Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti, leggende e ricordi della vita italiana (1856-1857)

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D'Azeglio, Massimo 4 occorrenze

Ella sa che ogni cristiano crede che siamo tutti figliuoli dell'istesso padre, ricomprati tutti all'istesso prezzo, e che perciò le anime nostre, sien esse rinchiuse nella spoglia d'un principe, come in quella d'un mendico, tutte, senza eccezione di climi, di lingua, di colore, abbiano agli occhi del Creatore il valore e l'importanza medesima. Tutti credevamo cosí, e questa fede ci pareva trovarla scolpita in ogni pagina del Vangelo. Che vuol che gli dica? Pare che ora la cosa diventi per lo meno molto dubbia, a dar retta al suddetto apostolo... e, alla fine, anche lui, subito che è apostolo, ha diritto di parlare, ed avrà i suoi motivi. Ecco dunque invece come starebbe la cosa. Resterebbe sempre vero che la fede nostra è fondata sopra un riscatto, del quale siamo tutti partecipi; ma parrebbe necessario, onde questa fede potesse vivere, mantenersi e prosperare, che una frazione dell'umanità... poca cosa, badi! tre milioni d'uomini circa... si spogliassero, o piuttosto venissero spogliati dai loro fratelli di quest'eredità comune. Parrebbe - sempre secondo l'apostolo - che a tutti i cristiani si debba far giustizia ed usar carità indistintamente, e siccome ad usar questa carità e questa giustizia omo per omo è affare lungo ed incerto, perciò si sono inventate leggi uguali per tutti, appunto per prenderceli sotto tutti indistintamente: onde si può dire che questo complesso di leggi essendo ciò che con un solo vocabolo si chiama un governo, ne venga per conseguenza che l'espressione piú estesa, anzi piú completa ed assoluta della giustizia e della carità evangelica sia su questa terra un buon governo. L'apostolo dice dunque che a questo buon governo tutti i cristiani hanno diritto, e, secondo lui, nel buon governo articolo principale v'è il poter dire quel che si pensa ed anche scriverlo, se si vuole, senza che nessuno vi si metta tra' piedi: ed anzi, siccome pare che nel suo paese gli abbiano voluto misurar la chiacchiera ed accordarne un tanto per uno, una porzione competente che ci si possa campare - perché dice che là a non aver questo sfogo si muore - ma non di piú, e non permettere che la gente se ne prenda quanta vuole, bisogna sentirlo, l'apostolo, che razza di coroncina sfila a chi ha stabilito una tale misura! Ma questo lasciamolo da parte. Dunque, ad un'applicazione completa delle massime evangeliche, detta altrimenti un buon governo, tutti hanno diritto, salvo questi tali tre milioni. E, siccome il Vangelo non fa questa riserva, qui sta il bello del libro, che dovrebb'essere intitolato: Correzioni, ecc. come ho detto dianzi. Oh! perché mi vuol ella stabilire questi iloti nella cristianità? Badi, non son io che voglio; io non voglio nulla; è l'apostolo francese: e la ragione che ne dà a certuni pare fondata su uno di quei tali sillogismi che hanno bisogno del medico. Dicono, per esempio, che ammettendo pure la necessità di fondare questa fede sulla collottola di tre milioni di tribolati, la giustizia vorrebbe almeno che i 150 o 200 milioni d'uomini della medesima opinione che sono pel mondo si dividessero per tre, si dessero la muta, efacessero un po' per uno a portar in collo questa fede e le sue necessità - all'incirca come nei reggimenti si dividono fra i soldati i tours de corvée. Dicono altresí che per mantenere nel rimanente del globo questa fede col suddetto mezzo, che cosa succede? Succede che se prospera fra gli altri, muore etica presso que' tali tre milioni; perché, invece di far una traduzione libera del famoso Moriamur pro rege nostro, cc. de' Magiari, e mettervi fide nvece di rege, andano a far benedire la fede e chi le vuol bene, e pur troppo tutt'in un fascio il suo primo autore, e questo è il frutto piú spiccio di quella bella combinazione. Insomma ne dicono molte. Ma, ripeto, quando un apostolo parla deve avere i suoi motivi. Egli dice che il capo della fede ha bisogno d'esser libero di insegnare al mondo e guidarlo colla voce e coll'esempio. Cioé, deve potergli dire senza sindacati: ?Signori, questa è la teoria e questa è la pratica, prova che la teoria è buona!? e s'appoggia al seguente sillogismo, quello appunto nel quale parecchi vedrebbero la crittogama: - Una teoria buona, dopo una lunga e libera applicazione, deve produrre effetti buoni. Questi tre milioni (piú o meno) d'uomini, dopo una prova d'un migliaio d'anni, durante i quali l'esperienza s'è fatta colla maggior somma di autorità che si possa immaginare, quella cioé che obbliga egualmente l'anima ed il corpo; dopo questi dieci secoli, dico, i detti tre milioni sono riusciti i piú infelici, i piú corrotti, i piú rovinati di tutta l'umanità civile; dunque bisogna mantenerli come sono, onde il loro padrone possa esser libero di dire al mondo: - La mia teoria è la migliore di tutte; - e mostrarli come un esempio da invogliare chi non ne avesse assaggiato. Ora, questo sillogismo sarà sano, sarà ammalato; io non lo so e non lo voglio sapere. Se è sano, prosit; e è ammalato, vada pel medico; ma non lo prendo in cura io, perdio! Fosse aver da fare cogli apostoli d'una volta - Dio li benedica! - con loro si poteva discorrere. Chi li mandava, aveva loro date le istruzioni, come si fa sempre, ed in queste istruzioni - ancora ci devono essere in archivio - era detto che vedessero di persuadere la gente colle buone, e si preparassero ad esserne mal ricevuti e soffrirne di tutte le razze; a non dovessero opporre altre difese fuorché la pazienza e la dolcezza, perché trattandosi di persuadere e non di usar violenza, ci voleva mansuetudine e non livore; ma ora pare che abbiano domandate nuove istruzioni, che le abbiano ricevute e che ci sia - è vero che nessuno le ha vedute le nuove - tutt'un'altra canzone; che ci sia detto chiaro e tondo: - Tutte quelle dolcezze erano buone finché stavate fuor dell'uscio e bisognava farvi aprire: ma ora che v'hanno aperto e siete entrati, e, si può dire, siete diventati di casa, mutate registro; e il primo che vi guarda di traverso, mettetelo fuor dell'uscio lui; e non basta: dategli dietro e pigliatelo a sassi, e aizzategli addosso bestie e cristiani, senza lasciargli un'ora di bene, neppure quando sia nella bara, ecc., ecc. Un po' po' di bagattella! e vorrebbero che io me la pigliassi coll'apostolo! Io m'ingegnerò di campare, e campare in pace se piace a Dio, e di questi gatti a pelare non me ne piglio. Dunque? È mezz'ora che si discorre, ed un nuovo argomento da trattare ancora non è scappato fuori! Vuol che gliela dica? Nelle malattie del mondo, come in quelle degli uomini, ci son certe epoche dove a voler scrivere ricette, e dar ampolle e rimedi, si fa peggio. La meglio dunque è star zitto, o parlare di scioccherie senza conclusione. Via via, avevo cominciato dicendo che il mio solito argomento doveva venire oramai a noia, e invece, d'una parola in un'altra, che cosa si viene a scoprire? Sissignore; si viene a scoprire che l'uomo della situazione è il sor Checco Tozzi.

Ho talvolta dato retta a tali concorsi cosí senza far le viste; e devo però confessare che in tale improvviso non sembra che considerino come cosa importante dir parole che abbiano un senso; ma che basti a quei figli d'Apollo pronunziar parole che producano un ritmo. Il sor Fumasoni però era in una categoria poetica molto superiore; e quantunque per me la poesia estemporanea sia una gran seccatura, tuttavia ho molte volte ammirato la disinvoltura del notaio marinese a far versi, senza mai fermarsi né titubare un momento. L'incontravo sovente alle feste de' paesi, ed era sempre uno degli invitati al pranzo d'etichetta, ove non mancava mai il gran personaggio, o un monsignore, o un principe o duca di Roma che fossero in paese, ovvero vicini a villeggiare, poi le autorità, i grandi del luogo, poi gli amici, i parassiti, gli scrocconi, ecc. Alle frutta il monsignore, che era stato indettato, diceva: - Sor Fumasoni, su, tocca a voi; sento che siete cosí bravo, diteci qualche cosa. - Ed il Fumasoni, dopo qualche cerimonia, si alzava in piedi, ed asciugandosi il sudore - non posso nasconderlo - col tovagliolo, saliva sul caval Pegaso, e via di mezzo galoppo per una ventina di minuti senza impuntar mai; e non era affare di poco. C'era il monsignore da adulare assai, poi il duca o gran signore da adulare a un grado minore, poi i potenti del paese anche un po' meno, poi tutti gli altri di sfumatura in sfumatura, colle quartine galanti per le signore tramezzo, fino giú agli scrocconi, sui quali si lavorava poi a impertinenze addirittura per far ridere la brigata. Tutta questa gradazione era mantenuta mirabilmente, ed in ultimo si conchiudeva con un grido generale: - Evviva il poeta! È notabile come in quei paesi, ove i forestieri non hanno potuto esercitare grande influenza, si sia conservata tal e quale quella vita italiana del '500 che conosciamo dagli scrittori. Salvo l'importanza o l'ingegno degli individui, mi pareva, quand'ero a codesti pranzi, d'assistere a quelli delle antiche corti de' principi italiani: e probabilmente, tolto che invece del Fumasoni e del monsignore moderno, allora gli attori erano un Medici, un Montefeltro, un d'Este, con un Annibal Caro, un Poliziano, un Castiglione, ecc., quanto al resto la scena doveva all'incirca essere la medesima. M'occorrerà spesso indicare tali analogie. Non si credesse però che il sor Fumasoni notaio, poeta, letterato, e, quel ch'è peggio, sempre col vestito nero, fosse un uomo dappoco, un pulcin bagnato, come i suoi simili sono spesso altrove. Tutt'altro. Era figlio di Quirino, e tanto basta. Giusto a proposito del perenne vestito nero, mi viene in mente un fatto, dal quale si poté vedere se fosse un valentuomo, sí o no. Un giorno standomi intorno mentre dipingevo in casa - e mi seccava alquanto col suo non chetarsi mai - avevo deposta un momento la tavolozza sur una sedia. Eccoti che, riscaldato nel discorso, non ci fa avvertenza, ci si mette su a sedere, ed il vestito nero si assimila tutte le tinte, che vi restano stampate senza perdersene una. Chi non ha visto il sor Fumasoni in quel frangente, non ha idea della disperazione. Un vestito vuol dire una quindicina di scudi, e di rado gli aveva veduti radunati il povero poeta. Figuratevi! io m'alzo; e lui, io, le donne, tutti di casa intorno allo sventurato vestito. Fu un bucato generale che durò un'ora, e dopo il quale bisognò stenderlo nell'aia al sole, e con un'altra ora di sollione s'ebbe la consolazione, e l'ebbe piú di noi il Fumasoni, di riveder finalmente il vestito a un dipresso colla sua primiera fisonomia. Solamente, pensavo io, con questo trattamento d'acqua e sole, all'infilare ti voglio! Difatti, quando ci si provò, il contenuto era piú grande del contenente, e ci fu che fare e che dire per arrivare ad introdurre il sor Fumasoni nella sua antica custodia. Alla fine pure l'impresa venne a buon termine, ed io ci guadagnai che, quando lavoravo, non mi seccava piú, e girava largo; che temeva la tavolozza oramai come il fuoco di Sant'Antonio. Mentre mi davo da fare cogli altri per questa lavanda, m'ero accorto che il vestito, dietro nella regione delle reni, aveva uno sgarro minacciato a ago d'oro (si nomina cosí la rimendatura fatta con molta perizia in ghetto a Roma); ma non avevo mostrato d'avvedermene per non mortificare il povero notaio. Seppi da altri l'istoria di quello sgarro, ed eccola. Mentre una sera il sor Fumasoni tornava a casa verso un'ora di notte, un anonimo gli appoggia di dietro una buona archibusata. La palla entra per le reni, gli esce sotto le costole davanti, e se ne va pe' fatti suoi. Un altro avrebbe cacciato urli, e messo a rumore il vicinato. Ma il ferito che voleva molto bene alla Nunziata sua moglie, e n'era teneramente corrisposto, pensò che a sentire le sue grida - la casa era poco lontana - si sarebbe troppo sbigottita. Il meglio che potette si trascinò sino all'uscio, ed appena dentro: - Nunziatina, presto, ammannisci il letto che ho di gran dolori di corpo, e manda pel dottore subito. - Venuto il dottore, vide che nuovo genere di colica gli si desse a curare; poi si poté con garbo farne a poco a poco consapevole anche la moglie, che non fu colta da questa nuova in modo da averne troppo pregiudizio, poiché le venne al tempo stesso dal medico il conforto di buona speranza. Difatti la ferita non era mortale, ed ambedue, quella del vestito come quella della pelle, si poterono rimarginare facilmente. Ecco come si viveva a Marino nel 1824- 25. Il sor Fumasoni ha poi per me un altro distintivo. Fu il primo che mi commettesse un lavoro. Mi trovò un giorno, e mi disse che in una cappelletta posta appié della scesa che dal paese conduce a Castello, la compagnia della quale era anziano aveva fatto collocare un crocifisso di legno grande al vero. Stava in una nicchia assai grande, e si trattava di dipingerla onde la figura avesse un po' di campo. Mi pregò di assumere quest'impresa, e mi domandò quanto gli sarebbe costata. Io ne parlai con due amici pittori, e fu stabilito di condurre quest'opera pel solo corrispettivo di un pranzo. Al sor Fumasoni parve d'averne buonissimo mercato, ed a noi, consci della nostra abilità, parve altrettanto. Una mattina per tempo ci mettemmo all'opera tutti e tre in una volta, senza fissar prima il concetto generale del quadro, ma rimanendo ognuno libero di dipingere ciò che la musa gl'ispirasse. Io, che mi trovavo sulla destra, dipinsi un mare con certe galere; quello di mezzo, alla mia sinistra, fece un gruppo di pini con delle pecore che pascolavano; ed il terzo, una linea di palazzi, con in fondo la cupola di San Pietro. Questi tre concetti si legavano insieme pel solo motivo che, quando la tinta è fresca, si lega sempre colla sua vicina; ma in altro modo, no davvero! Eppure il sor Fumasoni ammirò l'opera, ne ammirò la franchezza, ne ammirò la velocità; che, cominciato il lavoro alle sei, era finito e perfetto a mezzogiorno. Il curioso di questo fatto è che per aiuti e fattorini, per portarci l'acqua, i pentolini, lavarci i pennelli s'ebbero tre banditi, ritirati in quella cappella dopo qualche omicidio, ai quali non parve vero d'interrompere la monotonia della loro vita con quella divertente e per loro nuovissima operazione. Non bisogna che chi legge la parola banditi s'immagini brutti ceffi, stralunati e feroci; i banditi dei Masnadieri, erbigrazia. Niente affatto. Certo anche i brutti ceffi si trovano colà, ma sono in bande numerose ed in montagna; e, come avremo occasione di dire, vestono in modo ancor piú vago e pittoresco di quelli che ci presentano i nostri impresari. I banditi invece della nostra cappella erano giovanotti di prima barba, che per umana fragilità avevano lasciato correre il coltello piú del bisogno in un momento di collera; ma del resto bonissimi ragazzi, coi quali ce la passammo d'ottimo accordo in quella mezza giornata. Suonato mezzogiorno, il Fumasoni ci condusse sotto certe ombre fresche in fondo alla valle, ov'era apparecchiato pulitamente sull'erba, e si desinò allegri e contenti, senz'ombra di rimorso di mangiare il nostro pane a tradimento, dopo l'atroce imbratto che avevam dipinto al nostro troppo indulgente mecenate. Ora, dalla monografia del Fumasoni passerò a quella del sor Iacobelli, altro avventore dell'ora del pranzo; nel suo genere, come si vedrà, esce dall'ordinario. Il sor Iacobelli non era di Marino, ma di Rocca di Papa. Capitava però spesso, e non mancava mai di venirmi a trovare, essendoci conosciuti quando abitavo la Rocca. Costui, quantunque campando sul suo ed uomo comodo piuttosto, era però piú rozzodel Fumasoni e del sor Checco. Aveva una cinquantina d'anni, statura media, faccia lunga e sempre gioviale, con una bocca che arrivava all'orecchia, e due file di denti bianchi e lunghi continuamente in vista, in virtú d'un riso perenne come quello degli dei d'Omero. Del resto, quanto a forme, pareva dirozzato coll'ascia, anzi col piccone. Ad onta d'un'apparenza cosí grossa, il sor Iacobelli era ornato tuttavia d'una qualità morale sommamente romantica. Si avrebbe un bel cercare fra tutti i viventi antichi e moderni ed altresí fra gli esseri immaginari de' romanzi e de' poemi, fra gli eroi quell'Amadigi, el Gran Cyrus, delle Epreuves du sentiment i M. Arnaud, ecc., senza trovare il compagno del sor Iacobelli nell'essere sentimentale. Soltanto il suo sentimentalismo, non essendosi potuto formare né ripulire alla scuola de' predetti autori, che non conosceva perché non sapeva leggere, aveva un modo di manifestarsi di que' tali, che sfido la piú poetica immaginazione ad inventarlo. Certe cose proprio non le può dare che il vero. Ne giudicherà il lettore. Egli aveva amato suo padre con una cosí sviscerata pietà filiale, che al paragone quella del pio Enea poteva dirsi indifferenza. Siccome però non avea potuto mostrarsi mai con eguale evidenza durante la vita del vecchio, per non essere mai stato introdotto nessun cavallo di legno in Rocca di Papa, l'occasione favorevole di mostrare la sua pietà non si presentò al Iacobelli se non dopo che fu morto; ed ecco in quali circostanze. Egli stava tutto doloroso e piangente vegliando il cadavere, che già chiuso nella cassa doveva portarsi in chiesa la mattina vegnente. Come narrò di poi esso stesso, non sapeva darsi pace né adattarsi all'idea di non dover mai piú rivedere in viso quel padre che tanto amava, né conservar nulla della sua persona. Alla fine si risolse a sconficcar la cassa, e riveduto quell'aspetto non gli fu piú possibile decidersi a separarsene. Fa venir freddo a pensare qual modo tenne per giungere al suo fine. L'indovinerà il lettore sapendo che la cassa fu riconfitta come prima ed a suo tempo sepolta, e che ogni notte in appresso il Iacobelli passava un'ora in una sua grotta, ove dentro un cofano poteva contemplare il capo del padre, s'immagini in quale stato! E questo fatto non fu il solo. Ebbe il suo compagno, pel quale l'Inquisizione s'incaricò poi di ricondurre gli affetti del Iacobelli ad una meno calda espressione. Egli non amò soltanto suo padre; amò altrettanto e piú sua moglie, e volle il destino che anch'essa morisse. Ecco di nuovo il vedovo nella medesima passione, e risoluto questa volta a non perdere neppure un capello della sua donna. L'avventura si faceva ora piú ardua, e dovette corrompere il sagrestano, coll'aiuto del quale soltanto gli poteva venir fatto di ricuperare il corpo. Il sagrestano, sedotto da una grossa mancia, acconsentí, e nella notte che venne dopo il funerale, il Iacobelli, aiutato dal suo complice, riportò in casa la defunta e la ripose dentro una madia da far il pane, coperta e confettata con un monte d'aromi e spezierie, delle quali era corso a fare ampia provvista a Roma. Passò parecchi anni con questa singolare compagnia, né mai persona in paese ebbe sospetto del fatto. Ma siccome tutto finisce a questo mondo, e le cose piú belle anch'esse dopo un pezzo vengono a noia, un bel giorno il sor Iacobelli trovò che in fatto compagnia era possibile trovar di meglio: e questo meglio lo vide in una giovinetta bionda e bellina che ebbi l'onore di conoscere personalmente. Quantunque egli fosse d'età molto maggiore, siccome era però benestante, non trovò troppe difficoltà ad ottenerla; ed il matrimonio si fece. La madia col suo prezioso deposito fu collocata in luogo in disparte, e sopr'essa (istorico) le opere che lavoravano alle vigne facevano i loro pasti. Ma un giorno, come andasse la cosa non lo ricordo, la sposa, mentr'era assente il marito, giunse a scoprire il gran segreto. Di comare in comare la cosa giunse all'orecchio del Sant'Uffizio, ed il sor Iacobelli fu condotto nelle sue carceri sotto l'accusa di sepoltura violata, ed ebbe da tribolare un buon poco prima di rivedere i suoi penati. Avevo ragione di dire che il suo modo d'amare usciva dalle idee conosciute? Il pranzo del sor Checco ci ha servito, se non altro, a far conoscere questi due originali. Ora ci alzeremo da tavola, e si anderà innanzi nell'orario della sera. La siesta, che poco si usa in queste nostre iperboree contrade, e una delle piú reali necessità de' paesi meridionali. Le sue ore sono quelle del vero e piú saporito riposo: onde dal tocco alle cinque, o, come si dice colà, dalle 17 ore alle 21, silenzio universale per casa, e tutti fra le lenzuola. Quando poi l'ombre cominciavano ad allungarsi, s'usciva ad un'altra lavorata, però meno faticosa di quella mattutina, e con meno impicci. Per lo piú si disegnava dal vero. Farò ora cosí di volo un'osservazione, parlando specialmente a chi attende a simili studi e se ne interessa: questo persistente studiar dal vero per anni ed anni insegna a trovare ed esprimere la forma esatta di tutti gli oggetti, cominciando dalla nuvoletta che corre fino al filo d'erba che cresce nel fesso delle rupi. Siccome lo scopo dell'arte è ritrarre la natura in tutte le sue parti, sembra logico di studiare codeste parti onde con esse riprodurre l'insieme. Non nego tuttavia che questo metodo non presenti un inconveniente che è importante evitare: quello di ricercar troppo la forma, perdendo cosí quel po' d'indefinito che parte a parte si vede nel vero, e crea un bell'insieme. Perciò diremo che, dopo un lungo lavorare, chi può vantarsi di saper fare un eccellente studio, non potrà egualmente esser certo di far un quadro eccellente. Se il primo dev'essere rigorosamente vero, il secondo invece dev'essere verosimile; e nell'arte, cosa strana, talvolta l'uno esclude l'altro. Ora dunque, per esprimere l'idea semplice che deriva da queste riflessioni, prima s'ha a studiare profondamente la natura e rendersene padrone; poi cercare il modo di adoperarle: prima imparare a far uno studio, poi imparare a far un quadro. So bene che una scuola, nata non so se in Inghilterra o in Francia, mostra curar poco la forma e non tendere che all'effetto generale. Con questo metodo, molti belli ingegni hanno prodotto belle opere; lo so. Ma siccome a studiare in coscienza c'è da sudare assai, e che coll'altro metodo si diventa pittore all'ombra, non vorrei che fosse stato inventato da chi, verbigrazia, è piú del parere del sor Virginio e del sor Mario, che non di quello del sor Checco, e, se è permesso il dirlo, del loro umile e devoto servitore. Ma il Cronista on è fatto per gli artisti soli, onde lasciamo stare queste discussioni di mestiere, che poco divertono i non interessati. Venuta la sera, nella gran città di Marino accadeva poi una trasformazione completa. Al silenzio profondo dell'ore, durante le quali il sole domina da re, anzi da tiranno o da despota, succede un bisbiglio, un rumore, un cicalío universale. Le finestre, le porte si spalancano, le vie s'affollano, gli usci si guerniscono di donne col lavoro sedute al fresco, di giovanotti colla camiciola sul braccio ed il garofano o la rosa sull'orecchio che le vagheggiano. Le osterie si popolano, e vi concorrono sia i benestanti che escono freschi di casa, come i lavoranti che tornano stanchi colla vanga e lo schioppo in collo dalla vigna o dal campo. La via è ingombra di pecore o caprette che ritornano dal pascolo guidate dalle bambine: e saltellando e belando col loro nasino color di rosa all'aria, ritrovano frettolose le solite stallette; di donne che profittano dell'ora piú temperata per portare panni alle fontane a rischiarare (sic), d'altre colle conche di rame in capo che vanno alla fonte di piazza ad empierle per la cena; qua si carica un carretto co' suoi otto barili, che nella notte farà il viaggio di Roma, piú giú il sor Pietruccio Mariani, vetturino, che già conosciamo, è appena arrivato colla carrettella dalla città; la moglie, vero ritratto della donna forte, scioglie le tirelle, stacca i cavalli, li conduce alla stalla, li strofina, li governa, mentre il marito, circondato da una folla che o vuol sapere le novità o avere scarico di commissioni affidate, dà ad uno una parola, all'altro una risposta, a questo una lettera, a quello un fagottello. Intanto i viaggiatori smontano, l'impiegato che ha la famiglia a villeggiare, la balia che ha trovato un buon baliatico, il prete che era andato in Dateria per una dispensa, ognuno si stira, stende le gambe, ritrova i suoi fagotti, s'avvia pe' fatti suoi; ed anche quest'importante incidente della vita di paesetto, l'arrivo della carrozza pubblica, ha ravvivata l'ora cosí simpatica dell'imbrunire. In ogni parte è bella quest'ora, ma nei climi meridionali è un vero incanto: è un risorgere alla vita dell'intera natura, un rinnovarsi di tutte le sue bellezze, de' suoi colori, delle sue fragranze: dalle alture sulle quali siede Marino, l'occhio scorre sull'antico Lazio, sino ai monti de' Sabini, di Viterbo ed al mar Tirreno; e quando l'ombre della sera gettano i loro misteri su quella vasta regione, quando soltanto rimane all'orizzonte un'ultima striscia arancia infuocata, che sfumandosi pe' campi dell'aria, si perde nel bruno azzurro e trasparente ove già scintillano le prime stelle; quando si uniscono l'umido soffio della notte, il fresco della rugiada, il muggito degli armenti, il suono dell'avemmaria debole e lontano, e persino quel fioco eppure cosí gentil canto del grillo, e tuttociò dopo una giornata ardente di fatica e sudori, creda, caro lettore, che è un insieme di tali felicità per chi ha notizia del bello, e un po' di vita nel cuore, da lasciar mille miglia addietro tutti i balli, i teatri, le feste, tutti i gusti artefatti, in una parola, di questo mondo... compreso quello di fare il ministro. Ma all'istesso modo che nel piú bel cielo può sorgere un temporale, il piú bell'idillio - a Marino specialmente - è esposto a finire in elegia. Mentre stiamo spensierati facendo ciarle sull'uscio di qualche casa d'amici, fra le donne, i giovani che ridono, i bambini che ballano al suon del tamburello, mentre si gode in pace di tutte le felicità che ho accennate, s'ode lontano levarsi il rumore... Pin! Pan! partono due spari: si vede gente correre, s'odono urli, imprecazioni, minaccie d'uomini, grida angosciose di donne: una che ci era vicina, e che sin allora era stata cheta e serena dando il latte al suo bimbo, s'alza sbigottita, figge lo sguardo ove nell'ombra pare attaccata la mischia, crede vedervi avvolto il marito: - Madonna Santissima! Pietro mio! - consegna, o piuttosto getta il figlio ad una vicina e corre via a cacciarsi tra mezzo ad aiutare il marito. Che è? che non è? Passa uno correndo e grida: - Peppe Rosso ha menato a Natale Raparelli... ci son tutti... è l'inferno!... e aver lasciato a casa il coltello... Au!...

A veder que' legni tutti sconocchiati, che nell'andare fanno un chiasso che assorda: que' cavallini che paion caprette, colle tirelle e le catene davanti di fune, sembra che non si abbiano a far venti passi senza andar a pezzi, eppure si va sempre - è vero come in burrasca di mare - e m'è accaduto rarissimo di restar per istrada. Ero montato in legno in piazza, ed avevo trovato un compagno di viaggio, il cartolaio che teneva bottega a Monte Citorio in faccia al portone di del Cinque dov'è ora il negozio di Gallarini, e che dovendo anch'esso andare a Roma per straordinario, profittava dell'occasione pagando la sua metà. Scendemmo la collina, ed usciti dalle vigne e dalla vegetazione s'entrò in quelle 14 miglia di vero deserto che ci separavano da Roma. Regione dove non si vede né un albero né un'abitazione, e non si trova se non a mezza strada la casa della posta appoggiata ad un'antica torre detta Tor di Mezza Via. Del resto è tutta pianura leggermente ondulata, sulla quale scorre libero lo sguardo per molte miglia, sino ai lontani monti; qua e là sorgono soltanto rovine di antiche tombe, ovvero lunghissimi acquedotti di quei tanti che portavano fiumi d'acqua a dissetare gli antichi padroni del mondo. A proposito d'acqua e di lavabo, mi do licenza di fare una breve digressione. A Roma, fabbricata seicento anni prima dell'êra volgare, sedici acquedotti portavano acque. Ma, dirà, erano appunto i padroni del mondo. Ha ragione, e sto zitto. Dunque lasciamo stare Roma e si prenda l'incomodo d'uscirne; giri per lo Stato e poi per l'Italia, e veda città per città, e non parlo di quelle a pié de' monti, ma di quelle su' monti come Perugia, Siena, Orvieto, Macerata, Osimo, Cortona, Taormina in Sicilia, San Gemignano e via discorrendo: in tutte, quand'è in piazza, e si vorrà risciacquare le mani troverà un'abbondante fontana; e non basta le città, vada nei paesetti, vada a Rocca di Papa, per Bacco! che pare un nido d'un nibbio sulla punta d'una montagna e troverà acqua a iosa; e guardi allo stile architettonico delle fonti e ne troverà anche dell'VIII o X secolo, e piú o meno tutte antiche. Ora venga a Torino, città fabbricata dai Taurisci, specie di Sarmati, Dio sa in qual'epoca; città posta a circa dieci miglia dai piú vasti serbatoi d'acqua che abbia saputo far la natura, le Alpi; e ad un livello di 150 metri sotto le loro radici. Cerchi l'acqua, e se la trova meglio per lei; si leverà la sete. Lo so che a cercarla bene la troverà, ma se è forestiere non sarà pel primo quarto d'ora, e articolo qualità, se non l'assaggia potrà credere che è rosolio. È un gran dire, e aggiungerò, una gran mortificazione per chi ha nelle vene il puro sangue Gianduia, a pensare che in tante centinaia d'anni e di generazioni, a tutto s'è provveduto, si son fatte case, chiese, palazzi, torri, fortezze; s'è fatta perfino la cinta daziaria, ma, a aver di che levarsi la sete con l'acqua che non sia mescolata a certe infiltrazioni che... Dio ne scampi ogni galantuomo! a potersi lavar mani e viso senza star a misurar bicchiere piú, bicchiere meno, nessuno, vivaddio, pare ci abbia pensato. E le azioni d'acqua potabile? Colle azioni nessuno mai s'è lavato il viso, e se gli osti non avessero trovato di meglio volevo vedere come allungavano il vino. Dunque quando le azioni corrono in limpidi cristalli, come dicono i poeti, la discorreremo. Intanto si lasci dire quel che disse il mio amico conte Siccardi alla Camera, a proposito del foro ecclesiastico: - Signori, fate presto quanto volete a votare questa legge, sarete sempre gli ultimi nel mondo civile. - Cosí, se Dio vorrà che venga quest'acqua benedetta, l'avremo, ma... gli ultimi. E a quanti usi non serve in una città l'abbondanza e la buona qualità delle acque? Serve a mantenere e migliorare la salute pubblica, e quindi a poco a poco contribuisce a migliorare la razza. Curiosa! Si pensa a migliorare le razze bovine, cavalline, canine, asinine, pecorine, suine, e persino quelle delle galline, e alla povera razza umana, a renderla piú sana, piú vegeta, piú forte, non ci si pensa si può dir mai! L'acqua serve alla pulitezza delle persone, come delle cose; e Dio sa se a Torino ce ne sarebbe bisogno! Quanto a chi ha da spendere e sta bene, se son sudici è colpa loro. Ma la povera gente che abita per le soffitte sopra una dozzina di capi di scala, bisogna sapere che cosa le costa una secchia d'acqua. Si figuri un pover uomo che torna a casa la sera, piú stanco che riposato di certo; c'è da far bollire il paiuolo, bere, rigovernare quelle poche stoviglie, e il padre essendo stanco si manda per lo piú per l'acqua qualche bambino o bambina piú grandicella. Ora che sia riuscita a far salire quella benedetta secchia fino in soffitta le lascio pensare che lavoro sia. E chi ha cuore di rimandarla giú per provvedere al lavarsi di quattro o cinque persone? Si resta da lavare ed è naturale. E se questa povera gente avesse bagni a portata della sua borsa, come sono altrove, qual refrigerio, qual benessere nei gran caldi, qual benefizio in genere per la pulizia e per la sanità? Non parlo della bellezza di veder sulle piazzedelle eleganti e ricche fontane! Sarebbe bene, secondo me, un po' meno paroloni sul popolo, e pensare un po' piú a dargli le cose di prima necessità. Ma già questo benedetto popolo è un po' come le anime del Purgatorio, che servono punto primo a cavare le elemosine; quanto a cavarle di guai prima o poi, a questo c'è sempre tempo a pensarci. Oh! ora mi par di sentirmi meglio, che mi son data una buona sfogata! da un pezzo avevo nel gozzo questa faccenda dell'acqua, e se non me ne liberavo, finiva in una malattia. Ciò detto, eccomi di nuovo al mio viaggio in mezzo alla campagna di Roma, ai ruderi ed agli acquedotti, cagione prima del mio bel movimento oratorio contro la nostra idrofoba trascuranza. Noterò qui di passaggio un fenomeno che nelle ore piú calde appare in quelle regioni. Tutte le cose poste a fior di terra o che appaiono cosí per la lontananza si mostrano agitare da un continuo tremolio; è una specie di mirage he la prima volta pare molto strano. S'erano fatte circa due miglia, ed il cartolaio ed io s'andava sonnecchiando, quando in un momento che avevo un po' schiuse le palpebre vedo rizzarsi da un fosso nel quale stava appiattato un giovanotto alto e robusto che viene alla testa dei cavalli. Questi si fermano, e quasi facevo cattivo giudizio. Ma Peppetto non si scompone, si tira da un lato, e mentre il nuovo viaggiatore gli sale accanto in serpa riconosco Peppe Rosso. - Che nuove da queste parti? - dico io. - Ben trovata, signoría! Eh vado insino a Roma. - Ah! ho capito... l'affare di ier sera... Lui mi fa un mezzo sogghigno, e poi parlando col vetturino: - Be', e Andrea? - Ancora è vivo, ma... - È vivo!!!... Il modo col quale fu pronunziato quest'èvivo! quivaleva a un'altra frase che, se non fu espressa colla lingua, bene lo fu collo sguardo: ?Eppure gli avevo menato bene!?. Ma nessuno disse altro, e neppur io; che in quei paesi certe confidenze è meglio non riceverle, e perciò è prudenza non provocarle. E avanti di nuovo trottando sulla via Appia, con accompagnamento de' sonagli attaccati alle briglie che, dicono, divertono i cavalli, ma certo stordiscono gli uomini assai. Poco stante Peppe si volta indietro e mi chiama: - Eh, sor Massimo! - Apro gli occhi. - Che vuoi! - Dite: se troviamo la squadra di Galante, vedendomi con voi non mi toccheranno? Galante era un celebre bargello di campagna incaricato di prendere, quando poteva, i briganti, gli omicidi e simili, e Peppe Rosso, colle sue idee, al solito, del Cinque o Seicento, sperava che intorno alla mia persona vi fusse per alcune braccia un ambiente d'immunità, come due secoli sono intorno ai Don Rodrigo e agli Innominati. Io lo speravo meno di lui, quantunque non fosse del tutto impossibile che trovando Galante e imbrogliandogli la testa con qualche nome di ministro o di legazione estera, non riuscissi a farmi considerare del medesimo valore di una porta di chiesa, o d'una cappella. Siccome però questa riputazione d'intangibilità comunicabile ai miei protetti m'era molto utile nel mio genere di vita d'allora, non credetti bene di raffreddar la fiducia di Peppe Rosso, e gli risposi: - Eh diavolo! vorrei vedere!... Peppe si sentí tutto consolato, e tirammo avanti. Ma la sua consolazione non doveva durar molto, ele mie facoltà protettrici stavano per esser poste a ben altre prove che non quelle di Galante. E qui l'affare pur troppo s'imbruttisce davvero. Da una mezz'ora si viaggiava tranquilli: il cartolaio russava, io dormicchiava, quando tutt'ad un tratto si ferma il legno, mi riscuoto, e vedo - ancora mi par di vederle! - le due gambe di Peppe scavalcare la serpa e buttarsi nell'interno del legno, seguite tosto dalla sua persona che mi si getta addosso, mi si ficca dietro e m'abbraccia come se mi volesse affogare, mentre il vetturino si dà pugni in testa di disperazione, dicendo affannato: - E ora come si rimediar... - Che diavolo t'ha preso, - dico io lottando e divincolandomi per uscir da quelle formidabili branche. Ma Peppe sempre piú mi si ficcava dietro e mi teneva stretto che non c'era da pensare a liberarsi. In quella maniera che mi contorcevo e soffiavo, Peppetto m'indica sulla diritta via nella maggese un uomo che di carriera serrata veniva su noi e mi dice desolato: - È Natale!!!... Allora capii che davvero non si scherzava. Io che ci vedo poco, non raffiguravo l'uomo; ma il cavallo, un morello sfacciato (colla stella ed il muso bianco) che conoscevo, lo raffiguravo benissimo. - Perbrio, davvero, come si fa, dico anch'io? Non ci hai arme Peppe? Io ho qua uno stocco... - Eh! el cortello l'ho, ma ci ha lo stioppo!... - Diavolo, - dico a Peppetto, - lo vorrà ammazzare addirittura!... - Ma che dicete! È certo come la morte! Conclusione di tutto questo: sola - ma debole - speranza di salute ero proprio io in persona, e non come ostacolo morale, ma come impedimento materiale, a uso né piú né meno d'uno scudo o d'un parapetto. L'affare diventava molto, ma molto serio: e perché se ne persuada meglio, deve sapere che non molti giorni prima, trovandosi un'osteria piena di gente, s'era presentato sull'uscio un tale collo schioppo ingrillato espianato verso la compagnia, non per far male a caso, ma per dare un'archibusata ad un individuo che era fra quelli. Questo, come Peppe dietro a me, si messe dietro d'un altro, il quale colle braccia aperte gli volle far difesa seguitando a perorare per lui. L'uomo dello schioppo gli disse: - Scansati! - Bada a te, scansati! - Per l'ultima volta ti dico di scansarti! - L'altro non si scansò. Brron! na buona schioppettata, e tutti edue per terra! Se nel frangente in cui mi trovavo avessi avuto voglia di cantare, e fossi un marchese, il pezzodi circostanza era il duetto della Linda di Chamounix: Marchese pensaci... Questi non scherzano!... Venni combinando il mio piano di campagna, e per non farmi piú bravo di quel che sono, dirò candidamente qual era. Cercar di scongiurare con tutta la mia retorica il terribile Natale, tener duro ai due primi: ?scansati?, ma star bene attento al terzo... Ciò detto, lascio libero ogni teologo di decidere che non ero dotato a grado eroico della carità cristiana, ma confesso che in quel momento, Peppe Rosso di piú, o Peppe Rosso di meno, mi pareva un incidente d'importanza molto secondaria. Il cavallo sfacciato intanto s'è avvicinato, s'ode il Quadrupedanti putrem sonitu quatit ungula campum... i lancia oltre il fosso... è sulla strada avanti di noi... e ci vien diritto addosso... L'amplesso di Peppe Rosso diventa come quello del Boa constrictor... A un tratto, colpo di scena! cambiamento a vista! tutti ci cacciamo a ridere e giubbilo generale! - Non era lui! Era un disgraziato di un vaccaro, con un cavallo che somigliava a quello di Natale come due mezze mele, e che ci passò accanto a uso fulmine, e non meritò certo tutte le saette e gli accidenti che mezzo in riso e mezzo sul serio gli si mandarono dietro. Ora, dirà lei: - Questo Peppe Rosso non era poi dunque quel gran bravo che ci veniva dicendo. - A questo rispondo: 1o Che il gran Condé disse talvolta, parlando de' suoi casi di guerra: Nous avons fui; se non basta, aggiungerò per 2o che ad una anche somma probabilità d'essere ammazzati gli uomini da bene fanno buon viso; ma ad una assoluta certezza, com'era questa, parecchi storcono il muso. L'umanità è fragile e ci vuol indulgenza. E con questo fatto, dal quale per me la morale fu d'imparare che gli amplessi piú stretti non sono quelli dell'amicizia, e neppur dell'amore, chiuderemo, finalmente, la nostra descrizione su Marino e delle sue usanze, prendendo definitivamente congedo dal sor Checco Tozzi e dalla sua interessante famiglia. Il sor Checco Tozzi lo rividi d'allora in poi una volta sola, e fu un giorno molto tempo appresso che l'incontrai per la campagna, avviati egli ed io soli ed a cavallo, per nostre faccende. Ci fermammo un pezzetto a discorrere, ci facemmo mille accoglienze, e poi ci lasciammo, e non ci siamo veduti piú. Il sor Virginio, il sor Mario, la sora Maria, zi' Anna, dopo averle lasciate in Marino con vero dispiacere, le due ultime in ispecie, e con molto affettuosa dipartenza, non le ho piú vedute neppur esse. Non cosí la sora Nina. Nel 1845 passando con una comitiva per Marino, pregai m'aspettassero un momento che volevo far motto a certi amici. Malgrado i vent'anni trascorsi, trovai la casa Tozzi tal e quale: bussai, una bambina incognita mi venne ad aprire; neppur la sala terrena non era mutata. Interrogai: - C'è el sor Checco? - Non saccio chi è el sor Checco. - C'è la sora Maria? - Chi è non saccio. - Il sor Virginio, zi' Anna, el sor Mario... E sempre il solito Non saccio. - Ma chi c'è in casa? - La sora Nina. - Dov'è? - Guardate, là incontro. Ero sull'uscio. Mi volto seguendo l'indicazione, e vedo una donna che uscita da una porta di cantina, chiudeva il chiavistello, e coll'altra mano reggeva una boccia di vino. Riconosco - un po' stagionata - la sora Nina; me le accosto: - Sora Nina! Si volge e mi par di vedere e indovinare sul suo nel sembiante un principio di sorriso. - Non mi conoscete? - El sor Massimo! - E il sor Checco, la sora Maria, e tutti di casa? - Son morti. - Ah! Il suo viso, il suo fare, la sua calda accoglienza, il modo col quale pronunciò quel son morti, i fecero restar minchione da non trovare una parola da aggiungere. Feci come si deve fare in simili casi ma come purtroppo non tutti fanno - non ne aggiunsi nessuna, le dissi un ultimo, finale, definitivo e sempiterno addio, e ritornai verso la mia comitiva, ripetendo quel che avevo già detto vent'anni prima piú d'una volta: - Beata la sora Nina! Non c'è pericolo che abbia a finire per patema d'animo!

Se col diletto riescono a destare insieme negli uomini alti e virtuosi pensieri, tanto meglio; ma il semplice piacere può essere ad esse scopo bastante, e ad ogni modo è il solo mezzo che abbiano onde farsi accette; è la sola ragione della loro esistenza. Perciò vengono dette arti belle, ovvero arti di piacere. Ma questo loro titolo è cagione, nella società, d'un grave e curioso sbaglio. In generale, con un'argomentazione a posteriori olto erronea, si giudica che le arti, piacevoli a chi le gusta, lo siano in ogni occasione egualmente a chi le esercita, e quel che è piú serio ancora, a chi le studia. A dire artista, pare sempre che s'intenda un matto allegro, senza pensieri, che vive in un perpetuo carnevale! Coloro, in ispecie, che attendono a professioni intese non al diletto, ma all'utile della società; quelli che trattano affari seri, i politici, i filosofi, gli economisti, gli avvocati, i medici, gli scienziati, ecc. - per quanto talvolta neppur loro non diano nel segno, e al modo stesso che i seguaci delle arti di piacere fanno spesso sbadigliare ed annoiano, cosí gli uomini seri riescano talvolta buffi e facciano ridere - ove s'incontrino in un artista, mostrano per lo piú un'invidia, un mezzo dispetto, potrei dire una stizza, paragonando in petto a loro vita accigliata col supposto vivere beato dell'artista interlocutore; e se ne vendicano facendogli capire con grazia che essi sudano portando in ispalla quel globo, sul quale esso sta a suo bell'agio seduto facendosi vento. Quante volte m'accade - e che cappelli ci piglio! - d'uscir di casa dopo essermi rotto lo stomaco piegato in due al cavalletto per cinque o sei ore, avviandomi verso il pranzo senza appetito, e se il lavoro m'è venuto male colla bocca amara; e d'incontrare sotto i portici di Po un amico, omo serio, magistrato, regio impiegato o che so io, che anch'esso s'ingegna di metter insieme un po' di quella fama che tanta gente a questo mondo trova senza cercarla, e quante volte mi tocca sciropparmi una discussione di questo genere! Prima, al solito, si parla del piú e del meno; si verifica se fa caldo o freddo, si ripete la nuova che tutti sanno, la lepidezza che ha già un servizio da poter chiedere il benservito; si dice male dei ministri, e poi: L'omo serio. E cosí lui a sempre delle belle cose: - (lui, otto i portici di Po, vuol dir lei Io. Cioé... fo quel che posso... lavoro. L'omo serio. Eh! sí sí... già già... sappiamo. Lui empre si diverte. E intanto alza la destra all'altezza del mento, riunisce le tre dita che reggono la penna o il pennello, e descrive in aria una serie di piccoli circoli, come se un quadro consistesse in una catena di tanti o. Io, che appunto per aver fatti troppi di questi supposti o i sento doler le costole, a veder quel maledetto verso, dentro di me divento una vipera, che lo mangerei! e dico masticando amaro: - Mi diverto!... secondo!... non sempre... Certo, lavoro nell'arte perché l'arte mi piace e m'aiuta a campare, ma non bisogna dir per questo... L'omo serio. Eh! via via... lui on quattro pennellate ha la zecca in casa... beato lui! Io. Ma... caro mio! Non bisogna mica credere che a far l'artista sia tutto divertimento. Si fa per passione sicuro... ma, veda, non c'è mestiere che s'impari e s'eserciti senza fatica... anche i mestieri che paion piú allegri. Prenda il ballo. Crede lei che una ballerina diventi di cartello a furia di far salti e capriole solamente d'allegria: Sappia che per anni ed anni le tocca a lavorare per otto o dieci ore al giorno; far 2000 battements, ltrettanti jetés che so io per mattina, e se nulla nulla la salute non l'assiste, ed ha qualche difetto organico, rimetterci la pelle, se bisogna. Prenda la musica. È vero che ora, quando un tenore può cacciare un si i petto che si senta da strada, ha già il 90 per 100; ma pure, per quanto si possa generalmente essere cantante di cartello senza cantare, anche a questo modo lo star in iscena davanti al pubblico non lo può fare chi non ha faticato e sudato assai. Lo stesso dica della pittura. Un quadro appena mediocre, se sapesse quanti precedenti di fatiche, noie e studi suppone!... L'omo serio. Bene... sí... capisco... certamente bisogna imparare, ma... L'uomo serio che pratica sotto i portici all'ora che si chiudono gli uffizi, sul totale è l'homo unius negotii, ol quale non si scherza: ha un'idea per volta, l'ama come figlia unica, e batte sodo. - Sicuro, bisogna imparare; ma lui a in campagna a tirar giú frase tecnica in italo-piemontese) quelle belle vedute... ?fra l'erbe e i fior, fra ninfe e fra sirene...?. Io. Cioé, ?al vento, al sol, fra mosche e fra tafani?. (Mostro che anch'io so far versi). L'omo serio. Bene, ma anche le ninfe tavolta si trovano... Eh via! crede che non si sappia!... E qui, dopo qualche malizietta analoga piú o meno pellegrina, ripete la sua solita sentenza: - Via, via... si diverta, e beato lui! Beato il diavolo che ti porti! dico io mentalmente; e dopo una affettuosa quanto poco sincera stretta di mano, me ne vo a pranzo. Ora, prima di tutto, prego gli uomini gravi che mi incontreranno in via di Po a non dirmi mai piú che mi diverto, e soprattutto a non farmi sul viso, colle tre dita chiuse, quell'incitoso verso degli o. n secondo luogo, ecco spiegate al lettore le ragioni che m'indussero a trattare delle gioie e de' dolori della vita artistica; e se mi riesce descriverla proprio qual è, spero si persuaderà, che se l'arte diverte e solleva chi ne gode, stanca, consuma, e talvolta ammazza chi la professa. Dissi, cominciando, che per i miei viaggi tenevo un cavallo. Ma, fissatomi a Marino, presto m'avvidi che quest'ammirabile compagno dell'uomo alla caccia ed alla guerra non ama punto le belle arti, e vi fa pessima compagnia allo studio del vero. Un giorno, ne' gran calori, volli tenerlo meco mentre lavoravo in una valletta cinta di rupi scoscese. Gli tolsi la sella, e colla lunga corda che le cavalcature di campagna hanno sempre attorcigliata e pendente dal cavezzone lo legai nel piú fitto d'un macchione, ove non penetrava raggio di sole. Ma bene vi penetrarono i tafani. Dopo un par d'ore di lavoro, torno per vedere se il cavallo stava a dovere. Addio cavallo! non ce n'è piú notizia. Guardo di qua, guardo di là, di su, di giú, senza scoprire dove fosse finito. Dopo un pezzo, lo vedo arrampicato su per que' greppi e fermo, col muso contro lo scoglio verticale! M'arrampico anch'io fino a lui, e lo trovo ficcato fra pruni, flagellato dai tafani, e su un pendío cosí ripido, che non m'azzardavo a fargli mutare un piede: se Dioneguardi lo metteva in fallo, era cosa da finire a ruzzoloni in fondo alla valle. Non sapevo proprio che via trovare di ricondurlo giú coll'ossa intere. Lo lasciai dove stava, che il povero animale capiva il pericolo, e non c'era da temere che si movesse. Corsi per gente, e colla zappa bisognò fargli un po' di ripiano, e poi accomodargli alla meglio un'orma di sentiero pel quale gli fosse possibile scendere, e cosí dopo un'ora di lavoro, e con mille stenti e precauzioni, mi riuscí pure di rimetterlo alla stalla vivo e senza male nessuno. Ma lo studio che avevo incominciato perí nella burrasca; che mentre attendevo al cavallo il vento m'avea buttato a terra il cavalletto, mal legato, per mia colpa (lo confesso) ed empito il dipinto di paglia, stecchi, fuscelli e polvere e terra, e bisognò l'indomani riprincipiarlo. Eccone una intanto delle tribolazioni artistiche! Visto dunque che il cavallo non poteva servire, mi volsi al ciuco, e feci patto con un tal Amidei, contadino, che mi détte il suo a nolo a 22 paoli il mese, e pensare io a mantenerlo. Quest'Amidei merita gli consacri un periodo. Era un ometto basso, di nessuna apparenza, di poche parole, che stava pel fatto suo e non dava fastidio a nessuno. Per un pezzo lo credetti un'animella da lasciarsi cucinare come si volesse da ognuno. Senta, un giorno, che lavoro mi fa quest'acqua cheta. Si teneva la fiera di settembre a Grottaferrata; v'ero andato con altri del paese, e girando per l'olmata che è accanto al castello, ove tutti i ciociari dei monti di Regno portano que' loro sublimi presciutti, avevo veduto l'Amidei che se n'andava tranquillo per la folla. Addio! - Addio! - e l'avevo perso di vista. Torno a Marino la sera, e vien la nuova che sul tardi a Grottaferrata erano tre ammazzati. M'informo, e sento che sotto un'infrascata dove si teneva bettolino era nata una rissa fra tre Marinesi e tre Frascatani. Usciti all'aperto per darsi, i tre Marinesi avevano avuta la peggio. Due di loro, dopo toccate varie ferite, s'erano ritirati alla meglio; uno era caduto in terra e si stava schermendo come poteva, quando al suo avversario, nel volergli menare un colpo al petto, gli venne percossa la clavicola, ed il coltello gli fuggí di mano. L'altro che gli stava sotto fu svelto ad agguantarlo lui: si rizzò come un serpe, e con quell'arma ammazzò un dopo l'altro i tre Frascatani; proprio come Orazio ammazzò i tre Curiazi. E sa chi fu l'Orazio? fu il sor Amidei, padrone del ciuco! E seppi dipoi che mettendosi in quella rissa si trovava non avere neppur arma indosso: onde, se non si da la combinazione della clavicola, addio il sor Amidei. La morale di questa storia è che in genere non torna fidarsi sulle apparenze, e misurar gli uomini al braccio - tanto piú in campagna di Roma. Provvisto dunque d'un bravo ciuco, armato della sua ingenita pazienza ed'una buona bardella, i miei affari presero miglior avviamento; ed ecco qual era il mio orario. M'alzavo col sole, e per prima cosa preparavo la tavolozza e la cassetta ove stanno tutti gl'infiniti impicci che possono occorrere pel lavoro: che, a scordarne uno solo, c'è il caso di non potere far piú nulla. Poi scendevo alla stalla, mettevo la bardella al ciuco e lo caricavo delle seguenti robe: un paio di bisaccie con entro la colazione, una bottiglia d'acqua e vino, libri per leggere, album er disegnare, un palosso per sfrascare, tagliare erbaccie e pulire il terreno ove s'ha a lavorare (palosso che mio padre portava alle caccie di corte e che ora era sceso a quest'umile esercizio), cordicella, spago, chiodi, caviglie, ec.; il necessario insomma per piantar bivacco. A destra della bardella, pendente in un fascio, cavalletto, ombrello, sediola, spuntone, e la cassetta nella quale riponevo la tela alla quale lavoravo, onde salvarla dalle carezze delle frasche e di chi passava. Messo in ordine il ciuco a questo modo, gli saltavo su a sedere, colle gambe a sinistra a penzoloni per pareggiare la soma; un discreto schioppo a due tiri in mano, la camiciola su una spalla come gli eleganti di Marino, e via in campagna. Giunto sul luogo del lavoro, che talvolta era distante assai bene, cominciavo l'apparecchio, non breve, tanto piú se era giornata nella quale convenisse premunirsi contro il vento. Ecco come si fa. Prima fissar l'ombrello e raccomandarlo con lunghi spaghi a qualche ramoscello pieghevole onde consenta, e non si strappi ad un ventata. Poi piantare il cavalletto e suvvi la tela, legati ambedue ad una corda che tiene sospeso un sasso fra i tre piedi, onde non faccian anch'essi un volo (una volta, sotto l'Etna, il vento mi portò via fin la cassetta, che non è una paglia!). Poi metter la colazione in salvo dai formiconi, il bere in fresco se si può, e finalmente sistemare il ciuco che non se la colga mentre lavorate. Il ciuco è utile, laborioso, tranquillo, paziente, non c'è che dire: ma siccome son vissuto parecchi anni nella sua intimità e l'ho potuto studiare, mi son dovuto persuadere aver esso un brutto difetto che amareggia di molto il piacere della sua compagnia! È dissimulatore che non ce n'è idea! Quando un ciuco ve la vuol fare, ve la fa; prima, o poi. Bisogna vedere come sta tutto modesto, proprio quando medita una ribellione! E come sa prendere bene il momento che abbiate le mani impicciate, o pensiate ad altro! Per questo, la sa piú lunga di quelli che dianzi hanno fatto lo sbarco a Lavenza. Il mio me la ficcò una volta. Non so per qual motivo avevo sul braccio la cassetta aperta, e tenevo coll'altra il capo della corda della cavezza per condurlo ove intendevo legarlo. Lui, il birbo, mi vede impicciato, rizzal'orecchie, intuona un inno all'amica lontana, comincia a volermi fuggire verso la stalla; io tiro, lui tira; si mette di corsa, e io di corsa; per non rovesciar la cassetta non mi guardo a' piedi, inciampo, va all'aria cassetta, pennelli, colori, boccetta, e quanto c'era, ed io, lungo per terra, che mi strascinò qualche sei braccia; e poi non ci fu rimedio, fuggí. Ecco un'altra tribolazione! Invece di mettersi in santa pace a lavorare uno studio che v'interessa, e del quale (non potendosi piú fare come Giosué che fermava il sole) il bello passa presto e l'effetto non dura, bisogna correre dietro al ciuco per rompicolli, e penare Dio sa quanto a riaverlo. E non si discorre di quel che può accadere intanto alla povera roba vostra lasciata in abbandono. Alla fine, e quando a Dio piacque, pure lo ripresi e ricondussi sul teatro del suo misfatto. Clementi numi! che legnate gli diedi! Non ne parliamo, che è meglio. Lo so che tutti questi casi son scioccherie che non dovrei presentare agli associati del Cronista;ma se ho da descrivere la vita artistica, non posso raccontare avventure ?palpitanti?: bisogna che narri una filza di seccature insipide, che al piú serviranno a far sorridere un collega che le abbia provate. V'è però sempre un ripiego per chi le avesse a noia: mi lasci col mio ciuco, e passi a un altro collaboratore. Creda a me, troverà presto sotto il velo del semi-anonimo, all'ombra di quelle firme a parafrasi che s'usano ora, come sarebbe un Emigrato del '21 - un Toscano di Val di Nievole, ecc. Troverà, dico, di che rifarsi delle mie seccature. Sappia, signor lettore, che in Toscana, ove mi trovo al presente, il Cronista di moda, e m'è riuscito ottenere promesse di collaborazione da certi ometti che non hanno mancato mai di parola. Onde... per ora non dico altro, e torno al mio studio. Quando finalmente, come Dio vuole, tutto è ammannito e all'ordine, lei dirà: ora non c'è piú guai, ed il signor artista si mette a lavorare in santa pace al fresco, sotto il suo ombrello, quanto gli piace. Ci ha proprio indovinato! Ora viene il meglio, invece. Cominciamo, articolo fresco; se sentisse che fresco di cantina tira da quelle parti dalle 7 in poi! Non c'è ombrello che tenga. Fra il caldo e la posizione sempre un po' forzata si va a rigagnoli, per quanto si sia leggero di panni; e se nulla nulla s'è poi a ridosso di qualche scogliera, par proprio di star in forno. Mi ricordo un giorno, appunto in questa situazione, dovetti ridurre la mia toilette somiglianza di quella che certi scultori vorrebbero attribuire ai grandi uomini - od anche non grandi - d'oggidí, quando hanno a far loro la statua: che invece di vestirli co' panni che usavano portare in pubblico, li rappresentano come se uscisser dal letto: in clamide all'antica; che in buon volgare, tutti sanno che vestiario sia. In questa toilette, he del resto è quella del Marc'Aurelio di bronzo sulla piazza di Campidoglio, lavoravo, assistito da un contadinello che mediante una frasca mi cacciava le mosche, come si fa ai cavalli che si ferrano. E poi, le abitudini degli stessi contadini mostrano che clima sia codesto. Da noi, come ognuno sa, chi lavora a giornata comincia all'alba, e, meno l'ora de' pasti, seguita fino a notte. Là, invece, verso mezzanotte l'opre, che è il loro nome proprio, s'avviano al lavoro, tanto piú per le fatiche grosse del vangare, ecc., e seguitano fino alle 8 o alle 9 della mattina. Dopo quest'ora non trovate piú un villano in campagna. Dormono. Verso sera riprendono poi la vanga per due o tre ore. Trovavano strano ch'io lavorassi sino a mezzogiorno, ed uno mi disse una volta: - Come fai a regge lo sole? - Ajo lo capo piú duro dello teo - risposi; e molto mi ringraziò della spiegazione. A proposito del caldo, mi vien in mente d'un certo canonico grasso grasso, buonissima persona, che cosí un poco disegnicchiava anch'esso, e volle un giorno vedermi lavorare. L'avvisai che badasse, non avendo fatto l'abito, che il sole non gli avesse da far male: ma vinse l'amor dell'arte, e volle venire. Sul primo andò benone; poi a mano a mano che il sole si faceva alto principiò a soffiare, si mise il fazzoletto sul nicchio, e poi in maniche di camicia; e ciò nondimeno s'era fatto rosso come un papavero, col viso lustro che pareva uscisse di fontana; alla fine gli convenne andarsene, e ci ebbe a star a letto con un'infiammazione e cacciarsi sangue. Ma non si tratta di caldo soltanto: si tratta d'insetti che vi pungono, di mosche che vi fanno il solletico sul naso mentre avreste bisogno d'aver piú ferma la mano, di zecche che vi si cacciano sotto panni. (La zecca è un insetto tondo, del genere acarus, argo come una grossa lente, piatto, e con molte zampe corte, che s'attacca all'uomo come alle bestie; e s'appiglia cosí sodo alla pelle, che neppur coll'ugne non si riesce a levarlo. Il male è che lavora senza che uno se n'accorga, e quando comincia a prudere è già alloggiato. V'è però un rimedio facilissimo, tanto piú ai pittori a olio. Bisogna metter orizzontale il punto ove sta la zecca, e col dito lasciarle cadere addosso una goccia d'olio, che vi rimanga un quarto d'ora: l'insetto si stacca da sé). Si tratta insomma d'avere dirette contro la vostra persona tutta l'infinita varietà d'armi offensive, tutti i pungoli, i dardi, le seghe, le tanaglie, le trombe assorbenti, ecc., onde la natura ha provvedute le piú deboli delle sue creature: e la fatica di difendersi da questa levata in massa, aggiunta all'atmosfera bollente, infastidisce e stanca alla lunga piú assai del lavoro. In quelle ore di solitudine e di silenzio, quanto utilmente però lavora la mente! L'intelletto e la fantasia corrono l'intera creazione, cercano la causa di tutto, trovano o credono trovare leggi e sistemi; si ragiona e spesso si sragiona, ma, comunque, il pensiero s'esercita e si avvezza a quella lotta pertinace contro l'incognito, a quella interna tenzone fra il bene e il male, fra il vero e il falso, dalla quale soltanto possono emergere idee chiare, mature, ed opinioni alla prova dell'incostanza degli uomini e della fortuna. Se in vita mia ho potuto non troppo uscire di quella via per la quale mi son messo fin dai primi anni, e che ho giudicata fosse per me la via del dovere, ne debbo saper grado a que' lunghi soggiorni che per tanti anni feci nelle selve e nelle campagne, libero, indipendente, solo, a fronte de' mille dubbi, delle mille difficoltà d'un avvenire che allora poteva esser lungo per me, pieno del grave pensiero che ogni uomo deve la sua vita alla terra ove nacque, e del caldo desiderio di trovar modo onde lasciarla, morendo, in migliore stato che non era quando nasceste. Con un cuore retto che cerchi unicamente la verità, e collo star molto solo, e molto pensare, un giovane, credo io, si rafferma il carattere, ed impara ad agire sapendone il perché; a patto che al tempo stesso dia parte del suo tempo a studiar dal vero uomini e cose, adoperando l'orecchio piú che la lingua; che la solitudine pretta genera caparbietà, come dice Platone... Ma non so se sia bene mettere insieme Platone ed il sor Checco Tozzi con quel che l'accompagna; onde lascio il moralizzare e torno alle tribolazioni artistiche che non son finite. Ne debbo ricordare una che parrebbe non far troppo onore alla dolcezza di carattere de' ragazzi di quel paese. Ma bisogna avvertire che gli asili infantili sono sconosciuti a Marino, e che gli esempi posti sott'occhio a' figliuoli da maneschi genitori debbono produrre le loro logiche conseguenze. M'è accaduto piú d'una volta, stando a lavorare in qualche fondo sotto l'ombrello bianco, e che perciò spicca in mezzo al verde, di essere chiamato dall'alto dai ragazzi col grido: - Ah pittore! - e senza che avessi tempo a rispondere, sentir fischiar per l'aria parecchie sassate che mi cadevano piú o meno vicine. Capisco che quel bell'ombrello bianco era una gran tentazione per questi bersaglieri in erba, e che i sassi si dirigevano all'ombrello e non a me: ma siccome mi ci trovavo sotto, un giorno la cosa finí con una querela in forma, che presentai al giudice di Marino. M'occorse al tempo stesso dover lasciare il paese per un paio di giorni, e partii. Al mio ritorno trovai che giustizia era fatta, ed i miei nemici stavano dietro le ferrate. Non ero appena scavalcato, che ecco comparire le madri piangenti, a confessare l'enormità del delitto, domandar perdono, ed implorare quel tal consenso che termina gli affari criminali. Come si può credere, mostrai la clemenza di Tito, e i ragazzi rividero i loro penati immediatamente. Ciò mi serví a non aver piú sassate; a Marino, intendiamoci. Ne toccai però altrove e una volta fra le altre, disegnando la grotta della fontana Aretusa, da certi birichini siciliani. Non si credesse mai perciò che i forestieri in Sicilia siano accolti a sassate; in nessun paese europeo si trova invece, credo io, tanta ospitalità in ogni ceto. Per parte mia la trovai amorevole e cortese in modo da non poterlo mai dimenticare. Cosí voglia la Provvidenza spezzare una volta il flagello col quale percuote da secoli que' popoli valorosi; eporli in grado d'usare gl'infiniti beni che - si direbbe a scherno - li circondano invano, e rendono piú amara la loro presente miseria.

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