Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Saggi di critica d'arte

261826
Cantalamessa, Giulio 3 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Egli era ingiusto come tutti coloro che, affrettando rapidi i passi, si dilungano molto dai predecessori, sì che, volgendosi indietro e vedendoli lontani, li giudicano stremati di forze; era ingiusto di quella ingiustizia che quasi fatalmente convien che abbiano quei grandi a cui la natura speciale del loro genio prescrive di limitar nettamente l’orbita dell’ideale, tanto che s’abituano a non intendere più ciò che sta fuori di quell'orbita, e a supporre che altro ideale diverso dal loro non ci possa essere. Sublime aberrazione dei magnanimi, senza cui forse non sarebbero nate opere che conquidono per l’indipendenza e la forza che le suggellano! Un uomo che aveva esplorato tutte le leggi della struttura umana, rese al suo animo si familiari le forme da farsene quasi linguaggio agile e perfetto, che del suo nobile possesso si vale per sollevare il corpo dell’uomo a un ideale di gagliardia, ch’egli aveva intraveduto nella vergine natura primitiva, e poi attribuisce a quest’uomo sì trasfigurato e forte tutte le infelicità della vita nostra, facendolo contorcere tra gli spasimi, illanguidirsi implorando pietà, gemere sotto un’ira mal repressa, sollevare il viso in atto ribelle, ma sempre serbarlo consapevole e altero della nobiltà di sua natura, quest’uomo, dico, dovea necessariamente trovar povera un’arte ove spira la tranquillità, ancor alquanto impacciata per amabile peritanza istintiva, desiderosa di simmetria, paga di linee che si svolgono semplici e pavida di arrischiarsi alle grandi difficoltà. Si capisce che Michelangelo avesse lodato i pittori di Mezzaratta. Non hanno la scienza delle forme, avrà pensato; sono bambini che balbettano, ma almeno sono animosi, tentano grandi cose, hanno movimento, fuoco, brio. Ma il Francia, tanto men coraggioso di essi quant’è più dotto, non poteva piacergli.

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Sebbene Guido si maturasse artista colla scorta dei Caracci, e questi abbiano il precipuo vanto della gloria ch’ei seppe poi procacciarsi, m’è parso non inutile ricordare il suo primo maestro, perchè Guido non ne dimenticò si presto gl’insegnamenti. C’è in questa pinacoteca un suo quadro molto giovanile, in cui nelle quattro figure dei santi ritte sul piano l’influenza caraccesca è già evidentissima, ma nelle tre figure poste in alto, come apparizione, è evidente del pari la persistenza dei modi appresi nella prima scuola. E siccome una terza cosa vi apparisce, ossia il colore terso e fluido e la facilità incantevole delle modellazioni, ossia vi apparisce l’ingegno personale di Guido, tanto che quel quadro è il preannunzio di ciò che egli diventerà, reputo si possa dire che l’elemento desunto dal Calvari sia stato da lui mantenuto per deliberata volontà, giacchè egli era già si padrone dei mezzi dell’arte da potersene, se avesse voluto, sciogliere affatto. E fosse riconoscenza, che negli animi gentili non si estingue mai, fosse ricorso di quelle compiacenze indimenticabili di certe forme dell'arte provate nell’adolescenza da quelli che la Diva ha toccati in fronte, certo è che Guido non scordò il Calvart mai del tutto, anzi se ne rammentò dipingendo, molto più tardi, una delle sue opere più. perfette. Chi di voi ha veduto il suo Michele nella Concezione dei cappuccini a Roma? Il Delaborde non cita questo quadro nè molti altri dei migliori di Guido; certo non li ha obliati per proposito; ma sia dimenticanza innocente, sia cognizione incompleta, tali silenzi nuocciono non poco alla sua critica. Or io vi dirò candidamente il parer mio. Dopo Raffaello non s’era avuta una più alta idealità di bellezza, una più perfetta depurazione della forma umana da tutti i caratteri della caducità, una percezione più nitida di ciò che, pur sussidiato dai sensi, trasvola oltre i sensi, una rispondenza più immediata tra la visione e la facoltà della mano. Michele è veramente un celeste, il cui volto meraviglioso par che scintilli d’una luce ch’è fuor della nostra natura; la chioma mossa dall’impeto del volo gli aggiunge un accento d’imperio e ne invigorisce la transumana eleganza. Combatte risoluto, ma tranquillo, come chi è certo della vittoria, e abbassa lo sguardo sul nemico, che gli si divincola al piede, con un’alterezza olimpica, da farci pensare che il gentil seme latino, con immutato ideale artistico, ricorra sempre per istinto allo stesso linguaggio dei grandi antichi, e che questo sia il più eletto, il definitivo modo di esprimersi. Ma Guido, dipingendo quella figura, non ha potuto, o non ha voluto, deporre del tutto il ricordo del S. Michele che il Calvari avea dipinto per la cappella Barbazzi in San Petronio; quadrò che ha molto sofferto, ma in cui si può anche adesso ravvisare una delle più felici ispirazioni di questo fiammingo devoto all’arte italiana ed a Bologna.

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Il vero re dei cucinieri

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Belloni, Georges 13 occorrenze

Benchè in Italia, si abbiano fornai in abbondanza pure in alcuni luoghi è molto esteso l'uso di fare il pane in casa. Anzi molte famiglie lo preferiscono. Perciò diamo qui alcune norme per poter far da sè il più necessario degli alimenti.

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Il forno dev'essere già caldo al momento opportuno, per cui si comincia a riscardarlo appena si sono formati i pani e intanto che si aspetta che questi abbiano sufficientemente lievitato.

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Rimestate ben bene il tutto, per assimilarlo perfettamente, e formatene poi tante polpette della grossezza di un uovo di piccione, che avvolgerete in pan grattato e farete rosolare con burro in una tegghia, badando di rivoltarle delicatamente colla lama di un coltello quando abbiano preso il colore da una parte, per farle rosolare anche dall'altra.

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Quando abbiano preso un bel colore, ritiratele con mestola bucherata, ponetele per alcuni istanti sopra carta asciugante per far loro lasciare l'olio e servitele calde spolverizzandole di zucchero.

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In mezzo ad ogni pezzo ponete un battuto di carne cotta; bagnate con chiara di uovo il contorno della pasta, ripiegate per metà sopra sè stesso ogni pezzetto premendo colle dita sull'orlo, perchè il ripieno rimanga ben chiuso, e friggete nell'olio, badando di bucare con una forchetta ogni frittella, perchè per dilatarsi dell'aria che può esservi rimasta imprigionata non si abbiano ad aprire e lascino disperdere il ripieno.

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Pestate minutamente sul tagliere un chilo di carne magra di manzo con un po’ di prezzemolo e 2 o 3 spicchi di aglio, riducendola come una pasta; mettete questo battuto in un tegame, unitevi un pugno di pan grattuggiato, altrettanto parmigiano pure grattugiato, poco pepe, sale necessario e tre uova; mescolate ed impastate bene il tutto e formatene tante pallottole grosse poco meno d'un uovo, che, avvolte in pan grattuggiato, schiaccerete col palmo della mano e farete rosolare da tutte e due le parti in padella con olio o strutto, rivoltandole diligentemente perchè non abbiano a rompersi.

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Tutte le parti si lavano con aceto, e si lardellano con prosciutto e si fanno cuocere in casseruola con burro, sale e pepe, aggiungendo, appena abbiano un poco rosolato, sedano, prezzemolo, cipolla, vin bianco e brodo, procurando di far concentrare per bene l'intinto.

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Pigliate 12 costolette di cinghiale; spianatele, battendole alquanto; mettetele in un tegame od altro recipiente di terraglia; versatevi sopra una concia composta con mezzo litro di buon vino bianco, non dolce, mezzo bicchiere di olio, altrettanto aceto, un pugno di sale, alcuni garofani e qualche erba aromatica; lasciate così in fusione per una notte; poi ritirate dalla loro concia le costolette, fatele rosolare in tegghia con un bel pezzo di burro, badando di rivoltarle quando abbiano il colore da una parte; poi unitevi la concia medesima che avrete intanto fatto sobbollire a parte disfacendovi due acciughe salate; aggiungete poco dopo del sugo di pomidoro; lasciate finir di cuocere a fuoco moderato, ed in ultimo legate l'intinto con un po’di pan grattugiato.

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Stendete questo battuto sopra 12 fette di storione; sovrapponetevi le altre 12 fette, e così unite a due a due col battuto in mezzo, spolverizzate di sale, immergerete in uovo sbattuto, avvolgetele nel pan grattugiato, ed in tal modo ammannite, ponetele in una tegghia dove sia preparato del burro liquefatto, e fatele rosolare lentamente con fuoco sotto e sopra, oppure con fuoco soltanto sotto, ma in questo caso rivoltandole diligentemente quando abbiano rosolato da una parte. Poi bagnate con un bicchiere di vino di Spagna, lasciate sobbollire per alcuni minuti, e messe in un piatto le fette dello storione, legate al fuoco l'intinto che rimane nella tegghia unendovi un pugno di pan grattugiato, e versatelo sullo storione stesso al momento di servirlo.

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Spianate le costolette che vi occorrono battendole con un bastoncello; tenetele in fusione per qualche ora con olio, sale e poco pepe; sgocciolatele un poco e fatele cuocere sulla graticola a fuoco di braca, rivoltandole quando abbiano rosolato da una parte, per far lor prendere il colore anche dall’altra.

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Dopo 10 minuti, polverizzate la tavola di farina, spianate la pasta col matterello, allargandola come una pezza di panno dello spessore di 2 millimetri, mettetevi nel mezzo il burro ben asciutto, rivolgendo su di esso gli angoli della pasta in modo che resti ben chiuso fra questa, battetela leggiermente col matterello per tre volte, facendola rotolare sulla tavola pel lungo, rendendola sottile come già dissi, poscia prendete le due estremità, rivolgetele sulla pasta stessa in modo che abbiano ad unirsi nel mezzo, ripiegandola come un tovagliolo. Copritela e lasciatela riposare 10 minuti (nei mesi di maggio, giugno, luglio ed agosto, il burro si lavora difficilmente, atteso il caldo della stagione; ponete allora una tegghia sul ghiaccio, ed ogni volta che darete un giro alla pasta, l'appoggierete sopra coprendola con un coperchio munito di ghiaccio), poi continuate l'operazione col rivolgere le parti laterali delle pieghe della pasta verso il vostro stomaco e polverizzata nuovamente la tavola di farina, appianatela prestamente della grossezza di 3 millimetri, piegandola e lasciandola riposare come sopra, continuando così per due o tre volte ancora la stessa operazione. Si potrebbe sostituire al burro il grasso di rognone di vitello o di manzo ben triturato, pestato nel mortajo e passato allo staccio, adoperando 15 grammi meno della dose sopra descritta.

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Posta poi la padella dello strutto od olio sul fuoco, fatelo intiepidire; allora, facendo passare la composizione da una siringa a stella, di mano in mano che esce, tagliatene tanti bocconcini lunghi 4 centimetri circa, facendoli cadere nella padella; di mano in mano che lo strutto si riscalderà, essi si gonfieranno, colla paletta forata li rivolgerete finchè abbiano preso un bel colore biondo oscuro. Levatele allora e ponetele su d'un piatto in piramide con tovagliolo, ben polverizzato di zuccaro finissimo, misto con un pizzico di vaniglia in polvere. 612. Crema fritta, cromescini e rizzole di crema.

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Fate bollire 3 litri d'acqua con 100 gramma di cenere di legna o 80 di potassa, immergetevi 2 chilogramma di mandorle o pesche verdi che non abbiano ancora formata la ghianda, conoscendo ciò coll'infilzarle da una parte all'altra con uno spillo senza trovar interruzione, e quando nel fregare la superficie con uno strofinaccio, si vedrà distaccarsi la corteccia, allora versatele su di uno staccio, col cencio gliela leverete, mettendole poi nell'acqua fresca. Indi mettetele a bollire in 3 litri d'acqua pura, appena cederanno alla pressione delle dita, colatele in uno staccio, mettendole poi asciutte in un vaso. Fate indi cuocere 2 chilo di zuccaro alla nappa, quando sarà tiepido, versatele sa di esse; il giorno seguente versate il frutto in uno staccio sopra una casseruola da credenza, riducete lo zuccaro alla piccola perla, e quando tiepido, versateglielo sopra; dopo 3 o 4 giorni fateli bollire nuovamente, riducendo lo zuccaro allo stesso grado, indi mettetelo raffreddato in un vaso, copritelo colla solita carta bagnata di spirito di vino e la pergamena.

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Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Solamente qualche modesto commesso, che non aveva osato fare la spesa, cercava di stare colla schiena al muro in atto contrito e vergognoso, come a un merlo a cui abbiano strappata la coda. " Anca lú a Milan? " mi chiese la Pardina, passando via e battendomi il suo ventaglio di piume sul naso. Era a braccetto del celebre tenore Altamura, un romano di Roma, che aveva cantato al Dal Verme, nella stagione, il Trovatore con grande successo. Il Miglioretti, dopo aver fatto un giro di valzer colla Pianelli, la condusse a posto, e infilato il mio bracci o mi tirò verso la sala del buffet , asciugandosi il collo, le guance e la testa con due fazzoletti. "Bella sí, ma di ghisa, e per di piú balla fuori di tempo." "E dire che si sta tanto bene seduti." "È suo marito che vuole che balli, è lui che le insegna. Hai visto i leoni marini di mister Pike? Suo marito le insegna anche a parlare milanese, e ci riesce, povera foca. Ma di tanto in tanto le scappa di bocca ancora qualche "propri de bôn" di Melegnano, che guasta il meccanismo della bambola." "Jesus, che lingua! bevi, avrai sete ... " dissi, versandogli dell'acqua in una tazza. Mentre io e il Miglioretti si rideva in fondo alla sala del Caffè, vedemmo venire colla sua testa lucida e rasa e cogli occhi fuori della fronte il Bianchi, che ci domandò se avevamo trovato Cesarino Pianelli. "Io l'ho visto" dissi. "Quando?" "In prima sera." "Che cosa ha detto?" "Niente." "C'è in aria un guaio serio ... ." Il Bianchi abbassò un poco la voce e, appoggiata la punta del mento a tre dita della mano, socchiudendo gli occhi in atto di pia aspirazione, ripeté: "Molto serio." Fatto quindi un piccolo segno colla mano, ci trasse nel vano di una finestra presso una terrazza, che dava sulla piazza del Duomo. "Un guaio serio?" "Ho trovato il Martini tutto disperato." "Gli è morta la moglie ... ." "Pazienza la moglie! mi ha detto che contro il Pianelli è spiccato un mandato di arresto." "Via, via!" esclamammo a una voce io e il Miglioretti. Il Bianchi, che col marmo della sua bella fronte rispecchiava i lumi della sala, allungò il collo, nascose le mani sotto la coda della falda, girò la testa nell'aria come un bruco che va al bosco e disse cogli occhi chiusi: "Io l'ho detto che quel figliuolo doveva finire cosí ... Si tratta di sottrazione con falso in scrittura." "Diavolo!" esclamammo a una voce. "Io non credo il Pianelli un ragazzo capace di una cattiva azione, ma sono le necessità che spingono l'uomo ad approfittare delle circostanze. Il Pianelli ha perduto questi denari al giuoco e, siccome è già pieno di debiti fin sopra i capelli, pagò il debito di giuoco coi nostri denari. Visto che si cominciava a dubitare di lui, comprò la nostra fiducia coi denari dell'ufficio, e tutto ciò sempre nella speranza di guadagnar tempo e di trovare un santo protettore. Ma buco via buco fa buco — dice l'abbaco — e a furia di scavare la terra per turarli i buchi, la terra ti manca sotto i piedi ... Povero diavolo, ha moglie e figliuoli ... ." "E non c'è nessun mezzo d'aiutarlo?" "Aveva promesso di portare il denaro per stasera, ma ormai è la mezzanotte e non si vede comparire. Il Martini a buon conto ha riferito tutto al capo d'ufficio e il documento è adesso in mano al procuratore del re." "Ma come ha fatto?" "Eh, come ha fatto ... " disse il Bianchi, ritirando nelle spalle la testa. "Si fa presto a dirlo ... Quando si vuol fare il lord senza averne, mandare in lusso la moglie, pigliarsi tutti i capricci, darsi le arie di principe, non ascoltar pareri da nessuno, fare il passo piú lungo della gamba ... ." "Zitto ... ." Toccammo il predicatore in fretta col gomito per farlo tacere. Cesarino Pianelli, pallido come uno spettro, nel suo elegante vestito nero entrava in quel momento col passo legato del sonnambulo. L'orchestrina cominciò il gioioso valzer di Strauss: "Vino, donna e canto". Cesarino, uscito dall'ufficio, dopo il vivo colloquio col Martini, non aveva perduto tempo in tutto il venerdí. Saltò nel tram di Porta Romana e di là arrivò a prendere quello di Melegnano per correre in cerca del signor Isidoro Chiesa, suo suocero, che gli doveva ancora, dopo dieci anni, gli interessi della dote di Beatrice. Il signor Isidoro era una volta uno dei piú clamorosi affittaiuoli del Lodigiano, ma da molti anni non viveva che di reminiscenze. Grande e solenne declamatore delle sue abilità tecniche, chiacchierone terribile, persuaso che al mondo non c'era uomo piú furbo di lui, colla testa sempre piena e calda di progetti e di riforme, aveva trovato in Cesarino Pianelli il genero del suo cuore. Una certa somiglianza di carattere e di tendenze impediva a ciascuno di loro di conoscere i difetti dell'altro, come capiterebbe a due trombettieri sulla fiera, che, suonando l'uno troppo vicino all'altro, l'uno non sente le stonature dell'altro. Questi due uomini avevano una stima illimitata dei loro ingegni e nel conseguimento dello scopo comune si aiutavano in una maniera mirabile a rovinarsi. Da un pezzo in qua vivevano prestandosi a vicenda una grande opinione, con cui cercavano di fare ancora una certa figura nel mondo, come due spiantati che hanno in due un solo vestito di gala, che si prestano nelle grandi circostanze. Il signor Isidoro, quando vide Cesarino scendere dal tram, gli andò incontro coll'allegria del cane che rivede il padrone. L'avvocato Ferriani gli aveva scritto che per continuare una certa causa di cui Cesarino era informato, occorrevano almeno settecento lire: e Cesarino le aveva promesse qualche mese prima. Il buon suocero credette in coscienza che venisse a portarle ... Del telegramma non parlò neppure. Si può immaginare se il loro colloquio fu consolante. Cesarino, irritato, nervoso, uscí in parole, che volevano quasi dire che il signor Isidoro Chiesa l'aveva imbrogliato. E il signor Isidoro rimproverava alla sua volta il genero d'aver mancato di parola e quasi voleva essere rimborsato delle spese fatte sulla sua promessa. Si lasciarono col veleno negli occhi. Tornato in città, il Pianelli saltò nella prima vettura che gli capitò davanti e si fece condurre a casa del Martini. Non lo trovò né a casa né alla Posta. Allora, temendo che Beatrice cominciasse a pensar male, rientrò a casa sua a pranzo, un po' tardi, e inventò delle scuse. Mangiò poco e sempre sopra pensieri. Dormí poco e agitato tutta la notte, ma sicuro in cuor suo che un migliaio di lire si trovano subito in Milano, basta a cercarle. Venne il mezzodí, vennero le due del sabato. Aveva pregato tre o quattro amici, inutilmente. Tutti erano dolentissimi, ma si sa gl'impegni ... , le spese, gli anni cattivi ... Una volta si spinse fino al Ponte de' Fabbri nella speranza di trovare il Pardi per via e toccargli il cuore, ma, non sentendosi il coraggio di salire su in fabbrica, andò a riflettere nella solitudine dei bastioni. Solo, col capo basso, col passo molle dell'uomo che va a spasso, piú irritato che triste, sotto i nudi ippocastani ancora rattrappiti dal freddo, Cesarino lanciava di tempo in tempo un'occhiata sdegnosa sulla città, sua grande creditrice, che si distendeva col suo anfiteatro di case, di cupole, di campanili raccolta intorno al gran fantasma del Duomo, al di là degli orti, nel chiaro sfondo d'un bellissimo cielo di marzo. Aveva scritto al Martini, per invocare altre ventiquattro ore, ma il tempo passava senza profitto. Per un migliaio di lire un uomo, che in un anno ne contava a milioni, un Cesarino Pianelli, conosciuto come la bettonica, era costretto a stendere la mano come se cercasse la carità. Vergogna! Provava in fondo al cuore un amaro corruccio e, sto per dire, un senso d'odio contro il Pardi, il Martini, il suocero, gli amici del Circolo che, senza accorgersi, egli accusava come gli autori principali della sua rovina. Era quasi giunto presso l'Ospedale dei Cronici, in un luogo del bastione umido e malinconico come la febbre, quando fu scosso dai suoi pensieri da un disperato gridare e vide passare un carro di contadini addobbato d'un lurido lenzuolo, con una bandiera trecolori in alto, pieno di villani in maschera, che col viso tinto e con delle scope in mano strillavano la loro goffa allegria. Allora si ricordò ch'era il sabato grasso. Quei poveri gonzi, passando e traballando sul loro carro rustico, lo salutarono col segno di chi invita a mangiar i gnocchi, e lo invitarono ad andare con loro al corso di gala. Lord Cosmetico avrebbe per un giorno cambiata volentieri la sua sorte con loro. Sentí suonare le due e mezzo all'orologio dell'Ospedale. In quella triste Rotonda c'era forse qualche malato che non avrebbe nella sua miseria cambiata la sua sorte con lui. Nel suo pensiero il signor Cesarino si paragonava a questo e a quello con un senso d'invidia, che aveva qualche cosa di nuovo e di cruccioso nel suo cuore. Eppure, perseverando nell'opinione che un Cesarino Pianelli non sarebbe affogato in un bicchier d'acqua, gli pareva di sentirsi ancora della forza in riserva. Egli poteva transigere una volta coi puntigli personali e andare in cerca di suo fratello Demetrio, col quale era in discordia da dieci o dodici anni per vecchie ragioni d'interesse. Poteva anche cercare di un suo zio canonico del Duomo. Seguendo il filo invisibile dei suoi pensieri, venne per le strade spopolate di San Barnaba e dell'ospedale, passò il Naviglio al ponte di legno e si lasciò condurre fino a San Clemente, dove da molti anni il suo fratello Demetrio, un orso della Bassa, abitava tre stanzette sopra le tegole nella casa dei Mazzoleni. La portinaia gli disse che il signor Demetrio era ancora alle Cascine Boazze per fuggire i rumori del sabato grasso. Combinazioni! Le Cascine Boazze sono quasi sulla strada tra Milano e Melegnano, e Cesarino v'era passato davanti il giorno prima. Si fermò sulla porta a pensare se doveva riprendere il tram e tornare indietro. In faccia sorgeva il bigio e grave palazzo arcivescovile dove abitava lo zio canonico, uomo rigoroso e papista, il quale non aveva mai voluto riconoscere un nipote mezzo repubblicano, mezzo framassone, che leggeva il Secolo , non andava a messa e faceva battezzare i figliuoli piú per rispetto umano che per convinzione. Cesarino si fece coraggio. Entrò nel silenzioso cortile dell'Arcivescovado, che nel suo profondo e squallido raccoglimento faceva uno strano contrasto colla colorita baldoria che rumoreggiava sul corso, di cui arrivavano le voci come onde morte che morivano contro le livide pareti. Chiese al portinaio del canonico Pianelli e gli fu indicato un uscio in fondo al portico a destra, dietro le due gigantesche statue di Aronne e di Mosè, bianchi e solitari abitatori di quel morto recinto. Sonò un campanello davanti all'uscio che gli fu indicato e venne ad aprire una donna di servizio. "Monsignore?" "È malato ... " rispose sottovoce la donna, riempiendo il vano dell'uscio colla sua persona per paura che il seccatore si facesse avanti. "Non si potrebbe parlargli?" "Impossibile, gli hanno messo un senapismo." "Si tratta ... Son suo nipote Cesarino ... " "Proverò." La donna richiuse l'uscio in faccia al signor nipote, che rimasto solo sentí quasi entrare nell'anima quello sgomento fuggevole e quella compunzione fredda che lo assaliva da ragazzo le prime volte che la mamma l'aveva condotto a confessarsi. Al di là di quei muri umidi e massicci, che conservano quasi un senso corrucciato dell'antico splendore, sentiva il frastuono del carnevale e in mezzo agli strilli il dolore acuto, spaventevole, dei conti da rendere. "Ha detto che oggi non può ricevere ... " venne a dire la Ludovica, che camminava senza far rumore. "I preti son sempre preti!" mormorò fra i denti Cesarino avviandosi verso la piazza. A chi poteva ricorrere? Non al Bianchi, non al Miglioretti, poveri diavoli, che stentavano a finire il loro mese. Pensò un momento al cavaliere Balzalotti, un vecchio e assiduo adoratore platonico di Beatrice. Se Cesarino fosse stato un marito come se ne dànno ... oh, non avrebbe stentato a trovare un migliaio di lire! Col cuore schiacciato si lasciò attirare dal baccanale, che rumoreggiava sul Corso al di là del Duomo e di cui vedeva il flusso e riflusso, i carri e i colori al di sopra della calca nera agglomerata, pigiata sotto i balconi pieni di ragazze, di mascherine. Sentí il bisogno di cacciarsi anche lui nella folla per riposare un istante dal suo pensiero tormentoso, pungente, e giunse nel fitto della gente nel momento che una mascherata di cuochi versava da un'immensa cazzeruola grossi mestoloni di una polvere gialla, che voleva essere risotto. La mascherata era bella, ricca, brillante e suscitò un cà del diavolo nel crocevia tra il Campo Santo, il Corso e Santa Radegonda. Dalle finestre, dai balconi decorati di tappeti e di fiori, le mascherine, le damine avvolte nei bigi cappucci strillavano come spiritelli dannati, lottando furiosamente a colpi di coriandoli, di gettoni, di confetti. La folla si agitava come l'acqua del mare in tempesta in mezzo agli scogli. Cesarino, alzando gli occhi a un balcone d'angolo sopra la pasticceria Baj, riconobbe anche al di sotto della mezza mascherina la Pardi, la piú magra delle donne, che strillava dentro un cappuccio colla furia di un folletto, agitando le braccia come due bastoni di scherma. Si fermò a guardarla. Egli aveva troppo offesa quella donna ambiziosa, di cui avrebbe potuto essere un fortunato adoratore, come pretendeva d'esserlo ogni buon corrispondente della ditta Pardi e C. Egli l'aveva offesa col panegirico non richiesto della sua felicità domestica e con una satira non dimenticata sulle donne magre. Il buon Cesarino soffriva oggi le conseguenze d'essere stato troppo onesto amico del signor Melchisedecco ... Cosí va il mondo. Risalendo la corrente, gli riuscí di portarsi fin verso i portici della Galleria, e di salvare le costole nella bottega del Campari. Si rifugiò in un angolo del Caffè, accese una sigaretta e ingoiato in fretta un assenzio, rimase a osservare tranquillamente la folla dei pazzi che farneticavano negli ultimi palpiti del carnevale, tranquillo e freddo in apparenza, come soleva fare qualche volta al bigliardo quando la fortuna gli era nemica. Egli lasciava vincere la fortuna, ma si riservava di rifarsene in fine con un colpo maestro. Seduto davanti a lui, quasi nel mezzo del Caffè, solitario e raccolto come un filosofo, il signor Guerrini, detto il Bòtola, leggeva l'articolo di fondo della Perseveranza , sillabando colle labbra le parole e movendo la testa ad ogni principio di riga. Era un omaccio di mezza età, corto di gambe, rotondo, paffuto, con due liste di barba nera che gli cascavano in bocca. Vestiva come un modesto padre di famiglia, che per economia porti i calzoni non troppo lunghi e un cilindro vecchio e lavato per risparmiare il pane dei suoi figliuoli. Cesarino tirò uno sgabello vicino al noto usuraio e cominciò un discorso sottovoce, che il buon uomo aveva poca voglia di ascoltare. "Ma lei vuole il pegno in mano e l'uomo in prigione" disse con dispetto una volta Cesarino. "Io non voglio niente, caro lei. È lei che vuole. Cerchi una garanzia." "Quando voglio impiccarmi spendo meno." "Questo è vero" soggiunse il Bòtola senza cessare di leggere il suo giornale. Il corso era sul finire. All'imbrunire uscirono i primi lumi dalle botteghe e nella profondità della via Torino verso il Carrobio, si vedevano discendere a poco a poco le fiammelle dei lampioni. Seguendo la fiumana della gente che rincasava, Cesarino si lasciò trascinare anche lui verso casa in mezzo al frastuono dei matti, dei carri, delle trombette, tra banchetti e botteghe e bazar illuminati, pieni di maschere ridenti e costumi di pagliacci. Milano, che gridava, strillava, che si preparava all'orgia delle cene e dei veglioni, non aveva un migliaio di lire per salvare dalla vergogna un povero padre di famiglia. Con tutto questo Cesarino non si arrendeva. Sperava di trovare al Circolo in principio di sera un'anima meno avara: o di commuovere il Pardi, o sua moglie, o almeno il Martini, ottenendo un altro giorno di respiro. A casa figurarsi se Beatrice ebbe il tempo di badare a lui! L'Elisa, la signora Grissini, Arabella se l'erano pigliata in mezzo e aiutavano a vestirla, come si veste la madonna. I maschietti erano andati col Ferruccio della portinaia al teatrino d'un oratorio. Cesarino si vestí in gala, uscí subito, con un pretesto, raccomandò di nuovo a noi sua moglie, portò un biglietto a casa di Buffoletti, che stava laggiú alle Grazie: tornò indietro in cerca del Martini, che era già partito da Milano, venne una volta verso le nove al Circolo, tornò una seconda volta a mezzanotte ... Il servitore d'anticamera gli consegnò un bigliettino del Martini che diceva: "Ho aspettato fino alle nove. Consegno tutto al commendatore. Si giustifichi con lui." Lord Cosmetico era spacciato.

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