Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La pittura moderna in Italia ed in Francia

252850
Villari, Pasquale 3 occorrenze
  • 1869
  • Stabilimento di Gius. Pellas
  • Firenze
  • critica d'arte
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È un fatto singolare, che quasi tutti gli scultori toscani abbiano avuto la medesima origine: cominciano coll’essere scalpellini, intagliatori in legno o in pietra, alabastrini, e poi per forza del proprio genio divengono artisti. Che diverrà mai questo popolo, quando sapremo diffondere in esso la cognizione del disegno e una solida cultura, che all’arte è più necessaria che non si crede?

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Il Morelli, invece, non si contenta d’una misura secondo le regole; vuole ancora che una mano o un braccio, oltre al non essere troppo lunghi o corti, abbiano carattere, e in ciò pone l’importanza maggiore del disegno. Ma questo carattere egli lo cerca col colore, e vuole innanzi tutto l’effetto, l’unità, l’evidenza della macchia generale del quadro. La sua tavolozza manifesta una ricchezza infinita, da cui risulta una luce mirabile, che agli accademici, i quali disegnano generalmente senza alcun vigore di colorito, pare chiasso pericoloso ed evitabile. Egli s’è formato collo studio del vero, della pittura francese, veneziana, fiamminga; ma in lui vive ancora lo spirito della vecchia scuola napoletana, illustrata da Salvator Rosa, dallo Spagnoletto, dal Cavaliere Calabrese, e tanti altri, che furono tutti pittori arditi, audaci e coloristi. Cosi quando a lui si presenta un soggetto, non può innamorarsene, se prima esso non si trasforma in un effetto di luce. Le immagini sorgono nella sua fantasia vestite già di colori, e quando una lo ferma e lo innamora, diviene subito e di necessità come la chiave del quadro, determina la macchia, decide la composizione; perchè in lui l’unità generale del colore è grandissima, e i suoi bozzetti sono perciò sempre stupendi. In questo modo però il carattere dei suoi personaggi viene qualche volta a soffrirne. Essi debbono piegarsi alle leggi inesorabili di questa magica armonia, la quale, nelle opere del Morelli, come in quelle dei veneziani, è la vita del quadro e del pittore. — Il Tasso che legge il suo poema alle tre Eleonore forma il soggetto del suo quadro principale all’Esposizione. Non è un soggetto nuovo, nè di grande importanza storica. Ma lo studio delle varie espressioni di queste tre donne, che ascoltano ed ambiscono l’amore del poeta, sebbene una sola ne sia sicura; e la difficoltà in cui deve trovarsi il Tasso che, innamorato d’una, non deve offendere le altre, presenta un contrasto di passioni, uno studio di caratteri e d’espressioni, che rende nuovo un soggetto antico. Se non che, a poco a poco, tutto questo è divenuto nel quadro parte secondaria; perchè le difficoltà di luce che l’artista ha superate, chiamano tutta l'attenzione dello spettatore. Quella delle tre donne che è seduta più vicina al poeta, seduto anch’esso, trovasi in ombra, ed è dipinta con una maestria di colore e una trasparenza inarrivabile. Essa segue con l’occhio la lettura del poeta, e rifugge dal guardare la rivale che le sta di contro. Questa, malata e abbandonata sulla poltrona, viene illuminata da una luce diretta, ed è dipinta con una finezza e delicatezza grandissima. È una nobile e gentile figura, che raccoglie la luce principale del quadro, come attira gli sguardi innamorati e i pensieri del poeta che legge. L’altra delle tre Eleonore, posta fra le due prime, s’accorge, sorpresa, che è tra due rivali, rivale anch’essa. Tutto ciò segue presso un verone che forma il fondo del quadro, e dal quale penetra una luce che lo illumina mirabilmente. Ed è ciò che forma il prestigio e lo scopo principale di questo lavoro, in cui il carattere dei personaggi, trovato e capito assai bene, viene in parte sacrificato al Dio onnipotente della luce. — Il Bagno di Pompei è anch’esso uno stupendo effetto di luce: una figura in mezzo del quadro, semi-nuda, illuminata dall’alto; un gioco stranamente difficile di riflessi che produce l’effetto proprio del vero. L’artista ha studiato l’architettura, i costumi del tempo, e li riproduce; ma lo spettatore s’avvede che lo scopo principale è l’effetto difficilissimo di luce; tutto il resto, un mezzo secondario: la vita romana e pompeiana nei bagni, è quasi l’accessorio del quadro.

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I pubblici edifizi, pei quali abbiamo speso parecchi milioni, sorgono senza che lo scultore o il pittore sieno mai chiamati a dare un compimento di cui si crede che non abbiano più bisogno. Si dice che è risparmio di spesa; ma una linea barocca costa quanto una elegante, e quello che si spende nei nostri saloni, per supplire con un lusso sfoggiante alla mancanza d’arte, basterebbe certo a fare il contrario. Ristabilire l’unità e l’armonia delle arti, sarebbe il più efficace sussidio che si potrebbe dare ad esse. I basso-rilievi del Partenone non potrebbero stare ovunque. Gli affreschi del Vaticano perderebbero assai in un altro edifizio. Perfino i barocchi erano, sotto questo aspetto in condizioni assai migliori di noi. Dai loro palazzi d’un’architettura esagerata e sfoggiante, dalle ampie scale ornate di statue, dalle terrazze che davano sui giardini, dai saloni colle mura e le volte ornate di grandi freschi, sino alla più minuta suppellettile, agli abiti, alla tabacchiera, all’orologio del cicisbeo, essi serbavano il medesimo stile; e l'arte loro, scorretta ed esagerata, aveva pure un carattere che manca alla nostra, e degli artisti le cui opere saranno pur sempre ammirate. Non si può, noi lo sappiamo, vincere affatto o fermare l’andazzo dei tempi; ma un efficace rimedio sarebbe l’istituzione d’una grande scuola di architettura, e d’un tirocinio regolare, se non imposto almeno indicato ed aperto a tutti. È una parte indispensabile d’un buon sistema d’istruzione in ogni paese civile.

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Taluni scritti di architettura pratica

266943
Pietrocola, Nicola Maria 4 occorrenze
  • 1869
  • Stamperia del Fibreno
  • Napoli
  • arte
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Ma questo secondo pilone alla stessa altezza di palmi 20 non oscillerà perchè occuperà una base maggiore: adunque fatta una continuazione tanto del primo pilone che del secondo, ne risulteranno due muri continuati, quello della spessezza massiccia di palmi 4 e questo della spessezza tubolare di palmi 5; e questo secondo muro resisterà alla spinta più del primo, non ostante che abbiano tutti e due egual massa di fabbrica. Dati adunque due muri della eguale lunghezza di palmi 20, l’uno formato della continuazione di 5 piloni massicci darà una base di area murata palmi quadrati 80; e l’altro formato della continuazione di 4 piloni tubolari darà una base di area di fabbrica o muratura palmi quadrati 64. Messi a confronto questi due muri di facciata, il primo esige una muratura come 80, ed è più debole, il secondo esige una muratura come 64, ed è più forte, non ostante che vi sia un quinto di risparmio di materiali. Dunque dall’accorta disposizione dei materiali, e non dalla quantità di essi dipende la fermezza de’ muri.

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Ed ecco dunque come si può conseguire che i muri di facciata anche nelle cantonate non abbiano spinta dalle costruzioni interne.

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Le arcate sarà forse meglio farle di sesto scemo tanto perchè abbiano maggiore sforzo a tendere la catena quanto ancora a non vederle troppo elevate dal solajo del ponte. Nè tali arcate così elevate dee credersi che siano inutili; perchè il carico di esse sopra i piloni rende questi più robusti e resistenti alla corrente delle acque. Si crede però che ogni pilone faciente officio d’imposta alle due arcate corrispondenti in fila, deggia essere isolato; perchè se si facesse un pilone continuato de’due laterali al ponte, i quali si guardano rimpetto, il tratto medio del pilone così continualo resterebbe senza carico, e così non vi sarebbe equilibrio nella fabbrica, ed i due filari di arcate accennerebbero d’inclinarsi esternamente al ponte. In somma se il ponte, come è solito farsi, dovesse avere cinque arcate di lunghezza, sei ne sarebbero i piloni compreso le coscie o spalle del ponte; ma nel nostro caso debbono esserne dodici. Colle traverse di ferro poi che servono di contignazione al ponte, si unirebbero i due piloni contrarii od opposti in ciascun lato del ponte, e così ne verrebbe un solo sistema di concatenazione per la maggior solidità. Anche superiormente poi alle arcate si praticherebbero tali unioni con spranghe più leggiere sopra cui si formerebbe il solajo di legno superiormente ai vagoni con le rampe di salita e di scesa come è descritto all’altra idea cennata di sopra per lo passaggio de’ pedoni, animali e carrozze ordinarie.

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Per questa considerazione è necessario che le ruote de' piroscafi non abbiano quella molta velocità che loro si dà comunemente; ed invece conferisce meglio l’accrescere le loro dimensioni, specialmente delle pale. La ruota proposta dell’indicato diametro di palmi 40 ha una periferia di palmi 120, lasciando i rotti Or dato che colla forza del vapore possa girare 20 volte in un minuto primo, la sua periferia descriverà uno spazio di palmi 2400, nel detto tempo, ossia che in un’ora camminerà 82 miglia italiane; e dato che di questa velocità se ne perdesse la metà per la cedevolezza delle acque di appoggio alle palette, pare che un bastimento così fornito dovrebbe camminare miglia 41 in ogni ora. Che sarebbe se le ruote potessero ancora essere più grandi?

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Racconti fantastici

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Tarchetti, Iginio Ugo 2 occorrenze

Gli uomini hanno adottato un sistema facile e logico in fatto di convenzioni; ammettono ciò che vedono, negano ciò che non vedono; ma questo sistema non ha impedito finora che essi abbiano dovuto ammettere più tardi non poche verità che avevano prima negate. La scienza e il progresso ne fanno fede. Del resto, comunque sia, per ciò che è fede nelle influenze buone e sinistre che uomini e cose possono esercitare sopra di noi, non v'è uomo che non ne abbia una più o meno salda, più o meno illuminata, più o meno confermata dall'esperienza della vita. Tutto al più si tratterebbe di riconoscere se essa abbia o no ragione di essere, e fino a qual punto debba venire accettata, non di negarla - poichè l'esistenza di questa fede è indiscutibile. Io ne trovo dovunque delle prove. Per me l'antipatia non è che una tacita coscienza dell'influenza fatale che una persona può esercitare sopra di noi. Nelle masse ignoranti questa coscienza ha creato la jettatura, nelle masse colte la prevenzione, le diffidenza, il sospetto. Non v'è cosa più comune che udire esclamare: «quell'uomo non mi piace - non vorrei incontrarmi per via con quella persona - mi fa paura - d'innanzi a lui io non sono più nulla - ogni qualvolta mi sono imbattuto in quell'uomo mi è accaduta una sventura.» Nè questa fede che si presenta sotto tanti aspetti, che quasi non avvertiamo, che è pressochè innata con noi come tutti gli istinti di difesa che ci ha dato la natura, è sentita esclusivamente da pochi uomini - essa è, in maggiori o minori proporzioni, un retaggio naturale di tutti. Questa superstizione accompagna l'umanità fino dalla sua infanzia, è diffusa da tutti i popoli. Gli uomini di genio, quelli che hanno molto sofferto, vi hanno posto maggior fede degli altri. Il numero di coloro che credettero essere perseguitati da un essere fatale è infinito: lo è del paro il numero di quelli che credettero essere fatali essi stessi, Hoffman, buono ed affettuoso, fu torturato tutta la vita da questo pensiero. Non giova dilungarsi su ciò, perchè la storia è piena di questi esempi, e ciascuno di noi può trovare nella sua vita intima le prove di questa credenza quasi istintiva. Io non voglio dimostrarne nè l'assurdo nè la verità. Credo che nessuno lo possa fare con argomenti autorevoli. Mi limito a raccontare fatti che hanno rapporto con questa superstizione. * ** Nel carnevale del 1866 io mi trovava a Milano. Era la sera del giovedì grasso, e il corso delle maschere era animatissimo. Devo però fare una distinzione - animatissimo di spettatori, non di maschere. Chè se la taccia di fama usurpata, così frequente, e spesso così giusta in arte, potesse applicarsi anche alle feste popolari, il carnevale di Milano ne avrebbe indubbiamente la sua parte. Queste feste non sono più che una mistificazione, ed hanno ragione di esserlo, giacchè le migliaja di forastieri che vengono annualmente ad assistervi non sono però meno convinti di divertirsi. Tutto stava nell'istillar loro la persuazione che il carnevale di Milano fosse la cosa più comica, più spiritosa, più divertente di questo mondo. Una volta infuso questo convincimento, non erano più necessari i fatti per confermarlo - lo scopo di divertire era ottenuto. Comunque fosse, il Carnevale del 1866 non era meno animato degli altri, e nelle prime ore della sera del giovedì grasso, la popolazione si era versata sulle strade a torrenti. La folla aveva talmente stipate le vie che in alcuni punti era impossibile muoversi e presso la crociera della via di S. Paolo, ove mi trovava io, si era letteralmente pigiati. Gli onesti milanesi si frammischiavano fraternamente ai forestieri, e si inebbriavano del piacere di guardarsi l'un l'altro nel bianco degli occhi - ciò che costituisce l'unico, ma ineffabile divertimento di questo celebre Carnevale. Non so da quanto tempo io mi trovassi colà, in piedi, in mezzo a quella gran ressa, in una posizione incomodissima, allorchè voltandomi per vedere se v'era mezzo di uscirne, osservai intorno a me uno spettacolo assai curioso. La folla non si era diradata, ma si era ristretta in modo da lasciare in mezzo a sè uno spazio circolare abbastanza vasto. Nel centro di questo circolo miracoloso v'era un giovinetto che non mostrava aver più di diciotto anni, ma cui, a guardarlo bene, se ne sarebbero dati venticinque, tanto il suo volto appariva patito, e tante erano le traccie che v'erano impresse d'una esistenza travagliata e più lunga. Era biondo e bellissimo, eccessivamente magro, ma non tanto che la bellezza dei lineamenti ne fosse alterata; aveva gli occhi grandi ed azzurri, il labbro inferiore un po' sporgente, ma con espressione di tristezza più che di rancore; tutta la sua persona aveva qualche cosa di femminile, di delicato, di ineffabilmente grazioso, qualche cosa di ciò che i francesi dicono souple, e che io non saprei esprimere meglio con altra parola della nostra lingua. La purezza e l'armonia delle sue linee erano meravigliose; egli vestiva con estrema eleganza; e guardava quà e là, un poco alla folla e un poco alle maschere, con aria malinconica e divagata come se si trovasse in quel luogo a suo dispetto, e fosse più occupato di sè che dello spettacolo poco allettante che aveva d'innanzi allo sguardo. Ma ciò che mi era parso rimarchevole era che egli sembrava non essersi avveduto di quel circolo che s'era formato d'intorno a lui, nè alcuni di quelli stessi che lo avevano formato mostravano di averci posto mente. Non era nulla in ciò di veramente straordinario; pure l'esistenza di uno spazio così vasto in mezzo ad una folla così fitta, in mezzo ad una moltitudine che si moveva, fremeva, ondeggiava come un corpo solo, senza riempire mai il vuoto che s'era formato in quel punto, mi pareva cosa meritevole di attenzione. Si sarebbe detto che da quel giovine emanasse un fluido ripulsivo, una virtù misteriosa atta ad allontanare da lui tutto ciò che lo circondava. In quell'istante che io lo stava guardando, essendogli stati gettati alcuni confetti, di cui parecchi si fermarono tra le pieghe del suo mantello che teneva avviluppato sul braccio, un fanciulletto si spiccò dal circolo e gli venne d'appresso quasi per domandarglieli, giacchè egli nè li aveva presi, nè aveva scosso il mantello per farli cadere. Il giovine lo guardò con affetto, raccolse le confetture, gliele diede; e prima che si allontanasse gli passò una mano tra i capelli con una specie di tenerezza piena di soavità e di malinconia. Egli aveva posto tanto affetto in quell'atto che, ove anche la natura non lo avesse dotato di un volto così dolce e così simpatico, lo si sarebbe subito giudicato buono e cortese. È un fatto che il volto è lo specchio dell'anima: non si può indovinare se la natura abbia dato ella stessa un'espressione buona ai buoni, e cattiva ai cattivi; o se la bontà e la malvagità umana possano talmente agire sulle nostre fattezze da modificarle e da imprimervi il loro suggello; ma egli è ben certo che il cuore trasparisce dal viso, anche da quelli la cui bellezza vorrebbe nascondere un animo turpe, o la cui laidezza uno onesto. Io non mi sarei stancato mai di guardarlo. Non so se le affezioni degli altri uomini sieno governate da questa legge di simpatie e di antipatie improvvise, energiche, inesorabili cui vanno soggette le mie, - per me l'innamorarmi di un uomo o di una donna, il concepire un'inclinazione od un'avversione irresistibile per una creatura qualunque non fu mai opera che di pochi minuti - ma mi ricordo che l'avrei abbracciato lì sulla via, tanto l'espressione del suo volto era affettuosa, tanto quel linguaggio andava dritto al cuore, senza dar campo alla ragione di discuterci sopra. Non mi mossi di là finchè non se ne mosse egli pure. La festa incominciava a languire, la folla incominciava a diradarsi, e il crepuscolo ad avvolgere tutta quella scena in un penombra grigia e pesante. Eravamo a due passi da un caffè, ed egli vi entrò con aria d'uomo che non sa come passare il suo tempo, che sente il peso delle sue braccia, delle sue gambe, di tutta la sua persona, e che vorrebbe sbarazzarsene e buttarlo là sopra un divano come un fardello noioso ed inutile. Io era nello stesso caso, non aveva che fare, e gli tenni dietro. Ci sedemmo di faccia, io a guardarlo, egli a leggere. Se non che egli pareva sì poco occupato della sua lettura, che se anche avesse afferrato il giornale pel rovescio credo che non se ne sarebbe avveduto. I suoi occhi erano fissi sulle colonne di quel diario, ma sembravano guardare di dentro piuttostochè di fuori, parevano aver concentrata tutta la loro virtù visiva in sè medesimi, e non occuparsi che di ciò che avveniva nell'animo del giovine. Io non aveva però avuto che il tempo di fare questa riflessione, allorchè dietro la vetrina della finestra scorsi un nuovo affollarsi di gente e sentii come delle grida femminili; stavo per alzarmi allorchè si aperse la porta del caffè, e ne fu recato dentro un fanciullo svenuto, il quale era stato travolto dalle ruote di una vettura, e ne aveva avuto un braccio spezzato. Rimasi dolorosamente colpito dal riconoscere in quel fanciullo quello stesso che l'incognito aveva accarezzato in mezzo a quel circolo, e a cui aveva regalato i confetti caduti sul suo mantello. Per un moto istintivo diressi lo sguardo dalla sua parte, e lo scorsi nell'istante che usciva frettolosamente dalla sala. Il suo volto riflesso in quel momento da uno specchio che era di fronte a me, mi parve pallidissimo. Io abbandonai poco dopo quel caffè in preda a tristi pensieri. In quella sera stessa doveva aver luogo alla Scala una rappresentazione straordinaria. L'opera annunciata era la Sonnambula e il pubblico vi era accorso numeroso ad ascoltare quella musica divina, così piena, così complessa nella sua semplicità, così affettuosa. Si era rappresentata poco prima l' Africana - da Mayerbeer a Bellini la differenza almeno, se non la distanza, era ben grande. Il teatro era illuminato a giorno, la platea era stipata di uditori; e non v'erano altri palchi vuoti da cinque o sei all'infuori, posti tutti nello stesso punto; e in uno dei quali riconobbi con mia grande sorpresa il giovine che aveva veduto poco prima assistendo al corso delle maschere. Egli era solo e non mi sembrava più nè sì triste, nè sì pensieroso. Vestiva un abito nero molto elegante, ma nulla dimostrava che fosse avvezzo a prendere gran cura della sua persona. Non so se fosse inganno mio, o allucinazione, e che altro, ma egli mi pareva straordinariamente bello, assai più di quanto mi fosse sembrato poche ore prima. Vi era sul suo volto qualche cosa di luminoso, qualche cosa di quella trasparenza profonda, benchè torbida, benchè appannata, che ha l'alabastro. Egli aveva difatto la stessa pallidezza: a non guardarne gli occhi, a non esaminare la mobilità prodigiosa dei lineamenti, lo si sarebbe detto morto o impietrito. I suoi capelli conservavano ancora quella finezza, quella arrendevolezza, quella lucidità, quell'arricciamento semplice e naturale che hanno i fanciulli; erano di un biondo meraviglioso, e lucevano come fili d'oro al riflesso delle fiamme dei candelabri. Teneva appoggiato il gomito al parapetto, e la guancia sulla mano: la sua testa così inclinata pareva ancora più bella. Egli aveva quella specie di bellezza che hanno le donne, e che ritrae dalla luce un prestigio misterioso e affascinante. A contemplare dalla platea - d'onde non si vedeva il resto della persona – quella sua testa così diafana e così bianca, la si sarebbe creduta appartenere ad un fanciullo, ad una creatura fragile e delicata, forse ad un essere sopranaturale. Io solo aveva rimarcato cosa che mi pareva avere una strana relazione con ciò che aveva osservato prima al corso delle maschere, voglio dire quel trovarsi egli così isolato in un palco intorno al quale ve n'erano cinque o sei altri vuoti, mentre non era possibile vederne da tutte le altre parti del teatro un solo che non fosse occupato - bisognava aver osservato prima l'accidente del circolo, per trovar causa di meraviglia in questo fatto, - ma gli spettatori erano stati unanimi nell'avvertire la sua bellezza e nell'ammirarla, nè tardai ad accorgermi che le signore sopratutto ne erano state colpite, e gareggiavano nel dirigere i loro cannocchiali verso il suo palco. Tra quelle di esse che erano riuscite ad attirarsi più facilmente la sua attenzione, vi era una fanciulla che era pure assai bella, ed occupava un palco non molto lontano da quello del giovine. Come avviene a tutte le ragazze veramente ingenue, non di quella ingenuità convenzionale che esse devono ostentare spesso come una parte di commedia, fino a che il marito non le autorizza a rappresentare una parte diversa, ma di quella ingenuità vera che ha la sua radice nella verginità della mente e del cuore, essa ne era rimasta fortemente e subitamente impressionata. Era troppo giovine per sapersi già infingere, e credo di non essere stato io solo ad avvedermi del suo turbamento e della sua agitazione. Assistetti per un po' di tempo a quella specie di rapporto misterioso che s'era stabilito tra di loro, mi cacciai come un intruso in quella specie di corrente magnetica che avevano formato i loro sguardi; poi quasi vergognandomi di quello spiare, di quell'ammiccare alla loro felicità, come un pitocco che assista ad un banchetto dalla soglia della stanza, e non possa fruire che del profumo delle salse e delle vivande, mi raccolsi in me stesso, e procurai di rivolgere tutta la mia attenzione allo spettacolo dell'opera. Dico che me n'era vergognato, ma per me solo. Che se v'è qualche cosa al mondo, d'innanzi alla quale io non sappia nè sogghignare per sprezzo nè piangere per pietà, è la vista di due persone che si amano. Mi sono cacciato spesso di notte sotto i viali pubblici, sotto i boschetti di tigli, appositamente per incontrarvi qualche coppia d'innamorati; e non mi venne mai di passar vicino ad una di esse senza sentirmi compreso da un sentimento di rispetto profondo. Lo confesso, furono quelli i soli istanti della mia vita, in cui i miei simili mi sieno sembrati meno tristi del solito. Era così riuscito a poco a poco ad occuparmi interamente della rappresentazione, e non aveva più alzato gli occhi verso il palco di quello sconosciuto, allorchè avvedendomi d'un movimento improvviso che si manifestava negli spettatori, e scorgendo la folla addensarsi verso la porta, mi mossi io pure e entrato a stento nel vestibolo, vidi passarvi due signori che reggevano sulle loro braccia una fanciulla svenuta, e la trasportavano in una delle sale del teatro. Non dirò quale fosse la mia meraviglia nel ravvisare in lei quella stessa fanciulla che aveva guardato con tanto affetto e con tanta insistenza il mio incognito. Tutto ciò che era accaduto non poteva essere stato che un capriccio del caso: pure era la seconda volta nel termine di poche ore, che io vedeva una persona alla quale egli aveva dato segno di predilezione, venir colpita improvvisamente da una sventura. Rientrai nella platea. Egli occupava ancora il suo posto, era rimasto nella posizione di prima colla guancia appoggiata alla mano; ma il suo volto coloritosi improvvisamente di un rossore vivace, era tornato in un istante di una pallidezza cadaverica. Non era difficile accorgersi che egli soffriva, che s'era avveduto degli sguardi curiosi e quasi reprensivi di cui era fatto oggetto, e che non era rimasto immobile al suo posto che per dissimulare la sua commozione, e per non accusare in certo modo quella specie di complicità che aveva avuto in quell'avvenimento. Allorchè parve che il pubblico avesse cessato di occuparsi di lui, egli uscì dal teatro, e ne uscii io pure. Nessuno conosceva forse il caso assai più deplorevole che aveva avuto luogo poche ore prima: nessuno aveva forse rimarcata la circostanza singolare e incomprensibile di quella specie di vuoto che egli pareva formare intorno a sè, nè aveva posto mente ai rapporti che sembravano congiungere tutti questi fatti, ma io ne era tutto in pensiero. Era evidente esservi in lui qualche cosa di inesplicabile e di fatale. Io lo aveva veduto solo nel seno di uno spazio formato quasi miracolosamente in mezzo ad un folla fittissima, aveva veduto rinnovarsi lo stesso caso in un teatro ripieno di spettatori; aveva veduto un fanciullo che aveva ricevuto le sue carezze venir travolto dalle ruote di una carrozza, e una fanciulla osservata da lui, essere colta da un malessere improvviso. Non mi pareva possibile che una pura combinazione avesse dato luogo a questa serie di avvenimenti. E se così non era, chi era dunque egli? Quale era l'influenza che poteva esercitare quell'uomo? * ** Otto giorni dopo io mi trovava al caffè Martini - quel convegno di artisti che non lavorano, di cantanti che non cantano, di letterati che non scrivono, e di eleganti che non hanno uno spicciolo - e si parlava, raccolti in buon numero attorno ad un tavolo, d'una specie di pasticcio di nuova invenzione, qualche cosa di consimile al pudding, che era stato aggiunto quel giorno alla nota delle vivande del ristorante. Da questo soggetto la conversazione era caduta, filtrando per l'idea del pudding e dell'oca di cui le classi ricche a Londra usano regalare le classi povere nel giorno di Natale, sul discorso che la regina d'Inghilterra aveva fatto allora al parlamento. Una frase di questo discorso aveva dato un gran colpo alla discussione e l'aveva gettata di balzo sulle eventualità d'una guerra in Italia. Da ciò, giù per la china delle opinioni e delle antiveggenze personali si era arrivati ai pronostici; e dai pronostici ai presagi; e da questi, entrando nel campo della vita intima, alle fatalità, alle stregature, alle malie; per modo che cinque minuti dopo aver difeso a spada tratta l'eccellenza di questo pasticcio di nuova invenzione, io raccontava a quel circolo di sfaccendati gli avvenimenti incomprensibili di cui era stato testimonio pochi giorni prima a proposito di quel giovine incognito. Inutile dire che si rise di me e che non mi si volle prestar fede; il fatto della fanciulla svenuta poche sere innanzi era bensì noto, ma le cause, dicevano essi, dovevano essere diverse. Nondimeno il soggetto di questa nuova deviazione del nostro discorso era stato trovato interessante, e la conservazione dopo aver fluttato su tanti argomenti, si era arrestata saldamente su questo. Ciascuno esponeva le proprie idee, ciascuno aveva qualche cosa a raccontare a questo riguardo. E come avviene ogni qualvolta ci affacciamo a questo mondo pauroso dell'incomprensibile e del soprannaturale, che se ne ride da principio per ostentazione di coraggio e si finisce coll'atterrirsi di ciò che si ascolta, e spesso di ciò che abbiamo raccontato noi stessi, ciascuno di noi si sentiva compreso da un sentimento misto di paura e di meraviglia, e si affannava a riannodare e a rinfocare la conversazione ogni qualvolta questa mostrava di languire, con quell'insaziabilità che hanno i fanciulli di ascoltare i racconti spaventevoli dei maghi e delle fate. Avevamo pressochè esaurito tutto il repertorio delle nostre cognizioni su questa tesi, allorchè un vecchio artista da teatro che tutti noi conosciamo da tempo - una dalle cariatidi più celebri di quel caffè - si alzò da un tavolo vicino da cui era stato ascoltando, e venne a prender posto nel nostro circolo. -Il signore ha ragione, diss'egli, accennandomi col dito. Io non conosco il giovine di cui egli ha parlato poco fa, e non posso far fede dell'influenza che gli attribuisce, ma che esistano uomini siffattamente fatali, anzi assai più fatali di quel giovine, non è cosa da potersi mettere in dubbio. Chi di voi ha sentito nominare il conte Corrado di Sagrezwitcth? -Nessuno-È strano, giacchè egli si è formato in quasi tutti gli Stati d'Europa e in molte delle provincie degli Stati Uniti una terribile reputazione. Egli è considerato come l'uomo più fatale di cui si abbia memoria, la sua presenza segnala dovunque una sventura immancabile, egli si è trovato sempre sul teatro delle calamità più terribili, ha assistito ai disastri più spaventosi. Egli si trovava nell'America del Sud allorchè bruciò la chiesa di S. Jago in cui perirono più di mille persone; egli viaggiava or fanno due anni sulla ferrovia del Pacifico allorchè avvenne quello scontro in cui perdettero la vita più di trecento viaggiatori; egli era a Pietroburgo allorchè rovinò il palazzo del principe di Jakorliff in cui tante nobili dame e tanti dignitari dello Stato trovarono la morte. Nelle miniere irlandesi e in quelle di Alstau Moor in Scozia - luoghi che egli ha spesso visitati - il suo nome non viene ascoltato mai senza spavento; ogni sua visita ha segnalato qualcuna di quelle catastrofi che sono tanto frequenti e tanto temute nelle miniere. Il conte di Sagrezwitcth è stato già parecchie volte in Italia; vuolsi che egli si trovasse a Torino all'epoca della convenzione allorchè avvennero i fatti luttuosi di settembre, ma nessuno, per quanto io sappia, ve lo ha veduto. -E voi lo conoscete? -L'ho incontrato quattro volte ne' miei viaggi. Voi sapete che io ho percorso come artista e come impresario teatrale, quasi tutta l'Europa e una buona metà del Nuovo Mondo. È forse perciò che ho potuto essere edotto dell'esistenza di quest'uomo straordinario, e conoscerlo personalmente. La prima volta che lo vidi fu a Berlino dove esordii nel capolavoro di Mozart colla parte di D. D.Giovanni. Lo incontrai poscia in una sala di caffè a Nuova York, allorchè ferveva ancora in America la guerra di secessione, e precisamente alla vigilia dell'ultima disfatta dei separatisti, e la terza volta che mi imbattei con esso fu di nuovo a Berlino .... -E di che paese è egli? -Alcuni vogliono americano, alcuni polacco. Nessuno ne conosce con certezza la patria, forse nemmeno il nome. In America si faceva chiamare coll'appellativo di Duca di Nevers, in Europa conservò sempre il nome di conte di Sagrezwitcth; i minatori scozzesi lo chiamano l'uomo fatale Egli parla correttamente molte lingue, ha le abitudini e i costumi di tutti i paesi che ha visitato; in Italia è italiano, in Inghilterra è inglese, e in America è americano modello ... -E che età può avere? -Mostra cinquant'anni, ma i suoi capelli e la sua barba nerissima non hanno ancora alcun segno di canizie. È un uomo di statura mezzana, di aspetto antipatico, benchè le sue fattezze sieno regolari e in qualche modo leggiadre. Porta quasi sempre nell'inverno un berretto di pelo a foggia di turbante, e suol vestire volontieri i costumi dei paesi in cui si trova. A giudicarne dallo sperpero che egli fa ordinariamente del suo danaro, lo si direbbe assai ricco; nondimeno fu visto parecchie volte alloggiarsi in osterie di second'ordine, e tenere un regime di vita molto economico. A Nuova York, per esempio, era bensì alloggiato all'albergo del Fifth-Avenue quel colosso di marmo che ha mille e duecento stanze, ma vi occupava un letto della sala di riposo concessa ai viaggiatori che dispongono di mezzi assai limitati. È fama che egli abbia coscienza della sua fatalità, e che si compiaccia di esercitarla. Quel suo recarsi continuo da un capo all'altro del mondo non può essere senza uno scopo. Del resto si sa che egli non ebbe mai affetti, non amicizie, forse nemmeno conoscenze, toltene alcune poche e superficialissime. Coloro che ne conoscono la potenza lo sfuggono per progetto, quelli che la ignorano, per istinto. - Che vi sieno persone che gli negano questo potere, questa specie di missione arcana e terribile, riprese egli vedendo che alcuni di noi sorridevano con aria di incredulità, è cosa naturalissima. Nessuno può provare che le sciagure avvenute nei luoghi ove egli si è trovato, e negli istanti in cui vi si è trovato, abbiano avuto una causa nella sua volontà, o in ciò che noi chiamiamo la sua influenza. Egli è d'altronde un uomo come tutti gli altri; parla, veste, opera come tutti gli altri; volendo è affabile e gentiluomo, vi è nulla a che opporre; ma parmi cecità il negare cosa che la maggior parte degli uomini ha ammesso, il negare perchè non si comprende. -Noi non neghiamo, gli diss'io, dubitiamo. Ma, a proposito, avete dimenticato di dirci dove l'avete incontrato la quarta volta. -Ah! riprese egli un poco rassicurato dalle mie parole. Quest'ultimo incontro ha una data molto recente. Io lo vidi due mesi or sono a Londra, allorchè vi bruciò il teatro della regina. Seppi anzi che egli aveva intenzione di passare presto in Italia, e se egli ha scelto questa stagione per venirvi, vi è nulla di più probabile che le feste del carnovale lo abbiano condotto a Milano. -A Milano! -Sì, e desidererei che lo vedeste. Non so dirvi il motivo di questo desiderio, pure mi sembra che al solo vederlo potreste comprendere il perchè di tante cose che io non posso spiegarvi; mi pare che non potreste più dubitare della verità della mia asserzione. - Osservereste, riprese egli dopo qualche istante, una cosa assai rimarchevole nel suo abbigliamento, voglio dire la freschezza e la finezza de' suoi guanti che egli suole mutare più volte in un sol giorno, per modo che nessuno l'ha mai veduto a mani scoperte; e un'altra singolarità non meno notevole nella sua persona, cioè la potenza del suo sguardo, un non so che di magnetico e di inesplicabile che vi è in lui, e che vi sforza quasi a guardarlo e a salutarlo vostro malgrado. -A salutarlo! esclamammo noi sorridendo. -Sì, a salutarlo. -Oh! vorrei vederlo! -Davvero-Vorremmo vederlo! In quell'istante - potevano essere le due dopo mezzanotte - si aperse l'uscio del caffè, e un uomo pingue e tarchiato entrò nella sala. Al ritratto che ci era stato delineato poco prima, al berretto di pelo, alle mani calzate da guanti freschissimi, all'espressione singolare del suo volto, noi non tardammo a riconoscere in lui l'uomo di cui si era parlato. Allora, o fosse meraviglia, o fosse confusione di idee prodotta da quella sorpresa, ci alzammo unanimemente a salutarlo. Egli portò la mano al berretto con atto di cortesia schietto ma moderato, e si sedette all'altra estremità della stanza. Io non posso esprimere la confusione, la meraviglia, il dispetto che s'impadronì di noi in quell'istante. Comprendevamo di esserci mostrati deboli verso di lui, verso di noi stessi, di esserci mostrati fors'anche ridicoli. Ciascuno era rimasto assorto in questo pensiero, nè aveva osato riprendere la parola. Il silenzio aumentava la nostra confusione. L'incognito chiese una tazza di punch punchche bevve avidamente. Gettò sulla guantiera uno scudo d'argento, e respinse al cameriere il residuo del prezzo della sua bibita. Il cameriere nell'allontanarsi inciampò del piede nell'estremità della sua sedia e cadde; la guantiera essendogli scivolata di mano, percosse del volto sui cocci della tazza che si era spezzata, e si ferì in modo che il viso gli si coperse in un istante di sangue. A quella vista ci alzammo tutti come mossi da una sola volontà, e uscimmo a precipizio dalla sala. * ** Nei primi giorni della mia residenza a Milano aveva dovuto quasi mio malgrado, stringere conoscenza con una famiglia, la quale per mediazione di amici, mi aveva reso anni prima alcuni servigii assai utili. Abitava essa una di quelle casupole grigie e isolate che fiancheggiano il naviglio dalla parte occidentale della città - una vecchia casupola a due piani che il tetto sembrava comprimere e schiacciare l'uno sull'altro come una cappa pesante di piombo, tanto erano bassi ed angusti. Correvanle tutto all'intorno alcuni assiti neri e tarlati su cui si arrampicavano delle zucche nane e dei convolvoli malati di clorosi. Un setificio vicino l'avvolgeva notte e giorno in un'atmosfera di fumo, l'umido del naviglio aveva prodotto qua e là alcune rifioriture nell'intonaco esterno delle pareti, e le aveva rivestite di muffa e di piccole pianticelle di acetosa; nubi di moscherini entravano per la bocca e pel naso al primo affacciarsi alla finestra; e il cicaleccio, e lo sbattere, e il canticchiare delle lavandaie che risciacquavano, e sciorinavano su quegli assiti e su quelle zucche produceva da mattina a sera un baccano continuato e assordante. Non vi sono forse a Milano cento persone le quali abitino nel centro della città, e conoscano con esattezza quella parte de' suoi dintorni. Milano è la miniatura esatta di una gran città; ha in piccole proporzioni tutto ciò che è proprio delle grandi capitali. Quel lembo estremo di case che costeggia il naviglio da Porta Nuova a Porta Ticinese è ciò che è la Marinella a Napoli, ciò che è il Temple a Parigi, ciò che è Seven-dials a Londra. Avverso, mezzo per istinto, mezzo per progetto, a conoscere nuove cose e nuove persone, io ho sempre considerato una conoscenza nuova come un peso nuovo aggiunto alla mia vita - non aveva avuto però a dolermi di quella. Era una famiglia di onesti negozianti arrichitasi mediocremente nel commercio, e venuta ad alloggiare in quella casa solitaria per godervi in pace la piccola fortuna che aveva raggranellato. Silvia l'unica erede di quella fortuna, era una delle più splendide bellezze che io avessi mai veduto, e non aveva che diciasette anni allorchè io la conobbi. Non era una di quelle beltà fine e delicate che preferiamo spesso alle beltà robuste - l'amore ha fatto da alcuni anni un gran passo verso lo spiritualismo - ma la sua bellezza, benchè ineffabilmente serena benchè fiorente di tutti i vezzi della gioventù e della salute era temperata da qualche cosa di gentile e di pensieroso che non hanno ordinariamente le bellezze di questo genere. Nè io potrei dirne di più; ciascuno di noi porta in sè un ideale diverso di bellezza, e quando si è detto d'una donna: è leggiadra, si è detto tutto ciò che si può dirne. Un pittore, uno scultore potrebbero darne nella loro arte un immagine meno incompleta, la letteratura non lo può - le altre arti parlano ai sensi, la letteratura alle idee. Ho veduto due incisioni di Jubert, due angeli simboleggiati da due giovinette nude, paffute, rosate, per ciò che è colorito e pienezza di forme, due vere popolane; eppure l'artista aveva saputo dare a quei volti tanta spiritualità che incantavano e non si potevano guardare senza restarne rapiti. Nelle madonne del Carraccio ho osservato lo stesso contrasto. La bellezza di Silvia era di questo genere, risolveva in certo modo lo stesso problema - la spiritualità della materia. Essa era una di quelle anime semplici, pie, modeste che non sanno aver mai alcun rancore colla vita, ricche di quella cara fatuità che la natura ha dispensato con tanta larghezza alla donna, felici nell'ordine e nella quiete che la loro semplicità medesima ha creato intorno ad esse, e che l'assenza delle loro passioni non può mai turbare. Durante le mie prime visite, aveva conosciuto in quella famiglia un cugino di Silvia, certo Davide, giovine maturo e positivo che era giunto da poco a Milano, e che era stato un tempo interessato negli affari commerciali di quella casa. Pericoloso come tutti i cugini - non so se parimenti fortunato - non m'era stato difficile accorgermi che egli amoreggiava la fanciulla. Come tutti gli altri uomini non era nè bello, nè brutto - la bellezza dell'uomo è una cifra di cui non si è ancora trovato il valore, anche per la maggior parte delle donne non è che una cosa insignificante; noi cerchiamo nell'uomo un carattere, le donne vi cercano semplicemente un uomo - sono esse che hanno creato quel noto aforismo: un uomo è sempre bello. Io confesserò che quella scoperta era stata uno dei motivi essenziali che m'avevano indotto a trascurare la conoscenza di quella famiglia. Io non aveva posto occhio nè sulla dote, nè sulla bellezza di Silvia, ma aveva compreso che l'amore di Davide che io credeva corrisposto mi poneva d'innanzi a lui in una certa quale inferiorità di cui mi sentiva umiliato. In ogni uomo che avvicina una donna si suppone il desiderio di corteggiarla; in due uomini che l'avvicinano a un tempo si suppone quasi il dovere di lottare per ottenerne la preferenza. Almeno la società ed il cuore umano hanno ancora di tali pregiudizii: abbiamo mutato vocaboli, ma non abbiamo mutato cose e passioni: presso ogni circolo di donne vi è ancora una piccola corte d'amore intima dove si combatte ad armi cortesi per l'affetto di una dama preferita. E poi io mi sono sempre sentito sì meschino dinnanzi ad un uomo positivo, che non mi bastò mai l'animo di impegnarmi in una lotta qualunque con un nemico siffatto. Che cosa è egli un dotto, un letterato, un sapiente al confronto di ciò che noi chiamiamo un uomo di mondo? È pur poca cosa l'ingegno! Come gli uomini ignoranti, col loro buon senso borghese, grossolano, triviale ci avanzano nella scienza e nella pratica delle cose! Noi non facciamo che inciampare come fanciulli a tutti i più piccoli scogli della vita! Questa coscienza della mia inferiorità aveva dunque reso meno frequenti le mie visite - io ho ora nella stessa città in cui abito conoscenza di famiglie che mi reco a visitare ogni tre o quattro anni, come tornassi da un viaggio di circonvoluzione attorno al globo - e più tardi, morto il padre di Silvia, che era delle persone della famiglia quella cui era più specialmente obbligato, ne aveva preso pretesto per troncarle completamente. Era trascorso così pressochè un anno allorchè, pochi giorni dopo quella singolare comparsa del conte di Sagrezwitcth al caffè Martini, m'imbattei in Davide che non aveva più veduto da quel tempo e che mi parve molto mutato. Egli mi strinse le mani e mi guardò con espressione triste e turbata - quell'espressione mista di ritegno e di confidenza che hanno coloro i quali vogliono farvi comprendere di avere un segreto doloroso, e di non volervelo confidare. -Non vi si è più veduto in casa di mia cugina, mi diss'egli, la vostra assenza improvvisa ha prodotto una sorpresa un poco penosa in quella famiglia. Perchè voi sapete che mia zia aveva molta confidenza in voi, e poi ... si era presa l'abitudine di vedervi. Se sapeste! sono avvenute nuove sciagure in quella casa; Silvia sta per morire .... - Per morire! -Sì, la poveretta è travagliata da una malattia di consunzione, una malattia misteriosa che i medici non sanno nè conoscere nè definire più esattamente, ma che hanno dichiarata inguaribile. Essa doveva prender marito .... -Voi forse? -Non io, diss'egli tristamente, un ricco forestiero a cui mi ha posposto, e pel quale ha concepito una passione di cui non l'avrei mai creduta capace. Essa doveva sposarlo allorchè cadde malata, e queste nozze, ancorchè le si facciano ora come credo che abbiano risolto, non potranno aver più alcuna influenza sulla sua salute. Dubito che la felicità abbia potere di farla vivere più lungamente, ma ad ogni modo sarà almeno felice per quei pochi istanti di vita che le rimangono. Sarà felice anche senza di me, aggiunse egli con amarezza. È facile avvedersi che ella deperisce ogni giorno, e che è impossibile arrestare il processo di questo deperimento così rapido e così misterioso. -Come! io dissi, ella sposerà dunque quel giovane ancorchè tanto inferma come mi dite? Davide scosse la testa con aria di disapprovazione, e rispose: -Che volete! Hanno deciso così, anzi è lei stessa che ha deciso. Del resto la sua malattia non è una di quelle che costringono al letto, piuttosto una di quelle di cui diciamo: si muore in piedi. Ma perchè non venite a vederci? Son certo che mia zia ne avrebbe gran piacere, e anche Silvia. -Ci andate ora? -OraMi accompagnai con esso. Potevano essere le dieci di sera quando ponemmo piede in quella casa. La zia di Davide, una buona vecchia - la vecchiaia e l'infanzia si toccano, i vecchi sono sempre buoni come i fanciulli - mi accolse con gioia schietta e cordiale, ma temperata da un poco di rimprovero e di mestizia. -Ci troverete molto mutati, mi diss'ella. Voi non venite più nella casa di un tempo ... La povera Silvia .... - E s'interruppe un istante come per soffermarsi sul pensiero di quella sventura ma passate in questa stanza, la rivedrete voi stesso, ciò le farà piacere; e vi presenterò anche a mio genero. Entrammo nella camera vicina. Silvia era seduta sopra una sedia a bracciuoli, una gran seggiola a rotelle, tutta imbottita e tapezzata di velluto turchino; e presso a lei, sopra una seggiola più bassa il giovane sconosciuto che io aveva veduto al corso e al teatro. Egli aveva avvicinata la sua sedia a quella della fanciulla in modo da poter posare il capo sullo stesso bracciuolo su cui ella posava il braccio; e Silvia aveva inclinata la sua testa su quella del giovane con atto di tenerezza commovente. Dio! quanto mutata! Appena era possibile riconoscerla. Quella fanciulla che io aveva veduto sì robusta, sì serena, sì vivace non era più che un'ombra del passato, non aveva più che un riflesso pallido e incerto della sua bellezza di un tempo. Non che la sua antica avvenenza fosse del tutto svanita, ma si era alterata; era ora un'avvenenza diversa, era la bellezza di un fiore sbocciato all'ombra, di un frutto maturato precocemente perchè roso dal tarlo. Il volto del giovine era pallido, ma quello di Silvia era bianco, più bianco dell'abito lungo e vaporoso che avvolgeva la sua persona, se non che gli zigomi delle guancie un po' asciutte erano leggermente rosati, ma senza sfumatura come se vi fossero state sovrapposte due foglie di rosa già scolorite. I suoi capelli avevano quel lucido morto che hanno ordinariamente i capelli degli infermi, e pendevano, non sciolti ma scomposti, sulla testa del giovine che la stava guardando con espressione di pietà inesprimibile. Il pallore di lui, benchè estremo, non era di quel genere che danno le malattie, ma di quello che dà l'abitudine del pensiero e del dolore. Egli era ancora più bello di quanto mi fosse sembrato al teatro - e questa volta aveva potuto giudicarne davvicino - bello di una beltà più femminile che maschia, ma ad ogni modo assai bello. I suoi capelli biondi e quasi dorati facevano uno strano contrasto così confusi colle treccie nerissime della fanciulla. Io non aveva veduto mai un gruppo così stupendo, un quadro d'amore più spirituale e più puro. I due amanti si riscossero allo stridere che fece l'uscio nell'aprirsi - essi erano soli nella sala. -Guarda, Silvia, disse dolcemente la vecchia tenendomi per mano, guarda chi ci ha ricondotto tuo cugino. E rivolgendosi allo sconosciuto ed a me, pronunciò prima il mio nome, poi quello del giovine che disse essere il barone di Saternez nativo di Pilsen in Boemia. Ci inchinammo scambievolmente. Egli mi guardò con uno sguardo sì dolce che io gli porsi la mia mano quasi senza avvertirlo. Scambiate alcune parole, la vecchia, forse per lasciar soli i due giovani, mi trasse presso di sè in un angolo opposto della stanza. -Che ve ne pare di mio genero? mi chiese ella. E continuò senza aspettare la mia risposta: un giovine a dovere, sapete, un giovine ricco come il mare; se vedeste i regali che ha fatto alla Silvia! ... E poi, di che famiglia! Baroni, e dei più illustri di Boemia. Egli ha dovuto emigrare per affari di politica, credo che volesse far annettere la Boemia al granducato di Sassonia, figuratevi!, Ma tanto era lo stesso, oramai egli non aveva più interesse a restare nel suo paese, giacchè era rimasto solo di tutta la sua famiglia. E guardate che bel giovine; non vi offendete - e mi guardò come per interrogarmi, io sorrisi - non vi offendete, ma non credo che ve ne sia al mondo un altro come quello. E pensare ... La vecchia s'interruppe come colpita improvvisamente da un triste pensiero. -Povera Silvia! riprese ella dopo qualche istante. Voi l'avete veduta prima d'oggi, vi ricordate come era! E adesso! Guardatela. Non sono più di quattro mesi che essa ha incominciato a deperire così; fu dal giorno in cui mio genero è entrato la prima volta nella nostra casa. Ora che avrebbe potuto essere così felice; essa che lo ama tanto, che ne è tanto amata! Ditemi, vi pare che potrà guarire? -Non vi è pur luogo a dubitarne, io risposi tanto per riconfortarla. Silvia era vissuta finora sì ritirata; sì quieta, sì calma che questo disordine insolito ne' suoi affetti ha gettato un po' di turbamento anche nella sua salute. Ma tutto sarà finito quando ogni cosa sarà rientrata in uno stato normale, quando essi saranno marito e moglie. A proposito, ho sentito da vostro nipote che ciò deve avvenire assai presto. -Fra otto giorni, disse la vecchia, e spero che in quella circostanza sarete dei nostri. Son essi che hanno voluto così, e i medici non l'hanno disapprovato. Silvia è ancora abbastanza forte per sopportare il moto della carrozza fino alla Chiesa; d'altronde ne siamo a due passi. - Sarà una festa un po' triste, aggiunse ella stringendomi la mano, ma voi non rifiuterete di prendervi parte. La ringraziai, e l'assicurai che vi sarei venuto. Passai tutto il rimanente di quella sera agitato da pensieri strani e tumultuosi, diviso tra la simpatia irresistibile che mi inspirava il fidanzato di Silvia, e la ripugnanza che faceva nascere in me l'idea di quella missione fatale che pareva esercitare. Giacchè non v'era più dubbio; quel giovine sì bello, sì dolce, sì attraente spargeva d'intorno a sè la desolazione e la sventura, lasciava delle traccie spaventose sulla sua via. Tutti gli esseri che egli prediligeva soccombevano a questa influenza; il fanciullo delle maschere, la signora del teatro, Silvia, quella stessa Silvia già così bella, così spensierita, così fiorente facevano fede di questo suo potere terribile. E ne fosse egli o no consapevole, questo potere non era meno reale e meno funesto; era dovere e pietà il prevenirne le vittime, il sottrarle all'influenza incomprensibile di quell'uomo. Uscii da quella casa verso mezzanotte. Davide mi accompagnava. Il mio cuore era pieno. Ci avviammo senza profferir parola verso i bastioni. La notte era fredda ma asciutta; gli ippocastani colle loro corteccie nere, coi loro fusti alti e slanciati parevano spettri di alberi; il cielo, come avviene nelle notti serene d'inverno, scintillava di miriadi di stelle. Non tardai ad avvedermi che anche l'animo del mio compagno era profondamente turbato. -Sediamoci, gli dissi accennandogli un sedile di pietra, devo rivelarvi alcune cose che riguardano vostra cugina. E gli narrai distesamente tuttociò che aveva osservato a proposito del barone di Saternez, non gli nascosi i miei sospetti, gli parlai del conte di Sagrezwitcth e dell'incontro che ne avevamo fatto al caffè Martini, e conchiusi consigliandolo ad adoperarsi per scongiurare la sventura che minacciava quella casa. -Vi ringrazio, mi rispose egli dopo avermi ascoltato con molta attenzione; quelle nozze non si faranno, ve ne do la mia parola. Ho potuto esitare fin ora, ma adesso ... -E come intendete di opporvivi? -Non so, vedrete. E aggiunse con voce terribile: no, quelle nozze non si faranno. Io, io stesso le renderò impossibili ... perchè ... esse non devono farsi. Perchè son io che dovea godere di quella felicità, perchè io lo detesto quell'uomo, perchè è lui che mi ha rapito l'amore di Silvia ... perchè io l'odio! * ** Al domani mattina Davide venne per tempo a trovarmi in mia casa. Egli era calmo, ma di quella calma fredda e convulsa che si distende come un velo sulle fattezze quando la riflessione ha già concentrato tutta la lotta nel cuore. E delle tempeste del cuore umano come di quelle dell'Oceano: le meno apparenti sono le più profonde. -Vengo, egli mi disse, a chiedervi alcune notizie riguardo alle rivelazioni che mi avete fatto ier sera. Ci ho pensato tutta notte e non ho chiuso occhio; avrei d'uopo sapere ove abita il conte di Sagrezwitcth, e s'egli è tuttora a Milano. Voi forse potete dirmelo. -Non lo so, io risposi meravigliato. Ma che! intendereste forse di andarlo a visitare? E a che scopo? -Voi mi avete parlato, riprese egli, dell'influenza funesta che esercitano questi due uomini, egli ed il barone di Saternez, e del potere che hanno di compiere il male per altre vie che non sia dato di farlo a noi, ne sieno essi o no consapevoli. Il conte, mi avete detto possiederebbe in maggior grado questo potere. Ora qualunque sieno le cause di questa influenza, qualunque ne sia la natura, se essa esiste, se essa non è pari in ciascuno di loro, avete pensato alle conseguenze che risulterebbero dall'urto di queste due forze, dall'incontro di questi due uomini fatali? Ponetemeli l'uno di fronte all'altro, e se l'esistenza di questo potere è verace, l'uno dovrà distruggere l'altro, la disparità delle forze cagionerà lo squilibrio; la sconfitta del più debole è inevitabile. -È un trovato abbastanza specioso, io dissi, voi avreste dunque pensato .... -Di fare in modo che il conte di Sagrezwitcth venga a trovarsi alla presenza del mio rivale. -E avreste in animo di parlare a quel conte? -Solo che potessi rinvenirlo. Mi era recato perciò da voi, e sono afflitto che non possiate darmi le indicazioni che mi abbisognano. - Ma lo troverò, lo troverò continuò egli con risolutezza. Non vi sono a Milano che pochi alberghi eleganti, nei quali egli possa aver preso alloggio, li girerò tutti, domanderò di lui a tutte le porte, e se egli o qui ancora, o se è partito da poco, non dispero di mettermi sulle sue tracce. Ciò detto Davide uscì con precipitazione dalla stanza, prima che la mia maraviglia e la mia titubanza tra lo incorraggiarlo o il distoglierlo da quel progetto mi avessero permesso di articolar una parola. Passai tutto quel giorno in un'inquietudine mortale. Alla notte, e ad ora assai tarda, ricevetti da Davide una lettera così concepita: «Io parto in questo momento per Genova, d'onde raggiungerò la mia famiglia in un piccolo villaggio del litorale. È da lungo tempo che meditava questo progetto senza mai sapermi risolvere. Gli avvenimenti già compiuti e quelli che stanno per compiersi m'hanno fatto prendere finalmente questa decisione. Non ho voluto rimanere qui perchè nè la pietà mi distogliesse dalla mia vendetta – se pure io ho il potere di arrestarla - nè la vista del suo compimento, qualunque ella sia per essere, mi opprimesse di rimorsi che non debbo avere; sento il bisogno di dirvi tutto ciò che ho fatto per la salvezza di Silvia. In questo tentativo non vi era egoismo; il suo cuore non mi apparteneva più, nè io voleva pretendervi ancora; io non voleva che la sua felicità. Il disinteresse mio apparirà più sincero dalla rinuncia che farò alla mano di mia cugina, anche allorquando il suo cuore sarà libero e la sua gioventù rifiorita. Non posso dirvi di più. Ho trovato il conte di Sagrezwitcth e gli ho parlato. Quei due uomini si conoscono. Io non ho alcuna parte in ciò che sta per succedere; ricordatelo bene. Io non poteva nè prevedere, nè arrestare gli avvenimenti che dovranno compiersi; è la mano della fatalità, che li aveva preparati. Io non ne sono stato che uno strumento: ho avvicinato due uomini che dovevano rimanere lontani, ecco tutta la mia responsabilità; ed è l'amore di Silvia che mi ha indotto ad assumerne il peso. Che questa mia giustificazione non sfugga dalla vostra memoria! Mi è impossibile spiegarmi maggiormente. Distruggete subito questa lettera.» Non mai nella mia vita mi era trovato avvolto in una trama più triste e più complicata. Quali erano i bisogni di Davide? che cosa gli aveva detto il conte di Sagrezwitcth? come poteva egli parlarmi con tanta sicurezza di una vendetta che doveva compiersi senza di lui? e perchè era egli partito? Anche la salvezza di Silvia, se tal cosa era ancora possibile, non mi confortava della mia dispiacenza di aver confidato a Davide il segreto del barone di Saternez, e di averlo messo nella possibilità di vendicarsene. Io era in dovere di rimediare, se lo poteva, al male che aveva fatto. Non mancavano più che sette giorni all'epoca fissata per le nozze, e questa vendetta, il cui scopo era d'impedirle, avrebbe dovuto compiersi in quell'intervallo di tempo. Risolsi di recarmi a visitare il giovane barone, e secondo ciò che egli avrebbe risposto alle mie insinuazioni, confidargli interamente, o lasciargli sospettare il pericolo che lo minacciava. Distrussi la lettera di Davide: e valendomi dell'indirizzo che egli mi aveva dato del suo rivale, mi recai tosto alla sua casa. Il barone di Saternez non si mostrò punto meravigliato di vedermi; mi porse la mano con atto di affetto più che di semplice cortesia, e disse: vi aspettava. -Come! esclamai io sorpreso, voi conoscete dunque lo scopo della mia visita? -Sì, diss'egli. E dopo un istante di silenzio rispose sorridendo d'un sorriso violento: - io non sono soltanto un uomo pericoloso, sono anche un abile fisionomista. Quando vi ho veduto ieri l'altro per la prima volta, ho indovinato che il vostro cuore era buono, e che se aveste potuto fallire per debolezza o per fine di bene, non avreste indugiato a dolervi delle conseguenze dei vostri errori, e a tentare di ripararvi. In seguito alla visita del vostro amico, il conte di Sagrezwitcth è stato qui due ore or sono. Era dunque naturale che io vi aspettassi. Io chinai il capo e tacqui: Egli riprese dopo un nuovo istante di silenzio: -Non vi affliggete di ciò che avete fatto, non rimproverate a Davide i mali che ha preparato. Ciò che avverrà doveva avvenire. Voi non siete stati che un mezzo nelle mani della fatalità. I sentimenti che vi hanno mossi a prevenire le mie opere sono lodevoli, benchè forse infruttuosi: non ho l'ingiustizia di disconoscerlo. Quell'uomo ed io ci conoscevamo da tempo, fors'anche ci cercavamo. - Egli pronunciò in modo più inarcato queste parole - Tra me e lui corrono dei rapporti che la natura od il caso hanno posto quasi per dileggio, dei rapporti terribili che un segreto mi vieta di rivelarvi. Il nostro incontro era inevitabile perchè era predestinato. Era necessario che uno di noi due dovesse sparire, perchè due elementi contrarii non possono incontrarsi senza lottare; non possono percorrere la stessa via, camminare l'uno a fianco dell'altro, come non avessero che una virtù comune ad esercitare, una missione comune a compiere. Che cosa avreste potuto voi soli sulla mia vita? Voi avete avuto ragione di fare ciò che avete fatto. È la fortuna che vi ha diretti. Era tempo! S'interruppe, e riprese dopo un altro momento di silenzio in cui io non aveva osato parlare: -Guardatemi! voi vedete in me un uomo come tutti gli altri, forse apparentemente migliore degli altri; la mia persona non inspira alcuna ripugnanza, il mio viso, i miei modi quella parte dell'anima che la natura ha posto sulle nostre fattezze come per rivelarne le virtù celate nel cuore, non hanno nulla di odioso, nulla che non sia umano, che non sia dolce, che non sia forse anche attraente. Ebbene, questo giovine che avreste giudicato innocuo, di cui avreste forse ambita l'amicizia non conoscendolo, ha sparso la rovina e la desolazione d'intorno a sè, ha ucciso le persone che lo amavano, ha attraversato la vita e la felicità di tutti coloro che lo conobbero e che lo ebbero caro. Perchè .... sì, voi avete indovinato, voi avete afferrato il suo segreto. Costui, questo miserabile, proseguì egli con crescente esaltazione, non ha avuto finora la virtù di rinunciare ad una esistenza che ne aveva già reso tante infelici; ed ecco la sua colpa. Egli era nato per il bene. La natura gliene aveva posta l'immagine d'innanzi agli occhi come un'ideale brillante, come una meta soave e luminosa. Egli avrebbe voluto amare, beneficare, gioire della felicità che avrebbe sparso d'intorno a sè, gettare delle corone sulle teste di tutti gli uomini .... e un destino crudele, tremendo, ineluttabile lo condannava a compiere il male, a schiacciare sotto il peso della sua fatalità tutti quegli esseri buoni ed affettuosi che lo circondavano. Tacque, e si coperse il volto colle mani. -Calmatevi, io dissi, se voi avete questo potere, ne esagerate per certo il valore. Egli sorrise come per mostrare di compatire al mio dubbio, e riprese: -No, non ho esagerato. Converrebbe che voi poteste risalire alle sorgenti della mia vita per rinvenire le traccie che essa ha lasciato dietro di sè, e giudicare della loro profondità e della loro estensione. La mia stessa fanciullezza - l'età in cui tutti sono felici - non fu per me che un periodo di tristezza e di dolore. Gli esseri che più mi amavano avevano incominciato a soccombere; i miei fratelli, le mie sorelle, mia madre erano morti; io aveva incominciato ad avvedermi del vuoto che si faceva intorno a me, e a comprendere che vi era qualche cosa di fatale nel mio destino. Rimasi solo al mondo assai presto. Quanto più vedeva dilatarsi il cerchio delle mie relazioni, dei miei affetti, delle mie simpatie, altrettanto vedeva dilatarsi quel vuoto; quanto più entrava nella vita, tanto più entrava nell'isolamento. Ho provato il bisogno dell'amicizia, ho provato la febbre dell'amore .... amici ed amanti sparivano nell'abisso che io scavava loro ai miei piedi. Incominciai ad essere assalito da un dubbio spaventoso: era io fatale a tutto ciò che io amava, a tutto ciò che mi amava? Ritornai sul mio passato, rifeci orma per orma il cammino della mia esistenza, interrogai tutte le rovine che aveva lasciato dietro di me .... Era vero - bisognava crederlo - era terribilmente vero! Allora mi allontanai dalla mia patria, errai pel mondo fuggendo e fuggendomi. La sventura che aveva colpito i miei più cari mi aveva colmato di ricchezze a prezzo della loro vita; benchè di tali ricchezze io non abbia potuto giovarmi che per me solo, benchè nessuno abbia mai potuto essere beneficato da me impunemente. Fu così che vagando di paese in paese io venni a Milano, che fuggendo la folla e la società per rendermi meno fatale, frequentando i quartieri più modesti e più remoti, conobbi Silvia, e ne fui preso irresistibilmente, prima che la coscienza del male che le avrei cagionato, avesse avuto il potere di distogliermi da quell'affetto. Essa mi corrispose. Io era giovine, io era sventurato, io aveva il diritto di dare dell'amore e di chiederne; io che non aveva provato mai la felicità, che non aveva fatto che toglierla altrui senza poterla dare a me stesso, che aveva dovuto sempre gettarla lontano da me come un frutto amaro e vietato. Voi sapete il resto. Voi sapete che sono ora minacciato da un pericolo, e venite per avvertirmene. Ebbene, è troppo tardi - lo scopo della mia vita è raggiunto. La morte - se essa deve colpirmi non ha per me più nulla di amaro e di increscevole: io ho realizzata l'estrema delle mie aspirazioni, e sorrido dell'impotenza di coloro che avrebbero voluto impedirlo. Egli pronunciò queste parole con una specie di alterezza che diede alla sua fisionomia già tanto soave un'espressione singolarmente severa. -Sì, è troppo tardi, continuò egli con entusiasmo; voi avete voluto impedire le mie nozze; ebbene, sappiatelo, queste nozze non sono più che un pretesto dinnanzi alla società, che una giustificazione di ciò che l'amore ha già dato spontaneamente. Silvia fu mia! Che monta che essa abbia a morire? E che cosa è egli il morire? Ebbe mai l'amore altra aspirazione? Ebbe egli mai altra ricompensa che questa? O preceduto, o seguito, io invoco ora questa morte che voi avete voluto prepararmi. -Oh, non io! esclamai, il cielo mi è testimonio se io ho desiderato e preparato la vostra morte. Voi dimenticate che io sono qui in questo momento per avvertirvi di un pericolo, non certo per minacciarvene. -È vero, rispose egli con dolcezza, perdonate. E mi porse la mano che ritrasse subito, come avesse temuta di offendermi o di nuocermi con quel contatto. Io lo guardai in volto come per interrogarlo. Egli era sì bello, sì sereno, era tornato sì nobilmente calmo; e v'era qualche cosa di così virile su quel suo viso di fanciulla, e v'era tanta forza in quella sua stessa debolezza, che io compresi come una donna avesse potuto accettare il suo amore anche a prezzo della vita. Ignorava se Silvia avesse conosciuto il segreto di quel giovine, ma sentiva come anche conoscendolo, il sacrificio della sua esistenza avesse dovuto apparirle assai misera cosa in confronto della dolcezza di quell'amore. Egli conosceva forse il potere della sua bellezza, o mi lesse nell'animo, poichè fece atto di offrirmi una seconda volta la mano, e mi disse: -Andate, andate, ve ne scongiuro. Voi siete buono, voi potreste sentire forse un poco di simpatia per me, e io potrei pagare d'ingratitudine il servigio che avete voluto rendermi colla vostra visita. È il mio destino! ... -E sia pur tale, interruppi, io non lo temo. - E afferrai la sua mano che mi strinsi al cuore. Io vi aveva giudicato diverso, io aveva voluto impedire una sventura; fu tutta mia la colpa. -Non vi torturate con questo pensiero, disse egli. Non sono io colui che potrà credere alla libertà delle azioni umane - l'arbitrio è una menzogna - la volontà non è che la prescienza di un atto già preordinato; essa non ha alcun peso sulla bilancia su cui si librano tutte le cose della vita - sulla bilancia del destino. Io crollai il capo con espressione di dubbio. Egli osservò quell'atto e riprese: -No, io non tenterò alcuna via per allontanare da me quel pericolo; sarebbe inutile. Ad ogni modo vi ringrazio. -Vi rivedrò ancora? io chiesi, quasi dubitoso di lasciarlo così fermo in quel proposito. Egli sorrise con espressione di gratitudine, e disse: - quando vorrete, a domani? -A domani. Ometto il racconto delle mie relazioni col barone di Saternez durante quei sette giorni che precedettero le sue nozze. Fu per esse che io potei formarmi un'idea meno inesatta del suo carattere, quantunque non mi fosse mai dato di penetrare nel segreto della sua vita, più di quanto non mi fosse stato possibile nel nostro primo incontro. Aveva nondimeno conosciuto tanto di lui da potermi formare una convinzione a suo riguardo. Egli era indubbiamente onesto, indubbiamente buono. Ho conosciuto pochi uomini che presentassero nella loro indole una mistura di debolezza e di forza più singolare - intendo quella debolezza che sta nella sensibilità, nell'attitudine a ricevere potentemente le impressioni, non nella fiacchezza del carattere. Era scettico di mente e credente di cuore: la sventura non lo aveva prostrato, ma lo aveva reso vecchio anzi tempo, per modo che compariva giovine o vecchio a intervalli, secondo l'impulso interno che riceveva dalle sue passioni. E benchè sembrasse naturalmente espansivo, come tutti i buoni, non lo era; che forse quel tristo potere di cui si credeva dotato l'aveva ammaestrato a nascondere e a dissimulare; nè mai da quei giorno, per quanto mostrasse di avermi caro, rialzò quel velo che si distendeva sul suo passato, e di cui mi aveva sollevato un lembo in quel primo momento di espansione. Mi era sembrato in quei giorni che la sua indole non fosse così malinconica, come lo aveva giudicato dapprincipio, ma mi era poi avveduto facilmente che vi era qualche cosa di violento, di forzato, di convulso nella sua gioia, e che egli viveva sotto l'apprensione di un pensiero che lo riempiva di terrore. Passava dagli eccessi dell'ilarità, agli eccessi della tristezza; spesso pareva calmo, e affettava una serenità d'animo che non sentiva. Ma ciò era per Silvia. Essa lo amava con quella specie di cecità che non vede nulla. Aveva fatto in quei giorni con me lunghe passeggiate, e mi aveva fatto osservare nella campagna alcune prospettive e alcuni effetti di luce e di neve che sarebbero sfuggiti ad una mente nè poetica, nè osservatrice. Non mostrava di temere il pericolo di cui gli aveva parlato, e non ne fece meco alcun cenno, ma impallidiva visibilmente nel sentir pronunciare il nome del conte. Una notte - mancavano due soli giorni agli sponsali - fui sorpreso nell'incontrarlo in compagnia del conte di Sagrezwitcth lungo un viottolo oscuro e remoto. Tenni lor dietro, ma non giunsi a comprendere una sola parola del loro dialogo vivace ed animato. Essi parlavano una lingua che io non conosceva; e mi parve dal gesto e dall'imperiosità della voce del conte, che questi insistesse in una domanda, cui l'altro si ostinava a rifiutarsi di accondiscendere. Da quella notte apparve evidente che egli tentava stordirsi, con ogni mezzo possibile, da qualche grande affanno. Egli aveva incominciato a chiedere al vino la dimenticanza di questo dolore segreto, e nel giorno seguente lo aveva ricondotto a casa io stesso in uno stato di ebbrezza assai grave. Ma abbrevierò la mia narrazione. Il giorno delle nozze era giunto, e le nozze stesse si erano compiute senza che fosse sorto alcun ostacolo ad impedirle. Una festicciuola di famiglia aveva luogo in quella sera; i congiunti e le amiche della sposa erano intervenuti in gran numero. Silvia era raggiante; il barone di Saternez era così giovanilmente felice, che io mi rallegrava con me stesso della vanità delle minaccie di Davide, e fors'anche di quella della pretesa influenza del giovine, a cui era tentato di cessare di credere. Parevami che la prospettiva d'una felicità così grande avrebbe dovuto restituire la salute alla fanciulla, e distruggere in lui quel potere terribile e misterioso di cui si credeva dotato. Era trascorsa già la mezzanotte, e io pensava, seduto in un angolo della sala, alla possibilità di questo avvenire dei due giovani, allorchè sentii pronunciare presso di me il nome del duca di Nevers; e mi ricordai tosto essere questo il nome che il conte di Sagrezwitcth aveva portato spesso in America. Trasalii e mi rivolsi. Un servo era entrato nella stanza, e aveva presentato allo sposo un biglietto di visita su cui era impresso quel nome sormontato da una corona di duca. Quello strano visitatore doveva parlar subito al barone di Saternez, e lo attendeva sotto l'atrio della casa. -È cosa d'un istante, disse il giovine senza manifestare la benchè menoma emozione. Infatti .... io aveva bisogno di parlare a quell'uomo. Sarò di ritorno tra pochi minuti. Strinse la mano a Silvia, e discese. Nell'aprirsi dell'uscio mi parve d'intravvedere nel fondo dell'atrio il conte di Sagrezwitcth, ma non potrei asserirlo. La persona che si era fatta annunciare col nome di duca di Nevers portava però, come disse in seguito il servo che lo vide, un berretto di pelo assai grande, e guanti di capretto d'una bianchezza irreprensibile. Lo si attese tutta la notte - una notte fredda e piovviginosa di marzo - ma indarno. Io rinuncio a descrivere la desolazione di quella famiglia; sarebbe compito superiore alla parola. Al domani si leggeva nelle cronache dei giornali: «Un giovine straniero domiciliato da qualche tempo nella nostra città, ove era giunto con passaporto falso sotto il nome di barone Saternez, boemo; ma il cui vero nome è Gustavo dei conti di Sagrezwitcth, polacco, fu trovato stamane morto dietro i bastioni di Porta Tanaglia, con un coltello immerso nel cuore. Non si conoscono finora nè le circostanze, nè gli autori di questo assassinio.» Ora quali erano i legami che congiungevano quelle due persone e quei due nomi? Quale era il vero nome di ciascuno di quei due uomini? Lo aveva uno di essi usurpato all'altro, o lo portavano entrambi? E il duca di Nevers! Era questo veramente il casato di Sagrezwitcth che aveva asserito di conoscere il giovine, e col quale costui aveva detto di avere alcuni rapporti che non poteva rivelare? È un'enimma che nè io, nè alcuno di coloro a cui ho raccontato questa storia ha potuto mai decifrare. Del resto Silvia guarì - fosse caso, fosse natura del male, guarì; benchè le piaghe del suo cuore non si sieno mai rimarginate. La sua famiglia ha venduto quella casa grigia e ammuffita che abitava qui, e si è domiciliata in un piccolo villaggio della Brianza. L'uomo conosciuto sotto il nome di conte di Sagrezwitcth non fu mai più visto a Milano. Di Davide non seppi più nulla. Sono scorsi due anni dalla data di questo avvenimento, e nessuna luce fu fatta su questo delitto.

L'idea della felicità negli uomini non può esser derivata che dalla memoria d'un bene trascorso o dal presentimento di un bene avvenire - in una vita antecedente o in una vita futura giacchè non vi è nulla quaggiù d'onde essi abbiano potuto attingere questo concetto. Pochi e grandi dolori fanno l'uomo grande, piccoli e frequenti l'impiccioliscono; un fiotto lava la pietra, una serie di goccie la trapassa. Allora si ha incominciato realmente a soffrire, quando si ha imparato a tacere il proprio dolore.

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Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682915
Tarchetti, Iginio Ugo 2 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Gran Dio, riprese l'altro, e potrà egli accadere che due uomini assennati abbiano a bisticciarsi per questo? Del resto, perdonate se insisto, ma se voi avete asserito d'aver posto il vostro piede sul mio, è segno che il mio si trovava evidentemente di sotto, e questo punto è appianato. In quanto all'altro, il mio piede era lì da un pezzo, il vostro ve lo avete posto ora allungandovi, ed è chiaro come la luna che fu primo il mio a cagionare questo scontro e a porsi sotto del vostro. Ma io vedo che voi siete preoccupato da qualche pensiero affliggente. È un pezzo che vi sto osservando, e che mi sento nel cuore il più vivo interessamento per voi. Che cosa avete? Posso io farvi questa domanda? E sarei mai tanto fortunato da potervi giovare? Cosi dicendo quell'ottimo signore prese una mano del suo vicino, la strinse tra le sue e, togliendosi gli occhiali dal naso, lo guardò con tale aria di affetto che Rosen si sentì subito rappattumato e disposto, per quel sollievo che ci procura la confidenza d'un grande dolore, a dividere il suo segreto con lui. E poi quello sconosciuto aveva un aspetto sì dolce, sì leale e sì aperto che avrebbe inspirato anche ad un uomo diffidentissimo la fiducia più illimitata. Egli pareva essere sui cinquant'anni, aveva favoriti lunghi e canuti, gli zigomi sporgenti, e i pomelli d'un rosso vivo, gli occhi grigi e scrutatori. Due solchi laterali incavati dagli occhiali sul naso indicavano in lui una persona d'affari. Vestiva lindo, ma severo; portava un'ampia cravatta bianca che gli fasciava due volte la gola, e le cui due punte giungevano a stento a riunirsi in un piccolo nodo davanti; aveva un panciotto verde a rigoni, un ampio soprabito col bavaro di pelo - e faceva passare continuamente da una mano all'altra una lunga canna di zucchero sormontata da un grosso pomo dorato. - Sì, voi potreste certamente giovarmi, gli disse Rosen, rispondendo alla sua offerta. - E in che modo? Rosen si chinò presso di lui, e gli disse all'orecchio una sola parola che lo fece trasalire. - Cielo! esclamò l'altro, e lo dite voi seriamente? E per quali motivi?... - Ascoltate, riprese il barone, e tornò a parlargli all'orecchio. Il colloquio fu lungo e animato; quello sconosciuto si mostrava afflitto e sorpreso di ciò che intendeva da lui, e spesso gli avea detto alcune parole che sembravano accennare a una disapprovazione o ad un consiglio. Ma alla fine incominciò a dimostrarsi quasi convinto e soprafatto dalla logica stringente di Rosen che continuava a parlargli all'orecchio con calore; e discostandosene un poco, come fosse stata esaurita quella parte della sua confidenza che importava segretezza e silenzio, gli chiese ad alta voce: - Ed ella lo ignora? - Lo ignora. - Ma converrà che lo sappia. - Ne ho incaricato un amico, - Bene, mi sarei assunto io stesso questo mandato, ma se a voi non è discaro, vi seguirò, e potrò parlarle del modo con cui avrete compiuto il vostro progetto. È ciò che io desidero. Vi incaricherò d'una lettera per lei e dell'esatto racconto del mio fine. - Ve ne ringrazio. Ove andate? - Non ho direzione fissa... pensava di andare in Italia, ma quasi... E voi? - Io pure non ho un piano premeditato, viaggeremo di concerto. - Come vi chiamate? - Benvenuto Lamperth. - Siete un uomo che mi va a genio. - Ve ne sono obbligato, e mi duole che vi abbia a perdere sì presto. Ma dove contate di sostare stassera? - A Dover. - Ecco appunto la stazione di Dover, disse Lamperth ascoltando il fischio della locomotiva; e avvicinandosigli, aggiunse a bassa voce: È un paese di litigiosi questo Dover, vi troverete a far qualche cosa di buono. Così dicendo il convoglio si era arrestato. Rosen ne discese col suo compagno, si buttò con lui in una vettura, e si fece condurre al Chicken's hotel (Albergo del Galletto). Giunti in camera, egli disse a Lamperth: - Tant'è, il morire è lo stesso che farsi estrarre un dente; dal momento che ci duole e che deve essere estratto è meglio che ciò avvenga presto che tardi; e giacché voi mi dite che questo è un paese di accattabrighe, io conto di tentare in questa sera medesima qualche cosa di decisivo. Rosen tirò il campanello, ordinò carta, penna e calamaio, e scrisse la lettera seguente: Mia cara Emilia, Il signor Benvenuto Lamperth ti consegnerà questa lettera che ti scrivo da Dover. Il mio amico Edoardo ti avrà fatto conoscere le condizioni di quel progetto, mediante il quale ho potuto sottrarti alle terribili esigenze del nostro dissesto economico. Lamperth ti completerà queste notizie ragguagliandoti distesamente sulla mia morte. Spero che questo mio sacrificio ti farà perdonare tutte le crudeli ingiustizie di tuo marito. ALFREDO DI ROSEN. E piegata la lettera in quattro la porse al suo compagno dicendogli: - Mi sento appetito, scendiamo; odo laggiù delle voci di bevitori, e ho in animo di cimentarne qualcuno e di mettermi tosto alla prova. E discesero nella sala da pranzo. * * * Era una sala elegante e spaziosa, illuminata da alcuni vecchi lampadarii guarniti di ciondoli di rame e di prismi di cristallo, e decorata di alcune marine di Viardot mezzo scolorite dal tempo. Intorno alle pareti erano disposte delle lunghe tavole di quercia coperte di tappeti a dadi oblunghi, di un colore alternato tra il rosso di mattone e l'azzurro - quei vecchi tappeti di Germania così in uso fino a questi ultimi anni, che si può dire non esservi stata famiglia che non ne abbia avuto uno - e a ciascuna di quelle tavole sedeva buon numero di persone, tra le quali alcuni crocchi di viaggiatori e di negozianti, e alcuni ufficiali di marina addetti alle navi di trasporto pel tragitto dello stretto. Quando Rosen e Lamperth entrarono nella sala, tutti i posti erano occupati, Rosen girò attorno lo sguardo, e mormorò tra sé stesso: - Incominciamo bene, è un appiglio, li costringerò a restringersi per cedermi un lato del loro tavolo: vo' vedere se avranno l'arditezza di rifiutarsi. E si approssimò ad uno di essi. Alcuni marinai francesi che vi stavano seduti discutendo calorosamente di certi loro viaggi, troncarono all'istante la loro conversazione, portarono la mano ai loro berretti, si alzarono; e restringendosi alla meglio, fecero cenno a Rosen e a Lamperth di sedersi. - Maledetta questa compitezza parigina, disse Rosen fra sé stesso, che mi toglie ogni pretesto per bisticciarmi onestamente con questi paltonieri; ma .... e' sono francesi, li toccheremo nel loro orgoglio nazionale .... già, in fatto di brighe c'è da ripromettersi molto da questa sorta di gente. Il barone e Lamperth sì sedettero, ed ordinarono la loro cena: i loro vicini ripresero la loro conversazione interrotta. - Vogliono del Bordeaux Laffitte, del Saint Julienne, dello Champagne, o del vino legittimo di Boullon o di Abbeville? - Vogliamo del vino inglese, disse Rosen vivacemente, nient'altro che del vino inglese; già... in quanto a me abborro tutti i vini di Francia, e aggiunse ad alta voce, tutte le cose che ci vengono dalla Francia. Così dicendo, guardò involto a' suoi vicini, ma essi o non aveano udito, o avevano fatto le mostre di non udire. - Miserabili! bisbigliò Rosen all'orecchio di Lamperth, non sono pur suscettibili d'un risentimento sì doveroso. Poco dopo il cameriere avendo collocato dinanzi a loro alcuni piatti dipinti, su cui erano rappresentati i principali episodii della vita di Napoleone, Rosen ne prese uno e presentandolo al suo compagno, gli disse in modo da essere udito: - Che ve ne pare? Eccovi qui un uomo che in Inghilterra sarebbe divenuto tutt'al più un tamburino, e che in Francia è stato creduto un gran generale. Ma non importa, tutti sanno che a Waterloo le ha buscate dagli inglesi. Anche queste parole non ebbero l'effetto che egli si aspettava; uno solo de' suoi vicini si volse e vedendo Rosen che lo guardava, e immaginando forse che volesse prender parte alla loro conversazione gli chiese: - Il signore ha viaggiato? - Sì, rispose Rosen sono stato un'altra volta da Dover a Calais, passando per l'arcipelago greco. - Avete detto? - Da Dover. - A Calais? - A Calais, precisamente, e attraversando l'arcipelago greco. Tutti gli astanti diedero in uno scoppio di risa, e lo stesso Lamperth fece mostra di chinarsi a raccogliere il tovagliolo cadutogli dalle ginocchia, per nascondere il prurito che si sentiva di ridere, e non guastare i progetti del suo compagno. - Signori, disse Rosen gravemente, a meno che voi non abbiate navigato sopra una conca di cartone in una vasca artificiale del vostro giardino, o vestiate in questo momento l'uniforme della marina francese per fare una comparsa da teatro, dovreste sapere che si può partire da Dover, attraversare tutta la terra, non solamente l'arcipelago greco, e giungere a Calais dopo aver compiuto il viaggio più semplice e più naturale del mondo - Voi avete delle cognizioni geografiche molto profonde, disse uno dei viaggiatori, ma io vi consiglierei a non manifestarle pubblicamente, se v'importa che non si rida di voi, e a difenderle con meno calore se non desiderate di trovare qualcuno che v'abbia ad accorciare le orecchie. Per il cielo, esclamò Rosen sollevandosi e battendo del pugno sul tavolo, mentre si rallegrava internamente del buon esito del suo tentativo e si sforzava di dissimularne la gioia, non sarete certamente voi quello che saprà tagliarmi le orecchie, ed è ciò che potremo vedere sull'istante, appena io sia giunto all'osso di questo beefteack, se avete tanto ardimento nei fatti quanto avete arroganza nelle parole. - Uscite, uscite, disse il francese cui erano salite le fiamme sul viso ... E Rosen dando una strappata al suo beefteack come per affrettarsi, si curvò all'orecchio di Lamperth, e gli chiese: - Vi pare che il pretesto sia valido? Già ... si tratta di amore nazionale ... di una questione di scienza, che ... - Oh! senza dubbio, validissimo, interruppe Lamperth stringendosi nelle spalle. Rosen gettò allora il resto del suo beefteack nel piatto, quasi in atto di compiere un ultimo sacrificio, e riprese: - Giacché io sono lo sfidato e sta a me la scelta delle armi, scelgo la spada, che da noi non si amano le scalfitture della sciabola, e si sanno fare gli occhielli a dovere... Questo gentiluomo, mio compagno di viaggio, sarà mio padrino: ma ove ci batteremo? - Vi è qui presso, lungo la spiaggia, un terrapieno che non potrebbe essere più adattato a questo bisogno, andiamo. - Vi seguo. Rosen e i suoi compagni giunsero dopo pochi momenti sul luogo. Inutile dire che Rosen aveva deciso di non difendersi che per quel tanto che era necessario a nascondere il suo disegno, e a scoprirsi appena il suo nemico avesse saputo drizzargli un colpo decisivo. Furono recate le armi: i due avversari posero mano alla spada, e si avventarono l'uno contro l'altro. Il francese si batteva con fuoco, faceva delle finte rapidissime, era uno spadaccino brillante. Rosen lo respingeva con calma, e sorrideva seco stesso, benché si arrovellasse di non poter mostrare tutta la valentía in quel giuoco. La lotta durò alcuni istanti. Rosen era sul punto di lasciarsi ferire, quando s'avvide che il suo avversario si ostinava a tener alta la punta per sfregiarlo nel viso. Questa circostanza fu causa che egli perdesse tutta la sua freddezza, e si dimenticasse dello scopo di questo duello, per non ricordarsi più che di colpire il suo nemico. Proseguirono con accanimento; il francese aveva già sfiorata una spalla a Rosen, quando, scoprendosi a un tratto nel ritirarsi, fu colpito nel petto e cadde. Rosen si avvide allora del suo fallo, ma era troppo tardi. Lamperth gli si avvicinò, e gli disse: - Che avete fatto? voi avete ucciso un uomo innocente. - Sì, disse Rosen, ma sarà l'ultimo; che volete? sono un insensato... partiamo subito per la Francia: giuro al cielo che al primo scontro che io potrò avere in quel paese, mi lascerò sparare come un coniglio. E al domani s'imbarcarono per Calais, e presero la via di Parigi. * * * Strada facendo, Rosen pensava con dolore al triste risultato di quella sua prima avventura. Egli aveva ucciso un uomo in duello; ciò non era poi letteralmente un omicidio, ma questo duello era stato provocato da lui, non v'era discolpa, quel giovine era stato costretto a battersi, e doveva a Rosen la sua morte. Egli è uno strano e insensato apprezzamento questo che noi sogliamo fare d'un omicidio secondo il modo e le cagioni per cui è avvenuto. Non ne facciamo tanto una causa di umanità di principio morale quanto ne facciamo una causa di forma: lo stesso atto ci solleva alla gloria o alla fama, o ci abbassa fino al delitto più turpe ed alle punizioni più atroci; può essere eroismo o assassinio, così nella guerra e nelle contese private; può essere coraggio ed onore, così nel duello. Rosen, lungo la via, ritornava colla mente su questi pensieri, e meditava con dolore su quella triste avventura di Dover. - Che ne pensate? diss'egli rivolgendosi a Lamperth che dormicchiava rannicchiato in un angolo della vettura. - Di che cosa? - Del mio duello di ieri. - Male, male; se avete intenzione di farvi uccidere, non dovete però uccidere gli altri; vi sono mille maniere di morire; vi confesso che fui dolorosamente impressionato da questo fatto. - Avete ragione, soggiunse Rosen con aspetto mortificato, non mi cimenterò più in duello, vi è qualche cosa d'istintivo che ci spinge nostro malgrado a difenderci; ma, giacché la natura ci ha dato una sola via al nascere - come a cosa triste - e ce ne ha aperte mille al morire - come a cosa molto più dolce - io approfitterò in altro modo di questa prodigalità della natura. Dite. Credete voi che non mi sarà difficile il morire? Lo sperate? - Speriamolo, sì, disse Lamperth; se il voto di una persona che vi ama può avere qualche influenza sul vostro destino, vi giuro che io faccio voti al cielo perché il vostro desiderio venga esaudito. - Vi ringrazio, rispose Rosen scuotendo la mano che il suo amico gli aveva sporto senza voltarsi, come a meglio rassicurarlo della sincerità del suo voto, vi ringrazio dal più profondo dell'anima: e pronunciò queste parole quasi commosso, e colla più schietta effusione di cuore. In quella sera stessa Rosen e Lamperth giunsero ad Amiens. Alla porta del paese Rosen, essendosi arrestato per contemplare lo spettacolo della città, come è costume d'ogni buon inglese, vide affisso alla parete un ampio cartellone decorato da alcune figure d'animali in inchiostro rosso, e vi lesse queste parole: «Grande serraglio di belve viventi del signor Gustavo Lachard. Due tigri, quattro pantere, una grande varietà di scimmie, un elefante, e due leoni africani. Alle ore otto vi sarà il pasto delle fiere. Mezz'ora prima il rinomato domatore Gustavo Lachard entrerà nella gabbia dei leoni.» Rosen guardò l'orologio, erano le sette ore passate; mancavano pochi minuti alla rappresentazione. Egli si rivolse a Lamperth, e gli disse, indicandogli quel manifesto: - Volete che andiamo a visitare questo serraglio? può essere che vi abbia a trovare qualche avventura favorevole a' miei disegni. - Andiamo, disse Lamperth, e giunsero in breve al recinto. Dopo che il signor Lachard uscì dalle gabbie dei leoni, e la folla si ritirò a poco a poco e si disperse, Rosen disse al suo compagno stringendogli la mano: - Credo, mio caro Lamperth, di aver trovato un modo infallibile per farmi uccidere; permettete che non vi dica altro; andate all'albergo del Ciclope dove fra un paio d'ore o mi rivedrete vivo, o avrete la notizia della mia morte. Vi raccomando la lettera per mia moglie. - Non temete della mia puntualità - e si portò la mano sul cuore - mi dispiace di perdervi sì presto, ma se ciò è inevitabile... Vi auguro buona fortuna. - Rosen, lasciato solo, chiese di parlare col signore Lachard, e trattolo in un angolo del recinto gli disse: - Io sono un barone inglese appassionatissimo del lottare e bramo cimentarmi con qualche lottatore evidentemente più forte di me. Desidero di combattere con uno dei vostri leoni, ma è necessario che ciò rimanga un segreto tra noi; occorre che voi mi lasciate solo in questo serraglio, e che si creda, per vostra e mia giustificazione, che io vi sia entrato senza il vostro consenso, e avendo aperta io stesso la gabbia, come farò, sia stato assalito dalla vostra bestia. Quanto è il prezzo di questo animale? io ve lo pagherò due volte. - Non meno di cinque mila franchi, disse il domatore; parlo di Behemet, il più alto e il più forte: l'ho comprato io stesso a Bourck, sul limite occidentale del deserto; non ha ancora due anni compiuti e non gli manca un pelo. Ma, intendiamoci, io non debbo saper nulla di ciò; io mi ritirerò dal serraglio come faccio tutte le sere, e voi sarete un imprudente che vi sarà entrato senza mia licenza, ecco tutto; se poi voi ucciderete il leone, la cosa rimarrà tra noi, e non avrà altra conseguenza. Rosen gli sborsò dieci mila franchi; e siccome la sera era già molto inoltrata, il domatore licenziò il suo guardiano, e lasciò Rosen nel recinto di cui socchiuse appena la porta, dopo avergli detto: - Vi auguro che abbiate ad uscirne gloriosamente, ma temo che Behemet vi saprà spianar le costure. Rimasto solo Rosen comprese di esser posseduto da un panico indefinibile, e vi fu un istante in cui si sentì tentato di rinunciare a quella specie di morte, e di raggiungere Lamperth all'albergo del Ciclope, per combinare con lui su qualche mezzo di distruzione meno inumano. Ma era troppo tardi. E d'altra parte, giacché era d'uopo morire, conveniva accettare quel mezzo che era più pronto, più sicuro e che non avrebbe lasciato concepire alcun sospetto d'inganno sulla sua fine. Chi sa! Forse il morire tra le zanne d'un leone poteva essere più dolce, più rapido che il morire di ferita o di veleno, o per altra causa qualunque - certo era più verosimile e più ardito. Animato da questo ragionamento, Rosen si avvicinò alla gabbia, e sollevò le tre aste di ferro che né formavano l'uscio. Paralizzato dal timore, colle mani appoggiate sull'orlo dello steccato, in atteggiamento di vittima rassegnata aspettava che Behemet uscisse. Il leone dopo essersi allungato due volte e aver sbadigliato lungamente inarcando la lingua come una bestia che sa di potersi pigliare i suoi comodi, si affacciò allo sportello, guardò con aria d'indifferenza il barone di Rosen cui era venuto, suo malgrado, la pelle di cappone; e discendendo nello spazio riservato agli spettatori, incominciò a passeggiarvi per lungo e per largo, agitando la coda, e mandando un certo suo ruggito prolungato e sommesso in suono di soddisfazione e di gioia. Quando Rosen si avvide che Behemet non si curava di lui, avendo ripreso animo in quel breve intervallo di tempo, discese ed affrontò arditamente il leone, cui percosse d'un colpo di frustino. A quella provocazione, Behemet, come una bestia ubbidiente, si ritirò precipitosamente nella sua gabbia, Rosen lo inseguì, ed essendosi munito d'un asta appuntata di ferro, lo stimolava con quella ad uscirne. Il leone, rannicchiatosi nel fondo del suo covacciolo, ruggiva e spalancava le fauci orribilmente senza avventarsi; Rosen era al colmo dell'impazienza e dell'ira. Dimenticando che egli parlava con un leone - Uscite, gli gridava, uscite da cotesta gabbia, miserabile. Ma tutto era indarno, Behemet, non intendeva questo linguaggio provocatore, e rimaneva quieto come olio. Disperando di potersi misurare con lui, Rosen decise di entrare nella gabbia delle pantere, ma si avvide che Lachard, toltone quel solo, aveva assicurati tutti gli sportelli con due buoni giri di chiave. - Ah! Lachard assassino, esclamava Rosen acciecato dalla bile, egli sapeva che questo era un coniglio, e mi ha arraffato dieci mila franchi senza lasciarmi il compenso d'una scalfittura, ma rivedremo le nostre partite domani. E gettando uno sguardo pieno di disprezzo nella gabbia di Behemet, uscì dal serraglio, e corse difilato all'albergo del Ciclope. * * * Lamperth che stava rivedendo alcune sue carte presso una tavola su cui si scorgevano gli avanzi della sua cena, si mostrò molto meravigliato del ritorno di Rosen, il quale era si acciecato dallo sdegno che a stento potè fargli il racconto di questa sua nuova sventura. - Che domando io? Che voglio? Che spero? Morire, ecco tutto; la cosa più semplice, più facile, più naturale del mondo, diceva Rosen nel conchiudere il suo racconto, e tuttavia eccomi condannato da una desolante fatalità a sopravvivere a tutti i miei sforzi, a tutti i pericoli cui mi espongo per impedirlo. Ahi vi giuro che io affronterei in questo momento qualunque rischio, approfitterei di qualunque circostanza per uscire di questo stato. - Calmatevi, gli rispondeva Lamperth, non ve ne mancheranno mai le occasioni, bisogna aver fede: intanto ordinate la vostra cena, lo stomaco ha le sue esigenze, e credo che voi dobbiate avere appetito. - È vero, disse Rosen, cenerò; l'uomo è il servitore d'uno stomaco, anzi l'uomo è uno stomaco, la credo la definizione meno inesatta fra le tante che si son fatte di questo animale. E ordinò una costoletta di castrato colle patate. Non aveva Rosen addentato la sua costoletta, che un nuovo arrivato entrò nella sala, e venne a sedersi di faccia a lui, dal lato opposto del tavolo. Rosen era tutt'occhi nell'osservare i movimenti di quel suo commensale, e si augurava che la punta d'uno de' suoi stivali venisse a colpire uno de' suoi stinchi per aver ragione di bisticciarsi, quando l'altro cacciando il naso nel suo piatto e indicandolo col dito al cameriere gli disse: - portami una vivanda come quella... è una costoletta di castrato in salsa dolce. - Voi mentite per la gola, o signore, disse Rosen sollevandosi un poco dalla sedia, questa costoletta è in salsa piccante. - Per il cielo, esclamò l'altro un po' turbato da quella sorpresa, voi ci tenete molto al sapore della vostra costoletta e ne fate una questione di onore; del resto non c'è che dire, vi siete servito di una espressione felicissima; trattandosi di sapori, io ho precisamente mentito per la gola. Voi siete inglese? - Di Londra. - E contate di attraversare la Francia? - Precisamente. - Dubito se arriverete al termine del vostro viaggio senza trovare qualcuno che ... - Che cosa? - Che v'abbia a rivedere il pelo. Siete mai stato in Guascogna? - Oh! che voi siete Guascone? - Per l'appunto. - È una provincia che in fatto di millanterie ha delle tradizioni grandiose; spero che saprete farmi conoscere tutta la estensione del pericolo che io avrei corso se vi avessi insultato nel vostro paese. - Voi siete un pazzo o un imbecille, disse l'altro che era tutto sangue di guascone, illividendo fin sulla punta del naso; venite qui dietro le mura, e ci taglieremo due dita di fegato. - Sono a vostra disposizione, rispose Rosen. E si accommiatò da Lamperth che gli diceva all'orecchio: - abbiate giudizio, contenetevi da uomo onesto, lasciatevi ammazzare, pensate a vostra moglie, pensate che quell'uomo fu provocato da voi e che la fortuna non vi regalerà tutti i giorni di queste magnifiche occasioni. - Non dubitate, disse Rosen, spero che mi vedrete tornare in lettiga. Rosen e lo sconosciuto giunsero in breve tempo dietro lo spaldo; alcuni avventori dell'albergo che avevano inteso quel battibecco li seguivano da lontano, e un amico del guascone portava le due sciabole sfoderate sotto il mantello. - Avete i vostri padrini? chiese lo sconosciuto all'inglese. - Non ne ho alcuno. - Non importa, questi signori serviranno come testimonii ad entrambi. Già, non escluderemo i colpi di testa e di punta, e ci batteremo fino a che uno di noi non sia rimasto sul terreno. - Siamo intesi, era la mia intenzione. - Allora possiamo incominciare. - Incominciamo. E il Guascone, senza attender altro, si assicurò bene nel pugno la sua sciabola, e si scagliò furiosamente sul suo avversario. Rosen lo attendeva di piè fermo. La notte era sì buia che l'uno poteva distinguere a stento la direzione dei colpi dell'altro: gli spettatori vedevano nulla o pressoché nulla; distinguevano due masse nere agitarsi, avventarsi; vedevano di quando in quando il lampeggiare delle lame su cui si rifletteva un debole filo di luce che proveniva dal fanale dello spaldo, e sentivano il cozzo frequente delle sciabole senza poter giudicare quale dei due avversarii avesse maggiore perizia nelle armi, e desse indizio di uscirne vincitore. Ma ad un tratto uno di essi si arresta, vacilla, cade: gli spettatori si gettano sopra di lui... era il guascone. Che cosa era avvenuto? Il francese era un pessimo schermitore, Rosen non aveva ancora trovato il tempo di scoprirsi opportunamente, quando avendogli fatta una finta di destra, l'altro vi rispondeva con una parata di sinistra, e, investendo la sua sciabola, si feriva gravemente al collo, senza che il suo avversario avesse alcuna intenzione di farlo. Rosen era rimasto pietrificato dal dolore e dalla meraviglia. Vi era senza dubbio una strana fatalità che pesava sopra di lui, che rendeva vani e funesti tutti i suoi tentativi di morire. Mentre egli stava così appoggiato colle mani riunite sull'elsa della sciabola, intese uno degli spettatori chiedere: Chi è costui che lo ha ferito? E un altro rispondergli: È un inglese. - Bene. Bisogna chiedergli ragione di questo fatto: non si può dirlo un duello questo; non v'erano padrini, non v'era nulla di regolare; è stato un omicidio bello e buono. Guardate, il morto è un francese, è un guascone, e si sono battuti per una costoletta; c'è qui il suo collega Pirolet a confermarlo; non bisogna permettere che questo marrano d'inglese se ne vada via liscio liscio: facciamo le cose per bene, conduciamolo al Commissario di polizia. Rosen che all'intendere da principio quelle parole, aveva sentito discendergli nel cuore un debole raggio di speranza, rabbrividì tutto quando udì discorrere del Commissario di polizia; e conobbe che era necessario l'andarsene quatto quatto, se era ancora possibile, e partire in quella notte stessa da Amiens. Ma egli non aveva fatto ancora questa risoluzione che si vide circondato da tutta quella folla, e udì uno di essi che gli s'era avvicinato più degli altri, imporgli di consegnargli la sciabola, e di seguirlo all'ufficio del dipartimento. Rosen prese allora una grande determinazione. Avendo osservato che alcuni fra loro erano armati di stocco, e che uno di essi teneva tra mano la spada del suo avversario, immaginò che gli sarebbe riuscito agevole il farsi uccidere da tutta quella gente, gettandovisi in mezzo come uomo perduto, e menando botte alla cieca per costringerli a restituirle. Detto fatto - non è che un punto - Rosen impugna la sua sciabola a due mani, e piomba in mezzo a quei malarrivati picchiando a destra e a sinistra, ove gli capita meglio, e gridando con quanto ha di fiato - paltonieri, miserabili, anime di conigli, difendetevi, arrestatemi se ne avete il coraggio. Ma egli conseguisce così uno scopo affatto opposto: tutti quegli uomini spaventati da tanto ardimento si danno alla fuga, e Rosen non ha che il dispiacere di vederne quattro cadere feriti al suo fianco, e la certezza che questo avvenimento va a creargli una terribile responsabilità in faccia alla sua coscienza, e ciò che a lui più importa, una responsabilità non meno fatale in faccia all'autorità governativa. Rosen si decide su due piedi: nessuno lo conosce ad Amiens; non ha detto il suo nome a nessuno; appena ne hanno intravista la figura alla luce del fanale; egli si getta alla campagna e tenta di giungere nella notte a Montdidier, servendosi di qualche cavalcatura che spera acquistare in una fattoria, lungo il viaggio. Un'ora dopo questo avvenimento Lamperth riceve da un contadino un biglietto così concepito: «Caro Lamperth, - Un destino singolare, altrettanto che inesorabile, rende infruttuosi e funesti tutti i miei disegni di morire. Io vivo a dispetto mio, ad onta di tutto e di tutti. Avrete inteso che ho ucciso quel guascone, e ferito quattro o cinque francesi che volevano tradurmi, come un malfattore, all'ufficio di polizia. Questo avvenimento mi costringe a riparare a Montdidier senza esser visto, giovandomi d'un cattivo cavallo che ho acquistato ora in una casa di coloni da cui vi scrivo. Vi aspetto dunque a Montdidier, al Caffè della Pace, dove si beve il miglior fiore di latte che si trovi in tutta la Francia.» * * * Mentre Rosen cavalcava per quelle ridenti campagne che corrono da Neufchatel, fino a Hermont e fino alla riva dell'Oise, pensava a quella sua vita spensierata di Londra, a sua moglie, a' suoi amici, alle sue ricchezze dissipate, e a quello strano capriccio della fortuna che gli aveva indicato per rimediarvi una via sì colpevole e sì singolare. La notte s'era fatta piovosa, e Rosen era triste. Mai, come in quel momento, egli aveva sentito un più vivo desiderio di morire: mai come in quel momento, la fortuna aveva sembrato allontanarlo di più dalla morte. Era cosa sì difficile il morire? Egli sentiva in sé una pienezza di vita straordinaria, un'armonia inusitate in, tutte le, funzioni della sua macchina: un ordine, uno scorrere del sangue sì calmo, sì regolare, sì dolce, che non aveva conservato memoria di aver provato mai un simile stato di benessere, anche negli anni della sua fanciullezza. Quel trotto monotono della sua cavalcatura sembrava cullarlo a guisa di un bambino; l'acqua che gli percoteva a spruzzi leggerissimi e quasi vaporosi sui capelli e sul viso, pareva accarezzarlo come una mano di donna adorata; il vento che spirava leggerissimo, pareva soffiargli sul viso come l'alito profumato d'una fanciulla; oltre a ciò gli alberi erano pieni di usignuoli che cantavano nonostante l'imperversare della pioggia; e vi era nell'aria qualche cosa di sì voluttuoso e sì molle che rendeva impossibile qualunque sentimento che non fosse stato calmo, affettuoso e gentile. Ad onta di questo stato di cose, Rosen pensava in che modo gli sarebbe riuscito domani di morire, giacché egli era intollerante d'indugii, e vagheggiava nuove venture e nuovi progetti. Ad ogni ombra che pareva disegnarsi ai lati della via, ad ogni lieve rumore di passi, il cuore di Rosen batteva più concitato e si riapriva alla speranza e alla gioia. Egli entrò ad arte nelle macchie, e attraversò il piccolo bosco di Cok-sautin trattenendo quasi il respiro tanta era la sospensione d'animo in cui si trovava, e l'impazienza di imbattersi in qualche pericolo, o di dare in una imboscata di malandrini. Ogni gruppo di piante gli pareva un assembramento di ladri, ogni cespuglio un assassino appostato sul suo sentiero, ogni ramo coperto di lichene bianco una lama di coltellaccio, o una canna di trombone. Egli pensava in che modo si sarebbe contenuto con essi. Certo i ladri non sarebbero stati meno di due o di quattro, forse anche di più - che gioia!.... e avrebbero avuto delle buone armi .... E come trattarli?... Colle buone?.. peggio! non si sarebbe fatto nulla: bisognava dir loro - assassini, furfanti, paltonieri, non mi sfuggirete; sono il Commissario generale io, domani sarete arrestati, e giuro al cielo che vi farò impiccare come tanti cani, senza darvi il tempo di fare un esame di coscienza. Rosen si era talmente investito della sua parte che inveiva ad alta voce contro questi assassini immaginarii come se li avesse avuti dinanzi, ed era già uscito dal bosco di Cok-sautin senza avvedersene. Il giorno era sull'albeggiare allorché egli incominciò a scorgere in lontananza i campanili della città, e sentì i rintocchi misurati di una campana che pareva suonare l'allarme. Aguzzando lo sguardo su quella linea bianchiccia dell'orizzonte, sul cui fondo si disegnavano a masse oscure e confuse le case di Montdidier, gli parve distinguere un'ampia colonna di fumo che si sollevava a spire nere e pesanti e si riuniva alle nubi che pendevano ancora fitte ed oscure sulla città. Rosen spronò il suo cavallo, e come fu più dappresso alle mura, distinse delle lingue di fiamme che uscivano dal tetto e dalle finestre d'una casa, e conobbe che si trattava d'un incendio. Rianimato da questa nuova speranza abbandonò le briglie sul collo della sua cavalcatura, le ficcò nel ventre gli sproni e giunse alle porte di Montdidier prima che gli abitanti di quel paese, che hanno fama di essere la gente più dormigliona, e le teste più tarde di tutta la Francia, fossero accorsi a domare in qualche modo l'incendio. Rosen arrivò dunque dei primi, e non aveva ancora avuto agio d'osservare da che parte e con quale pretesto avrebbe potuto gettarsi, nella casa incendiata, che lo colpirono queste voci: - Bisogna salvare papà Caupin, povero papà Caupin! egli deve essere inchiodato sul suo letto dall'artritide... egli morrà soffocato. Non vi è alcuno che voglia salvare papà Caupin? - Sono qua io, disse Rosen, dove è la stanza di questo malato? - O signore, che il cielo ve ne rimuneri; è la prima stanza a sinistra, al secondo piano, vi è l'uscio lì sulla scala; se non vi fosse lo trovereste nel gabinetto appresso. Rosen senza aspettar altro, sicuro che quel mezzo di morte era infallibile, entrò sorridente nel pianerottolo e si avviò risoluto su per le scale, esclamando tra sé stesso: è la provvidenza che mi ha mandato a Montdidier. Ma non aveva salito due gradini che le fiamme lo circondavano da tutte le parti, e gli toglievano il respiro; i capelli e la barba friggevano cagionandogli terribili scottature alle guancie; i suoi abiti incominciavano ad arricciarsi; e fu caso se un sentimento istintivo di umanità e la fermezza sua nel proposito di morire, valsero a spingerlo fino al secondo piano nella stanza di papà Caupin che giaceva svenuto sul pavimento. Sollevarlo, recarselo sulle spalle, ridiscendere a precipizio le scale, fu l'opera d'un istante per Rosen, che si presentò alla folla accolto da una salva di grida e di battimani; e stava per rigettarsi nell'incendio, quando si sentì afferrare l'abito da una giovine donna tutta discinta e coi capelli disciolti a onde giù per le spalle, che gli diceva lacrimando: - Deh? per carità, signore, salvate i miei due bambini, li troverete nella terza stanza a destra, al terzo piano... ma fate presto.... andate... pregherò sempre il cielo per voi! Rosen non aspettava altro, e si ricacciò nell'incendio. Fu visto ricomparire poco dopo, tenendo nelle braccia i due fanciulli che venne a consegnare alla loro madre, ma sì sfigurato dalle bruciature e dalle fatiche, che lo si poteva riconoscere a stento. Nondimeno egli non aveva smarrito ancora la ragione, né dimenticato lo scopo vero e diretto del suo disegno. Benché stordito dal dolore, affannato dall'anelito, e quasi acciecato dal fumo e dalla luce, si gettò una terza volta nelle fiamme. Gli spettatori tentarono invano di trattenerlo, gridando: - Cosa fate? È inutile... non c'è più nessuno da salvare. Povero giovine, non capisce più nulla... già... non discenderà più questa volta. Che eroismo! che cuore! Ed è dei nostri? È di Montdidier? Ma Rosen non aveva inteso o voluto intendere nulla: era suo disegno di raggiungere il piano più elevato, buttarsi sul primo pavimento che minacciasse di sfondare, e farsi travolgere con esso nelle rovine. Era giunto così al quarto piano, sotto l'arco di un uscio che poneva in comunione due stanze; le travi dei due solai crepitavano, e le fiamme ne uscivano qua e là lungo le pareti; egli scelse quello tra i due che pareva sarebbe sfondato più presto, ma vi s'era appena gettato che vide l'altro piegarsi nel mezzo, aprirsi e precipitare scompostamente con un orribil rovinio, mentre quello su cui egli stava distaccatosi soltanto dalle pareti, scendeva dolcemente tutto intero, e senza piegare, sfondando i piani sottostanti che ne ammorzavano l'urto e la rapidità col loro ostacolo. In una parola Rosen si trovò in fondo come se ve lo avessero calato con delle carrucole, e non aveva avuto tempo a meditare sulla sua situazione, che gli spettatori, vistolo dalle finestre del pian terreno, vi penetravano da tutte le parti, e lo estraevano, suo malgrado, da quelle rovine. Rosen era sì sofferente e sì addolorato che svenne. La folla piena di gratitudine e di ammirazione per lui, lo accompagnò, acclamandolo, fino ad un'altra casa del signor Caupin, dove fu portato in lettiga, e posto a letto per essere medicato delle sue ferite. Nella sera di quello stesso giorno Lamperth, giunto a Montdidier, si recò al caffè della Pace, dove Rosen gli aveva dato convegno, e dopo avervi bevuto il fiore di latte, che ha fama di essere il migliore che si beva nella Francia, tolto in mano il giornale della provincia, vi lesse con suo stupore queste parole: «Eroismo. - Un grande incendio si è sviluppato stamane nella casa del signor Caupin. Si avrebbero avuto a deplorare perdite dolorose, - quella dello stesso Caupin impedito nel camminare, e di due piccoli fanciulli - se un viaggiatore inglese arrivato in quel momento nella nostra città, non li avesse tratti a salvamento, gettandosi, senza esitare, nelle fiamme, e riportandone tali ferite che lo costringono al letto nell'altra casa dello stesso signor Caupin dove venne ricoverato. Egli è certo barone Alfredo di Rosen, nativo di Londra. Siamo lieti di annunciare che il comune di Montdidier, in seduta d'oggi, gli ha conferita ad unanimità di voti, la medaglia d'argento al valore civile.» * * * Lamperth, dopo essersi informato del luogo ove era situata la casa del signor Caupin, andò a rendere una visita a Rosen. Lo trovò profondamente abbattuto, e sì trasfigurato dalle scottature e dalla perdita delle sopraciglia, dei capelli e della barba, che durò fatica a riconoscerlo. Lamperth stesso che non aveva un cuore tenero come la giuncata, si sentì tutto rimescolare a quella vista, e stendendogli la mano con atto di pietà e d'interessamento che pareva, ed era certo, sincero, gli chiese: Come state? - Voi vedete in me, gli disse Rosen con aria di abbattimento profondo e senza rispondere direttamente alla sua domanda, voi vedete in me un uomo che è incontrastabilmente il più sventurato fra quanti abbiano patite sventure d'ogni sorta nel mondo. E ciò non di meno sento che questo dolore non ha il potere di uccidermi; e ho non so quale presagio nel cuore che mi dice che io devo vivere, vivere inesorabilmente a dispetto della mia volontà, e de' miei progetti. Ah! domandare soltanto di morire.... e non poter morire! È una cosa orribile! - Che volete? sono travagliato da un'idea fissa, da un dubbio, da un sospetto che mi atterisce. Sarei io mai dotato di una natura immortale? È un pensiero che mi fa rabbrividire, e non di meno non lo posso scacciare dalla mia mente. È un pensiero che se io fossi suscettibile di morire, basterebbe solo ad uccidermi. - Sentite, riprese Rosen dopo qualche intervallo di silenzio, se io potessi morire di veleno, dopo il fatto di ieri, dopo che si conosce a Montdidier la mia qualità di barone, credete che potrei destare sospetto di suicidio? - Non lo credo, disse Lamperth, ma dovete pensare che ne cadrebbe il sospetto sopra persone innocenti. Le cronache giudiziarie registrano a questo proposito dei fatti terribili, e i primi tentativi che avete fatto per morire vi hanno già creata una responsabilità abbastanza grave. - È vero, interruppe Rosen, con accento mortificato, ma la verità verrebbe poi sempre alla luce. E avendo veduto che Lamperth aveva come accennato del capo in atto di adesione, dopo un istante di silenzio, afferrò le sue mani, si sollevò un poco sul guanciale, e gli disse con suono di voce supplichevole: - Lamperth, mio buon amico, ve ne scongiuro, deh! procuratemi un veleno. - Impossibile, rispose Lamperth con aspetto grave e severo; io posso assistere alla vostra morte, posso assecondare fino ad un certo punto i vostri disegni, giacché ho compreso che è impossibile di potervene distogliere; ma non posso procurarvi io medesimo i mezzi di morire, Rivolgetevi ad altri, La mia coscienza m'impedisce di favorirvi, - Bene, bene, disse Rosen, sia come non detto, ma ciò non di meno voi sapete che ho della simpatia per voi…. voi siete incaricato di una lettera per mia moglie... avete ricevute le mie confidenze... ve ne prego, ottimo signor Lamperth, non mi abbandonate sì presto.... Se non posso morire qui, conto di venire con voi in Italia, dove credo che un uomo che non chieda che di morire, possa correre miglior fortuna che in Francia, - Oh! in quanto a questo rassicuratevi, disse Lamperth, io vi seguirò dappertutto, e indugierò a partire da Montdidier fino a che non sarete guarito. Tanto più che si beve realmente dell'ottimo fiore di latte a Montdidier... bisogna dirlo, non è un cattivo soggiorno... - No, no, riprese Rosen, vi ho passati alcuni mesi nella mia infanzia, e non è veramente un soggiorno dispiacevole, ma io non domando che di morirvi. - Speratelo, conchiuse Lamperth stringendogli la mano, e accomiatandosi da lui; la fortuna è capricciosa, e può concedervi domani ciò che vi ha rifiutato oggi; e quando meno state in aspettazione delle sue grazie, colmarvi de' suoi doni e de' suoi favori. Ma rimanete tranquillo; verrò a rivedervi domani; spero trovarvi peggiorato. Appena Lamperth si fu allontanato, ciò che Rosen aspettava con impazienza, egli fece chiedere d'un giovine commesso di farmacia che gli aveva recate alcune medicine, e applicate alcune striscie di taffetà nel giorno antecedente, e gli disse: - Voi dovete essere un ottimo ragazzo, e ho in mente di giovarvi per quanto mi è possibile, combinando l'interesse vostro ed il mio in un affare che vado a spiegarvi in due parole. Il cuore mi dice che noi riusciremo a qualche cosa. Ecco come sta il fatto. Si tratterebbe di un.... bisognerebbe.... ascoltatemi. - Dite, io sono tutto orecchi. - Vado a spiegarmi: io ho un'amante nel mio paese, una ragazza a dovere... figuratevi... una bellezza rara, una bellezza prodigiosa; una di quelle donne che hanno diritto a pretendere in un amante delle attrattive irresistibili.... ora... non dico d'averle avute io, ma certo... voi lo vedete, la mia faccia, i miei lineamenti sono alterati, io sono ora un uomo brutto, diciamolo francamente, brutto, è la parola. Io non ho più il coraggio di farmi rivedere da lei in questo stato, ho preso una risoluzione energica, irremovibile; ho deliberato di... Come vi chiamate signor Tricotèt? - Tricotèt, l'avete detto. - E a che somma ascendono i vostri onorarii? - Oh! ad una somma assai lieve, se volete, ma considerevole sempre per un giovine commesso di farmacia, a venticinque lire mensili. - Bene! riprese Rosen, sappiate adunque che per i motivi che vi ho esposti, io ho deliberato di... morire; e vi darò qui su due piedi venticinque mila franchi se voi mi procurate un veleno per farlo. Un veleno! esclamò Tricotèt alzandosi due spanne dalla sua sedia; ma, signore, se non è che il timore della vostra deformità che vi consiglia questa determinazione, io vi assicuro che voi guarirete: fidatevi di me, sono in grado di accertarvelo, io; studio il terzo anno di farmaceutica; e non sono più di due mesi che colla pomata vergine di Vernicot, ho fatto rinascere le ciglia e i capelli all'illustrissimo signor Verrier, che è l'avvocato generale del dipartimento, e che era raso quanto una guancia... Avete detto venticinque mila franchi? - Venticinque mila. - E che veleno vi occorrerebbe? - Oh! un veleno qualunque..... purché sia potente, pronto, efficace, ma sopratutto potente. - In quanto a questo, non avreste a temere.... credo avervi detto che studio il terzo anno di farmaceutica; queste cognizioni le ho sulle punta delle dita. - Bene, bene, riprese Rosen, pensateci seriamente, ne va della vostra fortuna. - Ci penserò, disse Tricotèt avviandosi verso la porta per uscirne. Ma non aveva ancora chiuso l'uscio dietro di sé, che ritornò nella stanza di Rosen e gli disse: - Signore, ci ho pensato... parmi di poter accettare.... ho a mia disposizione una certa pasta nera, il cui effetto è terribile, è immediato, benché procuri una irritazione intestinale abbastanza sensibile... se voi credete... se persistete nella stessa offerta, io ve la potrei procurare dietro la riscossione della somma su cui abbiamo convenuto. - Non v'è che dire, riprese Rosen, voi mi darete il veleno... la pasta.... ciò che dite, ed io vi sborserò i venticinque mila franchi. - Accettato, rispose Tricotèt con risolutezza, volo a provvedermene: fra due minuti sarò di ritorno. Rosen, sicuro finalmente di morire, si abbandonò tutto alla voluttà di questo pensiero. Un istante dopo Tricotèt ricomparve portando con sé un piccolo vaso ripieno d'una pasta nera che liberò con molta precauzione da cinque o sei fogli di carta in cui era avviluppato, e lo presentò a Rosen dicendogli: - Non avrete tempo a prenderne quattro boccate che sarete freddo. Rosen gli sborsò i venticinque mila franchi che erano tutto ciò che gli rimaneva della sua fortuna. Tricotèt li intascò con tutta l'impassibilità d'un uomo d'affari; ridiscese a saltelloni la scala, e, preso un posto nella diligenza di Lafitte, partì in quella stessa mattina per Parigi - Rosen, rimasto solo, si raccolse tutto in sé stesso, richiamò tutte le sue memorie, ripensò alla sua fanciullezza e a sua moglie, fece un breve esame di coscienza, si pose in pace alla meglio con essa e con sé medesimo, e dato un addio alla vita e alle sue rimembranze, rinchiuse gli occhi e ingoiò in quindici o venti boccate tutto il suo veleno. Era un sapore acre ma dolce, e pareagli d'averlo gustato altre volte; non aveva nulla di disgustoso, nulla di forte, e Rosen stava per dubitare della fede di Tricotèt, quando lo incominciarono ad assalire degli spasimi colici così potenti che non potè trattenere suo malgrado le grida. Erano dolori orribili, insopportabili, atroci. Rosen, come tutte le nature vivaci, ma deboli, era vile dinnanzi al dolore. I suoi lamenti fecero accorrere il signor Caupin che, non ostante le sue proteste, si affrettò a mandare pel medico. Rosen nell'entusiasmo del suo sacrificio non aveva preso tutte le precauzioni opportune, e aveva dimenticato sul tavolo il vaso del veleno. Se ne avvide troppo tardi quando il medico se l'era già tolto in mano, e esaminandone le reliquie gli diceva: - Che diavolo avete preso o signore? Chi è quell'asino di dottore che vi ha fatto una simile ordinazione? Oh la scienza! E c'è tanto da vergognarsene... siamo giunti davvero a un bel punto!... Quattr'oncie di conserva di prune coll'emetico! È una cosa orribile, un'ordinazione da cavallo!.... - È il signor Tricotèt, mormorò Rosen tra lo spasimo, un commesso di farmacia che.... - Il signor Tricotèt!.... diamine... ho trovato or ora il suo padrone, il degno farmacista Sapiston, che ne va in cerca per monti e per mari; egli ha ricevuto in questo momento una sua lettera in cui gli annunzia che parte oggi stesso per Parigi, e va ad acquistarvi una delle farmacie meglio avviate della capitale. - Ah Tricotèt scellerato! disse Rosen, tenendosi il ventre colle mani, piccolo malandrino! giuro al cielo che io vo' guarire a posta, rinunciare a tutti i miei progetti per andargli a strappare le orecchie a Parigi. - Via, via, disse il dottore in aria di conciliazione, quel piccolo monello vi ha fatto uno scherzo di cattivo genere, ma la cosa non ha in sé nulla di conseguente, prima di domani sarete perfettamente guarito. Venti giorni dopo questo avvenimento, Rosen ristabilito della sua malattia, prendeva con Lamperth la strada della capitale. Un nuovo campo di avventure doveva aprirsi adesso per Rosen. In quel gran centro che è Parigi dove le statistiche registrano ogni giorno centinaia di furti, di aggressioni, di delitti, di calamità d'ogni genere, non doveva riuscirgli difficile di morire. Almeno Rosen lo sperava; considerava le avversità passate come un brutto giuoco della fortuna, ma nulla più che un giuoco; era impossibile ch'essa potesse contendergli più a lungo la realizzazione di un desiderio sì semplice e sì naturale, il compimento di un destino inevitabile e comune a tutte le cose. Oltre a ciò egli era divenuto triste e soffrente; bisognava aggiungere alle cause che lo eccitavano a desiderare con tanta ostinazione la morte, quel non so che di mesto e di inusitato che gli era provenuto dalla sua infermità, e il dispiacere delle traccie che ella aveva lasciato sulle sue fattezze. Perché Rosen ci teneva alla sua avvenenza, e non aveva totalmente mentito quando aveva detto a Tricotèt che non avrebbe potuto reggere al pensiero di rivedere l'Inghilterra così malconcio. Il più delle volte noi amiamo di essere belli per noi stessi, perché amiamo anzi tutto noi stessi, e consideriamo la bellezza fisica come un riflesso, come un'espressione della bellezza morale. I fanciulli che ignorano ancora tutta l'influenza che la beltà esercita sugli affetti, ambiscono nondimeno di essere leggiadri, ed è questo il primo istinto di vanità che apparisca ordinariamente nell'uomo. Vi furono in ogni tempo delle donne segnalate per avvenenza straordinaria, le quali non amarono alcuno, e furono tuttavia felici, e trovarono nella sola coscienza di questa loro beltà un conforto a mali grandi e reali della vita che non avrebbero saputo tollerare altrimenti. Egli è che esse amavano potentemente e sovra tutto sé stesse; e si è spesso tentati di credere che quell'amore che si dà ad altrui non sia che un'esuberanza, un residuo di quello che si dà a noi medesimi. Si toglie a sé, e si dà ad altri; più amate altrui e meno amate voi stesso: da ciò il sacrificio in amore, e quella legge immutabile di egoismo che lo governa provvidamente e lo frena. Rosen incominciò da quei giorni una nuova serie di tentativi. Risoluto a non ritentare le sorti del duello che non gli avevano fruttato fino allora che dei rimorsi crudeli, immaginò nuove imprese e nuovi disegni: ma non era così agevole l'immaginarne di efficaci e di utili. Ne concepiva molti, e molti ne rigettava come ineffettuabili. Vi era sempre in ciascuno di essi qualche ostacolo, qualche conseguenza probabile che lo distoglieva dall'eseguirla. Perché egli si era fatto saggio dopo quelle prime prove, e la sua coscienza infiacchitasi, come suole nella malattia, gli suggeriva rimedii più cauti e più onesti. In quel primo periodo della sua dimora a Parigi aveva cercato, ma indarno, di morire con qualche mezzo comune; si era buttato tre o quattro volte tra le carrozze che gli attraversavano la via, come persona che ha difetto d'udito, o che non bada molto a sè per distrazione soverchia; ma i cocchieri erano sempre stati troppo avveduti, e s'erano sempre trovati importuni che gli avevano strillato alle orecchie: - Ehi, signore, la si guardi, badi che le viene addosso una carrozza; e talora ne l'avevano sottratto a forza, afferrandolo e trattenendolo violentemente per l'abito. S'era provato a passeggiare lungamente e pazientemente sotto i ponti e sotto le bertesche degli edificii in costruzione, sperando la caduta d'una tavola, d'una pietra, o di un arnese qualunque che avesse potuto ucciderlo, ma indarno: aveva girato tutto il vecchio Parigi, e cercato tra quelle case antiche e tra quei vecchi recinti di giardino qualche muro che minacciasse di sfasciarsi, e vi aveva passato notti intere aspettando che rovinasse, ma non era stato più fortunato in ciò, di quanto lo fosse già stato dapprima. Un destino misterioso altrettanto che strano, governava la vita di Rosen. Spesso nello scorrere per passatempo i giornali della sera, si arrestava con un senso di sdegno e d'invidia a meditare sull'elenco dei morti nella giornata - tre o quattrocento ogni giorno; e tra essi molti più giovani di lui, molti fanciulli che vi avevano diritti infinitamente minori..... E tuttavia egli viveva…. Talora si sentiva sgomentato nello scorgere che la maggior parte di quei morti erano vissuti fino ad una età molto avanzata, fino a settanta, a ottant'anni; ve n'erano spesso alcuni che per poco non avevano toccato il secolo.... Se egli avesse avuto lo stesso destino.... se fosse stato condannato ad una vita sì lunga! In quegli intervalli di scoraggiamento tornavalo ad assalire il sospetto che egli fosse dotato di una natura immortale, che tutti i suoi sforzi sarebbero riusciti vani, eternamente vani... Non poteva reggere al pensiero di una vita che non doveva aver fine; era questo fine che egli voleva affrettare, che egli voleva raggiungere; e quantunque si avvedesse dell'assurdità di un simile sospetto, n'era soventi in timore, e passava giornate angosciose, travagliato, come era, da un pensiero così scoraggiante e terribile. In quei giorni avendo appreso che molti assassinii succedevano la notte nei quartieri più remoti di Parigi, sui boulevards, al bosco di Boulogne, in quelle vecchie e strette viuzze che si trovano dal lato occidentale della città, Rosen vi si cacciava tutte le sere, e vi errava per lunghe ore senza frutto; rientrava a notte inoltrata, e talora, verso il mattino, scoraggiato, prostrato, vinto da quella cieca fatalità che vigilava con tanta costanza sulla sua vita. Oltre a ciò egli doveva struggersi di celare l'entità della sua persona: le sue avventure di Dover e di Amiens avevano messo la polizia sulle sue tracce, e benché egli non avesse palesato a persona il suo nome, bastava un indizio, un sospetto, perché si fosse venuto in chiaro di tutto. Più che di una pubblicità disonorante, Rosen temeva della violazione del suo segreto, dell'inutilità del suo sacrificio, e delle ristrettezze domestiche di sua moglie. Si era creato mille sorgenti di dolori, mille motivi di pene e d'inquietudini, e comprendeva di non potervi rimediare che morendo. Aveva risolto di abbandonare Parigi, quando una sera essendo entrato in una bettola, come soleva fare, per corrervi qualche avventura, e essendosi seduto colle spalle rivolte a un assito che tramezzava la camera, scorse da una fessura delle tavole quattro persone, che sedevano in un angolo della stanza, discutendo a bassa voce circa un complotto di furto che si proponevano di effettuare in quella notte medesima. Quantunque essi parlassero assai piano, non riuscì difficile a Rosen che stava origliando alla fessura, d'intendere queste parole: - Vi ripeto che il teatro dell'Opera non finisce che dopo la mezzanotte. È impossibile che egli ritorni prima di quell'ora. - Ma siete poi sicuro che il signor Meustrier vi vada tutte le sere? - Tutte le sere. Bene! ma io credo ad ogni modo che convenga indugiare fino alle undici. Sapete che al secondo piano la signora Ronson non si corica mai prima di quell'ora, e si ferma spesso sul pianerettolo ad inacquarvi i suoi vasi di basilico. Già, io temo di voi, mio caro amico, perdonatemi, ma siete così smemorato; metterei un occhio della testa che prima che siate partito e tornato per le nostre provviste, avrete dimenticato la strada, la casa, il numero, e perfino la qualità di dottore dell'onorevole signor Meustrier, e lo scopo per cui andiamo a rendergli quella visita. - Via, e lo so a mente come le litanie: vicolo della Chiusa, n. 42, piano terzo, uscio a sinistra, quattro finestre sul vicolo, abitazione del signor Meustrier, dottore in ambo le leggi. Ma a me passano pel capo ben altri timori. - E sarebbero .... - Ve l'ho già detto; voglio dire quella persona che ci spiava alla cantina del Falcone, e che sarebbe stato scambiato per un ispettore di polizia anche da un cieco. Temo che ci abbia uditi. - Voi non vedete che ispettori di polizia. Ma è tempo che andiate per le cose nostre... già non vi dimenticherete del convegno... al tocco delle undici sull'angolo. - E se ... - Cosa? - Se nel discendere e nel salire, incontrassimo il signor Meustrier, se lo trovassimo in casa... - In casa è impossibile, non torniamo sulle questioni già appianate: se lo incontreremo per le scale sarà un altro paio di maniche, bisognerà fargliele ridiscendere a capo fitto. Rosen non volle udire altro, non mancava più alcun dettaglio al suo piano; uscì a precipizio dalla bettola, deciso di rappresentare la parte del signor Meustrier, e di appostarsi sulle scale del suo palazzo. Ma la cosa più difficile era trovare il vicolo della Chiusa; non è sì agevole il trovare un vicolo a Parigi sulla semplice indicazione del suo nome, e Rosen temeva di compromettersi chiedendone notizia a qualche passeggiero. Non erano però le nove, e gli avanzavano due ore per farne ricerca: poteva sperare ragionevolmente di riuscirvi. Fino dal primo momento che aveva sentito i ladri accennare a quel luogo, aveva supposto che non sarebbe stato molto lontano da quel quartiere, perché essi non si sarebbero radunati in un punto opposto della città: era d'uopo passare ad una ad una per tutte quelle vie e leggervi le indicazioni dei viottoli traversali: dopo ciò se tutto fosse stato inutile, richiederne con franchezza qualche persona, e non trovando chi glielo indicasse, cacciarsi in una vettura pubblica e farvisi condurre come a casa propria. Concepito questo piano, Rosen si accinse di buon animo alle sue ricerche. Ma era inutile; il tempo volava con una rapidità spaventosa, e Rosen non era adesso più fortunato di quanto lo fosse stato in quei giorni. Ad ogni breve intervallo di tempo guardava con trepidazione sull'orologio, e vedeva la lancetta affrettarsi a raggiungere l'ora fatale, senza che potesse aver indizio alcuno di quella strada. Erano le dieci e mezzo, mancava mezz'ora al convegno... Risolse allora di chiederne notizia ad alcune persone che gl'inspiravano qualche fiducia, ma nessuna di esse seppe indicarglielo. Si azzardò a interpellarne una guardia di polizia, che lo guardò di traverso come una persona sospetta, ma anche questi non ne sapeva più dei primi. Intanto erano già trascorse le undici, Rosen era sulle spine; conobbe che bisognava tentare rimedii estremi, e aprendo lo sportello d'una vettura pubblica vi si buttò dentro come una persona disperata strillando alle orecchie del cocchiere: vicolo della Chiusa, n. 42, a gran corsa. Il cocchiere dopo essersi raccolto un momento quasi per chiamare a rassegna tutte le sue cognizioni topografiche, fece scoppiettare la sua frusta, e spinse il cavallo in una direzione opposta a quella per cui era venuto Rosen. Si corse per una buona mezz'ora; Rosen era al colmo della desolazione; mancavano pochi minuti alla mezzanotte, e già aveva deliberato seco stesso di rinunciare a quel tentativo e di farsi condurre invece da Lamperth, quando vide la carrozza voltare in una piccola via, e appena girato l'angolo, arrestarsi. Rosen ne discese, guardò in alto e vide il numero 42 illuminato dal fanale della strada che pareva dirgli: questa è la casa, venite. Pagò sontuosamente il cocchiere, e raccogliendo tutto il suo coraggio entrò nell'atrio, e cominciò a salire le scale. Era giunto appena al terzo piano, quando gli parve d'intendere del rumore nell'appartamento del signor Meustrier; e appressandosi all'uscio, conobbe che le imposte ne erano socchiuse, e vide uscirne un filo di luce che le illuminava di dentro. Non v'era dubbio, ladri non ne erano ancora usciti; bisognava usare dell'audacia, far la parte del signor Meustrier, entrarvi, assalirli, e lasciarvisi sgozzare come un agnello. Ma Rosen non aveva ancor messa la mano all'imposta, che udì una voce maschia chiedere di dentro: Chi va là? - Io, disse Rosen, spalancando la porta e precipitandosi nella stanza, io, il dottore Meustrier; chi è che è entrato in mia casa? - Onorevole dottore, rispose una persona che Rosen riconobbe subito per un gendarme, li abbiamo pigliati nella trappola; e aprendo l'uscio della seconda stanza disse: il signor Meustrier è arrivato in questo momento. Rosen guardò, e vide una quantità di gendarmi, intenti ad ammanettare i quattro personaggi che aveva conosciuto alla bettola. L'ispettore di polizia, appena vedutolo, gli si appressò con aria di soddisfazione, e togliendosi rispettosamente il berretto, gli disse: Egregio signor Meustrier, ella ci vorrà perdonare se abbiamo dovuto violare la sua casa, ma la giustizia ha esigenze sulle quali non è possibile transigere ... D'altra parte le abbiamo ricuperati i quaranta mila franchi di deposito che ella incassò stamattina, e che questi galantuomini avevano già fatto passare nelle loro saccoccie. Fu un fatto molto onorevole per la polizia di Parigi, questo; non lo dico per vantarmene, io, ma ... già, tutto il merito è dovuto al nostro agente, il signor Chaperron, che ha saputo scoprire il complotto nella cantina del Falcone, dove questi signori si erano radunati per concertare il loro piano. Aveva fatto cercare di lei, ma non ci è stato possibile di trovarla. Ho sentito in questo momento la sua carrozza, e ho detto tra me stesso: il signor Meustrier è qui, egli rimarrà ben stupito di trovar tanta gente in sua casa. Come fare? E bisognerà ora che ella abbia anche la bontà di accompagnarci all'uffizio della sezione, dove redigeremo il verbale, e le restituiremo il danaro rubato, appena verificata esattamente la somma. - Sono ben grato, disse Rosen, che si sentiva calare il sudore gelato dalla fronte, sono ben grato delle cure che questa benemerita autorità si assume per la tutela della proprietà privata, e mi duole di non poterle offrire che un attestato verbale della mia riconoscenza: del resto, signor ispettore, io mi farò un dovere di far conoscere a tutti la di lei avvedutezza e il di lei zelo, segnalandolo per le stampe alla ammirazione ed alla gratitudine del paese. L'ispettore s'inchinò fino a terra. Rosen, avendo ammiccato dell'occhio ai quattro arrestati, che lo guardarono stupiti, come avesse voluto dir loro: non temete, non mi tradite, non sono il signor Meustrier, io; lo so bene che non mi conoscete, ma sono uno dei vostri, uno che saprà liberarvi, purché abbiate un'oncia di giudizio, riprese: - Signor ispettore, io sono ai di lei ordini, andiamo. E si avviarono all'ufficio di polizia. Quivi Rosen che si sentiva i bordoni alla testa, dovette subire un lungo interrogatorio, declinare il suo nome, la sua qualità, la provenienza del danaro rubato; dopo di che, avendo firmato il verbale che faceva constare del fatto, l'ispettore generale gli disse, consegnandogli i quarantamila franchi, che erano stati tolti a Meustrier: - Signor dottore, ella può ora ritirarsi, ma è necessario che ritorni domani al nostro ufficio per assistere all'interrogatorio degli accusati. Rosen, intascando alla meglio il danaro, si cacciò giù per le scale, leggiero come una rondine, si ficcò in una carrozza da nolo, si fece condurre dal suo amico Lamperth, e gli disse: - Io parto in questo istante per Melun; sono stato costretto a rubare quarantamila franchi, e non potrei rimanere un'ora di più a Parigi; raggiungetemi domani in quella città, dove desidero di giustificarmi con voi di questa appropriazione. - Sta bene, ci rivedremo domani a Melun, rispose Lamperth con freddezza. * * * Quel piccolo gruzzolo del signor Meustrier non era giunto inopportuno per Rosen; egli era stato a un filo dal vedersi senza un quattrino; e d'altra parte considerava quel dono singolare della fortuna, come un compenso alle somme che Lachard e Tricotèt gli avevano arraffate prima del suo arrivo a Parigi. Ciò di cui egli si sgomentava non era tanto il ritardo che tutte quelle mille fatalità frapponevano al raggiungimento del suo scopo, quanto quel non so che di ostinato e di derisorio con cui quelle stesse fatalità tentavano di paralizzarne l'azione. Tuttavia, appena arrivato a Melun, si era avveduto che una nuova serie di avventure le attendeva in quella città. La Senna, ingrossatasi per le pioggie che erano state frequenti in quei giorni, era uscita dal suo letto e aveva allagato buona parte di quelle campagne. Molte case di coloni erano rimaste sepolte a metà dalle acque, senza che le famiglie che le abitavano avessero avuto il destro d'uscirne: non poche di esse mancavano di provvigioni, o erano minacciate in altro modo nelle loro case medesime, che scalzate dal fiume alle fondamenta erano in procinto di rovinare. Ogni giorno si numeravano nuove vittime, e quei pochi generosi che s'erano spinti in loro soccorso ne costituivano la maggior parte. Rosen aveva appreso queste notizie non appena partito da Parigi, ond'è che giunto a Melun, era corso tosto alla riva del fiume per vedere le cose da sé, e confortarsi della certezza di questo avvenimento. Tutta quell'estensione di campagna così allagata presentava uno spettacolo stupendo. Dalla parte di Corbeil, l'occhio non giungeva a distinguere il limite estremo dell'allagazione, e l'orizzonte si chiudeva in una linea confusa e bianchiccia, come avviene in una scena di mare, quando le onde agitate presentano alcune creste di una bianchezza abbagliante sopra un fondo oscuro e verdastro. Dal lato opposto, la via di Fontainebleau, dove le acque si erano arrestate in un declivio, porgeva l'aspetto di un serpente smisurato che stesse per uscire dal fiume. Dappertutto biancheggiavano delle case, quali scoperte in gran parte, quali sepolte fino al tetto, di cui non si scorgevano che i comignoli, simili ad alberi di nave naufragata; le piante investite dalla corrente oscillavano sui loro fusti; e molte di esse sradicate erano travolte impetuosamente dalle onde; in alcuni punti il fiume era limpido e calmo, in alcuni altri scorreva con un fragore spaventoso, e si riversava negli avallamenti, che riempiuti si scaricavano negli altri seni più bassi. Mille altri particolari completavano la scena stupenda di quel quadro. Rosen gioiva dal più profondo del cuore nel contemplarlo. Quanti pericoli non avrebbe egli potuto corrervi domani, e quanti pretesi non avrebbe egli avuto per correrli? Come doveva essere facile il morire in quel luogo! - una barca rovesciata, una riva franata, una casa sfasciata dall'acqua, un naufrago che invoca soccorso .... no, era impossibile che questa volta non riescisse a Rosen di morire. Dopo che egli ebbe passato alcune ore beandosi in quella vista, rientrò nella città che la notte era di molto inoltrata, si gettò sul letto fantasticando, ebbe sogni pieni di voluttà e di visioni. Gli pareva che, essendosi gettato nella Senna, le onde lo avessero travolto e inghiottito senza che egli od altri avessero avuto tempo di opporvi la menoma resistenza; le acque si erano chiuse sopra di lui, egli si sentiva affondare affondare, scendere scendere continuamente senza poter giungere al fondo, la corrente lo portava con impeto e lo faceva girare su sé stesso come una foglia investita dal vento. In quel lungo sommergersi Rosen provava una strana sensazione di piacere, avrebbe voluto scendere così eternamente senza toccare il letto del fiume; ma non avea concepito questo desiderio che ne scorse il fondo tutto coperto di musco e di conchiglie, e non l'ebbe raggiunto che disse a sé stesso con un senso di tranquilla rassegnazione: sono morto sono finalmente morto! Allora una miriade di pesciolini e di piccoli mostri acquatici si precipitarono sopra di lui per divorarlo. A quella vista Rosen si spaventò e destossi. - Sia lodato il cielo, diss'egli, questo sogno è una previsione, andiamo. E vestitosi in fretta si avviò verso il fiume. Appena giunto alla Senna fu lieto di apprendere che si era costituita fra alcuni filantropi di Melun una società di soccorso per le persone che si trovavano chiuse nelle case allagate. Rosen domandò sull'istante di farne parte e lo ottenne. Da lungo tempo egli godeva nel suo paese fama di abile nuotatore, e pensò con piacere che prima di morire avrebbe potuto rendere realmente qualche servigio a quegli sventurati: in fondo in fondo egli non era cattivo, e un istinto di umanità lo aveva tratto sovente a sacrificare per l'utile altrui, il bene proprio, come aveva fatto in occasione dell'incendio di Montdidier. Rosen chiese che gli fosse affidata una barca colla quale avesse potuto trasportare alcune provvigioni nelle fattorie che ne avevano difetto, o tentare di trarre in salvamento gli abitanti di quelle case che minacciavano rovina. Per due giorni fu un prodigio di attività e di fortuna, e rese beneficii immensi alle vittime di quell'innondazione - tutta Melun era occupata di lui e del suo coraggio, il nome di Rosen era sulle bocche di tutti - ma, al terzo giorno, quando appunto prostrato da quelle fatiche e impaziente di morire, aveva risolto di tentare qualche cosa di decisivo, avvenne che guidando egli una barca su cui trasportava alla riva due fanciulle raccolte sopra un piccolo rialzo di terra che era stato circondato dal fiume, questa investì in un albero che scendeva giù trascinato dalla corrente, e n'andò rovesciata. Al momento in cui Rosen incominciava a sommergersi guardò alla riva, vide la folla che assisteva al triste caso; e non potendo più dubitare che la sua morte non potesse venir impedita e non dovesse essere considerata affatto accidentale, provò nel fondo dell'anima una strana gioja, e disse: oh finalmente .... Ma non aveva ciò pensato, che si sentì afferrare da una di quelle fanciulle che si erano sommerse con lui, e che gli s'avvinghiava alla persona con tutta quella disperata tenacità che da l'istinto della vita. Il cuore di Rosen non era eccessivamente pietoso, ma pure ne sentì compassione, e slacciandosi alla meglio dalle sue braccia, e stringendola con una mano alla cintura, incominciò a nuotare verso la riva. V'è un'altra vittima da salvare pensava egli tra sé stesso, mentre lottava disperatamente colle onde, nessuno mi toglierà il pretesto di rituffarmi nel fiume. E messo in pace da questo pensiero continuò ad affrettarsi alla sponda. Rosen vi giunse sì spossato, sì oppresso dalla fatica che appena potè intendere le grida e gli applausi della folla, che stava schierata lungo la riva. Ma non ebbe posata a terra la fanciulla, che, fingendo di voler correre alla salvezza dell'altra, tornò ad immergersi, e prese a nuotare verso il largo della Senna. Intanto alcune barche si erano distaccate dalla sponda; Rosen le vide, e fosse la fatica fosse il timore che potessero venire in suo soccorso, si sentì venir meno, incominciò a perdere la vista dell'orizzonte, a gettare le braccia inerti sull'acqua, a diventare leggiero, nel tempo stesso che si sentiva inghiottire dalle onde; e smarrendo in un istante ogni forza ed ogni coscienza di sé, si sommerse. In quell'intervallo di tempo due barche lo avevano raggiunto, e due francesi si erano già gettati nell'acqua per salvarlo. Rosen non aveva avuto tempo di toccare il letto del fiume, che uno di essi lo aveva afferrato alla cintura e trattolo fuori e coricatolo nella barca, lo aveva ricondotto alla riva. Tutto ciò era avvenuto in istante, e senza che Rosen, che era svenuto, avesse potuto avvedersene. Ma quale non fu la sua maraviglia, quando nel risensare si trovò nella sua stanza, nel suo letto; e vide Lamperth seduto al suo fianco; e richiamando in un istante le sue memorie, potè indovinare agevolmente tutte le particolarità della sua sventura. - Ah! sono ancora vivo, egli disse, sono ancora vivo! ... e si riposò con dolore su questa parola. Egli era sì debole che un istante dopo si pose a piangere e singhiozzare come un fanciullo, esclamando colla voce interrotta dalle lagrime: - Io non morirò più! ... Io non potrò più morire! ... Indarno Lamperth si provò a consolarlo: il suo abbattimento era estremo. - Io morirò di crepacuore, io morirò di angoscia, ripeteva Rosen ad ogni frase del suo amico. E l'altro a soggiungergli: - è il genere di morte più valido dinanzi alla società di assicurazione. Alcuni giorni dopo Rosen guarito aveva detto a Lamperth: - Andiamo via di qui, non fermiamoci più fino a che non saremo giunti in Italia. E stavano per partire, quando una deputazione del municipio di Melun entrò nella stanza recando a Rosen un indirizzo di quel comune, nel quale lo si ringraziava del soccorso prestato durante l'inondazione, e gli si offriva, come unico compenso degno di tanta abnegazione, la cittadinanza di Melun. Rosen volle rispondere, ma provò tale un eccesso di sdegno contro la sua fortuna e contro sé stesso, che si sentì soffocare dalla bile; e non potendo reagire e superare la sua emozione, cadde svenuto sopra una sedia. - Egli è ancora assai debole, disse un membro della deputazione a Lamperth, e questo attestato di onore che ha voluto porgergli la nostra città, lo ha profondamente commosso. - Sì, disse Lamperth, lo ha commosso molto profondamente. * * * Dopo quindici giorni di viaggio, Rosen e Lamperth giunsero a Grenoble, col pensiero di passare le Alpi presso Brianzure, e di passarle a piedi come due buoni inglesi. Rosen era prostrato dalle tante disillusioni sofferte; ma come suole avvenire in tutte le nature immaginose e fantastiche, si confortava di nuove speranze. Gli pareva che in Italia sarebbe riuscito, che anzi sarebbe riuscito alla prima prova, e aveva deciso di non tentare più che avventure serie, avventure utili, nelle quali la sua sensibilità e la sua coscienza non avessero più a distoglierlo dallo scopo immediato dei suoi tentativi. Oltre a ciò sentiva in sé stesso un presagio consolante, il presagio che egli si avvicinava al suo fine, che qualche cosa di solenne, qualche cosa di decisivo doveva accadergli in quei giorni. Gli s'erano già offerte tre o quattro occasioni, ma aveva ricusato di approfittarne, come quelle che non promettevano un esito sicuro, quando, essendo giunto ad un piccolo villaggio alle falde dalle Alpi, e avendo saputo che in una foresta vicina era imboscata una grossa masnada di assassini che vi commettevano delitti inauditi, risolse di andarli ad incontrare. Fino allora non s'era dato esempio di viaggiatori che fossero capitati nelle loro mani e che ne fossero usciti vivi, per quanto danaro avessero lor dato, e per quante preghiere avessero rivolte; era naturale che Rosen, deciso a difendersi e a provocarli, potesse lusingarsi di correre lo stesso destino. Accomiatandosi da Lamperth che sicuro della morte del suo amico lo abbracciò colle lagrime agli occhi, Rosen tolse pretesto di una passeggiata su pel monte, e s'inoltrò arditamente nella foresta. Camminava triste e pensoso, guardando gli alberi che distendevano i loro rami sopra di lui, come un ombrello gigantesco; raccogliendo per distrazione qualche corbezzolo, e compiacendosi di sentire sotto i suoi piedi quel non so che di molle e carezzevole che hanno gli alti strati di foglie così accumulate da anni nelle montagne. Era pensoso, è vero, ma lo era pel timore di non imbattersi nella masnada: oramai Rosen era sì indispettito dei suoi casi trascorsi e della sua triste fortuna, che quasi avrebbe bastato quel suo risentimento, quella specie di amor proprio che lo rendeva incaponito nel suo progetto, a fargli desiderare e affrontare qualunque sorta di morte. Ma i suoi timori erano vani come le sue speranze. Non aveva camminato più di mezz'ora che udì suonarsi all'orecchio un: Chi vive? uscito da un petto così robusto, e pronunciato così d'appresso a lui e con suono di voce così minaccioso, che Rosen, assorto in quell'istante in altro pensiero, si arrestò, e emise, suo malgrado, un leggiero grido di spavento. Nel tempo stesso un uomo uscì fuori da una macchia, e spianando verso di lui il suo fucile, gli disse: - Fermatavi, o siete morto. - Miserabile! disse Rosen; e fingendo di prendere la mira, sparò un colpo di pistola verso l'assassino. La palla passò in aria fischiando; l'assassino dal canto suo sparò il suo fucile, ma sparò in fallo. Rosen si percosse la fronte col pugno. Al rimbombo di quello scoppio, cento masnadieri comparvero da tutte le bande; e Rosen si vide ad un tratto circondato. Pieno di speranza e di gioia, deciso a difendersi per eccitarli ad ucciderlo, impugnò le sue pistole, e avventandosi contro coloro che gli erano più d'appresso sparò i tre colpi che gli rimanevano, evitando di ucciderne alcuno. I masnadieri erano rimasti sì colpiti da tanto ardimento, che nessuno di loro aveva tentato di trattenerlo; e solamente quando lo videro slanciarsi, già disarmato, contro il nucleo maggiore della loro banda, si avventarono per colpirlo coi loro coltelli. A quella vista il capo dei masnadieri accennò loro di arrestarsi, venne incontro a Rosen, ordinò che non gli si torcesse un capello; e afferrandolo per le mani, che gli diedero una stretta simile a quella d'una morsa, gli disse: - Che cosa volete fare? arrendetevi; avete coraggio, ma siete un insensato, credete di poterla spuntare con noi? - Io non mi arrenderò mai, disse Rosen, dovessi combattere a morsi; e tentò di slacciarsi una mano per menargli un colpo alla guancia, ma era impossibile, Il suo avversario riprese con tranquillità: - Voi siete decisamente un uomo coraggioso; acquietatevi, avete nulla a temere da noi; non uccidiamo gli uomini della vostra tempra, noi; uccidiamo quelli che guaiscono come le femmine, che ci ricusano la loro borsa, che non vogliono ammettere il diritto che noi abbiamo sulle sostanze dei ricchi, e la missione che ci siamo imposta di migliorare la società, distruggendo la disparità delle fortune. Voi siete un uomo straordinario: è a deplorarsi che vi sciupiate così miseramente nella vita corrotta della città .... ma sareste ancora in tempo a riabilitarvi; io vi offro uno dei posti più onorevoli nella mia banda; spero che non sarete per ricusare. Il capo dei masnadieri aveva rallentato sensibilmente la stretta delle sue mani nel pronunciare queste parole; Rosen annientato da tanta avversità di fortuna, taceva. Dopo un istante di silenzio, l'altro riprese: - La vostra fisionomia, il vostro coraggio ... sareste voi mai un inglese? - Sì, disse Rosen rianimato dalla speranza. - Oh! permettete che io vi abbracci; ho goduto per quattro anni dell'ospitalità del vostro paese, e ho sempre sentito una simpatia irresistibile per la vostra nazione. L'Inghilterra è l'asilo di tutti gli uomini liberi. Non ci vogliate usare scortesia, aggiunse abbandonando le mani che teneva strette nelle sue - qui vi sono uomini che hanno ammirato il vostro coraggio, e che sanno di dovervi rispettare .... Sono lieto di aver fatto il vostro incontro, e vorrei dimostrarvi in qualche modo la gratitudine che ho pel vostro paese .... Il governo pontificio in Italia mi offre un posto di capobanda con un corpo di quattrocento uomini; io sono disposto a cedervi il comando di questa onesta brigata ... accettate? - No, mormorò Rosen, è impossibile ...; dei legami di famiglia .... dei doveri ... duolmi sinceramente di dover respingere un'offerta così onorevole; anzi io devo accommiatarmi; sono atteso per stassera al villaggio. - Bene, bene, disse l'altro, sia come non detto; aggradite ad ogni modo prima di partire un attestato della mia ammirazione per voi e della mia gratitudine pel vostro paese. Così dicendo si tolse dal dito un anello di molto valore, e lo fece passare nel dito di Rosen; quindi, riconsegnandogli le sue pistole, ordinò a due dei suoi soggetti che lo accompagnassero fuori del bosco per difenderlo da qualunque malvivente; e lo abbracciò con effusione, mentre molti dei masnadieri venivano a stringergli la mano e offrirgli rispettosamente i loro servigii. * * * Rosen, giunto a casa, si pose a letto; era malato, aveva la febbre: ciò che gli era successo era stato superiore a tutte le sue previsioni più scoraggianti. Oramai gli era venuto meno il coraggio di tentare altre vie, e doveva risolversi a tornare in Inghilterra. Dieci giorni dopo stava per riprendere il suo viaggio, quando gli giunse all'orecchio la notizia di un disastro accaduto in quel giorno lungo la via che egli doveva percorrere. Una carrozza, il cui cavallo aveva perduto il freno era precipitata, in un abisso profondissimo che costeggiava la strada, e che era chiamato il Picco del diavolo; non una persona si era salvata. Una nuova luce si fece allora nella mente di Rosen; andò a visitare quell'abisso, e conobbe che era impossibile sopravvivere a quella caduta: risolse sull'istante, uscì solo in vettura, spinse il cavallo alla carriera più concitata, e si precipitò giù dal picco. La carrozza, discendendo orizzontalmente, si impigliò nelle liane che crescevano lungo il fianco dell'abisso, e si rovesciò rimanendovi sospesa, quando non rimaneva più che un terzo della rupe a raggiungere il fondo. Rosen ne fu sbalzato fuori, e cadde sul corpo del cavallo che era morto. Raccolto da alcuni terrieri fu trasportato all'albergo, dove aveva lasciato Lamperth. Da principio fu creduto estinto, ma alcune ore dopo la sua caduta rinvenne; e il chirurgo constatò che si era spezzato il femore sinistro, e che era d'uopo amputare la gamba nello spazio di quattro ore, prima che si sviluppasse la cancrena di cui avrebbe dovuto morire. Quando Rosen, che era già poco meno che morto per la meraviglia di ritrovarsi vivo, udì parlare della cancrena, sentì finalmente che tutto era finito, che tutto era compensato; e rivolgendosi al chirurgo gli disse: - Voi potete ritirarvi .... io non mi farò amputare mai .... io sono vile dinnanzi al dolore .... preferisco morire. - Pensateci, rispose l'altro, ripasserò fra due ore, e mi lusingo che sarete di parere diverso. Partito il chirurgo, Lamperth entrò nella stanza dove Rosen era stato lasciato solo; e levandosi gli occhiali dal naso, ciò che non era solito fare che nelle circostanze solenni, e assumendo un nuovo tuono di voce gli disse: Signor Alfredo di Rosen, è tempo che noi definiamo la nostra posizione, è tempo che io cessi dal rappresentare una parte che mi affligge per quanto sia doverosa, e che io desista da una finzione che è oramai divenuta inutile. Io sono un'agente della Società d'assicurazione. Quando ella è venuta ad assicurare la vita di sua moglie, la nostra società non ignorava la di lei posizione finanziaria e le gravi perdite che ella aveva subite al giuoco nella notte precedente. Si sospettò ciò che era vero, che ella volesse, cioè, ingannare la società con una morte volontaria; e io fui incaricato di seguirla e procurarmi le prove che avessero constatato questa determinazione. Questa è la lettera che ella mi ha incaricato di rimettere alla signora baronessa sua moglie, e nella quale ella dichiara di voler morire spontaneamente per darle diritto all'assegnamento vitalizio. Ancorché ella avesse ora a morire, a questa lettera che i doveri della mia qualità m'impongono di consegnare alla società, priverebbero la signora Rosen di qualunque compenso. Ella intende ora che non le rimane una via più onorevole e più doverosa che quella di sottoporsi a questa amputazione e di tentare di vivere per compiere quei doveri di uomo e di marito che ha troppo trascurato finora. In quanto a me io non ho fatto che obbedire alle esigenze della mia carica. Rosen stette lungo tempo senza poter rispendere, tanto il dolore, lo sdegno e la meraviglia lo avevano reso muto e agghiacciato. Quando fu in grado di pronunciare alcune parole, disse: Oh Lamperth, voi mi avete rovinato .... Un colpo simile in questo momento! ... una rivelazione di questo genere nell'istante in cui io stava per raggiungere la mia felicità! ... ah, voi avete un cuore di tigre, Lamperth! ... fingere in questo modo ... trascinarmi a questo punto ... senza una gamba! ... Ma noi ci batteremo, per l'inferno noi ci batteremo; io vi domanderò conto di questa indegna simulazione. - È inutile, non avrete più che una gamba. - Ci batteremo alla pistola, seduti. - Via, via, disse Lamperth riponendosi gli occhiali; sono un padre di famiglia io, ho sette figli, e ci penso alla mia vita e a miei doveri. Voi avete profusa una fortuna, avete tenuta una condotta riprovevole, avete tentato d'ingannare una società di onesti speculatori, l'avete tentato a costo della vita degli altri; vergognatevi, io sento in questo momento tutta la superiorità morale che ho sopra di voi .... Non costringetemi ad abusare del vostro stato. - Avete ragione, esclamò Rosen piangendo come un fanciullo, oh! avete ragione; voi siete ciò che io non sono più, un uomo onesto ... Io vedo troppo tardi il male che ho fatto. - No, no, non è troppo tardi, riprese in tuono affettuoso Lamperth, tornandosi a levare gli occhiali, e stringendo le mani del malato. Ecco qui, io vi restituisco la lettera che vi accusa dinanzi alla società; voi guarirete, me ne ha accertato il chirurgo; e io vi farò ottenere un posto elevatissimo in questa stessa società di cui avete voluto eludere le disposizioni. Potrete essere ancora felice, perché potrete ancora meritarlo. Due mesi dopo, Rosen amputato e guarito, ritornava in Inghilterra, dove Lamperth che ve lo aveva preceduto, manteneva la sua promessa. La natura che gli aveva ricusato fino allora le gioie della paternità gli diede ora dei figli. Lamperth divenne il suo subordinato e ad un tempo il suo amico. Nulla turbò più da quel giorno la sua vita. Alfredo di Rosen è il più esemplare dei padri e dei mariti.

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Non so se Lavater e Gall abbiano esteso anche a ciò i loro studi, ma io credo di non essermi mai ingannato sui rapporti che ho fatti e sulle deduzioni che ho tratte in proposito. Diffidate di quelle persone che hanno i denti bianchi e regolari, ma sopratutto bianchi. Difficilmente una donna munita di denti piccolissimi, ben fatti, candidi di quella candidezza abbagliante che esse ambiscono tanto, è una donna saggia e fedele. Le bellezze più famigerate, le cortigiane più celebri, le donne più note per grandi vizii o per grandi delitti ebbero, tutte indistintamente, un pregio siffatto. I denti neri o ingialliti, mal collocati, indicano quasi sempre mitezza d'animo, sofferenza, virtù, rassegnazione. Una donna dai denti neri sarà ributtante, ma mai cattiva: si può essere sicuri della virtù di una donna munita di tali denti. Ma forse l'aver io perduto un regno per causa d'uomini muniti di denti bianchi mi ha tratto a queste convinzioni e a questo ostinato assolutismo nell'affermarle - desidero di essere smentito. Certo è però che appena io vidi quella metà del mio esercito, conobbi che non sarei rimasto sicuro sul mio trono; e pensai con dolore a quelle parole che mi aveva detto il mio primo ministro, che, cioè, i Denti neri costituivano la migliore metà del mio regno. E stava meditando appunto su questo pensiero, quando mi parve di scorgere che il mio primo ministro e gii altri onorevoli membri componenti la commissione gettassero sguardi inquieti sulla riva e specialmente sulle file dell'esercito dei Denti bianchi, interrogandosi e parlandosi a vicenda con qualche inquietudine. Per altro lato le file di quell'esercito apparivano sì diradate, e il contegno dei soldati sì provocante e sì fiero che io, sospettando di qualche disordine, domandai le ragioni di quel contegno dell'armata e di quel discorrere caloroso de' miei ministri. Sono dolente, disse uno de' miei ufficiali, di dover comunicare a Vostra Maestà una notizia alquanto spiacevole. Sono scoppiati dei torbidi in alcune provincie dello Stato, e una buona metà dell'esercito dei Denti bianchi si è ribellata al governo. L'altra metà che voi vedete, pende esitante tra il favorire la vostra installazione sul trono o congiungersi ai ribelli. I soli Denti neri rimangono fedeli a Vostra Maestà, ma il loro valore non è pari a quello dell'altra metà dell'esercito. Bisognerà affrettare la vostra incoronazione. Questa solennità acquieterà tutti i tumulti, questo fatto compiuto troncherà le esitanze di tutti quelli che non sanno tuttora se darsi alla monarchia, o secondare le idee repubblicane delle provincie sollevate. Ci giunge anche notizia che in alcuni luoghi siano stati abbattuti gli stemmi reali, e deturpato il sacro merlo nero che ne formava l'impresa, ma si è provveduto a che sieno presto ricollocati. Allorché, appena compiuta la vostra incoronazione, Vostra Maestà sarà entrata nella sala del Tribunale solenne, come richiede l'usanza, e avrà pronunciato giudizio sui delitti consumati nella giornata, l'esercito e la popolazione, compresi dalla vostra saggezza, non opporranno altro ostacolo alla vostra ascensione sul trono. - Mio Dio! io dissi, sotto quali tristi auspici incomincia il mio regno! Ancora non ho posto piede sulle rive de' miei dominii che una fiera ribellione ne agita metà le provincie, e la parte più valorosa dell'esercito mi abbandona per appoggiarne la rivolta .... Ma andiamo, io proseguii con voce più ferma andiamo a compiere - se ciò s'ha a far subito - questa formalità dell'incoronazione; e quindi se il prode esercito dei Denti neri presterà il suo braccio alla monarchia, non dispero con esso solo di sottomettere i ribelli, di consolidare il mio trono, e di conservare intatte le sacre. costituzioni del paese. - Andiamo, ripeterono in coro i miei ministri facendo atto di adesione alle mie parole. E uno degli ufficiali aggiunse; l'incoronazione potrà compiersi sul momento: tutto è preparato, il paludamento reale, la corona, il sacro osso nasale .... - Il sacro osso nasale! ... interruppi io trasalendo, come sarebbe a dire? - L'osso di balena che Vostra Maestà introdurrà nelle sue narici reali. - Nelle mie narici! - È la consuetudine del paese, è l'obbligo essenziale del re. Vostro padre .... - Lo so, lo so, io interruppi, non proseguite .... ma quale orrore! esclamai fra me stesso e io non ci aveva pensato ... ma ciò è impossibile ... il mio naso .... il mio naso greco! il più puro naso greco che io abbia mai veduto .... ah! io mi ribellerò a questa abitudine crudele, a questa tortura terribile. Se io tornassi in Europa! Se la ribellione mi privasse del mio regno .... tornarci col naso forato, trapassato da un osso di balena ... no, no, ciò non può essere E rivoltomi a' miei ministri dissi loro, dissimulando quanto poteva il mio spavento: illustrissimi signori, io sono felice di procedere sull'istante alla mia incoronazione, ma è occorsa credo una cattiva intelligenza in proposito ... desidererei ... bramerei, se ciò è possibile, che si indugiasse alcuni giorni per ciò che riguarda la formalità dell'osso nasale: una fiera costipazione, un potente raffreddore che mi sono buscato lungo il viaggio, l'infiammazione delle pareti interne delle narici rendono senza dubbio questa operazione alquanto pericolosa; pregherei l'eccellentissimo ministro che mi ha accompagnato fino a Potikoros a voler far conoscere a' miei sudditi questo desiderio, e disporli all'indugio che è mia intenzione di frapporre al compimento di una formalità, di cui per altro mi tengo altamente onorato. A queste parole i miei ministri si guardarono nel bianco degli occhi esterrefatti, e il ministro della Guerra in ispecial modo diede non dubbii segni della sua meraviglia e della sua disapprovazione. Io ammutoliva per vergogna. Dopo un istante di silenzio il mio primo ministro rispose: noi siamo profondamente convinti della verità delle giustificazioni addotte da Vostra Maestà, ma non sarà molto agevole il convincerne l'armata ed il popolo. La solennità che doveva compiersi oggi, ha radunato qui una buona metà della popolazione di Potikoros, né credo che essa vorrà partirne senza avervi assistito. Cotesto rifiuto può essere interpretato in un senso poco favorevole ed essere causa di disordini non lievi nel regno. In quanto a me, non mi attento a sfidare il furore del popolo, esponendogli il desiderio reale che Vostra Maestà mi ha fatto ora l'onore di manifestare. A questo diniego inatteso io mi sentii venir meno, e trovai appena la forza di aggiungere: se io stesso devo mostrarmi a' miei sudditi .... se posso arringarli io in persona, non dispero di convincerli della verità delle mie asserzioni .... Perché il mio naso .... la mia mucosa .... E in quell'istante essendomi balenata alla mente un'idea stupenda, mi avvicinai al mio primo ministro e gli mormorai all'orecchio: persuadetene la popolazione, disponetela ad attendere, ed io vi affiderò il comando della più florida provincia del regno, vi decorerò del gran Cordone del Merlo nero .... E aggiunsi fra me stesso: se posso uscirne col naso intatto dimetterò sull'istante questi ministri, rifarò il mio gabinetto, allontanerò da me questi sudditi ribelli e corruttibili. Il mio ministro cedette di fatto, come mi era lusingato, a quel tentativo. Rivoltosi al mio seguito disse; veramente .... l'interesse, la quiete dello stato ci impongono di accordare a sua Maestà l'indugio di cui ci richiede. Il momento è grave. Disposto al sacrificio della mia popolarità pel bene del paese, io sono deciso ad arringare il popolo circa i motivi che impediscono temporariamente l'attuazione di questa operazione importante: piaccia al cielo che le mie parole siano ben accolte e credute! Quindi rivoltosi a me che in quel frattempo era salito sopra una specie di carro destinato a recarmi sul luogo dell'incoronazione, aggiunse: andiamo, E ci riponemmo in viaggio. Attraversammo un buon tratto di strada tra le ovazioni vivissime della folla; e giungemmo in breve tempo ad un piccolo rialzo di terra sul quale era innalzato il mio padiglione. Tutta la campagna circostante era gremita di popolo; le dame Potikoresi vestite di un costume assai semplice, spesso di un costume affatto adamitico, stavano raccolte a gruppi sotto i padiglioni naturali che formavano le palme e i banani. Alberi giganteschi di paradiso attorniavano il recinto del luogo destinato alla mia incoronazione, e sovr'essi frotte di fanciulli a cavalcioni qua e là lungo i rami suonavano certi loro strumenti di cocco che producevano un rumore indiavolato. Da quel rialzo di terra si aprivano allo sguardo orizzonti stupendi; da un lato, il mare seminato in ogni punto di isolette quasi impercettibili e tutte verdi per la vegetazione più rigogliosa; dall'altro, campagne sterminate, pianure solcate da fiumi, colli ricoperti di boschi, montagne rivestite di eriche gigantesche; e sovra tutto ciò, il cielo stupendo del tropico, il cielo alto, sereno, sempre infuocato di quella terra prediletta dal sole. Ma io era in preda ad impressioni che moveano da cause ben diverse. Il timore che i miei sudditi volessero esigere sull'istante il compimento di tutte le formalità richieste per la mia incoronazione, il pensiero che, ove pure mi fosse stato accordato tale indugio, io non avrei potuto sottrarmi col tempo all'esigenza di quella moda crudele; e poi la ribellione delle mie provincie, la rivolta dell'esercito, le diserzioni, la poca devozione dei miei ministri, tutto ciò veniva ad amareggiare la mia gioia per modo che fui più volte in procinto di rimpiangere la mia vita modesta, ma libera, di letterato. E per altro lato, ove avessi potuto superare questi ostacoli, quanti piaceri mi aspettavano! La mia stupenda posizione anzitutto; e poi quel lusso, quello sfarzo, quello spensierirsi continuo; e l'harem, l'harem più d'ogni altra cosa; e quel costume sì grazioso, sì semplice, sì stuzzicante delle dame Potikoresi .... tutto ciò era pur preferibile all'oscura aridità della mia gioventù trascorsa. In preda a questi pensieri io era entrato nel ricco padiglione, ove doveva essere incoronato, e donde sarei stato condotto alla reggia. Le sorprese più grate mi attendevano in quel luogo. Oltre i doni ricchissimi in verghe d'oro e d'argento, e in grosse pietre preziose che mi erano state inviate dalle provinci e fedeli del regno, le fanciulle del mio serraglio mi avevano mandato un'ambasciata di dodici delle più belle tra loro, incaricate di ricevermi e prestarmi ogni sorta di servigi nel padiglione. Io non aveva veduto mai bellezze più abbaglianti, né è possibile che possa manifestare l'emozione che provai a quella vista. Il loro abito orientale era tutto ornato di lanugine di cigno e di perle, i loro calzoncini di seta azzurra erano stretti alla caviglia piccola e asciutta da un laccio magnifico a fiocchi d'oro, i loro piedini chiusi in scarpette a ricami erano sì piccini che potevano essere contenuti nella mia mano; tutte le loro forme erano ad un tempo sì piene e sì delicate, e spiravano tanta voluttà che io non aveva mai veduto, o immaginato soltanto, creature più graziose e più seducenti. Ma una ve n'era sovra tutte che colpì in ispecial modo la mia immaginazione. È impossibile il dire quanto ella fosse bella, forse anche impossibile lo immaginarlo: la bianchezza del suo viso era quasi luminosa - abbagliava: le sue fattezze, i suoi profili si perdevano in una specie di vaporosità leggermente rosata; i suoi capelli erano sì sottili, sì neri e sì lucenti che ondeggiavano sotto l'azione della luce come un drappo serico; e mentre io stava contemplando quel prodigio di avvenenza, essa mi si appressò timida e sorridente, e dopo aver pronunciato alcune parole in lingua Potikorese che mi riuscirono per ciò inintelligibili, asciugò il sudore che mi stillava dalla fronte con un suo fazzolettino che non era più voluminoso di una tela di ragno, ed esalava tutti i profumi più inebbrianti. Animato da tanta affabilità, e più ancora dal pensiero che io era re e che quella divina creatura era mia, trovai il coraggio di dirle: Come vi chiamate? - Opala, diss'ella, la più affezionata e la più fedele delle vostre schiave. E pronunciò questa parole nella mia lingua. - Voi non siete nativa del mio regno? le chiesi io meravigliato. - No, disse la fanciulla. La defunta Serenità di vostro padre mi portò seco bambina dall'Oriente, e mi apprese la lingua e i costumi della vostra nazione. Egli mi onorava particolarmente della sua affezione, e mi ha conferito una speciale autorità sulle donne del vostro serraglio. - Mio padre, esclamai tra me stesso, non aveva gusti depravati, non aveva deficienza di senso estetico ... una così bella creatura! Ma egli doveva aver passato i sessant'anni ... è impossibile ... E rivoltomi ad Opala le dissi: Mio padre vi amava? - Molto. - Di che affetto? Il volto di Opala si coprì d'un vivace rossore. Io che capiva a stento in me stesso, non seppi trattenermi dall'abbracciarla, esclamando: io pure vi amerò molto, io vi lascierò intatta l'autorità conferitavi da mio padre. Dio mio! voi siete sì bella!… voi sarete la mia prediletta e la mia regina, - È egli vero? disse Opala. - Quante è vero l'affetto che sente già il mio cuore per voi. - Per me! la vostra schiava .... - Non dite così, interruppi io - e in quell'istante osservai che le altre donne si ritiravano inchinandosi e ci lasciavano soli - dite la vostra amante, la vostra sposa; trovate, se potete, una parola sì dolce che valga ad esprimere ciò che voi sarete per me. Opala si gittò alle mie ginocchia, e abbracciandole disse: Grazie, grazie, io pure vi amerò; io languiva qui così sola, così abbandonata ... perché vostro padre .... era sì vecchio vostro padre ... e sì stizzoso! Voi siete tutt'altra cosa. Perché io non era stata educata qui, in quest'isola ... oh! sì, io vi amerò molto, non vivrò che per voi; e dormirò sul vostro tappeto, vi darò a bere il sorbetto colla mia bocca, vi solleticherò colle penne del mio ventaglio, vi farò riposare la testa sulle ginocchia, vedrete, vedrete! Oh buona creatura! io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te, E pensai: se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla, portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe d'oro ... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri ... questi odiosi ministri ... sottrarmi ad un supplizio spietato .... E mosso da un trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia patria! ... perché devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso caratteristico della mia famiglia ... E poi ... Ma in quell'istante un fracasso terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse: avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo ... Il popolo non ha prestato fede alle parole dell'onorevole ministro che voleva giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio dei fragorosi starnuti reali .... non gli si è creduto: il sentimento nazionale è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell'esercito dei Denti bianchi ha abbandonato senz'altro le sue bandiere per congiungersi alle file dei ribelli. Bisogna affrettare l'entrata nella capitale finché la reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d'impedirlo. I Denti neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi, incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora rassicurate. Io ho potuto, dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d'innanzi ad un'esigenza cui le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non lo sarò mai d'innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo, E affacciandomi all'uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si attentasse a tormela. I miei ministri e i miei ufficiali meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio, balzai in sella colla spigliatezza d'un giocoliere e mi avviai in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia. Ma il coraggio veníami meno lungo la via, L'accoglienza poco lusinghiera della popolazione, il freddo contegno de' miei ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia sacra epidermide reale fosse stata l'epidermide del più volgare e del più ignobile de' miei sudditi, E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee. immaginava come le oche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un'oca? Potremmo forse dire che l'oca ha la pelle di oca? Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell'imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati. La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell'Oriente vi erano state accumulate a larga mano. Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell'architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva né veduto, né immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d'India, gli intagli erano sì stupendi, e le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e l'eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa europea. Il mio appartamento speciale era uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire un'idea, uno di quegli edifici che l'architettura nostra costretta nei limiti inesorabili dell'arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e l'ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell'azzurro del soffitto di cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era rappresentato un intero sistema planetario, co' suoi fenomeni, colle sue orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di stanchezza. Mi sovvengono pure alla memoria alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni d'oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, né poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell'azzurro del soffitto. Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l'uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sé, volendo ristavano: e le dame di corte - le più attraenti beltà di Potikoros - avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero. Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell'istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al giudizio popolare in tutta l'imponenza, e in tutto lo splendore della mia carica. Ma il mio pudore non mi permetteva di cedere all'invito di quelle dame rispettabili; io mi sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere: - Egregie signore ... compitissime signore ... le mie abitudini di toeletta; ... il rispetto che io nutro per le loro persone ... non mi permettono di mostrarmi qui in tutta la semplicità del mio costume naturale ... e oltre ciò, i miei arnesi di biancheria, le mie mutande ... in un viaggio sì lungo ... senza la risorsa del bucato ... esse capiranno .... E stava per aggiungere peggio, ma mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da mia parte, permetto a' miei lettori di immaginarlo. Quando mi trovai vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell'abito tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell'ora fissata pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di Potikoros) che vi mancava una buona mezz'ora, chiesi di essere condotto al mio serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con sé alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze. Dio! dove troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano accompagnato. Non farò una descrizione di quel luogo: sarebbe impossibile. L'eleganza, la mollezza, il lusso del mio apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un'onda immensa di luce: era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo; qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell'età, vellicando le pupille col rovescio della mano. Qua e là negli interstizii d'un lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d'una farfalla. Opala (io l'aveva cercata collo sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d'abbigliamento e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione. La sua testa graziosa si riposava in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d'un tessuto serico quasi trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d'oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s'ella dormisse o sonnecchiasse per vezzo fantasticando. Al rumore de' miei passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola), Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad inginocchiarsi a miei piedi. A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note. - Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego .... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze ... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia ... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società ... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di .... E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già ... so ben io quel che intendo di fare ... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi ... le prego a rioccupare i loro divani ... io mi farò un dovere di venire più tardi .... col tempo ... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione. Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle, risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare. Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera. - Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato. - Io posso tanto sul vostro cuore? - disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro ... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell'abito .... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile .... Già, credo che avesse settant'anni. - Pressapoco. Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete ... io tremava vedendovi nel padiglione ... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre ... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell'osso! Ma ... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi? - Sì. - E credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele? - Non so, diss'io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti .... - Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso .... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi? Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili - come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che vorranno accordarmeli. - Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora ... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perché ... queste dame ... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me .... - Non è possibile, io dissi con asseveranza. - Oh, sì, diss'ella ve ne sono delle più graziose ... e voi le amereste. - Mai. - Voi le amereste. - E via, diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose. - Una scena di gelosia, a quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo. - Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l'ammirazione e l'insolenza. - Non è vero. - Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare .... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? - No. - È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare. - Ecco. - Vedete: avanza tutta l'unghia del dito, tanto così .... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura! - Via, via, voi mi adulate .... - No, non è vero. - Sì. - No, ve lo giuro. - Giurate soltanto di amarmi. - Lo giurerò dopo. Datemi un bacio. - Ecco. Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola. Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto. - Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre. Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto .... ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa. E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo. Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera. Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare. Oltre a ciò aveva in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. - Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate. Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione. Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla. I Denti neri si alzarono e mi fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti. Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea. Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo che fosse poco. Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec. Un'appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d'innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri. Un'altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane. Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest'isola si reggeva a repubblica. La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato. Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo? Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi. Ma bando alle digressioni. Era tempo d'incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto d'accusa. Io era tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall'esito di quel giudizio. L'atto di accusa era concepito press'a poco in queste parole: «Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza circostanze attenuanti». Benché la lettura di quell'atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad esporre le sue difese. - L'incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros. Questa difesa cui non mancava l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato. - Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos - che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta. - A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro. E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole. - Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa. Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa. - Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione. - Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato. - Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma .... riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio .... - Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri. - Tenariasbikeloz .... si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli. Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero. - Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati. Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato. Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri - sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a ristabilire un po' d'ordine nella adunanza. La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto. Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole. Era il direttore del giornale Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d'ogni verità. L'onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite. - Ove è il gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista. - Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze? - Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D'altronde .... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione .... un semplice ammonimento - Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole. Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione. Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità. Io mi trovava posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica. Fu la scintilla che cagionò l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell'interno della reggia. Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti .... Fu però un'incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga. Mi precipitai verso il mio serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi: La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita .... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te .... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi .... vieni, vieni .... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre .... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi .... Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto: - Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all'amore, forse .... - Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se ... Ma in quel momento si spalancò l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e ... oh mio Dio! ... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto. Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te ... io ti ho amato .... ricordami.» Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli ... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

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