Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 16 occorrenze

È strano però che i Tuareg abbiano trucidato tutti gli altri e risparmiato lui solo." "Sarà stato l'unico a cadere vivo nelle mani di quei predoni." La voce di Rocco interruppe la loro conversazione "Il pranzo è in tavola! Vedrete che meraviglie!" Il sardo e Esther avevano fatto dei veri prodigi per festeggiare degnamente la liberazione del vecchio moro e la lieta novella recata da El-Melah. Oltre aver saccheggiato le casse dei viveri, erano ricorsi anche alle due carovane per averne burro, formaggi, zucchero, orzo e frutta secche ed una magnifica lepre che un arabo aveva ucciso nel deserto. I profumi che uscivano dalle pentole erano così squisiti che per un momento il marchese credette di trovarsi in qualche albergo della Corsica o della Francia, anziché ai confini del deserto. La minuta era davvero splendida e svariata. Orzo al latte, arrosto di montone, lepre al Bordeaux, un'ottarda in salsa verde, pasticcio di datteri, frutta secche e aranci al Marsala. La serata passò lietamente, in compagnia dei capi carovanieri invitati a prendere il caffè. Alle undici tutti i cammelli erano pronti alla partenza. Il marchese e Ben si posero all'avanguardia sui due mehari e mezz'ora dopo la carovana abbandonava l'oasi, inoltrandosi nel deserto. A mezzodì dell'indomani i minareti di Tombuctu e le cupole delle moschee, indorate dal sole, si delineavano all'estremità della pianura sabbiosa. "Non una parola che non sia araba," disse Ben al marchese. "Se vi sfugge una frase in francese siete perduto, ricordatevelo." "Non temete, Ben," rispose il signor di Sartena. "Parlerò arabo come un vero algerino e pregherò come un ardente mussulmano." Nondimeno il marchese internamente non si sentiva tranquillo; ma ciò lo attribuiva alla commozione di entrare in quella misteriosa città che era stata la meta sospirata di tanti audaci viaggiatori durante l'ultimo secolo, molti dei quali erano stati uccisi dal fanatismo dei Tuareg prima ancora di poter mirare, e da lontano, le cupole ed i minareti delle moschee. Attraversati i bastioni la carovana, in bell'ordine, fece la sua entrata per la porta del settentrione. I kissuri, bellissimi uomini, armati di lunghi fucili a pietra e di jatagan che davano loro un aspetto brigantesco, dopo averli interrogati uno ad uno sulla loro provenienza e aver constatato che i cammelli erano carichi di mercanzie, li lasciarono proseguire, credendoli in buona fede mercanti marocchini. Fu però per gli europei e anche pei due ebrei un momento di viva emozione. Il menomo sospetto sulla loro vera origine e sulla loro religione sarebbe stato più che sufficiente per perderli, essendo rigorosamente vietato l'ingresso a Tombuctu ai non mussulmani, soprattutto agli europei. "Dove andiamo?" chiese il marchese a El-Haggar quand'ebbero oltrepassato la porta. "Vi sono dei caravan-serragli qui," rispose il moro. "Non saremmo liberi," disse Tasili. "Andiamo ad accamparci nel giardino del mio padrone. La casa è diroccata, questo è vero, però alcune stanze sono ancora abitabili." "Si, andiamo alla dimora di mio padre," disse Ben. "Desidero ardentemente vederla." "E poi il tesoro è là," aggiunse Tasili a bassa voce. Attraversarono parecchie vie ingombre di mercanti e di animali, aprendosi il passo con molta fatica, e guidati dal vecchio moro si diressero verso i quartieri meridionali della città, i quali erano i meno frequentati, i meno popolati, e anche i più diroccati, avendo molto sofferto dagli assalti dei Tidiani che avevano assediato la città nel 1885. Dopo una buona ora, il moro si arrestava dinanzi ad una casa di forma quadra, sormontata da tre cupolette molto slanciate, e costruita con mattoni seccati al sole. Parte del tetto era stata diroccata e anche le pareti mostravano larghi crepacci. Dietro si estendeva un giardino incolto, pieno di sterpi e ombreggiato da un gruppo di palme, cinto da una muraglia ancora in ottimo stato. "È questa la dimora di mio padre?" chiese Ben, non senza commozione. "Si, padrone," rispose Tasili. Fecero entrare i cammelli nel giardino, il quale era tanto ampio da contenerli comodamente tutti, poi il marchese, Esther, Ben e Tasili visitarono l'abitazione. Come tutte le case di Tombuctu abitate da persone agiate, questa nell'interno aveva un cortiletto circondato da un porticato con colonne di mattoni, ed una fontana nel mezzo. Le stanze, in numero di quattro, erano ancora abitabili, quantunque legioni di ragni e di scorpioni le avessero invase. Fecero portare le casse sotto il porticato e diedero ordine ai due beduini di sbarazzare le stanze dai loro incomodi abitanti, soprattutto dagli scorpioni, insetti molto pericolosi, i cui morsi talvolta riescono mortali alle persone. "Andiamo a vedere il pozzo," disse il marchese. "Non facciamo però capire ai beduini e nemmeno agli altri che là dentro si nasconde un tesoro," disse il prudente e sospettoso moro. "Sarebbero capaci di denunciarvi per impossessarsene." "Conosciamo quei messeri," rispose il marchese. "Quantunque finora non ci abbiano dato alcun motivo di lagnarci di loro. Vuoteremo il pozzo di notte e durante la loro assenza." Il pozzo dove Tasili aveva seppellito le ricchezze accumulate dal suo padrone si trovava nel mezzo del giardino, fra quattro palme dûm d'aspetto maestoso. Aveva un parapetto basso, formato da mattoni seccati al sole, e non misurava più di due metri di circonferenza. Le sabbie ed i sassi erano stati gettati in così gran copia dal vecchio moro, che giungevano a due metri sotto il livello del suolo. "Quanto dovremo scavare?" chiese il marchese. "Dodici metri," rispose il moro. "Altro che le casseforti! L'impresa sarà dura, ma la fatica sarà ricompensata largamente. A quanto stimate le ricchezze rinchiuse nella cassa?" "A due milioni di lire, signore." "Sarà necessario però cercare un'altra via per ritornare al Marocco." "Ci pensavo anch'io," rispose l'ebreo. "È una ricchezza troppo vistosa per esporla ai pericoli del deserto." "Volete un consiglio?" "Parlate, marchese." "Scendiamo il Niger fino ad Akassa. Le barche non mancano sul fiume; ne compreremo una e ce ne andremo da quella parte." "Assieme a voi, è vero, marchese?" chiese Ben, guardandolo fisso e sorridendo. "Sì," rispose il signor di Sartena, che lo aveva compreso. "Assieme a voi ed a vostra sorella." "Queste ricchezze non appartengono a me solo," prosegui Ben; "e guardate da due uomini che hanno fatto le loro prove nel deserto contro i Tuareg, giungeranno più facilmente al mare." "Le difenderemo contro tutti, Ben, ve l'assicuro." "Io la mia parte, voi quella di mia sorella. Vi conviene, marchese?" "Tacete e fermiamoci qui, per ora." Ben prese la destra del marchese e gliela strinse con commozione. "Che il sogno si avveri," disse, "ed io sarò il più felice degli uomini, come mia sorella sarà la più felice delle donne." "L'amo," disse il marchese, semplicemente. "È il destino che ci ha fatto incontrare." "Ed il destino si compia," rispose Ben con voce grave.

"Che ci abbiano seguito?" si domandò il marchese, con ira. "La presenza di quei predoni non mi piace affatto." "Che osino assalirci fra tanta gente?" chiese Esther. "No di certo, perché i marocchini e gli algerini s'unirebbero a noi per respingerli. Qui siamo come fra compatrioti." "Che vadano anch'essi a Tombuctu? Che cosa ne dici, El-Melah?" Il sahariano non rispose. Guardava Esther in modo strano, mentre un brutto sorriso gli increspava le labbra. "Ebbene, non mi hai udito, El-Melah?" chiese il marchese, impazientito. "Che quei Tuareg si dirigano anch'essi a Tombuctu?" "Ah! Sì, lo suppongo," rispose il sahariano, quasi distrattamente. "Con Ben vado ad assicurarmi chi siano. Tu, El-Melah, non lascerai Esther durante la mia assenza e aspetterai il ritorno dei beduini e di El-Haggar, che sono andati ad acquistare dei viveri." Il sahariano fece un gesto d'assenso e si sdraiò al suolo, a quattro passi dalla giovane ebrea, la quale si era seduta presso la tenda, all'ombra d'un bellissimo palmizio. Il viso del giovane non si era ancora rasserenato, né i suoi sguardi si erano ancora staccati dall'ebrea. Anzi una fiamma cupa balenava entro quegli occhi nerissimi, mentre la fronte gli si aggrottava sempre più. "Signora," disse ad un tratto, risollevandosi. "Che cosa va a cercare a Tombuctu il marchese?" Esther alzò il capo che teneva appoggiato ad una mano, e guardò con stupore il sahariano. "Perché mi fai questa domanda, El-Melah?" chiese. "Io vi ho seguito fin qui senza aver ancora potuto conoscere chiaramente i vostri progetti e prima di entrare in Tombuctu desidererei sapere lo scopo che vi guida. La Regina delle Sabbie è pericolosa per gl'infedeli; voi giuocate la vita." "Andiamo a cercare il colonnello Flatters. Credevo che tu lo sapessi, El-Melah." Un sorriso beffardo spuntò sulle labbra del sahariano. "Non valeva certo la pena di venire fino qui a cercare un uomo che forse è morto e che è ben lontano da Tombuctu." "Sai qualche cosa tu?" chiese Esther. Il sahariano crollò il capo, poi disse come parlando fra sé: "Lasciamolo cercare." "Chi?" "Il francese." "Non ti comprendo, El-Melah." "Chissà, forse potrà trovare anche qualche cosa d'altro a Tombuctu. Signora, è vero che il marchese vi ama?" "Sì, El-Melah." "E voi?" chiese il sahariano, figgendole in viso uno sguardo acuto come la punta d'uno spillo. "Ciò non ti può interessare," rispose Esther, il cui stupore aumentava. "Desidererei sapere se lo lascereste per un altro uomo che pure vi ama e forse più del marchese." "El-Melah," esclamò la giovane alzandosi. "Il sole del deserto ti ha sconvolto il cervello? Ne avevo il dubbio, ora ne ho la certezza." "Sì, deve esser così," rispose il sahariano, con un accento strano. "Il sole del deserto deve aver guastato il cervello di El-Melah." S'alzò girando intorno alla tenda; poi tornò a sdraiarsi, tenendosi il capo stretto fra le mani. "Quel povero giovane è pazzo," disse Esther. In quel momento il marchese tornava con Rocco, El-Haggar e Ben. Tutti e tre parevano assai preoccupati ed inquieti. "Che cosa avete?" chiese Esther, movendo loro incontro. "I Tuareg che sono passati per di qua sono gli stessi che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti," rispose Ben. "Vanno a Tombuctu." "Che abbiano qualche progetto su di noi?" chiese Esther. "Tutto si può attendere da quegli uomini," disse El-Haggar. "Se essi hanno un sospetto che voi non siete mussulmano, ci possono fare arrestare dalle guardie del sultano e anche uccidere." "Eppure non possiamo rimanere qui ora che abbiamo attraversato il deserto. Io non me ne tornerò se non quando avrò la certezza che il colonnello è morto o che si trova prigioniero del sultano." "Ed io se prima non avrò raccolto l'eredità di mio padre," disse Ben. "E trovato Tasili," aggiunse Rocco. "Senza quell'uomo non potrete certo riacquistare il tesoro." "Ascoltatemi," disse in quell'istante El-Haggar. "A me, come mussulmano, non è vietata l'entrata in Tombuctu e nessun pericolo può minacciarmi. Volete che io segua quei Tuareg per cercare di scoprire le loro intenzioni e cercare Tasili? Fra tre o quattro giorni io sarò di ritorno e allora agirete." "E ti occuperai di sapere se il colonnello è vivo od è stato ucciso?" "Ve lo prometto, marchese. Conosco parecchie persone a Tombuctu e andrò ad interrogarle." "E ne conosco anch'io," disse El-Melah, alzandosi. "Vuoi partire con El-Haggar?" chiese il signor di Sartena. "Tu che conosci quei Tuareg puoi sapere, meglio d'ogni altro, che cosa sono venuti a fare a Tombuctu." "Se lo desiderate io parto," rispose il sahariano, con vivacità. "Vi concederemo una settimana di tempo. Se non vi vedremo ritornare, qualunque cosa debba succedere, noi verremo a Tombuctu," disse il marchese. "Siamo d'accordo," rispose El-Haggar. I loro preparativi furono lesti. Caricarono sui due mehari dei viveri, s'armarono di fucili e di jatagan e salirono in sella. "Prima che il sole tramonti noi entreremo nella Regina delle Sabbie," disse El- Haggar. "Abbiate pazienza e non lasciate questa oasi. In caso di pericolo io o El-Melah torneremo subito e vi rifugerete subito nel deserto." "Và e che Dio sia con te," risposero Ben ed il marchese. Mentre però s'allontanavano, El-Melah continuava a volgersi indietro ed Esther provava ancora l'impressione di quello strano sguardo che le procurava una specie di malessere che non sapeva spiegarsi. Quando i due corridori scomparvero in mezzo alle dune, la giovane provò un vero sollievo. "Che uomo strano è quel Melah," mormorò. "Che sia veramente pazzo?" Il marchese ed i suoi compagni intanto si erano occupati a prepararsi l'accampamento, onde passare quella lunga attesa nel miglior modo possibile. Rizzarono le due tende assicurandole con numerose funi e disposero le casse ed i bagagli all'intorno, formando una specie di barriera; poi con sterpi e foglie innalzarono una zeriba destinata a contenere i cammelli e gli altri animali, precauzione indispensabile con tanta gente che occupava l'oasi in attesa del momento opportuno per mettersi in marcia verso il nord. "Ora armiamoci di pazienza ed aspettiamo," disse il marchese, quando il campo fu pronto. "El-Haggar ritornerà, ne sono certo, e forse accompagnato da Tasili."

"Che abbiano rinunciato a inseguirci?" "Lo vedremo più tardi, signore." "Tu dunque non credi?" "Ho i miei dubbi." "Dove andiamo?" "Verso la riva sinistra; sulla destra abbiamo Koromeh." "Non siamo ancora troppo vicini a Kabra?" "Vi ho detto che ci nasconderemo." "Avanti dunque," concluse il marchese. Il Niger, quantunque prima a Kabra dividesse la sua corrente formando due bracci ben distinti, era ricchissimo d'acqua e la sua larghezza sorpassava, in quel luogo, i tre chilometri. Scorreva lento come il Nilo, fra due rive assai basse e molto boscose, trascinando un gran numero d'isolette galleggianti e di tronchi enormi, i quali si urtavano rumorosamente, ora sommergendosi ed ora tornando bruscamente a galla. Le sue acque torbidissime, forse a causa di qualche recente acquazzone, formavano qua e là dei larghi gorghi, tuttavia non pericolosi per la scialuppa. Nessuna barca in quel momento lo attraversava e nessun villaggio si scorgeva sulle sue rive. Abbondavano invece gli uccelli acquatici, specialmente in mezzo ai canneti che crescevano numerosissimi lungo le sponde e sugli isolotti. Si vedevano tormi immensi di pellicani, di fenicotteri, di gru, di ibis bianche e nere e di tantali, mentre sulle isole galleggianti passeggiavano gravemente degli esemplari di balaeniceps rex, stravaganti uccellacci, alti più d'un metro, rassomiglianti un po' ai marabù dell'India, con gambe lunghe e la testa grossa, fornita d'un becco mostruoso, assolutamente sproporzionato al corpo. I due battellieri negri osservavano attentamente la riva sinistra del fiume, ascoltarono per qualche minuto, poi, non udendo più rullare i tamburi, spinsero la scialuppa da quella parte, tagliando vigorosamente la corrente. Un quarto d'ora dopo, attraversato un banco coperto di canne, spingevano l'imbarcazione entro una piccola cala circondata da enormi alberi, i quali proiettavano un'ombra così fitta da intercettare completamente i raggi del sole. "Dalla luce accecante siamo piombati quasi fra le tenebre," disse Rocco, deponendo il remo e tergendosi il sudore che gl'inondava il viso. "Ci fosse almeno un po' di frescura sotto queste piante! Pare invece di essere entrati in una serra calda." "Udite nulla voi?" chiese il marchese. "No," risposero tutti. "Tuttavia non mi fido e proporrei di fare un giro sotto le piante. Vi pare, Ben?" "Certo, così andremo a guadagnarci la colazione, poiché le rive del Niger abbondano di selvaggina." "Ed io?" chiese Esther. "Non esponetevi," rispose il marchese. "Forse fra queste piante vi sono dei negri imboscati e le palle non sempre vanno perdute." "Sì, rimani, sorella," disse Ben. "Quando ci saremo accertati che non v'è alcun pericolo, potrai sbarcare." Il marchese, l'ebreo ed il sardo, presi i fucili, balzarono fra le piante, facendo fuggire uno stormo di pappagalli che schiamazzava sulla cima di alcuni cespugli. La foresta cominciava lì, una vera foresta africana in tutto il suo più esuberante splendore. Tutte le ricchezze della flora tropicale pareva si fossero riunite intorno a quel piccolo seno. Ecco i giganteschi sicomori, gli splendidi banani dalle foglie immense. gli enormi manzanillieri, i cui fiori rossi spiccano superbamente fra il verde cupo delle foglie; i palmizi nani, i datteri spinosi e le acace fistolose, cinte da convolvoli arrampicanti il cui folto fogliame s'intreccia in pergolati naturali; ecco le baunie, le palme deleb, le dûm, ed ecco gli enormi baobab, i re dei vegetali, che da soli bastano a formare una piccola foresta ed i cui tronchi sono così enormi che venti e anche trenta uomini non sarebbero sufficienti per abbracciarli. Da tutte le parti fuggono nubi di volatili dalle penne variopinte, pappagalli verdi, gialli e rossi; sciami di tordi dalle penne azzurre, di sberegrig (merops) colle piume d'un verde azzurro sotto il ventre, più fosche sopra e più chiare presso la coda, di leggiadre ortygometre, di anastoni e di pivieri bellissimi. Sulle cime dei più alti alberi invece, numerose scimmie si divertono a fare una ginnastica indiavolata, balzando come palle di gomma e urlando a piena gola. Sono dei cercopitechi verdi, non più alti di mezzo metro, col pelame verdognolo ed i musi adorni di barbe bianche che danno a quei quadrumani un aspetto comicissimo. "Non sarà difficile procurarci una deliziosa colazione," disse Rocco, il quale aveva adocchiato una splendida ottarda che passeggiava gravemente in mezzo alle enormi radici dei vegetali. "Ma non ora," rispose il marchese. "Voglio prima assicurarmi se questa boscaglia è deserta. I negri non sono sciocchi e avranno notato la nostra direzione." "Eppure non odo più i tamburi rullare per le campagne." "È appunto questo silenzio che non mi rassicura, mio caro Rocco." "Che i kissuri abbiano seguita la riva del fiume?" "Avevano dei buoni cavalli e non ci avranno perduti di vista." "Che ostinati!" "Le nostre teste saranno state messe a buon prezzo," disse Ben. "E noi ci prenderemo quelle dei kissuri e le manderemo al sultano," rispose Rocco. "In pacco raccomandato?" chiese il marchese, ridendo. "Già, mi dimenticavo che i negri non conoscono il servizio postale. Che barbari!" disse il sardo, con disprezzo. Pur chiacchierando, s'inoltravano cautamente sotto quegli alberi i quali diventavano sempre più folti, rendendo la marcia molto difficile. Migliaia di piante parassite avvolgevano i tronchi, salivano fino ai più alti rami, poi ricadevano in festoni incrociandosi in mille guise, mentre le radici, non trovando terreno sufficiente, sorgevano dovunque, serpeggiando pel suolo come mostruosi rettili. Già si erano allontanati due o trecento metri, quando improvvisamente udirono alcune scariche, che provenivano dalla parte del bacino, seguite da urla terribili. Il marchese si era fatto pallidissimo: "Chi fa fuoco?" "Alla scialuppa!" gridò Rocco, slanciandosi innanzi. "Odo la voce di El-Haggar!" Infatti si udiva il moro urlare: "Aiuto! Rapiscono la signora Esther!" Il marchese ed i suoi compagni si erano lanciati fra le piante, correndo disperatamente. I colpi di fucile erano cessati; ma si udiva in lontananza il moro gridare sempre: "Aiuto! La portano via!" In dieci secondi il marchese giunse presso la scialuppa. Non vi erano che i due battellieri rannicchiati sotto i banchi e tremanti ancora di spavento. Un grido di disperazione proruppe dalle labbra del signor di Sartena: "Esther! Esther! l'hanno rapita! El-Haggar!" La voce del moro rispose subito "Qui, signore! Fuggono!" Poi seguì un colpo di fucile sparato probabilmente da lui. I tre amici, guidati da quel lampo, si erano ricacciati nella foresta, gridando "Veniamo, El-Haggar! Tieni fermo!" Trovarono il moro a trecento passi dalla riva, presso il tronco d'un baobab, in preda a una forte disperazione. "I miserabili! L'hanno portata via e sono scomparsi! Ah! Povera signorina Esther!" Il marchese, che era fuori di sé, lo afferrò per un braccio scuotendolo ruvidamente. "Dimmi ... parla ... chi sono stati a portarla via?" "Dei negri, signore," singhiozzò il moro. "Molti?" "Erano in venti per lo meno." "Sei certo che non erano kissuri?" chiese Ben, che piangeva come un fanciullo. "No, signore, erano negri, ci sono piombati addosso improvvisamente, hanno preso la signorina Esther, che era scesa a terra per venirvi incontro, e l'hanno portata via." "Inseguiamoli," disse Rocco. "Non devono essere lontani." "Sì, diamo addosso a quei bricconi prima che escano dalla boscaglia," gridò Ben. "Un momento," disse il marchese, che aveva riacquistato il suo sangue freddo. "Che El-Haggar torni alla scialuppa e che vegli sui due battellieri. Vi è il vostro tesoro, Ben e non dovete lasciarlo nelle mani di quei due negri." "Torno all'istante." rispose il moro. "E noi," disse il marchese, "in marcia! E guai ai rapitori!"

"Pare che ne abbiano avuto abbastanza," disse il marchese. "Che si siano decisi a rinunciare ai loro progetti ladreschi?" "Non speratelo, marchese," disse Ben. "Finché ne rimarrà uno non ci lasceranno tranquilli. Torneranno presto. Hanno da seppellire i loro compagni e da buoni mussulmani verranno ancora qui per scavare le fosse." "Che vadano ora in cerca di aiuti?" domandò Rocco. "Sepolti i compagni, probabilmente si spingeranno fino all'oasi più vicina per levare armati," rispose Ben. "Quando però torneranno, noi saremo ben lontani." "Lasciamoli correre e raggiungiamo la carovana," disse il marchese. "Ci avanzeremo a marce forzate per giungere presto ai pozzi di Marabuti." Vedendo che i Tuareg non accennavano a fermarsi, spronarono i cavalli e con una galoppata di mezz'ora raggiunsero la carovana, la quale in quel frattempo aveva continuato la sua fuga verso il sud. Alla retroguardia trovarono Esther colla piccola carabina in mano, pronta a proteggere la carovana e a portare soccorso al marchese ed ai suoi compagni. I due beduini ed il sahariano mostravano invece uno sbigottimento tale, da far scoppiare dalle risa Rocco. "Non potremo fare molto assegnamento su questi uomini," disse il marchese, osservando i visi sconvolti dei marocchini. "I due beduini parlavano di abbandonarvi," disse Esther. "Se non avessero avuto paura della mia carabina e del fucile di El-Haggar, non sarebbero forse più con noi." "Ed anche El-Haggar mi pare abbastanza spaventato," disse Ben. "Signore," disse in quel momento El-Haggar, accostandosi al marchese, "è necessario marciare senza perdere tempo; quei Tuareg torneranno con altri compagni. Essi non cesseranno l'inseguimento finché non avranno vendicato i loro morti." "E tu hai una paura indiavolata di loro, è vero, El-Haggar?" rispose il marchese. "So quanto sono tenaci nelle loro vendette, signore. Avete fatto male a prenderli subito a fucilate." "Volevi che mi lasciassi ammazzare come quei disgraziati che abbiamo veduto ieri?" "Non dico questo; si poteva venire a patti con quei predoni. Probabilmente si sarebbero accontentati d'una terza o quarta parte delle vostre mercanzie come diritto di passaggio." "Io sono uso a non tollerare imposizioni da parte di chicchessia, mio caro El- Haggar. Il deserto appartiene a tutti e chi vorrà impedirmi d'attraversarlo avrà a che fare col mio fucile. Lascia andare i Tuareg e le tue paure insieme e cerchiamo di frapporre fra noi e quei bricconi il maggior spazio possibile." "Ben detto, marchese," disse Esther. "Noi non abbiamo paura di quei ladroni. Partiamo." La carovana, che aveva fatto una brevissima sosta, si ripose in cammino attraverso quelle eterne ondulazioni sabbiose, le quali pareva non dovessero avere più confine. Quelle immense pianure non variavano. Sempre dune, poi dune ancora, con qualche magro cespuglio quasi disseccato dal sole e qualche scheletro di cammello biancheggiante sinistramente fra quelle sabbie ardenti. Nessuna palma che annunciasse la presenza d'un pozzo si scorgeva in alcuna direzione, come pure non si vedeva alcuna roccia che rompesse la desolante monotonia di quelle pianure. Il marchese e Ben si erano collocati alla retroguardia onde prevenire qualunque sorpresa, mentre Rocco e El-Haggar si erano messi all'avanguardia, tenendo i fucili dinanzi alle selle. El-Melah invece aveva ripreso il suo posto a fianco del cammello montato da Esther. Il sahariano, poco ciarliero come la maggior parte dei suoi compatrioti, non aveva ancora rivolto alla giovane una sola parola, però mostrava verso di essa un attaccamento strano. Ogni volta che la giovane lo guardava, era certa d'incontrare gli occhi neri, brucianti di lui, e ne riceveva un'impressione disgustosa e di paura. Nel lampo di quegli sguardi vi era qualche cosa di misterioso ed insieme di bestiale e di minaccioso, che la giovane non sapeva spiegarsi. Non aveva però fino allora avuto di che lamentarsi di quell'uomo. Anzi non aveva nemmeno il tempo di formulare un desiderio, che già El-Melah, come l'avesse indovinato, la esaudiva. Se una scossa del cammello apriva troppo la tenda, s'affrettava a richiuderla onde il sole non vi penetrasse; se vi era da salire una duna, prendeva subito la briglia e guidava l'animale adagio, con prudenza, onde non cadesse; se Esther aveva sete, lo indovinava dallo sguardo ed era pronto ad offrirle l'otre. Mai però una parola, né un sorriso, né un gesto che tradisse una qualche compiacenza nel renderle quei servigi, che d'altronde nessuno gli chiedeva. "La paura provata durante quella lunga agonia, e fors'anche quell'orribile scena del massacro, devono avergli sconvolto il cervello," aveva detto la giovane. "Lasciamo che mi guardi." Un momento però, aveva avuto un timore ben diverso. Aveva sorpreso negli sguardi del sahariano un lampo terribile nel punto in cui il marchese si era appressato al cammello che la portava, per scambiare con lei qualche parola. Quello sguardo però si era subito spento ed il viso di El-Melah, per un poco alterato, aveva ripreso la sua impassibilità consueta. Alla sera la carovana, sfinita da quella lunga marcia, s'arrestava fra due alte dune che formavano due bastioni naturali, nel caso che i Tuareg avessero cercato di approfittare delle tenebre per sorprenderli. "Con due sentinelle sulla cima delle dune, noi potremo dormire tranquillamente alcune ore," aveva detto il marchese, dando il segnale della fermata. Mentre si preparava la cena e si alzavano le tende, fece una galloppata verso il nord in compagnia di Ben, onde accertarsi che i Tuareg non li avevano seguiti, tenendosi nascosti dietro alle dune. "Pare che abbiano rinunciato ad inseguirci," disse il marchese a Rocco ed al moro. "Non abbiamo veduto nessuno." "Non illudetevi, signore," rispose El-Haggar. "Quei predoni non ci lasceranno tranquilli, lo vedrete." "Io dico invece che ne hanno avuto abbastanza e che non ci seccheranno più." "Badate a me, signore, che ho assistito al massacro della spedizione della signora Tinnè." "Chi? Tu?" esclamò il marchese, stupito. "Sì, signore, e dovrei essere morto fino da allora." "Chi era questa signora Tinnè?" chiese Esther, con curiosità. "Una donna europea forse?" "Una delle più ricche e delle più belle giovani dell'Olanda," rispose il marchese. "Ed è stata assassinata qui?" "Sì, in questo deserto. Ceniamo ora, poi vi narrerò quel massacro che ha commosso l'intera Europa. Forse da El-Haggar udremo dei particolari che tutti ancora ignoriamo." "Se i Tuareg ce ne lasceranno il tempo," disse il moro, i cui sguardi si erano volti verso una bassura che si estendeva verso l'est. "Si avvicinano?" chiese il marchese, alzandosi vivamente. "Non sono essi per ora; ma se quei giganteschi volatili fuggono, ciò significa che degli uomini li inseguono o che li hanno spaventati." "Di quali volatili parli?" "Non vedete una nube di polvere alzarsi dietro quelle dune e avanzassi velocemente verso di noi?" "Vediamo," rispose il marchese. "È una banda di struzzi, signore." "Una bella occasione per procurarci un superbo arrosto," disse Rocco. "Devono essere stati i Tuareg a costringerli a prendere il largo," insistette El-Haggar. "Ne sei certo?" chiese il marchese. "Lo suppongo, signore." "Ebbene," disse il marchese con voce tranquilla, "prima occupiamoci di questi superbi volatili; poi penseremo ai Tuareg. E tu, Rocco, fà preparare un bel fuoco: vi sono qui molti sterpi da raccogliere." La nube di polvere ingrandiva a vista d'occhio e s'avvicinava con una rapidità prodigiosa. La banda doveva passare in mezzo alla bassura, a meno di mezzo chilometro dall'accampamento, a quanto pareva. Il marchese, Esther e Ben si slanciarono in mezzo alle dune e andarono ad appostarsi dietro un monticello di sabbia, il quale sorgeva isolato quasi nel mezzo della bassura. Gli struzzi s'avanzavano in fila, correndo e sbattendo vivamente le ali per aiutarsi meglio. Erano una diecina, tutti bellissimi e di statura gigantesca, e ricchi di quelle piume preziose che sono così ricercate e così ben pagate sui mercati europei ed anche americani, bianche sotto il ventre e sotto la coda e nere lungo il dorso e le ali. Questi volatili sono ancora numerosissimi nel Sahara e vivono là dove altri animali non potrebbero resistere, potendo sopportare lungamente la sete al pari dei cammelli. Raggiungono talvolta un'altezza superiore ai tre metri, hanno il collo e le gambe spoglie di piume, un becco robustissimo e piedi poderosi. Le loro ali invece sono così brevi da sembrare piuttosto moncherini, sicché non possono che aiutare la loro corsa, ma non servono per volare. Sono nondimeno rapidissimi corridori e vincono facilmente i cavalli. È nota la prodigiosa robustezza dei loro stomachi poiché in mancanza di altro, si nutrono perfino di sassi che digeriscono come fossero pagnottelle! I dieci struzzi, i quali parevano realmente in preda ad una viva agitazione, sfilavano come trombe, col collo teso, gettando in aria coi loro robustissimi piedi nembi di sabbia e di pietre, muovendo diritti attraverso la bassura. Pareva che non si fossero ancora accorti della presenza dei cacciatori, quantunque siano dotati d'una vista acutissima e d'un olfatto perfetto che permette loro di fiutare i nemici a grandi distanze. "Sembrano veramente spaventati," disse il marchese, il quale li osservava con viva curiosità. "Sì," confermò Ben; "però non credo che siano stati i Tuareg a metterli in fuga. Mi pare d'aver veduto degli animali correre dietro le dune." "Che gli struzzi siano inseguiti da qualche banda di iene?" "Rimarrebbero subito indietro, marchese," disse Ben. "Ah! Guardateli i cacciatori!" Essendo le dune terminate, gli inseguitori dei giganteschi volatili erano stati costretti a smascherarsi onde attraversare la radura. "I caracal!" esclamò il marchese. "Ah! I ladroni! Adagio, miei cari! A voi gli struzzi, a me quegli arditi predoni." I caracal, chiamati anche, e forse impropriamente, le linci dei deserti, erano almeno una trentina e correvano disperatamente sulle orme degli struzzi, facendo sforzi prodigiosi per isolarne qualcuno. Erano bellissimi animali, non più alti di settanta od ottanta centimetri, con una coda lunga trenta, di corporatura svelta, cogli orecchi lunghi e sottili ed il pelame giallo fulvo sul dorso e biancastro sotto il ventre. Vivono di preferenza nei deserti inseguendo con un coraggio incredibile struzzi e gazzelle e facendo gran vuoti fra le pecore dei duar. Svelti corridori, percorrono distanze straordinarie e non lasciano le prede finché non le hanno raggiunte e fatte a pezzi. Selvaggi, indomabili e astutissimi, costituiscono un vero pericolo per tutti gli abitanti del deserto, escluso l'uomo che non osano assalire, ed il leone che seguono a distanza per divorare gli avanzi delle sue prede. I caracal manovravano con una rapidità ed una precisione veramente ammirabili, cercando di tagliar fuori uno degli struzzi che pareva il meno resistente e che malgrado i suoi sforzi disperati rimaneva sempre l'ultimo della banda. Gli mordevano ferocemente le zampe, senza badare ai calci furiosi che lanciava il volatile, e gli balzavano dinanzi tentando di azzannargli il petto. Pagavano di frequente cara la loro audacia, perché qualcuno di quando in quando veniva scagliato in aria colla testa fracassata dai robusti piedi dell'uccello gigante. "Strappiamolo ai caracal," disse il marchese. Approfittando del momento in cui lo struzzo era riuscito a guadagnare sui suoi avversari una dozzina di metri, fece fuoco sul caracal più vicino. L'animale mandò un acuto guaito e cadde. Quasi nel medesimo istante anche il povero struzzo, colpito dalle palle di Esther e di Ben, stramazzò. Udendo quegli spari, i caracal si erano arrestati guardando le tre nuvolette di fumo che s'alzavano dietro alla duna. Vedendo comparire subito i cacciatori, abbassarono le code e partirono ventre a terra dalla parte donde erano venuti. Frattanto lo struzzo, abbandonato dai compagni già lontanissimi, era tornato ad alzarsi. Fece ancora cinque o sei passi zoppicando, poi tornò a cadere e questa volta per non più rialzarsi. Il marchese in pochi salti lo raggiunse, gli strappò un bel mazzo di:i piume candidissime e porgendole a Esther, le disse con galanteria "Alla bella cacciatrice." "Grazie, marchese," rispose la giovane, arrossendo di piacere. Ben si era accontentato di sorridere.

"Che i negri, più furbi di noi, abbiano nascosto le loro imbarcazioni fra i canneti delle rive." "Ma tu sei un uccello di cattivo augurio," disse Rocco. "Conosco la caparbietà di questi negri," rispose il moro. "Mi pare impossibile che abbiano rinunciato così presto a prenderci." "Avranno mandato a casa del diavolo il sultano ed i suoi kissuri, ecco tutto." "Andiamocene," disse il marchese. I barcaiuoli stavano per spingere al largo la scialuppa, quando in mezzo agli alberi che circondavano il piccolo seno si udì echeggiare un urlo lugubre e prolungato. "Uno sciacallo?" interrogò il marchese, un po' inquieto. "Ben imitato," rispose El-Haggar. "Tu vuoi dire?" "Che non è stato uno di quegli animali a mandar questo urlo." "Che vi siano dei negri nascosti nella foresta?" chiese Ben. "Ragione di più per andarcene subito," disse Rocco. La scialuppa, spinta dai suoi quattro remi poderosamente manovrati, attraversò velocemente il bacino. Stava per rientrare nel fiume quando si udirono in aria alcuni sibili acuti, mentre in mezzo agli alberi tornava a echeggiare il lugubre urlo dello sciacallo. "Sono frecce," disse El-Haggar. "Abbassate la testa!" Il marchese invece di curvarsi si era alzato col fucile in mano, tentando di scoprire, attraverso i folti vegetali, quei misteriosi arceri. Vedendo un'ombra umana emergere fra le canne della riva, puntò l'arma e fece rapidamente fuoco. Si udì un grido, poi un tonfo. L'uomo era caduto e si dibatteva nell'acqua, a pochi passi dalla scialuppa. Rocco con un poderoso colpo di remo lo sommerse e probabilmente per sempre, perché l'acqua tornò tranquilla e nessun rumore più si udì. Nondimeno la situazione dei fuggiaschi non era migliorata dopo quel fortunato colpo di fucile. Di quando in quando qualche freccia, scagliata forse a caso, passava sibilando sopra la scialuppa che si era impegnata nello stretto passaggio che serviva di comunicazione fra la piccola cala ed il fiume. "Ben," disse il marchese, il quale aveva ricaricato prontamente l'arma, "voi sorvegliate la riva destra mentre io guardo quella sinistra e se scorgete qualcuno fate fuoco." "Ed io?" chiese Esther. "Rimanete coricata fra le casse, per ora. Noi due basteremo." Rocco, il moro ed i due battellieri arrancavano con furore per superare lo stretto, che era fiancheggiato da foltissime piante dove i negri potevano imboscarsi e lanciare i loro dardi con piena sicurezza. Per la terza volta l'urlo dello sciacallo ruppe il silenzio che regnava nella foresta. "Ah! Questo urlo!" esclamò il marchese, le cui inquietudini aumentavano. "Che significherà? Che sia un segnale di raccolta?" Un colpo secco sul bordo lo fece balzare indietro ... Una piccola lancia, uno di quei giavellotti che i negri usano lanciare a mano, si era piantato nel fianco della scialuppa, a pochi centimetri da Rocco. Il marchese udendo le canne muoversi stava per far fuoco quando una scarica di tamburi rintronò in mezzo agli alberi, seguita da vociferazioni spaventevoli. Quasi nel medesimo istante vide delle strisce di fuoco serpeggiare velocemente fra i festoni di liane ed in mezzo ai cespugli. "Per le colonne d'Ercole!" esclamò. "S'incendia la foresta? Rocco, El-Haggar! Alle armi!" Una turba di negri, muniti di rami resinosi, si era precipitata attraverso le piante incendiando i cespugli resinosi, poi si era rovesciata sulle rive della piccola cala, urlando come una legione di demoni. Erano più di cento, armati di lance, di archi e di mazze, di scimitarre e di coltellacci. Alcuni, più audaci, vedendo la scialuppa già in procinto di entrare nel Niger, si erano gettati coraggiosamente in acqua sperando di raggiungerla. "Ben," disse il marchese, "noi occupiamoci dei nuotatori e voi altri fate delle scariche verso la riva. Tirate con calma e non impressionatevi. Questi negri valgono ben poco e li arresteremo subito." L'incendio della foresta si era propagato con rapidità incredibile. I cespugli si torcevano e scoppiettavano, mentre le fronde delle piante giganti fiammeggiavano come torce colossali. Una luce intensa illuminava tutta la cala, proiettandosi fino sulle acque del Niger, le quali pareva che si fossero tramutate in bronzo fuso. Una prima scarica arrestò, poi volse in fuga i nuotatori ed una seconda calmò lo slancio dei negri assiepati sulle rive. Le palle dei fucili a retrocarica avevano gettato a terra o calato a fondo parecchi uomini e quella dura lezione aveva raffreddato il furore degli assalitori. "Approfittiamo di questo momento di sosta," disse il marchese. "Rocco, El- Haggar, ai remi!" Mentre Ben ed Esther continuavano a sparare contro ambe le rive, la scialuppa superò velocemente lo stretto e si slanciò nelle acque del Niger, allontanandosi dalla sponda. Il pericolo non era cessato, tutt'altro! Attirati dai rulli dei noggara e più di tutto da quella luce intensa che si propagava sulla riva del fiume gigante, numerose scialuppe si erano staccate da Koromeh, montate da equipaggi armati. "Stiamo per venir presi," disse Ben, gettando uno sguardo disperato verso Esther. "Quelle scialuppe accorrono per tagliarci il passo." "E sono una ventina," mormorò il marchese, tormentando il grilletto del fucile. Le scialuppe di Koromeh avevano attraversato il fiume ed avevano formato una linea che si estendeva quasi da una riva all'altra, onde chiudere completamente il passo. Erano montate da un centinaio e mezzo di negri armati per la maggior parte d'archi e di coltellacci, però alcuni possedevano anche dei fucili. Continuando la foresta a bruciare, si distinguevano perfettamente e si vedeva anche che si preparavano a dare battaglia ai fuggiaschi. "Amici," disse il marchese. "Non perdiamo un colpo. Dalla rapidità del nostro fuoco e dall'esattezza dei nostri tiri dipende la nostra salvezza. "Quando saremo addosso alle scialuppe, tu, Rocco, e tu, El-Haggar, lasciate i remi e prendete i fucili ... Mille cannonate! I kissuri!" "Dove sono?" chiesero tutti. "Là, guardateli! Hanno lasciato or ora la riva sinistra e corrono in aiuto dei negri su due imbarcazioni!" "Maledizione!" ruggì Rocco. "Verranno a guastare la nostra vittoria." "Marchese," disse Esther. "Voi e Ben occupatevi dei negri; io apro il fuoco sui kissuri. La mia carabina ha una portata straordinaria e prima che quei bricconi si avvicinino, ne abbatterò parecchi." Il marchese e Ben aprirono tosto un terribile fuoco accelerato, mentre Esther, coricata fra le casse, sparava sulle due imbarcazioni montate dai kissuri lanciando le sue palle a sei o settecento metri. Intanto i due battellieri, Rocco ed El-Haggar, arrancavano con furore, risoluti a sfondare la linea di battaglia e passare addosso ai negri. Il fuoco accelerato del marchese, di Ben e della giovane ebrea, diventava più terribile a mano a mano che la distanza scemava. I negri cadevano in buon numero e anche i kissuri subivano perdite gravissime, perché ben poche palle andavano perdute. Erano tre formidabili bersaglieri e mancava ancora Rocco, un tiratore che forse superava gli altri. I nemici nondimeno non aprivano la loro linea, anzi le scialuppe più lontane accorrevano per ingrossarla onde opporre maggiore resistenza ed intanto rispondevano scaricando i loro moschettoni e lanciando frecce in gran numero. Né le palle, né i dardi ancora giungevano fino alla scialuppa, tuttavia il marchese cominciava a diventare assai preoccupato per l'abbondanza straordinaria di quei proiettili. "Eleviamo una barricata!" esclamò ad un tratto. "Abbiamo le casse e anche delle panche. Ben, Esther, continuate il fuoco, voi! Non domando che due minuti." Lasciò il fucile, afferrò uno ad uno i forzieri e li accumulò a prora legandoli insieme con una fune. Essendo pieni d'oro, potevano arrestare le palle dei moschettoni, anche a breve distanza. "Esther, qui voi," disse quand'ebbe finito. "La barricata è solida e non correte pericolo alcuno. Vi ho lasciato uno spazio sufficiente per la canna della vostra carabina." Accumulò poi a poppa le casse contenenti i loro effetti, formando una seconda barricata, e alzò le panche a babordo ed a tribordo in modo da riparare anche i rematori dai tiri trasversali. I negri accortisi subito di quei ripari che rendevano quasi inutili le loro frecce e anche le loro palle, avevano rotto la loro linea di combattimento per assalire la scialuppa sui due fianchi, ma le prime barche che si erano avanzate avevano dovuto retrocedere frettolosamente cogli equipaggi decimati. Il marchese ed i suoi compagni le avevano accolte con un fuoco così terribile, da rendere impossibile un nuovo attacco. "Coraggio, amici!" gridò il marchese. "La via è aperta!" Si volse e guardò le scialuppe montate dai kissuri del sultano. Si trovavano allora a quattrocento metri e manovravano in modo da abbordare l'imbarcazione a poppa. "Tre salve su costoro!" gridò il marchese. "Sono i più pericolosi!" Nove colpi di fucile rimbombarono. Cinque kissuri della prima scialuppa caddero e uno della seconda. "Eccoli calmati," disse il marchese vedendo le due imbarcazioni arrestarsi. "Avanti ora!" Una scialuppa si era messa attraverso la rotta seguita dai fuggiaschi. Era montata da otto negri fra i quali alcuni possedevano dei fucili. "Animo!" gridò Rocco. "All'abbordaggio!" Arrancando con lena disperata investono furiosamente la scialuppa, le fracassano il bordo e la capovolgono, mentre il marchese, Ben ed Esther fucilano a bruciapelo i negri. "Urrah! Avanti!" tuona il marchese. L'imbarcazione passa fra gli assalitori colla velocità d'un dardo e supera la linea, ma i negri non si danno ancora per vinti. Incoraggiati dai kissuri i quali si sono rimessi in caccia e forti del numero, si riordinano prontamente ed inseguono vigorosamente i fuggiaschi, mentre altre scialuppe si staccano dalle due rive. La battaglia diventa terribile. Anche Rocco ed El-Haggar hanno impugnati i fucili e dopo aver rinforzato la barricata di poppa con quella di prora, diventata ormai inutile, bruciano le loro cartucce senza economia. Le canne dei retrocarica sono diventate così ardenti, che il marchese, Ben ed Esther sono costretti a bagnarle nel fiume onde non bruciarsi le dita. È un miracolo se i fuggiaschi non hanno ricevuto ancora delle ferite. La lotta non può durare a lungo, malgrado il fuoco infernale dei due isolani, dei due ebrei e del moro. I negri s'accostano da tutte le parti urlando come demoni, decisi a venire all'abbordaggio. Il Niger sembra in fiamme, perché l'incendio della foresta avvampa sempre. Le sue acque sembrano di fuoco. Il marchese e Ben si scambiano uno sguardo pieno d'angoscia. Comprendono che la lotta sta per finire e che stanno per cadere vivi nelle mani dei negri e dei kissuri. "È finita," mormora il marchese, con voce strozzata. "Sì," risponde Ben, facendo un gesto disperato ... "Ci lasceremo prendere?" "No. Vi è una scure sotto il banco. Quando i negri monteranno all'assalto, sfonderemo la scialuppa." "Sì, Ben." Riprendono il fuoco, fulminando i negri più vicini. Esther pallida ma sempre risoluta, li appoggia vigorosamente, mentre Rocco si prepara a martellare i nemici col calcio del fucile. Il cerchio si restringe. I negri non si trovano che a poche diecine di passi ed impugnano le lance e le mazze mentre i kissuri urlano a piena gola "Addosso ai kafir! Ordine del sultano." Ad un tratto un fischio acuto assordante lacera l'aria e copre il rombo delle fucilate, poi delle scariche regolari, stridenti, come eseguite da una mitragliatrice, si seguono. I negri si arrestano stupiti e anche spaventati, mentre parecchi cadono fulminati sul fondo delle piroghe. Il marchese, a rischio di ricevere una palla nel cranio, balza a prora. Un urlo gli sfugge "Siamo salvi! Coraggio! Alcune scariche ancora!" Una grossa scialuppa a vapore, fornita di ponte, sbucata non si sa da dove, fende rapidamente le scintillanti acque del fiume, fischiando e fumando. A prora balenano dei lampi e risuonano delle detonazioni. È una mitragliatrice che prende d'infilata le scialuppe dei negri. Chi sono quei salvatori che giungono in così buon punto? Nessuno si cura di saperlo pel momento. Il marchese e tutti gli altri, vedendo la scialuppa avanzarsi a tutto vapore, raddoppiano il fuoco, bruciando il muso ai negri più vicini. Il cerchio si è allargato, perché la mitragliatrice comincia a far strage. Le palle fioccano sulle scialuppe, decimando crudelmente gli equipaggi. Un uomo di alta statura, con una lunga barba bionda, vestito interamente di bianco, con in capo un elmetto da esploratore, sale sulla prora della scialuppa a vapore già vicinissima, gridando: "Vorwaerts! Pronti ad imbarcarvi! Passeremo addosso ai negri!" "Dei tedeschi!" esclama il marchese, corrugando la fronte. "Bah! In Africa tutti gli europei sono fratelli. Siano i benvenuti! Amici, abbordiamo!" La scialuppa a vapore ha rallentato la sua marcia, ma la sua mitragliatrice continua a spazzare il fiume con scariche sempre più formidabili. I due battellieri con pochi colpi di remo l'abbordano sul babordo, mentre una scala di corda viene gettata. "Presto, salite!" grida l'uomo biondo. Il marchese afferra Esther e la porge all'uomo biondo, il comandante di certo, a giudicare dai gradi d'oro che gli ornano le maniche. Questi la solleva sopra la bordatura e la depone sulla tolda, quindi, levandosi galantemente l'elmo, le dice in francese: "Signora, siete fra amici: ora daremo a quei bricconi di negri la paga." Il marchese, Rocco, Ben, il moro ed i battellieri salgono precipitosamente, portando i forzieri che i marinai della scialuppa subito prendono, deponendoli dietro la murata. "Signore," dice il marchese, volgendosi verso il comandante e salutandolo militarmente, "grazie, a nome di tutti." Il tedesco gli porge la destra, gli dà una vigorosa stretta, poi grida: "A tutto vapore!" I negri ed i kissuri, furiosi di vedersi rapire la preda, quando credevano ormai di tenerla, si stringono addosso alla scialuppa a vapore tentando di montare all'abbordaggio. Urlando spaventosamente, scaricano i loro moschettoni e lanciano dovunque dardi e giavellotti. "Ah! briganti!" brontola il comandante. "Non volete lasciare andare? Ebbene, la vedremo!" Mentre la mitragliatrice continua a tuonare, lanciando i suoi proiettili a ventaglio, ed i quindici marinai, aiutati dal marchese, da Ben, da Rocco e da El-Haggar, respingono gli assalitori a colpi di fucile e di baionetta, la scialuppa indietreggia di cinquanta passi, poi si slancia innanzi a tutto vapore. La sua elica morde furiosamente le acque facendole spumeggiare. "Avanti!" tuona il comandante. "Fuoco di bordata!" La piccola cannoniera ha preso lo slancio. Si avanza fischiando, fracassa due scialuppe, passa in mezzo alle altre e scompare fra una nuvola di fumo, mentre i negri urlano a piena gola bruciando le loro ultime cariche. La sconfitta dei sudditi del sultano di Tombuctu è completa. Il fiume è ingombro di pezzi di scialuppe e di corpi umani che la corrente travolge, e la scialuppa a vapore continua la sua veloce fuga, lasciandosi indietro le piroghe sulle quali i negri sfogano la loro rabbia impotente con minacce atroci. Il marchese lascia il fucile e s'avvicina al comandante, il quale, munito d'un cannocchiale, guarda sorridendo tranquillamente i negri che fanno sforzi indicibili per dare la caccia alla scialuppa. "Signore," dice, "vi dobbiamo la vita. I negri stavano per prenderci." "Sono ben lieto, signore, di esser giunto in così buon momento. Siete francese?" "Il signor marchese di Sartena, un valoroso corso che ha attraversato il deserto per cercare il colonnello Flatters," disse Ben, avanzandosi. "Wilhelm von Orthen," rispose il tedesco, inchinandosi dinanzi all'isolano e porgendogli per la seconda volta la destra. "Avete trovato lo sfortunato colonnello, signor marchese? Sarei stato ben contento se avessi potuto salvare anche lui." "È morto, signor von Orthen." "Ne ero quasi certo." "Ma come vi trovate qui, voi, signore?" "Avevo appreso che il tenente Caron era salito fino qui colla sua cannoniera ed ero stato incaricato, dal mio governo, d'accertarmi della navigabilità del Niger." "E ne avete avuto una prova," disse il marchese, sorridendo. "Sì," rispose il tedesco. "Signor marchese, la mia scialuppa è interamente a vostra disposizione. Io ritorno verso la costa." "E noi vi seguiremo, signor von Orthen, perché la nostra missione è ormai finita." Conclusione Quindici giorni dopo, la scialuppa a vapore giungeva indisturbata alle bocche del Niger e del vecchio Calabar, e sboccava in mare arrestandosi ad Akassa, una graziosa ma anche assai insalubre cittadina del possedimento inglese. Il marchese ed i suoi compagni, dopo aver fatto degli splendidi regali ai marinai della piccola cannoniera, ai quali dovevano la loro salvezza, e dopo aver ringraziato il valoroso comandante, s'imbarcarono su un piroscafo inglese in rotta per la libera colonia di Liberia. Tutti avevano fretta di ritornare al Marocco, soprattutto il marchese, il quale ormai aveva dato il suo cuore alla bella Esther. Il 25 febbraio del 1880 sbarcarono a Monrovia, la capitale della repubblica negra, prendendo tosto imbarco su un piroscafo della Woermann Linie che faceva il servizio fra Liberia, isole Canarie, Mogador e Tangeri. Quindici giorni più tardi il marchese di Sartena, nella casa di Ben Nartico, impalmava la valorosa ebrea, che aveva imparato ad apprezzare nel deserto del Sahara, fra i mille pericoli dei feroci scorridori del deserto e fra i kissurì del sultano di Tombuctu. Il giovane marchese non ha rinunziato alle sue spalline. Egli è ancora uno dei più brillanti ufficiali della guarnigione corsa e Rocco ed El-Haggar, il fedele moro, sono le sue ordinanze, come Esther è la più bella e la più invidiabile sposa dell'isola. 1 Tombuctu fu poi conquistata dai francesi. Fu presa con un audace colpo di mano, da scialuppe a vapore che avevano rimontato il Niger. 2 Letti molto primitivi formati d'una pelle tesa su un telaio.

"Si direbbe che abbiano paura." "O che vogliano invece attaccare contemporaneamente noi e la carovana?" chiese il marchese. "Avanti, amici! Tagliamo la via alla prima banda che gira al largo dell'oasi." Giunti a circa mezzo chilometro dalle prime palme, i banditi si erano divisi in due drappelli egualmente numerosi. Mentre uno muoveva direttamente verso l'oasi, coll'intenzione di dare battaglia e trattenere i tre cavalieri, l'altro s'era spinto verso l'est per girare intorno a quell'isolotto di verzura e sorprendere la carovana nella sua ritirata. "Rocco," disse il marchese, "va' ad unirti ad Esther e non lasciarla fino al nostro arrivo." "E voi, signore?" chiese il sardo. "Copriremo la ritirata meglio che potremo." Il sardo lanciò il mehari in mezzo alle palme, scomparendo dietro i folti cespugli. "Ed ora a noi, Ben," disse il marchese. Si volse e vide, a circa un chilometro, la carovana. Aveva già lasciato l'oasi e s'inoltrava nel deserto rapidamente, muovendo verso il sud. "A chi daremo battaglia?" chiese Ben. "Al drappello che cerca di girare l'oasi," rispose il marchese. Spronarono i cavalli attraversando l'oasi da occidente ad oriente e raggiunsero la punta estrema. nel momento in cui un primo drappello, composto di sedici predoni, passava a corsa sfrenata a circa duecentocinquanta metri. Fermarono i cavalli, scesero da sella, si appoggiarono al tronco d'una grossa palma e fecero fuoco simultaneamente. Un mehari ed un Tuareg, caddero fra le urla furibonde della banda. A quella prima scarica ne seguì una seconda, poi una terza che fecero cadere un altro uomo e altri due animali. "Cinque colpiti su sei palle! Un bel tiro!" gridò il marchese. I banditi, arrestati in piena corsa da quelle scariche terribili, si gettarono in mezzo alle dune, abbandonando i loro corridori. "Come li abbiamo fermati!" esclamò Ben. "Questi, ma non gli altri," rispose il marchese. "Stanno per piombarci alle spalle." Il secondo drappello, trovando la via sgombra, s'era spinto velocemente innanzi, occupando il margine dell'oasi. Alcuni spari rimbombarono, senza offendere i due coraggiosi europei, i quali si slanciarono sui loro cavalli e partirono al galoppo, salutati da una seconda scarica dei pari inoffensiva. "Che pessimi bersaglieri," disse il marchese. "Sono i loro fucili che valgono poco," rispose Ben. Vedendoli fuggire, i predoni si erano messi ad inseguirli vigorosamente, eccitandosi con alte grida e sparando di quando in quando qualche colpo di fucile, i cui proiettili non potevano certo giungere a buona destinazione a causa delle scosse disordinate dei mehari. Il marchese e Ben, attraversata; l'oasi in tutta la sua lunghezza, si slanciarono fra le dune di sabbia. La carovana aveva già percorso due miglia e continuava la fuga. Rocco ed Esther, la quale aveva fatto abbassare la tenda per essere più libera, stavano alla retroguardia, coi fucili in mano. "Cerchiamo di mantenere la distanza," disse il marchese, rallentando la corsa del cavallo. I predoni si erano nuovamente riuniti, vista l'impossibilità di sorprendere la carovana, ed eccitavano i loro mehari per guadagnare via. Quattro o cinque, meglio montati, in pochi minuti si trovarono a soli quattrocento passi dai fuggiaschi. "Ben," disse il marchese. "Arrestiamoli.". "Gli uomini od i mehari?" Si fermarono dietro una duna e incominciarono il fuoco. Bastarono dieci secondi a quei valenti bersaglieri per smontare tre uomini. I tre mehari, gravemente feriti, erano caduti a poca distanza l'uno dall'altro. Il marchese stava per ricominciare il fuoco, quando il suo cavallo s'impennò bruscamente mandando un nitrito di dolore, poi cadde sulle ginocchia posteriori, sbalzando di sella il cavaliere. "Marchese!" esclamò Ben, spaventato. "Un semplice capitombolo," rispose il corso, risollevandosi prontamente. "Hanno colpito solamente il cavallo." Gettò uno sguardo furioso sui Tuareg. Il predone che gli aveva mandato quella palla stava ritto sul suo mehari, col fucile fumante ancora teso. "Me la pagherai, briccone!" gridò il corso. Le parole furono seguite da uno sparo, ma non fu l'animale che cadde, bensì il cavaliere. Poi il corso guardò il suo cavallo. Il povero animale, colpito fra le zampe anteriori da un grosso proiettile, rantolava disteso sulla sabbia. "È perduto!" esclamò egli con rammarico. "Salite dietro di me e raggiungiamo la carovana," disse Ben. "Presto, i Tuareg arrivano al galoppo!" Il corso si slanciò sul cavallo, s'aggrappò a Ben ed entrambi partirono a corsa sfrenata, mentre i predoni, furiosi di vedersi sfuggire ancora una volta la preda, si sfogavano con imprecazioni e minacce senza fine.

"Che abbiano avuto cieca fiducia nella giustizia del governatore?" "Uhm! Ne dubito," rispose il marchese. "Ed anch'io, signore," aggiunse l'ebreo. Mentre attraversavano le vie, in tutti i cortili interni delle case si udivano grida, canti e suoni e sulle terrazze brillavano migliaia di lumicini variopinti. Anche udendo il galoppo della scorta, nessuno compariva né alle strette finestre, né ai parapetti, né sulle logge, né alle porte. Tutti erano occupati a divertirsi ed a rimpinzarsi di cibi e di bevande, essendo la fine del Ramadan, come da noi la Pasqua, giorno destinato a passarsi in famiglia dinanzi ad una buona tavola. In meno di venti minuti la scorta giunse alle mura della città, vecchi bastioni merlati, mezzi in rovina, e dopo aver dato alle sentinelle la parola d'ordine, uscì nella campagna. La luna era appena sorta e splendeva in un cielo purissimo, d'una trasparenza ammirabile, illuminando l'immensa pianura come fosse giorno. La campagna era pure deserta, non vedendosi cavaliere, né pedone in luogo alcuno. Non era però ancora il deserto, perché qua e là si vedevano delinearsi graziosamente dei gruppi di aloé dalle foglie rigide; dei cespi di fichi d'India di dimensioni gigantesche, delle acace e delle palme colle bellissime foglie disposte a ventaglio. Anche qualche gruppo di tende, duar, si vedeva nelle bassure, e per l'aria tranquilla si espandevano i dolcissimi suoni della tiorba ed il monotono rullio dì qualche tamburello. Anche gli arabi del deserto festeggiavano la fine del Ramadan. La scorta galoppava da una mezz'ora, attraversando terreni sterili, quasi sabbiosi, interrotti solo di quando in quando da tratti erbosi, quando il capo si volse verso il marchese e indicandogli una piccola moschea, il cui esile minareto spiccava netto e candido sul cielo trasparente, gli disse: "Signore, la tua carovana è là!" "Benissimo," disse il marchese, respirando. "Ora possiamo dire di essere al sicuro." Poi curvandosi verso Rocco: "Se il colonnello è nel deserto e ancora vivo, noi lo ritroveremo, è vero, mio bravo amico?" "Sì, marchese." "Di quale colonnello parlate, signor di Sartena?" chiese l'ebreo, a cui non erano sfuggite quelle parole. "Del colonnello Flatters," rispose il marchese con un filo di voce. "Noi andiamo a cercarlo." Poi senza attendere risposta spronò vivamente il cavallo, galoppando verso la moschea.

"Che i Tuareg abbiano i loro duar molto lontani?" chiese il marchese. "Vi ripeterò ciò che vi ha detto il vecchio Hassan: le distanze non si calcolano nel deserto ed i Tuareg non si spaventano a scorrazzare anche a cinque o seicento miglia dalle loro oasi." "Dove saranno andati? A levante, ad occidente o al sud? Temo di trovarli sulla nostra via." "Dio ci guardi da un tale incontro, marchese. Quei ladroni non ci risparmierebbero, soprattutto voi e Rocco che siete per loro degli infedeli." Accertatisi che pel momento nessun pericolo li minacciava, ridiscesero la collinetta e rientrarono nel campo dove li attendeva la cena. Mezz'ora dopo tutti dormivano sotto la guardia di El-Haggar a cui spettava il primo quarto.

"Che i negri abbiano condotto là Esther? Che cosa ne dite, Ben?" "Che preferirei andare innanzi, piuttosto che tornare," rispose l'ebreo. Le grida erano cessate; i fuochi invece continuavano ad ardere, lanciando in aria nuvoloni di fumo dai riflessi rossastri, e nembi di scintille che il venticello notturno spingeva fin sopra la pianura pantanosa. Che un villaggio dovesse trovarsi in quella direzione, non vi era alcun dubbio. Anzi, forse quelle grida salutavano il ritorno dei rapitori. "Avanti," disse il marchese con tono risoluto. "Il cuore mi dice che Esther è là." Gettarono un ultimo sguardo verso i canneti per vedere se il negro si mostrava, poi ripresero le mosse, tastando prima il suolo pel timore di sentirselo improvvisamente mancare sotto i piedi. Ogni dieci passi però Rocco, vendicativo come tutti i suoi compatrioti, si voltava indietro, maledicendo al traditore. Il sentiero non accennava a cessare. Di quando in quando però, quella costa di roccia diventava così stretta che i tre uomini erano obbligati a reggersi l'un l'altro per non cadere. Era vero che non vi erano più pantani pericolosi. A destra ed a sinistra i due stagni si prolungavano e pareva che fossero abitati da animali acquatici. Infatti di quando in quando si udivano dei tonfi e anche la coda d'un coccodrillo era stata scorta da Rocco che era sempre dinanzi a tutti. Una mezz'ora dopo videro il sentiero allargarsi improvvisamente, poi si trovarono su di un terreno solido, cosparso di gruppi di banani, e di cespugli foltissimi. I fuochi si trovavano lontani soltanto qualche miglio, e sullo sfondo illuminato si vedevano delinearsi certe cupole assai aguzze, che dovevano essere tetti di capanne. "Il villaggio," disse Rocco. "Dobbiamo andare innanzi o attendere l'alba?" "Domani potrebbe essere troppo tardi," rispose il marchese. "I kissuri non devono essere lontani, e potrebbero giungere prima che spunti il sole." "Sarà popolato quel villaggio?" chiese Ben. "Non siamo che in tre, marchese." "Ci avvicineremo con precauzione e non lo assaliremo se non quando ci saremo assicurati della probabilità della vittoria." "Silenzio, signore," disse in quel momento Rocco. "Che cosa c'è ancora?" Rocco aveva fatto un salto innanzi, verso lo stagno. "Dove corri, Rocco?" chiese il marchese. "Eccolo! Fugge! A me, signore!" Un'ombra era sorta fra le canne che coprivano la riva dello Stagno e fuggiva disperatamente in direzione del villaggio. "Il nostro negro!" esclamò Ben. "Addosso, Rocco," gridò il marchese mettendosi pure a correre. L'ombra fuggiva con fantastica rapidità, saltando a destra ed a manca per impedire che lo prendessero di mira. Rocco, risoluto ad impedirgli di giungere al villaggio, onde non spargesse l'allarme, aveva alzato il fucile. "Non sparare, Rocco!" gridò il marchese. Troppo tardi. Una detonazione aveva rotto il silenzio che regnava sulla riva dello stagno ed il negro, dopo aver spiccato tre o quattro salti, era caduto come un albero sradicato dall'uragano. "Ecco pagato il conto," aveva detto il vendicativo sardo. "Ora non tradirai più nessuno!"

Un fracasso assordante di tamburelli e di urla, che pare non abbiano più nulla di umano, li annuncia. Hanno già lasciata la moschea e stanno per cominciare la loro corsa sanguinosa attraverso le vie. I pochi europei che abitano la città, trafficando colle carovane del deserto, fuggono da tutte le parti, mentre gli ebrei si barricano, tremanti di spavento, nelle loro case, mettendosi a guardia dei loro forzieri colmi d'oro. Gli uni e gli altri sono in pericolo. Se l'europeo è un infedele, l'ebreo è un cane, che qualunque fanatico può percuotere impunemente e anche uccidere. I primi sono forse temuti; i secondi no perché non hanno consoli che li proteggano. All'estremità della via, montato su un bianco cavallo, compare il mukkadem, capo degli hamduca, una setta religiosa che fornisce in ogni festa un bel numero di vittime. È avvolto maestosamente in un ampio caic candidissimo e fa volteggiare sopra il suo immenso turbante lo stendardo verde del Profeta colla sua luna d'argento. Intorno a lui, urlano e saltano o girano vorticosamente, come i dervis saltatori della Turchia, una ventina di aisaua, appartenenti alla setta degli incantatori di serpenti. Sono quasi nudi, non avendo che un turbante in testa e un pezzo di tela legato ai fianchi. Mentre alcuni battono i tamburelli e cavano dai loro flauti note acute e stridenti, altri fanno guizzare in aria, invocando a piena gola il loro santo patrono, serpenti pericolosissimi, dal morso mortale. Ma gli aisaua non li temono; essi sono immuni dal veleno perché sono devoti al santone. Scherzano coi rettili, li irritano, poi li stringono coi denti, ne masticano con una sensualità da cannibali le code, e finiscono per trangugiarli come fossero semplici anguille! ... E non muoiono. Il perché non si avvelenino è un mistero che nessuno è mai riuscito a spiegare. Eppure basta un morso di quei rettili per fulminare un pollo, un cane, un montone e mandare all'altro mondo un uomo che non appartenga alla setta. Ma ecco i fanatici, i santoni. Sono una cinquantina e tutti in preda ad un vero furore religioso: appartengono tutti alla setta degli hamandukas, la più fanatica di quante ne esistono nel Marocco. Hanno gli sguardi torvi, i lineamenti alterati, la schiuma alla bocca ed il corpo già imbrattato di sangue. Urlano come belve feroci, saltano come se i loro piedi toccassero delle braci ardenti e si dimenano come ossessi, storditi dalle grida degli ammiratori, che li seguono come una fiumana, dalle note acute dei flauti e dal rombo assordante dei tamburi. Alcuni si squarciano il petto adoperando una corta spada sormontata da una palla di rame e adorna di catenelle e di piastrine luccicanti; altri, armati di piccoli spiedi acutissimi, si trapassano le gote senza dimostrare alcun dolore o si forano la lingua o trangugiano scorpioni o divorano le foglie ramose dei fichi d'India irte di spine. Dalle loro gole escono senza posa le grida di "Allah ... la ... la ... lah ... [Dio!.. Dio!..]" Ma non sono grida: sono ruggiti che sembrano uscire da gole di leoni o di tigri. Hanno preso la corsa; sorpassano il loro capo, seguiti dagli aisaua e dai loro seguaci. È una corsa pazza, furiosa, che finirà certo tragicamente perché quei poveri allucinati hanno ormai raggiunto l'ultimo limite del fanatismo. Guai se in quel momento incontrassero un infedele! ... Ma se tutti gli ebrei e gli europei sono fuggiti, non mancano i cani, i montoni, gli asini. Si gettano ferocemente su quei poveri animali, se hanno la disgrazia di farsi sorprendere, e li mordono crudelmente, strappando pezzi di carne viva che trangugiano ancora palpitante. Un disgraziato cane che fuggendo va a cacciarsi fra le loro gambe, viene subito preso e divorato ancora vivo; un misero asino, che è fermo sull'angolo d'una via, subisce tali morsi che cade moribondo. Due montoni seguono l'eguale sorte, poi i fanatici riprendono la loro corsa verso i bastioni della città, sempre urlando come belve ed invocando Allah. Già hanno attraversato la piazza del bazar, quando si vedono attraversare la via da un uomo. Un urlo terribile sfugge dalle loro gole. "A morte il kafir ... " Il vestito nero che indossava quel disgraziato, livrea disprezzata dal marocchino il quale non ama che il bianco ed i colori smaglianti, aveva subito fatto conoscere a quegli esaltati che si trovavano dinanzi ad un infedele, peggio ancora ad un ebreo, ad un essere odiato, che potevano uccidere senza che le autorità avessero nulla a che dire. Il povero uomo, che non aveva avuto il tempo di salvarsi nella sua casa, vedendosi scoperto, si era gettato da un lato, rifugiandosi sotto la volta d'un portone. Era un giovane di venticinque o ventisei anni, di statura slanciata e bellissimo, caso molto raro fra gli ebrei del Marocco, i quali generalmente sono d'una bruttezza ripugnante, mentre le loro donne hanno conservato in tutta la purezza l'antico tipo semitico. Quel giovane, vedendosi piombare addosso i fanatici, si era levato dalla cintura un pugnale ed una pistola col calcio incrostato d'argento e madreperla e si era messo risolutamente sulla difensiva, gridando "Chi mi tocca, è un uomo morto!" Una minaccia simile in bocca ad un ebreo era così inaudita, che i fanatici si erano arrestati. L'ebreo del Marocco non può difendersi. Deve lasciarsi scannare come un montone dal primo mussulmano che lo incontra durante una festa religiosa e senza protestare. E poi non ne ha quasi il coraggio perché sa che anche difendendosi, verrebbe egualmente condannato a morte dalla giustizia imperiale e il più delle volte bruciato vivo su una pubblica piazza. L'esitazione dei fanatici non doveva durare a lungo; ben presto urlarono: "Addosso al kafir! ... " La folla stava per raggiungerli, pronta a spalleggiarli, e li incoraggiava urlando "Scanna l'infedele! ... A morte l'ebreo! Allah e Maometto vi saranno riconoscenti! ... " L'israelita, quantunque si vedesse ormai perduto, non abbassava il braccio armato. Teneva la pistola sempre puntata, deciso, a quanto pareva, a scaricare contro i suoi nemici i due colpi e poi a far uso anche del pugnale. I suoi occhi neri, pieni di splendore come quelli delle donne ebree, mandavano lampi, ma il suo volto bianchissimo era diventato così pallido da far paura. "Indietro!" ripeté, con voce angosciata. I fanatici, incoraggiati dalla folla, avevano invece impugnato le corte scimitarre e gli spilloni, mandando urla feroci. Stavano per precipitarsi su di lui e farlo a brani, quando due altri uomini, vestiti di bianco come gli europei che soggiornano nel Marocco e nei paesi caldi, si scagliarono dinanzi ai fanatici, tuonando: "Fermi!" Uno era un uomo di trent'anni, alto, bruno, con baffi neri, gli occhi vivi e mobilissimi, elegante; l'altro invece era un vero gigante, alto quanto un granatiere, con un corpo erculeo e con braccia grosse come colonne, un uomo insomma da far paura e da tener testa, da solo, ad un drappello d'avversari. Era bruno come un meticcio, con una selva di capelli più neri delle penne dei corvi, con baffi grossi che gli davano un aspetto brigantesco, coi tratti del volto angolosi, il naso diritto e le labbra rosse come ciliege mature. Vestiva un costume bianco come il compagno, però invece dell'elmo di tela portava una specie di tocco di panno nero, cinto da un drappo rosso e adorno d'un fiocco d'egual colore. Era più vecchio dell'altro di cinque o sei anni, ma quale vigore doveva possedere quell'ercole di fronte a cui i magrissimi marocchini facevano una ben meschina figura! Vedendo slanciarsi quei due uomini, per la seconda volta i fanatici si erano arrestati. Non si trattava più di scannare un cane d'ebreo. Quei due sconosciuti erano due europei, forse due inglesi, due francesi o italiani, due uomini insomma che potevano chiedere l'aiuto del governatore, far accorrere delle corazzate dinanzi a Tangeri e disturbare seriamente la quiete dell'Imperatore. "Levatevi!" aveva gridato, con tono minaccioso, uno dei fanatici "L'ebreo è nostro!" Il giovane bruno invece di rispondere aveva levato rapidamente da una tasca una rivoltella, puntandola contro i marocchini. "Rocco, preparati," disse volgendosi verso il compagno. "Sono pronto a fare una carneficina di questi cretini," rispose il gigante. "I miei pugni basteranno, marchese." La folla, che giungeva coll'impeto d'una fiumana che rompe gli argini, urlava a piena gola: "A morte gl'infedeli!" "Sì, a morte!" vociferarono gli allucinati. Si precipitarono innanzi agitando le scimitarre, i pugnali ed i punteruoli grondanti sangue che avevano levato dalle ferite e si prepararono a fare a pezzi l'ebreo e anche i due europei. "Indietro, bricconi!" gridò ancora, con voce più minacciosa, il compagno del gigante, gettandosi dinanzi all'ebreo. "Voi non toccherete quest'uomo." "A morte i cani d'Europa!" urlarono invece i fanatici. "Ah! Non volete lasciarci in pace?" riprese l'europeo con ira. "Ebbene, prendete!". Un colpo di rivoltella echeggiò ed un marocchino, il primo della banda, cadde morto. Nel medesimo istante il colosso piombò in mezzo all'orda e con due pugni formidabili fulminò altri due uomini. "Bravo Rocco!" esclamò il giovane dai baffi neri. "Tu vali meglio della mia rivoltella." Dinanzi a quell'inaspettata resistenza, i fanatici si erano arrestati, guardando con terrore quel colosso che sapeva così bene servirsi dei suoi pugni e che pareva disposto a ricominciare quella terribile manovra. L'ebreo approfittò per accostarsi ai due europei. "Signori," disse in un italiano fantastico, "grazie del vostro aiuto, ma se vi preme la vita, fuggite." "Me ne andrei molto volentieri," rispose il compagno del colosso, "se trovassi una casa. Noi non l'abbiamo una casa, è vero, Rocco?" "No, signor marchese. Non ne ho trovata ancora una." "Venite da me, signore," disse l'ebreo. "È lontana la vostra?" "Nel ghetto." "Andiamo." "E presto," disse Rocco. "La folla si arma e si prepara a farci passare un brutto quarto d'ora." Alcuni uomini avevano invaso le case vicine ed erano usciti tenendo nei pugni moschetti, scimitarre, jatagan e coltellacci. "La faccenda diventa seria," disse il marchese. "In ritirata!" Preceduti dall'ebreo il quale correva come un cervo, si slanciarono verso la piazza del Mercato, salutati da alcuni colpi di fucile, le cui palle, per loro fortuna, si perdettero altrove. I fanatici ed i loro ammiratori si erano gettati sulle loro tracce urlando ed imprecando: "A morte i kafir!" "Vendetta! Vendetta!" Se i marocchini correvano, anche il marchese ed i suoi compagni mostravano di possedere garetti d'acciaio, perché non perdevano un passo. Però la loro posizione diventava di momento in momento più minacciata, tanto anzi che il marchese cominciava a dubitare di poter sfuggire a quel furioso inseguimento. La folla si era rapidamente ingrossata e dalle strette viuzze sbucavano altri abitanti, mori, arabi, negri, e non inermi. La notizia che degli stranieri avevano assassinato tre fanatici doveva essersi propagata colla rapidità del lampo e l'intera popolazione di Tafilelt accorreva per fare giustizia sommaria dei kafir che avevano osato tanto. "Non credevo di scatenare una burrasca così grossa," disse il marchese, sempre correndo. "Se non sopraggiungono i soldati del governatore, la mia missione finirà qui." Avevano già attraversato la piazza e stavano per imboccare una via laterale, quando si videro sbarrare il passo da una truppa di mori armati di scimitarre e di qualche moschetto. Quella banda doveva aver fatto il giro del mercato per cercare di prenderli fra due fuochi e come si vede era riuscita nel suo intento. "Rocco," disse il marchese, arrestandosi, "siamo presi!" "La via ci è tagliata, signore," disse l'ebreo con angoscia. "Mi rincresce per voi; il vostro aiuto vi ha perduti!" "Non lo siamo ancora," rispose il gigante. "Ho cinque palle e il marchese ne ha altre sei. Cerchiamo di barricarci in qualche luogo." "E dove?" chiese il marchese. "Vedo un caffè laggiù." "Ci assedieranno." "Resisteremo fino all'arrivo delle guardie. Il governatore ci penserà tre volte prima di lasciarci scannare. Siamo europei e rappresentiamo due nazioni che possono creare serie noie all'Imperatore. Orsù, non perdiamo tempo. Si preparano a fucilarci." Due spari rimbombarono sulla piazza e una palla attraversò l'alto berretto del colosso. All'estremità della piazza sorgeva isolato un piccolo edificio di forma quadrata, sormontato da una terrazza, colle pareti bianchissime e prive di finestre. Dinanzi alla porta vi erano certe specie di gabbie che servono da sedili ai consumatori di caffè. I tre uomini si slanciarono in quella direzione, giungendo dinanzi alla porta nel momento in cui il proprietario, un vecchio arabo, attratto da quelle urla e da quegli spari, stava per uscire. "Sgombra!" gridò il marchese in lingua araba. "E prendi!" Gli gettò addosso una manata di monete d'oro, lo spinse contro il muro e si precipitò nell'interno seguito da Rocco e dall'ebreo, mentre la folla, maggiormente inferocita, urlava sempre "A morte i kafir."

"Che abbiano trovato, al pari di noi, rifugio?" "Volete che vada a cercarli?" "Vi esporrete a un grave pericolo, marchese. Non udite come le sabbie precipitano dinanzi alle rocce e come il vento rugge?" "È vero, Esther, pure non devo rimanere qui inoperoso mentre forse stanno per venire sepolti da queste trombe di sabbia." Così dicendo si spinse verso l'apertura, ma comprese subito che qualunque tentativo sarebbe stato vano. Il deserto era in piena tempesta e offriva uno spettacolo terribile. Le dune si scioglievano come se fossero diventate di neve e il vento, sempre più caldo e sempre più impetuoso, sollevava le sabbie in tali quantità da ottenebrare il cielo. Le cortine turbinavano in tutte le direzioni alzandosi a prodigiose altezze, poi si spezzavano bruscamente precipitando, quindi tornavano ad alzarsi, volteggiando sulle possenti ali del turbine. In certi momenti quell'oscurità s'illuminava d'una luce viva e rossa come se il deserto fosse in fiamme e come se il cielo fosse rischiarato da centinaia di vulcani. In alto e in basso si udivano rombi assordanti, seguiti da ululati spaventosi prodotti dal vento sempre più scatenato. Le sabbie, spinte dappertutto, cominciavano già ad accumularsi anche dinanzi al rifugio, minacciando di otturarlo. Dall'alto di quell'enorme ammasso di rocce cadevano ad ogni istante valanghe di sassi, i quali rimbalzavano dovunque, correndo poi all'impazzata pel deserto, sotto la spinta irresistibile dei venti. "Marchese," disse Esther, stringendosi a lui, "ho paura!" "Siamo al coperto e nulla abbiamo da temere," rispose il signor di Sartena, cingendole con un braccio la vita. "Non siamo noi che corriamo pericolo, bensì gli uomini della carovana." "E mio fratello!" "Avrà raggiunto qualche altro rifugio, ne sono certo, Esther. Il moro aveva detto che ve n'erano parecchi fra queste rocce e forse i nostri compagni sono più vicini a noi di quello che crediamo. Riposatevi, fanciulla e aspettiamo che il simun cessi; dovete essere stanca." "È vero, marchese; mi reggo appena. Mi pare che l'aria mi manchi." "Riposatevi in quell'angolo; io veglio su di voi. Se avviene qualche cosa, vi sveglierò." La giovane, che si sentiva stordita e completamente affranta, si rifugiò nell'angolo più lontano della caverna, mentre il marchese si sdraiava presso l'apertura, tendendo gli orecchi colla speranza di udire qualche chiamata. Si sentiva però anche lui invadere da un profondo torpore, causato forse da quell'intenso calore e dalla difficoltà del respiro, e faceva sforzi prodigiosi per tenere aperti gli occhi. Quando, dopo alcuni minuti, si volse, vide Esther stesa sulla fine sabbia della caverna, colla testa abbandonata su un braccio e le palpebre chiuse. Il seno le si alzava affannosamente, come se provasse difficoltà a respirare quell'aria infuocata che pareva priva di ossigeno. "Un pò di riposo le farà bene," disse. Si rimise in osservazione, lottando contro il torpore che lo invadeva con maggior ostinazione; quando ad un tratto chiuse gli occhi. I fragori della tempesta non giungevano che vagamente alle sue orecchie e si sentiva invadere da un torpore delizioso, che lo invitava ad abbandonarsi. Lottò ancora qualche momento, poi, vinto da un estremo languore, si lasciò cadere, mentre le sabbie, spinte dai venti, continuavano ad accumularsi dinanzi al rifugio, minacciando di seppellirlo vivo colla giovane ebrea.

"Non si ha la certezza che sia stato ucciso, anzi si ha il sospetto che i Tuareg lo abbiano risparmiato per venderlo al sultano di Tombuctu." "Anch'io ho udito narrare ciò," disse Hassan. "Finora nessuna prova si è avuta della morte del colonnello, quindi avete ragione di sperare. "Voi mi dite che v'occorre quell'algerino: io vi metto sulla via per raggiungerlo." "Voi sapete dove si trova!" esclamò il marchese. "Sì, ho saputo che fa parte d'una carovana che ora sta approvvigionandosi a Beramet e che deve attraversare il deserto fino a Kabra, sul Niger. Me lo riferì un cammelliere due giorni or sono." "Una carovana molto numerosa?" domandò Ben Nartico. "Non conta meno di trecento cammelli." "Che si trovi ancora a Beramet?" chiese il marchese con vivacità. "Non doveva muoversi che ieri sera, quindi con una rapida marcia voi potreste raggiungerla fra qualche settimana." "Quell'uomo sarà mio! ... " Poi volto a Rocco e a Ben Nartico, disse: "Partiamo! ... " "Un momento, signore," osservò Hassan. "Voi ed il vostro compagno parlate bene l'arabo?" "Perfettamente." "Conoscete le preghiere dei maomettani?" "Come un sacerdote istruttore del Corano." "Gettate le vostre vesti e indossate quelle degli arabi, e ricordate che un europeo non andrebbe lontano nel Sahara, soprattutto ora. I Tuareg vegliano e vi massacrerebbero, sospettando in voi una spia dei francesi." "Diverremo arabi," disse il marchese, risolutamente. "Amici, facciamo i nostri preparativi." "Io sono pronta, signor marchese," proferì Esther, con voce armoniosa e tranquilla. "E non avrete paura ad affrontare i pericoli del deserto?" chiese il corso. "No, signore," rispose la giovane, sorridendo. "Ecco una fanciulla bella e coraggiosa," mormorò Rocco.

"Lo suppongo, quantunque abbiano recitato sempre le preghiere del Profeta," rispose il moro. "E osano entrare in Tombuctu?" "Tu sai che non sono persone da aver paura." "L'ho veduto." Stette zitto un altro pò, quindi riprese con tono quasi minaccioso "Il francese ama l'ebrea, è vero?" "Può darsi," rispose El-Haggar. "Ti rincresce forse, El-Melah? Me l'hai chiesto in un certo modo!" "Quell'ebrea è la più bella ragazza che io abbia veduto nel deserto," continuò il sahariano, come parlando fra sé. "Il sultano di Tombuctu la pagherebbe ben cara se qualcuno gliela offrisse come schiava." "Che cosa vuoi concludere?" chiese El-Haggar guardandolo con sospetto. El-Melah guardò a sua volta il moro, come se avesse voluto scrutargli l'anima, poi disse con uno strano sorriso: "Voglio concludere che Tombuctu potrebbe essere pericolosa per quell'ebrea troppo bella." "Veglieremo attentamente sulla signorina Esther." Il sahariano fece col capo un segno affermativo e aizzò il mehari. Verso il tramonto, dopo una corsa furiosa di otto ore, El-Haggar ed il suo compagno videro improvvisamente apparire, sull'infuocato orizzonte, una linea imponente di minareti e di torri, le quali spiccavano vivamente sul purissimo cielo del deserto. Qualunque altro l'avrebbe scambiato per un miraggio meraviglioso, non potendo credere che una città dovesse sorgere in mezzo a quella immensa pianura sabbiosa, ma El-Haggar ed il suo compagno non si lasciarono ingannare. Tombuctu, la Regina delle Sabbie e del Sahara, la città misteriosa, la cui esistenza era stata messa in dubbio per tanti secoli dagli europei, stava dinanzi a loro, a meno di quattro miglia. "Ci siamo," disse El-Haggar. "Ancora una galoppata e entreremo. Tombuctu o Timbuctu, della quale si narrarono tante leggende meravigliose prima che Renato Caillé e Barth la visitassero, è situata ai confini meridionali del Sahara nel mezzo d'una pianura sabbiosa, a circa quattordici chilometri dal fiume Niger. Questa città che come Roma, Atene e Tebe, ebbe un tempo le sue scuole di sapienti e di filosofi e che godette uno splendore incredibile nei secoli passati, è una delle più antiche. La sua fondazione data dal quarto secolo dell'Egira secondo alcuni, e secondo altri risale al 1214 dell'era cristiana. Pare però che esistesse anche molto tempo prima, secondo gli antichi storici egiziani, sotto il nome di Kupha o di Nigeria. Comunque sia, godette per lunghi secoli una grande celebrità come città misteriosa, fino al giorno in cui i sovrani di Fez e del Marocco se la resero tributaria, impossessandosene. Non decadde però. Quantunque fosse perduta al di là del deserto, architetti di Granata l'abbellirono, costruendo uno splendido palazzo pel sultano ed essa rimase ancora per lungo tempo un deposito commerciale della più grande importanza, ricevendo carovane dal Marocco, dall'Algeria, dalla Tunisia e dalla Tripolitania di cui disperdeva poi le merci negli stati dell'Africa centrale. Nel 1500, riacquistata l'indipendenza mercé una ribellione capitanata da un capo negro, risorse per qualche tempo, riguadagnando l'antico splendore, per poi decadere nuovamente nel 1670, epoca in cui fu soggetta ai re di Bambarra, e maggiormente nel 1826, in cui cadde sotto la dominazione dei Tuareg e dei Fellata, i formidabili predoni del deserto. Oggi Tombuctu, quantunque occupi un'area immensa, non conta più di quindici o ventimila anime; le sue sette moschee, le sue vecchie torri, i suoi massicci bastioni, i suoi mercati, sono là a testimoniare la sua passata grandezza. Le sue vie sono larghe tanto da potervi passare tre cavalli di fronte; ha poi delle case costruite con mattoni cotti al sole, con cortili interni e fontane; ha porticati ancora ammirabili che ricordano lo stile dei mori, bastioni e pozzi grandiosi, quantunque per la maggior parte guasti, una moltitudine di capanne che si popolano solamente all'arrivo delle carovane, sempre numerose in certe epoche dell'anno, e due grandi mercati destinati alla vendita degli schiavi1. Tombuctu è ancora una città commerciale di molta importanza, pur avendo un territorio che non produce nulla affatto, nemmeno per nutrire la centesima parte della sua popolazione, a segno che nel 1805 riuscì facilissimo ai Tidiani di affamarla. Riceve numerosissime carovane cariche di merci dagli stati dell'Africa settentrionale; oro e avorio dal Kong e dalle regioni dei Bambarra, e sale, derrata ricercatissima, che non si vende a meno di due lire al chilogrammo, dalle miniere di Tanunderma e da Bonshebur. È poi una città dove il fanatismo, fino a qualche anno fa, imperava feroce. Nessun infedele vi poteva entrare sotto pena di morte, e nessun europeo poteva mettervi piede. Ciò non impedì però che Caillé prima e più tardi Barth, vestiti da mussulmani, vi potessero entrare a prezzo d'immensi pericoli. Anche nel 1897 il luogotenente Caron, che aveva risalito il Niger con un battello a vapore montato da quattordici marinai fra europei ed indigeni, dovette accontentarsi di guardarla da lontano per non venire massacrato dai fanatici Tuareg e dai feroci kissuri del sultano. El-Haggar ed El-Melah, dopo aver fiancheggiato gli enormi cumuli di rottami che formano delle vere colline intorno alla città, entrarono attraverso i bastioni diroccati. Era già sera. Dopo un breve interrogatorio da parte delle guardie del sultano, incaricate di vigilare onde impedire l'entrata a qualsiasi infedele, si diressero verso un caravan-serraglio, specie di vasta tettoia destinata ai conduttori delle carovane e dove potevano avere un pessimo giaciglio mediante una tenue moneta. "Ci occuperemo domani dei nostri affari," disse El-Haggar, scendendo dal mehari. Stavano per prepararsi la cena, quando videro entrare alcuni Tuareg che dovevano essere allora giunti a Tombuctu. El-Haggar aveva riconosciuto il capo che aveva incontrato nei pozzi di Marabuti. "Costoro devono averci attesi presso i bastioni e seguiti," disse a El-Melah. "Non occuparti di loro," rispose il sahariano. "Non pensano a noi e abbiamo torto ad inquietarci." "Sarei stato più contento di non rivederli qui." Amr-el-Bekr, il capo di quel gruppo di Tuareg, pareva che non avesse fatto alcuna attenzione. Si era ritirato in un angolo della vasta tettoia assieme ai quattro uomini che lo accompagnavano, e dopo aver scaricato i mehari degli otri e dei sacchetti contenenti le provviste, tutti si erano sdraiati sui loro tappeti fingendo di dormire. El-Haggar ed il sahariano si prepararono la cena, diedero da mangiare ai loro animali, poi si stesero su due angareb2 mettendosi a fianco i fucili e cercarono d'imitare i Tuareg, i quali pareva si fossero realmente addormentati. Il moro, che si sentiva spossato da quella lunga corsa, non tardò a russare. El-Melah invece vegliava. Di quando in quando alzava la testa per assicurarsi che il compagno dormiva, poi quando gli parve giunto il momento opportuno, lasciò senza far rumore l'angareb e scivolò verso l'angolo occupato dai Tuareg. Non vi era ancora giunto, quando vide alzarsi un uomo. "Sei tu, Amr?" chiese El-Melah. "Sono io," rispose il capo dei Tuareg. "Dove sono gl'infedeli?" "Sono rimasti nell'oasi." "Hanno qualche sospetto?" "No, almeno finora. Sai perché l'uomo bianco che ti ha minacciato si è spinto fino qui?" "No." "Per cercare il colonnello Flatters." Una rauca bestemmia uscì dalle labbra del predone. "Sa che siamo stati noi ... " "Silenzio, Amr," disse El-Melah, mettendogli una mano sulla bocca. "Quell'uomo è pericoloso per noi?" "Può diventarlo perché è un francese." "Un francese!" esclamò il Tuareg, stringendo i denti. "Se lo avessi saputo prima l'avrei ucciso nel deserto." "Avresti perduto il premio che il sultano concede a chi gli consegna un kafir." "È per questo che li hai lasciati venire fino qui?" "Sì, Amr," disse El-Melah. "A te gli uomini, a me la donna." "Ah! Vi è anche una donna!" "Bella come un'urì del paradiso di Maometto." "Che cosa vuoi fare di costei?" "Rubarla al francese e venderla al sultano." "Sei furbo tu, per essere un algerino, El-Aboid ... " "Taci! Qui mi chiamo El-Melah." "Ah! Hai cambiato nome." "E anche pelle. Se il francese avesse saputo chi sono io ed a chi si deve il massacro della spedizione, non sarei certo più vivo." "Quando verrà qui il francese?" "Fra una settimana; m'incarico io di condurlo." "Ti aspetterò," rispose il Tuareg. "Quanti sono i kafir?" "Due europei ed un ebreo." "Il sultano pagherà cari i due primi perché da molto tempo desidera avere degli schiavi dalla pelle bianca. In quanto all'ebreo, lo farà bruciare come una bestia malefica." "Tu non gli dirai che è il fratello della giovane," disse El-Melah, con tono quasi minaccioso. "Mi accontenterò d'intascare il prezzo del tradimento." "Tu ora devi dirmi una cosa." "Parla." "Sono giunti qui dei tuoi compatrioti con tre uomini presi nell'oasi di Eglif, fra i quali uno molto vecchio?" "Mi pare d'aver udito parlare di ciò." "Il vecchio mi è necessario per indurre i kafir a venire qui. Se è stato venduto, ricompralo o rubalo al suo padrone." "Prima di domani sera sarà qui, te lo prometto. Conosco tutti i miei compatrioti e non mi sarà difficile scovare il vecchio che tu cerchi." "Dove ti rivedrò?" "Al mercato degli schiavi." "Buona fortuna," disse El-Melah., Strisciò lungo la parete e tornò all'angareb dove El-Haggar non aveva cessato di russare. L'indomani, quando si svegliarono, i Tuareg erano scomparsi insieme coi loro mehari. "Dividiamoci il lavoro; io mi occuperò di appurare quanto vi è di vero riguardo al colonnello," disse El-Haggar. "Ed io cercherò quel Tasili che tanto preme all'ebreo," disse l'altro. "Ci rivedremo a mezzodì per la colazione in questo medesimo luogo." "Sì, El-Haggar, e speriamo di essere fortunati nelle nostre ricerche." Il sahariano aspettò che il moro si fosse allontanato, poi salito sul suo mehari si cacciò fra la folla che ingombrava i dintorni della tettoia. Tutte le vie erano piene di cammelli, di mehari, di cavalli, di asini carichi d'ogni sorta di mercanzie, di mercanti marocchini, algerini, tunisini e tripolitani, di negri delle rive del Niger, di Tuareg del deserto, di bellissimi Bambarra e di Fellata, chi avvolti in ampi caic e con immensi turbanti, chi vestiti sfarzosamente come tanti sultani e chi quasi nudi o nudi affatto. Tutte le piazze erano state convertite in bazar, dove si vedevano accumulate montagne di merci africane ed europee e derrate d'ogni specie, perché Tombuctu ha bisogno di tutto, perfino della legna che deve essere trasportata dal Niger. Si vedevano cumuli enormi di datteri, di fichi secchi, di miglio, di orzo, di pistacchi, di patate, mescolati confusamente, e cumuli di cedri e di limoni trasportati con grandi stenti dalle città dell'Africa settentrionale. Poi ammassi di stoffe, di saponi, di candele, di chincaglierie francesi, di casse di zucchero, di scatole ripiene di coralli, di gingilli, ed in mezzo a tutto ciò vere colline di sale, preziosa derrata che si vende quasi a peso d'oro quando scarseggia e che serve anche come moneta, dandosene cinque o sei libbre per uno schiavo nel fiore degli anni. Dovunque si commerciava, fra un gridio assordante, fra uno strepito indiavolato, fra un via vai continuo d'animali che accrescevano il baccano e la confusione, non ostante gli sforzi dei kissuri, gli splendidi soldati del sultano, per mantenere un po' d'ordine. El-Melah, dopo aver faticato non poco ad aprirsi il passo fra quella folla tumultuante che si lasciava urtare e anche schiacciare i piedi dai cammelli, dai cavalli e dagli asini, piuttosto che interrompere gli affari, sì diresse verso il mercato degli schiavi, il quale si estende su una vasta piazza coperta da tettoie. I Tuareg, suoi amici, non erano ancora giunti, ma la piazza era occupata da una folla non meno fitta di quella che ingombrava le vie. Negri d'ogni razza, bambarras, baraissa, rivieraschi del Niger, massina, bakhuni, kartani, fellani, uomini già vecchi, o nel fior dell'età, ragazzi, maschi e femmine, tutti nudi perché si potessero meglio giudicare i loro pregi ed i loro difetti, s'accalcavano sotto le tettoie, muti, tristi, vergognosi della loro miserabile condizione. Si palpavano, si osservavano diligentemente, sì facevano correre o sollevare pesi perché sviluppassero i loro muscoli, si guardavano in bocca per giudicare la loro dentatura, o si facevano lottare fra di loro per misurarne la forza. Per lo più i padroni erano Tuareg, quei terribili predoni che mettono a ferro ed a fuoco tutti i dintorni di Tombuctu per procurarsi schiavi e per saccheggiare. El-Melah attraversò tutte le tettoie, sperando di scoprire il suo amico, ma invano. Fece sdraiare il mehari all'ombra d'un palmizio, gli si sedette accanto, accese la pipa e attese pazientemente. Il sole non era ancora a metà del suo corso, quando vide giungere Amr seguito da un vecchio moro di sessant'anni, di statura alta e ancora robustissimo, non ostante l'età. Lo trascinava schiavo con una corda legata ai polsi, dandogli violenti strappate e caricandolo d'insulti. Vedendo El-Melah, gli si appressò dicendogli: "È questo l'uomo che cercavì?" "Non lo so," rispose il sahariano; "ma ora lo sapremo." Esaminò il vecchio, poi disse: "Tu sei il servo di Ben Nartico, il fratello di Esther, è vero?" Il moro udendo quei nomi trasali e guardò El-Melah con profondo stupore. "Non sei tu Tasili?" continuò il sahariano. "Come lo sai tu?" chiese il vecchio con voce tremante. "È lui," disse il Tuareg. "Mi hanno detto che quest'uomo si chiama Tasili e che è stato catturato nell'oasi di Eglif." "È vero," confermò il moro. El-Melah lo liberò dalla corda, dicendogli "Tu sei libero e sono pronto a condurti dai tuoi padroni." "Da Ben e dalla signorina Esther?" gridò il vecchio, con profonda commozione. "Sì," rispose El-Melah. "Quando potrò rivederli?" "Domani." Fece ad Amr un segno d'addio, dicendogli in lingua sahariana: "Al mercato fra due giorni." "T'aspetto," rispose il capo, con un sorriso d'intelligenza. El-Melah ed il moro attraversarono le vie affollate, conducendo per la briglia il mehari, e giunsero nel caravan-serraglio nel momento in cui entrava anche El-Haggar. "Chi è questo vecchio?" chiese la guida. "Sono stato più fortunato di te, El-Haggar," disse il sahariano. "Cosa hai saputo tu del colonnello?" "Nulla finora." "Ebbene, io ho trovato ed ho condotto Tasili, il servo dell'ebreo, ed ho saputo anche che il colonnello Flatters si trova come schiavo nel palazzo del sultano." "Tu sei un uomo meraviglioso!" esclamò El-Haggar guardandolo con ammirazione. "E questo non è tutto," proseguì El-Melah, con un perfido sorriso. "Ho anche saputo che i Tuareg che ci hanno seguito hanno continuato il loro viaggio verso Sarajanco, al di là del Niger, dove si trovano i loro duar." "Allora la nostra missione è finita." "Possiamo tornare presso il signor marchese. Hai delle monete tu?" "Il padrone mi ha dato della polvere d'oro." "Andiamo a comperare un mehari per questo vecchio e partiamo senza perdere tempo. Prima del tramonto noi saremo nell'oasi."

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