Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Questa è la speranza del prefetto, che gendarmi e guardie abbiano di mira il solo Franco. Egli è tanto smilzo, tanto alto: né il finto Puttini né la finta Marianna possono dar sospetto di esser lui. Il loro destino è ormai fuori delle sue mani mentre per Franco egli può far molto ancora. Si incammina verso Cressogno, confidando che a Cressogno Franco arriverà sano e salvo se i gendarmi non ne trovano nuove tracce, perché lo cercheranno su tutti i sentieri che da Castello menano al confine e non mai sulla via di Cressogno. Pedraglio e l'avvocato fecero il primo tratto di strada, da Albogasio alle stalle di Püs, strisciando su per la ripidissima erta come gatti, a passi lunghi e cauti. L'avvocato camminava in silenzio, l'altro malediceva continuamente, sottovoce, il suo vestiario, "el loder d'on cappel" che gl'invischiava la fronte d'unto; "el boia d'un marsinon" che gli puzzava di troppi sudori antichi. Sino a Püs non incontrarono anima nata. A Püs una vecchia uscì tra le stalle un momento dopo ch'eran passati, disse stupefatta: "Sü per de chì, scior Giacom? A st'ora?". L'avvocato mormorò: "Boffa!", e l'altro si mise a soffiar "apff! apff!" come un mantice. "Se perd el fiaa per sti strad chì, cara lü", disse la vecchia. Non incontrarono più nessuno fino alla Sostra. La Sostra è una stalla a mezza montagna, circa, con un fienile, un portico e una cisterna, alquanto in disparte dalla strada. Quella strada è la più dannata che sia in Valsolda, farebbe cacciar la lingua a uno stambecco. Pedraglio e l'avvocato, trafelati, grondanti di sudore, entrarono un momento alla Sostra. Anche lì silenzio e deserto. A quella altezza si respirava già un'aria diversa. E come tutte le cime all'intorno erano abbassate! E come il lago, giù nel profondo, pareva diventato un fiume! L' avvocato guardava su amorosamente alla prima cresta del Boglia dove cominciava il gran bosco dei faggi; un'altra mezz'ora di arrampicata. "Andiamo", diss'egli. Ma Pedraglio che aveva nelle gambe la memoria dell'altra gran corsa da Loveno ad Oria per il Passo Stretto, chiese di sostare un altro poco e si mise tranquillamente a sfogliar lo scartafaccio del Puttini, un poema fratesco, inedito, d'un anonimo cremonese del secolo decimosettimo. "Andiamo!", ripeté il suo compagno dopo un paio di minuti , e si alzava già quando udì venir gente. Ebbe appena il tempo di dire "attento!" e di voltar le spalle per non lasciarsi vedere in viso. Pedraglio, pur ficcando il naso nello scartafaccio, vide spuntar sulla strada prima due guardie di finanza e poi due gendarmi. Avvertì l'amico sottovoce, non batté palpebra. Le due guardie si fermarono. Una di loro salutò: "Riverito, signor Puttini", e disse ai gendarmi: "È il primo deputato politico di Albogasio". I gendarmi salutarono pure, Pedraglio si levò il cappello, alzando un poco lo scartafaccio. Le guardie volevano fare un po' di fermata ma un gendarme intimò loro di proseguire e quando vide incamminata la compagnia venne alla Sostra egli stesso. Era di Ampezzo e parlava italiano benissimo. "Tu, cane, non mi conosci, spero", pensò Pedraglio con una torbida coscienza della sua doppia personalità. "Lascia fare a me." "Signor deputato politico", disse colui, "avrebbe veduto stamattina il signor Maironi di Oria?" "Io? Mai più. Il signor Maironi dorme, a quest'ora." "E Lei dove va?" "Vado lì su quel monte, su quel dannato Boglia lì. Vado su per l'affar del toro comunale." "Bestia", pensò l'avvocato. "Comunale me lo fa diventare!" Ma passò felicemente anche il toro comunale. Il gendarme, un muso da mastino, squadrò bene il suo interlocutore in viso. "Lei è deputato politico", diss'egli insolentemente, "e porta quella roba sul viso?" Pedraglio si prese istintivamente il suo piccolo sottile pizzo nero, barba reproba da liberale. "Taglieremo, taglieremo", diss'egli con serietà comica. "Sì signore. Va sul Boglia anche Lei?" Il gendarme se n'andò duro duro senza rispondergli, senza udire su quale ignominioso patibolo il deputato politico lo mandava. I due si rallegrarono a vicenda di averla scampata bella ma riconobbero che il giuoco si era fatto molto serio. Adesso bisognava contare con le guardie che conoscevano bene il Puttini, e saperne stare a distanza. E se quel mastino di gendarme parlasse della barba? "Su su", fece l'avvocato, "teniamo loro dietro e se li vediamo o li udiamo tornar giù, gambe in spalla e via a sinistra verso il confine." Partito disperato, quest'ultimo, perché non conoscevano il terreno, certo familiare alle guardie. Il mastino dovette sudare e ansar troppo dietro ai suoi compagni per aver poi voglia di parlar di barbe, Pedraglio e l'avvocato, salendo adagio, videro il nemico guadagnar la cresta del monte al faggio della Madonnina, fermarvisi alquanto e sparire. Il gran faggio antico che portava nel tronco una immagine della Madonna e che cedette, morendo, quest'onore a una cappelletta, era come la sentinella del gran bosco di Boglia, il soldato posto in una insellatura della cresta a spiar il pendio precipitoso, il lago, i clivi di Valsolda. Il venerabile esercito di faggi colossali stava tutto raccolto in un'altra conca silenziosa fra l'erta della Colmaregia, i facili Dorsi della Nave, le radici rocciose dei Denti di Vecchia o Canne d'Organo e l'altra sella del Pian Biscagno fra la Colmaregia e il Sasso Grande, fronteggiante le profondità della Val Colla da Lugano a Cadro. Una lista scoperta, erbosa, correva fra il faggio della Madonnina e il bosco, sull'orlo della cresta. I due fuggiaschi pensarono ai casi loro. Quale partito prendere? Cercar il sentiero sotto il faggio di cui aveva parlato la guardia salvatrice, o entrar nel bosco? No, entrar nel bosco non conveniva, con quella selvaggina che vi era entrata prima. Nel bosco avrebbero trovato un palmo di foglie secche. Era impossibile passarvi senza farsi correre addosso tutti i segugi che vi si aggiravano; e da vicino il travestimento non poteva servire. Prender il sentiero? Ce n'era più d'uno, sotto il faggio; qual era il buono? Pedraglio maledisse Franco che non era venuto con loro. Invece l'avvocato studiava la Colmaregia che si poteva salire senza entrare nel bosco. Egli era stato due volte sulla Colmaregia, il superbo, sottile vertice erboso del Boglia, tagliato per metà dalla linea di confine; sapeva ch'era possibile scendere di lassù al villaggio svizzero di Brè e risolse di tentar quella via. Sulla cresta che ascende dal faggio della Madonnina verso la Colmaregia non si vedeva nessuno. La punta era avvolta nelle nuvole. Pochi passi sotto il faggio i due furono colti da un'ondata di nebbia che venuta su per un versante si riversava rapidamente per l'altro, una nebbia fredda e densa, un "Dio fece" disse V. Non si vedeva niente a cinque passi. Così avvenne che, presso al faggio, Pedraglio andò quasi a urtare una guardia di finanza. Era uno dei quattro e aveva la consegna di sorvegliare la lista scoperta fra la cresta del monte e il bosco. Visto l'ometto dal cappellone, fece: "In Boglia, signor ...?". L'avvocato si sbarazzò immediatamente della gerla. Infatti la guardia non compié la frase, restò un momento a bocca aperta, poi esclamò: "Come?". L'avvocato non aspettò altro. "Così", diss'egli placidamente; e raccoltisi sul petto i due pugni in uno ne menò a colui nello stomaco una terribile puntata che lo buttò sul prato a gambe all'aria. Pedraglio gli saltò subito addosso, gli strappò la carabina. "Se gridi, cane, ti brucio", diss'egli. Ma che gridare? Con un pugno di V. nello stomaco non c'era, per un quarto d'ora, neanche da tirare il fiato. Infatti l'uomo pareva morto e ci volle del buono perché arrivasse a gemer sottovoce "ahi ahi!". "L'è nient, l'è nient", gli diceva V. con la solita flemma canzonatoria. "Sono scosse che fanno bene. Vedrà. Lü adess el se drizza in pee ben polito e viene con noi in Colmaregia. Vedrà come va bene. Non ho adoperato questo a posta." E gli mostrò la chiave. "Oh che pugno!", gemeva la guardia. "Oh che razza di pugno!" "La salita è un po' maledetta", riprese l'avvocato pigliando la carabina dalle mani di Pedraglio. "Ma noi le terremo su, con licenza, il di dietro con questo affare qui. A questa maniera si va su che l'è un piacere. Poi Lei viene giù con noi a Brè. La carabina gliela portiamo noi. Lei, per compenso, ci porta una piccola gerla. Parli polito? Andemm, marsch!" Il disgraziato non riusciva a mettersi in piedi e non si poteva certo lasciarlo lì a rischio che poi si mettesse a chiamar aiuto. "Mincion!", fece Pedraglio. "Ghet daa tropp fort!" V. rispose che gli aveva dato un pugno da donna, restituì la carabina all'amico e ghermita la guardia per il colletto dell'uniforme, la tirò in piedi, le fece imbracciare la gerla. "Andem, lizòn", diss'egli. "Poltronaccio, andiamo!" Su tra il nebbione freddo e denso, su, su. L'erta è ripidissima, si dura fatica a piantar la punta del piede fra i ciuffi dell'erba molle, si sdrucciola, si lavora di piedi e di mani, ma fa niente, su, su, per la libertà. Su tra il nebbione, invisibili come spiriti, prima la finta Marianna, poi la guardia che soffia e geme sotto il peso della gerla, poi il finto sior Zacomo che le promette le belle viste e la urta con la carabina. La carabina fa miracoli. In mezz'ora i tre raggiungono la cresta che scende verso Bré, pochi passi sotto il cocuzzolo. Allora siedono sull'erba e giù, e giù a precipizio, scivoloni. Si mette a piovere, la nebbia si dirada, ecco in fondo, tra i piedi, il rosso dei boschi cedui. Primo vi arriva di volo il venerabile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbasso da Pedraglio con un "viva l'Italia!" mentre scivola a braccetto della guardia. A Bré Pedraglio fece correre tutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì anesone triduo agli uomini e mezz'once alle ragazze, domandò al curato di poter appendere in chiesa il "marsinon" per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con la guardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugni nello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poema fratesco che finiva così: A questo punto il Padre Lanternone Disse: ho mutato ancor io opinione. Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternone poteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fece buttar via l'uniforme e indossare il "marsinon" fra le risate e gli applausi. Il solo che non rideva era l'avvocato. "E quel povero Maironi?", diss'egli. Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappelletta di Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontana di Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, si mise a salir per quella e all'ultima svolta che fa sotto Castello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatro di dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero da capre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a Villa Maironi senz'aver incontrato nessuno. Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, quasi, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel momento c'era il medico. Franco decise di attender che uscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva i gendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto e Franco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poiché gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato della nonna. L'Aliprandi era stato chiamato nella notte ed era venuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva trovato dell'agitazione nervosa, una terribile paura di morire ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tranquilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla cameriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscì dalla camera. Le imposte socchiuse della camera dove la marchesa giaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lame di luce grigia che non giungevano alla faccia supina sul guanciale. Franco, entrando, non la vide, udì solo la nota voce dormigliosa: "Sei qui, Franco?" "Sì, addio nonna", diss'egli e si chinò a darle un bacio. La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo aveva però qualche cosa di vago e di scuro che pareva insieme desiderio e sgomento. "Muoio, sai, Franco", disse la marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli aveva detto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avidamente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gli avesse proprio detto così. Poi rispose: "Non fa niente. Son pronta". Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce, Franco intese perfettamente che la nonna era pronta a vivere altri vent'anni. "Mi rincresce della tua disgrazia", diss'ella, "e ti perdono tutto." Non eran parole di perdono che Franco si aspettava da lei. Egli credeva esser venuto a portarlo il perdono, e non a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa di ogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesa di un'ora. Voleva bene acquistar la pace ma come un sordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spremendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo piacere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altri momenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sdegnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nel cuore, non poteva essere così. Aveva però notato che la nonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questo no, non glielo poteva permettere. "Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sofferto molto", diss'egli, "prima dell'ultima sventura; e adesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lo zio Ribera lo metto fuori di causa; davanti a lui bisogna che ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed io abbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicenda." Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tacque. Benché non vedesse più la morte al suo capezzale aveva però nel cuore lo sgomento dell'Apparizione e di certe parole del prefetto che l'aveva confessata. "Farò testamento", diss'ella, "e desidero che tu sappia che tutta la roba Maironi sarà per te." Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Credeva ella di aver comperato la pace con questo? Qui veramente aveva sbagliato anche il prefetto perché il consiglio di far questa dichiarazione al nipote gliel'aveva dato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapace di comprendere l'alto animo di Franco. A Franco l'idea che si potesse credere esser egli venuto per interesse, riuscì intollerabile. "No no", esclamò fremendo tutto e temendo del proprio sangue focoso, "no no, non mi lasciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi a Oria. La roba Maironi, nonna, lasciala all'Ospitale Maggiore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a tenerla!" La nonna non ebbe tempo di rispondere perché fu picchiato all'uscio. Entro il prefetto e fece che Franco pigliasse congedo per non stancare l'ammalata. "Bisogna sbrigarsi!", diss'egli, fuori. "Qui hai fatto più che il tuo dovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gendarmi possono capitare da un momento all'altro. Ho combinato tutto coll'Aliprandi. L'Aliprandi suppone che per la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia la gondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. I due barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantelli di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta a poppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in testa sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi faranno neanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non ti riconosceranno. Se c'è da parlare, parla Carlino." L'idea era buona. La gondola della marchesa era sempre guardata dagli agenti dell'Austria con grande rispetto come se portasse un uovo dell'aquila dalle due teste; anche quando ritornava da Lugano non si faceva approdare alla Ricevitoria che pro forma . La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbie delle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste triste giorno, triste triste viaggio! Né Franco, né il domestico, né l'Aliprandi parlarono mai. Passarono San Mamette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi di Mainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gli occhi di Franco si riempirono di lagrime. "No, cara", egli pensa, "no, amore, no, vita, tu non sei là dentro e sia benedetto il Signore, che mi dice di non credere questa cosa orribile!" Poche remate ancora ed ecco la casetta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la finestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore tenebroso, la loggia dove passerà quind'innanzi solo le sue giornate il vecchio zio Piero, l'uomo giusto che discende silenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba. Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la sua partenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dalla Polizia. Guarda, guarda, non vede persona viva né sulla terrazza né in giardinetto né alle finestre della loggia; tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare, vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Aliprandi apre lo sportello di poppa del felze e lo supplica di remare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affaccia alla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano, guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero è in loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli portano, nulla dev'essere successo. Franco torna a remare e il dottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto, passano le case di Oria, la gondola piega all'approdo della Ricevitoria. Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrello, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene ad ossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Aliprandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie della dama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la sua Peppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveretta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitano l'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione gli permette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cressogno e il dottore si volta a Franco, dice: "Andiamo!". Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le mani sul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi amici e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia né d'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nella China. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo, gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre il confine, nella nebbia. Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo sportello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma si abbracciarono come fratelli. "Quando verrà l'ora delle cannonate", disse l'Aliprandi, "ci sarò anch'io." Convennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima, solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore doveva pure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, del resto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che un medico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scesea terra, andò all'albergo della Corona. Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita, egli usci in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviò alla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoi amici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a un vecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione. Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmacia si diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia di trovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi! Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompagnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolo mondo antico luganese, artista e degno che un altro artista, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era un tal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che a quei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscure vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con il suo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suo nobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo ma pulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pronto sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adoratore della propria città, egli viveva di pane, formaggio e acqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro gli onori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende, sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e Villa Chialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meraviglia del mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compiaceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classico accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirategli dalla sala da pranzo: "ca l'è poeu quand ca ga disi: Le trombe squillano Nel gran salone, Ai suoni accordisi Questa canzone. Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedraglio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li aveva condotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie di Franco. "Come?", diss'egli dopo l'incontro. "È questo il Loro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquila rapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fatto anni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivoluzione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho descritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Maroggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi: O baldi figli di Lombardia, V'apre le braccia Lugano mia. È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Adesso corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentire all'albergo." "Madonna!", fece Pedraglio.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682209
Salgari, Emilio 4 occorrenze

"Che quegli abitanti ci abbiano visti?" disse O'Donnell. "Lo credo" rispose l'ingegnere. "L'atmosfera è pura e il nostro Washington si può distinguere ad una grande distanza." "Che disgrazia il non poterci fermare!" disse O'Donnell, sospirando. "Saremmo certi di venire raccolti." "Non possediamo più le àncore, mio povero amico." "Dannati naufraghi! Ci è costato caro, ben caro l'averli aiutati!" "E vero, O'Donnell, ma inutili sono i rimpianti." "Credete che quei naufraghi riescano a salvarsi?" "Lo credo, avendoli incontrati a breve distanza dalle Canarie; e poi questo tratto d'oceano è frequentato dalle navi a vela che scendono fino alle isole del Capo Verde per approfittare degli alisei." "Potessimo incontrarne una anche noi!" "Speriamo!" "Continuando a scendere in questa direzione, non troveremo più alcuna terra?" "Nessuna. Ma la nostra direzione non tarderà a cambiare, O'Donnell, e verremo spinti verso l'ovest." "Pure, Mister Kelly, mi sembra che il vento ci spinga invece verso l'est. Guardate il monte dell'isola Fogo, che pare si allontani sulla nostra destra." "By God!" esclamò l'ingegnere. "È vero." "Che qualche nuova corrente ci abbia presi?" "Non lo credo, ma è un fatto, però, che noi ci avviciniamo alla costa africana, descrivendo una linea obliqua. Che l'aliseo vada ad urtare contro il Capo Verde, prima di piegare verso l'occidente? Sarebbe una bella fortuna, amico mio." "Se giungeremo in tempo ad avvistarla." "Perché?" "Perché cadiamo, e rapidamente Mister Kelly." "Ancora!" esclamò l'ingegnere, con accento di dolore. Si chinò sul bordo della navicella e fece un gesto di rabbia. "Miserabili!" esclamò. "Quei naufraghi ci hanno rovinati." "Che si siano riaperti gli strappi?" "Non credo, ma il gas sfugge attraverso le cuciture." "Volete, signore, che vada a spalmarle di vernice?" chiese il mozzo. "È inutile, Walter: fra mezz'ora saremmo da capo. Rinforziamo i fusi col gas che ci rimane." "Quanta zavorra ci rimane da gettare?" "Circa duecento chilogrammi. Aiutatemi, amici." "Una parola, Mister Kelly. Se si introducesse il gas nei palloncini interni, non si otterrebbe un effetto migliore e più durevole?" "Avete ragione, O'Donnell. L'idea è buona e non so come mi sia sfuggita. Affrettiamoci, che l'oceano ci è vicino." Il Washington cadeva. Il suo gas, dopo tanti giorni. perdeva rapidamente la sua forza ascensionale, come un uomo che un lungo digiuno sfinisce. Scendeva di minuto in minuto, descrivendo delle larghe oscillazioni e virando frequente di bordo. Gli aeronauti che udivano sempre più distinti i muggiti delle onde, diedero prontamente mano alla manovra, che doveva essere l'ultima, perché dopo non doveva rimanere nella navicella più di un metro cubo d'idrogeno. L'ingegnere, aiutato dai suoi amici, aprì le due manichette dei palloncini e lasciò sfuggire l'aria, provocando una nuova e più rapida caduta dei fusi e introdusse, invece di quella, l'idrogeno che ancora possedeva. La forza ascensionale del Washington si manifestò bruscamente, come per incanto. L'aerostato, che si trovava già a soli venticinque o trenta metri dall'oceano, fece un balzo immenso nell'aria elevandosi a duemilacinquecento. Il lancio in mare della pompa premente, che non era più di nessuna utilità, ora che i palloncini interni non potevano più ricevere l'aria, e di alcune casse vuote, lo portò a 3000 metri. Quel salto straordinario ebbe il vantaggio di far trovare una nuova corrente aerea, che spingeva diagonalmente, sopra gli alisei, in direzione della costa africana. La speranza, per un momento perduta, cominciò a rinascere nei cuori degli aeronauti. La velocità di quella corrente era molto considerevole, più forte di quella che spirava anteriormente, poiché toccava i settanta chilometri all'ora. Essendo lontani circa quattrocento chilometri dalla costa africana, potevano giungervi prima delle quattro pomeridiane. "Come dormirei volentieri sotto un frondoso albero!" esclamò O'Donnell. "E forse questa sera potrò distendere le mie gambe sopra un soffice e fresco tappeto d'erba!" "Se il vento non cambia direzione, noi ceneremo in Africa, O'Donnell" aggiunse l'ingegnere. "E accenderemo un bel fuoco!" "E fors'anche vi metteremo sopra un arrosto. La selvaggina abbonda in Africa" "Mangerei una bistecca di leone, Mister Kelly. Ma dove cadremo?" "Nella Senegambia, se manteniamo la rotta attuale." "C'è pericolo di venire massacrati dai negri?" "No: quei negri sono sudditi francesi e non ardiranno toccarci." "Hurrah per la Senegambia, dunque!" "Non ci siamo ancora." "Ci giungeremo, Mister Kelly: il cuore me lo dice." "Ma il cuore sovente s'inganna, O'Donnell." Intanto il Washington continuava la sua corsa verso la costa africana, mantenendo la diagonale che pareva dovesse passare nei pressi del Capo Verde. Per quanto il gas continuasse a sfuggire attraverso le cuciture, pure si manteneva a quella grande altezza mercé i due palloncini, che serbavano la forza ascensionale sempre a quel livello. Alle due, O'Donnell, che puntava dì frequente il cannocchiale verso l'est, volendo scoprire la costa africana, segnalò delle macchie grigiastre che apparivano sulla superfìcie dell'oceano e verso il nord a una grande distanza. "L'Africa!" esclamò con voce alterata dalla commozione. "Di già?" chiese l'ingegnere. Prese il cannocchiale che O'Donnell gli porgeva e guardò attentamente nella direzione indicata. "Sì," diss'egli "laggiù si stende il continente africano. Quella striscia che si vede al nord dev'essere il Capo Verde." "E quelle isole?" chiese O'Donnell. "Sono quelle che si stendono dinanzi alla foce del Gambia: Santa Maria e Sanguonar, ne sono certo." "Dunque noi ci troviamo ora? ... " "A 13o 30o di latitudine e a 19o di longitudine." "Troveremo dei bianchi laggiù?" "Sì, e numerosi. I francesi hanno parecchie fattorie sulle isole degli Elefanti, degli Ippopotami degli Uccelli e di Saffo, e una importantissima ad Albreda; e ne hanno pure gl'inglesi lungo il fiume, e posseggono una piccola colonia, quella di Bathurst, sull'isola di Santa Maria." "Mi spiacerebbe cadere nelle loro mani, Mister Kelly. Voi sapete che sono ricercato dalla polizia." "Cadremo su territorio francese o sulle terra del piccolo reame di Bar. Ecco la foce del fiume, chee comincia a disegnarsi nettamente. Fra venti minuti ci libreremo sopra le isole dell'estuario." "No, Mister Kelly." "Perché?" "Mi pare che il vento abbia fatto un salto, come dicono i marinai." "Ma ci spinge sempre all'est." "No, Mister Kelly" disse O'Donnell con voce soffocata. "Pieghiamo verso il sud."

"Che ci abbiano scorti?" "Sì, O'Donnell, vengono in nostro aiuto." "Giungeranno in tempo?" In lontananza si udirono alcune detonazioni; era l'equipaggio della piccola nave che avvertiva gli aeronauti di averli visti. O'Donnell scaricò la grossa carabina che aveva salvato dal naufragio, mentre l'ingegnere scaricava il suo revolver. "Vengono," disse Kelly, "ma quando giungeranno qui noi saremo già caduti." "Vedete la nave da guerra?" chiese O'Donnell. "No" rispose l'ingegnere, che si trovava più in alto di tutti, essendosi aggrappato alle maglie. "Nemmeno il fumo?" "Mi pare di vedere laggiù come un sottile pennacchio. "Tanto meglio. E quel piccolo legno cosa sarà?" "Senza dubbio uno di quei legnetti che fanno il traffico delle coste per conto delle fattorie." "Speriamo che non sia inglese." "Probabilmente sarà francese o portoghese. "Cadiamo" disse Walter. "Non avrai paura, povero ragazzo?" chiese l'ingegnere. "No, signore" rispose il mozzo con voce ferma. "Procura di tenerti sempre vicino a me" disse O'Donnell. "So nuotare, signore, e le onde non mi fanno paura." "Bravo ragazzo!" "Attenzione!" gridò l'ingegnere. Il pallone cadeva a mille passi dalla spiaggia della prima isola. Si arrestò ancora un momento, poi precipitò fra le onde come una palla di cannone, ma appena gli uomini furono immersi, si sollevò bruscamente, tendendo le funi. "Tenetevi stretti!" gridò l'ingegnere. "Ci sorreggerà fino alla spiaggia." Il mare era agitato, le larghe ondate dell'Atlantico si frangevano contro quell'arcipelago di isole e isolotti e contro la costa africana, producendo quei furiosi flutti. I marosi si scagliavano rabbiosamente addosso agli aeronauti, quasi fossero bramosi di strapparli, li coprivano di spuma, li sbattevano in tutti i sensi assordandoli con lunghi muggiti. I due grandi fusi, che risentivano le scosse subite dai tre uomini, si abbassavano, poi si rialzavano, giravano su se stessi e si piegavano ora da un lato, ora dall'altro. Il vento, che s'ingolfava entro le loro pieghe, li trascinava però verso l'isola. Ad un tratto, fra i muggiti delle onde echeggiò un grido. Quasi contemporaneamente O'Donnell e l'ingegnere si sentirono tratti bruscamente fuori dall'acqua e trascinati rapidamente in alto. "Gran Dio!" esclamò O'Donnell, aggrappandosi prontamente alla rete. "Che cos'è accaduto?" "Walter! Walter!" gridò l'ingegnere, mentre l'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzava ancora in aria. Il mozzo, che le onde avevano strappato dall'asta alla quale era aggrappato, ricomparve fra la spuma nuotando vigorosamente e additò la spiaggia, lontana duecento metri. Il Washington, malgrado fosse quasi mezzo vuoto e inzuppato d'acqua, fu trascinato sopra i grandi boschi che coprivano l'isola. "Si salverà quel povero ragazzo?" "Nuotava vigorosamente" risposero l'ingegnere. "Toccherà la spiaggia senza fatica." "Lo ritroveremo?" "Lo cercheremo, O'Donnell. Cadiamo ancora." "Sui boschi?" "Meglio così: attenueremo l'urto. State attento ad aggrapparvi ai rami." "Vedete il piccolo bastimento?" "Sì, sta doppiando il capo settentrionale dell'isola." In quell'istante il sole scomparve all'orizzonte. Il Washington precipitava sopra i grandi boschi dell'isola.

È probabile che gli antichi fenici e i Cartaginesi, che visitarono le Canarie, le abbiano vedute molti e molti secoli prima, ma al pari di queste ultime rimasero ignote fino al 1344. Fu in quell'epoca che Roberto Macham, gentiluomo inglese, fu spinto dai venti sulle spiagge di Madera, mentre fuggiva su di una nave con alcuni amici e la figlia del duca di Dorset, che dal padre era stata costretta a sposare forzatamente un alto dignitario del regno, mentre essa aveva giurato eterno amore al giovane gentiluomo. La notizia della scoperta venne recata in Europa dai compagni di Macham, dopo che questi e la sua amante erano morti. Gli aeronauti, senza bisogno di cannocchiali, distinguevano nettamente le due isole maggiori e le altre minori, essendo l'orizzonte limpidissimo. Quantunque fossero lontani oltre ottanta miglia, l'ingegnere additò ai suoi compagni il monte Ruino, che è il più elevato di tutti. "È laggiù che si raccoglie quel vino squisito, Mister Kelly?" chiese l'irlandese. "Sì, amico mio." "Ne producono molto quelle isole?" "Quando le annate sono buone, quei vigneti danno circa 5000 pipe(2), ossia 2.685.000 litri. Nel 1852 quelle isole corsero il pericolo di perdere interamente i loro raccolti a causa della comparsa dell'oidium tuckeri, ma gli abitanti vi posero riparo piantando i vitigni americani." "Richiede delle cure speciali quel vino per riuscire così squisito?" "Quasi nessuna, O'Donnell. Basta esporlo per qualche tempo a un'alta temperatura per renderlo più delizioso, e aggiungervi poi una certa dose di alcool, circa dieci litri in ogni pipa. Anticamente anzi, perché prendesse meglio il caldo, che non dev'essere inferiore ai 50o, s'imbarcavano le botti piene di madera e si trasportavano al di là dell'equatore, e su quelle botti gli inglesi, che hanno sempre esercitato l'esportazione di quel prezioso nettare, applicavano un cartellino su cui era scritto: "Twice passed the line" per indicare che aveva passato due volte la linea dell'equatore e che quindi era perfettamente stagionato." "Che sia il terreno che rende così buono quel vino?" Così deve essere, e pare che la sua fertilità derivi da un terribile incendio che durò sette anni." "Ma chi lo accese?" "I primi navigatori portoghesi: Zarco, Fechevra e Pestrello, per distruggere i grandi boschi che coprivano Madera. Quelle ceneri bastarono per concimare immensamente quei terreni." "E a chi venne in mente di piantare delle viti su quelle isole?" "Ai portoghesi, che piantarono nel 1425 alcune talee fatte venire dall'isola di Cipro. In seguito ne piantarono altre di specie diversa, ottenendo così parecchi tipi di vino." "Ma non sono molti anni che questi vini sono diventati celebri." "Tutt'altro, caro amico. Fin dal 1445 il navigatore veneziano Ca'da Mosto li fece conoscere, vantandone le squisitezze, e Francesco I, re di Francia, che fu il primo che lo bevette in Europa e confermò la sua straordinaria bontà, rendendolo di colpo famoso." In quell'istante l'aerostato virò bruscamente di bordo, descrivendo mezzo giro su se stesso e imprimendo alla navicella un largo dondolìo. "Cadiamo?" chiesero O'Donnell e il mozzo. "No," rispose l'ingegnere; "ma ... " "Cambia la corrente?" L'ingegnere rispose con un gesto disperato. Si precipitò verso la bussola e impallidì. "Torniamo al sud!" esclamò con voce sorda. "Al sud!" esclamò O'Donnell. "Si è rotta la corrente?" "Peggio ancora." "Che avviene dunque?" "Una cosa assai grave: i venti alisei ci hanno afferrato e ci respingono nell'Atlantico!" "Per centomila corna di cervo! ... Siamo perseguitati dal destino?" Per parecchi minuti un cupo silenzio regnò sull'aerostato, che il vento trascinava con grande rapidità verso le regioni equatoriali. L'ingegnere e l'irlandese si sentivano vinti e si chiedevano con angoscia quale sorte doveva a loro serbare il destino, che pareva avesse giurato la loro perdita, dopo aver fatto balenare in loro la speranza di condurli verso le coste europee. Se non sopraggiungeva un miracolo, la loro situazione si poteva considerare disperata. La grande corrente degli alisei, che fino ad allora avevano cercato di evitare, non li avrebbe più lasciati, e doveva respingerli in mezzo all'Atlantico, per poi gettarli sulle lontane coste dell'America centrale e forse su quelle del continente meridionale. Si sarebbero mantenuti in aria tanto tempo da riattraversare l'oceano? Non era possibile, coi mezzi limitati che ormai possedevano. Una caduta in mezzo all'Atlantico ora sembrava inevitabile, e quale disastro allora, privi quasi di acqua come erano! L'ingegnere vinto dalla tristezza che lo invadeva, si era lasciato cadere a prora della scialuppa, con la testa stretta fra le mani; O'Donnell gettava sguardi disperati alle isole che sparivano a poco a poco fra le tenebre calanti rapidamente come un branco di corvi; il solo Walter, il povero mozzo raccolto morente sull'oceano, era tranquillo e pareva chiedersi il motivo della disperazione che accasciava i suoi salvatori. "Mister O'Donnell," mormorò timidamente, "è forse il peso della mia persona che ha prodotto il cambiamento di direzione dell'aerostato?" "No, povero ragazzo," disse l'irlandese, sforzandosi di sorridere. "È il vento che, invece di avvicinarci alle coste africane o europee, ci trascina verso l'America." "Non possiamo fermarci, gettando l'ancora, e attendere un vento più favorevole?" "A quest'altezza è impossibile, Walter. Tutte le nostre funi riunite non giungerebbero a toccare la superficie dell'oceano. Più tardi, quando l'idrogeno si sarà condensato, cercheremo di fermarci." "Volete che annodi le funi?" "Sì," disse l'ingegnere scuotendosi. "Bisogna fermarci e non lasciarci trascinare in mezzo all'Atlantico." "Sperate in un cambiamento di vento, Mister Kelly?" chiese O'Donnell. "Spero in un uragano." "Segna una vicina perturbazione il barometro?" "L'ho notato stamane." "E romperà la grande corrente?" "Lo spero, O'Donnell: se non sulla superficie dell'oceano, forse in alto, a tremila, quattromila, a seimila metri, o più sopra." "Possiamo abbassarci subito e gettare le àncore, sacrificando un po' di gas?" "Ora? Sarebbe un'imprudenza, amico mio, perdere dell'idrogeno, mentre forse il vento ci spingerà attraverso l'Atlantico invece di portarci verso l'Africa. Voglio conservare tutte le forze del Washington per cercare in alto una nuova corrente." "Ma scendiamo al sud con grande rapidità, Mister Kelly." "Non importa: l'Africa l'abbiamo alla nostra sinistra e per lungo tempo non l'abbandoneremo. Che approdiamo qui o più al sud, sulle coste del Sahara o della Senegambia o della Sierra Leone, cosa importa, ora che l'Europa ci sfugge? Quando il Washington si abbasserà, getteremo le àncore e attenderemo la burrasca per innalzarci più che potremo." "E se quell'uragano ci spingesse invece all'ovest?" "Siamo nelle mani di Dio: accadrà ciò che Egli vorrà." "Ritenete che il Washington non possieda forze sufficienti per riattraversare l'Atlantico?" "Lo dubito, O'Donnell. È vero che i venti, durante gli uragani, acquistano delle rapidità incredibili e che sole 1500 miglia separano le coste della Sierra Leone e il capo brasiliano di San Rocco, ma i nostri mezzi sono ormai scarsi, e cadremmo in mezzo all'oceano, a meno che qualche nave non ci raccogliesse." "To'! E i nostri amici, li abbiamo dimenticati? Chissà che non ci cerchino a quest'ora, se i piccioni messaggeri sono giunti all'Isola Brettone. "Magra speranza, O'Donnell. L'Atlantico è immenso e i miei amici non possono sapere dove il vento ci ha spinto. Non dobbiamo contare che sulle nostre forze." "Ma mi sembra, Mister Kelly, che il nostro idrogeno si condensi molto lentamente questa sera. perché non abbiamo ancora cominciato la discesa." "Ci troviamo in una corrente d'aria assai calda, e il nostro Washington è stato rinvigorito poche ore fa, ma cadremo, O'Donnell, ve lo assicuro. Intanto annodiamo tutte le funi disponibili e prepariamoci a calare i nostri coni." Il Washington come aveva giustamente notato O'Donnell, non accennava a scendere, quantunque la temperatura si fosse abbassata di alcuni gradi. Si manteneva ancora a 2500 metri di altezza, filando verso il sud con una rapidità di ben sessantadue chilometri all'ora. Se quel vento non rallentava, il Washington doveva perdere l'intero vantaggio acquistato durante la giornata e ritrovarsi nei paraggi delle Canarie, che aveva lasciato verso le undici del mattino. Alle dieci però la discesa dell'aerostato cominciò, ma era assai lenta. Calava in ragione di trecento o trecentocinquanta metri all'ora, mentre invece la rapidità del vento aumentava. A mezzanotte l'ingegnere segnalò ai suoi compagni un punto luminoso, che si scorgeva verso l'est. "Una nave?" chiese O'Donnell. "No," rispose Mister Kelly, che aveva puntato un cannocchiale in quella direzione. "È un bagliore lampeggiante, sarà il faro di Teneriffa o dell'isola del Ferro." "Di già alle Canarie? E la corsa aumenta!" Alle tre del mattino l'aerostato si trovava a soli duecento metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere fece gettare i due coni, che si riempirono subito d'acqua, immobilizzando il vascello aereo. "Riposiamo," disse poi. "Non corriamo alcun pericolo." I tre aeronauti, che avevano vegliato fino ad allora e che cadevano dal sonno, si coricarono sui loro materassi e si addormentarono profondamente, cullati dolcemente dalla grande corrente degli alisei.

Io però sono d'opinione che non abbiano raggiunto quell'altezza, e così pensano pure molti aeronauti. Se si fossero spinti tanto in alto, non sarebbero ritornati a terra vivi. La più drammatica e più terribile ascensione fu quella dello Zenith, che costò la vita a due giovani e audaci aeronauti, a Croce-Spinelli, un italiano naturalizzato francese, ed a Silvel. Già nel 1874, incoraggiati e aiutati dalla Società Francese di Navigazione Aerea, avevano fatto una prima ascensione, raggiungendo i 7300 metri. Il 15 Aprile 1875 partivano sull'aerostato lo Zenith, in compagnia di Tissandier, un aeronauta che aveva eseguito già oltre venti ascensioni. L'aerostato, continuamente scaricato dalla zavorra che portava, s'innalzava rapidamente verso le solitudini gelate delle grandi altezze. Il freddo li intirizzì, le nausee sopravvennero, le vertigini li colsero; ma continuarono intrepidamente a salire. A 8000 metri Croce-Spinelli e Silvel, malgrado respirassero di frequente l'ossigeno che avevano portato con loro, caddero; ma Tissandier resiste ancora e continuò le sue osservazioni. A 8600 metri lo Zenith s'arrestò, poi ridiscese; ma portava con sé due cadaveri: Croce- Spinelli e Silvel erano morti! Che cosa ne dite, O'Donnell?" L'irlandese, che fino ad allora gli stava seduto a sinistra, a cavalcioni d'una panchina del battello, non diede alcuna risposta. L'ingegnere si volse verso di lui e lo vide accasciato su se stesso, come se fosse stato improvvisamente colto da uno svenimento, o da un sonno irresistibile. Guardò a poppa e vide il negro Simone che pareva pure addormentato. "Diavolo!" esclamò. "Dove ci troviamo?" Gettò uno sguardo sul barometro: segnava 4300 metri. "È troppo," mormorò. "Ancora poche centinaia di metri più in alto, e questi uomini, non abituati alle ascensioni, dormiranno per sempre. Afferrò le due corde che mettevano capo alle valvole di sfogo e diede uno strappo. Tosto in alto si udirono degli scoppiettii e all'intorno si sparse un acuto odore di idrogeno. "Basta," disse mezzo minuto dopo. "È troppo prezioso per consumarlo." Il Washington, benché appena salassato, discendeva lentamente nelle regioni più respirabili. In dieci minuti toccò i 3600 metri e colà giunto arrestò la sua discesa. O'Donnell aprì gli occhi, sbadigliando come un orso che non dorme da una settimana. "Che vi pare della disgraziata sorte toccata a Croce-Spinelli e a Silvel?" gli chiese Kelly, con un sorriso leggermente malizioso. "Silvel! Croce-Spinelli! ... " esclamò O'Donnell, guardando l'ingegnere con due occhi strabuzzati. "Ma siete uno stregone voi, che indovinate i miei sogni?" "Avete sognato, O'Donnell?" "Sì, di palloni, di ascensioni di un certo Tissandier e ... Ma perché ridete?" "Perché non avete sognato nulla di tutto ciò, ma l'avete udito dalla mie labbra e vi siete addormentato mentre io vi narravo quella drammatica ascensione." "Mi sono addormentato, io!" "Sì, O'Donnell, ma per effetto dell'altezza del Washington e Simone, che comincia solamente ora ad aprire gli occhi, vi teneva compagnia. Come vi sentite?" "Benissimo: anzi ho una fame da lupo." "Buon segno," disse Kelly, ridendo. "Con la discesa scompaiono repentinamente i disturbi pericolosi cagionati dalle eccessive altezze." "Dev'essere così, signor Ned; ma si vede che le ascensioni non sono fatte per me, né per Simone. Che ne dici, negrotto mio?" Il negro si limitò a sbadigliare in tal modo da correre il pericolo di slogarsi le mascelle, mostrando due file di denti da fare invidia a un coccodrillo dell'Africa equatoriale.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 8 occorrenze

. - Che m'abbiano scoperto o che abbiano ucciso Kammamuri? Rattenne il respiro tendendo gli orecchi. Il suo fine udito raccolse un brusìo di voci, che sembravano venire dal di fuori. - Cosa vuol dir ciò? Al di fuori v'è della gente. Che sieno gli indiani, gli abitanti di questi funebri luoghi? Si guardò intorno con superstizioso terrore, ma era affatto solo, guardò l'apertura della pagoda, ma era affatto libera. - Qualche cosa sta per succedere, lo sento, disse a voce bassa, - ma mostrerò chi sia Tremal-Naik, quando si batte. Esaminò le cariche delle pistole e della carabina, temendo forse che una mano misteriosa le avesse levate; esaminò persino la lama del suo fedele pugnale, tinto più di cento volte nel sangue dei serpenti e delle tigri, e s'accoccolò dietro alla mostruosa statua, rimpicciolendosi più che gli era possibile. La giornata passò con una lentezza spaventevole per l'indiano, condannato ad una immobilità quasi assoluta e ad un digiuno forzato. Le ombre della notte a poco a poco invero i più oscuri recessi della pagoda, poi s'alzarono gradatamente verso la cupola: alle nove l'oscurità era così profonda, da non vederci ad un passo di distanza, quantunque la luna brillasse in cielo, riflettendosi sulla grande palla di bronzo dorato e sul serpente dalla testa di donna. Il ramsinga non aveva più fatto udire le sue funebri note ed il brusìo era da lunga pezza cessato. Un silenzio misterioso regnava dappertutto. Tremal-Naik tuttavia non ardiva muoversi; il solo movimento che facesse, era quello di appoggiare l'orecchio sulle fredde pietre della pagoda e di ascoltare con profonda attenzione. Una voce segreta gli diceva di vegliare e di diffidare e ben presto si accorse che quella voce non mentiva, poiché verso le undici, quando più fitte erano le tenebre, un rumore strano, non ancor definibile, giunse fino a lui. Pareva che qualche cosa scendesse dall'alto, seguendo la corda che sosteneva la lampada. Tremal-Naik per quanto aguzzasse gli occhi non fu però capace di distinguere ciò che fosse. Per ogni precauzione impugnò le pistole e silenziosamente s'alzò, ponendosi in ginocchio. - Che può esser mai? - si chiese egli. - Ada, no poiché mezzanotte è ancor lontana. Che sieno quei terribili uomini? Una vampa d'ira gli salì in volto.- Sfortuna a colui che qui entra! Un tintinnìo metallico risuonò fra le tenebre. Era la lampada che si agitava, scossa senza dubbio da colui che scendeva dall'alto. Tremal-Naik non si trattenne più. - Chi è là? - gridò egli. Nessuno rispose alla domanda, anzi il tintinnìo cessò. - Che mi sia ingannato? - si domandò egli. Si alzò e guardò in aria. Lassù, sulla cupola, la luna continuava a riflettersi sulla palla dorata e scorgevasi una parte della fune vegetale che sosteneva la lampada, ma nessuno essere umano v'era appeso. - È strano, - disse Tremal-Naik, diventato inquieto. Tornò a rannicchiarsi continuando a guardarsi d'intorno. Passarono altri venti minuti, poi la lampada tornò a tintinnare. - Chi è là? - ripete egli con voce stridula. - Se v'è qualcuno si faccia innanzi, che Tremal-Naik lo attende. Nuovo silenzio. Allora s'aggrappò ai piedi della gigantesca statua, salì sulle braccia, si elevò fino a posare i piedi sulla testa ed afferrò la lampada scuotendola furiosamente. Uno scroscio di risa risuonò nella pagoda. - Ah, - esclamo Tremal-Naik, che sentivasi invadere dalla rabbia. - V'è qualcuno che ride lassù. Aspetta! Radunò le sue erculee forze, poi con una strappata irresistibile spezzò la fune. La lampada rovinò al suolo con un fracasso indescrivibile, che gli echi del tempio più volte ripeterono. Un secondo scroscio di risa risuonò. Tremal-Naik si precipitò giù dalla statua, nascondendovisi dietro. Era tempo. Una porta s'aprì ed un indiano alto e magro, riccamente vestito, con un pugnale in una mano e una torcia resinosa nell'altra, apparve. Quell'uomo era il truce Suyodhana: una gioia infernale irradiava il bronzeo suo volto e ne' suoi occhi balenava un sinistro lampo. Egli si arrestò un momento a contemplare la mostruosa divinità, dietro la quale stava Tremal-Naik col coltello fra i denti e le pistole in pugno poi fece alcuni passi innanzi. Dietro a lui si avanzarono ventiquattro indiani, ponendosi dodici a destra e dodici a sinistra. Erano tutti armati di pugnale e del cordone di seta colla palla di piombo. - Figli miei, - disse Suyodhana con un accento da far fremere, - è mezzanotte! - Gli indiani sciolsero le corde, brandirono i pugnali e piantarono le torcie in alcuni buchi fatti nelle pietre. - Siamo pronti alla vendetta! - risposero in coro. - Un empio, - proseguì Suyodhana, - ha profanato la pagoda della nostra dea. Cosa merita quest'uomo? - La morte, - risposero gl'indiani. - Un empio ardì parlare d'amore alla vergine della pagoda. Cosa merita quest'uomo? - La morte, - ripeterono gl'indiani. - Tremal-Naik! - gridò Suyodhana con terribile accento. - Mostrati! Uno scroscio di risa gli rispose, poi il cacciatore di serpenti, che tutto aveva udito, apparve, slanciandosi con un solo salto dinanzi alla mostruosa divinità. Non era più lo stesso uomo; pareva una vera tigre sbucata dalla jungla. Un feroce sorriso sfiorava le sue labbra, la sua faccia era truce, alterata da una collera furiosa e gli occhi mandavano sinistri baleni. Il selvaggio figlio della jungla si risvegliava, pronto a ruggire ed a mordere. - Ah! Ah! - esclamò egli ridendo. - Siete voi che volete uccidere Tremal-Naik? Si vede che non conoscete ancora il cacciatore di serpenti. Guardate, assassini, quanto vi disprezzo. Alzò in aria le due pistole e le scaricò, gettando lontano da sé le armi. Scaricò dipoi la carabina e l'impugnò per la canna per servirsene come d'una mazza. - Ora, - diss'egli, - chi si sente tanto ardito da assalire Tremal-Naik, si faccia innanzi. Mi batto per la donna, che voi, o maledetti, condannaste. Fece un salto indietro e si mise sulla difensiva, emettendo il suo urlo di guerra. - Avanti! avanti! - tuonò. - Mi batto per la vergine della pagoda! - Un indiano, senza dubbio il più fanatico, gli si avventò contro, facendo fischiare in aria il laccio. Sia che avesse preso troppo slancio o che scivolasse, egli venne a cadere quasi ai piedi di Tremal-Naik. La terribile mazza s'alzò e discese con rapidità fulminea percotendo il cranio dell'indiano. La morte fu istantanea. - Avanti! avanti! - ripeté Tremal-Naik. - Mi batto per la mia Ada! I ventitré indiani si scagliarono come un sol uomo sul cacciatore di serpenti, che roteava come un demente la carabina. Un altro indiano cadde, ma la carabina non resse a quel secondo colpo e si spezzò nelle mani di colui che l'adoperava. - A morte! a morte! - vociarono gl'indiani, spumanti d'ira. Un laccio piombò su Tremal-Naik stringendogli il collo, ma egli lo strappò di mano allo strangolatore, poi impugnò il coltello e si avventò contro la statua di bronzo salendole sulla testa. - Largo! largo! - gridò egli, girando intorno sguardi feroci. Si raccolse su se stesso come una tigre e saltando sopra le teste degl'indiani cercò dirigersi verso la porta, ma gli mancò il tempo. Due corde gli strinsero le braccia, percuotendolo dolorosamente colle palle di piombo e lo atterrarono. Egli gettò un urlo terribile. Gl'indiani in un baleno gli furono sopra come una torma di cani attorno al cinghiale, e malgrado la sua forte resistenza venne solidamente legato e ridotto all'impotenza. - Aiuto! aiuto! - rantolò egli. - A morte! a morte! - gridarono gli indiani. Con uno sforzo erculeo spezzò due corde, ma fu tutto quello che poté fare. Nuovi lacci lo strinsero, e così fortemente, che le carni divennero nere. Suyodhana, che aveva assistito impassibile a quella disperata lotta di un uomo solo contro ventidue, gli si avvicinò e lo contemplò per alcuni istanti con gioia satanica. Tremal-Naik nulla potendo fare, gli sputò contro. - Empio! - esclamò il figlio delle sacre acque del Gange. Afferrò con mano solida il suo pugnale e l'alzò sul prigioniero che lo guardava sdegnosamente. - Figli miei, - disse l'indiano, - qual pena merita quest'uomo? - La morte! - risposero gl'indiani. - E la morte sia. Tremal-Naik emise un ultimo grido. - Ada! Povera Ada! La lama del vendicatore che penetravagli nel petto, gli spense la voce. Sbarrò gli occhi, li chiuse, uno spasimo violento agitò le sue membra e si irrigidì. Un rivo di sangue caldo scorreva per le sue vesti, disperdendosi per le pietre. - Kâlì! - disse Suyodhana, volgendosi verso la statua di bronzo.- Scrivi sul tuo nero libro, il nome di questa nuova vittima. Ad un cenno due indiani sollevarono l'infelice Tremal-Naik. - Gettatelo nella jungla a pasto delle tigri, concluse il terribile uomo. - Così periscono gli empi! ...

Che abbiano il loro asilo sotto la jungla, questi esseri misteriosi? - Così deve essere, Kammamuri. - Cosa facciamo, padrone? - Rimarremo qui: qualche persona uscirà da qualche parte. - Tykora! - gridò una voce. I due indiani balzarono simultaneamente in piedi. Cosa strana, incrediblle: quella voce era stata pronunciata così vicina a loro, da credere che la persona che l'aveva emessa fosse dietro le loro spalle. - Tykora! - mormorò Tremal-Naik. - Chi pronunciò questo nome? Guardò attorno, ma non vide alcuno; guardò in alto, ma non scorse che i rami del banian, confusi fra le tenebre. - Che ci sia qualcuno nascosto fra i rami? - Ma no, - disse Kammamuri, tremando. - La voce si udì dietro di noi. - È strano. - Tykora! - esclamò la medesima voce misteriosa. I due indiani tornarono a guardarsi intorno. Non era più possibile ingannarsi; qualcuno stava a loro vicino, ma con loro sorpresa e diciamolo pure, terrore, non era visibile. - Padrone, - mormorò Kammamuri, - abbiamo da fare con qualche spirito. - Non credo agli spiriti, io, - rispose Tremal-Naik. - Quest'essere che si diverte a spaventarci lo scopriremo. - Oh! ... - esclamò il maharatto, facendo tre o quattro passi indietro, come un ubriaco. - Cosa vedi Kammamuri? - Guarda lassù ... padrone! Guarda! ... Tremal-Naik alzò gli occhi sul banian e scorse un fascio di luce uscire dal tronco mozzato. Malgrado il suo straordinario coraggio, si sentì agghiacciare il sangue nelle vene. - Della luce! - balbettò, sgomentato. - Scappiamo, padrone! - supplicò Kammamuri. Sotto terra si udì per la terza volta il misterioso boato e dal tronco del banian uscì la squillante nota del ramsinga. In lontananza echeggiarono altre note simili. - Fuggiamo, padrone! - ripeté Kammamuri, pazzo di terrore. - Mai! - esclamò Tremal-Naik, risolutamente. Aveva messo il pugnale fra i denti e afferrato la carabina per la canna per servirsene come d'una mazza. D'un tratto cambiò idea. - Vieni, Kammamuri, - diss'egli. - Prima d'incominciare la pugna, sarà meglio vedere con chi dobbiamo lottare. Egli trascinò il maharatto ad un duecento passi dal tronco del banian e si nascosero dietro a tre o quattro colonne riunite che permettevano ai due indiani di vedere senza essere scoperti. - Non una parola, ora, - disse. - Al momento opportuno agiremo. Dal colossale tronco del banian uscì un'ultima nota acutissima che svegliò tutti gli echi delle Sunderbunds. Il fascio di luce che usciva dalla sommità dell'albero si spense e in sua vece apparve una testa umana, coperta da una specie di turbante giallo. Essa girò all'intorno qualche istante, come per assicurarsi che alcuna persona trovavasi al disotto del gigantesco albero, poi si alzò, ed un uomo, un indiano a giudicarlo dalla tinta, uscì, aggrappandosi ad uno dei rami. Dietro di lui uscirono quaranta altri indiani, i quali si lasciarono scivolare giù pei colonnati, fino a terra. Erano tutti quasi nudi. Un solo dubgah, specie di sottanino, d'un giallo sporco, copriva i loro fianchi e sui loro petti scorgevansi dei tatuaggi strani che volevano essere lettere del sanscrito e proprio nel mezzo vedevasi un serpente colla testa di donna. Un sottile cordone di seta, che pareva un laccio ma che aveva una palla di piombo all'estremità, girava più volte attorno al dubgah ed un pugnale era passato in quella strana cintura. Quegli esseri misteriosi, si assisero silenziosamente per terra, formando un circolo attorno ad un vecchio indiano dalle braccia smisurate, e lo sguardo brillante come quello d'un gatto. - Figli miei, - disse questi con voce grave. - La nostra possente mano ha colpito lo sciagurato che ardì calcare questo suolo consacrato ai thugs ed inviolabile a qualsiasi straniero. È una vittima di più da aggiungere alle altre cadute sotto il nostro pugnale, ma la dea non è ancora soddisfatta. - Lo sappiamo, - risposero in coro gl'indiani. - Sì, figli liberi dell'India, la nostra dea domanda altri sacrifici. - Che il nostro grande capo comandi e noi tutti partiremo. - Lo so, che voi siete bravi figli, - disse il vecchio indiano. - Ma il tempo non è ancora venuto. - Cosa s'aspetta adunque? - Un gran pericolo ci minaccia, figli. Un uomo ha gettato gli occhi sulla Vergine, che veglia la pagoda della dea. - Orrore! - esclamarono gl'indiani. - Sì, figli miei, un uomo audace osò guardare in volto la vaga Vergine, ma quell'uomo se non cadrà sotto la folgore della dea, perirà sotto il nostro infallibile laccio. - Chi è quest'uomo? - A suo tempo lo saprete. Portatemi la vittima. Due indiani si alzarono e si diressero verso il luogo dove giaceva il cadavere del povero Hurti. Tremal-Naik, che aveva assistito senza batter ciglio a quella strana scena, alla vista di quei due uomini che afferravano il morto per le braccia trascinandolo verso il tronco del banian, si era alzato di scatto colla carabina in mano. - Ah! maledetti! - esclamò egli con voce sorda togliendoli di mira. - Cosa fai, padrone? - bisbigliò Kammamuri, prendendogli l'arma ed abbassandola. - Lascia che li accoppi, Kammamuri, - disse il cacciatore di serpenti. - Essi hanno ucciso Hurti, è giusto che io lo vendichi. - Vuoi perderci tutti e due. Sono quaranta. - Hai ragione, Kammamuri. Li colpiremo tutti in una sola volta. Riabbassò la carabina e tornò a coricarsi mordendosi le labbra per frenare la collera. I due indiani avevano allora trascinato Hurti nel mezzo del circolo e l'avevano lasciato cadere ai piedi del vecchio. - Kâlì! - esclamò egli, alzando gli occhi verso il cielo. Trasse il pugnale dalla cintura e lo cacciò nel petto di Hurti. - Miserabile! - urlò Tremal-Naik. - È troppo! Egli s'era slanciato fuori dal nascondiglio. Un lampo squarciò le tenebre seguito da una strepitosa detonazione ed il vecchio, colpito in pieno petto dalla palla del cacciatore di serpenti, cadde sul corpo di Hurti.

. - È il nemico più spietato che abbiano i thugs. - Comprendo. - Noi facciamo a loro la guerra - La farò anch'io. Odio quei miserabili. - Un uomo coraggioso come te, non è da rifiutarsi. Verrai con noi quando batteremo la jungla, anzi ti metterò a guardia di uno strangolatore che è caduto in nostra mano. - Ah! - esclamò Tremal-Naik, che non riuscì a frenare il lampo di gioia che balenò negli occhi. - Avete un thug prigioniero? - Sì, ed è uno dei capi. - Come si chiama? - Negapatnan. - E io veglierò su di lui? - Sì, veglierai su di lui. Tu sei forte e coraggioso e a te non scapperà. - Sono persuaso. Basterà un pugno per ridurlo all'impotenza, - disse Tremal- Naik. - Vieni sulla terrazza. Tra poco vedrai Negapatnan e forse avremo bisogno del tuo coraggio. - Per che farne? - chiese Tremal-Naik con inquietudine. - Il capitano ricorrerà a qualche mezzo violento per farlo parlare. - Capisco. Diventerò carceriere ed all'occorrenza torturatore. - Sei molto perspicace. Vieni, mio bravo Saranguy. Entrarono nel bengalow e salirono sulla terrazza. Il capitano Macpherson vi era di già, fumando una sigaretta, sdraiato indolentemente in una piccola amaca di fibre di cocco. - Mi rechi qualche novità, Bhârata? - chiese egli. - No, capitano. Vi conduco invece un nemico acerrimo dei thugs. - Sei tu, Saranguy, questo nemico? - Sì, capitano, - rispose Tremal-Naik, con accento d'odio naturalissimo. - Sii allora il benvenuto. Sarai anche tu dei nostri. - Lo spero. - Ti avverto che si arrischia la pelle. - Se la giuoco contro le tigri, posso giuocarla contro gli uomini. - Sei un brav'uomo, Saranguy. - Me ne vanto, capitano. - Come ha passato la notte Negapatnan? - chiese Macpherson, rivolgendosi al sergente. - Ha dormito come uno che ha la coscienza tranquilla. Quel diavolo d'uomo è di ferro. - Ma si piegherà. Va' a prenderlo; comincieremo subito l'interrogatorio. Il sergente fece un mezzo giro sui talloni e poco dopo ritornava conducendo Negapatnan, solidamente legato. Il thug era tranquillissimo, anzi un sorriso sfiorava le sue labbra. Il suo sguardo si posò subito, con curiosità, su Tremal-Naik, il quale si era messo dietro al capitano. - Ebbene, mio caro, - disse Macpherson con accento sarcastico, - come hai passata la notte? - Credo di averla passata meglio di te, - rispose lo strangolatore. - E cos'hai deciso? - Che non parlerò. La mano del capitano corse all'impugnatura della sciabola. - Che sieno tutti eguali, questi rettili? - gridò egli. - Pare che sia così, - disse lo strangolatore. - Non dirlo così presto, però. Ti dissi che posseggo dei mezzi terribili. - Non abbastanza terribili pei thugs. - Dei mezzi che martirizzano al punto da invocare la morte. - Mezzi che non valgono i nostri. - Lo vedremo quando ti contorcerai fra gli spasimi più tremendi. - Puoi cominciare subito. Il capitano impallidì, poi un'ondata di sangue gli salì al volto. - Non vuoi proprio parlare, adunque? - gli chiese con voce strozzata dall'ira. - No, non parlerò. - È la tua ultima risposta? Bada ... - L'ultima. - Sta bene, ora agiremo. Bhârata? Il sergente s'avvicinò. - C'è un palo nel sotterraneo? - Sì, capitano. - Legherai solidamente quell'uomo. - Bene, capitano. - Quando il sonno lo vincerà, lo terrai desto a colpi di spillo. Se fra tre giorni non parlerà, farai macerare le sue carni a colpi di frusta. Se si ostina ancora, verserai dell'olio bollente, goccia a goccia, sulle sue ferite. - Fidatevi di me, capitano. Aiutami, Saranguy. Il sergente e Tremal-Naik trascinarono via lo strangolatore, il quale aveva ascoltato la sentenza senza che un muscolo del suo volto trasalisse. Discesero una scala a chiocciola molto profonda ed entrarono in una specie di cantina molto vasta, sostenuta da volte, ed illuminata da una feritoia aperta a fior di terra, difesa da solide sbarre di ferro. Nel mezzo ergevasi un palo, a cui fu legato lo strangolatore. Bhârata vi pose accanto tre o quattro spilli lunghi e colla punta acutissima. - Chi veglierà? - chiese Tremal-Naik. - Tu, fino a questa sera. Poi un sipai ti darà il cambio. - Va bene. - Se il nostro uomo chiude gli occhi, pungi forte. - Ti obbedirò, - rispose Tremal-Naik con calma glaciale. Il sergente risalì la scala. Tremal-Naik lo seguì con lo sguardo fino che poté, poi, quando ogni rumore cessò, si sedette di fronte allo strangolatore che lo fissava tranquillamente. - Ascoltami, - disse Tremal-Naik abbassando la voce. - Hai anche tu qualche cosa da dire? - chiese Negapatnan, beffardamente. - Conosci Kougli? Lo strangolatore udendo quel nome trasalì. - Kougli!- esclamò. - Non so chi sia. - Sei prudente, sta bene. Conosci Suyodhana? - Chi sei tu? - chiese Negapatnan, con manifesto terrore. - Uno strangolatore come lo sei tu, come lo è Kougli, come lo è Suyodhana. - Tu menti. - Ti do una prova che dico il vero. La nostra sede non è nella jungla, né a Calcutta, né sulle rive del sacro fiume, ma nei sotterranei di Raimangal. Il prigioniero rattenne a gran pena un grido, che stavagli per uscire dalle labbra. - Che sia vero che tu sei dei nostri? - chiese egli. - Non ti ho dato le prove? - È vero. Ma perché sei venuto qui? - Per salvarti. - Per salvare me? - Sì. - Ma come? Con qual mezzo? - Lascia fare a me e prima di mezzanotte sarai libero. - E fuggiremo assieme. - No, io rimango qui. Ho un'altra missione da compiere. - Una qualche vendetta? - Forse, - disse Tremal-Naik con aria tetra. - Ora silenzio e aspettiamo le tenebre. Lasciò il prigioniero ed andò a sedersi ai piedi della scala, aspettando pazientemente la notte. La giornata lentamente passò. Il sole scomparve dietro l'orizzonte e l'oscurità divenne profonda nella cantina. Era il momento opportuno per agire. Fra un'ora e forse meno, il sipai doveva scendere. - All'opera, - disse Tremal-Naik, alzandosi bruscamente e traendo dalla cintola due lime inglesi. - C'è da fare? - chiese Negapatnan, con emozione. - Devi aiutarmi, - rispose Tremal-Naik. Taglieremo le sbarre della feritoia. - Non s'accorgeranno che tu mi hai aiutato a fuggire? - Non s'accorgeranno di nulla. Sciolse i legami che stringevano il corpo, le braccia ed entrambi i piedi del prigioniero, e assalirono vigorosamente i ferri, cercando di non fare rumore. Tre sbarre erano state di già divelte e non ne rimaneva che una, quando Tremal- Naik avvertì uno scalpiccìo che veniva dalla scala. - Fermati! - diss'egli rapidamente. Qualcuno scende. - Il sipai forse? - Certo è lui. - Allora siamo perduti. - Non ancora. Sai gettare il laccio? - Giammai fallii il colpo. Tremal-Naik sciolse il laccio che portava stretto attorno al corpo, nascosto dal dubgah e glielo diede. - Mettiti presso alla porta - gli disse, estraendo il pugnale. - Il primo che appare, uccidilo. Negapatnan ubbidì prendendo il laccio nella mano dritta. Tremal-Naik si mise di fronte a lui, dietro allo stipite della porta, col pugnale alzato. Il rumore andava avvicinandosi. D'un tratto un lume rischiarò la scala e apparve un sipai, con una scimitarra sguainata. - Attento, Negapatnan, - bisbigliò Tremal-Naik. La faccia del thug divenne terribile. Gli occhi mandavano sinistri bagliori. Le labbra lasciavano a nudo i denti, le nari si dilatavano. Pareva una bestia assetata di sangue. Il sipai si arrestò sull'ultimo pianerottolo. - Saranguy! - chiamò. - Scendi, - disse Tremal-Naik. - Non ci si vede più. - Va bene, - rispose, e varcò la soglia della cantina. Negapatnan era lì. Il laccio fischiò nell'aria e si strinse così fortemente attorno al collo, che il sipai cadde al suolo senza emettere un lamento. - Devo strozzarlo? - chiese il thug, ponendo un piede sul petto del caduto. - È necessario, disse Tremal-Naik, freddamente. Negapatnan tirò a sé il laccio. La lingua del sipai uscì un palmo dalle labbra, gli occhi schizzarono dalle orbite e la pelle da bronzina divenne nera. Agitò per qualche istante le braccia, poi si irrigidì. Era morto. - Che la dea Kâlì abbia il suo sangue, - disse il fanatico, sciogliendo il laccio. - Spicciamoci, prima che scenda qualche altro. La feritoia fu nuovamente assalita e la quarta sbarra fu spezzata. - Passerai? - chiese Tremal-Naik. - Passerei per una feritoia molto più stretta. - Sta bene. Ora legami solidamente e imbavagliami. - Il thug lo guardò con sorpresa. - Io legarti? E perché? - chiese. - Perché non si sospetti che io sono uno dei tuoi. - Ti capisco. Sei più astuto di me. Tremal-Naik si gettò in terra presso al cadavere del sipai, e Negapatnan lo legò e lo imbavagliò. - Sei un brav'uomo, - disse il thug. - Se un giorno avrai bisogno di un amico fedele, ricordati di me. Addio. Si slanciò verso la feritoia, dopo di essersi armato delle pistole del sipai, vi si issò e scomparve. Non erano trascorsi ancora dieci secondi, che s'udì un colpo di fucile ed una voce gridare: - All'armi! Un uomo fugge!

Che mi abbiano ubbriacato con qualche bevanda a me sconosciuta? Fece uno sforzo per alzarsi, ma subito ricadde; aveva udito aprirsi una porta. - Chi scende qui? - chiese. - Io, Bhârata, - rispose il sergente avanzandosi. - Finalmente - esclamò Tremal-Naik. - Mi spiegherai ora per quale motivo lo mi trovo qui prigioniero. - Perché ormai sappiamo che tu sei un thug. - Io! ... Un thug! ... - Sì, Saranguy. - Tu menti! ... - No, hai parlato, hai tutto confessato. - Quando? - Poco fa. - Tu sei pazzo, Bhârata. - No, Saranguy, ti abbiamo dato da bere la youma e tu hai confessato ogni cosa. Tremal-Naik lo guardò con ispavento. Si ricordava della limonata che il capitano gli aveva fatto bere. - Miserabili! - esclamò con disperazione. - Vuoi salvarti? - disse Bhârata, dopo un breve silenzio. - Parla, - disse Tremal-Naik con voce rotta. - Confessa tutto e forse il capitano ti farà grazia della vita. - Non lo posso: ucciderebbero la donna che io amo. - Chi? - I thugs. - Quale storia narri tu? Parla. - È impossibile! - esclamò Tremal-Naik con accento selvaggio. - Sian tutti maledetti! - Ascoltami, Saranguy. Ormai noi sappiamo che i thugs hanno la loro sede a Raimangal, ma ignoriamo e quanti siano e dove vivano. Se tu lo dici, chissà, forse non morrai. - E cosa farete di tutti quei thugs? - chiese Tremal-Naik con voce strozzata. - Li fucileremo tutti. - Anche se fra essi vi fossero delle donne? - Esse prima di tutti. - Perché? ... Quale colpa hanno? - Sono più terribili degli uomini. Rappresentano la dea Kâlì. - T'inganni, Bhârata! T'inganni! - Tanto peggio. - Tremal-Naik si prese la fronte fra le mani, conficcandosi le unghie nella pelle. I suoi occhi erravano smarriti, il suo volto era pallidissimo, quasi cinereo, ed il petto gli si sollevava impetuosamente. - Se si concedesse la vita ad una di quelle donne ... forse parlerei. - È impossibile, poiché prenderli vivi costerebbero torrenti di sangue. Li soffocheremo tutti, come bestie feroci, nei loro sotterranei. - Ma ho una donna, una fidanzata! - esclamò Tremal-Naik con un accento disperato. - Vuoi tu, tigre, farla morire! ... No, no, non parlerò. Uccidetemi, tormentatemi consegnatemi alle autorità inglesi, fate di me quello che volete, non parlerò.. I thugs sono numerosi e potenti, si difenderanno e forse salveranno colei che io tanto ho amato e che amo ancora. - Una domanda ancora. Chi è questa donna? - Non posso dirlo. - Saranguy, - disse con voce alterata, - vuoi dirmi chi è quella donna? - Mai. - È bianca o abbronzata? - Non te lo dirò. - Sarà una fanatica come le altre. Tremal-Naik non rispose. - Sta bene, - ripeté il sergente. - Fra tre o quattro giorni ti condurremo a Calcutta. Una viva commozione alterò i lineamenti del prigioniero, il quale guardò il sergente che usciva e la feritoia. - Questa notte bisogna fuggire, - mormorò, - o tutto è perduto. La giornata trascorse senza che qualche cosa di nuovo accadesse. A mezzodì e al tramonto fu portata al prigioniero un'ampia scodella di carri e una coppa di tody. Appena il sole tramontò dietro le foreste e l'oscurità nella cantina divenne fitta, Tremal-Naik respirò. Stette cheto per tre lunghe ore, temendo che qualcuno improvvisamente entrasse, poi si mise alacremente all'opera per tentare l'evasione. Gli indiani sono famosi nel legare le persone ed occorre una lunga pratica per sciogliere i loro nodi complicatissimi. Tremal-Naik per fortuna possedeva una forza prodigiosa e buoni denti. Con una scossa allentò una corda che gl'impediva di curvare la testa poi, pazientemente, non badando al dolore, avvicinò uno dei polsi alla bocca e si mise a lavorare coi denti, tagliando, segando, sfilacciando. Riuscito a tagliare la corda, sbarazzarsi degli altri legami fu per lui l'affare d'un sol momento. S'alzò stiracchiandosi le membra indolenzite, s'avvicinò poscia alla feritoia e guardò fuori. La luna non era ancora sorta, ma il cielo era splendidamente stellato. Buffi d'aria fresca e imbalsamata dal profumo di mille diversi fiori, entravano per la feritoia. Nessun rumore veniva dal di fuori, né persona umana scorgevasi sulla fosca linea dell'orizzonte. Il prigioniero afferrò una delle sbarre e la scosse furiosamente; la curvò ma non la spezzò. - La fuga per di qui è impossibile, - mormorò. Si guardò attorno cercando un oggetto qualsiasi che potesse aiutarlo a svellere le spranghe, ma non ne trovò alcuno. - Sono perduto, - mormorò, con ispavento. - Eppure non voglio morire, non voglio scendere nella tomba ora che la felicità è vicina. S'avvicinò alla porta, ma s'arrestò di botto. Un sordo mugolìo, che veniva dal di fuori, era giunto improvvisamente fino a lui. Volse la testa verso la feritoia e la vide occupata da una massa oscura in mezzo alla quale brillavano due punti luminosi, verdognoli. Una speranza gli attraversò il cervello. - Darma! ... Darma! ... - mormorò con voce tremante per l'emozione. La tigre emise un secondo brontolìo, scuotendo le spranghe di ferro. Il prigioniero s'avventò verso la feritoia, afferrando le zampe della fedele bestia. - Sono salvo! - esclamò egli. - Brava Darma, lo sapevo che tu saresti venuta a trovare il tuo padrone. Ora non temo più il capitano né il suo sergente. Lasciò la feritoia e corse in un angolo dove aveva visto un brano di carta. Lo pulì accuratamente, si morse un dito facendo uscire alcune goccie di sangue e con una scheggia strappata al palo scrisse rapidamente e come lo permettevano le tenebre, le seguenti righe: Sono stato tradito e rinchiuso nella prigione di Negapatnan. Soccorretemi prontamente o tutto è perduto. Tremal-Naik Arrotolò la cartolina, tornò alla feritoia, la legò con una cordicella al collo della tigre. - Corri, Darma, ritorna dai thugs, - le disse: - Il tuo padrone corre un gran pericolo. La fiera scosse la testa e partì colla rapidità di una freccia. - Va', - diceva l'indiano, seguendola cogli occhi.- Essi comprenderanno quale pericolo io corro e verranno a salvarmi o mi daranno almeno un mezzo qualsiasi per evadere. Passò una lunga ora. Tremal-Naik aggrappato convulsivarnente alle sbarre, attendeva ansiosamente il ritorno, in preda a mille timori. D'un tratto nel fondo della pianura scorse la tigre che s'avvicinava con balzi giganteschi. - Se la scoprissero? mormorò, tremando. Fortunatamente Darma poté giungere fino alla feritoia senza essere stata scoperta dalle sentinelle. Al collo portava un grosso involto che Tremal-Naik, con gran pena, riuscì a far passare tra le sbarre. L'aperse. Conteneva una lettera, una rivoltella, un pugnale, delle munizioni, un laccio e due mazzolini di fiori accuratamente rinchiusi in due vasi di cristallo. - Cosa significano questi fiori? - si domandò, sorpreso. Aprì la lettera, la espose ad un raggio di luna che penetrava per la feritoia e lesse: Siamo circondati da alcune compagnie di sipai, ma uno dei nostri segue Darma. Grandi pericoli ci minacciano e la tua evasione è necessaria. Unisco alle armi due mazzi di fiori. I bianchi addormentano, i rossi combattono l'efficacia dei bianchi. Addormenta le sentinelle e tieni ben appresso i rossi. Una volta libero, espugna l'abitazione e tronca la testa del capitano. Nagor segnalerà la sua presenza col noto fischio e ti presterà man forte. Affrettati. Kougli Forse qualche altro si sarebbe spaventato nel leggere quella lettera, ma non così Tremal-Naik. In quel momento supremo si sentiva tanto forte da espugnare la casa anche senza l'aiuto di Nagor. - L'amore mi darà la forza e il coraggio per operare il miracolo, - aveva detto egli. Nascose le armi e le munizioni sotto un mucchio di terra e tornò alla feritoia. - Vattene, Darma, - le disse. - Tu corri un gran pericolo. La tigre s'allontanò, ma non aveva fatto venti passi che s'udì una delle sentinelle gridare: - La tigre! ... La tigre! ... Vi tenne dietro un colpo di fucile. Un'altra detonazione rimbombò, ma la brava bestia aveva raddoppiata corsa e in breve tempo fu fuori di vista. S'udì un rumore di passi precipitati ed alcuni uomini s'arrestarono dinanzi alla feritoia. - Ehi! - esclamò una voce che Tremal-Naik riconobbe per quella di Bhârata. - Dov'è la tigre? - È scappata, - rispose la sentinella che stava nella veranda. - Dov'era? - Presso la feritoia. - Scommetterei cento rupie contro una, che è un'amica di Saranguy. Presto, due uomini nella cantina o il briccone ci sfugge. Tremal-Naik aveva udito tutto. Prese i due vasi, li spezzò, gettò i fiori bianchi nell'angolo più oscuro, nascose i rossi in seno e si sdraiò addosso al palo, accomodandosi attorno al corpo le corde e stringendole meglio che poté. Era tempo! Due sipai armati e muniti d'una torcia resinosa entrarono. - Ah! - esclamò uno. - Ci sei ancora, Saranguy? - Chiudi il becco che io voglio dormire, - disse Tremal-Naik fingendosi di cattivo umore. - Puoi dormire, mio caro, e con tutta tranquillità poiché noi veglieremo. Tremal-Naik alzò le spalle, s'appoggiò al palo e chiuse gli occhi. I due sipai, piantata la fiaccola in una spaccatura della parete, si sedettero per terra colle carabine fra le ginocchia. Erano trascorsi appena pochi minuti quando Tremal-Naik avvertì un acuto profumo che davagli alla testa, malgrado i fiori rossi che tramandavano un profumo non meno acuto e affatto speciale. Guardò i due sipai: sbadigliavano in modo tale da temere che si slogassero le mascelle. - Provi nulla tu? - chiese il soldato più giovane, dopo qualche tempo. - Sì, - rispose il compagno. - Mi pare d'essere ... - Ubbriaco, vuoi dire. - Proprio così, e mi sento prendere da una voglia irresistibile di chiudere gli occhi. - Da cosa provenga ciò? - Non lo saprei. - Che ci sia qualche manzanillo presso di noi? - Non ne ho veduto nel parco. La conversazione cadde lì. Tremal-Naik, che stava attento, li vide chiudere a poco a poco gli occhi, riaprirli tre o quattro volte, poi richiuderli. Lottarono ancora per qualche minuto, poi caddero pesantemente a terra, russando sonoramente. Era il momento d'agire. Tremal-Naik si strappò di dosso i legami e silenziosamente s'alzò. - La libertà ... ! esclamò. Andò a prendere le armi, legò solidamente i due addormentati e slanciossi verso la scala.

. - Dove supponi che abbiano le loro capanne? - L'ignoro, ma oserei dire che ogni notte si radunano sotto la fosca ombra del banian sacro. - Sta bene, - disse Tremal-Naik. - Kammamuri, prendi i remi. - Cosa vuoi fare, padrone? - chiese il maharatto. - Recarmi al banian. - Oh! Non farlo, padrone! - gridarono a un tempo i due indiani. - Perché? - Ti ammazzeranno come hanno ammazzato il povero Hurti. Tremal-Naik li guardò con due occhi che mandavano fiamme. - Il cacciatore di serpenti non tremò mai in sua vita, né tremerà questa sera. Al canotto, Kammamuri! - esclamò egli, con un tono di voce da non ammettere replica. - Ma, padrone! ... - Hai paura forse? - chiese sdegnosamente Tremal-Naik. - Sono maharatto! - disse l'indiano con fierezza. - Va' allora. Questa notte io saprò chi sono quegli esseri misteriosi che mi hanno dichiarato la guerra: e chi è colei che mi ha stregato. Kammamuri prese un paio di remi e si diresse verso la riva. Tremal-Naik entrò nella capanna, staccò da un chiodo una lunga carabina dalla canna rabescata, si munì di una gran fiasca di polvere e si passò nella cintola un largo coltellaccio. - Aghur, tu rimarrai qui, - diss'egli, uscendo. Se fra due giorni non saremo ritornati, verrai a raggiungerci a Raimangal colla tigre o con Punthy. - Ah! padrone ... - Non ti senti il coraggio bastante per venire laggiù? - Del coraggio ne ho, padrone. Volevo dire che fai male a recarti in quell'isola maledetta. - Tremal-Naik non si lascia assassinare, Aghur. - Prendi con te Darma. Potrebbe esserti utile. - Tradirebbe la mia presenza ed io voglio sbarcare senza esser veduto, né udito. Addio, Aghur. Si gettò la carabina ad armacollo e raggiunse Kammamuri, che lo attendeva presso ad un piccolo gonga, rozzo e pesante battello, scavato nel tronco di un albero. - Partiamo, disse. Saltarono nel battello e presero il largo, remando lentamente ed in silenzio. Un'oscurità profonda, resa densa da una nebbia pestilenziale che ondeggiava sopra i canali, le isole e le isolette, copriva le Sunderbunds e la corrente del Mangal. A destra ed a sinistra si estendevano masse enormi di bambù spinosi, di cespugli fitti, sotto i quali si udivano brontolare le tigri e sibilare i serpenti, di erbe lunghe e taglienti, confuse, amalgamate, strette le une alle altre in modo da impedire il passo. In lontananza però, sulla fosca linea dell'orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania e dei cocchi dall'aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola. Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mormorìo delle acque giallastre che radevano i rami arcuati dei paletuvieri e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio di aria calda, soffocante, avvelenata. Tremal-Naik, sdraiato a poppa, col fucile sottomano, taceva e teneva aperti gli occhi fissandoli ora sull'una e ora sull'altra riva, dove udivansi sempre rauchi brontolii e sibili lamentevoli. Kammamuri, invece, seduto nel mezzo, faceva volare il piccolo gonga il quale lasciavasi dietro una scia di una fosforescenza ammirabile, da far quasi credere che quelle acque corrotte fossero sature di fosforo. Ogni qual tratto, però, cessava di remare, ratteneva il respiro e stava alcuni istanti in ascolto, chiedendo di poi al cacciatore di serpenti se nulla avesse udito o veduto. Era di già mezz'ora che navigavano, quando il silenzio fu rotto dal ramsinga, che si fece udire sulla riva destra, ma così vicino, da sospettare che il suonatore si trovasse a un centinaio di passi di distanza. - Alto! - mormorò Tremal-Naik. Non aveva ancora terminata la parola, che un secondo ramsinga rispose al primo, ma ad una distanza maggiore, intuonando una melodia malinconica, quanto era brillante e viva l'altra. La musica indiana si basa su quattro sistemi che hanno un'intima relazione colle quattro stagioni dell'anno ed a ciascuno di essi viene applicato un tono e modo particolare. È malinconica nella stagione fredda, viva ed allegra nel ringiovanire della stagione, languida nei grandi calori d'estate e brillante nell'autunno. Perché mai quei due istrumenti suonavano così contrariamente? Era forse un segnale? Kammamuri lo temeva. - Padrone - diss'egli, - siamo stati scoperti. - È probabile, - rispose Tremal-Naik, che ascoltava attentamente. - Se ritornassimo? Questa notte non fa per noi. - Tremal-Naik non ritorna mai. Arranca e lascia che i ramsinga suonino a loro piacimento. Il maharatto riprese i remi spingendo innanzi il gonga, il quale non tardò a giungere in un luogo dove il fiume stringevasi a mo' di collo di bottiglia. Un buffo d'aria tiepida, soffocante, carica d'esalazioni pestifere, giunse al naso dei due indiani. Dinanzi a loro, ad un tre o quattrocento passi, apparvero molte fiammelle che vagolavano bizzarramente sulla nera superficie del fiume. Alcune, come fossero attirate da una forza misteriosa, vennero a danzare dinanzi alla prua del gonga, allontanandosi dipoi con fantastica rapidità. - Eccoci al cimitero galleggiante, - disse Tremal-Naik. - Fra dieci minuti arriveremo al banian. - Passeremo col gonga? - chiese Kammamuri. - Con un po' di pazienza si passerà. - È male, padrone, offendere i morti. - Brahma e Visnù ci perdoneranno. Arranca, Kammamuri. Il gonga, con pochi colpi di remo raggiunse la stretta del fiume e sboccò in una specie di bacino, sul quale si intrecciavano i lunghi rami di colossali tamarindi, formando una fitta volta di verzura. Colà galleggiavano parecchi cadaveri che i canali del Gange avevano trascinato fino al Mangal. - Avanti! - disse il cacciatore di serpenti. Kammamuri stava per ripigliare i remi, quando la volta di verzura, che copriva quel cimitero galleggiante, s'aprì per dar passaggio a uno stormo di strani esseri dalle ali nere, i trampoli lunghissimi, i becchi aguzzi e smisurati. - Cosa c'è di nuovo? - esclamò Kammamuri sorpreso. - I marabù, - disse Tremal-Naik. Infatti un centinaio di quei funebri uccelli del sacro fiume, calavano, starnazzando giocondamente le ali, posandosi sui cadaveri. - Avanti, Kammamuri, - ripeté Tremal-Naik. Il gonga spinto innanzi, e dopo una buona mezz'ora, attraversato il cimitero, trovossi in un bacino assai più ampio, completamente sgombro, che veniva diviso in due bracci da una aguzza punta di terra, sulla quale spiccava un grandissimo e singolare albero. - Il banian! - disse Tremal-Naik. Kammamuri a quel nome fremette. - Padrone! - mormorò, coi denti stretti. - Non temere, maharatto. Deponi i remi e lascia che il gonga s'areni da sé sull'isola. Forse c'è qualcuno nei dintorni. Il maharatto ubbidì sdraiandosi sul fondo del canotto, mentre Tremal-Naik, armata per ogni precauzione la carabina, faceva altrettanto. Il gonga, trasportato dalla corrente che facevasi lievemente sentire, si diresse, girando su se stesso, verso la punta settentrionale dell'isola Raimangal, sede degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti. Un silenzio profondo regnava in quel luogo. Non si udiva nemmeno lo stormire dei giganteschi bambù, essendo cessato il venticello notturno, né le note dei ramsingo. Il fiume stesso pareva che fosse diventato d'olio. Tremal-Naik di quando in quando, però, alzava con precauzione la testa e scrutava attentamente le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio. Il gonga si arenò, con un lieve strofinìo, a un centinaio di passi appena dal banian, ma i due indiani non si mossero. Passarono dieci minuti d'angosciosa aspettativa, poi Tremal-Naik ardì alzarsi. Prima cosa che gli diede nell'occhio, fu una forma nera, confusa, distesa fra le erbe, ad una ventina di metri dalla riva. - Kammamuri, - mormorò. - Alzati ed arma le tue pistole. Il maharatto non se lo fece dire due volte. - Cosa vedi, padrone? - chiese egli con un filo di voce. - Guarda laggiù. - Eh! ... - fe' il maharatto, sbarrando gli occhi. - Un uomo! - Zitto! Tremal-Naik alzò la carabina prendendo di mira quella massa nera che aveva l'apparenza d'un essere umano sdraiato, ma l'abbassò senza scaricarla. - Andiamo a vedere cos'è, Kammamuri, - diss'egli.- Quell'uomo non è vivo. - E se fingesse d'essere morto? - Peggio per lui. I due indiani sbarcarono, dirigendosi quatti quatti verso quell'individuo che non dava segno di vita. Erano giunti ad una diecina di passi, quando un marabù si alzò rumorosamente volando verso il fiume. - È un uomo morto, - mormorò Tremai-Naik. - Se fosse ... Non terminò la frase. In quattro salti raggiunse quel cadavere; una sorda esclamazione gli uscì dalle labbra contorte per l'ira. - Hurti! - esclamò. Infatti quel cadavere era Hurti, il compagno dell'indiano Aghur. L'infelice era disteso sul dorso, colle gambe e le braccia raggrinzate, probabilmente per lo spasimo, la faccia spaventosamente scomposta e gli occhi aperti, schizzanti dalle orbite. Le ginocchia erano rotte e insanguinate ed egualmente i piedi, segno evidente che era stato trascinato per qualche tratto sul terreno, forse quando era ancora agonizzante, e dalla bocca sbarrata uscivagli d'un buon palmo la lingua. Tremal-Naik sollevò lo sventurato indiano per vedere in qual luogo era stato colpito, ma non trovò sul corpo di lui alcuna ferita. Esaminandolo però meglio, vide attorno al collo una lividura assai marcata e dietro il cranio una contusione, che pareva prodotta da una grossa palla o da un sasso arrotondato. - L'hanno stordito prima e poi strangolato, diss'egli, con voce sorda. - Povero Hurti, - mormorò il maharatto.- Ma perché assassinarlo e in questo modo? - Lo sapremo, Kammamuri, e ti giuro che Tremal-Naik non lascierà impunito il delitto. - Ma temo, padrone, che gli assassini siano molto potenti. - Tremal-Naik sarà più potente di loro. Orsù, ritorna al canotto. - E Hurti? Lo lascieremo qui? - Lo getterò nelle sacre acque del Gange domani mattina. - Ma le tigri, questa notte lo divoreranno. - Sul cadavere di Hurti veglia il cacciatore di serpenti. - Ma come? Non ritorni tu? - No, Kammamuri, io rimango qui. Quando avrò sbrigato le mie faccende, abbandonerò quest'isola. - Ma tu vuoi farti assassinare. - Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra del fiero indiano. - Tremal-Naik è un figlio della jungla! Ritorna al canotto, Kammamuri. - Oh mai, padrone! - Perché? - Se ti accade una disgrazia, chi ti aiuterà? Lascia che t'accompagni e ti giuro che ti seguirò dove tu andrai. - Anche se io mi recassi a trovare la visione? - Sì, padrone. - Rimani con me, prode maharatto, e vedrai che noi due faremo per dieci. Seguimi! Tremal-Naik si diresse verso la riva, afferrò il gonga a tribordo e con una violenta scossa lo rovesciò, calando a picco. - Cosa fai? - chiese Kammamuri, sorpreso. - Nessuno deve sapere che noi siamo qui giunti. E ora, a noi lo svelare il mistero. Cambiarono la polvere alle carabine ed alle pistole, onde essere sicuri di non mancare al colpo, e si diressero verso il banian, la cui imponente massa spiccava fieramente nella profonda tenebra.

. - Che ci abbiano scoperti? - Deve essere così. I furbi hanno sospettato qualche cosa e tengono d'occhio le barche che salgono il fiume. Non vedi degli uomini, sulla terrazza? Tremal-Naik diresse lo sguardo verso il bengalow. Sulla terrazza che dominava il fiume scorse un gruppo di persone. La luna faceva brillare le canne dei loro fucili. - Ehi! ... fermati! ... - ripeté la stessa voce. - Tiriamo innanzi, - disse Tremal-Naik. - Se vorranno attaccarci, ci daranno la caccia. La baleniera che aveva rallentato la corsa, continuò a risalire. Un clamore assordante s'alzò sulla terrazza. - Tuoni e fulmini! - urlò un'altra voce.- Fate fuco! - Sono essi! - gridò un'altra voce.- Fuoco, amici! Tre o quattro colpi di fucili rintronarono. I thugs, quantunque di già lontani un cinque o seicento braccia, udirono le palle fischiare sopra l'imbarcazione. - Ah! briganti! - esclamò Tremal-Naik, raccogliendo la carabina. - Bada! - gridò uno dei thugs. - Si preparano a darci la caccia. - Penso io a tenerli lontani. Drizzate l'imbarcazione verso quel grab che scende il fiume; forse viene da Calcutta e potrà darci qualche notizia sulla spedizione. - Attento, Tremal-Naik! - gridò uno dei remiganti. L'indiano volse lo sguardo verso la piccola rada del bengalow e scorse un mur- punky, montato da cinque o sei sipai e da una mezza dozzina di remiganti. - Arranca! - comandò egli, montando la carabina. La baleniera correva sempre con crescente celerità, nondimeno il mur-punky guidato da uomini più abili e forse più leggiero, guadagnava rapidamente strada. A prua era stata rizzata una gabbionata e dietro si erano nascosti i sipai, colle carabine spianate. - Fermati! - tuonò una voce - Arranca sempre! comandò Tremal-Naik. Un sipai alzò la testa. Quel momento bastò: Tremal-Naik puntò rapidamente l'arma e lasciò partire il colpo. Il sipai cacciò un grido, batté l'aria colle mani e piombò in fondo al battello. - A chi tocca! - gridò Tremal-Naik, raccogliendo un'altra carabina. Gli fu risposto con una scarica generale. Le palle scrosciarono sui fianchi della baleniera. Un altro sipai si mostrò e cadde come il primo. Quella matematica precisione sgomentò i sipai, i quali, dopo essersi brevemente consigliati, virarono di bordo dirigendosi verso la riva opposta. - Sta' in guardia, Tremal-Naik,- disse uno dei thugs. - Vi sono dei bengalow inglesi su quella riva. - Che forniranno a loro degli uomini e delle barche, - aggiunse un secondo. - Non lasceremo a loro tempo, - disse l'indiano; drizzate la prua al grab. La nave che scendeva al mare, non era lontana che mezzo miglio. Era uno di quei vascelli che si costruiscono a Bombay, ove, pare, la navigazione venne fino dai più remoti tempi ridotta a maggior perfezione che negli altri luoghi dell'India, e dove trovansi gli alberi del tek, noti per la loro estrema durezza e dei salici che resistono alle acque per qualche secolo. La prua di quel grab, di architettura puramente indiana, era assai slanciata ed aguzza, adorna di divinità e di teste d'elefante scolpite con rara maestria. I suoi tre alberi coperti di tela, dagli alberetti al ponte, si curvavano sotto la fresca brezza del settentrione. In quindici minuti la baleniera lo abbordava sotto l'anca di tribordo. Il capitano del legno si curvò sul capo di banda, per sapere cosa desideravano. - Da dove venite? - chiese Tremal-Naik. - Dalla città bianca - rispose il lupo di mare. - Da quante ore siete passato dinanzi al forte William? - Da cinque. - Avete veduto delle navi da guerra? - Sì, una fregata: la Cornwall. - Caricava? - No, imbarcava soldati. - Sono essi che vanno a Raimangal, - dissero i thugs. - Sapete quale sia la destinazione della Cornwall?- chiese Tremal-Naik, coi denti stretti. - L'ignoro, - rispose il capitano. - Era accesa la macchina? - Sì. - Grazie, capitano. La baleniera si staccò dal grab. - Avete udito? - chiese Tremal-Naik, con rabbia. - Sì, - risposerò i thugs, curvandosi sui remi. - Bisogna giungere prima che la fregata prenda il largo o tutto è perduto. Arrancate! arrancate! In quell'istante uno dei thugs gettò un grido di trionfo. - Udite! - esclamò egli. Ognuno tese l'orecchio trattenendo il respiro. Al sud si udiva un sordo muggito come l'avvicinarsi d'una burrasca. - La marea! - gridarono i thugs. La corrente dell'Hugly si era improvvisamente arrestata. Al sud apparve un'onda spumeggiante, che veniva innanzi colla velocità di un cavallo lanciato al galoppo. Arrivò con un cupo muggito sollevando la baleniera e passò oltre salendo rapidamente verso Calcutta, trascinando ammassi di detriti, di erbe e non pochi tronchi d'albero. - Alla riva destra!- comandò il capo dei remiganti. - Tra un'ora saremo al forte. La baleniera raggiunse la riva destra, ove la marea si fa sentire più rapida che sulla riva sinistra, e riprese la navigazione potentemente aiutata dai remi vigorosamente ed abilmente manovrati. Sorgeva allora l'alba. Ad oriente una luce dapprima biancastra, poi gialla, indi rossastra, s'alzava invadendo rapidamente il cielo. Gli astri, poco prima scintillanti, a poco a poco impallidivano, scomparivano e le urla delle fiere diventavano più rade e più fioche. Le rive della superba fiumana, man mano che la baleniera avvicinavasi a Calcutta, perdevano il loro aspetto selvaggio. Le grandi foreste popolate da numerose bande di tigri, di bufali selvaggi, di sciacalli e di serpenti e le immense piantagioni di bambù, a poco a poco scomparivano per lasciare il posto a fertilissime campagne coltivate con grande cura, a piantagioni di indaco, di cotone e cinnamomo, a bellissimi e svariati alberi carichi di frutta d'ogni specie, ad eleganti ville ed a grossi villaggi. Drappelli di ungko, scimmie col petto sporgente, la pelliccia nera, bruna o grigia e il volto quasi umano, apparivano fra le macchie di alberi, dondolandosi fra i rami, facendo salti prodigiosi di dieci e persino quindici metri; poi vedevansi bande di axis, eleganti animali somiglianti ai cervi, col pelo fulvo e picchiettato di bianco; indi tranquilli bufali, che venivano a dissetarsi, e nell'aria od appollaiati sui tetti delle capanne o posati sui rami arcuati dei paletuvieri, uccelli d'ogni sorta e d'ogni grandezza, nibbi, gypaeti, bozzagri, ibis brune, marangoni, folaghe dalle penne porporine ed azzurre, anitre braminiche e giganteschi arghilah, alcuni dei quali affacendati a far scomparire tutto intero qualche corvo impertinente, che aveva osato disputare a loro qualche preda. - Siamo vicini a Calcutta, - disse un remigante, dopo aver osservato attentamente le due rive. Tremal-Naik, che da qualche ora era in preda ad una febbrile impazienza, nell'udire quelle parole si alzò di scatto, spingendo lo sguardo verso il nord. - Dov'è? - chiese egli. - La vedi tu? - Non ancora, ma fra breve la vedremo. - Arranca! ... arranca! ... La baleniera accelerò la corsa. I thugs, non meno impazienti del loro capo, arrancavano allora con vero furore, piegando le pagaie sotto la potente trazione. Nessuno parlava per non perdere una sola battuta. Alle otto, un colpo di cannone si udì verso l'alto corso del fiume. - Cos'è questo? - chiese Tremal-Naik, con ansietà. - Siamo vicini a Kiddepur. - Qualche legno da guerra parte e saluta. - Presto! presto! ... Potessimo arrivare a tempo! ... Il fiume cominciava ad animarsi straordinariamente. Barchi brick, brigantini, golette, piroscafi salivano e scendevano la corrente in gran numero. Delle grandi grab, dei grandi pariah della costa del Coromandel le cui barocche costruzioni non permettono di compiere che un sol viaggio all'anno, cioè all'epoca del monsone favorevole; dei leggieri poular di Dacca, rapidissimi forniti di alberi e di una grande vela quadrata; dalle bangle coperte di tetti di stoppia e con alberi di bambù larghissimi e dei magnifici fylt' sciarra larghi cinquanta e più piedi, riccamente dorati, e condotti da più di trenta rematori, s'incrociavano in mille guise o stavano ancorati lungo le rive dinanzi ai bengalow od ai villaggi. Tremal-Naik doveva mettere in opera tutta la sua abilità, per non cozzare contro quella folla di bastimenti e di barche che cresceva enormemente, tanto da occupare, talvolta, il fiume intero. I thugs arrancavano sempre, con crescente furia, tendendo i muscoli in modo tale, da far quasi scoppiare la pelle. Alle nove la baleniera passava dinanzi a Kiddepur, grosso villaggio che sorge sulla riva sinistra del fiume, e pochi minuti più tardi giungeva in vista di Calcutta, la regina del Bengala, la capitale di tutti i possedimenti inglesi delle Indie, colla sua linea imponente di palazzi, colle sue pagode, colle sue cupole, coi suoi bizzarri campanili, colle sue capanne, coi suoi squares e col forte William, la più grande e robusta fortezza che abbia la penisola, e che ha bisogno d'almeno diecimila uomini per essere difesa. Tremal-Naik era balzato in piedi come spinto da una molla e guardava con occhio stupefatto quell'agglomeramento straordinario di fabbricati, di giardini e di vascelli. - La nave? - chiese, con accento selvaggio.- Dov'è la nave? - Là! ... Là.! ... guarda! ... - esclamò un thug. Tremal-Naik guardò nella direzione indicata e vide a poca distanza dalle cateratte che mettono l'acqua nei fossati del forte William, una fregata di forme svelte, ma assai impoppata, attrezzata a barco, ed armata di numerosi cannoni, vomitare nubi di fumo dal camino che sembrava troppo stretto. Sul ponte andavano e venivano soldati di fanteria e marinai, affacendati a stivare botti ed a ritirare le gomene sciolte dai gavitelli. Si capiva anche a prima vista, che la nave preparavasi a partire. Tremal-Naik provò una stretta al cuore. - Presto, ragazzi! ... presto! ... - esclamò egli con accento disperato. I thugs raddoppiarono i loro sforzi. La baleniera, spinta innanzi dalle sei pagaie manovrate con forza sovrumana, non correva più, volava. I bordi gemevano sotto i colpi vigorosi e l'acqua rimbalzava fino sulla poppa. - Presto! ... presto! ... - gridava Tremal-Naik, completamente fuori di sé. Ad un tratto emise un urlo straziante. - Ada! ... Ada! ... Perduto! ... tutto è perduto! ... La fregata aveva abbandonato il molo e scendeva maestosamente il fiume, vomitando nubi di fumo e mandando lunghi fischi. I thugs, sfiniti, impotenti di più oltre lottare, si erano arrestati guardando con occhio feroce la nave, che passava a duecento passi dalla imbarcazione. - Tutto è perduto! - urlò un di loro, tendendo il pugno. - No, no! ... - esclamò Tremal-Naik. Si curvò, raccolse la carabina, l'armò e diresse la canna sulla fregata. Sul ponte di comando aveva veduto un uomo e l'aveva subito riconosciuto: era il capitano Macpherson. Già aveva imbracciato l'arme, già stava per far partire il colpo, quando un thug lo atterrò. - Tu vuoi farci assassinare, - disse lo strangolatore, disarmandolo. Tremal-Naik si rialzò cogli occhi accesi, le pugna alzate, il viso stravolto. - Ma non sai tu, miserabile, che se i thugs perdono Raimangal io perdo la mia Ada? - urlò egli. - Calmati, Tremal-Naik. Vi sono altre navi che si recano nelle Sunderbunds. - Quali? - Guarda quella cannoniera. Imbarca cannoni e botti di polvere. Non vedi sul picco la bandiera inglese? Tremal-Naik vide infatti una grande cannoniera, ancorata dinanzi alla spianata dello Strand, che preparavasi a partire. Un pennacchio di fumo usciva dal camino. - Se fosse vero! ... - mormorò egli con voce tremante. - Al molo! al molo La baleniera con quattro arrancate approdò dinanzi a Kuti-Bazar. Proprio nel medesimo istante, un canotto montato da un quartier-mastro della Reale Marina prendeva il largo. - Ohe! Hider! - gridò un thug. Il quartier-mastro, indiano pur egli, si volse. - Olà, amici, dove andate? - chiese egli tornando a riva. - Chi è quel marinaio? - chiese Tremal-Naik. - Un affiliato, gli fu risposto. Hider in quel frattempo era sbarcato. Era un bell'uomo di alta statura, sui quarant'anni, con una barba nerissima e folta, occhi lucentissimi e membra muscolose. Tra le labbra teneva una corta pipa e fumava vigorosamente. - Amici miei, - disse, avvicinandosi, - qui succedono delle cose assai gravi. - Lo sappiamo, - disse Tremal-Naik. - Chi sei tu? - chiese il quartier-mastro, con diffidenza. Tremal-Naik gli mostrò l'anello che portava in dito. Il marinaio cadde in ginocchio. - Ordina, inviato di Kâlì, - disse con voce tremante. - Conosci il capitano Macpherson? - Forse più di te. - Sai dove conduce la fregata? - Nessuno sa ove vada la Cornwall, ma io ho un sospetto. - La conduce a Raimangal. - Il quartier-mastro scagliò la pipa a fracassarsi sui sassi. - A Raimangal! ... - esclamò egli. - A Raimangal hai detto? - Sì, egli va ad assalire Suyodhana. - Lo sospettavo. Ho fatto imbarcare due affiliati sulla Cornwall. - Che ordini hanno? - Di vegliare e di informarci di quanto succede, appena potranno disertare. - Allora siamo perduti. Il quartier-mastro non rispose. Non trovava parole. - Cosa fa quella cannoniera che si sta armando? chiese Tremal-Naik. - Ci rechiamo a Colombo. - Bisogna che cada in nostra mano. - Cosa vuoi fare della Devonshire? - Per raggiungere la Cornwall prima che getti l'ancora a Raimangal. - E colarla a fondo? - Questo è affar mio, - disse Tremal-Naik. - Comanda. - Quanti affiliati ci sono a bordo della Devonshire? - Siamo in sei. - L'equipaggio ammonta a ... ? - Trentadue uomini. - Bisogna imbarcare almeno dieci affiliati. - È impossibile! - esclamò Hider. - Con sei affiliati non si conquista la cannoniera. - Lo so. - Cosa imbarcano ora? - Cannoni. - E poi? - Delle provviste. - Imbarcheranno delle botti di biscotto e di acqua, suppongo. - È vero. - Sta bene. Invece di botti di biscotto imbarcheranno delle botti contenenti dei thugs. Puoi fare questa sostituzione tu? - Dirigo io l'armamento della Devonshire. - Una parola ancora. Quando si parte? - A mezzanotte, mi disse il capitano. - Credi tu che si raggiungerà la Cornwall? - Forzando molto la macchina si potrebbe raggiungerla. - Mi basta. A questa sera, Hider.

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