Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbiano

Numero di risultati: 12 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266384
Boito, Camillo 8 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Il talare rasson e il camilaucio non sembra che abbiano altro fine all’infuori del contrastare col bianco della fustanella, coi berretti e i fessi e i giubbetti e i calzari tutti arricchiti di ricami e di ori. Si ripensava in faccia a quelle tele fiorite la strofa che comincia: Oro ed argento fino e cocco e Macca — Smeraldo, indico legno.....

Pagina 101

Non sappiamo davvero come il Winckelmann prima ed il Lessing poi abbiano potuto vedere sul volto e in tutto il corpo di Laocoonte un’anima grande e imperturbabile. Que’due dotti e i loro tanti seguaci confusero i caratteri della scultura eginetica e fidiaca coi caratteri della scultura greca, che decadeva: decadenza sublime, ma nella quale la divina serenità della precedente arte s’intorbida, il purissimo candore si va macchiando, e la misura dei moti e degli affetti perdendo. Il Laocoonte somiglia ai fregi del Partenone e al timpano del tempio di Egina, come le statue del Bernini somigliano a quelle del Ghiberti e del Donatello: il Laocoonte è barocco. Ci rammentiamo di avere letto un libro francese del dottore Duchenne, in cui, con l’aiuto di ottantaquattro tavole fotografiche, era studiata l'applicazione del meccanismo della fisonomia umana o dell’analisi elettro-fisiologica nell’espressione delle passioni alla pratica delle arti plastiche. L’autore censurava il Laocoonte; ma perchè non abbiamo nella memoria le ragioni scientifiche di quelle censure e ci manca il tempo di consultare il volume, il lettore, se gli preme, cerchi da sè. Ad ogni modo, almeno nell’apparenza, il Laocoonte è modellato con una verità e con una vigoria ammirabili: e intendiamo la sola figura di lui, perchè nei figliuoli è un altro paio di maniche. In essi la tradizione dell’arte greca pare scrupolosamente seguita: codesti ometti, con le teste piccole e le membra sottili, stanno fra le anella degli spaventosi serpenti in attitudine quieta e aggraziata. Ne’ fanciulli è ancora idealizzatala eleganza tranquilla del corpo umano, mentre nel padre le cautele dell’arte lasciano luogo alla veemenza della espressione. Il difetto capitale del famoso gruppo sta dunque nella mancanza di unità di stile: fosse tutto barocco sarebbe tutto stupendo.

Pagina 137

Le sue mezze figure, grandi al vero, di donna paiono castellane sentimentali e candide, prima che abbiano trovato il loro menestrello. Nel bosco delle Cascine immagina un uomo disteso con la faccia a terra, morto, e una pistola vicina; poi lungo l’Arno, con un bel fondo poetico, due giovani signore, tanto carine, che leggono insieme allegramente una lettera.

Pagina 197

Artefici e botteghe non bastano; ci bisognano centri di produzione, che si giovino delle tradizioni locali, abbiano un carattere proprio, raccolgano le forze di molti, e, non mutando a ogni tratto, si perfezionino via via, a poco a poco accrescendosi e sviluppandosi, come fanno appunto il Salviati e il Ginori. La scuola, perchè sia scuola davvero, ha da essere tenace, ma nello stesso tempo progressiva. Le filigrane di Genova, le incastonature di Firenze, i mosaichetti di Roma, le lave e i coralli di Napoli, i pizzi di Burano sono industrie, che possono essere o possono diventare floride commercialmente, ma che non bastano a formare, sinché giacciano nelle loro pigre consuetudini, un centro vivo d’arte industriale.

Pagina 248

Mentre nel quadro dell'Esopo niuno può chiedere senza sembrare un pedante assai goffo, dove la più parte delle figure abbiano le gambe e come sieno messe a giacere; nell’altro, se uno sgabello sta qualche centimetro più in là del punto in cui forse dovrebbe stare, se il pavimento ha in un certo canto una intonazione un po’freddina rispetto al resto della scala cromatica, apriti cielo. Ma lo stesso è nella vita sociale: ecco una dama di specchiata virtù, che un giorno stringe la mano a un giovinotto ridendo, e gli altri a mormorare: ahi, ahi, ci siamo! e l’uomo che invece n’ha fatte di tutte quante le risme, getta un soldo di elemosina un dì per istorditezza o per boria, e la gente, quasi con le lagrime agli occhi, a esclamare: oh, il buon cuore, il buon cuore! Insomma, vogliamo metterci tutti e in ogni cosa un poco del nostro caro cervello, trovare il bene nel male, il male nel bene: ed ecco perchè la giustizia nella società civile e la critica nell’arte son cose piene di sincerissima falsità.

Pagina 283

Non è egli probabile che, lasciando dall’un dei lati le uggie dell’architettura e della prospettiva, abbiano inteso senz’altro a compiere delle figure che, vedute nello studio, paressero buone?

Pagina 310

Peccato che alcuni degli ottimi nostri paesisti abbiano esposto un lavoro per uno e neanche dei più notevoli; peccato che altri non abbiano esposto nulla! L’Italia avrebbe avuto a Vienna, in grazia del paesaggio, quella lode dagli uomini colti, della quale per le figure dipinte non è stata creduta degna.

Pagina 380

Pare che le cose perfette abbiano quasi del tondo e dell'untuoso: non si sa da che parte pigliarle: si apprezzano, si lodano e si dimenticano; mentre un difetto è come il manico, col quale la bellezza stessa si afferra più facilmente. Le statue del Bernini, stupende ad ogni modo, si ammirano forse perchè i loro muscoli, sono troppo gonfii, i loro panni troppo svolazzanti e le loro movenze troppo sgangherate; alle statue del Donatello ci si sente forse inclinati in grazia della loro secchezza, a quelle del Canova in grazia forse della loro mellifluità, e a quelle di alcuni realisti d’oggi in grazia forse delle rughe e delle grinze, che si contano sulla loro epidermide. Volevamo aggiungere il fortunato difetto dei Greci, e non sappiamo trovarlo. Ma insomma, salvo questa benedetta arte greca, la quale, mentre noi si afferma pedantescamente che il bello non è assoluto, mentre noi si grida cinicamente che non vi è nulla di eterno sulla terra mortale, ci smentisce col suo sereno sorriso da Dea, l’arte ha nello stesso suo squilibrio una cagione di forza e di novità.

Pagina 61

Racconti 1

662677
Capuana, Luigi 4 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

. - È poi vero che i leoni abbiano la febbre? - Dicono. Ma chi gli ha tastato il polso? ... E siete venuta. Su dunque; fatemi arrabbiare, fatemi ruggire. Di nuovo quel dente? - Sí, torna a molestarmi. - Dente benedetto, se gli debbo l'incredibile fortuna d'una vostra prima visita! - Prima ed ultima. - Perché? - Parto per Napoli. - Lo dite in un modo! ... - Il ministro ha avuto l'idea di traslocare colà mio marito. - In questo caso, il ministro propone, e la donna dispone. - Non ho nessuna ragione per non andare. - E me? - Voi non siete una ragione. Ci amiamo forse? Di tanto in tanto, avete il capriccio o l'amabilità di ripetermelo; io ho sempre il buon senso di non credervi punto. Voi siete cosí scettico, cosí blasé, da non avervi a male, se non vi credo; ed io sono cosí buona da continuare a darvi la replica nella puerile commediola che vi piace di rappresentare. La cosa non può avere gravi conseguenze né per voi, né per me. La vita, per noi venuti qui da poco tempo, è tanto noiosa, che fin questa sciocchezza giova a dist rarci. Perché dovremmo privarcene? Ora che lascio Roma, cercherete un altro svago, magari piú concreto; non penerete molto a trovarlo. Io, io ... oh, io potrò farne anche a meno! So l'arte di annoiarmi, da un pezzo. - Vi guardo a bocca aperta. - Potete chiuderla. Ho detto. - È impossibile che siate venuta qui unicamente per spiattellarmi sul viso certe cose somiglianti a impertinenze. Vi assicuro che un'impertinenza non cessa d'esser tale uscendo dalla piú bella bocca della cristianità, quale io giudico la vostra. Dunque quelle parole hanno un senso nascosto. Sarò sincero; anche con tutt'e due i piedi in ottimo stato, non avrei mai tanto talento di ermeneutica da poter tentare la interpretazione del grazioso indovinello da voi recitato con l'aria veramente incantevole d'un'at trice consumata. Siate compiacente, aiutatemi. Voi vorreste andare a Napoli. - Non son io che voglio andarci, è il ministro che manda colà mio marito. La moglie, lo sapete, deve seguire il marito; è testuale. - Voi vorreste andare a Napoli. Perché? - Giacché volete saperlo, corro dietro a una avventura ... romanticissíma. Amo, e mi credo amata. Tegolo sulla testa, fulmine a ciel sereno! Il famoso coup de foudre! ...? ... Inglese; biondo, bello, fatale, come lord Byron che non ho avuto l'onore di conoscere. Abbiamo flirtato ... Si dice? - Se vi fa comodo. Mi prendete forse per l'Accademia della Crusca? - Abbiamo flirtato una settimana per le gallerie e per le chiese, fingendo di ammirare Raffaello e il Correggio, la Cappella Sistina e San Paolo, dandoci degli appuntamenti, senz'aver l'aria di darceli - un incanto! - e trovandoci insieme il giorno dopo, esatti fino a un minuto. Egli deve avermi scambiata per una principessa; niente di male: qui sono tutte principesse. Io gli ho fatto supporre che lo credo un principe del sangue, viaggiante in incognito. Se poi sarà un fabbricante di tele da vele, di rasoi o di saponetti di glicerina, non importa. E siccome mi ha detto che ... la sua famiglia starà sei mesi a Napoli ... perché una sorella di lui è mezza tisica, cosí ... - Tutto questo, scusate, mi conferma nella mia vecchia opinione che le donne, in generale, non abbiano molta fantasia, e le donne di spirito, in particolare, per gastigo della loro malignità, ne manchino affatto. - Con voi non si può ragionare. - Sragioniamo; sarà meglio. Malato, con un piede all'altro mondo, nel mondo della bambagia e delle fasciature, sono dispostissimo a dire la verità, e nient'altro che la verità. Non vi sembra che se cominciassimo ad amarci sul serio o, piuttosto, a persuaderci che ci amiamo sul serio, sarebbe una bella cosa? - Domandatelo a mio marito. - Scommetto che s'egli sapesse che stiamo ripetendoci da un anno questa storia che non ci vogliamo bene, che non possiamo amarci, voi perché non mi credete, io perché non ho ricevuto da voi nessun segno che possa permettermi la piú piccola illusione ... - Che cosa ci avete perduto? - Il ranno e il sapone - Parlate da lavandaio. Oh! Il mio lord non si permetterebbe mai simili espressioni. - Non m'interrompete. Credete, dunque, che se vostro marito conoscesse la nostra suprema stupidaggine, non proverebbe un sentimento di profondo disprezzo per voi e per me? - Mio marito è uomo di buon senso, uomo positivo. Egli suol dire che le peggiori sciocchezze sono le inutili. Amandoci sul serio, ne commetteremmo una di questo genere. A che scopo? Volete che v'enumeri i vantaggi della nostra condizione? Facendo le viste d'amarci, abbiamo tutti i benefizi dell'amore ... - Tutti? Oh no! Lasciatemi protestare. - ... senza nessuno degl'inconvenienti che l'amore per davvero ci getterebbe fra' piedi. Mi avete scritto bellissime lettere; le pubblicherò, dopo la vostra morte, e vi faranno onore; non v'adulo. Io v'ho risposto con altre ... passabili, di una discreta ortografia. Non le veggo fra queste. - Gli archivi ricevono unicamente le pratiche espletate. - Sta bene; grazie. E in questo modo siamo scampati dal pericolo d'innamorarci, voi chi sa di quale strega; io chi sa di qual figuro. I veri innamorati scelgono sempre il peggio. - Perché non sono il peggio? Eppure mi credevo abbastanza mostruoso, in tutti i sensi, da potere far perdere la testa alla donna piú savia! - Ve lo ripeto: diventate vano ... Le due e mezzo! Ho appena un quarto d'ora da concedervi. Se credete che sia venuta qui senza commozione ... - Possibile! ... Quale? - Quella di fare una cosa che non avrei dovuto, col pericolo ... - Quasi in questo punto di città non si fosse piú sicuri che nella campagna romana! - Se poi credete che io sia rimasta qui un quarto d'ora senza provare il rimorso ... - Di che mai? - D'aver interrotto il riordinamento del vostro piccolo archivio del cuore. Oh! Mi vi siete rivelato sotto un aspetto inatteso. La vostra meravigliosa sentimentalità - chi poteva supporlo? - mi sbalordisce, mi turba. Avete pianto, riprendendo in mano quei fiori secchi? Le vostre mani hanno tremato, riaprendo le lettere ingiallite delle vostre signore di tempo fa? Diciamo signore, cosí, in blocco. Non sono proprio sicura che qualche bella cameriera non si sia introdotta fra esse, in un momento di vostra dist razione. E farete dei versi su questo soggetto? Siete capace di tutto. Ne avete fatti per me, una sola volta, sei mesi addietro. Allora forse pensavate che, per farsi credere innamorato davvero, bisognava mostrarsi completamente ridicolo. Ora, con la storta a un piede e il piccolo archivio del cuore disperso sul tavolino, siete sublime a dirittura. Dovreste farvi fotografare cosí. - Invece di muovervi il riso, tutto questo dovrebbe provarvi che ogni scettico ha il suo quarto d'ora di fede, come ogni credente il suo quarto d'ora di scetticismo; dovrebbe provarvi che quando un uomo del mio carattere arriva fino al punto di rimescolare con triste compiacenza le poche ceneri del suo passato, vuol dire che egli non ha nulla nel presente da eccitargli l'immaginazione, da fargli battere il cuore; e che il presente gli appare cosí squallido, cosí doloroso da spingerlo a voltarsi addietro, ve rso l'ideale; perché, se non lo sapete, l'ideale è dietro o davanti di noi; e noi non facciamo altro, in tutta la vita, che rimpiangerlo o corrergli appresso, senza chiapparlo mai. - Continuate. Mi sento intenerire; preparo il fazzoletto. - Voi tentate di far la brava ... - No; tento di restar seria, per non darvi una mortificazione ... Altri otto minuti. Vorreste intanto farmi il piacere di guidarmi attraverso il vostro piccolo archivio del cuore? Dev'essere interessantissimo. - Siete in vena di ridere ... Ma, badate: parlo con tutta la serietà possibile! Non vi ho mai detto con tanta sincerità, con tanta profonda commozione come in questo momento ... - Ricominciate? - Giacché siete in vena di ridere, ridete pure a spese delle mie illusioni giovanili, delle ardenti passioni dei miei vent'anni, dei miei amori fragili e passeggieri ... che non sono stati i peggiori. - Alla buon'ora! - Ludovico rovistò fra le carte e gli oggetti sparsi sul tavolino e, scelti alcuni fiori secchi legati con un rozzo filo bianco, risprese in tono scherzoso: - Fiori di campo. Mazzolino preistorico; 1866@, 1866, data approssimativa. Allora amavo il rustico, l'ideale dell'ideale, la figlia del mio fattore. Tutte le belle mani di contesse, di marchese, di principesse, di semplici signore, strette e baciate dopo, non mi sono parse belle quanto quelle mani grassotte, gonfie pei geloni, e che facevano la calza. Purità, il tuo nome è Sedici Anni! Ogni volta che sento il profumo del fieno ... - Vi vien la voglia di mettervi all'erba? - Signora, rispettate almeno l'innocenza! - E rifrugato, continuò: - Età della pietra: lettera di quattro pagine, geroglifici primitivi. Non ne capisco piú niente, tranne che la sartina finiva con abbraccarmi e darmi mille bachi.? - Che non fecero il bozzolo? - Altro! Il mio primo rimorso. Se scriverò la mia vita ... - Leggerò allora questo capitolo, e procurerò di rabbrividire. Su, su, entriamo finalmente nei tempi moderni. - La mia prima signora! - Autentica? - Autenticissima. Aveva un solo difetto: si metteva sempre a piangere, dopo. Non sapeva persuadersi, diceva, con che cuore poteva tradire un marito che l'adorava! ... Cosa molto lusinghiera per me, ma che, ripetuta, mi seccava. E il suo tradimento ... - Vi tradí? - Per veder di capire, con un altro, in che modo ella poteva tradire il marito che l'adorava! ... Fui cosí bestia, cara amica, da provocare il mio rivale e buscarmi un bel colpo di punta al braccio, guaribile in dieci giorni. Questa è la lettera di congedo. Monumentale. "Ti amo troppo ... Non ci vedremo piú! ... Lasciami ai miei rimorsi! Clelia." È il nome della sua cameriera: si firmava cosí per cautela. - E quel porte-bonheur? - Modernissimo, tutto quel che ci può essere di piú moderno. L'epistolario, in tre volumi, fu restituito all'autrice, meno queste pagine interessanti e questo gingillo che ha aderito al mio polso sette mesi, notte e giorno, testimone irrefragabile d'una passione degna di miglior sorte. Giacché questa volta fui io che presi la rivincita su la volubilità femminile, tradii per tradire. Il cattivo esempio della mia prima signora mi aveva cosí pervertito, che restai sordo ai pianti, alle imprecazioni, alle lette re di questa natura: "Mostro! Quel ch'io soffro, non lo saprete mai!" Infatti, non l'ho piú rivista ... Era bella, proprio. E affettuosissima: troppo. L'ho rimpianta, ma non lo ha saputo mai. - Pari e patta. - Nastro contemporaneo. Una marchesa, vero genio epistolare: già voi altre donne siete tutte tante Sévigné inedite. Queste lettere, salvate a stento dal terribile naufragio della nostra passione, potrebbero, in mancanza di altre, farne fede. "M'hai lasciata or ora. Stanca delle divine ebbrezze ..." Voi non amate il realismo; salto qualche frase. "Non posso far a meno di scriverti, di comunicarti le sensazioni che mi conturbano ancora ..." Salto, salto ... "Ho aperto la finestra. Che silenzio! Che c alma! Gli alberi del giardino ..." Descrizione, credetemi, che il Fogazzaro non sdegnerebbe per sua. "Gli alberi fremono d'amore sotto i pallidi raggi della luna. I fiori, mezzi addormentati, si bisbigliano, da un'aiuola all'altra, le loro confidenze ... Un cane abbaia in lontananza ..." Due pagine! ... "In questo momento tu, forse, dormi. Oh, se sognassi di me!" Glielo confessai il giorno dopo: a mezzogiorno dormivo ancora, ma senza sognare. Quando amo in una certa maniera, dormo come un ghiro ... Andate via? - Sono edificata a bastanza! ... Voi avete tre o quattro mie lettere, insignificanti. Passatele pure agli archivi ... Credo che non farete cosí facilmente ridere con esse un'altra signora. - Ah! ... Voi dunque supponete ...? - Non suppongo nulla; giudico. Siete mostruoso davvero. Stavo per lasciarmi ingannare anch'io da codesta vernice di scetticismo che, forse, poteva nascondere un cuore buono e gentile ... Mi avete fatto male, molto male! ... Lo scetticismo è una malattia di cui si può guarire; ma il cinismo ... - Sono cinico? ... Io? ... - Se c'è una parola che significhi qualcosa di peggio, suggeritemela; ve la dirò. - Finalmente! ... Oh, finalmente, son riuscito a strapparvi la maschera! Ho rappresentato cosí bene la mia parte ... - La risorsa è da uomo di spirito. Però voi avete detto che sono persona di spirito anch'io, e, per conseguenza, maliziosa. - Vedete? Non mi difendo. Voglio darvi tutto il tempo di giudicarmi con calma e con imparzialità. - Addio! - Neppure a rivederci? - Ci rivedremo senza dircelo. - Sentite, Maria. Non mi fate il torto di dare importanza a uno scherzo, fatto piuttosto per mettermi all'unisono del vostro buon umore ... di testa. Da un anno ci diamo la maggior pena del mondo per mostrarci l'una all'altro proprio il rovescio di quel che siamo. È stato un continuo scambio di assalti, di motti, di frasi, nelle quali le parole non avevano per nessuno dei due il significato ordinario. Ogni puntura era una delizia; ogni morsettino una felicità ... Non lo negate ... - Io non fiato. Solamente vi avverto di risparmiarvi la pena di tanta eloquenza. Ora che fingete di parlarmi in serietà ... - Fingo! - Vi credo assai meno di quando fingevate per chiasso. Oh gli uomini! Addio! - E non potersi muovere per trattenervi! - Piove. Non ce ne siamo accorti. Siete venuto ad abitare in un deserto. Non si trova mai una carrozza da queste parti. Mandate il servitore a cercarmene una. - Potreste aspettare che spiova. Vedete? La Provvidenza manda la pioggia unicamente per prolungarmi il piacere di vedervi qui, di sentirvi parlare, e ... di rappacificarci, forse ... Sedete intanto. - Guardo se spioverà presto. - Sedete. Oramai lo so: noi ci amiamo! - Davvero? - Sí, noi ci amiamo. Ed è un peccato saperlo con certezza. Pensavo a questo vedendovi andar via ... Ne avremo per due, tre settimane, per un mese al piú, e poi ... Invece abbiamo durato quasi un anno nell'amarci inconsapevolmente. Ed è stato deliziosissimo. - Se non siete un mostro, siete talmente pervertito ... - Siamo cosí tutti, chi piú chi meno, a questi lumi di luna di raffinatezza nevrotica. Il naturale, lo spontaneo, il primitivo non ci basta piú. È troppo semplice per la nostra esperienza e per la nostra malizia ... Via! ... Amiamoci! ... Siamo sinceri almeno un momento. E cosí, se dovrete proprio partire, partirete fra due o tre settimane, fra un mese; qualche giorno prima che il nostro amore finisca. Faremo come coloro che si levano da tavola con un po' d'appetito. È igienico, dicono. - Sciocchezze ne avete detto sempre; mai però tante e tante di seguito, quante da che sto qui! - Dovreste esserne lieta. Una donna che ispira delle sciocchezze, è una donna veramente amata. - Povere donne! - Maria! ... - Avevo un triste presentimento, venendo qui. Non m'ingannavo. Perché non sono tornata addietro? Mi sarebbe rimasta l'illusione. Ho creduto a una lusinga del cuore, e ne sono punita. Meglio per me. Errore evitato, rimorso risparmiato. Ne avevo già uno: quello d'esser sul punto d'ingannare una brava persona che m'ama seriamente. - I mariti non amano; tutt'al piú, vogliono bene. - È preferibile. - Ma è un'altra cosa. - No, non vi credo, non voglio credervi. Sareste proprio perverso, se tutto ciò che dite fosse davvero quel che pensate, e di cui siete convinto. - Non posso alzarmi, altrimenti mi butterei ai vostri piedi, per farvi la mia dichiarazione in regola ... Siete cosí formaliste voi donne! Allora, probabilmente ... - No; non parlate cosí. Mi fate dispiacere ora. - Che volete? Mi veggo in una certa situazione con questa storta, inchiodato su la seggiola ...! - Soffrite molto? - Non me ne sono accorto da che voi siete in casa mia. - Se prometteste di non scherzare piú sopra un argomento tanto serio ... - Ve lo prometto. - Chi sa? Potrei venire qualch'altra volta ... - Non v'augurate, spero, che la mia storta duri eterna! - Intendetevela col vostro dottore. - Grazie. - A rivederci ... Ma buttate via tutti questi ingombri! ... Ci tenete molto, insomma? - Tanto! ... Come terrei a conservare le vostre poche lettere, se un'altra mi chiedesse quel che voi chiedete ... - Oh no, no a rivederci! ... Che tristezza! ... Addio. Addio -. Egli la seguí ansiosamente con lo sguardo, sperando non sarebbe davvero andata via. E quando la vide sparire, rimase ancora un momento con gli occhi rivolti verso l'uscio. Poi, riprendendo la occupazione interrotta: - Tornerà - disse. - La credevo piú forte. Francamente, era meglio prima. Ed ecco un'altra pratica che s'avvia per l'archivio. La vita è cosí! Mineo, agosto 1884@. 1884.

. - Prego, parli - Solamente (badi, ve', è una mia opinione) io credo che gli uomini non abbiano diritto a discorrere d'un sentimento che non possono mai provare. - Non possono? - Certo. L'uomo non ama, fa all'amore. - È una distinzione troppo sottile - Ma verissima. Noi donne ... - Giusto quel che volevo domandarle! - Noi donne invece, una sola volta in vita nostra (non piú) noi amiamo davvero. Pel resto, noi non si fa mica all'amore; viviamo dei bricioli di quel primo banchetto della vita. Se gli uomini se ne persuadessero! Già spesso non ce ne persuadiamo neanco noi stesse. - È la teorica del primo amore portata all'eccesso - osservai ridendo. - S'inganna - rispose - Ciò che comunemente dicesi il primo amore è una sensazione quasi animale, istintiva, e può indefinitivamente prolungarsi per diversi stadi della vita. Frequente è il caso che parecchi uomini nel cuor d'una donna rimangano, l'un dopo l'altro, sempre un unico primo amore. Creda, la donna è capace del vero amore soltanto nella pienezza del suo sviluppo, dai vent'anni ai venticinque. - Quanta poesia ella mi ammazza! - E c'è peggio - continuò con arguta malizia - Non tutte le donne possono amare: fra cento, appena due! - Qui bisogna intendersi - dissi - sul preciso significato che si dà alla parola. - È un significato che non si spiega, s'intuisce. Noi donne lo comprendiamo quasi tutte. Che discorsi, non è vero? Mentre si ha dinanzi gli occhi una cosí bella campagna, con questa magnifica giornata, con quell'usignuolo tra i pioppi che gorgheggia divinamente! - E corse, mutata d'un subito, alla fonte lí presso. Il capelvenere rivestiva per intero la rozza muratura fatta a proteggere l'acqua dalle frane della collina; gli acanti vi crescevano rigogliosissimi alla base colle loro larghissime foglie frastagliate, riverse a guisa di capitello; e i lati venivano protetti da una siepetta di rovi fra cui si erano intrecciate certe campanule a fiori bianchi e grandi che non so come vengan chiamate dai naturalisti, né mi importa saperlo. - Com'è bello qui! - disse; e tuffò nell'acqua le mani per spruzzarsi un pochino il viso con bizzarria fanciullesca. Avessi tu visto che incanto! Che capolavoro di quadretto non avrebbe potuto farsi con quel piccolo sfondo verdeggiante e pieno di ombra e la sua gentile personcina ritta in piedi innanzi la fonte, cogli occhi chiusi e il capo riversato all'indietro, nell'atto che riceveva la fresca e cara impressione dell'acqua spruzzata! Meravigliato piú che curioso, fermato a dieci passi di distanza, io domandavo intanto a me stesso: - Ma chi è costei che cita Shakespeare in inglese, ragiona dell'amore con tanta sottigliezza, e prende in affitto il quarto d'una villa dove sa doversi trovare sola a solo con un uomo ch'ella ha visto ora per la prima volta? Non sapevo che rispondere. Vi era tanta semplicità, tanta franchezza in quel suo fare, dirò anche tanta imprevidenza, che invece di sospettare qualcosa intorno a lei, io provavo verso la b ella creatura un sentimento di rispetto e di tenerezza quasi protettrice, e la ringraziavo in cuor mio. Questo sentimento somigliava l'impressione provata alla lettura di una di quelle serene e meravigliose pagine che Omero fra gli antichi e Goethe fra i moderni ebbero, quasi soli, la fortuna di poter scrivere: né piú, né meno. Infatti, per una strana associazione d'idee, io mi sentivo mulinare nel cervello: Come vider venire alla lor volta La bellissima donna i vecchion gravi Alla torre seduti ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... Essa all'aspetto Veracemente è Dea! E ci mancava poco non mi stizzissi di quella pedanteria fuori stagione. - Fuori proposito, anzi! - riflettevo alle dieci di sera, quando ella si era già ritirata nelle sue stanze, ed io appoggiato sul davanzale della finestra, col sigaro acceso, riandavo i menomi avvenimenti della giornata. Poco prima avevo visto lí, sullo spianato, la famiglia dei fittaiuoli mangiar la minestra all'aria aperta; gli avevo sentiti calmi e alla buona ragionare di bestiame, di agli, di polli, di grano turco, di una piccola tirchieria del padrone, di tutto il lor mondo. E osservando la massaia belloccia un tantino, pulita, di un carattere mite e sottomesso, ero stato naturalmente tratto a confrontare le due vite, quella della Fasma e di lei, le due anime, i due cuori. Che differenza! Che sproporzione! E le mie sim patie non erano mica per la massaia, la donna all'antica, ma per la nervosa, per l'agitata, per la tormentatissima Fasma. Ecco perché dicevo che i versi di Omero mi eran venuti in mente a sproposito. Tra Elena e Fasma non ci scorgevo rapporto di sorta e irriverentemente concludevo: - Elena! Elena! È la massaia! - Suonava la mezzanotte all'orologio di Empoli che nel silenzio notturno si sentiva benissimo fin là. Quei cento tocchi picchiati e ripicchiati cosí solennemente che dominavano cupi e lontani lo stormire delle frondi, il canto di alcuni grilli e il gracidare di qualche rana, accrebbero il senso d'indefinita malinconia e di sconforto, la quasi voglia di piangere che mi opprimeva in quel punto. Quel fantasma vivente ne aveva già richiamati due altri che da un pezzo non mi si erano piú presentati alla memoria, o, se si erano, n'erano stati facilmente scacciati via. Ricordi lontani e recenti, immenso tesoro di aurei sogni, di grandiose speranze, di desideri ardentissimi, di dolcezze, di possessi, di dolori, di smanie, di disperazioni, quanto aveva insomma influito piú che ogni altra cosa sulla mia vita, e modificato l'anima e il cuore con indelebile stampo; tutto mi si era rimescolato nella memoria dietro quei due fantasmi di donne! - E questo qui? - mi domandavo inquieto E tornavo a fantasticare, a creare colla rapidità dell'elettrico dei veri romanzi onde spiegarmi l'enimma della giovane donna che forse, certo fantasticava alla sua volta tre stanze piú in là della mia - L'amerò? - insistevo finalmente a domandarmi - l'amerò? E facevo e rifacevo un rigoroso esame di coscienza; però conchiudevo sempre di no. Non sapevo capirlo; ma c'era un che da cui mi veniva interdetto il sentimento preciso dell'amore: una forza repulsiva, un fluido misterioso (benefico o malefico, chi avrebbe potuto giudicarlo?) che mi teneva, come suol dirsi, a rispettosa distanza da lei. Ed io ora mi consolavo di questo, ora me ne sentivo un po' offeso; infine avevo trent'anni! Il giorno dopo ella volle dei libri. Li scelse da se stessa, l'Ernesto Maltravers del Bulwer, i Nouveaux contes fantastiques del Poe, tradotti dal Baudelaire (due libri agli antipodi l'uno dall'altro) e stette quasi tutta la giornata nella sua stanza, ove io non osai andare a disturbarla. Però dal finestrino di un piccolo andito potei, non visto, osservarla a lungo: leggeva a sbalzi. Sdraiata sur una poltrona, si lasciò due o tre volte cadere il libro di mano e non lo riprese che dopo un pezzo. Era il libro che slanciava quell'anima irrequieta dietro le visioni del passato, o incontro alle incerte nebbie dell'avvenire: o non aveva esso tanta potenza da impossessarsi completamente dell'attenzione di un cuore rigoglioso e travagliato dalla stessa sua forza, che pur tentava forse dimenticare il passato, forse dominare le fatalità del futuro? A volte ella si levava, con uno scatto, da sedere; passeggiava su e giú per la stanza, ora rapida, ora lenta; poi si fermava colla testa bassa, colle braccia alzate in avanti e le mani aperte, quasi avesse voluto impedire a certi ricordi di accostarsi alla sua memoria, e restava in quell'atteggiamento per piú secondi; indi rimettevasi a leggere. Verso le quattro pomeridiane scese in giardino e diessi a ripulire i fiori, ad annaffiarli, facendosi aiutare dalla fittaiuola. Mi affrettai a raggiungerla e fui molto sorpreso di non trovarle sul volto nessuna traccia di quell'agitazione interna della quale ero stato spettatore (per quanto dalle umane azioni si possa indurre con certezza i sentimenti e i pensieri). La sua fronte era serena, d'una serenità verginale, illuminata dal tranquillo splendore della pupilla e da quello del suo sorriso; giacché il suo sorriso ora splendeva ed ora scintillava: almeno a me mi faceva quest'effetto. Vi era nel suo gesto una calma gentile; e dal suono della sua voce erano affatto sparite quelle vibrazioni tremule, imperiose, che davano alla parola un'espressione altiera, imponente, efficacissima. - Questi poveri fiori! - disse vedendomi: - perché farli nascere e poi lasciarli morire di sfinimento? - Crede ella che si accorgano di soffrire? - risposi. (La fittaiuola si era allontanata per riempire d'acqua l'annaffiatoio) - Non lo so - replicò - ma infine non mi pare una bella cosa. Io però ritengo che tutto soffra nella natura quando gli vien meno ciò che dovrebb'essere il suo alimento, il suo sostegno; l'anima, come il sasso: non vive ogni cosa? - Sí; ma non ogni cosa ha la coscienza di vivere. - Soffre meno forse; ma noi, per questo, restiamo meno cattivi? E continuò attentamente, con pazienza proprio materna, a levar via qua delle foglione riarse, là delle erbucce parassite; qua a smuovere la terra, lí ad accostarla piú al ceppo, rimondando, ripulendo, strappando; e i fiori pareva la ringraziassero quando il venticello gli agitava. - Sa? - riprese dopo un pezzetto; - ho dovuto dire una bugia. - Grossa? - feci io, sorridendo. - Piccina, a dire il vero. La fittaiuola mi ha domandato come non avessi, benché sua sorella, l'accento toscano. - Va'! Le bugie hanno le gambe corte. Ed ella ha risposto? - Lo supponga. Sono stata lungamente fuori casa, maritata in Piemonte. Son vedova adesso. - Una bugia veritiera? - Ecco! - esclamò con gesto di rimprovero - lei rompe i patti. Ieri sera si fissò che nessuno dei due dovesse chiedere all'altro indicazioni di sorta sul passato; dovremmo prenderci per quel che si apparisce, due piovuti dalle nuvole. - Ha ragione. Mi mordo la lingua -. Quest'incidente bastò per turbarla. Lasciò in asso i suoi fiori, portò una mano alla fronte e voltommi le spalle avviandosi a manca, pel piccolo viale delle acacie. Fatti alcuni passi però si rivolse addietro e mi chiese: - Non vuoi venire? Passarono cosí parecchi giorni senza che il mistero di quella donna si chiarisse per nulla, ma non senza che la nostra famigliarità non divenisse piú intima e piú espansiva C'era in quel carattere un po' del giovinotto e del virile, mescolato a quanto di piú finamente femminile possa trovarsi in una donna; ed io a poco a poco avevo, conversando, perduto il ritegno di toccare con lei certi soggetti scabrosi. Ci mettevo, è vero, tutta la delicatezza, tutto il pudore possibili; ma ritenevo anticipatamente ch'ella non avrebbe mai fatto la contegnosa fuori proposito. Mi pareva all'inverso, che il suo carattere elevato la dovesse difendere da qualunque bassezza. Infatti non c'è che le donne nobili di cuore e di mente per non arrossire di nulla in conversazione e tollerar quasi tutto. Dopo due settimane ella veniva piú frequente nella mia stanza. Era un raggio di sole! Un nugolo di sentimenti vaghi ed incerti, di desideri confusi ed inestricabili, di dolcezze indovinate e non assaporate, le quali si eran lasciate dietro la smania di gustarle fino all'ultima goccia, turbinava, turbinava a guisa del pulviscolo dell'aria in quel soavissimo raggio, ed io me ne sentivo rischiarato fin dentro i piú ciechi nascondigli del cuore. Ella si affacciava sorridente, esitando; spesso rimaneva a lungo fermata sull'uscio e poi si slanciava nella stanza con un piccolo salto. Voleva non mi levassi da sedere, né lasciassi l'occupazione che avevo per le mani; ed ora veniva a guardarmi a scrivere o a leggere e si appoggiava alla spalliera della mia sedia per dar un'occhiata al libro in lettura; ora andava attorno lesta come una rondine, mettendo in assetto ogni cosa, garrendomi del disordine seminato dappertutto. - Facciamo un po' gli uffici di buona sorella! - diceva ridendo; e la luce del suo sorriso, direi anche il profumo della sua persona restava impresso e attaccato su qualunque oggetto ella toccasse. L'orma del suo piedino mi pareva vederla luccicare sul pavimento come del fosforo stropicciato. - Sa - le dissi un giorno - che io finirò coll'innamorarmi pazzamente di lei? - Non ha ancor cominciato? - rispose; - sarà troppo tardi! - Per amare non è mai tardi - replicai un tantino punto sul vivo dal suo tono frizzante. - Faccia presto, per carità! - continuò sullo stesso tono. - Ma è proprio cattiva! - esclamai. - Anzi troppo buona, mi pare. Cred'ella d'avermi fatto un bel complimento dicendomi che finirà coll'innamorarsi pazzamente di me? Quando un uomo non s'innamora, cioè, non sente la voglia di far all'amore a prima vista; quando può rivedere una donna, parlarle impunemente per due settimane e dirle infine scherzando: "Quasi quasi commetterei la sciocchezza di far all'amore con lei!" pretenderebbe forse che la donna gli dovesse rispondere: "Oh, grazie!" e gettarglisi al collo? Siete capaci anche di questo voial tri! Si metta in collera, via! - Rimasi di stucco a quest'uscita. Ella si accorse del mio imbarazzo, e mutando intonazione, mentre rassettava sul tavolo le carte ed i libri, continuò senza guardarmi: - Stia tranquillo; non mi amerà! - E la sua voce tremava alquanto. - Chi glielo assicura? - feci io, rinfrancato. - Il mio cuore - rispose - Se non avessi questa certezza, capisce?, non rimarrei qui -. La sua gaiezza sparí ad un tratto, e poco dopo ella andò via dalla mia stanza, piú che stizzita, turbata. Quai ricordi, quai dolori, quali passioni le avevo destati nell'anima con quelle parole? N'ero tanto piú dispiaciuto, quanto piú convenivo ch'ella avesse ragione. Non l'amavo; era cosa certa: non mi sentivo tratto ad amarla. Avevo sbadatamente parlato a quel modo. Ella mi piaceva immensamente, mi inspirava un rispetto illimitato, misto ad un senso di compassione profonda: qualcosa che so io? di religioso, di superstizioso, di fanciullesco; amore, no di sicuro. Perché? Ecco il problema che non mi era riuscit o di risolvere, e me lo ero messo innanzi piú volte. Avrei dato un occhio perché fosse stato diversamente. Vanità, sciocchezza o altro, mi attristavo di non amarla e di non esserne riamato. In quel cuore (non occorreva un gran sforzo) scorgevo sepolti inestimabili tesori di affetto, d'ingenuità, di sacrifici, di pudiche debolezze, di care fantasie, di nobili sdegni, di tenerezze quasi violente; non mancava uno solo di tutti i divini elementi onde la natura e la civiltà traggono fuori la sublime creazione de lla donna moderna: e mi pareva di doversi ritenere per fortunato davvero chi avesse potuto dire con piena coscienza: "Quel cuore mi appartiene!" Perché non dovevo esser io? E se non l'amavo, non avrei potuto amarla fra qualche giorno, fra una settimana, ed esserne riamato? Il cuore intanto, testardo! rispondeva sempre di no. Ella però dimostrò, nei giorni appresso, voler quasi compensarmi di questa privazione con un mondo di gentilezze, di attenzioni cortesissime e cordiali che avevano il lor pregio e soddisfacevano in alcuni momenti le piú strane esigenze dell'amor proprio. Potei sorprendere nei suoi sguardi, nel suo accento, nei suoi discorsi certi lampi di abbandono inusitati, involontari, che mi diedero i brividi. Giacché a volte, curiosa questa! provavo paura di essere amato da lei. La sua forza mi avrebbe sopraffatto; non sarei piú rimasto lo stesso! E rifuggivo da un amore in tal guisa. Avrei, all'opposto, voluto foggiarla a modo mio: cosí soltanto potevo meglio assicurarmene il possesso. Ma era un'assurdità! Pure! D'allora in poi ripetetti piú volte quel "pure!" pieno d i tante cose; mi lasciai lusingare. La vedevo di giorno in giorno venir a me con delle concessioni piú larghe. Erano atti, gesti, occhiate, bizzarrie, motti lanciati a mezzo, che indicavano evidentemente un segreto lavorio del suo cuore, un'effervescenza che non poteva piú venire padroneggiata dalla sua energica volontà; qualcosa piú forte di lei. Ma quando mi ero illuso un pezzetto, mi accorgevo da lí a poco che avevo torto. Il segreto lavorio, l'effervescenza, l'abbandono erano dei fatti da non potersi negare; ma tra questi sentimenti e la mia persona non ci scoprivo finalmente relazioni di sorta. Intravvedevo un sottinteso; ero, che dire? Un pretesto. E siccome sentivo avvilirmi troppo da quest'idea, correggevo: un capriccio. Ci scapitavo in tutti e due i casi e tornavo di bel nuovo, e di proposito, a illudermi. In alcuni momenti il suo fascino diventava proprio immenso. Sentirmi avviluppare e compenetrare da quella malia era una delizia indicibile che, sopratutto, veniva dal suono della sua voce molle, velato, con la greca rotondità vantata da Orazio, che io non avevo capito fino a quel punto: la quale non era soltanto nel suono delle parole, ma nelle cose ch'esse esprimevano, in un'armonia che non si apprende. E poi quel suo carattere a sbalzi! Quei passaggi inattesi! Quei contrasti cosí strani che pur riuscivano cosí naturali, perché venivano da lei! Io mi stancavo a seguirla in tutte queste rapide trasformazioni, in tutti questi nuovi e sorprendenti avatara del suo cuore ch'ella spiegava forse ad arte innanzi i miei occhi sbalorditi, e mi davano le vertigini. Non c'ero abituato; scotevano troppo e, infine, perché? Non dovevo piuttosto rimanermene passivo, indifferente, in guardia (se cosí volevo) e lasciar fare? Non provavo anche in tale situazione un piacere squisito? Che andavo di piú cercando? Ma il "pure!" ecco, veniva a galla insistente; il filtro della Fasma operava. Le mie illusioni diventavano piú lunghe, piú frequenti; non osavo toccarle con la punta di un dito per tema di non vedermele volar via a stormo, come degli uccellini spauriti. Ella mi guardava in un modo! Mi sorrideva con tal'espressione! Finalmente non ero mica di marmo! L'illusione fu completa. Mi credetti amato davvero! Chi non l'avrebbe creduto? Un giorno ella venne nella mia stanza, col volume del Poe. Scrivevo una lettera di affari; la pregai mi scusasse. Appoggiossi al davanzale della finestra, colle spalle rivolte alla campagna, e continuò la sua lettura. Di tanto in tanto non potevo far a meno di levare gli occhi dall'uggiosissima lettera per contemplare quella bella figura illuminata dai lievi riflessi della luce che venivano di fuori. Una o due volte i nostri sguardi s'incontrarono: sorridemmo a vicenda. Quand'ebbi terminata e suggellata la lettera, la Fasma mi parve talmente assorta nel libro, che non volli disturbarla. Stesi la mano ad un volume arrivatomi fresco fresco la sera innanzi, l'Eva del Verga, ripresi anch'io la lettura interrotta e fui legato alla mia volta Quel volumetto, si sa, proprio divora il lettore: ella me ne aveva parlato Ma in quel punto le mie sensazioni non provenivano soltanto dalla schietta bellezza del libro. L'imaginazione traduceva, interpretava, a modo suo quelle pagine appass ionate. Eva e Fasma si confondevano bizzarramente: non le discernevo piú. L'opera dell'artista toglieva ad imprestito dalla realtà; la persona vivente dall'opera d'arte; e qualche volta sparivano tutte e due perché io le avevo lasciate chi sa dove? molto indietro, e mi ero lanciato alla ventura entro una vaporosa immensità tutt'ombre e splendori, tutta musiche e profumi, l'immensità dei sogni ad occhi aperti, e stentavo a rivenirne. Infatti non mi accorsi che la bella Fasma si era pian pianino accostata e che, posatami leggermente una mano sui capelli, china col viso fin sulla mia spalla, osservava curiosa qual libro leggessi. - Eva! - esclamò con stizza improvvisa, strappandomi il libro di mano. Il libro, sfogliandosi tutto, era volato in un canto. - Perché? - chiesi stupito. - Perché quel libro è cattivo! - Credetti accennasse al falso concetto della moralità di un'opera d'arte che è in voga fra noi. - Sono forse una ragazza? - le domandai ridendo. - Non dico questo - rispose - È cattivo perché quell'Eva par viva e commove ed interessa e si fa amare come a una vera donna riesce di rado. Che infamia è l'arte! Possiamo noi entrare in lotta colle sue creazioni, con la sua potenza che spoglia la realtà da ogni triviale bassezza, da ogni accidentale stonatura e la rende immortale? Ma, quando vi siete montati la testa con tali visioni degne dell'oppio e dell'haschich, che ci rimane a noialtre infelici colle nostre debolezze, colle nostre miserie? Come ispir arvi interesse, compassione, amore? È una lotta disuguale: la donna colla Dea, e la povera donna soccombe! Che infamia è l'arte! Per un minuto di effimera consolazione spreme anni intieri di pianto. Il suo male non è ciò che dice, ma quel che non dice e costringe a supporre e a indovinare. Allorché questa morbosa facoltà si è sviluppata (e la si sviluppa tosto) il suo potere non ha confini; l'ebbrezza stimola all'ebbrezza. Quelle raggianti figure ch'essa evoca col potere della sua magica bacchetta passano g loriose e trionfanti innanzi ai vostri occhi e li fanno tremolare di sensazioni vivissime. Che siam noi rimpetto ad esse? Volgari, meschine, spregevoli ombre e, sopratutto, noiose, noiose all'eccesso! Qual terribile confronto! Ecco; ella guarda ancora il libro buttato lí e tenta, forse, ricostruirsi l'illusione che gli ho rotta. Ecco; non mi bada nemmeno! - Ma no! - esclamai, levandomi dalla sedia e tentando di trattenerla per la mano. Era scappata via come un lampo. Dapprima, lo confesso, avevo creduto scherzasse; ma dall'accento compresi a un tratto ch'ella diceva davvero. Divenuta pallidissima, le sue labbra tremavano agitate, frementi: già pareva fosse lí lí per dare in uno scoppio di pianto. - Mi ama! - dissi con superba compiacenza; - gelosa fin di un fantasma! Nessun critico aveva fatto a quel libro un elogio di tal sorta. Mi lasciai tutto di un pezzo cader sulla seggiola e stetti lí chi sa quanto! Assaporandomi a centellini la sublime scoperta. Perché intanto non l'amavo anch'io? Verso le cinque pomeridiane cadde quel giorno una delle solite pioggerelle del maggio, e l'aria ne rimase cosí rinfrescata da non permetterci affatto la nostra passeggiata serale. La bella Fasma, del resto, non si fé' mica viva. Volevo questa volta picchiare due colpetti al suo uscio (omai me ne riconoscevo tutto il diritto); pure non mi parve conveniente: montai sulla terrazza. Il vento aveva disperso qua e là le nuvole che, ridotte leggiere e trasparenti come tante ondate di fumo bianchiccio ai raggi della luna, facevan l'effetto di slontanare piú e piú l'azzurro cupo del cielo seminato di stelle. Dai prati attorno levavasi un fresco sentore di humus piacevolissimo, una vera sensazione della vita della natura, la quale pareva godesse coi suoi mille esseri affollati pei campi e pelle colline i dolci sogni della sua lieta giovinezza, dei veri sogni di amore. La campagna infatti spi egavasi lí innanzi scura, con ondulazioni diverse, con linee larghe, con masse immense, imponenti, nel fondo. Era come accovacciata e ripiegata su se stessa; rifiatava appena, sotto una pioggia di pulviscolo argentato cadente dall'alto quasi a proteggerne il sonno Stetti lí circa fino alle due dopo la mezzanotte, col capo scoperto, incurante del freddo e del sonno, incurante spesso anche di pensare; immerso nell'onda dolcissima di un piacere senza nome, di una sensazione tiepida, snervante, che finiva col tormi la coscienza del mondo e di me stesso; e la mattina ero in preda d'una fiera emicrania; tolleravo appena la piú debole luce; tenevo a stento gli occhi aperti. Mi ero, la notte, buttato vestito sul letto; e in tale stato ella trovommi verso le nove della mattina, quando, aperto lievemente l'uscio, chiese a bassa voce: - Si sente male? - Non ebbi la forza di darle subito una risposta; sicché ella accostossi premurosa sulla punta dei piedi al mio letto, e, vedendo ch'ero desto, tornò a domandarmi, questa volta: - Ti senti male? - Benché mezzo stordito capii la forza di quel "ti" e apersi gli occhi per ringraziarla con uno sguardo e con un sorriso. Nel tempo stesso m'impadronii di una sua mano e l'accostai alle labbra. C'era qualcosa di nuovo, di sorprendente in lei, come un'effusione, uno straripamento di affetto che si versava dalle pupille tremule e imbambolate di tenerezza. Non avevo mai udite tante carezze nel suono della sua voce, né mai veduto tanto abbandono nel suo gesto. - Ti senti male? - replicò per la terza volta con accento ognora piú affettuoso e piú carezzevole, chinando il viso presso il mio. Tenni chiusi gli occhi. Sentivo il tepore della sua pelle e il suo respiro, e non osavo rispondere per paura di rompere colla mia voce quell'incanto. La sapevo cosí bizzarra, e cosí strana! - È la mia solita emicrania - risposi finalmente per non tenerla piú sulla corda. - Hai medicine? - tornò a domandarmi. - Sí, ho preso il guarana. Passerà. Vorrei star peggio e averti sempre vicina! - soggiunsi dopo E ribaciai la sua mano. Ella mi posò lievemente le labbra prima sulla fronte, poi sugli occhi, poi sulla bocca (e qui ve le tenne piú a lungo) Fece cosí due o tre volte, sempre lievemente, toccando appena la pelle come per non farmi male. Io mi sentivo guarire. Non erano mica baci quelli lí, erano qualcosa di meglio; una dolcezza nuova, ineffabile che, se non mi guariva, mi avrebbe ucciso. Il dover ristorare, ravvivare i nervi sofferenti e intorpiditi dimezzò la loro potentissima azione, e fu bene davvero. La stanza era al buio. Verso la parte del letto veniva di rimbalzo la poca luce di mezz'uscio aperto e copriva tutta la sua persona, facendo luccicare le pieghe della sua veste di faglia nera con riverberi smorzati. Il suo volto specialmente era illuminato per intero; ma piú che da quella, pareva lo fosse da una luce sua propria, da uno sprigionarsi d'atomi brillanti dalla pelle e dagli occhi che le svolazzavano attorno. - Mi ami dunque? - le chiesi attirandola verso di me col braccio che le cingeva il busto Liberossi improvvisamente dalla mia stretta e balzò in piedi. Impaurito di quell'atto sorsi anche io sul sedere. Sorrise, mi porse le due manine, e guardandomi fisso in volto, con un'indefinibile civetteria che era nell'accento, nel sorriso, nell'atteggiamento, in ogni cosa, domandommi: - Che piú ti piace di me? - La bocca - risposi Aperse gli occhi quasi atterrita, lasciò cadere le braccia e ripetè macchinalmente: - La bocca! La bocca! - Era pallida: tremava. Io non capivo davvero. Che mai potevo aver detto di male? E per stornarla da quell'impressione mormorai nuovamente: - Mi ami dunque? - Dio mio! - fece ella portando, con acuta espressione di dolore, le mani al suo volto. E scappò via. - Fasma! Fasma! - le gridai dietro, ma invano. Avevo avuto torto. Che importava quella domanda? Non era anche troppo ch'ella mi facesse evidentemente capire ciò che io volevo confessato dalle sue labbra? Perché tormentarla? Perché quasi avvilirla innanzi a se stessa esigendo un'inutile conferma del mio trionfo? Fosse l'emozione o il guarana, l'emicrania era sparita. Saltai giú dal letto, apersi le imposte e la improvvisa inondazione della luce (il sole era in alto) mi giunse incresciosa. Colle ombre amiche e discrete parve s'involasse dalla stanza la miglior parte delle dolcezze poc'anzi provate, e quando colla superstizione di un contadino richiusi le imposte, credetti sentire dei lievi e ironici cachinni dietro i cristalli, al di fuori. Erano le fuggite impressioni che si facevano beffa di me. Mi son chiesto piú volte perché l'amore si compiaccia volentieri di ombre e di mistero. Dei sentimenti che tu hai tenuto lunga pezza nascosti, che ti son montati piú volte a fior di labbra e gli hai ricacciati indietro, sdegnoso persino di confessarli a te stesso, in un luogo appartato e privo di luce, ecco ti sgusciano dal cuore senza ritegno, senza che tu te ne accorga, e il cuore si sente come levar una macina di addosso. Affare di nervi o m'inganno! La luce irrita, mette in attività, distrae le cento forze dell'organismo, e l'amore, questo terribile autocrate, non può tollerare che una menoma parte dell'attività vitale sia impiegata altrimenti quando esso governa. Innamorati, cerchiamo perciò la notte con indomabile istinto. Un bacio dato allo scuro val piú di mille baci scoccati sotto i giocondi testimoni dei raggi solari. Una parola sussurrata senza che si veggano le labbra dalle quali ci viene, dice un mondo di cose che tu non trovi nella stessa par ola pronunziata di giorno da due labbra stillanti dolcezza. Consigliati forse da quest'istinto, la Fasma ed io ci evitammo, quel giorno, a vicenda. Le imposte delle nostre stanze rimasero chiuse; desinammo alla meglio, ognuno per proprio conto; ed io mi rimisi a letto e guardai per delle ore il soffitto, da cui mi brillava nella mente certo rosone di fiori stranissimi osservato altre volte, il quale intanto serviva di pretesto a dei soavi pensieri Levatomi dopo il tramonto apersi l'uscio e le imposte, attesi con impazienza di sentire il fruscio della sua veste nella camera attigua, e quando fu il momento sporsi fuori il capo ad interrogare l'espressione del volto di lei. Era di una tristezza rassegnata, una tristezza di amore però e di nient'altro; si vedeva. Le andai incontro, le strinsi la mano senza dire un sol motto; e indovinata la sua intenzione d'uscire all'aria aperta, le accennai si avviasse. - Che stupenda serata! - diss'ella scendendo lenta le scale. All'orizzonte il cielo somigliava un lago di purissimo verdemare con spuma di oro lucente Su quei spruzzi di nuvole, su quei vapori crepuscolari la luce del sole tremolava di mille riflessi sempre cangianti che smorivano chiari, con bellissimo effetto, sulle linee nette e frastagliate dei colli, e in alto con dei toni di azzurro sempre piú densi e piú cupi, di tale trasparenza e di tale unità da far disperare qualunque artista. L'aria agitata leggermente da un venticello vespertino, fresca, asciutta, profumata da odori indistinti, avviluppava il corpo e lo penetrava con una sensazione di ristoro efficacissima; lo rendeva una piuma. La campagna aveva sussurri, gemiti, mormorii, rumori vaghi, canti interrotti di galli, trilli sommessi d'insetti, agitar d'ali impercettibili, rosicchii continuati, affacendamenti misteriosi, abbaiare di cani, tintinni di campane di bestiami lontani; e poi quell'intiera, indefinibile, fremebonda corrente di vita da cui son legati assieme tutti gli esseri, per cui si sente il pensiero umano e nell'insetto e nella fronda e nella roccia immobile e tranquilla. Oh, c'era davvero piú di quanto occorresse! Le nostre mani, ricercatesi di accordo, si erano avviticchiate avidamente e si premevano forte. Procedevamo commossi cogli sguardi slanciati per l'immensa campagna, senza sentir bisogno di dirci una breve parola, fermandoci di quando in quando per scambiarci un bacio interminabile ch'ella era la prima ad interrompere, esclamando sottovoce: - Mio Dio! - Pareva che quella felicità la facesse soffrire. Io intanto avevo stizza di non soffrire a quel modo. Non ero evidentemente neppur felice a quel modo! Sopraffatta da un impeto di passione selvaggia, stordita, concentrata in sé, fremente per tutta la persona con spasimo lieve, ella lasciavasi in pieno abbandono delle mille sensazioni onde era dominata ed oppressa, anzi procurava di raddoppiarne l'effetto: e ciò che io chiamava soffrire ne era proprio il colmo, il loro estremo valore. Quel pieno abbandono, quel dimenticare me stesso a me, invece, non riusciva. Provavo un piacere dimezzato. Vedevo insistentemente la mia immagine sorridere ed agitarsi nel suo piccolo cuore: ma la vedevo preciso come un'immagine riflessa sul nero della camera oscura. Attraverso quell'immagine, che pur sembrava solida e vivente, ne passava sovente un'altra che non potevo discerner bene, la quale la avvolgeva, le si sovrapponeva formando una strana confusione, e infine le spariva dietro come se vi si chiudess e dentro e l'animasse e le desse il moto Appunto per questo ora non ripetevo piú la sciocca domanda della mattina. Le ombre cadevano fitte dal cielo: la terra dormiva. Gli alberi, le macchie, le erbe avevano già preso una figura molto diversa da quella del giorno. A dieci passi di distanza, l'aspetto delle cose assumeva sembianze fantastiche: la mente ne era un po' turbata, e l'occhio vedeva quel che non era, l'orecchio sentiva rumori strani e fuori natura. Un altro momentino, e le fate, gli spiriti, sarebbero venuti a volteggiarci sul capo, a turbarci, a impaurarci colle loro apparizioni improvvise. Provava anch'ella quest'effetto, e mi si stringeva al braccio con forza e girava attorno diffidente la testina e si fermava ad ascoltare. Ci eravamo dilungati troppo benché si fosse andati lentamente. Chi voleva accorgersi delle ore volate via? Andavamo incontro ad un gruppo di alberi che disegnavansi sull'orizzonte con forme immani e grottesche. Si sarebbe detto che dei mostri giganteschi, fermati ad attenderci lí sul passaggio, agitassero le teste orrende e digrignassero i denti. - Torniamo addietro: ho paura! - sussurrommi all'orecchio, appendendomisi al collo come una bimba. Questo bacio fu il piú lungo. Traversammo i campi da un'altra parte e prendemmo per far piú presto una scorciatoia. La fittaiuola, addormentata, ci attendeva a piè della scala. La mandai a letto ringraziandola e seguii la Fasma ch'era già nel salotto. Il sorriso con cui mi accolse fu qualcosa di sublime. Mi sentii come preso da un delirio veemente, e le corsi incontro e la levai di peso tra le braccia. Ella die' un piccolo grido e nascose il volto sulla mia spalla Credetti che qualcosa di eterno per la mia vita si fosse deciso in quel punto! E tutto tremante varcai, la prima volta, con essa in collo, la soglia oscura della sua stanza. La mattina dopo mi domandavo: - Ho sognato? Non trovavo il verso di persuadermi che quanto era accaduto fosse proprio una realtà. Certe volte non c'è cosa che paia piú impossibile del vero. Giú mi attendeva un ragazzo con una lettera da Firenze. Un urgentissimo affare di famiglia mi richiamava colà; potevo esser di ritorno la sera. Guardai l'orologio; mancava ancora tre quarti di ora pel passaggio del treno: giusto quanto occorreva ad arrivare in tempo alla stazione. Rifeci, stizzito, le scale onde avvertire la Fasma. Trovai il suo uscio serrato col paletto di dentro. La chiamai a nome; non rispose. Stetti ad origliare commosso. Mi era parso d'aver sentito singhiozzare. Possibile? E ritenni il fiato Non mi ingannavo. Veniva dalla sua stanza un suono di pianto represso, di grida soffocate, di singhiozzi interrotti. - Ahimè! - pensai, - questi passaggi repentini come debbono farle del male! - E picchiai, ripicchiai, tornai a chiamare piú volte. Nessuna risposta! Quel pianto, quelle grida smorzate a forza, continuavano sempre. Che fare? Il tempo stringeva. - Fasma! Fasma! - le urlai dietro l'uscio; - debbo andare a Firenze; sarò qui col treno di sera. Per carità, stia tranquilla! Mi risponda. Stia tranquilla. A rivederci! - Non avevo piú il coraggio di darle del "tu"! Nessuna risposta! - A rivederci! - replicai E rimanevo dietro l'uscio. Però dopo alcuni minuti mi parve sentire, o sentii davvero, una parola di addio. Corsero alcuni istanti di angoscioso silenzio. Il pianto a poco a poco cessò, cigolò finalmente il paletto e la Fasma apparve accanto all'uscio. Sorrideva, ma in viso le si vedevano chiare le tracce del suo dolore. - Che è stato? - le chiesi tremante. - Nulla! - diss'ella - È passato. Addio. - Tornerò presto; non posso far a meno di andare. - Addio! - ripetette con una monotonia di accento che mi trafisse l'anima. Evidentemente ella pativa a star lí. Mi decisi a partire. - Per carità, stia tranquilla! - replicai stringendole affettuosamente la mano. - Addio! - diss'ella per la terza volta e collo stessissimo tono. Affrettai di una corsa il mio ritorno. Eran le sette di sera. - La signora dov'è? - chiesi alla fittaiuola. - È già attorno da un pezzo - rispose quella donna con aria inquieta. Entrai nella mia stanza e non so perché gli occhi mi corsero subito al tavolo; c'era un foglio spiegato. Sentii stringermi il cuore da un tristo presagio! Non osavo accostarmi. Che poteva aver scritto? Finalmente presi convulso quel foglio e corsi subito alla finestra. Era una sua letterina. "Caro signore" diceva "non pensi male di me! Mi compatisca invece, mi compianga. Prima di buttarmi la pietra del suo disprezzo, ella dovrebbe conoscere tutta la storia del mio cuore e della mia vita, un'infelicissima storia. Non gliela posso dire; è troppo lunga; e poi, a qual pro? Non pensi male di me! Mi dimentichi: è meglio! Non osa domandarle altro la sua gratissima Fasma" Pensar male di te! Dimenticarti, divina creatura! Oh, potessi rivederla! Villa Santa Margherita, agosto 1874@ 1874

- E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame. - Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: "Cara signora, vogliateci un po' piú di bene." E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona. Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza. Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore. - Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa ... - Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti. - Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende. - Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione. - Non lo capisco. - Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma ... - Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa ... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi! - Vi date forse? Vi lasciate prendere. - Povere donne! E ne menate anche vanto. - Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni. - Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa! - Ecco, per esempio, questo bacio qui ... - Emilio! - ... parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida ... per un bacio! - Emilio! - Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera. - Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa. - Avremo la "celeste paolotta ..." E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle: - Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. - - Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina. - Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? - In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce. Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i "chiú" di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi f elice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre. - Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città ... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto. - Sciocchezza! ... Pensavo ... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura! ... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni ... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente ... mi fa quasi male. E nel pensare a lei ... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che l e tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi. - Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi ... - No, no! - ella lo interruppe. Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle. E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso. Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata. - Tu che sai! ... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre? ... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di co ntinuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato. E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza! ... - Ah, il mio bambino! ... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta. Un giorno la bambina le sorrise. - Come stai, carina? - ella le domandò. E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida. - Che fai lí? - Mi diverto a sentirla suonare. - Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -. Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese. - Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse. - Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza. - Vai via? ... Per l'esame? - Questa sera, coll'ultimo treno. - Signor maggiore, buon viaggio! - Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice. Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato. - Vo a casa - disse la bambina. Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata - Verrai tutti i giorni, è vero? - Se la mamma vorrà. - Perché non dee volere? - E riprese a baciarla, indugiando. Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? - Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime. - Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima ... Che poteva farci se il suo corpo resisteva? ... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli ... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita. E quand'egli le rispose: "Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva! ... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna"; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire. - È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio. Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole: - Suo marito sta bene? - Grazie - ella aveva risposto. La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali: - Dev'essere una vitaccia! ... Ora qua, ora là, come gli zingari. Le spalline e la sciabola, sí, fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi ... Suo marito è capitano? - Capitano -. E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: "Suo marito, suo marito" che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata. Ah, la terribile logica d'un passo falso! ... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire ... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire! Sí, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di p azzia. - Si sente male? - le domandò la bambina. Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato. E il martirio stava per ricominciare! La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva là con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel moment o doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraia to, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio. Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia. - Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio. - Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore. - Il pranzo è per le sette e mezzo? - Sí. Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola: - Il signor capitano ... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento! ... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste ... - Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto. - E il martirio stava per ricominciare! - Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo ... - Poiché questa illusione lo rende felice! ... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? - E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria ... - E tutti questi fiori? - Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! - Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno. - Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame. - Chi se ne rammenta piú? E poi ... lascia andare!. - Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo: - Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui. - Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi ... Giustina tentava di schermirsi: - Può venire Giulia lascia andare -. Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera: - E hai taciuto! ... Cattiva! - Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere: - Non sei il mio idolo? Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito. Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano - Vieni, siedi qui -. E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi. - Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno! ... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passart i accanto e sentire il suono della tua voce ... Ricordi? ... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo: - Ricordi? ... Ricordi? - E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

Cerca

Modifica ricerca