Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 7 occorrenze

"Bisogna dire che a Milano le donne abbiano lo sguardo delle Arpie quando fissano gli uomini" pensò Nanà. Le sventure passate, il rimorso e la superstizione le avevano messo nella guardatura e nel muovere delle pupille una particolarità degna di attenzione. Que' suoi occhi, più grandi del vero, a prima vista parevano supplicanti e desiosi. Voi credevate in buona fede che ella vi avesse fissato in quel modo, perchè la vi trovasse bello o piacente, perchè la vi desiderasse, perchè forse... oh Dio! già segretamente la fosse presa delle vostre fattezze. E allora mille fuochi e speranze avvampavano o scattavano nel vostro interno. Avvampavano se avevate il temperamento sulfureo, scattavano se lo avevate fatto a molla. Ebbene? Quand'essa distaccava da voi lentamente le sue pupille, se voi eravate filosofo, se nello sguardo altrui sapevate discernere il vero sentimento che lo ispirava, vi sareste accorto che ella, non che fissarvi, nè desiderarvi, nè amarvi già in segreto, non la vi aveva nemmanco notato, non la si era neppure accorta di voi, non la vi aveva veduto passare che tampoco. Nanà non aveva sguardi che vedessero davvero, se non per le cose che appetiva o per le persone che odiava. Non parlo di quelle che essa amava, per una ragione semplicissima. Che ella, come non aveva amato mai davvero, così non amava nessuno ancora. Fontan lo aveva subito più che amato. Era stato piuttosto un bestiale istinto che una pena di cuore la sua. All'oggetto desiderato o alla persona odiata nessuna creatura al mondo sapeva guardare meglio di Nanà. Ma gli indifferenti? Essa non li vedeva. I suoi occhi difficilmente si occupavano del mondo esteriore, se non per raccogliere alla sfuggita e all'ingrosso i taciti omaggi dei passanti. L'orgasmo continuo e febbrile della sua ambizione non le permetteva di discernere se non quello che premeva a' suoi istinti felini di donna e alla sua smisurata vanità. Nanà ormai guardava più spesso all'indentro di sè stessa che non al di fuori. Le imagini sanguinose, i fantasmi della sua vita passata non erano scomparsi mai dalla sua fantasia. Essa portava con sè la catena d'un rimorso non vivo, nè salutare certamente, ma molesto e perenne. Talchè giammai quella sua plastica bellezza era stata così pericolosa e più procace! Una delle otto lettere d'amore noi la conosciamo già. Nanà l'aveva trovata nel manicotto uscendo dall'avvocato Delguasto, dov'era andata a consulto, per una certa coda di processo ch'è inutile richiamare in questo punto. Nanà ebbe un bel domandare a sè stessa come mai quella lettera avesse potuto capitare nel suo manicotto, e non trovò la risposta. Ella non s'era nemmeno accorta di Ernesto Cantis, non l'aveva veduto, o per meglio dire, non l'aveva osservato. E lui credeva, il povero ragazzo, ch'ella nutrisse già per lui una segreta simpatia!

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- No signore; questo sarà un contratto inter nos per garantire i nostri reciproci diritti e doveri in caso di contestazioni che speriamo non abbiano a sorgere mai. Per la Camera di Commercio v'è un'altra modula a cui penseremo più tardi; del resto lei deve persuadersi che adesso per fare e per ottenere tutto a questo mondo non c'è che l'apparenza. Per l'apparenza dunque le ripeto, ella ha bisogno di vestirai molto bene, di frequentare le migliori società, e se è possibile, di farsi credere conte, o per lo meno nobile. Marliani è un bel nome. Faccia stampare dei biglietti di visita colla corona di conte. Conte... il suo nome di battesimo è? - Filippo. - Conte Filippo Marliani andrebbe a maraviglia. - Le faccio osservare che io sono già molto conosciuto a Milano. - Bene, abbandoniamo la contea e lasciamo supporre che lei abbia fatta una vincita in lotto. - Ma io non mi presterò mai a gabbare il mondo così - disse il Marliani. - Lei non deve che lasciarlo credere - saltò su la Bibiana. - Ci penseremo noi a propalare la notizia come si deve. Lei non dovrà far altro che dissimulare e non dire di no. Questo è facile. - Manco male! - biascicò il Marliani che di transazione in transazione si lasciava persuadere a diventar un fior di briccone. - Fra quindici giorni esporremo la ditta al pubblico e cominceremo gli affari. Intanto dirameremo al commercio le circolari e scriveremo le lettere firmate da lei a tutti i corrispondenti. Il locale della ditta è già preso. È in via Valpetrosa. Se crede adesso possiamo andarvi insieme a vederlo. Su questo invito della signora Bibiana la congrega si sciolse e Marliani, colla grassona, entrarono in un brougham e a cortine calate si fecero portar in via Valpetrosa. Esaminato il locale, il Marliani corse difilato a pagar il suo debito di giuoco col biglietto da mille, per avere il quale aveva venduta la coscienza di galantuomo.

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Io sento che verrà forse un giorno in cui io potrò essere infelice, e voglio farmi dei veri amici, i quali abbiano per me dell'affezione calma e della stima. Se io vi dessi delle speranze, e che poi non dovessi esaudirle, mi farei un nemico di voi. È meglio che ci fermiamo qui. E s'allontanò anche da lui. - Oh Nanà! - sclamò il giovinetto vedendola staccarsi così presto. E disse quel Nanà come un uomo che s'annega e che cerca soccorso alla sponda. Nanà comprese quello spasimo, e sorrise fra sè, beata. Essa lo considerava come un piccolo tributo dovutole, e ne godeva. L'idolo, sotto al cui naso si brucia tutto il giorno dell'incenso, ne sentirebbe forse ancora il profumo, per quanto avesse narici per sentirlo? Ormai ell'era troppo avvezza a vedere uomini agonizzanti di amore a' suoi piedi. "Tutti fanno lo stesso a Milano come a Parigi! - pensa Nanà - Sarei quasi per desiderare che Enrico facesse diverso del solito! S'io giungessi a farmi sposare da lui a furia di amor vero, di amor sincero, che mi facesse redenta a' miei occhi... ed anche a' suoi, quando venisse a sapere il mio passato? Qualcuno in quel mentre si fece udire a parlare di Garibaldi e della guerra sui monti. Nanà sapeva che Enrico vi aveva preso parte. - Sì, sì - gridò. E tutti udendo la voce di lei tacquero come per incanto. Conte raccontateci qualche aneddoto della guerra. A me piacciono le storie di guerra. Enrico si schermiva. Il Sappia si alzò a magnificare un certo aneddoto dei piedi gelati, che secondo lui era una bellezza. Non si è mai traditi tanto bene, come da' proprî amici. - Ha un aneddoto che è delizioso - gridò il Sappia... - Racconta Enrico l'aneddoto dei piedi gelati. - Sì, sì, vogliamo i piedi gelati - si gridò da ogni parte. O'Stiary s'arrese. - La cosa è semplicissima - disse. - Eravamo in distaccamento avanzato in cima a una montagna tutta coperta di neve. Faceva un freddo da lupi, e io lo pativo tanto ai piedi da veder le stelle anche di giorno. Non c'era nè bevere acquavite o rhum, nè portar doppie calze di lana, nè camminare e saltare, io li avevo sempre gelati. Un giorno mi lamentavo di questo incomodo con un vecchio garibaldino d'un altro battaglione, un povero diavolo, contadino di origine, che mi aveva reso qualche servigio, ma non mi conosceva più che tanto. Lo vedo spalancar gli occhi e dirmi: "Ma diavolo! Perchè non l'ha detto prima a me? "Che! Voi avreste un rimedio contro il freddo a' piedi? gli domandai io. "Altro che! mi risponde. Un vero tocchesana, un rimedio infallibile, caro camerata. Io lo invitai a parlare. E lui cominciava: "La si figuri che io appena venuto a far il volontario, specialmente d'inverno, pativo anch'io un tal freddo ai piedi, che..... Io lo interrompevo spingendolo alla conclusione, e lui invece: "Un poco di pazienza, mi diceva; bisogna prima che io vi faccia la storia del rimedio. "No, non m'importa di sapere la storia; vorrei la pratica, replicavo io, ma non c'era verso. Da vero contadino zuccone, lui voleva andare per le lunghe. "Dicono l'acquavite. sì, l'acquavite non dico. Se se ne ha, è buona anch'essa, ma quand'è passata fuori, lascia i piedi più freddi di prima. "E dunque?" chiedevo io. "Dunque invece io l'ho trovato il vero rimedio. "Su dunque. Che cosa avete fatto? "Una cosa di nulla, a pensarci sopra. Eppure è eccellente. Bisogna sapere prima di tutto, che io prima non avevo mai usato di portare le calze.... "Sì. Ebbene? "Dal giorno che misi un paio di calze di cotone sotto alle scarpe, il freddo è passato come per incanto. Provate, camerata, e vedrete." L'aneddoto era buono e si rise. Allora Nanà si mise a magnificare il modo di raccontare del conte, e tutti o quasi tutti si diedero a raccontar il loro piccolo aneddoto. Fu una confusione da non dirsi. Tutti raccontavano e nessuno ascoltava. - Come mi trovate? - non potè trattenersi dal dire, a Enrico, Nanà, dopo d'essersi congratulata con lui della sua storiella. - Io vi trovo degna di Vandick e di Tiziano. Nanà gli domandò chi fosse Tiziano. E dopo: - Io, partendo da Parigi, avevo idea di far questo viaggio in Italia, paese dell'arte, specialmente nella speranza di trovar un pittore che mi sapesse ritrarre come dico io.... L'invito era troppo diretto per non accoglierlo. - Volete, Nanà, che io mi provi a dipingere questa vostra magnifica testolina? - Provarvi in che modo? - domandò Nanà. E volgendosi repente a un invitato che s'era messo al pianoforte e vi traeva degli accordi, gli gridò: - Ma volete finirla voi? - Io vi propongo di farvi il ritratto, mezza figura, nel mio piccolo studio. L'emozione di Enrico, mentre faceva a Nanà questa proposta, era grandissima. Egli sembrava di marmo, tanto s'era fatto pallido ed immobile aspettando la risposta di Nanà. La sua voce era tremolante. Nanà sorridendo, cogli occhi abbassati, che si sarebbero fin detti modesti in quel punto, faceva saltar sul palmo la nappetta d'un cuscino che le stava accanto. E non rispondeva. Essa cominciava a trionfare e assaporava con voluttà il piacere della vittoria. Enrico ripetè: - Non volete? Nanà gli stese la mano, e rispose: - Ci si può riflettere. E lo piantò là, perchè... forse... qualcuno l'aveva chiamata. Nessuno assolutamente l'aveva chiamata. Tutti però segretamente la reclamavano. La conversazione, dove non era lei, languiva. Non per quello che ci mettesse lei, ma per quello ch'essa, senza volerlo, ispirava agli altri. Un ah! generale fra gli uomini l'accolse dunque quand'ella si staccò da Enrico e venne a sedere fra la Romea e la grande coquette prémièr rôle rôleAllora la conversazione si rifece generale. - L'assenza dell'oggetto che si ama - sclamò Bonaventuri che non faceva segreti delle sue ammirazioni per Nanà - l'assenza dell'oggetto amato fa lo stesso effetto del vento sulle fiamme: spegne le fiamme deboli e aumenta le forti. - Che filosofo! - Non sono io. È Larochefoucauld. - Voleva ben dir io! - Che cos'è l'adulterio? Ne ho letta una definizione nuova non so dove... aspettate... Non mi ricordo. L'adulterio è una bancarotta fraudolenta della moglie a cui il marito resta sotto col proprio capitale. Va bene? - Sì, e poi? - Soltanto che invece di essere disonorato chi ha fatto fallimento resta disonorato chi ci resta sotto. Verso le undici venne il thè. thè.Nanà aveva dichiarato a' suoi amici che avrebbe recitata la sua scena e cantati i couplets dopo il thè, per tenerli tutti riuniti fino ad ora tarda. Nel porgere la tazza ad Enrico gli disse sotto voce: - Ora mi vedrete nel mio costumino di Parigi, pettinata alla greca; e se mi direte che ho proprio una testa artistica forse... forse mi deciderò a venire da voi. Di lì a poco Nanà entrò nel suo penetral più sacro a travestirsi. Comparve mezz'ora dopo in un delizioso costumino di fantasia che faceva risaltar in modo mirabile le forme opime. Un applauso entusiastico l'accolse. Battevan palma a palma anche le donne, che pur fremevano di rabbia nel loro interno. Nanà era così innamorata di sè e degli applausi che non s'accorgeva o non pensava al dolore che essa procacciava alle proprie amiche, alle quali toccava assistere a' di lei trionfi intimi. Nessuna donna è più nemica di colei che si mostra seducente e adorata in sua presenza. Guardate in una festa da ballo, dove compaia a un tratto qualche astro, e vedrete le occhiate bieche, e gli sguardi di traverso, in tutte le altre donne che prima comparivano sciolte, sorridenti e felici. La Romea, per esempio, che si sapeva tanto diseredata di curve, arrabbiò come una dannata al mostrarsi di quella maravigliosa figlia di Eva, sfolgorante di gioventù e di bellezza, e si sentì presa a un tratto da un'immensa voglia di piangere. Fu la sola che non ebbe l'ipocrisia di battere le mani. Ben inteso che le altre fingevano di battere; ma accostavano adagino palma a palma per non aumentar il fracasso. Gli uomini invece pareva volessero impazzire di gioia e di ammirazione. E avevano perfettamente ragione. Chi non si scuote all'idea della bellezza artistica è un ciuco. Inebbriati da quella apparizione essi perdevano perfino la misura delle manifestazioni decenti e scordavano appunto che in mezzo a loro stavano sette infelici creature, che sorridendo si mordevano le labbra a sangue e soffrivano per quegli omaggi e per quei gridi, come se ricevessero in viso le più mortali ingiurie. Ma è così. Certi giovinetti non sanno dissimulare e mentire se non precisamente quando farebbero invece assai meglio a dire la verità. Un "zitto, silenzio, basta" s'elevò da ogni parte quando Nanà fè' cenno che avrebbe incominciata la scena. Ella si mise dunque a recitare abbastanza male un monologo che la si era fatta scrivere per un'occasione consimile, tutto pieno di motti a due tagli e di idee lascive. Gli spettatori, tranne O'Stiary, giubilavano. Le donne facevano mostra qualche volta di scandolezzarsi onde aver il diritto di dire poi di Nanà cose oscene, per ringraziarla del pranzo. Quel monologo era una birbonata qualunque, intermezzato da couplets, che Marliani accompagnava al piano. Gli applausi scoppiavano fragorosi, pazzi, ad ogni refrain. refrain.E le donne intanto sussurravano sottovoce agli uomini di condurle a casa. Una aveva l'emicrania, l'altra male al petto. La Romea protestava mal di denti. Non c'erano, che la buona Giannella e la signora Fanny, che avessero pigliato il loro partito e che lodassero schiettamente l'artista e la donna bella. Appena ebbe finito l'ultimo ouplet, Nanà fuggì via con un fare modesto ed infantile, che piacque immensamente agli uomini, e che fece sempre più bestemmiar le donne, in petto. Marliani tentò da balordo di seguirla verso la stanza da letto, ma Nanà gli chiuse bravamente l'uscio in faccia. Questo tratto sollevò una salva sterminata di nuovi applausi, e un ridere saporito e grasso in tutti quanti. - Che ne dite? - domandò Nanà a Enrico tornando nel salotto vestita come dianzi. - Voi siete adorabile, e io vi amo come un pazzo - disse Enrico. Nanà trasse un lungo e tacito respiro dal petto. - Verrete voi nel mio studio? - Domani alle due aspettatemi.

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Io credo - e non so se altri lo abbiano creduto prima di me - che se non esistesse il fenomeno dell'assalto sensuale contro cui non vale nè ragione, nè morale, nè timore della pena possibile, nè religione, nè nulla - a quest'ora il mondo sarebbe rimasto quasi spopolato. Ormai non sono più che i bigotti e i regnanti che fanno legittimamente all'amore per dovere o per calcolo. - Restiamo amici - aveva detto Nanà. - Non guastiamo il nostro bello idillio artistico con dei desiderî che siano precisamente come quelli di tutto il mondo. E poi che vale? Io credo di averlo già un amante, e mi sento ispirata a non tradirlo almeno per ora. - Chi è? - domandò Enrico che era tornato al suo cavalletto affettando molta freddezza nella voce. - Volete proprio saperlo? - Lo bramo. - È Filippo Marliani. - Ah! - Lui! - E ne siete innamorata? - Oh, no, povero Filippo. Non merita punto! - Come potete dire allora che egli sia il vostro amante? - Amante vuol dire: uomo che ama ch'io sappia, e non uomo che è amato Egli mi ama, ne sono certa, e io amo lui, ma non ne sono innamorata. - E questo basta per voi? - Finchè io non mi possa innamorare d'un uomo alla mia volta mi deve bastare, per forza! Che ho a farci io? - Credete voi di potervi riuscire ad amarlo questo signor Marliani? - Neppur per sogno. Manca di due o tre qualità indispensabili... - È ricco? - Era ricco. Ora è povero. - E voi siete ricca? - Lo era. Oggi sono ricca... di debiti. - E che cosa pensate dunque di fare della vostra vita? - Non lo so. - Non ci pensate? - No. Confido nella mia stella. Diventerò artista drammatica. - Ma che idee avete? - Idee! - sclamò Nanà ridendo. - Mi domanda che idee ho! - proseguì come parlando a sè stessa. Facciamo una cosa, Enrico, mettetevi ne' miei panni, nella mia posizione. Sareste capace di fare questa specie di astrazione? - Altro che. - Ditemi ora che idee avreste voi se foste me stessa? Sentiamo. Fatemi il vostro programma. Enrico si trovò dinanzi a un problema, al quale aveva pensato qualche volta senza trovarci uno scioglimento onesto. - M'avete detto che questo signor Marliani non potrebbe pensare a... ai casi vostri? - diss'egli schivando così di rispondere direttamente alle domande di Nanà. - No. Egli è completamente rovinato. Ma vedete che non avete saputo farmi il programma! - Quanto abbisogna a voi per vivere, come sarebbe il vostro desiderio? - Se mi chiedete quanto mi abbisogna per vivere vi potrei rispondere che, amando, mi basterebbero tre franchi al giorno; se mi domandate quanto mi abbisogna per vivere secondo il mio gusto ora che sono annoiata e indifferente, pur troppo vi risponderei che, secondo le mie abitudini, non mi basterebbe un milione all'anno. - Se però un galantuomo vi facesse delle proposte serie, le ascoltereste voi? - Secondo. - Se il galantuomo fosse come me, per esempio? - Allora no. - Perchè? - Prima, perchè non vorrei che la signorina Elisa dovesse odiarmi. E poi perchè non vorrei rovinarvi. - Che importa a voi in caso che io mi rovini? Nanà non rispose; s'accontentò di alzar le spalle con una smorfietta, che poteva essere interpretata in mille sensi. Poteva voler dire: sicuro che a me non m'importa nulla, come poteva voler dire benissimo: mi importa più di quel che pensate! Poteva voler dire: che domanda strana! Come poteva benissimo voler dire: hai indovinato! Astuzia innata di questa sfinge del secolo decimonono. Mezz'ora dopo Enrico entrava come un turbine nella camera da letto del suo amico Sappia che si destava in quel punto e gli diceva: - Ho bisogno di dieci mila franchi. - Che cosa vuoi farne? - Ho paura di essere proprio innamorato. - Innamorato? Ah, capisco! Hai bisogno di dieci mila franchi per farti passar l'amore? - Non per farle un prestito indispensabile... - Si potrebbe sapere chi è? - Indovina. - Non saprei! - È Nanà. - Nanà! - gridò il Sappia balzando a sedere sul letto. - Se non trovo dieci mila franchi per questa sera mi faccio saltar le cervella. - Quand'è così ascolta. Vedrò se mi è possibile di trovare ancora danaro e te lo presterò. Ma sulla mia sola firma ormai non ho più speranza di trovarne. A mio padre nè a mia madre già non posso più ricorrere. Li ho stancati troppo. Ti saprò dire qualche cosa stasera al club. club.- Ma stasera è già troppo tardi. Se io mi presento a Nanà senza una risposta certa, prima di sera sono rovinato. Gliel'ho promesso. - Che ti gira di promettere un prestito senza la certezza di poterlo fare? - Speravo che tu ne avessi o me li potessi trovar subito. Sappia si levò, fece attaccare e andarono in cerca di Bonaventuri, il quale, se il lettore si ricorda, aveva offerto i suoi servigi a Sappia fin da quella sera, che s'eran trovati in casa della Luisa, dove Enrico aveva fatto il primo passo al malcostume. Il Bonaventuri infatti, dal canto suo aveva già fatto prestare più di duecentomila franchi ai due figli di famiglia, e regolarmente alla scadenza rinnovava i loro effetti, sui quali s'accumulava lo spaventevole anatocismo. Di questi, più di centomila li aveva mangiati Enrico O'Stiary. Questi centomila franchi in due anni e mezzo erano diventati circa duecentomila, e alle nuove scadenze toccavano quasi i centocinquantamila. E non erano che la metà de' suoi debiti. Il Bonaventuri faceva credere ai due giovani di essere compromesso fieramente anche lui da quelle scadenze, alle quali poneva la girata per puro favore. Oh, egli era un gentiluomo! Faceva tutto per la grande simpatia che nutriva per que' due poveri giovani, che gli avari parenti tenevano tanto a stecchetto. E si fidava tanto di loro! E sapeva dar loro di quando in quando dei così buoni consigli. E si spaventava di quando in quando con tanta cordialità nel veder ingrossare spaventosamente le somme del loro debito! E si rammaricava con tanta pietà che il padre di O'Stiary avesse messa quella maledetta clausola nel suo testamento. E domandava loro con tanta premura notizie della salute del babbo marchese e del tutore notaio quando li incontrava dalla Luisa! - Aver ancora danaro dalle solite sorgenti - diss'egli a Sappia - è impossibile. Bisognerà che tentiamo nuovi mezzi. - Ne conosce lei? - Io no, ma ho un amico che se ne intende, quantunque da poco in commercio. - Andiamo subito da questo suo amico - disse O'Stiary. - Per farle vedere la mia buona volontà ci andremo oggi. - Come si chiama? - Si chiama Marliani, ed ha lo studio in Valpetrosa. - Oh, diamine! - sclamò il Sappia. - Che fosse mai Filippo Marliani? - Filippo appunto. Quello che era a pranzo dalla signora Nanà...! - Sì, sì. È lui! Come mai s'è dato a vendere pannine? - Lui non vende. Lui è direttore della ragion sociale. - Allora siamo a casa! - sclamò il Sappia tutto allegro. - Ora non è che mezzogiorno - disse O'Stiary. - Troviamoci alle due in qualche luogo. - Dove? - Dica lei. - Dalla Romea? - Va bene. Dalla Romea. E si lasciarono.

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. - A me pare che le sue donne abbiano perfettamente ragione. - Ma va bene! Anche lei adesso, insieme alle donne. Tutti addosso a me. La casa abbrucia, diamoci il fuoco. C'è da perderne la testa! - Andiamo, andiamo - osservò il marchese ridendo non la si riscaldi per così poco. - È vero o non è vero, che queste cambiali furono da lui firmate, mentre non aveva ancora il diritto di firmarle, secondo il testamento di suo padre? - E così? - domandò il marchese. - Come, e così? Vuol dire che la sua firma vale quanto quella d'un minorenne o d'un interdetto, che per legge non valgono nulla. - Ma che c'entra qui la legge, caro cavaliere? Dall'avere ventitre anni e trecentosessantaquattro giorni, all'averne ventitre e trecentosessantacinque, che è come a dire ventiquattro, non scorre che un giorno, anzi, che dico, un'ora, un minuto. E vorrebbe lei che un uomo d'onore credesse di non essere un minuto prima quello che la legge gli concede di essere un minuto dopo? - Oh, caro marchese - ribattè il notaio - le chiacchere son chiacchere e i danari son danari. Io sono un uomo positivo, io. Io guardo in faccia alla legge, alla maestà della legge, e non vado a cercare cinque ruote in un carro. - La legge, caro cavaliere, è stata fatta per coloro che non ne hanno un'altra assai più bella e più forte a questo posto - rispose con molta nobiltà il marchese, ponendo una mano sulla sinistra del petto. - I galantuomini a Milano e dovunque hanno una legge che vale più di tutti i Codici di questa terra, e più di qualunque timore dell'altro mondo e che si chiama il punto d'onore. - Sì, il punto d'onore non lo nego è una bella cosa, - disse don Ignazio. Ma se questi briganti di strozzini si accontentano di pigliar la metà dovremo dar loro il tutto? - Si accontentano è un modo di dire. Ma la questione non è lì. Non sono gli usurai che devono essere contenti, è l'Enrico. - Dunque egli dovrà proprio esser rovinato di rami e di radici? Venduto che sia il podere e questa casa all'Enrico non restano più di trenta o quaranta mila lire. - C'è stato un re di Francia - disse il marchese - che dopo la battaglia di Pavia ebbe a dire: tutto è perduto fuor che l'onore. - Oh ma l'Enrico non è re di Francia e noi non siamo a Pavia - sclamò il notaio con un certo disprezzo. - Se a Milano si saprà che O'Stiary ha pagato fino all'ultimo centesimo mentre avrebbe potuto farne di meno faranno tutto quanti una figura di cioccolattiere. Nel frattempo la povera Elisa, restava là presso sua madre immobile, incerta e senza parola. Quando udì da suo padre il nome del suo Enrico sentì il dolore sgrupparsi nel petto e si mise a lagrimare sommessa. Sua madre se ne accorse. - Non far così Elisa - le disse sottovoce - tu finirai coll'ammalarti, cara la mia figliuola, se continui ad accorarti in questo modo. - Oh, magari mi ammalassi, che almeno non sentirei più nulla, non vedrei più nulla, non mi direbbero più nulla. Io non desidero che di morire. - Ma che cosa dici Elisa? Non far così dunque, te ne scongiuro. - Che cosa mi resta a fare a me a questo mondo? - Oh, ti resta di voler bene a me, che morirei subito se tu mi avessi a mancare. Vorresti tu forse far morire tua madre? - Oh, no, mamma - rispose la Elisa abbracciandola con affetto. - Ebbene, io mi farò suora. - Ma che suora? - sclamò don Ignazio che aveva colta a volo la frase di sua figlia. - Ho da sentir di peggio? Non si usa più adesso ad andar monaca. Non troveresti neppur il monastero. - Oh, non è vero! Mi sono già informata. - Bella risorsa! Suora di carità! La prima carità comincia da casa sua. Non mancherebbe altro che di dover perdere l'unica figlia per quel bel mobile d'un signor conte. Il babbo, sbirciava la sua figliuola, come chi sente compassione, e pur non vorrebbe mostrarla. - Ma chi doveva andar a pensare una cosa simile? - ripigliò - Anch'io dico il vero m'ero lusingato che tu saresti diventata la signora contessa, e che poi colla vostra influenza avrei potuto... basta, castelli in aria!... tutte cose andate a monte.... Ma io lo so di chi è la colpa. E così dicendo strisciò un'occhiata rapida sul marchese e sua moglie. - Lo dici forse per me? - domandò questa. - No, lo dico per me! - Scusa, ma avresti torto. - Lo dico per te, lo dico per il marchese, e lo dico perfino per quella vecchia minchiona d'una balia, che andò a prestargli i danari che aveva messi da parte. Tutti quanti contro di me. Pareva fossi io quello che gettava i danari dalla finestra. Il marchese s'accontentò di sorridere e di crollare il capo. La signora Eugenia invece non stette zitta: - No, no, per te non c'è questo pericolo! Io non ti dicevo altro se non che non bisognava lasciarlo andar in mano degli strozzini. - Brava! Perchè non dici addirittura che sono stato io a metterlo in mano degli strozzini? - Già è inutile parlare con te - disse come rassegnata la signora Eugenia. Io dico soltanto che se tu l'avessi preso colle buone quando è venuto la prima volta a contarti quello che gli era capitato, e se tu gli avessi pagati i primi debiti egli avessi... - Brava, benone! I primi debiti erano debiti di giuoco. - Chi gli ha detto di pagarli? - Oh ma che dici? - La legge non li contempla - proseguì il notaio imperterrito. - Tu sei riuscito perfino a rimproverarlo perchè faceva delle carità - disse la signora Eugenia. - Sicuro, e me ne vanto! E lui, che crede di essere un liberale, dovrebbe sapere che i suoi filosofi, i suoi progressisti, dicono che la carità fatta in quel modo è una cattiva cosa, perchè fomenta l'ozio che è il padre dei vizi. Non sono io che ha inventata questa dottrina... E poi se il far la carità è una soddisfazione dell'amor proprio che si prova, bisogna saper fare un sagrifizio e privarsene! Entrò il servo recando una lettera. Era Aldo Rubieri che annunciava al notaio di aver parlato al sindaco per quella tal concessione, e d'esser pieno di buone speranze. La lettera terminava pregando il padre a volergli dire qualche cosa circa la risoluzione della signorina Elisa a suo riguardo. "Proviamo un poco" pensò il notaio avvicinandosi alla fanciulla. E cominciò: - Senti un poco, Ida. Tu sai che il signor Rubieri, già da qualche tempo aspetta che tu gli dica che non lo rifiuti per sposo. La Elisa ebbe come un sobbalzo. - Non te lo dico - continuò suo padre - per forzare la tua volontà; ma siccome egli amerebbe sapere da te qualche cosa in proposito, mi volgo a te. "Se accettassi?" - pensava intanto la Elisa. - "Ah, Enrico credeva forse di non esserci che lui a questo mondo?" - Ormai - continuava suo padre - hai avuto tempo abbastanza di pensarci sopra, e questa volta se tu persisti a non volerne sapere sarà certo l'ultima volta che egli rinnoverà la domanda. "Potrei vendicarmi in questo modo" - continuava nella sua testolina la fanciulla. - "Potrei fargli vedere che ci sono degli altri che mi cercano e che mi amano." - Che ne dici? Tu sai che sarebbe un eccellente partito. - Ebbene sì, babbo - disse a un tratto la Elisa balzando in piedi. - Lo accetto. "È piena di talento!" - pensò il babbo dal canto suo. La madre invece le susurrava sottovoce: - Ah, Elisa, non precipitare, pensaci sopra. - Ecco là! - sclamò stizzosamente il notaio. - Appena a sua figlia viene una buona ispirazione lei fa di tutto per cacciargliela indietro. - Guarda quello che fai - ripetè donna Eugenia. - Guarda a non pentirti più tardi. - Oh, mamma, basta che io possa uscire da questa posizione orribile, ti giuro, sono pronta a qualunque sagrificio. Io non voglio che l'Enrico creda che io mi dispero per lui. Ormai l'ho atteso abbastanza. - Brava! Che fermezza! Tutta suo padre! - Sarebbe dunque più un puntiglio che altro? - le domandò sua madre. - Ma lascia fare a lei una buona volta, o benedetta donna! - gridò il padre. Poi rivoltosi alla Elisa: - Tu sei disposta? - Sono decisa. - Per carità, Ignazio, non precipitare.... - Oh, che donna! Ha più giudizio lei che tu. Si potrebbe desiderare forse un migliore partito? È un artista, è vero, ma che artista! Bell'uomo! Ricco... assessore municipale.... - Va bene; ma non fa bisogno di rispondergli subito. - Ebbene, faremo così - disse don Ignazio. - Lo inviterò a pranzo e intanto la Elisa avrà tempo di decidersi; e in fin di tavola gli parlerò io, secondo che ella avrà deciso. - E poi se...? - Oh Dio, e poi e poi, se la Elisa non vorrà assolutamente lo avremo invitato a pranzo per... pulirgli la bocca... - No, sono decisa - ripetè la fanciulla. - È necessario ch'io esca da questo stato umiliante. - Va benissimo - sclamò il padre. - Tu, Eugenia, pensa a mandarlo ad invitare a pranzo. Entrò in questo il servo ed annunciò il signor Marliani. - S'è degnato, se Dio vuole! - sclamò don Ignazio. - Fallo entrare lì nel gabinetto e digli che vengo subito. - Io l'ho mandata a chiamare - disse poi quando l'ebbe raggiunto - per vedere di aggiustarci per le cambiali del mio pupillo il conte O'Stiary. - Lei è il procuratore della signora Bibiana Martorelli, n'è vero? - Per servirla. - Io spero che anche lei sarà del mio parere, che sia necessario trovare un mezzo di non lasciare che si venda la possessione e questa casa. - Ma io credo - osservò il Marliani - che tanto una che l'altra siano già state vendute stamattina. - So ben ch'ella mi burla. Io, tutore del conte dovrei saperlo prima di chiunque. - Il conte O'Stiary è tornato a Milano oggi stesso, e da due giorni ha compiti i ventiquattro anni. - Tutto questo lo so benissimo, ma le assicuro che la vendita delle sue proprietà non può essere stata fatta senza che io ne sappia nulla, e spero che lei sarà d'avviso che al giorno d'oggi chi vende si rovina e chi compera non sa mai neppur lui di aver fatto un buon affare. Dunque la creditrice sarà più contenta di vedersi pagata alla scadenza con uno sconto regolare, ma con moneta più o meno sonante. - Ah, certo. Meno seccature. - Allora non ci resta che fissare d'amore e d'accordo la cifra del debito del conte per poter ritirare tutte le sue cambiali. - Eccola - disse il Marliani - e cavato di tasca il portafogli rimise a don Ignazio una carta su cui c'era la distinta delle scadenze del figliuol prodigo. Don Ignazio ne fu spaventato. E sapeva che Marliani non era il solo creditore. - Cosa facciamo? - domandò egli dopo alquante geremiadi, che trovarono un impassibile ascoltatore nel Marliani. - Come dice? - sclamò egli allungando il collo e fingendo di non aver capita la domanda del notaio. - Dico che qui bisogna tagliare, tagliare e accontentarsi. - Ah, non credo che la mia cliente ci voglia sentire da questo orecchio. Ella non può assolutamente rinunciare ai proprii diritti. - Ah, quando lei parla di diritti - sclamò il notaio riscaldandosi - io le farò memoria che le cambiali del conte sono valevoli quanto quelle di un minorenne. - Domando scusa - ribattè freddamente il Marliani. - Noi sapevamo, del resto, che il conte, minorenne o maggiorenne che fosse, non avrebbe fatto disonore alla propria firma. - Qui non si tratta di onore o di disonore - gridò il notaio si tratta di diritto, e io ho la legge per me e potrei, volendo, rifiutarmi di pagare. - La scusi, non la si riscaldi. Le osservo che oggi il conte è uscito dall'interdetto e lei non è più suo tutore. - Ma lei non pensa che io ho il mezzo di far causa e di vincerla sicuramente? - Mi dorrebbe assai per il signor marchese Sappia, il quale è garante, e a cui toccherebbe di pagare lo stesso. Del resto lei sa bene che noi potremmo in caso intaccare il signor conte di truffa, giacchè avrebbe tacciuto di essere interdetto. - Ah, malandrini! - gridò il notaio. - Intaccarlo di truffa dopo di averlo così ridotto alla perdizione? L'accento e la sprezzante espressione del gesto che accompagnarono quella frase furono tali che Marliani balzò in piedi: - Ehi, dico, signor notaio stimatissimo, la stia nei termini, o ch'io.... Le ripeto che non si vuol perdere un centesimo, e basta così. - Ah canaglia - mormorò fra i denti don Ignazio. - E fu preso da un accesso di rabbia. - Io non so chi mi tenga.... Vada fuori, vada fuori subito da questo luogo se non vuol ch'io faccia uno sproposito... fuori, fuori... Così dicendo, rovesciando una sedia, quasi per salvar sè stesso dal commetterlo davvero, uscì dalla sala maledicendo gli usurai, il pupillo, le cambiali e un poco anche il proprio carattere tanto opposto alla sua professione. La Elisa, intanto che suo padre usciva infuriato da un uscio, entrava in quel gabinetto dall'altro colla balia, che aveva trovata in anticamera, e che udendo la voce stizzosa e alta del notaio, accorreva per sapere che cosa fosse accaduto. Ambedue intesero le ultime ingiurie. Trovarono il Marliani lì ritto in piedi colla testa un po' reclinata verso l'uscio d'onde era sparito don Ignazio, come un uomo che mastica fra sè una ingiuria segreta. - Mio padre forse l'ha offeso - disse la Elisa a occhi bassi. - Io sono sua figlia e sono quì pronta a domandarle scusa per lui, se ella vorrà promettermi.... - Prometterle che cosa? - domandò il Marliani un poco sorpreso e molto lusingato dalle parole di quella soave bellezza. - Lei è venuto per aggiustare la faccenda del signor conte O'Stiary mio cugino, non è vero? - Per servirla. - Ebbene io le prometto che lei non perderà niente e sarà pagato fino all'ultimo centesimo. Mia zia mi ha lasciato trecentomila lire e io sono anche pronta a cederle a lei, se lei mi promette di non far del male a... mio cugino.... "Ho capito!" pensò fra sè Marliani. "Qui c'è da trafficare il soldo." Poi soggiunse. - Lei però la mi pare ben giovine. - Ho diciott'anni. - Bella età! - sclamò il Marliani. - Ma più bella assai per lei che per me. - In che modo? - Vede. Per essere padrone di disporre del fatto proprio le mancano ancora tre anni. - Lo so - rispose la Elisa stringendosi alla balia come per chiederle aiuto e consiglio... - Lo so. Ma per esempio, se io potessi ottenere il consenso di chi dovesse diventare mio marito... mi pare. In questo, Enrico O'Stiary, era comparso sull'uscio aperto non veduto da alcuno, e si era fermato ritto sulla soglia. - È necessario allora di provvedere molto presto - disse il Marliani giacchè domani scade la cambiale più grossa, e il creditore, se non fosse pagato, sarebbe costretto di fare i suoi passi. - Domani io credo che si potrà trovare chi si assume di pagarla - disse Elisa. Enrico mosse un passo innanzi. Tutti e tre gli altri si volsero a lui. - Non fa bisogno che lei si rivolga a questa signorina per essere pagato disse Enrico con un gesto di disprezzo a Marliani. - I miei fondi e questa casa furono venduti questa mattina istessa ad un procuratore di una persona da nominarsi, e lei sarà pagato fin all'ultima lira. E non ho più altro da dirle. - Signor conte non ne dubitavo - disse Marliani. - Servo suo. Ed uscì. Elisa teneva le palpebre abbassate. Aveva presa una mano della balia e la teneva stretta nella sua col braccio teso in giù. Pareva di marmo se la vita non si fosse rivelata dall'affannoso movimento del seno verginale. La vecchia tremava e teneva i suoi piccoli occhi pieni di amore fissati nelle sembianze del suo Enrico. - Ho udito - disse questi senza muoversi dal suo posto - quello che tu buona Elisa avresti voluto fare per me. Permettimi di ringraziartene e di domandarti perdono per quello che è passato. E stette commosso ad aspettare che la fanciulla gli rispondesse una parola, facesse un atto, gli alzasse gli occhi in fronte. Questa non disse che: - La mamma è di là. Debbo andare da lei. E fece atto di muoversi. La balia, quasi senza volerlo, la trattenne. - No - disse Enrico andando a lei e prendendole la mano che restava libera - per carità Elisa una parola sola di perdono, che non mi lasci partire così disperato. Fra poche ore io andrò a Firenze dove penso di arrolarmi nell'esercito. Forse non ci vedremo mai più. Ma per carità, non lasciarmi andar via così. - Che cosa importa a te del mio perdono? - disse Elisa con un'aria di risoluzione tranquilla, ma con una voce in cui si sentivano le lagrime. Sono forse io ancora qualche cosa per te? Va a cercare il perdono a quella donna che ha più diritto di me di concederlo. - Elisa ti supplico, non parlami di quella donna. Io non so più che ella esista, te lo giuro. Sì, lo confesso, fui un miserabile; ma ti giuro ancora per tutto ciò che ho di più sacro che io non l'ho amata mai. Ora lo sento con sicurezza.... - Oh, me l'avevi già detto un'altra volta! - sclamò Elisa. - E invece.... - È vero, ma quando ti dico che se mi guardo indietro ho vergogna di me stesso! E voi altre due potrete dire d'essere le sole a questo mondo che hanno potuto sentire da me parole simili. Io che non ho mai chiesto perdono neppur a mia madre. Si è vero. Io non so quel che sia accaduto di me. Ero pazzo! Era orgoglio! Ah, se credessi agli incantesimi, direi che la mi aveva stregato. Io la odiavo e pur non potevo staccarmi da lei. Elisa perdonami. Non ti chiedo più. Perchè dovrei ingannarti, ora che debbo partire per espiare i miei errori? Capisco che mi son reso indegno di te e non ti chiedo di più del perdono. Non ho più il diritto di dirti che io non amo, che non ho mai amata altra donna fuori di te. Oh, non lasciarmi partire in collera Elisa. E tu balia, pregala anche tu dunque.... - Ma perchè ora la vuol tornar via da Milano? - sclamò la buona vecchia scoppiando in lagrime. - Povera balia! Oh vedo che tu mi vuoi più bene di lei. Che cosa vorresti tu che io facessi ancora a Milano? Vorresti forse che mi fermassi per vederla forse diventare la moglie d'un altro? Non vedi che la mi odia? - Ah Enrico! - sclamò la Elisa con un gran sospiro. - Mi perdoni? - domandò Enrico ansiosamente. - No - rispose la fanciulla con un filo di voce - ormai io non ho più nulla a perdonarti. Io sono promessa ad altri. - Addio. Tu non mi vedrai più. E se accadrà del male, ricordati Elisa, ora sarà per colpa tua. Enrico si volse, e sull'uscio incontrò don Ignazio che entrava. Mentre questo colloquio accadeva nel gabinetto il domestico era rientrato in sala dove stavano donna Eugenia e il marchese d'Arco e le aveva detto sottovoce: - C'è qui fuori un signore e una signora che domandano di parlare a lei. - Chi sono? - Sono forastieri; parlano fra loro in tedesco. - Bene falli entrare. - Chi mai saranno? - domandò il marchese. - Ma! ora vedremo! Poco stante, duri come stoccafissi, con un'aria fra la compunzione e la dignità, facevano il loro poco solenne ingresso nella sala il signor Rikherwenzel e sua figlia Leopoldina, di Vienna. "Cosa vorranno mai da me questi signori" si domandò fra sè donna Eugenia, mentre il marchese dopo averli salutati con un cenno di testa si disponeva ad andarsene. - No, la si fermi - le disse la signora Eugenia sottovoce. - Siniora - disse Leopoldina - lei deve scusare nostra venuta da lei. Noi venire per affare di suo e nostro vantaggio molto importante. - Ah! - sclamò donna Eugenia - forse mi vogliono parlar in segreto? - Oh no, siniora. Il siniore può benissimo ascoltare non essendoci niente di segreto. - Tanto meglio. E a chi ho l'onore di parlare? - domandò la padrona di casa facendo ai due forestieri un cenno perchè si accomodassero. - Questo è mio padre Leopoldo Rikherwenzel che non parla bella lingua italiana e io sono sua figlia Leopoldina. Al marchese che si era messo a studiarli passò negli occhi un lampo umoristico. "Se quello è suo padre - pensò - questa sarà probabilmente sua figlia." - S'accomodino - disse donna Eugenia. - Noi essere venuti - ripigliò la Leopoldina - per scongiurare una sventura in questa casa. Noi avere saputo sua figlia essere promessa sposa al signor scultore Aldo Rubieri, non è vero? La signora Eugenia inarcò le sopracciglia e non rispose subito. "Cosa mai possono entrarci costoro nei fatti nostri?" pensò. Ma poi rispose subito: - A dire la verità nulla è combinato ancora, perchè egli non ha avuto ancora il nostro consenso. - Pene, tanto meglio per tutti allora - sclamò la Leopoldina sorridendo come una scimmia - perchè noi poter mostrare documenti per provare che sinior Aldo Rubieri non può sposare sua figlia. - Documenti! - sclamò un poco sorpresa donna Elena. - Sissignora. Lei deve sapere che sinior Aldo è mio promesso sposo da dieci anni e che io ho amato sempre sempre lui e che ho aspettato sempre lui, e lui non poter mancare a suo promesso senza molto sagrificio di danaro per contratto in carto pollato, e anche per sua parola d'onore. Così dicendo l'austriaca zitellona sporgeva alla signora Eugenia la lettera colla quale il Rubieri s'era impegnato a pagare quella somma, come è già noto ai lettori. - Io non leggo il tedesco - disse la signora Eugenia dopo aver dato uno sguardo su quella lettera. - Ma non conta. Tant'è che la mi dica di che si tratta e in che cosa possa entrarci io, madre della Elisa. - Lei sapere certamente - disse la Leopoldina - che sinior Rubieri è figlio di un generale austriaco al servizio di nostri Kaiser Ferdinando e Franz Joseph. - Certo che lo so - rispose donna Eugenia. - Ed è anzi un vanto della vita di suo figlio l'esser fuggito dalla famiglia per venir a battersi co' suoi compatrioti. Leopoldina leggermente imbarazzata a questo punto raccontò il resto della storia e terminò dicendo: - Noi in tribunale siamo decisi di fare grosso scandalo perchè avere trovato finalmente bravo avvocato che farà la nostra causa senza fare spendere a noi troppi danari, e abbiamo pensato di venire a prevenire la siniora per suo regolamento. Donna Eugenia a questo punto stava in forse tra il ridere e lo star seria. L'eteroclito stile dell'austriaca fanciulla le consigliava l'ilarità, ma la storiella a carico dell'uomo che ambiva alla mano della sua Elisa l'aveva un po' turbata. Ringraziò la signora Leopoldina delle sue buone intenzioni e soggiunse che avrebbe comunicate quelle notizie a suo marito, il quale avrebbe presa quella determinazione che fosse del caso. Li congedò con quella cortesia fredda e cerimoniosa che è più eloquente talvolta di un'insolenza e che a buon intenditore vuol dire: mi facciano però la finezza di non venirmi più fra i piedi. In fondo però la madre provava una segreta contentezza. Ella non s'era ancora persuasa che la sua Elisa non dovesse diventare la contessa O'Stiary. E quando aperse l'animo al marchese su questo punto trovò in lui un certo sorriso e un assentimento che le fu di buonissimo augurio. - Andiamo dunque a vedere che cosa ne dice mio marito - fece ella dando il braccio al marchese. E s'avviarono verso il gabinetto. - Io non ho più nulla a perdonarti. - Aveva detto la Elisa al conte. - Io sono promessa ad altri. - Addio - le aveva risposto Enrico - e se accadrà del male ricordati Elisa che sarà per tua colpa. In questo don Ignazio era comparso. Egli era ancora un poco acceso in volto per la collera di dianzi. - Come, è qui lei? - disse fermandosi e dando un'occhiata severa alla Elisa e alla balia. - Sì, zio - rispose Enrico rimettendosi - non ho voluto andare al mio destino prima di venire a salutarvi tutti in casa. - E... dove fai conto di tornare, se è lecito? - domandò il notaio con voce ironica e quasi stizzosa. La risposta di Enrico fu interrotta appunto dal comparire di donna Eugenia e del marchese d'Arco. Enrico salutò affettuosamente la signora poi mosse incontro al marchese e gli strinse la mano. - Ah testolina, testolina! - disse questi metà severo metà sorridente. Sentiamo un poco che cosa fai conto di fare dunque? - Sì, vediamo questi progetti fioriti - soggiunse don Ignazio. - Sono semplicissimi. Io partirò questa sera per Firenze dove mi arrolerò come volontario in qualche reggimento. Ho delle raccomandazioni pel ministro della guerra; sono già stato tenuto abile al servizio tre anni sono, e spero mi accetterà. Il mio amico Sappia è incaricato di venir da te, caro zio, per aggiustare tutte le mie faccende. - E dire che gli ho già pagato il cambio! - sclamò il notaio. - Tu vorresti dunque andar a far il soldato semplice? - Certo. Non potrei pretendere di più per ora. - Bel mestiere! Mangiar nella gamella e scopar i cessi. - Far il soldato per il proprio paese - rispose Enrico - è l'unico mestiere che convenga a chi ha fatta la vita che ho fatto io finora. - Eppure - riprese don Ignazio - se tu promettessi di far proprio giudizio una buona volta, ci sarebbe ancora la speranza di accomodare i tuoi imbrogli salvandoti parte di sostanza. Io mi impegnerei di risparmiare un centinaio e più di mille lire. - Via, non parlarne, caro zio - rispose Enrico con dolcezza. - Ho detto poc'anzi all'usuraio che i creditori saranno pagati tutti fino all'ultimo centesimo. Io rispetto troppo la mia firma. - Insomma non c'è verso di fargli mettere il capo a partito - borbottò il notaio ponendosi a sedere come sfiduciato. - È una testa falsa... e addio patria! Mentre don Ignazio pronunciava questo giudizio sul suo pupillo il marchese d'Arco, che come il suo solito non aveva ancora aperto bocca, avvicinatosi a Enrico e messogli una mano sulla spalla gli diceva: - Bravo Enrico. Hai fatto il tuo dovere d'uomo d'onore e questo deve essere sempre dinanzi ad ogni cosa. - Ma sì, ma bravo, ma benone! - sclamava il notaio dimenandosi ne' panni. - Cara zia - disse Enrico a donna Eugenia prendendole una mano - io ti ringrazio ancora di tutte le bontà che avesti per me e spero mi perdonerai se per causa mia hai dovute subir delle... seccature.... - Oh caro Enrico... io vorrei soltanto vederti un po' a posto. Enrico si valse alla Elisa. - Addio Elisa... e ricordati qualche volta del tuo compagno d'infanzia.... E siccome sentiva venir un fiume di lagrime agli occhi si volse alla balia. - E anche tu, povera balia, addio e perdona se qualche volta.... Non potè proseguire. Si sentiva strozzare dal pianto. Stava per fuggir via. - Enrico vieni qua - disse il marchese. - Io sono il tuo padrino e ora voglio mettere di esser tuo padre. Se tuo padre fosse qui... forse non sarebbe accaduto ciò che è accaduto... ma in caso ti direbbe: sì, va a far il soldato pel tuo paese, giacchè quella scuola di abnegazioni e di sagrifici la ti farà diventare un uomo come si deve. Ma io non ho il coraggio di lasciarti partire così; e poi non posso neanche vedere quella cara fanciulla e quella povera vecchia piangere in quel modo... e poi... e poi, ti dico la santa verità, non vorrei io stesso.... E per non piangere tentò di ridere. - La ringrazio marchese di queste buone parole - disse Enrico stringendogli affettuosamente la mano. - Ma ora tutto è impossibile; non potrei più stare a Milano lo stesso.... - Andiamo dunque lei, don Ignazio, signor burbero benefico, faccia la pace col suo pupillo e gli perdoni ogni cosa. Siamo stati giovani anche noi... che diavolo! - Oh per il male che ha fatto a me - rispose don Ignazio tirando una presa di tabacco - io gli ho già bell'è perdonato. Mi duole soltanto che ora sia troppo tardi in quanto alla morale e che il mio perdono non gli possa più fare nè caldo nè freddo a quest'ora. - La guardi quella sua povera Elisa com'è addolorata - riprese sottovoce il marchese. - La Elisa? Ah so bene poi che la mi burla, caro marchese - ripigliò don Ignazio levandosi. - No, no, no. Ha voluto lui essere uno spiantato? Tal sia di lui! Io non potrei in coscienza rompere il collo a mia figlia col pretesto che si vogliono bene. Il mal d'amore passa in fretta, ma i matrimoni sono eterni. - Vediamo, vediamo - ripigliò il marchese tirando don Ignazio in disparte. - Bisogna che non lo lasciamo andar a soldato. Io non voglio. Mi secca di vederlo partire. - Faccia lei! Trovi lei il mezzo. Che cosa vuol mai che io le dica? Io, se anche lei m'avesse lasciato fare, m'impegnavo di salvargli una parte di sostanza. Non ha voluto? Peggio per lui! E non fu anche lei a lodarlo? - Enrico - ripigliò il marchese volgendosi al giovine - prometti tu sul tuo onore di far giudizio, di non metter mai più il piede in una bisca e di essere degno insomma della Elisa? - Ma che cosa dice, marchese, che cosa dice? - sclamò il notaio con la voce d'un uomo che è risoluto a farsi intendere seriamente. - Lei dice delle cose impossibili; a questa cosa non c'è più da pensarci e da un pezzo. Sono suo padre o non sono suo padre? Benedetto uomo! Vuol dir tutto lui! - Non dubitare, caro zio - disse l'Enrico con dolcezza malinconica. - Tu sei esaudito lo stesso. Capisco anch'io che ora non potrei più accettare quello che avrebbe dovuto essere la mia... quello che dice il marchese. Spero di riuscire a farmi onore e a cercarmi una posizione indipendente e degna di un gentiluomo.... E allora... se la Elisa mi avrà perdonato... se non avrà sposato un altr'uomo.... - Ah questo è un altro paio di maniche! - sclamò don Ignazio. - Quanto a lei, marchese - ripigliò il giovine conte volgendosi al d'Arco - la mi permetta di ringraziarla, delle sue buone parole. Oh io sento che la Elisa sarebbe stata la sola donna al mondo che avrebbe potuto farmi felice, ma non ho saputo meritarmela ed è giusto che succeda ciò che deve succedere. Adesso non potrei, dovessi morire di dolore, aspirare a lei.... - Naturalmente! - osservò don Ignazio. - Non vorrei si dicesse che dopo avere sprecato in tre anni tutto il mio avere sono andato ad attaccare il cappello in casa di mia moglie. - Oh per questo sarebbe il minor male! - sclamò don Ignazio. - Ho piacere di sentirti a parlare così - disse allora il marchese alzandosi, d'ond'era seduto, con una specie di risoluzione di buon augurio. La Elisa, che con le gote irrigate di lagrime stava stretta a sua madre, alzò gli occhi roridi in faccia al marchese, e vide sulla di lui fisonomia uno di que' buoni sorrisi arguti, che il d'Arco possedeva quando stava per dire qualche cosa di molto bello e di molto buono. - Dunque allora se non è che questo - disse egli con voce posata e chiara dovete sapere cari miei, che quella persona da nominarsi, la quale ha trattato questa mattina la compera della possessione di Enrico e di questo palazzo, sono proprio io. Io non potevo permettere naturalmente, che la casa O'Stiary e la campagna, dove passai tanti bei giorni de' miei anni giovanili, andasse in mano di cani e boriani La somma fu già rimessa al marchese Sappia, che è garante anche pei debiti di Enrico, e che penserà a pagare ogni cosa. Io sono dunque il nuovo proprietario e credo di aver fatto un discreto contratto. Siccome però io sono solo al mondo e non so davvero che farne del superfluo, così tu, Enrico, mi permetterai di dirti, che tanto la tenuta quanto questa casa, sono ancora cosa tua. - Ah, questo è troppo, marchese! - sclamò Enrico. E rimase interdetto, e non pensò di buttarglisi al collo, come avrebbe fatto chiunque altri, che non avesse avuto il di lui orgoglio nelle vene. Il marchese era, lo sappiamo già, un vero filosofo, e non si lasciava mai influenzare dall'amor proprio. Anche quella titubanza dignitosa, anzi superba, di Enrico, gli piacque; egli non s'adontò che il giovine conte fosse restìo ad accettare la sua donazione. Gli si avvicinò e gli disse: - Sei tutto tuo padre! Ma pensa che la Elisa ti ama.... E additò la cara fanciulla che stava presso donna Eugenia. I di lei occhi, maravigliati, pieni di riconoscenza, intenti, inondati da una gioia che non lasciava più luogo a dubbio, stavano fissi in quelli del marchese. Ella si spiccò da sua madre, si slanciò con subitaneo moto verso di lui, gli prese la mano e sclamò: - Ah, come l'adoro lei, marchese. Come è buono! E questo valse all'Enrico come cento perdoni. Io ho fiducia che il lettore mi dispensi volentieri dal riferire la storia retrospettiva del viaggetto affannoso di Enrico verso Parigi, in cerca di Nanà, che viaggiava invece verso la Piccola Russia, col principe Kuvaloff; come pure che egli non desideri ch'io gli debba descrivere la delusione di Rubieri, quando venne a pranzo e si trovò pulita la bocca Nè come sia andata a finir la faccenda - che restò incruentissima del resto - fra Marliani e Cantis - nè a raccontargli del fallimento della Romea, inezie tutte che facilmente si sciolgono coll'imaginazione. Quanto a Nanà, non stette più di un mese col principe Kuvaloff. Quand'egli cominciò a trattarla a furia di knout, essa cercò in Kiew un suo compatriota parrucchiere, che tornava in occidente, e si fece rapire da lui. La sua fine è nota. Zola ci racconta, che essa morì di vaiuolo al Grand Hôtel a Parigi, in quei giorni in cui i Francesi, ebbri di certezze gloriose, che dovevano mutarsi in disastri incredibili, passavano in folla sui boulevards boulevardsgridando in cadenza: à Berlin, à Berlin! Berlin!Molti lettori hanno il difetto di venir qui in fondo a cercare come vada a finire la panzana. Qui panzana vera non c'è stata. In ogni modo mi permettano di non accontentare questa loro illegittima curiosità. La contessa O'Stiary è oggi viva ancora? È dessa felice? È infelice? Chi lo sa? Mettiamo ch'ella sia infelice. L'è questa un'ipotesi che sbaglia di rado. Un'ultima preghiera al lettore: Se non l'ha ancora letta, legga l' l'Entratura Mi farà un gran piacere. FINE.

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. - Si può dire che dopo me non vi siano a Milano che tre persone, le quali abbiano avuto la immensa fortuna di spingere lo sguardo in quel sacrario dell'arte viva. - E voi siete del numero? - Io sono del numero - rispose il vecchio sollevando orgogliosamente la bella testa di Cristo invecchiato. - C'è speranza che noi, colla vostra autorità, e come amici vecchi di Aldo Rubieri, possiamo essere introdotti? - Voi, amici vecchi? - sclamò il Cicerone. - Non sapete forse che Aldo, quando aveva 20 anni, era a Vienna con suo padre? - Ah, è vero! - sclamò il Cicerone, portando la mano alla fronte. - Non mi ricordavo più che egli è figlio di un colonello di stato maggiore al servizio di casa d'Austria. - Dunque? - Dunque che cosa? - Potremo noi vedere il giardino incantato? - Oh, impossibile! - Potreste voi almeno descrivercelo? - Impossibile anche questo. Ho data la mia sacra parola d'onore al maestro, che non avrei tradito mai il segreto della sua dimora. I tre Viennesi tacquero e ciascuno si mise a mulinar a suo modo. Ma in quel punto erano arrivati dinanzi alla casetta di Aldo Rubieri, e s'arrestarono. A Milano, come dovunque, ci sono delle abitazioni dove tutto va male, tutto dà noia, tutto vi sta a disagio; e ve n'ha delle altre, dove tutto gioisce, tutto dà piacere, tutto risplende. Entrando nelle prime, trovi un portinaio ciabattino, che vive in un bugigattolo buio ed infetto. Il tanfo vi è nauseante; sui gradini della scala vi si scivola; gli usci si direbbe si lamentino di dover girare sui cardini; le persiane, spalancate, si rinchiudono sgarbatamente in faccia; gli scarafaggi ed i topi sono padroni della cucina; i cimici, del letto; le faine, del solaio; le lumache e gli scorpioni della cantina; il pozzo dà l'acqua cattiva; un cane rinchiuso guaisce tutte le notti; un ragazzo caparbio vi strilla ogni mattina; un suonatore di tromba vi studia ogni mezzogiorno; delle casigliane pettegole vi si picchiano ad ogni calar della sera; il padron di casa usa mandar delle lettere insolenti; il ragioniere ha il fiato che ammorba... e via dicendo. Entrando nelle seconde, il cuore si allarga. Tutto vi spira l'ordine, la pulizia, la pace, il benessere. Si direbbe che queste case benedette furono costruite da operai intelligenti, e siano abitate da gente di buon gusto. Tale apparve ai viaggiatori la dimora di Aldo Rubieri. Appena giunte, la zitellona alzò la testa e s'imbattè in una scena graziosa. Sotto un portichetto, lieto di verdura in un angolo, una rondine aveva costruito il suo nido e giungeva volando alla pensile capannina, nel momento che i viaggiatori si arrestavano dinanzi alla porta della casa. Spaventata nel veder tanta gente, la rondine svolazzava trissando intorno al nido quasi volesse attirare a sè tutta l'attenzione di quegli stranieri per distrarla dai suoi cari implumi. La zitellona si fece malinconica. Forse un assalto di nostalgia l'aveva presa. Non c'è come la rondine per ridestar nel cuore la memoria della casa lontana. In quel punto un colpo di martello fece trasalire la Tedesca. Il Cicerone aveva picchiato alla porta chiusa col battente di bronzo. In una delle imposte si vedeva inchiodata una placca di terso ottone su cui stava scolpito un Rubieri, senz'altro. Doveva bastare! Il Cicerone dato il colpo si volse a' suoi compagni e disse: - Ora ci toccherà forse di aspettare un quarto d'ora; ma guai se io rinnovassi il colpo; potremmo star qui due ore, che nessuno più verrebbe ad aprirci. - Perchè? - Perchè la signora Marietta pretende di non essere sorda, ma confessa di essere molto pigra. Questa volta però il fatto smentì il pronostico. La porta si schiuse poco stante, e una donna s'affacciò al varco, domandando: - Chi è? - Forestieri che desiderano di visitare lo studio e parlare al maestro rispose il Cicerone. E lanciò alla donna un'occhiata espressiva che voleva dire: "Gente per bene, bisogna esser gentile." La donna aperse il battente, si ritrasse, e pronunciò il sacramentale: - Restino serviti. La carovana attraversò un atrio pompeiano, dove sul muro videro graffite delle figure bellissime di fanciulli ricciuti, di vergini con anfore in mano e di satiri con tirsi inghirlandati di pampini, saltellanti e festosi. Il Francese che fu il primo a vederle, ristette; e il Cicerone cominciò la sua spiegazione: - Questo atrio venne terminato soltanto l'altro giorno. Questo genere di pittura a chiaroscuri e con linee profonde comuni a Pompei, si chiama graffito. Questo pattino che vedono, è il ritratto del figlio della signora Nanà, sopra fotografia, giacchè il Louiset è rimasto a Parigi colla zia. Questo nome scosse nuovamente la zitellona e i due Ausriaci. Ma nessuno dei tre osò fare una domanda sul figlio della signora Nanà, che non era punto bello, ma che era maestrevolmente disegnato. Ammirato che l'ebbero, s'avviarono verso il viridario contornato di portici, precisamente come si usava nell'antica Roma. Una vaschetta di marmo bianco, con zampilli uscenti dal corno di faunetti di bronzo, sorgeva nel mezzo del giardinetto spandendo intorno una grata frescura. - Questo lo vedremo meglio dopo, uscendo per di là - disse il Cicerone svoltando a destra in coda alla signora Marietta, che aveva schiuso un uscio. Sulla soglia del quale gli stranieri lessero il classico Salve, poi entrarono. La scena mutava d'aspetto. Pompei cedeva il campo al più ferreo dei medî evî risuscitati. Come una di quelle dimore di Fata, che sorgono dal suolo nei sogni che seguono la lettura dei romanzi di Scott o della Radeliffe, così il salotto dove erano entrati gli stranieri parve ad essi la viva e reale imagine d'una stanza di antichissimo castello feudale. Il presente scomparve ai loro occhi come per incanto. Si guardarono l'un l'altro, quasi fossero sorpresi di trovarsi vestiti di panno e col cappello a tuba in mano. Una specie di estasi medioevale li invase, e provarono nell'anima un ridestarsi confuso di tutte le memorie romantiche della lontana gioventù. Parte a parte non c'era moltissimo da ammirare. Appiccicati alle pareti, non ricchi trofei di armi in simetria, come è l'uso comune delle odierne sale d'armi. Ma si sarebbe detto da una certa rastelliera e da certi cappucietti come dimenticati sul davanzale d'una finestra, che un falconiere fosse uscito di là poco prima, dopo aver addestrato il falco; si sarebbe detto che il giullare avesse lasciato su una sedia il suo berretto a sonagli; che l'armigero e il balestriere avessero deposta poco prima in un canto, uno la picca, l'altro la balestra; che la castellana passando, avesse profumato quell'aura cogli aromi che il marito crociato le aveva recati dall'oriente. Ciascuno di quei viaggiatori ebbe la propria impressione storica. Al Francese parve di respirar un'aria tutta pregna di effluvi merovingi. Alla zitellona sembrò di calpestar la polvere dei seguaci dell'interessante giovinetto svevo, venuto a morire in Italia sotto la mannaia di Carlo d'Angiò. Gli Inglesi credettero sentir un bisbiglio di voci dei guerrieri di Riccardo Cuor di Leone. Chi non provò nulla di tutto questo, furono i due Austriaci. Non avevano l'incornatura romantica loro! La carovana, ammirando in religioso silenzio, passò ed entrò in una seconda camera tutta parata di giallo, in stile moderno. Quelle fisonomie già pallide soffuse dal colore delle cortine e delle tappezzerie si fecero cadaveriche. L'artista aveva il capriccio di vedere sulle linee faciali de' suoi visitatori questo effetto di tinte, non già pel gusto di trovare il genere umano più brutto di quello che esso sia realmente, ma per studiare il cambiamento di linee, di toni e di riflessi, allorchè dal giallo i visitatori passavano allo scarlatto dell'attiguo salotto. - Si fermino qui un momento che io vado ad avvisare il maestro della loro venuta - disse Mattia il Cicerone, mentre la signora Marietta era scivolata fuori dalla camera da un uscio di fianco. Mattia Corvino - tale era il nome del vecchio - s'accostò ad un uscio di contro a quello per cui era entrata la comitiva, piegò l'indice della mano destra con una specie di religioso raccoglimento e colla nocca picchiò un colpetto discreto, tendendo l'orecchio. Egli era compunto. Egli stava per comunicare coi due idoli del suo cuore, e l'atteggiamento della sua persona, pigliava un'apparenza di devozione. Nessuna risposta dal di dentro. Tornò a picchiare più forte, tornò ad origliare, e nulla ancora. Allora alzò con una certa soavità la mano alla maniglia dell'uscio, lo aperse e scomparve per esso, dicendo con voce flebile l'indispensabile: - È permesso? Mattia Corvino era entrato nel gabinetto di lettura di Aldo Rubieri. Lo scultore infatti non aveva soltanto uno studio, ma anche uno scrittoio. In faccia a qualche suo collega scapigliato Aldo aveva un gran torto quello di non odiare la coltura e la letteratura. La stanzina parata di rosso conteneva una bella libreria tutta piena di libri d'arte, di romanzi, e di poesie. Una magnifica scrivania - come non se ne vedono certo in casa dei letterati - oronava in fondo al gabinetto di fianco alla finestra. Intorno intorno sulle pareti dei piccoli capolavori di pittura e di scultura. Questo nido della intelligenza gli aveva meritato da alcuni colleghi, il sopranome di aristocratico. Dico alcuni, che per fortuna si possono contar sulle dita; e non sono neanche da confondersi costoro, con quei molti, che detestano la letteratura soltanto in apparenza, e non tengono in casa nè libri, nè calamai, nè penne, ma conoscono i letterati e li ascoltano, e ne sono amici. La è piuttosto un'abitudine e una jattanza che un'antipatia; giacchè modesti e avidi di sapere, vivono talvolta cogli uomini di lettere e di scienza meglio e più a lungo che coi loro stessi colleghi. I pochi invece che davano dell'aristocratico a Rubieri nutrono un vero e alto disprezzo per tutto ciò che non è colore o scalpello; negano che l'arte abbia bisogno di coltura, giacchè per essi l'intenzione è tutto; chiamano imbrattacarte gli scrittori ed i critici, e disprezzano e odiano la letteratura e anche l'acqua, tanto per uso interno come per uso esterno. Aldo Rubieri che aveva fatto anche lui la sua carovana artistica ed era stato assai povero, per ispirito di reazione, aveva forse esagerato il tipo opposto. Appena uscito dalle angustie egli si era rifatto gentiluomo perfetto. Il cappello a tuba in capo, la cravatta nera, le mani guantate, spesso gli stivali lucidissimi; in casa poi aveva accomodato il suo studio letterario con infinita cura e lo aveva affidato alle sollecitudini, allo strofinone e al pennacchio della signora Marietta, che lo teneva lindo e splendido come un gioiello. - Non c'è - sclamò Mattia Corvino, dopo essersi guardato intorno. - Sarà dunque nello studio. E ristette un poco pensieroso. Mattia Corvino, lo sappiamo già, aveva per Aldo Rubieri e da pochi giorni per la signora Nanà, una di quelle adorazioni che in certe anime foggiate a bella posta, possono elevarsi fino al sagrificio della vita. Quando entrava in quelle camere egli si sentiva preso da un senso di altissima venerazione, come si dice che Mosè lo provasse sull'Orebbo, quando s'accorse che il suo piede stava per calcare il sacro suolo. Mattia era tale che se lo scultore glielo avesse permesso, si sarebbe volentieri cavate le scarpe per entrare là dentro. - Forse egli è là con quella tentazione di sant'Antonio - pensò Mattia prima di ricominciare sul nuovo uscio la stessa manovra di poco prima. Egli chiamava a suo modo Nanà: la tentazione di sant'Antonio. - Alla fine si decise e diè un altro picchietto sull'imposta. - Una voce maschia e sonora rispose di dentro: - Chi è? - Mattia - rispose il vecchio trattenendo il respiro. Un bisbiglio di voci, accompagnato da un melodioso e fresco scroscio di riso accompagnò la risposta del Cicerone. - È lei! - pensò. E dovette sedersi per l'emozione. - Dio fa ch'ella posi - continuò in cuor suo e che essa non abbia oggi il capriccio di considerarmi come un uomo di questo mondo. Questa frase di Mattia giungerà forse oscura a qualcuno. Mattia Corvino s'era infiammato di Nanà come s'infiammano talvolta certi vecchi artisti dopo averla veduta a posare nuda nello studio del suo scultore. La artistica nudità femminile al giorno d'oggi ha perduto - per colpa de' gesuiti - tutta la famosa ingenuità del mondo antico. Noi non sappiamo più imaginarci un corpo di donna bella, quale pur fu creato da madre natura, senza dei sussulti peccatori. Le innocenti nudità sono un mito per noi. Nei boschi della Grecia le Driadi, e le Nereidi sulle rive del mare, noi non sappiamo più imaginarcele; come non sappiamo più vedere nè Veneri, nè Ninfe, negli studi dei nostri scultori. Le Driadi e le Nereidi del giorno d'oggi tutt'al più si chiamano forosette e bagnanti e osservano fior di regolamenti della scuola di nuoto e pagano fior di multe se li trasgrediscono. Quanto alle Ninfe e alle Veneri negli studi degli artisti oggidì si chiamano semplicemente Modelle. Modelle.- Entra Mattia - disse la voce - dopo un breve silenzio, durante il quale il Corvino era stato ad aspettare origliando all'uscio, coll'ansia istessa con cui un imputato sta ascoltando il presidente che gli legge la sentenza di assoluzione. All'invito il vecchio sprigionò dal petto un sospirone, schiuse l'uscio ed entrò. Lo spettacolo che s'offerse agli occhi di Mattia non era nuovo per lui ma era solenne. Nondimeno Nanà con un moto istintivo, aveva rilevato fino all'anca il lembo dell'arazzo che le stava a larghe pieghe posato sotto i piedi nudi, e aveva guardato placidamente, e come se nulla fosse, in viso a Mattia Corvino che entrava. È assioma che la mano, la quale pudicamente rialza o abbassa un velo, fa pensare assai più a ciò che essa vuol nascondere che al pudore che nasconde. Nondimeno se ciò paresse strano a qualche lettore, che si ricorda come Nanà quando a Parigi Labordette le aveva detto ch'ella avrebbe posato per la testa e per le spalle dinanzi allo scultore che doveva modellarle la Notte pel suo nuovo letto avesse risposto: "Je me fiche pas mal du sculpteur qui me prendra" Se quel moto di pudore, ripeto, paresse strano al lettore io non saprei dargli torto, giacchè egli non conosce ancor nulla della piccola trasformazione morale che Nanà aveva subita nei pochi giorni di sua dimora a Milano. Nell'ambiente serio e sconosciuto nel quale s'era messa "la bonne fille" subiva un cambiamento ne' suoi istinti di donna, la quale non sarebbe apparsa tanto corrotta neppur a Parigi se il cinismo degli uomini non l'avesse resa tale. - Che c'è? - domandò Aldo Rubieri. Mattia distaccò a stento gli sguardi dal tesoro di formosità, che dall'anca in su gli si presentava di contro e rispose con voce commossa: - Forestieri... seccature che vorrebbero parlare con lei. Ecco il biglietto di visita d'una signora. Aldo lo prese: - Leopoldina Rickherwenzel! - sclamò con grandissimo stupore. - Chi vedo! Che fosse colei? A Milano? Possibile! Dimmi Mattia, che figura ha? - Bionda..., magra, alta.... - È lei, è lei! - Che età? - Io le darei dai trenta ai trentaquattro anni.... - È lei! Non c'è dubbio! - Dev'essere stata bella, da ragazza - aggiunse Mattia coll'aria d'un conoscitore. - Dovrò io riceverla? - pensava intanto lo scultore. - Chi è questa donna che cerca di voi? - domandò Nanà in discreto italiano. - Oh, una vecchia conoscenza di Vienna. - Una antica amante? - Pressapoco. E qui successe un poco di silenzio. - Se io vi pregassi di non ricevere questa vostra antica fiamma, cosa direste di me? - fece Nanà questa volta in francese. - Davvero? - sclamò Rubieri con una punta di ironia nella voce e nello sguardo. - Chi l'avrebbe detto! - Chi l'avrebbe detto? - ripeto Nanà. - Sapete che questo mi ha l'aria di una impertinenza? - No - rispose lo scultore - è semplicemente un'esclamazione. - Ebbene - ripigliò Nanà - senza tanti discorsi, ditemi francamente se mi fate o se non mi fate il sagrificio che vi chiedo. - È impossibile! - Perchè? - Ma perchè la sarebbe una specie di furfanteria se rifiutassi di rivedere una donna alla quale tra le altre cose ho promesso di sposarla e che è venuta a Milano, dopo dieci anni, per rivedermi. - Ma tanto più! - sclamò Nanà ridendo - Assolutamente mio caro Aldo, se voi la rivedete potete star certo che io non metterò più il piede in questo studio. Lo scultore fu colpito vivamente da questa uscita così perentoria di Nanà. La guardò con malcelato stupore. Poi le si accostò e le prese la mano. - Nanà - disse - spiegatevi allora. Questo vostro capriccio ha bisogno di un poco di luce. - Ecco gli uomini! - gridò Nanà sempre ridendo. I suoi denti, eran tali da non permetterle di parlare sul serio. - Non si può avere un suggerimento dei nervi senza che essi subito ci vogliano vedere un capriccio di... tutt'altra cosa. Rubieri vedendo di essere stato capito al di là di quello che supponeva e che desiderava, abbandonò la mano di Nanà e restò un pochino interdetto. Nanà continuò: - Voi non mi conoscete Aldo, che da otto giorni, e sta bene; se staremo insieme da buoni amici come spero per un pezzo vi toccherà di udirne e di vederne di quelle anche più strane e non per mia colpa, ve lo giuro. Persuadetevi di una cosa sola, ed è che in fondo io sono una buona figliuola, che non faccio apposta, che non è un partito preso il mio di sembrare qualche volta stravagante, ma è una cosa più forte di me stessa. Io vi sembrerò fors'anche una matta gloriosa. Chissà? M'han creata così. È la qualità del legno - proseguì in italiano- come diceva la Sarah, a Firenze. È la colpa del fattore, come diceva Bigio Diotallevi. - Dunque che cosa dovrò dire ai forestieri? - si permise di interrogare Mattia Corvino che, aspettava da cinque minuti la risposta. - Dì loro che se ne vadano pe' fatti loro - rispose Nanà. - No aspetta - interruppe Aldo. Poi voltosi alla donna, - Via non siate irragionevole. Vorreste che quegli Austriaci pensassero di me che son diventato un mascalzone? - Gli Austriaci pensino di voi, quello che loro più pare e piace, ma io non voglio che voi riceviate quella donna. Ve l'ho detto; non sono io che comando sono i miei nervi. - Bene bene - disse Aldo accostandosi a Mattia. - Dirai loro che io non posso riceverli. - E più sottovoce soggiunse - dille che andrò io al suo albergo domani. Nanà si lamentò di quella frase detta a bassa voce. - Ho capito. Gli avrete detto che tornino domani quand'io non ci sarò. - No - disse Aldo. - Che cosa gli avete detto dunque sottovoce? - Nulla. - Bugiardo. Nulla non è una risposta. Rubieri ascoltatemi - diss'ella seria se io so che voi, mi avete disobbedita non mi vedete più nè viva, nè morta, e anche la Venere resterebbe a mezzo. - Ah questo è proprio assolutamente troppo. - Mi promettete di non andarla a trovare? - Ma che v'importa, Nanà, che v'importa? - domandava ansiosamente lo scultore che non giungeva ancor a spiegar a sè stesso quel fenomeno. - Nulla, ma non voglio. È un puntiglio. Voi dovete cedere. Io non sono avvezza a non veder cedere. Sono otto giorni che noi ci conosciamo. Se non cedete nei primi otto giorni, quand'è che vorreste cominciare? Me lo promettete? E fra sè pensava "Ces fichus d'Italiens" d'Italiens"- Bene ve lo prometto - disse Aldo per troncare il diverbio. In quella, Mattia rientrò. - Il signor conte sindaco è in salotto che avrebbe a dirle due parole. - Il sindaco benvenuto - sclamò Rubieri deponendo gli utensili del lavoro. Per oggi basta Nanà. Ci rivedremo domani. Addio. E uscì. Dal canto suo, la dilettante di nudo, calzate sui piedini le pianelle, se ne andò a vestirsi dietro certi arazzi che formavano in un angolo l'appartamentino per le modelle. Che cosa veniva a fare da Rubieri il conte sindaco? Chi era il conte sindaco? Egli era un ometto, così; nè bello, nè brutto, fra i cinquanta e i sessant'anni, grassottello e nello stesso tempo arzillo e svelto come un pesce; il che implica una certa contraddizione, che invece non esiste. O se la esiste, si può dire che questa contraddizione fisica sia appunto la caratteristica del nuovo personaggio. Tutto infatti, nel conte sindaco, sentiva di contraddizione lontano un miglio. Nato povero, era ricco; nato plebeo, era stato fatto conte; aveva degli istinti liberali ed era un gran conservatore; aveva dello spirito, ed era senatore; aveva sortito da natura le inclinazioni del viveur e del barzellettista e come senatore, banchiere, sindaco e conte, gli toccava di essere l'uomo più lavoratore e più serio dell'universo. A chi gli avesse fatta osservare quest'ultima contraddizione - e cioè, ch'egli fosse sortito da natura per essere piuttosto quello che i Francesi chiamano un homme de loisir che un gran lavoratore - egli avrebbe recisamente negato, e gli avrebbe risposto che nessuno forse, a questo mondo, s'era meno divertito di lui, e nessuno poteva vantarsi di avere lavorato più di lui. E bisognava credergli. Ma è da notare che, prima la spinta della necessità, poi quella dell'interesse, poi l'ambizione, poi il dovere gli avevano messa indosso fin dalla puerizia un'abitudine di lavoro a tal segno, che fugando la nativa spensieratezza, era divenuta in lui una seconda natura e poteva esser tenuta da lui stesso in conto di vera inclinazione. Ma in fondo in fondo, no; perchè il nostro ometto era nato scansafatica, e questo lo si poteva arguire dalla sensualità e dalla voluttà ch'egli metteva in tutte le azioni, minori della sua vita. Quando parlava, per esempio e che poteva ridere di qualche sconsigliato consigliere del Municipio, egli godeva mezzo mondo. Mangiava poco, ma avrebbe dato dei punti a Brillat Savarin, come buon gustaio, anzi come buon gustatore. E fra le ballerine del palcoscenico del teatro della Scala come si sgranavano que' suoi occhietti verdognoli e arguti alla vista della grazia di Dio. Come era eloquente il suo sorriso, pur restando sempre un sorriso da sindaco, da conte, da banchiere e da senatore! Nella sua qualità di capo dell'amministrazione comunale, egli era indubbiamente tenuto come uno dei meno peggio d'Italia, così ricca di sindaci balordi. Dove diamine, lui, così poco istruito in gioventù e lontano dal mondo diplomatico, avesse attinta quella finezza moderna, quell'arte del barcamenare, quella dissimulazione preziosa, che sono indispensabili a chiunque si trovi nella di lui posizione, nessuno lo saprebbe dire. Egli non aveva avuto maestri di tali discipline. Pochi uomini possedevano come lui quella dote utilissima ai governanti, la quale consiste nel non dimostrare mai al prossimo nè troppa simpatia, nè troppa antipatia. Anche lui le provava talvolta fierissime in cuor suo, ma sapeva dissimularle così bene, sapeva reprimere con tanta disinvoltura i moti del proprio animo, sapeva far tacere così costantemente ogni eccitazione personale, sapeva dividere in così giusta misura le proprie inclinazioni e le proprie declinazioni, da meritarsi da ambe le partì il soprannome di sindaco trampolino, il quale sembra un'offesa, mentre è il brevetto della sua più grande imparzialità. Riusciva dunque difficile il dire se egli fosse un conservatore o un liberale. Egli non aveva preferenze pei due partiti, in cui - come in politica - si divideva il Municipio della sua città. Stando a cavallo, ei si serviva ora della opposizione dei conservatori, ora di quella dei rompicolli, a seconda ch'egli aveva bisogno di questa o di quella, e ne usciva sempre ilare e trionfante, ch'era un piacere a vederlo. - Sono venuto io stesso - diss'egli a Rubieri, che si scusava di riceverlo in abito da lavoro - sono venuto io stesso a darle una buona notizia. Ella è nominato assessore, e io sono certo che ella accetterà. - Oh! - sclamò il Rubieri, fingendo una grande sorpresa. - Non si potrebbe dispensarmi? - No, no, tutti lo desiderano - rispose il sindaco. - C'è bisogno d'un artista in Consiglio. - La avverto caro signor sindaco che io sono corpisantino e che mi metterò nell'opposizione. - Non lo credo! Io non gliene darò mai l'appiglio. Io conosco il di lei criterio abbastanza, per sapere che invece noi andremo perfettamente d'accordo. - Se lei mi parla così a me tocca d'accettare - disse Aldo al sindaco stringendogli la mano. - Bravo! Così mi piace, senza tante smorfie. Del resto - soggiunse tosto - io non credo che lei avrebbe ugualmente la possibilità di farmi l'opposizione ancorchè si mettesse colla montagna. Io sono proprio stanco, e non per convenzionalismo, come si usa ormai di dirlo da tutti gli uomini, ma stanco di buono e vedrei di buon occhio un successore. Provino, provino quanto sia facile far il sindaco di Milano! Il dialogo tra il sindaco e Rubieri andò per le lunghe e divagò poi in cento argomenti. Ma noi crediamo di far bene ad arrestarci avendo riferito di esso quello che importa alla nostra storia. Ora sarà bene che vediamo in che modo c'entrassero con Aldo Rubieri gli Austriaci che erano venuti a trovarlo prima del conte sindaco. Bisogna dunque sapere che il padre di Aldo Rubieri era stato colonnello di stato maggiore al servizio dell'Austria. Nel 1850, quando Aldo non aveva che dodici anni, ed era accasato con suo padre a Vienna, il rinnegato italiano godeva settemila fiorini annui come impiegato nel ministero della guerra. Suo padre aveva sposato una baronessa polacca. Si capisce facilmente quale potesse essere stata l'educazione politica e patriottica del giovinetto Aldo fino al 1859. Sua madre gli era morta in quell'età. Quand'egli cominciò a provar nel cuore il bisogno di voler bene a una creatura di diverso sesso, gli capitò di innamorarsi come si usa a 19 anni, di una fanciulla di famiglia borghese, ch'egli aveva veduta per la prima volta al Prater. Una di quelle lunghe occhiate reciproche dalle quali i fisiologi dicono emani del fluido magnetico, era corsa fra loro; e due giorni dopo, mentre entrambi stavano credendo di udire la messa nella cattedrale, una seconda occhiata ancora più lunga e più reciproca aveva suggellato il loro amore. L'effetto di quello sguardo era stato decisivo per entrambi. Poco stante era cominciata la corrispondenza. In tre pagine di quelle proteste e di quei giuramenti senza fine, che scaturiscono tanto spontanei dalla punta di una penna di 19 anni, Aldo parlava alla sua Leopoldina di futuro matrimonio. Leopoldina aveva allora 21 anni, tre o quattro più del giovanetto. Pochi giorni dopo la signorina viennese e il figlio del rinnegato Italiano, s'abboccavano al passeggio e si giuravano anche a voce eterno amore. - Mio padre non mi permetterebbe certamente di sposarti ora; - disse Aldo - avrai tu pazienza di aspettare che io sia uscito di minor età? - Oh te lo giuro, Aldo - rispondeva la bionda figlia del Danubio, alzando i suoi occhi grigi e innamorati in viso del bell'Italiano. - Io non sarò che tua o della morte! Quando fu soddisfatto, Aldo trovò di non avere più voglia di sposare la Leopoldina. Essa non gli era stata crudele; il matrimonio, ai desideri di Aldo, compariva superfluo. Ma quando il padre di Leopoldina s'accorse dello scapuccio di sua figlia, manovrò come manovrano tutti i padri viennesi in tale circostanza. Egli era un furbo matricolato. Capì che da quel giovinetto avrebbe potuto cavare, un giorno o l'altro, molto profitto e aveva lavorato a questo scopo. Il Rubieri s'era lasciato andare a firmare un atto di donazione alla figlia Leopoldina, nel caso che avesse mancato alla promessa di sposarla. Una bagatella di venti mila fiorini in testa al nascituro. Poco dopo venne il 1859. Aldo Rubieri non era certo da giovinetto, quel fino calcolatore, che coll'età e coll'esperienza s'era fatto poi; ma aveva fin d'allora l'istinto delle proprie convenienze. Egli sentiva tutta la umiliazione d'essere figlio di un rinnegato, sospetto, malveduto in paese straniero e nemico, senza avvenire possibile; sognava in nube la probabilità della riabilitazione. In questa idea l'amore di patria c'entrava fino a un certo punto; l'amore di sè stesso in gran parte. Egli andava pensando che se il figlio del generale italiano al servizio dell'Austria fosse disceso in Italia con grande fracasso ad arrolarsi, tutta Milano ne avrebbe parlato e la sua sorte sarebbe stata fatta senza grandi sforzi. La imprudente promessa di quella somma, strappatagli dal padre di Leopoldina in un momento di abberrazione, lo decise sempre più. Fece la risoluzione di lasciar Vienna, di abbandonare la Leopoldina e suo padre, e di venir in Italia per entrar volontario nelle regie truppe. Raccolse quanto più potè di danaro e un bel giorno partì nascostamente e venne a Milano; fece la campagna del 1859, poi mise studio di scultore e si fece nome. Aldo Rubieri si ricordava benissimo di avere lasciato alla Leopoldina di Vienna quell'atto di donazione; temendone le conseguenze, andò a trovarla, mancando di parola a Nanà. Come fosse ricevuto cordialmente e gioiosamente si può imaginarlo. La prima cosa che Leopoldina gli confidò fu che il loro figlio era morto, e Rubieri tirò un lungo fiato. Quando la fase sentimentale del richiamo delle memorie fu cessata, e Rubieri si disponeva già a congedarsi, colla speranza che gli Austriaci avessero deposto ogni altro pensiero, il buon babbo, accostatoglisi colla grazia un po' grifagna che si direbbe tutti gli Austriaci abbiano ereditata dalla loro acquila bicipite, gli disse sottovoce col più tedesco dei sorrisi possibili: - Per l'affare poi che lei sa, e che riguarda mia figlia, potremo parlare più tardi... un'altra volta... n'è vero. - Che affare? - domandò Aldo Rubieri come uomo che caschi dalle nuvole. - Come! Ma la scrittura... di donazione... alla mia Leopoldina nel caso... che non fosse accaduto il suo matrimonio. - Ah, bene, bene - disse Aldo per pigliar tempo. - Più tardi, ci rivedremo. E s'accomiatò. Gli Austriaci lo aspettarono al domani, poi al posdomani, tre, otto giorni, finchè il padre risolvette di ritornare lui stesso in cerca di Rubieri. Naturalmente non fu ricevuto. Ma la sera istessa la signora Leopoldina ebbe una lettera nella quale il suo ex-innamorato le diceva chiaro e tondo come egli non volesse più essere importunato e le ricordava senza complimenti come in tutti i codici della terra esista la legge che dichiara non valida la promessa di matrimonio, nè di un qualsiasi indennizzo.... I tre Austriaci, testardi come sono gli Austriaci quando hanno ragione, fissarono di spuntarla. Leopoldina avrebbe rinunciato. Ma il padre e lo zio erano feroci, e la persuadettero che si doveva ricorrere alla legge per farlo pagare per forza. Risolvettero di consultare un avvocato per sapere se l'atto fosse in piena regola e se con esso si potesse sperar di vincere una causa. L'albergatore indicò loro il primo avvocato che gli si parò alla mente. Ed essi andarono difilati dall'avvocato Delguasto. Quando furono sul pianerottolo dinanzi all'uscio il padre e lo zio ristettero per rifiatare e per consultarsi. Il primo poi stava per tirar il cordone del campanello, quando Leopoldina gli trattenne il braccio, additando ciò che stava, scritto sull'uscio: - Che c'è? - domandò il padre in tedesco. - Avanti - disse la zitellona, che sapeva un poco di italiano. - Avanti, vuol dire: Allora spinsero l'uscio ed entrarono. Nell'anticamera, seduto dinanzi ad una scrivania stava un giovinetto, dalla faccia di furfantello, che s'avrebbe detto fosse stato messo là dall'avvocato per schizzare la caricatura a tutti i clienti che entravano. Lo zio, vedendo quel piccolo Mefistofele, disse a suo fratello una frase in tedesco. Quello smaliziato d'uno scritturale, che stava col capo sullo scrittoio, intento, l'alzò repente, aggrottò le ciglia, e con un accento pieno di ironia e di insolenza, fingendo che quelle parole esotiche fossero state dirette a lui, disse: - Non potrebbero farmi la finezza di parlare in italiano? - disse - La sua lingua a Milano, signori belli, non è di moda. È antipatica. - Parlare noi molto malissimo - rispose il babbo, che non aveva capita la portata dell'insolenza di quel monello seduto allo scrittoio. - Non fa niente. Capirò lo stesso. Per quanti strafalcioni lei dica in italiano farà sempre più bel sentire che a parlarmi benissimo il suo tedesco. - Mia figlia parlare piccolo poco. - Tanto meglio. Allora ho l'onore di domandar alla signora a che cosa il signor avvocato dovrà aver la fortuna della loro visita? Non è da credere che Ernesto Cantis, galloppino dell'avvocato Delguasto, trattasse con tanta disinvoltura tutti i clienti del suo padrone. Guai a lui se così fosse stato. Ma egli aveva udito farlinzottare in tedesco, s'era accorto dall'aspetto che quei tre signori dovevano esserlo puro sangue, e non aveva potuto trattenersi dalla smania di mostrar loro la sua innata antipatia. Egli amava i Tedeschi in genere come... l'olio di ricino, e gli Austriaci in ispecie come il tartaro emetico. - Noi voler parlare con herr avvocato - disse Leopoldina. - È impedito. Si accomodino pure. E senza dir altro, abbassò la testa sullo scrittoio e si rimise a scrivere. Ecco che cosa stava scrivendo Ernesto Cantis, mentre i tre Tedeschi si accomodavano per aspettare l'avvocato. "Signora. "Io credo che una donna non debba mai essere offesa nel sapere che c'è un uomo al quale il cuore batte per lei cento battute al minuto di più di quello che gli batteva prima di averla veduta. Ieri al teatro Milanese lei mi apparve per la seconda volta, e il fascino de' di lei occhi posati ne' miei fu tale che a costo di diventar ridicolo io non ho potuto trattenermi dal farglielo sapere. A me parve, sarà forse superbia, ma a me parve di non esserle riuscito antipatico. Lei ebbe la bontà di rivolgere verso di me spesse volte que' suoi occhi immensamente belli, ed io sono in un tale stato di esaltazione da non poterlo descrivere. Io non ho che vent'anni, e non sono ricco. Ma se malgrado ciò lei credesse che io non debba gettare lontano da me ogni più lontana speranza io la scongiuro me lo faccia capire questa sera o quella sera che a lei parrà tempo di vedermi il suo schiavo più affezionato e più fedele. Io sarò anche questa sera al Milanese e avrò nell'occhiello del mio abito un garofano. Quando la vedrò porterò il mio fazzoletto alla bocca, deh, faccia altrettanto per dimostrarmi che io non debbo disperare affatto. "ERNESTO CANTIS." Riletto il foglio, lo piegò accuratamente, lo mise in una busta su cui scrisse l'indirizzo di Nanà. Avvolse la lettera in un foglio di nitida carta, poi si alzò e andò ad una sedia su cui stava un manicotto di martora e, come se i tre stranieri non fossero stati, presenti a quell'operazione, vi infilò la sua letterina. Comparve l'avvocato accompagnando una signora fin sulla soglia dell'anticamera. Il giovane balzò all'uscio impallidendo visibilmente. La signora era Nanà, la quale aveva posato il suo manicotto su quella sedia poco prima di entrare nello studio. - A rivederla, dunque, caro Delguasto; noi siamo intesi - disse Nanà - poi volse il capo come cercando qualche cosa intorno. - Il suo manicotto è qui - disse il giovinetto precedendola all'uscio della anticamera. Nanà strinse la mano all'avvocato ed uscì. Ernesto, quand'ella gli ebbe volte le spalle, si fe' sentir a dire: che angelo! - In che cosa posso servirli? - disse l'avvocato ai tre Austriaci, che s'erano levati in piedi duri come stoccafissi in estate... - Noi essere fenuti da voi per avere bisogno di vostri consigli - rispose Leopoldina. - Restino serviti. E li fece entrare nel suo studio. - Loro sono dunque venuti? - cominciò l'avvocato. - Ecco herr avvocato... Tocca parlare io, perchè mio padre e mio zio non conoscere italiano. - Dica pure... dica pure, tanto meglio! - sclamò con una punta di galanteria l'avvocato. - Lei dovere sapere che io avere un documento con promessa di donazione di un uomo che doveva sposare me, e che poi non ha sposato per sua colpa. - Una promessa di donazione? - ripetè l'avvocato. - In regola? - Noi credere essere perfettamente in regola. - Si può vederla? - Certamente. Ecco. - E la signora Leopoldina cavò di tasca una carta la quale, col lungo passar di mani in mani austriache, non si poteva dire del certo gareggiasse per candidezza colla neve caduta di fresco. L'avvocato gettò gli occhi su quel pappiè e sclamò sorridendo: - Ma questo è in tedesco! - Lei, herr avvocato non conosce nostro bello linguaggio neanche in scrittura? - Io no, signora. Ne faccio senza, e non ho mai pensato ad impararlo. - Posso io tentare traduzioni! - domandò la zitellona. - Sicuro! Leopoldina cominciò: "In questo giorno, 6 novembre, dell'anno di grazia 1864, io sottoscritto, di mia piena e spontanea volontà, nè spinto da altri riguardi se non da quelli di una sincera affezione per la signorina Leopolda Ernesta Federica, la quale trovasi in istato interessante per mia colpa, prometto di farle donazione di fiorini trentamila, nel caso che giunto all'età di ventiquattro anni io non dovessi mantenere la parola data a lei di essere suo sposo. "Per fede "ALDO RUBIERI. "Vienna, 6 novembre, 1864." - Aldo Rubieri! - sclamò con una certa sorpresa l'avvocato. - Il nostro bravo scultore? - Ya mein herr, ya - rispose il babbo che aveva capito a lume di naso naso- Sarebbe ella compiacente di spiegarmi come e in quali circostanze sia avvenuta questa donazione? Leopoldina con molta fatica e con molto rossore cominciò a raccontare all'avvocato quello che noi già sappiamo. - E quanti anni aveva il signor Aldo Rubieri quando la fece? - Come italiano egli era maggiorenne o quasi. - Suo padre era italiano o austriaco? - Suo patre non aveva perduta sua nazionalità italiana, quando stare in Vienna colonello di Stato Maggiore. - Allora si può benissimo far causa - disse l'avvocato. - Essere noi fenuti per questo. - Hanno già parlato loro col signor Aldo Rubieri? - Sì, otto o dieci giorni fa. - E che cosa ha detto? - Detto nulla, ma avere scritto di non essere intenzionato mantenere suo promesso. E gli porse da leggere la lettera con cui Aldo si schermiva di pagare la somma promessa. - Herr avvocato - disse la zitellona - Credere lei che vinceremo? Negli occhi dell'uomo di legge passò un lampo d'ironia. - Sicuro che vinceremo. Sono loro pronti a fare le spese necessarie? - Quanto volere? - Il deposito da farsi subito è di tremila franchi non un quattrino di meno. I tre Austriaci si guardarono in viso esterefatti. - Tremila franchi! Senti? Più di mille fiorini soltanto di deposito? - sclamò in tedesco lo zio. - Non si può far a meno. La giustizia costa assai in Italia - osservò ridendo sotto i baffi l'avvocato che godeva di veder gli Austriaci in ansia. - Bene - disse il padre a Leopoldina - spiega all'avvocato che vogliamo avere il tempo di pensarci sopra. Ma poi ravvisandosi: - No. Prima domandagli quanto verrà poi a costare la causa finita. Leopoldina tradusse questa domanda all'avvocato. - Ma secondo che la si vinca o che la si perda. Vincendola può darsi ch'io riesca ad affibbiar le spese all'avversario. Può darsi anche che il tribunale dichiari di far a metà le spese. In caso contrario, sta il viceversa. - Domandagli ora - ripigliò il padre dopo che Leopoldina gli ebbe tradotta la risposta dell'avvocato - quanto ci potrebbe toccar di spese nel caso che vincessimo, ma che dovessimo pagare a metà. - Dai dieci a dodicimila franchi colle mie competenze - rispose l'avvocato con grande franchezza. - Farflucter - sclamò lo zio, che aveva capita la cifra. - Pene, pene, allora gli comunicherai quello che ti dicevo - conchiuse il padre. - Come vogliono! Io sarò sempre ai loro comandi. Quando loro si saranno decisi, non avranno che a ritornare da me. E così s'accomiatarono. Il giovinetto scritturale non s'alzò questa volta ad aprir loro gli usci come aveva fatto con Nanà.

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Qualche volta c'è da pensare volentieri che i Turchi non abbiano così gran torto di credere nel destino! La nostra sorte, la nostra felicità, la nostra vita pur anche, non è forse continuamente in balìa del caso? Se il tal dei tali fosse uscito dalla sua porta il tal giorno, del tale anno, soltanto cinque minuti più tardi, avrebbe forse incontrata alla svolta della via quella straniera, che lo colpì di botto, che si fermò a Milano per lui, ch'egli amò come un pazzo, che lo rovinò miseramente e che lo spinse al suicidio? Se quell'altro tal dei tali, invece di tirar dritto per un'altra via avesse dato ascolto all'amico, che lo pregava di svoltare con lui a sinistra e di accompagnarlo a casa, avrebbe forse trovato quei malandrini che lo accopparono quella famosa notte per rubargli il portafogli e l'orologio? E suo figlio, non orfano, sarebbe certo cresciuto un galantuomo, mentre oggi sta a Procida condannato a vent'anni di lavori forzati! Il primo amico in cui s'imbattè il conte Enrico O'Stiary, lo stesso giorno del suo arrivo a Milano, fu il Marchesino Ferdinando Sappia, che venne a cercarlo in casa. - Finalmente! Sai tu che sono ormai più di tre anni che non ci vediamo? sclamò il Sappia contento di riabbracciare il suo giovine amico d'infanzia. - Come ti vedo volentieri, - disse a sua volta Enrico con uguale espansione. Qui il Sappia, vedendo che Enrico era ancora mezzo vestito da garibaldino, gli domandò se non pensava a mutar d'abito e a uscir di casa. - Certamente, - rispose Enrico, - sto aspettando che il sarto mi rechi il vestito nero. - E chi è mai di grazia il tuo sarto? - domandò il marchese, mentre arrovesciava indietro sull'omero con ineffabile garbo la rivolta del suo soprabito da mattino. - A dirti il vero non lo so bene ancora; ma credo non debba essere gran cosa perchè mi pare di aver udito, non ridere! che sia un portinaio. - Un portinaio! - sclamò il Sappia, balzando in piedi come preso da vero spavento. - Tu conte O'Stiary, discendente... - Bene lascia stare la genealogia!... - Vestito da un sarto portinaio come un diurnista del Municipio? Ma è un tradimento, un disonore, un abbominio! - Che importa? Tu sai che io sono un artista! Io non faccio conto di andar attilato come te. - Prandoni mio caro, - gridò il Sappia, continuando colla intonazione semienfatica con cui aveva incominciato. - Fuori di questo non c'è salute. Il Sappia era un di que' giovani, che quando parlano non ascoltano che sè stessi, e non rispondono mai direttamente all'interlocutore. Per essi l'obiezione, l'affermazione e la negazione di quegli con cui stanno a colloquio non esistono. Si capisce che essi non spezzano mai nella mente il filo delle proprie idee; talchè la parte abbondantissima che essi mettono nel dialogo finisce coll'essere un lungo soliloquio, nel quale non trova posto neppur l'ombra del sentimento altrui. - Che vuoi caro Nando - disse Enrico appena potè avere la parola - sono arrivato oggi stesso dopo essere stato per molti anni nei padri barnabiti e per molti mesi volontario in guerra. Sono ignorante come un pilastro di queste cose. Da quest'oggi, se vuoi, io mi metto sotto la tua direzione. Comincerò col licenziare il sarto portinaio. - Il tuo tutore - ripigliò il Sappia - sarà un bravissimo, notaio, ma non può avere pratica di mondo. Guai a te se io non arrivavo da Parigi. - Ah sei stato a Parigi? - Sono tornato l'altro giorno con Filippo Marliani che è fuggito via dalla Nanà, perchè temeva di pigliare una potente cotta. Anzi l'aveva già pigliata! Ma fu bravo e mi diede ascolto. - Nanà? - domandò Enrico curioso come un fanciullo, udendo quel nome muliebre esotico, e vedendo schiudersi con esso un inaspettato spiraglio del mondo delizioso d'amore a cui sognava. - Sì, un'attrice delle Varietès, una cocotte in gran voga... una bellezza superlativa. - Ah una cocotte! - ripetè quasi macchinalmente Enrico. Il Sappia non fe' caso di quell'esclamazione e tirò via. - Guai ti dico se io non giungevo in tempo. Chissà come ti conciavano. E sopratutto non lasciarti abbindolare dalle stupide ragioni di chi ci dà del leggiero e dell'effeminato, perchè spendiamo qualche migliaio di lire più di loro nel vestirci, nel pettinarci, nell'andare eleganti. Mummie costoro! Il vestirsi bene per noi ricchi e nobili è un dovere nè più nè meno di quello del farci la barba tutti i giorni e del curvarci a raccogliere un ventaglio o una pezzuola sfuggiti di mano a una signora. Notisi che tutte queste cose, esposte dal Sappia con una grande volubilità, non erano che teorie; giacchè, quanto a lui, se lo poteva appena appena, schivava di curvarsi a terra per raccogliere il ventaglio di una signora. Enrico cominciava ad ascoltare il Sappia con quel sorriso a mezza strada fra l'ironia e la sazietà; un sorriso che voleva dire: sono anch'io perfettamente del tuo avviso; non c'era bisogno che tu ti sfiatassi a dirmi cose tanto note; sarebbe stato meglio che tu mi avessi risposto qualche cosa di meglio intorno a quella Nanà.... Il Sappia, dopo un altro paio di tirate su quel gusto, trovando, che Enrico era presso a poco della sua statura, lo invitò a scender nel brougham che teneva alla porta per andar da Prandoni a comandar l'abito di lutto. O'Stiary non se lo fece dir due volte e così uscirono insieme. Quando furono seduti l'uno accanto all'altro nel legno, Enrico disse: - Ora tu devi farmi un programma della mia vita. Come passi tu le ore della tua giornata? Ti diverti o ti annoi a Milano? È bella davvero questa vita milanese o c'è pericolo di stancarsene? - Non è certo tutto oro quel che luce; - rispose questa volta il Sappia, che trovava in quella domanda soddisfatto l'amor proprio. - Si stava meglio a Parigi! Però con un poco di buona volontà e con molti danari.... "Ahi," pensò Enrico. - La giornata la si può passare abbastanza bene anche qui senza studiare e senza far della politica, come vorrebbero che facessimo noi giovani i parrucconi e i gazzettieri utopisti, che ci rinfacciano continuamente il dolce far niente. Povera gente! Essi non sanno che non c'è creatura la quale abbia maggior da fare d'un uomo che non fa niente! E la ragione è chiara; siccome la sola religione di costoro è l'interesse, siccome il solo idolo ch'essi adorano è il danaro, così sapendo che in questo paese non si può guadagnar danaro, che facendo l'avvocato o il notaio o il negoziante, essi non vedono che queste professioni. Del resto tu sei dilettante di pittura e questo basta già a darti il diploma di uomo che fa qualche cosa a questo mondo. - Tutto sta che io trovi il tempo di dipingere.... - Tu discendi da un'antica prosapia irlandese, ed è naturale che i tuoi istinti siano più cavallereschi che artistici o letterarii. Ebbene quella tal genìa col pretesto che a Milano nell'aristocrazia ci furono dei Verri, dei Beccaria, dei Borromei, dei Taverna, dei Litta, dei che so io, vorrebbero che tutti noi fossimo scenziati e letterati e che invece di montare a cavallo, tirar di spada, far delle scarrozzate, amar le belle donne, e divertirci a cena avessimo a studiar tutto il giorno e tutta la notte. Non nego che la cosa in massima non sia eccellente, ma più per tutti gli altri che per noi. Noi abbiamo il dovere di non rubar il mestiere a chi lavora per vivere. Le tre sole carriere che ci convengano sono quella delle armi, quella della diplomazia e quella della chiesa. Ma se si può far a meno!... Capisci. Di diventar arcivescovo, per esempio, io non mi sento la foia. - Neppur io. Tu mi consoli - disse O'Stiary. - Intanto per questa sera tu sei sequestrato - continuò il Sappia. Comincerò col presentarti alla mia amorosa. - Chi è? - Una bella ragazza, che non ha altro difetto che una piccola cicatrice in fronte. Le ho già parlato di te e desidera di conoscerti. - Desidera di conoscermi? - sclamò Enrico ridendo. - Sono dunque diventato già un personaggio in poche ore? Ma no, ti sono obbligato riprese facendosi serio ad un tratto. L'imagine casta e nobilissima della sua Elisa gli si era affacciata a un tratto. - Capisco - ripigliò - che con una signorina di questo genere sarei ancora molto imbarazzato e temo di aver l'aria di un collegiale. - Fidati di me. La è una casa deliziosa. Non perchè gliel'abbia montata io... ma ella sa fare, parola d'onore. Sans gêne come lei, che in illo tempore fu barabbina la sua parte. Dopo cinque minuti ti parrà d'essere in casa tua. La si saluta, poi chi non ha voglia di farle la corte non pensa più nemmeno che essa esista. Tu ti sdrai, fumi, parli, leggi, ridi, sfogli degli albums e senti dire delle enormi sciocchezze e dei calembours impossibili che sono anche quelli che fanno ridere di più. - E la ragazza è contenta che la si tratti così? - Contentissima. L'abbiamo lanciata noi? - Dimmi un po'.... E questa Nanà chi è? - Ah Nanà è un prodigio! È una parigina puro sangue! Bella come una leonessa, matta come una Baccante, calda, piena di spirito. Quel povero Marliani, s'io non lo strappavo da lei, ci lasciava la sostanza, la salute e le ossa. - E tu? - domandò il conte. - Oh, io non mi lascio pigliare! Non appena, nel cervello del marchesino Sappia, fu entrata l'idea, che parlando all'amico di quella gran cocotte di Parigi, il proprio prestigio di uomo di mondo ne sarebbe ingrandito di cento palmi, cominciò a lodare e a magnificare Nanà in tutti i sensi. Da sballone d'ingegno, qual era, inventò su di lei cose inaudite e rare. Parlò delle di lei bellezze, del suo treno di casa, delle sue scuderie, del suo modo di ricevere, del suo appartamento. Cose tutte, tranne la prima, che egli non aveva mai vedute, nè conosciute, che per bocca di Marliani. - Imagina una testa - disse a Enrico - che avrebbe fatto delirare Tiepolo, Giorgione e Tiziano insieme; una testa coi capelli color del pomo d'oro pallido, quando è proprio d'oro, quel colore insomma che la scuola veneta prediligeva; capelli che quando glieli scioglievi, andavano giù fino a terra e la celavano tutta intorno intorno, tanto ne era il profluvio. Imagina tutto ciò che v'ha di più bianco e di splendido nei toni della carnagione, che, come puoi pensare dal color dei capelli, è pari a neve, rosata insieme e calda, con dei riflessi d'oro per la lanugine fulva che la ricopre. Imagina delle linee e delle curve sode e belle come non le hanno mai imaginate neppure gli scultori greci, che si crede abbiano dato il non plus ultra della formosità femminile. Tutte queste bellezze di linee e di curve formano un vero incantesimo, caro il mio Enrico. In quanto al morale imagina una buona pasta di fanciulla, piena di cuore, di voglia di far all'amore, allegra, spensierata, alla mano, una vera bambina di diciannove anni, ma che conosce la scuola erotica come una parigina ch'ella è, e che sa mandarti in paradiso o in inferno a tua posta; imagina tutto questo, e avrai una pallida idea di quello che sia la Nanà di Parigi. Enrico ascoltava il Sappia con quel lieve sorriso adolescente che vuol dire un'infinità di cose gravi. In lui esprimeva anche quel non so qual pudore giovanile, che serve a far vibrare più viva nella fantasia quasi vergine le corde della curiosità voluttuosa. Enrico, per conto proprio, avrebbe continuato a parlare tutto il giorno di questa misteriosa e splendida Nanà. - Chi è che vi ha presentati a lei? - domandò infatti con voce tenue, quasi tentasse di non lasciar iscorgere al Sappia ch'egli si interessava enormemente in quel soggetto. A questa domanda il Sappia non rispose subito. Se egli avesse avuto voglia di dire la verità, avrebbe dovuto rispondere a Enrico che la Nanà, lui e Marliani, l'avevano conosciuta da madama Tricon. Avrebbe dovuto raccontare molto volgarmente, che la bella prima sera del loro arrivo a Parigi erano andati a teatro, e avendo veduta figurare, in una rivista, quella stupenda creatura, avevano domandato conto di lei, all'albergo. Che il cameriere aveva loro insegnato di rivolgersi a madame Tricon dove, mediante una trentina di luigi, avrebbero potuto fare la di lei conoscenza. Fi donc doncE avrebbe dovuto soggiungere, che la mattina dopo, da veri viaggiatori meneghini e sfaccendati che in paese straniero non vedono che donne e non pensano che alle donne, erano corsi, coi loro trenta luigi in tasca, da madame Tricon proponendosi di tirare a sorte la primizia di Nanà. Avrebbe dovuto soggiungere che madame Tricon si rallegrò immensamente di vederli, e fece loro una festa spietata, quando s'accorse che erano forestieri: "Perchè, diceva essa, la Nanà è felice d'essere richiesta da stranieri. Dei parigini essa non ne vuol più sapere. Sarebbe capace di morir di fame ormai, piuttosto che venire da me, se io non la assicurassi che chi la cerca non è francese. Voi siete spagnuoli, non è vero? "Italiani - aveva risposto il Sappia." E avrebbe dovuto ricordare che la Tricon, a quella notizia, aveva fatta una piccola smorfia, punto lusinghiera pel suo paese, e aveva subito domandato loro se tenevano in tasca i venticinque luigi necessarii; e che alla loro affermativa aveva soggiunto: "Debbo avvertirli però che ciascuno di loro due dovrà scegliere un giorno diverso dall'altro, giacchè Nanà non acconsente mai di posare due volte nella stessa giornata." Il lettore che avesse bisogno di maggiori schiarimenti sopra codesta madame Tricon non avrebbe che a scorrere la Nanà di Zola, laddove egli accenna di questa signora: "Zoe - la cameriera di Nanà - aveva veduta una ventina di volte madama Tricon venir in casa e parlare qualche minuto misteriosamente colla padrona; ma essa affettava di non conoscerla, e di ignorare completamente quali fossero i rapporti che esistessero fra questa donna e le signorine che pativano asciugaggine di tasche." La povera - dico povera nel senso cristiano - la povera Nanà quando aveva bisogno urgente di danaro ricorreva alla casa di madame Tricon. "Va, va, ma fille! diceva essa fra sè - ne compte que sur toi. Ton corps t'appartient, et il vaut mieux t'en servir que de subir un affront." "Et sans même appeller Zoè elles s'habillait fievreusement pour courir chez la Tricon. C'etait sa supréme ressource aux heures de gros embarras. Trés demandée toujours sollicitée par la vielle dame... elle ètait sûre de trouver là vincinq louis qui l'attendaient. l'attendaient.Ma tutto ciò, che sarebbe stata la pura e nuda verità, il marchese Sappia non poteva nè voleva più dirlo all'Enrico. Egli, per darsi del tono, si era già compromesso; s'era slanciato a dir mille bugie e mille invenzioni sul conto di Nanà. S'era ingolfato nelle regioni iperboliche di una splendida galanteria. Si guardò bene dunque di accennare neppur per ombra nè alla Tricon, nè ai venticinque luigi necessari, nè ad altre simili bagatelle; e invece impacchiuccò ad Enrico una risposta inventata come tutto il resto, e continuò a parlargli di presentazioni fatte sul palcoscenico, anzi nel di lei camerino, da un amico parigino, che aveva entratura nelle coulisses, coulisses,poi di gite in campagna fatte insieme, e di serate al Mabille, e di cene, e di orgie in cui non c'era la benchè minima ombra di vero, ma che a lui pareva lo posassero in faccia ad Enrico su un piedestallo eccelso. Ciò che v'era poi di più piccante ancora in tutto questo, ciò che costituiva un fatto relativamente grave e ridicolo, si è che, lui, come lui, proprio lui, precisamente lui, codesta Nanà non l'aveva proprio mai toccata neppure colla punta del dito mignolo. I due giovinetti naturalmente, là dalla Tricon, avevano tirato le buschette. Se i lettori trovano questo fatto molto choquant non so che farci. E d'altronde nel caso di Sappia e di Marliani tutti i lettori farebbero lo stesso. La sorte aveva favorito il Marliani. La Tricon allora aveva significato al Sappia, che egli avrebbe dovuto rassegnarsi ad aspettar un altro giorno le grazie di Nanà, perchè quella benedetta ragazza non avrebbe mai acconsentito a passar dalle braccia dell'uno in quelli dell'altro. Il Sappia, di malumore per questo sberleffo della fortuna, pure aveva aspettata Nanà là nel salotto della Tricon, per vederla arrivare, e sentir da lei quando fosse stata di comodo di concedergli il rendez vous vousanche a lui. Essa era venuta infatti, tutta bella, fresca e voluttuosa; ma quand'egli aveva tentato di farsi promettere che il giorno dopo sarebbe ritornata per lui, Nanà aveva risposto: "No, caro signore, domani no. Restate voi a Parigi?" "Certamente, siamo arrivati ieri. Io ci starò finchè a voi piaccia di non essere crudele con me." "Allora vedremo, aveva risposto Nanà, la quale, come si sa, abborriva dal cedere per danaro, e lo faceva soltanto nei giorni di grande arsura. - Vi farò avvisare da madame Tricon, se vi piace. Ma non fatemi importunare troppo dalla vecchia, perchè altrimenti non mi avrete mai più!" Il Sappia ridendo si rassegnò ad aspettar il di lei capriccio. Aveva capito che con quella creatura non era il caso di ottener di più, nè colla preghiera, nè colle offerte. Per venti giorni egli s'era recato ogni mattina a trovare la Tricon, la quale dal canto suo andava un paio di volte la settimana a sollecitare la Nanà; sempre invano. Marliani intanto, senza dir nulla all'amico, c'era riuscito invece ad ottenere da lei un secondo rendez-vous, in tutt'altro luogo, e le aveva mandato una bagattella di braccialetto da cinquemila franchi, i quali se li era dovuti far mandar da Milano. La Nanà aveva trovato il Marliani molto simpatico e non s'era fatta pregare molto a concedergli una seconda visita. Quanto a lui, da buon amico, aveva tentato di dissuadere Nanà a dar ascolto al Sappia. Essa non glielo aveva promesso formalmente, ma glielo aveva lasciato sperare. Invece un bel giorno la Tricon mandò un bigliettino al marchese in cui gli significava che la Nanà sarebbe venuta a casa sua quel giorno per lui, ma che aveva messo per condizione il migliaio. Il marchese, contentone, aveva messo nel suo portamonete il biglietto da mille, e alle due ore era là tirato come uno stecco, ad aspettare la bella donna. La sua frègola era al colmo. Il Marliani gli aveva raccontate cose tali di Nanà che il marchesino ardeva, bruciava, e dopo un quarto d'ora aveva già indosso l'agonia. Passarono le due e mezzo, passarono le tre, le tre e un quarto e Nanà non compariva. Madama Tricon si esibì di andar ella stessa a vedere che cosa diamine fosse successo. Mezz'ora dopo tornò a contare che Nanà aveva litigato con Satin, e che non sarebbe venuta; che l'aveva mandata al diavolo lei, la sua casa, gli Italiani, il biglietto da mille e tutti quanti insieme. Il Sappia era dunque partito da Parigi senza poterla biblicamente conoscere. E siccome aveva conservato pel Marliani in fondo al cuore un po' di rabbietta, perchè egli potesse vantarsi d'averla trattata e lui no, giunto in patria gli aveva voltato l'occhio, e dall'arrivo non s'erano più ritrovati. Quanto al Marliani aveva seguíto a malincuore il Sappia. Quella fatale Nanà - quella cocotte da venticinque luigi - lo aveva ammaliato. Le due o tre volte ch'essa s'era concessa a lui per riconoscenza del braccialetto, gli ballavano nella fantasia una ridda di tali memori voluttà, che capiva non l'avrebbero lasciato tranquillo per un bel pezzo. La carrozza era giunta a casa di Sappia. Montati in camera, questi intraprese la metamorfosi di Enrico, vestendolo di nero; poi andarono dal cappellaio, poi dal Mosconi il calzolaio dei nobili, poi dal Prandoni. Enrico tornò a casa all'ora del desinare e pranzò colla Elisa, la quale di quando in quando, allorchè egli le sorrideva, alzava i suoi occhioni innocenti e belli in viso al garibaldino, mentre due altri sguardi, tutt'altro che indifferenti, andavano spesso a impetrare dalla vergine un amichevol occhiata, ch'ella quel giorno si ostinava di non conceder loro. Erano gli sguardi di un altro giovane invitato a pranzo, e che sedeva accanto alla signora Eugenia, uno scultore, che si era fatto conoscere favorevolmente nella Esposizione di quell'anno e che rispondeva al nome di Aldo Rubieri. Verso le otto e mezza il Sappia venne a riprendere Enrico per andar insieme dalla Luisa, alla quale il marchesino passava seicento franchi al mese. Essa abitava un elegante appartamento a primo piano in Via Solferino. Chi era la Luisa? D'onde veniva? Come aveva conosciuto il Sappia? Nel nostro tempo, una ragazza di diciotto anni: come la Luisa, con discreto ingegno, molta malizia, una gran dose di concupiscenza in corpo, e punto quattrini, se fosse rimasta, quel che si dice, una fanciulla onorata lo avrebbe dovuto indubbiamente ai propri genitori. Non è certamente troppo difficile che anche da una famiglia di galantuomini sorta fuori una ragazzaccia che si butti via; ma sarebbe un vero miracolo se in una famiglia viziosa, disordinata e miserabile, ci fosse una creatura che sapesse conservarsi onesta. La Luisa era nata da un padre briccone e da una madre bigotta e quasi cretina. Suo padre faceva un mestiere proibito dal codice, e, quel ch'è peggio, lo faceva colla coscienza tranquilla di chi crede di non commettere azione disonesta. "Un mestiere come un altro" diceva lui. Egli, sostraro fallito, s'era acconciato a diventare fabbricatore di falso coke, che vendeva a certi suoi antichi colleghi, ladri come lui, a non so quanti centesimi il chilogrammo. Il falso coke è composto di rottami di fabbrica, di vecchi mattoni, di calcinacci e di ciottoli fatti cuocere nella pece e simulanti il coke vero. Per certi venditori di carbone è comodissimo. Fa comparir un quintale di combustibile, ciò che, in sostanza, non è più di ottanta chilogrammi. Essi spacciano alle loro pratiche quattro quinti di coke e un quinto di falso coke fabbricato dal babbo della Luisa, e rubano, con un peso perfetto, il quinto sulla differenza. A Parigi questi e simili truffatori sono colti e pagano delle buone multe. A Milano finora nessuno ci ha mai badato, e le stufe a coke milanesi son tutte piene di mattoni e di calcinacci. I primi col dileguarsi della pece che li ricopre, diventano rossi dalla vergogna, i secondi bianchi dalla paura. Prima che giungesse per la Luisa l'età dei desiderî malfrenati e prima che il mal esempio paterno entrasse a guastarne l'indole, già discretamente perversa, la Luisa era un ciuffetto, ma non dava a pensare che sarebbe diventata la birba che diventò. Ella aveva qualche istinto buono; tant'è vero che aveva cominciato fin dai nove anni e senza addarsene, a trovarsi in flagrante contrasto con suo padre per causa di probità. Una sera - ell'aveva appunto nove anni, e andava come piccina a scuola di stiratora - stavano raccolti nella lurida stanzaccia, che serviva di covile a tutti e tre, e il padre si mostrava lieto più del solito. - Che hai Gana? - domandò la madre. - Ho tirato su un bischero al prezzo - rispose il marito fregandosi le mani lorde. - Che prezzo? - Al mio uso carbone. Oggi ne ho venduta una partita a dieci centesimi al quintale più del solito. Ah, fu una gran bella invenzione la mia! - Babbo! - fece la Luisa. - Che vuoi, pettegola? - È vero che il tuo carbone fa peso ma non fa caldo? - Chi te l'ha detto, stupida marmotta, chi te l'ha detto? - gridò il Gana arrovvellato. - Quando i mattoni sono roventi fanno caldo anch'essi. Chi te l'ha detto? - Me l'ha detto la maestra - rispose la piccina. - Dirai alla tua maestra che la vada a pigliar.... La frase, per quanto vera, non può essere ripetuta. Nessuna teoria al mondo potrà fare mai, che essa sia per diventare artisticamente e umanamente presentabile. Ma la Luisa ebbe allora il coraggio di replicar un'idea sentita da sua madre. - Anche la mamma dice, che questo è un rubare alla povera gente. Non l'avesse mai detto! Il Gana prese un bicchiere sulla tavola, e lo scagliò contro la bimba. Il bicchiere si spezzò sulla di lei fronte; uno zampillo di sangue spicciò da un arteria e andò a bagnar la faccia del feritore, che ne restò sconciamente intrisa. La madre svenne di spavento. Questo era stato il primo grave strapazzo, ma non l'ultimo. Quella bestia di un fabbricatore di coke batteva a sangue la Luisa tutte le volte che sentiva di aver torto. Così, imparando da suo padre, già a quattordici anni ella avrebbe potuto aspirare alla cerchia dove Dante condannò i violenti. Di lì a poco la Luisa s'era già concessa per semplice curiosità, senza lotta e senza amore, al primo scapestrato, che le aveva offerto un anellino e una cena al veglione. Costui veniva spesso dalla maestra stiratora a raccomandarle di dar l'amido più denso o meno azzurrino ai manichini e ai solini da collo. Un giorno regalò alla Luisa uno spillone d'acciaio in forma di stiletto per fermare il profluviante volume de' suoi capegli castagni. La Luisa aveva usato di quello stiletto per ferire malamente una compagna, di scuola, spintavi da subitaneo furore di gelosa picca. L'educazione paterna portava già i suoi frutti cruenti. Quella ferita, fatta in corpo scrofoloso e affetto da lue ereditaria, aveva tratto al sepolcro quella misera compagna, e la Luisa era stata condannata a due anni di carcere in grazia dell'età adolescente e della nessuna premeditazione. In carcere essa aveva compiuta la sua educazione di mariuola e quando ne uscì, ell'era in tutto il rigor del termine, una birba sconsacrata. Immaginatevi ora una fanciulla di diciasette anni bella, poltrona, lasciva, scorbellata, che esce di prigione e che non vuole nè può tornare in casa paterna, dove non è rimasto che un babbo, ancora più briccone, più scioperato e più lascivo di lei. Sua madre, nel frattempo era morta; le anime buone, dicevano di crepacuore, le sue più intime amiche dicevano di catarro. Dal carcere, finita la pena, alla Luisa era toccato di andar difilato alla Questura; e più precisamente a quella sezione dell'ufficio, che provvede alla sanità pubblica e che ha l'incarico di sorvegliare la condotta delle fanciulle, che non avendo di che vivere, non pensano a mettersi un ditale sul pollice e un ago fra le dita. Là le venne domandato naturalmente, che cosa intendesse di fare della sua vita e in qual modo contasse provvedere alla propria esistenza? - Me lo dicano loro! - rispose la Luisa. - Io non lo so. - Noi non possiamo dir niente - rispose il delegato con un sorriso eloquente. - Noi siamo qui per sentire e non per insegnare. Non facciamo il maestro di scuola noi. Bisognerebbe però che prima di tutto tu ti trovassi un qualche galantuomo che venisse qui a rispondere per te. Allora saresti fuori immediatamente da tutti i fastidî. "Bravo - pensò la scorbellata - vuole dire ch'io mi faccia mantenere." - Ma dove vado a pescarlo, così sui due piedi, un galantuomo che voglia rispondere per una povera tosa che esce di prigione? - Prima di entrarci in prigione un amante lo avevi pure! - disse il delegato. - Ma ora non c'è più. Ha pensato bene di buttarsi nel tombone di San Marco, perchè era troppo contento d'esser venuto al mondo. - Cerca qualcun altro allora. - A questo c'avevo già pensato anch' io - riprese la Luisa - ma intanto, come faccio a vivere? - Ti sentiresti di poter tornare una buona figliola? - In che modo buona figliola? - Mettendoti ancora a lavorare! - Io sì - rispose la Luisa, mentendo; giacchè nel suo interno era g'ià scoppiato invece un no risoluto e indiscutibile - Ma dov'è che potrei trovar da lavorare? Se me lo procurano loro lo piglio, se no, non saprei. - T'ho già detto, cara mia, che noi non facciamo di questi uffici. Non eri tu prima da una stiratora? - Oh, come lo sanno loro? - Noi si sa tutto. Tu eri già sul nostro libro prima di andar in prigione. Tu frequentavi le sale da ballo e qualche altro luogo anche peggio. Non è vero? "Ho capito" - pensò fra sè la Luisa. - Va a vedere se la tua antica maestra la ti volesse ripigliare. È una buona donna. - Io no, vede, e lei? Mi canzona? Dopo quello che è accaduto là in quella stanza? L'imagine della ferita, del sangue, delle grida e di tutto il trambusto ch'ella aveva suscitato il fatal giorno, le si affacciò con brusco assalto e impallidì. Il delegato capì e non insistette. - Vedi che cosa vuol dire a fare delle brutte azioni? - Ora quel che è stato è stato; la brutta azione me l'hanno anche fatta pagare carne salata, me l'hanno fatta. - Ricordati che sarai tenuta d'occhio dalle guardie. - Questo lo so senza che me lo dica. Se non ha altri moccoli, perch'io m'aiuti, posso fallare a morir di fame. - Cercati lavoro e non andar in volta di sera e ben poco anche di giorno. Capisci? - Già, e il lavoro verrà da sè stesso a cercarmi a casa mia, n'è vero, il lavoro? E intanto come farò a vivere? - Questo ti riguarda, Arràngiati. Arràngiati.La Luisa continuava a far l'innocentina. - Cosa vuol dire arràngiati? arràngiati?- Non so nulla. Ma ricordati di non lasciarti trovar sola a scopar la strada, specialmente dopo il tramonto, se no le guardie ti arresteranno e ti condurranno qui da me. - Me l'ha già detto e ripetuto tre volte a quest'ora. E nella sua testa la Luisa aveva cominciato a mulinare al mezzo di far cascare il delegato in una frase scandalosa. Ella si sentiva in confuso, una gran voglia di far risaltare la così detta immoralità nella bocca di quell'impiegato dei Governo. Voleva che fosse proprio lui a dirle di pensare a vendersi senza tanti scrupoli, e a fare la sgualdrina. - Io le torno a domandare chi è intanto che mi darà da mangiare? - Oh! - scoppiò finalmente a dire il delegato che non sospettando non stava in guardia, ed era anche un po' ammaliato dal bel viso di lei - credi tu che io sia un imbecille, da venir qui a farmi la bambina, dopo essere stata due anni in prigione? Chi t'ha a dar da mangiare? Ma, il primo messere che abbia due occhi in capo, dieci lire al giorno da spendere... sacrr... - e qui giù una specie di bestemmia da regio impiegato - e a cui piaccia il bel sesso. E quando il messere sarà deciso a fare sicurtà per te, conducilo qui che io ti cancellerò subito dal libro. - Ora sono soddisfatta - sclamò la Luisa che c'era riuscita. - Basta così! Il delegato, che la guardava con compiacenza, s'accorse allora dal sorriso maligno di lei, ch'ella era persuasa d'aver riportata su di lui una piccola vittoria. Essa c'era riuscita! E infatti pensava lei a un dipresso: "È il direttore d'una sezione di Questura, è il rappresentante della morale pubblica, è l'ufficiale del governo italiano che m'ha detto di andar alla perdizione. Io farò il mestiere per obbedire al commissario. Se fosse altrimenti, egli penserebbe piuttosto a procurarmi del lavoro. Egli mi lascia in balìa di me stessa, e sa pure che io di lavoro nè posso, nè voglio trovarne, mentre egli sa che di messeri, anche senza il suo parere, ne troverò finchè sarò stufa." La Luisa, uscita di là, si mise dunque in cammino per obbedire al delegato. Essa dava ascolto alla legge, essa si uniformava ai regolamenti di Questura: Non caste sed caute Così che, se fosse anche stato il caso di dover fare il brutto mestiere contro voglia e contro coscienza - ciò che non era - la si sarebbe trovata come si dice colle spalle al muro. Se non che la coscienza e la voce dell'onore nella Luisa era un bel pezzo che tacevano. Anch'essa, come Nanà, quantunque in un grado molto più volgare e più perverso, non sentiva più in corpo che tre grandi inclinazioni molto serie e molto spiccate: quella di non lavorare, quella di far all'amore e quella di non morir di fame. E, quanto alla terza, via! non si saprebbe davvero da qual parte farsi per dare tutto il torto a lei sola. Il diritto non le può essere contestato! Non aveva mossi un centinaio di passi fuor dall'ufficio di Sanità, eh' ella s'accorse d'essere pedinata. Non sapeva bene se erano due o tre, perchè non li vedeva e non si voltò indietro; ma se li sentiva, come per intuizione, nella schiena. Si fermò a guardare in una vetrina di modista per lasciarli passare e sapere almeno se erano gobbi o sciancati, giovani o vecchi. E volgendo il viso per guardarli, passati che furono, scorse dal canto della via, spuntare una donna, un'antica conoscenza, una certa sôra Marianna, la quale teneva sotto il braccio un enorme fardello e veniva un po' barcollando verso di lei, col sorriso che dava a vedere come l'avesse già ravvisata da lungi. Quando le fu d'accosto: - Centini mundi - sclamò questa; la era una sua esclamazione particolare. - Finalmente che la possiam rivedere, la possiamo, questa nostra bellezza! Dove diamine la è stata tutto questo tempo? Sapeva la vecchia che la Luisa era appena uscita di prigione? Le aveva fatta la domanda con malizia e per umiliarla, oppure non ne sapeva nulla? La Luisa, a buon conto, fece la prima supposizione, e rispose non arrossendo e con una specie di impertinenza: - Sono stata a Parigi! E lei, dove va con quel fagotto? - Eh, sa bene! Le solite miserie. Vado a mettere in collegio un po' di roba, perchè è bene che impari anche lei a stare al mondo. In lingua il bisticcio della Marianna non regge; in dialetto fece il suo immancabile effetto, e la Luisa ne sorrise malinconicamente. In dialetto, monte e mondo hanno lo stesso suono. - Anche lei! - disse la fanciulla. - Non c'è dunque che miseria a Milano? - Che vuole, cara Luisa! E lei? - Io? Io, come la mi vede, non so oggi come pranzare. - Possibile! - sclamò la signora Marianna coll'accento incredulo. - Una bella tosa pari sua? Centini mundi S'io fossi in lei, vorrei domandar se Milano è da vendere. Lei non ha a far altro che metter giù il suo bravo grembiale e star lì a veder i merli a fioccarvi dentro colle mani piene di bigliettoni bianchi, rossi e verdi. - Me lo disse poc'anzi anche il... Voleva dire il delegato, ma troncò la frase. La vecchia però aveva già mangiata la foglia. - Oh, diamine! Le toccò di andar laggiù? La Luisa si morse le labbra. Pel gusto di ponzare la sua piccola idea di ribellione ironica contro le incumbenze del delegato e contro la morale pubblica, essa aveva svelato il brutto segreto. - M'ha mandato a chiamare per sapere come faccio a vivere dopo il mio ritorno da Parigi, perchè ha saputo che vivo sola. - Io ne avrei uno che sarebbe un portento per lei - disse la vecchia strizzando l'occhiolino. - Di che cosa? - domandò la Luisa fingendo di non capire. - Un messere, centini mundi Chi vuol che sia? - Chi è desso? - È un banchiere. - Giovane? - Ecco - disse la Marianna - per giovine non è giovine di primo pelo, ma però è benissimo conservato, e ricco. - Quanti anni avrà, insomma? - Io non gli darei più di sessant'anni o sessantadue. - Oh, che strega! - sclamò la Luisa, scoppiando a ridere. - Mi parla di primo pelo! Non è nè di primo, nè di secondo! - È meglio anzi che sia un uomo posato... un uomo che ha già fatta la sua carovana. - Sì, sì, non dico, ma quanto al primo pelo... màghero! màghero!- È capace di farle una posizione. - Crede lei che vorrebbe rispondere per me là da quel caro direttore? - Questo poi non lo so, perchè è ammogliato. - Anche ammogliato! - sclamò la Luisa. Poi riprese: - Meglio allora! - Sicuro che è meglio. Dà minor fastidio. Lo si può tener in gambe, comprometterlo, levargliene quanti si vuole. E poi si è più libere di tenersi il candelliere e il capriccio; si ha sempre il coltello per il.... - Bene, bene, queste cose le penso anch'io - interruppe la Luisa un po' duramente. Quella benedetta parola di coltello, poco o molto, la faceva sempre trasalire, anche quando era pronunciata in una figura rettorica. - Dove si potrebbe vederlo questo banchiere di... terzo pelo? - In casa mia, se vuole. - Lei sta ancora laggiù? - Sì, cara. - E quando? - Magari domani. Il tempo di avvisarlo. - A che ora? - A mezzogiorno. - Bene, domani a mezzogiorno sarò da lei. E si lasciarono. La Luisa si spiccò di là, e vide sul canto della via che uno de' suoi pedinatori stava ad aspettarla. Quand'essa gli passò dinanzi, egli le fe' tanto di cappello. La Luisa rispose con un modesto chinar del capo. L'altro, che era appunto il marchesino Sappia, le si mise accanto. - Si potrebbe aver l'onore di sapere, bellissima creatura, dove siete diretta? - Lei è ben curioso! - Io faccio come il dottor Faust con Margherita, e vi domando il permesso di accompagnarvi a casa. - Non posso darglielo - rispose la Luisa, che, piena di appetito, aveva già messo l'occhio sul suo moscone per farsi pagare da pranzo. - Perchè non può darmelo? - Se io le ripetessi che lei è assolutamente troppo curioso, che cosa mi risponderebbe? - Che la curiosità è la madre della voglia di sapere. - Lei è forse uno di quelli che scrivono sui giornali? - No, no - rispose il Sappia ridendo. - Ma perchè questa domanda? - Perchè lei mi parla molto difficile. Che so io? Poc'anzi era il dottor Faust e Margherita, e ora è la madre della voglia.... - Bene, parlerò più facile. Come avete nome? - Ho nome... ho nome Aquilina. Ma non permetto che mi si dia del voi. - Vi darò del lei. Aquilina, bel nome! Nome superbo, e portato da una donna adorabile. - Me l'hanno detto degli altri. - E se io desiderassi di fare la sua conoscenza, bellissima Aquilina, me ne darebbe lei il permesso? - Mi par bene che stiamo facendola.... - Sì, ma io dico... una conoscenza un po' più intima... a quattrocchi. - Non si rifiuta mai la conoscenza d'una persona educata come lei. - In casa sua dunque non ci si può venir davvero? - Per ora no. In seguito non dico. Ora io vado a pranzo. Quest'oggi si potrebbe tutt'al più trovarsi alla stessa tavola a pranzo. - E se io la invitassi a pranzare con me fuori di Porta? - Dove, per esempio? - Non saprei.... All'Isola Bella. - No - rispose la Luisa - all'Isola Bella c'è troppa gente; piuttosto al Giardino d'Italia. - Allora ci possiamo andar subito. Sono ormai le quattro e mezza. - Come vuole. Il Sappia fece un gesto ad un cocchiere di vettura pubblica, che passava col legno vuoto. Vi montarono, e via pel Giardino d'Italia. Come si vede, la Luisa obbediva largamente al delegato. Essa coglieva due piccioni ad un favo. Aveva trovato un probabile messere e aveva azzeccato il pranzo di quel giorno. - Sapete, bella Aquilina - disse il Sappia quando fu seduto a tavola colla Luisa al Giardino d'Italia - che voi assomigliate in un modo spaventevole ad un'amante che io ho avuto or ora a Parigi? - Davvero? Ciò mi rende orgogliosa! - Naturalmente voi non siete ancora a quel punto.... - Oh, lo credo! - Quella era una cocotte sì, ma una cocotte gran dama. - Ho capito! - Ha nome Teresa, ma tutti a Parigi la chiamano Nanà. Non ha meno di trentamila franchi al mese, ed è sempre in miseria. - Vuol dire che li spendeva. - Sicuro! - Ah, in questo poi non vorrei assomigliarle. - Vediamo, Aquilina. Voi mi piacete in modo enorme. Ci sarebbe speranza di intenderci? Io non v'ho ancora detto il mio nome; sono il marchese Sappia. Io vorrei fare di voi una seconda Nanà. - Che non spende trentamila franchi al mese, però. - Ah, naturale! Tutto dev'essere in proporzione. Milano fa trecento mila abitanti coi Corpi Santi, Parigi ne fa un milione e mezzo; cinque volte tanto. A Milano, una fanciulla come voi può col quinto di trentamila franchi al mese, che sono sei mila far la signora come Nanà a Parigi. - Questo poi non credo. Sei mila franchi sono una miseria anche a Milano. - Ah, ah! Avete delle idee in grande, voi. - Voi ci tenete ad essere solo? - Perchè questa domanda? - Ponete che io sia già impegnata con un vecchio, che non vi potrebbe dare ombra di gelosia. Ponete che io sia qui con voi perchè mi siete simpatico.... - Grazie, Aquilina. Non ne dubitavo. - Io so bene che voi non vorreste che io fossi vostra amante gratis, gratis,n'è vero? - Neppur per sogno. - Se voi non avete difficoltà che il vecchio continui la mia relazione, voi diventerete il mio amante di cuore. Mi farete qualche regalo e tutto sarà detto. - Accettato. - Allora vi dirò che io non mi chiamo Aquilina, ma mi chiamo Luisa. E così era avvenuto il contratto del loro matrimonio morganatico. Il marchesino uscì dalla casa di Luisa verso le nove del mattino del giorno dopo. A mezzodì in punto, la fanciulla montava le scale della Marianna. Il vecchio banchiere non si fece aspettare; dopo mezz'ora di conversazione, trovò che la Luisa era la creatura che pareva creata apposta pe' suoi fini reconditi; le fece delle discrete proposte, ed essa le accettò subito anche quelle, senza farsi pregare: giacchè l'appetito non c'era verso, che non ritornasse ogni mattina e ogni sera a persuaderla che bisognava dar ascolto al delegato. Così in breve la scarcerata di fresco fu accasata come una signora, in mezzo a mobili propri, con due assegni mensili, che uniti ne facevano uno più grosso di quello d'un consigliere di Cassazione e che le venivano dal Sappia e dal banchiere, il primo dei quali era l'amante en entitre l'altro lo spunta-pesi segreto. Poco prima che Enrico O'Stiary giungesse a Milano, essa aveva finto di piantare in asso il vecchio banchiere, per farsi maggior merito presso il suo amante scoperto. Ma in fatti essa era legata al vecchio peggio di prima e da ben altri legami che non fossero i legami dell'amore. - Buona sera, Nando - diss'ella al Sappia, che era entrato con Enrico O'Stiary. E intanto aveva diretta un'occhiata curiosa all'amico che stava dietro di lui un po' in disparte. - Buona sera, Gigia - rispose il marchesino, e volgendosi tosto verso il conte, ripigliò: - T'ho condotto il mio giovine amico, il conte O'Stiary, che farà in tua casa i primi passi al mal costume. Enrico strinse la mano che la Luisa gli porse; e l'indispensabile vermiglio, che accompagna quasi sempre il primo passo al malcostume, si pinse sulla fronte del giovinetto. La Luisa lo invitò a sederle accanto. - Spero bene - cominciò dessa - che Nando le avrà detto, che qui da me sono banditi i complimenti. Dunque la metta giù il suo cappello, giacchè il mio motto è sans gêne Ma quasi mi scordavo di presentare a questi signori; il signor Silvestro Bonaventuri aiutante di... e il signor Paganino di Genova. I due nominati s'inchinarono. O'Stiary fece altrettanto. - Lei è uscito da poco dal collegio, non è vero? - Ora torna dal campo. - Dal campo!... A proposito - disse levandosi; ma disse quell'a proposito precisamente a sproposito, giacchè ciò che stava per metter fuori non c'entrava per nulla col campo - Cominciate a fare anche voi altri il vostro dovere qui su questa lista. Vi avviso che non voglio rovinarvi però. Non accetto meno di venti franchi, ma non accetto neppure più di cento franchi. - Così dicendo, la Luisa aveva levato da un tavolino una borsa, una lista, ed un lapis che presentò colla bocca aperta al Bonaventuri. - Che cos'è? - domandò questi con aria un poco sorpresa. - Ho fatto voto, che tutti quelli che i quali metteranno il piede in questa sala, dal primo all'ultimo del mese, dovranno per una volta almeno aiutarmi a fare un'opera buona. È una colletta per una povera famiglia che muore di fame. - Volontieri - rispose il Bonaventuri. - Che cosa debbo fare? - Scrivere su questa lista il vostro riverito nome e cognome, colla cifra che intendete di mettere in questa borsa, per la mia irresponsabilità. E guardò con un bel sorriso in faccia a O'Stiary. - Spero la mi permetterà di avere anch'io questo piacere di far del bene in sua collaborazione - disse Enrico traendo di tasca il portamonete. - Veramente, per la bella prima volta! - sclamò ridendo la Luisa - è un po' da sfacciata! - Faremo dunque il male in mezzo - fece il Bonaventuri parlando forte. Ecco i miei cinquanta franchi. - Ed ecco i miei - soggiunse il Paganino da Genova, mettendo i suoi cinque biglietti da dieci nella borsa. Il povero Enrico fa sopraffatto da uno sgomento indicibile. Egli aveva pensato in cuor suo di non dare che venti lire, e capiva che bisognava metterne cinquanta come gli altri, e temeva di non averli nel suo portamonete. Dei cento franchi della mezza mesata sborsatagli dal tutore, e che dovevano servirgli per quindici giorni, gli pareva di averne già spesi in guanti, in profumerie, in gingilli, in mancie e al caffè, una metà abbondante. Non sapeva bene quanto gli restasse nel portamonete, ma temeva d'essere a corto. Guardò trepidando in esso, e con lieta sorpresa vi trovò appunto i cinquanta franchi che parevano lì apposta contati. Non gli rimaneva più che un bigliettino sudicio da cinquanta centesimi, che rimase là unico e vergognoso, come una protesta contro la lèsina del tutore. - Ed ecco i miei - ripetè anche lui mettendo l'obolo nella borsa di Luisa, che lo ringraziò col suo più splendido sorriso. "Spero bene - pensò - che il tutore non mi vorrà mangiare se gli racconterò che ho dato cinquanta franchi a scopo di beneficenza - pensò Enrico, dopo che la Luisa lo ebbe ringraziato. - "Io non potevo dar meno di Paganino e di Bonaventuri, che devono essere meno ricchi di me." Poco dopo entrarono nuovi visitatori. Erano il signor Ciambelli colla Romea, un fuseragnolo di donna, con due occhi discreti e una carnagione che arieggiava la porcellana colorata, per amor dell'intonaco ch'ella si praticava sul viso. Ciambelli, suo amante, un pancione nero come un croato, le aveva messa su una buvette, dove la Romea troneggiava dal suo banco, chiamando, col desio e colle occhiate lunghe, i passanti, che non volevano saperne di entrare nella di lei bottega a bevere l'amaro prima di andare a pranzo. La Romea era una sgualdrina come tante altre, ma la si teneva ingenuamente in conto di donna onesta, e parlava delle mantenute col disprezzo d'una principessa! Quanto la godevano per questa pretesa le sue poche pratiche! A un certo punto si parlò di far un piccolo taglio di macao. La Luisa sulle prime fece finta di opporsi, ma poi, vedendo che tutti erano del parere fece recar le carte e lasciò che giuocassero. Enrico, un po' per timidezza, un po' per innata ritrosia, ma sopratutto perchè non voleva far vedere d'essere corto a quattrini stava in disparte. Sappia gli andò vicino: - Non fai conto di giuocare tu? - Ma... non ho voglia.... Non sapevo che si giuocasse.... È meglio che stia a vedere... - Ti pare? Il più giovine della brigata, far la figura del più vecchio? Mi faresti sfigurare. Ricordati che questa sera comincia a formarsi la tua riputazione di gentiluomo e di uomo di mondo. Bisogna che tu provi un po' di tutto, in società, se vorrai starci bene, e se vorrai poter educare con cognizione di causa i figli che avrai dalla signorina Elisa. Enrico si fece tutto rosso in viso. - Che c'entra? Come sai? Chi t'ha detto? - Noi sappiamo tutto - sclamò con aria di mistero il marchesino. - Ma io ho ben poco danaro con me... non sapevo. - Se non è che questo ti servo subito. Figurati! E schiuso il portamonete ne trasse un biglietto da cinquecento e lo diede a Enrico dicendo: - Quando non ce n'è più, ce ne sarà ancora. Avrebbe potuto rifiutarsi ancora il nostro collegiale garibaldino? Andò al tavolo verde. Dopo mezz'ora egli aveva perduto fino all'ultimo i suoi cinquecento franchi. La Romea gliene aveva beccati fuori la metà. Sappia gliene prestò subito altri mille. Il demonio del gioco lo aveva già preso alla strozza. A mezzanotte il disgraziato aveva perduto i mille e giocava già disperatamente sulla parola. Al tocco dopo mezzanotte il Sappia si levò dal tavoliere, e disse: - Mi pare ora di andarcene. - Facciamo i conti - gli disse Enrico che appena cessato l'incanto e l'emozione si trovò di aver indosso una febbre indiavolata. Fatti i conti trovarono di avere perduto fra tutt'e due seimila e trecentoventi franchi. Enrico ne doveva mille e cinquecento all'amico, mille e duecento a Silvestro Bonaventuri, e trecento alla Romea, Il povero giovinetto era così confuso di dover danaro perfino ad una donna, era così spaventato, così abbacinato dalla perdita, dal timore di non poter il giorno dopo farsi onore nelle ventiquatt'ore, dello spavento che il tutore e la Elisa venissero a sapere la sua scappata, che quasi quasi ne piangeva a calde lagrime. Il Sappia dovette scuoterlo più volte. - Ma domani come si fa? Pensa che debbo trecento franchi anche alla signora Romea. - Ci penso io - gli rispose l'amico. - Non seccarti. In ogni caso la Romea ne deve a me cinquecento da sei mesi, che non me li ha mai restituiti. Preso poi in disparte il Bonaventuri, che conosceva, per quel tanto che si conoscono certe persone: - Favorisca - gli disse - a indicarmi dove ella sta di casa. - Oh - sclamò il Bonaveuturi, come schermendosi - la si figuri; ha tutto il tempo; lei è padrone di tutta la mia sostanza... "Buono a sapersi" pensò il Sappia fra se. Enrico quella notte non chiuse occhio e fece il più inviolabile proponimento di non giuocare mai più. Nella ingenua purezza della sua coscienza di vent'anni, egli sentiva di quel fatto un rimorso indicibile. A mattina andò dal tutore e gli spiattellò senza reticenze la sua avventura della sera innanzi. La fu una scena di inenarrabile delusione per lui, una tempesta di maggio, un finimondo. Il tutore gli fece una parrucca che non finiva più. Egli era un di quegli uomini che non crederebbero di far il loro dovere se non quando s'accorgono d'avere ben tormentata la loro vittima. Essi hanno nelle vene, io credo, un po' di sangue di Torquemada. Questo modo di educare, essi lo chiamano saggezza. E certo se facesse l'effetto di render saggio meriterebbe quel nome; ma siccome non ottengono invece che quello di seccare dovrebbe esser chiamato seccatura. seccatura.Allo stringer dei nodi il tutore si rifiutò perfino di pagargli quel primo debito di giuoco. Enrico non sapeva più in che mondo si fosse. Corse a trovare il marchese d'Arco. Questi ascoltò in silenzio il racconto e le giustificazioni del giovinetto; poi senza dir motto si levò, andò al suo scrigno, ne abbassò l'imposta, tirò fuori un cassettino, ne trasse tre bei biglietti da lire mille e li porse al giovinetto dicendogli questa sola frase: - Ma cerca di non giuocare mai più se ti è possibile! Enrico da quel tratto restò assai più confuso che non lo fosse stato prima dalla lavata di capo e dalle smanie esagerate del suo tutore. - Oh, marchese, come è buono lei! - sclamò il giovine buttandosi al collo del vecchio e baciandolo sulle labbra. - Mi prometti sul tuo onore che non giuocherai più? ripigliò sorridendo di gioia e dopo un certo silenzio il marchese. - Sì, glielo prometto in parola d'onore e colla sicurezza di mantenere la mia promessa. - Tu devi sapere Enrico, che a' miei tempi ho giuocato molto anch'io. Allora il giuoco era di bon ton non era proibito, lo si faceva in pubblico. Il governo straniero usava di questo mezzo per demoralizzarci, per distoglierci dalle idee di patria e di indipendenza. Vedi dunque che ti parlo con cognizione di causa. Fin d'allora mi capitava sempre, che perdendo, io pagava puntualmente entro le ventiquattr'ore il mio debito; ma se vincevo pochi lo pagavano a me. - Possibile? - Possibilissimo mio caro Enrico. Credilo pure; la gente che paga i debiti di giuoco non è a questo mondo che un decimo di quella che non li paga. Questa almeno è la statistica della mia dolorosa esperienza! Non so se gli altri saranno stati più fortunati di me nella loro vita. Ma è così! Ora capisci bene. Se tu quando perdi sei certo di dover pagare, e quando vinci sei certo di non essere pagato che dieci volte su cento... la cosa diventa molto seria. Sarebbe necessario perchè tu restassi almeno in pace che vincessi novantacinque volte su cento; il che assolutamente non è possibile avvenga. Hai fatto bene dunque a promettermi che non giuocherai più. E qui si mise a parlargli di tutt'altro. Il marchese artista nell'anima tempestava Enrico di domande sulla sua posizione, sulla pittura, sulle sue idee circa le due scuole, sulle sue speranze di farsi un nome, sull'avvenire sognato. Enrico s'accalorò in quel dialogo. Il marchese godeva enormemente a sentirlo parlare così modesto, così schietto, così sincero e così pieno di illusioni. - Ma non credi tu - gli disse a un certo punto - che il positivismo, il realismo e la democrazia abbiano a uccidere l'arte? - Ah, marchese, al contrario! L'esaltazione del popolo sarà l'esaltazione dell'arte. Il marchese crollava il capo sorridendo. - Ah, entusiaste! - Non lo crede lei? - Io no davvero, - rispondeva il marchese. - Il popolo, e per popolo m'intendo quella parte della popolazione d'un paese che si stacca dall'aristocrazia illuminata e dalla borghesia ricca e studiosa, il popolo non sente bisogno dell'arte, nè la capisce. Mancando assolutamente di sentimento estetico come vorresti tu ch'essa amasse il bello nelle sue manifestazioni? - Eppure se c'è un'esposizione di quadri e di statue vi accorre...! - Il popolo no, non se ne cura. La statistica della affluenza del pubblico alle esposizioni parla chiaro. In ogni modo anche i pochi che ci vanno non vi sono attirati dal bisogno di ammirare il bello, ma dalla curiosità di veder nei quadri dei fatti interessanti, allegri o pietosi. Il quadro sarà pessimo come arte, ma rappresenterà qualche fatto ben volgare, ben chiaro, che squadri al popolo? Sarà il prediletto da lui. Esso non s'accorgerà che artisticamente parlando il quadro è uno sgorbio, un abbominio. Il popolo non monta verso l'arte se non quando l'arte discende giù fino al volgo. E il naturalismo stesso, l'impressionalismo, di cui tu mio caro Enrico, ti dichiari seguace e cultore, non è forse l'arte che abdica in favore dei grossi istinti del volgo? Enrico era impaziente di andar a pagare i debiti fatti la sera prima. Erano i primi debiti di sua vita e gli rimordevano la coscienza. Diede dunque ragione al marchese e se ne andò ringraziandolo di nuovo con espansione. Prima di spiccarsi dal suo vecchio amico, questi aveva cavato da una cartella che stava sulla tavola un foglio di carta e accostando alla mano di Enrico il calamaio gli aveva detto: - Scrivimi qui la ricevuta e la promessa di non più giuocare. Enrico si dichiarò debitore delle tremila lire al marchese e promise nella ricevuta di restituirgliele quando fosse andato in possesso della propria sostanza. Della mesata insufficiente fissatagli dal tutore non si fiatò. Non si ricordò di parlarne. Il marchese non gli aveva neppur lasciato il tempo di spiegare la cosa, e quando Enrico s'era trovato esaudito, col danaro in mano, s'era scordato di entrar in quell'argomento. Enrico corse a casa di Sappia, a cui raccontò il rabbuffo e la crudeltà del tutore e il bel tratto del marchese d'Arco. Volle andar egli stesso nella bottega della Romea, a portarle i suoi trecento franchi, che gli bruciavan le dita e dovette spenderne un'altra quarantina di giunta, in bottiglie di dichampagne ch'essa gli appioppò senza che lui, timido ancora, osasse di rifiutarle. Poi, con Sappia, ritornò a casa. - Parlerò io al tuo signor zio antidiluviano - aveva sclamato il Sappia quando Enrico gli aveva raccontato del fiero rabbuffo avutone. - Lui li chiama minuti piaceri Altro che minuti! Impercettibili, microscopici... piaceri! Il notaio a stento acconsentì di portar l'assegno di Enrico da duecentocinquanta a trecento franchi al mese. - Domando io caro signor marchese - gli disse congedandolo, e colla più profonda convinzione di dir cosa sensata ed onesta - domando io come potrà mai arrivare a spendere più di otto franchi al giorno fuori di casa? - Nei mesi di trentun giorni e negli anni bisestili - disse il Sappia con una finissima ironia che il tutore si guardò bene dal notare - gli otto franchi al giorno sì può calcolare che diventino soltanto sette e novantadue centesimi. - Ho fatto un buco nell'acqua - diss'egli tornato che fu all'Enrico, il quale non s'aspettava nemmeno i cinquanta franchi d'aumento - Bisogna che tu faccia la lite al testamento di tuo padre, che ti ha voluto tener sotto a quel mastodente fino ai ventiquattr'anni; se no finirai, col rovinarti moralmente e materialmente, te lo dico io! - No - rispose Enrico. - Prima di tutto io non vorrei fare questa lite, neppure nel caso che non offendessi l'ultima volontà e la memoria di mio padre. In ogni modo, dato che il tribunale mi desse torto, io sarei perfettamente rovinato, giacchè avrei fatta opposizione; e tutta la sostanza andrebbe ai gesuiti che stanno aspettando al varco la preda. È meglio ch'io mi stia ai primi danni. Così erano passati circa due anni, e a dispetto dei trecento franchi al mese, Enrico O'Stiary era diventato uno dei giovani più brillanti di Milano. Cavalcate, scarrozzate, scherma, cene, club, ballerine, e pur troppo di nuovo, il giuoco - nel quale era ricascato con vivo, quantunque inutile rammarico, con profondo, ma pur vano rimorso - erano le occupazioni delle sue giornate e delle sue notti. E la povera Elisa trascurata, infelice, ma orgogliosa nel suo dolore s'era fatta intanto donna. Il tutore non badava più all'Enrico. Disperava di cambiargli la testa. "Chiudeva un occhio per non inquietarsi" come diceva lui. Il marchese d'Arco dal canto suo, il quale vedeva il suo giovane amico far la vita del gentiluomo, e non s'era curato mai di sapere quale somma il tutore gli avesse fissato pei minuti piaceri, era ben lontano dall'idea ch'egli si stesse rovinando a bagno maria. Egli poi non sospettava che Enrico si fosse rimesso a giuocare. Gli sarebbe parso fargli uno sfregio pensando che un'O'Stiary avesse potuto mancare così alla parola d'onore. Quando si trovavano parlavano d'arte, di cavalli, di politica, e le miserie umane le lasciavano da parte. Enrico dal canto suo, si guardò bene dal ricorrere un'altra volta al marchese per denaro, e lo schivava come un rimorso. Il Sappia pensava largamente a tutto. Suo padre e sua madre gliene davano in una certa abbondanza, ed egli aveva un credito grande presso gli usurai! E anche lui - lo sciagurato - faceva delle orribili operazioni a babbo morto! Ma era venuto un bel giorno che anche il Sappia erasi trovato nella necessità di chiedere danaro ad Enrico. Il povero giovine gli avrebbe data la vita, ma non aveva che i suoi duecento franchi al mese. Risolse di farla finita col tutore; di parlargli fuor dei denti, di ottenere insomma quello a cui gli pareva di aver diritto. Ci pensò un paio d'ore, poi piuttosto che aver a fare con don Ignazio si aperse alla balia. La balia gli aveva detto di avere dodicimila lire alla Cassa di risparmio. Non lasciò che l'Enrico terminasse la frase; corse per quanto glielo permettevano i settantanni nella sua camera, e portò al contino le dodicimila lire in tre bei libretti puliti e fiammanti ch'era un piacere a vederli. - Ma no, non voglio, non voglio - diceva Enrico colle lagrime agli occhi. La balia alzò la destra, e con una specie di entusiasmo, sclamò: - Ma non è forse roba sua codesta? Quale uso più degno potrei fare di questo danaro... io che non ho più nessuno al mondo? Pochi mesi dopo convenne di nuovo rivolgersi altrove. Il tutore, quand'ebbe messa da parte del tutto la speranza di vedere il conte far giudizio, pensando al giorno ormai vicino in cui gli sarebbe toccato rassegnargli la sostanza taglieggiata e forse perduta, intieramente aveva cominciato a cercarsi dattorno un altro sposo per la sua Elisa, che già aveva trascorso il diciottesimo anno. Egli comandò a sua moglie di far di tutto per disingannarla nel caso ch'ella nutrisse ancora qualche speranza di diventare la moglie del contino e si mise a sparlare a tavola del suo pupillo e a tentar di metterglielo in mala vista. Ma egli non pensava che dieci anni di pensieri e d'illusioni accarezzate non si distruggono in un giorno! L'uomo adatto, del resto non tardò a presentarglisi sotto la miglior luce del mondo. Era Aldo Rubieri - che s'era fatto un bel nome e una bella sostanza, e che quantunque artista, parve al babbo un modello di uomo serio e un marito esemplare. Chi mai avrebbe detto a Enrico O'Stiary che quei cinquanta franchi da lui con lieto animo versati nella borsa di Luisa a titolo di beneficenza la sera d'un giorno d'autunno del 1866, dovessero essere il primo anello di una lunga e disastrosa catena di sagrificî, di spese, di perdite, di debiti, di rovesci, che lo dovevano condurre tre anni dopo, quando egli era lì lì per aver la piena disponibilità della propria sostanza, ad essere un uomo rovinato? Ma sopratutto chi gli avrebbe detto che la causa principale, la causa effettiva del suo rovescio, non doveva essere nè l'amico Sappia, non doveva essere la Luisa, non doveva essere il giuoco, ma piuttosto la gretta protervia del suo tutore, che aveva negato fin dal principio di fissargli quel tanto, che nella sua posizione era necessario?

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Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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Faldella, Giovanni 3 occorrenze

Per esempio, al Falcone , i camerieri portano ancora il berretto bianco, e la giacchetta bianca da cuochi, costume che credo abbiano già smesso persino i tavoleggianti della Croce Rossa al Santuario di Oropa. Per descrivere l'osteria di cucina, in cui sono entrato io, sento il bisogno di ritirare indietro la sedia dal tavolo, come dinanzi alla memoria di un raccapriccio e di un ribrezzo. Al fondo di uno stanzone unico, la lucciola di un lumicino ardeva davanti a un quadretto della Madonna; perché la Madonna a Roma la ficcano nelle osterie, nei caffè, in tutti i luoghi profani. Per l'aria circolava un tanfo fra l'odore delle pietanze e quello dell'acquaio. Le panche, le tavole mandavano un rumore, un sentore di pece, di tarli e di scricchiolii. Per dipingere tutto ciò si richiederebbe il pennello dell'ungherese Munckacsy. Il peggio era la compagnia. Fra male gatte era capitato il sorcio. Io, malgrado la mia faccia di sindaco galantuomo, correva rischio di parere alle guardie di pubblica sicurezza un reclutante di ladruncoli, e ai ladruncoli un agente di pubblica sicurezza travestito. Mi portano davanti un piatto di maccheroni intabaccati di formaggio biondo. Attraverso al fumo dei maccheroni e alle file di formaggio, vidi passare una forma non di cacio parmigiano, ma una forma muliebre. Non potei capire, se era una donna davvero, o un fantasma intellettuale, una di quelle spalle che Raffaello e Guido Reni mettono alle loro Madonne. Dopo i maccheroni mi portarono un pezzo di cinghiale. Quanti peli aveva e quanto lunghi! Ce n'era per una chioma di Assalonne. Frammezzo a quelle setole io vidi assiso di rimpetto a me un giovane ciociaro. Aveva una faccia gialla, di quelle che escono dalla porta degli ospedali e delle prigioni. In testa un cappello puntato, floscio e leggiero. E pure chi sa quale fatica, quanto rompimento d'ozio doveva costare a quel giovane il levare il suo cappello! Egli aveva le braccia allungate sul desco e le mani strette contro il petto sotto le pieghe del mantello, che gli avvoltolavano il collo e il busto. Sotto il tavolo gli si vedevano i piedi infingardamente immobili, i quali dovevano lasciare un'impronta sul pavimento allo stesso modo che la lasciano sull'asfalto di un terrazzo i vasi dei fiori con la loro giacitura fissa. Egli aveva mangiato, e non aveva di che pagare. Il garzone dell'osteria, un bel fusto di giovane romanesco, con il viso condito di quella malizia birbona che salta fuori dai sonetti del Belli, ronzava intorno a lui, e gli domandava di tanto in tanto: - E li cutrini? Il ciociaro rispondeva che qualcheduno o qualcheduna doveva venire a liberarlo e a pagare per lui. Intanto egli rimaneva ostaggio. Le mosche volavano ad infastidirlo, cercando di appiccicarsi alla sua faccia gialla da ammalato. Ed egli non aveva l'energia morale, e quasi nemmanco la volontà di muovere le mani per pararsele. Dimorava immobile nella sua positura e nella sua ignavia da modello. Solo oscillava, dondolava leggermente la testa dispettosa, sospettosa e dolorosa. E il liberatore o la liberatrice tardavano a venire. Il povero ostaggio boccheggiava per suo consumo delle parole di dolore selvaggio. Il garzone seguitava a domandargli di tanto in tanto con un sorriso: - E li cutrini? Sulla fronte del ciociaro passavano delle paure, delle lagrime, e forse anche delle stille di odio e di vendetta. Il vino padronale dell'osteria era buono; onde io ne domandai dell'altro per accompagnare un pezzo di cacio cavallo; vindicta fratrum , vendetta dei frati, i quali si attaccano al formaggio quando non hanno potuto fare un buon striscio di pietanze. Qualche mia lettrice, misericordiosa del ciociaro e della mia anima, dirà che avrei dovuto pagare subito io lo scotto per il poveretto e liberarlo. Veramente io ci aveva pensato: ma certe volte un'opera buona, benché voluta, è ritardata od anche impedita dal rispetto umano, dalla paura di fare una cosa secondo la rettorica che non si usa più, e contraria all'economia politica, che si usa troppo e proibisce l'elemosina - eccettuata l'economia politica del senatore Lampertico. E poi qualcheduno o qualcheduna doveva venire in aiuto di quel ciociaro. Uscii dall'osteria, quasi dicendo come il Nerone del Cossa: "Mi piace la taverna!". Come è diversa l'umanità, quando uno s'alza da tavola, e dal vino padronale! L'umanità balena più nitida, più lucente. Eppure, proferendo l'esclamazione neroniana, io mi sentiva contento di essermi distaccato dalla pancaccia di quell'osteria. Dimenticava volentieri la lanterna magica di crucci, che passavano sulla fronte del ciociaro ostaggio; e richiamavo nella mente le ideine e le figurine più gentili che mi erano capitate dinanzi nella vita. Ed andavo a rinvangare le più lontane, come giocando alla tombola si va a scovare nel fondo della borsa il numero più rincantucciato. Mi fermai ad un tratto perché la vista di una donna mi diede una emozione . Si stanno degli anni, senza che si creda tampoco che la vista di una donna possa commuovere. Io nell'anno passato aveva provato delle forti commozioni, per esempio, quando scadetti da consigliere e sentii che un forte partito di malcontenti mi voleva far saltare. E poi provai una famosa agitazione elettorale nell'ultima nomina di deputato. Io portava il conte Zampa contro l'avvocato Mastica: i due partiti facevano a pigliarsi di mano gli omnibus ; ed io rimasi una mezza giornata, una lunga mezza giornata con il raccapriccio di non aver omnibus sufficienti per i miei elettori. Ma niuna agitazione è paragonabile a quella che mi diede la vista di quella donna. Mi misi i due pollici nelle aperture del panciotto sotto le ascelle, e la osservai. Era la stessa donna miracolosa, che mi sono sentito passare dinanzi all'Osteria di cucina fra il fumo dei maccheroni e le file del formaggio.

Dai finestrini del carrozzone vedeva i rami degli alberi brulli come fili di ferro; vedeva i passeri scappare dagli alberi come foglie secche; vedeva i solchi dei campi, cascanti, rassegnati, logori, come solchi, che abbiano fatto il loro tempo: la terra quasi tutta color tabacco, con qualche po' di grigio e giallo marcio nei rimasugli delle stoppie, e con qualche scampolo di foglia o d'erba verde. Era un verde d'insalata, un verde della misericordia, un verde raggrinzito; inumidito, dimenticato - mortificato di trovarsi lì in quella stagione. La terra taceva e stava raccolta come dopo una sconfitta. Eppure quando la terra è ravvolta nel silenzio e nell'umiltà dell'inverno, essa, la modesta e brava donna, ci prepara le galanterie della vegetazione avvenire. Oh! io preferisco il modotenendi della signora terra, che parla poco ed opera assai, a quello dei collaboratori della Sciarpa Rossa, il poco lodato giornale di opposizione del mio mandamento, i quali si fanno sentire tutto il giorno a chiacchierare e a scribacchiare, e poi non sanno far altro di più importante, che guardare inutilmente l'albergatrice della Bella Venezia. Io non so passare davanti Milano senza fermarmici. Mi tira la faccia meneghina di quella città: mi piace sentire quel linguaggio aperto, spaccato, rovesciato, simile a un arco, a un popone maturo, pieno di accenti gravi e circonflessi. Feci pertanto una tappa a Milano; dove gli affreschi delle nuove palazzine hanno finzioni traditrici di ombre e di prospettive, da ogni liquorista si può trovare un poeta, o un romanziere o un artista che anderà ai posteri, e dove però le insegne e le iscrizioni pubbliche hanno una libertà di eleganza tutta loro propria; verbigrazia: Sostraio di pietre. - È proibito il passaggio a cavalli, muli, e ruotanti di ogni specie; - e dove sulle portiere degli avvocati è scritto ingenuamente: Avanti! Mentre guardavo ammirato i nuovi portici che girano intorno alla Galleria Vittorio Emanuele, ed i nuovi negozii, in cui le lastre di cristallo sfolgorano e riescono una sfida e una sgomento alle borse, il segretario comunale di Monticello, che volle accompagnarmi nel viaggio, guardava il Duomo. E sentite che bestemmia di idea gli fermentò nella mente, ideaccia, che egli non ebbe paura di palesarmi: - Guardi, signor sindaco! Dopo i palazzi, i portici, e i negozi nuovi, oh guardi il Duomo! Come diventa mai vecchio e imbecille! Una volta pareva una pineta di marmo, in cui i pini avessero un po' di vita e si movessero. Invece adesso il Duomo se ne sta lì rimminchionito, tutto in un mucchio, in un gruppo, carico di gromma e di ruggine. Pare un istrice raggomitolato, pieno di sospetti e di invidia per la Galleria Nuova, e per la sua cupola giovane di vetro, che di sera illumina persino il cielo, mentre esso, il vecchio, si accorge di spegnersi. Voglia sentire, signor sindaco, una mia profezia. Nella stessa maniera che adesso hanno atterrato e seguitano a buttar giù delle case, ed allargano la piazza per fare piacere al Duomo, scommetto che i posteri finiranno con buttare giù il Duomo per rendere più larga e più pulita la piazza! Io tappai con la mano la bocca al segretario, e minacciai di sospenderlo, se avesse seguitato a bestemmiare. Sulla piazza del Duomo si diroccava un vecchio casamento. Certe camere mostravano bruscamente il loro spaccato. Oh! come mi faceva pena vedere la tappezzeria o il camino di una stanzuccia, destinati al raccoglimento, alle conversazioni, al pranzo e ai misteri di una famiglia, vederli, dico, esposti al pubblico della gente, del sole e delle intemperie. E nel punto di spazio occupato da quel piano superiore, che si incammina a scomparire, forse non pranzerà e non chiacchiererà più nessuno! Da Milano andammo difilati a Venezia.

Chi sa che i bersaglieri e le Belle Gigogin dei nostri artisti di adesso, fra qualche paio di centinaia di anni, non abbiano a far gola alle Prussie e alle Russie, e servano a pagare i nuovi debiti, che allora avrà lo Stato! Io avrei fulminato, avrei incendiato quell'Erostrato di un segretario comunale: ma per non fare una scena, che chiamasse l'intervento di una guardia civica, mi contentai di piantarlo su due piedi e di spedirlo a far colazione da solo.

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