cominciava a popolarsi. Minuscoli villaggi di quando in quando apparivano sui declivi, in mezzo a folte macchie di mangifere e di tamarindi stupendi. - Ecco i sudditi di mio padre! - diceva Surama con un sospiro. - Quando sapranno che la figlia del vecchio capo dei kotteri, dopo tanti anni, è ritornata, non le rifiuteranno il loro appoggio. - Lo spero, - rispose Sandokan. Quella sera l'accampamento fu piantato in mezzo alle foltissime foreste e mai notte fu più calma di quella, non abbondando sulle montagne né cani selvaggi, né sciacalli, ed essendo anche piuttosto rare le tigri, le quali preferiscono il clima umido e caldo delle jungle. La sveglia fu suonata da Bindar, che possedeva un ramsinga di rame, alle quattro del mattino, desiderando tutti di riposarsi alla sera a Sadhja, l'antica residenza del capo dei kotteri. Gli elefanti, ben riposati e anche ben pasciuti, avendo trovato dei banian da saccheggiare, avevano subito ripresa allegramente la marcia, costeggiando una enorme spaccatura, in fondo alla quale rumoreggiava il Brahmaputra, che forse dopo migliaia e migliaia d'anni, si era aperto un varco fra quelle montagne, per raggiungere il sacro Gange e riversare le sue acque nel golfo del Bengala. Quantunque le chine fossero faticosissime, gli elefanti procedettero sempre con grande rapidità; dimostrando ancora una volta la loro incredibile resistenza e la loro agilità assolutamente straordinaria. Verso il tramonto la carovana, dopo aver superate altre altissime montagne, sempre ricche di boscaglie, poiché la vegetazione dell'India non cessa che là dove cominciano le nevi ed i ghiacciai, entrava finalmente in Sadhja, la capitale del piccolo stato, quasi indipendente, ossia dei kotteri, dei montanari guerrieri, i più valorosi dell'Assam. Bindar guidò i suoi padroni verso una vasta capanna, circondata da un giardino, dimora di un suo parente, la quale si trovava un po' fuori dal bastioni della cittadella, desiderando non suscitare, almeno pel momento, la curiosità della popolazione. Essendo già prossima la notte, quasi nessuno aveva fatto attenzione all'arrivo della carovana, trovandosi la maggior parte di quei montanari nelle loro casette a cenare. Due vecchi indiani, parenti del giovane, accolsero cortesemente gli ospiti raccomandati dal nipote, mettendo a loro disposizione tutte le provviste che possedevano. - Cenate senza preoccuparvi di me, - disse Bindar, - e consideratevi come in casa vostra. Io vado ad avvertire Khampur del vostro arrivo. - Come accoglierà la notizia? - chiese Sandokan che appariva un po' pensieroso. - Khampur era l'amico devoto di Mahur, il grande capo dei kotteri guerrieri, e sarà ben felice di rivedere la figlia del forte montanaro. E poi so che odia mortalmente Sindhia e che non gli ha mai perdonato d'aver venduta, come una miserabile schiava, l'ultima principessa di Sadhja. - Ciò detto il bravo giovanotto, dopo aver presa per precauzione, forse eccessiva, la sua carabina, uscì entrando in città. Sandokan si rivolse al capo dei seikki che gli sedeva di fronte e gli chiese: - Posso sempre contare sulla fedeltà dei tuoi uomini? - Sempre, sahib - rispose il demjadar. - Quando tu lo vorrai, spiegheranno la tua bandiera, se ne hai una, e apriranno il fuoco contro il palazzo reale. - Ho la mia bandiera fra i miei bagagli, - rispose Sandokan, con uno strano sorriso. - È tutta rossa con tre teste di tigre. Sanno gli inglesi quanto vale. - Dammela ed i miei seikki la faranno sventolare dinanzi al rajah. - Sì, domani, quando ridiscenderemo il Brahmaputra, - rispose Sandokan. - Sarà la nuova bandiera dell'Assam, è vero Surama? - E che io conserverò religiosamente se diventerò veramente la rhani - disse la giovane principessa. - Così mi ricorderò sempre di dover la mia corona alle Tigri di Mompracem. - Avevano appena terminata la cena, quando Bindar entrò seguìto da un bel tipo d'indiano sulla quarantina, vestito come un ricco kaltano, ossia con un costume mezzo orientale, con una larga fascia di seta rossa piena di pistoloni e di armi da taglio. Era un uomo di statura imponente, vigoroso come uno jungli-kudgia, barbuto come un brigante della montagna, con due occhi nerissimi e sfolgoranti ed i lineamenti energici. Solo a vederlo si capiva che doveva essere un gran capo e soprattutto un uomo d'azione. Prima ancora che Sandokan ed i suoi compagni si fossero alzati, mosse diritto verso Surama e le si inginocchiò dinanzi, dicendole con voce alterata da una profonda commozione: - Salute alla figlia del valoroso Mahur! Tu non puoi essere che quella. - La giovane principessa con un rapido gesto l'aveva rialzato. - Il mio primo ministro non deve rimanere ai miei piedi, se io un giorno riuscirò ad atterrare Sindhia, - disse. - Io ... tuo primo ministro, rhani! - esclamò il montanaro, meravigliato. - Se, coll'aiuto di queste persone che mi circondano, che per valore valgono mille uomini ciascuno, otterrò la corona che mi spetta. - Khampur gettò uno sguardo sui malesi e sui dayachi, fermandolo sulla Tigre della Malesia. - È quello il capo, è vero, Surama? - chiese. - Un uomo invincibile. - Lo si vede, - rispose l'assamese. - Me ne intendo di uomini. Quello ha la folgore negli occhi. - E anche la mano lesta, - disse Sandokan sorridendo e avanzandosi verso il montanaro, che pareva aspettasse una vigorosa stretta di mano. - Tu sahib, sei un valoroso, - disse il montanaro, - e ti ringrazio di aver raccolta e protetta la figlia del mio amico, il prode Mahur. Bindar tutto mi ha raccontato: che cosa posso fare? Che cosa vuoi tu? Parla: Khampur è pronto a dare la sua vita, se fosse necessario, per la felicità di Surama. - Io non desidero da te che mille uomini della montagna, risoluti a qualunque sbaraglio e le barche necessarie per condurli a Goalpara, - rispose Sandokan. - Puoi tu fornirmeli? - Anche duemila se ne vuoi, - rispose il montanaro. - Quando i miei sudditi domani sapranno che la figlia di Mahur è ritornata, affileranno subito le loro armi e staccheranno dalle pareti i loro scudi di pelle di bufalo. - A noi basta la metà purché siano scelti e valorosi, - disse Sandokan. - Noi possiamo contare sulla guardia del rajah, che è formata tutta di seikki provati al fuoco, è vero demjadar? - Quando tu lo vorrai, sahib, saranno pronti, - rispose il capo dei mercenari. - Non avrò da dire a loro che una parola. - Khampur guardò attentamente il seikko, poi disse con una certa soddisfazione: - Ecco un vero guerriero: conosco il valore di questi montanari. - Quando potranno essere pronte le barche? - chiese Sandokan. - Domani dopo mezzodì i miei uomini saranno pronti a discendere il Brahmaputra. - Di quanti legni puoi disporre? - Ho una ventina di piccoli legni fra poluar e bangle e potremo caricare su ognuno una cinquantina d'uomini, - rispose Khampur. - Quanto credi che impiegheremo a giungere a Gauhati? - Non più di due giorni, se non troveremo degli ostacoli. So che il rajah tiene una flottiglia sul fiume. - Hai delle bocche da fuoco? - Una cinquantina di falconetti. - S'incaricheranno i miei uomini di provarli sulle barche del rajah, se cercheranno di sbarrarci il passo, - disse Sandokan. - D'altronde non ci avanzeremo che con estrema prudenza e cercheremo di non destare sospetti. È necessario piombare improvvisamente sulla capitale e prenderla d'assalto con un colpo di mano. - Tu farai, sahib, quello che meglio crederai, - disse Khampur. - I miei uomini ti seguiranno dovunque. Vado a far battere il tumburà, onde domani siano qui tutti i guerrieri della montagna. - S'inginocchiò dinanzi a Surama e le baciò replicatamente l'orlo della veste, omaggio che si rende solo ai sovrani e alle principesse del sangue; e dopo d'ager augurato a tutti la buona notte, uscì rapidamente rientrando nella cittadella.

Lo jungli-kudgia scoperto da Tremal-Naik pascolava tranquillamente lungo il margine della macchia, senza manifestare alcuna apprensione, quantunque quegli animali abbiano un udito finissimo, che li compensa largamente della loro pessima vista. Fu appunto quella tranquillità che non fece buon effetto sul bengalese, che conosceva profondamente le abitudini di quegli animali, avendoli già cacciati per molti anni nelle Sunderbunds del Gange. - Quella calma non mi rassicura affatto, - disse a mezza voce a Sandokan, che strisciava a qualche passo di distanza. - Non deve essere solo. Già di solito marciano a branchi e piuttosto numerosi. - Ammazziamo quello li intanto, - disse Sandokan che non voleva rinunciare a quella grossa preda. - Dietro di noi abbiamo i malesi imboscati. A me il primo colpo. - Lo jungli-kudgia si presentava magnificamente per un buon colpo, poiché in quel momento offriva al tiratore il suo largo petto, lasciando così indifeso il cuore. Una detonazione secca rimbombò, facendo scappare le gru ed i pavoni, che stavano nascosti in mezzo ai bambù. Il bisonte indiano, colpito un po' sotto la spalla sinistra, mandò un lungo muggito, abbassò rapidamente la testa e si avventò verso il luogo ove vedeva ancora ondeggiare la nuvola di fumo. Quella corsa furibonda non durò più di due secondi, poiché stramazzò pesantemente a meno di venti passi dal cacciatore, agitando pazzamente le zampe. Era appena caduto, quando i cespugli s'aprirono impetuosamente, sotto un urto irresistibile e quindici o venti bufali, di statura gigantesca, irruppero attraverso la jungla, lanciati ad una carica spaventosa. - Gambe, Sandokan! - urlò Tremal-Naik, facendo fuoco a casaccio, quantunque fosse sicuro di non arrestare quei furibondi colossi. I due cacciatori che avevano le ali ai piedi, in pochi istanti raggiunsero i malesi, traendo i bufali nella loro corsa sfrenata; poi balzarono in mezzo al pantano, salvandosi a tempo in mezzo agli elefanti. Alle loro grida d'allarme, tutti gli accampati, credendo a un nuovo attacco degli assamesi, erano balzati in piedi, afferrando le carabine, mentre i cornac facevano rialzare precipitosamente i pachidermi, che si erano coricati per meglio brucare le alte e durissime typha. I bisonti, dopo essersi arrestati un momento presso i cespugli, dove poco prima si erano tenuti nascosti i malesi, sperando forse che i cacciatori si fossero imboscati là in mezzo, avevano ripresa la loro carica indiavolata, tutto abbattendo sul loro passaggio. Parevano tanti enormi proiettili scagliati da qualche colossale pezzo di marina, tanto era il loro impeto. I bambù, che come si sa, sono resistentissimi, cadevano falciati dai robusti zoccoli di quei demoni, come se fossero semplici giunchi. Giunti dinanzi allo strato fangoso, s'arrestarono di colpo, piegandosi fino a terra e accavallandosi gli uni sopra gli altri. - Per Siva! - esclamò Kammamuri, raggiungendo rapidamente i suoi padroni, che si erano messi in salvo sul loro elefante. - Altro che assamesi! Questi sono ben più pericolosi di quei poltroni! ... - Avanti, cornac! - gridò Tremal-Naik. - Se passano lo strato fangoso, assaliranno gli elefanti. - E voialtri aprite il fuoco! - comandò Sandokan, vedendo che anche tutti i suoi uomini erano già montati. Otto o dieci colpi di carabina rimbombarono, ma non ottennero altro effetto, che quello di rendere maggiormente furiosi gli jungli-kudgia. Gli elefanti, aizzati dai cornac, si erano già lanciati coraggiosamente nella fanghiglia, avanzandosi frettolosamente, temendo di dover provare la robustezza e l'acutezza di quelle terribili corna. I bisonti, vedendoli allontanarsi, anziché calmarsi si misero a muggire spaventosamente ed a spiccare salti; poi si provarono a gettarsi a loro volta nel pantano, ma accorgendosi che le loro gambe, che non avevano lo spessore di quelle degli elefanti, sprofondavano interamente, rimontarono lo strato duro, seguendo su quello i fuggiaschi. - Che non vogliano lasciarci? - chiese Sandokan che cominciava ad inquietarsi. - Avrei desiderato meglio incontrare gli assamesi. - Quegli animali sono testardi ed eccessivamente vendicativi - rispose Tremal- Naik. - Aspetteranno che i nostri elefanti trovino un terreno solido per darci battaglia. - Spero che prima di allora saranno ben decimati. - Non ci rimane altro da fare, amico. - Non sono che a trecento metri, e le nostre carabine hanno una portata più che doppia. - Gli è che il dondolìo degli elefanti renderà il nostro tiro molto difficile. - Sandokan prese la carabina, si piantò per bene sulle gambe, appoggiando il petto contro l'orlo superiore della cassa, e puntò l'arma, aspettando che l'elefante pilota trovasse qualche punto su cui poggiare con minor violenza, le sue zampacce. Trascorse qualche minuto, poi Sandokan lasciò partire il colpo, approfittando d'un istante di sosta del pachiderma. La palla, quantunque ben diretta, andò a spezzare una delle corna del bisonte, che guidava la truppa e che era il più colossale di tutti. L'animale si fermò un momento, sorpreso, senza dubbio, di vedersi cadere dinanzi una delle sue principali difese; poi riprese tranquillamente la marcia, come se nulla fosse avvenuto. - Saccaroa! - esclamò Sandokan, deponendo l'arma ancora fumante, per prenderne un'altra che gli porgeva Kammamuri. - Quegli animali valgono i rinoceronti. - Te l'ho detto, - disse Tremal-Naik. Sandokan tornò a puntare l'arma, mirando ancora il capo-fila, essendosi promesso di abbatterlo a qualunque costo. Due minuti dopo un altro sparo rimbombava e la palla passava oltre senza aver colpito nessuno del branco. - Tu sprechi il piombo, - disse il bengalese. - Ho ancora una palla. - Confesserai almeno che si spara male, stando sul dorso d'un elefante, e che per distruggere tutto quel branco, dovremmo consumar tutte le munizioni. - Ciò che non desidero affatto, non sapendo se gli assamesi ci seguono ancora o, se sono tornati indietro. - Uhm! Lo dubito: sono testardi come gli jungli-kudgia. - Riprese la carabina e per la terza volta l'alzò, aspettando il momento favorevole. Una nuova fermata dell'elefante pilota, il quale era sprofondato nel fango fino alle ginocchia, rimanendo immobile per qualche istante, gli permise di sparare il suo ultimo colpo. Il bisonte mandò un lunghissimo muggito, poi si fermò bruscamente abbassando la testa fino quasi al suolo, colla lingua pendente. Tutto il branco si era fermato, guardandolo e muggendo. Aveva compreso che il capo doveva essere stato gravemente ferito. Il colossale bisonte non accennava a muoversi. Tenera sempre la testa bassa e dalla sua bocca, assieme ad una bava sanguigna, uscivano dei rauchi muggiti, che diventavano rapidamente fiochi. - Sta per morire! - esclamò Sandokan. In quel momento il bisonte cadde sulle ginocchia, affondando il muso nel fango. Tentò ancora di rimettersi in piedi; le forze invece bruscamente gli mancarono e si rovesciò su un fianco. - Pare che sia proprio morto, è vero Tremal-Naik? - disse Sandokan, tutto lieto di quel successo insperato. - Tu hai provveduto agli sciacalli ed ai cani selvaggi una buona preda, che avrebbe servito a meraviglia anche a noi, - rispose il bengalese. - Tu tiri, come Gengis-khan lanciava le sue frecce. - Non lo conosco, né mi occupo di sapere chi sia. - Un meraviglioso conduttore di esercito ed un famoso arciere. - I bisonti, dopo d'aver fiutato a più riprese il loro capo e di aver manifestata la loro rabbia con muggiti possenti, avevano ripresa la marcia, camminando quasi parallelamente agli elefanti. Vi era da augurarsi che quel pantano si prolungasse indefinitivamente, o almeno fino alle falde delle montagne di Sadhja, ciò che era impossibile a sperarsi. Per altre due ore gli elefanti continuarono a marciare, ostinatamente seguìti dai bisonti. Trovato un altro strato solido, che formava come un isolotto in mezzo alla fanghiglia della circonferenza di tre o quattrocento passi e coperto d'alberi di varie specie, Sandokan comandò una seconda fermata. Era una precauzione necessaria, poiché il mezzodì era già trascorso e continuando ad avanzare, senza alcun riparo, potevano buscarsi qualche terribile colpo di sole, non meno fatale del morso dei velenosissimi cobra-capello. D'altronde tutti avevano fame, non avendo potuto prepararsi la colazione durante la prima fermata, in causa dell'attacco furioso degli jungli-kudgia. Il luogo non era stato scelto male, poiché un largo canale fangoso li difendeva dall'attacco di quei testardi animali; e poi su quell'isolotto assieme a parecchie palme ed a piante d'areca, si vedevano degli ham, ossia dei manghi, carichi di frutta oblunghe di tre o quattro pollici di lunghezza, che sotto la buccia dura e verdognola, contengono una polpa giallastra, d'un sapore aromatico squisitissimo e salubre se ben matura. Il campo fu subito improvvisato alla meglio, all'ombra delle piante, poiché anche gli elefanti soffrono assai il calore; anzi tenendoli troppo esposti, corrono il pericolo di veder la loro pelle screpolarsi, formando così delle piaghe nella carne viva, che sono talvolta difficilissime a guarirsi. Gli è perciò che i loro cornac li spalmano di grasso, specialmente sulla testa. Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik. Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l'isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto. La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane. La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato. I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell'isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia. Percorso l'isolotto tutto all'ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro. Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate. Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate. - Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, - disse Sandokan. - È questo il momento di decimarli. - Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva. - Fucilatemi quelle canaglie, - disse a loro Sandokan. - È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. - Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale. I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all'accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz'essere più disturbati. Verso le quattro pomeridiane, quando l'intenso calore cominciava a scemare, l'accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse. Mezz'ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d'un giallo delicato e dal profumo delizioso. Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano. Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti. Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti. Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti. - In guardia, signori! - gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal- Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano. - Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, - disse Tremal-Naik. - Ancora quelle canaglie! - esclamò Sandokan furioso. - T'ho già detto che tu non li conosci. - Questa volta li stermineremo! - Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. - Sandokan alzò la voce. - Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. - Gli elefanti, malgrado i colpi d'arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi. Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l'urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali. I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli. Gli jungli-kudgia s'avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

. - Mi sembra d'aver veduto degli uomini intorno al mio letto e di aver udito degli strani discorsi e poi mi sembra che mi abbiano dato da bere qualche cosa, come un liquore fortissimo e molto amaro. Qualche cosa di vero può essere avvenuto poiché quando mi sono svegliata, in questo letto, avevo il cervello offuscato e le membra mi tremavano come se avessi bevuto del bâng. - Cos'è? - Una mistura d'oppio. - La fronte di Sandokan si corrugò. - Sei ben certa, Surama, che non sia stato un sogno? - Non te lo saprei dire con piena sicurezza, - rispose la bella assamese. - Quel tremito però non mi parve naturale. - Ecco dove sta il pericolo. Voi indiani possedete delle droghe misteriose che esaltano le persone e che le costringono a parlare. Tremal-Naik m'ha parlato un giorno d'una certa youma. - Non devono aver adoperata quella pianta, perché produce una febbre intensissima, che dura parecchie ore. No, se è vero che mi hanno dato da bere qualche cosa, deve trattarsi d'altro. - Pensa bene, fanciulla, perché se tu hai parlato puoi aver compromesso non solo me e te, bensì anche Yanez. - E se, come t'ho detto, fosse stato un sogno? - Il tuo cervello, se fosse stato un sogno, non sarebbe rimasto offuscato. - Anche questo è vero. - Se vi fosse qualche mezzo per poter sapere quello che hai detto! - mormorò Sandokan. - Chissà, forse Tremal-Naik può trovarlo; egli conosce molti narcotici. - Io sono pronta a bere tutto quello che vorrai, Sandokan. - Di questa faccenda ci occuperemo più tardi. - E tu come hai saputo che io ero stata rapita? - chiese Surama. - Ho preso quel cane di fakiro e l'ho costretto a confessare. È il favorito del rajah che t'ha fatta rapire, probabilmente per vendicarsi di quel colpo di scimitarra. Anche questo è affare che poco interessa pel momento. È un giuoco che io gli restituirò questa notte istessa. Tutto è ormai pronto per la tua evasione. Dove mettono le tue finestre? - Sulla varanga del secondo piano. - Hai paura ad affidarti a una fune ben solida? - Io sono pronta a fare tutto quello che vorrai. - Si dorme presto in questa casa? - Alle undici tutti i lumi sono spenti, - rispose Surama. - A mezzanotte sii pronta. Dorme nessuna serva qui? - So che ve ne sono due nella camera attigua. - Vengono da te prima di coricarsi? - Sì, per accompagnarmi a letto. - Hai qualche bottiglia di liquore da offrire loro? - Anche del vino europeo: il chitmudgar non mi lascia mancare nulla. - Sandokan si frugò nella fascia ed estrasse una scatola di metallo contenente parecchi tubetti a vari colori. Ne prese uno, lo esaminò attentamente, poi lo porse a Surama dicendole: - La polvere che sta qui dentro, la scioglierai in una bottiglia, o di liquore o di vino, e poi offrirai a ciascuna delle due donne un bicchierino di quella mistura, non di più. Il narcotico è potente e assorbito in dose superiore, potrebbe far dormire per sempre chi lo prende. Ora un'altra domanda e poi ti lascerò sola. - Parla signore, - disse Surama nascondendosi in seno il tubetto. - Credi tu che i montanari di tuo padre si siano scordati di te? - Se mi presentassi a loro e dicessi che io sono Surama, la piccola figlia del famoso guerriero, sono più che certa che prenderebbero le armi per aiutare te e Yanez in questa difficile impresa. Pensi tu forse di condurmi fra di loro? - Ciò può essere necessario per metterti al sicuro, - rispose la Tigre della Malesia. - Un elefante quanto potrebbe impiegare per giungere fra quelle montagne? - Non più di cinque giorni. - Ne so abbastanza. Addio, Surama, e sii pronta per la mezzanotte. - Strinse la mano alla futura principessa dell'Assam e tornò in punta di piedi nella sua stanzetta. - Tutto va a gonfie vele, - mormorò. - Se non sopravverranno degli incidenti, domani noi saremo nella jungla di Benar e perfettamente al sicuro. Poi vedremo che cosa ci converrà fare. - Si sdraiò sul suo lettuccio mettendo su uno sgabello una bottiglia di arak, accese la pipa ed attese tranquillamente che giungesse il momento di agire e che il giovane sudra si presentasse. La mezzanotte non era lontana, quando un leggero colpo battuto alla porta lo fece scendere dal letto. - Deve essere lui, - mormorò. - Ecco un bravo ragazzo che farà una discreta fortuna. - Aprì senza far rumore e si vide dinanzi il servo del maggiordomo. - Dunque - gli chiese Sandokan. - Dormono tutti. - Sono tutti spenti i lumi? - Sì, sahib. - Hai veduto nessuno a passeggiare sulla piazza? - Un gruppo d'uomini. - Sono i miei amici. Prendi la fune. - È qui, sahib. - Seguimi e non aver paura. Da questo momento tu sei ai miei servigi. - Grazie, padrone. - Sandokan aprì la porta che metteva nel corridoio e bussò replicatamente a quella della stanza di Surama che fu subito aperta. La giovane assamese aveva abbassato il lucignolo della lampada per far credere che dormiva e si era gettata sulla testa una larga fascia di seta, che la nascondeva quasi tutta. - Eccomi, signore - disse a Sandokan. - Sono pronta a scendere. - Le tue serve? - Dormono profondamente. - Hanno bevuto il narcotico? - Da più di un'ora. - Prima di domani sera non si sveglieranno, - disse Sandokan. - Siamo quindi sicuri di non essere disturbati da parte loro. - Aprì una finestra e passò sulla varanga accostandosi silenziosamente al parapetto. Quantunque l'oscurità fosse fitta, scorse subito alcune ombre umane sfilare silenziosamente dinanzi al palazzo del favorito. - Devono essere Tremal-Naik, Kammamuri e i miei malesi, - mormorò. - Speriamo che tutto vada bene. - Svolse la corda, legò un capo ad una colonna di legno della varanga e gettò l'altro nel vuoto, mandando nel medesimo tempo un leggero sibilo che imitava perfettamente quello del terribilissimo cobra-capello. Un segnale identico rispose poco dopo. - È lui - disse Sandokan. - All'opera! - Tornò verso la finestra, prese fra le sue braccia Surama e s'avviò verso la fune dicendo al sudra: - Scendi pel primo tu. - Sì, padrone. - E fa' presto. - Il giovanotto varcò il parapetto e scomparve. - Tu incrocia le tue mani attorno al mio collo, - disse poscia Sandokan alla bella assamese, - e dammi la tua fascia di seta, onde ti leghi a me. - Non sarebbe necessario, - rispose la principessa. - Le mie braccia sono robuste. - Non si sa mai quello che può accadere. - Prese la sciarpa, strinse Surama contro il proprio dorso, poi a sua volta montò sul parapetto, non senza essersi prima cacciato fra i denti il kriss malese. - Stringi forte, - disse. - Non mi strangolerai colle tue piccole mani. - Afferrò la corda e si mise a scendere. Vecchio marinaio, non si trovava certo imbarazzato a compiere quella manovra, tanto più che possedeva una muscolatura da sfidare l'acciaio. In pochi istanti raggiunse la veranda inferiore. Disgraziatamente urtò coi piedi contro l'orlo della leggera tettoia che la copriva, facendo cadere un pezzo di grondaia. Una sola imprecazione gli sfuggì suo malgrado. Quel pezzo di latta o di zinco che fosse, nel precipitare sulle pietre della piazza, produsse molto rumore. Sandokan puntò i piedi contro il riparo e si lasciò scivolare verticalmente, senza badare se si scorticava o no le mani. Non distava dal suolo che pochi metri quando dalla varanga udì una voce a urlare: - All'armi! La prigioniera fugge! - Poi rintronò un colpo di pistola. La palla fortunatamente non aveva colpito né Sandokan, né Surama. Uomini, servi e guardie, si erano precipitati sulla varanga urlando a squarciagola: - Ferma! Ferma! - Due, avendo trovata la fune stesa dinanzi alla galleria, vi si aggrapparono lasciandosi scorrere fino a terra, ma già Sandokan che reggeva sempre Surama, si trovava al sicuro fra i suoi fedeli malesi. Tremal-Naik vedendo poi quei due venire avanti con dei tarwar in mano, armò rapidamente le due pistole che aveva nella fascia e scaricò uno dietro l'altro, senza troppa fretta, quattro colpi che li fece cadere l'uno sull'altro. - Via! - gridò Sandokan dopo aver sciolto il piccolo sari che legava Surama, e d'aver presa questa fra le braccia. - Al palazzo!- La porta del bengalow del favorito, si era aperta e dieci o dodici uomini muniti d'armi da fuoco e da taglio e ancora semi-nudi, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi, urlando senza posa: - All'armi! All'armi! - Sandokan correva come un cervo, fiancheggiato da Tremal-Naik e da Kammamuri e protetto alle spalle dai malesi. La caccia era cominciata furiosa, implacabile; ma quantunque gli indù godano generalmente la fama di essere corridori instancabili, avevano trovato nei loro avversari dei campioni degni dei loro garretti. Di quando in quando qualche colpo di fuoco echeggiava, facendo accorrere alle finestre gli abitanti delle vicine case. Ora veniva sparato dagli inseguitori ed ora dai fuggiaschi, senza gravi perdite né da una parte né dall'altra non potendo, in quella corsa disordinata, prendere la mira. Nondimeno una viva inquietudine cominciava a tormentare Sandokan. Quelle grida e quegli spari facevano accorrere ad ogni istante altre persone ed il drappello dei servi del greco s'ingrossava rapidamente. Sarebbero riusciti a salvarsi nel palazzo senza essere stati scorti? Lo stesso pensiero doveva essere sorto anche nel cervello di Tremal-Naik, poiché senza cessare di correre, chiese a Sandokan: - Non verremo noi assediati? - Prima di voltare l'angolo dell'ultima via, faremo una scarica. È assolutamente necessario che non ci vedano entrare nel palazzo. Forza alle gambe! Cerchiamo di distanziarli. - Avevano percorso sette od otto vie, senza incontrare fortunatamente nessuna guardia notturna. Con uno sforzo supremo raggiunsero l'angolo del palazzo vantaggiando a un tempo di duecento e più passi. - Fate fronte! - gridò Sandokan ai malesi. - Caricate! Fuoco di bordata prima! - Le terribili tigri di Mompracem, niente spaventate di trovarsi di fronte a cinquanta o sessanta avversari, puntarono le carabine facendo una scarica, poi estratte le scimitarre caricarono furiosamente con urla selvagge. Vedendo cadere parecchi dei loro, gl'indù volsero le spalle senza aspettare l'attacco impetuoso, irresistibile, dei malesi. - Kammamuri, fa' aprire la porta del palazzo prima che quei furfanti ritornino! - È già aperta, signore! - gridò Bindar. - A me, malesi! - I pirati che si erano slanciati dietro ai fuggiaschi ululando come bestie feroci, si ripiegarono di corsa e si gettarono dentro l'ampio peristilio del palazzo di Surama, chiudendo e barricando precipitosamente la porta. - Spero che nessuno ci abbia veduti, - disse Sandokan deponendo a terra Surama e aspirando poscia una lunga sorsata d'aria. - Grazie, Sandokan, - disse la giovane. - A te ed al sahib bianco devo ormai troppe volte la mia vita. - Lascia queste cose e andiamo a vedere che cosa succede. Intanto fa' armare tutta la tua gente. Temo che vi sarà battaglia questa notte. - Salì la gradinata insieme con Tremal-Naik e con Kammamuri e si affacciò ad una finestra del secondo piano. - Saccaroa! - esclamò. - Ci hanno ritrovati! Qui corriamo il pericolo di venire presi! Ah! Per Maometto, preparerò loro un bel tiro, prima che giungano i soldati del rajah! - Che cosa vuoi fare? - chiese Tremal-Naik. - Surama! - gridò invece Sandokan. La giovane assamese saliva in quel momento la scala. - Che cosa desideri signore? - chiese avvicinandosi rapidamente. - La tua casa è isolata mi pare. - Sì. - Che cosa vi è di dietro? - Una piccola pagoda. - Isolata anche quella? - No, si appoggia ad un gruppo di palazzi e di bengalow. - È larga la via che divide la tua casa dalla pagoda? - Una diecina di metri. - Fa' portare subito delle funi, tutte quelle che puoi trovare. Ci raggiungerai sul tetto. Bindar! - L'indiano che era sulla varanga vicina fu pronto ad accorrere. - Eccomi, padrone - disse. - Da' ordine ai miei malesi ed ai servi di tenere in iscacco gli assalitori per alcuni minuti. Che non facciano economia di polvere né di palle. Va' e comanda il fuoco. E ora, Tremal-Naik, vieni con me e con Kammamuri. - Salirono una seconda gradinata raggiungendo l'ultimo piano e trovato un abbaino, passarono sul tetto che era quasi piatto, non avendo che due leggere inclinazioni. - Non mi aspettavo tanta fortuna, - mormorò Sandokan. - Andiamo a vedere quella via e quella pagoda. - Mentre s'avanzavano carponi, dinanzi al palazzo echeggiavano clamori assordanti. Gli assedianti dovevano essere cresciuti di numero a giudicarlo dal fracasso che facevano. Il fuoco però non era ancora cominciato né da una parte né dall'altra. Bindar non aveva forse giudicato prudente cominciare pel primo le ostilità, per non irritare maggiormente gli avversari. Sandokan ed i suoi due compagni in pochi momenti attraversarono il tetto, raggiungendo il margine opposto. Una via larga, nove o dieci metri, separava il palazzo da una vecchia pagoda di modeste proporzioni, la quale era sormontata da una specie di terrazzo, irto di antenne di ferro che sorreggevano dei piccoli elefanti dorati che funzionavano forse da mostraventi. - È alta quanto questa casa, - disse Sandokan. - Che cosa vuoi tentare? - chiese Tremal-Naik. - Di passare su quel terrazzo, - rispose la Tigre della Malesia. Il bengalese lo guardò con spavento. - Chi potrà saltare attraverso questa via? - Tutti. - Ma come? - Tu sai ancora adoperare il laccio? Un vecchio thug non dimentica facilmente il suo mestiere. - Non ti capisco. - Non si tratta che di gettare una buona corda al di sopra d'una di quelle antenne e di formare poi un ponte volante con un paio di gomene. - Ah! Padrone, lascia fare a me allora, - disse Kammamuri. - Sono stato un anno prigioniero dei thugs di Rajmangal e ho appreso a servirmi del laccio a meraviglia. Non sarà che un semplice giuoco. - E poi dove scapperemo noi? - chiese Tremal-Naik. - Vi sono delle case dietro la pagoda che attraverseremo facilmente, passando sui tetti. In qualche luogo scenderemo. - E non ci daranno la caccia? - Io eleverò fra noi e gli assedianti una tale barriera da togliere loro ogni idea d'inseguirci. - Tu sei un uomo meraviglioso, Sandokan. - Non sono stato forse un pirata? - rispose la Tigre della Malesia. - Nella mia lunga carriera ne ho provate delle avventure e ne ho ... - Una scarica di carabine gli tagliò la frase. I malesi ed i servi del palazzo avevano aperto il fuoco, per impedire agli assedianti di abbattere la porta e d'invadere le stanze del pianterreno. - Se la resistenza dura dieci minuti noi siamo salvi, - disse Sandokan. Si volse udendo delle tegole a muoversi, Surama s'avanzava con precauzione andando carponi sul tetto, accompagnata da due servi e da un malese, che portavano corde di seta, strappate probabilmente dai tendaggi, e grosse corde di canape tolte dalle varanghe. - Chi è che ha aperto il fuoco? - chiese Sandokan aiutando la brava ragazza ad alzarsi. - I tuoi uomini. - Vi sono dei seikki fra gli assalitori? - Una dozzina e avevano subito attaccata la porta. - Kammamuri scegliti la corda e bada che sia solida perché tu dovrai passare su quella. - Lascia fare a me, padrone; - rispose il maharatto. Si gettò sulle funi che erano state deposte dinanzi a lui e prese un cordone di seta, lungo una quindicina di metri e grosso come un dito, osservandolo attentamente in tutta la sua lunghezza. - Ecco quello che fa per me, - disse poi. - Può sorreggere anche due uomini. - Fece rapidamente un nodo scorsoio, si spinse verso il margine del tetto, lo fece volteggiare tre o quattro volte intorno alla propria testa come fanno i gauchos della pampa argentina e lo lanciò. La corda ben aperta alla sua estremità, in causa di quel rapido movimento rotatorio, cadde su una delle aste di ferro e vi scivolò dentro. - Ecco fatto, - disse Kammamuri volgendosi verso Sandokan. - Tenete forte il cordone. - Guarda prima se vi è gente nella via. - Non mi pare, padrone. D'altronde l'oscurità è fitta e nessuno ci vedrà. - Sandokan e Tremal-Naik si gettarono sulle tegole afferrando strettamente il cordone, subito imitati dai due servi e dal malese. - Coraggio amico, - disse il pirata. - Ne ho da vendere, - rispose il maharatto sorridendo. - E poi non soffro le vertigini. - Si appese al cordone, incrociandovi sopra, per maggior precauzione, le gambe e s'avanzò audacemente al di sopra della via, senza nemmeno pensare che poteva da un istante all'altro cadere da un'altezza di diciotto o venti metri e sfracellarsi sul lastricato. Sandokan e Tremal-Naik seguivano con viva emozione e non senza rabbrividire quella traversata, dal cui buon esito dipendeva la salvezza di tutti. Vi fu un momento terribile, quando il coraggioso maharatto giunse a metà della distanza che divideva il palazzo dalla pagoda. Il cordone quantunque tirato a tutta forza dai cinque uomini, aveva descritto un arco accentuatissimo, crepitando sinistramente sotto il peso non indifferente di Kammamuri. - Fermati un istante! - gridò precipitosamente Sandokan. Il maharatto che doveva pure aver udito quel crepitìo che poteva annunciare una imminente rottura, ubbidì subito. Fortunatamente la corda non aveva ceduto, né aveva dato alcun altro suono. A quanto pareva, i fili di seta si erano solamente allungati senza spezzarsi. - Vuoi provare? - chiese finalmente Sandokan. - Aspettavo il tuo ordine, - rispose Kammamuri con voce perfettamente calma. - Va', amico, - disse Tremal-Naik. Il maharatto riprese la sua marcia aerea, procedendo però con precauzione e giunse ben presto sul terrazzo della pagoda, mandando un gran sospiro di soddisfazione. - Le funi, padrone! - gridò subito. Sandokan aveva già scelto le più grosse e le più solide. Le annodò facilmente. Le due funi, annodate l'una sopra l'altra, all'altezza d'un metro e mezzo e assicurate a due aste di ferro, potevano permettere il passaggio senza correre troppi pericoli. - Tremal-Naik, - disse Sandokan; - occupati di far passare le persone. Surama hai paura? - No, signore. - Passa per la prima. - E tu? - chiese Tremal-Naik. - Vado a coprire la ritirata e preparare la barriera che impedirà agli assedianti di darci la caccia. - Riattraversò il tetto e ridiscese negli appartamenti. La battaglia fra gli indù, i malesi ed i servi del palazzo infuriava, facendo accorrere da tutte le vicine vie nuovi combattenti. I malesi nascosti dietro i parapetti delle varanghe che avevano coperti con materassi, cuscini e pagliericci, sparavano furiosamente facendo indietreggiare, ad ogni scarica, gli assalitori e mandandone molti a terra morti o feriti. La folla però, che era pure armata di ottime carabine e di pistole, rispondeva non meno vigorosamente e anche dalle case fronteggianti il palazzo di Surama si sparava contro la varanga, mettendo in serio pericolo i difensori. Sandokan si era precipitato fra i suoi uomini, gridando: - Riparate subito sul tetto! Fra pochi minuti il palazzo sarà in fiamme! Prima le donne ed i servi, ultimi voi per coprire la ritirata. - Ciò detto strappò una torcia che illuminava la varanga e diede fuoco alle stuoie di coccottiero, quindi si slanciò attraverso le splendide stanze che formavano l'appartamento riservato di Surama, incendiando i cortinaggi di seta delle finestre, le coperte dei letti, i tappeti, i leggeri mobili laccati. - Ci diano la caccia ora, - disse quando vide le fiamme avvampare e le stanze riempirsi di fumo. - Cinquantamila rupie non valgono un dito di Surama. - Ritornò sulla varanga inseguito dalle colonne di fumo per accertarsi che non vi era più nessuno. Indiani e malesi, dopo d'aver fatta un'ultima scarica, erano precipitosamente fuggiti; e le stuoie, le colonne di legno e persino il pavimento, avvampavano con rapidità prodigiosa lanciando intorno bagliori sinistri. - Questo palazzo brucerà come un pezzo d'esca, - mormorò Sandokan. - È tempo di metterci in salvo. - Raggiunse l'abbaino e balzò sul tetto. La ritirata era cominciata in buon ordine; uomini e donne attraversavano rapidamente il ponte volante reggendosi sulle due funi, mentre i malesi, curvi sui margini del tetto, consumavano le loro ultime munizioni e scagliavano nella via, sulle teste degli assedianti, ammassi di tegole. Sul terrazzo della pagoda le persone si accumulavano, prendendo subito la via dei tetti, sotto la guida di Tremal-Naik, di Kammamuri e di Bindar. Quando Sandokan vide finalmente il ponte volante libero, vi fece passare i malesi, poi troncò con un colpo di coltello le due funi che erano state legate attorno al comignolo d'un camino, onde gli assedianti, nel caso che la casa non bruciasse interamente, non potessero accorgersi da qual parte gli assediati fossero fuggiti. - Ora un esercizio da buon marinaio, - mormorò Sandokan. Prima di eseguirlo lanciò intorno un rapido sguardo. Dagli abbaini uscivano nuvoli di fumo e getti di scintille e nella sottostante via si udivano i clamori feroci della folla. - Entrate e dateci la caccia, - mormorò il pirata con un sorriso ironico. Afferrò una delle due funi, si spinse fino sull'orlo del tetto e senz'altro si slanciò andando a battere i piedi contro il cornicione della pagoda che sorreggeva il terrazzo. Nessun altro uomo, che non avesse posseduta l'agilità e la forza straordinaria di Sandokan, avrebbe potuto tentare una simile volata senza fracassarsi per lo meno le gambe. Il pirata però che doveva possedere una muscolatura d'acciaio, non provò che un po' di stordimento, prodotto dal violentissimo contraccolpo. Stette un momento fermo per rimettersi un po', quindi cominciò a issarsi a forza di pugno finché raggiunse il terrazzo. Sui tetti delle vicine case i servi e le donne fuggivano rapidamente, fiancheggiati dai malesi. Surama camminava alla testa, sorretta da Tremal-Naik e da Kammamuri. Sandokan, pur camminando con una certa precauzione, in pochi istanti li raggiunse. - Finalmente! - esclamò il bengalese, - cominciava a diventare inquieto non vedendoti comparire. - Io ho l'abitudine di giungere sempre, - rispose la Tigre della Malesia. - Ed il mio palazzo? - chiese Surama. - Brucia allegramente. - È un patrimonio che se ne va in fumo. - E che la Tigre della Malesia pagherà - rispose Sandokan alzando le spalle. - Ci inseguono? - chiese Tremal-Naik. - Attraverso le fiamme? Si provino a mettere i loro piedi entro quella fornace. Io già non ti seguirei di certo. - Ma dove finiremo noi? - Aspetta che troviamo una via che c'impedisca di andare più innanzi, amico Tremal-Naik. Ho già fatto il mio piano. - E quando la Tigre della Malesia ne ha uno nel cervello, si può essere certi che riuscirà pienamente, - aggiunse Kammamuri. - Può darsi, - rispose Sandokan. - Non fate troppo rumore e non guastate troppe tegole. In questo momento non potrei risarcire i danneggiati. - La ritirata si affrettava sempre in buon ordine, passando da un terrazzo all'altro. Gli uomini aiutavano sempre le donne a scavalcare i parapetti, che talvolta erano così alti da costringere i malesi a formare delle piramidi umane, per meglio favorire le scalate. Verso il palazzo si udivano sempre urla e spari e si scorgevano le prime lingue di fuoco sfuggire attraverso gli abbaini. Nelle case di fronte e di dietro, di quando in quando, partivano delle grida altissime: - Al fuoco! Al fuoco! - I fuggiaschi che temevano di essere sorpresi, si affrettavano. Se le fiamme s'alzavano, qualcuno poteva scorgerli e dare l'allarme, e questo, Sandokan assolutamente non lo desiderava. - Presto! presto! - diceva. Ad un tratto gli uomini che si trovavano all'avanguardia, si ripiegarono verso il terrazzo che avevano appena allora superato. - Che cosa c'è? - chiese Sandokan. - Non si può più andare innanzi, - disse Bindar che guidava quel drappello. - Abbiamo una via dinanzi e tanto larga che non la potremo sorpassare. - Vedi nessun abbaino? - Ce ne sono due sotto il terrazzo. - Di che cosa ti lagni dunque amico, quando abbiamo delle scale per scendere nella via? Fa' sfondare quegli abbaini e andiamo a fare una visita agli abitanti di questa casa. Sarà troppo mattutina, ma la colpa non è nostra. -

. - Noi siamo pronti ad arrenderci, - rispose finalmente il portoghese, - a condizione però che i miei uomini abbiano, al pari di me, la vita salva. - Il mio signore te lo promette. - Ne sei ben certo? - Mi ha dato la sua parola. - Eccomi. - Balzò sopra gli avanzi della barricata seguito dai suoi malesi, superò l'elefante e saltò sul gradino, fermandosi dinanzi al cannone ancora fumante. Il cortile era pieno di seikki ed in mezzo a loro si trovava il rajah coi suoi ministri, i quali reggevano delle torce. Yanez gettò a terra la carabina, respinse gli artiglieri che cercavano di afferrarlo e mosse verso il principe a testa alta, colle braccia strette sul petto, dicendo con un accento sardonico: - Eccomi Altezza. I seikki hanno vinto l'uccisore di tigri e di rinoceronti, che esponeva la sua vita per la tranquillità dei vostri sudditi. - Tu sei un valoroso, - rispose il rajah evitando lo sguardo fiammeggiante del portoghese. - Poche volte mi sono divertito come questa sera. - Sicché Vostra Altezza non rimpiange i seikki, che sono caduti sotto il mio piombo. - Li pago - rispose brutalmente il principe. - Perché non dovrebbero distrarmi? - Ecco una risposta degna d'un rajah indiano, - rispose Yanez ironicamente. - Che cosa farete ora di me? - A questo penseranno i miei ministri, - rispose il principe. - Io non voglio avere questioni col governatore del Bengala. T'avverto però che finché non si saranno decisi, tu sarai mio prigioniero. - Ed i miei uomini? - Li farò rinchiudere intanto in una stanza appartata. - Assieme a me? - No, mylord, almeno per ora. - Perché? - Per maggior sicurezza. Siete uomini troppo astuti voi per lasciarvi insieme. - Avverto però V. A. che anche i miei servi sono sudditi inglesi, essendo nati a Labuan. - Io non so che cosa sia questo Labuan, - rispose il principe. - Tuttavia terrò conto di quanto tu mi dici. - Fece poi un segno colla mano e tosto quattro ufficiali piombarono sul portoghese, afferrandolo strettamente per le braccia. - Conducetelo dove voi sapete, - disse il rajah. - Non dimenticatevi però che è un uomo bianco e per di più un inglese. - Yanez si lasciò condurre via senza opporre resistenza. Era appena entrato in una delle sale pianterrene, quando i seikki si scagliarono, coll'impeto di belve feroci, contro i tre malesi, strappando a loro di mano le carabine e legandoli solidamente. Quasi nel medesimo istante, da una delle ampie porte che s'aprivano sul cortile, usciva un colossale elefante, montato da un cornac barbuto e d'aspetto feroce. Appeso alla tromba reggeva un ceppo, poco dissimile a quello su cui i macellai usano spaccare i quarti di bue. Quel bestione era l'elefante-carnefice. In tutte le corti dei principotti indiani vi è un simile animale, ammaestrato sul miglior modo di mandare all'altro mondo tutti coloro che danno ombra a quei crudeli regnanti. Mentre i seikki si ritiravano per lasciargli il passo, il gigantesco pachiderma depose, proprio nel centro del cortile, il ceppo, posandovi poi sopra una delle sue zampacce, come per provarne la solidità. - Avanti il primo, - disse il rajah che stava comodamente seduto su una poltrona, con un sigaro fra le labbra. - Voglio vedere se questi uomini, che si battono col coraggio delle tigri, saranno altrettanto coraggiosi dinanzi alla morte. - Quattro seikki afferrarono uno dei tre malesi e lo trascinarono dinanzi all'elefante, facendogli appoggiare la testa sul ceppo e trattenendolo con tutto il loro vigore. Il gigantesco carnefice, ad un ordine del cornac, fece due o tre passi indietro, alzò la proboscide cacciando fuori un lungo barrito, poi s'avanzò verso il ceppo, levò la zampa sinistra e la lasciò cadere sulla testa del povero malese. Il cadavere fu gettato da un lato, e coperto con un largo dootèe; poi l'uno dopo l'altro, furono giustiziati, nel medesimo modo, i due altri malesi. - Teotokris sarà ora contento, - disse il rajah. - Andiamo a riposarci. - Cominciava allora ad albeggiare. Egli si alzò e entrò in uno degli edifici laterali, seguìto dai suoi ministri e dai suoi ufficiali, mentre i seikki si preparavano a portare via i loro camerati, caduti sotto il piombo delle tigri di Mompracem. Il principe si era forse appena coricato, quando un uomo entrava frettolosamente nel palazzo reale e saliva a quattro a quattro i gradini, che conducevano nell'appartamento di Yanez. Era Kubang che tornava, dopo aver assistito all'attacco del palazzo di Surama, e alla fuga di Sandokan e di Tremal-Naik verso il fiume. Udendo bussare frettolosamente, il chitmudgar, che dopo le prime fucilate sparate nella sala si era precipitosamente rifugiato lassù, non osando prendere le parti del gran cacciatore, aveva subito aperto. Il pover'uomo, che da una finestra che prospettava sul cortile d'onore, aveva assistito alla resa di Yanez, e all'esecuzione dei tre malesi, era disfatto per l'intenso dolore e piangeva come un fanciullo. - Ah, mio povero sahib! - esclamò vedendosi dinanzi Kubang; - vuoi morire anche tu, dunque? - Che cosa dici chitmudgar? - chiese il malese, spaventato dal pianto di quell'uomo. - Il tuo signore è stato arrestato. - Il capitano! - esclamò il malese facendo un salto. - Ed i tuoi compagni sono stati tutti giustiziati. - Kubang diede indietro come se avesse ricevuto una palla di fucile in mezzo al petto. - Povera Tigre della Malesia! - esclamò con voce strozzata, - povero capitano Yanez! - Poi rimettendosi prontamente e afferrando strettamente le braccia del chitmudgar, gli disse: - Narrami ciò che è avvenuto, tutto, tutto. - Quando fu informato del combattimento avvenuto nella notte, il malese si passò più volte una mano sugli occhi, strappando via qualche lagrima, poi chiese: - Credi tu che il rajah giustizierà anche il mio padrone? È necessario, prima che lasci questo palazzo, che io lo sappia. - Io non so nulla, tuttavia secondo il mio modesto parere, il rajah non oserà alzare la mano su un mylord inglese. Ha troppa paura del governatore del Bengala. - Dove hanno rinchiuso il mio padrone? - Se non m'inganno devono averlo condotto nel sotterraneo azzurro, che si trova sotto la terza cupola del cortile d'onore. - Un luogo inaccessibile? - Sicuro di certo. - Bene guardato? - So che giorno e notte vegliano dei seikki dinanzi alla porta di bronzo. - Vi sono dei carcerieri? - Sì, due. - Incorruttibili? - Eh, questo poi non lo posso sapere. - Sotto la terza cupola mi hai detto? - Sì, - rispose il chitmudgar. - Potresti farmi uscire senza che mi vedano? - Per la scala riservata ai servi, che mette dietro il palazzo. - Un'ultima domanda. - Parla, sahib. - Dove potrei rivederti? - Ho una casetta nel sobborgo di Kaddar, che è tutta dipinta in rosso, ciò che la fa spiccare fra tutte le altre, che sono invece bianchissime, e dove tengo una donna che mi è assai affezionata e che due volte alla settimana posso vedere. Là potrai trovarmi quest'oggi, dopo mezzogiorno. - Tu sei un brav'uomo, - disse il malese. - Ora fammi fuggire. - Seguimi: il sole è appena sorto ed i servi non si saranno ancora alzati. - Attraversarono un piccolo terrazzo che s'allungava sul di dietro dell'alloggio di Yanez, si cacciarono entro una scaletta aperta nello spessore delle muraglie, e così stretta da non permettere il passaggio che ad un solo uomo alla volta, e scesero nei giardini del rajah, che avevano una notevole estensione e che, stante l'ora mattutina, erano deserti. Il chitmudgar condusse il malese verso una porticina di metallo, adorna delle solite teste di elefante e l'aprì, dicendogli: - Qui non vi sono sentinelle. Ti aspetto nella mia casetta. Io mi sono affezionato al tuo padrone e tutto quello che potrò fare per liberarlo dalla sua prigionia, te lo giuro su Brahma, mio sahib, lo tenterò. - Tu sei il più bravo indiano che io abbia conosciuto fino a oggi, - rispose Kubang, commosso. - Il padrone, se un giorno sarà libero, non ti dimenticherà. - S'avvolse nel dootèe e s'allontanò frettolosamente, senza volgersi indietro, avviandosi verso la casa di Surama, colla speranza d'incontrare in quei dintorni qualcuno di sua conoscenza. Stava per giungervi scorgendo già le ultime colonne di fumo che s'alzavano sopra le rovine del palazzo, interamente divorato dal fuoco, quando un uomo che veniva in senso contrario con molta premura, gli sbarrò bruscamente il passo. Kubang, già troppo esasperato dalla catastrofe che aveva colpito il suo padrone, stava per sparare una pistolettata sull'insolente, quando un grido di gioia gli sfuggì: - Bindar! - Sì, sono io sahib, - rispose subito l'indiano. - Surama e la Tigre della Malesia sono ormai in viaggio per la jungla di Benar e venivo ad avvertire il tuo padrone. - Troppo tardi, amico - rispose Kubang con voce triste. - Egli è prigioniero ed i miei camerati sono stati massacrati. Pare che tutto sia stato scoperto e che quel cane di greco sia vincitore su tutti. Non perdere un momento, va' a raggiungere subito la Tigre della Malesia e avvertilo subito di quanto è avvenuto. - E tu? - Io rimango qui a sorvegliare il greco. Ho modo di sapere quello che può accadere alla corte. La mia presenza in Gauhati può essere più utile che altrove. - Hai bisogno di denaro? Ho riscosso or ora per conto del capo. - Dammi cento rupie. - E dove potrò io trovarti? - Nel sobborgo di Kaddar vi è una casetta tutta rossa, che appartiene al chitmudgar, che era stato messo a disposizione del capitano Yanez. Là andrò a stabilirmi. Ora parti senza indugio e va' ad avvertire la Tigre. Quell'uomo libererà di certo il capitano. - Bindar gli contò le cento rupie, poi partì a corsa sfrenata dirigendosi verso il fiume, dove contava di acquistare o di noleggiare qualche piccolo battello. Kubang proseguì il suo cammino per raggiungere il borgo, il quale trovandosi lontano dal palazzo reale, aveva meno probabilità, in quel luogo, di venire scoperto. Sua prima cura però fu quella di entrare da un rigattiere baniano e di cambiare il suo costume troppo vistoso, con uno mussulmano; poi dopo d'aver fatto colazione in un modestissimo bengalow di passaggio, riprese la marcia addentrandosi nelle tortuose viuzze della città bassa. Eccetto che nei grandi centri, o nei dintorni dei palazzi reali o delle più celebri pagode, le città indiane non hanno strade larghe. La pulizia è una parola poco conosciuta, sicché quelle viuzze, prive d'aria, sempre sfondate e polverose, essendo rare le piogge, somigliano a vere fogne. Una puzza nauseante si alza da quei labirinti, anche perché di quando in quando si trovano delle vaste fosse, dove vengono gettate le immondizie delle case, il letame delle stalle e le carogne d'animali morti. Guai se non vi fossero i marabù, quegli infaticabili divoratori, che da mane a sera frugano entro quei mondezzai, ingozzandosi fino quasi a scoppiare. Fu solamente verso le tre del pomeriggio che Kubang, che aveva parecchie volte sbagliata via, non conoscendo che imperfettamente la città, riuscì finalmente a scoprire la casetta rossa del chitmudgar. Era una minuscola costruzione a due piani, che sembrava più una torre quadrata che una vera casa, che si elevava in mezzo ad un giardinetto dove sorgevano sette od otto maestose palme, che spandevano all'intorno una deliziosa ombra. - È un vero nido, - mormorò Kubang. - Speriamo che il proprietario vi sia già. - Aprì il cancelletto di legno che non era stato fermato e s'inoltrò sotto le piante. Il maggiordomo stava seduto dinanzi alla sua casetta, insieme a una bella e giovane indiana dalla pelle vellutata, appena un po' abbronzata, con lunghi capelli neri adorni di mazzolini di fiori. - Ti aspettavo, sahib, - disse l'indù muovendo sollecitamente incontro al malese. - Sono due ore che sono giunto. Ecco la mia donna, una brava fanciulla, che sarà ben lieta di riceverti come ospite, se tu, come credo, avrai intenzione di fermarti qui. Almeno saresti sicuro, specialmente ora che hai cambiato pelle. - È una offerta che io accetto ben volentieri, avendo dato appuntamento qui agli amici del mio padrone. - Saranno sempre ben ricevuti da me e dalla mia donna. - Hai raccolte notizie sul capitano? - Ben poche. Posso solo dirti che è sempre rinchiuso nel sotterraneo della terza cupola, però ... - Continua. - Ho trovato il modo di poter far pervenire a lui tue notizie, se credi che possano essergli utili. - E come? - chiese il malese con ansietà. - Il rajah ha rinnovato i carcerieri che vi erano prima, e uno è un mio parente. - E si presterà al pericoloso giuoco? - È troppo furbo per lasciarsi sorprendere. Con un po' di rupie, sarà a nostra disposizione. - Dammi un pezzo di carta. - Più tardi: ora pranziamo. -

. - Non si trattava veramente d'una balena, quantunque a quei pesci abbiano dato quel nome che nulla giustifica, bensì d'uno squalo d'acqua dolce e meglio ancora d'un siluros glanis. Balena, squalo, o siluro, l'avversario era terribile, poiché quei pesci che si trovano solamente nei grossi fiumi, sono d'una voracità incredibile e non esitano ad assalire l'uomo e anche a divorarselo. Sono brutti mostri che misurano dai due ai tre metri, col corpo molto allungato che li fa rassomigliare un po' alle anguille, che come abbiamo detto hanno una bocca larghissima e poderosamente armata, guernita ai lati di sei peli lunghissimi, che pare siano destinati ad attirare i pesci. Forti e audaci, costituiscono un vero pericolo anche per gli esseri umani. Che un ragazzo si bagni ed il siluro abbandonerà subito la melma, dove abitualmente si riposa, per assalirlo e divorarlo talvolta intero. Nemmeno gli animali sono risparmiati. Che sopravvenga una piena ed ecco lo squalo d'acqua dolce dare la caccia alle bestie che avranno trovato rifugio sulle piante e a gran colpi di coda farle cadere nella sua terribile bocca. Yanez, che aveva conosciuto quei pericolosi abitanti dei fiumi nei grandi corsi del Borneo, si era subito posto in guardia per non perdere qualche braccio, o ricevere qualche tremendo colpo di coda. Il siluro dopo aver mostrata la sua testa, coperta da una viscida pelle di colore verdastro, erasi subito rituffato ma non aveva tardato a ricomparire, muovendo contro il portoghese. Essendo però tali squali piuttosto lenti nelle loro mosse, Yanez aveva avuto il tempo di lasciarsi calare a picco per evitare l'attacco. Il siluro non aveva tardato a seguirlo. Aveva però di fronte un avversario degno di lui. Si era appena immerso che il portoghese lo assalì piantandogli il kriss fra le pinne pettorali. Fatto il colpo, Yanez chiuse le gambe lasciandosi portare dalla corrente per parecchi metri, tenendosi sempre sott'acqua; poi con due bracciate rimontò a galla e con non poca sorpresa, urtò contro un corpo duro che lo obbligò ad immergersi di nuovo. - Un altro squalo d'acqua dolce? - si era chiesto. - Ed io che ho lasciato il mio pugnale nel petto dell'altro! ... - Si spinse più innanzi rattenendo il respiro, poi risalì ancora. Tornò a urtare, non già colla testa, bensì con una spalla e finì per emergere. - Ah! Diavolo! - esclamò. - Che cos'è questo? Una lampada, per Giove! Che odore! - Quattro o cinque uccellacci, che avevano le penne nere e becchi immensi, si erano alzati volandosene via. - I marabù! - aveva esclamato Yanez. - Allora qui vi è un cadavere! - Solo in quel momento si era accorto di aver presso di sé una tavola lunga un paio di metri e larga uno, ad una delle cui estremità bruciava una piccola lampada d'argilla. - Questo è un feretro abbandonato alla corrente, - mormorò. - Che incontro poco allegro! Dopo tutto mi aiuterà a reggermi a galla. - Allungò le mani e s'aggrappò a quella strana bara che la corrente trasportava. Uno sternuto vigoroso lo colse. - Ah! Per Giove! Vi è un morto! Dannati indiani! Col loro sacro Gange cominciano ad annoiarmi. - Infatti, steso su quella funebre tavola, destinata a raggiungere il Gange, si trovava il cadavere di un vecchio indiano, quasi nudo, con una lunga barba bianca, ridotto però in uno stato orribile. I marabù gli avevano strappati gli occhi, divorata la lingua, squarciato il ventre per divorargli gl'intestini e da quelle ferite usciva un odore nauseante che rivoltava lo stomaco. - Puoi andare a finire nel Gange anche senza questa tavola che è più necessaria a me che a te - disse Yanez. - E poi il tuo profumo non mi piace affatto. Va' e buon viaggio! - Con una spinta vigorosa gettò il cadavere in acqua assieme alla lampadina e si issò sulla tavola. - Cerchiamo ora di orientarci, - mormorò. - Gli altri penseranno a mettersi in salvo come potranno. Già, di Sandokan, di Tremal-Naik e dei miei uomini sono sicuro. - Si,guardò intorno e gli parve di riconoscere la riva destra. - È là che devo sbarcare, - disse. Si gettò bocconi sulla tavola e servendosi delle mani come di remi, guidò il galleggiante funebre attraverso il fiume. La corrente non era forte, avendo quasi tutti i corsi d'acqua dell'India pochissima pendenza, sicché gli riuscì facile raggiungere la riva. Abbandonò la tavola e prese terra. In quel luogo non vi erano che delle risaie: capanne, nemmeno una. - Rimontando verso levante giungerò al tempio sotterraneo, - mormorò. - Non deve essere molto lontano. Affrettiamoci, o desterò una pericolosa curiosità io, uomo bianco, senza giacca e senza stivali e con un bagaglio sulle spalle. - Si mise rapidamente in marcia, seguendo sempre la riva, che era fiancheggiata da grossi alberi fra i cui rami cominciavano già a volteggiare delle singalika, quelle magrissime scimmie che sono così numerose in India, alte quasi un metro, con una specie di barba, che dà a loro uno strano aspetto e che sono lo spavento dei poveri contadini, ai quali distruggono senza misericordia i raccolti. Yanez, che vedeva, non senza inquietudine, approssimarsi l'alba, affrettava il passo. Aveva già oltrepassata l'isola su cui sorgeva la pagoda di Karia, non doveva quindi essere molto lontano dal tempio sotterraneo. Di quando in quando s'arrestava un momento sperando di scorgere la bangle e non vedeva invece altro che delle lunghe file di grotteschi uccellacci, d'aspetto decrepito, semi-spelati, col becco lunghissimo e robusto. Erano i marabù che attendevano pazientemente il passaggio di qualche cadavere, umano o animale, poco importava, per dargli addosso ed in quattro e quattro otto farlo scomparire nei loro mai pieni stomachi. Il sole dardeggiava i suoi primi raggi sulle acque del Brahmaputra, quando Yanez giunse dinanzi al tempio sotterraneo, sulla cui porta vegliava un uomo, che aveva l'aspetto d'un fakiro. - Ah! Signor Yanez! - esclamò quell'uomo alzandosi. - Kammamuri! - aveva esclamato il portoghese. - Nella pelle d'un biscnub, signore, - rispose il maharatto ridendo - che non ha però rinunciato né alle ricchezze, né ai piaceri della vita, né ai beni di questo mondo come i miei correligionari. - Sono tornati? - Il signor Sandokan ed il mio padrone? Vi aspettano a colazione da una buona mezz'ora. - E gli altri? - Vi sono tutti. Sono giunti su una bangle. - Ed il ministro? - È sempre al sicuro, ma ho paura che quel povero diavolo muoia di spavento. - I tuoi compatriotti hanno la pelle troppo dura per andarsene così presto in grembo a Siva o a Brahma. - S'aprì il passo fra i cespugli che nascondevano l'entrata e si cacciò nei corridoi del tempio, che erano guardati da malesi e da dayachi armati di carabine e di scimitarre. Quando giunse nell'ultima stanza, che già abbiamo descritta e che era sempre illuminata dalla lampada non avendo alcuna finestra, trovò seduti dinanzi alla tavola Sandokan, Tremal-Naik ed il ministro. - Finalmente! - esclamò il primo. - Stavo per mandare alcuni uomini a cercarti, quantunque io non dubitassi che ci avresti raggiunti. - Non ho potuto raggiungere la bangle. Di ciò parleremo più tardi. Lascia che mi cambi, ché gocciolo da tutte le parti e fa' portare la colazione. Quel bagno mi ha messo indosso un appetito da tigre. - E metti al sicuro la tua famosa conchiglia, - disse Tremal-Naik. - Dopo: bisogna che il signor ministro la veda. - Passò in una stanza attigua e si cambiò rapidamente, indossando un vestito di flanellina bianca, assai leggera. Quando rientrò, la tiffine, o colazione fredda all'inglese, era pronta: carne, birra, biscotti. Il cuoco però aveva aggiunta una terrina di carri per S. E. il ministro, non mangiando carne di bue gli indiani. - Mangiamo per ora, - disse Yanez - e voi, Eccellenza, rasserenate un po' il vostro viso e bevete pure la nostra birra. Vi do la mia parola che non contiene, questa, nessun pezzetto di grasso di mucca. - Invece di rasserenarsi, il ministro si fece ancor più oscuro in viso, nondimeno non respinse il carri che Yanez gli offriva, né una tazza di birra. Mentre mangiavano con un appetito invidiabile, i due pirati della Malesia e Tremal-Naik, si raccontavano le avventure a loro toccate durante la perigliosa evasione. Anche Sandokan e l'indiano avevano avuto da fare non poco a uscire dalle volte sommerse, ma più fortunati del portoghese non avevano incontrata nessuna balena d'acqua dolce ed avevano potuto raggiungere felicemente la bangle dove avevano già trovati i dayachi ed i malesi. Temendo di venire da un momento all'altro sorpresi dai sacerdoti, non avevano indugiato a prendere il largo, convinti che Yanez se la sarebbe facilmente cavata da sé. Quando la colazione fu terminata Yanez accese, come di consueto, l'eterna sigaretta, mise il cofano dinanzi al ministro e l'aprì levando la preziosa conchiglia. - È questa, proprio questa la famosa pietra di Salagraman? - chiese al ministro che la guardava sbigottito. - Rispondetemi Eccellenza. - Kaksa Pharaum fece col capo un cenno affermativo. - Uditemi ora e badate di non rispondermi con dei soli cenni. Esigo da voi delle importanti dichiarazioni. - Ancora? - brontolò il ministro, che sembrava di pessimo umore. - Ci tiene molto il re a possedere questa pietra di Salagraman? - Più di voi certo, - rispose Kaksa Pharaum. - Come si potrebbero fare le processioni senza quella preziosa reliquia, che tutti i gurum c'invidiano? - Qual è la prossima processione che si farà in pubblico? Voi indiani ne eseguite molte durante l'anno. - Quella del maddupongol. - Che cos'è? - È la festa delle vacche, - disse Tremal-Naik - che si solennizza nel decimo mese di tai, ossia del vostro gennaio, per festeggiare il ritorno del sole nel settentrione e che fa seguito al gran-pongol ossia alla festa del riso bollito nel latte. - È vero, - disse il ministro. - Quando deve scadere? - chiese Yanez. - Fra quattro giorni. - Benissimo: per quel giorno il rajah avrà la sua pietra di Salagraman. - Il ministro aveva fatto un soprassalto, guardando Yanez cogli occhi dilatati dal più intenso stupore. - Volete scherzare, mylord? - chiese. - Niente affatto, Eccellenza - rispose Yanez. - Vi do la mia parola d'onore che la pietra ritornerà, per mezzo del principe, nella pagoda di Karia. - Io non comprendo più nulla, - disse Kaksa Pharaum. - Ed io meno di voi, - aggiunse Sandokan che fumava il suo cibuc senza aver, fino allora, preso parte alla conversazione. - Abbi un po' di pazienza, fratellino - disse Yanez. - Ditemi ora Eccellenza, faranno delle ricerche per scoprire gli autori del furto? - Metteranno a soqquadro la città intera e lanceranno nelle campagne tutta la cavalleria, - rispose Kaksa Pharaum. - Allora possiamo essere sicuri di non venire disturbati, - disse il portoghese sorridendo. - Sono già le otto: possiamo andare a trovar Surama e fare un giro per la città. Vedremo così l'effetto che avrà prodotto il furto della famosa pietra. - Staccò dalla parete un altro paio di pistole, che si mise nella larga fascia rossa, si mise in testa un elmo di tela bianca adorno d'un velo azzurro, che gli dava l'aspetto d'un vero inglese in viaggio attraverso il mondo e fece atto d'uscire insieme a Sandokan ed a Tremal-Naik che si erano pure provveduti d'armi. - Mylord, - disse il ministro, - ed io? - Voi, Eccellenza, rimarrete qui sotto buona guardia. Non abbiamo ancora terminato le nostre faccende, e poi se vi mettessimo in libertà, correreste subito dal principe. - Io mi annoio qui ed ho molti affari importanti da sbrigare. Sono il primo ministro dell'Assam. - Lo sappiamo, Eccellenza. D'altronde se volete cacciare la noia, fumate, bevete, e mangiate. Non avete altro che da ordinare. - Il povero ministro, comprendendo che avrebbe perduto inutilmente il suo tempo, si lasciò ricadere sulla sedia mandando un sospiro così lungo che avrebbe commossa perfino una tigre, ma che non ebbe nessun effetto sull'animo di quel diavolo di portoghese. Quando furono fuori del tempio, trovarono Kammamuri sempre seduto dinanzi ad un cespuglio, col suo berretto rosso ed azzurro sul capo, il corpo avvolto in un semplice pezzo di tela, con una corona ed un bastone in mano: era il costume dei fakiri biscnub, specie di pellegrini erranti che sono però tenuti in molta considerazione nell'India, avendo quasi tutti appartenuto a classi agiate. - Nulla di nuovo, amico? - gli chiese Yanez. - Non ho udito che le urla stonate d'un paio di sciacalli i quali si sono divertiti a offrirmi, senza richiesta, una noiosissima serenata. - Seguici a distanza e raccogli le dicerie che udrai. Se non potrai seguire il nostro mail-cart non importa. Ci rivedremo più tardi. - Sì, signor Yanez. - Il portoghese ed i suoi due amici si diressero verso un gruppo di palme dinanzi a cui stava fermo uno di quei leggeri veicoli chiamati dagli anglo-indiani mail- cart, che vengono usati per lo più nei servizi postali. Era però di dimensioni più vaste degli ordinari, e sulla cassa posteriore vi potevano stare comodamente anche tre persone invece d'una. Era tirato da tre bellissimi cavalli che pareva avessero il fuoco nelle vene e che un malese penava a frenare. Yanez salì al posto del cocchiere, Sandokan e Tremal-Naik di dietro e la leggera vettura partì rapida come il vento, avviandosi verso le parti centrali della città. I mail-cart vanno sempre a corsa sfrenata come le troike russe e tanto peggio per chi non è lesto a evitarle. Attraversano le pianure come uragani, salgono le più aspre montagne, le discendono con eguale velocità, specialmente quelle adibite al servizio della posta. Sono guidate da un solo indiano, munito d'una frusta a manico corto, che non lascia un momento in riposo, perché non deve arrestarsi per nessun motivo. Quelle corse però non sono scevre di pericoli. Avendo quelle vetture le ruote alte e la cassa senza molle, subiscono dei trabalzi terribili e se uno volesse parlare correrebbe il rischio di troncarsi, coi propri denti, la lingua. Yanez, come abbiamo detto, aveva lanciato quella specie di birroccio a gran corsa, facendo scoppiettare fortemente la frusta per avvertire i passanti a tenersi in guardia. I tre cavalli, che balzavano come se avessero le ali alle zampe, divoravano lo spazio come saette, nitrendo rumorosamente. Bastarono dieci minuti perché il mail-cart si trovasse nelle vie centrali di Gauhati. Yanez ed i suoi compagni notarono subito un'animazione insolita: gruppi di persone si formavano qua e là discutendo animatamente, con larghi gesti e anche sulle porte dei negozi era un bisbigliare incessante fra i proprietari ed i loro avventori. Si leggeva sul viso di tutta quella gente impresso un vero sgomento. Yanez, che aveva frenati i cavalli onde non storpiare qualche passante, si era voltato verso i suoi due amici strizzando loro l'occhio. - La terribile notizia si è già sparsa, - rispose la Tigre della Malesia, sorridendo. - Dove ci conduci? - Da Surama per ora. - E poi? - Vorrei vedere quel maledetto favorito del rajah, se mi si presentasse l'occasione. - Uhm! Sai che il principe non vuol vedere nessun inglese alla sua corte. - Eppure dovrà ricevermi e con grandi onori, - disse Yanez. - Ed in quale maniera? - Non ho forse la pietra in mia mano? - Che diventi un talismano? - Fors'anche di più, mio caro Sandokan. Oh! Che cosa c'è? - Due indiani s'avanzavano fra la folla, l'uno lanciando di quando in quando delle note rumorose che ricavava da una lunghissima tromba di rame e l'altro che scuoteva furiosamente una gautha, ossia uno di quei campanelli di bronzo ornati con una testa che ha due ali e che vengono adoperati nelle cerimonie religiose per convocare i fedeli. Li seguiva un soldato del rajah, con ampi calzoni bianchi, la casacca rossa con alamari gialli e che portava una bandiera bianca con nel mezzo dipinto un elefante a due teste. - Questi sono araldi del principe, - disse Tremal-Naik. - Che cosa annunceranno? - Io lo indovino di già, - disse Yanez, fermando la vettura. - È una cosa che riguarda noi. - I tre araldi, dopo aver assordato i vicini che si erano radunati in gran numero attorno a loro, si erano pure fermati ed il soldato che doveva avere dei polmoni di ferro, si era messo a urlare: "S. M. il principe Sindhia, signore dell'Assam, avverte il suo fedele popolo che offrirà onori e ricchezze a chi saprà dare indicazioni sui miserabili che hanno rubata la pietra di Salagraman dalla pagoda di Karia. Ho parlato per la bocca del potentissimo rajah". - Onori e ricchezze, - mormorò Yanez. - A me basteranno i primi per ora. Il resto verrà più tardi, te lo assicuro, mio caro Sindhia. Quelle però saranno per la mia futura moglie. - Lasciò passare i banditori che avevano ripresa la loro musica infernale e lanciò i cavalli a piccolo trotto, percorrendo successivamente parecchie vie molto larghe, cosa piuttosto rara nelle città indiane che hanno stradicciuole tortuose come quelle delle città arabe e anche poco pulite. - Ci siamo, - disse ad un tratto, fermando con uno strappo violento i tre ardenti corsieri. Si era fermato dinanzi ad una casa di bella apparenza, che sorgeva, come un gran dado bianco, fra otto o dieci colossali tara che l'ombreggiavano da tutte le parti. Solo a vederla si capiva che era un'abitazione veramente signorile, essendo perfettamente isolata ed avendo porticati, logge e terrazze per poter dormire all'aperto durante i grandi calori. Tutte le abitazioni dei ricchi indù sono bellissime e tenute anche con molta cura. Devono avere cortili, giardini, cisterne d'acqua e fontane non solo nelle stanze bensì anche all'entrata e grandi ventole mosse a mano dai servi onde regni una continua frescura. Devono anche avere intorno delle piccole kas khanays ossia casette di paglia o piuttosto di radici odorose, costruite nel mezzo d'un tratto di terra erbosa e sempre in prossimità d'una tank ossia fontana onde la servitù possa comodamente lavarsi. Udendo il fracasso prodotto dai tre cavalli, due uomini vestiti come gl'indiani che però dalla tinta della loro pelle e dai tratti del viso, duri e angolosi si riconoscevano anche di primo acchito per malesi, erano subito usciti dalla casa salutando con un goffo inchino Yanez ed i suoi due compagni. - Surama? - chiese brevemente il portoghese saltando a terra. - È nella sala azzurra, capitano Yanez, - rispose uno dei due malesi. - Occupatevi dei cavalli. - Sì, capitano. - Salì i quattro gradini seguito da Tremal-Naik e da Sandokan e attraversato un corridoio si trovò in un vasto cortile, circondato da eleganti porticati sorretti da esili colonne. Nel mezzo, da una grande coppa di pietra, zampillava altissimo un getto d'acqua. Yanez passò sotto il porticato di destra e si fermò dinanzi ad una porta dove stavano raggruppate delle ragazze indiane. - Avvertite la padrona, - disse loro. Una giovane aprì invece senz'altro la porta, dicendo: - Entra, sahib: ti aspetta. - Yanez ed i suoi compagni si trovarono in un elegantissimo salotto che aveva le pareti tappezzate di seta azzurra ed il pavimento coperto da un sottile materasso che si estendeva fino ai quattro angoli. Tutto all'intorno vi erano dei divanetti di seta, con ricami d'oro e d'argento di squisita fattura, e larghi guanciali di raso fiorato appoggiati contro le pareti onde i visitatori potessero sdraiarvisi comodamente. All'altezza d'un metro, s'aprivano nelle muraglie parecchie nicchie dove si vedevano dei vasi cinesi pieni di fiori che esalavano acuti profumi. Mobili nessuno, eccettuato uno sgabello collocato proprio nel mezzo della stanza su cui stavano dei bicchieri ed un fiasco di vetro rosso racchiuso entro un'armatura d'oro cesellata, e col collo lunghissimo. Una bellissima giovane, dalla pelle leggermente abbronzata, dai lineamenti dolci e fini, cogli occhi nerissimi ed i capelli lunghi intrecciati con fiori di mussenda e gruppettini di perle, si era prontamente alzata. Uno splendido costume tutto di seta rosa, con ricami azzurri, copriva il suo corpo sottile come un giunco, pur essendo squisitamente modellato, lasciando vedere l'estremità dei calzoncini di seta bianca che s'allargavano su due graziose babbucce di pelle rossa con ricami d'argento e la punta rialzata. - Ah! Miei cari amici! - aveva esclamato, muovendo a loro incontro colle mani tese. - Anche tu, Tremal-Naik! Come sono felice di rivederti! Lo sapevo già che non saresti rimasto sordo all'appello dei tuoi vecchi compagni! - Quando si tratta di dare un trono a Surama, Tremal-Naik non rimane inoperoso, - rispose il bengalese stringendo calorosamente la piccola mano della bella indiana. - Se Moreland e Darma non fossero in viaggio per l'Europa sarebbero qui anche loro. - Come l'avrei veduta volentieri tua figlia Darma! - La riceverai alla tua corte, quando tornerà, - disse Yanez. - Orsù, Surama, da' da bere agli amici. Le vie di Gauhati sono molto polverose e la gola si secca presto. - A te, mio dolce signore, il tuo liquore favorito - disse la giovane indiana prendendo il fiasco ed empiendo i bicchieri di cristallo rosa d'un liquore color dell'ambra. - Alla salute della futura principessa dell'Assam, - disse Sandokan. - Non così presto, - rispose Surama, ridendo. - E che! Vorresti tu, piccina, che noi avessimo lasciato il Borneo ed i nostri prahos e gli amici per venire a vedere solamente le bellezze poco interessanti della tua futura capitale? Quando noi ci muoviamo facciamo sempre qualche grosso guasto, è vero Yanez? - Non siamo sempre noi le vecchie tigri di Mompracem? - rispose il portoghese. - Dove piantiamo le unghie la preda non scappa più. Ne vuoi una prova? Abbiamo già nelle nostre mani la famosa pietra di Salagraman. - Quella del capello di Visnù? - Sì, Surama. - Di già? - Diamine! Mi era necessaria per introdurmi a corte. - Ed il merito è tutto del tuo fidanzato, - disse Sandokan. - Yanez invecchia ma la sua straordinaria fantasia rimane sempre giovane. - E potremo finalmente conoscere i tuoi famosi disegni? - chiese Tremal-Naik. - Io continuo a rompermi inutilmente la testa e guastarmi il cervello senza riuscire a trovare alcuna relazione fra quella dannata conchiglia e la caduta del rajah. - Non è ancora tempo, - rispose Yanez. - Domani però saprai qualche cosa di più. - È inutile che tu lo tenti, amico Tremal-Naik, - disse Sandokan. - Noi ne sapremo qualche cosa quando sarà giunto il momento di rovesciare contro le guardie reali i nostri trenta uomini e di sguainare le nostre scimitarre. È vero, Yanez? - Sì - rispose il portoghese, sorridendo. - Quel giorno non sarà però molto vicino. Con quel Sindhia dovremo procedere molto cautamente. Non dobbiamo dimenticarci che siamo soli qui e che non possiamo contare sull'appoggio del governo inglese. Non dubitiamo però sull'esito finale. O Surama riavrà la corona o noi non saremo più le terribili tigri di Mompracem. - Ah mio signore! - esclamò la giovine indiana fissando sul portoghese i suoi profondi e dolcissimi occhi. - Tu la dividerai con me, è vero? - Io! Sarai tu, fanciulla, che me ne darai un pezzo. - Tutta insieme al mio cuore, Yanez. - Sta bene, aspettiamo però di levarla, dalla testa di quel briccone. Pagherà ben cara la cattiva azione che ti ha usata. Lui ti ha venduta come una miserabile schiava ai thugs per fare di te, principessa, una bajadera; un giorno venderemo anche lui. - Purché non faccia la fine della Tigre dell'India, - disse Sandokan con accento quasi feroce. - Ci sarò anch'io quel giorno! -

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