Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

"Abbiano pazienza, signori, abbiano pazienza". E i sacrestani e gli scaccini s'affaticavano a girar da per tutto, ri- petendo le stesse parole. Il pubblico aveva pigliato la cosa in bur- letta. Ridevano, scherzavano e, a poco a poco, alla spicciolata uscivano dalla chiesa, formando capannelli in piazza di San Marco e sotto le Procuratie. Quando poté principiare la messa a voci sole, la cantoria dell'orchestra era tutta sgomberata, nelle tribune e nelle logge non rimaneva un'anima, e le navi e le cappelle erano quasi deserte. Solo ai fianchi dell'enorme catafalco, biascicavano e sba- digliavano per l'appetito e per la noia i vecchi e le vecchie del- l'Ospizio di Carità.

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 3 occorrenze

Ma non oso più domandarmi chi siano costoro e che abbiano fatto. Le schiene profondamente umiliate, l'annaspo delle labbra timorose, e i piedi, quei piedi uniti come mani, tutto negli uomini prosternati esprime in un modo quasi straziante l'anelito spirituale. Sia pure dell'attimo suggestivo, dell'occasione. Si alzano raccolti in sé come ciechi. Al gesto del frate che li aspetta al passaggio per distribuire un'immaginetta, riscuotendosi trasaliscono. Assise sulla dura poltrona d'ufficio carcerario, il vescovo parla ai suoi figli. Voce suasiva, con poche modulazioni, risulta un dolce lamento. La testa delicata appare giovane, sembra giovane di purezza fisica, la castità come un'ibernazione. Ha le fìsique du rôle . Nel silenzio della cappella si avverte il momento più acuto, e forse il più precario, dell'abbandono. Scopro qualche nobile tratto di fisionomia, occhi patetici, tristi incavi di bocche. Libriccini e immagini sono sui banchi, corone di rosario restano visibili appese a mani nocchiute. So che dopo si vergogneranno e irrideranno l'uno all'altro (è umano, ed essi sono più che umani nel senso della fralezza) ma adesso ascoltano ancora con una specie di avidità, quella cosa che somiglia alla fame e che si sente dentro come un buco. Le mani del vescovo, distese sulle ginocchia, di un rosa lillà un po' livido, le unghie bianche, sembrano essersi appassite. Non gesticola. Il movimento è solo nelle modulazioni della voce. Anche il senso è piuttosto nel suono, in quella blandizie. Parla del Cristo. Là in alto dietro a lui, l'enorme Crocifisso sfigurato stravolto, con grumi e colaticci di vernice vermiglia, opera di un detenuto. Vi si levano tutti gli occhi sgusciando il bianco con una certa somiglianza. Le fronti sono aggrottate nello sforzo. Essi non intendono la lettera. Sfugge il significato delle parole, si smarriscono le mistiche astrazioni: quello che vi è di rarefatto di teologicamente incorporeo nei sermoni cattolici, non li raggiunge. Ma sono indotti a guardare il Cristo con le piaghe, l'eloquenza irrefragabile del sangue. Il cattolicesimo ancora si regge sulla suggestione del rituale liturgico e delle immagini, non soltanto per i semplici, ciascuno vi reperisce qualcosa dal basso o dall'alto. Nel momento che metterà mano all'apparato correrà il più grande rischio della sua storia. Tornando a guardare le file uniformate, non vedo che teste ispide e menti deboli. Nell'aria viziata un sentore di corpi, un lezzo. E di nuovo l'impressione di scuola, quando sta per suonare la campanella, lo stesso tramestio del radunare furtivamente sotto il banco. Sguardi bassi seguono le braccia dei frati che spogliano il loro vescovo. È molto sottile, senza carne, le spalle escono esili da sotto la cappa. Gli agenti hanno ripreso a circolare. Nello spazio sgombro procede il corteo delle autorità fra i detenuti in piedi. Nessuno si sporge a baciare l'anello, forse è stato proibito. O si è spento lo slancio. Le facce inespressive arretrano confondendosi. Dietro la frusciante immacolata veste principesca si leva a grado a grado un brusio, un bisbiglio, un brulicame. E poi, alle nostre spalle, sordo, il clamore incoercibile, sempre un po' minaccioso, della gente ingabbiata. Andiamo a consumare il rinfresco. Cioccolato caldo con paste, dato che Sua Eccellenza e gli altri officiami sono digiuni.

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Epperò m'accorgo che non sarà difficile farli parlare, sembra che ne abbiano addirittura urgenza. "Si sta bene," salta su Ciro con gli occhiolini micanti. "Dove?" "All'ospedale," afferma con una sorta di entusiasmo. Rimango sbalordita. Guardo gli altri del gruppetto e capisco dalle facce. Diobuono, sono contenti di andare all'ospedale. "Ti danno latte zucchero," sintetizza Franco. E Ciro: "Panini caldi freschi." "Senti la radio," aggiunge Franco. Hanno tirato fuori una loquacità disinvolta confidenziale, assolutamente insospettabile. "La ciccia," scandisce pacato Silvano. Risulta che si rammentano, questi bambini dall'aria intontita assente, perfino di quello che mangiavano al brefotrofio piccolissimi. Erano pappe _ cibo avanzato alla guerra _ pappe di "farinello" americane e zuppette e brodette. L'idea della carne, dei panini freschi, del latte con lo zucchero (chi ha nominato la radio rappresenta il minimo di spiritualità che sussiste comunque nella natura umana, se pure non sia unicamente per il senso acuito di benessere che procurano i suoni) li rende così miseramente felici da conturbare l'anima. Ah se sono poveri. Più poveri del compagno col pelo di cane morto alla nuca, più poveri di chiunque al mondo. Senza accorgermene accarezzo le brutte teste tignose. Con incredibile audacia, sotto la mia mano, Ciro proclama forte verso i banchi, forte e baldanzosamente, la voce a gracchio: "Andiamo all'ospedale, noi." Incontestabile privilegio. Dai banchi i monellucci zazzeruti dei vicoli si mettono a ridere.

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Non si capisce _o non s'indaga _ se abbiano tentato di levargli l'arma. Si avanza il dubbio _ pubblico ministero _ se sia stato il ragazzo o complice la madre, se non solo la donna. Lui si addossa tutto. All'alba, disperato, afferra il martello e gli da sulla testa. E continua a battere a battere perché "ha paura che si sveglia," poi non capisce più niente, non sa più niente. Agli urli, la prima persona accorsa lo vede ancora dare col martello. Anche la madre in camicia piena di spruzzi. (Da domandarsi perché in camicia, a che sia stata costretta dall'ubriaco.) È notorio quanto sanguina la testa. Lui va a costituirsi così insanguinato. Come se avesse scannato il porco _vecchio teste _ e porco era. Come un bambino che ha rubato la marmellata, con le mani ancora sporche di marmellata. Ho presente ogni particolare. Il pubblico ministero alle ragazze, dopo aver cercato di ottenere una parola di cordoglio: gli volevate bene? No. Reciso. Non piangono nemmeno alla retorica dell'avvocato. La donna chiusa segreta, il tipo della montanara di forti passioni e odi implacabili. (I montanari duri come ghiaccioli, duri acuti taglienti e così freddi che scottano.) Requisitoria accesa nella forma ma moderata nella sostanza. Quando, dopo ore, il Tribunale rientra e il presidente R. legge con chiara pronuncia, la sentenza è accolta da un mormorio prolungato. Assolto, legittima difesa. Si è ignorata la condizione inerme _ temporanea _ dello stato di sonno, mai sottolineata in dibattimento. Il mormorio, e poi silenzio profondo. Di emozione. Sentenza eccezionale, eccezionalmente ardita. Credo di ricordare _ se può verifìcarsi in un'aula di giustizia _ l'applauso. Ma sì, ci fu entusiasmo, battimani. Io col nodo alla gola e gli occhi appannati. Non vidi più niente. Ora so che il parricida è stato al Gabelli. Venne dimesso dopo un periodo detentivo per misura di sicurezza, o qualcosa di simile. Il pubblico ministero non appellò. Perdonata la vittima da un giudice coraggioso e forse dal cielo, ma non dalla terra. Impossibile rimanere in paese, la maledizione atavica su colui che sparge il sangue di chi lo generò. Impossibile anche la famiglia, può darsi che la stessa madre lo abbia respinto, o la repulsione delle sorelle. Vaga come l'ebreo errante. A Roma si riduce a bussare al Gabelli. Cerca che lo tengano dentro, fuori non può stare. Non può scegliere la libertà. Lo hanno tenuto. Dove sia ora nessuno sa, come rintracciarlo. Qualcuno collega la sede della detenzione e del processo con la mia provenienza, sembra che mi nominasse. E così telefonano. A titolo di curiosità. Ringrazio.

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Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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. - È poi vero che i leoni abbiano la febbre? - Dicono. Ma chi gli ha tastato il polso? ... E siete venuta. Su dunque; fatemi arrabbiare, fatemi ruggire. Di nuovo quel dente? - Sí, torna a molestarmi. - Dente benedetto, se gli debbo l'incredibile fortuna d'una vostra prima visita! - Prima ed ultima. - Perché? - Parto per Napoli. - Lo dite in un modo! ... - Il ministro ha avuto l'idea di traslocare colà mio marito. - In questo caso, il ministro propone, e la donna dispone. - Non ho nessuna ragione per non andare. - E me? - Voi non siete una ragione. Ci amiamo forse? Di tanto in tanto, avete il capriccio o l'amabilità di ripetermelo; io ho sempre il buon senso di non credervi punto. Voi siete cosí scettico, cosí blasé, da non avervi a male, se non vi credo; ed io sono cosí buona da continuare a darvi la replica nella puerile commediola che vi piace di rappresentare. La cosa non può avere gravi conseguenze né per voi, né per me. La vita, per noi venuti qui da poco tempo, è tanto noiosa, che fin questa sciocchezza giova a dist rarci. Perché dovremmo privarcene? Ora che lascio Roma, cercherete un altro svago, magari piú concreto; non penerete molto a trovarlo. Io, io ... oh, io potrò farne anche a meno! So l'arte di annoiarmi, da un pezzo. - Vi guardo a bocca aperta. - Potete chiuderla. Ho detto. - È impossibile che siate venuta qui unicamente per spiattellarmi sul viso certe cose somiglianti a impertinenze. Vi assicuro che un'impertinenza non cessa d'esser tale uscendo dalla piú bella bocca della cristianità, quale io giudico la vostra. Dunque quelle parole hanno un senso nascosto. Sarò sincero; anche con tutt'e due i piedi in ottimo stato, non avrei mai tanto talento di ermeneutica da poter tentare la interpretazione del grazioso indovinello da voi recitato con l'aria veramente incantevole d'un'at trice consumata. Siate compiacente, aiutatemi. Voi vorreste andare a Napoli. - Non son io che voglio andarci, è il ministro che manda colà mio marito. La moglie, lo sapete, deve seguire il marito; è testuale. - Voi vorreste andare a Napoli. Perché? - Giacché volete saperlo, corro dietro a una avventura ... romanticissíma. Amo, e mi credo amata. Tegolo sulla testa, fulmine a ciel sereno! Il famoso coup de foudre! ...? ... Inglese; biondo, bello, fatale, come lord Byron che non ho avuto l'onore di conoscere. Abbiamo flirtato ... Si dice? - Se vi fa comodo. Mi prendete forse per l'Accademia della Crusca? - Abbiamo flirtato una settimana per le gallerie e per le chiese, fingendo di ammirare Raffaello e il Correggio, la Cappella Sistina e San Paolo, dandoci degli appuntamenti, senz'aver l'aria di darceli - un incanto! - e trovandoci insieme il giorno dopo, esatti fino a un minuto. Egli deve avermi scambiata per una principessa; niente di male: qui sono tutte principesse. Io gli ho fatto supporre che lo credo un principe del sangue, viaggiante in incognito. Se poi sarà un fabbricante di tele da vele, di rasoi o di saponetti di glicerina, non importa. E siccome mi ha detto che ... la sua famiglia starà sei mesi a Napoli ... perché una sorella di lui è mezza tisica, cosí ... - Tutto questo, scusate, mi conferma nella mia vecchia opinione che le donne, in generale, non abbiano molta fantasia, e le donne di spirito, in particolare, per gastigo della loro malignità, ne manchino affatto. - Con voi non si può ragionare. - Sragioniamo; sarà meglio. Malato, con un piede all'altro mondo, nel mondo della bambagia e delle fasciature, sono dispostissimo a dire la verità, e nient'altro che la verità. Non vi sembra che se cominciassimo ad amarci sul serio o, piuttosto, a persuaderci che ci amiamo sul serio, sarebbe una bella cosa? - Domandatelo a mio marito. - Scommetto che s'egli sapesse che stiamo ripetendoci da un anno questa storia che non ci vogliamo bene, che non possiamo amarci, voi perché non mi credete, io perché non ho ricevuto da voi nessun segno che possa permettermi la piú piccola illusione ... - Che cosa ci avete perduto? - Il ranno e il sapone - Parlate da lavandaio. Oh! Il mio lord non si permetterebbe mai simili espressioni. - Non m'interrompete. Credete, dunque, che se vostro marito conoscesse la nostra suprema stupidaggine, non proverebbe un sentimento di profondo disprezzo per voi e per me? - Mio marito è uomo di buon senso, uomo positivo. Egli suol dire che le peggiori sciocchezze sono le inutili. Amandoci sul serio, ne commetteremmo una di questo genere. A che scopo? Volete che v'enumeri i vantaggi della nostra condizione? Facendo le viste d'amarci, abbiamo tutti i benefizi dell'amore ... - Tutti? Oh no! Lasciatemi protestare. - ... senza nessuno degl'inconvenienti che l'amore per davvero ci getterebbe fra' piedi. Mi avete scritto bellissime lettere; le pubblicherò, dopo la vostra morte, e vi faranno onore; non v'adulo. Io v'ho risposto con altre ... passabili, di una discreta ortografia. Non le veggo fra queste. - Gli archivi ricevono unicamente le pratiche espletate. - Sta bene; grazie. E in questo modo siamo scampati dal pericolo d'innamorarci, voi chi sa di quale strega; io chi sa di qual figuro. I veri innamorati scelgono sempre il peggio. - Perché non sono il peggio? Eppure mi credevo abbastanza mostruoso, in tutti i sensi, da potere far perdere la testa alla donna piú savia! - Ve lo ripeto: diventate vano ... Le due e mezzo! Ho appena un quarto d'ora da concedervi. Se credete che sia venuta qui senza commozione ... - Possibile! ... Quale? - Quella di fare una cosa che non avrei dovuto, col pericolo ... - Quasi in questo punto di città non si fosse piú sicuri che nella campagna romana! - Se poi credete che io sia rimasta qui un quarto d'ora senza provare il rimorso ... - Di che mai? - D'aver interrotto il riordinamento del vostro piccolo archivio del cuore. Oh! Mi vi siete rivelato sotto un aspetto inatteso. La vostra meravigliosa sentimentalità - chi poteva supporlo? - mi sbalordisce, mi turba. Avete pianto, riprendendo in mano quei fiori secchi? Le vostre mani hanno tremato, riaprendo le lettere ingiallite delle vostre signore di tempo fa? Diciamo signore, cosí, in blocco. Non sono proprio sicura che qualche bella cameriera non si sia introdotta fra esse, in un momento di vostra dist razione. E farete dei versi su questo soggetto? Siete capace di tutto. Ne avete fatti per me, una sola volta, sei mesi addietro. Allora forse pensavate che, per farsi credere innamorato davvero, bisognava mostrarsi completamente ridicolo. Ora, con la storta a un piede e il piccolo archivio del cuore disperso sul tavolino, siete sublime a dirittura. Dovreste farvi fotografare cosí. - Invece di muovervi il riso, tutto questo dovrebbe provarvi che ogni scettico ha il suo quarto d'ora di fede, come ogni credente il suo quarto d'ora di scetticismo; dovrebbe provarvi che quando un uomo del mio carattere arriva fino al punto di rimescolare con triste compiacenza le poche ceneri del suo passato, vuol dire che egli non ha nulla nel presente da eccitargli l'immaginazione, da fargli battere il cuore; e che il presente gli appare cosí squallido, cosí doloroso da spingerlo a voltarsi addietro, ve rso l'ideale; perché, se non lo sapete, l'ideale è dietro o davanti di noi; e noi non facciamo altro, in tutta la vita, che rimpiangerlo o corrergli appresso, senza chiapparlo mai. - Continuate. Mi sento intenerire; preparo il fazzoletto. - Voi tentate di far la brava ... - No; tento di restar seria, per non darvi una mortificazione ... Altri otto minuti. Vorreste intanto farmi il piacere di guidarmi attraverso il vostro piccolo archivio del cuore? Dev'essere interessantissimo. - Siete in vena di ridere ... Ma, badate: parlo con tutta la serietà possibile! Non vi ho mai detto con tanta sincerità, con tanta profonda commozione come in questo momento ... - Ricominciate? - Giacché siete in vena di ridere, ridete pure a spese delle mie illusioni giovanili, delle ardenti passioni dei miei vent'anni, dei miei amori fragili e passeggieri ... che non sono stati i peggiori. - Alla buon'ora! - Ludovico rovistò fra le carte e gli oggetti sparsi sul tavolino e, scelti alcuni fiori secchi legati con un rozzo filo bianco, risprese in tono scherzoso: - Fiori di campo. Mazzolino preistorico; 1866@, 1866, data approssimativa. Allora amavo il rustico, l'ideale dell'ideale, la figlia del mio fattore. Tutte le belle mani di contesse, di marchese, di principesse, di semplici signore, strette e baciate dopo, non mi sono parse belle quanto quelle mani grassotte, gonfie pei geloni, e che facevano la calza. Purità, il tuo nome è Sedici Anni! Ogni volta che sento il profumo del fieno ... - Vi vien la voglia di mettervi all'erba? - Signora, rispettate almeno l'innocenza! - E rifrugato, continuò: - Età della pietra: lettera di quattro pagine, geroglifici primitivi. Non ne capisco piú niente, tranne che la sartina finiva con abbraccarmi e darmi mille bachi.? - Che non fecero il bozzolo? - Altro! Il mio primo rimorso. Se scriverò la mia vita ... - Leggerò allora questo capitolo, e procurerò di rabbrividire. Su, su, entriamo finalmente nei tempi moderni. - La mia prima signora! - Autentica? - Autenticissima. Aveva un solo difetto: si metteva sempre a piangere, dopo. Non sapeva persuadersi, diceva, con che cuore poteva tradire un marito che l'adorava! ... Cosa molto lusinghiera per me, ma che, ripetuta, mi seccava. E il suo tradimento ... - Vi tradí? - Per veder di capire, con un altro, in che modo ella poteva tradire il marito che l'adorava! ... Fui cosí bestia, cara amica, da provocare il mio rivale e buscarmi un bel colpo di punta al braccio, guaribile in dieci giorni. Questa è la lettera di congedo. Monumentale. "Ti amo troppo ... Non ci vedremo piú! ... Lasciami ai miei rimorsi! Clelia." È il nome della sua cameriera: si firmava cosí per cautela. - E quel porte-bonheur? - Modernissimo, tutto quel che ci può essere di piú moderno. L'epistolario, in tre volumi, fu restituito all'autrice, meno queste pagine interessanti e questo gingillo che ha aderito al mio polso sette mesi, notte e giorno, testimone irrefragabile d'una passione degna di miglior sorte. Giacché questa volta fui io che presi la rivincita su la volubilità femminile, tradii per tradire. Il cattivo esempio della mia prima signora mi aveva cosí pervertito, che restai sordo ai pianti, alle imprecazioni, alle lette re di questa natura: "Mostro! Quel ch'io soffro, non lo saprete mai!" Infatti, non l'ho piú rivista ... Era bella, proprio. E affettuosissima: troppo. L'ho rimpianta, ma non lo ha saputo mai. - Pari e patta. - Nastro contemporaneo. Una marchesa, vero genio epistolare: già voi altre donne siete tutte tante Sévigné inedite. Queste lettere, salvate a stento dal terribile naufragio della nostra passione, potrebbero, in mancanza di altre, farne fede. "M'hai lasciata or ora. Stanca delle divine ebbrezze ..." Voi non amate il realismo; salto qualche frase. "Non posso far a meno di scriverti, di comunicarti le sensazioni che mi conturbano ancora ..." Salto, salto ... "Ho aperto la finestra. Che silenzio! Che c alma! Gli alberi del giardino ..." Descrizione, credetemi, che il Fogazzaro non sdegnerebbe per sua. "Gli alberi fremono d'amore sotto i pallidi raggi della luna. I fiori, mezzi addormentati, si bisbigliano, da un'aiuola all'altra, le loro confidenze ... Un cane abbaia in lontananza ..." Due pagine! ... "In questo momento tu, forse, dormi. Oh, se sognassi di me!" Glielo confessai il giorno dopo: a mezzogiorno dormivo ancora, ma senza sognare. Quando amo in una certa maniera, dormo come un ghiro ... Andate via? - Sono edificata a bastanza! ... Voi avete tre o quattro mie lettere, insignificanti. Passatele pure agli archivi ... Credo che non farete cosí facilmente ridere con esse un'altra signora. - Ah! ... Voi dunque supponete ...? - Non suppongo nulla; giudico. Siete mostruoso davvero. Stavo per lasciarmi ingannare anch'io da codesta vernice di scetticismo che, forse, poteva nascondere un cuore buono e gentile ... Mi avete fatto male, molto male! ... Lo scetticismo è una malattia di cui si può guarire; ma il cinismo ... - Sono cinico? ... Io? ... - Se c'è una parola che significhi qualcosa di peggio, suggeritemela; ve la dirò. - Finalmente! ... Oh, finalmente, son riuscito a strapparvi la maschera! Ho rappresentato cosí bene la mia parte ... - La risorsa è da uomo di spirito. Però voi avete detto che sono persona di spirito anch'io, e, per conseguenza, maliziosa. - Vedete? Non mi difendo. Voglio darvi tutto il tempo di giudicarmi con calma e con imparzialità. - Addio! - Neppure a rivederci? - Ci rivedremo senza dircelo. - Sentite, Maria. Non mi fate il torto di dare importanza a uno scherzo, fatto piuttosto per mettermi all'unisono del vostro buon umore ... di testa. Da un anno ci diamo la maggior pena del mondo per mostrarci l'una all'altro proprio il rovescio di quel che siamo. È stato un continuo scambio di assalti, di motti, di frasi, nelle quali le parole non avevano per nessuno dei due il significato ordinario. Ogni puntura era una delizia; ogni morsettino una felicità ... Non lo negate ... - Io non fiato. Solamente vi avverto di risparmiarvi la pena di tanta eloquenza. Ora che fingete di parlarmi in serietà ... - Fingo! - Vi credo assai meno di quando fingevate per chiasso. Oh gli uomini! Addio! - E non potersi muovere per trattenervi! - Piove. Non ce ne siamo accorti. Siete venuto ad abitare in un deserto. Non si trova mai una carrozza da queste parti. Mandate il servitore a cercarmene una. - Potreste aspettare che spiova. Vedete? La Provvidenza manda la pioggia unicamente per prolungarmi il piacere di vedervi qui, di sentirvi parlare, e ... di rappacificarci, forse ... Sedete intanto. - Guardo se spioverà presto. - Sedete. Oramai lo so: noi ci amiamo! - Davvero? - Sí, noi ci amiamo. Ed è un peccato saperlo con certezza. Pensavo a questo vedendovi andar via ... Ne avremo per due, tre settimane, per un mese al piú, e poi ... Invece abbiamo durato quasi un anno nell'amarci inconsapevolmente. Ed è stato deliziosissimo. - Se non siete un mostro, siete talmente pervertito ... - Siamo cosí tutti, chi piú chi meno, a questi lumi di luna di raffinatezza nevrotica. Il naturale, lo spontaneo, il primitivo non ci basta piú. È troppo semplice per la nostra esperienza e per la nostra malizia ... Via! ... Amiamoci! ... Siamo sinceri almeno un momento. E cosí, se dovrete proprio partire, partirete fra due o tre settimane, fra un mese; qualche giorno prima che il nostro amore finisca. Faremo come coloro che si levano da tavola con un po' d'appetito. È igienico, dicono. - Sciocchezze ne avete detto sempre; mai però tante e tante di seguito, quante da che sto qui! - Dovreste esserne lieta. Una donna che ispira delle sciocchezze, è una donna veramente amata. - Povere donne! - Maria! ... - Avevo un triste presentimento, venendo qui. Non m'ingannavo. Perché non sono tornata addietro? Mi sarebbe rimasta l'illusione. Ho creduto a una lusinga del cuore, e ne sono punita. Meglio per me. Errore evitato, rimorso risparmiato. Ne avevo già uno: quello d'esser sul punto d'ingannare una brava persona che m'ama seriamente. - I mariti non amano; tutt'al piú, vogliono bene. - È preferibile. - Ma è un'altra cosa. - No, non vi credo, non voglio credervi. Sareste proprio perverso, se tutto ciò che dite fosse davvero quel che pensate, e di cui siete convinto. - Non posso alzarmi, altrimenti mi butterei ai vostri piedi, per farvi la mia dichiarazione in regola ... Siete cosí formaliste voi donne! Allora, probabilmente ... - No; non parlate cosí. Mi fate dispiacere ora. - Che volete? Mi veggo in una certa situazione con questa storta, inchiodato su la seggiola ...! - Soffrite molto? - Non me ne sono accorto da che voi siete in casa mia. - Se prometteste di non scherzare piú sopra un argomento tanto serio ... - Ve lo prometto. - Chi sa? Potrei venire qualch'altra volta ... - Non v'augurate, spero, che la mia storta duri eterna! - Intendetevela col vostro dottore. - Grazie. - A rivederci ... Ma buttate via tutti questi ingombri! ... Ci tenete molto, insomma? - Tanto! ... Come terrei a conservare le vostre poche lettere, se un'altra mi chiedesse quel che voi chiedete ... - Oh no, no a rivederci! ... Che tristezza! ... Addio. Addio -. Egli la seguí ansiosamente con lo sguardo, sperando non sarebbe davvero andata via. E quando la vide sparire, rimase ancora un momento con gli occhi rivolti verso l'uscio. Poi, riprendendo la occupazione interrotta: - Tornerà - disse. - La credevo piú forte. Francamente, era meglio prima. Ed ecco un'altra pratica che s'avvia per l'archivio. La vita è cosí! Mineo, agosto 1884@. 1884.

Racconti 2

662717
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Proverbio falso, perché gatte che abbiano lasciato lo zampino nel lardo non se n'è mai viste finora; ma lasciamo andare. Insomma, dopo di aver quasi continuamente scherzato con l'amore, c'era cascato e come! Quella nuova e insperata conquista era tale da indurlo fino a dubitare della stessa vittoria. Egli non lo dava a capire a nessuno, ma ne soffriva orribilmente. Amore o capriccio da parte di lei? Non sapeva distinguerlo, e voleva accertarsene. Allora gli balenò nella mente l'idea dell' eròsmetro , non come cosa possibile ma come una di quelle fantasie che rallegrano il meraviglioso regno delle fiabe. A furia però di pensarci su e ripensarci ... La fata odierna è la scienza; gli imbecilli siamo noi che non osiamo di chiederle quel che giudichiamo stoltamente impossibile. Tutti coloro che hanno, in qualche modo, osato sono stati appagati. Io non posso spiegare qui i principii positivi che servirono di base alla creazione di quel mirabile strumento, né descriverlo minutamente. Non rimpiangerò neppure che il mio amico lo abbia distrutto dopo averne fatto amara prova. È bene che certe illusioni sopravvivano per consolare questa nostra misera vita e a lusingarci di crederla meno brutta che non è. Quando egli ebbe fatto parecchi esperimenti, fu atterrito dell'opera propria. L'impassibile rivelatore livellava tutti i pretesi gradi dell'amore, riduceva questo sentimento a cosí meschina realtà da disgustarne qualunque umana creatura. La donna piú bella e la piú deforme, la piú buona e la peggiore venivano poste allo stesso livello; tutta la poesia del sentimento era annullata, ridotta cosa soggettiva dell'amatore, pura opera dell'ingannatrice Maya ... Egli stesso non voleva crederlo, ma nel medesimo tempo non poteva dubitare. La donna che formava in quei giorni l'orgogliosa felicità della sua vita ... No, egli non riusciva a persuadersi che potesse essere anche lei uguale a tutte le altre! ... Ma se era? ... Nonostante questo, esitò parecchi mesi prima di risolversi allo esperimento. "La gelosia mi ha perduto! - egli diceva, raccontandomi il caso con le lagrime agli occhi. - Era avviticchiata al mio collo con le braccia ignude e mi baciava, ribaciata ... Feci uno sforzo supremo. Trassi di tasca la fatale armilla, e, prima ch'ella potesse capire che cosa intendessi di fare, gliel'avevo adattata alla parte superiore di un braccio. Le parve un elegante gingillo imitato dall'antico, mio regalo; e lo guardò commossa, con un senso di vanità che le sfavillava negli occhi e nel sorriso. Io tremavo, quasi commettessi in quel punto il piú vigliacco e il piú tremendo dei sacrilegi. E mentalmente pregavo che lo strumento, almeno questa volta, s'ingannasse o mentisse. "Che hai?" ella mi domandò, guardandomi con diffidenza. E siccome io avevo gli occhi fissi su l'armilla, ella portò la mano al braccio, premé la mollettina e buttò via quell'oggetto con orrore istintivo. Mi affrettai a raccoglierlo. Ella guardò il segno bianco lasciatole dalla pressione sul braccio, e mi prese per le mani interrogandomi sbigottita. "Che è questo? Che mi hai fatto?"" Egli fuggí via come un assassino. Volle però vedere quel che lo strumento aveva registrato. E soltanto allora ... ma era troppo tardi! Maya, la divina illusione - com'egli si espresse - si era dileguata sdegnosamente nella piú alta profondità dei cieli! - Infine, che cosa vide? Che scoperse? - domandò spazientita, la signorina Villotti. - Niente! - rispose, con equivoco sorriso, il dottore. - O dunque? ... - Ho voluto dirle, invece della mia, l'opinione di un altro intorno all'amore. E, se le piace, segua il consiglio del mio amico, faccia secondo il sapiente padre della chiesa da lui citato: creda nell'amore! Fermamente! È un'assurdità, ma non vuol dire ... Credo quia absurdum!

Racconti 3

662765
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
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Sono convinto però, col mio amico Piero Baruzzi, che abbiano sbagliato strada, e che non caveranno un ragno da un buco, chiedendo alla meccanica e alla fisica la soluzione del gran problema. Esso era già risoluto, anni fa, da quest'ignoto cultore di fisiologia. Per nostra disgrazia, se n'è mescolato l'accidente, il grande stupido guastamestieri, e il segreto della maravigliosa scoperta è stato, forse irrimediabilmente, perduto. Bisognerà mettersi a studiarlo daccapo, se sorgerà un altro uomo di genio come Pietro Baruzzi, che vi spese trent'anni della sua modestissima vita, e tormentò dieci anni il suo corpo per forzar la natura a restituirci quel che ci ha tolto, o, per parlare piú preciso, quel che essa ha reso inservibile per noi. - Le ali? - domandò ironicamente l'avvocato Rosaglia. - Non ho mai sentito dire che gli uomini primitivi abbiano avuto ali neppure in embrione. - In embrione, sí, caro avvocato, l'uomo le ha tuttora: le nostre braccia non sono altro. Ma si tratta di cosa piú seria. Chiamando Piero Baruzzi uomo di genio, non ho esagerato. La sua incredibile scoperta avrebbe concesso a tutti quel che potrà essere soltanto privilegio di pochi, se pure la dirigibilità degli aerostati diverrà un fatto compiuto, come si dice in politica. - Ci siamo! - esclamò l'abate Venini. - Ecco una delle solite storielle del nostro dottore! - Chiamatele pure storielle - rispose tranquillamente il dottor Maggioli - purché mi concediate di affermare che la storia è un seguito di storielle come le mie e, spesso, meno interessanti delle mie, perché è difficile distinguere se siano vere o alterate, o almeno dove finisca in esse il vero e cominci il falso. Quelle che racconto io sono autentiche, verissime, quantunque in questo caso il superlativo sia superfluo. Quando una cosa è vera mi sembra sciocco di qualificarla verissima. Io racconto fatti di cui sono stato testimone oculare. Non si vive, bene o male, ottant'anni come me, senza aver avuto occasione di vedere uomini e cose straordinari, specialmente quando le circostanze ci sbalestrano di qua e di là, in mezzo a gente sempre nuova, e quando i casi della vita hanno sviluppato in noi quel che chiamo il fiuto delle cose strane, singolari, e la curiosità di osservarle e di studiarle. Disgraziatamente o fortunatamente (non so giudicarlo) sono stato uno di questi. Se campassi fino a cento anni, avrei ancora occasione di raccontare nuove storielle, rimaste dormenti rincantucciate in angoli oscuri della memoria, e che si ridestano e vengono avanti in certe occasioni, come mi accade spesso in questo salotto. Cosí oggi, a proposito di aerostati, mi torna in mente il nome d'un ignoto che dovrebbe essere famoso e che, forse, sarà famoso un giorno, se la scienza riprenderà in mano il problema da lui posto, per tentar nuovamente di risolverlo, perocché la ignoranza e l'avidità di un contadino ha impedito la rivelazione della mirabile scoperta di Piero Baruzzi. - Era un congegno per volare? - domandò la baronessa. - Niente congegno, niente macchina; ma la cosa piú semplice di questo mondo. L'uomo avrebbe potuto elevarsi nell'aria e nuotarvi, per cosí dire, come i pesci nell'acqua. - Per opera di magia dunque? - fece l'abate Venini. - Naturalmente, anzi per solo impulso della sua volontà, senza sforzo né fatica, e senza nessun pericolo di fiaccarsi il collo, come è accaduto a parecchi aeronauti. - Siamo in pieno miracolo! - E fuori di ogni miracolo, caro abate, se per miracolo lei intende la sovversione delle leggi della natura. Grandissimo miracolo certamente, maggiore di tutti quelli operati dalla scienza finora, se può e dee chiamarsi tale il costringere il nostro organismo a una funzione che la natura, non sappiamo perché (forse perché glien'ha regalate altre piú nobili e piú eccelse) ha conservato e riserbato per organismi inferiori nella scala degli esseri. - Ma, insomma ... Non ci tenga piú su la corda! - disse la baronessa. - Avevamo studiato medicina insieme nell'università di Bologna; io per campar la vita; egli, ricchissimo, pel solo gusto di studiare. E studiava seriamente, assai piú di noi che chiedevamo alla professione il nostro futuro sostentamento. Dopo la laurea, io ero stato nominato medico condotto in un paesetto dell'Umbria; egli aveva continuato ad approfondirsi nella fisiologia con intensa passione. Da vent'anni non sapevo piú notizie del mio collega, quando, al mio ritorno dall'America, c'incontrammo in ferrovia. Mi riconobbe lui. Io non avrei indovinato l'antico condiscepolo, bel giovane biondo, in quell'uomo maturo, precocemente incanutito e invecchiato, che mi sedeva in faccia in uno scompartimento di seconda classe. Fu una festa per tutti e due. E allora, tra tante altre cose, egli mi disse: «Vent'anni addietro ho fatto un sogno che non ho potuto piú levarmi di mente. Mi è sembrato che c'era da cavarne qualche cosa di grande, se fossi stato un Newton, un Galileo, un Volta. Ma sono un povero dilettante di fisiologia. Pure, ho avuto l'orgoglio di tentare ... Non si sa mai!» Aveva sognato di star a sedere nel suo studio. Tutt'a un tratto gli era venuto l'impulso di alzar le gambe, di accostarle, orizzontali ... e si era sentito portar via per la stanza in quella posizione, con le gambe ben tese, e aveva potuto fare il giro della stanza, sollevarsi fino al soffitto, ridiscendere, risalire, leggero come una piuma, sbalordito del fatto che non gli pareva sogno ma realtà. E nel sogno aveva pensato: «Ecco una maravigliosa scoperta che non è passata per la mente a nessun scienziato!» Giacché aveva pure capito in che modo lo stupefacente fatto fosse avvenuto. «Ho avuto l'orgoglio di tentare, e sono quasi riuscito» concluse. Lo guardai negli occhi, dubitando, ve lo confesso, dello stato normale della sua intelligenza. Egli capí, sorrise, e m'invitò ad andare a trovarlo nella sua villa, presso Cento. «Vivo solo colà, da anni, come un eremita. Questa è la prima volta che comunico a qualcuno il gran problema che mi occupa e che credo già vicino ad essere risoluto vittoriosamente. Mi prometti di venire?» «Se credi - risposi - posso venire anche ora». La sua serietà mi aveva scosso, e la mia vivissima curiosità e il mio dubbio non volevano frapporre tempo in mezzo per convincersi se quella che nel mio interno qualificavo fissazione di allucinato, fosse o no proprio tale. Il tentativo di Piero Baruzzi, ripensandoci, non mi sembrava assurdo. Egli partiva dal fatto notissimo che il feto umano, nei primi stadi di formazione, somiglia a quello del pesce, poi del cane ... Dunque ha organi che, nella compiuta trasformazione in feto umano, si arrestano nel loro sviluppo, si atrofizzano, o si mutano in organi con funzione diversa. Che cosa diviene nel nostro corpo la vescica natatoria del pesce? Polmoni, organi di respirazione, dicono i fisiologi. Ma la trasformazione cancella ogni vestigio della primitiva funzione? Piero Baruzzi ha concluso di no; e il fatto ha confermato, riguardo alla vescica natatoria, la divinazione di lui. I polmoni sono poi davvero la trasformazione di quella vescica, o essa sussiste ancora, atrofizzata, resa inutile dal mezzo in cui l'uomo è destinato a vivere? Piero Baruzzi ha speso, coraggiosamente, ostinatamente, i migliori anni della sua vita in questa ricerca. Non posso entrare a discorrere, con particolari minuti, dei suoi difficilissimi studi. Io passavo di stupore in stupore, nel suo laboratorio, in quella villa solitaria posta in cima alla collina e circondata da macchinosi alberi di ulivi e di querce, stando ad ascoltare la chiara ed efficace esposizione dei suoi lunghi studi, dei suoi scoraggiamenti, delle sue gioie di scopritore fortunato. Ma il quasi sovrumano non furono in lui la pazienza, la precisione delle ricerche, il silenzio di tanti anni. Occorreva provare e per ciò trovare un soggetto su cui tentare il miracolo - la parola mi viene spontaneamente alle labbra - di sviluppare nel corpo umano quell'organo atrofizzato e in guisa da permettergli di manovrare nell'aria, come i pesci nel mare; di ridurre l'aria veicolo da eguagliare l'acque marine. Provò sopra di sé, in che modo non saprei dire, ma certamente martirizzando il suo povero corpo con operazioni dolorosissime, con tagli chirurgici, con mezzi che misero piú volte a repentaglio la sua nobile vita. Ed io lo vidi, con questi occhi, sollevarsi per aria, con le gambe riunite orizzontalmente, quasi servissero da timone; non ancora capace di attingere grandi altezze, capacissimo però di muoversi agevolmente in tutte le direzioni, quasi il suo corpo avesse perduto il peso ordinario ... E la prima volta credevo di essere in preda a un'allucinazione, suggestionato dalla sua eloquente parola, dalla strana evidenza del suo paradosso. Volle che giurassi di mantenergli il segreto, e di attendere che quella scoperta avesse raggiunto la perfezione. Ormai era sicuro del fatto suo. Quando lasciai la villa, Piero Baruzzi non mi sembrava piú un uomo, ma un Dio! Passarono altri cinque anni. Un giorno, finalmente, ricevei un suo laconico biglietto: «Vieni; faremo una gran prova all'aria aperta. Ti attendo per giovedí prossimo». Disgraziatamente quel giorno non potei andare e non fui in tempo di avvisarlo che sarei arrivato da lui il giorno dopo. Egli non attese. E la mattina di quel giovedí, alcuni contadini che lavoravano un campo là vicino videro librato in aria, a grande altezza, un animale mostruoso che andava, veniva, facendo ghirigori nello spazio, scotendo certe strane ali ... Egli, per ripararsi dal freddo, aveva indossato un mantello, e il vento e l'aria smossa ne agitavano le ampie falde ... Uno di quei contadini, spinto dall'idea di guadagnarsi un bel premio, vendendo lo sconosciuto uccello a un museo, spianò il fucile da militare che aveva là a portata di mano ... E il povero Baruzzi, colpito al ventre, precipitò giú, sfracellandosi il capo sur un masso. La sua mirabile scoperta era morta con lui! -

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 3 occorrenze

... " "Un gran brutto male, bambino mio: l'unico male per il quale i medici non abbiano saputo trovare ancora una medicina. Prova a farti un po' di coraggio ... " "Ho provato." "E ora come ti par di stare?" "Peggio di prima." "Ma qual è la cagione di tutto questo spavento?" "Una gran disgrazia, babbo mio, sta per cascarmi addosso!" "E come fai a saperlo?" "Ho avuto, in pochi minuti, troppi indizi ... troppi segnali. Vi ricordate i miei stivaletti nuovi rimasti affogati nella mota? E il giubbettino e i calzoni fatti in pezzi da quel dispettosaccio di pruno? E la camicia di tela fina diventata, tutt'a un tratto, di foglie di ortica? E quella brutta serpe, che or ora mi è scappata di mano? Eccola sempre lì, eccola sempre lì! ... Guardatela! ... " "Chi?" "La serpe ... " Il babbo di Pipì si voltò a guardare verso il punto indicato, e vide difatti in mezzo alla profonda oscurità della notte, una grossa serpe, che risplendeva tutta di vivissima luce rossa, come se fosse stata una serpe di cristallo, con in corpo un lampione acceso da tranvai. La serpe, stando a collo ritto, teneva i suoi occhi fissi in quelli dello scimmiottino. "Che cosa vuoi da me?", gli domandò Pipì, facendosi un coraggio da leone. "Vengo a portarti i saluti del signor Alfredo", rispose la serpe. "Povero signor Alfredo! ... È forse partito per il suo viaggio?" "È partito pochi minuti fa, e mi ha raccontato che tu avevi promesso di accompagnarlo." "È vero, è vero, è vero! ... Domani forse partirò anch'io e spero di poterlo raggiungere in alto mare." "Speriamolo davvero! A buon conto, ricordati, scimmiottino mio bello, che quando si promette una cosa, bisogna mantenerla! Hai capito?" Appena dette queste parole, la serpe sparì nel buio della notte e non si vide più. Allora Pipì, tormentato in cuore da una specie di rimorso, fu quasi sul punto di dire addio a suo padre e di prendere la strada più corta, che menava alla spiaggia del mare: ma mentre stava lì per decidersi, vide lontano lontano alcune fiaccole accese, che si movevano in qua e in là, e sentì una musica allegra di pifferi, di tamburi e di mandolini. "Che cos'è quella musica e quei lumi?", domandò tutto meravigliato. "Come? Non ti riesce d'indovinarlo?" "No." "Sono i tuoi fratellini, che vengono a incontrarti con la fiaccolata e a suon di banda! ... " "Oh che piacere! Oh che bello spettacolo! Corriamo, babbo, corriamo ... " E tutti e due si dettero a correre lungo la viottola: e Pipì, che aveva riacquistata in un attimo la forza delle sue gambine svelte e sottili, non solo correva, ma si sarebbe detto che volava come un uccello. E ora chi mi dà le parole adatte per descrivere la scena del primo incontro? Credetelo a me: fu una scena così affettuosa e commovente, che è impossibile immaginarsela senza averla veduta coi propri occhi. Basti dire che l'allegrezza dei quattro fratelli nel rivedere il loro fratellino minore, che oramai credevano perduto per sempre, fu così tempestosa e smodata, che gli saltarono addosso tutti insieme e ci corse poco che non lo soffocassero sotto un diluvio di baci, di abbracciamenti e di carezze. Quand'ebbero sfogati gli affetti del loro cuore, cominciarono a strillare in coro: curacà! curacà! curacà! (nel dialetto familiare delle scimmie bisogna sapere che curacà vuol dire: a cena! a cena! a cena! ). Detto fatto, si posero seduti per terra intorno a una gran cesta di pesche, di albicocche e di fichi d'India, e lì, ridendo, grattandosi e facendo con la bocca mille smorfie e mille versacci in segno di grande esultanza, mangiarono a più non posso, come se fossero digiuni da due settimane. E non solo mangiarono, ma bevvero allegramente: e bevvero un certo liquore spiritoso, fatto d'uva rossa strizzata, che somigliava come due gocciole d'acqua al nostro vino. E ne bevvero così a spugna, che dopo mezz'ora, dormivano tutti e russavano come tante marmotte. Quand'ecco che, sul più bello del sonno, furono svegliati da un'orribile voce che gridò: "Guai, a chi si muove! ... ".

Un giorno Pipì, quasi impermalito di vedere che i suoi scherzi non facevano né caldo né freddo, domandò al coccodrillo, atteggiandosi a ingenuo e a innocentino: "Dite, Arabà: dacché siete al mondo, ne avete trovati mai degl'impertinenti, che vi abbiano fatto qualche dispetto o qualche burla sgarbata?" "Se ne ho trovati, scimmiottino mio! Nel mondo, per tua regola, c'è più impertinenti che mosche." "Dite, Arabà: e quando i monelli vi fanno qualche dispetto, voi non vi risentite mai?" "Caro mio! In tanti anni di vita ho imparato che la più gran virtù dei vecchi è quella di saper sopportare i giovani con pazienza e rassegnazione." "Dunque, dacché siete al mondo, non vi siete arrabbiato mai, mai, mai?" Il coccodrillo, prima di rispondere, ci pensò un poco, e poi disse: "Una volta sola. E sai chi fu che mi fece andare su tutte le furie? Fu uno scimmiottino, su per giù, della tua età ... ." "E che cosa vi fece questo scimmiottino?" domandò Pipì, con una curiosità vivissima. "Questo monellaccio, non saprei dirti come, era venuto a sapere che io curavo moltissimo il solletico sulla punta del naso. Allora che cosa inventò per darmi noia? Salì sopra uno di questi alberi, che circondano il lago, e, calandosi di ramo in ramo, arrivò con la punta della sua coda a farmi il pizzicorino sul naso. Figurati io! Mi trovai attaccato da una tal convulsione di riso, che durai a ridere e a ballare nell'acqua per una settimana intera! Credevo quasi di morire!" "Davvero? ... Oh povero Arabà! ... ", disse Pipì con falsa compassione. E dopo se ne andò di corsa: e a quante scimmie e scimmiottini incontrava per la strada, ripeteva a tutti ridendo queste parole: "Volete divertirvi? volete veder ballare il vecchio Arabà? Venite domattina sul lago e io vi farò assistere a questo bellissimo spettacolo". La mattina dopo, come potete immaginarvelo, c'era sulla riva del lago una folla immensa. Tutti aspettavano che Arabà ballasse il trescone. Quand'ecco Pipì che salito sopra un albero sporgente sull'acqua, cominciò a calarsi giù di ramo in ramo, e tenendosi penzoloni per aria, si allungò e si distese tanto, da poter toccare con la punta della sua coda il naso del coccodrillo. Ma il coccodrillo, appena sentì la coda di Pipì, chiuse la bocca e zaff ... con un semplice morso dato a tempo, gliela staccò di netto fin dal primo nodello. Lo scimmiottino cacciò un grido acutissimo di dolore: e buttandosi di sotto all'albero, si dette a scappare verso la foresta. Arrivato vicino a casa, vi lascio pensare come rimase, quando, portandosi una mano di dietro, si accorse che la sua coda non c'era più. La coda era rimasta in bocca al coccodrillo, che a quell'ora l'aveva bell'e digerita. Preso dalla disperazione e vergognandosi a farsi vedere dalla sua famiglia in quello stato compassionevole di scimmiottino scodato, Pipì infilò per una viottola solitaria, camminando all'impazzata fino a notte chiusa, senza sapere neanche lui dove andasse a battere il capo. Finalmente, non potendone più dalla stanchezza e dal sonno, si sdraiò sopra un monticello di frasche secche per riposarsi un poco. E in quel mentre che era lì lì per appisolarsi, sentì negli orecchi una voce minacciosa, che gli gridò imperiosamente: "Rendimi la mia pipa! ... ". Lo scimmiottino, svegliandosi tutto spaventato, voleva fuggire; ma non poté: perché in men che non si dice, si trovò preso, rinchiuso in un sacco e caricato sulla groppa di una bestia con quattro zampe, che cominciò a correre di gran carriera. "Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga?", pensava lo scimmiottino tremando dalla paura. "Se per caso è un leone, sono bell'e perduto! ... Se per disgrazia è una tigre, peggio che mai! ... Se è una iena o un leopardo, non c'è più scampo per me! ... Oh me disgraziato! Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga? ... " Per buona fortuna, la bestia ragliò ... e allora Pipì sentì allargarsi il cuore dalla contentezza. Quel raglio fu l'unica consolazione che avesse il povero Pipì durante il suo misterioso viaggio, rinchiuso in un sacco!

Ricordatevi però, Maestà, che la più bella prerogativa che abbiano i regnanti, è quella di non poter far nulla a modo loro." "Ho capito, e vi ringrazio", disse Pipì. E, spiccato un salto, andò a sedersi sulla lettiga. La fanfara, allora, cominciò a sonare alla viv'aria, e l'immenso corteggio si mosse con grand'ordine e con solennissima pompa. Giunto al palazzo, l'imperatore si assise subito ad una tavola bell'e apparecchiata nella gran sala da pranzo. Il povero Pipì, sebbene fosse diventato imperatore, aveva un appetito che somigliava moltissimo alla fame, come un fratello potrebbe somigliare a una sorella: ma non riuscì a contentare il brontolio del suo stomaco, perché i vassoi pieni d'ogni ghiottoneria, appena portati in tavola, erano subito vuotati e spolverati dai commensali, che gli facevano corona. "Il pranzo finì: e lo scimmiottino aveva più fame di prima." "Pazienza!", disse fra sé e sé. "Ora me ne anderò a letto, e dormendo, mi dimenticherò che non ho mangiato." Detto fatto, entrò nella camera imperiale: e dopo poco russava come un ghiro. Quand'ecco che sul più bello, si trovò svegliato da una sinfonia indiavolata di cembali e di corni e da migliaia e migliaia di voci, che gridavano: "Viva l'imperatore! Fuori l'imperatore!". "Maestà", disse il gran cerimoniere, entrando in camera, "alzatevi e affacciatevi al balcone. I vostri sudditi vogliono vedervi." "Peccato!", brontolò Pipì, stropicciandosi gli occhi. "Dormivo così bene!" E sbadigliando e barcollando si affacciò al balcone. "Viva il nostro imperatore!", gridò novamente quell'immensa folla di scimmiotti radunati sotto le finestre della reggia. "Grazie, amici", rispose Pipì, dimenando la testa in atto di salutare. "Sento che avete una bellissima voce, e me ne rallegro tanto con voi. E non avendo altro da dirvi, buona notte e ci rivedremo domani." A queste parole, la folla si sciolse tranquillamente, e Pipì tornò ad accovacciarsi sul suo letto imperiale. Ma in quel mentre che stava lì per riprendere il sonno, ecco una nuova sinfonia di corni, di cembali e di urli popolari. "Che cos'è stato?", domandò alzando il capo. "Maestà", rispose il gran cerimoniere, entrando in camera "i vostri sudditi desiderano vedervi un'altra volta. Degnatevi affacciarvi al balcone." "Eccomi subito", disse Pipì. "Pregate intanto i miei amici a concedermi un minuto di tempo, tanto che io possa lavarmi il viso." Passò un minuto, ne passarono due, cinque, venti, e l'imperatore non si vedeva apparire. Andarono allora a cercarlo in camera, e non lo trovarono più. L'imperatore era sparito.

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

Dissi che anche il popolo la teme, perchè nulla ha di comune con questa turba; alla quale non potendo applicare il nome storico di plebe, daremmo di preferenza quello di feccia, quantunque gli uomini delle classi superiori con carità fraterna abbiano trovato moltissimi altri nomi per indicarla, quali, per citare i più conosciuti: maraglia, plebaglia, popolazzo, popolaglia, gentaglia, bordaglia, bruzzaglia, canaglia, e via dicendo. Essa però non è un triste privilegio dei tempi nostri, ma un fenomeno di tutti i tempi, ed ebbe sempre le stesse tendenze le stesse passioni, la stessa natura. Tra la Suburra e la Villette e Ménilmontant tra White-Chapel e la via Varese o la via Legnano, o lo stretta Calusca, o il vicolo della Corde, nessuna differenza ci corre. E questa turba fu pure in ogni tempo spregiata, giacchè Sallustio ve la dirà cupida sempre di nuove cose e Machiavelli per natura pronta a rallegrarsi del male Milano ha del pari che tutte l'altre città la sua feccia, la quale, come ripeto, ha nulla di comune coll'ottimo popolo operaio, che massime in questi ultimi tempi, è diventato massaio e previdente ed ama l'istruzione ed il lavoro. Nè si creda che questa genia sia composta di soli Milanesi; questi anzi vi sono in minor numero di quel che non si creda, giacchè a formarla concorrono tutte le città minori e i villaggi di Lombardia, che mandano a noi tutti i loro rifiuti. Cosa questa non nuova, chè la plebe di Roma era pur essa composta di gente venuta dal di fuori della città. E Tacito, nauseato dalla corruzione della Roma de' suoi tempi, ne svela la cagione dicendo che in Roma "omnia turpia atque scelesta confluunt celebranturque" il che può ripetersi a buon diritto per la nostra Milano. In Parigi eziandio, la plebe è formata non solo dei déclassés della grande metropoli, ma per la maggior parte, dei provinciali, il qual fatto era già stato accennato da Jacque Sanguin, prevosto dei mercanti nel 1592 sotto Enrico IV. "La bonne ville de Paris renferme deux populations bien dissemblables et d'esprit et de coeur. Le vrai populaire, né et élevé à Paris, est le plus laborieux du monde, voire le plus intelligent; mais l'autre est le rebut de toute la France. Chaque ville des provinces a son égout, qui amène ses impuretés a Paris".

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Racconti, leggende e ricordi della vita italiana (1856-1857)

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D'Azeglio, Massimo 1 occorrenze

Ella sa che ogni cristiano crede che siamo tutti figliuoli dell'istesso padre, ricomprati tutti all'istesso prezzo, e che perciò le anime nostre, sien esse rinchiuse nella spoglia d'un principe, come in quella d'un mendico, tutte, senza eccezione di climi, di lingua, di colore, abbiano agli occhi del Creatore il valore e l'importanza medesima. Tutti credevamo cosí, e questa fede ci pareva trovarla scolpita in ogni pagina del Vangelo. Che vuol che gli dica? Pare che ora la cosa diventi per lo meno molto dubbia, a dar retta al suddetto apostolo... e, alla fine, anche lui, subito che è apostolo, ha diritto di parlare, ed avrà i suoi motivi. Ecco dunque invece come starebbe la cosa. Resterebbe sempre vero che la fede nostra è fondata sopra un riscatto, del quale siamo tutti partecipi; ma parrebbe necessario, onde questa fede potesse vivere, mantenersi e prosperare, che una frazione dell'umanità... poca cosa, badi! tre milioni d'uomini circa... si spogliassero, o piuttosto venissero spogliati dai loro fratelli di quest'eredità comune. Parrebbe - sempre secondo l'apostolo - che a tutti i cristiani si debba far giustizia ed usar carità indistintamente, e siccome ad usar questa carità e questa giustizia omo per omo è affare lungo ed incerto, perciò si sono inventate leggi uguali per tutti, appunto per prenderceli sotto tutti indistintamente: onde si può dire che questo complesso di leggi essendo ciò che con un solo vocabolo si chiama un governo, ne venga per conseguenza che l'espressione piú estesa, anzi piú completa ed assoluta della giustizia e della carità evangelica sia su questa terra un buon governo. L'apostolo dice dunque che a questo buon governo tutti i cristiani hanno diritto, e, secondo lui, nel buon governo articolo principale v'è il poter dire quel che si pensa ed anche scriverlo, se si vuole, senza che nessuno vi si metta tra' piedi: ed anzi, siccome pare che nel suo paese gli abbiano voluto misurar la chiacchiera ed accordarne un tanto per uno, una porzione competente che ci si possa campare - perché dice che là a non aver questo sfogo si muore - ma non di piú, e non permettere che la gente se ne prenda quanta vuole, bisogna sentirlo, l'apostolo, che razza di coroncina sfila a chi ha stabilito una tale misura! Ma questo lasciamolo da parte. Dunque, ad un'applicazione completa delle massime evangeliche, detta altrimenti un buon governo, tutti hanno diritto, salvo questi tali tre milioni. E, siccome il Vangelo non fa questa riserva, qui sta il bello del libro, che dovrebb'essere intitolato: Correzioni, ecc. come ho detto dianzi. Oh! perché mi vuol ella stabilire questi iloti nella cristianità? Badi, non son io che voglio; io non voglio nulla; è l'apostolo francese: e la ragione che ne dà a certuni pare fondata su uno di quei tali sillogismi che hanno bisogno del medico. Dicono, per esempio, che ammettendo pure la necessità di fondare questa fede sulla collottola di tre milioni di tribolati, la giustizia vorrebbe almeno che i 150 o 200 milioni d'uomini della medesima opinione che sono pel mondo si dividessero per tre, si dessero la muta, efacessero un po' per uno a portar in collo questa fede e le sue necessità - all'incirca come nei reggimenti si dividono fra i soldati i tours de corvée. Dicono altresí che per mantenere nel rimanente del globo questa fede col suddetto mezzo, che cosa succede? Succede che se prospera fra gli altri, muore etica presso que' tali tre milioni; perché, invece di far una traduzione libera del famoso Moriamur pro rege nostro, cc. de' Magiari, e mettervi fide nvece di rege, andano a far benedire la fede e chi le vuol bene, e pur troppo tutt'in un fascio il suo primo autore, e questo è il frutto piú spiccio di quella bella combinazione. Insomma ne dicono molte. Ma, ripeto, quando un apostolo parla deve avere i suoi motivi. Egli dice che il capo della fede ha bisogno d'esser libero di insegnare al mondo e guidarlo colla voce e coll'esempio. Cioé, deve potergli dire senza sindacati: ?Signori, questa è la teoria e questa è la pratica, prova che la teoria è buona!? e s'appoggia al seguente sillogismo, quello appunto nel quale parecchi vedrebbero la crittogama: - Una teoria buona, dopo una lunga e libera applicazione, deve produrre effetti buoni. Questi tre milioni (piú o meno) d'uomini, dopo una prova d'un migliaio d'anni, durante i quali l'esperienza s'è fatta colla maggior somma di autorità che si possa immaginare, quella cioé che obbliga egualmente l'anima ed il corpo; dopo questi dieci secoli, dico, i detti tre milioni sono riusciti i piú infelici, i piú corrotti, i piú rovinati di tutta l'umanità civile; dunque bisogna mantenerli come sono, onde il loro padrone possa esser libero di dire al mondo: - La mia teoria è la migliore di tutte; - e mostrarli come un esempio da invogliare chi non ne avesse assaggiato. Ora, questo sillogismo sarà sano, sarà ammalato; io non lo so e non lo voglio sapere. Se è sano, prosit; e è ammalato, vada pel medico; ma non lo prendo in cura io, perdio! Fosse aver da fare cogli apostoli d'una volta - Dio li benedica! - con loro si poteva discorrere. Chi li mandava, aveva loro date le istruzioni, come si fa sempre, ed in queste istruzioni - ancora ci devono essere in archivio - era detto che vedessero di persuadere la gente colle buone, e si preparassero ad esserne mal ricevuti e soffrirne di tutte le razze; a non dovessero opporre altre difese fuorché la pazienza e la dolcezza, perché trattandosi di persuadere e non di usar violenza, ci voleva mansuetudine e non livore; ma ora pare che abbiano domandate nuove istruzioni, che le abbiano ricevute e che ci sia - è vero che nessuno le ha vedute le nuove - tutt'un'altra canzone; che ci sia detto chiaro e tondo: - Tutte quelle dolcezze erano buone finché stavate fuor dell'uscio e bisognava farvi aprire: ma ora che v'hanno aperto e siete entrati, e, si può dire, siete diventati di casa, mutate registro; e il primo che vi guarda di traverso, mettetelo fuor dell'uscio lui; e non basta: dategli dietro e pigliatelo a sassi, e aizzategli addosso bestie e cristiani, senza lasciargli un'ora di bene, neppure quando sia nella bara, ecc., ecc. Un po' po' di bagattella! e vorrebbero che io me la pigliassi coll'apostolo! Io m'ingegnerò di campare, e campare in pace se piace a Dio, e di questi gatti a pelare non me ne piglio. Dunque? È mezz'ora che si discorre, ed un nuovo argomento da trattare ancora non è scappato fuori! Vuol che gliela dica? Nelle malattie del mondo, come in quelle degli uomini, ci son certe epoche dove a voler scrivere ricette, e dar ampolle e rimedi, si fa peggio. La meglio dunque è star zitto, o parlare di scioccherie senza conclusione. Via via, avevo cominciato dicendo che il mio solito argomento doveva venire oramai a noia, e invece, d'una parola in un'altra, che cosa si viene a scoprire? Sissignore; si viene a scoprire che l'uomo della situazione è il sor Checco Tozzi.

ARABELLA

663060
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Mauro Borrola gonfiò gli occhi, bestemmiò mezz'ora in padovan, girando per la casa in pantofole e in veste da camera: avrebbe voluto uscir subito a chiedere una soddisfazione d'onore a suo cognato o a Lorenzo; ma il nuovo Rosetter inglese ha questo difetto, che alle prime pennellate dà alla barba uno spiccato color violetto e la ricetta consiglia qualche giorno di chez soi , finché i bulbi non gli abbiano assorbito per capillarità il liquido ristoratore. Pensò di rimandare la cosa a un altro momento e di rifarsi in qualche altra maniera. La sua prima visita fu per l'avvocato Baruffa. Gli elementi della causa erano raccolti. Presto si sarebbe tenuta un'adunanza di tutti gl'interessati per procedere d'accordo contro il signor Tognino. Come avvisaglia di guerra, qualche giorno dopo, la Augusta consegnava in gran segretezza alla sua padrona la seguente lettera: "Illustrissima Signora, "Le molte pie persone che mi parlano bene del suo cuore e della sua pietà mi fanno animo a rivolgermi a Lei, illustrissima signora, per una questione in cui son persuaso Ella vorrà prendere la parte dei deboli e dei sacrificati. Per quanto sia difficile giudicare sulle apparenze intorno alle umane cose, pure voglio ritenere che il signor Tognino suo suocero sia veramente nel suo pieno diritto quando trattiene tutta per sé un'eredità di quattrocentomila lire, che ogni segno faceva sperare sarebbe andata ripartita non solo in pie istituzioni di carità, ma a sollievo eziandio di molti e bisognosi parenti che ne avevano ugual diritto. "Ma il sommo diritto bene spesso si riduce a ingiuria, a ingiustizia, e ciò accade tutte le volte che al bene di un solo si sacrificano i bisogni di cento e cento poverelli sofferenti, tutte le volte che si suscitano ire, odii, male passioni, querele che amareggiano la stessa ricchezza, turbano le coscienze, e caricano la responsabilità nostra di gravissimi conti. "Allo scrivere queste parole mi muove la persuasione che nulla è noto ancora alla S. V. Illustrissima di tutto ciò che si dice intorno alla eredità Ratta; ma poiché mi risulta da varie parti che nelle querele e nelle amare recriminazioni dei diseredati è ripetuto spesso anche il suo nome come quello di una complice dell'ingiustizia, a nome di antiche sue maestranze venerabilissime, vengo, sebbene a malincuore, a interessarla in una questione, in cui la sua non può essere che una parola di giustizia e di carità. "Io non so vedere quel che Ella potrà fare e dire a vantaggio dei poveri: ma fin d'ora mi lusingo di trovare in Lei una di quelle anime zelanti del bene, che non si acquietano nel dubbio e nell'incertezza. Parlando col suo signor marito e col suo signor suocero, Ella potrà mettersi in grado di ben giudicare se convenga per un eccessivo zelo del proprio diritto affrontare le conseguenze dell'odio e della vendetta, turbare le coscienze dei buoni cristiani, crearsi un fasto che riposa sui dolori altrui. Io non posso giudicare quanto vi sia di vero nelle voci che corrono, le quali accuserebbero il signor Maccagno di aver carpito quasi colla violenza un testamento che avrebbe dovuto sonare ben diverso. Solo l'occhio di Dio può scendere nell'oscurità e illuminarla. Ma posso quasi esser certo che la buona e pia allieva delle madri canossiane non vorrebbe accettare un soldo che non fosse consacrato dalle ragioni della giustizia e che nella contingenza in cui si trova, vorrà prestare l'opera e l'autorità della sua posizione di consorte e di figlia per avviare delle trattative, le quali conducano a una più giusta soluzione e ripartizione dei beni. "Posso fin d'ora comunicarle che a quest'atto di conciliazione è vivamente interessato anche Sua Eminenza l'arcivescovo di Milano, quale supremo tutore di tutte le pie Case che da una siffatta eredità credono d'essere state, non che danneggiate, ingiustamente lese nei loro diritti: e l'autorità di un tal nome dev'essere per l'animo suo pio e cristiano arra di giustizia e quasi uno stimolo di più a zelare l'opera della giustizia e della conciliazione, dalla quale essa non può ritrarre che benedizioni e frutti di santa edificazione. "Tosto che la sua preziosa salute glielo permetta, io riceverò di buon grado una sua visita al mio domicilio, ove potrò fornirle quegli altri schiarimenti che sarebbe troppo lungo esprimere per lettera. Intanto le raccomando la massima discrezione su questa mia ingerenza in una questione che non mi tocca, se non in quanto mi toccano tutte le questioni in cui è in giuoco il bene dei poveri e quello delle anime. "Col più profondo rispetto mi sottoscrivo pr. FELICE VITTUONE, pr. parr. ".

Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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Faldella, Giovanni 3 occorrenze

Per esempio, al Falcone , i camerieri portano ancora il berretto bianco, e la giacchetta bianca da cuochi, costume che credo abbiano già smesso persino i tavoleggianti della Croce Rossa al Santuario di Oropa. Per descrivere l'osteria di cucina, in cui sono entrato io, sento il bisogno di ritirare indietro la sedia dal tavolo, come dinanzi alla memoria di un raccapriccio e di un ribrezzo. Al fondo di uno stanzone unico, la lucciola di un lumicino ardeva davanti a un quadretto della Madonna; perché la Madonna a Roma la ficcano nelle osterie, nei caffè, in tutti i luoghi profani. Per l'aria circolava un tanfo fra l'odore delle pietanze e quello dell'acquaio. Le panche, le tavole mandavano un rumore, un sentore di pece, di tarli e di scricchiolii. Per dipingere tutto ciò si richiederebbe il pennello dell'ungherese Munckacsy. Il peggio era la compagnia. Fra male gatte era capitato il sorcio. Io, malgrado la mia faccia di sindaco galantuomo, correva rischio di parere alle guardie di pubblica sicurezza un reclutante di ladruncoli, e ai ladruncoli un agente di pubblica sicurezza travestito. Mi portano davanti un piatto di maccheroni intabaccati di formaggio biondo. Attraverso al fumo dei maccheroni e alle file di formaggio, vidi passare una forma non di cacio parmigiano, ma una forma muliebre. Non potei capire, se era una donna davvero, o un fantasma intellettuale, una di quelle spalle che Raffaello e Guido Reni mettono alle loro Madonne. Dopo i maccheroni mi portarono un pezzo di cinghiale. Quanti peli aveva e quanto lunghi! Ce n'era per una chioma di Assalonne. Frammezzo a quelle setole io vidi assiso di rimpetto a me un giovane ciociaro. Aveva una faccia gialla, di quelle che escono dalla porta degli ospedali e delle prigioni. In testa un cappello puntato, floscio e leggiero. E pure chi sa quale fatica, quanto rompimento d'ozio doveva costare a quel giovane il levare il suo cappello! Egli aveva le braccia allungate sul desco e le mani strette contro il petto sotto le pieghe del mantello, che gli avvoltolavano il collo e il busto. Sotto il tavolo gli si vedevano i piedi infingardamente immobili, i quali dovevano lasciare un'impronta sul pavimento allo stesso modo che la lasciano sull'asfalto di un terrazzo i vasi dei fiori con la loro giacitura fissa. Egli aveva mangiato, e non aveva di che pagare. Il garzone dell'osteria, un bel fusto di giovane romanesco, con il viso condito di quella malizia birbona che salta fuori dai sonetti del Belli, ronzava intorno a lui, e gli domandava di tanto in tanto: - E li cutrini? Il ciociaro rispondeva che qualcheduno o qualcheduna doveva venire a liberarlo e a pagare per lui. Intanto egli rimaneva ostaggio. Le mosche volavano ad infastidirlo, cercando di appiccicarsi alla sua faccia gialla da ammalato. Ed egli non aveva l'energia morale, e quasi nemmanco la volontà di muovere le mani per pararsele. Dimorava immobile nella sua positura e nella sua ignavia da modello. Solo oscillava, dondolava leggermente la testa dispettosa, sospettosa e dolorosa. E il liberatore o la liberatrice tardavano a venire. Il povero ostaggio boccheggiava per suo consumo delle parole di dolore selvaggio. Il garzone seguitava a domandargli di tanto in tanto con un sorriso: - E li cutrini? Sulla fronte del ciociaro passavano delle paure, delle lagrime, e forse anche delle stille di odio e di vendetta. Il vino padronale dell'osteria era buono; onde io ne domandai dell'altro per accompagnare un pezzo di cacio cavallo; vindicta fratrum , vendetta dei frati, i quali si attaccano al formaggio quando non hanno potuto fare un buon striscio di pietanze. Qualche mia lettrice, misericordiosa del ciociaro e della mia anima, dirà che avrei dovuto pagare subito io lo scotto per il poveretto e liberarlo. Veramente io ci aveva pensato: ma certe volte un'opera buona, benché voluta, è ritardata od anche impedita dal rispetto umano, dalla paura di fare una cosa secondo la rettorica che non si usa più, e contraria all'economia politica, che si usa troppo e proibisce l'elemosina - eccettuata l'economia politica del senatore Lampertico. E poi qualcheduno o qualcheduna doveva venire in aiuto di quel ciociaro. Uscii dall'osteria, quasi dicendo come il Nerone del Cossa: "Mi piace la taverna!". Come è diversa l'umanità, quando uno s'alza da tavola, e dal vino padronale! L'umanità balena più nitida, più lucente. Eppure, proferendo l'esclamazione neroniana, io mi sentiva contento di essermi distaccato dalla pancaccia di quell'osteria. Dimenticava volentieri la lanterna magica di crucci, che passavano sulla fronte del ciociaro ostaggio; e richiamavo nella mente le ideine e le figurine più gentili che mi erano capitate dinanzi nella vita. Ed andavo a rinvangare le più lontane, come giocando alla tombola si va a scovare nel fondo della borsa il numero più rincantucciato. Mi fermai ad un tratto perché la vista di una donna mi diede una emozione . Si stanno degli anni, senza che si creda tampoco che la vista di una donna possa commuovere. Io nell'anno passato aveva provato delle forti commozioni, per esempio, quando scadetti da consigliere e sentii che un forte partito di malcontenti mi voleva far saltare. E poi provai una famosa agitazione elettorale nell'ultima nomina di deputato. Io portava il conte Zampa contro l'avvocato Mastica: i due partiti facevano a pigliarsi di mano gli omnibus ; ed io rimasi una mezza giornata, una lunga mezza giornata con il raccapriccio di non aver omnibus sufficienti per i miei elettori. Ma niuna agitazione è paragonabile a quella che mi diede la vista di quella donna. Mi misi i due pollici nelle aperture del panciotto sotto le ascelle, e la osservai. Era la stessa donna miracolosa, che mi sono sentito passare dinanzi all'Osteria di cucina fra il fumo dei maccheroni e le file del formaggio.

Dai finestrini del carrozzone vedeva i rami degli alberi brulli come fili di ferro; vedeva i passeri scappare dagli alberi come foglie secche; vedeva i solchi dei campi, cascanti, rassegnati, logori, come solchi, che abbiano fatto il loro tempo: la terra quasi tutta color tabacco, con qualche po' di grigio e giallo marcio nei rimasugli delle stoppie, e con qualche scampolo di foglia o d'erba verde. Era un verde d'insalata, un verde della misericordia, un verde raggrinzito; inumidito, dimenticato - mortificato di trovarsi lì in quella stagione. La terra taceva e stava raccolta come dopo una sconfitta. Eppure quando la terra è ravvolta nel silenzio e nell'umiltà dell'inverno, essa, la modesta e brava donna, ci prepara le galanterie della vegetazione avvenire. Oh! io preferisco il modotenendi della signora terra, che parla poco ed opera assai, a quello dei collaboratori della Sciarpa Rossa, il poco lodato giornale di opposizione del mio mandamento, i quali si fanno sentire tutto il giorno a chiacchierare e a scribacchiare, e poi non sanno far altro di più importante, che guardare inutilmente l'albergatrice della Bella Venezia. Io non so passare davanti Milano senza fermarmici. Mi tira la faccia meneghina di quella città: mi piace sentire quel linguaggio aperto, spaccato, rovesciato, simile a un arco, a un popone maturo, pieno di accenti gravi e circonflessi. Feci pertanto una tappa a Milano; dove gli affreschi delle nuove palazzine hanno finzioni traditrici di ombre e di prospettive, da ogni liquorista si può trovare un poeta, o un romanziere o un artista che anderà ai posteri, e dove però le insegne e le iscrizioni pubbliche hanno una libertà di eleganza tutta loro propria; verbigrazia: Sostraio di pietre. - È proibito il passaggio a cavalli, muli, e ruotanti di ogni specie; - e dove sulle portiere degli avvocati è scritto ingenuamente: Avanti! Mentre guardavo ammirato i nuovi portici che girano intorno alla Galleria Vittorio Emanuele, ed i nuovi negozii, in cui le lastre di cristallo sfolgorano e riescono una sfida e una sgomento alle borse, il segretario comunale di Monticello, che volle accompagnarmi nel viaggio, guardava il Duomo. E sentite che bestemmia di idea gli fermentò nella mente, ideaccia, che egli non ebbe paura di palesarmi: - Guardi, signor sindaco! Dopo i palazzi, i portici, e i negozi nuovi, oh guardi il Duomo! Come diventa mai vecchio e imbecille! Una volta pareva una pineta di marmo, in cui i pini avessero un po' di vita e si movessero. Invece adesso il Duomo se ne sta lì rimminchionito, tutto in un mucchio, in un gruppo, carico di gromma e di ruggine. Pare un istrice raggomitolato, pieno di sospetti e di invidia per la Galleria Nuova, e per la sua cupola giovane di vetro, che di sera illumina persino il cielo, mentre esso, il vecchio, si accorge di spegnersi. Voglia sentire, signor sindaco, una mia profezia. Nella stessa maniera che adesso hanno atterrato e seguitano a buttar giù delle case, ed allargano la piazza per fare piacere al Duomo, scommetto che i posteri finiranno con buttare giù il Duomo per rendere più larga e più pulita la piazza! Io tappai con la mano la bocca al segretario, e minacciai di sospenderlo, se avesse seguitato a bestemmiare. Sulla piazza del Duomo si diroccava un vecchio casamento. Certe camere mostravano bruscamente il loro spaccato. Oh! come mi faceva pena vedere la tappezzeria o il camino di una stanzuccia, destinati al raccoglimento, alle conversazioni, al pranzo e ai misteri di una famiglia, vederli, dico, esposti al pubblico della gente, del sole e delle intemperie. E nel punto di spazio occupato da quel piano superiore, che si incammina a scomparire, forse non pranzerà e non chiacchiererà più nessuno! Da Milano andammo difilati a Venezia.

Chi sa che i bersaglieri e le Belle Gigogin dei nostri artisti di adesso, fra qualche paio di centinaia di anni, non abbiano a far gola alle Prussie e alle Russie, e servano a pagare i nuovi debiti, che allora avrà lo Stato! Io avrei fulminato, avrei incendiato quell'Erostrato di un segretario comunale: ma per non fare una scena, che chiamasse l'intervento di una guardia civica, mi contentai di piantarlo su due piedi e di spedirlo a far colazione da solo.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675731
Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Privilegio dello schiavo è la congiura e pochi sono gli italiani di tutte le epoche del servaggio del loro paese i quali non abbiano congiurato. E poiché il dispotismo dei preti è il più esoso di tutti, il più degradante ed infame, si può tenere per certo che il cospirar dei Romani dati dal dominio di questi impostori. La notte dell’8 febbraio era in Roma notte di congiura. Convegno il Colosseo; perciò Attilio dopo aver pedinato quel messo di delitti che si chiamava il Gianni, anzi che avviarsi alla sua casa prese la via di Campo Vaccino.

«Io torno alla comitiva, disse Muzio, m’intenderò col solitario acciocché devii la passeggiata per altra parte perché Irene ed Orazio non abbiano ad abbattersi nella salma del loro caro. Ti raggiungerò poi con Gasparo».

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676074
Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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«Tanto mi tengo in debito di affermare ai presenti ed ai lontani, e non dubito punto che le mie parole abbiano a trovar fede presso gli onesti di qualunque partito. L'EX PROPOSTO BERRETTA». - Nobili parole, degne del suo gran cuore! - esclama, tergendosi le lagrime, un meneghino, che il giorno innanzi avea spedita al Gran Proposto la sua cartolina di ostracismo Volgiamoci all'altro proclama, e vediamo con quali formole il Capo di Sorveglianza annunzii la propria dimissione: «Cittadini ladri, truffatori, manutengoli, barattieri, furfanti d'ogni specie che costituite la maggioranza della Società umana: «Esultate! Ciò che era nei vostri voti si è compiuto; la dimissione di sua Eccellenza Riveritissima il Gran Proposto Terzo Berretta implica necessariamente la mia. «Il benemerito dicastero di sorveglianza pubblica rimarrà per uno o più giorni senza capo. «Cittadini ladri, truffatori e furfanti di ogni specie, esultate! ve lo ripeto. E frattanto, i pochi galantuomini - se è pur vero che ve ne abbiano, ciò che a me non consta positivamente - badino alle loro tasche ed alle serrature dei loro forzieri! «Il mio successore, entrando in carica, vedrà che durante la mia gestione tutto ha proceduto con ordine e con giustizia. Con quale accortezza e tenacità io abbia lottato per oltre venti anni contro la ribalderia umana, apparirà evidentemente dai registri e dai tesseri che io lasciai negli uffizii. Se non che - lo confesso con immenso rammarico - in questi ultimi tempi la mia e l'attività indomabile de' miei subalterni riuscì in molti casi impotente. Già da oltre mezzo secolo, quei nostri famigerati utopisti che ripetevano la frequenza dei crimini dall'analfabetismo delle masse, hanno dovuto convincersi che l'istruzione universale ha quadruplicato il numero dei falsarii e dei ricattatori. Più tardi, la scienza medica e farmaceutica appresa a tutti indistintamente i cittadini della Unione, moltiplicò gli avvelenatori e gli assassinî domestici. Le locomotive aeree agevolarono le contumacie dei bricconi e favorirono la impunità. La sistemazione e applicazione pratica delle forze magnetiche produsse abbominazioni che fanno inorridire. «A questi, sempre crescenti ausiliarii della iniquità e della corruzione, i governi opposero una resistenza in fino ad oggi abbastanza efficace. Nelle nostre mani le nuove armi fornite dal progresso alla depravazione ed alla colpa divennero una forza riparatrice. La nostra sorveglianza dalla terra e dal mare si estese alle amplissime regioni dell'aria. Abbiamo non pochi esempi di grandi ed audacissimi malfattori, catturati dai nostri agenti a poca distanza dalla luna. «Ma qual pro' da questa caccia affannosa e piena di pericoli? Noi inseguiamo il calabrone malefico, lo afferriamo, lo rechiamo trionfanti, esultanti, sul banco della giustizia, acciò questa si prenda il bel spasso di aprirci il pugno per ridonare il captivo al libero esercizio de' suoi perfidi talenti. «Tante grazie, signori riformatori del Codice penale! ... Ma non vi par tempo di finirla con questa buffoneria che si chiama il Ministero di Sorveglianza pubblica? A che serve lo inseguire, il catturare dei delinquenti, mentre alla giustizia più non rimane alcun serio mezzo di punizione? «Nei secoli addietro, allorquando a migliaia a migliaia i galantuomini, o dirò meglio, gli impregiudicati, morivano di fame, un cotal Beccaria finse di intenerirsi sulla sorte degli assassini appiccati alla forca. Tutti i filosofi dell'epoca fecero eco alla nenia, e la canaglia (ciò si comprende) proclamò il Beccaria altamente benemerito della Società umana. «La pena di morte venne col tempo abolita; tanto è vero che tutte le idee, anche le più strane e più esiziali, seguono il loro corso di rotazione e a lungo andare si traducono in fatto. I briganti, gli aggressori di strada, gli avvelenatori, i parricidi arsero dei ceri alla statua grottesta di Beccaria(23).

- L'altra sera, conversando con maestro Umbold quarto io gli ho proposto la questione se sia presumibile che nel secolo passato i fiori avessero colori, fragranza od altra proprietà che in oggi non hanno; non potendo io concepire come i nostri avi abbiano potuto deliziarsi nel fetore dei loro tabacchi! - Le leggi di natura sono immutabili - mi rispose il maestro - perché sono perfette. Ai nostri padri come a noi la primavera offeriva ogni anno le sue rose olezzanti, i ligustri, le viole, i gelsomini ... Il profumo del bene esalava dai campi, si spandeva nell'aria e penetrava nelle cose dell'uomo, per adescarlo a seguire il buon cammino - e l'uomo aspirava l'infezione del tabacco, e si avvelenava il sangue e l'intelletto coll'absinzio e coll'acquavite. - E credi tu, Viola, che a quei tempi esistesse la santa virtù che si chiama l'amore? - Io credo che l'amore abbia sempre esistito nel mondo - e che a lui si debba ogni sviluppo delle umane perfezioni. Io mi sento orgogliosa di essere donna - perché ritengo che, nei barbari tempi dell'abbrutimento universale, la donna abbia sempre conservata e alimentata la favilla della carità. Quando tutte le case erano ammorbate di tabacco, e tutti gli uomini imbestialiti nella crapula, o peggio ancora, mummificati dall'egoismo, o fatti macchina dalla cupidigia dell'oro - tutta la poesia del creato si rifugiava nel cuore di poche donne, angioli predestinati al martirio, che viveano per amare e morivano per aver troppo amato. - Oh! io non avrei potuto amare quei rozzi e balordi animali d'allora - disse Fidelia ridendo. - Ti giuro, o sorella, che se io fossi vissuta nel secolo scorso, piuttosto che lasciarmi baciare da un uomo ... Che orrore! Uomini che all'età di trent'anni non avevano più denti in bocca, né capelli sulla nuca! Questa ingenua sortita di Fidelia portava la conversazione sopra un tema favorito. Ragionando di quella misteriosa e gentile aspirazione dei giovani cuori, di quel bisogno imperioso dei sensi che è l'amore, le tre donne divennero eloquenti.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Penso che molti cuori diciottenni abbiano avuto in Italia, in quei giorni, la stessa illusione e abbiano sposato un garibaldino non potendo sposar Garibaldi ... - Per copia conforme, - e la vecchia signora sorrise, col suo bel sorriso giovanile - per copia conforme: può darsi anche questo ...

Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Ho fatto questo libro con questi intendimenti, e ho voluto scrivere sulla prima pagina il vostro nome, e per mostrarvi quanto io senta il pregio dell'onore conferitomi e perché voglio dedicare a voi uno scritto, in cui mi adopero con tutte le mie forze a far sì che gli Italiani abbiano ad essere più robusti e più onesti; perché abbiano ad edificare sulla base tetragona della salute e dell'onestà un edifizio splendidissimo di ricchezza e di gloria. Vorrei essere un grande artista della penna per potervi dire: ho scritto il vostro nome e il benefizio vostro sopra un libro forse che non morrà; ma invece mi accontento di dirvi che l'ho scritto sopra un libro utile e morale. Vivete sani e amatemi. San Terenzo (Lerici), 27 luglio 1868

LA GENTE PER BENE

678069
Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 1893
  • F. A. Brockhaus - A. Asher e C.- Veuve Boyveau - Ernesto Anfossi
  • prosa letteraria
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Essi si vergognano dell'amor coniugale, sia che abbiano parecchie mogli, sia che ne abbiano una sola, e lo nascondono come una spudoratezza. Lessi nel Constantinople i Theophile Gauthier che la moglie d'un console francese a Costantinopoli, conoscendo questa debolezza, ed essendo donna di molto tatto, nel presentare delle stoffe da signora, ad un personaggio illustre del paese, gli disse: * Voi saprete a che uso destinarle. Sapeva che lo avrebbe fatto arrossire e confondere nominandogli sua moglie. Conosco parecchi mariti, non molti per fortuna, che, sotto questo rapporto, potrebbero passare per Turchi. Ho delle conoscenti (tanto gentili che mi perdoneranno di vedersi accennate qui) che vedo da parecchi anni, e non so tuttavia che viso abbiano i loro mariti. Esse mi dicono:. * Mi scuserà, marchesa, mio marito è un uomo serio; non fa visite.... * Si figurino, se lo scuso, poverine! Ma loro, signori uomini seri, credono veramente che vi sia più serietà nel mancare de' riguardi elementari verso le conoscenti della loro sposa, che nel mostrare, accompagnandola almeno una volta da ciascuna, che la curano abbastanza per volere sapere dove va, e con chi tratta? Via; la mano sulla coscienza; lo credono davvero? Così accadrà loro d'incontrare per la strada delle signore che la loro moglie vede ogni settimana, a cui dà del tu, e non le saluteranno. E quelle signore non diranno certo: * È un uomo serio; è occupato di cose troppo gravi ed alte per curarsi di noi.... Punto, signori miei; me ne duole pel loro amor proprio; ma le ho udite molte volte dire con un sorriso che non era d'ammirazione: * È il marito della signora tale. Uno screanzato. Non conosce neppure le relazioni di sua moglie, poveretta! Io mi rallegro coi nostri uomini, che non passino la loro giornata metà ad azzimarsi, e l'altra metà in visite galanti, come i cavalieri serventi dell'altro secolo. Ma da un eccesso all'altro ci corre; ed almeno una volta all'anno, come il minimum ella confessione, un marito dovrebbe fare una visita a tutte le relazioni di sua moglie. Nelle famiglie modeste che hanno due, tre persone di servizio al più, alle volte anche una sola, la moglie si trova nel caso di rendere al marito una quantità di piccoli servigi; preparargli tutto l'occorrente quando deve vestirsi, provvedergli i piccoli oggetti di toletta, fargli trovar pronta la colazione, servirgli il caffè, o una bibita d'abitudine, fargli, a pranzo, l'improvvisata dei piatti che preferisce, cucirgli la biancheria, ecc., ecc. Queste cose per la moglie possono essere una delizia che tiene luogo d'ogni altro piacere o possono venirle a noia al punto da trascurarle o farle di mala voglia. Tutto dipende dal compenso che ne riceve. Se il marito non dimentica mai che la moglie è sua uguale, che è debole, che ha bisogno da lui il coraggio che le manca per affrontare le piccole e grandi miserie della vita, accoglierà quei servigi intimi e affettuosi come altrettanti favori, e li compenserà con una buona parola, con un ringraziamento, con qualche elogio. Oh, se lo sapessero tutti gli uomini, che largo compenso possono dare con una parola amorevole e cortese! Ma se tutto quello che fa è ricevuto in silenzio, come un tributo che lei deve per obbligo al suo signore e padrone, se lui non si dà la briga di mostrare che avverte le sue cure e le apprezza, anche la moglie più devota si stanca, e pensa: * A cosa serve? Da questo derivano le tante piccole mancanze, i bottoni staccati, i guanti scuciti, il pranzo in ritardo e poco accurato, e talvolta il disamore della casa nella moglie, il malcontento nel marito, la tristezza in famiglia, la pace perduta. Perchè? Per un'inezia. Perchè il capo di casa, che deve dare l'esempio del modo di vivere, ha dimenticato che nè l'affetto nè l'intimità non dispensano dalla cortesia. Perchè ha lasciata andare a poco a poco la buona e dolce abitudine della gentilezza, ha preso a trattare in casa come non tratterebbe fuori, e, senza avvedersene, è arrivato ad essere quasi inurbano, a ricevere un atto gentile senza ringraziare, a lasciar parlare senza rispondere o a rispondere con asprezza se non è di buonumore, o a rimproverare senza tutti quei riguardi di delicatezza che si devono ad una signora, la quale, al pari di lui, è padrona di casa. Un capo di casa deve insegnare alla famiglia il rispetto dovuto alla propria moglie. A lei deve il primo saluto entrando in casa; a lei deve offrire prima i piatti in tavola, e lasciare la destra al passeggio ed in carrozza, ed uscendo insieme, di sera od in campagna, deve offrirle il braccio, ed usarle tutte le attenzioni che userebbe ad un'altra signora. Se vi sono dispareri tra loro, se deve farle qualche osservazione, avrà cura di chiamarla in disparte e di risparmiarle qualunque umiliazione davanti alle persone di casa anche alle più intime, anche ai suoi genitori. Deve tener conto delle sue delicatezze di donna, e neppure le piccole critiche sopra un abito o una pettinatura, non deve farle presente a terzi per non obbligarla ad arrossire. Una volta sarebbe cascato il mondo se una signora avesse fatto un viaggio da sola. Allora il marito doveva sempre accompagnare la moglie in viaggio, e da ciò risultava che si viaggiava pochissimo. Ora la grande facilità dei mezzi di trasporto, la maggior istruzione, che va abolendo una quantità di pregiudizi, hanno reso il viaggiare assai comune, e gli uomini che hanno delle occupazioni possono, senza essere ineducati, lasciare che la moglie vada sola da un paese all'altro, se le circostanze lo esigono. Ma, per carità, non spingano la fiducia fino all'indifferenza. Il marito deve mostrarsi interessato dell'itinerario del viaggio, dell'orario più o meno comodo; deve accompagnare la signora alla stazione, non abbandonarla prima d'averla veduta a posto nel vagone, risparmiarle tutte le noie del bagaglio, del biglietto di ferrovia, ecc., raccomandarla a qualche conoscente pel viaggio se è possibile, ed assicurarsi bene che sia aspettata dove giunga. Se la signora va ai bagni o alle acque, deve scrivere lui stesso al medico o al proprietario dello stabilimento per avvertire dell'arrivo, e raccomandare che si usino a sua moglie tutti i riguardi possibili. Ed al suo ritorno deve trovarsi ad aspettarla alla stazione, se non foss'altro perchè i compagni di viaggio, dei quali ha potuto attirare l'attenzione, vedendola andare sola come la donna di nessuno, non facciano sul suo conto giudizi temerari. Vi sono mariti che non si dànno nessuna di queste brighe, e cercano di scusare la loro trascuranza dicendo: * Ho troppa stima di mia moglie per aver bisogno di curarla. So che sa regolarsi bene da sè. Questo eccesso di stima tradotto in buon volgare vuol dire: * Non credo che valga la pena di custodirla: non me ne curo. Le donne, signori miei, hanno la loro parte di amor proprio. Preferiscono un Otello che le strangoli, ad un marito placido che le stimi a quel modo. Una moglie che viene abbandonata a se stessa è come un gioiello che si lascia sopra una tavola d'anticamera, coll'uscio aperto. Non importa che venga rubato, o si giudica talmente privo di valore, da non poter attirare nessun ladro. E qualche volta il bisogno di affermare il proprio valore al marito, che non lo riconosce, induce la moglie a lasciar venire il ladro. Quando una signora va ad un ballo il marito deve accompagnarla; e se non può farlo, deve persuaderla a rinunciarvi anche lei. Soltanto nel caso in cui vi fossero delle figliole grandi, per non privarle di quel divertimento tanto caro alla loro età, se anche il capo di casa è nell'impossibilità di accompagnarle, potrà permettere alla moglie d'andarvi colle signorine, purchè vi sia un fratello maggiore, o un parente a cui affidarle. Se una signora ha una serata per ricevere il marito dovrà trovarsi in casa almeno una mezz'ora, tanto da mostrare che gradisce la presenza degli ospiti in casa sua, e non si considera estraneo alle conoscenze della sua signora. Giungendo in campagna dove la moglie passa l'estate, o tornando da un viaggio, chiunque siano le persone che si trovano al suo arrivo la prima a salutare sarà sempre la moglie, poi i figli. Uno che credesse di mostrarsi cortese salutando prima i forastieri, mostrerebbe che la sua cortesia è superficiale e non ha radice nel sentimento. E si farebbe torto, perchè, credano signori lettori, per quanto queste possano sembrare semplici formalità o leggerezze, la vera cortesia è strettamente legata ai sentimenti di umanità. Non c'è atto cortese che non s'inspiri ad un buon sentimento. Non c'è scortesia che non ferisca qualche cuore. Un amico che ci trascuri, che non ci visiti, che non ci scriva a tempo, che ci manchi di un riguardo, non possiamo considerarlo un uomo superiore che non si curi di quegli atti gentili perchè li crede pure formalità, e si riservi a dimostrare la sua amicizia nelle grandi circostanze. Le grandi circostanze, il caso di buttarsi nell'acqua o nel fuoco per salvarci, o di scendere in campo chiuso a spezzare delle lancie in nostro favore non accadono mai; quasi tutti si traversa la vita senza trovarsi nel caso di mettere un uomo a quella prova eroica. Ma si può apprezzarne ogni giorno la sua gentilezza d'animo, nelle piccole cortesie, e si può soffrire ogni giorno della sua rozzezza nelle scortesie che non sono mai piccole. E non serve la scusa pretenziosa ed assurda alla quale alcuni si aggrappano: * Sono un originale! Saranno originali, sì, ma brutti originali ed è da desiderare che non abbiano copie. Del resto, quegli originali là non saranno quelli di certo che mi avranno fatto l'onore di arrivare fino a questa pagina 230 del mio libro; ed è per questo appunto che ho intitolato il capitolo: Parole al vento. Quanto agli altri, agli uomini gentili di animo e di modi, se l'hanno letto, e se vi hanno trovato qualche cosuccia di buono, raccomandino il mio lavoro alle loro mamme, alle loro spose, alle loro figliole; ed io, che apprezzo ed ambisco l'approvazione delle graziose lettrici, ne sarò riconoscente "Finchè il sole Risplenderà sulle sciagure umane." Se al contrario non vi hanno trovato nulla, proprio nulla, che metta conto d'esser letto, non lo dicano a nessuno; non mi tolgano la simpatia delle signore, che ne' miei pochi lavori mi sono studiata di guadagnare, e di cui vado superba. Che male ho fatto infine? Un libro inutile? Dappoco? Una sciocchezza? Ma pensino che se si avessero a punire tutti quelli che hanno scritto delle sciocchezze, più di mezzo mondo ne patirebbe, perchè, come tutti sanno, "Les sots, depuis Adam, sont en majorité."

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 2 occorrenze

Dicono che queste vecchie tele abbiano valore. Io preferirei, se fossi Napoleone, una botte di quel vino soave che beve il Papa! Anche questi libri vennero presi in Vaticano. Pesano quintali e non capisco il valore che hanno. Gli si stringe il cuore. Bottino italiano che va all'estero. Le cose più belle d'Italia che vanno a finire a Parigi. Povera Italia! egli prova un dolore infinito, come se gl'i avessero catturato!a mamma; povera vecchia mamma: riposa da anni nel camposanto! sé glie l'avessero derubata, portandole via i vestiti ed i pochi gioielli, per adornare con quelli una donna, che gli era stata sempre nemica, che egli doveva odiare. Bottino italiano! Non hanno preso a lui quelle cose; le hanno prese a Roma, e Roma è Italia, come è Italia Venezia. Loreto. Firenze. Siena e le cent'altre città, che il francese possiede, che il francese saccheggia. I carri sono senza numero: sono dieci, venti, trenta quaranta almeno: tutti sì onusti che stentano a procedere. I quadri ne soffrono. Arriveranno, in parte guasti al destino. E poi il carradore gli narra di certi scartafacci buttati via lungo la strada, per alleggerire i carri; di certi volumacci bruciati di notte per mancanza d'i combustibile e coi quali era stata preparata la cena: di qualche quadro di minor mole venduto. Ve ne erano tanfi quadri sui carri; nessuno li aveva contati, nessuno li avrebbe numerati. Uno di più, uno di meno. Ed egli piangeva su tanto sperpero, su questi danni incalcolabili, e pensava che quei furti erano in buona parte inutili, perche non giovavano neppure alla Francia; parte del bottino veniva sciupato per via. Povera Italia I E nessuno alzava la voce alla sua difesa. Ma che cosa è quella vettura, che avanza in rapida corsa? E cosi semplice, cosi umile; viene trascinata da due cavalli veloci, cambiati all'ultima posta e agli sportelli cavalcano due dragoni francesi. I carradori piegano le ginocchia e tendono le braccia verso la vettura. Egli vede in quella tre uomini, due preti, in veste nera, uno dei quali dal volto cereo, spiritualizzato, colle stimmate di un dolore infinito, mentre di fronte a loro siede un ufficiale francese, serio, duro, istecchito. ? Ch'i? domanda. ? Il Papa. Egli pure s'inginocchia, tende le braccia verso la carrozza e grida: ? Santo Padre, beneditemi. Un soave sorriso abbellisce le pallide labbra del vecchio prete dai dolcissimi lineamenti; ed egli alza la scarna destra benedicendo, mentre l'ufficiale francese fa un gesto di rabbia; è sdegnato delle riverenze che dovunque si fanno al Papa, dell'entusiasmo che desta. fi Papa vien condotto prigioniero in Francia, perché non ha voluto piegarsi all'onnipotente volontà di Napoleone; perché lui, unico sulla terra, gl'i ha saputo resistere in nome della Chiesa e del popolo; perché ha osato ricordare a Napoleone, che egli pure ha il suo superiore, quel Dio, al quale tutti devono rendere conto del proprio operato. I carradori gli parlano con entusiasmo del Papa. Sono italiani e perciò apprezzano il gran Pio; e gli raccontano di un altro Pio, che riposava nell'umile cimitero di Fontainbleau, dove era stato tenuto pure in dura prigionia, per non aver voluto piegarsi avanti a Napoleone, tradire la causa della Chiesa, dei fedeli di Roma e degli italiani Procede a lungo, silenzioso, meditando quanto ha visto e udito; e corregge sempre più antiche idee inveterate, che ora vede in tutta la sua falsità; sempre più si convince, che la Chiesa è la sola vera amica d'Italia; che essa sola la ha aiutata in tutti gli eventi e nelle maggiori necessità; che quando il mondo intero tradiva il popolo, abbandonava le masse e non si curava d'Italia, la Chiesa era là, vigile alla loro difesa...

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Egli è stato sempre un padrone molto crudele; non ha mai avuto compassione di loro; non può chiedere, che essi abbiano ora compassione di lui.

Pagina 23

L'altrui mestiere

680213
Levi, Primo 4 occorrenze

Crede che le abbiano fatto la fisica, come dicono qui; o che Dio l' abbia punita per i suoi peccati. Del resto, la gente è crudele: quando passa per strada, la segnano col dito, le ridono dietro, e lei se ne accorge. Quanto ai due uomini, li ho convinti che per loro la cosa migliore era che si togliessero di mezzo fino a guerra finita; così sono andati con i partigiani, ma in due bande diverse".

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Non è strano che un poeta come Gozzano ("l' amico delle crisalidi") studiasse e amasse con passione le farfalle: è strano, anzi, che così pochi poeti le abbiano amate, dal momento che il trapasso dal bruco alla crisalide, e da questa alla farfalla, proietta accanto a sé una lunga ombra ammonitoria. Come le farfalle sono belle per definizione, sono il nostro metro della bellezza, così i bruchi ("entòmata in difetto", li diceva Dante) sono brutti per definizione: goffi, lenti, urticanti, voraci, pelosi, ottusi, sono a loro volta simbolici, il simbolo del rozzo, dell' incompiuto, della perfezione non raggiunta. I due documentari che accompagnano la mostra ci fanno vedere, col portentoso occhio della cinepresa, quanto pochissimi occhi umani hanno potuto vedere: il bruco che si sospende nella tomba aerea e temporanea del bozzolo, si muta in crisalide inerte, ed esce poi alla luce nella forma perfetta della farfalla; le ali sono ancora inette, deboli, come carta velina stropicciata, ma in pochi istanti si rafforzano, si tendono, e la neonata prende il volo. È una seconda nascita, ma insieme è una morte: chi si è involato è una psiche, un' anima, e il bozzolo squarciato che resta a terra è la spoglia mortale. Negli strati profondi della nostra coscienza la farfalla dal volo inquieto è animula, fata, talvolta anche strega. Lo strano nome che essa porta in inglese (butterfly, la "mosca del burro") rievoca un' antica credenza nordica secondo cui la farfalla è lo spiritello che ruba il burro e il latte, o li fa inacidire; e l' Acherontia Atropos, la grande notturna nostrana con il segno del teschio sul corsaletto che Guido Gozzano incontra nella villa della signorina Felicita, è un' anima dannata, "che porta pena". Le ali che l' iconografia popolare attribuisce alle fate non sono ali pennute di uccello, ma ali trasparenti e nerate di farfalla. La visita furtiva di una farfalla, che Hermann Hesse descrive nell' ultima pagina del suo diario, è un' annunciazione ambivalente, ed ha il sapore di un sereno presagio di morte. Il vecchio scrittore e pensatore, nel suo romitaggio ticinese, vede levarsi in volo "qualcosa di scuro, silenzioso e fantomatico": è una farfalla rara, un' Antiopa dalle ali bruno-violette, e gli si posa su una mano. "Lenta, al ritmo di un respiro tranquillo, la bella chiudeva e apriva le ali di velluto, tenendosi aggrappata al dorso della mia mano con sei zampette sottilissime; e dopo un breve istante sparì, senza che io ne avvertissi il distacco, nella gran luce calda".

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Che un pensionato o una pensionata abbiano il diritto e il bisogno di una attività nuova, disinteressata e divertente, è oggi acquisito: ci sono ormai agenzie turistiche, stazioni climatiche e alberghi che lavorano solo per gli anziani. Per gli anziani che intendano sottrarsi a questo larvato sfruttamento, o che non abbiano i mezzi per fruirne, propongo uno sport domestico che ho sperimentato, che non presenta pericoli, non costa quasi nulla ed è alla portata di tutti. Per esercitarlo basta un dizionario; esso consiste nell' andare alla ricerca di quei nomi comuni che erano in origine nomi propri, nomi di persona, e che poi, per qualche motivo, hanno perduto l' iniziale maiuscola. Ma, perché il ritrovamento sia valido, occorre che, nella coscienza di chi parla, il nome proprio originario sia cancellato, sopraffatto dal nome comune finale. Si tratta, insomma, di andare per minuscole, allo stesso modo come si va per funghi. Mi spiego subito con un esempio. Leggendo non so più quale romanzo sono caduto sulla parola siluetta, condannata dai puristi come inutile francesismo, che avevo probabilmente incontrata chissà quante altre volte senza che mi provocasse né curiosità né sintomi di intolleranza. I puristi suggeriscono di sostituirla con sagoma, profilo, contorno, figura; non sono un purista, e se ne avrò l' occasione, o se me la procurerò, scriverò tranquillamente siluetta, o tutt' al più risalirò alla forma francese originaria silhouette, perché il termine mi piace. È una parola che dipinge: è snella e leggera, affusolata (forse perché viene inconsciamente associata al siluro, o al francese sillon?), ed ha tutta l' aria di un grazioso diminutivo femminile, prezioso per descrivere, ad esempio, il corpo di una bagnante adolescente che si staglia contro il cielo tuffandosi da un trampolino. Diminutivo di che cosa? Diminutivo di nulla. Non è un diminutivo, non è femminile che in apparenza, non ha niente a che vedere con siluro né con sillon, e l' iniziale minuscola è un artefatto. Su qualsiasi vecchio "Larousse" si può trovare la vera storia di *étienne de Silhouette, di Limoges, ispettore generale delle dissestate finanze francesi nel 1759. pare che avesse eccellenti intenzioni ma mano pesante: ossessionato dall' austerità, emanò decreti talmente frettolosi e cervellotici da rendersi subito impopolare, tanto che il re lo esonerò dal suo incarico solo pochi mesi dopo averglielo affidato; forse anche perché l' incauto funzionario aveva proposto di ridurre gli stessi appannaggi della famiglia reale. Di lui si occuparono i fogli satirici, e su lui si coniarono barzellette, proverbi e modi di dire. Si cominciò col definire "fatto à la Silhouette" qualunque decreto approssimativo, goffo o sciocco; poi si designò così qualunque oggetto male adatto alla sua funzione o disegnato con troppa parsimonia, e si dissero in specie "fatti à la Silhouette" i ritratti ridotti al solo contorno. Si finì col chiamare silhouette il contorno stesso, e per questa lunga via, persa per tutti i secoli l' iniziale maiuscola, l' ispettore passò paradossalmente alla storia non già a dispetto della sua balordaggine, ma grazie ad essa. Tuttavia, non c' è dubbio che se il suo nome fosse stato meno elegante questa evoluzione sarebbe stata diversa o sarebbe finita prima. Non è questo il solo caso in cui la minuscola viene a perpetuare una fama negativa: viene detto correntemente un quisling chi collabora con l' oppressore del proprio paese offrendoglisi come governatore, e così verrà detto ancora quando nessuno ricorderà più Vidkum Quisling, il traditore norvegese della seconda guerra mondiale. Ma di regola la perdita della maiuscola iniziale è un omaggio alle virtù o all' ingegno del titolare. I mecenati di ogni tempo e luogo mantengono viva da quasi due millenni la fama di Mecenate, il dotto amico di Orazio e Virgilio. Per tutte le massaie del mondo, il nome di Justus von Liebig, famoso e versatile chimico tedesco, è legato all' estratto di carne, di cui è addirittura diventato sinonimo: il lièbig è nome comune di cosa. Il fatto non è privo d' ironia: Liebig fu un pioniere in tutti i campi della chimica pura ed applicata; è certamente uno dei padri fondatori della chimica moderna; eppure il suo nome va associato al suo unico successo di natura commerciale, anzi, poco meno che speculativa: in realtà, per ottenere l' estratto di carne dalla carne occorrono piuttosto capitali che spirito inventivo o dottrina. Del resto, i manuali del mio mestiere precedente brulicano di nomi già propri ed ora comuni, o usati come comuni: il kipp, il bunsen, il buchner, il soxhlet, oggetti ingegnosi nati nei laboratori chimici del secolo scorso, che godono della dignitosa semi-eternità che è stata negata ai loro inventori. Chi ricorda più il professor Soxhlet, chimico medico e filosofo moravo? È cenere da più di mezzo secolo, ma il geniale estrattore da lui ideato ("il soxhlet") lavora ancora oggi in tutti i laboratori, con quel suo ritmo lento, intermittente e silenzioso che lo fa simile ad un organo del nostro corpo. Ho provato, lo accennavo prima, il palpito allegro di chi trova un bel porcino quando ho appreso che i derrick, cioè quei tralicci metallici che servono a perforare il terreno per trovare ed estrarre il petrolio, traggono il loro nome da quello del signor Derryck, boia a Londra nel Cinquecento: era innamorato del suo mestiere, ed aveva inventato una forca di modello nuovo, in traliccio, alta e snella, che si vedesse bene di lontano. Questa trouvaille mi ha affascinato a tal punto che, in uno dei miei libri, le ho costruito intorno una storia. Il caso è significativamente parallelo a quello della ghigliottina, inventata dal dottor Guillotin, a quello dei fucili chassepot ed a molti altri: in ogni tempo gli strumenti per uccidere tendono a rinnovarsi ed a perfezionarsi. Un altro bel fungo, seppure più evanescente degli altri citati, è la Maria del bagno-maria: si vuole che l' inventrice del bagno sia stata la prima alchimista della storia, niente meno che Maria, ossia Miriam, la profetessa sorella di Mosè. Pochi francesi sanno che la poubelle, il bidone per le immondizie, eterna il nome del signor Poubelle, il prefetto che la inventò nel secolo scorso. In Italia, un certo tipo di scala, montata su un carrello e suddivisa in tronconi telescopici che si possono sfilare l' uno dall' altro mediante un argano, si chiama scala-porta, o anche, curiosamente, vedova-porta. Questi nomi non alludono al fatto che la scala è portatile, bensì ricordano (o dovrebbero ricordare) il signor Porta che la ideò cent' anni fa, e la sua vedova che ne detenne a lungo il brevetto; ma anche in questo caso, se il signor Porta avesse avuto in sorte un cognome meno appropriato non avrebbe avuto la ventura di perdere la maiuscola, e probabilmente la sua scala sarebbe stata battezzata ufficialmente con un nome pseudogreco dalle molte sillabe, come scala periplanetica o anaptittica.

Pagina 0155

Credo che questi fattori culturali abbiano avuto una funzione preminente nel breve ma intenso fiorire dell' ebraismo askenazita; e, più in generale, nella conservazione, altrimenti inspiegabile, del popolo ebreo attraverso millenni di traversie, di emigrazioni e di metamorfosi. Certo altri cementi sono esistiti o esistono: la religione, la memoria collettiva, la storia comune, la tradizione, la stessa persecuzione, l' isolamento imposto dall' esterno. Ne è una controprova il fatto che, quando tutti questi fattori si attenuano o spariscono, l' identità ebraica a sua volta si attenua, e le comunità tendono a dissolversi, come avveniva nella Germania di Weimar e come sta avvenendo in Italia oggi. Può essere che sia questo il prezzo da pagare per un' autentica parità di diritti ed equiparazione; se così fosse, sarebbe un prezzo alto, e non solo per gli ebrei. La strage e la dispersione dell' ebraismo dell' Europa orientale sono state un danno irreparabile per tutta l' umanità. Esso non è morto, ma sopravvive male: imbavagliato e disconosciuto in Unione Sovietica, ibridato nelle due Americhe, sommerso in Israele da tradizioni diverse e da profonde trasformazioni sociologiche e storiche. Si teme oggi, e giustamente, l' estinzione di certe specie animali, come i panda e le tigri. L' estinzione di una cultura, portentosamente feconda e creativa com' è stata quella a cui il convegno è stato dedicato, è una sciagura di portata assai maggiore. Dovrebbero avere un' eco funebre in tutti gli animi i versi, fortunosamente salvati, di Itzhak Katzenelson, il poeta di Varsavia massacrato ad Auschwitz con tutta la sua famiglia e con tutto il suo popolo: "Il sole, levandosi sulle terre di Lituania e Polonia, non incontrerà più un ebreo, Non un vecchio che reciti un salmo presso una gaia finestrella".

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 2 occorrenze

Al di fuori di ogni giudizio morale, ci accontenteremmo che possedessero due virtù: che sappiano decidere razionalmente, e che abbiano pieno controllo sui loro sottoposti, i militari in specie. Finché lo saranno, non premeranno il bottone, né lo lasceranno premere, perché sapranno che l' olocausto travolgerà anche il loro potere e la loro vita; e terranno a bada gli alleati irresponsabili e gli emotivi, sia entro i loro confini, sia nei paesi terzi. A questo proposito, è incomprensibile, criminale e suicida che si consenta ai governi (anche al nostro!) di fornire a paesi instabili materiali e tecnologie potenzialmente mortiferi. Credo, infine, che occorra realismo. Chiedere tutto e subito è da ingenui, e gli slogans massimalistici nascono morti. È bene esortare a convertire le lance in falci, lo faceva già Isaia; ma bisogna ricordare che i fabbricanti di "lance" sono potenti e agguerriti. Sarebbe bello costringerli tutti a cambiare mestiere, ma non ci si riuscirebbe in breve tempo. Per restare nell' immagine, proporrei che la conversione fosse graduale: lance in scudi, e poi gli scudi in falci quando la prudenza lo consenta. Insomma, non sarebbe possibile che le somme vertiginose stanziate dai bilanci militari venissero investite prevalentemente (e gradualmente) in armi di difesa? In reti radar anziché in testate nucleari, in missili anticarro anziché in carri, e così via? Sarebbe un segnale non equivoco, per indicare alla controparte che la guardia non si è abbassata, ma che non ci sono intenzioni aggressive. America e Russia si trovano in una costosa situazione di stallo, in cui, per ragioni di antica diffidenza, e anche di prestigio barbarico, sulla via del disarmo nessuno dei due vuole muovere il primo passo. Questo sarebbe un primo passo accettabile anche da chi è ancora sensibile al fascino delle armi. Se lo si attuasse, la sicurezza del mondo farebbe un passo avanti, piccolo ma acquisito. Questa non è altro che la proposta di un incompetente: candida, presuntuosa, o addirittura ridicola, ma è una proposta, non è una interiezione né un ritornello né un sospiro sconsolato. Chi la giudica assurda le deve contrapporre un' altra proposta; dovrebbe essere questa la regola del gioco, ed è un gioco la cui posta è alta. Pare che presto avrà inizio a Ginevra una trattativa globale: noi piccoli uomini ci troviamo costretti a delegare ai due grandi uomini una responsabilità pesante come nessuna è mai stata. Vorremmo che sentissero il ronzio delle nostre voci, e ricordassero che il problema del disarmo nucleare è il problema numero uno; se sarà risolto, non si risolveranno automaticamente tutti gli altri problemi del pianeta, ma se non sarà risolto, nessun altro problema sarà risolto.

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Spesso mi sono anche domandato che senso abbiano, e come siano stati realizzati, gli esperimenti o addirittura i corsi di simulazione a cui verrebbero sottoposti gli aspiranti astronauti, e di cui parlano i giornalisti come se niente fosse. A quanto pare, l' unica tecnica pensabile sarebbe quella di rinchiudere i candidati in un veicolo in caduta libera: un aereo, o un ascensore come quello che Einstein aveva postulato per l' esperimento concettuale atto a illustrare la relatività ristretta. Ma un aereo, anche in caduta verticale, è frenato dalla resistenza dell' aria, e un ascensore (meglio un discensore) anche dall' attrito contro le guide. In entrambi i casi l' assenza di peso (l' abaria per i grecisti a tutti i costi) non sarebbe completa; e anche nel caso più favorevole, quello abbastanza terrificante di un aereo che precipiti a picco dall' altezza di dieci o venti chilometri, magari aiutandosi con i motori nel tratto terminale, a conti fatti non durerebbe che qualche decina di secondi, troppo poco per un allenamento e per misurazioni di dati fisiologici. E poi bisognerà pure frenare .... Eppure, una "simulazione" di questa condizione decisamente non-terrestre l' abbiamo fatta quasi tutti. L' abbiamo fatta in un sogno giovanile: nella versione più tipica, il sognatore si accorge con meraviglia felice che volare è facile come camminare o nuotare. Come mai era stato così stupido da non averci mai pensato prima? Basta remare con i palmi delle mani, ed ecco, ti stacchi dal pavimento, avanzi senza sforzo, ti rigiri, eviti gli ostacoli, infili con precisione porte e finestre, ti libri fuori all' aperto: non con il frullo frenetico delle ali dei passeri, non con la fretta vorace e stridula dei rondoni, ma con la maestà silenziosa delle aquile e delle nuvole. Da dove ci viene questa anticipazione di una realtà oggi concreta? Forse è una memoria della specie, ereditata dai nostri proavi rettili acquatici. O forse invece questo sogno è un preludio di un futuro imprecisato in cui lo strappo ombelicale dal richiamo della madre terra sarà gratuito e ovvio, e prevarrà un modo di locomozione assai più nobile di quello sulle nostre due gambe complicate, discontinue, piene di attriti interni, e insieme bisognose dell' attrito esterno dei piedi contro il suolo. Di questa abaria così persistentemente sognata mi torna a mente una illustre versione poetica, l' episodio di Gerione nel xvii dell' "Inferno". Il "fiero animale", ricostruito da Dante su modelli classici, ma anche sulle dicerie dei bestiari medievali, è immaginario e insieme splendidamente reale. Sfugge al peso. In attesa dei due strani passeggeri, uno solo dei quali è soggetto alla gravità, si appoggia alla proda con l' avantreno, ma la sua coda mortifera flotta libera "nel vano", come la poppa di uno Zeppelin ormeggiato al pilone. Dante, all' inizio, se ne dichiara spaventato, ma poi quella magica discesa su Malebolge sequestra tutta l' attenzione del poeta-scienziato, paradossalmente intento allo studio naturalistico della sua creatura fittizia, di cui descrive con precisione la mostruosa e simbolica epidermide. Il breve reportage è singolarmente accurato, fino al dettaglio confermato dai piloti dei moderni deltaplani: poiché si tratta di un silenzioso volo planato, la percezione della velocità da parte del viaggiatore non è affidata né al ritmo delle ali né al rumore, ma solo alla sensazione dell' aria che "al viso e di sotto gli venta". Forse anche Dante, inconsapevolmente, ha riprodotto qui l' universale sogno del volo senza peso, a cui gli psicoanalisti attribuiscono significati problematici e inverecondi. La facilità con cui l' uomo si adatta all' assenza di peso è un affascinante mistero. Se si pensa che a molti il viaggiare per mare, o anche solo in automobile, dà luogo a fastidiosi disturbi, non si può che restare perplessi. In mesi di soggiorno nello spazio, gli astronauti non hanno lamentato che disagi passeggeri, e i medici che li hanno esaminati dopo la prova hanno riscontrato soltanto una lieve decalcificazione delle ossa e un' atrofia transitoria dei muscoli e del cuore: gli stessi effetti insomma, di una degenza a letto; eppure nulla della nostra lunga storia evolutiva ha potuto prepararci a una condizione così innaturale come la non-gravità. Abbiamo dunque margini di sicurezza vasti e imprevisti: il progetto visionario (uno dei suoi tanti) esposto da Freeman Dyson in "Turbare l' universo", di un' umanità migrante fra le stelle su vascelli dalle gigantesche vele sospinte gratis dalla luce stellare, potrà avere altri limiti, ma non quello dell' abaria: il nostro povero corpo, così indifeso davanti alle spade, ai fucili e ai virus, è a prova di spazio.

Pagina 0146

Vizio di forma

681810
Levi, Primo 1 occorrenze

Beninteso, io non sono affatto sicuro che segni simili non si ravvisino anche altrove, in altre radure, o forse in tutte, e che non abbiano un significato diverso, o magari non ne abbiano alcuno: ma Clotilde era piena di eccitazione. _ Ce ne sono di intelligenti e di stupide, di pigre e di svelte, e anche le più furbe non è che arrivino tanto lontano. Ma questo qui, per esempio, _ e mi indicò un ginepro, _ è parecchio che lo tengo d' occhio, e non mi fido di lui _. Quel ginepro, mi disse, si era spostato di almeno un metro in quattro giorni. Aveva trovato il modo giusto, a poco a poco lasciava morire tutte le radici da un lato e rinforzava quelle dall' altro, e voleva che tutti facessero come lui. Era ambizioso e paziente: tutte le piante sono pazienti, questa è la loro forza; ma appunto, lui era anche ambizioso, ed era stato uno dei primi a capire che una pianta che si sposti può conquistare un paese e liberarsi dall' uomo. _ Liberarsi, tutte lo vorrebbero, ma non sanno come, dopo tanti anni che comandiamo noi. Alcuni alberi, come gli olivi, si sono rassegnati da secoli, però si vergognano, e si vede bene dal modo come crescono, tutti storti e disperati. Altri, come i peschi e i mandorli, si sono arresi e fanno i frutti, ma, lo sai anche tu, appena possono ritornano selvaggi. Altri ancora non so: i castagni e le querce è difficile capire cosa vogliono; forse sono troppo vecchi e troppo di legno, e ormai non vogliono più niente, come succede ai vecchi: solo che dopo l' estate venga l' inverno, e dopo l' inverno l' estate. C' era poi un ciliegio selvatico che parlava. Non era che parlasse in italiano, ma era come quando si fa conversazione con gli olandesi che vengono al mare di luglio, che insomma non si capisce parola per parola, ma dai gesti e dall' intonazione uno finisce col rendersi conto abbastanza bene di quel che vogliono dire. Quel ciliegio parlava col fruscìo delle fronde, che si udiva accostando l' orecchio al tronco, e diceva cose su cui Clotilde non era d' accordo: che non si devono fare fiori, perché sono una lusinga all' uomo, né frutti, che sono uno spreco e un dono non dovuto. Bisogna combattere l' uomo, non purificare più l' aria per lui, sradicarsi e partire, anche a costo di morire o di ritornare selvaggi. Accostai anch' io l' orecchio al tronco, ma non colsi che un mormorio indistinto, benché forse un po' più sonoro di quello che producevano le altre piante. Si era ormai fatto buio, e non c' era luna. I lumi del paese e della spiaggia ci davano solo un' idea vaga della direzione che avremmo dovuto seguire per discendere: in breve ci trovammo malamente intrigati nei rovi e nei terrazzi in rovina. Bisognava saltare giù alla cieca dall' uno all' altro, cercando d' indovinare nel buio crescente se avremmo preso terra su sassi, o su spini, o su suolo consolidato. Dopo un' ora di discesa eravamo entrambi stanchi, scorticati e inquieti, e i lumi in basso erano lontani come prima. Si udì a un tratto un cane abbaiare. Ci fermammo: veniva proprio verso di noi, galoppando orizzontalmente lungo una delle terrazze. Poteva essere un bene o un male: dalla voce, non doveva essere un cane molto grosso, però abbaiava con sdegno e con tenacia, fin quando gli mancava il fiato, e allora lo si sentiva aspirare l' aria con un corto rantolo convulso. In breve fu a pochi metri sotto di noi, e fu chiaro che non abbaiava per capriccio, ma per dovere: non intendeva lasciarci entrare nel suo territorio. Clotilde gli chiese scusa per l' invasione, e gli spiegò che avevamo perso la strada e non volevamo altro che andarcene; perciò, lui faceva bene ad abbaiare, era il suo mestiere, ma se ci avesse insegnato la strada che portava a casa sua avrebbe fatto meglio, e non avrebbe perso tempo lui e neanche noi. Parlava con voce così tranquilla e persuasiva che il cane si quietò subito: lo intravvedevamo sotto di noi come una vaga chiazza bianca e nera. Scendemmo di pochi passi, e sentimmo sotto i piedi la durezza elastica della terra battuta. Il cane si incamminò a mezza costa verso destra, uggiolava ogni tanto, e si fermava a vedere se lo seguivamo. Dopo un quarto d' ora arrivammo così alla casa del cane, accolti da un tremulo coro di belati caprini: di lì, nonostante l' oscurità, trovammo facilmente un viottolo ben segnato che scendeva al paese.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sul suo volto da gladiatore ristagnava quel velo di stupore contento che si nota qualche volta sul viso dei morti, e fa pensare che veramente abbiano avuto, per un istante, sulla soglia, la visione di un mondo migliore.

Pagina 0030

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

682169
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Che i seikki ci abbiano seguìti nella nostra ritirata attraverso la jungla? Eppure quella sera io non vidi alcuna barca a darci la caccia. - E le rive non le conti? Voi siete tutti corridori insuperabili ed un uomo che avesse seguito la riva sinistra avrebbe potuto facilmente tenersi sempre in vista della bangle e notare il luogo ove aveva imboccato il canale della palude. - E perché non ci hanno assaliti nella jungla? - Può darsi che non abbiano avuto il coraggio di farlo - rispose Sandokan. - Le mie non sono però che semplici supposizioni e potrei benissimo ingannarmi. Tuttavia apriamo bene gli occhi e teniamoci pronti a qualunque evento. Sento per istinto che dovremo lottare con un uomo fortissimo che vale dieci volte il rajah. - Quel greco? - Sì, - rispose Sandokan. - È lui il nemico pericoloso. - È vero. Senza quell'uomo Yanez avrebbe fatto a quest'ora chissà che cosa. - A me basta avere i seikki sottomano. Se il demjadar riesce a persuaderli a mettersi ai miei servigi, vedrai che pandemonio saprò scatenare io a Gauhati. - Accese il suo cibuc e si sedette sulla murata di prora, lasciando penzolare le gambe sul fiume che rumoreggiava intorno alla bangle. Il sole stava allora tramontando dietro le alte cime dei palas, quei bellissimi alberi dal tronco nodoso e massiccio, coronato da un fitto padiglione di foglie vellutate, d'un verde azzurrognolo, donde partono degli enormi grappoli fiammeggianti, dai quali si ricava una polvere color di rosa, adoperata dagli indù nelle feste di Holi. Sulle rive, numerosi contadini battevano, con un ritmo monotono, l'indaco, raccolto durante la giornata e messo a macerare entro vasti mastelli per meglio distaccare le particelle e farle precipitare più presto, avendo gli indiani un modo diverso per trattare tale materia colorante. Altri invece spingevano in acqua colossali bufali per dissetarli, guardandoli attentamente onde i coccodrilli non li afferrassero pel naso o pel muso e li tirassero sotto, cosa comunissima nei fiumi dell'India. La bangle, verso le nove, giunse in vista dei fanali che splendevano nelle vie principali della capitale dell'Assam. Stava per passare vicino all'isolotto su cui si alzava la pagoda di Karia, quando si trovò improvvisamente dinanzi ai due poluar che chiudevano il passaggio. Una voce si era subito alzata sul più vicino: - Ohe! Da dove venite e dove andate? - Lascia che risponda io, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Fa' pure, - rispose questi. Il bengalese alzò la voce gridando: - Veniamo da una partita di caccia. - Fatta dove? - chiese la medesima voce di prima. - Nella palude di Benar, - rispose Tremal-Naik. - Che cosa avete ucciso? - Una dozzina di coccodrilli che andremo a raccogliere domani essendo affondati. - Avete visto degli uomini in quei dintorni? - Null'altro che dei marabù e delle oche. - Passate e buona fortuna. - La bangle, che aveva rallentata la marcia, riprese la corsa a tutta forza di remi, mentre i due poluar allentavano le gomene per lasciarle il passo. - Che cosa ti ho detto? - disse Sandokan a Tremal-Naik, quando furono lontani dai due navigli. - Noi pirati abbiamo un fiuto straordinario e sentiamo i nemici a distanze incredibili. - Me ne hai dato or ora una prova, - rispose Tremal-Naik. - Che ci abbiano proprio seguìti? - Non ne dubito. - Tuttavia ce la siamo cavata benissimo. - Per la tua buona idea. - Dove sbarcheremo? - Nel centro della città. Questa notte desidero dormire nel palazzo di Surama. Forse là troveremo notizie di Yanez. Kubang non avrà mancato di fare una visita ai servi. - È quello che pensavo anch'io. Quel malese è molto intelligente. - Un gran furbo, - disse Sandokan. - Se non lo fosse non sarebbe un malese. Bah! evitata la crociera tutto andrà bene. Domani ci metteremo in cerca di Surama e prepareremo al greco od ai suoi uomini un bel tiro. Credi che nel suo palazzo abbia un chitmudgar? - Certo, Sandokan, - rispose Tremal-Naik. - Un indiano che si rispetta, deve avere una ventina di servi per lo meno ed un direttore di casa. - Che si lasci pescare da me ed il colpo sarà fatto. Non si tratta che di sapere i luoghi che frequenta. - Perché? - Lascia fare a me: ho la mia idea. Ehi, Bindar, possiamo approdare? - Sì, sahib. - Accosta la riva dunque. - La bangle in pochi colpi di remo attraversò il fiume e andò ad ancorarsi dinanzi ad un vecchio bastione che difendeva la città verso occidente. - A terra, - comandò Sandokan, dopo essersi assicurato che dietro la bastionata non vi era nessuno. - Due soli malesi rimangano a guardia della bangle. - Presero le loro armi e scesero sulla riva che era coperta da fitte macchie di nagatampo, alberi durissimi e che producono dei fiori odorosi e bellissimi, dei quali si adornano le giovani indiane. - Seguitemi, - disse Sandokan. - Giungeremo al palazzo di Surama inosservati, se non vi saranno intorno delle spie. - Che cosa temi ancora? - chiese Tremal-Naik. - Eh! Quel greco è capace di aver teso degli agguati, mio caro. In cammino amici e se vi sarà da menar le mani non fate uso che delle scimitarre. Nessun colpo di carabina o di pistola. - Sì, Tigre della Malesia - risposero i malesi. - Venite! - Si misero a costeggiare il fiume coperto da enormi tamarindi, che rendevano colla loro ombra l'oscurità più fitta; poi raggiunto il sobborgo orientale, si cacciarono fra le viuzze interne dirigendosi verso il centro della città. Essendo già molto tardi, pochissimi abitanti si trovavano per le vie e anche quelli s'affrettavano a girare al largo, scambiando probabilmente Sandokan ed i suoi uomini per soldati del rajah in cerca di qualche malvivente. La mezzanotte non doveva essere lontana quando il drappello sbucò sulla piazza dove sorgeva il palazzo, che Yanez aveva acquistato per la sua bella fidanzata. Sandokan si era arrestato lanciando un rapido sguardo a destra ed a sinistra. - Vedo due indiani fermi dinanzi al palazzo, - disse a Tremal-Naik. - Non mi sono sfuggiti, - rispose il bengalese. - Che siano due spie di quel maledetto greco? - Può darsi. Egli ha interesse a far sorvegliare il palazzo. - Cerchiamo di prenderli in mezzo. Ci faremo credere guardie del rajah intenti ad eseguire una ronda notturna. - I due indiani però, accortisi della presenza del drappello, si allontanarono rapidamente non ostante che Tremal-Naik avesse subito gridato dietro a loro: - Alt! Servizio del rajah! - Non devono essere due galantuomini, - disse Sandokan quando li vide scomparire entro una viuzza tenebrosa. - Lasciamoli andare. - Poi volgendosi verso Kammamuri continuò: - Tu resta qui di guardia coi malesi. La nostra spedizione notturna non è ancor finita e prima che sorga il sole voglio fare la conoscenza colla dimora privata di quel cane di greco. - Salì la gradinata seguìto da Tremal-Naik e da Bindar e percosse, senza troppo fracasso, la lastra di bronzo sospesa allo stipite della porta. Il guardiano notturno che vegliava nel corridoio, fu pronto ad aprire e riconoscendo in quegli uomini gli amici della sua padrona, fece un profondo inchino. - Conducimi subito dal maggiordomo, - disse Sandokan. - Sbrigati, ho fretta. - Entra nel salotto, sahib. Fra mezzo minuto ti raggiungerò. - Sandokan ed i suoi due compagni aprirono la porta ed entrarono in una elegantissima stanzetta che era ancora illuminata. Si erano appena seduti dinanzi ad uno splendido tavolino d'ebano di Ceylan filettato in oro, quando il maggiordomo del palazzo, appena coperto da un dootèe di tela gialla, si precipitava nel salotto, esclamando con voce singhiozzante: - Ah signori! Quale disgrazia. - La conosciamo, - disse Sandokan. - È inutile che tu perdi il tempo a raccontarcela. Il sahib bianco della tua signora s'è fatto vedere? - No. - Ha mandato nessuno? - Quell'uomo dalla faccia olivastra, con una lettera per la padrona. - Dammela subito. I minuti sono preziosi in questo momento. - Il maggiordomo s'avvicinò ad un cofanetto laccato con intarsi di madreperla e prese un piccolo piego, porgendolo al pirata. Questi ruppe il suggello e lesse rapidamente ciò che stava scritto dentro. - Yanez non sa ancora nulla, - disse poi a Tremal-Naik - Kubang ha conservato bene il segreto. - E poi? - Avverte Surama di non inquietarsi per lui e che il favorito guarisce rapidamente. Già tutti i bricconi hanno la pelle a prova di acciaio e di piombo. - E null'altro? - L'incarica di far sapere a noi che pel momento non corre alcun pericolo e che si è già guadagnata la stima e la confidenza del rajah. Giacché si trova benissimo alla corte e non sa che gli hanno rapito la fidanzata, lasciamolo tranquillo, operiamo da noi soli. - Poi volgendosi verso il maggiordomo che stava ritto dinanzi a lui, in attesa dei suoi ordini, gli chiese: - È avvenuto nessun altro fatto dopo il rapimento della tua padrona? - No, sahib. Ho notato però che alla sera ronzano attorno al palazzo, fino a notte tardissima, delle persone. - Ah! - esclamò Sandokan. - Si sorveglia qui. Non ne dubitavo. Hai fatto delle ricerche? - Sì, sahib e sempre infruttuose. - Hai avvertito la polizia? - Non ho osato, temendo che la padrona sia stata rapita per ordine del rajah. - Hai fatto benissimo. Tremal-Naik, Bindar, rimettiamoci in caccia. - Ed io, signore, che cosa devo fare? - chiese il maggiordomo. - Assolutamente nulla fino al nostro ritorno. Gli uomini che il sahib bianco ha lasciati a guardia di Surama sono sempre qui? - Sì. - Li avvertirai di tenersi pronti; posso aver bisogno anche di loro per rinforzar la mia scorta. Domani sera, a notte inoltrata, noi saremo qui. Addio. - Uscì dal salotto e raggiunse i suoi uomini che si erano seduti sulla gradinata. - Deponete le carabine, - disse loro. - Conservate solo le pistole e le scimitarre. Ed ora in caccia! -

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682209
Salgari, Emilio 1 occorrenze

"Che quegli abitanti ci abbiano visti?" disse O'Donnell. "Lo credo" rispose l'ingegnere. "L'atmosfera è pura e il nostro Washington si può distinguere ad una grande distanza." "Che disgrazia il non poterci fermare!" disse O'Donnell, sospirando. "Saremmo certi di venire raccolti." "Non possediamo più le àncore, mio povero amico." "Dannati naufraghi! Ci è costato caro, ben caro l'averli aiutati!" "E vero, O'Donnell, ma inutili sono i rimpianti." "Credete che quei naufraghi riescano a salvarsi?" "Lo credo, avendoli incontrati a breve distanza dalle Canarie; e poi questo tratto d'oceano è frequentato dalle navi a vela che scendono fino alle isole del Capo Verde per approfittare degli alisei." "Potessimo incontrarne una anche noi!" "Speriamo!" "Continuando a scendere in questa direzione, non troveremo più alcuna terra?" "Nessuna. Ma la nostra direzione non tarderà a cambiare, O'Donnell, e verremo spinti verso l'ovest." "Pure, Mister Kelly, mi sembra che il vento ci spinga invece verso l'est. Guardate il monte dell'isola Fogo, che pare si allontani sulla nostra destra." "By God!" esclamò l'ingegnere. "È vero." "Che qualche nuova corrente ci abbia presi?" "Non lo credo, ma è un fatto, però, che noi ci avviciniamo alla costa africana, descrivendo una linea obliqua. Che l'aliseo vada ad urtare contro il Capo Verde, prima di piegare verso l'occidente? Sarebbe una bella fortuna, amico mio." "Se giungeremo in tempo ad avvistarla." "Perché?" "Perché cadiamo, e rapidamente Mister Kelly." "Ancora!" esclamò l'ingegnere, con accento di dolore. Si chinò sul bordo della navicella e fece un gesto di rabbia. "Miserabili!" esclamò. "Quei naufraghi ci hanno rovinati." "Che si siano riaperti gli strappi?" "Non credo, ma il gas sfugge attraverso le cuciture." "Volete, signore, che vada a spalmarle di vernice?" chiese il mozzo. "È inutile, Walter: fra mezz'ora saremmo da capo. Rinforziamo i fusi col gas che ci rimane." "Quanta zavorra ci rimane da gettare?" "Circa duecento chilogrammi. Aiutatemi, amici." "Una parola, Mister Kelly. Se si introducesse il gas nei palloncini interni, non si otterrebbe un effetto migliore e più durevole?" "Avete ragione, O'Donnell. L'idea è buona e non so come mi sia sfuggita. Affrettiamoci, che l'oceano ci è vicino." Il Washington cadeva. Il suo gas, dopo tanti giorni. perdeva rapidamente la sua forza ascensionale, come un uomo che un lungo digiuno sfinisce. Scendeva di minuto in minuto, descrivendo delle larghe oscillazioni e virando frequente di bordo. Gli aeronauti che udivano sempre più distinti i muggiti delle onde, diedero prontamente mano alla manovra, che doveva essere l'ultima, perché dopo non doveva rimanere nella navicella più di un metro cubo d'idrogeno. L'ingegnere, aiutato dai suoi amici, aprì le due manichette dei palloncini e lasciò sfuggire l'aria, provocando una nuova e più rapida caduta dei fusi e introdusse, invece di quella, l'idrogeno che ancora possedeva. La forza ascensionale del Washington si manifestò bruscamente, come per incanto. L'aerostato, che si trovava già a soli venticinque o trenta metri dall'oceano, fece un balzo immenso nell'aria elevandosi a duemilacinquecento. Il lancio in mare della pompa premente, che non era più di nessuna utilità, ora che i palloncini interni non potevano più ricevere l'aria, e di alcune casse vuote, lo portò a 3000 metri. Quel salto straordinario ebbe il vantaggio di far trovare una nuova corrente aerea, che spingeva diagonalmente, sopra gli alisei, in direzione della costa africana. La speranza, per un momento perduta, cominciò a rinascere nei cuori degli aeronauti. La velocità di quella corrente era molto considerevole, più forte di quella che spirava anteriormente, poiché toccava i settanta chilometri all'ora. Essendo lontani circa quattrocento chilometri dalla costa africana, potevano giungervi prima delle quattro pomeridiane. "Come dormirei volentieri sotto un frondoso albero!" esclamò O'Donnell. "E forse questa sera potrò distendere le mie gambe sopra un soffice e fresco tappeto d'erba!" "Se il vento non cambia direzione, noi ceneremo in Africa, O'Donnell" aggiunse l'ingegnere. "E accenderemo un bel fuoco!" "E fors'anche vi metteremo sopra un arrosto. La selvaggina abbonda in Africa" "Mangerei una bistecca di leone, Mister Kelly. Ma dove cadremo?" "Nella Senegambia, se manteniamo la rotta attuale." "C'è pericolo di venire massacrati dai negri?" "No: quei negri sono sudditi francesi e non ardiranno toccarci." "Hurrah per la Senegambia, dunque!" "Non ci siamo ancora." "Ci giungeremo, Mister Kelly: il cuore me lo dice." "Ma il cuore sovente s'inganna, O'Donnell." Intanto il Washington continuava la sua corsa verso la costa africana, mantenendo la diagonale che pareva dovesse passare nei pressi del Capo Verde. Per quanto il gas continuasse a sfuggire attraverso le cuciture, pure si manteneva a quella grande altezza mercé i due palloncini, che serbavano la forza ascensionale sempre a quel livello. Alle due, O'Donnell, che puntava dì frequente il cannocchiale verso l'est, volendo scoprire la costa africana, segnalò delle macchie grigiastre che apparivano sulla superfìcie dell'oceano e verso il nord a una grande distanza. "L'Africa!" esclamò con voce alterata dalla commozione. "Di già?" chiese l'ingegnere. Prese il cannocchiale che O'Donnell gli porgeva e guardò attentamente nella direzione indicata. "Sì," diss'egli "laggiù si stende il continente africano. Quella striscia che si vede al nord dev'essere il Capo Verde." "E quelle isole?" chiese O'Donnell. "Sono quelle che si stendono dinanzi alla foce del Gambia: Santa Maria e Sanguonar, ne sono certo." "Dunque noi ci troviamo ora? ... " "A 13o 30o di latitudine e a 19o di longitudine." "Troveremo dei bianchi laggiù?" "Sì, e numerosi. I francesi hanno parecchie fattorie sulle isole degli Elefanti, degli Ippopotami degli Uccelli e di Saffo, e una importantissima ad Albreda; e ne hanno pure gl'inglesi lungo il fiume, e posseggono una piccola colonia, quella di Bathurst, sull'isola di Santa Maria." "Mi spiacerebbe cadere nelle loro mani, Mister Kelly. Voi sapete che sono ricercato dalla polizia." "Cadremo su territorio francese o sulle terra del piccolo reame di Bar. Ecco la foce del fiume, chee comincia a disegnarsi nettamente. Fra venti minuti ci libreremo sopra le isole dell'estuario." "No, Mister Kelly." "Perché?" "Mi pare che il vento abbia fatto un salto, come dicono i marinai." "Ma ci spinge sempre all'est." "No, Mister Kelly" disse O'Donnell con voce soffocata. "Pieghiamo verso il sud."

IL RE DEL MARE

682242
Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Sai che abbiano buone armi? - Non ho veduto presso di loro che qualche fucile. - Chi può essere stato a sollevarli? - borbottò Yanez. - Vi è un mistero qui sotto che io non riesco a spiegare, quantunque la Tigre della Malesia si ostini a vedere in tutto ciò la mano degli inglesi. Speriamo di giungere in tempo e di ricondurre Tremal-Naik e Darma a Mompracem, prima che i ribelli invadano le loro piantagioni e distruggano le loro fattorie. Vediamo se possiamo lasciare questo banco prima che la marea abbia raggiunto la sua massima altezza. Volse le spalle al malese e si diresse verso prora, curvandosi sulla murata del castello. La nave che aveva dato in secco, probabilmente in causa d'una falsa manovra, era uno splendido veliero a due alberi, costruito di certo da poco tempo a giudicarlo dalle sue linee ancora perfette, con due immense vele simili a quelle che portano i grossi prahos malesi. Doveva stazzare non meno di duecento tonnellate ed aveva un armamento da renderlo temuto anche a qualche piccolo incrociatore. Infatti, aveva sul cassero due pezzi da caccia di buon calibro, protetti da una barricata mobile formata da due grosse lastre di acciaio congiunte ad angolo e sul castello di prora quattro lunghe e grosse spingarde, armi eccellenti per mitragliare i nemici, quantunque di corta portata. Inoltre aveva un equipaggio numeroso, fin troppo per un legno così piccolo, formato da una quarantina di persone, malesi e dayaki, per la maggior parte attempati ma ancora solidi, dai visi fierissimi e con non poche cicatrici, ciò che indicava come quegli uomini fossero gente di mare e anche di guerra. La nave si era arrestata all'entrata d'una vasta baia, entro cui sboccava un fiume che pareva abbondante d'acqua. Numerose isole, fra cui una grandissima, riparavano la baia dai venti di ponente, tutte cinte di scogliere corallifere e di banchi e coperte da una vegetazione foltissima d'un bel verde intenso. La Marianna si era arenata su uno di quei banchi che le acque nascondevano e che, in quel momento, cominciava ad apparire, continuando la marea ad abbassarsi. La ruota di prora aveva toccato molto profondamente, in modo da rendere impossibile lo scagliamento col solo mezzo delle àncore gettate a poppavia e alate all'argano. - Cane d'un pilota! - esclamò Yanez, dopo d'aver osservato attentamente il banco. - Non ce la caveremo prima di mezzanotte. Che cosa ne dici, Sambigliong? Un malese che aveva il viso assai rugoso ed i capelli biancastri, e che tuttavia sembrava ancora robustissimo, si era accostato all'europeo: - Dico, signor Yanez, che nessuna manovra riuscirebbe a toglierci di qui senza l'aiuto dell'alta marea. - Hai fiducia in quel pilota? - Non so, capitano, - rispose il malese, - non avendolo mai veduto prima d'ora. Nondimeno ... - Continua, - disse Yanez. - Quello d'averlo trovato solo, così lontano da Gaya, in un canotto incapace di resistere ad un'ondata e di essersi subito offerto di guidarci, non mi pare chiaro. - Che abbia commesso una imprudenza ad affidargli il timone? - si chiese Yanez, che era diventato pensieroso. Poi, scuotendo il capo come se avesse voluto scacciare lungi da sè un pensiero importuno, aggiunse: - Per quale scopo quell'uomo, che appartiene alla vostra razza, avrebbe cercato di perdere il migliore e più poderoso praho della Tigre della Malesia? Forse che noi non abbiamo sempre protetti gli indigeni bornesi contro le vessazioni degli inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l'indipendenza ai dayaki di Sarawak? - E perchè mai, signor Yanez, - disse Sambigliong - i dayaki della costa si sono messi in armi improvvisamente, contro i nostri amici? Eppure Tremal-Naik, creando fattorie su queste spiagge, che prima erano quasi deserte, ha dato loro il mezzo di guadagnarsi da vivere comodamente, senza correre i rischi della pirateria che li decimava. - È un mistero questo, mio caro Sambigliong, che nè io nè Sandokan siamo ancora riusciti a spiegare. Questo improvviso scoppio d'ira contro Tremal-Naik deve avere una causa che per ora ci sfugge, ma certo qualcuno ha soffiato sul fuoco. - Che Tremal-Naik e sua figlia Darma corrano un vero pericolo? - Il messo che ci ha mandato a Mompracem ha detto che tutti i dayaki sono in armi e sembrano presi da una improvvisa pazzia, che tre delle fattorie sono state saccheggiate e poi incendiate e parlavano di massacrare Tremal-Naik. - Eppure non c'è un uomo migliore di lui in tutta l'isola, - disse Sambigliong. - Non comprendo come quei furfanti guastino e saccheggino le sue proprietà. - Ne sapremo qualche cosa quando giungeremo al kampong di Pangutaran. La comparsa della Marianna sul fiume calmerà un po' i dayaki e se non deporranno le armi, li mitraglieremo come si meritano. - E conosceremo le cause che li hanno indotti a sollevarsi. - Oh! - esclamò ad un tratto Yanez, che aveva volti gli sguardi verso la foce del fiume. - Vi è qualcuno che pare voglia dirigersi verso di noi. Un piccolo canotto, munito d'una vela, era sbucato dietro gli isolotti che ingombravano la foce del fiume ed aveva puntato la prora verso la Marianna. Un solo uomo lo montava, ma era così lontano ancora da non poter distinguere se era un malese o un dayako. - Chi può essere costui? - si chiese Yanez, che non lo perdeva di vista. - Guarda, Sambigliong, non ti sembra indeciso sulla sua manovra? Ora si dirige verso gli isolotti, ora se ne allontana per gettarsi verso le scogliere corallifere. - Si direbbe che cerchi d'ingannare qualcuno sulla sua vera rotta, signor Yanez, - rispose Sambigliong. - Che sia sorvegliato e che cerchi d'ingannarli? - Pare anche a me, - rispose l'europeo. - Va'a prendermi un cannocchiale e fa' caricare una spingarda a palla. Se si cercherà d'intralciare la manovra di quell'uomo, il quale evidentemente mira a raggiungerci, faremo fuoco. Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna. Ad un tratto gli sfuggì un grido: - Tangusa! - Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore? - Sì, Sambigliong. - Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, - disse il dayako. - Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh! - Che cosa avete, signore? - Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi? Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati. - Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, - disse. - Hai fatto caricare una spingarda? - Tutte e quattro. - Benissimo: aspettiamo un momento. Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa. Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna. - Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, - rispose l'europeo colla sua solita calma. Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa. La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via. Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo. Yanez, calmo, impassibile mirava sempre. - È sulla linea, - mormorò dopo qualche minuto. Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s'infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia. Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose. - Presa, signor Yanez! - gridò Sambigliong. - E fra poco affonderà, - rispose il portoghese. I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse. Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa. Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo. Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero. - Salvatevi pure, - disse Yanez. - Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi. Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque. L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue. - Che l'abbiano ferito? - si chiese Yanez. - Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale. Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero. - Sali presto! - gridò Yanez. Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda. Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese. Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. - Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa? - Le formiche bianche, signor Yanez, - rispose il malese con voce strozzata facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava. - Le formiche bianche! - esclamò il portoghese. - Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne? - I dayaki, signor Yanez. - Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente. - Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki. - Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare. Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo. - Oh diavolo! - mormorò il portoghese. - Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche. - Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. - Palle d'acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez. - Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati? - Anche quelli. - Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota! Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente. - Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche? - Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, - rispose il malese. - Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità? - Non credo, padrone. - Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale. - Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito: - Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone. - Vedremo in seguito, - rispose Yanez. - E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

. - Che abbiano rinunciato a tormentarci, dopo le batoste che hanno preso? - Uhm! - fece il pilota. - Se il pellegrino aveva giurato la vostra perdita, ritengo che farà il possibile per avere le vostre teste. - Mettici anche la tua nel numero, - disse il portoghese. - Torniamo a bordo e aspettiamo la notte. Il ritorno lo compirono senza essere stati molestati, confermandosi vieppiù nella supposizione che i dayaki non fossero ancora giunti in quei dintorni. Appena calato il sole, Yanez fece subito i preparativi della partenza. Vi erano ancora a bordo trentasei uomini, compresi i feriti. Ne scelse quindici, non volendo indebolire troppo l'equipaggio il quale poteva, durante la sua assenza, venire assalito, e verso le nove, dopo aver raccomandato a Sambigliong la più attiva sorveglianza onde non si facesse sorprendere, ridiscendeva a terra con Tangusa, il pilota e la scorta. Erano tutti formidabilmente armati, con carabine indiane di lungo tiro e parangs, quelle terribili sciabole che con un solo colpo decapitano un uomo, e ampiamente provvisti di munizioni, ignorando se Tremal-Naik ne avesse tante da poter reggere anche ad un assedio. - Avanti e soprattutto fate meno rumore che sia possibile, - disse Yanez, nel momento in cui si cacciavano sotto i boschi. - Noi non siamo ancora sicuri di trovare la via sgombra. Si volse indietro per dare un ultimo sguardo al veliero, la cui massa spiccava vivamente sulle acque del fiume, semi-confusa fra i vegetali che crescevano sulla riva e senza sapere il perchè, provò una stretta al cuore. - Si direbbe che ho un brutto presentimento, - mormorò con inquietudine. - Che lo perda? Scacciò l'importuno pensiero e si mise alla testa della scorta, preceduto di pochi passi dal meticcio e dal pilota, i soli che potessero orientarsi in mezzo a quel caos di enormi vegetali e fra le reti immense formate dai nepentes, dai gomuti e dai rotangs. Come al mattino un silenzio profondo regnava sotto quella infinita volta di verzura, come se quella foresta fosse assolutamente priva di animali feroci e di selvaggina. Persino gli uccelli notturni, quei grossi pipistrelli pelosi, che sono così comuni nelle isole malesi, mancavano. Solo le lucertole cantanti, che sono per lo più notturne, facevano udire di tratto in tratto il loro lieve grido stridente. Essendo il cielo coperto, un'afa pesante regnava sotto le immense foglie, incrociantisi strettamente a trenta o quaranta metri dal suolo. - Si direbbe che minaccia un uragano, - disse Yanez che respirava con grande fatica. - E scoppierà presto, signore, - rispose il meticcio. - Ho veduto il sole tramontare fra una nuvola nerastra e giungeremo appena a tempo al kampong. - Se nessuno ci arresterà. - Finora, signore, i dayaki non si sono mostrati. - Purchè non li troviamo presso il kampong. Speriamo che abbiano levato l'assedio. - Non saranno tanti da opporre una seria resistenza, almeno pel momento. Quelli che ci hanno aspettati alla foce del fiume forse non sono ancora tornati. - Se tardassero solo ventiquattro ore, non li temerei più, - rispose Yanez. - La Marianna, con equipaggio rinforzato, diverrebbe imprendibile. Avrà molti difensori Tremal-Naik? - Suppongo che abbia potuto raccogliere una ventina di malesi, signor Yanez. - Avremo così un piccolo esercito che darà da fare a quel maledetto pellegrino. Affrettiamo il passo e cerchiamo di giungere al kampong prima che l'alba sorga. La foresta non permetteva però che si avanzassero così rapidamente come avrebbero desiderato, essendo caduti in mezzo ad una antica piantagione di pepe che avvolgeva gli alberi in una rete assolutamente inestricabile. Le grosse piante non erano riuscite a soffocare i sarmenti altissimi i quali, ripiegandosi verso il suolo e collegandosi coi rotangs ed i calamus o avvolgendosi intorno alle mostruose radici uscite dal suolo per mancanza di spazio, formavano un intrecciamento colossale che opponeva una solida resistenza. - Mano ai parangs, - disse Yanez, vedendo che le due guide non riuscivano a passare. - Faremo rumore, - osservò il pilota. - Non ho già alcuna voglia di tornarmene indietro. - I dayaki possono udirci, signore. - Se ci assalgono li riceveremo come si meritano. Affrettiamoci. A colpi di sciabola riuscirono ad aprirsi un varco e sempre sciabolando a destra ed a manca, continuarono ad inoltrarsi nell'interminabile foresta. Marciavano da un'ora, lottando ostinatamente contro le piante, quando il pilota s'arrestò bruscamente, dicendo: - Fermi tutti. - I dayachì? - chiese sotto voce Yanez, che lo aveva subito raggiunto. - Non lo so, signore. - Hai udito qualche cosa? - Dei rami scricchiolare dinanzi a noi. - Andiamo a vedere, Tangusa, e voi tutti rimanete qui e non fate fuoco se io non vi do il segnale. Si gettò a terra trovandosi dinanzi a un caos di radici e di sarmenti e si mise a strisciare verso il luogo dove il malese asseriva d'aver udito i rami scricchiolare. Il meticcio gli si era messo dietro cercando di non far rumore. Percorsero così una cinquantina di metri e s'arrestarono sotto le enormi corolle d'un fiore mostruoso, un crubul che aveva una circonferenza di oltre tre metri, e che tramandava un odore poco piacevole. Essendovi intorno a quel fiore un po' di spazio libero, era facile scoprire degli uomini che si avanzassero attraverso la foresta. - Padada non si era ingannato, - disse Yanez, dopo essere rimasto qualche po' in ascolto. - Sì, qualcuno si avvicina, - confermò il meticcio. - E questo cos'è? - chiese a un tratto Yanez. In lontananza si udì in quel momento un rombo strano che pareva prodotto dall'avanzarsi di qualche furgone o d'un treno ferroviario. - Non è il tuono, - disse il portoghese. - Non lampeggia ancora, - disse Tangusa. - Si direbbe che un fiume ha rotto gli argini e straripa. - Non è caduta ancora una goccia d'acqua e poi il Kabatuan è lontano. - Che cosa sarà? - E s'approssima rapidamente, signore. - Verso di noi? - Sì. - Taci! Appoggiò un orecchio al suolo ed ascoltò nuovamente, trattenendo il respiro. La terra trasmetteva nettamente quel rombo inesplicabile che pareva prodotto dal rapido avanzarsi di masse enormi. - Non comprendo assolutamente nulla, - disse finalmente Yanez, rialzandosi. - È meglio che ci ripieghiamo verso la scorta; chissà che il pilota non ci spieghi questo mistero. Sgusciarono sotto i giganteschi petali del crubul e rifecero il cammino percorso, scivolando fra gli infinti sarmenti. Quando raggiunsero il luogo ove avevano lasciati i loro uomini, s'avvidero che anche la scorta era in preda ad una viva agitazione, udendosi anche là quel fragore. Solo Padada pareva tranquillo. - Da che cosa proviene questo baccano? - gli chiese Yanez. - È una colonna di elefanti che fugge dinanzi a qualche pericolo, signore, - rispose il pilota. - Saranno certamente moltissimi. - Degli elefanti! E chi può aver spaventato quei colossi? - Degli uomini, io credo. - Che i dayaki si avanzino da ponente? È di là che il fragore viene. - È quello che pensavo anch'io. - Che cosa mi consigli di fare? - Di allontanarci al più presto. - Non incontreremo gli elefanti sulla nostra via? - È probabile, ma basterà una scarica per farli deviare. Hanno una paura incredibile quei colossi degli spari, non essendovi abituati. - Avanti dunque, - comandò il portoghese, con voce risoluta. - Dobbiamo giungere al kampong prima che vi arrivino i dayaki. Si rimisero frettolosamente in cammino sciabolando i rotangs ed i calamus, mentre il fragore aumentava rapidamente d'intensità. Il pilota doveva aver indovinato giusto. Fra il fracasso assordante prodotto dall'incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti. Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d'uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori. Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta. Yanez e i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi. Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato. Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente: - Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono! Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti. Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perchè i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda. Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante. Non era che l'avanguardia quella, poichè pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli. Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo. Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole. - Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! - aveva esclamato Padada. Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli. Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici. - Non muovetevi e non fate fuoco! - aveva ripetuto precipitosamente Padada. Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki. - Che siano cacciatori? - chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza. - Che cacciavano noi, - rispose il malese. - La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l'imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c'incontrino sulla loro corsa e ci travolgano. - Possiamo quindi rivederli ancora? - È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran. - Siamo lontani molto ancora? - Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell'alba. - Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa. - Quale, signore? - Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali. - Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, - disse Tangusa, che assisteva al colloquio. - Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi. - E si presteranno a quel giuoco? - Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi. - Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto! Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta. Fortunatamente le piante non crescevano così l'una presso all'altra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato. In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole. I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l'altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell'immensa foresta. Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi. Dopo una buona mezz'ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente. - Ci credono ancora lontani dal kampong, - disse il pilota, dopo d'aver ascoltato per qualche po'. - Vanno a cercarci verso il Kabatuan. - Quanta ostinazione in quei furfanti, - disse Yanez. - È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata. - Eh, signor mio, - rispose Padada, - sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l'espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile. - Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l'ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo. - Rinunziate a sapere chi è quell'uomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi? - Non ho ancora pronunciato l'ultima parola, - rispose Yanez, con un sorriso. - Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l'indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi. - Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano. - Fra poco troveremo le prime piantagioni, - disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. - Se non m'inganno siamo presso il Marapohe. - Che cos'è? - chiese Yanez. - Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori! - Che cosa c'è? - Vedo dei fuochi brillare laggiù! - esclamò Tangusa. Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale. - Il kampong! - chiese. - O un fuoco degli assedianti? - disse invece Tangusa. - Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria? - Prenderemo il nemico alle spalle, signore. - Tacete, - disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi. - Che cosa c'è ancora? - chiese Yanez, dopo qualche minuto. - Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore. - Attraversiamolo, - rispose Yanez risolutamente, - e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Che mi abbiano invece fucilato? - si chiese. S'alzò di scatto guardandosi le vesti e non vide alcuna macchia di sangue. Nemmeno Fedoro aveva la casacca lorda. - Che io sogni? - si domandò. Un lungo sibilo, che pareva uscisse da qualche macchina, lo fece sobbalzare. Un'ombra umana si delineava dinanzi a lui. La guardò con paura. Non era un'ombra, era un uomo, un bell'uomo anzi, di statura alta e di forme eleganti, colla pelle leggermente abbronzata, con due occhi nerissimi e pieni di splendore, con una barba pure nera pettinata con gran cura. Era vestito tutto di bianco, con una larga fascia rossa che gli stringeva i fianchi, e calzava alti stivali di pelle nera. Anche quell'uomo lo guardava, ma sorridendo. - Dove sono io? - chiese Rokoff. - A bordo del mio "Sparviero" - rispose lo sconosciuto nell'egual lingua. - Siete sorpreso, è vero? Ciò non mi stupisce. Poi, con una certa meraviglia, chiese: - Voi non siete un cinese, quantunque ne indossiate il costume, è vero? Invece di rispondere a quella domanda, Rokoff aveva chiesto: - Ditemi, signore: sono vivo o sono morto? - Mi pare che siate vivo - rispose lo sconosciuto, ridendo. - Però se avessi tardato solamente qualche minuto, non so se la vostra testa si troverebbe ancora sulle vostre spalle. Il cosacco aveva mandato un grido. La memoria gli era prontamente ritornata. Rivide tutto d'un colpo la piazza affollata dal popolaccio furioso, il palco, il carnefice, poi quel mostro scendere precipitosamente e rapirlo fra i colpi di fucile dei soldati cinesi. Ci volle però qualche minuto prima che le sue idee si riordinassero. Balzò innanzi e porse la mano allo sconosciuto, dicendogli con voce commossa: - M'avete salvato ... grazie signore ... vi devo la vita ... - Bah! Un altro, al mio posto, avrebbe fatto altrettanto! Siete russi? - Sì, signore, e voi? Il comandante dello "Sparviero" lo guardò senza rispondere. Una profonda ruga gli si era disegnata sulla sua ampia fronte, mentre nei suoi occhi era balenato uno strano lampo. - Vi avevo creduto cinesi - disse poi con voce lenta, misurata. - Tuttavia sono lieto di aver strappato due europei alla morte, quantunque ignori ancora il motivo per cui eravate stati condannati alla decapitazione. - Ah! Signore! Anche voi dubitate della nostra innocenza! - esclamò Rokoff. - Credete voi che un onorato ufficiale dei cosacchi del Don, che ha due medaglie al valore guadagnate sotto Plewna e che uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia meridionale abbiano potuto assassinare un cinese per derubarlo? - Io non so a quale delitto volete alludere - disse lo sconosciuto, con tono però meno duro, - e non dubito affatto che voi siate due galantuomini. - Siamo due vittime dell'odio secolare dei cinesi contro gli uomini di razza bianca. - Non metto in dubbio ciò che mi dite e per darvene una prova ecco la mia mano signor ... - Dimitri Rokoff ... del 12o Reggimento dei cosacchi del Don. Si strinsero la mano, poi il comandante dello "Sparviero" disse: - Venite: voi non avete ancora veduto la mia macchina. - Ed il mio amico? - Lasciatelo riposare. L'emozione provata deve averlo abbattuto. È il negoziante di tè costui? - Sì, signor ... - Chiamatemi semplicemente "il capitano". - Un capitano russo, perché parlate la nostra lingua come foste nato sulle rive della Neva o del Volga. Un sorriso enigmatico si delineò sulle sottili labbra del capitano. - Parlo il russo come il francese, l'italiano, il tedesco, l'inglese e anche il cinese. Vedete dunque che la mia nazionalità è molto difficile da indovinare. Ma che importa ciò? Sono un europeo come voi e ciò basta, o meglio sono un uomo di razza bianca. Venite, signor Rokoff, ah! Soffrite le vertigini? - No, capitano. - Meglio per voi: godrete uno spettacolo superbo, perché in questo momento noi ci libriamo sopra Pechino. Macchinista! - Signore - rispose una voce. - Rallenta un po'. Voglio godermi questo meraviglioso panorama. Stavano per uscire da quella specie di tenda, quando Rokoff udì Fedoro gridare con accento atterrito: - La mia testa! La mia testa! Il cosacco si era precipitato verso l'amico, frenando a malapena una risata. - L'hai ancora a posto, Fedoro! - esclamò. - Quei bricconi non hanno avuto il tempo di tagliartela. Il russo si era alzato, guardando sbalordito ora Rokoff ed ora il comandante dello "Sparviero". - Rokoff! - esclamò. - Dove siamo noi? - Al sicuro dai cinesi, amico mio. - E quel signore? Ah! Mi ricordo! L'uccello mostruoso! Il rapimento al volo! Voi siete il nostro salvatore! - Io non sono che il capitano dello "Sparviero" - rispose il comandante, tendendogli la mano. - Signore, non avete più da temere, perché siamo ormai lontani da Tong. Venite: vi mostrerò la mia meravigliosa macchina volante o meglio la mia aeronave. Macchinista! Preparaci intanto la colazione.

Ci hanno circondati e non mi pare che abbiano l'intenzione di lasciarci, senza aver almeno assaggiato un pezzetto delle nostre gambe. - Proviamo a respingerli - disse Rokoff. - E l'orso? - Non lo vedo scendere. - Una scarica a destra e una a sinistra. I due cacciatori si fecero largo fra i cespugli, per giudicare prima la loro situazione. Entrambi non poterono reprimere una smorfia di malcontento. I bighana a poco a poco li avevano circondati e si erano radunati in numero tale da temere un furioso assalto. Se ne vedevano dappertutto e s'avanzavano lentamente e incessantemente, stringendo i loro ranghi. Come il capitano aveva detto, i lupi indiani, quando si trovano in buon numero, sono coraggiosi, anzi non la cedono, per audacia, ai grossi lupi delle steppe e della Siberia. Somigliano ai loro congeneri del settentrione, sono invece più piccoli, non essendo più alti di sessanta centimetri, né più lunghi di ottanta o novanta. Hanno il pelame rossiccio o grigiastro, colle parti inferiori bianco sporco. Ordinariamente vivono in piccoli branchi di sette od otto individui; sovente si radunano in grosse bande e allora diventano il terrore dei pastori e dei villaggi montanini. Intelligenti, velocissimi, coraggiosi, si precipitano sui montoni e sui buoi senza spaventarsi delle grida dei mandriani e osano perfino entrare, in pieno giorno, nelle borgate per rapire i bambini sotto gli occhi dei genitori. Il capitano, che li conosceva, vedendoli in così grosso numero, era diventato inquieto. - Non credevo che in così poco tempo si fossero radunati in tanti - disse a Rokoff. - Il pericolo maggiore non sta alle nostre spalle, bensì dinanzi a noi. - Cerchiamo un rifugio - disse Rokoff. - E dove? - Arrampichiamoci sul nim. - E avremo da fare i conti coll'orso. - Non sappiamo ancora se lassù si trovi veramente un tale animale. - Questo è vero - rispose il capitano. - Dei due mali, scegliamo il minore. - Proviamo prima a fucilare questi audaci predoni. - Sono pronto, capitano. Le due carabine tuonano quasi contemporaneamente con un rimbombo assordante, coprendo le urla acute dei bighana. I grossi proiettili atterrano due file di animali. Gli altri indietreggiano vivamente, balzando attraverso i cespugli e s'arrestano cinquanta passi più lontano, riprendendo con maggior lena il loro scordato concerto. - Non ci lasceranno - disse il capitano. - Vedete l'animale scendere il nim? - No - rispose Rokoffi. - Ho invece ricevuto un altro ramo sul viso e più grosso degli altri. - Mettiamo in salvo le gambe; ecco i bighana che tornano a restringere le file e che si preparano per un assalto generale. Caricate la carabina. - È già pronta. - Salite, mentre io faccio una nuova scarica. Il cosacco si gettò a bandoliera l'express, s'aggrappò al tronco e aiutandosi con delle piante parassite che lo avvolgevano, si mise a salire, tenendo gli sguardi volti in alto per paura di vedersi rovinare addosso l'animale. Il capitano, fatto una nuova scarica, si era affrettato a raggiungerlo. I lupi, furiosi di vedersi sfuggire la preda, si erano subito scagliati contro il tronco del nim, ululando ferocemente e spiccando salti colla speranza di raggiungerli. Erano quattro o cinque dozzine, numero più che sufficiente per mettere a mal partito due uomini, anche se formidabilmente armati. Rokoff e il capitano, ormai al sicuro, salivano con precauzione, guardando sempre in alto. Un animale che non riuscivano ancora a distinguere in causa della foltezza del fogliame, si agitava fra i rami, scuotendoli vigorosamente e facendone cadere parecchi. Si erano elevati d'una decina di metri, quando Rokoff, che distava pochi passi dalla prima biforcazione della pianta, si fermò, dicendo: - La bestia che sta lassù, mi pare molto grossa, capitano. - Che cosa vi sembra? - Un'enorme scimmia. - Questo non è il paese dei gorilla e nemmeno dei mias, signor Rokoff - rispose il capitano. - Sono convinto che si tratti d'un orso. - Se ci piomba addosso ci getterà giù e allora verremo alle prese coi bighana, se non ci romperemo il collo o le gambe. - Non potete far fuoco? - È impossibile, capitano, non vi sono più piante parassite a cui aggrapparmi e il tronco è così liscio che è un vero miracolo che ci possiamo sorreggere con ambo le mani. - Che cosa fa quell'animale? - Scuote i rami e grugnisce come un porco. - Potete raggiungere la biforcazione? - Mi ci proverò, ma ... se quell'animalaccio scende? - Non affrontatelo; piuttosto ridiscendete. Se è grosso deve essere un labiato e non già un panda. - Bella posizione! - borbottò Rokoff. - Abbasso i cani che non attendono altro che di rosicchiarci le gambe e sulla testa quattro zampe armate d'unghie. Siamo fra Scilla e Cariddi. - Orsù, signor Rokoff, decidetevi. Non ho più forze per sorreggermi - disse il capitano. - Giacché non vi è scampo né da una parte né dall'altra, affrontiamo il nemico che può fornirci degli zamponi. Il cosacco si assicurò la carabina onde non gli sfuggisse dalla spalla, si mise fra i denti il coltello da caccia e riprese la salita, la quale diventava sempre più difficile, non essendovi più piante arrampicanti ed essendo il tronco ancora più grosso da non poterlo abbracciare interamente. Sotto, i lupi indiani continuavano a ululare e a saltare come se fossero impazziti; sopra, l'orso, ammesso che fosse tale, continuava a scuotere furiosamente i rami, minacciando a ogni istante di lasciarsi scivolare lungo il tronco e di travolgere i due cacciatori. Rokoff, che faticava assai a tenersi stretto, con un supremo sforzo riuscì a raggiungere la biforcazione dei rami. Stava per mettersi a cavalcioni e aiutare il capitano, quando si vide precipitare addosso l'animale, il quale, fino allora, si era tenuto aggrappato a un grosso ramo trasversale, situato due metri più sopra. Come il capitano aveva supposto, si trattava veramente d'un orso della specie dei labiati, chiamati dagl'indiani adamsad, molto comuni sulle catene dell'Himalaya e anche nelle foreste del Nepal. Quantunque appartengano alla medesima razza degli altri plantigradi, sono diversi nelle forme e nelle abitudini. Hanno il corpo più corto e più massiccio, le zampe assai basse, armate di robuste unghie ricurve; muso molto sporgente che finisce in una punta tronca, pelame lunghissimo, nero sul dorso, grigio sulla testa, con qualche macchia gialla e una lunga criniera che finisce in due lunghi ciuffi, che danno a quegli animali uno strano aspetto. A prima vista, sembrerebbero gobbi. Abilissimi arrampicatori, si può dire che vivono più sugli alberi che in terra, nutrendosi quasi esclusivamente di frutta. Amano però anche le alte rupi e se sono inseguiti non esitano a slanciarsi negli abissi, nascondendo la testa fra le zampe e cavandosela senza troppi guasti. L'animale che stava per assalire il cosacco, era grosso e pesante almeno un quintale e mezzo, un nemico certo pericoloso, che poteva abbattere i due uomini. Vedendolo avanzarsi, Rokoff aveva afferrato precipitosamente la carabina, mentre gridava al capitano: - Aggrappatevi ai miei piedi! Resisterò meglio! L'orso scese rapidamente il ramo, mise le zampe posteriori sulla biforcazione e s'alzò brancolando con quelle anteriori, armate di lunghi artigli. - Fuoco! Fate fuoco! - gridò il capitano. Rokoff aveva puntato la carabina, sparando precipitosamente, quasi senza mirare. Non ebbe il tempo di constatare gli effetti della scarica, perché si sentì afferrare strettamente da due zampacce e scuotere a destra e a manca, mentre si sentiva soffiare in viso un alito caldo e fetente. Credeva di sentirsi già dilaniare le carni o scaraventare nel vuoto da un'altezza di cinquanta piedi, quando una seconda detonazione rimbombò. Era stata sparata così da vicino, che per un momento si credette accecato dalla polvere. Il capitano, comprendendo che il cosacco stava per venire oppresso e che non doveva aver colpito la belva, tenendosi con una mano, coll'altra aveva scaricato la carabina. Il labiato aveva mandato un urlo di dolore, poi aveva lasciato il cosacco, arrampicandosi su pel tronco e rifugiandosi sui rami. - Colpito! - gridò Rokoff, allungando le braccia verso il capitano, il quale si era lasciato sfuggire di mano la carabina, pel contraccolpo della grossa carica di polvere che per poco non l'aveva gettato giù. - Ma è ancora vivo - rispose il comandante. - L'avete colpito, voi? - Lo credo. - E io l'ho solamente ferito. - Forse gravemente. Guardate, mi gocciola addosso del sangue. - Morisse almeno dissanguato! - esclamò il capitano, mettendosi a cavalcioni del ramo. - Sapete che vi credevo già perduto? - Ancora un momento e venivo gettato giù. - Vi ha piantato le unghie nelle spalle? - Non ne ha avuto il tempo; ha lacerato solamente la mia casacca. - E la mia carabina è caduta! - Ne abbiamo ancora una - disse Rokoff. - Io non l'ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso. - E perdereste gli zamponi. - Perché, capitano? - I bighana ve li mangerebbero. - E durerà molto questo assedio? - Fino all'alba, se i nostri compagni non vengono a liberarci - disse il capitano. - Quei lupi non torneranno alle loro tane prima che spunti il sole. - Brutta prospettiva. Che non vengano Fedoro e gli altri? Abbiamo già sparato cinque colpi di carabina e devono averli uditi. - Diranno che noi abbiamo fatto buona caccia e non si muoveranno, signor Rokoff. - Fuciliamo i lupi. - Abbiamo una carabina troppo grossa per ottenere buoni risultati - rispose il capitano. - Queste armi sono buone contro le tigri e i rinoceronti. - Non credevo che questa caccia finisse così male! - E come, vi lamentate, incontentabile cacciatore? Siamo qui da sole due ore e abbiamo già ucciso sette od otto lupi e ferito un orso. - E siamo assediati - disse Rokoff. - Sia pure, ma siamo anche completamente al sicuro dalle offese dei nemici. Il labiato non pensa più a discendere per attaccarci e i lupi non possono salire. Che cosa volete di più, signor cosacco? E avete il coraggio di lamentarvi? - Adagio, capitano, colle vostre buone speranze. Vedo invece l'orso agitarsi e l'odo brontolare. - Si lamenta delle ferite. - E se invece scendesse? - Allora perderete gli zamponi perché sarete costretto a fucilarlo e gettarlo a pasto dei lupi - disse il capitano. - Preferisco che rimanga lassù - rispose Rokoff. - Credo che ci tenga anche lui a non esporsi agli assalti dei lupi. Se non fosse ferito, non avrebbe paura ad affrontarli, mentre chissà in quale stato si trova e se le sue zampe sono in grado di distribuire colpi d'artiglio. - Cade sempre il sangue? - Mi piove addosso - rispose Rokoff. - Devo sembrare un macellaio. - Signor Rokoff! - Capitano. - Siete annoiato? - Un pochino. - Allora tirate al bersaglio. Abbiamo ancora centonovantacinque cartucce e i lupi non sono più di cinque o sei dozzine. Se volete, divertitevi, mentre io sorveglierò l'orso. Vi concedo un lupo ogni cinque palle. - Cercherò di ammazzarne invece due su cinque colpi - disse Rokoff, accomodandosi sul ramo, onde tirare con maggior attenzione. I bighana non avevano lasciato la base dell'albero. Continuavano a saltellare, mordendo la corteccia della pianta e strappandola a larghi pezzi coi loro denti acuminati e robusti e ad urlare con tale fracasso da far rintronare la foresta. Di quando in quando alcuni si allontanavano in diverse direzioni e andavano a urlare cinque o seicento passi più lontano, su diversi toni. - Chiamano altri compagni - disse il capitano. - Che sperino di rosicchiare l'albero fino a farlo cadere? - chiese Rokoff. - Non temete; ci vorrebbero delle settimane per atterrare una simile pianta. Signor Rokoff, aspettano i vostri saluti. Il cosacco puntò la carabina mirando in mezzo al gruppo e sparò il primo colpo, facendo cadere due bestie nello stesso momento. - Ho nove palle di vantaggio - disse ridendo. - Continuate - rispose il capitano. - Ah! L'amico che sta lassù comincia ad inquietarsi. Il labiato, udendo quello sparo e vedendo il fumo salire fra il fogliame, aveva ricominciato a dimenarsi, facendo scricchiolare i rami. - Che ci cada addosso? - chiese Rokoff, guardando in alto. - Non sarà così stupido da tentare un simile capitombolo, quantunque abbiano l'abitudine di precipitarsi da altezze considerevoli, allorquando si vedono in pericolo. Se non vi fossero sotto di noi i lupi, chissà, potrebbe tentare un simile salto. - Senza fracassarsi? - Pare che abbiano le ossa molto dure i labiati e posseggano una elasticità incredibile. Signor Rokoff, i lupi aspettano sempre. - Eccomi! Il cosacco aveva ripreso il fuoco. Sparava con calma, mirando attentamente, come se si trovasse in un tiro a segno durante una gara e i lupi cadevano a uno e a due alla volta. Era davvero un valente bersagliere; di rado sbagliava l'animale che aveva scelto. In cinque minuti, undici lupi giacevano attorno all'albero, massacrati dai grossi proiettili della carabina express. - Rimangono ancora cinque dozzine - disse il capitano. - E ne giungono altre due o tre - disse Rokoff, con accento scoraggiato. - Quelli che erano partiti urlando al largo tornano con nuovi rinforzi. - Che questa foresta sia piena di bighana? - Pare che sia così, capitano. E l'orso? - Si è tranquillizzato e non l'odo più muoversi. - Che sia morto? - Sarebbe caduto. - Salutiamo i nuovi arrivati - disse Rokoff. Aveva ripreso il fuoco, mirando in mezzo ai gruppi e senza mai mancare al bersaglio. I bighana però non accennavano a volersi ritirare, quantunque vedessero aumentare i morti. Avevano tuttavia compreso che rimanendo così uniti offrivano un bersaglio troppo facile e si erano dispersi fra i cespugli, senza però allontanarsi troppo dalla pianta. - Il tiro a segno comincia ad andare male - disse Rokoff, dopo aver sprecato cinque o sei palle. - Rimarremo senza cartucce prima di averli distrutti. - Me ne sono accorto - disse il capitano. - Devo continuare? - Sì, signor Rokoff. I nostri compagni, udendo questi continui spari, s'immagineranno che noi corriamo qualche pericolo e verranno di certo in nostro soccorso. Non siamo lontani più d'un chilometro dallo "Sparviero" e le detonazioni giungeranno distinte fino al fuso. Ah! Udite? Uno sparo si era udito in quel momento in direzione del piccolo altipiano. - È uno Snider - disse il capitano. - Signor Rokoff, rispondete. Il cosacco scaricò la carabina facendo cadere un altro lupo. Un istante dopo un altro sparo echeggiava verso lo "Sparviero". - Continuate il fuoco senza interruzione - disse il capitano. - Ormai i nostri compagni hanno compreso che noi abbiamo bisogno d'aiuti. - E non li assaliranno i lupi? - chiese Rokoff. - Ci siamo anche noi, e cinque uomini bene armati possono tener testa a quei piccoli predoni. Rokoff riprese a sparare senza far risparmio di cartucce. Ormai sapeva che gli aiuti stavano per giungere e non si preoccupava di rimanere con sole poche cariche. I lupi dovevano essersi accorti che altri uomini s'avvicinavano, perché alcuni si erano distaccati dal grosso ed erano partiti ululando, in direzione del piccolo altipiano. - Li hanno fiutati - disse il capitano. - Prepariamoci ad appoggiare i compagni. D'un tratto sotto gli alberi si videro balenare dei lampi seguiti da spari. - I Winchesters - disse il capitano. - Buone armi a ripetizione che faranno ballare i bighana! I lupi che assediavano l'albero, udendo quelle detonazioni, erano partiti a corsa disperata, ululando a piena gola. - Scendiamo! - gridò il capitano. Si lasciarono scivolare lungo il tronco, toccando ben presto terra. Il capitano raccolse la sua carabina, l'armò precipitosamente e si slanciò fuori dai cespugli, gridando: - Signor Fedoro! Badate a non fucilarci! Veniamo in vostro aiuto! Vedendo i lupi radunarsi innanzi a una folta macchia, in mezzo alla quale dovevano trovarsi il russo, il macchinista e lo sconosciuto, li presero alle spalle fucilandoli senza misericordia. I bighana, presi fra due fuochi non ressero molto a quella tempesta di palle che li decimava rapidamente. Dopo d'aver cercato di far fronte ai due pericoli, si sbandarono, fuggendo velocemente attraverso la foresta, perseguitati per qualche tratto da Fedoro, dal macchinista e dal loro compagno. Rokoff stava per seguirli, quando udì il capitano gridare: - L'orso! Ecco che scende! Il cosacco si era subito arrestato, ricaricando la carabina. Il labiato, approfittando della discesa dei suoi compagni e del combattimento coi lupi, aveva lasciato gli alti rami del nim e si lasciava a sua volta scivolare lungo il tronco, colla speranza di raggiungere inosservato i cespugli e di scomparire entro le folte macchie. Aveva però fatto i conti senza il capitano, il quale, pur facendo fronte ai bighana, non aveva dimenticato quella grossa e succolenta selvaggina. Vedendo i cacciatori tornare, nascose la testa fra le zampe anteriori e si lasciò andare precipitandosi da un'altezza di otto o dieci metri. Piombò in mezzo ai cespugli che schiantò col proprio peso e senza farsi, probabilmente, troppo male, poi si rialzò di scatto e si scagliò contro il capitano, che gli era vicino, cercando di piantargli gli unghioni nel viso. - Badate! - gridò Rokoff, che giungeva di corsa. Il capitano aveva fatto un salto indietro per evitare l'urto e aveva puntato la carabina facendo fuoco quasi a bruciapelo. Quantunque ferito a morte, il labiato non era caduto, anzi si era alzato sulle zampe posteriori facendo un salto innanzi. L'attacco era stato così improvviso e così impetuoso, che il capitano, il quale credeva di averlo fulminato sul colpo, non poté reggere e cadde lungo disteso. Fortunatamente Rokoff era vicino. Si udì un secondo sparo. Il labiato brancolò un istante dimenando disordinatamente le zampe, poi stramazzò mandando un rauco urlo che finì in una specie di sibilo soffocato. - Pare che sia proprio finito questa volta - disse Rokoff. - Tre palle express e quasi non bastavano ancora! ... Che pelle dura hanno questi animali! Fedoro e i suoi compagni, dispersi i lupi, tornavano. - Un orso! - esclamò il russo. - Che ci fornirà degli zamponi deliziosi - rispose Rokoff. - E centocinquanta chilogrammi di carne eccellente - aggiunse il capitano. - Lasciamo i lupi e portiamo questo morto allo "Sparviero". La caccia, come avete veduto, signor Rokoff, non poteva riuscire migliore.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Che m'abbiano scoperto o che abbiano ucciso Kammamuri? Rattenne il respiro tendendo gli orecchi. Il suo fine udito raccolse un brusìo di voci, che sembravano venire dal di fuori. - Cosa vuol dir ciò? Al di fuori v'è della gente. Che sieno gli indiani, gli abitanti di questi funebri luoghi? Si guardò intorno con superstizioso terrore, ma era affatto solo, guardò l'apertura della pagoda, ma era affatto libera. - Qualche cosa sta per succedere, lo sento, disse a voce bassa, - ma mostrerò chi sia Tremal-Naik, quando si batte. Esaminò le cariche delle pistole e della carabina, temendo forse che una mano misteriosa le avesse levate; esaminò persino la lama del suo fedele pugnale, tinto più di cento volte nel sangue dei serpenti e delle tigri, e s'accoccolò dietro alla mostruosa statua, rimpicciolendosi più che gli era possibile. La giornata passò con una lentezza spaventevole per l'indiano, condannato ad una immobilità quasi assoluta e ad un digiuno forzato. Le ombre della notte a poco a poco invero i più oscuri recessi della pagoda, poi s'alzarono gradatamente verso la cupola: alle nove l'oscurità era così profonda, da non vederci ad un passo di distanza, quantunque la luna brillasse in cielo, riflettendosi sulla grande palla di bronzo dorato e sul serpente dalla testa di donna. Il ramsinga non aveva più fatto udire le sue funebri note ed il brusìo era da lunga pezza cessato. Un silenzio misterioso regnava dappertutto. Tremal-Naik tuttavia non ardiva muoversi; il solo movimento che facesse, era quello di appoggiare l'orecchio sulle fredde pietre della pagoda e di ascoltare con profonda attenzione. Una voce segreta gli diceva di vegliare e di diffidare e ben presto si accorse che quella voce non mentiva, poiché verso le undici, quando più fitte erano le tenebre, un rumore strano, non ancor definibile, giunse fino a lui. Pareva che qualche cosa scendesse dall'alto, seguendo la corda che sosteneva la lampada. Tremal-Naik per quanto aguzzasse gli occhi non fu però capace di distinguere ciò che fosse. Per ogni precauzione impugnò le pistole e silenziosamente s'alzò, ponendosi in ginocchio. - Che può esser mai? - si chiese egli. - Ada, no poiché mezzanotte è ancor lontana. Che sieno quei terribili uomini? Una vampa d'ira gli salì in volto.- Sfortuna a colui che qui entra! Un tintinnìo metallico risuonò fra le tenebre. Era la lampada che si agitava, scossa senza dubbio da colui che scendeva dall'alto. Tremal-Naik non si trattenne più. - Chi è là? - gridò egli. Nessuno rispose alla domanda, anzi il tintinnìo cessò. - Che mi sia ingannato? - si domandò egli. Si alzò e guardò in aria. Lassù, sulla cupola, la luna continuava a riflettersi sulla palla dorata e scorgevasi una parte della fune vegetale che sosteneva la lampada, ma nessuno essere umano v'era appeso. - È strano, - disse Tremal-Naik, diventato inquieto. Tornò a rannicchiarsi continuando a guardarsi d'intorno. Passarono altri venti minuti, poi la lampada tornò a tintinnare. - Chi è là? - ripete egli con voce stridula. - Se v'è qualcuno si faccia innanzi, che Tremal-Naik lo attende. Nuovo silenzio. Allora s'aggrappò ai piedi della gigantesca statua, salì sulle braccia, si elevò fino a posare i piedi sulla testa ed afferrò la lampada scuotendola furiosamente. Uno scroscio di risa risuonò nella pagoda. - Ah, - esclamo Tremal-Naik, che sentivasi invadere dalla rabbia. - V'è qualcuno che ride lassù. Aspetta! Radunò le sue erculee forze, poi con una strappata irresistibile spezzò la fune. La lampada rovinò al suolo con un fracasso indescrivibile, che gli echi del tempio più volte ripeterono. Un secondo scroscio di risa risuonò. Tremal-Naik si precipitò giù dalla statua, nascondendovisi dietro. Era tempo. Una porta s'aprì ed un indiano alto e magro, riccamente vestito, con un pugnale in una mano e una torcia resinosa nell'altra, apparve. Quell'uomo era il truce Suyodhana: una gioia infernale irradiava il bronzeo suo volto e ne' suoi occhi balenava un sinistro lampo. Egli si arrestò un momento a contemplare la mostruosa divinità, dietro la quale stava Tremal-Naik col coltello fra i denti e le pistole in pugno poi fece alcuni passi innanzi. Dietro a lui si avanzarono ventiquattro indiani, ponendosi dodici a destra e dodici a sinistra. Erano tutti armati di pugnale e del cordone di seta colla palla di piombo. - Figli miei, - disse Suyodhana con un accento da far fremere, - è mezzanotte! - Gli indiani sciolsero le corde, brandirono i pugnali e piantarono le torcie in alcuni buchi fatti nelle pietre. - Siamo pronti alla vendetta! - risposero in coro. - Un empio, - proseguì Suyodhana, - ha profanato la pagoda della nostra dea. Cosa merita quest'uomo? - La morte, - risposero gl'indiani. - Un empio ardì parlare d'amore alla vergine della pagoda. Cosa merita quest'uomo? - La morte, - ripeterono gl'indiani. - Tremal-Naik! - gridò Suyodhana con terribile accento. - Mostrati! Uno scroscio di risa gli rispose, poi il cacciatore di serpenti, che tutto aveva udito, apparve, slanciandosi con un solo salto dinanzi alla mostruosa divinità. Non era più lo stesso uomo; pareva una vera tigre sbucata dalla jungla. Un feroce sorriso sfiorava le sue labbra, la sua faccia era truce, alterata da una collera furiosa e gli occhi mandavano sinistri baleni. Il selvaggio figlio della jungla si risvegliava, pronto a ruggire ed a mordere. - Ah! Ah! - esclamò egli ridendo. - Siete voi che volete uccidere Tremal-Naik? Si vede che non conoscete ancora il cacciatore di serpenti. Guardate, assassini, quanto vi disprezzo. Alzò in aria le due pistole e le scaricò, gettando lontano da sé le armi. Scaricò dipoi la carabina e l'impugnò per la canna per servirsene come d'una mazza. - Ora, - diss'egli, - chi si sente tanto ardito da assalire Tremal-Naik, si faccia innanzi. Mi batto per la donna, che voi, o maledetti, condannaste. Fece un salto indietro e si mise sulla difensiva, emettendo il suo urlo di guerra. - Avanti! avanti! - tuonò. - Mi batto per la vergine della pagoda! - Un indiano, senza dubbio il più fanatico, gli si avventò contro, facendo fischiare in aria il laccio. Sia che avesse preso troppo slancio o che scivolasse, egli venne a cadere quasi ai piedi di Tremal-Naik. La terribile mazza s'alzò e discese con rapidità fulminea percotendo il cranio dell'indiano. La morte fu istantanea. - Avanti! avanti! - ripeté Tremal-Naik. - Mi batto per la mia Ada! I ventitré indiani si scagliarono come un sol uomo sul cacciatore di serpenti, che roteava come un demente la carabina. Un altro indiano cadde, ma la carabina non resse a quel secondo colpo e si spezzò nelle mani di colui che l'adoperava. - A morte! a morte! - vociarono gl'indiani, spumanti d'ira. Un laccio piombò su Tremal-Naik stringendogli il collo, ma egli lo strappò di mano allo strangolatore, poi impugnò il coltello e si avventò contro la statua di bronzo salendole sulla testa. - Largo! largo! - gridò egli, girando intorno sguardi feroci. Si raccolse su se stesso come una tigre e saltando sopra le teste degl'indiani cercò dirigersi verso la porta, ma gli mancò il tempo. Due corde gli strinsero le braccia, percuotendolo dolorosamente colle palle di piombo e lo atterrarono. Egli gettò un urlo terribile. Gl'indiani in un baleno gli furono sopra come una torma di cani attorno al cinghiale, e malgrado la sua forte resistenza venne solidamente legato e ridotto all'impotenza. - Aiuto! aiuto! - rantolò egli. - A morte! a morte! - gridarono gli indiani. Con uno sforzo erculeo spezzò due corde, ma fu tutto quello che poté fare. Nuovi lacci lo strinsero, e così fortemente, che le carni divennero nere. Suyodhana, che aveva assistito impassibile a quella disperata lotta di un uomo solo contro ventidue, gli si avvicinò e lo contemplò per alcuni istanti con gioia satanica. Tremal-Naik nulla potendo fare, gli sputò contro. - Empio! - esclamò il figlio delle sacre acque del Gange. Afferrò con mano solida il suo pugnale e l'alzò sul prigioniero che lo guardava sdegnosamente. - Figli miei, - disse l'indiano, - qual pena merita quest'uomo? - La morte! - risposero gl'indiani. - E la morte sia. Tremal-Naik emise un ultimo grido. - Ada! Povera Ada! La lama del vendicatore che penetravagli nel petto, gli spense la voce. Sbarrò gli occhi, li chiuse, uno spasimo violento agitò le sue membra e si irrigidì. Un rivo di sangue caldo scorreva per le sue vesti, disperdendosi per le pietre. - Kâlì! - disse Suyodhana, volgendosi verso la statua di bronzo.- Scrivi sul tuo nero libro, il nome di questa nuova vittima. Ad un cenno due indiani sollevarono l'infelice Tremal-Naik. - Gettatelo nella jungla a pasto delle tigri, concluse il terribile uomo. - Così periscono gli empi! ...

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 5 occorrenze

È strano però che i Tuareg abbiano trucidato tutti gli altri e risparmiato lui solo." "Sarà stato l'unico a cadere vivo nelle mani di quei predoni." La voce di Rocco interruppe la loro conversazione "Il pranzo è in tavola! Vedrete che meraviglie!" Il sardo e Esther avevano fatto dei veri prodigi per festeggiare degnamente la liberazione del vecchio moro e la lieta novella recata da El-Melah. Oltre aver saccheggiato le casse dei viveri, erano ricorsi anche alle due carovane per averne burro, formaggi, zucchero, orzo e frutta secche ed una magnifica lepre che un arabo aveva ucciso nel deserto. I profumi che uscivano dalle pentole erano così squisiti che per un momento il marchese credette di trovarsi in qualche albergo della Corsica o della Francia, anziché ai confini del deserto. La minuta era davvero splendida e svariata. Orzo al latte, arrosto di montone, lepre al Bordeaux, un'ottarda in salsa verde, pasticcio di datteri, frutta secche e aranci al Marsala. La serata passò lietamente, in compagnia dei capi carovanieri invitati a prendere il caffè. Alle undici tutti i cammelli erano pronti alla partenza. Il marchese e Ben si posero all'avanguardia sui due mehari e mezz'ora dopo la carovana abbandonava l'oasi, inoltrandosi nel deserto. A mezzodì dell'indomani i minareti di Tombuctu e le cupole delle moschee, indorate dal sole, si delineavano all'estremità della pianura sabbiosa. "Non una parola che non sia araba," disse Ben al marchese. "Se vi sfugge una frase in francese siete perduto, ricordatevelo." "Non temete, Ben," rispose il signor di Sartena. "Parlerò arabo come un vero algerino e pregherò come un ardente mussulmano." Nondimeno il marchese internamente non si sentiva tranquillo; ma ciò lo attribuiva alla commozione di entrare in quella misteriosa città che era stata la meta sospirata di tanti audaci viaggiatori durante l'ultimo secolo, molti dei quali erano stati uccisi dal fanatismo dei Tuareg prima ancora di poter mirare, e da lontano, le cupole ed i minareti delle moschee. Attraversati i bastioni la carovana, in bell'ordine, fece la sua entrata per la porta del settentrione. I kissuri, bellissimi uomini, armati di lunghi fucili a pietra e di jatagan che davano loro un aspetto brigantesco, dopo averli interrogati uno ad uno sulla loro provenienza e aver constatato che i cammelli erano carichi di mercanzie, li lasciarono proseguire, credendoli in buona fede mercanti marocchini. Fu però per gli europei e anche pei due ebrei un momento di viva emozione. Il menomo sospetto sulla loro vera origine e sulla loro religione sarebbe stato più che sufficiente per perderli, essendo rigorosamente vietato l'ingresso a Tombuctu ai non mussulmani, soprattutto agli europei. "Dove andiamo?" chiese il marchese a El-Haggar quand'ebbero oltrepassato la porta. "Vi sono dei caravan-serragli qui," rispose il moro. "Non saremmo liberi," disse Tasili. "Andiamo ad accamparci nel giardino del mio padrone. La casa è diroccata, questo è vero, però alcune stanze sono ancora abitabili." "Si, andiamo alla dimora di mio padre," disse Ben. "Desidero ardentemente vederla." "E poi il tesoro è là," aggiunse Tasili a bassa voce. Attraversarono parecchie vie ingombre di mercanti e di animali, aprendosi il passo con molta fatica, e guidati dal vecchio moro si diressero verso i quartieri meridionali della città, i quali erano i meno frequentati, i meno popolati, e anche i più diroccati, avendo molto sofferto dagli assalti dei Tidiani che avevano assediato la città nel 1885. Dopo una buona ora, il moro si arrestava dinanzi ad una casa di forma quadra, sormontata da tre cupolette molto slanciate, e costruita con mattoni seccati al sole. Parte del tetto era stata diroccata e anche le pareti mostravano larghi crepacci. Dietro si estendeva un giardino incolto, pieno di sterpi e ombreggiato da un gruppo di palme, cinto da una muraglia ancora in ottimo stato. "È questa la dimora di mio padre?" chiese Ben, non senza commozione. "Si, padrone," rispose Tasili. Fecero entrare i cammelli nel giardino, il quale era tanto ampio da contenerli comodamente tutti, poi il marchese, Esther, Ben e Tasili visitarono l'abitazione. Come tutte le case di Tombuctu abitate da persone agiate, questa nell'interno aveva un cortiletto circondato da un porticato con colonne di mattoni, ed una fontana nel mezzo. Le stanze, in numero di quattro, erano ancora abitabili, quantunque legioni di ragni e di scorpioni le avessero invase. Fecero portare le casse sotto il porticato e diedero ordine ai due beduini di sbarazzare le stanze dai loro incomodi abitanti, soprattutto dagli scorpioni, insetti molto pericolosi, i cui morsi talvolta riescono mortali alle persone. "Andiamo a vedere il pozzo," disse il marchese. "Non facciamo però capire ai beduini e nemmeno agli altri che là dentro si nasconde un tesoro," disse il prudente e sospettoso moro. "Sarebbero capaci di denunciarvi per impossessarsene." "Conosciamo quei messeri," rispose il marchese. "Quantunque finora non ci abbiano dato alcun motivo di lagnarci di loro. Vuoteremo il pozzo di notte e durante la loro assenza." Il pozzo dove Tasili aveva seppellito le ricchezze accumulate dal suo padrone si trovava nel mezzo del giardino, fra quattro palme dûm d'aspetto maestoso. Aveva un parapetto basso, formato da mattoni seccati al sole, e non misurava più di due metri di circonferenza. Le sabbie ed i sassi erano stati gettati in così gran copia dal vecchio moro, che giungevano a due metri sotto il livello del suolo. "Quanto dovremo scavare?" chiese il marchese. "Dodici metri," rispose il moro. "Altro che le casseforti! L'impresa sarà dura, ma la fatica sarà ricompensata largamente. A quanto stimate le ricchezze rinchiuse nella cassa?" "A due milioni di lire, signore." "Sarà necessario però cercare un'altra via per ritornare al Marocco." "Ci pensavo anch'io," rispose l'ebreo. "È una ricchezza troppo vistosa per esporla ai pericoli del deserto." "Volete un consiglio?" "Parlate, marchese." "Scendiamo il Niger fino ad Akassa. Le barche non mancano sul fiume; ne compreremo una e ce ne andremo da quella parte." "Assieme a voi, è vero, marchese?" chiese Ben, guardandolo fisso e sorridendo. "Sì," rispose il signor di Sartena, che lo aveva compreso. "Assieme a voi ed a vostra sorella." "Queste ricchezze non appartengono a me solo," prosegui Ben; "e guardate da due uomini che hanno fatto le loro prove nel deserto contro i Tuareg, giungeranno più facilmente al mare." "Le difenderemo contro tutti, Ben, ve l'assicuro." "Io la mia parte, voi quella di mia sorella. Vi conviene, marchese?" "Tacete e fermiamoci qui, per ora." Ben prese la destra del marchese e gliela strinse con commozione. "Che il sogno si avveri," disse, "ed io sarò il più felice degli uomini, come mia sorella sarà la più felice delle donne." "L'amo," disse il marchese, semplicemente. "È il destino che ci ha fatto incontrare." "Ed il destino si compia," rispose Ben con voce grave.

"Che ci abbiano seguito?" si domandò il marchese, con ira. "La presenza di quei predoni non mi piace affatto." "Che osino assalirci fra tanta gente?" chiese Esther. "No di certo, perché i marocchini e gli algerini s'unirebbero a noi per respingerli. Qui siamo come fra compatrioti." "Che vadano anch'essi a Tombuctu? Che cosa ne dici, El-Melah?" Il sahariano non rispose. Guardava Esther in modo strano, mentre un brutto sorriso gli increspava le labbra. "Ebbene, non mi hai udito, El-Melah?" chiese il marchese, impazientito. "Che quei Tuareg si dirigano anch'essi a Tombuctu?" "Ah! Sì, lo suppongo," rispose il sahariano, quasi distrattamente. "Con Ben vado ad assicurarmi chi siano. Tu, El-Melah, non lascerai Esther durante la mia assenza e aspetterai il ritorno dei beduini e di El-Haggar, che sono andati ad acquistare dei viveri." Il sahariano fece un gesto d'assenso e si sdraiò al suolo, a quattro passi dalla giovane ebrea, la quale si era seduta presso la tenda, all'ombra d'un bellissimo palmizio. Il viso del giovane non si era ancora rasserenato, né i suoi sguardi si erano ancora staccati dall'ebrea. Anzi una fiamma cupa balenava entro quegli occhi nerissimi, mentre la fronte gli si aggrottava sempre più. "Signora," disse ad un tratto, risollevandosi. "Che cosa va a cercare a Tombuctu il marchese?" Esther alzò il capo che teneva appoggiato ad una mano, e guardò con stupore il sahariano. "Perché mi fai questa domanda, El-Melah?" chiese. "Io vi ho seguito fin qui senza aver ancora potuto conoscere chiaramente i vostri progetti e prima di entrare in Tombuctu desidererei sapere lo scopo che vi guida. La Regina delle Sabbie è pericolosa per gl'infedeli; voi giuocate la vita." "Andiamo a cercare il colonnello Flatters. Credevo che tu lo sapessi, El-Melah." Un sorriso beffardo spuntò sulle labbra del sahariano. "Non valeva certo la pena di venire fino qui a cercare un uomo che forse è morto e che è ben lontano da Tombuctu." "Sai qualche cosa tu?" chiese Esther. Il sahariano crollò il capo, poi disse come parlando fra sé: "Lasciamolo cercare." "Chi?" "Il francese." "Non ti comprendo, El-Melah." "Chissà, forse potrà trovare anche qualche cosa d'altro a Tombuctu. Signora, è vero che il marchese vi ama?" "Sì, El-Melah." "E voi?" chiese il sahariano, figgendole in viso uno sguardo acuto come la punta d'uno spillo. "Ciò non ti può interessare," rispose Esther, il cui stupore aumentava. "Desidererei sapere se lo lascereste per un altro uomo che pure vi ama e forse più del marchese." "El-Melah," esclamò la giovane alzandosi. "Il sole del deserto ti ha sconvolto il cervello? Ne avevo il dubbio, ora ne ho la certezza." "Sì, deve esser così," rispose il sahariano, con un accento strano. "Il sole del deserto deve aver guastato il cervello di El-Melah." S'alzò girando intorno alla tenda; poi tornò a sdraiarsi, tenendosi il capo stretto fra le mani. "Quel povero giovane è pazzo," disse Esther. In quel momento il marchese tornava con Rocco, El-Haggar e Ben. Tutti e tre parevano assai preoccupati ed inquieti. "Che cosa avete?" chiese Esther, movendo loro incontro. "I Tuareg che sono passati per di qua sono gli stessi che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti," rispose Ben. "Vanno a Tombuctu." "Che abbiano qualche progetto su di noi?" chiese Esther. "Tutto si può attendere da quegli uomini," disse El-Haggar. "Se essi hanno un sospetto che voi non siete mussulmano, ci possono fare arrestare dalle guardie del sultano e anche uccidere." "Eppure non possiamo rimanere qui ora che abbiamo attraversato il deserto. Io non me ne tornerò se non quando avrò la certezza che il colonnello è morto o che si trova prigioniero del sultano." "Ed io se prima non avrò raccolto l'eredità di mio padre," disse Ben. "E trovato Tasili," aggiunse Rocco. "Senza quell'uomo non potrete certo riacquistare il tesoro." "Ascoltatemi," disse in quell'istante El-Haggar. "A me, come mussulmano, non è vietata l'entrata in Tombuctu e nessun pericolo può minacciarmi. Volete che io segua quei Tuareg per cercare di scoprire le loro intenzioni e cercare Tasili? Fra tre o quattro giorni io sarò di ritorno e allora agirete." "E ti occuperai di sapere se il colonnello è vivo od è stato ucciso?" "Ve lo prometto, marchese. Conosco parecchie persone a Tombuctu e andrò ad interrogarle." "E ne conosco anch'io," disse El-Melah, alzandosi. "Vuoi partire con El-Haggar?" chiese il signor di Sartena. "Tu che conosci quei Tuareg puoi sapere, meglio d'ogni altro, che cosa sono venuti a fare a Tombuctu." "Se lo desiderate io parto," rispose il sahariano, con vivacità. "Vi concederemo una settimana di tempo. Se non vi vedremo ritornare, qualunque cosa debba succedere, noi verremo a Tombuctu," disse il marchese. "Siamo d'accordo," rispose El-Haggar. I loro preparativi furono lesti. Caricarono sui due mehari dei viveri, s'armarono di fucili e di jatagan e salirono in sella. "Prima che il sole tramonti noi entreremo nella Regina delle Sabbie," disse El- Haggar. "Abbiate pazienza e non lasciate questa oasi. In caso di pericolo io o El-Melah torneremo subito e vi rifugerete subito nel deserto." "Và e che Dio sia con te," risposero Ben ed il marchese. Mentre però s'allontanavano, El-Melah continuava a volgersi indietro ed Esther provava ancora l'impressione di quello strano sguardo che le procurava una specie di malessere che non sapeva spiegarsi. Quando i due corridori scomparvero in mezzo alle dune, la giovane provò un vero sollievo. "Che uomo strano è quel Melah," mormorò. "Che sia veramente pazzo?" Il marchese ed i suoi compagni intanto si erano occupati a prepararsi l'accampamento, onde passare quella lunga attesa nel miglior modo possibile. Rizzarono le due tende assicurandole con numerose funi e disposero le casse ed i bagagli all'intorno, formando una specie di barriera; poi con sterpi e foglie innalzarono una zeriba destinata a contenere i cammelli e gli altri animali, precauzione indispensabile con tanta gente che occupava l'oasi in attesa del momento opportuno per mettersi in marcia verso il nord. "Ora armiamoci di pazienza ed aspettiamo," disse il marchese, quando il campo fu pronto. "El-Haggar ritornerà, ne sono certo, e forse accompagnato da Tasili."

"Che abbiano rinunciato a inseguirci?" "Lo vedremo più tardi, signore." "Tu dunque non credi?" "Ho i miei dubbi." "Dove andiamo?" "Verso la riva sinistra; sulla destra abbiamo Koromeh." "Non siamo ancora troppo vicini a Kabra?" "Vi ho detto che ci nasconderemo." "Avanti dunque," concluse il marchese. Il Niger, quantunque prima a Kabra dividesse la sua corrente formando due bracci ben distinti, era ricchissimo d'acqua e la sua larghezza sorpassava, in quel luogo, i tre chilometri. Scorreva lento come il Nilo, fra due rive assai basse e molto boscose, trascinando un gran numero d'isolette galleggianti e di tronchi enormi, i quali si urtavano rumorosamente, ora sommergendosi ed ora tornando bruscamente a galla. Le sue acque torbidissime, forse a causa di qualche recente acquazzone, formavano qua e là dei larghi gorghi, tuttavia non pericolosi per la scialuppa. Nessuna barca in quel momento lo attraversava e nessun villaggio si scorgeva sulle sue rive. Abbondavano invece gli uccelli acquatici, specialmente in mezzo ai canneti che crescevano numerosissimi lungo le sponde e sugli isolotti. Si vedevano tormi immensi di pellicani, di fenicotteri, di gru, di ibis bianche e nere e di tantali, mentre sulle isole galleggianti passeggiavano gravemente degli esemplari di balaeniceps rex, stravaganti uccellacci, alti più d'un metro, rassomiglianti un po' ai marabù dell'India, con gambe lunghe e la testa grossa, fornita d'un becco mostruoso, assolutamente sproporzionato al corpo. I due battellieri negri osservavano attentamente la riva sinistra del fiume, ascoltarono per qualche minuto, poi, non udendo più rullare i tamburi, spinsero la scialuppa da quella parte, tagliando vigorosamente la corrente. Un quarto d'ora dopo, attraversato un banco coperto di canne, spingevano l'imbarcazione entro una piccola cala circondata da enormi alberi, i quali proiettavano un'ombra così fitta da intercettare completamente i raggi del sole. "Dalla luce accecante siamo piombati quasi fra le tenebre," disse Rocco, deponendo il remo e tergendosi il sudore che gl'inondava il viso. "Ci fosse almeno un po' di frescura sotto queste piante! Pare invece di essere entrati in una serra calda." "Udite nulla voi?" chiese il marchese. "No," risposero tutti. "Tuttavia non mi fido e proporrei di fare un giro sotto le piante. Vi pare, Ben?" "Certo, così andremo a guadagnarci la colazione, poiché le rive del Niger abbondano di selvaggina." "Ed io?" chiese Esther. "Non esponetevi," rispose il marchese. "Forse fra queste piante vi sono dei negri imboscati e le palle non sempre vanno perdute." "Sì, rimani, sorella," disse Ben. "Quando ci saremo accertati che non v'è alcun pericolo, potrai sbarcare." Il marchese, l'ebreo ed il sardo, presi i fucili, balzarono fra le piante, facendo fuggire uno stormo di pappagalli che schiamazzava sulla cima di alcuni cespugli. La foresta cominciava lì, una vera foresta africana in tutto il suo più esuberante splendore. Tutte le ricchezze della flora tropicale pareva si fossero riunite intorno a quel piccolo seno. Ecco i giganteschi sicomori, gli splendidi banani dalle foglie immense. gli enormi manzanillieri, i cui fiori rossi spiccano superbamente fra il verde cupo delle foglie; i palmizi nani, i datteri spinosi e le acace fistolose, cinte da convolvoli arrampicanti il cui folto fogliame s'intreccia in pergolati naturali; ecco le baunie, le palme deleb, le dûm, ed ecco gli enormi baobab, i re dei vegetali, che da soli bastano a formare una piccola foresta ed i cui tronchi sono così enormi che venti e anche trenta uomini non sarebbero sufficienti per abbracciarli. Da tutte le parti fuggono nubi di volatili dalle penne variopinte, pappagalli verdi, gialli e rossi; sciami di tordi dalle penne azzurre, di sberegrig (merops) colle piume d'un verde azzurro sotto il ventre, più fosche sopra e più chiare presso la coda, di leggiadre ortygometre, di anastoni e di pivieri bellissimi. Sulle cime dei più alti alberi invece, numerose scimmie si divertono a fare una ginnastica indiavolata, balzando come palle di gomma e urlando a piena gola. Sono dei cercopitechi verdi, non più alti di mezzo metro, col pelame verdognolo ed i musi adorni di barbe bianche che danno a quei quadrumani un aspetto comicissimo. "Non sarà difficile procurarci una deliziosa colazione," disse Rocco, il quale aveva adocchiato una splendida ottarda che passeggiava gravemente in mezzo alle enormi radici dei vegetali. "Ma non ora," rispose il marchese. "Voglio prima assicurarmi se questa boscaglia è deserta. I negri non sono sciocchi e avranno notato la nostra direzione." "Eppure non odo più i tamburi rullare per le campagne." "È appunto questo silenzio che non mi rassicura, mio caro Rocco." "Che i kissuri abbiano seguita la riva del fiume?" "Avevano dei buoni cavalli e non ci avranno perduti di vista." "Che ostinati!" "Le nostre teste saranno state messe a buon prezzo," disse Ben. "E noi ci prenderemo quelle dei kissuri e le manderemo al sultano," rispose Rocco. "In pacco raccomandato?" chiese il marchese, ridendo. "Già, mi dimenticavo che i negri non conoscono il servizio postale. Che barbari!" disse il sardo, con disprezzo. Pur chiacchierando, s'inoltravano cautamente sotto quegli alberi i quali diventavano sempre più folti, rendendo la marcia molto difficile. Migliaia di piante parassite avvolgevano i tronchi, salivano fino ai più alti rami, poi ricadevano in festoni incrociandosi in mille guise, mentre le radici, non trovando terreno sufficiente, sorgevano dovunque, serpeggiando pel suolo come mostruosi rettili. Già si erano allontanati due o trecento metri, quando improvvisamente udirono alcune scariche, che provenivano dalla parte del bacino, seguite da urla terribili. Il marchese si era fatto pallidissimo: "Chi fa fuoco?" "Alla scialuppa!" gridò Rocco, slanciandosi innanzi. "Odo la voce di El-Haggar!" Infatti si udiva il moro urlare: "Aiuto! Rapiscono la signora Esther!" Il marchese ed i suoi compagni si erano lanciati fra le piante, correndo disperatamente. I colpi di fucile erano cessati; ma si udiva in lontananza il moro gridare sempre: "Aiuto! La portano via!" In dieci secondi il marchese giunse presso la scialuppa. Non vi erano che i due battellieri rannicchiati sotto i banchi e tremanti ancora di spavento. Un grido di disperazione proruppe dalle labbra del signor di Sartena: "Esther! Esther! l'hanno rapita! El-Haggar!" La voce del moro rispose subito "Qui, signore! Fuggono!" Poi seguì un colpo di fucile sparato probabilmente da lui. I tre amici, guidati da quel lampo, si erano ricacciati nella foresta, gridando "Veniamo, El-Haggar! Tieni fermo!" Trovarono il moro a trecento passi dalla riva, presso il tronco d'un baobab, in preda a una forte disperazione. "I miserabili! L'hanno portata via e sono scomparsi! Ah! Povera signorina Esther!" Il marchese, che era fuori di sé, lo afferrò per un braccio scuotendolo ruvidamente. "Dimmi ... parla ... chi sono stati a portarla via?" "Dei negri, signore," singhiozzò il moro. "Molti?" "Erano in venti per lo meno." "Sei certo che non erano kissuri?" chiese Ben, che piangeva come un fanciullo. "No, signore, erano negri, ci sono piombati addosso improvvisamente, hanno preso la signorina Esther, che era scesa a terra per venirvi incontro, e l'hanno portata via." "Inseguiamoli," disse Rocco. "Non devono essere lontani." "Sì, diamo addosso a quei bricconi prima che escano dalla boscaglia," gridò Ben. "Un momento," disse il marchese, che aveva riacquistato il suo sangue freddo. "Che El-Haggar torni alla scialuppa e che vegli sui due battellieri. Vi è il vostro tesoro, Ben e non dovete lasciarlo nelle mani di quei due negri." "Torno all'istante." rispose il moro. "E noi," disse il marchese, "in marcia! E guai ai rapitori!"

"Pare che ne abbiano avuto abbastanza," disse il marchese. "Che si siano decisi a rinunciare ai loro progetti ladreschi?" "Non speratelo, marchese," disse Ben. "Finché ne rimarrà uno non ci lasceranno tranquilli. Torneranno presto. Hanno da seppellire i loro compagni e da buoni mussulmani verranno ancora qui per scavare le fosse." "Che vadano ora in cerca di aiuti?" domandò Rocco. "Sepolti i compagni, probabilmente si spingeranno fino all'oasi più vicina per levare armati," rispose Ben. "Quando però torneranno, noi saremo ben lontani." "Lasciamoli correre e raggiungiamo la carovana," disse il marchese. "Ci avanzeremo a marce forzate per giungere presto ai pozzi di Marabuti." Vedendo che i Tuareg non accennavano a fermarsi, spronarono i cavalli e con una galoppata di mezz'ora raggiunsero la carovana, la quale in quel frattempo aveva continuato la sua fuga verso il sud. Alla retroguardia trovarono Esther colla piccola carabina in mano, pronta a proteggere la carovana e a portare soccorso al marchese ed ai suoi compagni. I due beduini ed il sahariano mostravano invece uno sbigottimento tale, da far scoppiare dalle risa Rocco. "Non potremo fare molto assegnamento su questi uomini," disse il marchese, osservando i visi sconvolti dei marocchini. "I due beduini parlavano di abbandonarvi," disse Esther. "Se non avessero avuto paura della mia carabina e del fucile di El-Haggar, non sarebbero forse più con noi." "Ed anche El-Haggar mi pare abbastanza spaventato," disse Ben. "Signore," disse in quel momento El-Haggar, accostandosi al marchese, "è necessario marciare senza perdere tempo; quei Tuareg torneranno con altri compagni. Essi non cesseranno l'inseguimento finché non avranno vendicato i loro morti." "E tu hai una paura indiavolata di loro, è vero, El-Haggar?" rispose il marchese. "So quanto sono tenaci nelle loro vendette, signore. Avete fatto male a prenderli subito a fucilate." "Volevi che mi lasciassi ammazzare come quei disgraziati che abbiamo veduto ieri?" "Non dico questo; si poteva venire a patti con quei predoni. Probabilmente si sarebbero accontentati d'una terza o quarta parte delle vostre mercanzie come diritto di passaggio." "Io sono uso a non tollerare imposizioni da parte di chicchessia, mio caro El- Haggar. Il deserto appartiene a tutti e chi vorrà impedirmi d'attraversarlo avrà a che fare col mio fucile. Lascia andare i Tuareg e le tue paure insieme e cerchiamo di frapporre fra noi e quei bricconi il maggior spazio possibile." "Ben detto, marchese," disse Esther. "Noi non abbiamo paura di quei ladroni. Partiamo." La carovana, che aveva fatto una brevissima sosta, si ripose in cammino attraverso quelle eterne ondulazioni sabbiose, le quali pareva non dovessero avere più confine. Quelle immense pianure non variavano. Sempre dune, poi dune ancora, con qualche magro cespuglio quasi disseccato dal sole e qualche scheletro di cammello biancheggiante sinistramente fra quelle sabbie ardenti. Nessuna palma che annunciasse la presenza d'un pozzo si scorgeva in alcuna direzione, come pure non si vedeva alcuna roccia che rompesse la desolante monotonia di quelle pianure. Il marchese e Ben si erano collocati alla retroguardia onde prevenire qualunque sorpresa, mentre Rocco e El-Haggar si erano messi all'avanguardia, tenendo i fucili dinanzi alle selle. El-Melah invece aveva ripreso il suo posto a fianco del cammello montato da Esther. Il sahariano, poco ciarliero come la maggior parte dei suoi compatrioti, non aveva ancora rivolto alla giovane una sola parola, però mostrava verso di essa un attaccamento strano. Ogni volta che la giovane lo guardava, era certa d'incontrare gli occhi neri, brucianti di lui, e ne riceveva un'impressione disgustosa e di paura. Nel lampo di quegli sguardi vi era qualche cosa di misterioso ed insieme di bestiale e di minaccioso, che la giovane non sapeva spiegarsi. Non aveva però fino allora avuto di che lamentarsi di quell'uomo. Anzi non aveva nemmeno il tempo di formulare un desiderio, che già El-Melah, come l'avesse indovinato, la esaudiva. Se una scossa del cammello apriva troppo la tenda, s'affrettava a richiuderla onde il sole non vi penetrasse; se vi era da salire una duna, prendeva subito la briglia e guidava l'animale adagio, con prudenza, onde non cadesse; se Esther aveva sete, lo indovinava dallo sguardo ed era pronto ad offrirle l'otre. Mai però una parola, né un sorriso, né un gesto che tradisse una qualche compiacenza nel renderle quei servigi, che d'altronde nessuno gli chiedeva. "La paura provata durante quella lunga agonia, e fors'anche quell'orribile scena del massacro, devono avergli sconvolto il cervello," aveva detto la giovane. "Lasciamo che mi guardi." Un momento però, aveva avuto un timore ben diverso. Aveva sorpreso negli sguardi del sahariano un lampo terribile nel punto in cui il marchese si era appressato al cammello che la portava, per scambiare con lei qualche parola. Quello sguardo però si era subito spento ed il viso di El-Melah, per un poco alterato, aveva ripreso la sua impassibilità consueta. Alla sera la carovana, sfinita da quella lunga marcia, s'arrestava fra due alte dune che formavano due bastioni naturali, nel caso che i Tuareg avessero cercato di approfittare delle tenebre per sorprenderli. "Con due sentinelle sulla cima delle dune, noi potremo dormire tranquillamente alcune ore," aveva detto il marchese, dando il segnale della fermata. Mentre si preparava la cena e si alzavano le tende, fece una galloppata verso il nord in compagnia di Ben, onde accertarsi che i Tuareg non li avevano seguiti, tenendosi nascosti dietro alle dune. "Pare che abbiano rinunciato ad inseguirci," disse il marchese a Rocco ed al moro. "Non abbiamo veduto nessuno." "Non illudetevi, signore," rispose El-Haggar. "Quei predoni non ci lasceranno tranquilli, lo vedrete." "Io dico invece che ne hanno avuto abbastanza e che non ci seccheranno più." "Badate a me, signore, che ho assistito al massacro della spedizione della signora Tinnè." "Chi? Tu?" esclamò il marchese, stupito. "Sì, signore, e dovrei essere morto fino da allora." "Chi era questa signora Tinnè?" chiese Esther, con curiosità. "Una donna europea forse?" "Una delle più ricche e delle più belle giovani dell'Olanda," rispose il marchese. "Ed è stata assassinata qui?" "Sì, in questo deserto. Ceniamo ora, poi vi narrerò quel massacro che ha commosso l'intera Europa. Forse da El-Haggar udremo dei particolari che tutti ancora ignoriamo." "Se i Tuareg ce ne lasceranno il tempo," disse il moro, i cui sguardi si erano volti verso una bassura che si estendeva verso l'est. "Si avvicinano?" chiese il marchese, alzandosi vivamente. "Non sono essi per ora; ma se quei giganteschi volatili fuggono, ciò significa che degli uomini li inseguono o che li hanno spaventati." "Di quali volatili parli?" "Non vedete una nube di polvere alzarsi dietro quelle dune e avanzassi velocemente verso di noi?" "Vediamo," rispose il marchese. "È una banda di struzzi, signore." "Una bella occasione per procurarci un superbo arrosto," disse Rocco. "Devono essere stati i Tuareg a costringerli a prendere il largo," insistette El-Haggar. "Ne sei certo?" chiese il marchese. "Lo suppongo, signore." "Ebbene," disse il marchese con voce tranquilla, "prima occupiamoci di questi superbi volatili; poi penseremo ai Tuareg. E tu, Rocco, fà preparare un bel fuoco: vi sono qui molti sterpi da raccogliere." La nube di polvere ingrandiva a vista d'occhio e s'avvicinava con una rapidità prodigiosa. La banda doveva passare in mezzo alla bassura, a meno di mezzo chilometro dall'accampamento, a quanto pareva. Il marchese, Esther e Ben si slanciarono in mezzo alle dune e andarono ad appostarsi dietro un monticello di sabbia, il quale sorgeva isolato quasi nel mezzo della bassura. Gli struzzi s'avanzavano in fila, correndo e sbattendo vivamente le ali per aiutarsi meglio. Erano una diecina, tutti bellissimi e di statura gigantesca, e ricchi di quelle piume preziose che sono così ricercate e così ben pagate sui mercati europei ed anche americani, bianche sotto il ventre e sotto la coda e nere lungo il dorso e le ali. Questi volatili sono ancora numerosissimi nel Sahara e vivono là dove altri animali non potrebbero resistere, potendo sopportare lungamente la sete al pari dei cammelli. Raggiungono talvolta un'altezza superiore ai tre metri, hanno il collo e le gambe spoglie di piume, un becco robustissimo e piedi poderosi. Le loro ali invece sono così brevi da sembrare piuttosto moncherini, sicché non possono che aiutare la loro corsa, ma non servono per volare. Sono nondimeno rapidissimi corridori e vincono facilmente i cavalli. È nota la prodigiosa robustezza dei loro stomachi poiché in mancanza di altro, si nutrono perfino di sassi che digeriscono come fossero pagnottelle! I dieci struzzi, i quali parevano realmente in preda ad una viva agitazione, sfilavano come trombe, col collo teso, gettando in aria coi loro robustissimi piedi nembi di sabbia e di pietre, muovendo diritti attraverso la bassura. Pareva che non si fossero ancora accorti della presenza dei cacciatori, quantunque siano dotati d'una vista acutissima e d'un olfatto perfetto che permette loro di fiutare i nemici a grandi distanze. "Sembrano veramente spaventati," disse il marchese, il quale li osservava con viva curiosità. "Sì," confermò Ben; "però non credo che siano stati i Tuareg a metterli in fuga. Mi pare d'aver veduto degli animali correre dietro le dune." "Che gli struzzi siano inseguiti da qualche banda di iene?" "Rimarrebbero subito indietro, marchese," disse Ben. "Ah! Guardateli i cacciatori!" Essendo le dune terminate, gli inseguitori dei giganteschi volatili erano stati costretti a smascherarsi onde attraversare la radura. "I caracal!" esclamò il marchese. "Ah! I ladroni! Adagio, miei cari! A voi gli struzzi, a me quegli arditi predoni." I caracal, chiamati anche, e forse impropriamente, le linci dei deserti, erano almeno una trentina e correvano disperatamente sulle orme degli struzzi, facendo sforzi prodigiosi per isolarne qualcuno. Erano bellissimi animali, non più alti di settanta od ottanta centimetri, con una coda lunga trenta, di corporatura svelta, cogli orecchi lunghi e sottili ed il pelame giallo fulvo sul dorso e biancastro sotto il ventre. Vivono di preferenza nei deserti inseguendo con un coraggio incredibile struzzi e gazzelle e facendo gran vuoti fra le pecore dei duar. Svelti corridori, percorrono distanze straordinarie e non lasciano le prede finché non le hanno raggiunte e fatte a pezzi. Selvaggi, indomabili e astutissimi, costituiscono un vero pericolo per tutti gli abitanti del deserto, escluso l'uomo che non osano assalire, ed il leone che seguono a distanza per divorare gli avanzi delle sue prede. I caracal manovravano con una rapidità ed una precisione veramente ammirabili, cercando di tagliar fuori uno degli struzzi che pareva il meno resistente e che malgrado i suoi sforzi disperati rimaneva sempre l'ultimo della banda. Gli mordevano ferocemente le zampe, senza badare ai calci furiosi che lanciava il volatile, e gli balzavano dinanzi tentando di azzannargli il petto. Pagavano di frequente cara la loro audacia, perché qualcuno di quando in quando veniva scagliato in aria colla testa fracassata dai robusti piedi dell'uccello gigante. "Strappiamolo ai caracal," disse il marchese. Approfittando del momento in cui lo struzzo era riuscito a guadagnare sui suoi avversari una dozzina di metri, fece fuoco sul caracal più vicino. L'animale mandò un acuto guaito e cadde. Quasi nel medesimo istante anche il povero struzzo, colpito dalle palle di Esther e di Ben, stramazzò. Udendo quegli spari, i caracal si erano arrestati guardando le tre nuvolette di fumo che s'alzavano dietro alla duna. Vedendo comparire subito i cacciatori, abbassarono le code e partirono ventre a terra dalla parte donde erano venuti. Frattanto lo struzzo, abbandonato dai compagni già lontanissimi, era tornato ad alzarsi. Fece ancora cinque o sei passi zoppicando, poi tornò a cadere e questa volta per non più rialzarsi. Il marchese in pochi salti lo raggiunse, gli strappò un bel mazzo di:i piume candidissime e porgendole a Esther, le disse con galanteria "Alla bella cacciatrice." "Grazie, marchese," rispose la giovane, arrossendo di piacere. Ben si era accontentato di sorridere.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
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A Napoli, con un soldo si hanno sei peruzze un po' bacate, ma non importa: si ha mezzo chilo di fichi, un po' flosci dal sole: si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l'aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po' fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che sono riusciti male, vale a dire biancastri. Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi di mellone o di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e lo stomaco si gonfia, come se avesse mangiato. La massima golosità è il soffritto : dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all'occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite. Questionario: Carne in umido?-- Il popolo napoletano non ne mangia mai. Carne arrosto?-- Qualche volta, alla domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello. Brodo di carne?-- Il popolo napoletano lo ignora. Vino?-- Alla domenica, qualche volta: l'asprino , a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi: questo tinge di azzurro la tovaglia. Acqua!-- Sempre: e cattiva.

Racconti fantastici

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

L'idea della felicità negli uomini non può esser derivata che dalla memoria d'un bene trascorso o dal presentimento di un bene avvenire - in una vita antecedente o in una vita futura giacchè non vi è nulla quaggiù d'onde essi abbiano potuto attingere questo concetto. Pochi e grandi dolori fanno l'uomo grande, piccoli e frequenti l'impiccioliscono; un fiotto lava la pietra, una serie di goccie la trapassa. Allora si ha incominciato realmente a soffrire, quando si ha imparato a tacere il proprio dolore.

Pagina 144

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

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Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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Vi sono preparate paste di tutte le qualità: le migliori però sono quelle con la conserva di frutta, ma son buoni anche i diti con la crema dentro, sebbene abbiano il difetto che quando si mettono in bocca da una parte per mangiarli, la crema scappa via da quell'altra, e anche le maddalene nella loro semplicità sono squisite, ma in quanto alla delicatezza le marenghe bisogna lasciarle stare... Io però non le ho lasciate stare, e di quelle ne ho mangiate nove... Sono così fragili, che si struggono in bocca e non durano nulla. Tra un'ora gli sposi torneranno dal Municipio con i testimoni e tutti gli invitati, e allora avrà principio il rinfresco... In casa c'è soltanto Ada che piange, poveretta, perché vede che tutte le sorelle piglian marito e lei ha paura di far come la zia Bettina. A proposito: la zia Bettina non è venuta, benché il babbo l'abbia invitata. Ha risposto che non si sentiva di affrontare il viaggio, e che mandava tanti augurii di felicità dal fondo del cuore, ma Virginia ha detto che non sa che se ne fare, e che sarebbe stato meglio se quell’avaraccia le avesse mandato un regalo. * * * Giornalino mio, rieccoci daccapo chiusi in camera, e forse, Dio non voglia, condannati alle minestre di capellini! Quanto sono disgraziato!... Sono tanto disgraziato che piangerei chi sa come, se non mi venisse da ridere nel ripensare alla faccia del Maralli quando è scoppiata la gola del camminetto. Com'era buffo, con quel barbone che gli tremava tutto dalla paura! Il disastro è stato grande; ed è inutile dire che la causa sono stato io, perché io sono la disperazione dei miei genitori e la rovina della casa... per quanto, alla fin dei conti, la rovina si riduca a una sola stanza e precisamente al salotto di ricevimento. Ecco dunque com'è andato il fatto. Quando il Maralli, mia sorella, il babbo, la mamma e tutti gli altri son tornati dal Municipio faceva un gran freddo, ragione per cui uno degli invitati, entrando nella sala da pranzo, ha detto: - Siamo tutti intirizziti; se ci date anche il rinfresco, moriremo qui assiderati! - Allora Virginia e l'avvocato Maralli hanno chiamato subito Caterina e le han fatto accendere il caminetto nella sala da ricevere. La Caterina, poveretta, ha obbedito e... Dio, che bomba! È parsa proprio una bomba; e poi lì per lì, tra la polvere, sotto 1a pioggia dei calcinacci che schizzavano qua e là si è creduto che rovinasse tutta la casa. Caterina è cascata lunga distesa senza più dar segno di vita; Virginia, che stava lì a vederle accendere il caminetto, ha cacciato un urlo come quando trovò il fantoccio sotto il letto; e il Maralli, bianco come un cencio lavato, scoteva il barbone e ballettava per la stanza ripetendo: - Mamma mia, il terremoto! Mamma mia, il terremoto! - Molti invitati sono scappati via. Il babbo, invece, è corso subito sul luogo del disastro, ma nessuno capiva il perché si era schiantata la gola del caminetto, facendo rovinare giù mezza parete della stanza. A un tratto, quando tutto pareva finito, si è sentito dentro il camino un fischio e tutti son rimasti senza fiato per la sorpresa. Il Maralli ha detto: - Ah! Li dentro c'è un incendiario! Bisogna chiamar le guardie! Bisogna farlo arrestare!... - Ma io che avevo capito tutto non ho potuto fare a meno di esternare il mio dispiacere: - Ah, i miei razzi col fischio! - Mi ero ricordato in quel momento che quando avevo comperato i fuochi per festeggiare il matrimonio di Luisa, non avendoli potuti più adoperare li avevo ficcati appunto su per la gola del camino nel salone di ricevimento, dove non andava mai nessuno, perché il babbo non me li trovasse, ché altrimenti me li avrebbe sequestrati. Naturalmente la mia esclamazione è stata un lampo di luce per tutti. - Ah! - ha gridato l'avvocato Maralli imbestialito - ma tu sei addirittura il mio flagello! Ero scapolo e tentasti di accecarmi, ora piglio moglie e tenti di incenerirmi!... - La mamma intanto mi aveva preso per un braccio e, per salvarmi dal babbo, mi ha portato qui in camera mia, tanto per mutare. Fortuna che quando ci sono dei rinfreschi in casa, io ho la precauzione di farmi sempre la parte prima che incomincino!

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

683127
Brigola, Gaetano 1 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Vi sono stabiliti 24 posti gratuiti a vantaggio di fanciulle di famiglie civili, i cui genitori abbiano reso notevoli servigi allo Stato. _ Il disegno del grandioso edificio è dell'architetto Besia; esso era prima proprietà_del conte Archinti. Ritornando sul Corso Venezia per la via della Passione, e quindi lungo il Naviglio, troviamo il