Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Malombra

670401
Fogazzaro, Antonio 3 occorrenze

Non ho capito se ci fosse del tenero fra costui e la signora marchesina o se abbiano trovato da ridire fra di loro, e che lui, voglio dire, che lei ne abbia dette quattro a lui, o se il conte volesse che lei lo togliesse, questo giovine, e che a lui non le piacesse, o che la si fosse messa in pensiero, si sa, per la roba, ciò, e che lui..." Sua Eccellenza buttò via la cuffia. "Uff, che caldo che mi fai! Cosa vuoi che capisca? Dammi quell'affare! Quell'affare, sì, quell'affare! Non capisci? Vai alla Sensa?" Catte andò a pigliar la parrucca di Sua Eccellenza e si dispose a mettergliela. "E poi?" disse la contessa. "E poi... La permetta, Eccellenza, che siamo un poco storti. Ecco così. No, ancora un pochetto." Sua Eccellenza soffiava come una macchina a vapore. "La senta, Eccellenza. Chi è adesso che ha da dire che la è parrucca? Dopo tutto, la porta anche la Madonna. La compatisca, Eccellenza. Dunque un bel dì non so come, è nato un bordelo, grida tu che grido anch'io, non so se si siano anche pettinati, l'amico senza dire "cani vi saluto" infilò la calle e chi s'è visto s'è visto. Cose di sei giorni sono. E quel tedesco, Eccellenza, che macia! Stamattina è venuto giù lui a prendere il caffè da portare alla sua tedeschetta. C'era abbasso anche il signor conte, pe rché quello è proprio el massariol, lo si trova dappertutto, pare che vi comparisca di sotto terra." "Tacete, pettegola" interruppe la contessa Fosca. "Ho tanto di testa. Cosa volete che me ne faccia di tanti pettegolezzi? Fate presto. Specchio. Brava, gioia. La Madonna porta ella quell'affare sul naso? Questo si acquista con darvi libertà, che non fate più attenzione a niente. Presto. Sua Eccellenza è alzato?" "Credo di sì. Ho visto Momolo portargli gli abiti." "Bene, andate a dirgli di venire da me. Presto!" "Subito, Eccellenza." "Per diana, tu puzzi ancora di baccalà, ciò" soggiunse Catte fra i denti, chiudendo l'uscio dietro di sé. Non era colpa della contessa Fosca se suo padre, dopo essere stato sbrodegher, aveva venduto ai veneziani e alla terraferma uno sterminio di baccalà. Quando il conte Alvise VI Salvador si degnò di sposarla, i suoi concittadini le inflissero il nomignolo di contessa Baccalà. Ella sapea tuttavia liberarsene presto per la sua bonarietà disinvolta, per la franchezza con la quale parlava della propria origine, per la sua schietta e allegra ignoranza. Con l'andar del tempo si fece voler bene persino dalle gran da me più schizzinose; il tanfo dei negozi paterni andò perdendosi; ci voleano le nari maligne di Catte per coglierlo ancora. In vent'anni di matrimonio il fu conte Alvise VI, buttando via quattrini a destra e a manca con l'aiuto dell'allegra signora, aveva cominciato a rivedere qua e là il fondo della cornucopia, su per giù come prima del suo matrimonio. Alla sua morte la contessa Fosca si trovò in possesso di latifondi sterminati, di debiti colossali, e di un ragazzetto mingherlino, ammirato in casa e fuori di casa, come un grande ingegno. La contessa volle sapere a puntino in quali acque navigasse; si spaventò, si raccomandò al la Madonna dei Miracoli, ad avvocati, a santi, a uomini d'affari; ebbe la fortuna di trovare una valente e proba persona, l'avvocato Mirovich, che accettò di mettersi a pope e promise condur la barca a salvamento. Si introdussero grandi economie nella famiglia, si mise Nepo in collegio, si vendettero due tenute in Friuli; e certe anticaglie polverose, degne agli occhi della contessa d'esser buttate in rio, uscirono dal granaio del Palazzo per finire al Museo Britannico. Mentre le guaste fortune di casa Salvador si andavano racconciando, Sua Eccellenza Nepo assodava la sua riputazione in collegio. Aveva memoria prodigiosa, parola assai facile; non era sfornito d'ingegno, se ne attribuiva con l'aiuto dei maestri e di compagni adulatori, moltissimo. Escito di collegio, studiò leggi a Padova. Nell'Università il suo nome non si levò sugli altri. Con il grosso degli studenti, scapestrati aperti, democratici intus et in cute, egli, delicato e molle, non poteva accordarsi. Non ebbe adulatori; fu addetto a una chiesuola timida di eleganti, motteggiata, satireggiata dagli altri. Trovava modo di sdrucciolare spesso a Venezia e d'indugiarvisi. Si occupava di economia politica e sapeva fare l'elegante, comparir signore, applicando segretamente la legge del minimo mezzo. I suoi primi passi nella società furono fortunatissimi. Egli era una speranza bianca e rosea di mamme e di figliuole, una speranza di quei patrioti che desideravano alta la illustre nobiltà veneziana. Quando si annoveravano nei crocchi i giovani più valenti di Venezia, qualcuno cominciava a dire "c'è Salvador". Gli bastava per questo, a lui patrizio, conoscere il tedesco, l'inglese, essere abbonato all'Économiste e al Journal des Économistes, andare a qualche seduta dell'Istituto, spiegare da Florian cosa a vessero fatto di tanto noioso i pionieri di Rochdale per seccare l'universo. In pari tempo svolazzava intorno alle gran dame e alle belle dame senza bruciarsi le ali e nemmanco il cordoncino dell'occhialetto; scherzava impunemente con loro, le consigliava nelle più gravi minuzie, acquistandone a poco a poco certa stima sui generis, per cui esse non potevano parlar di Nepo Salvador senza farne gran lodi e sorridere. Il suo nome illustre e la buona opinione che molti avevano di lui, piuttosto per desiderio e per fede che per conoscenza dell'uomo, prevalsero un pezzo su questi equivoci sorrisi e sui giudizi che poche persone, a quattr'occhi, facevano di lui. Finalmente i sussurri si propagarono, diventarono mormorii, bisbigli, voci; il credito di Nepo si sdrucì rapidamente da ogni parte; il suo perpetuo occhialetto, le fogge esagerate degli abiti, il portamento effeminato, la vanità ridicola, gli stomeghezzi, le taccagnerie male nascoste, furono liberamente derise; i suoi amici si confidarono il gran dubbio che sapesse pochino pochino, e quando uno diceva "talento, però" un altro rispondeva "ehu, memoria". Nepo Salvador diventò il conte Piavola. Nel 1860 due o tre valentuomini, amici di casa Salvador e teneri, per l'onor di Venezia, del nome patrizio, accordatisi fra loro, si misero attorno a Nepo onde persuaderlo a emigrare. Bisognava prepararsi all'avvenire, come facevano tanti altri delle migliori famiglie, con la esperienza della libertà, con l'amicizia dei pezzi grossi di Torino. Nepo era ambizioso, cominciava a sentire un freddo intorno a sé; abbracciò subito l'idea. La contessa Fosca odiava religiosamente col suo grosso patriottismo, i tedes chi, ma non poteva comprendere che diavolo fosse questa libertà cui bisognava prepararsi tanto tempo prima, né quale onore fruttasse l'essere deputato, cioè, com'ella concluse dopo infinite spiegazioni, l'essere mandato in tanta malora dal calegher, dal forner, dal frao, ecc. A una amica che le domandò se partiva lei pure, rispose stizzita: "Io? Cosa volete che vada a fare? Il deputato?". Non partì, ma faceva di tratto in tratto delle visite a suo figlio. S'incontravano a Milano per abbreviare il viaggio e perché Nepo amava far conoscere sua madre a' suoi amici. Colà videro spesso i Crusnelli di Malombra, loro cugini per parte della madre di Marina. Fra i d'Ormengo e i Salvador v'era stata alleanza fin dal 1613, quando Emanuele d'Ormengo, inviato di Carlo Emanuele I a Venezia, s'invaghì di Marina Salvador e la sposò. Nel 1797 Ermagora Salvador, esule da Venezia, trovò a Ginevra i d'Ormengo, fuggiaschi dal Piemonte, e, un anno dopo, condusse in moglie Alessandrina Felicita, zia del conte Cesare e madre, in seg uito, di Alvise VI. Il lusso tutto moderno del marchese Filippo abbagliò Fosca, benché nel suo palazzo di Venezia vi fossero da secoli ricchezze dieci volte maggiori. Ella pensò subito ad un matrimonio e ne parlò a Nepo, il quale arricciò il naso e rispose in tono cattedratico che un giovanotto non può legarsi senza una gran passione, e che quando si ha l'amicizia delle più belle e colte signorine di Venezia e di Torino non è facile innamorarsi a prima vista di altre persone; che, al postutto, lo sfarzo dei Malombra gli piaceva e non gli piaceva. Un oracolo! pensò sua madre, quando improvvisamente casa di Malombra si sfasciò. Ella si compiacque assai che Marina fosse stata raccolta dallo zio Cesare. Lo aveva conosciuto a Venezia un trent'anni addietro; lo sapeva ricchissimo e senz'altri eredi che questa nipote. Non osò tuttavia riparlare a Nepo di matrimonio, dopo la teoria dei giovinotti dalle belle amiche. Fu Nepo che un paio d'anni dopo la catastrofe, trovandosi con lei a Milano, escì a parlarle della pove ra Marina, delle sue disgrazie, dei suoi begli occhi; le disse che certe idee respinte una volta, al tempo della prosperità di Marina, adesso gli si riaffacciavano, gli entravano meglio di prima nel cuore intenerito. "Taso, ma no la bevo, vissere" disse tra sé la contessa Fosca. Nepo osservò pure che correva loro obbligo, essendo in Lombardia, di visitare il conte Cesare, parente dei più stretti che avessero. La contessa, prima di avventurarsi in paese sconosciuto, volle informazioni e consigli da donna Cos tanza R..., una vecchia dama milanese di sua conoscenza. Le informazioni sul cugino furono scarse: strano, misantropo, ricchissimo, senza eredi più prossimi di Marina. Di costei donna Costanza seppe solamente dire che la credeva un follettino, ma buona e pia. La vedeva sempre, quand'era a Milano, all'ultima messa di San Giovanni. "Casa Malombra, già, non se ne parla, principii buonissimi. Anche il povero Filippo, testa un po' fêlée, ma buonissimo, neh! Proprio buono, ecco, povero Filippo! E poi, cara, gran seigneur!" Donna Costanza concluse che bisognava scrivere prima, e poi, secondo la risposta, regolarsi. La contessa Fosca scrisse un capolavoro diplomatico. V'erano intarsiati non pochi errorucci di ortografia e di grammatica; ma nessuno si sarebbe atteso dalla contessa uno scritto così artificioso. V'era espresso il desiderio di rivedere il conte dopo tanti anni, di stringere con l'amicizia i legami del sangue. Non era egli, dopo tante disgrazie, il più prossimo dei parenti superstiti del povero Alvise? Tali erano pure i sentimenti di Nepo. Ella avrebbe voluto intrattenersi con lui dell'avvenire di questo su o figlio; e qui grandi elogi al medesimo. Lo vedeva disposto ad accasarsi. Ove cadrebbe la sua scelta? Certo sopra una famiglia degna, una fanciulla virtuosa; ma ella, come madre, doveva pur pensare a quello che i benedetti giovani non curano mai. Qui veniva un quadro né troppo scuro né troppo chiaro delle finanze Salvador. Insomma ell'aveva bisogno di amici autorevoli e prudenti. Verrebbe volentieri al Palazzo con Nepo, se però il tempo, se la salute, se questo se quello permettesse. Desiderava pure tanto abbracciare la cara Marina di cui si ricordava sempre con tenerezza. Aggiungeva uno speciale bigliettino affettuoso, sulle generali, per essa. Il conte Cesare rispose brevemente che si compiaceva delle buone qualità di Nepo, e approvava, riguardo al matrimonio, le idee della cugina; che avrebbe gradito assai la visita e sperava riuscirebbe gradita anche a sua nipote. Questa mandò due righe di fredda cortesia irreprensibile, che diedero un po' da pensare alla contessa Fosca, perché gittavano un'ombra sulla lettera dello zio, la quale poteva interpretarsi per un assenso anticipato con la solita clausola "se piace". Ma donna Costanza le fece riflette re che, nel caso di Marina, un gran riserbo era della più stretta convenienza. Così Sua Eccellenza s'imbarcò e fluttuava in alto mare, quando dopo le chiacchiere e le inattese rivelazioni di Catte, comparve Nepo. Sua madre lo accolse con una faccia sepolcrale, lo fece sedere e dopo un solenne "Fio, qui nasce questo" gli spifferò d'un fiato tutta la storia di Catte, tenendo indietro il più grosso, smorzando e rallentando la voce sempre più. Finì col metter fuori la supposta paternità del conte e ripeté in forma di epilogo, con voce sommessa ma solenne: "Un fio!" Nepo rimase imperterrito. Disse ch'era ormai interamente sicuro di piacere a Marina, poiché ella si trovava male in casa dello zio. Quanto al figlio, non valeva la pena di occuparsene. La contessa non voleva credere a' propri occhi e se lo fece ripetere due volte. "Eh, so quello che dico!" esclamò Nepo impazientito. "Se sposerò mia cugina non sarà per i denari. Sciocchezze, cara mamma, queste." Fosca andò sulle furie, sempre sottovoce. Nepo si stringeva nelle spalle e taceva; ma quando sua madre dichiarò ch e sarebbe partita la sera stessa, egli, giuocando furiosamente, prima delle sopracciglia e del naso, poi del capo, scosse via l'occhialino, assalì la contessa a rimproveri, a sarcasmi e affermò che non sarebbe partito quand'anche si fossero dati la posta al Palazzo tutti i Silla dell'universo. "Che Silla?" interruppe Sua Eccellenza. "Chi è questo Silla? È quell'amico?" Nepo si morse le labbra. "Ma rispondi! È questo il fio?" "Non c'è figli." "To', to', to'" disse Fosca appuntando l'indice a Nepo che le voltava le spalle, tutto ingrugnato. "Tu lo sapevi, tu? Come diavolo hai fatto? Tu lo sapevi, eh? Come lo hai saputo?" Nepo fece un atto d'impazienza e uscì brontolando dalla camera. Sua Eccellenza gli guardò dietro, alzò le sopracciglia, porse il labbro inferiore e sussurrò: "Xelo!"

Avete mai saputo come quei signori abbiano scelto appunto Voi?" "No." "Non importa. In quel tempo avete avuto una offerta dai parenti di Vostra madre, dai Pernetti Anzati, non è vero? Volevano che entraste nella loro Filatura e Vi offrivano un lauto assegno; non è così?" "Sì, ma è forse Lei che mi ha fatto eleggere?..." "Non importa, Vi dico. Avete rifiutata l'offerta dei Pernetti Anzati. Fatto bene, molto nobilmente. Meglio un lavoro che frutta poco pane e molta civiltà, di un lavoro che converte in denaro il tempo, la salute e una buona parte dell'anima. Ma adesso l'istituto al quale appartenevate ha fatto cattivi affari e venne chiuso. Io credo che Voi non sarete malcontento di occuparvi in qualche altro modo degno, ed è per questo che Vi ho pregato di venire da me." "La ringrazio" rispose Silla asciutto asciutto. "Prima di tutto, posso vivere." "Oh!" interruppe il conte. "Chi parla di questo? Lo so benissimo. I Pernetti Vi passano l'interesse di una parte della dote di Vostra madre che si trattennero sempre, un migliaio e mezzo di lire circa. E poi?" "E poi" proruppe Silla con forza "voglio sapere finalmente chi è Lei, perché si occupa di me!" Il conte indugiò un poco a rispondere. "Io sono un vecchio amico della famiglia di Vostra madre, e Vi porto molt'affezione per la memoria di persone che mi furono assai care. Le circostanze della vita ci hanno tenuti lontani fino ad oggi; un male che noi ripareremo. Vi basta quello?" "Perdoni, non mi può bastare; è impossibile!" "Ebbene, mettiamo un poco da parte la mia amicizia. In fine dei conti non è un beneficio che io Vi offro, è un favore che Vi domando. Io so che avete molto ingegno, molta cultura, che siete probo e che Vi è mancata la Vostra occupazione ordinaria. Io ho a proporvi un lavoro di lunga lena, mezzo scientifico mezzo letterario, di cui ho raccolto i materiali e che amerei fare io stesso se fossi mai stato uomo di penna, o almeno, se avessi l'età Vostra. Questi materiali sono tutti qui, presso di me, e io desider o mantenere una continua comunicazione d'idee con la persona che scriverà il libro, il quale dovrà quindi essere scritto in casa mia. Questa persona mi farà le sue condizioni, naturalmente." "Io non esco di qua, signor conte" rispose Silla "se Ella non mi dice come ha potuto sapere le cose che ha narrate!" "Dunque non volete che trattiamo di questo lavoro?" "Così, no." "E se io adoperassi i buoni uffici di una persona che ha grande autorità sopra di Voi?" "Pur troppo, signor conte, non vi è nessuno al mondo che abbia grande autorità sopra di me." "Io non Vi ho detto che questa persona sia viva." Silla provò una scossa, un formicolìo freddo nel petto. Il conte aperse un cassetto del tavolo, ne trasse una lettera e gliela porse. "Leggete" diss'egli, e si gettò addietro sulla spalliera della seggiola con le mani in tasca e la testa china sul petto. L'altro afferrò rapidamente la lettera, ne lesse la soprascritta e fu preso da un tremito violento che gli tolse di proferir parola. V'era scritto di pugno di sua madre: PER CORRADO Tremava così forte che poté a mala pena aprir la lettera. La voce cara di sua madre gli pareva venir dal mondo degli spiriti per dir parole non potute dire in vita e sepolte nel suo cuore sotto una pietra più grave di quella della tomba. Le parole erano queste: Se ti è cara la memoria mia, se credi ch'io abbia fatto qualche cosa per te, affidati all'uomo giusto che ti dà questa lettera. Dal paese della pace dove spero m'abbia posato la misericordia di Dio quando la leggerai, ti benedico. La mamma Nessuno dei due parlò. Si udì un singhiozzo disperato, prepotente; poi più nulla. Ad un tratto Silla, contro la sua ragione, contro la sua volontà, il suo cuore istesso, guardò il conte con tale angosciosa domanda negli occhi sbarrati, che quegli menò un furibondo pugno sul tavolo esclamando: "No!" "Dio! Non ho voluto dir questo!" gridò Silla. Il conte si alzò in piedi e allargò le braccia. "Amica venerata" diss'egli. Silla piegò la testa sul tavolo e pianse. Il conte aspettò un momento in silenzio e poi disse a bassa voce: "Vidi Vostra madre per l'ultima volta un anno prima del suo matrimonio. Ella mi ha scritto poi molte lettere di cui Voi eravate il solo argomento. Ecco perché io conosco molti particolari intimi della Vostra vita. Dopo il 58 sono stato informato da certi amici miei di Milano. Voi comprenderete facilmente perché abbiate ritrovato in casa mia quelle suppellettili; esse mi ricordano la persona più virtuosa e più rispettabile che mi abbia onorato della sua amicizia." Silla stese ambedue le mani verso di lui senz'alzare il capo dal tavolo. Il conte gliele strinse affettuosamente, le tenne qualche momento fra le sue. "Dunque?" diss'egli. "Oh!" rispose Silla alzando la testa. Era detto tutto. "Bene" rispose il conte "adesso uscite, uscite subito, andate a pigliar aria. Vi faccio accompagnare dal mio segretario." Suonò e fece venire Steinegge che si mise, tutto sorridente, agli ordini del signor Silla. Egli si professava lieto dell'onorevolissimo incarico. Non sapeva se gli abiti che si trovava indosso fossero degni dello stesso onore. Sì? Ringraziava. Se n'andò finalmente con Silla, strisciando inchini e facendo infinite cerimonie ad ogni uscio, come se al di là della soglia vi fosse stata una torpedine. Appena uscito dal cancello del cortile, mutò modi e parole. Prese a braccetto il compagno: "Andiamo a R..." diss e "bisogna bere un poco, caro signor." "No" rispose Silla, distratto, non sapendo ancora bene in che mondo si fosse. "Oh, non dite no, io vedo. Voi siete serio, molto serio; io poi sono serissimo." Steinegge si fermò, accese un sigaro, sbuffò una gran boccata di fumo, batté con il palmo della destra la spalla del suo interlocutore e disse ex abrupto: "Oggi sono dodici anni, mia moglie è morta." Fece un passo avanti, poi voltossi a guardar Silla, con le braccia incrociate sul petto, le labbra strette, le sopracciglia aggrottate. "Andiamo, voglio raccontarvi questo." E, ripreso il braccio di Silla, tirò avanti a passi sgangherati, fermandosi di tratto in tratto su' due piedi. "Io, per il mio paese, mi sono battuto nel 1848, Voi sapete. Io lasciai il servizio austriaco e mi battei nel Nassau per la libertà. Bene, quando si calò il sipario fui gittato per grazia alla frontiera con mia moglie e mia figlia. Sono andato in Svizzera. Là ho lavorato come un cane, col piccone, sopra una linea di ferrovia. Non dico niente, questo è un onore. Sono di buona famiglia, fui Rittmeister, ma fa niente, questo è un onore, di aver lavorato con le mie mani. Il male era che non guadagnavo abbastanz a. Pensate, signor, mia moglie e mia figlia pativano la fame! Allora con l'aiuto di alcuni compatrioti, si andò in America. Sì, signor, sono stato anche in America, a New York. Ho venduto birra, ho guadagnato. Oh, andava bene. Es war ein Traum. Sapete? Era un sogno. Mia moglie ammalò di nostalgia. Si stava bene a New York, si prendevano dollari, si avevano molti amici. Ebbene, cosa è tutto questo? Partiamo, arriviamo in Europa. Io scrivo a' miei parenti. Sono tutti reazionari e bigotti; io sono nato cattoli co, ma non credo ai preti; non mi rispondono. Che importava loro se mia moglie moriva? Scrivo ai parenti di mia moglie. Cose da ridere, signor. Quelli mi odiavano perché avevan creduto dare la ragazza a un ricco e il poco che mio padre non aveva potuto togliermi era stato confiscato dal governo. Oh, è bellissima. Però mio cognato venne a Nancy, dov'ero io. Mia moglie partì con la bambina, sperando guarire presto e ritornare. L'accompagnai alla frontiera. Stava male; dovevamo lasciarci a mezzogiorno. Un'ora prima mi abbracciò e mi disse: "Andrea, ho visto il paese da lontano: basta, restiamo insieme." Capite, signor? Voleva morire con me. Otto giorni dopo..." Steinegge compì la frase con un gesto e si cacciò a fumare furiosamente. Silla taceva sempre, non gli dava retta, forse non l'udiva neppure. "I parenti di mia moglie" continuò l'altro "hanno preso la bambina. È stata una carità perché la piccina non sarebbe stata bene con me solo, e con questo pensiero ch'ella si trovava meglio io ho potuto soffrire molto allegramente. Ma credete che non mi hanno mai data una notizia? Io le ho scritto ogni quindici giorni, sino a due anni or sono; non mi ha risposto mai. Potrebbe anche non essere più al mondo. Cosa è questo? Si beve, si fuma, si ride, ooh!" Dopo questo epilogo filosofico il segretario tacque. Era notte oscura. La stradicciuola tagliava per isghembo un pendìo cespuglioso dal vallone del palazzo alle prime nere casupole di R... Abbasso, il lago dormiva. Nel Palazzo si vedevano ancora illuminate le finestre della biblioteca e altre due nella stessa ala, sull'angolo del secondo piano; una verso ponente, l'altra verso mezzogiorno. Prima di toccar le casupole, il sentiero svoltava fra i due muricciuoli bassi, in un avamposto di granoturco e di gelsi . "Dove andiamo?" domandò Silla affacciandosi all'entrata scura del villaggio. "Solo un poco avanti" rispose Steinegge, incoraggiandolo. "Le sarei grato se ci fermassimo qui." Steinegge sospirò. "Come volete. Fuori del ciottolato, allora." Ritornarono un passo indietro dai muricciuoli e sedettero sull'erba, dalla parte del ponte. "Io faccio come volete, signor" disse il segretario "ma questo è molto male per Voi di non bere. Gli amici delle ore tristi sono pochi e il vino è il più fedele. Non bisogna trascurarlo. Mostrategli di vederlo volentieri, Vi accarezza il cuore: trattatelo male e, se un giorno ne avrete bisogno, Vi morderà." Silla non rispose. Era dolce a contemplare, nello stato d'animo suo, la notte senza luna e senza stelle. Dal vallone spirava una tramontana fresca, pregna d'odor di bosco. Erano lì da pochi minuti quando udirono a destra fra le casupole un suono cupo di molti passi, che si allargò subito all'aperto e si fermò. "Ooh, Angiolina!" chiamò qualcuno. Silenzio. "Ooh, Angiolina!" Una finestra si aperse e una voce femminile rispose: "Che volete?" "Niente, vogliamo. Siamo qui al caffè della valle a prendere come i signori, e vogliamo far quattro chiacchiere." "Maledetti ubbriaconi, è questa l'ora di far chiacchiere? Dovevate stare all'osteria a far chiacchiere." "Ci è troppo caldo" saltò su un altro. "Si sta meglio qui a cavallo de' muri. Non sentite che bel freschino? Come volete fare a dormire? L'è pazzia stare a letto con questo caldo. Non è andato a letto neppure il vecchio del Palazzo stasera. Non vedete che ha ancora acceso il lume?" "Non si vede da qui. Sarà il lume della signora donna Marina." "Oh adesso! Mai più. C'è bene anche quello, ma le due finestre chiare, abbasso, sono quelle dei libri. Ho mica da saperlo? Sono stato giù l'altro giorno a metterci due lastre." "Ci hanno ad essere de' forestieri" disse un terzo. "Sì, c'è un giovinotto di Milano. L'ha detto il cuoco stasera alla Cecchina. Ci deve essere per aria di combinar qualche cosa con la signora donna Marina." "Stia allegro chi la toglie, quella lì, che toglie un bel balocco, sì!" disse la donna. "Ha detto così la signora Giovanna alla Marta del signor curato, che hanno attaccato lite anche oggi e che lui, il vecchio, le ha sbattuto giù il libro dalla finestra, e lei allora ha fatto il demonio. La signora Giovanna tiene dal suo padrone, ma già sono matti tutti e due. Solo per il nome non la vorrei quella lì, se fossi un uomo. Ha un gran nome da strega, sapete. Malombra!" "Oh sì, sì, come ha ragione quella donna, da strega!" disse piano Steinegge. "Questo è divertente." "E mica Malombra, è Crusnelli." "Malombra!" "Crusnelli!" "Malombra!" Si riscaldavano, gridavan tutti insieme. "Andiamo via" disse Silla. Si alzarono e ridiscesero verso casa. Quando giunsero in fondo al seno del Palazzo, dove faceva tanto buio che Steinegge si pentì di non aver preso seco la lanterna, saltò su nel silenzio il suono chiaro e dolce d'un piano. Rischiarò la notte. Non si vedeva nulla ma si sentivano le pareti del monte intorno alle note limpide, si sentiva, sotto, l'acqua sonora. In quel deserto l'effetto dello strumento era inesprimibile, pieno di mistero e di immaginazioni mondane. Era forse un vecchio strumento stanco, e in città, di giorno, si sarebbe disprezza ta la sua voce un poco fessa e lamentevole; pure quanto pensiero esprimeva lì nella solitudine buia! Pareva una voce affaticata, assottigliata dall'anima troppo ardente. La melodia, tutta slanci e languori appassionati, era portata da un accompagnamento leggero, carezzevole, con una punta di scherzo. "Donna Marina" disse Steinegge. "Ah" sussurrò Silla "che musica è?" "Ma!" rispose Steinegge "pare Don Giovanni, Voi sapete: Vieni alla finestra. Suona quasi sempre a quest'ora." In biblioteca non c'era più lume. "Il signor conte arrabbia adesso" disse Steinegge. "Perché?" "Perché non ama la musica e quella lo fa apposta." Silla zittì con le labbra. "Come suona!" diss'egli. "Suona come un maligno diavolo che abbia il vino affettuoso" pronunciò Steinegge. "Vi consiglio di non credere alla sua musica, signor."

La Stampa e la Politica

682973
Torelli, Giuseppe 1 occorrenze

Dato che si abbiano il direttore e l'amministratore, la somma indicata ci vuol tutta, o si fa un bel fiasco. Vi paiono troppe cento-cinquantamila lire? Ebbene, ho sbagliato, ce ne vogliono duecentomila. Se non mi credete, provate e vedrete. Dacchè sono a Milano, cioè da sedici anni, furono fatti fra grandi e piccoli, fra serii e ridicoli, almeno due dozzine di tentativi per la creazione di nuovi giornali politici. Tre soli fogli riuscirono a vivere ed a far fortuna: il Secolo di Edoardo Sonzogno, il Corriere di Milano del Treves (morto volontariamente), e il Corriere della Sera Tutti gli altri fallirono, e gli editori ci rimisero fior di quattrini, e gli scrittori le illusioni, e qualcuno la salute ed il patrimonio. Ho avuto parte alla redazione di tutti e tre questi giornali fortunati, anzi sono questi i soli giornali in cui ho avuto parte, non contando la direzione tenuta durante quattro mesi del giornale la Lombardia . Vidi nascere ed accompagnai il Secolo fino all'orlo della sua prosperità ; assistei il Corriere di Milano dalla sua pensosa nascita al suo allegro suicidio, ho spinto il Corriere della Sera nell'alto mare in cui oggi naviga col vento in poppa: non ho dunque avuto nessun cavallo ucciso sotto, e potrei dirmi ottimista; ma lo spettacolo di tante rovine a cui ho assistito mi spinge a dire a' progettisti di giornali: - Non v'illudete! in queste imprese perigliose, per uno che vince, venti almeno soccombono. Che se alcuno mi domanda di fargli parte di quanto ho imparato in sedici anni d'esperienza per far prosperare un giornale, gli dirò: anzitutto abbiate de' collaboratori giovani, valenti, elettrizzati dal desiderio di acquistar gloria, non mestieranti. Posso vantarmi di avere un personale di redazione esemplare in Dario Papa, Ettore Teodori, Carlo Barbiera, Antonio Gramola, Labanca, Raffaele De Cesare, Luigi Archinti. Ci saranno degli scrittori più forbiti, non ce ne sono che esercitino la loro professione con più amore. In un giornale, nessuna rubrica può essere trascurata impunemente; tutte hanno lo stesso valore, tutte vogliono, in chi n' è incaricato, ugual diligenza. Un buon sotto-cronista può essere la fortuna d'un giornale. In questa quotidiana battaglia che combattiamo, la vittoria può esser decisa da un modesto tamburino tanto quanto dal generale. In un ufficio di redazione, non ci sono superiori ed inferiori, tutti sono uguali. Una delle maggiori difficoltà che s'incontrano per la diffusione d' un giornale nascente è di farlo conoscere e gustare dal pubblico. Il signor Prosdocimo, ex-funzionario in pensione, spende ogni giorno un soldo per comperare il Corriere della Sera c' è però un altro giornale, mettiamo il Messaggero serotino fatto ugualmente bene, fors' anche migliore, che il signor Prosdocimo, se lo conoscesse, preferirebbe. Ma egli non ha che un soldo da spendere al giorno pel suo nutrimento intellettuale, non ha che un' ora da consacrare alla lettura : egli ignora dunque il Messaggero serotino e lo ignorerà finchè una circostanza straordinaria glielo ponga sott' occhio. Scoppia una crisi ministeriale. Il pubblico porta via i giornali a ruba: il signor Prosdocimo non trova più, alla solita edicola, il suo favorito Corriere della Sera È costretto a comperare il giornale meno ricercato, il già negletto Messaggero serotino Or bene, se il direttore di questo giornale è un uomo d' ingegno, quel giorno non soltanto avrà fatto bene il suo foglio come al solito, ma si sarà sforzato di farlo meglio di tutti gli altri, dimodochè non soltanto il signor Prosdocimo ne resti pienamente sodisfatto, ma coloro che leggono più fogli, riconoscano che il Messaggero serotino è il giornale fra tutti meglio informato e meglio redatto. Fate pure prodigi di diligenza durante un anno intero, la tiratura del giornale non muta; fate il giornale bene durante tre giorni quando lo spirito pubblico è eccitato, e la tiratura salirà immediatamente e non scenderà più. Un foglio che nasce deve far voti che nel suo primo anno di vita avvengano due o tre avvenimenti clamorosi, che stuzzichino superlativamente la curiosità: se saprà profittarne, la sua fortuna è fatta. Se l' anno passa liscio, è ben difficile che il giornale riesca a farsi strada, quannd' anche compilato da giornalisti di primissimo ordine. Vero è che, quando non avvengono fatti che agitino il pubblico, si può, con un talento di redazione eccezionale, intavolando polemiche, inventando nuove forme d' articoli, creando nuove rubriche, dare il gambetto in pochi mesi a tutti i proprii colleghi. Questo è il sogno di tutt'i giornalisti novellini, i quali hanno in testa un certo ideale di giornale, che ogni giorno debba offrire a' lettori una serie d' articoli piccantissimi e farli delirare dal piacere. Questi sognatori domandano soltanto diecimila lire, cinquemila, mille, magari cinquecento per realizzare il loro sogno: quando le hanno trovate, mettono fuori un foglio di carta stampata e fanno un fiasco maiuscolo. Il loro progetto, dopo tutto, non è chimerico; soltanto per attuarlo bisogna essere un giornalista di genio, ed io non parlo qui ai genii, parlo ai giornalisti di mediocre levatura, come me, che hanno coscienza della loro mediocrità e che s' industriano di supplire con l'arte, con la conoscenza del mestiere, alla deficenza dell' ingegno. Bisogna inoltre tenere a mente che il giornalista non è il padrone del pubblico, ma il suo servitore, e che deve fare il giornale non per servire la propria ambizione, le proprie passioni, le proprie amicizie, i propri interessi, ma per istruzione e divertimento del pubblico. In questo il pubblico ha il fiuto finissimo : per quanto il giornalista sia abile, i lettori s'accorgono subito se ha sistematicamente un secondo fine, e allora guai a lui! Il pubblico compra il giornale per essere informato di tutto quel che accade: è dunque un dovere di stretta onestà pel giornalista di non tacergli nulla. Occultare una notizia perchè danneggia i nostri amici politici, sorvolare sopra un fatto per non giovare al partito avversario, non parlare di Tizio o di Sempronio per non far loro la réclame, mentre Tizio e Sempronio hanno fatto qualcosa di clamoroso, sono piccole disonestà, che indispettiscono il pubblico e che riescono a tutto danno dello spaccio del giornale. Il pubblico perdona più facilmente un articolo appassionato ed ingiusto che certi artificiosi silenzi, certi escamotages di notizie, da cui si sente mistificato. « Giuro di dire la verità, tutta la verità », dice il testimone prima di cominciare la sua deposizione. Il giornalista è un testimone; egli deve dare al pubblico non soltanto le notizie del giorno, ma tutte le notizie del giorno, per quanto qualcuna possa increscergli. Adesso dirò una cosa che sarà presa come un segno di scetticismo, ma la penso e, secondo il mio costume, la dico: credo che il colore politico d'un giornale abbia poca influenza sulla sua fortuna, e che il Secolo , per esempio, potrebbe mutare, con poco danno del suo spaccio, i suoi principi in quelli dello Spettatore lombardo Difatti, non vediamo, nella repubblicana Francia, che il Figaro clericale, legittimista, è il giornale più letto ? E lo leggono non soltanto i monarchici, ma anche i repubblicani. E i lettori del Secolo sono forse tutti repubblicani? E non ci sono preti e beghine che preferiscono abbonarsi a questo giornale anzichè al poco fortunato Spettatore ? Ecco che ho nominato il Secolo . Passiamo quindi dal campo monarchico costituzionale nel campo più o meno repubblicano. Una delle caratteristiche dello spirito pubblico a Milano è che due soli partiti vi prevalgono : il partito moderato ed il partito radicale. I progressisti puri sono una minoranza trascurabile. E però l'Associazione progressista creata a tempo del ministero Nicotera ha sempre vissuto e vive più di nome che di fatto, e nelle elezioni è sempre sopraffatta ed assorbita da' radicali, che le impongono i loro candidati. Una delle forze del Secolo fu di non essersi mai messo al servizio di nessuna società politica, di nessun gruppo, di nessun ministero; sicchè il pubblico, fin dalle sue origini, s' accorse che era un giornale fatto per uso de' lettori, non per uso d' altri : questa, come ho detto, è una qualità eccellente per un giornale che vuol far fortuna. Il Secolo ha per editore un uomo che non ha larga coltura, nè gusti molto fini, ma che ha un raro istinto de' bisogni e delle inclinazioni della piccola borghesia ed è aiutato da un amministratore di prim'ordine. Il Secolo nacque moderato, ed i suoi primi redattori furono Eugenio Ferro, oggi redattore della Gazzetta Ufficiale e revisore al Senato, Carlo Pisani, oggi direttore della Venezia Vincenzo Salvatore, oggi direttore del Banco di Napoli a Venezia, Antonio Scalvini, divenuto impresario, ed io, tutti allora come adesso buoni monarchici. Dopo alcuni mesi, non essendo noi stessi ben sodisfatti della redazione, discorrevamo in crocchio de' miglioramenti da farvi. Ognuno metteva fuori un' idea. « Ecco quel che faremo, disse Edoardo Sonzogno, stamperemo ogni giorno immancabilmente due romanzi. » Tutti, ed io più forte de' miei colleghi, protestammo contro questa stravaganza. In que' tempi, il romanzo affettato nell' appendice usava poco ne' giornali italiani ed era stato smesso da parecchi giornali francesi: l' idea di stamparne due contemporaneamente, a detrimento degli articoli e delle notizie politiche, letterarie, cittadine, poteva essere giudicata una stravaganza: eppure quell' idea, applicata, determinò la fortuna del Secolo . Fu anche del Sonzogno l' idea dei premi ordinari e straordinari, ed egli pel primo si servì su larga scala del telegrafo. Si può oggi ancora discutere sul valore morale di qualcuna di queste innovazioni: certo è che dal punto di vista industriale furono tutte felicissime, tanto vero che gli altri giornali hanno dovuto adottarle, nè potrebbero rinunziarvi senza danneggiarsi gravemente. Il Secolo è diretto dal signor Teodoro Moneta, a cui però spetta piuttosto il titolo di redattore in capo, giacchè il giornale è veramente diretto dal Sonzogno e dal signor Enrico Reggiani, amministratore. La parte cittadina è compilata dal signor Carlo Romussi, che scrive anche le appendici sulle commedie nuove e sulle esposizioni di belle arti. Il signor Filandro Colacito, già redattore della Capitale è entrato da qualche tempo al Secolo . Il signor Amintore Galli, professore al Conservatorio, scrive le appendici musicali. Le riviste finanziarie sono del signor Antonini. Milano ha due altri giornali di Sinistra: la Lombardia e la Ragione. La Lombardia , che durante sedici anni fu giornale moderato, anzi officiale, prese una ubbriacatura di progressismo nel 1876, e dopo varie vicende, passò in proprietà del tipografo signor Civelli. Vorrebbe rappresentare il partito progressista puro, ma di tratto in tratto dà una capata nel radicalismo. È redatto dal signor Abele Savini, dal prof. Lodovico Corio e dal prof. Paolo Porro: le appendici musicali sono sottoscritte Athos pseudonimo del signor Virgilio Colombo, già allievo del Conservatorio. In qualità di giornale mattutino, la Lombardia non ha concorrenti fra' giornali ad un soldo, e sento dire che la sua tiratura è in rialzo da qualche tempo. La Ragione , fondata sul finire del 1875, ebbe fortuna ne' primi tempi, ma andò poi declinando, ed oggi non dà molto a lavorare alle fabbriche di carta. È diretta dall' avv. Attilio Luzzatto, che scrive di politica, di amministrazione, di pittura, di drammatica e di musica. La cronaca è fatta dal sig. Francesco Giarelli, scrittore enfatico, ma vivace e copioso. Lavora nella Ragione anche il signor Dobrilla. La Ragione non ha una linea politica ben definita, mentre talora s' accosta alla Sinistra moderata e tal'altra sale sulla cima della montagna: a differenza del Secolo, la si può chiamare, senza intenzione di denigrarla, piuttosto giornale di partito che di principi. Resta a parlare del partito clericale, rappresentato da due giornali: l'Osservatore cattolico e lo Spettatore lombardo sempre in guerra fra loro, e che guerra! L' uno chiama l' altro fogna, l'altro risponde farabutto. Lo Spettatore fu fondato da' clericali più transigenti e remissivi per rintuzzare la tracotanza dell' Osservatore , diretto dal famoso Albertario e da D. Enrico Massara, che pretendevano e pretendono ancora dominare su tutto il clero lombardo e comandare a vescovi ed arcivescovi. Fu diretto dapprima da un prete Scala, e andò male, ed ora è diretto dal signor Hamilton Cavalletto, toscano, ex-ufficiale, che dell' antica professione ha serbato i calzoni attillati, e gli stivaloni. E uomo d'ingegno e di studi, ma anche adesso lo Spettatore è poco letto e non accenna a diventar popolare. Intanto il partito clericale, così scisso, continua ad essere a Milano nulla più che un desiderio di alcuni gentiluomini e gentildonne. Il partito liberale s'accorge che questo stato di cose è prodotto dal giornale dell'Albertario, e però ha per questo prete rubicondo e sensuale un'involontaria e segreta simpatia. Don Davide Albertario ha certamente una fibra giornalistica molto forte: lo si è veduto nel recente scandalo di Viadana, da cui ogni altro prete sarebbe stato abbattuto, e che per lui è stato Leggero soffio di villana auretta D'abbronzato guerriero in su la guancia. E. TORELLI- VIOLLIER.

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