Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 4 occorrenze

Le auguro che i sentimenti di liberalismo democratico, di cui Ella fa insegna alla bottega, abbiano a suggerirle un maggior rispetto, se non per la dignità altrui, almeno per il titolo che porta. Con immensa compassione mi sottoscrivo. prof. Giacomo Lanzavecchia. " Chiuse le due lettere in una busta gialla come la rabbia e mandò a chiamare un ragazzetto della fornace. - Porta subito all'avvocato, sai? quel pallone gonfio che sta in piazza sopra la drogheria. Corri, Paolino! - E, fregandosi le mani, come se avesse vinto un terno: - Cosí, cosí, - andava ripetendo, mentre passeggiava in preda a un'insolita spavalderia, - cosí impareranno a conoscermi, e se il sor avvocato vorrà il resto, glielo sapremo dare, senza bisogno di carte bollate e di anticipazioni. Glielo daremo tutto in una volta. Forse son miserie e pettegolezzi indegni d'un filosofo; ma anche ai filosofi dànno noia le ragnatele. Un buon colpo di scopa di tanto in tanto fa bene alla casa.

Io non li leggo nemmeno i giornali, per non guastarmi lo stile, e quindi posso pretendere che non abbiano a occuparsi di me. Sai che cosa ha avuto il coraggio di dire questo signore a un nobile Magnenzio di Villalta? - Il conte nel metter fuori queste parole appuntò il tagliacarte d'avorio come una spada verso gli occhiali affumicati. - Ha avuto il coraggio di dire che in casa Magnenzio le figlie dei popolo servono ai piaceri dei padroni . La contessa, non potendo piú sostenersi sulle gambe, si lasciò cadere col corpo quasi sfasciato sopra una sedia. Era un'altra battaglia perduta. E il conte, sempre piú acceso in viso d'un color rosso, che faceva comparire ancor piú candidi i capelli lunghi ed i baffi, battendo col tagliacarte sul legno della scrivania, prese a dire, colla dignità con cui avrebbe declamato all'Ateneo di Bergamo il suo "Discorso preliminare": - Signor avvocato Brognòlico, lei è entrato in casa nostra colla presentazione d'un amico e d'un parente e io amo rispettare in lei il carattere sacro dell'ambasciatore; ma mi permetta di dirle, e lo dica pure a chil'ha mandato, che i Magnenzio, da Berengario in poi, non solo non hanno mai risposto a proposte disonoranti, ma possono dire con Dante: la vostra miseria non mi tange . E come se in questo supremo sforzo morale si fosse consumata l'ultima energia della schiatta, il conte, arruffato un gran gesto colla mano stanca in aria, restò a bocca aperta, paralizzato, nell'incapacità fisica di continuare. Accorse Fabrizio, che, sorreggendolo, gl'impedí di cadere. La contessa gettò un grido spaventato e si affrettò a riceverlo nelle braccia. Si mosse anche l'avvocato, che ritirò le sedie, fece largo per aprir la strada verso l'uscio della cameretta vicina, dove il povero conte fu adagiato su un divano. Preso da uno dei suoi accessi di cuore, sbarrando gli occhi, non faceva che mormorare delle sillabe scucite, che parevano invocare un po' di carità, un po' di compassione. Agli squilli dei campanelli uscirono altri servi, accorse miss Haynes, che fu mandata indietro a trattenere donna Enrichetta. Il conte cominciò presto a riaversi. Allora donna Cristina, tirato in disparte l'avvocato, definí con lui in un discorso concitato e positivo quest'ultima parte della vertenza e gli consegnò un biglietto per il ragioniere Riboni. - Sono addoloratissimo, creda, signora contessa, di essere stato causa innocente di tanto male; se avessimo immaginato che il signor conte non era al fatto delle cose, non avressimo certamente. - Ma la contessa gli voltò le spalle prima che egli avesse potuto finire. Col prezioso biglietto in mano Brognòlico traversò le due anticamere, uscí sullo scalone, si fece indicare da un servo lo studio del ragioniere Riboni, e guardando l'orologio per rifare i suoi conti sul tempo, si rallegrò in cuor suo di aver spazio avanti a sé anche per mangiare un boccone. Se avesse potuto formulare in parole la confusa compiacenza, che rischiarava in quel momento la sua diplomazia, senza pretendere di far ombra a Nicolò Machiavelli, avrebbe potuto riassumere il suo pensiero in questa grave sentenza: "La miglior politica non è quella che corre, bensí quella che arriva a tempo".

. - Se anche ci fossero, è naturale che le ragazze non abbiano a conoscere tutto. Ci sono i dispiaceri dei piccoli e quelli dei grandi. Quando sarà mammina anche lei, vedrà che non si può sempre essere di buon umore. Via, donna Enrichetta, ci tenga allegri, mi faccia vedere i suoi regali. Giacomo prese sotto il braccio quello della fanciulla e si fece condurre da lei nel salottino di studio, dove su una tavola stavano esposti i molti regali e i molti mazzi di fiori, che amiche e parenti avevano mandato per la fausta circostanza. Essa cominciò con voce piú consolata a farne la spiegazione. Il bel vaso di Sèvres l'aveva spedito il nonno da Bergamo; la splendida Madonna in miniatura era un regalo della zia monaca di Monza. C'era un tagliacarte d'avorio della zia Adelasia e un libro della zia Gesumina di Buttinigo. Il babbo aveva offerto alla sua Enrichetta il "Lessico della infima e corrotta italianità"; la mamma una collana di perle; miss Haynes un album inglese di ricami e d'iniziali; e perfin Fabrizio, quel povero vecchio di Fabrizio, aveva voluto farsi avanti con una scatoletta incrostata di conchigliette e di lumachelle. - Soltanto il mio illustrissimo fratello ufficiale non si è ricordato della sua Enrichetta. Tutto occupato a conquistar l'Africa . - Che c'entra l'Africa? - Non sa che vogliono mandarlo in Africa? Al babbo però non si deve dire. - A qualche cosa serve anche l'Africa - pensò in cuor suo Giacomo; ma, non potendo parlare di queste cose alla fanciulla, si limitò a domandare se la mamma era a parte di questo segreto. - La mamma lo sa. Gliel'ha scritto il generale Piani, nostro parente. Tra la mamma e il generale corre da qualche tempo un gran carteggio, ma io non devo saper nulla. Io non conto per nulla in questa casa. - Sia buona, ecco la mamma, - fece Giacomo, vedendo entrare la contessa. Questa, nell'incontrarsi repentinamente con lui, ebbe ancora un piccolo scatto nervoso, che cercò di reprimere, stendendogli la mano, mentre gli diceva: - Bravo, la ringrazio d'essere venuto. - Poi, volgendosi verso un alto specchio, che occupava una parete, mettendosi le mani nei capelli, come se avesse bisogno di accomodare uno spilione, continuò con un tono di naturale noncuranza: - Celestinaè un poco ammalata, tanto che l'ho obbligata a mettersi in letto. Ieri ha voluto stirare colle finestre chiuse, e s'è buscato un forte mal di testa con qualche nausea di stomaco. Se può dormire, passerà tutto. - E, mutando a un tratto il discorso, sorse a domandare senza voltarsi: - Conosce, Giacomo, le mie cognate di Buttinigo? - Credo di essermi trovato con loro un'altra volta. - Sono a pranzo con noi. - E per l'inquieto bisogno, che sentiva, di non rimanere troppo in una cosa sola, con altra voce chiamò: - Enrichetta. - Mammà - esclamò la fanciulla, correndo ansiosa verso di lei. La contessa le ravviò il vestitino bianco e, carezzandola sui capelli, le disse sottovoce: - Sai che non voglio essere disturbata senza necessità. - Scusa, mammà - disse la bambina, a cui gli occhi splendevano di commozione. - Accompagna il signor professore in sala e fa le presentazioni. - Quando Giacomo e la fanciulla ebbero lasciato il salottino, donna Cristina si strinse le tempie nelle mani, socchiuse gli occhi, e pregò con un mormorio di affanno mortale: - Signore, sostenetemi! Verso le sei, fu servito il pranzo nel severo salotto parato di cuoio, che due grandi e massiccie credenziere intagliate nel grosso stile del seicento arredavano su due lati. La tavola era splendente di argenterie e di cristalli finissimi, sui quali si riverberava la luce rubiconda del giorno, che moriva dietro la piccola pineta del giardino. Fabrizio e un altro servitore piú giovine, nella sobria livrea color tabacco coi paramani bianchi, servivano con precisione in un raccoglimento quasi religioso, recando grandi piatti d'argento cesellati colle iniziali e cogli stemmi delle due famiglie. La contessa pareva aver ricuperata tutta la sua forza di spirito. Seduta a capo della tavola, esposta al caldo bagliore del tramonto, la sua bella testa di matrona ancor giovane spiccava sul fondo bruno della parete, alleggerita, per dir cosí, dalla luce fuggente dei brillanti, che popolavano i suoi capelli, dalla nebbia dei pizzi candidissimi e da un pallore marmoreo del volto, soffuso con insolita civetteria da un roseo velo di cipria. Indossava elegantemente un vestito di piccolo velluto amaranto, col busto eguale, sul quale ripiegavasi a guisa di collare un ampio risvolto di pizzo di Fiandra. Al collo, unico ornamento, era un filare di perle, una delle quali grossa quasi come una nocciuola, spiccava in mezzo al color fulvo di quei famosi capelli, che formavano l'ambizione di Celestina. I giorni d'invito erano per la giovane cameriera giorni di palpiti e di trepidazione. A Celestina la contessa rappresentava quanto di piú bello, di piú elegante, di piú ideale possa prendere la figura di una donna sulla terra; e se c'era pericolo che ella potesse soffrire in qualche confronto con altre signore, le precauzioni, le cure, le trepidazioni non avevano mai fine. La ragazza la faceva passare tutta, filo per filo, dalla punta delle scarpe alla punta dei capelli, e dopo averla aggiustata, ritoccata, adorata, l'accompagnava fin sull'uscio della sala, stando dietro il battente ad assaporare il trionfo, come se una parte di merito andasse a lei. Questa volta la povera Celestina non aveva potuto accompagnare la sua signora. Una piccola e fiera battaglia era stata combattuta tra lor due nelle stanze superiori, dove miss Haynes, la vecchia istitutrice, era rimasta di guardia per impedire che la ragazza facesse uno sproposito. Donna Cristina, nella signorile acconciatura, sorridendo agli invitati, si sforzava di sostenere la conversazione colla consueta amabilità, provocando essa stessa i discorsi, perché nessuno avesse a leggerle negli occhi il suo affanno; ma se il corpo era in sala, il suo cuore era rimasto confitto di fuori. Essa avrebbe voluto persuadere Celestina a lasciare il Ronchetto quietamente, senza far scene, sotto un pretesto, che si trova sempre; e assumeva sulla sua responsabilità l'incarico di avvertirne Giacomo e di fargli parere questa partenza come una cosa naturale e provvisoria. La stessa di Breno si era offerta di ricevere la ragazza sotto la sua protezione, e, or sí or no, la poverina ne pareva persuasa. Ma quanto piú si avvicinava il fatale momento, non sapeva distaccarsi dalla contessa, che nella sua tremenda disgrazia rappresentava l'unica àncora di salvezza, l'ultima protezione, un testimonio della sua innocenza, un'amica, una mamma. Nelle mani degli altri essa sarebbe diventata di nessuno, o, quel che è peggio ancora, preda di tutti: e in questo timore, come se sentisse di camminare verso un precipizio, impeti di fiera ribellione succedevano a freddi propositi di rassegnazione, ripulse selvaggie a miti acconsentimenti, lagrime sfrenate a lunghi silenzi di morto stupore. Piú d'una volta la contessa aveva dovuto trattenerla, stringerla nelle braccia, baciarla sugli occhi, bagnarle il viso di lagrime, supplicarla con parole umili e piccine, sussurrate nelle orecchie, perché non avesse a gridar cosí forte, a non richiamare l'attenzione della gente di casa; finché la Celestina, commossa da quel dolore non meno grande del suo, debellata da quelle parole, che si accordavano alle sue, rammollita da quelle lagrime, che si mescolavano alle sue, prometteva di esser savia e paziente, di lasciarsi condur via, di fare tutto quello che la signora contessa le avesse detto di fare. Con una di queste promesse, strappata all'ultimo momento e ricompensata col dono d'un bel rosario di madreperla, donna Cristina era discesa in mezzo a questi suoi familiari, dopo aver soffocato con uno sforzo supremo della volontà le aspre inquietudini e le eccitazioni nervose sotto un amabile e ridente contegno, come aveva fatto sparire la traccia delle lagrime e delle notti mal dormite sotto il velo roseo della polvere profumata. Questa straziante, necessaria, insolita energia di dissimulazione, la povera martire l'attingeva al pensiero che in essa era la salvezza della sua casa, come il capitano valoroso sa che dal suo contegno fermo e sicuro nel fitto della battagila può dipendere la sorte della giornata campale. Insieme ai padroni e alla padroncina di casa sedevano, come s'è detto, intorno alla tavolail segretario Balsamino, il maestro della banda, don Iginio, pretino giovane e delicato, e le due zie di Buttinigo, sorelle di don Lorenzo, donna Adelasia e donna Gesumina, contesse Magnenzio, due dame attempate, non prive di barba, tonde e piccolette come due gomitoli, vestite tutte e due colla stessa severità quasi monacale di seta nera; ma si capiva dai molti anelli e dall'astuccio degli occhiali che si aveva a che fare con due dame e non con due monache. Erano sempre vissute zitelle, non credo per avversione al santo matrimonio. Donna Adelasia aveva amato, sul tramonto della sua giovinezza, un uomo di quarantacinque anni, che la voleva sposare; ma il povero marchese Caccianino, proprio quindici giorni prima del fausto avvenimento, cadde da cavallo e restò sul colpo. Da allora la meno brutta delle Magnenzio, considerandosi come vedova, non fece che coltivare le meste memorie. Donna Gesumina, anima di bambina in un corpo poco sviluppato, era invecchiata senz'accorgersi nella sua innocenza, vivendo un giorno dopo l'altro per quasi sessant'anni, di amaretti, di caramelle di gomma, di rosoli, di novene e di santi e pudibondi sgomenti per tutto ciò che leggeva sui giornali o che sentiva raccontare intorno agli oltraggi che si recano continuamente alla Chiesa e al cuore del Sommo Pontefice. Vivevano sole in quel loro casone di Buttinigo, ma non rifuggivano dal mondo, al quale cercavano non mal volontieri gli argomenti di scandalo e le occasioni per deplorare la decadenza dei buoni costumi. Non insensibili al fasto e alle decorose tradizioni della famiglia, portavano a spasso l'antica nobiltà in un carrozzone foderato di stoffa color guscio di castagna, che aveva sulla portiera i due terribili draghi colle fauci aperte, una diavoleria araldica da far venire la tremarella alla Convenzione. A proposito di questa spaventosa impresa un canonico Ildefonso Magnenzio aveva scritta una dissertazione storica, pubblicata a Bergamo l'anno 1653, nella quale si tira in ballo perfino Berengario I, per dimostrare che Magnenzio deriva da magnar, corruzione di manducare, che in certi incontri storici può essere anche sinonimo di divorare. Comunque sia, quelle gran bocche aperte rappresentavano, per le due dame e per il Rebecchino, loro cocchiere e factotum, una gloriosa tradizione, alla quale era attaccato qualche milione di patrimonio, che sarebbe andato a cadere in bocca a don Giacinto, unico erede maschio di una prosapia quasi millenaria. In quest'unico rampollo, com'è facile immaginare, le due vergini dame riponevano le loro femminili e aristocratiche compiacenze, amando in lui, non solo il passato illustre, che sarebbe rifiorito in lui, ma tutti i figliuoli, che esse non avevano potuto avere. Il giovinotto era bello, bianco di carnagione, coi baffetti biondi, spigliato, spiritoso, amabile, non imminchionito nei libri come suo padre, sapeva essere a suo tempo e luogo ardito e prepotente; insomma le zie di Buttinigo vi trovavano tutti i sapori, lo sovvenivano di nascosto di denaro, lo compassionavano come unavittima di un sistema educativo irragionevole e, pur inchinandosi alle intenzioni di donna Cristina loro cognata, si permettevano di osservare sommessamente tra loro che i nobili non vengono al mondo per istudiare la filosofia e per incretinire sulle lapidi, come faceva il loro fratello antiquario. Giacinto capí presto, prima ancora di mettere un pelo di barba, che le due buone zie di Buttinigo eran da coltivare come due buone vigne. Con un tantino di ipocrisia, che in francese si dice savoir faire, coll'esagerare i suoi stessi sentimenti di buon credente, col fingere qualche straordinaria mortificazione in quaresima, col racconto ameno di tutte le storielle galanti che correvano negli aristocratici salotti, il ragazzo, a furia di soddisfarne gli istinti materni e la disoccupata curiosità, s'era fatto delle due zie due potenti alleate, sempre pronte a dargli ragione, a difenderlo contro le sofisticherie di mammà, a fornirgli sottomano i mezzi di pagarsi qualche scappuccio. Né la contessa poteva da parte sua contraddirle sempre, e per un giusto riguardo a don Lorenzo, che sopra ogni cosa amava la pace e l'armonia, e anche per un riguardo ai due draghi e all'annesso patrimonio. Il giorno che, per isfuggire ai pedagoghi di mammà, il bel giovinotto si presentò alle zie nella chiara divisa di Piacenza cavalleria, cogli stivaloni alla scudiera, collo spadone al fianco, coi kolbach di pelo sulla sua bella testa di biondo Apollo, per poco le due zitelle non isvennero di consolazione. Lo fecero passeggiare in sue in giú per il salone, vollero sentire il tin tin degli sproni, sfoderarono esse stesse la terribile spada e gli regalarono subito cento lire ciascuna per le sigarette. A turbare la gioia di questo trionfo venne l'ordine del Ministero, che destinava il giovane soldato a Roma; ma, consultatesi con quel brav'uomo del prevosto di Trezzo, le due apostoliche zitelle cercarono di riparare l'offesa involontaria che un Magnenzio recava al cuore del Santo Padre, coll'incaricare lui stesso di versare cinquecento lire alla cassa dell'Obolo di san Pietro. Giacinto ritirò da un chierico una polizza per cinque lire, vi aggiunse di sua mano un paio di zeri, e giocò le altre quattrocentonovantacinque al faraone. Il diavolo, com'era dover suo, lo aiutò e lo fece vincere. *** Don Lorenzo, da buon umanista, fece onore alla tavola, specialmente a un manicaretto di pasta frolla imbottito di tartufi, che Orazio non aveva potuto mettere in asclepiadei. Egli era in vena di celiare, e per il gusto che gli dava ogni bella compagnia, e per l'appetito, che per fortuna non guastava questa volta l'opera del cuoco. Giacinto gli aveva scritta ancora una cartolina, mica male, povero Ippofilo, tranne la smania di togliere l'acca alle voci dei verbo avere , che l'hanno sempre avuta. - Son novità di quei signori toscani, che si possono compatire in un giovinotto; ma di questo passo non le pare, don Iginio, che si vada diritti all'anarchia ortografica? Il pretino timido, che stava attento a non commettere errori di convenienza, si scosse, dètte una lavatina asciutta alle mani, le aperse come se celebrasse all'altare, e, facendosi rosso in viso, rispose: - Sicuro, signor conte, l'acca ci vuole. - Togli l'acca di qua, taglia di là la coda ai beneficj, a maleficj, al boja, leva un t a Cattolico e a Catterina, che è come levare una costola a una di queste signore e poi che cosa resta dell'italiano di Dante, del Petrarca e del Boccaccio? che ne pensa il nostro egregio Balsamino a secretis. ? - Ecco, se mi permette, io le dirò, signor conte - rispose col solito rustico coraggio il segretario comunale, che non dubitava mai della forza delle sue arguzie d'uomo semplice: - Se permette, io per me preferisco il suo vin di barolo, signor conte, - e lanciata la bomba, rise molto, sperando che gli altri facessero lo stesso; ma un freddo silenzio gli fece capire che questa volta la bomba gli era scoppiata in mano. Donna Adelasia, per aiutare il povero pretino, che pareva quasi asfissiato dalla suggezione e dalla presenza delle signore, vollesapere da lui che cosa fossero le quaranta proposizioni di Antonio Rosmini, che il Papa aveva riprovate e messe all'indice come ereticali. Il poverino, che, tutto occupato a confessare le donne, non aveva tempo di leggere, dopo aver lavate con tre o quattro fregatine nell'aria le sue piccole mani, se la cavò col dire: - Vede, donna Adelasia? Il Rosmini è un panteista. - Ho visto! - soggiunse col suo fare alquanto torbido la maggiore delle due zitelle; e volgendosi a Fabrizio, che si avanzava coi piatto, chiese collo stesso grado di curiosità: - E questa che roba è? - Questo è zampone di Modena, contessa - disse Fabrizio. - C'è qualche altro, che pencola verso il panteismo - intonò il conte colla bocca fatta morbida da una soave pasta di patate, alzando un dito minaccioso verso Giacomo, che sedeva all'altro capo della tavola, tra la contessa e donna Enrichetta. - Dice a me, conte? - domandò Giacomo, fingendo di non capire. - Noi sappiamo leggere fra le righe, Giovannino! . - Piano, piano: lei mi fa una terribile accusa davanti al Santo Uffizio - soggiunse Giacomo, ridendo e accennando coll'occhio a don Iginio. - Zitto là, sor filosofo: bene intendenti pauca Solamente guardate quel che fate, signori idealisti - aggiunse don Lorenzo coi pomelli accesi,alzando il tono della canzone; poi, tenendo sollevato sulla forchetta un boccone di quel ghiotto zampone di Modena, che aspetta ancora il suo poeta, continuò: - Guardate, giovanotti, che a furia di scassinare i principj, non vi manchi la terra sotto i piedi. I tempi son grossi di arie cattive e una cattiva filosofia è sempre la staffetta d'una cattiva repubblica, L'abbiam visto in Francia ai tempi della Rivoluzione, quando sul posto d'ogni altare abbattuto il buon popolo innalzò una ghigliottina. Che ne pensa la mia dilettissima consorte, che oggi mi par piú malinconica del solito, quantunque ciò non guasti la sua casta bellezza? La contessa si scosse da' suoi pensieri e si sforzò di sorridere; poi, volendo mostrare che prendeva parte ai discorsi dei convitati, chiese al maestro della banda qualche notizia su un certo contrasto nato tra la fabbriceria e il Consiglio comunale a proposito d'un funerale. - La signora contessa sa che la nostra banda non ha opinioni politiche - disse il maestro, un ex- tromba dell'esercito, a cui faceva bene il vino di Piemonte. - La musica è un'arte, e l'arte dev'essere superiore alle opinioni. Si trattava d'un reduce garibaldino, e io domando se si poteva rifiutare di sonar l'inno di Garibaldi. - L'inno di Garibaldi in luogo sacro, - entrò a dire il conte simulando un santissimo orrore per un cosí grosso sacrilegio. - Che ne dice, don Iginio? - Ecco - provò a dire il pretino, facendosi rosso per lo sforzo - poiché Sua Eminenza il nostro vescovo ha proibito ai parroci . - Che cosa ha proibito? - gridò il maestro, che in questa benedetta questione degli inni patriottici s'era piú volte asciugata la gola. - Con qual diritto può proibire un vescovo la manifestazione d'un sentimento patriottico? - Fin che durerà questo dissidio - s'arrischiò d'aggiungere il pretino, sostenuto dalla coscienza del suo dovere. - Ma mi faccia il piacere, don Iginio! - strepitò il maestro, con gusto infinito del conte che si divertiva ad aizzarli l'un contro l'altro parendogli di assistere all'epilogo dell'antica lotta delle Investiture. - Se lei avesse visto il fuoco come l'abbiam visto noi a San Martino, a Palestro, a Custoza, saprebbe che certi sentimenti non si smorzano nemmeno con l'acqua santa . - Questa è buona, Giovannino!. - approvò il conte, picchiando sulla tavola il calice del suo vin bianco dolce; e, strizzando gli occhietti verso Giacomo, stava per citare un verso di Orazio quando, sul caldo frastuono della discussione dei piatti e delle posate, risonò un grido acuto e spaventato, che parve un grido di donna, a cui tenne dietro un forte sbattere di usci e un correre confuso di gente. - Che cosa c'è? misericordia! correte a vedere. Chi si è fatto male? - confusamente esclamarono i convitati. - Sapete che questi spaventi mi fan male, benedetto Iddio, - balbettò il conte, che rimase lí colla forchetta in aria e col boccone infilzato. La contessa era subito scomparsa, ma rientrava poco dopo con Fabrizio a dire che non c'era nulla di grave. La donna di guardaroba era caduta sulla scala con una catinella in mano, ma tutto era finito con molto spavento, e col danno della stoviglia. - Meno male, ma, santo Iddio, state attenti a non procurarmi di questi spaventi, che guastano la digestione. Sapete che son mezzo malato e il cuore mi salta per niente. Par sempre la casa del diavolo. Un po' di riguardo, per bacco! Mi versi un altro dito di vino, maestro. Bevete tutti, fatemi coraggio. Tutti bevettero, per obbedienza, alla salute del signor conte e alla felicità di donna Enrichetta. Donna Cristina, che, durante il pranzo, era stata continuamente col cuore sollevato, al primo grido di quella disgraziata era scattata in piedi, in preda a una violenza nervosa, era corsa di fuori, e giunse appena in tempo ad arrestare sul pianerottolo Celestina, che mezzo svestita, coi capelli in disordine sciolti sulle spalle, colla faccia stravolta, si dibatteva nelle braccia di miss Haynes. La contessa, col tono severo e autorevole che sapeva prendere quando il caso richiedeva, l'afferrò per un braccio, la trasse con sé per il corridoio buio della foresteria, la chiuse nella sua stanzetta, dove Celestina s'inginocchiò: - No, contessa, mi perdoni, - pregava - sarò buona. Mi pareva che volesse pigliarmi. - Chi? chi ti perseguita? - Il diavolo. - Tu non mi vuoi piú bene. - Le voglio bene, signora. Lei è la mia mamma. Ma c'è proprio un diavolo che mi tormenta. - Sei malata, capisci? Senti come abbrucia questa povera testa. Torna a letto. Non sai che ci farai morire, se non obbedisci? - Giacomo è qui. Lasci che gli dica tutto. - Tu non gli dirai nulla, perché io non lo permetterò. Guarda che so essere anche cattiva. Ti farò chiudere in una stanza. Vieni, invochiamo insieme la Madonna dei dolori . Celestina, passata la crisi, dette in un pianto dirotto, si lasciò collocare sul letto e promise di essere savia e obbediente. La contessa chiuse l'uscio a chiave e lasciò miss Haynes in sentinella. Tutto questo accadde nel minor tempo che occorre per raccontarlo, in una specie di furiosa scaramuccia, a cui le due infelici creature andavano da qualche tempo abituandosi. La contessa, non solo si meravigliava di saper vincere e domare la sua vittima, ma una meraviglia piú alta sorgeva nell'animo suo alla prova della sua forza, che mai avrebbe immaginato di possederne tanta; una forza morale e nervosa, che sapeva ardire e nascondersi, che, oltre a insegnarle le astuzie del vincere e del resistere, le manteneva sul viso quasi una maschera sorridente. E non eravamo che alle prime scaramuccie d'una tremenda battaglia! Sarebbe bastata questa forza il giorno che avesse dovuto affrontare il grosso del nemico? non vedeva né il quando, né il dove questa battaglia si sarebbe combattuta; ma, se si raccoglieva un istante, le pareva di sentire non molto lontano un muggito d'una moltitudine di mali selvaggi, non mai immaginati, davanti ai quali il morire, il morir subito, le compariva una liberazione.

Poi stendendo l'altra a stringere con uno slancio d'amicizia il polso dell'oste:- Potete dire che i Lanzavecchia abbiano mai venduto lucciole per lanterne? mio padre Galdino, mio nonno Nicodemo . - Altri tempi - fu presto a interrompere l'oste, un uomo piuttosto indifferente per i grandi principi della giustizia. - Una volta, - soggiunse poi con un sorriso secco, che stentò a muoversi sulla sua bocca asciutta priva di labbra - una volta il vino lo si faceva anche coll'uva. Mauro sentí il veleno dell'argomento e battendo due volte la tazzetta sul banco: - Lo so - disse - che in un paese di ladri chi non ruba mangia il suo pane a tradimento. Voi però non mi abbandonerete, Francesco. - Io faccio l'oste, vedete - osservò il compare, indicando con un piccolo gesto i suoi avventori, il banco, la lucerna. E tornò a chiudere gli occhietti cenericci. - Volevo dire che questi nostri figliuoli devono maritarsi a San Martino. - Ecco! - riprese l'oste, mandando avanti una sua favorita particella dimostrativa, colla quale soleva, come con una lanterna cieca, illuminare le idee degli altri e fare il buio sulle proprie. Anch'io dovrò fare i miei conti. - Non li avete già fatti mille volte questi benedetti conti? - notò con un tono di rancore il fornaciaio. - Non si finisce mai di fare i conti. Se con poco si fa poco, che cosa volete che si faccia con niente? - Volete dire, se capisco il latino, che poiché io sono un uomo fallito, mi si può, parlando con poco rispetto . L'oste lo pregò con un gesto frettoloso della mano di non gridar troppo forte. Ma l'altro, che attingeva l'eloquenza dalla tazzetta: - Ho capito, - seguitò con piú calore - volete dire che poiché m'è entrata la disgrazia in casa, la vostra Fiorenza . - Non gridate sui tetti i vostri interessi, benedetto uomo - tornò a raccomandare vivamente il buon Francesco della Fraschetta, distaccando la schiena dal muro, rianimando gli occhi sotto la tesa della berretta, che faceva un color solo col colore scialbo del suo viso teso, liscio, immobile come un viso di legno. - Sí, ora mi si può, con licenza parlando, sputare addosso, - seguitò il fornaciaio con voce scalmanata. E dopo aver sogghignato il tempo necessario per inghiottire il fiotto amaro di saliva che gli inondava la bocca: - Allora - riprese, porgendo il fiaschetto vuoto al ragazzo - portamene un altro di questo tuo scongiurato veleno. E a voi, eccovi i vostri soldi. Cosí dicendo, stese una gamba tra la tavola e la panca, infilò una delle sue grosse mani nella tasca dei calzoni, ne trasse una manata di soldi e, fattone un pugnetto, lo batté sul banco, sotto il naso dell'oste, che, avvezzo a queste ed altre mimiche, non dette segno di meraviglia. - Cosí non direte che Mauro Lanzavecchia abbia bevuta una goccia del vostro vino senza pagare. E in quanto alla vostra Fiorenza, se vi piace sentire, vi dirò che un Lanzavecchia si degnava fin troppo di bere a questo boccale. Parole grosse, cattive, superbe, che, una volta uscite, lasciarono il buco fatto per tutte le altre che vollero tener dietro. L'orgoglio di tre generazioni di galantuomini, infiammato dalle molte tazzette di vino bevuto nella giornata, non troppo d'accordo tra loro, e mal trattenuto da una volontà già sconnessa per troppi colpi, traboccò in epifonèmi e in dichiarazioni che avrebbero fatto onore a un principe del sangue, non che a un fabbricatore di tegole; ma in quel momento, in quel sito, sulla bocca d'un uomo cosí scassinato nel credito, non ebbero la forza di far tremare nessuno. I giocatori, al diavolío che faceva il Bismarck delle Fornaci, dissero, parlando sommessamente tra loro: - Pare che laggiú si guasti la parentela. - È la tazzetta che suona - osservò il magnano. - La superbia non paga debiti - notò con burbanza il mugnaio del Lavello. - Staremo a vedere quel che stamperanno le gazzette questa volta. Mauro poco prima che sonassero le dieci e mezzo si alzò, facendo puntello coi pugni sulla tavola, e con passo che voleva essere da bersagliere, traversò lo spazio libero dell'osteria, avviandosi alla porta senza salutare nessuno. Prima però di chiudere l'uscio dietro di sé, parendogli di non aver detta l'ultima ragione o che tutti quei bravi signori avessero bisogno d'una soddisfazione, si voltò verso di loro, che aspettavano cogli occhi aperti, mosse la mano allargata a guisa d'un ventaglio, la girò nell'aria, come se la sfregasse su un muro, e quando vide tutte le faccie immobili e tutte le bocche attente, mise fuori con misurata intenzione la morale solenne della favola: - Vicende umane, oggi la lepre, domani il cane! E si tirò dietro l'uscio, mentre un rumoroso scoppio di risa accoglieva questa sentenza nova novissima, non mai udita, non mai stampata sulle gazzette.

L'ANNO 3000

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Mantegazza, Paolo 4 occorrenze

Essi devono presentarsi al Senato biologico di Andropoli, perchè sia giudicato da quel supremo Consesso delle scienze, se abbiano o no il diritto di trasmettere la vita ad altri uomini. Prima però di attraversare l'Europa e l'Asia per recarsi alla capitale del mondo, posta ai piedi dell'Imalaia, dove un tempo era Darjeeling, Paolo voleva che la sua fidanzata vedesse la grande Necropoli di Spezia, dove gli Italiani dell'anno 3000 hanno come in un Museo raccolte tutte le memorie del passato. Maria fino allora aveva viaggiato pochissimo. Non conosceva che Roma e Napoli e il pensiero dell'ignoto la inebbriava. Non aveva che vent'anni, avendo data la mano d'amore a Paolo da cinque anni. Il volo da Roma a Spezia fu di poche ore e senza accidenti. Vi giunsero verso sera, e dopo una breve sosta in uno dei migliori alberghi della città, cavarono fuori dall'aerotaco una specie di mantello di caucciù, che si chiama idrotaco e che gonfiato da uno stantuffo in pochi momenti si converte in un barchetto comodo e sicuro. Anche qui nessun bisogno di barcaiuolo e di servi. Una macchinetta elettrica, non più grande di un orologio da caminetto, muove l'idrotaco sulle onde, colla velocità che si desidera. Il Golfo di Spezia era in quella sera divino. La luna dall'alto, nella pace serena della sua luce, spargeva su tutte le cose come un fiato soave di malinconia. Monti, monumenti, isole parevano di bronzo; immoti come chi è morto da secoli. La scena sarebbe stata troppo triste, se le onde chiacchierine, che parevano cinguettare e ridere fra la rete infinita d'argento, che le inserrava come migliaia di pesciolini presi nella rete dal pescatore, non avessero dato al golfo un palpito di vita. I due fidanzati si tenevano per mano e si guardavan negli occhi. Si vedevano anch'essi come velati in quella luce crepuscolare, che toglie la durezza degli oggetti; facendo giganti le anime delle cose. - Vedi, Maria, - disse Paolo a lei, quando potè parlare: - qui intorno a noi dormono nel silenzio più di ventimila anni di storia umana. Quanto sangue si è sparso, quante lagrime si son versate prima di giungere alla pace e alla giustizia, che oggi godiamo e che pure sono ancora tanto lontane dai nostri ideali. E sì, che fortunatamente per noi, dei primi secoli dell'infanzia umana, non ci son rimaste che poche armi di pietra e confuse memorie. Dico fortunatamente, perchè più andiamo addietro nella storia e più l'uomo era feroce e cattivo. E mentre egli parlava, si andavano avvicinando alla Palmaria, convertita allora in un grande museo preistorico. - Vedi, Maria, qui vissero in una grotta dieci o venti secoli or sono uomini, che non conoscevano metalli e si vestivano colle pelli delle fiere. Sulla fine del secolo XIX un antropologo di Parma, certo Regalia, illustrò questa grotta, che era detta dei Colombi, descrivendone gli avanzi umani e animali, ch'egli vi aveva trovati. In quel tempo però, cioè sulla fine del secolo XIX, tutta l'isola era coperta di cannoni, ed una batteria grande, un vero miracolo di arte omicida, difendeva il golfo dagli assalti del nemico. Tutto il golfo del resto era un trabocchetto gigantesco per uccidere gli uomini. Sui monti, cannoni; sulle sponde, cannoni; sulle navi, cannoni e mitragliatrici: tutto un inferno di distruzione e di orrore. Ma già qualche secolo prima questo golfo portava memorie di sangue. Lì ad oriente sopra Lerici tu vedi un antichissimo castello, dove fu prigioniero un re di Francia, Francesco I, dopochè ebbe perduta la battaglia di Pavia. Noi non vediamo più l'ecatombe di ossa, che devono trovarsi sul fondo del mare, perchè sul principio del secolo XX ebbe luogo una terribile battaglia navale, a cui presero parte tutte le flotte d'Europa; mentre per fatale coincidenza in Francia si combatteva un'altra grande battaglia. Si battevano per la pace e per la guerra, e l'Europa era divisa in due campi. Chi voleva la guerra e chi voleva la pace; ma per volere la pace si battevano, e un gran mare di sangue imporporò le onde del Mediterraneo e allagò la terra. In un solo giorno nella battaglia di Spezia e in quella di Parigi morì un milione di uomini. Qui dove noi siamo ora, godendo le delizie di questa bellissima sera, saltarono in aria in un'ora venti corazzate, uccidendo migliaia di giovani belli e forti; che avevano quasi tutti una madre, che li attendeva; tutti una donna che li adorava. La strage fu così grande e crudele, che l'Europa finalmente inorridì ed ebbe paura di sè stessa. La guerra aveva uccisa la guerra e da quel giorno si mise la prima pietra degli Stati Uniti d'Europa. Quei giganti neri, che vedi galleggiare nel Golfo sono le antiche corazzate, che rimasero incolumi in quel giorno terribile. Ogni nazione d'allora vi è rappresentata: ve n'ha di italiane, di francesi, d'inglesi, di tedesche. Oggi si visitano come curiosità da museo e domattina ne vedremo qualcuna. Vedrai come in quel tempo di barbari, ingegno e scienza riunivano tutti i loro sforzi per uccidere gli uomini e distruggere le città. E figurati, che uccidere in grande era allora creduta gloria grandissima e i generali e gli ammiragli vincitori erano premiati e portati in trionfo. - Poveri tempi, povera umanità! Però, anche dopo aver abolita la guerra, l'umana famiglia non ebbe pace ancora. Vi erano troppi affamati e troppi infelici; e la pietà del dolore, non la ragione, portò l'Europa al socialismo. Fu sotto l'ultimo papa (credo si chiamasse Leone XX ), che un re d'Italia scese spontaneo dal trono, dicendo che voleva per il primo tentare il grande esperimento del socialismo. Morì fra le benedizioni di tutto un popolo e i trionfi della gloria. I suoi colleghi caddero protestando e bestemmiando. Fu una gran guerra, ma di parole e di inchiostro; fra repubblicani, conservatori e socialisti; ma questi la vinsero. L'esperimento generoso, ma folle, durò quattro generazioni, cioè un secolo; ma gli uomini si accorsero di aver sbagliato strada. Avevano soppresso l'individuo e la libertà era morta per la mano di chi l'aveva voluta santificare. Alla tirannia del re e del parlamento si era sostituita una tirannia ben più molesta e schiacciante, quella d'un meccanismo artificiale, che per proteggere e difendere un collettivismo anonimo soffocava e spegneva i germi delle iniziative individuali e la santa lotta del primato. Sopprimendo l'eredità, la famiglia era divenuta una fabbrica meccanica di figliuoli e di noie sterili e tristi. Un gran consesso di sociologi e di biologi seppellì il socialismo e fondò gli Stati Uniti del mondo, governato dai migliori e dai più onesti per doppia elezione. Al governo delle maggioranze stupide subentrò quello delle minoranze sapienti e oneste. L'aristocrazia della natura fu copiata dagli uomini, che ne fecero la base dell'umana società. Ma pur troppo non siamo ancora che a metà del cammino. L'arte di scegliere gli ottimi non è ancora trovata; e pensatori e pensatrici, i sacerdoti del pensiero e le sacerdotesse del sentimento, travagliano ancora per trovare il modo migliore, perchè ogni figlio di donna abbia il posto legittimo, che la natura gli ha accordato nascendo. Si sono soppressi i soldati, il dazio consumo, le dogane, tutti gli strumenti della barbarie antica. Si è soppresso il dolore fisico, si è allungata la vita media, portandola a 60 anni; ma esiste ancora la malattia, nascono ancora dei gobbi, dei pazzi e dei delinquenti, e il sogno di veder morire tutti gli uomini di vecchiaia e senza dolore è ancora lontano. Maria taceva, ascoltando, e Paolo tacque anch'egli, come oppresso da una grande malinconia. I ventimila anni di storia gli parevano troppo lungo tempo per così piccolo cammino percorso sulla via del progresso. Maria volle rompere quel silenzio e dissipare quella malinconia; e coll'agilità mobile e intelligente che hanno tutte le donne, volle far fare al pensiero del suo compagno un gran salto. - Dimmi, Paolo, perchè fra le tante lingue morte tu hai studiato con particolare amore l'italiano? È una curiosità che ho da un pezzo e che tu non mi hai mai soddisfatto. Non sarà di certo per poter leggere nell'originale L'anno 3000? - No, mia cara, è perchè la letteratura italiana ci ha lasciato la Divina Commedia e Giovanin Bongè, Dante e Carlo Porta, i due poeti massimi del sublime e del comico. Li leggeremo insieme questi due grandi poeti e tu vedrai che ho cento ragioni di voler studiare l'italiano prima d'ogni altra lingua morta. Nessuno ha saputo toccare tutte le corde del cuore umano come l'Allighieri e nessuno ci ha fatto ridere più umanamente del Porta. Per capire però il Porta non basta saper l'italiano, ma si deve studiare il milanese, un dialetto molto celtico, che si parlava dieci secoli or sono in gran parte della Lombardia, quando l'Italia aveva più di venti dialetti diversi. E poi, anche senza Dante o senza il Porta, io avrei studiato l'italiano prima d'ogni altra lingua morta, perchè essa era la figlia prediletta e primogenita del greco e del latino e in sè concentrava i succhi di due fra le massime civiltà del mondo, e ad esse se n'aggiunse una terza di suo, non meno gloriosa delle altre. Parlando italiano si ripensa Socrate e Fidia, Aristotile e Apelle; si ripensa Cesare e Tacito; Augusto e Orazio; Michelangelo e Galileo; Leonardo e Raffaello. Mai nessuna altra lingua ebbe una genealogia più nobile e più grande. Ecco anche perchè, quando si fondarono gli Stati Uniti d'Europa, per facile consenso di tutti, Roma fu scelta a capitale. - Paolo mio, tu mi fai troppo superba di essere romana! E di nuovo i due fidanzati tacquero, mentre il loro idrotaco scorreva sulle onde del golfo, rompendo ad ogni suo movimento le maglie della rete d'argento, distesa sul pelo dell'acqua. Intanto si avvicinavano all'antico Arsenale di Spezia e un suono monotono e lugubre giungeva al loro orecchio; ora confuso e appena percettibile, ora chiaro e distinto; secondo le vicende della brezza notturna. Gli occhi di Paolo e di Maria si volgevano là donde quel suono veniva e pareva che sorgesse dall'onda, dove un corpo rotondo galleggiava sull'acqua, come un'immensa testuggine marina. Verso quel punto diressero la loro navicella e il suono si andava facendo più forte e più triste. A pochi passi da quel corpo galleggiante fermarono l'idrotaco. - Che cos'è questo corpo? - È un'antica boa, a cui i barbari del secolo XIX attaccavano le loro corazzate maggiori. È rimasta qui dopo tanti secoli arrugginita e obbliata per memoria di un tempo, che per fortuna degli uomini non ritornerà più. Intanto il suono triste e monotono, che usciva dalla boa, era divenuto chiarissimo. Era un suono doppio e straziante, fatto di due note; un lamento e un tonfo. Prima era un ihhh stridente e prolungatissimo, e poi, dopo una pausa breve, un bumhh cupo e profondo, e una nuova pausa, e un ripetersi incessante del lamento e del tonfo. Anche il cuore umano misura il breve giro del quadrante della vita con due suoni alterni, un tic e un tac; ma son suoni allegri, quasi festosi. Quell'ihhh e quel bumhh invece sembravano i palpiti di un cuore gigantesco e straziato, che battesse il tempo del nostro pianeta. - Dio mio, dimmi, Paolo, perchè quella boa si lamenta? Par che soffra e pianga. - Pazzarella, - rispose egli, sorridendo forzato. - Il lamento è lo stridere dell'anello arrugginito della boa e il tonfo è il batter dell'onda sulla cassa vuota. Paolo però, dando la spiegazione fisica di quel suono alterno, era preoccupato da altri pensieri, che spaziavano in un mondo più alto e più lontano. E i due tacquero ancora e lungamente. - Andiamo via, torniamo a terra, questa boa mi fa terrore, mi fa piangere. - Hai ragione, andiamo via. Questo lamento rattrista anche me. Mi par di veder qui l'immagine dolorosa di tutta la storia umana. Un lamento, che sorge dalle viscere dei bambini appena nati, dei giovani straziati dall'amore, dei vecchi che hanno paura della morte; di tutti i malcontenti, di tutti gli affamati di pane o di gloria, di ricchezza o di amore. Un lamento, che si innalza da tutto il pianeta, che piange e domanda al cielo il perchè della vita, il perchè del dolore. E a quel lamento di tutto il pianeta risponde il destino, il fato con quel tonfo cupo e profondo: Così è, così deve essere, così sarà sempre. - No, Paolo, non è così, non sarà sempre così! Pensa alle corazzate omicide che non ci son più, pensa alla guerra che più non esiste; pensa al progresso che mai non posa. Anche questa boa, che sembra ripeterci coi suoi palpiti l'eterno lamento dell'umanità, e la crudele risposta del fato, tacerà un giorno, disciolta dalle acque del mare ... - E così sia, - disse Paolo, accelerando il moto della navicella, per fuggire all'incubo di quel suono lamentevole e straziante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Al mattino seguente il sole più fulgido brillava nel cielo di Spezia invece della luna. La vita operosa del lavoro teneva dietro alla malinconia della notte; e i due fidanzati, dopo aver visitato alcune carcasse delle vecchie corazzate, rimontando nell'aerotaco, spiccarono il volo verso Oriente, donde sempre è venuta agli uomini colla luce del giorno la speranza, che mai non muore.

E ne abbiam altri, che col loro talento e il lavoro indefesso perfezionano le scoperte dei primi; nè è cosa giusta, che essi abbiano gloria eguale agli altri. È il concorso dei più, è il voto dei membri della grande Accademia di Andropoli, che decide quale sia il monumento, che deve essere innalzato alla memoria del grande scomparso. E il giudizio non è pronunziato che dopo una lunga e profonda discussione.

Così pure esclusi tutti gli avvocati e quelli che abbiano interessi comuni colle imprese dello Stato. La rappresentanza del popolo però è divenuta un po' più sincera e seria; dacchè ad ogni votazione importante, ad ogni atto politico di grande gravità, sia pur di un ministro, di un deputato o di un senatore, gli elettori del Collegio hanno diritto di riunirsi in comizio straordinario e di dare un voto di disapprovazione al loro rappresentante. Questi cessa da quel momento di essere membro del Parlamento o del Gabinetto e dev'essere sostituito per via di una nuova elezione. Questa ed altre riforme di minor conto hanno migliorato in Logopoli l'antica forma parlamentare, ma vi rimangono sempre queste due infermità organiche:... Quella di fabbricar le leggi con una commissione di troppi individui, facendole mutevoli ad ogni accidente od incidente di persone o di cose. E l'altra di mutar sempre al capriccio vagabondo degli elettori coloro che devono dettar le leggi e reggere il timone dello Stato. *** I nostri compagni non visitarono tutti gli Stati dell'Isola degli esperimenti, ma soltanto i principali. Oltre gli egualitarii, oltre Tirannopoli, Turazia e Logopoli, vi sono altre genti e altri paesi governati diversamente. Basta che un centinaio di uomini pensino un'utopia sociale nuova o ne ripensino una antica già sepolta da secoli, ed essi sanno che nell'Isola di Ceilan si trova sempre un piccolo o grande territorio vergine, dove possono fondare la nuova Repubblica o la nuova Teocrazia. E così si fanno e rifanno gli esperimenti: così sorgono e muoiono città e falansteri e organismi nuovi e bizzarri; che servono poi di svago ed anche di scuola agli uomini politici degli Stati Uniti planetarii. Paolo e Maria seppero infatti, che Ceilan possiede oltre gli Stati da essi visitati: Poligamo, staterello a governo semidispotico, dove ogni uomo ha molte mogli. Poliandra, altro Stato, dove invece ogni donna ha molti mariti. Cenobia, una immensa città ieratica, da cui sono escluse le donne e gli uomini vivono in un ascetismo continuo. Monachia, piccola città tutta di monache date al culto di Saffo. Peruvia, uno Stato comunista, dove si ricopia l'antico regime socialista dell'Impero degli Incas; e dove la proprietà, essendo tutta dello Stato, si presta a ciascuno secondo i suoi bisogni, allargandone la frontiera secondo il numero dei figli. Così pure il lavoro, vien distribuito nei diversi giorni della settimana per sè, per i poveri e i malati, per il re e i principi e per le spese del culto.

Agli uomini del secolo XXXI pare molto strano che i loro padri per tanti secoli abbiano affaticato tanto per saldare insieme colla calce mattoni e pietre, mentre si possono fare le case per colatura, come si fa per una statuetta di gesso. Le vie hanno tutte un nome e le case un numero e la città è divisa in tante regioni, contraddistinte dalla loro posizione astronomica. Nel centro di Andropoli non si può negare che il rumore non sia alquanto molesto, benchè assai minore che nelle vie dell'antica Parigi e dell'antica Londra. Soppresse le locomotive e i carri trascinati dai cavalli o da altri animali s'è già tolta una grande molestia di rumori assordanti e di fumo; ma i veicoli elettrici terrestri e aerei non sono muti, e l'andare e il venire e il parlare di migliaia di persone che si affollano nella città centrale, producono un brusìo molto forte. E lo sanno i letterati e la gente tranquilla, che abita sempre lontana dal centro, nelle vie più solitarie, e dove d'altronde, come in tutto il resto della città, il pavimento, essendo fatto di una materia simile al sughero e al caucciù, spegne in gran parte i rumori delle ruote e dei passi dei viandanti. Tutto questo videro i nostri viaggiatori, facendo a piedi lunghe corse nelle vie e nelle piazze di Andropoli. Si riserbavano poi di visitare tutti i grandi edifizi pubblici della città onde studiare la vita di questa grande metropoli del mondo. Intanto vollero visitare la grande officina dinamica e il mercato, cioè i due grandi centri, dai quali partono la forza e l'alimento. In questo loro viaggio di scoperta non si saziavano di ammirare le molte e grandi piazze aperte là dove confluivano molte vie. Ve n'erano di quadrate, di rettangolari, di ettagone, di esagone; ma per lo più erano rotonde, tutte molto ampie e rallegrate da alberi, da aiuole fiorite e da fontane pittoresche, delle quali non si potevano vedere due che fossero eguali. Sotto gli alberi si vedevano comodi sedili, dove chiunque poteva mettersi a riposare o ad ammirare le statue, i fiori, le fontane. Le fontane non potevano essere nè più belle, nè più fantastiche. In una delle piazze maggiori si innalzava un monte artificiale, fatto di rupi accatastate pittorescamente le une sulle altre. Fra i sassi eran piantati arbusti e piante alpine, che scapigliate pendevano dai dirupi e dalle frane; e licheni e felci e morbide borracine davano alle pietre una vita fresca e gaia, che copiava quella della natura montana. L'acqua zampillava dall'alto, ora precipitandosi rumorosa in piccoli precipizii, ora si raccoglieva in un ruscelletto argentino, ora si spargeva sopra una roccia nera come l'antracite e scintillante di cristallini di mica, quasi fosse la ricca chioma di una ninfa, che avesse sparsi i suoi capelli per l'aria. E tutte quelle acque si riunivano in basso nel seno tranquillo di un laghetto, dove guizzavano pesci e pesciolini d'ogni colore e nuotavano tranquilli e maestosi cigni, anatre, uccelli acquatici delle più lontane regioni del globo. Altre fontane erano di stile classico antico, altre barocche con draghi e delfini, che vomitavano l'acqua dalle loro faccie. Anche il Geiser dell'Islanda era raffigurato in un'altra fontana, dove da massi tondeggianti di agata bionda salivano al cielo cento zampilli d'acqua, che nella notte, illuminati dalla luce policroma dell'elettricità, davano all'occhio una festa di colori, che non si sarebbe saziato mai di ammirare. Le piante, i fiori, le fontane non erano però l'unico ornamento delle piazze, dove si innalzavano statue di grandi uomini di tutti i paesi del mondo. Nè le statue erano innalzate a caso; ma ogni piazza era desinata ad illustrare le glorie di un'epoca storica o di un paese. L'elemento storico però predominava sul geografico, perchè gli uomini civili del secolo XXXI si erano facilmente convinti, che i genii di un'epoca si rassomigliano fra di loro assai più che non gli uomini grandi di uno stesso paese; essendo il tempo un complesso di elementi infiniti, che si sommano; mentre l'elemento geografico è uno solo e spesso riunisce in una sola famiglia e per caso uomini troppo diversi e spesso contradditorii. In una piazza ad esempio si vedevano le statue dei più grandi uomini dell'antica Grecia; in un'altra quelli di Roma imperiale; in una terza erano raccolti i genii del rinascimento toscano e che da soli bastavano a popolare una delle maggiori piazze d'Andropoli. Altrove si ammiravano le statue dei politici inglesi, quelle dei filosofi tedeschi e così all'infinito. Ai piedi delle statue null'altro che il nome e la data della nascita e della morte. Paolo e Maria dovettero prendere in affitto per un paio d'ore un tandem elettrico per visitare l'Officina dinamica, che era molto lontana dal loro albergo. Quell'officina emergeva da tutte le altre case, tutte basse, a guisa di un colosso posto fra pigmei. Era un vero palazzo, semplice e severo nella sua architettura e dove il bello era sagrificato all'utile e all'indispensabile. Il direttore, a cui erano raccomandati, servì loro da cicerone, ma essi dopo aver visto l'Isola di Dinamo, avevano poco di nuovo da ammirare e poco da scoprire. Quest'officina riceveva da quell'isola direttamente tutta quanta la energia motrice necessaria all'immensa metropoli e non faceva che distribuirla. Ciò che era ammirabile era un quadrante posto nel centro dell'edifizio e dove erano segnate tutte le forze diverse, che ogni giorno dovevano essere distribuite ai privati e agli edifizi pubblici. Un solo operaio sopraintendeva a questa distribuzione regolare e quotidiana; mentre in una camera vicina parecchi operai stavano attendendo le richieste di forze straordinarie, che ora chiedevano maggior luce, maggior calore e un più grande tributo di acqua. Si fermarono per una mezz'ora in quel riparto ad ammirare l'ordine ammirabile, con cui giungevano le richieste e la prontezza con cui erano soddisfatte. Vi era un impiegato addetto all'acqua, un altro alla luce, un terzo al calorico, un quarto alla forza meccanica, un altro per l'elettricità; fosse poi dell'antica o della nuova. Le richieste giungevano non coll'antico telefono, che però si era molto perfezionato, ma per dispacci telegrafici, che si scrivevano da sè in caratteri luminosi in una cassetta nera e tenuta nell'oscurità. Il Direttore mostrò a Paolo e Maria parecchie di queste richieste. Nel banco della distribuzione della forza meccanica si lesse, dopo uno squillo di campanello che metteva l'operaio sull'attenti: Fabbrica di macchine agricole. Società Edison, - Regione Sud- ovest. - Via Volta, N. 37. Domani gli operai saranno cresciuti di un terzo. - Occorre un terzo di più di forza meccanica. Poco dopo uno squillo avvertiva l'operaio del banco della luce, che si richiedeva la sua attenzione. E infatti sul quadro oscuro si potevano leggere queste parole: Regione Nord-est. - Via Omero, N. 59. Questa sera festa di ballo in famiglia. - Occorre per tutta la notte luce triplicata. In una sezione speciale stava scritto: Accidenti. E il campanello chiamava l'operaio sull'Attenti. Infatti la camera oscura diceva: Regione centrale. - Palazzo dell'Accademia di belle arti. Sviluppato, un piccolo incendio nella sala della stampa. Qui anche il Direttore si appressò con certa inquietudine al banco e prese il posto dell'operaio, rispondendo per telegrafo: Aprite subito il rubinetto dell'acido carbonico e dirigete il tubo conduttore del gas sul luogo in cui si è sviluppato l'incendio. Se il fuoco non si spegne subito, avvertite. Pochi momenti dopo si leggeva nella camera oscura: Fuoco spento. - Mille grazie. Il Direttore si mise a sedere e volgendosi ai suoi visitatori: - Vedete, a questi membri dell'Accademia di belle arti, insieme al mio consiglio avrei mandato ben volentieri e telegraficamente uno schiaffo. Dovete sapere, che ogni edifizio pubblico ha un serbatoio di acido carbonico liquido, a cui si possono adattare in pochi minuti tubi elastici, che si possono guidare dove si vuole, dirigendo sulla fiamma o sugli oggetti che bruciano una forte corrente di gas, che in pochi istanti spegne la fiamma e l'incendio. Ma questi benedetti artisti disdegnano la scienza, che mettono spesso e volentieri in canzonatura, e ignorano quasi sempre fin gli elementi della fisica e della chimica; ciò che non toglie che quando succede loro il più piccolo accidente, si mettono le mani nei capelli invocando la scienza, che essi avevano disprezzato. Voi avete assistito ad una di queste scene. Perdoniamo però a questi ignoranti volontarii i loro capricci, perchè sono essi, che colle loro opere mirabili ci fanno benedire la vita. *** Un altro giorno i nostri due pellegrini vollero visitare il mercato, o dirò meglio i mercati, che occupano un'intera collinetta di Andropoli. Essendo piuttosto ripida la salita, vi si sale e si scende per vie funicolari. Alcune sono per il trasporto delle derrate, altre per le persone. Tutto quel movimento di treni, che salgono e scendono senza posa, tutti quei carri di fiori, di frutta, di selvaggiume, di pesci, di carni, formano uno spettacolo curioso, bizzarro, interessantissimo. Nessun carro alimentare però era scoperto, ma ciò che vi era dentro si vedeva benissimo, essendo i veicoli chiusi da vetri trasparentissimi. Sull'alto del colle si distende un largo altipiano, dove in distinti edificii si vendono qua i pesci, là le carni: più in là le verdure, i legumi, le frutta, i fiori. E dovunque un entrare, un uscire di gente, che carica sui vagoni la merce comprata con un indirizzo. Nessuno la porta da sè, perchè una società si incarica con appositi impiegati di far ricapitare nelle singole case le cose comperate. Il cuoco, il cameriere, il signore non fanno che scegliere ciò che vogliono acquistare e lo consegnano poi agli agenti distributori. Paolo e Maria si fermarono più a lungo nel mercato dei fiori e in quello delle frutta. Nel primo era tale una festa per gli occhi da inebbriare, tale un profumo da ricordare le delizie dell'amore. Nel secolo XIX i giardini erano già una meraviglia, perchè riunivano in piccolo spazio fiori venuti da tutte le parti del globo e le serre calde e le fredde permettevano di coltivare anche nei paesi temperati e nelle zone fredde le piante del tropico. Figurati che fin d'allora in Russia alcuni ricchi signori raccoglievano l'uva nelle loro immense serre e ne facevano vino, e in Norvegia si coltivavan le orchidee dell'America centrale. Oggi però l'arte di coltivare i fiori ha fatto passi da gigante, perchè non soltanto il giardiniere può in un mazzo solo mettere insieme i fiori delle sei parti del mondo, ma produce fiori nuovi con artifizi complicatissimi di fecondazione artificiale e di concimi chimici. Si è riuscito perfino a far fiorire le piante e a far maturare i frutti in tutte le stagioni dell'anno. Una volta la luce del sole non poteva esser sostituita da alcuna altra luce, e anche i frutti, che artificialmente si ottenevano fuori della loro stagione naturale, erano insipidi; così come i fiori non avevano il loro profumo e le loro bellezze. Oggi invece un frutto o un fiore raccolto nell'inverno nelle serre calde non può per nulla distinguersi da quello che dà nell'estate la natura sotto l'azione potente del sole. Il numero dei fiori coltivati è oggi almeno mille volte maggiore che non fosse nei secoli XIX e XX, non solo perchè non v'ha più un cantuccio del nostro pianeta, nè la più lontana delle foreste, che non ci abbia dato il tributo delle sue piante e dei suoi fiori; ma anche perchè l'arte ha saputo creare specie nuove, che non sembrano al primo aspetto avere parentela alcuna colle specie che nascono spontanee nel prato e nel bosco. Nel mercato dei fiori si vendevano anche piante vive e fiori imbalsamati, che sembravano freschi e che ingannavano l'occhio di tutti. Dal mercato dei fiori Paolo e Maria passarono in quello delle frutta. Anche qui un incanto per gli occhi, un profumo per il naso. La bellezza dei fiori sta a quella dei frutti, come fra loro stanno i loro profumi. Nei fiori la bellezza è il fascino primo, che li rende le più care creature della terra. Si direbbe che in essi il sommo fra i coloristi della Scuola Veneta si è alleato col principe del disegno della Scuola Greca; per cui la profusione, la varietà e l'intreccio dei colori non sono vinti che dall'eleganza, dalla purezza o dalla bizzarria del disegno. Là dove il colorista innamorato, nell'esaltazione del suo amore per il colore, lo getta a piene mani, in eccesso, col pericolo di cadere nel barocco e nella pletora del troppo, si fa innanzi il pittore del disegno, che nell'originalità e l'eleganza delle linee fa tale una cornice all'orgia dei colori, da far dire a tutti: Oh che santi e cari alleati! Oh come stanno bene insieme nella feconda creazione del bello! E quando il disegno sarebbe troppo severo, troppo semplice o rigido, viene subito il colorista colla sua inesauribile tavolozza a dar vita e gioventù al calice troppo gretto, alla coppa troppo classica; e il fiore par che risponda ai suoi due genitori: Grazie, grazie! Se i fiori son tanto belli da bastare essi soli per dettare un trattato d'estetica a chiunque (purchè egli non sia un filosofo ); anche i loro odori sono la poesia del profumo, che ha in essi forse un numero maggiore di note, che non abbia la musica. E non hanno dessi la delicatezza e la fugacità di un sogno, che fra le palpebre socchiuse, compare e sparisce e s'indovina più che non si senta? E non hanno forse anche la nota dell'aroma più ardente e più caldo, e la voluttà profonda, che sembra un contatto di carni innamorate e il piccante e il frizzante e l'etereo e il vaporoso e il solleticante e tante e tante altre delizie, a cui il nostro linguaggio tanto imperfetto nega lo stampo di una parola? E così nei frutti forme e colori e profumi stanno tra di loro nello stesso rapporto come bellezza di forme e soavità di odori stanno nei loro padri, e fratelli, i fiori. Il profumo delle frutta non ha la poesia di quello dei fiori; e se nell'ammirazione di questi, il primo grido dell'anima è: Oh belli! nell'ammirazione dei frutti, il grido invece e quest'altro: Oh buoni! Così le forme dei frutti sono molto più semplici e poche, così i loro profumi hanno poche note. Possono essere piacevoli, di raro inebbrianti, possono essere forti, di raro o mai voluttuosi. Son profumi che son quasi sapori, e che stanno a quelli dei fiori, come l'amicizia sta all'amore. E non son forse i fiori gli amori delle piante? E non son forse i frutti le amicizie generate dall'amore? A tutto questo pensavano e tutto questo sentivano i nostri viaggiatori, passando dal mercato dei fiori a quello dei frutti. Anche qui vedono e ammirano raccolti in una stessa bottega le fragole, i lamponi, i manghi, i mangostani, le banane di cento varietà, i cocchi, gli ananassi, le cirimoie e le pere e le mele e tanti e tanti altri frutti, che il secolo XIX non conosceva ancora. Fra essi la pata, che un argentino ha saputo strappare alle foreste vergini della sua patria e coltivare in Europa, facendone un frutto, per profumo e per sapore rivale della pesca. Eppure un certo Mantegazza l'aveva fin dal secolo XIX additata come un frutto silvestre del tutto sconosciuto agli Europei. Paolo e Maria, passando dinanzi a un banco, dove erano esposte montagnole di arancie e di mandarine, videro un monello, che ghermiva, una delle più belle e delle più grosse e se la svignava; non però tanto svelto da non esser veduto dalla venditrice, che gridava: Al ladro, al ladro! Appena fu udito questo grido, da tutte le parti del mercato si sentì esclamare ad alta voce, da uomini, da donne, da fanciulli: Giustizia, giustizia, giustizia! E in men che nol dico, il ladroncello fu ghermito da un signore, che alla sua volta gridava: Giustizia, giustizia! Nell'anno 3000 non vi sono carabinieri, nè poliziotti, nè guardie di pubblica sicurezza; ma ogni cittadino onesto è carabiniere, poliziotto e per di più anche giudice. In pochi minuti intorno al monello si raccolsero sei cittadini, che col signore, che l'aveva afferrato, bastavano ad improvvisare il tribunale, che si chiama la Giustizia dei sette. Il pubblico, dopo aver riconosciuto che il tribunale era costituito, si ritirò, facendo circolo intorno a quelli otto uomini; sette giudici, ed un colpevole. - Perchè hai rubato quest'arancia? - disse colui che aveva per il primo arrestato il piccolo delinquente. - Perchè avevo sete. - Ma quell'arancia non era tua. - No, ma la fruttivendola ne aveva cento e mille. - Non importa. Quelle arancie eran tutte sue. Dovevi chiederla o comperarla. Tu hai rubato e te n'andrai alla Casa di giustizia. Allora uno dei sette disse: - Io scendo appunto nella città e abito in quei pressi. Lo condurrò io stesso colà. Datemi la sentenza. Uno dei sette staccò un foglietto da un portafoglio che aveva in tasca e scrisse: Fanciullo ladro di un'arancia. Tutti i sette firmarono il foglio e l'accompagnatore lo prese e se n'andò col monello, che senza opporre resistenza, ma piagnucolando lo seguì. E tutto rientrò nell'ordine di prima. - Vedi, Maria, - disse Paolo, - tu hai assistito ad un giudizio e ad una sentenza, come si suol fare per tutti i delitti, anche pei maggiori. In questo caso si trattava del semplice furto di un'arancia, ma se quel ragazzaccio avesse rubato un diamante o un portafogli pieno di denaro o avesse dato una coltellata ad un suo compagno, si sarebbe gridato egualmente: Giustizia, giustizia! E nello stesso modo si sarebbero riuniti sette galantuomini, avrebbero fatto un giudizio sommario e avrebbero condotto il colpevole alla Casa di giustizia. E questa Casa non è già un carcere, come quelli che si usavano anticamente, ma una specie di scuola, dove si correggono i colpevoli: dove si studiano con amore le cause, che possono aver condotto a delinquere. Maria interruppe Paolo: - Ma tu mi hai detto, che alcuni specialisti esaminano il cervello dei bambini appena nati e quando scoprono in essi una tendenza irresistibile al delitto, li sopprimono. - E questo è vero, - rispose Paolo, - ma non si distruggono che i delinquenti nati, cioè coloro, che per la speciale e fatale organizzazione delle loro cellule cerebrali sono necessariamente consacrati al delitto. Essi ucciderebbero e ruberebbero anche se nascessero ricchi, anche se la fortuna li mettesse nelle condizioni più felici. Queste però sono rarissime eccezioni. Tutti gli altri uomini nascono onesti, ma sono figli di lontanissimi padri, che vivevano nella vita selvaggia, che rendeva necessaria la violenza, e conservano nel loro cervello un germe celato del delitto, che in circostanze favorevoli può svilupparsi e condurli a uccidere o a rubare. Non vi ha uomo su questa terra, che in un impeto subitaneo di passione non possa per odio o per vendetta rendersi colpevole di un omicidio o di un furto. La nostra civiltà cerca da secoli di educare l'uomo in modo di sopprimere, di soffocare quei germi atavici; mentre d'altra parte si cerca di organizzare la vita sociale in modo che il delitto sia inutile e dannoso a chi lo commette. Un tempo la giustizia umana non si occupava che di punire: oggi invece cerchiamo di prevenire la colpa, rendendola difficile o impossibile. E che questo lavoro della civiltà non sia inutile, lo prova la statistica del delitto, che lo dimostra sempre più raro. Ciò non toglie che abbiamo sempre dei ladri e degli assassini. Il progresso morale è assai più lento del progresso intellettuale, ma non dobbiamo disperare che un giorno l'uno si metta a livello dell'altro. - Dunque oggi non si puniscono più i delitti? - Sì, ma la pena è ridotta alla perdita temporanea della libertà. Non ti pare forse una punizione sufficiente quella di essere segregato dal consorzio umano? Nella Casa di giustizia, il ladro, l'assassino son tenuti chiusi, mentre si cerca di dimostrar loro l'enormità della colpa commessa persuadendoli che il delitto non è soltanto una colpa, ma è un errore e una cattiva speculazione. La chiusura non dura che pochi giorni o poche settimane ed è caso molto raro che si prolunghi ad alcuni mesi E la punizione non finisce lì, perchè quando il colpevole è rimesso in libertà porta per qualche tempo all'occhiello dell'abito un nastrino giallo, che segna in lui un marchio di infamia, per cui tutti lo guardano con diffidenza e sospetto. I ladri lo portano di color giallo, gli assassini o tutti quelli che hanno commesso atti di grande violenza, lo portano rosso. E quel segno non si toglie che dopo che il colpevole ha mostrato colla sua condotta di esser ritornato nel grembo dei galantuomini. - E quando il delinquente è recidivo? - Oh allora, la pena della prigionia è raddoppiata o triplicata secondo i casi, e il colpevole, uscendo dalla Casa di giustizia, porta due nastri invece di uno. Ciò avviene però rarissime volte e per lo più in delinquenti nati, che per errore dell'esame cerebrale, son sfuggiti alla soppressione. *** Pochi momenti dopo Paolo e Maria, scendevano dal mercato, dopo aver comprato molti fiori e molte frutta e ritornavano al loro albergo.

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