Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l'uso di famiglia

318542
Lazzari Turco, Giulia 22 occorrenze
  • 1904
  • Tipografia Emiliana
  • Venezia
  • cucina
  • UNIFI
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Fatta la prova si gettano tutti i gnocchetti nel brodo, operazione ch'esige una certa destrezza a ciò riescano eguali e non abbiano troppa differenza per il tempo della cottura.

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Fate un roux leggero (vedi pagina 5), mettetevi tutto il soffritto e dell'altra carne cotta, come p. es. delle listarelle di culaccio di manzo o di petto di vitello, o di lingua salata di manzo, o di carne salata di majale, anche la lingua del vitello cotta nel brodo buono e tagliata a fettoline, il cervello, imbianchito, passato allo staccio soffritto nel burro con prezzemolo e ridotto a guisa di gnocchetti tanto lessi come fritti (vedi pag. 78, 79), oppure altri gnocchetti di carne fina o di uova sode, che abbiano il sapore della noce moscata, anche uova sode a pezzetti, se volete, ma è cosa più ordinaria. Abbondate col pepe, e non mancate d'aggiungere del vino bianco, madera o xeres ; in mancanza di questi, semplice vino secco. Se ne avete di pronti mettetevi anche 2-3 cucchiaj di funghi cotti o essenza di funghi o di tartufi (Soya).

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Volendo lasciare intere le fette dei citruoli, scegliete esemplari giovaniche abbiano pochi granelli e soffritti che siano poco meno di un'ora nel burro con un cucchiaio di fecola, serviteli entro un buon consommé con pane fritto e gnocchetti di carne (vedi pag. 78). Potete unire ai citriuoli dell'acetosella o un po' di lattuga.

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. — Mescolate 1/2 chilo di ricotta con un pezzo di burro grosso come un uovo, con tre uova intere, 4 cucchiai di parmigiano, un po' di noce moscata, un cucchiajo di prezzemolo trito, un cucchiajo di pangrattato e la minore quantità di farina possibile tanto che i gnocchi non abbiano a sciogliersi nella cottura. (Conviene fare la prova.) Formate dei gnocchi rotondi con due ramajolini, cuoceteli nell'acqua leggermente salata, levateli colla schiumarola e conditeli con burro e formaggio.

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. — Amalgamate sul tagliere 200 gr. di farina, 80 gr. di burro. 3 tuorli d'uovo, un po' di vino bianco, una presa di sale ; lavorate la pasta in fretta, stendetela e piegatela tre volte come si fa con la pasta sfoglia, della grossezza d'uno scudo circa, tagliatela in tanti dischi che abbiano su per giù cent. 12 di diametro, fatevi tante incisioni che vadano dall'orlo al centro dove lascierete un rotondino intatto, friggeteli con precauzione affinchè non si rompano, spolverizzateli di zucchero.

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Quando i Krapfen sono gonfi, sollevateli con destrezza mediante una paletta e lasciateli scivolare nel grasso bollente in modo che la parte che prima aderiva al tovagliolo resti disopra, badate che abbiano lo spazio necessario per la loro perfetta fermentazione, chiudete ermeticamente la cazzarola e, se il coperchio non combacia bene, circondatelo con uno strofinaccio umido. Friggete i Krapfen adagio, scuotendo la cazzarola, voltateli una volta, quando hanno preso un bel colore collocateli un momento sulle fette di pane o sulla carta asciugante. Spolverizzateli di zucchero e serviteli caldi. Se riescono bene queste bombe devono essere molto leggere, dorate sotto e sopra, con un anello più chiaro in mezzo che dipende dalla giusta quantità dello strutto.

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.° 92 pag. 86 che abbiano su per giù il diametro d'uno stampo a bagnomaria. Preparate un composto con due tre manate di spinaci cotti, due pani bagnati nel latte e passati allo staccio, 2 uova intere e un po' di parmigiano ; mettete sul fondo dello stampo una frittata nel mezzo della quale avrete intagliato uri rotondino per il cilindro, poi uno strato di spinaci, poi un'altra frittata e così di seguito finch'esso è riempito per due terzi ; cuocete a bagnomaria.

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.° 92 che abbiano su per giù la grandezza di uno stampo da charlotte. Empite questo stampo alternando con una frittata e uno strato di crema come quella indicata a pag. 154 N.° 36, 0 uno strato di hâché di carne 0 di purée di spinaci. La cazzarola deve essere colma. Collocatela 30-40 minuti al forno versando sopra l'ultima frittata qualche cucchiajo di brodo buono 0 di sugo d'arrosto.

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belle fette di vitello, battetele, salatele, badate che abbiano tutte la stessa forma rotonda, intingetele nel burro fuso, poi nel pane, cuocetele al forno in un tegame con un po' di burro, aggiungendovi qualche cucchiaiata di panna acida e un po' di sugo di limone.

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vitello magro che abbiano una forma regolare, quadrata, battetele bene, stendete su ciascuna un po' di lardo trito, una fetta di prosciutto, di carne o lingua salata, alcune fettine di tartufo e in mancanza di tartufi dei buoni funghi già cotti, mettetevi il sale e il pepe, rotolate le fettine e stringetele fortemente con tre legature di filo. Coprite il fondo d'una cazzarola di lardo, aggiungete un po' di cipolla, carota, sedano, prezzemolo, adagiatevi sopra i rotoli, empite il recipiente con metà brodo e metà vino bianco. Quando i rotoli saranno bene passati, cioè in ore 1 ½ circa, levateli e lasciateli raffreddare. Collocateli quindi in una tortiera ritti e non troppo vicini gli uni agli altri e versatevi sopra poca gelatina sciolta per fermarli al loro posto. Empite poi la tortiera di gelatina fino all'altezza dei rotoli e, quando è rappresa, ritagliatela con uncilindro di latta in modo da formare tanti cannoncini di gelatina col rotolo in mezzo.

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Scegliete dei cetrioli di media grossezza e che abbiano i semi poco sviluppati. Mondateli, tagliateli a fette sottilissime, spolverizzateli di ,sale. Trascorsi pochi minuti scolateli, conditeli con molto pepe, olio e aceto di serpentaria. Se v'aggrada mescolatevi anche un po' di rafano grattato (cren), o parti eguali di sedano e barbabietole cotti e tagliati a fettine e un battuto d'erbe odorose.

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Prendete due aringhe salate che abbiano il latte, mettetele un giorno nell'acqua e un giorno nel latte affinchè perdano il soverchio sapore di sale. Mescolate il latte delle aringhe con un po' d'olio, con dell'aceto di serpentaria, e con un po' di panna densa, guernite una insalatiera piena di fette di patate cotte a vapore coi filetti dell'aringa e versatevi sopra la salsa, unendovi un battutino di cipolla.

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. — Comperate o preparate dei pani lunghi (vedi Cap. 27), tagliateli a fettine che abbiano 72 cent. di grossezza, e che siano larghe 3-4 cent, e alte quanto la cazzarola che avete a disposizione; intingetele nel burro sciolto e foderate con le stesse il fondo e le pareti della cazzarola che avrete unta bene anch'essa. Le fettine devono accavallarsi un pochino le une sulle altre. (S'intende che la corteccia va levata). Intanto avrete mondate e cotte delle mele nell'acqua zuccherata con un po' di scorza e di sugo di limone.

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Le ciliege, le susine nere (a meno che non siano appena colte e non abbiano conservato la polverina caratteristica), le susine della regina (reines Claude), i mirabolani, le mirabelle, le giuggiole, le mele si lavano e si asciugano con dei pannolini. Le mele si strofinano con un pannolino a ciò piglino il lucido. Anche queste frutta si servono frammezzate di foglie. L'uva (questa misura si rende necessaria dopo che si è generalizzato l’ uso d'irrorare le viti col solfato di rame) si lava bene,si taglia a grappoletti e si fa asciugare sopra un tovagliolo per servirla frammezzata di foglie verdi.

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delle pannocchie al latte, cioè che abbiano i grani formati ma immaturi, fatele bollire per ben due ore neh'acqua salata, smezzatele, spalmatele per lungo di burro fresco e poisgranatele coi denti.

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In mancanza di questi vasi fatevi allestire dal lattoniere dei recipienti di latta della capacità d'un litro al più, che abbiano la forma che indica il disegno e una parte del coperchio saldata all'orlo, più un numero eguale di dischi pure di latta che si fanno poi saldare su questo coperchio. Questi dischi devono avere un minuscolo forellino nel mezzo altrimenti la saldatura riesce più difficilmente (sul forellino si lascia cadere l'ultima goccia di stagno).

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Se bramate che abbiano un sapore forte, fate sciroppare lo zucchero con una parte dell'acqua in cui hanno bollito, la quale in genere si cambia una voltadurante la cottura. Nelle composte d'arancio si prende qualche volta anche il triplo peso di zucchero del peso delle frutta.

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Se gradite che i pickles abbiano un sapore molto piccante, prendete aceto di spezie (vedi pag. 16). Se volete che certe verdure mantengano il loro colore vivace mettete nell'acqua dove le fate cuocere un pezzetto d'allume della grossezza d'una nocciòla.

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In certe regioni d'Italia usa asciugare un pochino l'uva sui graticci al sole, poi conservarla tra la segature (tritoli) o nella crusca in cassettine ermeticamente chiuse, ma per ottenere un buon risultato con questo sistema occorre che i grappoli non abbiano traccia di malattia, cosa difficile a ottenersi ai tempi nostri.

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

. - Aspettiamo che abbiano finito di dar loro la foglia, si veggono meglio - rispose la contessa. - Irma! - ripeté Lelio, ma questa volta con voce così strozzata che l'altra ribatté come sfidandolo improvvisamente: - Che cosa vi prende? - Egli si guardò attorno, l'altra ebbe un moto di spavento, ma era tardi: l'aveva già afferrata alla cintura, premendola nella parete del fienile. Ella si sentì raschiare il collo, ardere la schiena, mentre il sole le batteva sugli occhi accecante, trionfale. - No, no... - Gridate dunque! - Ella fece ancora uno sforzo, ma l'altro la soverchiò con una demenza sùbita ed irresistibile. Fu un attimo. Ella dovette abbassargli il capo sulla spalla sotto la furia dei baci che le mangiavano il collo, presa dentro una stretta delirante, nella quale tutte le sue resistenze di donna svanivano, mentre una paura orribile, inutile le cresceva dalle voci parlottanti sempre all'altro lato. - No! - rantolò ancora sentendosi ardere improvvisamente i ginocchi da un raggio di sole, poi credette di svenire nella sensazione delle punte, che le foravano gli abiti sottili e le mani. Non era forse stato più di un minuto. Ella si ricompose per la prima, vinta, offesa, guardando istintivamente il cane, che non si era mosso; Lelio più sbalordito non riusciva a parlare, poi delicatamente, con due dita, le trasse una festuca dai capelli. - Questa la conserverò - disse finalmente. - Oh! - ella esclamò con accento tremulo e guardandosi intorno - se... - Io arrischiavo la vita, voi no - rispose l'altro superbamente. - Bestiaccia! - Perché dunque vi pare così brutto questo povero cane? - ribatté Lelio ad alta voce per farsi udire dall'altra parte. - Non gli guastate l'unica festa dell'anno: vedete bene che anche in questa gli toccano solamente le ossa. Questa disinvoltura finì di vincerla: Lelio calmo non si affrettava a ritornare dall'altro lato. - Andate, andate - ella diceva affannosa. - Perché? - rispose gettando un sorriso trionfante d'ironia attraverso il fienile. - Oh! Lelio! vai.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 16 occorrenze

. - Che mi abbiano invece fucilato? - si chiese. S'alzò di scatto guardandosi le vesti e non vide alcuna macchia di sangue. Nemmeno Fedoro aveva la casacca lorda. - Che io sogni? - si domandò. Un lungo sibilo, che pareva uscisse da qualche macchina, lo fece sobbalzare. Un'ombra umana si delineava dinanzi a lui. La guardò con paura. Non era un'ombra, era un uomo, un bell'uomo anzi, di statura alta e di forme eleganti, colla pelle leggermente abbronzata, con due occhi nerissimi e pieni di splendore, con una barba pure nera pettinata con gran cura. Era vestito tutto di bianco, con una larga fascia rossa che gli stringeva i fianchi, e calzava alti stivali di pelle nera. Anche quell'uomo lo guardava, ma sorridendo. - Dove sono io? - chiese Rokoff. - A bordo del mio "Sparviero" - rispose lo sconosciuto nell'egual lingua. - Siete sorpreso, è vero? Ciò non mi stupisce. Poi, con una certa meraviglia, chiese: - Voi non siete un cinese, quantunque ne indossiate il costume, è vero? Invece di rispondere a quella domanda, Rokoff aveva chiesto: - Ditemi, signore: sono vivo o sono morto? - Mi pare che siate vivo - rispose lo sconosciuto, ridendo. - Però se avessi tardato solamente qualche minuto, non so se la vostra testa si troverebbe ancora sulle vostre spalle. Il cosacco aveva mandato un grido. La memoria gli era prontamente ritornata. Rivide tutto d'un colpo la piazza affollata dal popolaccio furioso, il palco, il carnefice, poi quel mostro scendere precipitosamente e rapirlo fra i colpi di fucile dei soldati cinesi. Ci volle però qualche minuto prima che le sue idee si riordinassero. Balzò innanzi e porse la mano allo sconosciuto, dicendogli con voce commossa: - M'avete salvato ... grazie signore ... vi devo la vita ... - Bah! Un altro, al mio posto, avrebbe fatto altrettanto! Siete russi? - Sì, signore, e voi? Il comandante dello "Sparviero" lo guardò senza rispondere. Una profonda ruga gli si era disegnata sulla sua ampia fronte, mentre nei suoi occhi era balenato uno strano lampo. - Vi avevo creduto cinesi - disse poi con voce lenta, misurata. - Tuttavia sono lieto di aver strappato due europei alla morte, quantunque ignori ancora il motivo per cui eravate stati condannati alla decapitazione. - Ah! Signore! Anche voi dubitate della nostra innocenza! - esclamò Rokoff. - Credete voi che un onorato ufficiale dei cosacchi del Don, che ha due medaglie al valore guadagnate sotto Plewna e che uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia meridionale abbiano potuto assassinare un cinese per derubarlo? - Io non so a quale delitto volete alludere - disse lo sconosciuto, con tono però meno duro, - e non dubito affatto che voi siate due galantuomini. - Siamo due vittime dell'odio secolare dei cinesi contro gli uomini di razza bianca. - Non metto in dubbio ciò che mi dite e per darvene una prova ecco la mia mano signor ... - Dimitri Rokoff ... del 12o Reggimento dei cosacchi del Don. Si strinsero la mano, poi il comandante dello "Sparviero" disse: - Venite: voi non avete ancora veduto la mia macchina. - Ed il mio amico? - Lasciatelo riposare. L'emozione provata deve averlo abbattuto. È il negoziante di tè costui? - Sì, signor ... - Chiamatemi semplicemente "il capitano". - Un capitano russo, perché parlate la nostra lingua come foste nato sulle rive della Neva o del Volga. Un sorriso enigmatico si delineò sulle sottili labbra del capitano. - Parlo il russo come il francese, l'italiano, il tedesco, l'inglese e anche il cinese. Vedete dunque che la mia nazionalità è molto difficile da indovinare. Ma che importa ciò? Sono un europeo come voi e ciò basta, o meglio sono un uomo di razza bianca. Venite, signor Rokoff, ah! Soffrite le vertigini? - No, capitano. - Meglio per voi: godrete uno spettacolo superbo, perché in questo momento noi ci libriamo sopra Pechino. Macchinista! - Signore - rispose una voce. - Rallenta un po'. Voglio godermi questo meraviglioso panorama. Stavano per uscire da quella specie di tenda, quando Rokoff udì Fedoro gridare con accento atterrito: - La mia testa! La mia testa! Il cosacco si era precipitato verso l'amico, frenando a malapena una risata. - L'hai ancora a posto, Fedoro! - esclamò. - Quei bricconi non hanno avuto il tempo di tagliartela. Il russo si era alzato, guardando sbalordito ora Rokoff ed ora il comandante dello "Sparviero". - Rokoff! - esclamò. - Dove siamo noi? - Al sicuro dai cinesi, amico mio. - E quel signore? Ah! Mi ricordo! L'uccello mostruoso! Il rapimento al volo! Voi siete il nostro salvatore! - Io non sono che il capitano dello "Sparviero" - rispose il comandante, tendendogli la mano. - Signore, non avete più da temere, perché siamo ormai lontani da Tong. Venite: vi mostrerò la mia meravigliosa macchina volante o meglio la mia aeronave. Macchinista! Preparaci intanto la colazione.

Ci hanno circondati e non mi pare che abbiano l'intenzione di lasciarci, senza aver almeno assaggiato un pezzetto delle nostre gambe. - Proviamo a respingerli - disse Rokoff. - E l'orso? - Non lo vedo scendere. - Una scarica a destra e una a sinistra. I due cacciatori si fecero largo fra i cespugli, per giudicare prima la loro situazione. Entrambi non poterono reprimere una smorfia di malcontento. I bighana a poco a poco li avevano circondati e si erano radunati in numero tale da temere un furioso assalto. Se ne vedevano dappertutto e s'avanzavano lentamente e incessantemente, stringendo i loro ranghi. Come il capitano aveva detto, i lupi indiani, quando si trovano in buon numero, sono coraggiosi, anzi non la cedono, per audacia, ai grossi lupi delle steppe e della Siberia. Somigliano ai loro congeneri del settentrione, sono invece più piccoli, non essendo più alti di sessanta centimetri, né più lunghi di ottanta o novanta. Hanno il pelame rossiccio o grigiastro, colle parti inferiori bianco sporco. Ordinariamente vivono in piccoli branchi di sette od otto individui; sovente si radunano in grosse bande e allora diventano il terrore dei pastori e dei villaggi montanini. Intelligenti, velocissimi, coraggiosi, si precipitano sui montoni e sui buoi senza spaventarsi delle grida dei mandriani e osano perfino entrare, in pieno giorno, nelle borgate per rapire i bambini sotto gli occhi dei genitori. Il capitano, che li conosceva, vedendoli in così grosso numero, era diventato inquieto. - Non credevo che in così poco tempo si fossero radunati in tanti - disse a Rokoff. - Il pericolo maggiore non sta alle nostre spalle, bensì dinanzi a noi. - Cerchiamo un rifugio - disse Rokoff. - E dove? - Arrampichiamoci sul nim. - E avremo da fare i conti coll'orso. - Non sappiamo ancora se lassù si trovi veramente un tale animale. - Questo è vero - rispose il capitano. - Dei due mali, scegliamo il minore. - Proviamo prima a fucilare questi audaci predoni. - Sono pronto, capitano. Le due carabine tuonano quasi contemporaneamente con un rimbombo assordante, coprendo le urla acute dei bighana. I grossi proiettili atterrano due file di animali. Gli altri indietreggiano vivamente, balzando attraverso i cespugli e s'arrestano cinquanta passi più lontano, riprendendo con maggior lena il loro scordato concerto. - Non ci lasceranno - disse il capitano. - Vedete l'animale scendere il nim? - No - rispose Rokoffi. - Ho invece ricevuto un altro ramo sul viso e più grosso degli altri. - Mettiamo in salvo le gambe; ecco i bighana che tornano a restringere le file e che si preparano per un assalto generale. Caricate la carabina. - È già pronta. - Salite, mentre io faccio una nuova scarica. Il cosacco si gettò a bandoliera l'express, s'aggrappò al tronco e aiutandosi con delle piante parassite che lo avvolgevano, si mise a salire, tenendo gli sguardi volti in alto per paura di vedersi rovinare addosso l'animale. Il capitano, fatto una nuova scarica, si era affrettato a raggiungerlo. I lupi, furiosi di vedersi sfuggire la preda, si erano subito scagliati contro il tronco del nim, ululando ferocemente e spiccando salti colla speranza di raggiungerli. Erano quattro o cinque dozzine, numero più che sufficiente per mettere a mal partito due uomini, anche se formidabilmente armati. Rokoff e il capitano, ormai al sicuro, salivano con precauzione, guardando sempre in alto. Un animale che non riuscivano ancora a distinguere in causa della foltezza del fogliame, si agitava fra i rami, scuotendoli vigorosamente e facendone cadere parecchi. Si erano elevati d'una decina di metri, quando Rokoff, che distava pochi passi dalla prima biforcazione della pianta, si fermò, dicendo: - La bestia che sta lassù, mi pare molto grossa, capitano. - Che cosa vi sembra? - Un'enorme scimmia. - Questo non è il paese dei gorilla e nemmeno dei mias, signor Rokoff - rispose il capitano. - Sono convinto che si tratti d'un orso. - Se ci piomba addosso ci getterà giù e allora verremo alle prese coi bighana, se non ci romperemo il collo o le gambe. - Non potete far fuoco? - È impossibile, capitano, non vi sono più piante parassite a cui aggrapparmi e il tronco è così liscio che è un vero miracolo che ci possiamo sorreggere con ambo le mani. - Che cosa fa quell'animale? - Scuote i rami e grugnisce come un porco. - Potete raggiungere la biforcazione? - Mi ci proverò, ma ... se quell'animalaccio scende? - Non affrontatelo; piuttosto ridiscendete. Se è grosso deve essere un labiato e non già un panda. - Bella posizione! - borbottò Rokoff. - Abbasso i cani che non attendono altro che di rosicchiarci le gambe e sulla testa quattro zampe armate d'unghie. Siamo fra Scilla e Cariddi. - Orsù, signor Rokoff, decidetevi. Non ho più forze per sorreggermi - disse il capitano. - Giacché non vi è scampo né da una parte né dall'altra, affrontiamo il nemico che può fornirci degli zamponi. Il cosacco si assicurò la carabina onde non gli sfuggisse dalla spalla, si mise fra i denti il coltello da caccia e riprese la salita, la quale diventava sempre più difficile, non essendovi più piante arrampicanti ed essendo il tronco ancora più grosso da non poterlo abbracciare interamente. Sotto, i lupi indiani continuavano a ululare e a saltare come se fossero impazziti; sopra, l'orso, ammesso che fosse tale, continuava a scuotere furiosamente i rami, minacciando a ogni istante di lasciarsi scivolare lungo il tronco e di travolgere i due cacciatori. Rokoff, che faticava assai a tenersi stretto, con un supremo sforzo riuscì a raggiungere la biforcazione dei rami. Stava per mettersi a cavalcioni e aiutare il capitano, quando si vide precipitare addosso l'animale, il quale, fino allora, si era tenuto aggrappato a un grosso ramo trasversale, situato due metri più sopra. Come il capitano aveva supposto, si trattava veramente d'un orso della specie dei labiati, chiamati dagl'indiani adamsad, molto comuni sulle catene dell'Himalaya e anche nelle foreste del Nepal. Quantunque appartengano alla medesima razza degli altri plantigradi, sono diversi nelle forme e nelle abitudini. Hanno il corpo più corto e più massiccio, le zampe assai basse, armate di robuste unghie ricurve; muso molto sporgente che finisce in una punta tronca, pelame lunghissimo, nero sul dorso, grigio sulla testa, con qualche macchia gialla e una lunga criniera che finisce in due lunghi ciuffi, che danno a quegli animali uno strano aspetto. A prima vista, sembrerebbero gobbi. Abilissimi arrampicatori, si può dire che vivono più sugli alberi che in terra, nutrendosi quasi esclusivamente di frutta. Amano però anche le alte rupi e se sono inseguiti non esitano a slanciarsi negli abissi, nascondendo la testa fra le zampe e cavandosela senza troppi guasti. L'animale che stava per assalire il cosacco, era grosso e pesante almeno un quintale e mezzo, un nemico certo pericoloso, che poteva abbattere i due uomini. Vedendolo avanzarsi, Rokoff aveva afferrato precipitosamente la carabina, mentre gridava al capitano: - Aggrappatevi ai miei piedi! Resisterò meglio! L'orso scese rapidamente il ramo, mise le zampe posteriori sulla biforcazione e s'alzò brancolando con quelle anteriori, armate di lunghi artigli. - Fuoco! Fate fuoco! - gridò il capitano. Rokoff aveva puntato la carabina, sparando precipitosamente, quasi senza mirare. Non ebbe il tempo di constatare gli effetti della scarica, perché si sentì afferrare strettamente da due zampacce e scuotere a destra e a manca, mentre si sentiva soffiare in viso un alito caldo e fetente. Credeva di sentirsi già dilaniare le carni o scaraventare nel vuoto da un'altezza di cinquanta piedi, quando una seconda detonazione rimbombò. Era stata sparata così da vicino, che per un momento si credette accecato dalla polvere. Il capitano, comprendendo che il cosacco stava per venire oppresso e che non doveva aver colpito la belva, tenendosi con una mano, coll'altra aveva scaricato la carabina. Il labiato aveva mandato un urlo di dolore, poi aveva lasciato il cosacco, arrampicandosi su pel tronco e rifugiandosi sui rami. - Colpito! - gridò Rokoff, allungando le braccia verso il capitano, il quale si era lasciato sfuggire di mano la carabina, pel contraccolpo della grossa carica di polvere che per poco non l'aveva gettato giù. - Ma è ancora vivo - rispose il comandante. - L'avete colpito, voi? - Lo credo. - E io l'ho solamente ferito. - Forse gravemente. Guardate, mi gocciola addosso del sangue. - Morisse almeno dissanguato! - esclamò il capitano, mettendosi a cavalcioni del ramo. - Sapete che vi credevo già perduto? - Ancora un momento e venivo gettato giù. - Vi ha piantato le unghie nelle spalle? - Non ne ha avuto il tempo; ha lacerato solamente la mia casacca. - E la mia carabina è caduta! - Ne abbiamo ancora una - disse Rokoff. - Io non l'ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso. - E perdereste gli zamponi. - Perché, capitano? - I bighana ve li mangerebbero. - E durerà molto questo assedio? - Fino all'alba, se i nostri compagni non vengono a liberarci - disse il capitano. - Quei lupi non torneranno alle loro tane prima che spunti il sole. - Brutta prospettiva. Che non vengano Fedoro e gli altri? Abbiamo già sparato cinque colpi di carabina e devono averli uditi. - Diranno che noi abbiamo fatto buona caccia e non si muoveranno, signor Rokoff. - Fuciliamo i lupi. - Abbiamo una carabina troppo grossa per ottenere buoni risultati - rispose il capitano. - Queste armi sono buone contro le tigri e i rinoceronti. - Non credevo che questa caccia finisse così male! - E come, vi lamentate, incontentabile cacciatore? Siamo qui da sole due ore e abbiamo già ucciso sette od otto lupi e ferito un orso. - E siamo assediati - disse Rokoff. - Sia pure, ma siamo anche completamente al sicuro dalle offese dei nemici. Il labiato non pensa più a discendere per attaccarci e i lupi non possono salire. Che cosa volete di più, signor cosacco? E avete il coraggio di lamentarvi? - Adagio, capitano, colle vostre buone speranze. Vedo invece l'orso agitarsi e l'odo brontolare. - Si lamenta delle ferite. - E se invece scendesse? - Allora perderete gli zamponi perché sarete costretto a fucilarlo e gettarlo a pasto dei lupi - disse il capitano. - Preferisco che rimanga lassù - rispose Rokoff. - Credo che ci tenga anche lui a non esporsi agli assalti dei lupi. Se non fosse ferito, non avrebbe paura ad affrontarli, mentre chissà in quale stato si trova e se le sue zampe sono in grado di distribuire colpi d'artiglio. - Cade sempre il sangue? - Mi piove addosso - rispose Rokoff. - Devo sembrare un macellaio. - Signor Rokoff! - Capitano. - Siete annoiato? - Un pochino. - Allora tirate al bersaglio. Abbiamo ancora centonovantacinque cartucce e i lupi non sono più di cinque o sei dozzine. Se volete, divertitevi, mentre io sorveglierò l'orso. Vi concedo un lupo ogni cinque palle. - Cercherò di ammazzarne invece due su cinque colpi - disse Rokoff, accomodandosi sul ramo, onde tirare con maggior attenzione. I bighana non avevano lasciato la base dell'albero. Continuavano a saltellare, mordendo la corteccia della pianta e strappandola a larghi pezzi coi loro denti acuminati e robusti e ad urlare con tale fracasso da far rintronare la foresta. Di quando in quando alcuni si allontanavano in diverse direzioni e andavano a urlare cinque o seicento passi più lontano, su diversi toni. - Chiamano altri compagni - disse il capitano. - Che sperino di rosicchiare l'albero fino a farlo cadere? - chiese Rokoff. - Non temete; ci vorrebbero delle settimane per atterrare una simile pianta. Signor Rokoff, aspettano i vostri saluti. Il cosacco puntò la carabina mirando in mezzo al gruppo e sparò il primo colpo, facendo cadere due bestie nello stesso momento. - Ho nove palle di vantaggio - disse ridendo. - Continuate - rispose il capitano. - Ah! L'amico che sta lassù comincia ad inquietarsi. Il labiato, udendo quello sparo e vedendo il fumo salire fra il fogliame, aveva ricominciato a dimenarsi, facendo scricchiolare i rami. - Che ci cada addosso? - chiese Rokoff, guardando in alto. - Non sarà così stupido da tentare un simile capitombolo, quantunque abbiano l'abitudine di precipitarsi da altezze considerevoli, allorquando si vedono in pericolo. Se non vi fossero sotto di noi i lupi, chissà, potrebbe tentare un simile salto. - Senza fracassarsi? - Pare che abbiano le ossa molto dure i labiati e posseggano una elasticità incredibile. Signor Rokoff, i lupi aspettano sempre. - Eccomi! Il cosacco aveva ripreso il fuoco. Sparava con calma, mirando attentamente, come se si trovasse in un tiro a segno durante una gara e i lupi cadevano a uno e a due alla volta. Era davvero un valente bersagliere; di rado sbagliava l'animale che aveva scelto. In cinque minuti, undici lupi giacevano attorno all'albero, massacrati dai grossi proiettili della carabina express. - Rimangono ancora cinque dozzine - disse il capitano. - E ne giungono altre due o tre - disse Rokoff, con accento scoraggiato. - Quelli che erano partiti urlando al largo tornano con nuovi rinforzi. - Che questa foresta sia piena di bighana? - Pare che sia così, capitano. E l'orso? - Si è tranquillizzato e non l'odo più muoversi. - Che sia morto? - Sarebbe caduto. - Salutiamo i nuovi arrivati - disse Rokoff. Aveva ripreso il fuoco, mirando in mezzo ai gruppi e senza mai mancare al bersaglio. I bighana però non accennavano a volersi ritirare, quantunque vedessero aumentare i morti. Avevano tuttavia compreso che rimanendo così uniti offrivano un bersaglio troppo facile e si erano dispersi fra i cespugli, senza però allontanarsi troppo dalla pianta. - Il tiro a segno comincia ad andare male - disse Rokoff, dopo aver sprecato cinque o sei palle. - Rimarremo senza cartucce prima di averli distrutti. - Me ne sono accorto - disse il capitano. - Devo continuare? - Sì, signor Rokoff. I nostri compagni, udendo questi continui spari, s'immagineranno che noi corriamo qualche pericolo e verranno di certo in nostro soccorso. Non siamo lontani più d'un chilometro dallo "Sparviero" e le detonazioni giungeranno distinte fino al fuso. Ah! Udite? Uno sparo si era udito in quel momento in direzione del piccolo altipiano. - È uno Snider - disse il capitano. - Signor Rokoff, rispondete. Il cosacco scaricò la carabina facendo cadere un altro lupo. Un istante dopo un altro sparo echeggiava verso lo "Sparviero". - Continuate il fuoco senza interruzione - disse il capitano. - Ormai i nostri compagni hanno compreso che noi abbiamo bisogno d'aiuti. - E non li assaliranno i lupi? - chiese Rokoff. - Ci siamo anche noi, e cinque uomini bene armati possono tener testa a quei piccoli predoni. Rokoff riprese a sparare senza far risparmio di cartucce. Ormai sapeva che gli aiuti stavano per giungere e non si preoccupava di rimanere con sole poche cariche. I lupi dovevano essersi accorti che altri uomini s'avvicinavano, perché alcuni si erano distaccati dal grosso ed erano partiti ululando, in direzione del piccolo altipiano. - Li hanno fiutati - disse il capitano. - Prepariamoci ad appoggiare i compagni. D'un tratto sotto gli alberi si videro balenare dei lampi seguiti da spari. - I Winchesters - disse il capitano. - Buone armi a ripetizione che faranno ballare i bighana! I lupi che assediavano l'albero, udendo quelle detonazioni, erano partiti a corsa disperata, ululando a piena gola. - Scendiamo! - gridò il capitano. Si lasciarono scivolare lungo il tronco, toccando ben presto terra. Il capitano raccolse la sua carabina, l'armò precipitosamente e si slanciò fuori dai cespugli, gridando: - Signor Fedoro! Badate a non fucilarci! Veniamo in vostro aiuto! Vedendo i lupi radunarsi innanzi a una folta macchia, in mezzo alla quale dovevano trovarsi il russo, il macchinista e lo sconosciuto, li presero alle spalle fucilandoli senza misericordia. I bighana, presi fra due fuochi non ressero molto a quella tempesta di palle che li decimava rapidamente. Dopo d'aver cercato di far fronte ai due pericoli, si sbandarono, fuggendo velocemente attraverso la foresta, perseguitati per qualche tratto da Fedoro, dal macchinista e dal loro compagno. Rokoff stava per seguirli, quando udì il capitano gridare: - L'orso! Ecco che scende! Il cosacco si era subito arrestato, ricaricando la carabina. Il labiato, approfittando della discesa dei suoi compagni e del combattimento coi lupi, aveva lasciato gli alti rami del nim e si lasciava a sua volta scivolare lungo il tronco, colla speranza di raggiungere inosservato i cespugli e di scomparire entro le folte macchie. Aveva però fatto i conti senza il capitano, il quale, pur facendo fronte ai bighana, non aveva dimenticato quella grossa e succolenta selvaggina. Vedendo i cacciatori tornare, nascose la testa fra le zampe anteriori e si lasciò andare precipitandosi da un'altezza di otto o dieci metri. Piombò in mezzo ai cespugli che schiantò col proprio peso e senza farsi, probabilmente, troppo male, poi si rialzò di scatto e si scagliò contro il capitano, che gli era vicino, cercando di piantargli gli unghioni nel viso. - Badate! - gridò Rokoff, che giungeva di corsa. Il capitano aveva fatto un salto indietro per evitare l'urto e aveva puntato la carabina facendo fuoco quasi a bruciapelo. Quantunque ferito a morte, il labiato non era caduto, anzi si era alzato sulle zampe posteriori facendo un salto innanzi. L'attacco era stato così improvviso e così impetuoso, che il capitano, il quale credeva di averlo fulminato sul colpo, non poté reggere e cadde lungo disteso. Fortunatamente Rokoff era vicino. Si udì un secondo sparo. Il labiato brancolò un istante dimenando disordinatamente le zampe, poi stramazzò mandando un rauco urlo che finì in una specie di sibilo soffocato. - Pare che sia proprio finito questa volta - disse Rokoff. - Tre palle express e quasi non bastavano ancora! ... Che pelle dura hanno questi animali! Fedoro e i suoi compagni, dispersi i lupi, tornavano. - Un orso! - esclamò il russo. - Che ci fornirà degli zamponi deliziosi - rispose Rokoff. - E centocinquanta chilogrammi di carne eccellente - aggiunse il capitano. - Lasciamo i lupi e portiamo questo morto allo "Sparviero". La caccia, come avete veduto, signor Rokoff, non poteva riuscire migliore.

- Che abbiano condotto via i tuoi amici? - chiese lo sconosciuto, che era tornato allora sul ponte portando parecchi fucili. - E dove? - Se il Dalai-Lama di Lhassa, informato della discesa dal cielo di due figli di Buddha li avesse reclamati? - In tal caso - disse - sarebbero perduti. Chi oserebbe andarli a strappare a quel possente pontefice? Lhassa ha migliaia e migliaia d'abitanti, ha truppe cinesi e anche bastioni armati d'artiglierie. Ma no, è impossibile che in così breve tempo abbiano potuto condurli sino a quella città attraverso strade quasi impraticabili. Li raggiungeremo ancora in viaggio e daremo battaglia alla scorta. Andiamo ad assicurarci se sono stati condotti via. Guardò nuovamente, con maggior attenzione. - Eppure non vi è anima viva, né sulla penisola, né sulle rive vicine - disse. - Il monastero è deserto. Macchinista, aumenta la velocità più che puoi. Lo "Sparviero" precipitava la corsa. Con una volata fulminea superò la distanza e si librò sopra i tetti e le cupole del monastero, descrivendo un largo giro intorno a quell'ammasso di fabbricati. Cosa strana! Il più profondo silenzio regnava dappertutto e non si vedeva alcuno né alle finestre, né sulle terrazze, né sui poggioli delle torri, né sul piazzale. - Che siano fuggiti tutti? - si chiese il capitano, le cui apprensioni aumentavano di momento in momento. - È impossibile che un monastero così famoso, abitato da centinaia di monaci, sia stato da un istante all'altro abbandonato. - Che stiano pregando in quel tempio gigantesco? - chiese lo sconosciuto. - E i pellegrini? - Saranno tornati ai loro villaggi. - Non ne sono convinto, ma lo sapremo subito. Il capitano fece abbassare lo "Sparviero" dinanzi al piazzale, strappò la coperta di tela cerata che riparava la mitragliatrice e scaricò tutte le canne. Le detonazioni si ripercossero rumorosamente fra i fabbricati, ma nessun monaco comparve. - Se ve ne fosse qualcuno, si sarebbe mostrato - disse il capitano. - Come spieghi questa fuga? - chiese lo sconosciuto. - Che ci abbiano veduto giungere e che temendo che noi volessimo rapire i due prigionieri si siano rifugiati in qualche luogo? - Col mio cannocchiale li avrei veduti. - Ho scorto un villaggio entro terra. - L'ho osservato anch'io. - Andiamo a domandare a quegli abitanti dove sono andati i monaci. - Sì, ed a spiegare questa inesplicabile scomparsa di tanta gente - rispose il capitano. A un suo cenno il macchinista fece dopo aver descritto un altro giro intorno una roccia enorme, sulla quale sorgeva un piccolo gruppo di capannucce pietra e di fango seccato. In dieci minuti lo "Sparviero" raggiunse il villaggio, ma anche quello sembrava disabitato. Nessun montanaro si vedeva aggirarsi attorno alle capanne, né nei campicelli dissodati chissà con quali fatiche, su quell'altura. - Ciò è inesplicabile! - esclamò il capitano, nel momento in cui lo "Sparviero" toccava il suolo. - Che qui sia scoppiata la guerra o che delle bande di briganti devastino le rive del lago, fugando tutti gli abitanti? - Signore ... là ... un uomo che fugge! - esclamò in quel momento il macchinista. Il capitano, con una rapida mossa, aveva afferrato un fucile e si era slanciato fra le capanne, seguito dallo sconosciuto. Un uomo vestito di pelli, cercava di celarsi in mezzo ad alcune betulle, che crescevano dietro al villaggio. Il capitano in pochi salti lo raggiunse, afferrandolo pel collo. Il montanaro, un vecchio che zoppicava, non aveva osato opporre resistenza, anzi si era lasciato cadere in ginocchio, tendendo le mani con gesto supplichevole e balbettando alcune parole incomprensibili. - Conosci la lingua cinese? - chiese il capitano con voce minacciosa. - Sì, signore, la comprendo - rispose lo zoppo. - Non fatemi mangiare dalla vostra aquila; sono un vecchio che non ha mai fatto male ad alcuno. - Se ti è cara la vita, rispondimi. - Parlate - disse il vecchio, con voce tremante. - Perché sono fuggiti i monaci di Dorkia? - Non sono fuggiti, signore. - Dove sono andati? - Il vecchio additò un'alta montagna che giganteggiava verso il sud-ovest. - Lassù - disse. - A cosa fare? - Non so ... vi erano due uomini bianchi come voi ... che si dicevano figli di Buddha ... - Avanti. - Ignoro che cosa sia successo ... so però che dopo essere stati adorati, sono stati condannati ... - A morte? - chiese il capitano, impallidendo. - A essere mangiati vivi dalle aquile. - Dove? - Sulla cima di quella montagna. - Quando sono stati condotti lassù? - Stamane. - Dai monaci? - E da migliaia di pellegrini - rispose il tibetano. - Ah! Canaglie! Me la pagheranno! - gridò il capitano. - Che siano già giunti sulla cima? - La via è lunga ... lo ignoro. - Giurami che hai detto la verità. - Sul grande Buddha. - Partiamo senza perdere un istante - disse il capitano. - Forse giungeremo in tempo per salvarli. Si era lanciato verso lo "Sparviero", seguito dallo sconosciuto. Un momento dopo la macchina s'innalzava volando verso la montagna segnata dal tibetano, la quale sorgeva a circa mezza dozzina di miglia verso l'ovest. Era una piramide enorme, che doveva toccare i tremila metri e che sorgeva isolata fra un gruppo di monti minori. Tutti i suoi fianchi erano coperti di neve; solamente alla base si vedeva un po' di vegetazione, dei gruppi di pini e di abeti. Lo "Sparviero" si elevava rapidamente, battendo poderosamente e precipitosamente le ali per raggiungere quell'altezza considerevole. Anche le eliche orizzontali turbinavano vertiginosamente, imprimendo al fuso un fremito sonoro. L'aria diventava di momento in momento più rarefatta, rendendo la respirazione degli aeronauti assai penosa. Si trattava di raggiungere i settemilanovecento e forse gli ottomila metri d'elevazione, trovandosi già il lago a quattromilaseicentotrenta sul livello del mare. Solamente i tibetani, abituati a quell'atmosfera, potevano resistere senza provare alcun disturbo. Perfino il capitano si sentiva ronzare gli orecchi e girare il capo come se fosse ubriaco. Lo sconosciuto poi si era lasciato cadere su una cassa tenendosi la testa stretta fra le mani e respirando affannosamente. Raggiunti i settemila metri, lo "Sparviero" prese la corsa verso l'enorme montagna, provocando una fortissima corrente d'aria. Ora il freddo era così intenso a quell'altezza, che le balaustrate di metallo si erano coperte quasi istantaneamente di ghiaccioli e che l'alito degli aeronauti, appena uscito dalle loro labbra, si convertiva in nevischio. Il capitano, dopo essersi avvolto in coperte di lana di molto spessore, si era messo in osservazione a prora, tenendo il cannocchiale puntato sulla vetta della piramide. Quantunque la distanza fosse ancora notevole, gli pareva d'aver veduto due punti oscuri ergersi sulla cima, fra il candidissimo strato nevoso. - Che siano Rokoff e Fedoro? - si era chiesto. - Se giungessimo troppo tardi? Macchinista, aumenta ancora, fino a far scoppiare la macchina! I due punti neri diventavano più distinti. Sembravano due esseri umani appesi a un palo o a una croce sormontata da alcuni stracci svolazzanti al vento. Dei punti più piccoli, che non si potevano ancora discernere, volteggiavano intorno, ora alzandosi e ora abbassandosi. Che cos'erano? Aquile forse, pronte a precipitarsi sulla preda a loro offerta dal miserabile Bogdo-Lama di Dorkia? Il capitano lo supponeva. - I fucili da caccia! - gridò. - Preparate i fucili da caccia e innalziamoci ancora! ... Rokoff e Fedoro sono lassù! Lo sconosciuto, strappato dal suo torpore da quei comandi, con uno sforzo supremo si era alzato, barcollando come un ebbro. - Perché i fucili?- chiese. - E le bombe? - Le aquile! Le aquile! Stanno per dilaniarli! - gridò il capitano. - Guardate! Ah! I miserabili! Lo "Sparviero"" aveva raggiunto la piramide, ma si trovava ancora troppo basso per raggiungere il vertice. Interruppe bruscamente la sua marcia orizzontale e ricominciò ad elevarsi, inclinandosi verso poppa per avere maggior slancio. Sulla cima della piramide, proprio sulla vetta, si vedevano Fedoro e Rokoff a dibattersi disperatamente e si udivano a urlare colla speranza di spaventare le aquile che giravano intorno a loro, pronte a dilaniarli coi robusti rostri e coi poderosi artigli. I due disgraziati, che indossavano ancora le tonache dei monaci, erano legati a una specie di croce, l'uno accanto all'altro, sormontati da una bandiera di feltro bianco, su cui si vedevano dipinte delle lettere. Quindici o venti aquile volteggiavano ora sopra e ora intorno a loro mandando acute grida, sfiorandoli colle loro poderose ali per stordirli prima di cominciare a farli a pezzi vivi. Entrambi si dibattevano disperatamente, cercando di far cadere la croce, ma erano legati così solidamente da non poter liberare né le mani né i piedi. Già un'aquila, più ardita delle altre, si era posata sulla cima della croce, pronta a spaccare il cranio del cosacco, che si trovava più vicino, quando comparve lo "Sparviero", il quale aveva finalmente superato l'orlo della piramide tronca. Contemporaneamente rimbombarono due spari e il vorace volatile, colpito in pieno, capitombolava al suolo. Due grida era sfuggite ai disgraziati, che già credevano di sentirsi dilaniare, due grida di gioia suprema: - Lo "Sparviero"! Il capitano! Poi seguirono una serie di detonazioni: era la mitragliatrice che tempestava le altre aquile, fracassando le loro ali o fulminandole sul colpo. Lo "Sparviero" si era adagiato sulla cima della montagna e il capitano e lo sconosciuto, quantunque storditi, si erano slanciati a terra. - Rokoff! Fedoro! - gridò il comandante, mentre il macchinista continuava a far tuonare la mitragliatrice per fugare i volatili sopravvissuti alla prima scarica e che non volevano decidersi ad abbandonare le prede. - Per le steppe del Don e anche dell'inferno! - urlò Rokoff. - Liberateci, signore! Le canaglie! I miserabili! Andiamo a sterminarli tutti! Urrà per lo "Sparviero"! Il capitano, che aveva portato un coltello, s'arrampicò sulla croce e liberò entrambi dalle corde che li avvincevano. Fedoro, assiderato, istupidito, mezzo asfissiato, si era subito abbandonato fra le braccia dello sconosciuto, borbottando con voce appena intelligibile: - Grazie ... Aveva il sangue al naso e anche agli orecchi in causa dell'estrema rarefazione dell'aria. Lo si dovette portare sullo "Sparviero", perché non si reggeva più. Rokoff invece, appena liberato, si era messo a correre verso l'estremità opposta del piccolo altipiano, coi pugni chiusi, gli occhi scintillanti d'ira. - Signor Rokoff! - gridò il capitano. - Dove correte? Siete impazzito? Il cosacco pareva che non lo udisse nemmeno e che non provasse lo stordimento che s'impadroniva sempre più dei suoi compagni. Quando giunse sul margine estremo, un urlo selvaggio gli sfuggì. - Eccoli! Cane d'un lama, avrò la tua pelle! Il capitano lo aveva raggiunto. - Venite ... lo "Sparviero" ci attende ... è pericoloso fermarci quassù ... la rarefazione ... - Guardateli! - gridò Rokoff, furioso. - Scendono la montagna. - Ma chi? - I buddisti ... i monaci ... gli assassini ... Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance. - Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani - disse Rokoff. - Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove - rispose il capitano. - Promettetemi di passarvi sopra. - Sì, ma fuori di portata dei loro fucili. - Andiamo allo "Sparviero". Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po' dalle emozioni provate e per riscaldarlo. - Partiamo! - disse il capitano. - Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze. Si erano imbarcati tutti. Lo "Sparviero" attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano. Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli. Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d'uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni. Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D'un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d'acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando: - Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi! Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo "Sparviero" era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

. - Che questi signori monaci abbiano l'intenzione di tenerci prigionieri? - Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai stati veduti volare sul dorso d'un uccello. - E noi ci lasceremo sequestrare tranquillamente? - Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna. - Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia - disse Rokoff. - Un figlio di Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano. - Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri? - Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto. - E se fosse morto? Fedoro non osò rispondere. Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente. La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor. I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un'abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta. Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri. Che magnifici cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini. Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall'altro, durò tre lunghe ore. Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente. I cavalli s'arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l'altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone. Giunti dall'altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s'innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor. - Dorkia - disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. - Il Bogdo- Lama vi attende.

Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

È stata una vera fortuna che quei buddisti abbiano pensato a farvi divorare dalle aquile. Potevano cacciarvi in una stanza oscura piena di scorpioni o farvi mangiare dai selvaggi di U. - Allora sarebbe stata proprio finita per noi - disse Fedoro. - Lo credo, perché non avrei potuto certo salvarvi o sarei giunto troppo tardi - rispose il capitano. - Ci avreste almeno vendicati - disse Rokoff. - Avevo già fatto preparare delle bombe ad aria liquida per far saltare il monastero. - Se lo avessi saputo prima, le avrei gettate sui pellegrini - disse Rokoff. - Perché non dirmelo? - Dovete averne schiacciati un bel numero con quella pesante cassa. Sono stati abbastanza puniti. - Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto. - Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all'ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta. - Non andremo a Lhassa? - chiese Fedoro. - No, ho fretta di attraversare la grande catena dell'Himalaya e di calare nell'India. - Attraversando il Nepal? - È probabile - rispose il capitano. - E dove finiremo? - Lo ignoro ancora. Tutto dipende da certe circostanze. - Non andremo a Calcutta? - insistette Fedoro. - Non desidero che mi si veda colà. Il capitano, che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo: - Guardate il Nigkorta: è stupendo. L'enorme montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l'est, capofila dell'immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin- thang-la. Al pari delle altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in gran copia da quel colosso. Lo "Sparviero", costretto a mantenersi a un'altezza di tremila metri, faticava non poco, in causa delle furiose correnti aeree che s'incrociavano in mille guise e che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue trentacinque o quaranta miglia all'ora. Alla sera passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla cima d'una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava deserto. L'indomani, ai primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il Tibet, dava il segnale della partenza. Cominciavano allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per riprendere più tardi il suo impero al di là del Brahmaputra, colla gigantesca catena dell'Himalaya. Alle due del pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che scorreva dall'ovest all'est con larghi serpeggiamenti. Era il Brahmaputra, uno dei più celebri fiumi dell'Asia, perché le sue acque, al pari di quelle del Gange, vengono ritenute sacre. Questo gigante fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali dell'Himalaya. Si apre un varco attraverso l'infinito numero di montagne che ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell'India per la valle dell'Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemilacinquecentosettanta chilometri di percorso. È più lungo del Gange e ha una massa d'acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per gl'indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama. Nel momento in cui lo "Sparviero" lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume, carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua, urlando come se fossero diventati pazzi. - Noi spargiamo il terrore dappertutto - disse Rokoff. - Vedremo se anche gl'indiani fuggiranno. - Se ci vedranno - disse il capitano. - Viaggeremo di notte? - Non amo che gl'inglesi mi scorgano. - Non volete aver rapporti coi popoli civili? - chiese Rokoff, sorpreso. - Per ora no. - Eppure avete attraversato l'America. - E chi mi ha veduto? - chiese il capitano. - Avete mai udito raccontare che una macchina volando sia stata osservata a Nuova York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a San Francisco di California? - No, mai, signore. - Eppure io sono passato su tutte quelle città. - E perché non volete che i popoli civili ammirino il vostro "Sparviero"? - Per ora è un segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando. Lo "Sparviero" correva in quel momento sopra le montagne del Giangtse, le quali s'alzavano in forma d'immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremilanovecento metri. La gigantesca catena dell'Himalaya non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le vette di quei colossi che separano il Tibet dall'India. Il passo era ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire faticosamente le strette vallate dei monti. Verso sera lo "Sparviero" si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell'Himalaya e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d'inverno e a riaccendere la stufa. - Sarà domani che passeremo la grande catena? - chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina. - A mezzodì passeremo presso il Dorkia - rispose il comandante. - E non andremo a vedere l'Everest? - Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile. - Sicché non andremo verso l'ovest? - No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani. Erano appena le quattro del mattino, quando lo "Sparviero" riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s'innalzavano rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli. La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l'orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l'imponente massa dell'Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri, chiudevano tutto l'orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All'ovest, a una grande distanza, scintillava l'enorme Gaurinkar, o meglio l'Everest, il monte santo degl'indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando un'altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri. La catena dell'Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante l'estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all'est dal Brahmaputra e all'ovest dall'India, i due più grandi fiumi della penisola indostana. Ancora cent'anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne. Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione. Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l'ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l'Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente. Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un'altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell'America meridionale. Tutti gl'indiani hanno una grande venerazione per la catena dell'Himalaya, che per loro è d'origine santa e da migliaia e migliaia d'anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi. - Che cosa ne dite di queste montagne? - chiese il capitano, mentre lo "Sparviero", che aveva raggiunto un'altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che s'apriva da un fianco orientale del Dorkia. - Mettono spavento - disse Rokoff. - Un panorama meraviglioso, unico al mondo - rispose Fedoro. - Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra. - Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell'Europa - disse il capitano. - Questi colossi vincono tutti. - E animali se ne trovano qui? - chiese Rokoff. - Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero. - Spero che non lasceremo l'India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre - disse Rokoff. - Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete - rispose il capitano. - Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo. - Per sempre? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - Chi può saperlo? - rispose il capitano. - Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora ... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un'aquila, su quel dirupo. È Pharò, l'ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo per entrare nell'India: il Butan non è che a due passi. Lo "Sparviero" era uscito da quell'immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d'altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un'altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz'ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan. L'India s'apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue giungle immense e le opulente città.

. - Che abbiano fumato troppo oppio? - Si vedono - disse Rokoff, il quale si era avanzato d'alcuni passi. - Non sono che una ventina di persone e le donne formano la maggioranza. Non avremo quindi da temere un attacco da parte loro. - Che cosa fanno? - chiese Fedoro. - Non lo so. - Venite - disse il capitano. Dinanzi a loro si estendeva una roccia, la quale dominava un burrone coperto da pini e da grosse querce. Il capitano e i suoi amici si arrampicarono sulla rupe, tenendosi nascosti fra fitti cespugli di noccioli selvatici. In quel momento s'inoltrava nel burroncello una strana processione, la quale si dirigeva precisamente verso la roccia, dove si vedeva una buca che pareva scavata di recente. Precedevano due cinesi che all'aspetto parevano due contadini, essendo coperti di grossolane vesti di cotone e sulle spalle portavano una cassa adorna di dorature e di qualche scultura. A pochi passi seguiva un uomo d'aspetto ributtante, col viso privo del naso, colle labbra orrendamente contorte e le mani atrocemente incancrenite e coperte da pustole. Indossava una bella zimarra di seta azzurra a risvolti rossi, con grandi fiori gialli, aveva ai piedi zoccoletti che parevano nuovi, con alta suola di feltro e sul capo una specie di calotta di seta rossa, adorna di fiocchi. Dietro venivano alcuni uomini e parecchie donne le quali salmodiavano dei versetti. - Ma questo è un funerale - disse Fedoro, stupito. - Brutto incontro - disse Rokoff, facendo una smorfia. - Io credo che v'inganniate, signor Fedoro - osservò il capitano. - Non vedete che il feretro è vuoto? - Il morto lo segue. - Lo segue! - esclamarono ad una voce il capitano ed il cosacco. - È quell'uomo che manca del naso. - Scherzate? - chiese il comandante dello "Sparviero". - È un lebbroso, signore. - Vedo che è coperto di pustole. - Ed ora lo si va a seppellire. - Vivo! - Vivo, signore. - Ah! Non crederò mai! - Voi non conoscete gli usi cinesi. - Pochissimo, tuttavia ... - Vi dico che il morto è il lebbroso. - E noi permetteremo che lo seppelliscano vivo? - esclamò Rokoff, impugnando il Mauser. - Fucileremo quelle canaglie che vogliono sopprimerlo. - Non faresti che rimandare ad altro giorno il funerale, perché il lebbroso esigerà di essere sepolto. - E tu credi che lui sia contento? - Non vedi come si avanza calmo e tranquillo verso la fossa? - chiese Fedoro. - D'altronde la morte per lui è un bene lungamente forse desiderato; qui i lebbrosi non vengono curati da nessuno. Si sfuggono come cani idrofobi, si relegano in una capanna e si lasciano morire in un isolamento veramente spaventoso. Quell'uomo avrà chiesto di venire sepolto con tutti gli onori, per mettere termine alle sue sofferenze e i parenti lo hanno accontentato, ben felici di potersi sbarazzare d'un essere pericoloso. - Ma sai che questi cinesi sono delle vere canaglie? - Qui hanno l'abitudine di seppellire vive le persone che danno qualche impaccio. Per raccontartene una, ti dirò che l'imperatore Yang-Yu, avendo fatto prigionieri duecentomila ribelli, per non riempire le carceri li fece seppellire vivi tutti. E come vedi quella barbara usanza non è ancora cessata. - Questo però non è un ribelle - disse il capitano. - È forse più pericoloso potendo infettare l'intero villaggio - rispose Fedoro. - Se è vero come voi dite, che quel disgraziato è contento di andarsene all'altro mondo, noi non interromperemo questa lugubre cerimonia - disse il capitano. - Se però vedremo che all'ultimo momento opporrà qualche resistenza, non rimarremo impassibili spettatori. Per ora lasciamoli fare. I portatori, giunti presso la fossa, deposero il feretro, mentre i parenti, gli amici e le donne, forse per paura di contrarre la terribile malattia, si fermavano a qualche distanza. Il lebbroso si era fermato guardando la fossa, come per assicurarsi che fosse abbastanza profonda. Si volse quindi verso il corteo, li salutò sorridendo, poi estrasse dalla ho-pao (borsa usata da tutti i cinesi) che portava alla cintura una piccola fiala e la vuotò d'un colpo, senza che le sue mani provassero il menomo tremito. - Deve essere oppio - disse Fedoro. Ciò fatto il lebbroso, sempre calmo e tranquillo si sdraiò nella ricca cassa incrociando le mani sul petto e fece un segno col capo. I due portatori coprirono sollecitamente la bara, inchiodarono frettolosamente il coperchio e la calarono nella fossa, facendo precipitare la terra ammucchiata intorno. - Se ne va contento - disse Rokoff, stupito. - Questi cinesi non temono dunque la morte? - No - rispose Fedoro. - Figurati che si preparano la bara molti anni prima che la morte li colpisca e che se la tengono sempre sotto il letto. - E noi abbiamo lasciato fare! - Non era cosa che ci riguardasse - disse il capitano. - D'altronde non intervenendo abbiamo abbreviato le torture che quel disgraziato soffriva e forse da parecchi anni. Scendiamo e tagliamo il passo a quelle persone. Se il loro villaggio non è lontano, andremo a farci vendere del tè. Girarono la rupe e avendo trovato un sentieruzzo, si calarono nel burroncello, giungendovi quando gli uomini e donne stavano per lasciare la tomba del lebbroso. Vedendo comparire improvvisamente quei tre uomini armati di fucili, i cinesi si radunarono prontamente coprendo le loro donne le quali, credendo forse d'aver a che fare con dei briganti, si erano messe a urlare disperatamente. - Pace - disse il capitano in buon cinese. - Non temete nulla dall'uomo bianco, che è amico dei cinesi. Un vecchio, che aveva una coda lunghissima e due baffi che gli giungevano fino a mezzo petto, si fece innanzi, muovendo le mani in forma di ventaglio e ripetendo: isin! isin! parola che equivale ad un deferente saluto. - Chi è l'uomo che avete sepolto? - chiese il capitano. - Un lebbroso, signore, che era stanco di soffrire - rispose il vecchio, gettando uno sguardo spaventato sui tre stranieri. - Non l'avete costretto? - No, signore, lo giuro sui miei antenati. - Dov'è il vostro villaggio? - Laggiù, in fondo a quella valletta. - Siete in molti? Tutta la popolazione è qui. - Avete del tè da venderci? - Sì, signore. Me ne porterete quanto più potrete; vi avverto però che se vi farete attendere troppo o se fuggirete, manderò ad inseguirvi un drago enorme, il quale vi divorerà tutti. - Conosciamo abbastanza la potenza degli uomini bianchi per non esporci al rischio di provarla - rispose il vecchio, che continuava a tremare. - Siccome non mi fido di te, lascerai qui qualche ostaggio fino al tuo ritorno. - Ti lascerò la figlia del lebbroso. - Purché non abbia delle pustole. - Giudicherai tu stesso, signore, se è più sana di me. Vieni, Tsi! Una fanciulla di tredici o quattrodici anni, con un visetto grazioso che la faceva rassomigliare ad una europea, salvo la tinta della pelle che era d'un giallo sbiadito, e un'abbondante capigliatura raccolta in trecce, si fece innanzi, barcollando sulle due scarpettine quasi microscopiche. Come suo padre, il povero lebbroso, indossava un casacca di seta e portava dei larghi nin-ku, specie di calzoni che scendono fino alla noce dei piedi. Sulla testa aveva una di quelle piccole sciarpe chiamate nin-hiai, usate dalle piccole persone benestanti. Guardò curiosamente il capitano ed i suoi due compagni, alzando abbassando vivamente le palpebre dalle lunghe ciglia di seta, poi sedette su sasso in attitudine rassegnata, dicendo brevemente al vecchio: - Ti obbedisco. Il drappello, dopo aver salutato gli stranieri, s'allontanò percorrendo il fondo del burrone, senza che un muscolo di quel grazioso visino avesse trasalito. - Il padre di questa fanciulla doveva essere un ricco agricoltore - disse Fedoro, che la osservava attentamente. - Le contadine non vestono mai in seta, né si storpiano oggidì i piedi. - Che suo padre fosse il capo del villaggio? - chiese il capitano. - Certo. - Che piedini graziosi! - disse Rokoff. - Non ne ho mai veduti di piccoli, e non credevo che le cinesi riuscissero ad arrestarne lo sviluppo a tal punto. - Le persone di buona condizione ci tengono ad avere figlie coi piedi minuscoli, perché ciò aumenta il valore commerciale della donna, e tu sai che qui le spose si comperano. Più la scarpa che si presenta al futuro marito è piccola, più egli deve sborsare. - Quindi qui la bellezza non conta? - Viene dopo i piedi. - Singolare paese! - In origine però quest'usanza deve aver avuto qualche altro motivo - disse il capitano. - Si dice che i cinesi di tempi antichi fossero terribilmente gelosi delle loro donne e che siano ricorsi a questo barbaro uso per impedire loro di fuggire. Infatti, coi piedi così storpiati, non possono camminare a lungo. - Devono soffrire assai, almeno nei primi tempi - disse Rokoff. - Questo è certo - rispose Fedoro. - E come fanno per arrestarne lo sviluppo? - chiese il capitano. - Perché l'operazione riesca perfettamente, secondo l'ideale degli uomini, piegano le dita sotto la punta del piede, eccettuato il pollice che deve rimanere libero, poi fanno in modo che il tallone cambi direzione diventando verticale, invece di orizzontale. Per ottenere ciò, adoperano delle fasce di seta o di cotone lunghe un metro e mezzo e larghe un palmo. L'operazione comincia quando la fanciulla ha sei o sette anni e non cessa se non quando tutte le parti molli sono atrofizzate ed il piede ha cessato di crescere. Ricorrono però sovente a dei modi più barbari, battendo la faccia dorsale dei piedi perfino coi ciottoli e producendo perfino delle fratture. - Che tormento - disse Rokoff. - Talora poi le fasce vengono continuamente strette e cucite. - Vorrei vedere quei piedi. - Non lo otterresti. Le donne cinesi sono così gelose da non concedere tale permesso nemmeno ai loro mariti. - Ah! Che bel paese è la Cina! - esclamò Rokoff, ridendo. - Il paese delle sorprese strabilianti! - Ecco gli uomini che tornano - disse il capitano. - La minaccia di scatenare il terribile drago ha fatto effetto. Il vecchio era ricomparso seguito dai due portatori della bara carichi di due enormi canestri contenenti la deliziosa infusione. Il capitano regalò ai tre uomini due tael, prezzo ben superiore al contenuto dei panieri, un altro alla fanciulla, poi si diresse verso l'altipiano con Rokoff e Fedoro. - Partiamo - disse. Quando giunsero allo "Sparviero" la macchina già funzionava. - Siamo pronti? - chiese il comandante. - Sì, signore - rispose il macchinista. Passarono sul fuso, le eliche orizzontali si misero in movimento turbinando, le ali si mossero sbattendo lievemente per non guastarsi al suolo e il treno aereo s'innalzò prendendo subito lo slancio verso l'opposto declivio della montagna. Sul margine della foresta i tre cinesi e la fanciulla, istupiditi dallo spavento, lo guardavano innalzarsi. - All'ovest - disse il capitano al macchinista. - Andremo a cacciare sulle rive dell'Hoang-ho.

. - Non mi pare che abbiano idee bellicose costoro. Non vedete come si avanzano tranquilli, senza nemmeno accendere le micce dei loro fucili? - È vero - rispose Fedoro. - Che vengano qui per bere un po' di acquavite? Quel tartaro doveva essere qualche taverniere. - Tuttavia si dirigono verso questa casa e non potremo rifiutarci dal riceverli - disse Rokoff. - Ah! che idea! - Che cosa volete dire? - chiese il capitano. - Riceviamoli e facciamo gli onori di casa. - Ma riconoscendo in noi degli stranieri non ci lasceranno andare liberi - disse Fedoro. - L'europeo non può spingersi oltre le frontiere della grande muraglia, senza esporsi a gravi pericoli. - Che siano i soldati che ci hanno cannoneggiati? - Certo, signor Rokoff - rispose il capitano - ed è per questo che non vorrei aver da fare con loro. - Cerchiamo un mezzo per cavarcela. - Vorrei ben trovarlo e ... se ritirassimo la scala e lasciassimo i soldati padroni della stanza inferiore? - E portiamo giù questi vasi onde si ubriachino presto, - disse Fedoro. - Giacché il tartaro non c'è, approfitteranno volentieri. - Buona idea - disse Rokoff. - Sbrighiamoci, i manciù non sono che a cento passi. Presero le tre pentole più grosse e le portarono nella cucina, poi tolsero i massi e socchiusero la porta, senza che i mangiatori d'oppio aprissero gli occhi. Russavano così sonoramente, che nemmeno il cannone li avrebbe svegliati. Il capitano e i suoi compagni risalirono rapidamente nella stanza superiore, ritirarono la scala e chiusero il vano con una fitta stuoia. Avevano appena terminato, quando i manciù giunsero dinanzi alla porta. Il capofila l'aprì con un poderoso calcio, gridando con voce imperiosa: - Changhi, portaci del ciam-sciù; abbiamo tanta sete da vuotare tutti i tuoi vasi. Non ricevendo risposta, entrò seguito da tutti gli altri. - Changhi è scomparso, - disse un manciù - ed ha lasciato a guardia della sua casa questi sei ubriachi. Bah! Non protesteranno se noi diamo l'assalto a questi vasi che pare siano stati messi qui per noi. Tanto peggio per Changhi se non troverà più una goccia di sciam-sciù. I manciù, bevitori formidabili quanto i cosacchi e gli irlandesi, si sedettero intorno ai vasi e cominciarono a bere a garganella senza occuparsi dei mangiatori d'oppio, i quali d'altronde non avevano interrotto il loro sonno. I tre aeronauti, sdraiati al suolo, spiavano i bevitori attraverso uno strappo della stuoia. Di quando in quando, or l'uno e ora l'altro, s'alzavano per dare uno sguardo alla foresta, temendo il ritorno del tartaro. - Appena saranno ubriachi ce ne andremo lestamente - aveva detto il capitano. - Se quel tartaro compare prima, guasterà ogni cosa e vorrei che rimanesse lontano qualche ora ancora. I manciù, trovandosi liberi, ne abusavano per bere a crepapelle. Le tazze s'immergevano e si vuotavano con rapidità straordinaria, senza estinguere la sete che divorava quei robusti stomaci. Cominciavano però a provare i primi sintomi dell'ubriachezza. Ridevano, schiamazzavano, parlavano tutti a un tempo, si dimenavano come ossessi e altercavano. A un tratto uno di loro s'alzò e staccò una pipa che si trovava appesa al muro. - Cerchiamo dell'oppio! - gridò. - Abbiamo ancora due vasi da bere e Changhi non è ancora giunto. - Così si ubriacheranno più presto - disse Fedoro. - Si vede il tartaro? - chiese il capitano a Rokoff, il quale si era allora recato sulla veranda. - Non ancora. - Se quei manciù continuano a bere con quell'avidità, fra un quarto d'ora saremo padroni del campo. I manciù, già quasi ebbri, avevano trovato in un vano della parete una grossa pallottola d'oppio, del vero chandoo, il migliore che si conosca e che è molto apprezzato dai cinesi, e anche parecchie pipe adatte per fumarlo. Sono un po' diverse da quelle usate dai fumatori di tabacco. Si compongono d'un tubo cilindrico, lungo ordinariamente mezzo metro, aperto da una parte e chiuso dall'altra e d'un fornello di forma conica situato a circa dieci centimetri dall'estremità che è chiusa. Essendo l'oppio sciropposo e impregnato sempre d'umidità, prima di versarlo nella pipa lo si mette in un cucchiaio e lo si riscalda fino a che abbia preso una certa consistenza. Ciò ottenuto lo si versa sull'orlo del fornello e lo si accende avvicinandolo a un bastoncino d'incenso o semplicemente alla fiamma del focolare. I manciù, preparate ed accese le pipe, ricominciarono a bere con maggior ardore, alternando oppio e acquavite di riso. Una densa nuvola di fumo oleoso invase ben presto la stanza sfuggendo lentamente attraverso la stuoia. - Ci ubriacheremo anche noi - disse Rokoff, alzandosi. - Credo che sia il momento di andarcene - disse il capitano. - Ormai i soldati non lasceranno i vasi, finché rimarrà in fondo una goccia di liquore. Si vede nessuno fuori? - No - rispose Fedoro. - Dove sarà andato il tartaro? Questa assenza così prolungata non mi tranquillizza affatto. - Lasciamolo dove si trova e sgombriamo - disse Rokoff. Afferrò la scala e la calò fuori della veranda. - A voi, capitano - disse. - Eccomi - rispose il comandante, afferrando il fucile. Diede un rapido sguardo sotto le piante e non vedendo o almeno credendo che non vi fosse alcuno, scese rapidamente. Era appena giunto a terra e Rokoff e Fedoro stavano scendendo l'uno dietro all'altro, quando un lampo balenò dietro un cespuglio, seguito da una fragorosa detonazione e dal ben noto fischio della palla. Il capitano si volse rapidamente, puntando il fucile. Un uomo fuggiva rapidamente attraverso le piante, cercando di ripararsi dietro ai tronchi. - Canaglia! - gridò il comandante. - Lo sospettavo! Lasciò partire i due colpi. L'uomo che fuggiva cadde senza mandare un grido, scomparendo in mezzo a un cespuglio. Rokoff e Fedoro con un solo salto erano balzati a terra, preparando le armi. - Fuggiamo! - gridò il cosacco. - I soldati! - Dove? - chiesero Fedoro e il capitano. - Eccoli là che si avanzano fra gli alberi. Due o tre colpi di fucile rimbombarono. Dei soldati accorrevano fra i tronchi dei pini e delle querce, facendo fuoco. - Via! - gridò il capitano, ricaricando prontamente il fucile. Tutti e tre si slanciarono furiosamente innanzi, raccomandandosi alle proprie gambe e dirigendosi verso l'Hoang-ho. I manciù si erano già gettati sulle orme dei fuggiaschi, continuando a sparare con nessun successo, perché le palle, mal dirette, non colpivano che i tronchi degli alberi. In un quarto d'ora il capitano e i suoi compagni giunsero sulla riva del fiume, a breve distanza dalla barca. I manciù, che si fermavano sovente per caricare i loro moschettoni, erano rimasti molto indietro. Tuttavia si udivano le loro grida avvicinarsi. - Presto, imbarchiamoci - disse il capitano. - Andiamo all'isolotto? - chiese Rokoff prendendo i remi. - No, passiamo sull'altra riva. Sarebbe pericoloso mostrare ai manciù che noi abbiamo stabilito il nostro domicilio su quest'isola. La scialuppa, spinta poderosamente innanzi dal cosacco, tagliò la corrente obliquamente, dirigendosi verso la riva sinistra, che si trovava lontana quasi tre chilometri. Per metterla al coperto dal fuoco dei soldati, Rokoff prima si accostò all'isolotto, onde ripararsi dietro di esso. Il capitano e Fedoro si erano sdraiati a poppa, tenendo i fucili in mano. I manciù cominciavano a comparire. Urlavano come belve feroci e saltavano come capre. Giunti sulla riva si sparpagliarono dietro i tronchi dei pini e delle querce, aprendo una nutrita fucilata. Erano una ventina e alla loro destra si vedeva il tartaro. Il briccone era miracolosamente sfuggito ai colpi del capitano e per paura degli altri si era lasciato cadere, fingendosi morto. - Canaglia! - esclamò il comandante dello "Sparviero", scorgendolo. - Peccato che i nostri fucili da caccia non abbiamo che una portata assai limitata. Se avessi un Mauser o uno dei miei Winchester, non grideresti tanto. Il fuoco dei manciù continuava senza interruzione, ma le armi degli aeronauti non potevano servire più, in causa della distanza; nemmeno quelle antichissime dei soldati riuscivano a colpire il bersaglio. Qualche palla, è vero, giungeva fino alla scialuppa, senza avere la forza di traforare le tavole. Rokoff, che arrancava con furore, con pochi colpi di remo raggiunse la punta meridionale dell'isolotto, virò prontamente di bordo, scomparendo agli occhi dei manciù, poi riprese la corsa verso la riva opposta. Il capitano e Fedoro, entrambi in piedi, guardavano fra gli alberi per vedere se il macchinista compariva. Quegli spari dovevano averlo allarmato e fattogli interrompere la riparazione. La scialuppa si era allontanata di cinquanta o sessanta metri, quando lo videro comparire fra i canneti. - Non mostrarti! - gli gridò il capitano, mentre i manciù riprendevano il fuoco mandando le loro palle sopra l'isolotto. - Ti aspettiamo laggiù: affrettati. Il macchinista fece col capo un cenno affermativo, poi lo videro slanciarsi fra le piante e scomparire. - Che la riparazione sia quasi finita? - chiese Fedoro. - Se il macchinista ha lavorato sempre, fra qualche ora lo "Sparviero" potrà rialzarsi - rispose il capitano. - E se i manciù attraversano il fiume? - Fuggiremo lasciando la cura al macchinista di raggiungerci. - E se sbarcassero sull'isolotto? - Perché dovrebbero prendere terra colà? Vedono bene che ci dirigiamo verso la riva opposta, quindi non si occuperanno che di noi. Io credo che nessuno abbia veduto lo "Sparviero" scendere in mezzo al fiume. E poi, almeno pel momento, non hanno barche. - Che sia stato il tartaro a tradirci? - Non ho più alcun dubbio - rispose il capitano. - Mentre noi facevamo colazione, si è recato al fortino ad avvertire i soldati della nostra presenza. Forse contava su qualche premio. - Briccone! - E l'ha avuto - disse Rokoff, ridendo. - Tre vasi di sciam-sciù vuotati e che i soldati non gli pagheranno di certo. - Ci siamo! E non vedo alcuna capanna. La scialuppa si era arenata su un banco di sabbia il quale si prolungava fino alla riva. I tre aeronauti la trascinarono più innanzi onde la corrente non la portasse via, poi si diressero verso la foresta la quale bagnava le radici dei suoi ultimi alberi nelle acque del fiume. Il luogo pareva deserto. Non vi erano che pini, querce, alberi del sevo, giuggioli e bande di uccelli. Rokoff si avventurò sotto gli alberi per qualche centinaio di passi, giungendo sulla sponda d'una vasta palude ingombra di canne e da dove lo sguardo poteva spaziare liberamente per parecchie miglia. Intanto i manciù, dopo aver sprecato buona parte delle loro munizioni, non ottenendo altro risultato che quello di spaventare gli uccelli acquatici, si erano diretti verso il nord seguendo la riva del fiume, onde poter meglio sorvegliare le mosse degli stranieri e fors'anche colla speranza di trovare qualche giunca. Invece, in quella direzione non si scorgeva alcun veliero e nemmeno una di quelle barche che servono pel trasporto del riso o del tè e che sono, di solito, così numerose sull'Hoang-ho. - Si vede che non hanno rinunciato alla speranza di darci la caccia - disse il capitano, che li aveva seguiti collo sguardo. - Se trovano qualche imbarcazione attraverseranno il fiume. - Capitano, accettate un mio consiglio? - chiese Rokoff, il quale era ritornato dalla sua esplorazione. - Dite pure. - Risaliamo il fiume anche noi. - Ed a quale scopo? - Per allontanare sempre più i soldati dall'isolotto e per respingere a fucilate le giunche che potrebbero scendere l'Hoang-ho e venire requisite dai nostri avversari. - La vostra idea non mi piace. Lo "Sparviero" ci raggiungerà egualmente e così facendo allontaneremo ogni pericolo pel nostro macchinista e per l'aerotreno. - E potremo continuare la nostra caccia - aggiunse Fedoro. Tornarono verso il banco e ripresero i loro posti nella scialuppa, rimontando lentamente la corrente e oltrepassando l'isolotto. I manciù rivedendoli comparire li salutarono con selvaggi clamori, ma sapendo che il loro fuoco non sarebbe stato efficace in causa della distanza, non sprecarono le munizioni. I tre aeronauti finsero di non essersi nemmeno accorti della loro presenza e continuarono tranquillamente il loro viaggio, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile contro le anitre mandarine, i marangoni, i beccaccini e le oche che erano sempre numerose. Avevano già percorso tre o quattro miglia facendo delle frequenti fermate per raccogliere i volatili che abbattevano, quando Fedoro, che si trovava a prora, mandò un grido di rabbia: - Stiamo per venire presi! ... - Da chi? - chiesero a una voce Rokoff e il capitano. - Una giunca di guerra scende il fiume! - Per tutte le steppe del Don! - esclamò Rokoff. - L'avventura minaccia di finire male! ... - E lo "Sparviero" è ancora ammalato! - esclamò Fedoro. - Dove fuggire? Il capitano non rispose. Invece di guardare la giunca aveva volti gli occhi verso l'isolotto, dove vedeva apparire e agitarsi al disopra degli alberi, le immense ali del suo aerotreno. - Giungeranno troppo tardi - disse finalmente. - Lo "Sparviero" fra poco sarà qui e ci rapirà sotto gli occhi dei manciù e dell'equipaggio della giunca. Signor Rokoff, ridiscendiamo la corrente.

. - Lasciamoli calare in acqua; mi pare che ne abbiano il desiderio. - Non resistono molto al volo essendo troppo pesanti. Teniamoci però nascosti dietro questi cespugli perché sono molto diffidenti. Ecco che calano. I cigni si lasciavano infatti cadere, tenendo le ali aperte le quadi servivano da paracadute. Ben presto quindici o venti si trovarono in acqua. Rokoff aveva già puntato il Remington, quando si sentì prendere per le spalle. - Fermati! Non sparare! - aveva detto Fedoro precipitosamente. - Perché? - chiese il cosacco, sorpreso. - Vi è qualcuno che ci spia. - Chi? - Non lo so, ma ho veduto un'ombra nascondersi in mezzo a quella macchia di betulle. - Un mongolo? - Non ho potuto osservarlo bene. - O l'orso che cercavamo? - Non muoverti: aspettiamo. Il russo ed il cosacco, un po' inquieti, temendo d'aver da fare con qualche banda di mongoli, quantunque fossero certi di aver lasciato ben indietro quelli che li avevano inseguiti, si nascosero in mezzo ai cespugli, senza più occuparsi dei cigni. Qualcuno, animale od uomo, si teneva celato fra le betulle. Si vedevano i rami agitarsi e si udivano anche le foglie secche scrosciare. - Che sia qualche altro leopardo delle nevi? - chiese Rokoff, che non poteva rimanere fermo. - Preferirei un orso - rispose Fedoro. - Almeno si mangia. - Prima che se ne vada andiamo a scovarlo. - Volevo proportelo. - Vieni Fedoro. Strisciarono fuori dai cespugli e si diressero verso le betulle, le quali continuavano ad agitarsi. Pareva che l'uomo o l'animale che fosse, cercasse d'aprirsi un passaggio. - Tu a destra e io a sinistra - sussurrò Rokoff. Stavano per separarsi, quando le betulle s'aprirono ed un animale comparve, arrestandosi subito e fiutando l'aria. Doveva essere un orso, quantunque fosse molto piccolo per crederlo tale, essendo non più lungo d'un metro. Aveva il muso assai corto e la testa piuttosto larga, le zampe basse, coi piedi massicci e rotondi ed il pelame foltissimo, biancastro al dorso e nero sulla testa e sul collo. Essendo i due cacciatori nascosti dietro una piega del suolo, non poteva averli ancora scorti, però il vento che soffiava dal lago doveva aver portato fino a lui le loro emanazioni. Ed infatti non pareva molto tranquillo. Si alzava di frequente sulle zampe posteriori per spingere lo sguardo più lontano, raggrinzava il naso, aspirava l'aria, poi si lasciava ricadere a terra per poi tornare poco dopo ad alzarsi. Di quando in quando mandava una specie di grugnito che somigliava un po' al nitrito d'un mulo. - Che cos'è? - chiese Rokoff a Fedoro, il quale non aveva veduto che i giganteschi orsi neri degli Urali e quelli bruni delle steppe. - Un melaneco - rispose il russo. - Ne so meno di prima. - Uno dei più piccoli orsi. - Vado a prenderlo pel collo e lo porto vivo al capitano. - Sei pazzo Rokoff? - Non è più grosso d'un montone. - Non vorrei provare le sue unghie. - È dunque pericoloso! - Assalito si difende al pari di tutti gli altri orsi. - Sono buoni i suoi zamponi? - Come quelli dei maiali. - Allora prendi, mio caro. Rokoff aveva afferrato il fucile, slanciandosi risolutamente contro il melanoteco. Questi, scorgendo il cacciatore, si era alzato bruscamente sulle zampe deretane, spingendo innanzi quelle anteriori e sfoderando gli artigli. A dieci passi, Rokoff aveva fatto fuoco. Il melanoleco, quantunque colpito in direzione del cuore, si precipitò furiosamente, cercando di stringere l'avversario fra le poderose zampe e di soffocarlo. Fedoro, che si teneva a pochi passi dall'amico, fu pronto a puntare il fucile ed a scaricarlo. La palla fracassò la mascella destra dell'animale e penetrò nel cervello. - Morto! - gridò Rokoff, vedendolo cadere. - Fulminato - rispose Fedoro, lieto del suo colpo. Il povero melaneco aveva avuto appena il tempo di voltarsi su un fianco, rimanendo subito immobile. - Ecco gli zamponi pel capitano - disse Rokoff. - Non credevo che avessimo tanta fortuna. - Quell'uomo deve essere uno stregone - disse Fedoro. - Ci aveva promesso un orso e ce lo ha fatto subito trovare. - Che sia venuto ancora qui a cacciare questi animali? Che cosa ne dici. Fedoro? - Non so che cosa risponderti, amico Rokoff. Posso solamente dirti che quell'uomo diventa ogni giorno più straordinario. Prima pareva che non fosse mai venuto in Cina, ora conosce il deserto a menadito, sa che vi sono delle trote squisite nei laghi del Caracorum e degli orsi sulle sue rive, come se avesse soggiornato a lungo in questi paraggi. Domani ci dirà forse che in mezzo a queste macchie ha confezionato dei pasticci di carne di cigno o che ha fumato la pipa coi Chalkas. Io non capisco più nulla. - Ed io capisco meno di te, Fedoro - rispose Rokoff. - Scommetterei che quando attraverseremo il Tibet, troverà degli amici fra i Lama. - Che abbia già fatto il giro del mondo con il suo "Sparviero"? - Non mi stupirei, Rokoff. - Lasciamo il capitano e occupiamoci del nostro orso. - Portiamolo all'accampamento, intero. Non pesa molto, forse cento chilogrammi. - Costruiamo una barella? - Sì, Rokoff; faticheremo meno. Tagliarono alcuni rami di pino e di betulla, intrecciandoli alla meglio e legandoli colle loro fasce di lana, caricarono il melaneco e si diressero verso l'accampamento costeggiando il lago, onde non smarrirsi fra le macchie che diventavano sempre più fitte. Quando vi giunsero, non trovarono che il macchinista, il quale lavorava febbrilmente a riparare la disgraziata ala. - Ed il capitano? - chiesero. - Eccolo che ritorna - rispose il giovane. Infatti il comandante saliva in quel momento la riva, portando un canestro che pareva molto pesante e un ammasso di reti. - Vedete che non mi ero ingannato - disse, quando vide l'orso che Rokoff stava già scuoiando. - Anch'io però ho mantenuto la promessa e porto delle superbe trote che domani assaggeremo. - E perché non questa sera? - chiese Fedoro. - Perché domani voglio offrirvi un pranzo veramente squisito. - - Si festeggia qualche lieto avvenimento? - Può darsi - rispose il capitano col suo solito sorriso enigmatico. - Oh, non vi lamenterete di questo ritardo; ho ucciso un magnifico cigno che sta già cucinando al forno, è vero macchinista? - Deve essere già pronto, signore. - Allora prepara la tavola, mentre io lo dissotterro. - L'avete sepolto? - chiese Rokoff. - Io cucino la grossa selvaggina alla moda africana - rispose il capitano. - Non avete mai assaggiato un piede d'elefante od un pezzo di proboscide cucinato dai negri? - Mai, capitano. - Ed io sì. - Voi dunque siete stato in Africa? - chiese Fedoro. - Sì. - Col vostro "Sparviero"? Il capitano invece di rispondere a quella domanda girò intorno al fuso, si armò d'una corta zappa e mostrò al cosacco ed al russo un fuoco che ardeva sopra un piccolo rialzo di terra. - Il mio forno - disse. - Il cigno deve essere arrostito a perfezione. Sbarazzò il suolo dai tizzoni e dalle braci, poi scavò dolcemente la terra e mise allo scoperto una massa avvolta fra larghe foglie avvizzite, che mandava un profumo così appetitoso da far venire l'acquolina in bocca al cosacco. Tolse le foglie e mise allo scoperto un grosso cigno, cucinato intero e che depose su un gigantesco piatto d'argento, portato dal macchinista. - Andiamo a dare l'assaggio - disse. - Sarà squisito. La tavola era stata preparata presso il fuso, accanto ad un allegro fuoco di rami di pino e col solito lusso. L'assalto dato dai quattro aeronauti fu tale, che dopo mezz'ora del superbo arrosto non ne rimaneva che un terzo. - Capitano - disse Rokoff, che aveva divorato per quattro. - Siete un cuoco ammirabile! - Vedremo che cosa direte domani delle mie trote - rispose il comandante, con un leggero accento ironico. Passarono buona parte della serata attorno al fuoco, fumando e sorseggiando dell'eccellente ginepro e del whisky, poi verso le dieci si ritirarono nelle loro cabine. Il macchinista invece aveva continuato il suo lavoro, punto seccato dal vento freddissimo che soffiava dalle non lontane vette dei Kentei. All'indomani la riparazione era finita. L'ala era stata rinforzata così robustamente, da non temere che dovesse cedere anche dinanzi al vento più furioso. - Resisterà quanto e forse più dell'altra - disse il capitano, che aveva osservato attentamente il lavoro compiuto dal macchinista. Poi, senza aggiungere altro, diede mano a preparare il pranzo che doveva far stupire i suoi ospiti. Questi, avendo appreso che la partenza non si sarebbe effettuata che nel pomeriggio, si erano recati sulle rive del lago a fucilare le oche, le anitre ed i cigni che si mostravano sempre numerosi nelle piccole insenature, dove trovavano abbondante nutrimento. Quando tornarono, così carichi di selvaggina da non potersi quasi reggere, il capitano stava levando dai suoi forni gli zamponi del melaneco, mentre il macchinista si aggirava fra cinque o sei pentole dove friggevano o bollivano pesci, anitre e legumi. La tavola, questa volta, era stata preparata sul ponte dello "Sparviero", anzi era stata levata perfino la tenda che era servita al macchinista per ripararsi dal freddo durante il lavoro notturno ed era stato imbarcato anche il fornello. - Pranzeremo in aria? - chiese Rokoff. - Ma ... ah! Udite? - Che cosa, signore? - Queste grida. - Per le steppe del Don! Ancora i mongoli? In lontananza, verso l'est, si vedevano alzarsi sulla pianura sabbiosa dello Sciamo un nuvolone di polvere e si udivano echeggiare delle urla. - Sì, i mongoli - disse il capitano. - Fortunatamente arrivano troppo tardi. Fece portare a bordo gli zamponi e le pentole, gli avanzi dell'orso e la selvaggina uccisa dal russo e dal cosacco, poi disse: - Innalziamoci. La macchina era già sotto pressione. Le eliche orizzontali cominciarono a funzionare elevando il fuso, poi le due immense ali si misero in movimento. Lo "Sparviero" saliva veloce, un po' obliquamente, fendendo rumorosamente l'aria. I mongoli giungevano a corsa sfrenata urlando e sparando, ma era troppo tardi. La preda tanto agognata, ancora una volta sfuggiva loro. - Buon viaggio! - gridò ironicamente il capitano, salutandoli col berretto, mentre lo "Sparviero" s'allontanava velocemente verso il nord. - Badate di non storpiare i vostri cavalli. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro aggiunse: - A tavola, signori e fate onore al mio pranzo. Il capitano, che doveva essere un buongustaio raffinato, aveva preparato un pranzetto veramente luculliano: zuppa di anitra con legumi, lingua di orso, zampone al forno, trote in salsa bianca e fritte nel burro, ananas di Tahiti, banane della Nuova Caledonia e ignami mostruosi, pasticci di varie specie e pudding. Attese che i suoi ospiti avessero finito, poi offrì loro dei sigari di Manila e un certo liquore color dell'ambra, dicendo: - Ebbene, che cosa ne dite delle mie trote? - Squisite, capitano - rispose Rokoff, che era ancora entusiasmato di quel pranzo. - Quelle che si pescano qui non uguagliano certo, per sapore e anche per grossezza, quelle che si prendono nei fiumi e nei laghi del mio paese. - Ve lo avevo detto - disse il comandante ridendo. - E questo liquore? L'avete assaggiato? - Delizioso! L'avete fatto voi? - Sì, e la ricetta me l'ha data un monaco del monte Athos. - Ma dove siete stato voi? Si direbbe che nessun angolo del mondo vi sia sconosciuto. Avete attraversato l'Asia Minore col vostro "Sparviero"? - Mi sembra - rispose il capitano, con un sorriso misterioso. - Bevetene pure, non vi farà male, anzi. Guardava i suoi ospiti sempre ridendo, senza però accostare alle sue labbra il suo bicchierino che rimaneva sempre pieno. Né Rokoff né Fedoro vi avevano fatto caso. Quel liquore era eccellente e da veri russi, che sono i più famosi bevitori dell'Europa, ne approffittavano per digerire meglio quel troppo copioso pasto. Rokoff soprattutto, sempre assetato come lo sono tutti i cosacchi, cacciava giù un bicchierino dietro l'altro, non stancandosi mai di lodare l'aroma di quel liquido. - Se i frati del monte Athos ne fanno uso, non devono essere lugubri - diceva celiando. - Se mi nominassero loro cantiniere, non so quali vuoti farei nelle loro riserve. Vi deve essere dentro dell'essenza dei famosi e antichissimi cedri del Libano. Squisito! Delizioso! Capitano, un altro bicchierino che vuoterò alla salute vostra. - Ed un altro a me che berrò alla buona riuscita del vostro viaggio - diceva Fedoro, che diventava d'un'allegria strana. - Anche dieci - rispondeva il capitano. - Ne ho parecchie bottiglie e poi colla famosa ricetta ve ne posso fare quanto voglio. - Quel frate era più bravo di papà Noè - riprendeva Rokoff, i cui occhi rilucevano come quelli degli ubriachi. - Se lo conoscessi gli bacerei la barba. Scommetto che qui c'entrano delle gocce d'acqua del Giordano. - No, del Mar Morto - rispondeva Fedoro, che aveva il viso acceso. - Ma che! Saprebbe di bitume questo meraviglioso elixir! Quanto deve prolungare la vita! - Sì, Rokoff, perché tutti i monaci del Monte Athos diventano vecchissimi. Me lo ha narrato un viaggiatore mio amico. - Vecchissimi! T'inganni Fedoro! Non muoiono mai. - Buono questo liquore, è vero Rokoff? - Capitano, un altro bicchierino ancora? - Una bottiglia! - Anche dieci bottiglie, Fedoro! Il capitano ha la ricetta! Il Comandante dello "Sparviero" non aveva cessato di ridere. Aveva fatto portare una seconda, poi una terza bottiglia e pareva che si divertisse immensamente dei discorsi dei suoi ospiti e che gradisse assai gli elogi fatti a quel meraviglioso liquore. Già Rokoff e Fedoro avevano tracannato il, decimo od il quindicesimo bicchiere, quando uno dopo l'altro si rovesciarono sulle loro sedie, pallidissimi e come morti. Il macchinista ad un cenno del capitano, era accorso. Prese la bottiglia ancora semipiena ed il bicchiere del suo padrone che non era stato toccato e gettò l'una e l'altro fuori dalla navicella. - Portiamoli nelle loro cabine - disse il comandante. - Non si sveglieranno, signore? - Il narcotico è potente. - Che cosa diranno poi? - Non sono forse io il padrone qui? Non devo rendere conto a chicchessia delle mie azioni. Aiutami. Presero prima Rokoff e lo portarono entro il fuso, deponendolo nel suo letto, poi fecero altrettanto con Fedoro. Né l'uno, né l'altro avevano fatto un gesto durante quel trasporto. Parevano morti. - A tutta velocità - disse il capitano, quando risalì. - Non dobbiamo essere lontani più di centosessanta miglia e ci si aspetta. - E il telegramma del russo? - chiese il macchinista. - Andrò a spedirlo io. I cavalli non mancano in questa regione ed entrerò in città senza che nessuno se ne accorga. Aumenta più che puoi. In quattro o cinque ore vi saremo.

. - Che abbiano paura che noi andiamo a uccidere l'Imperatore? - chiese Rokoff. - Siamo sopra la città inviolabile e hanno ragione di inquietarsi - rispose il capitano. - Che ci prendano per mostri? - Crederanno lo "Sparviero" un drago sceso dalla luna. - Che ci sparino addosso? - chiese Fedoro. - Non credo, avendo troppa paura dei draghi - disse il capitano sorridendo. - D'altronde ci è facile metterci fuori di portata, potendo il mio "Sparviero" raggiungere delle altezze incredibili, dove certo non arrivano le palle dei più potenti cannoni. Finché si accontentano di urlare e di battere i loro gong, lasciamoli fare. Ecco i palazzi imperiali. Che cosa ne dite di tanta magnificenza? La città tartara od imperiale, è divisa pure in due città ben distinte, da muraglie altissime, tinte di rosso e difese da bastioni e da torri. Nella prima abitano i funzionari e i soldati; nella seconda l'imperatore e i principi del sangue, ciambellani, e così via, i quali, tutti insieme, raggiungono la popolazione di una città di terz'ordine. Ha quattro porte che corrispondono coi quattro punti cardinali e che nessuno può varcare senza speciale permesso ed è chiamata la città gialla ossia santa. Quivi palazzi grandiosi del più puro stile cinese, gallerie immense sostenute da colonne dorate, tetti a punte arcuate con tegole di porcellana, cortili immensi lastricati di marmo bianco e adorni di mostruosi draghi e di chimere di bronzo, giardini meravigliosi, viali ricchi d'ombre, chioschi e padiglioni che sembrano formati di merletti, ponti, canali e laghetti dove si cullano barchette scolturate e ricche di dorature. Nel centro sorgono due colline, erette dalla mano dell'uomo, dalle cui cime il possente imperatore può dominare tutta la immensa città che lo circonda. La più alta, chiamata Meician, o Montagna del Carbone, e se si deve credere ad una leggenda popolare, poserebbe su colossali depositi di carbone, accumulati nell'eventualità d'un lungo assedio. Anche intorno ai palazzi imperiali e nei giardini, regnava una confusione straordinaria, suscitata dall'improvvisa comparsa del mostruoso uccello. Guardie imperiali, armate di fucili, accorrevano da tutte le parti urlando e facendo muggire le conche di guerra e sulle terrazze e nelle gallerie si vedevano raggrupparsi donne manifestando il loro spavento con gesti disperati. Forse anche l'Imperatore si era degnato di lasciare i suoi appartamenti per vedere quell'uccellaccio di nuova specie, che osava volteggiare sopra i tetti e gli alberi della città inviolabile. - Capitano - disse ad un tratto Rokoff, indicandogli un bastione sul quale si erano aggruppati parecchi soldati. - Si preparano a far fuoco contro di noi. Stanno puntando un pezzo d'artiglieria. - Sono a milleduecento metri - rispose l'aeronauta con voce tranquilla. - Spareranno male di certo, tuttavia prendiamo le nostre precauzioni. Avete veduto abbastanza la città gialla? Allora possiamo andarcene. Ehi, macchinista? - Signore! - Saliamo e aumentiamo. - Subito, capitano. In quell'istante sul bastione si vide una nube di fumo attraversata da un getto di fuoco, poi si udì una detonazione. Un sibilo acuto, che aumentava rapidamente, giunse agli orecchi degli aeronauti, poi si perdette in lontananza. - Troppo bassa - disse il capitano, senza perdere un atomo della sua calma. - Ero certo che ci avrebbero sbagliati. Lo "Sparviero" s'innalzava sbattendo vivamente le sue ali, le quali provocavano una forte corrente d'aria. Salì fino a seicento metri, descrivendo una spirale, poi si slanciò innanzi colla rapidità d'una rondine e passò sopra gli opposti bastioni, dirigendosi verso il nord. - Dove andiamo, signore? - chiese Rokoff, vedendo che lo "Sparviero" si allontanava dalla capitale. - A far colazione per ora - rispose il capitano. - La pianura di Pechino non ha nulla d'interessante per trattenerci qui. Più tardi vi sarà qualche cosa da vedere, prima di andarcene verso la grande muraglia. - Ma la vostra direzione quale sarebbe? - insistette Rokoff. - Il nord - rispose asciuttamente il capitano. - Macchinista è pronta la colazione? - Sì, signore. - Venite - disse il comandante volgendosi verso Rokoff e Fedoro. - Suppongo che avrete fame. - Come lupi a digiuno da una settimana - rispose il cosacco. - Le razioni dei carcerati non sono abbondanti nelle prigioni cinesi. - Lo so, anzi si corre sovente il pericolo di morire molto spesso di fame - disse l'aeronauta. - Si fa molto economia là dentro. Il macchinista, legata la piccola ruota del timone che serviva a far agire le alette di poppa, in pochi istanti aveva apparecchiata la tavola situata dietro la macchina, al riparo d'una tenda. Tovaglia di Fiandra finissima, piatti e posate d'alluminio, bicchieri di cristallo di Boemia, poi tondi contenenti dell'arrosto freddo, delle costolette, dei salumi, delle frutta: ricchezza, buon gusto ed abbondanza insieme. Una cosa aveva però subito colpito il russo ed il cosacco: vivande e frutta erano coperte da un leggero strato scintillante che pareva ghiaccio. - Assaggiate questo capretto arrostito - disse il capitano. - Quantunque sia stato cucinato in Giappone, deve essere ancora squisito. Rokoff e Fedoro si guardarono l'un l'altro con stupore. - Anche queste costolette, sebbene arrostite a Tahiti, devono essere eccellenti. - Ma ... scherzate? - chiese il cosacco,. il cui stupore era al colmo. - E questo pasticcio di carne che ho fatto preparare a San Francisco di California? - continuò il comandante, che pareva si divertisse molto della meraviglia dei suoi ospiti. - Ho però di meglio. Ecco una trota preparata a Nuova York, in uno dei principali alberghi. L'hanno messa a friggere quarantadue giorni or sono, pure rispondo della sua freschezza. Assaggiate, signori miei. Se fosse stata pescata ieri sera, non sarebbe più deliziosa. Rokoff che amava il pesce, quantunque poco persuaso delle parole dette dal capitano, si provò ad assalire quella trota che veniva dalla lontana capitale degli Stati Uniti. - Che cosa dite? - chiese il comandante, con accento malizioso. - Squisita ... eccellente ... solamente la trovo terribilmente fredda ... come se fosse stata pescata in qualche fiume gelato della Siberia e lasciata a ghiacciare per un mese. Avete dunque una ghiacciaia a bordo del vostro "Sparviero"? - Sì, e una ghiacciaia che vi farebbe gelare per sempre in meno di due minuti - rispose il capitano. - Avete qualche macchina da ghiaccio? - Ho di meglio, signor Rokoff. A voi queste uova. Provate a spezzarle - Sono coperte da uno strato di ghiaccio. - Vi pare ma non sono tali. Rompetele e mangiate. Il cosacco tentò di aprirle, ma il guscio resistette a tutti i suoi sforzi. - Vi occorre un martello - disse il capitano. - Il macchinista le ha lasciate gelare troppo. Assaggiate invece questo ananas raccolto alle Marianne. - Sembra un blocco di ghiaccio. - Sarà migliore così, perché nulla avrà perduto del suo sapore e del suo profumo. E voi, signor Fedoro, come trovate quel pasticcio di San Francisco? - Non ne ho mai mangiato uno più gustoso, però mi si gelano i denti. - Bisognava lasciarlo un po' più esposto al sole. Non avevo pensato che voi non siete abituati a cibi così freddi. Macchinista, una buona bottiglia di gin e di whisky. Ci riscalderà un po'. Il capitano, ch'era diventato d'una amabilità straordinaria, servì ai suoi ospiti dell'eccellente whisky, poi offrì delle sigarette e delle pipe. - Ed ora, - disse - voglio soddisfare la vostra curiosità, perché suppongo che non mi lascerete troppo presto. Se dovessi deporvi qui, i cinesi non tarderebbero ad acciuffarvi ancora e più innanzi non vi converrebbe lasciarmi. - Ma dove andate? - chiese Rokoff. - Vi piacerebbe tornare in Europa a bordo del mio "Sparviero"? - In Europa! - esclamarono il russo ed il cosacco ad una voce. - Noi faremo la traversata dell'Asia - rispose il capitano. - Chi rifiuterebbe una simile proposta! - esclamò Rokoff con entusiasmo. - Non avete paura a seguirmi? - Oh no, signore! Abbiamo troppa fiducia in voi e nel vostro "Sparviero". - Voi però potreste supporre di aver salvato due bricconi - disse Fedoro. - Ho avuto il tempo di apprezzarvi e d'altronde so che voi siete uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia meridionale e che il vostro amico è un ufficiale dei cosacchi. Tali persone non possono essere dei banditi. - Come sapete questo? - esclamò Fedoro. - Lo so e basta, è vero, signor Rokoff? - disse il capitano. - Più tardi mi racconterete le vostre avventure; per ora occupiamoci del mio "Sparviero". I PRODIGI DELL'ARIA LIQUIDA Il capitano si alzò, fece il giro del ponte guardando l'immensa pianura che si estendeva sotto la macchina volante, si fermò un istante dinanzi ai barometri ed ai termometri appesi alla balaustrata, scambiò alcune parole col macchinista in una lingua sconosciuta, poi tornando verso la tavola, accese una sigaretta e si sedette. - Ditemi, signori miei, - disse, guardando con aria di grande condiscendenza i suoi due compagni di viaggio - siete soddisfatti delle evoluzioni compiute dal mio "Sparviero"? - È una macchina perfetta, davvero stupefacente - disse Rokoff con convinzione. - È lo scioglimento della questione della navigazione aerea - aggiunse Fedoro. - Sì, il vero scioglimento - disse il capitano, - Da parecchi lustri, gli scienziati studiano invano per trovare un pallone dirigibile che permetta all'uomo di solcare l'aria con piena sicurezza e senza porsi in balia delle correnti aeree così mutabili e sovente così pericolose. Quali risultati hanno ottenuto i loro studi? Nessuno di certo che sia per lo meno pratico. E sapete il perché? Perché hanno trascurato la meccanica, ostinandosi invece coll'idrogeno. Le innumerevoli catastrofi che si sono susseguite dall'innalzamento delle prime mongolfiere agli ultimi e più perfezionati palloni, non li hanno ancora persuasi che col gas non si deve avere troppa sicurezza. Si è fatto un gran chiasso intorno agli esperimenti di Giffard e di Renard coi loro palloni dirigibili, perché quest'ultimo era riuscito, con tempo calmo, a compiere un breve tragitto tornando al punto di partenza; ha sollevato immenso entusiasmo il brasiliano Santos Dumont; si attendono meraviglie dal pallone del conte da Schio, un italiano, e da altri ancora. Ebbene si provino costoro a tentare una lunga traversata, a sfidare venti impetuosi, ad affrontare uragani. I loro palloni, nonostante le loro eliche e la forza delle loro macchine, verranno abbattutti, squilibrati, trascinati e altre catastrofi si seguiranno. - Lo credo anch'io - disse Rokoff. - Per molto tempo - proseguì il capitano - mi sono pur io ostinato coi palloni dirigibili. Ho fatto costruire fusi semplici e accoppiati, ho fatto perfezionare macchine a petrolio ed a benzina, spendendo somme enormi e senza risultati pratici. Eppure oggi abbiamo motori potenti e leggeri, abbiamo metalli del pari leggeri e solidi quanto il ferro, abbiamo mille perfezionamenti nella meccanica e anche delle forze che ieri ancora erano sconosciute e che se fossero state note trentanni or sono, avrebbero segnato un completo trionfo per Spencer e per Kaufmann. - Chi sono costoro? - chiese Fedoro, il quale ascoltava attentamente il capitano. - È qui che vi aspettavo per dimostrarvi che la questione della navigazione aerea, avrebbe potuto essere stata risolta da trenta e più anni. Nel 1868, all'esposizione del classico Palazzo di cristallo di Londra, fra i vari palloni più o meno dirigibili, venivano presentate due macchine volanti: una ideata da Spencer, l'altra da Kaufmann. Salvo alcune modificazioni da me introdotte, rassomigliavano nelle forme al mio "Sparviero". Provate su corde tese, lunghe quattrocento metri, e trattenute da pulegge scorrenti, avevano dato risultati stupefacenti. Che fossero perfette, io non lo credo, ma se lo Spencer e Kaufmann avessero proseguito i loro studi, io sono convinto che a quest'ora gli uomini volerebbero per l'aria gareggiando cogli uccelli. Che cosa ho fatto io? Ho modificato le loro macchine, scartando però i loro motori a carbone, troppo pesanti e poco maneggiabili. Al ferro ho surrogato l'alluminio, molto più leggero ed egualmente resistente; al carbone ... una forza ben più poderosa, poco costosa, ieri ancora ignota e che domani metterà in azione locomotive, corazzate, telai, automobili e che risolverà tutti i problemi della dinamica. Questa forza me l'ha data l'aria liquida. - L'aria liquida! - esclamarono Rokoff e Fedoro. - Quando Tripler pel primo riuscì ad ottenerla, non si immaginava certo di aver scoperta una forza che porterà la rivoluzione nel mondo. Solamente molto più tardi doveva accorgersi dell'importanza straordinaria della sua scoperta. Pensate che l'aria liquida ha circa cento volte il potere espansivo del vapore e che essa comincia a produrre la sua forza nel medesimo istante in cui è esposta all'aria esterna. Per ottenere il vapore è necessario che l'acqua raggiunga una temperatura di 212o Fahrenheit, ossia che se l'acqua entra nelle caldaie a 50o di calore, se ne devono immettere in essa altri 162o prima che possa fornire una libbra di pressione. L'aria liquida invece ne dà venti. Valendomi dunque degli studi fatti dal Tripler e da altri scienziati, e specialmente dall'Estergren, che ha già applicato l'aria liquida a molti meravigliosi congegni, ho costruito un motore d'una solidità a tutta prova, d'una leggerezza unica, il quale mi fornisce a esuberanza la forza necessaria per far muovere le ali del mio "Sparviero" e le eliche. Come vedete, una cosa semplicissima. Un'altra macchina, costruita nelle officine dell'Estergren, mi fornisce l'aria necessaria con una spesa modicissima ed in tale quantità da non saper che cosa farne, perché in una sola ora me ne procura tanta da bastarmi per una settimana. Ma vi è di più. Fa troppo caldo? Metto in azione il mio ventilatore e ottengo in pochi istanti una temperatura da Siberia. Ho dei viveri da conservare? Li metto nelle celle refrigeranti del mio fuso e li gelo ed ecco perché posso farvi assaggiare delle trote pescate due mesi or sono nel San Lorenzo o dei pasticci acquistati a San Francisco o della frutta raccolta nelle isole dell'Oceano Pacifico. Voglio sparare il cannoncino che tengo là dietro la macchina? È l'aria liquida che me ne dà la forza, senza ricorrere alla polvere. Voglio far saltare mezza città? Non faccio altro che immergere un pezzo di lana nella mia aria liquida ed ecco che infiammandosi esplode con tutta la terribile violenza del cotone fulminante. A suo tempo, se le circostanze lo esigeranno, ve ne darò la prova. - Ma da dove venite voi? Chi siete? - domandò Rokoff, che lo guardava quasi con terrore. - Da dove vengo? Dall'Oceano Pacifico, per ora. Chi sono io? Il capitano dello "Sparviero". Venite: ecco delle cose interessanti da vedere. Le tombe dei Ming! Un'altra meraviglia che vale veramente la pena di guardare con attenzione. Quello strano personaggio si era vivamente alzato dirigendosi verso la prora, dove la grande elica che serviva di rimorchio e fors'anche di direzione, turbinava velocemente. Rokoff e Fedoro, che non si erano ancora rimessi dal loro stupore, stettero un momento seduti, guardandosi l'un l'altro, poi seguirono il capitano senza parlare. Lo "Sparviero" si dirigeva verso una collina verdeggiante, sulla quale si vedevano biancheggiare delle strane costruzioni. Sotto, la pianura s'alzava gradatamente, coltivata a piante di gelso e di cotone, intersecata da torrentelli che parevano nastri d'argento e cosparsa di capanne di fango secco e di paglia. Dei contadini di quando in quando apparivano fra i solchi e dopo un momento di stupore, fuggivano urlando come ossessi, alla vista della macchina volante. - Sapete come si chiama quella collina? - chiese il capitano ai suoi ospiti? - No, signore - rispose Fedoro. - Non sono mai andato oltre Pechino. Dopo la distruzione di Taku, la presa di Tient-tsin e l'entrata delle truppe europee nella capitale, l'uomo bianco non osa più inoltrarsi nelle provincie interne della Cina. - È vero - disse il capitano. - Gli europei e gli americani, colla loro grande spedizione, credevano di aprire per sempre le barriere cinesi ed invece le hanno chiuse più di prima. I boxer vivono ancora dovunque e la tremenda lezione non è bastata a calmarli. - E quella collina? - chiese Rokoff. - È la Scisan-ling, ossia dalle tredici fosse - rispose il capitano. - Là vi sono le famose tombe della dinastia dei Ming. - E andiamo a vederle? - Vi passeremo sopra. Si appoggiò al bordo e si rimise a fumare, tenendo gli sguardi fissi sulla collina che pareva si precipitasse incontro allo "Sparviero" con velocità straordinaria. Intanto nelle vallette, all'ombra di gruppi di pini e di ginepri, cominciavano ad apparire numerose tombe, appartenenti probabilmente a ricchi personaggi od a principi. Quasi tutte avevano la forma di tartarughe gigantesche, portanti sul clipeo delle tavole di marmo piene d'iscrizioni con ai lati colossali leoni e chimere di bronzo o di pietra bigia. Lo "Sparviero", rallentata la corsa, dopo essersi innalzato di altri trecento metri onde poter dominare tutta intera la collina, ridiscese imboccando una stretta valletta che s'inoltrava fra profondi burroni, e si arrestò al disopra d'un vasto spiazzo dove si vedevano delle superbe costruzioni. Era il parco sepolcrale dei Ming, uno dei più splendidi che si vedono nel circondario di Pechino. Esso si trova a circa quaranta chilometri dalla capitale, in un luogo solitario della catena dei Tiencia, fra gruppi di pini che formano dei bellissimi viali ombrosi e di querce grossissime. Vi si penetra per un immenso porticato di marmo bianco, il quale mette in un viale abbellito da statue che rappresentano dei mandarini, dei sacerdoti e dei guerrieri, elefanti, cammelli, leoni, cavalli e liocorni mostruosi, alcuni in piedi ed altri inginocchiati e alti due, tre e perfino quattro metri. Vi sono monumenti bellissimi, fra i quali spicca il tempio dei sacrifici sostenuto da sessanta colonne di lauro alte ognuna tredici metri, con una circonferenza di tre. Lo "Sparviero" descrisse parecchi giri al disopra del parco, poi deviando bruscamente prese la corsa verso il nord-ovest, attraverso le montagne dei Tiencia. Dove andava? Rokoff e Fedoro avrebbero desiderato saperlo, ma non osarono chiederlo. Il capitano, d'altronde non pareva disposto a soddisfare la loro curiosità, perché li aveva bruscamente lasciati dirigendosi verso poppa, dove si trovava il macchinista. Si sedette dietro la ruota e dopo aver scambiato alcune parole col suo compagno, si era messo a osservare il paese circostante, senza più occuparsi dei suoi ospiti. - Ebbene, Fedoro, che cosa ne dici di tutto ciò? - chiese Rokoff. - A me pare di essermi risvegliato in questo momento e d'aver sognato. - Anch'io mi domando ancora se sono vivo o morto - rispose il russo. - Vi sono certi momenti in cui dubito di non essere stato ammazzato. Se non avessi veduto coi miei occhi Pechino, mi crederei in un nuovo mondo. - Infatti, l'avventura è strana, Fedoro, tale da far impazzire. Trovarci dinanzi alla morte e risvegliarci in aria in viaggio per l'Europa! Quando noi lo racconteremo ai nostri amici, non ne troveremo uno che ci crederà. - Mostreremo loro lo "Sparviero". - Se ci porterà fino a Odessa. Il capitano ha detto che vuole raggiungere l'Europa, ma non dove ci deporrà - disse Rokoff. - E chi credi che sia quell'uomo? - Non te lo saprei dire, perché mi ha detto che parla tutte le lingue. - Un gran dotto di certo. - E anche un originale, Fedoro. - E non vuole dirci dove ci trasporterà ora. - Attraverso l'Asia. - Un, viaggio meraviglioso - disse il russo. - Che non mi rincresce affatto - aggiunse Rokoff. - E che compiremo presto, perché questa macchina mi pare dotata di una velocità tale da sfidare gli uccelli. - Filiamo come le rondini, Fedoro. Guarda come spariscono i campi, i boschi e i villaggi! Questa macchina volante è una vera meraviglia. - Purché qualche accidente non le faccia spezzare le ali e ci mandi a fracassarci sulla superficie della terra! - Non credo che ciò possa accadere - disse Rokoff. - Questo treno aereo è d'una solidità incredibile. Malgrado lo sforzo poderoso delle macchine, non si sente il più leggero fremito nel fuso. Leggerezza, potenza e solidità! Quel diavolo d'uomo non poteva ottenere di più. Ma e dove andiamo noi? Mi pare che lo "Sparviero" abbia deviato ancora. - Si dirige verso quella città che vedo sorgere là in fondo - disse Fedoro. - Una città? - Forse quella di Tschang-pin, perché alla nostra sinistra vedo un corso d'acqua che deve essere molto voluminoso. Deve essere il Pei-ho. - Allora ci dirigiamo al nord. - E verso la grande muraglia, ne sono certo - rispose Fedoro. - - L'Europa non si trova già al nord. - Lo "Sparviero" piegherà poi verso l'ovest. - No, signori - disse una voce dietro di loro. - Non ora; più tardi, molto tardi. Il macchinista si era accostato loro tenendo fra le labbra una di quelle monumentali pipe di porcellana, usate dagli olandesi e dai tedeschi. Il compagno del capitano era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura media, muscoloso e ad un tempo di taglia snella, colla pelle assai bruna, gli occhi nerissimi tagliati a mandorla e i capelli ondulati e biondissimi, che portava lunghi. Dire a quale razza appartenesse, sarebbe stato molto difficile, perché pareva che i lineamenti degli uomini del nord e del sud si fossero fusi in lui. Aveva del semitico, del greco, del romano e dell'anglosassone. Da quale paese dunque veniva? Che però appartenesse alla razza bianca, malgrado la tinta oscura della sua pelle, non vi era da dubitare. - Non piegheremo verso l'ovest? - chiese Rokoff dopo averlo osservato con curiosità. - Non per ora - ripeté il macchinista in cattivo russo. - Continueremo dunque la corsa verso il nord. - Sì, signore. - Allora andremo in Siberia. - Non lo so - rispose il giovane, quasi si fosse pentito d'aver detto troppo. - È il capitano che comanda. - Eppure ci aveva detto di condurci in Europa - insistette Rokoff. - Se lo ha detto, manterrà la parola. - È molto tempo che viaggiate? - chiese Fedoro. - Molto e poco. - Vale a dire? - Che non lo so. - Ecco una risposta strana. Non siete partito col capitano? - Può essere. - Non sapremo mai nulla da costui - disse Rokoff in francese a Fedoro. - Non devo parlare, tale è l'ordine - disse il macchinista nell'egual lingua e sorridendo. - Ah! Voi parlate anche il francese! - esclamò il cosacco, confuso. - Ed altre ancora, signore. Ecco Tschang-pin: la gran muraglia non è lontana. - Faremo provare una gran paura ai cinesi. - To'! Che cos'è quell'immenso recinto brulicante d'animali? - chiese Rokoff indicando una specie di parco che si estendeva per miglia e miglia verso l'ovest. - Una delle riserve dell'imperatore - rispose Fedoro. - Ne ha parecchie nella provincia di Pechino. - Vi sono migliaia di cavalli. - E tutti di proprietà imperiale. - E che cosa ne fa l'Imperatore? - Non lo saprei, perché non cavalca quasi mai. Tuttavia posso dirti che tiene a sua disposizione quasi centomila destrieri, scelti fra i migliori del suo sterminato impero. - Tanti da morire prima di averli provati tutti, anche se dovesse diventare vecchio quanto gli antichi patriarchi. - Sì, Rokoff. - Vedo anche dei buoi. - Ne possiede dodicimila. - E delle pecore. - Si dice che ne abbia duecentoquarantamila. - Ecco un proprietario che invidio, Fedoro. E quella massa enorme che s'innalza presso le mura del parco? La si direbbe una campana. - Fedele copia di quella di Pechino - disse il capitano, che si era silenziosamente accostato a loro. - Solamente che quella è in pietra, mentre quella della capitale è di bronzo finissimo. - Io non ho mai potuto vederla, ma se quella è una copia, deve essere ben mostruosa. - La più grande che esista al mondo, avendo tra una altezza di cinque metri, un diametro di quattro e mezzo e un peso di sessantamila chilogrammi. Se la bella Ko-hi non si fosse sacrificata, non so se i cinesi, per quanto abili, sarebbero riusciti a fonderla. - Ko-hi! - esclamò Rokoff, guardando il capitano. - Chi era? - Una delle più belle fanciulle dell'impero. - E che cosa c'entra colla famosa campana? - Signor Fedoro - disse il capitano, volgendosi verso il russo. - Non conoscete la storia di questa campana? - No, signore. Il capitano s'appoggiò al bordo, guardò per alcuni istanti Tschang-pin che ingrandiva a vista d'occhio, poi disse, quasi bruscamente: - Narrasi che l'imperatore Yung-ko avesse incaricato il mandarino Kuang-yo di fondergli una campana che, per mole, non avesse l'eguale nel mondo. L'impresa era così ardua, che per due volte l'immenso torrente di bronzo fuso si riversò nello stampo senza riuscire a dare una campana perfetta. L'imperatore, sdegnato, concesse una terza prova, minacciando di morte lo sventurato mandarino nel caso che non fosse riuscito. Interrogato un astrologo, questi aveva predetto che la fusione sarebbe riuscita se assieme al bronzo si fosse mescolato il sangue d'una vergine. Kuang-yo aveva una figlia, giovane e bellissima. Apprendendo la profezia dell'astrologo e temendo l'ira dell'imperatore contro suo padre, la fanciulla si decise per l'orrendo sacrificio. Ed ecco che, quando il fiume di bronzo usciva come lava ardente dall'immensa fornace, la bella giovane si slancia, gridando: "Per mio padre!" Un soldato si precipitò su di lei per trattenerla, ma già il giovane corpo si era immerso nel metallo, non lasciando in mano dell'uomo, che voleva salvarla, che una delle sue piccole scarpe. Il mandarino, che aveva assistito al sacrificio della figlia, impazzì, ma la fusione riuscì pienamente, come aveva predetto l'astrologo. Si dice che il primo suono che diede la campana sembrò un colpo di scarpetta. Era la disgraziata giovane che reclamava ancora, nelle vibrazioni del bronzo, la sua piccola shieh. Macchinista alziamoci! Ecco le prime case di Tchang-pin ed ecco i primi colpi di fucile destinati a noi. Non sono cortesi questi abitanti!

Guardate come corrono quelle aquile che pare abbiano intenzione di venirci a fare una visita. - Delle aquile! - esclamò Rokoff. - Non le vedete? Vengono dai Tian-Scian ed ingrandiscono a vista d'occhio - disse il capitano. - Non danneggeranno le nostre ali! - Lo cercheranno. Quei volatili sono coraggiosi. - E non le respingeremo noi? - Ho già dato ordine al macchinista di portare in coperta dei buoni fucili da caccia. Non c'è da fidarsi di quei rapaci e stizzosi volatili. - Che credono il vostro aerotreno un uccellaccio? - È probabile, signor Rokoff. L'hanno proprio con noi. Una schiera di volatili, che avevano delle ali gigantesche, scendeva, con velocità fulminea, gli ultimi scaglioni del Tian-Scian, movendo verso lo "Sparviero". Erano dieci o dodici, tutte di dimensioni poco comuni, essendo le aquile della Mongolia molto più grosse di quelle che vivono sulle montagne dell'Europa. Non uguagliano ancora i maestosi condor delle Ande americane, che sono i più giganteschi della famiglia, nondimeno raggiungono uno sviluppo straordinario. Le aquile s'avanzavano su doppia fila, gridando a piena gola, colle penne arruffate, ed i lunghi e robusti becchi adunchi aperti, pronti a lacerare. Volavano con tale velocità, che in meno d'un quarto d'ora si libravano sopra lo "Sparviero", sbattendo vivamente le loro immense ali. - Sono furiose - disse Rokoff, prendendo un fucile da caccia, di fabbrica americana, a due canne, che gli porgeva il macchinista. - Attenti alle ali del nostro "Sparviero" - disse il capitano. - E anche ai piani orizzontali - aggiunse Fedoro. - Stracceranno la seta. Anche lo sconosciuto si era armato d'un fucile, collocandosi a poppa. Come il giorno innanzi non aveva pronunciata una sola parola, anzi si era sempre tenuto lontano dal russo e dal cosacco quasi avesse avuto timore di venire interrogato. Le aquile, dopo essersi tenute ad una considerevole distanza volando sempre sopra lo "Sparviero", avevano cominciato ad abbassarsi descrivendo degli ampi giri che sempre più restringevano. - Canaglie! - esclamò Rokoff. - L'hanno con noi perché disputiamo loro l'impero dell'aria! Le signore sono molto stizzose! Vi calmeremo con un po' di piombo che vi guasterà le penne e anche la pelle. Il capitano vedendone una che stava per piombare sullo "Sparviero", sparò il primo colpo alla distanza di sessanta passi. I pallottoloni le fracassarono di colpo le zampe e l'ala destra. Il volatile per un po' si sostenne, battendo furiosamente quella che era rimasta incolume, poi incominciò a scendere verso il deserto, descrivendo dei bruschi angoli. - E una - disse Rokoff. - A me la seconda! Tre colpi di fucile rimbombarono, seguiti da altrettanti. Anche Fedoro e lo sconosciuto avevano fatto fuoco, quasi contemporaneamente. Due aquile capitombolarono come corpi morti e un'altra le seguì poco dopo, facendo sforzi disperati per sorreggersi. Le altre un po' calmate da quell'accoglienza punto incoraggiante, s'innalzarono precipitosamente, senza però decidersi a lasciare in pace il trenoaereo. - Sono ostinate - disse Rokóff. - Non ne hanno ancora abbastanza. - Ritenteranno l'assalto - rispose il capitano. - Non è la prima volta che il mio "Sparviero" viene assalito da quei rapaci volatili. Nel traversare le Montagne Rocciose m'hanno dato una caccia accanita per sette e più ore e m'hanno lacerata tutta la seta dell'ala destra, mettendomi in un gravissimo imbarazzo. Se non avessi avuto le eliche il mio viaggio sarebbe terminato in America. - Sono ben coraggiose - disse Fedoro. - Il mio macchinista porta ancora la traccia d'un colpo di rostro che gli aveva stracciato il cuoio capelluto. Se fosse stato più leggero, l'avrebbero portato via. - Che sia vero che talvolta le aquile osano rapire perfino delle persone? - chiese Rokoff. - Degli adulti no, ma dei ragazzi sì - rispose il capitano - Questi volatili posseggono una forza muscolare incredibile e veramente prodigiosa. Non si trovano imbarazzati a rapire dei montoni e dei camosci che poi portano nel loro nido per divorarseli con maggior comodità. - E anche dei fanciulli? - Nella Scozia, per esempio, dove le aquile sono molto numerose, ogni anno ne rapiscono e anche qui nel deserto. Le madri mongole hanno anzi tanta paura che non osano lasciare soli i loro bambini e se li tengono sempre presso, quando s'accorgono della presenza di qualche aquila. - Signore, tornano - disse il macchinista. - Ancora? Sono cariche le vostre armi? - chiese il capitano. - Sì - risposero il russo e il cosacco. - Mirate le ali. Le aquile si erano riunite in gruppo e tornavano ad abbassarsi. Questa volta pareva che avessero preso di mira i piani inclinati, la cui seta, che luccicava ai raggi del sole, doveva aver attirata maggiormente la loro attenzione. Calavano con furia, tenendo le ali aperte e le zampe allungate, con un gridio assordante. - Sono a buon tiro! - gridò il capitano. I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l'una dietro l'altra in mezzo al gruppo. Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian. - Che batosta! - esclamò Rokoff. - Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti? - Per cosa farne? - Degli arrosti. - Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi - rispose il comandante. - Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro. - È selvaggina, signore - Che non vale una pipa di tabacco. D'altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d'argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti. - E li cacceremo da qui? - E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. In quell'istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo "Sparviero". Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili. - Una carovana! - esclamò il capitano. - Da dove è sbucata che prima non l'avevamo veduta? - Da quel bosco di betulle e di larici - disse Rokoff. - Ma ... to'! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole. - Sono calmucchi - disse il capitano. - Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro. - Non mi rincrescerebbe - rispose Rokoff. - E poi, non sono che una dozzina - disse Fedoro. - Prenderemo le nostre armi. - Macchinista! Scendiamo - comandò il capitano.

D'altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni ostili. Andiamo nella casa di questo capo. I tibetani, dopo aver ronzato un po' attorno allo "Sparviero", senza poter indovinare che cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si erano dileguati. Era rimasto solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli. - Vi seguiamo - disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro. Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi. Dopo trenta o quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto. Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell'argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l'unico combustibile usato sull'altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un'apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati. - All'inferno i palazzi tibetani! - esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una tana da volpi! - Ci abitueremo presto a questo fumo - rispose il capitano. Il capo si era intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all'infuori, e del suo berrettone di pelle d'orso, che gli nascondeva mezzo volto. Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po' obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle. Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell'uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo. Prima d'accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all'altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. - Sta appiccandosi costui? - Ci saluta - rispose il capitano. - Con quella lingua! Da dove l'ha cacciata fuori! - Tutti i tibetani l'hanno così lunga. - Dite mostruosa. È ributtante! Sembra quella d'un orso formichiere. - Se saremo costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi. - Mille storioni! Il tibetano, dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di feltro. Tutti i montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti, come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far comprendere i loro desideri. Anche quando vogliono salutare, invece di dare un cordiale "buon giorno" o la "buona sera", si limitano a sporgere più che possono la lingua. Il capo andò a prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a mangiare. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Questo scimmiotto ci prende per tigri o per lupi per darci della carne cruda. - Non usano cucinarla - disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d'orzo e di carne cruda. Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè! - Io non farò onore a questo pasto da cannibali - disse Fedoro. Abbiamo le nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle. Aveva portato delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti, dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro. Depose ogni cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto. Il montanaro, vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po' confuso, però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi accesi i pezzetti di zucchero. - Io conosco quei pezzi di pietra - disse. - Gli uomini bianchi che sono passati per di qua molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare. - To'! Li chiama pezzi di pietra! - esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. - A te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col ginepro. Terminato il pasto il capo, che era diventato molto loquace dopo parecchi bicchieri della forte bevanda, spiegò al capitano che erano caduti in una profonda vallata racchiusa fra montagne tagliate a picco, che aveva una sola uscita verso il Ruysbruck, il più alto ed imponente picco dei Crevaux e che il suo villaggio si componeva di sessanta famiglie di pastori. Si dimostrava però sempre curioso di sapere in qual modo erano caduti da una così spaventevole altezza senza fracassarsi le ossa e di sapere che cosa era quella massa enorme che aveva schiacciata una capanna. La spiegazione fu laboriosa ma senza successo, non avendo quel tibetano mai udito parlare né di palloni, né di macchine volanti e tanto meno di uomini che viaggiavano fra le nubi. - Se è vero quello che tu mi racconti - concluse il montanaro - tu devi essere l'uomo più potente della terra. Finché però non ti vedrò volare come le aquile, non ti crederò mai, perché solo Buddha, potrebbe tentare una simile cosa. Volle in seguito vedere i fucili degli aeronauti senza poter comprendere come facessero fuoco non avendo la miccia. Gli sguardi d'ardente cupidigia che lanciava su quelle armi erano tali da impressionare il capitano. - Finirà per chiedercele - disse a Rokoff ed a Fedoro. - Noi però non gliele daremo. Si accontenti del suo moschettone a miccia. Dopo un paio d'ore lasciarono la capanna, non fidandosi di dormire in compagnia del capo. Il nebbione non si era ancora alzato e la neve cadeva abbondante anche nel vallone. Il macchinista e lo sconosciuto per riparare il ponte del fuso, avevano in quel frattempo tesa una immensa tenda di tela cerata e messa in batteria una piccola mitragliatrice a sette canne disposte a ventaglio, arma sufficiente per tenere in rispetto i tibetani, nel caso che avessero tentato di saccheggiare o di guastare lo "Sparviero". - È venuto nessuno ad importunarvi durante la nostra assenza? - chiese il capitano. - Abbiamo veduto, a più riprese, aggirarsi fra la nebbia alcune ombre che si sono subito dileguate al mio grido d'allarme - rispose il macchinista. - Si direbbe che voi non siete tranquillo - disse Fedoro, un po' sorpreso. - I tibetani non vedono volentieri gli stranieri - rispose il capitano. - E poi qui, in queste gole, non vivono che dei briganti, non essendovi pascoli fra questi orridi dirupi. E poi sapete che cosa m'inquieta? - Dite, signore. - L'assenza completa delle donne; ne avete vedute voi? - Io no. Dunque non credete che le capanne e le tende siano abitate da famiglie. - Solamente da uomini. - Che ci diano delle noie? - chiese Rokoff. - Non mi sorprenderei. Durante la buona stagione, all'epoca dei pellegrinaggi, tutte le vie che attraversano gli altipiani sono infestate da banditi. Chi mi assicura che non lo siano anche questi? Vegliamo amici e non lasciamoci sorprendere. - Brutto affare, collo "Sparviero" immobilizzato. - Aiuteremo il macchinista ad accomodare l'ala. I pezzi di ricambio sono già pronti. - Sarà lunga la riparazione? - Non avrò terminato prima di domani a mezzodì - disse il macchinista. - Il vento ha spezzato più di mezze verghe. - Al lavoro - disse il capitano. - Intanto uno di noi veglierà passeggiando intorno al fuso, onde i Tibetani non ci guastino i piani orizzontali. Se sventrano la seta, per noi sarebbe finita e l'idea di un viaggio a piedi attraverso il Tibet, specialmente in questa stagione così fredda, vi assicuro che non mi sorride affatto. - M'incarico io del primo quarto di guardia - disse Rokoff. Si gettò sulle spalle un ampio gabbano di tela impermeabile, si calcò in testa il suo berretto di pelo simile a quello che portano i tartari della steppa e armatosi dello Snider balzò a terra, scomparendo nella nebbia.

. - Cattiva mossa, signore, perché saremo costretti a dividere le nostre forze e poi, chi mi assicura che i tibetani, approfittando della nebbia, non ci abbiano preparato qualche agguato? Ormai sanno che noi ci siamo accorti del furto. - Temete un attacco? - E contro lo "Sparviero" - rispose Rokoff. - Se non avessimo da difendere il nostro aerotreno, io per primo vi consiglierei di agire senza indugio; lasciarlo con due soli uomini non mi sembra prudente. - Hanno la mitragliatrice. - Lo so, tuttavia pensate che le palle dei moschettoni a miccia possono danneggiare gravemente anche l'altra ala. - È vero - disse il capitano che a poco a poco s'arrendeva alle giuste riflessioni dell'uomo di guerra. - Potrebbero guastarci le ali e distruggerci anche i piani e allora lo "Sparviero" non ci servirebbe più a nulla. Eppure io non posso perdere la seta che mi è necessaria quanto l'aria liquida per poterci sorreggere. Ce ne hanno rubati almeno cento metri, mentre io non ne possiedo più di quaranta, avendo già subito un altro guasto gravissimo sulle Montagne Azzurre del continente australiano. - Aspettiamo che la nebbia si alzi prima d'affrontare i tibetani. Impegnare un combattimento con simile oscurità contro un nemico che può essere cinquanta volte più numeroso di noi, sarebbe una vera pazzia, signore. Saremmo costretti a sparare a casaccio, senza o con scarsissimi risultati - disse Rokoff. - Condivido pienamente le tue idee - disse Fedoro, che li aveva raggiunti coi fucili. - Il fuso per noi rappresenta, in questo momento, una piccola fortezza, sulla quale potremo resistere lungamente. - Sì, avete ragione - rispose il capitano, che riacquistava il suo sangue freddo. - Se però i ladri tornano, non li risparmieremo. Signor Rokoff, voi sorvegliate il piano di babordo ed io quello di tribordo e voi, signor Fedoro, andate ad aiutare il macchinista. È necessario che per domani l'ala sia riparata onde essere pronti a partire. Spero di potermi innalzare fino al margine di questo vallone anche coi piani semi-sventrati, ma non lo faremo che all'ultimo momento, nel caso d'un gravissimo pericolo. Tornarono verso il fuso. Fedoro si unì al macchinista e allo sconosciuto, il quale lavorava non meno febbrilmente del compagno, dimostrando molta perizia, mentre Rokoff ed il capitano si collocavano a babordo ed a tribordo, coi fucili in mano. Essendosi la nebbia un po' diradata, potevano sorvegliare i piani che s'allungavano ai due lati del fuso. Nel piccolo villaggio pareva che tutti dormissero, nondimeno né il comandante né il cosacco si lasciavano ingannare da quel silenzio, il quale poteva invece nascondere qualche sorpresa. Nessuna ombra più vagava fra le nebbie, tuttavia le due sentinelle non rallentavano la loro vigilanza. Anzi talora scendevano dal fuso spingendosi fino alle estremità dei piani. La sera era calata e l'oscurità era aumentata in quel selvaggio burrone, rendendo più difficile la sorveglianza. L'uragano continuava intanto ad imperversare sull'altipiano. Il vento ruggiva sempre in alto, lanciando nel vallone nembi di neve, le quali s'accumulavano in masse enormi qua e là, e si udivano ancora i rombi delle valanghe. Doveva essere la mezzanotte quando Rokoff vide alcune ombre scivolare cautamente fra i mucchi di neve, cercando di accostarsi allo "Sparviero" - Capitano! - gridò. - Vengono. - I tibetani? - Sì, li vedo strisciare verso di noi. - Salutateli con un colpo di fucile. - Faccio di meglio, signore; metto in opera la mitragliatrice. Si persuaderanno in tal modo che possediamo delle armi terribili. Il cosacco s'avvicinò al pezzo che era stato collocato a prora. Le ombre aumentavano di numero di momento in momento. Cercavano d'accostarsi ai piani per rubare dell'altra seta o muovevano all'assalto dello "Sparviero" sperando di sorprendere gli aeronauti e di opprimerli colla loro enorme superiorità? Il cosacco che aveva già maneggiato altre mitragliatrici nella sanguinosa guerra russo-turca, mise in azione il terribile istrumento di distruzione, scatenando un uragano di piombo. Urla terribili seguirono quella salva di detonazioni, poi si videro le ombre gettarsi precipitosamente al suolo e scomparire in direzione del villaggio. - Pare che abbia levato la pelle a più d'uno - disse Rokoff. - Speriamo che ci lascino ora in pace. Aveva sospeso il fuoco e si era slanciato giù dal fuso, assieme al capitano ed a Fedoro, per vedere se i tibetani si erano realmente allontanati. Aveva fatto venti o trenta passi, quando vide alcune scintille brillare fra le tenebre. - Guardatevi! - gridò. - Le micce bruciano Si erano lasciati cadere a terra tutti e tre, riparandosi dietro un cumulo di neve. Quattro o cinque spari rimbombarono in quel momento e udirono sibilare in alto. - Si tenevano in agguato - disse Rokoff. - Nemmeno la mitragliatrice è stata sufficiente a calmarli. - Ripieghiamoci verso il fuso - disse il capitano. - Qui corriamo il pericolo di farcì fucilare a tradimento e anche di venire circondati. Vedendo brillare altri punti luminosi, si gettarono in mezzo ai cumuli di neve, salutati da una seconda scarica, che come la prima non ebbe alcun effetto. Quei moschettoni, non dovevano tirare troppo bene, tuttavia qualche palla, anche per puro caso, poteva giungere a destinazione e costringere il macchinista, il quale aveva dovuto scendere dal fuso per lavorare intorno all'ala ferita, a sospendere la riparazione. - La cosa minaccia di diventare grave - disse Rokoff. - Siamo caduti in mezzo a dei veri briganti. - Che cosa mi consigliereste di fare? - chiese il capitano, le cui inquietudini aumentavano. - Scacciare questi banditi. - Non siamo in numero sufficiente. - Ritiratevi tutti a bordo e facciamo lavorare la mitragliatrice e le carabine. - E voi? - Io vado ad incendiare il villaggio. - Fatelo saltare con una bomba d'aria liquida. - To'! Non avevo pensato che disponiamo di mezzi così potenti. Datemene una e m'incarico io di mandare in aria tutte le catapecchie di questi briganti. - Teneteli occupati per cinque minuti ed io m'incarico del resto. - E se vi sorprendono? - Con questa oscurità! E poi mi difenderò. Datemi un paio di rivoltelle. - Sbrigatevi, signor Rokoff. Vedo i tibetani avanzarsi e tremo per i miei piani orizzontali che possono venire distrutti in pochi minuti. - Sono pronto a partire. Risalirono precipitosamente a bordo. Il cosacco prese le rivoltelle e la bomba che il capitano erasi recato a prendere e discese dalla parte opposta. I montanari avevano ricominciato a sparare e la mitragliatrice rispondeva vigorosamente, appoggiata dagli Sniders del macchinista; di Fedoro e dello sconosciuto, il quale anche in quel terribile frangente non si era lasciato sfuggire una sola parola che avesse potuto tradire la sua vera nazionalità. Rokoff appesosi il tubo di ferro, che racchiudeva l'aria liquida, alla cintura ed impugnate le sue rivoltelle, si era messo a strisciare lungo il piano di tribordo. Fortunatamente per lui, i tibetani invece di accerchiare lo "Sparviero", avevano cominciato l'attacco su un solo punto, ossia verso il piano di babordo. Dall'altra parte non si vedevano né ombre avanzarsi, né scintillare le micce dei vecchi moschettoni. Nondimeno il cosacco procedeva cautamente, temendo di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche drappello di nemici. - Mi parve che le casupole fossero disposte su una vasta fronte - disse - e che si trovassero su due file. Salteranno tutte insieme. A un tratto un pensiero lo trattenne. - E la seta dei piani? - si chiese. - Non verrà distrutta? M'immagino che i ladri l'avranno nascosta nelle loro capanne. Bah! In qualche modo la surrogheremo più tardi. Pensiamo per ora a salvare la pelle. Dall'altra parte le fucilate continuavano, aumentando d'intensità. I tibetani non cedevano nemmeno dinanzi alle poderose scariche della mitragliatrice le cui palle dovevano spazzare il terreno in tutte le direzioni, essendo le canne disposte a ventaglio. Rokoff, raggiunta l'estremità del piano, si gettò al suolo per non venire colpito dai proiettili dei montanari che passavano sopra il fuso e si spinse risolutamente innanzi, brancolando fra l'oscurità. Sapeva press'a poco dove si trovavano le capanne. Non dovevano distare che tre o quattrocento metri dallo "Sparviero". Si era messo a correre, udendo le urla dei tibetani aumentare, come se si incoraggiassero per un assalto decisivo. Ad un tratto andò a urtare contro un ostacolo. Era una parete in legno od in muratura. - Una casupola - disse. - Fosse almeno quella del capo! Girò rapidamente intorno finché trovò un'apertura e vi si cacciò dentro. Un po' d'argol bruciava su alcuni sassi, spandendo all'intorno una vaga luce. Rokoff depose il tubo di ferro in un angolo, mise a posto il rocchetto, svolse il filo e poi fuggì a tutte gambe per non saltare assieme al villaggio. La fucilata in quel momento era diventata furiosa. Presso il fuso, si combatteva ferocemente fra gli aeronauti e i tibetani, i quali parevano più che mai decisi d'impadronirsi dello "Sparviero" e dei suoi difensori o meglio delle loro formidabili armi. Già il cosacco stava per raggiungere il piano di babordo, quando vide sorgere dalla terra alcune ombre. - Largo! - gridò. Vedendo altri uomini accorrere alzò le due rivoltelle e aprì un vero fuoco di fila facendone cadere alcuni, poi approfittando del terrore dei superstiti si slanciò verso il fuso, urlando: - Tenete fermo! Il villaggio sta per saltare! E sprigionò la scintilla elettrica, servendosi del filo che non aveva abbandonato. Una spaventevole detonazione rimbombò nel vallone, seguita da urla di spavento e da un precipitare di rottami. La spinta dell'aria era stata così violenta da spostare perfino il fuso e da atterrare di colpo gli aeronauti. Per alcuni minuti si udirono dei clamori assordanti che si allontanavano verso l'uscita del vallone, poi una luce intensa s'alzò forando il nebbione. - Il villaggio ha preso fuoco! - gridò Rokoff, il quale si era risollevato. Il capitano si era slanciato verso il cosacco aiutandolo a salire. - Grazie - disse. - Stavamo per venire sopraffatti. - Non avrà sofferto lo "Sparviero"? - chiese Rokoff. - Nulla di guasto - gridò il macchinista, che si era precipitato verso le ali. - E i tibetani? - chiese Fedoro. - Fuggiti - rispose il capitano. - E credo che non torneranno nemmeno più - aggiunse Rokoff. Intanto le fiamme aumentavano, distruggendo tutto ciò che l'esplosione aveva risparmiato. Lingue di fuoco s'alzavano dappertutto rischiarando il vallone come in pieno giorno. Nembi di scintille, che il vento spingeva altissime, facendole turbinare fino ai margini superiori dell'altipiano, solcavano le tenebre come miriadi di stelle. - Capitano! - gridò ad un tratto Rokoff. - Se provassimo a qualche cosa? Vi è la nostra seta in quelle casupole. - È quello che pensavo anch'io - rispose il comandante. - E poi vedo anche delle tende di feltro che potrebbero servire pei nostri piani. Signor Fedoro, venite con noi e voialtri guardate lo "Sparviero". I tre uomini si slanciarono verso il villaggio, il quale ardeva come un fastello di legna secca. La violenza dell'esplosione aveva atterrato una terza parte delle abitazioni e parecchie tende. Le altre però erano ugualmente perdute, perché le le avevano ormai avviluppate divorando i legnami con rapidità incredibile. Sarebbe stata una follia il volersi cacciare fra quella fornace ardente per cercare la seta rubata. Il capitano ed i suoi compagni s'impadronirono di tre vaste tende che erano state gettate al suolo, formate di spesso feltro e le trascinarono presso lo "Sparviero". La stoffa era più che sufficiente per coprire i piani e poteva surrogare, quantunque assai più pesante, la seta presa dai tibetani. - Lasciamo che il fuoco termini di consumare le catapecchie e occupiamoci dell'ala - disse il capitano. - Vorrei andarmene prima che sorgesse l'alba. - Che i briganti ritornino? - chiese Rokoff. - Se hanno altri compagni in questo vallone, non mi stupirei di vederli ricomparire, per vendicare la loro disfatta e punirci d'aver incendiate le loro case. Se il freddo non vi importuna andate a esplorare i dintorni, onde non ci sorprendano nuovamente. - Un cosacco non sente la neve. Contate su di me, signore. Mentre Rokoff s'inoltrava nel vallone, verso la parte donde erano fuggiti i tibetani, il macchinista, il capitano e i loro compagni si rimettevano al lavoro con febbrile attività. Già il macchinista aveva preparate le traverse che dovevano surrogare quelle spezzate dall'uragano e non si trattava che di saldarle, operazione però che richiedeva un certo tempo onde la grave avaria non si ripetesse più tardi per la terza volta e in circostanze maggiormente difficili. Alle quattro del mattino, con uno sforzo supremo, l'ala era accomodata con una serie di robuste saldature, rinforzate da anelli d'acciaio. Non rimaneva che coprire i piani inclinati nei luoghi dove la seta era stata levata, cosa facilissima perché non si trattava che di tagliare il feltro delle tende e d'inchiodarlo. Rokoff non era ancora tornato dalla sua esplorazione. Quel coraggioso doveva essersi spinto ben innanzi per impedire una nuova sorpresa. - Affrettiamoci - disse il capitano. - Fra un'ora potremo innalzarci e riguadagnare l'altipiano. Intanto mettiamo in funzione la macchina. Avevano appena tagliato il feltro e lanciata l'aria liquida attraverso i tubi della macchina, quando udirono improvvisamente echeggiare la voce di Rokoff: - All'armi! Poi uno sparo, seguito a breve distanza da un altro e da un fragore assordante misto a muggiti ed a nitriti. - Quale valanga sta per rovesciarsi su di noi? - si chiese il capitano. Delle grida e delle detonazioni formidabili si udivano in lontananza, verso l'estremità del vallone e si vedevano anche delle linee di fuoco solcare di quando in quando la nebbia. La voce di Rokoff, improntata d'un profondo terrore, era echeggiata più vicina: - All'armi! Preparate la mitragliatrice! Ecco il nemico! Poco dopo usciva dalla nebbia, correndo all'impazzata. I clamori erano diventati assordanti. Muggiti, nitriti, urla umane e spari si confondevano con un crescendo spaventevole. - Signor Rokoff! - gridò il capitano, balzando dietro la mitragliatrice, mentre il macchinista portava in coperta Winchester, Snider, Mauser, Remington e parecchie rivoltelle. - Che cosa succede? - Non so - rispose il cosacco, scavalcando rapidamente la murata del fuso. - Una torma infinita d'animali sta per irrompere addosso a noi. Mi parve che fossero jacks. - E i tibetani? - Spingono le bestie attraverso la valle, spaventandole con colpi di fucile e con rami resinosi accesi. - Mille tuoni! Se quegli animali ci rovinano addosso, fracasseranno i nostri piani. Del fuoco! Mi occorre del fuoco! - Le casupole stanno per spegnersi e poi sono dietro di noi - disse Rokoff. - Ma sì! Possiamo salvarci! Per due o trecento metri potremo sorreggerci anche senza i piani ... Macchinista, è sotto pressione la macchina? - Sì, signore. - Metti in movimento tutto ... ali ... , eliche ... Signor Rokoff! Venite! Il capitano si era precipitato verso il boccaporto, seguito dal cosacco. Un momento dopo risalivano portando ognuno due barili della capacità di cinquanta litri ciascuno. - Partite! - gridò il capitano. - Non occupatevi di noi! Aspettateci dietro al villaggio ... La valanga vivente stava per rovesciarsi addosso allo "Sparviero". Era un'enorme mandria di jacks, probabilmente ammaestrati, la quale scendeva attraverso il vallone a galoppo sfrenato, con mille muggiti. Dietro si vedevano galoppare confusamente numerosi tibetani, montati su piccoli cavalli. Per spaventare i grossi ruminanti, agitavano dei rami di pino infiammati e sparavano colpi di moschetto. Il capitano e Rokoff si gettarono in mezzo alle casupole quasi interamente consunte, stapparono due barili e lasciarono sfuggire il liquido sui tizzoni fumanti. Era brandy e di prima qualità. Le fiamme che stavano per spegnersi, d'un tratto si ravvivarono. Una cortina di fuoco, alta parecchi metri, che mandava dei riflessi sinistri e lividi in un baleno si estese su una larghezza di oltre cento metri. In quel momento lo "Sparviero" s'alzava precipitosamente, appena in tempo per evitare l'urto formidabile di tutti quegli animali, che il terrore rendeva pazzi. Spinto anche dal vento che soffiava in favore, la macchina volante passò sopra la cortina di fuoco, abbassandosi quattrocento passi dietro le ultime casupole. Gli jacks, vedendo fiammeggiare quel fuoco immenso che pareva dovesse divorare l'intera valle, nonostante le urla e le fucilate dei pastori, si erano arrestati di colpo, muggendo spaventosamente. Rimasero un momento irresoluti, poi con un volteggio fulmineo si scagliarono a testa bassa contro i loro padroni, volgendo le spalle alle fiamme. Successe allora una confusione indicibile. I cavalli tibetani, colpiti dalle corna dei furibondi ruminanti, cadevano l'uno sull'altro, sferrando calci in tutte le direzioni, poi i superstiti fuggirono all'impazzata, fra un clamore immenso. - Ecco una disfatta pagata cara da quei bricconi - disse Rokoff. - Se tornano ancora dovranno avere il diavolo in corpo e la protezione di Buddha.

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