Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Si fa non si fa. Le regole del galateo 2.0

180649
Barbara Ronchi della Rocca 37 occorrenze
  • 2013
  • Vallardi
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Grazie all'avvento di Internet, cellulari, social network e altra tecnologia, oggi abbiamo molte più possibilità di essere maleducati, ma anche nuove regole da imparare, come quelle raccolte dalla cosiddetta Netiquette. Insomma, dall'unione di vecchie regole e buon senso moderno prende forma questo nuovo galateo, ridefinito attraverso il rispetto - degli altri e di sé stessi la discrezione, l'eleganza dei sentimenti, l'umorismo e un assennato equilibrio. La persona garbata del Terzo Millennnio non è (tanto) chi sa usare la forchetta per ostriche, ma chi non ha paura dei cambiamenti, non si abbandona alla pigrizia del: «Ho sempre fatto così», e nei rapporti umani e sociali si propone di non ferire la sensibilità altrui, non ostentare nulla, non essere intrusiva. Perché l'attenzione verso il nostro prossimo non è solo formalità, ma sostanza: cerchiamo di averne un po' di più, e la nostra quotidianità sarà senz'altro migliore. Conoscere le buone maniere e saperle usare nei momenti opportuni fa anche bene all'autostima, perché aiuta a sentirsi sicuri di sé, affrancati dall'angoscia del: «Che cosa posso dire?», «Come devo comportarmi?», «Sarò vestito/a in modo adatto?» Senza contare che solo conoscendo le regole, e applicandole abitualmente, possiamo comprendere il raffinato piacere di infrangerle ogni tanto, di goderci qualche trasgressione, magari con la complicità degli amici o del partner... Ecco allora regole, consigli, modi e atteggiamenti per stare bene con gli altri (e fare bella figura, il che non guasta) da seguire tutti i giorni, feriali e festivi - non esiste una buona ragione (e un momento giusto) per essere maleducati! - tutto il contrario del cosiddetto «bon ton», stile di facciata, fatto di maniere apparentemente perfette e di sostanza pessima. L'eleganza non è una moda, ma è un modo di essere (e di agire) non alla leggera, ma con leggerezza, per non cadere nel ridicolo dell'affettazione e della leziosità. È vera buona educazione, che viene dal cuore, e rifiuta la retorica della naturalezza a tutti i costi, o della volgarità come espressione di libertà; perché non è vero che ogni forma di self- control sia una censura. Tanto più che gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, dal momento che in questi anni di predominio quasi incontrastato, i maleducati non hanno dato buona prova di sé: li vediamo ripetitivi, prevedibili, a lungo andare noiosi. E non certo più felici. Perché le buone maniere sono una forma superiore di intelligenza. E infatti «le persone intelligenti sono sempre gentili»: lo diceva Jean-Paul Sartre.

Se i nostri ospiti ce li chiedono, indirizziamoli verso la mensolina del lavabo della stanza da bagno, che l'unico posto in cui è concesso usarli senza essere maleducati -A casa propria o altrui non si avanza cibo nel piatto -Anche sulla tavola più informale i bicchieri devono essere di vetro trasparente e, se si offre il vino, sempre due -Ogni vino deve essere portato in tavola nella sua bottiglia originale: l'uso del decanter è riservato ai sommelier dei ristoranti, the non possono far «respirare» il vino invecchiato prima di servirlo -No assoluto alle bottiglie d'acqua minerale in tavola: molto meglio delle brocche o caraffe -Non usiamo il raccoglibriciole (neppure se bellissimo e d'argento) quando i commensali sono ancora seduti a tavola -I mancini possono portare alla bocca il proprio bicchiere con la sinistra, ma se versano da bere a qualcuno, devono farlo con la destra, per rispettare una superstizione plurisecolare -Niente candele colorate a tavola, se non a Natale, quando sono concesse quelle rosse o dorate -Quando abbiamo ospiti, evitiamo gli spaghetti e tutti i tipi di pasta lunga, perché scivolano, schizzano, macchiano, fanno fare brutta figura -Un matrimonio assolutamente da evitare è quello dello champagne o del prosecco col dolce, da accompagnare invece con un vino da dessert, un moscato, uno spumante dolce; da servire in coppa, se vogliamo brindare

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, tutte domande perfettamente legittime, utili per evitare gaffe e pentimenti tardivi su ciò che abbiamo scelto di indossare. Non chiediamo invece: «Devo vestirmi elegante?», formula poco chiara, che non vuole altra risposta che un generico: «Ma no!». Se soffriamo di allergie o intolleranze, oppure se seguiamo scelte etiche che ci impediscono di mangiare di tutto, dichiariamolo senza timidezze adesso, in modo che i padroni di casa possano apporre le opportune modifiche al menu programmato. Chi riceve un invito formale è sempre tenuto - anche quando manca la fatidica formuletta R.S.V.P. - a dare una risposta definitiva il più presto possibile, e senz'altro entro l'eventuale data ultimativa indicata. Ma come rispondere? Diceva il galateo del tempo che fu che a un invito scritto si deve sempre rispondere per scritto; molto meglio, secondo me, ricorrere a una telefonata, che permetterà agli organizzatori di aggiornare in tempo reale la lista dei partecipanti. La risposta va data via mail solo se espressamente richiesto («R.S.VP mariorossi@... »).

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Sta a noi decidere se specificare già in questo «annuncio di festa» che cosa abbiamo in programma, o lasciare ancora nel vago, per incuriosire e creare una maggiore attesa. SAVE THE DATE! Cari amici, non prendete impegni per il 16 aprile perché stiamo organizzando una festa, e saremmo lieti di avervi con noi. Seguirà invito più dettagliato. Mario e Maria Rossi PRE-INVITO Il giorno 16 aprile festeggeremo le nostre Nozze d'argento con una cena sul lago e contiamo sulla vostra gradita presenza. Vi faremo sapere per tempo tutti i particolari! Mario e Maria Rossi

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Quindi, se non abbiamo una caffettiera abbastanza capiente da consentirci di servire tante persone contemporaneamente, muniamoci di un bel thermos, che riempiremo in anticipo e porteremo in tavola al momento opportuno, accompagnato dalle tazzine, che per l'occasione sono presentate senza piattino, per essere più maneggevoli. Accanto alla zuccheriera metteremo un contenitore (ciotola, piattino) per raccogliere i cucchiaini individuali usati per mescolare lo zucchero. Gli eventuali cioccolatini e dolcini saranno già stati portati in tavola con il dessert. Se abbiamo una terrazza o un giardino, il barbecue è un'ottima soluzione per un pranzo estivo (non una cena: il buio e le zanzare rovinerebbero la serata), il cui menu troverà il suo punto di forza, invece che nel primo caldo, nei cibi grigliati: i classici hamburger, spiedini, bistecche e salsicce, ma anche pesce e verdure. Dovremo porre però grande attenzione a che il fuoco della griglia non sia rischioso per gli ospiti (specie se ci sono bambini) e che il fumo non infastidisca i vicini. Si tratta di un'occasione ancora più informale, e prevede piatti e tovaglioli di carta e magari verdura cruda da mangiare con le mani. Indispensabile però fornire a tutti gli ospiti un piano d'appoggio ad altezza giusta per poter posare il piatto e tagliare la carne con il coltello.

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Anche un'occasione così ha le sue regole da rispettare: vestiamoci in modo pratico, così da poterci sedere senza preoccupazioni e senza dare scandalo ai dirimpettai, non togliamoci le scarpe se abbiamo camminato per più di cinque minuti, non concediamoci bis prima di aver verificato che tutti si siano serviti, mastichiamo con la bocca ben chiusa, non fumiamo vicino a chi mangia. E naturalmente, portiamoci via tutti gli avanzi, biodegradabili e non.

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Al momento di ordinare, abbiamo tutti i diritti di chiedere spiegazioni al cameriere su qualche piatto particolare, o anche farci consigliare da lui; quello che proprio non dobbiamo fare è commentare o criticare il menu e motivare le nostre scelte, spiegando agli astanti (i quali, giustamente, non ne sono minimamente interessati) che «alla sera il pesce non lo digerisco» o «ho abolito il formaggio, perché fa ingrassare». Quanto alle intolleranze alimentari, nel Terzo Millennio non c'è nessuno che non ne abbia almeno una. E non vede I'ora di fornire ai compagni di tavola il puntuale resoconto dei sintomi da cui era afflitto prima di abolire dalla dieta le solanacee, o i latticini, o quant'altro, e poi l'esposizione particolareggiata dei benefici constatati, nonché un succoso riassunto dei consigli del nutrizionista, dimenticando che, per molti, una cena al ristorante è l'occasione per concedersi manicaretti particolari e golosi dessert... Spetta a chi invita proporre l'aperitivo, qualche specialità particolarmente raffinata e costosa, il dolce, un vino speciale, i liquori, ma senza insistere; solo dopo che tutti hanno ordinato si assume il cornpito di scegliere il vino, magari chiedendo ai presenti se hanno particolari preferenze, e lo assaggia per verificarne la bontà. Chi è ospite, se non diversamente sollecitato, ordina solo un primo e un secondo, o un antipasto e un secondo, e poi frutta. Vedrà di non muovere critiche al cibo e alle bevande offertigli, e magari di elogiare qualcosa. Aspettando che arrivino le ordinazioni, meglio conversare piacevolmente che incominciare a sgranocchiare pane e grissini o versarsi il vino, per non fare la figura degli ingordi. Per i bambini devono valere le stesse regole dei pasti a casa, però permetteremo loro di lasciare avanzi nel piatto. Ma non di alzarsi da tavola e andare in giro a infastidire gli altri clienti o i camerieri. Se disturbano o fanno i capricci, non sprechiamo tempo a sgridarli, anche per non annoiare chi si vede costretto ad ascoltare la predica, e portiamoli fuori prima possibile. Gli uomini che vogliono essere cortesi sappiano che non sono affatto obbligati (come certuni credono) a «omaggiare» le signore del classico mazzolino venduto tra i tavoli del ristorante da qualche ambulante (fiori sovente rubati nel cimitero cittadino): un cortese ma fermo «No, grazie» dovrebbe essere simultaneo anche da parte di lei, soprattutto se ne sospetta la lugubre provenienza. Ancora due «no». A fine pasto le signore non ritocchino il trucco a tavola, sciorinando matite e pennelli: i ritocchi e restauri vanno fatti nella toilette del locale. L'unica deroga è per una veloce passata di rossetto sulle labbra, senza specchio, dal momento che lo fa anche la regina Elisabetta. Ma non ha scusanti il gesto di chi a fine pasto usa gli stuzzicadenti, anche nascondendosi con la mano o con il tovagliolo davanti alla bocca, con l'unico risultato di attirare ancora di più l'attenzione degli astanti...

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Beninteso, se siamo credenti e praticanti, non abbiamo bisogno di nessuna regola di galateo che ci dica come praticare la nostra fede: silenzio, raccoglimento, decoro nel vestire, discrezione nel parlare e nel gestire. Ma se siamo agnostici, o pratichiamo una religione diversa, è obbligatorio assumere un atteggiamento rispettoso. Quindi, se invitati a una cerimonia, arriviamo puntuali e prendiamo posto dove ci viene indicato. L'abbigliamento delle signore sarà formale e decoroso: abiti non scollati, gonne al ginocchio, calze, maniche al gomito; e teniamo pronto un foulard con cui eventualmente coprirci il capo. Gli uomini saranno a testa scoperta, anche in sinagoga, dove troveranno dei piccoli copricapi appositi. Se viene richiesto, nessuno rifiuterà di togliersi le scarpe. Durante il rito, non si parla, non si ride, non si salutano i conoscenti (basta un cenno del capo, un sorriso), non si fa salotto, non si contemplano quadri e pareti come al museo, non si fissano le persone come se fossero animali dello zoo, non si giocherella con le chiavi o le monete che si hanno in tasca. Sia uomini sia donne non devono sedere con le gambe accavallate: è un atteggiamento troppo rilassato, tanto da essere irrispettoso del luogo e del rito. E, naturalmente, non si applaude, mai: neanche se qualche officiante naïf ci invita a battere le mani agli sposi. L'ideale sarebbe non condurre con sé bambini piccoli, che, giustamente annoiati per la forzata immobilità, disturbano i presenti: ma se non è possibile fare altrimenti, almeno teniamoli d'occhio continuamente, impedendo loro di scorrazzare su e gù, di fare domande ad alta voce. Se si rivelano incontenibili, alziamoci e conduciamoli fuori, con decisione ma anche con buonumore; mai con prediche o scenatacce, che ci renderebbero ancora più fastidiosi di loro.

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Non è obbligatorio applaudire ciò che non abbiamo apprezzato, ma il modo educato per esprimere dissenso è il silenzio, non il fischio o i «buuu». Nell'inoltrarsi tra le file delle poltrone per raggiungere il proprio posto, le persone garbate voltano le spalle allo schermo o al palcoscenico e guardano in viso chi stanno «scavalcando»; i cafoni, invece, sembra che facciano apposta a strofinare le natiche addosso a chi è seduto. In una ipotetica hit-parade delle cattive abitudini teatrali, il primo posto spetta di diritto ai tanti che hanno l'abitudine di alzarsi subito prima che lo spettacolo abbia termine, per correre al guardaroba ed essere i primi a ritirare i cappotti. Non paghi di aver disturbato tutta una fila di persone alzandosi, ritornano in sala con le braccia cariche di indumenti (perché, generosamente, si fanno carico di quelli di un nutrito gruppo di amici e parenti) e si piazzano in posizione strategica per impedire la visuale dell'ultima scena a chi, educatamente, non ha fatto altrettanto.

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Se abbiamo bambini piccoli o molto indisciplinati, portiamoli a passeggio nelle ore della siesta, per lasciar riposare i vicini di stanza. Se il nostro cane viene con noi, consideriamo off limits la sala da pranzo, il bar, la discoteca e tutti i locali comuni, e non permettiamogli di scorrazzare per i corridoi o il giardino dell'hotel senza guinzaglio. Non lasciamolo mai solo in camera: potrebbe abbaiare e ululare, e magari sarebbe portato a «difendere il territorio» dall'intrusione della cameriera che deve fare le pulizie. A quest'ultima eviteremo anche, signorilmente, lo spettacolo della nostra biancheria sporca in giro per la stanza.

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E ricordiamo che non abbiamo alcun diritto di impartire loro ordini. A bordo non apriamo armadi e stipetti «per vedere che cosa c'è dentro», non lasciamo dietro di noi una scia di disordine, non pretendiamo di appropriarci «per usucapione» dell'area più soleggiata o più ventilata del ponte, teniamo sottomano il libro, gli occhiali, il pullover e tutto quanto ci può servire; per i nostri bagni di sole usiamo creme e lozioni non unte (così useremo meno acqua per lavarci), e sediamoci solo sui nostri asciugamani. Siamo puntuali, a bordo come a terra, dove rinunceremo a scattare foto o a fare l'ultimo giro di shopping se tutti aspettano solo noi per salpare. Altro punto dolente, le sigarette: se ci viene chiesto di non fumare sottocoperta, dobbiamo accettare di buon grado, senza recriminare né, tanto meno, fumare chiusi nel bagno. La gentilezza verso i compagni di crociera ci spingerà ad abbassare la suoneria del telefono cellulare e a limitarci a telefonate brevi e «neutre», come sempre quando si è in uno spazio ristretto. E, come sempre, il telefono è off limits a tavola. Se l'esperienza si rivela meno gradevole del previsto, invece di lamentarci, inventiamoci una scusa per un rientro a casa anticipato: salveremo così la nostra immagine, e soprattutto l'amicizia con i nostri compagni di barca. L'«aimatore» che invita deve essere molto chiaro sul tipo di imbarcazione e il tipo di ospitalità offerta; per esempio, se si aspetta qualche collaborazione alla vita di bordo, deve farlo presente. Non esageri inoltre in understatement, descrivendo come «gozzo» un cabinato da crociera di quaranta metri, perché gli invitati potrebbero trovarsi a disagio per un bagaglio troppo spartano... Sempre in tema di bagaglio, è bene informare in anticipo su eventuali party, cene, escursioni turistiche a terra, e su tutte le attività che richiedono un abbigliamento particolare. Il nudismo è concesso solo tra persone consenzienti e che si conoscono bene; se pensiamo possa offendere o mettere a disagio qualcuno, rinunciamo di buon grado a questo spazio di libertà - senza tacciare di provincialismo chi non se la sente di smutandarsi.

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Lasciare avanzi nel piatto quando siamo ospiti a casa d'altri non è, come qualcuno crede, un gesto che «fa fine», ma una mancanza di riguardo, come pure il limitarci ad assaggiare la bevanda che abbiamo chiesto - anche solo dell'acqua. Il risparmio intelligente è una priorità anche alla Casa Bianca e a Buckingham Palace dove si ricicla la carta dei pacchi regalo, si usano solo lampadine a basso consumo e i cuochi tritano gli avanzi degli arrosti per fare le polpette! Rispettare l'ambiente significa anche evitare di diffondere sostanze inquinanti. E questa è una «battaglia» che non permette momenti di disattenzione, perché sono proprio i gesti più banali, se viziati dalla superficialità, dalla pigrizia o dall'indifferenza ai problemi, a mettere in pericolo creature e ambiente (e a identificarci come irrimediabili maleducati: ma questo è un altro discorso...). Quindi: -allineiamoci alla messa al bando dei sacchetti di plastica, usando solo borse riutilizzabili; -usiamo il più possibile i mezzi pubblici o il car pooling, o convertiamoci alla bicicletta: ridurremo il traffico cittadino e, quindi, l'inquinamento atmosferico e acustico; -non teniamo mai il motore dell'auto o della moto acceso quando siamo in sosta; -compriamo solo cosmetici dichiaratamente «non testati su animali» e spray senza CFC, il gas responsabile dell'assottigliamento della fascia di ozono; -non buttiamo nessun rifiuto per terra, neanche quelli che ci sembrano «innocui» (pare ci vogliano circa centocinquant'anni per ridurre in polvere un mozzicone di sigaretta col filtro!); -dosiamo con molta attenzione il detersivo: usarne di più non rende il bucato più bianco, ma inquina maggiormente fiumi e mari; in campagna e in montagna facciamo passeggiate solo sui sentieri tracciati ed evitiamo rumori inutili, per non spaventare gli animali selvatici; non raccogliamo fiori e rami, e non fumiamo; non posteggiamo l'auto sui prati o sulle dune e riportiamoci a casa tutti i rifiuti; -in barca, non buttiamo in mare l'immondizia e meno che mai sacchetti di plastica vuoti, che pesci, uccelli e mammiferi marini, ingannati dal loro aspetto brillante, scambiano per meduse e ingoiano, per poi morire soffocati; non buttiamo l'ancora su fondali di corallo (fragilissimo) o sui tappeti di alghe, che costituiscono un anello indispensabile per la catena alimentare del mare; -inventiamo per i bambini un nuovo gioco di società con tanto di punteggi e piccole penalità per chi sbaglia (per esempio, buttando per terra la carta della caramella...) - basato sul rispetto dell'ambiente e sulla raccolta differenziata dei rifiuti: si divertiranno moltissimo e impareranno una lezione di civiltà. Da riportare in auge anche il vecchio gioco dell'economia domestica di una volta - quella che, in nome del risparmio, imponeva di non sprecare gli oggetti di consumo (vi ricordate? Scrivevamo sempre sulle due facciate di un foglio di carta) rivisitato oggi nella prospettiva ecologica della regola delle 3R (reduce, reuse, recycle, «riduci i consumi, usa più volte, ricicla»); -Infine, insegniamo ai nostri figli e nipoti - ma soprattutto, convinciamoci noi adulti per primi - che tutti i nostri comportamenti hanno sempre una ripercussione sulla vita del pianeta, e che non rispettare l'ambiente di oggi significa essere maleducati anche nei confronti delle generazioni future.

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Secondo me consiste nell'eliminare gli orpelli e le firme, nel non ostentare la provenienza di ciò che abbiamo, nell'evitare tutto ciò che non ci fa essere spontanei e disinvolti, nel non copiare pari pari dai «ricchi e famosi». Eleganza è saper scegliere capi capaci di «vestire» la nostra personalità, adatti al nostro tipo fisico e al nostro stile di vita e soprattutto della nostra taglia (non strumenti di tortura da togliere il prima possibile!). A prezzo di spietate autocritiche davanti allo specchio, adottiamo solo quello che ci dona, che ci fa apparire un po' più belle. Capire che cosa non ci possiamo proprio permettere è il primo passo verso la conquista di uno stile personale. Il secondo è quello di non cadere nella trappola della nudità esibita, con giustificazioni quali: «Lo faccio perché me lo posso permettere» o «Finché sono giovane e bella», cosa che ci mette nella triste situazione della merce in vetrina. L'eleganza di una volta era basata sul rigore, oggi dovrebbe basarsi sul garbo; quindi è ancora più difficile da conquistare, perchè non ci sono più regole precise - come negli anni Cinquanta, quando le signore il 1° settembre smettevano i sandali anche con 30 gradi all'ombra - e può essere interpretata in modo diverso da ciascuna di noi. Ma l'eleganza non ha nulla a che fare con il conto in banca o il sangue blu. Pensiamo alle nozze dei principi di Cambridge nel 2010, in cui le principesse Eugenia e Beatrice di Kent hanno sfoggiato cappelli pretenziosi e sgargianti ma di ben poca eleganza, mentre la madre della sposa, la «borghese» signora Middleton, era perfetta in un semplice abito grigio. Se il nostro budget non è illimitato, scegliamo i capi base e i più importanti capi spalla di ottima qualità e coordinati tra loro, e integriamoli via via con acquisti che danno al guardaroba un tocco di allegria, in colori vivaci e fantasie di moda: una borsa, una cintura, un cappello, un bijou fantasia che attiri gli sguardi. La scelta dell'abbigliamento giusto per le varie occasioni sociali è per noi donne resa più difficile dal fatto che il completo grigio scuro maschile non ha un esatto corrispettivo «al femminile». Alle cene, ai matrimoni, nelle cerimonie, lo stile classico non ha mai controindicazioni, soprattutto se ci concentriamo sulla qualità del taglio e dei materiali: meglio il classico tubino o tailleur nero ben confezionato che un capo più vistoso, ma banale nel modello e di tessuto scadente; meglio un bel cappotto, o una mantella (o il trench antipioggia) che una pelliccia. Solo il grande freddo giustifica il piumino, comodissimo, sì, ma non certo elegante, né donante, e da non sfoggiare nelle occasioni formali. Come gli accessori tutti neri di giorno (a meno di non essere a un funerale), e certi borsoni enormi (se pure firmatissimi e costosissimi); scarpe e borse di coccodrillo, poi, sono solo da mattina (ma non da cerimonia). Non si dovrebbero indossare più di due gioielli contemporaneamente: se il pezzo forte è il collier, aggiungiamoci un braccialetto, o gli orecchini o un anello per mano (la fede matrimoniale non conta). Regole da rivedere, come sempre, alla luce del momento e del gusto personale. Ma neanche I'invito al Ballo della Rosa a Montecarlo giustifica l'ostentazione di parure complete (collana, bracciale, anello, orecchini e spilla in simultanea). Lasciamo I'insieme alle signore degli Emirati Arabi, che sono anche le sole, oltre alle americane di mezza età, a indossare i diademi da sera. Parlando in generale, meglio non abbinare orecchini in oro bianco con altri gioielli in oro giallo, o viceversa; orecchini di diamanti e solitario (troppo lontani); orecchini di qualunque foggia con una collana vistosa o enorme, luminosissima, molto lavorata: una prima donna, insomma, che non tollera rivali accanto a sé. Torna di moda la spilla, anche grande e di fantasia: mai sulla pelliccia, però, sia vera sia ecologica.

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La stessa delicatezza e lo stesso sereno riserbo che spero compaiano nei discorsi della puerpera - e che tutti dovremmo mostrare dopo una malattia grave o un intervento chirurgico: non parliamone continuamente, non dilunghiamoci sui particolari, non raccontiamo per filo e per segno quanto abbiamo sofferto. E cerchiamo di dimenticarcene, noi per primi. A rigor di termini, ai messaggi scritti bisognerebbe rispondere con lo stesso mezzo (quindi cartoncino scritto a mano o telegramma, oppure e-mail), ma va benissimo un'affettuosa telefonata o l'invio di un mazzo di fiori per la neomamma - bianchi, azzurri o rosa, sempre non profumati. Se vogliamo felicitarci di persona, con una visita (mai a sorpresa, però), l'omaggio floreale è un classico, ma andrà benissimo anche un regalo per il neonato: abbiamo solo l'imbarazzo della scelta, tra tutine e bavaglini, creme e oggetti utili e inutili, indispensabili e non. Ma il regalo più bello, ora e nei momenti successivi, è quello di condividere in pieno la gioia dei neogenitori, ma rispettando la loro privacy: domande del tipo «perché non lo allatta al seno?» sono intrusive e maleducate. Il classico fiocco azzurro o rosa va appeso - volendo: non è un obbligo! - sulla porta di casa, non sul portone esterno del condominio, per far partecipare alla gioia della nascita i vicini, non i passanti.

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Per quanto dolorosa sia stata la rottura, rendiamoci conto che vendette e persecuzioni nei confronti del «fedifrago traditore» o della «vipera poco di buono» non dicono quanto abbiamo amato, ma quanto malamente sappiamo amare. Non odiamo troppo a lungo: sarebbe come promuovere a «indimenticabile» chi non merita questo onore. E non raccontiamo fatti e vicende intimi a chiunque, dovunque e in qualunque momento: il rischio e non solo di essere seccanti, ma che segreti non solo nostri vengano raccontati in giro. Per quanto riguarda l'ex, evitiamo di chiedere sue notizie, di compiacerci platealmente dei suoi mali, di informarci sul conto di chi ha preso il nostro posto al suo fianco. Ma se proprio dobbiamo parlarne, non diciamo «il mio (la mia) ex»: anche se non l'amiamo più, attribuiamogli un nome. Ancora più inopportuno è continuare a dire «mia moglie/mio marito» quando siamo già separati o addirittura divorziati. Sforziamoci di essere civili, salutiamolo (senza fare il muso) quando lo incontriamo; se sappiamo di non riuscire a mantenere un atteggiamento educato, evitiamo ogni possibilità di incontro, magari cambiando abitudini - il caffè al «solito» bar, l'edicola e il supermercato in cui si andava insieme vanno cancellati senza pietà dai nostri itinerari quotidiani. Chi ha figli, non cada nella trappola di usarli come armi: è un'operazione pericolosa per il loro equilibrio e per la loro relazione con i genitori. Non li lasci davanti alla porta di casa al momento di «consegnarli» all'altro genitore, né faccia loro scendere le scale da soli se questo li aspetta davanti al portone. Non affidi loro messaggi per «quello/a là», per sottolineare che «non merita neanche che gli rivolga la parola». bene non parlare (né male né bene) dei nostri ex con l'attuale amore: può scatenare gelosie retrospettive, ma anche far emergere un lato del nostro carattere tutt'altro che lusinghiero.

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Può essere ancora meno costoso il fiore "simbolico" appoggiato al pacchetto contenente un oggetto che abbiamo avuto in prestito e stiamo restituendo. Non badiamo a spese invece per la pianta inviata con un biglietto di scuse alla padrona di casa cui abbiamo rotto un bicchiere, o un ninnolo prezioso, o al/alla commensale cui abbiamo macchiato il vestito durante la serata. Se i fiori sono tutti dello stesso tipo, il numero dispari è di prammatica, per non pensare che li appaiamo come fossero calzini! I colori dei fiori parlano un antico linguaggio: il rosso, soprattutto se associato alle rose, significa passione (quindi mai rose rosse a una signora che non è la moglie o l'amata!);il bianco purezza, fedeltà e bontà; le gamme dal rosa al lilla, dolcezza e ricordo; il blu e l'azzurro esprimono amicizia e tenerezza (ma le rose blu sono un falso che piace a pochi); il giallo, che una volta era il colore della gelosia, oggi vuol dire allergia, vivacità, come l'effetto multicolore, che si addice però solo ai fiori di campo, alle fresie, alle roselline. La corbeille di fiori tutti bianchi è l'ideale per una sposa (è il "regalo minimo" per chi, pur essendo stato invitato, non partecipa al rinfresco), mentre per una comunicanda o cresimanda è più adatto un mazzo di fiori di campo o di roselline multicolori. Non a tutti piacciono le orchidee, fiori dalla forte connotazione sessuale, che comunque vanno sempre regalate da sole: più che la grossa Cattleya violetta, troppo comune, sceglieremo quelle piccole portate da un lungo ramo, e magari gialle, insolite e raffinate. II nuovo galateo ha ormai superato il divieto di regalare fiori o piante fiorite a un uomo. Via libera dunque, se lo conosciamo bene e scegliamo fiori particolari (i suoi preferiti, quelli legati a un ricordo comune), presentati con un packaging «maschile», cioè senza un eccesso di fiocchi, nastri, carte crespate o traforate e decorazioni varie - che a mio avviso sono poco chic anche per i mazzi «al femminile». Esiste il fai da te anche in questo campo: se siamo i fortunati possessori di un giardino o di un terrazzo, possiamo regalare i nostri fiori, che hanno ancora il profumo «di una volta» e durano di più; ma anche chi ha solo qualche vaso sul balcone, può comporre deliziosi bouquet di erbe odorose utili in cucina. Saranno graditissimi, perché insieme a loro regaliamo anche qualcosa di più prezioso: il nostro tempo, la nostra pazienza, la nostra fatica. Il biglietto che accompagna un omaggio floreale deve essere sempre scritto a mano, quindi se li ordiniamo per telefono o tramite Interflora, vi faremo scrivere solo il nostro nome; in tutti gli altri casi, scriviamo poche parole e rifuggiamo dagli afflati poetici. Non temiamo la semplicita di frasi come: «Auguri», «Buon Natale», «Ti voglio bene», «Scusami».

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Non sono eleganti le correzioni fatte a mano - in caso di cambi di indirizzo e avanzamenti di carriera ne faremo stampare di nuovi - e neppure i «modesti» tratti di penna per cancellare titoli e appellativi: se no, che li abbiamo scritti a fare? Non facciamo come i giapponesi, che li distribuiscono in maniera indiscriminata (oserei dire compulsiva) a tutti quelli che incontrano: il momento giusto è quello del commiato, per sottolineare l'interesse verso un contatto futuro che non era dato per scontato in partenza, e lasciare un piccolo promemoria di noi e del nostro lavoro, oppure fissare l'appuntamento per un nuovo incontro.

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E rispettarlo, se non abbiamo la forza, di carattere e contrattuale, per infischiarcene. Per non rischiare fraintendimenti e gaffe, meglio dosare che osare. Valutiamo mille volte ogni scelta «provocante e provocatoria», che richiama l'attenzione sul nostro corpo. D'estate, pochissima pelle scoperta (nel dubbio, esageriamo per difetto), niente piercing e tatuaggi in vista, né biancheria intima che fa capolino, o ciabatte infradito, e in generale tutto quanto eccede in aderenza e trasparenza. Le gambe nude non si addicono a un ambiente di lavoro molto tradizionalista e serioso, perché danno l'idea o di seduzione, o di trascuratezza. C'è molto da ridire anche su chi sfoggia solo jeans e magliette con un'aria parecchio «vissuta» e poco pulita e sneakers sfondate o sandali da turista tedesco: sono d'accordo nel condannare gli esibizionismi delle firme, delle mode, dei must have di stagione, ma non possiamo abolire la linea invisibile - ma importantissima - che distingue le occasioni formali da quelle casual, e cancellare il confine tra l'intimità di casa nostra e gli obblighi di lavoro, preoccupandoci unicamente di stare comodi. Lo trovo un eccesso di cattivo gusto, una sciatteria che offende anziché sedurre. Quindi, la parola «casual» non va presa alla lettera, non vuol dire pescare gli indumenti a casaccio dall'armadio, ma solo non seguire precise regole formali.

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In mensa, non crediamo di aver passato l'esame di stile se abbiamo imparato a non augurare buon appetito, ma poi mangiamo con le cuffie dell'iPod nelle orecchie (e non sentiamo chi ci parla, magari per chiederci di passare il sale), o dedichiamo massima concentrazione al giochino sul telefonino, o inviamo messaggi a raffica, o parliamo ad alta voce di faccende private... Consultando il menu del giorno, o guardando le pietanze offerte, non assumiamo sempre l'aria schifata dei gourmet incompresi, costretti dalla sorte ad accontentarci di cibi e bevande tanto al di sotto dei nostri livelli: sarà anche vero, ma siamo pregati di non darlo a vedere.

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Significa capire ragioni e mentalità diverse dalle nostre, accettare qualche consiglio, anche se non ne abbiamo alcun bisogno, usare molti sorrisi, molti silenzi, molta buona educazione. Non facciamo domande imbarazzanti o personali («Quanto hai pagato...», «Perchè hai divorziato?») e se le fanno a noi, impariamo a sottrarci con garbo: «Poco, mi pare»; «È una lunga storia». Con il musone oil maleducato irriducibile, l'atteggiamento ideale - molto più producente del «muro contro muro» - è di cordiale indifferenza reciproca. Non chiediamo piaceri, e soprattutto non facciamo richieste che noi per primi non potremmo soddisfare. A chi ci chiede un favore, rispondiamo di sì solo se abbiamo intenzione di farlo, se no svicoliamo con una scusa. Se lo facciamo, non aspettiamoci (né tantomeno sollecitiamo) gratitudine o reciprocità. Ma accettiamo con riconoscenza se ce ne fanno; e non diciamo mai «Ti devo un piacere» perché dimostra che teniamo la contabilità delle buone azioni: sbagliando, perché la gentilezza non è obbligatoria per nessuno, e verso nessuno.

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Quando abbiamo appuntamento da qualcuno, se dobbiamo farci attendere per qualche minuto, telefoniamo per avvisare, per scusarci (senza dilungarci in spiegazioni sul perché e percome del disguido, ma indicando con molta chiarezza e sincerità quanto tempo ci occorrerà per arrivare) e per chiedere: «Ci possiamo vedere tra mezz'ora, o preferisce che fissiamo per un altro giorno?». E una volta arrivati, non cerchiamo di giustificarci dando la col-pa al traffico, alla difficoltà di trovare un taxi, alla mancanza di puntualità altrui: sono tutti imprevisti di cui avremmo dovuto tener conto. Quando riceviamo qualcuno nel nostro luogo di lavoro, non crediamo che costringere chi ha un appuntamento a fare anticamera ci faccia apparire importanti e indaffarati: in realtà è sintomo di scarsa educazione e/o di scarsa organizzazione. Al suo arrivo, smettiamo quello che stiamo facendo (telefonate comprese) e salutiamo alzandoci in piedi; volendo dare un'impressione di particolare deferenza o cordialità andiamo ad accoglierlo sulla porta. Se poi torniamo a sederci al di là della scrivania sottolineiamo la differenza di ruolo, mentre se ci spostiamo accanto a lei/lui testimoniamo di voler stabilire un piano di parità. Durante la conversazione, evitiamo le interruzioni (motivando con garbo e chiarezza quelle davvero indispensabili) e non rispondiamo al telefono o al cellulare: non solo è una perdita di tempo e di concentrazione, ma dimostra al nostro interlocutore che pensiamo non meriti tutta la nostra attenzione. Non facciamo ricadere sull'ospite/cliente i nostri problemi, quindi non lamentiamoci («Non ce la faccio più», «sono stressato, sono stanchissima») e non polemizziamo con i colleghi, sia assenti sia presenti; quando non siamo in grado di risolvere i problemi, rispondere alle domande, fornire le indicazioni o i servizi richiesti, ammettiamolo sinceramente, esprimendo dispiacere e simpatia. Se offriamo qualcosa da bere, non facciamo il giro col vassoio, ma porgiamo all'ospite per primo la sua tazzina o bicchiere (in un gruppo, si serve per ultimo il capo); se le consumazioni arrivano direttamente dal bar, paghiamo l'addetto in «separata sede», perché non è garbato maneggiare il danaro davanti a tutti.

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È importante, qualunque sia la nostra posizione nella gerarchia aziendale, imparare a comunicare sempre in maniera rispetttosa (che non vuol dire ossequiosa, né fredda), a chiedere le informazioni di cui abbiamo bisogno, a fare un complimento meritato e accettarlo con un sorriso quando ci viene rivolto, a non buttare sugli altri la colpa dei nostri insuccessi, a condividere il merito dei successi, a criticare in modo costruttivo, s enza prese in giro e sarcasmi, a non lamentarci per abitudine e partito preso. È anche un errore stare sempre in disparte, non condividere i momenti di pausa o di scherzo: la nostra riservatezza può essere scambiata per presunzione. Sconsiglio di assumere il ruolo di «barzellettiere aziendale», perché difficilmente porta a essere stimati professionalmente e promossi, però un sorriso e una parola scherzosa possono rendere il clima più amichevole e rilassato. Che non significa sboccato: evitiamo turpiloqui e battute pesanti e volgari. E se le fa qualcun altro? Limitiamoci a non ridere: non abbiamo l'autorità (né la voglia) per riprendere, biasimare, educare una persona adulta che ha, ahinoi, il diritto di essere cafona. Così pure, non correggiamo i lapsus e gli errori del nostro interlocutore, a meno che non comportino il rischio di un malinteso (se prima dice «Ci vediamo alle cinque», e poi «Allora l'appuntamento è per le sette», è senz'altro il caso di chiedere: «Vuoi dire le cinque, vero?»), ma se il senso non cambia, è meglio non cadere in questo vezzo da maestri di scuola. Non interrompiamo mai chi parla. Se per caso due persone iniziano contemporaneamente a parlare, devono fermarsi subito, dicendosi scambievolmente: «Scusa, dì pure». L'interruzione disinvolta di un discorso, come il continuare imperterriti a parlare, sperando che I'altro si scoraggi e smetta, sono segni gravi di maleducazione, di mancanza di sensibilità. A chi tocca poi riprendere a parlare per primo? Alla persona più importante; tra pari grado, a quello dei due che ritiene di avere la comunicazione più urgente. Mai confondere la profondità con la pesantezza, l'essere seri con il prendersi troppo sul serio. Perché non c'è nulla di più sgradevole della supponenza morale, l'assunto a priori di essere migliori e diversi. Ecco perché vanno scelte con cura le parole. Invece di «Tu non hai fatto/detto» è meglio dire «Io vorrei che tu facessi/dicessi», e invece di «Lei sbaglia», «Hai torto», «Non ha capito» diciamo: «Non sono d'accordo», «C'è un equivoco» e «Forse non mi sono spiegato bene». Siamo franchi nel riprendere un collega o chiarire un malinteso, ma facciamolo a quattr'occhi (e dopo avergli domandato se gli va di parlarne), senza chiamare a giudici gli altri; e quando ci viene detto qualcosa che interpretiamo come una critica, non reagiamo gridando, accusando o mettendo il muso. Uno dei modi più sicuri per rendersi odiosi è non saper chiedere scusa: chi non sa assumersi le proprie responsabilità quando sbaglia è nevrotico e maleducato, e anche poco accorto, perché frasi come «Ho sbagliato», «Non dovevo dire/fare così» quando sono dette con semplicità, disinnescano la miccia del risentimento e aiutano a ristabilire un rapporto cordiale. Esattamente l'effetto opposto l'ottiene invece il «Non I'ho fatto apposta», o il tentativo di minimizzare il proprio torto: tra persone adulte, essere distratti, egocentrici, superficiali e faciloni costituisce un'aggravante, non un'attenuante. Un'ultima raccomandazione: anche se siamo sicurissimi della freschezza del nostro alito, quando parliamo cerchiamo di tenerci a una distanza ragionevole, senza respirare in faccia all'altro; e non tocchiamogli il braccio.

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Due regole un po' tradizionali, se vogliamo, ma che è giusto osservare anche se parliamo perfettamente cinque lingue e abbiamo fatto un master in America. Perché non è detto che sul lavoro non si debba essere riconoscenti per una gentilezza, avere rispetto per una persona più anziana, comportarsi con elementare buona educazione, rispondere alle domande senza attaccare bottone, aiutare quando è il caso, sorridere, salutare quando si arriva e quando si va via. Altrimenti non siamo anticonformisti, ma semplicemente cafoni. Prima di aver ben «inquadrato» I'ambiente e di essere stati accettati dal gruppo - non permettiamoci battute di spirito o commenti; curiamo particolarmente il nostro abbigliamento, evitando ogni sfoggio di firme e capi dernier cri: niente di peggio che dare l'impressione di lavorare per hobby! Accettiamo con gioia gli inviti a partecipare ad attività comuni nel tempo libero, ma non sollecitiamoli. Chiedere «Posso venire anch'io?» è sgradevole per chi non può risponderci di no, ma anche per noi, accettati visibilmente a malincuore. Se un collega ha un nome brutto, o molto lungo e «importante», può essere solo sua l'iniziativa di suggerire un soprannome, o un «accorciamento»; fino ad allora, sarà Emerenziano e basta. Ma neanche cinquant'anni di anzianità aziendale ci danno il permesso di apostrofare gli altri con «Caro/a, bello/a, cocca ecc.».

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Durante un colloquio di lavoro abbiamo pochi minuti per guadagnarci l'interesse del selezionatore, fargli capire chi siamo e trovare una base comune di comunicazione. E tutto questo prima ancora che abbia letto il nostro curriculum vitae. Quindi, attenzione al look: in attesa di conoscere lo stile «giusto» per l'ambiente, meglio stare sul classico: ogni estrosità può essere interpretata come indice di scarso rispetto. E ancora: -non arriviamo in ritardo, ma neppure in anticipo; -non iniziamo a parlare per primi: dopo il «Buongiorno» iniziale (non «Salve»!) aspettiamo che ci venga rivolta la parola; -non invadiamo lo «spazio» altrui appoggiando borse, libri e cartelle sulfa scrivania; -guardiamo in faccia chi ci parla, siamo disinvolti ma non confidenziali, sintetici ma esaurienti; -non diciamo bugie: è difficilissimo dirle bene; -non mangiamo caramelle né «svapiamo»; -evitiamo i conflitti: davanti a una domanda che ci pare inadatta, chiariamo con garbo che non ci pare il caso di entrare in dettagli; -non alziamoci per primi - non tocca a noi mettere fine all'incontro - e non chiediamo: «Come sono andato?». La lettera che accompagna il curriculum vitae è importante, perché contribuisce a completare la nostra immagine: in poche righe dobbiamo invogliare chi legge a incontrarci di persona. Deve essere scritta a computer - ma con data, intestazione (Egregio Dott. Rossi, RGC srl), saluti e firma a mano - graficamente perfetta, in buon italiano (controlliamo apostrofi e accenti!), con tono educato (mai adulatorio o strappalacrime), e offrire informazioni semplici, efficaci e chiare su laurea, diploma o specializzazione, congruenza delle nostre capacità con il lavoro cui siamo interessati, motivazioni personali e professionali, disponibilità a viaggi e trasferimenti. Cerchiamo di limitarci a una sola facciata: tanto, chi vuole approfondire i dettagli, legge il curriculum vitae.

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Dichiariamo che ci piacciono molto il regalo o il mazzo di fiori appena ricevuti, la casa in cui entriamo per la prima volta, la cena che abbiamo nel piatto, il libro che ci è stato donato dall'autore. Ma se vogliamo essere credibili e graditi non definiamo «squisito» l'arrosto che sa di bruciato, o «sontuoso» un salotto normale (meglio «caldo», «confortevole»). Attenzione ai complimenti «a doppio taglio»: dire a un'amica «Non ti ho mai vista così elegante» può far sospettare che di solito ci appaia sciatta e malvestita. E un ostentato stupore davanti a una tavola ben apparecchiata o a una cena ben cucinata esprime la mancanza di considerazione delle doti casalinghe di chi ci ospita. Così, quando notiamo l'«aspetto giovanile» di una persona, e il suo «sembrare più giovane ogni anno che passa», o lodiamo l'abito «che ringiovanisce», in realtà stiamo pesantemente sottolineando che la gioventù è passata. Ultima regola: il complimento va fatto solo e unicamente quando siamo (o possiamo apparire) disinteressati. Se no è volgare adulazione. Chi ha garbo (e furbizia) si morde la lingua ma non sollecita complimenti: un «Ormai non c'è più nulla che mi doni davvero» oppure «Il mio problema è che perdo i capelli» può anche indurre chi ci ascolta a rassicurarci con un educato «Non è vero» o «Non si vede proprio», ma intanto il nostro fascino è sceso sotto zero. E noi stessi ci siamo attribuiti l'etichetta di «prodotto di seconda scelta» (se non addirittura di «saldi di fine stagione»). Il modo giusto per accettare un complimento gradito è un sorriso e un «grazie». Di fronte a una frase perfida mascherata da complimento, il silenzio è l'arma migliore e più efficace.

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La prudenza consiglia di capire bene chi abbiamo davanti, prima di abbandonarci a battute e maldicenze su qualcuno che potrebbe essere un suo parente, un suo amico o il suo amato bene: la gaffe è sempre in agguato. Ed è peggio di una figuraccia qualunque, perché ferisce; è un errore non di forma, ma di sostanza. Per evitare i passi falsi basterebbe non dare mai nulla per scontato ed evitare certi argomenti «pericolosi» con persone che non conosciamo bene, o che non vediamo da tempo. Ma il gaffeur naviga a vista sull'onda dell'emozione del momento o - banalmente - di qualche brindisi. È distratto, svagato, ha sempre fretta e non sa concentrarsi su ciò che sta dicendo. Così chiede «Come sta la signora?» a chi è stato appena piantato dalla moglie, chiama il secondo marito di un'amica con il nome del predecessore, delizia una platea di medici e avvocati dichiarando che «Tutti i liberi professionisti sono ladri ed evasori fiscali»... Siccome nella conversazione non esiste il tasto rewind che permette di recuperare o cancellare una parola di troppo, che cosa si può fare quando la gaffe ci è già uscita di bocca? Senz'altro resistere all'impulso di affastellare spiegazioni e aggiustamenti, perché rischiamo di peggiorare la situazione. È meglio tacere. Al massimo, possiamo dichiararci dispiaciuti, magari aggiungendo frasi del tipo: «Scusate, ho un tale mal di testa che non so quel che dico» e sperare che l'offeso ci creda. Se ci accorgiamo che qualcuno sta per fare una gaffe, possiamo eccezionalmente infrangere la regola e interromperlo mentre sta parlando. Ma se arriviamo troppo tardi, non facciamogli gli occhiacci, non scusiamoci al suo posto, non cerchiamo di correggere, spiegare, mitigare. Fingiamo di non esserci accorti di nulla, e parliamo tranquillamente d'altro. E la «vittima», come deve comportarsi? Se non ha la prontezza di spirito di rispondere con una battuta che sdrammatizza l'atmosfera, cerchi almeno di non mostrarsi offesa o imbarazzata. Accetti le eventuali scuse, e si comporti come se la frase incriminata non fosse mai stata detta.

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Se siamo in lacrime dopo un litigio, è meglio ammetterlo, sdrammatizzando: «È vero, sono un po' giù perché abbiamo litigato, ma vedrai che domani tutto si aggiusterà». Convinciamoli (e convinciamoci) che non c'è niente di buffo nel dire le parolacce, quindi evitiamo ogni forma di grossolanità verbale e di turpiloquio abituale, che ovviamente imiterebbero. Attenzione a quel che si dice davanti ai bambini «distratti» dal gioco o dalla tv: ascoltano tutto e lo ripetono nel momento sbagliato. Anche al telefono, non vantiamoci dei loro prodigi né lamentiamoci delle loro malefatte. Abituiamo i bambini fin da piccolissimi a: -salutare per primi (ma senza porgere la mano) e rispondere a eventuali domande senza timidezze o smorfie; -ringraziare nell'accettare dolci o regali; -non interrompere i discorsi degli adulti; -non dire parolacce; -non lasciare in giro giocattoli e indumenti; -chiudere le porte dietro di sé; -trattare bene gli animali; -non parlare a voce troppo alta, non fare rumori inutili (per spostare una sedia, la si solleva, senza strisciarla sul pavimento); · -dire sempre «per favore », «grazie», «scusa», anche ai collaboratori domestici; -non mettersi le dita nel naso, grattarsi, ruttare. Poi, a mano a mano che crescono, verranno coinvolti nella vita di casa con piccoli doveri: apparecchiare e sparecchiare la tavola, farsi il letto, caricare la lavapiatti, buttare la spazzatura negli appositi contenitori, passare l'aspirapolvere, rimettere a posto i propri abiti. Crescendo, si assumeranno anche il compito di rassettare la propria camera e di imparare a cucinare qualche piatto semplice: non solo per sollevarci da qualche incombenza (che sarebbe già un motivo più che valido) ma perché è prendendosene cura che si impara ad amare il luogo in cui si vive.

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Per questa ragione esige, ancor più di quella «classica», il rispetto di alcune regole fondamentali di galateo, perché l'intimità con persone «nuove», con cui non abbiamo in comune il cemento della parentela e della consuetudine (e che, ammettiamolo, a volte non abbiamo scelto), è a rischio di screzi che possono diventare rotture irrimediabili. Perciò evitiamo di stringere alleanze con alcuni membri della tribù a scapito di altri, asteniamoci dal partecipare a discussioni che non ci riguardano direttamente e soprattutto dall'esprimere critiche e giudizi. Nel caso in cui ci venga espressamente chiesta la nostra opinione, caviamoci d'impaccio con un «Non saprei, non lo conosco abbastanza bene». Non facciamo né sollecitiamo confronti tra parenti «nostri» e «suoi» e, se il nostro partner parla malissimo dei suoi farmiliari, evitiamo di fare altrettanto: potremmo far scattare in lui un meccanismo di solidarietà che ci porterebbe dalla parte del torto. Cerchiamo di non fare vistose preferenze, per esempio, difendendo sempre a priori i nostri figli e nipoti nei confronti di quelli dell'altro. Dobbiamo anche accettare che per i bambini non è facile trovarsi di colpo con nuovi «fratelli», e che si può imporre loro la reciproca tolleranza e il rispetto, ma non l'affetto. Al massimo, possiamo sperare che col tempo nasca l'amicizia. Infatti, è meglio non voler stabilire a tutti i costi all'interno della «famigliastra» i rapporti di tipo tradizionale: accontentiamoci (si fa per dire) di costruire una tribù di amici. Il rapporto più delicato e più difficile da gestire è con i figli di primo letto del partner, perché i bambini sanno essere avversari subdoli, crudeli, prepotenti, dispettosi, spesso vendicativi, più irriplacabili di qualsiasi suocera delle barzellette nel trattarci come intrusi sgraditi. Certo, i sentimenti non si possono imporre, però si può impostare un rapporto accettabile agendo sempre con tanto, tantissimo garbo: saremo indulgenti verso il capriccio fatto «per metterci alla prova», tolleranti con la deliberata cattiveria dell'adolescente in crisi, benevoli con il timido che ci sta sempre fra i piedi senza osare prendere confidenza, pazienti con i vittimismi di chi si sente messo da parte. Ma diremo anche dei «no», con cortese fermezza, per abituarli a non invadere gli spazi e i tempi riservati agli adulti, al lavoro, alla privacy. Chi non è genitore non intervenga mai nelle liti e nelle sgridate con commenti, consigli e «prediche» non richiesti, ma neppure si schieri dalla parte del quasi-figlio quando questi disobbedisce o commette marachelle; non lo vizi con dolci e regali senza motivo, non gli compri vestiti e accessori superfirmati per ingraziarsene le simpatie. Dal canto suo, un genitore non chiede ai figli nati da un precedente rapporto di chiamare «mamma» o «papà» chi non lo è, e non deve imporre loro sistematicamente la presenza del nuovo compagno: concedere loro ogni tanto un po' di tempo «in esclusiva» eviterà l'insorgere di gelosie nei confronti del nuovo amore. Solo se siamo davvero sicuri che rancori e risentimenti con l'ex coniuge e gli ex suoceri sono del tutto scomparsi, possiamo riunire tutto il parentado vecchio e nuovo per le feste comandate. Per quanto l'atmosfera possa essere idilliaca, è necessaria una dose massiccia di buone maniere, per evitare invasioni di campo. Chi non ha legami di sangue con i nipoti, sappia fare un passo indietro rispetto a zii e nonni «veri», senza entrare in competizione per il regalo più bello e costoso, o l'uovo più grande... Da parte loro, i genitori inviteranno i bambini a essere gentili con tutti i parenti, senza mostrare vistose preferenze. Se scrivono la letterina augurale, ne inviino una a ciascuno: magari più corta. L'importante non è che ricevano il doppio dei regali, quanto il doppio di affetto, attenzione, allegria. L'errore più grande è accettare la famiglia «allargata» controvoglia, solo per sentirci moderni e senza pregiudizi; per questo, non forziamo nessuno a partecipare, non offendiamoci davanti a un rifiuto. Non è obbligatorio fingere a comando buoni sentimenti e apertura mentale. Anche perché c'è sempre il rischio di insofferenze e conflitti, che finiscono per ferire crudelmente i più deboli, cioè i bambini e gli anziani. Piuttosto, sdoppiamo le feste: cenone della Vigilia di Natale con una metà della famiglia, pranzo del 25 con l'altra metà; pranzo di Pasqua con gli uni, pic-nic di Pasquetta con gli altri, e così via alternando. L'importante è che le due metà della festa abbiano eguale risalto, decorazione, festosità e golosità, onde evitare antipatiche gerarchie.

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In compenso, se non vogliamo accondiscendere a richieste di aumento di stipendio o di riduzione d'orario, non abbiamo timidezze: è un nostro diritto dire di no, ma è un dovere farlo senza arroganza né rabbia, motivandolo con frasi pacate: «In questo momento proprio non posso, perché....» (ma attenzione: non pretendiamo di essere creduti se ci concediamo a ogni piè sospinto acquisti folli e week-end dispendiosi: chi lavora in casa nostra conosce benissimo le nostre abitudini e il nostro guardaroba). E soprattutto, se vogliamo che l'altro accetti le nostre esigenze, mostriamo di capire il suo punto di vista: a chi non farebbe comodo più denaro, o più tempo libero? Quindi evitiamo di sminuire il suo lavoro con frasi del tipo: «In fondo non ha poi quel gran da fare» o di fare leva sull'affettività («Allora non vuole bene ai bambini»); eventualmente, per addolcire il rifiuto, si può lasciare aperta una possibilità: «Riparliamone fra qualche mese, quando spero migliorerà la mia situazione di lavoro».

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La vita in condominio mette spesso a repentaglio la nostra privacy: ma se noi per primi raccontiamo «in confidenza» a colf e portinaia le nostre vicende private, se non moderiamo il tono di voce durante discussioni e litigi, se abbiamo l'abitudine di telefonare stando sul balcone, se giriamo per casa nudi o sommariamente vestiti anche con le finestre aperte e le tende spalancate, praticamente costringiamo vicini e dirimpettai ad assistere alle vicende della nostra soap opera familiare. Non lamentiamoci poi se ci accorgiamo che si divertono! Con i vicini di casa, il rapporto dovrebbe essere di massima educazione, condita con grande discrezione. Rispettiamo i loro spazi (a partire dal pianerottolo: non «abbelliamolo» con piante e decorazioni vistose senza concordarlo in anticipo, non parcheggiamoci per ore il sacchetto dell'immondizia, con la scusa «Così non me lo dimentico»), balcone compreso: quindi abbandoniamo la brutta abitudine di scuotere la tovaglia per farne cadere le briciole, o peggio di fumare sul terrazzo e poi gettare nel vuoto i mozziconi. Pensiamo al bucato steso al piano di sotto anche quando mettiamo sul davanzale della finestra il cibo per i colombi, assai prodighi di «ricordini». L'amore per gli animali non giustifica neppure chi appende fuori della finestra la gabbia degli uccellini canori: basta pochissimo vento perché sabbia, piume ed escrementi cadano sul balcone di sotto, e magari sul bucato steso... Statisticamente, la causa più comune dei «dissapori da pianerottolo» sono i rumori molesti: bambini che vociano per le scale, amanti del fai da te che usano trapano e martello a tutte le ore, discussioni ad alta voce fino a notte fonda, stereo e tv a tutto volume, cani che abbaiano, salutisti che usano zoccoli ortopedici al posto delle più silenziose pantofole... Far funzionare lavatrice e lavastoviglie nelle ore notturne per usufruire di una fascia» di prezzo più conveniente è un nostro diritto, ma solo a patto che possediamo elettrodomestici silenziosissimi. D'estate controlliamo bene dove va a finire il fumo del nostro barbecue. È lecito chiedere in prestito un ingrediente di cucina ai vicini solo se è davvero indispensabile e se i negozi sono chiusi, e a patto di restituirlo il giorno dopo. Se diamo una festa, scusiamoci in anticipo per il disturbo (ma chiediamo con fermezza ai nostri ospiti di astenersi da rumorosi convenevoli sul pianerottolo a tarda notte). Non siamo affatto tenuti a invitare i vicini, se non vogliamo dare inizio a una frequentazione più stretta. Certo che, se chiediamo il loro aiuto o contributo per la buona riuscita della serata - uno spazio nel frigo per i nostri cibi pronti, o delle sedie in prestito, o l'uso del forno... - non possiamo esimerci dal farlo. In caso di nascita, matrimonio o lutto, è d'obbligo scrivere un biglietto. Se i rapporti sono più stretti, ci recheremo in visita.

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Da mantenere invece, secondo me, la frase «Per gentile tramite», che significa che abbiamo affidato la lettera o il biglietto a una persona gentile, perché li recapitasse. E mi sembra sempre doveroso far notare alle persone gentili che non le consideriamo alla stregua di schiavetti, o di elettrodomestici.

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.; -non è obbligatorio servire l'insalata, ma se la serviamo, è obbligatorio portare in tavola insieme all'insalatiera anche l'apposita mezzaluna, o un piattino da frutta, da posizionare accanto al piatto, a sinistra; -di solito, il coltello del formaggio non viene apparecchiato con le posate da frutta, ma portato sopra al piattino; -se non possediamo le apposite posate da pesce, serviamo solo pesci in filetti, o in frittura, e apparecchiamo con la sola forchetta; mangiando potremo eventualmente aiutarci con un boccone di pane o un grissino; -quando abbiamo ospiti mettiamo in tavola una saliera, una brocca d'acqua e una bottiglia di vino ogni quattro persone.

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Se abbiamo problemi di spazio e non vogliamo rinunciare a un tocco di verde, possiamo porre accanto a ogni piatto (a destra in alto, oltre i bicchieri) un piccolo mazzo individuale tenuto in fresco in un bicchierino da rosolio, oppure legare un fiore e un rametto verde a ogni tovagliolo o appoggiare un fiore singolo al piede di ogni bicchiere da acqua. Solo alla sera possiamo sostituire i fiori con candele, sempre bianche e anch'esse inodori, che accenderemo prima che gli ospiti siedano a tavola, e spegneremo solo dopo che si saranno alzati. Possiamo usare candelabri di stili e fogge diversi, purché siano tutti dello stesso materiale. Non è casuale che le candele siano sempre o molto alte (sul candeliere) o molto basse: la «mezza misura» si porrebbe proprio ad altezza degli occhi dei commensali. L'accoppiata fiori più candele è accettata solo per i pranzi di nozze.

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-se abbiamo il rossetto sulle labbra, un gesto davvero cortese è quello di togliercelo con un fazzoletto di carta prima di iniziare a usare il tovagliolo, così da non macchiare (spesso in maniera indelebile) la stoffa; -non auguriamo «buon appetito»: è una frase solo apparentemente gentile, in realtà meccanica e vuota; -quando siamo seduti teniamo i piedi accanto alla nostra sedia, senza accavallare le gambe (e senza toglierci le scarpe!); -non allineiamo accanto al piatto pillole e medicinali vari che vanno presi senza dare nell'occhio; se lo fa il nostro vicino, è vietatissimo chiedergli conto e ragione dei suoi malanni; -versiamo acqua e vino nei bicchieri dei nostri vicini prima che nel nostro, senza riempirli mai fino all'orlo. Se è qualcun altro a versare a noi, non «aiutiamolo» alzando il bicchiere incontro alla bottiglia; l'acqua non si rifiuta mai, il vino sì, ma basta dire «no grazie», senza coprire il bicchiere con la mano; -è molto maleducato bere vino e rosicchiare pane e grissini prima che inizi il pasto (l'acqua, naturalmente, non ha controindicazioni); -prima di bere è obbligatorio pulirsi le labbra con il tovagliolo, gesto che verrà ripetuto subito dopo aver bevuto; -il bicchiere a calice si prende appoggiando le dita sul fondo, non sullo stelo; la presa «a piede» è tipica degli assaggiatori durante le degustazioni: lasciamo che rimanga un appannaggio della categoria. E ricordiamoci di «alzare il gomito», nel senso di non tenerlo appoggiato sulla tavola mentre beviamo; -si può infilare la propria forchetta nel piatto dei vicini, assaggiare, prendere «solo un boccone»? Il galateo lo concede solamente durante una romantica cenetta a due, in cui questa invasione di campo assume connotazioni maliziose, allusive a una successiva maggiore intimità; -prendiamo bocconi piccoli - dovremo ben scambiare qualche parola con i vicini, no? - e masticando non facciamo nient'altro; dal bere al parlare, dall'aggiungere sale e pepe ai cibi al servirsi dal piatto di portata, al condire l'insalata, al brindare: sono tutte attività da fare a bocca vuota; -per bere posiamo le posate sul piatto: la forchetta o il cucchiaio per il primo con la parte convessa verso il basso e il manico a destra (a sinistra, per i mancini), la forchetta (con i rebbi in gù) e il coltello nella posizione delle lancette dell'orologio sulle 7 e 20. Quando abbiamo finito di mangiare, in attesa di portare via il piatto, mettiamo le posate nella posizione delle lancette dell'orologio sulle 6; -il coltello non va usato per tagliare il pesce, la verdura e tutti i cibi a base di uova (comprese le torte dolci e salate) e di patate, che possono essere agevolmente divisi in bocconi con la forchetta; -il cucchiaio si porta alla bocca di punta per mangiare la minestra e dolci, gelati e frutta «al cucchiaio»; di lato per sorbire il brodo; - cucchiaio e forchetta non si devono riempire troppo, perché quello che contengono deve essere mangiato in una volta sola; nei brindisi non è garbato toccare i bicchieri: basta alzare il proprio all'altezza del viso in un gesto simbolico; - il comportamento più inelegante a tavola è quello di chi guarda che cosa e quanto mangiano gli altri commensali, e fa commenti: masticare tenendo la bocca chiusa e le orecchie aperte mi sembra il modo perfetto per definire il commensale garbato! -non è mai elegante fare «scarpetta» col pane per raccogliere il sugo: è concesso solo in famiglia, purché non abbia la pretesa di pulire il piatto a specchio.

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Anche in famiglia, evitiamo il più possibile di condire i cibi con litigi, rimproveri (se pure giusti e motivati) e lamentele; quando abbiamo ospiti, fingiamo di non vedere le maleducazioni dei figli, che verranno rimproverati più tardi, a quattr'occhi. Cerchiamo di mostrare quella che gli inglesi chiamano agreeable disposition, cioè un'effettiva partecipazione alle idee e agli interessi dell'interlocutore, adattandoci anche a parlare dell'ultimo programma televisivo, o di altri argomenti altrettanto frivoli. Tocca ai padroni di casa intervenire con garbo quando la conversazione sta prendendo una piega «pericolosa», o è diventata un tediosissimo «monologo a due» mentre tutti gli altri si annoiano... Non esitino a intromettersi con un «ora basta con questi discorsi così seri!» e a interpellare con un sorriso e una domanda appropriata chi finora non ha avuto modo di aprire bocca, per esempio: «Mi dica, che cosa avete in programma per le prossime vacanze?». Una volta i complimenti sul cibo erano vietatissimi dal galateo della tavola, come pure tutti i discorsi che avessero argomenti «materiali», ritenuti volgari. Forse è per questo che una (bruttissima) formula di accoglienza degli ospiti invita a «Non fare complimenti». Noi invece facciamoli, per dimostrare attenzione verso chi si è sforzato di preparare qualcosa di speciale per noi. Ma facciamoli bene: definire «un nettare degli dei» un vino senza particolari qualità sembra una presa in giro, meglio limitarsi a un «è proprio buono». E non siamo generici: più che un «la cena era buonissima» sarà gradito un apprezzamento mirato su un piatto, ma solo se davvero riuscito; anche in questo caso un complimento smaccatamente falso è un autogol.

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IL nuovo bon ton a tavola e l'arte di conoscere gli altri

190737
Schira Roberta 13 occorrenze
  • 2013
  • Salani
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Se abbiamo accettato un invito a cena, approfittiamone. Si può accorciare di un paio di ore, si può allargare l'invito a una terza persona, ma la cosa importante è riuscire a portare la vostra «vittima» su un set, l'unico assolutamente perfetto per conoscerla a fondo: la tavola. Ciò che conta è che, tra i due commensali, seduti l'uno davanti all'altro, si crei uno stato di intimità (succede quasi sempre) tale da dissolvere ogni barriera. Lentamente e con l'esercizio sarete in grado di cogliere dopo una sola cena la vera personalità del vostro convitato. La prima tesi di questo libro è che noi italiani a tavola siamo piuttosto maleducati, la seconda è che la tavola e l'atto di mangiare insieme rappresentano il momento e la circostanza ideale per far emergere la vera natura di un individuo. È vero, qualcuno potrebbe dire che stare insieme in due significa anche andare al cinema, visitare una mostra o passeggiare in un parco... Certo, ma tutte queste azioni non sono lontanamente paragonabili all'esperienza di consumare un pasto insieme. In tutte le culture, appena un essere umano prova interesse per un altro, uno dei due propone di condividere del cibo. Può essere l'uomo a invitare la donna o viceversa, la coppia può essere formata da due uomini o da due donne: non ha importanza, potete applicare molte di queste note in qualsiasi caso. Prendiamo in esame, solo per comodità e perché è il caso più comune, l'uomo che invita una donna. Il lui che invita una lei: - Si offre SEMPRE di andarla a prendere a casa. - Le chiede se ha un locale preferito. - Non arriva MAI in ritardo al primo appuntamento. - Non tira il «bidone». Mentre a sua volta, lei: - Cercherà di mostrarsi il più possibile indipendente negli spostamenti. - Eviterà di scegliere un ristorante a tre stelle, a meno che lui non sia ricchissimo. - Eviterà di farsi aspettare per più di dieci minuti. - Eviterà di ordinare i piatti più costosi, a meno che non debba vendicarsi di un tradimento subito. In questo caso consiglio di agire sulla carta dei vini: dà più soddisfazione. - Non tira «il bidone», mai. È evidente che, già dal modo in cui avviene l'invito, potrete capire molto. Per le donne. Se al primo incontro lui vi dice: «Ti porto al cinese sotto casa, menu a venti euro vino compreso. Vieni tu, così non sposto la macchina e non perdo il parcheggio» siete autorizzate a declinare, a meno che non ci teniate a mantenere la vostra autostima a livelli bassissimi. E non cedete alla tentazione di accettare neppure se l'ultimo invito stata una cena dell'oratorio per i single del quartiere due mesi prima. Per gli uomini. Se al primo incontro lei vi dice: «Non guido e non ho la minima idea di dove sia questo posto. Se pioviggina, poi, i capelli mi diventano crespi e mi secca prendere un taxi. Non portarmi al cinese che sono allergica al glutammato, del sushi non mi fido e dai siciliani non digerisco la caponata. Non è che posso portare anche mia cugina così mi dà uno strappo?» non potete darvi malato, ma alla fine della serata siete autorizzati a pronunciare la fatidica frase: «Ti chiamo io». Inutile dire che, se lui viene a prendervi in auto, siete a cavallo. Soprattutto per gli uomini, l'automobile è un'emanazione della propria casa, e un prolungamento del proprio organo genitale, si sa. Non è solo una facile battuta, ma un indizio quasi infallibile. La cilindrata di un'auto per un uomo è inversamente proporzionale alla sua sicurezza sotto le lenzuola. Mai generalizzare, d'accordo, quindi sappiate solo che, con un'auto di lusso ingiustificata, si cerca (si crede) di colmare un vuoto da qualche parte: tutto qui. E questo si può applicare anche alle signore. Ma torniamo al nostro lavoro di detective. Ovviamente, seduta accanto a lui/lei mentre guida, potrete raccogliere indizi. - Guida piano, in modo rilassato? - Rispetta le regole? Guida veloce, da spericolato/a? - Che musica ascolta? - L'interno dell'auto è pulito? - Ci sono libri, riviste? - Ci sono segni di bambini o mogli sui sedili posteriori? Tracce di presenze femminili? Arrivati al ristorante non bisogna pretendere che lui scenda ad aprire la portiera e, in verità, a molte donne la cosa quasi infastidisce. È invece molto apprezzato e, tra l'altro, previsto dal galateo che in un locale pubblico entri prima l'uomo. Abbiamo già incontrato questa regola. Lo so, vedo già le amiche neofemministe sorridere a questo verbo: passate oltre. In genere, se il tragitto sino al ristorante non è lungo non si va in bagno subito, ma è interessante vedere se lui/ lei vi dirà: «Devo lavarmi le mani» e soprattutto sarebbe utile se lo facesse davvero. Infatti sappiamo che con questa espressione il più delle volte si esplicano altre funzioni o semplicemente si va per sistemare il trucco (ma per le donne, in genere, avviene a metà cena). Se va in bagno per lavarsi effettivamente le mani, e se lo fa più volte in una sera, siamo di fronte a un comportamento ossessivo-compulsivo: meglio stare alla larga dai rupofobici, come amanti non sono un granché. Per quanto riguarda la posizione da prendere all'interno del ristorante, è ovvio che se il vostro accompagnatore si precipita al posto migliore (quello che domina la sala) ignorandovi completamente, la serata inizia male. I posti peggiori sono quelli rivolti al muro, quelli vicino a una stufa, al bagno, alla cucina, in un angolo, dietro a una colonna, accanto alla porta d'ingresso, i più stretti, i più scomodi, a cavallo tra due tavoli. Ecco, tutti quelli sopra elencati dovrebbero essere subito identificati e scelti da lui, a titolo di sacrificio. Sempre l'uomo indica il tavolo e chiede: «Va bene qui?» Se lei dice sì, lui aiuta la signora a togliersi il cappotto, se c'è, e sposta la sedia per farla accomodare. I posti migliori, come abbiamo già detto, sono quelli con le spalle al muro. L'uomo chiede la carta. Questo dovrebbe essere il primo incontro-scontro con il personale di servizio. Attenzione, il modo in cui il nostro ospite si rivolge ai camerieri è indicativo e utile al nostro scopo. Quando entra nel locale assume quell'aria vissuta e di bon vivant, un atteggiamento «di parità» con i proprietari e di sufficienza con i camerieri? È un sintomo preoccupante. Una bella signora romana, di famiglia nobile, mi raccontò che decise di non dare una terza possibilità al corteggiatore ricco e belloccio perché si ostinava a dare del tu alle cameriere di colore. E non si limitava a queste cadute di tono, spesso aggiungeva un paio di battute micidiali come quando disse: «Certo che voi sì che giocate bene a basket» a un nepalese, alto un metro e sessanta. Ancora. Ricordo benissimo l'arroganza con cui una conoscente si rivolse a una bella cameriera immigrata in un noto locale milanese. Per non farsi capire fece un perfido commento in inglese sull'abito della ragazza la quale, con tranquillità, rispose in perfetto italiano: «Credo che anche lei farebbe fatica a vestirsi in modo decente, se dovesse pagarsi gli studi universitari e mantenere un fratello disabile», e girò i tacchi portandosi via una pila di piatti sporchi. Allo studio della carta delle vivande, l'analisi si fa più interessante. Come affronta la scelta dei piatti? È sicuro e ordina senza esitazioni? Vi aspetta, vi consiglia? Decide per voi? A ogni risposta corrisponde un piccolo tassello. Ci sono donne che tendono a adeguarsi ai piatti del maschio, o viceversa. Di certo chi ha una forte personalità, diciamo anche gastronomica, si renderà conto di quanto riesce a influire sugli altri nella scelta dei piatti. Poi è il momento della scelta del vino: spesso spetta agli uomini. Oggi molte donne sono appassionate e possono prendere l'iniziativa, l'importante è che non diventino insopportabili parlando tutta la sera di vino. Le tipologie di commensale al momento di ordinare non sono poi tantissime, cerco di sintetizzarne alcune. La signorina senza e con. La comanda delle signorine- senza-e-con si manifesta con una iniziale lungaggine nello studiare la carta, almeno una decina di minuti. All'arrivo del cameriere, il soggetto tende a ordinare i piatti come sono riportati dal menu, ma con una serie infinita di varianti, e cioè togliendo e aggiungendo ingredienti, sino a che il cameriere, spazientito, ha una crisi isterica. Esempi. «Per me, mezza costoletta alla milanese, ma invece che cotta nel burro chiarificato la vorrei cotta nell'olio extravergine del Garda. Senza pomodorini, ma con due ravanelli. Un quarto di porzione di tagliere misto di salumi senza giardiniera e senza finocchio. Potrebbe sostituire la coppa con una fetta di bresaola? Però me la porti a parte in un piatto piccolo. E bianco. Ah, scusi, dimenticavo, la mousse di castagne la potrei avere senza castagne?» Sono quelle del pesto senza aglio e della crostata senza burro. Ovviamente i camerieri le adorano. Il raspellomane. Il nome prende spunto dal critico gastronomico Edoardo Raspelli, il quale, essendo un amico, non me ne vorrà se lo chiamo in causa. Il tipo o la tipa in questione tempesta il povero cameriere con un'infinità di domande sulla provenienza delle materie prime e, se la cosa per il noto conduttore è lavoro, per tutti gli altri commensali diventa pedanteria. Esempi. «Buoni questi grissini, dove li comprate? E l'agnello da dove viene? E questo Parmigiano, di quanti mesi è? Questo sale dove viene estratto? E questo culatello, dalla coscia destra o sinistra?» E poi seguono consigli di gestione del ristorante, trucchi per lo chef, seguiti da un «qui manca qualcosa». Il faccia-lei. Esiste un certo tipo di commensale talmente pigro o indeciso da non voler neppure concentrarsi sui piatti in carta. In realtà, è davvero accomodante e preferisce affidarsi completamente o al partner, al quale lascia l'incombenza di decidere i piatti, o direttamente al cameriere. Di norma è un commensale molto distratto e quasi completamente disinteressato al cibo: indizio non trascurabile. Attenzione, di solito è abitudinario e, una volta provato un piatto al ristorante, chiederà: il solito. La comanda dispotica. Certamente vi sarà capitato di trovarvi a tavola con un commensale affetto da «comanda dispotica». Ne ho conosciuti per lo più di appartenenti al sesso maschile che, senza minimamente interpellarvi e dopo aver scelto loro il ristorante, il parcheggio e dopo avervi fatto pervenire come desiderio personale che avrebbero gradito una gonna anziché il pantalone, al momento di ordinare, prima ancora che voi siate riuscite a leggere un menu, ordinano per voi l'intera cena con una naturalezza disarmante. Esempio: «Due spaghetti ai frutti di mare, una grigliata mista e un'insalata scondita. Ti va bene, vero?» E se, stupita, voi ribadite: «Per chi l'insalata scondita?» Lui risponderà: «Per te, cara, così butti giù qualche chilo». I finti-a-dieta. Nessuno ha ancora capito come mai i soggetti che sono (perennemente) a dieta si ostinino ad accettare inviti al ristorante e in case private. State a casa, rimettetevi in forma e poi uscite, no? Ecco un ordine tipo del finto-a-dieta, che, di norma, raggiunge il culmine al momento del dessert. «Senta, ci sarebbe un gelato dietetico, che ne so qualcosa a base di ananas, che sgrassa? Oppure una torta fatta con la margarina o un tiramisù fatto con il mascarpone di soia? È leggero il tiramisù? No? E la bavarese di cachi è light? No? Però c'è la frutta, no? Non c'è? Vabbè, allora mi porti una meringata». Spesso fanno fuori il cestino del pane. Il pidocchioso. L'abbiamo già incontrato e ho già espresso la mia personale avversione per il taccagno, che di norma si autodefinisce oculato; in genere, si tratta di persone avare anche di sentimenti. Lo abbiamo già incontrato tra gli anfitrioni. Due i momenti in cui i sintomi raggiungono l'apice: il primo, al momento dell'ordine, e il secondo, quello di pagare il conto (quando riuscite a farglielo pagare). La comanda per lui è una sofferenza, e lo potrete smascherare con facilità osservando dove cade l'occhio all'apertura della carta. Se a destra, lo avete pizzicato: prima di leggere i piatti guarda i prezzi. Nei ristoranti costosi alle donne viene consegnata una carta muta, senza prezzi, quindi è più difficile scoprirle: fatevi invitare a casa per levargli la maschera. E se vi invita a casa, scommettiamo che vi preparerà una cena minimalista? Insomma, per concludere, si scelgono i piatti insieme e poi si comunicano al cameriere senza troppe attese. L'uomo dovrebbe essere l'unico a rivolgersi al personale di servizio, ma diciamo che il galateo moderno è più elastico. In entrambi i casi è sconsigliato sbraitare per richiamare l'attenzione, civettare, fischiare con due dita in bocca (giuro che l'ho visto fare a una simpatica camionista di Terni), insomma un semplice «scusi, mi porterebbe...» dovrebbe bastare. Nell'attesa di mangiare e durante la cena si inizia a parlare. Rileggetevi il paragrafo sulla buona conversazione. Non esistono segreti, comunicare piacevolmente è un'arte sopraffina. E soprattutto rileggete l'elenco di ciò che piace di un interlocutore e fatevi un esame di: coscienza: a quanti punti potete mettere la crocetta? Diffidate del vostro interlocutore se in pochi minuti pronuncia più di cinque volte la parola «Io». Denota ovviamente un grande ego. Se volete acquistare la fama di ottimo conversatore iniziate ascoltando. Fate molte domande e attendete la risposta, ma poi toccherà a voi raccontare della vostra vita. Un segreto per uomini e donne: fateli parlare di loro stessi e adulateli all'infinito, la maggior parte degli esseri umani non se ne accorge. Durante le prime cene è necessario conoscersi: si parla del proprio lavoro, di un film, di attualità, di un libro che avete letto, di una gita particolarmente divertente. E poi si può parlare delle proprie passioni, dello sport preferito, della propria infanzia, di qualche familiare con un lavoro originale. L'unica cosa cui dovete fare attenzione è questa: in una cena a due perfetta, cronometrando i tempi di conversazione di ciascuno, questi dovrebbero risultare esattamente pari. E non dimenticate l'importanza dei silenzi, modulateli: gli stessi che erano conturbanti duranti i primi incontri diventano sintomatici nella coppia finita. Il tutto deve essere condito con leggerezza e con uno sguardo attento e vigile, mai indagatore. Anche se in realtà, dopo la lettura di questo libro lo sarete, non dovreste farvi scoprire. Il corpo, con il suo linguaggio esplicito, ci aiuterà a capire se il nostro commensale si sta annoiando o se è interessato, ma di questo si parlerà più avanti. Arriva la prima portata e qui si apre un mondo. È davvero banale e senza basi psicologiche affermare che ci sia una corrispondenza tra il comportamento degli esseri umani a tavola e sotto le lenzuola, ma nulla ci vieta di cogliere qualche indizio utile nel primo habitat e di farne buon uso nel secondo. Abbiamo già visto come l'associazione mentale cibo- eros è assolutamente fondata, se si pensa che gli esseri umani vivono la prima esperienza piacevole attraverso la suzione. Quando il lattante beve il latte, sia dal seno materno, sia artificialmente, si fissa nella sua mente il binomio cibo-piacere fisico. Alla luce di questo, è naturale che non troveremo straordinariamente seduttivo un partner che si ciba asceticamente senza esprimere alcun piacere con lo sguardo o con il corpo. A meno che anche noi non proviamo lo stesso disinteresse. È possibile (ma non certo) che un uomo che trangugi senza assaporare alcun cibo possa soffrire di ingordigia sessuale, di eiaculazione precoce, di frettolosità sotto le lenzuola? Non c'è nulla di scientifico, ma nessuno ci vieta di registrare questi comportamenti come significativi. Del resto, non trovate molto sexy un partner che mangia lentamente assaporando ogni boccone mentre vi guarda negli occhi? Ricordiamo questo assioma: se riesci a gustare il cibo, riesci a gustare la vita. Vi serva come faro nel capire i vostri commensali. Certo, viviamo in una società sempre più frigida, una società cibocentrica dove però manca il piacere vissuto. Il cucinare diventa fiction e raramente espressione di pura creatività. Anche la cura eccessiva per la presentazione dei piatti e la preparazione della tavola tradisce un rapporto un po' troppo cerebrale con il cibo. Spesso si punta più sull'estetica che sul godimento. Per molti non è necessario che il cibo sia buono da mangiare, l'importante è che sia bello da guardare, da mangiare con gli occhi, da sfogliare su carta, da imbandire. Anche chi rispetta le regole del galateo, ogni tanto, deve essere in grado di mangiare con le mani: in questi casi sceglieremo un luogo appartato per una cena intima, meglio evitare un locale affollato. La scelta dei piatti del nostro commensale ci porta a due grandi categorie: è un modo come un altro per trovare sintonie culinarie. Dunque, cibi morbidi e cibi duri. I cibi a consistenza morbida e tenera rappresentano qualcosa di accogliente nel quale possiamo tuffarci e affondare, una materia fluida e materna che ci avvolge e forse arriva al punto di cannibalizzarci. Chi ama i piatti dolciastri e morbidi come il latte e i budini sceglie mousse, zuppe, frullati, creme e sformati. A volte, invece, si ha bisogno di esprimere la durezza del nostro vivere, l'aggressività e la rabbia che dovremmo riuscire a incanalare in maniera socialmente accettabile. Ecco i cibi duri, croccanti da spezzare, da mordere e masticare come la carne, cibi che facciano rumore di denti. Da ricordare: nessuna presunzione di esprimere diagnosi, né desiderio di analizzare il nostro commensale come farebbe un entomologo; semplicemente approfittare della condivisione della tavola per raccogliere più informazioni possibile. Particolare attenzione anche al colore, al «mangiare in bianco»: alla purezza dello yogurt si contrappone il rosso sangue di una costata di bue e il nero del cioccolato. Difficile non dedurre che la sensualità di una persona è corrispondente al suo gusto per il buon cibo. Un gourmet è una persona sensuale, chi può negarlo. Se il vostro commensale è ipercontrollato a tavola, forse è un po' troppo razionale anche nelle relazioni. Anche la scelta del locale dovrebbe darvi alcuni indizi: è una trattoria? Un ristorante intimo e romantico? Un locale alla moda? Un ristorante costoso e raffinato? La scelta del ristorante, abbiamo detto, dovrebbe essere femminile, e in realtà scelgono quasi sempre le donne anche a relazione avviata. Un consiglio da amica: scegliete ristoranti o trattorie intime e tranquille. Il messaggio che volete trasmettere al vostro commensale è che vi interessa conoscervi meglio, parlare e godervi la compagnia solo della persona che vi ha invitato: il resto non conta se non come sfondo. Evitate i luoghi mondani e chiassosi, se volete che il vostro ospite abbia occhi solo per voi. E soprattutto se siete un po' gelosi, che sarebbe come dire insicuri. A un fatto dovete fare attenzione, signore, per me molto più di un dettaglio. Il gentiluomo che sta seduto davanti a voi da quasi mezz'ora vi ha già versato acqua e vino? Se un uomo per tutta la cena non si degna di occuparsi di riempire i vostri bicchieri, chiedetevi come potrà essere attento ai vostri bisogni un domani. Prima di accettare un altro invito pensateci seriamente. Insomma, credo che questo fatto sia uno dei più sintomatici, e dovrebbe tenere le signore sul chi va là. In fondo, qual è la dote migliore che può possedere un uomo se non anticipare i nostri desideri occupandosi di noi? Un uomo che «ci arriva» è quello che ci porta la valigia, che ci massaggia i piedi, che ci chiede com'è andata, prima ancora che noi siamo obbligate a fare delle richieste. Per gli uomini: se vi accorgete che la signora che avete invitato è più interessata a guardarsi nello specchio in fondo alla sala e a tener d'occhio la porta del ristorante per vedere chi entra piuttosto che alla vostra personcina, vi consiglio di rivedere la possibilità di presentarla a vostra madre. Due casi emblematici, da cui deriva una riflessione. I comportamenti sopra riportati non sarebbero così significativi se non si trattasse dei primi appuntamenti; di fatto sono proprio i momenti iniziali quelli nei quali diamo il meglio di noi stessi. Ci preoccupiamo di mostrare la parte più brillante nascondendo le zone d'ombra. Quindi, ogni volta che c'è qualcosa che non va nel vostro commensale chiedetevi: ma se è così ora come sarà tra sei mesi? Se l'atteggiamento errato (per voi) è guaribile parlatene, se è radicato lasciate perdere. Il problema e il segreto di tante relazioni stanno proprio nel riuscire a distinguere i primi dai secondi. La cena continua e così la conversazione tra un piatto e l'altro, presto si avvicina il momento del conto. La regola generale è che paga chi invita, sia esso uomo o donna. La cosa più triste è vedere le coppie che dividono: fare alla romana è di cattivo gusto e ammissibile solo per gli studenti universitari. Ma questo è solo il mio parere. A Londra e Manhattan le donne che lavorano vogliono assolutamente pagare il conto, in Italia direi meno. Farsi pagare il conto è uno dei pochi privilegi rimasti a noi signore, perché rinunciarvi? Se sappiamo che il nostro uomo è in difficoltà, ci sforzeremo di scegliere un locale adatto alle sue finanze, oppure la volta dopo lo inviteremo noi. Agli uomini consiglio di non sentirsi sminuiti nella propria virilità se qualche volta vuole pagare lei. Ripeto: paga chi invita. Apro qui una parentesi rispetto «al piedino», quell'intrigante usanza di sfiorare, accarezzare, strofinare e trattenere il proprio piede su quello di un altro commensale. Farlo bene è un'arte: è più stimolante in un tavolo da sei, in due è quasi scontato. La regola numero uno è non farsi scoprire. Ci vuole tecnica. Quasi tutti quelli che amano «fare piedino» devono decidersi a prendere l'iniziativa, anche i più audaci tentennano, ma esistono dei veri e propri professionisti nel campo. Altra regola. Cercate di scegliere bene la vostra vittima, nel senso che è ridicolo fare piedino alla bellissima signora davanti a voi accompagnata dal fidanzato trentenne, con il quale ha appena trascorso un viaggio da sogno in un castello scozzese, ovvio, no? Sappiate che il trucco del piedino non può avvenire a senso unico, voglio dire che per dare, diciamo, inizio alle danze è obbligatorio che ci sia la complicità di un altro commensale. Infatti, la regola numero tre è: essere pronti a scusarsi immediatamente, al primo contatto, fingendo che lo sfioramento sia stato casuale nel caso l'iniziativa non abbia buon esito. Se dall'altra parte nessuno reclama, ecco che prende il via il gioco. Sollazzo che, se non controllato, può spingersi sino a rendere la serata indimenticabile e infuocata. Tenete conto che l'innocenza della tecnica del piedino è direttamente proporzionale alla sua distanza dal pavimento: più il piede si avventura su per le gambe del partner, più il gioco diventa serio. Mantenete il contatto visivo e osservate la vostra preda. Guardate la reazione al tocco e reagite in modo appropriato. Se vi fissa sorpresa/o o allontana la peccaminosa estremità, saprete che il momento non è quello giusto. Alcuni sessuologi sostengono che sentirsi toccare i piedi stimola i centri nervosi presenti lungo la gamba, fino al bacino. Ecco perché in molti paesi (tra cui l'Italia) il gesto di «fare piedino» è contemplato chiaramente in ambito giuridico, benché, secondo la Corte di Cassazione, non costituisca atto di libidine, pertanto non è penalmente punibile. Gli inglesi dall'alto del loro puritanesimo ne vanno pazzi e lo chiamano play footsie: usatelo con moderazione, ed evitatelo al primo incontro se volete dare una piega romantica alla relazione. Insomma, il piedino è bello quando è ricambiato e nascosto. L'ultima considerazione dedicata a entrambi i sessi riguarda la Teoria del Precedente: ovvero tutto ciò che avviene nelle prime occasioni di incontro farà da imprinting sul futuro rapporto. Dedicato alle donne. Per esempio, se una signora dimostra soddisfazione nel farsi portare per due volte in una pizzeria maleodorante a mangiare fritto misto scongelato, non può aspettare che lo stesso uomo la porti in un relais chateaux esclusivo la terza volta. Si stabilisce dopo i primi incontri un precedente che fa capire tacitamente a entrambi che quello è lo standard di riferimento. Se per correttezza fingete di essere contente che lui vi abbia regalato un aspirapolvere per il vostro primo compleanno insieme, non aspettatevi un fine settimana a Parigi per quello successivo. Per gli uomini. Se lei vi chiede di andarla a prendere dall'altra parte della città per tre volte, non potrete più dirle di no in seguito. Se le lascerete carta bianca nel decidere le prime due vacanze sarete rovinati per sempre. A lei sembrerà un diritto acquisito. Vale la pena rifletterci. Tutto ciò che lasciate passare le prime volte, rafforzerà la Teoria del Precedente, definendo più o meno rigidamente la vostra modalità di relazione, o meglio, si definirà ciò che potete aspettarvi dall'altro, il che in fondo esprime ciò che sentite di valere. Per quanto riguarda tutto ciò che avviene dopo il conto, vedi il capitolo sul bon ton del dopocena.

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In quale altro luogo abbiamo la possibilità di studiare l'oggetto del nostro interesse con tanta naturalezza se non a tavola? Nel momento della convivialità e del «consumare cibo insieme», si mettono sul tavolo valori e credenze comuni. Anche un momento ufficiale diventa suo malgrado intimo e privato, perché il nostro corpo si esprime con autenticità. La mente, distratta dalla ritualità legata al cibo, manda messaggi non filtrati dalle sovrastrutture, poiché a tavola la maggior parte delle difese psicologiche che ci accompagna durante la giornata ci abbandona temporaneamente. Stare seduti l'uno di fronte all'altro o magari accostati e condividere il cibo fanno sì che i commensali vivano un'esperienza corale. Le cronache sono ricche di fatti che denunciano la maleducazione imperante nei confronti del prossimo, dell'ambiente, dell'avversario politico, del diverso, dell'anziano, dello straniero. Maleducazione che si manifesta chiaramente nel comportamento e nel linguaggio, ma ancor più platealmente a tavola. Un attento osservatore dotato di un minimo di perspicacia sarebbe in grado, se non proprio di delineare il profilo psicologico di ciascuno dei commensali, almeno di raccogliere un buon numero di indizi. Il nostro comportamento a tavola parla per noi, ci rivela, ci smaschera. Come la ricchezza del nostro vocabolario, la proprietà di linguaggio, la padronanza della sintassi manifestano il livello culturale, così il nostro modo di stare a tavola ci racconta, parla per noi. Rende pubblica ogni lacuna, ci esprime, manifesta le nostre radici culturali, la nostra estrazione, il nostro livello di evoluzione, le nostre abitudini familiari e soprattutto la nostra educazione, buona o carente che sia. Con un po' di esercizio si arriva a cogliere l'aggressività che c'è in noi, le abitudini alimentari dei nostri genitori, il tenore di vita e il grado di serenità della nostra infanzia. Non a caso il livello di civiltà e culturale di un popolo si evince soprattutto dal comportamento a tavola. Lina Sotis, madrina del bon ton italiano, che ha divulgato attraverso i suoi libri, dice: «Al primo sguardo capisci quanti soldi ha una persona; al secondo da quanto tempo»; la frase è perfetta anche in ambito conviviale. Se vuoi sapere tutto di una persona mangia con lei almeno una volta e, volendo spingersi più in là, si potrebbe dire: «È azzardato iniziare una relazione con un uomo senza averci mangiato insieme almeno una volta». La tavola diventa il luogo privilegiato per il denudamento dell'altro, il palcoscenico delle nostre altitudini, ma anche delle nostre bassezze. Come credete che si comporterà un uomo tra le lenzuola dopo che lo avete visto mangiare così velocemente da non assaporare un solo boccone? Come potrà essere attento alle vostre esigenze in futuro se non arriva neppure a versarvi da bere durante una cena? Cosa pensare di una graziosa fanciulla che a tavola mangia come un passerotto e sta tutto il tempo a sbirciare nei tavoli vicini? E ancora, cosa deducete se un vostro candidato tratta con disprezzo il personale di servizio al ristorante? O se il vostro futuro socio in affari casualmente dimentica ogni volta il portafogli al momento di pagare il conto? E che sorpresa se l'amica conosciuta in ascensore e subito invitata a cena quasi per dovere mangia come una regina, vi conquista al primo appuntamento. Pensate quanti indizi è possibile raccogliere su un partner da quando vi chiama per invitarvi a cena sino al momento in cui vi riaccompagna e arriva l'ora del bacio della buonanotte. Ecco perché è fondamentale procurarsi gli strumenti per capire. E questi strumenti sono la conoscenza delle regole e il linguaggio del corpo: insieme si potenziano a vicenda. E proprio questa l'idea forte del libro, riuscire a «leggere» l'istinto, cioè il corpo che parla e nello stesso tempo individuare il galateo, cioè quanto l'ambiente e la cultura hanno depositato, la parte normativa, le leggi. La tavola è proprio questo: il tentativo di convogliare e di far coesistere istinto e legge. Mangiare insieme con consapevolezza è un'esplorazione affascinante che ci permette di indagare il nostro mondo e quello dei vicini. Alla fine di questo libro il lettore riuscirà a considerare il proprio commensale con occhi nuovi, non certo come un insetto da vivisezionare, o un soggetto clinico al quale fare una diagnosi, sarebbe troppo facile e riduttivo. Servirà a migliorare la comunicazione senza fraintendimenti approfittando di una situazione favorevole e intima come il mangiare insieme. Sapere ci assolve dall'imbarazzo di fronte a situazioni critiche. «Leggere» e conoscere meglio i nostri commensali è l'ideale per chi deve confrontarsi su questioni di lavoro, ma ancor più per chi deve scegliersi amici, futuri mariti, mogli e affini. Ma sarebbe utile che anche i colloqui di assunzione si svolgessero direttamente al ristorante. Perché il corpo non mente mai, questo dovete ricordarlo sempre. E un corpo a tavola è più libero di esprimersi che altrove. Il cibo diventa, ancora una volta, mezzo e non fine. Questo libro dunque sposta l'attenzione dal cosa si mangia al come. Ma ha ancora senso parlare di galateo? Ha anche più importanza di un tempo, poiché si moltiplicano le occasioni pubbliche nelle quali si evidenzia la differenza tra classi sociali e regole di educazione. La tavola è uno dei luoghi privilegiati e allo stesso tempo più temibili di «esposizione». Essere educati non costa nulla, e poi è provato che sia gli uomini sia le donne apprezzano nel partner appena conosciuto il rispetto delle buone maniere. Proprio nel momento delicato che stiamo vivendo è fondamentale stabilire delle regole per noi italiani, conoscerle e adeguarvisi: questo forse è il segreto perché una società civile funzioni al meglio. Probabilmente esiste un'attinenza tra la decadenza morale ed economica di un popolo e la sua maleducazione a tavola e l'eccessivo peso attribuito al cibo, ai banchetti e alla cucina. Ce lo insegna la storia: basti ricordare i complicati convivi dei ricchi romani a base di lingue di fenicottero e spezie costosissime durante la curva discendente del Mondo Classico, che si concluderà con la caduta dell'Impero romano d'Occidente (476 d.C.). Oggi sarebbe ridicolo imporre delle regole senza significato, ma come si dice: non c'è forma senza sostanza. La maggior parte delle regole del galateo risponde al principio del rispetto dell'altro e al buonsenso. È necessario operare una distinzione. Esistono regole più rigide che, benché denotino il nostro livello di istruzione, non turbano la pace altrui e non ledono i diritti degli altri. Altre che pregiudicano il benessere di chi ci sta intorno offendendolo o limitandone la libertà. Un esempio. Se parlo con la bocca piena o uso uno stuzzicadenti a venti centimetri dal mio commensale, ovviamente causo un senso di disagio e quindi limito la libertà altrui. Mentre, al contrario, se taglio con il coltello una frittata, cosa che il galateo non prevede, dimostro la mia ignoranza nel campo specifico, ma non disturbo i miei vicini di posto. Qui sta la differenza. La più celebre maestra di bon ton di casa nostra, oltre che ispiratrice della posta del cuore di tutti i periodici femminili, è stata Colette Rosselli, moglie di Indro Montanelli, che con lo pseudonimo di Donna Letizia ha educato generazioni di lettrici. Il suo Saper vivere, uscito nel 1960, è stato a lungo la «bibbia» dei beneducati, tanto da meritare un aggiornamento, nel 1990, Il nuovo saper vivere di Donna Letizia, nel quale scriveva: «Molti uomini considerano le buone maniere come un soprabito da indossare al momento di uscir di casa e da appendere all'attaccapanni appena rientrati». Parole sante. Se qualcuno vi ha realmente regalato questa dote di buona educazione, senza dubbio la porterete con tale spontaneità da usarla dentro e fuori casa. «La carne dovrebbe essere dura a letto e tenera a tavola». Questa frase di André Prévost introduce alla perfezione la conclusione di questo capitolo. Dopo i primi incontri a due in pubblico, dimenticate tutto quello che è stato detto sin qui in tono formale sulle regole del buon comportamento a tavola. Per la cena romantica e passionale, il segreto è: poco bon ton e tanta passione. Chi è dotato di immaginazione non avrà bisogno di suggerimenti ma, se può servire, ecco le regole della cena a due tra le pareti domestiche. È vivamente consigliato: mangiare con le mani; imboccarsi; cucinare insieme; amarsi in cucina; baciarsi durante il pasto. «Ho l'innocua mania di dare alle persone a cui voglio bene il soprannome di un cibo. Mio marito Carlo Ponti è sempre stato 'involtino', pietanza che mi piace come poche» dice Sophia Loren. Ecco, allentate le cravatte, abbandonate i bicchieri di cristallo, ogni tanto fatevi un bagno nell'istinto puro e selvaggio e sarà ancora più bello farlo con la compagna o il compagno di sempre. Parlate con la bocca piena, mugolate e date nomignoli rubati al lessico dei ricettari, sono tanto apprezzabili in privato quanto insopportabili in pubblico. Alessandra Graziottin, medico ed esperta in sessuologia, lo consiglia vivamente: «Questa società sta diventando frigida. Il sesso si fa virtuale, il cibo diventa fiction: tutta scena. Basti pensare ai nomi stupendi che tanti ristoranti coniano per cibi che poi risultano insipidi, o alla cura maniacale che si mette nella preparazione della tavola: in fondo tradisce un rapporto cerebrale con il piacere. Io, alle pazienti con problemi sessuali, prescrivo anche di mangiare con le mani. Se gusti la vita gusti anche il cibo». Imboccate, sporcatevi, trangugiate, centellinate, sbrodolatevi, mordicchiate: insomma, nell'intimità trasgredite anche le regole del buon comportamento a tavola. Proprio quelle che sono elencate in questo libro.

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Tenete presente, inoltre, che il linguaggio non verbale fa parte di noi: sono le sovrastrutture che ce lo fanno dimenticare; riappropriarsi della capacità di capirlo significa recuperare qualcosa che abbiamo semplicemente dimenticato. E, per venire a noi, è molto utile e raccomandato farsi invitare e ricambiare inviti, magari variando spesso commensali: serve a impratichirsi. La tavola, ricordiamolo ancora, è un set perfetto per la conoscenza dell'altro. Prima di proseguire, tuttavia, è necessaria una premessa che trovereste in qualsiasi serioso manuale di linguaggio del corpo; questo non è un testo scientifico, ma attenersi a qualche regola è fondamentale per non fare cilecca. Parafrasando il famoso proverbio popolare sulle rondini e la primavera, ecco la prima regola: un solo gesto del corpo non fa testo. È davvero fondamentale leggere i segni del linguaggio del corpo nell'insieme e soprattutto contestualizzarli. Una serie di esempi vi farà capire meglio. Gli antropologi e gli etologi sanno che è inutile sorridere agli animali, perché ogni volta che vengono esposti i denti essi lo leggono come un comportamento aggressivo. Così, se un essere umano tira le labbra ad accennare un sorriso, ma nello stesso istante vediamo che stringe i pugni per esprimere rabbia, state certi che quel segno non esprime gioia di vedervi. Per avere conferma di uno stato d'animo espresso dal corpo, è quindi necessario leggere almeno tre gesti coerenti. Altro esempio: cosa pensereste di un politico che afferma di essere aperto all'inserimento di stranieri in una comunità e pronunci questa frase tenendo le braccia conserte e per di più dietro un leggio, chiaro segno di difesa e chiusura? Di norma, quando c'è discordanza fra messaggio orale e messaggio corporeo si fa affidamento solo sull'ultimo. Il contesto è fondamentale: se il vostro commensale si gratta la testa, primo non conosce il galateo, secondo non è detto che esprima dubbio e circospezione. È probabile che, semplicemente, abbia problemi di forfora. Ovviamente le indicazioni che impareremo per l'analisi del nostro commensale potranno tranquillamente essere applicate in altri campi. Durante una cena a due, conoscere il linguaggio del corpo serve a capire, inviare e cogliere i segnali seduttivi o semplicemente di empatia. In un pranzo di lavoro conoscere il linguaggio del corpo è utile per misurare le abilità, per studiare l'avversario e per concludere un affare. Durante un pranzo in famiglia o tra amici conoscere il linguaggio del corpo è utile per cementare i rapporti.

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Ricordate, come abbiamo già detto, che le mani vicino alla bocca sono anche uno dei segnali di falsità. Cosa fa un bambino che mente? Spesso nasconde le mani dietro la schiena, oppure appena dopo aver svelato un segreto si porta le mani alla bocca. Noi abbiamo mantenuto questa reazione, solo che, come adulti, mascheriamo il gesto fermandolo in prossimità della bocca. A volte può evolvere in uno sfregamento del naso o in un dito sulle labbra.

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Qui vale lo stesso discorso che abbiamo fatto per il sorriso: è dimostrato che, se ci sforziamo di mantenere i palmi all'insù, il che è indice di trasparenza, e di sorridere, non solo condizioniamo il nostro stato emotivo positivamente ma, per il principio dello specchio, riusciamo a influenzare anche il nostro interlocutore. Il meccanismo è davvero semplice, come tutte le cose geniali. Se ci esercitiamo a inviare segnali positivi (sorridere, mostrare i palmi, reclinare il capo) il nostro interlocutore si adeguerà inconsciamente ai nostri gesti, in una sorta di sintonizzazione emotiva. Provare per credere. Alcuni si presentano a cena come a un colloquio di lavoro: non fatelo, rischiate di rovinare tutto comportandovi da commensale ansioso. Riconosciamo tali individui dai seguenti indizi: parlano in tono un po' stridulo, si agitano nervosamente sulla sedia, hanno difficoltà a tenere lo sguardo su di voi e vagano incessantemente con gli occhi. Se si sfregano le mani violentemente e si agitano toccando convulsamente le posate o il volto, è chiaro: sono agitati. Altra regola da ricordare bene: più una parte si trova lontana dal cervello meno riusciamo a controllarla. Capire questo ci permette di comprendere meglio anche la parte del corpo che resta nascosta sotto il tavolo. La direzione dei piedi è certo più sintomatica quando siamo in piedi o seduti su un divano, ma anche sbirciare sotto la tovaglia può essere utile. Decine gli studi dimostrano che uno degli indici di menzogna è il movimento dei piedi. Ekman ci dice che il piede del mentitore è abbastanza agitato. Sarà per questo che, in molti colloqui di lavoro, i dirigenti se ne stanno ben protetti dietro le loro scrivanie. È vero, a tavola è molto più difficile ma, per aumentare il nostro campo di osservazione, basterà invitare la nostra amica o amico di turno a bere qualcosa in un locale dotato di bancone senza tavoli che impediscono una visione totale. Attenzione al piede che dondola e ricordate che la reazione deve seguire quasi immediatamente lo stimolo verbale. Voglio dire, non restateci male se lui dondola il piede quaranta minuti dopo che gli avete chiesto «Ma io ti piaccio veramente?» La domanda è stupida comunque: il vero seduttore, di entrambi i sessi, sa perfettamente se piace o no. I piedi incrociati denotano chiusura, il messaggio è un po' lo stesso che riceviamo quando le braccia sono conserte, anche se in questo caso il segno di rifiuto è meno accentuato. Chi si avvinghia alle gambe della sedia ci sta dicendo che non cambierà idea e che nessuno lo smuove dalle sue opinioni. Tutti gli studi confermano che nel 90 per cento dei casi è la donna a prendere l'iniziativa, anche se può sembrare il contrario. È lei che manda segnali con viso, mani e corpo, e la riuscita di un incontro dipende soprattutto dalla capacità maschile di cogliere questi messaggi. È anche vero che, se siete arrivati sin qui, cioè a sedervi allo stesso tavolo, significa che i segnali sono stati ben inviati. Vediamo schematicamente i segnali di corteggiamento femminili: - Gettare indietro il capo e scostarsi i capelli dal viso. - Sorridere e cercare gli occhi dell'altro con lo sguardo. - Giocherellare con i capelli e attorcigliarli su un dito. - Pavoneggiarsi spostando il busto in avanti e indietro. - Accarezzarsi il corpo, il collo, la gola. - Mostrare i polsi o tenere il polso rilassato. - Tenere le labbra semiaperte e sporgenti. - Giocherellare con un oggetto cilindrico, o sfilare e infilare un anello dal dito. - Sollevare una spalla guardando da sopra di traverso. - Tenere la borsetta vicino all'uomo. - Dondolare la scarpa sulla punta del piede. Gettare indietro il capo e scostarsi i capelli dal viso ha come sottotesto: ti faccio vedere il mio viso, per mostrarti come voglio essere bella ai tuoi occhi. È incredibile come anche le donne dai capelli corti ricorrano impercettibilmente a questo gesto. Pavoneggiarsi, per le donne, significa tenere il busto in evidenza per mostrare il décolleté e poi, subito dopo, avvicinare il capo a quello di lui. Per osservare le gambe sotto il tavolo sono necessarie pratica e astuzia, anche se il gesto di accavallare è più comune su un divano o una sedia al di fuori dell'ambito conviviale. Se i piedi di lei sono rivolti all'interno, un po' come fanno i bambini, vi sta dicendo: mi sento fragile come una fanciulla. Toccarsi alcune parti del corpo, quelle visibili a tavola, è un modo per dire inconsciamente: queste cose mi piacerebbe le facessi tu. Mettere in mostra i polsi è facile quando si è seduti a un tavolo. Basta tenere i gomiti sul tavolo tra una portata e l'altra (anche se non si dovrebbe) e il gioco è fatto. Mostrando i polsi ti dico: sono disarmata davanti a te e gli antropologi sostengono che richiami l'ala spezzata degli uccelli. Avete presente le fotografie delle dive americane degli anni Cinquanta? Quasi tutte si mettevano nella stessa posa da bomba sexy. Guardavano maliziosamente l'obiettivo di lato dietro una spalla sollevata. Funziona sempre, anche se il gesto non è più così accentuato. La borsetta, si sa, è un po' l'emanazione dell'universo di ogni donna e tenerla accanto all'uomo denota il desiderio che lui entri nella nostra sfera più intima, senza sentirci invase. Sebbene il galateo non preveda che la borsetta venga messa sul tavolo. Se una donna vi chiede di prendervi qualcosa dalla borsetta, allora siamo già in una fase di confidenza. Quando si alza, la donna può usare la borsetta come una sorta di scudo: avete presente le foto della regina Elisabetta? In quel caso, stiamo dicendo: «È il caso che mi protegga da eventuali attacchi». Dondolare la scarpa sulla punta del piede è un chiaro messaggio sessuale, ecco perché gli uomini ne rimangono così colpiti. Ecco come il corpo di lui ci vuole sedurre e ci parla. Se lo vediamo: - Sistemarsi la cravatta, lisciandola per tutta la lunghezza. - Passarsi un dito nel collo della camicia. - Spazzolarsi gli abiti con le dita o farlo sui nostri abiti. - Toccarsi polsini e orologio. - Stare in piedi a gambe allargate (prima di sedersi a tavola). - Infilare le mani nella cintura esibendo la zona inguinale. - Divaricare le gambe da seduto. - Giocherellare con le chiavi della macchina, l'accendino o con altri oggetti. - Abbassare il tono di voce. Come i maschi di tutte le specie animali, l'uomo di fronte a una potenziale partner si pavoneggia con una serie di gesti. È stabilito che, nei primi incontri, chiacchiera di più, anche con l'obiettivo di mettere a proprio agio e far parlare la donna; proseguendo nella relazione racconta sempre meno di sé e sempre più il dialogo esprime informazioni. Peccato che all'inizio vi parli dei propri sogni e dopo un anno del mutuo. Gli studiosi hanno ormai dimostrato che tutta la strategia di corteggiamento nel maschio umano si focalizza, inconsciamente, sulla zona inguinale. E non servirà a nulla anche al più evoluto intellettuale negarlo: è così. Pensate alle foto che ritraggono muscolosi giovanotti con le mani in tasca tranne i pollici, un chiaro messaggio a focalizzare lo sguardo da quelle parti. Il maschio, persino il più insospettabile, tende inconsciamente a mettere in evidenza l'inguine. Il che può avvenire anche indossando pantaloni aderenti o portando un voluminoso mazzo di chiavi appeso alla vita, lasciando un lembo della cintura penzolare fuori dai passanti. Insomma ogni espediente è utile per darsi quella che gli studiosi di linguaggio del corpo chiamano «sistematina». Noi donne non faremmo mai una cosa simile. E non mancano i signori che si esercitano sotto la tovaglia: l'istinto è troppo forte. A proposito di simboli fallici, se volete misurare l'interesse di una donna (ma non solo), invitatela fuori e spostate appositamente la cravatta di lato: se lei si metterà a raddrizzarla il messaggio sottinteso è «Così sei più in ordine e mi piaci di più». È vero, oggi la cravatta si porta meno, lo stesso esperimento lo potete fare con la «prova pelucco», e questo vale per entrambi i sessi. Appoggiate un pelucco o un granello di polvere su un braccio e state a vedere cosa succede.

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Ricordate cosa abbiamo detto dello spazio personale e della prossemica: in questi paesi le distanze sono ravvicinate ed è normale che quando qualcuno vi rivolge la parola si avvicini molto; non ritraetevi. Ho potuto verificare di persona; più si va a sud più le distanze si accorciano, più si va a nord più aumentano. Lo stesso avviene tra abitanti di campagna e di città: i primi, insieme a chi vive in montagna, staranno più scostati e vi daranno la mano restando arretrati con il corpo, mentre chi vive in una grande città (abituato a tram e metropolitana affollati) accorcia le distanze. In Sud America evitate, se siete voi che invitate, di cucinare coniglio: è considerato un animale da compagnia. Nei paesi islamici si salutano con rituali lunghi e si baciano più volte; con gli occidentali usano la classica stretta di mano. Tra uomo e donna non deve avvenire alcun contatto fisico. Nella presentazione evitate di tenere lo sguardo fisso sul volto, molto meglio uno sguardo basso e reverenziale. Nella conversazione non ci si informa mai dello stato di salute delle mogli; è considerata un'invasione di campo, così come ogni battutina sulla condizione femminile. Il pranzo è intorno alle 14 e la cena alle 22: siate puntuali. Non intestarditevi a voler pagare il conto, è offensivo, paga chi fa l'invito, come da noi. Di norma non si porta nulla e ovviamente, se il dono è d'obbligo, sono vietatissimi gli alcolici e prodotti che contengano carne di maiale. Se siete voi a invitare, informatevi sul Ramadan che cade in mesi diversi ogni anno. In questo caso ogni convivio slitterà dopo il tramonto. Ricordate che canottiere e pantaloni corti sono un insulto al buon gusto anche se indossati dai maschi. Val la pena aprire una parentesi sull'abbigliamento. L'occidentale che, nell'immaginario di certi paesi, è ricco e stimabile, se arriva seminudo si comporta come un indegno, come uno di una casta inferiore che non può permettersi una camicia. «Questo provoca un vero e proprio cortocircuito mentale in chi lo accoglie nel suo paese» dice anche Barbara Ronchi della Rocca nel suo libro dedicato al galateo del viaggiatore. Lo stesso, come abbiamo visto, vale per i jeans, che da noi sono ormai sdoganati come abbigliamento per tutte le occasioni; in molti paesi non vengono compresi. In Australia, per esempio, sono considerati una divisa destinata ai lavori più umili della campagna, quindi guai a indossarli anche per una cena tra amici. Iran, Siria e molti paesi islamici considerano i jeans un abbigliamento maledetto, per via dell'origine americana. Un po' come camicie e pantaloni stile militare in Zimbabwe, Zambia e Botswana. Se cercano di convincervi che nei paesi islamici è accettato un rutto a fine pasto come segno di gradimento non credeteci, è un gesto al limite tollerato, ma non incoraggiato. In questi paesi, come nel sud dell'India e in Indonesia, la sinistra si usa per la pulizia del corpo, fate quindi attenzione a passare le portate al vostro vicino con la mano destra. In Giappone evitate il più possibile il contatto fisico, anche la stretta è inusuale; meglio l'inchino. Se siete invitati mostrate deferenza e ammirazione verso i piatti che vi vengono offerti. I giapponesi adorano che la propria tavola venga ammirata; infatti le presentazioni dei cibi sono attentissime alle proporzioni, ai colori e alla composizione: I commensali si presentano con il cognome e usano sun davanti al vostro, che significa onorevole. Il che non è un'offesa, come sta diventando nel nostro paese. Usate i biglietti da visita, lì sono indispensabili, e porgeteli con entrambe le mani: è un segno di deferenza. Starnutire, soprattutto a tavola, è uno dei gesti più maleducati che potreste fare, cercate di ricordarlo. Vige l'assoluta puntualità e, se entrate in casa d'altri, toglietevi le scarpe in segno di rispetto. Non portate fiori, tipico dono del corteggiamento; ben graditi i dolci, avvolti nella carta rossa, segno di gioia. Mai però nel numero di quattro e nove, considerati numeri nefasti. A tavola non si usano tovaglioli, ed è apprezzato l'uso delle bacchette per portare il cibo alla bocca; tuttavia, per evitare pasticci potrete chiedere una forchetta, in mancanza di meglio usate le dita. Nella conversazione siate sempre calmi e pacati e soprattutto sorridenti. Non versate nulla sul riso e cercate di non avanzare nulla, sarebbe maleducato. Non servite prodotti caseari fermentati se avete al tavolo giapponesi o cinesi; non li gradiscono e sembra che non siano digeribili per loro a causa dell'assenza di alcuni enzimi intestinali. Nell'abbigliamento, le donne evitino vestiti sgargianti e profumi intensi. Lo stesso vale nell'occidentalissimo Canada, dove il profumo infastidisce quanto una sigaretta. E, per finire, non lasciate la mancia, sarebbe un'offesa, dal momento che il lavoro per loro è una missione. Anche in Cina è molto apprezzata ogni forma di autocontrollo. Durante le presentazioni si osservano rigidamente le regole e le gerarchie, che vedono al primo posto sempre l'uomo più anziano e la persona di maggior prestigio. La cosa vale anche per la conversazione: vietato toccare argomenti delicati. Gli inviti sono rari e di norma sono intorno alle 18, perché dopo le 21 i trasporti pubblici sono scarsi. I regali sono graditi, ma devono essere estesi a ogni componente della famiglia. A tavola si aspetta sempre che sia chi invita a dare i tempi. Accanto al vino ci sarà una coppetta per il tè, mentre l'acqua non è prevista. In Israele usate i biglietti da visita, vi serviranno, ci tengono molto a ruoli e cariche. Gli anziani godono giustamente di grande rispetto e, quando entrano in una stanza, ci si alza in piedi. Nella conversazione tutto è permesso, tranne ovviamente riferimenti alla questione palestinese. Sono apprezzati i fiori e una bottiglia di vino come regali per i padroni di casa.

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È inammissibile non presentarsi a un evento al quale abbiamo dato adesione, se non per gravi motivi. Nessuna scusa sarà accettabile se avete dato buca a una signora. In questo caso vi conviene imparare a memoria la famosa excusatio che John Belushi recita nel film Blues Brothers davanti alla fidanzata dopo averla abbandonata all'altare. «Ero... rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia!»

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Come abbiamo detto, i padroni di casa siedono ciascuno a capotavola; quindi a destra dell'uomo si siede la donna più importante e a destra della donna si siede l'uomo più importante. Alla sinistra dell'uomo siede la donna che segue per importanza quella seduta a destra, e alla sinistra della donna l'uomo che segue per importanza quello che siede a destra. Si prosegue così rispettando l'ordine d'importanza e l'alternanza dei sessi. Qui sorge la questione delle coppie: vanno divise? Certo che sì. Sia per favorire la buona conversazione, sia per spezzare le dinamiche familiari che rischiano di rovinare l'atmosfera. Marito e moglie vicini sono spesso deleteri per la serata. Il nostro amico galateo dice che le uniche coppie che non vanno divise sono i fidanzatini. A una cena di compleanno ho avuto la sfortuna di trovarmi seduta di fronte a due coniugi in via di separazione e ho rischiato di prendere un calcio negli stinchi. A volte separare le coppie può essere pericoloso. Ricordo più di un episodio a conferma. Il più recente è ambientato sulla terrazza di un ristorante dove un invitato aveva insistito per mettere la bella moglie lontana da sé facendola sedere accanto al protagonista di una fiction televisiva per movimentare un po' la serata. È finita con una scenata di gelosia. Insomma, seguite la regola, ma con un po' di elasticità. L'unica cosa da evitare sono quelle terribili tavolate con uomini da una parte e donne dall'altra. Ma del tema conversazione parleremo in un capitolo dedicato. Bisogna però aggiungere che la disposizione dei posti e la conversazione sono strettamente connessi. Se devo invitare due persone che presumo incompatibili, eviterò di farle mangiare a strettissimo contatto. Mai mettere vicini due timidi, così come due egocentrici. Un aspetto importante, strettamente legato alla disposizione dei posti e alla conversazione, riguarda le presentazioni. Non c'è cosa peggiore che sedersi a tavola senza sapere nulla dei nostri commensali.

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Se siamo catapultati a una cena con decine di tavoli, non abbiamo fatto in tempo a informarci degli invitati e non conosciamo nessuno, ricordiamo che ci si presenta sempre. Si porge la mano dicendo semplicemente: «Buonasera, sono Anna Rossi». Doverosa la citazione del fortunato libro di Sibilla della Gherardesca Non si dice «piacere». Da approvare senza riserve. Formula alla quale si risponde: «Molto lieto/a» o semplicemente «Buongiorno» o «Buonasera». Si dà sempre del «lei», meglio lasciare il «tu» a un secondo momento e solo se viene richiesto, tranne tra persone appartenenti alla stessa categoria, come i giornalisti o i membri dello stesso club. E ovviamente, ma è utile ribadirlo, si pronuncia prima il nome poi il cognome, e mai il contrario. Mentre si fanno le presentazioni gli ospiti devono rimanere in piedi; le signore sono esonerate, a meno che non venga loro presentata una persona particolarmente importante o più anziana. Insomma, in ogni situazione l'atto di alzarsi è visto come un gesto di reverenza e di rispetto, ricordatelo per sapervi destreggiare in ogni evenienza. Ci occuperemo della stretta di mano nella seconda parte del libro; ora basti dire che deve essere ferma e decisa. Ricordiamo che negli Stati Uniti la stretta è uno degli elementi che influiscono sull'esito di un colloquio di lavoro.

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Abbiamo già detto che priorità dare alle posate, ma quello che crea un poco di panico è il piattino del pane, soprattutto nei tavoli rotondi con molti coperti ravvicinati. La domanda condivisa è: questo piattino è mio o suo? Il piattino va a sinistra ed è ovviamente vietato usarlo come portacenere, cosa che succedeva spesso prima che fosse proibito fumare all'interno dei locali. Tanto per semplificare le cose, tenete conto che il coltello si usa solo quando è strettamente necessario e che dovreste considerare la forchetta la vostra posata amica e usarla per la quasi totalità del pasto. Ecco alcune cosette da ricordare: - Non confondere le posate personali con quelle di servizio. - Le posate sono disposte in ordine d'uso, dalla più esterna alla più interna. - Il pesce precede la carne (se vengono serviti due secondi), così anche le posate. - La forchetta va a sinistra con i rebbi in alto, ma non in tutti i paesi. - I coltelli vanno a destra con la lama verso il piatto. - Il cucchiaio va a destra con la parte concava verso l'alto, ma anche qui si cambia a seconda del paese. - Sopra il piatto, in alto, va la forchettina per il dessert con il manico a sinistra; il coltellino con il manico a destra, eventualmente un cucchiaio medio con il manico a destra. Tuttavia questo modo di apparecchiare è considerato un po' antiquato, meglio aggiungere altre posate al momento del servizio. - Con le uova (e quindi anche per la frittata) non si usa il coltello. - L'insalata e le verdure non si dovrebbero tagliare con il coltello. Piccola curiosità. In tutto il Regno Unito le forchette vanno disposte con i rebbi verso il basso, e questa abitudine ha contagiato anche la Francia. Pare che nel 1714 re Giorgio d'Inghilterra, durante un pranzo, in un moto di rabbia avesse dato un violento pugno sul tavolo e preso in pieno la forchetta che stava accanto al piatto. In Italia si preferisce posarle con i rebbi rivolti in su. Andiamo avanti. Una volta che si sa quale posata usare vi chiedo: avete mai visto alcuni soggetti afferrare la forchetta come se fosse un punteruolo? Veder ghermire una forchetta come un forcone è ributtante, perfino peggio che sbagliare posata. Le posate si impugnano nella parte alta e la mano non deve superare mai il manico. Più volte abbiamo detto che la tavola è il luogo ideale per leggere il linguaggio del corpo; esiste anche una sorta di linguaggio delle posate che permette a chi si occupa del servizio di capire se portare via o no il piatto, cioè di capire se il commensale ha terminato di mangiare o meno. È molto semplice, e i segnali sono fondamentalmente due. Conoscerli vi permetterà anche di scoprire se quello che sta intorno al vostro tavolo è un vero cameriere. Un vero cameriere sa che, se vede le posate ad angolo, con i rebbi della forchetta rivolti verso il piatto alle ore 19.20, significa che il commensale non ha finito di mangiare. Mentre, alla fine di una portata, le posate si mettono parallele con i rebbi della forchetta rivolti verso l'alto alle ore 17.20: coltello superiore e forchetta inferiore.

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Basti pensare al declino della flûte, quel bicchiere lungo e stretto che invade le nostre vetrinette e che abbiamo accumulato negli anni. I bicchieri vanno presi per lo stelo per non lasciare aloni sulla coppa e per non alterare la temperatura del vino e vanno sempre tenuti con la mano destra e posati in tavola alla nostra destra. Ah, i bicchieri più belli in cui abbia bevuto in vita mia? Quelli dell'enoteca Pinchiorri a Firenze, una delle più grandi al mondo.

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Ecco un breve e sintetico elenco di regole d'oro per l'invitato/commensale perfetto: alcune cose la abbiamo già viste e alcune le ripetiamo, ma vi posso assicurare che, mai come in questo caso, repetita iuvant. Un buon commensale si può definire tale se conosce e mette in pratica queste semplicissime regolette d'oro, che sono la conditio sine qua non per essere ammessi di buon grado a qualsiasi convivio. Questi sono i quindici comandamenti da insegnare ai vostri figli, da far ripassare ai papà e alle mamme, che faranno piacere ai nonni, al capufficio e ai fidanzati, alle suocere e ai colleghi. Limitatevi a rispettare queste regole (almeno dalla quinta in poi) e nessuno potrà mai dire di voi che vi comportate male a tavola. Dunque, un buon commensale: - Non dice «buon appetito». - Non fa cin cin al momento di brindare ma si limita ad alzare il bicchiere sorridendo. - Aspetta che inizi a mangiare la padrona di casa. - Non arriva in ritardo e mai troppo presto. - Aspetta che tutti si siano serviti prima di buttarsi sul cibo. - Non si alza ad aiutare la padrona di casa se non gli viene richiesto espressamente. - Se si serve da solo, non usa le posate del servizio. - Non parla con la bocca piena. - Non si tocca, né gratta alcuna parte del corpo. - Non chiede e non usa gli stuzzicadenti. - Non si soffia il naso, né starnutisce nel tovagliolo. - Non si china sul piatto, ma porta le posate alla bocca. - Non beve senza essersi prima pulito le labbra. - Non si infila il tovagliolo nel colletto. - Non tiene il cellulare sul tavolo. E neppure lo usa nascosto dalla tovaglia. Punto 1. Sarebbe meglio iniziare a mangiare senza augurare «buon pranzo» né «buon appetito». Diciamo subito che non è una grave mancanza, ma che possiamo tranquillamente dimenticarcene. Certo, se qualcuno esprime il fatidico augurio reagiremo con un semplice sorriso senza fare commenti. Pronunciare questa formula è come dimostrare attaccamento per cose terrene quali il mangiare o le funzioni corporali. Insomma, dire «buon appetito» è come voler ridurre il momento di convivialità a pura soddisfazione di un bisogno primario. In famiglia, ciascuno si regola come vuole, ma il galateo è chiaro: non si dice. Negli Stati Uniti (come in Francia), per esempio, tale formula non è considerata una scorrettezza, e infatti questo paese non nasce da una struttura medioevale. Quando nobili e feudatari con una servitù numerosa organizzavano banchetti, per battute di caccia o cerimonie e festeggiamenti, si era soliti preparare enormi quantità di cibo, gran parte del quale dopo aver saziato i padroni veniva distribuito al personale di servizio e ai meno abbienti. La formula del padrone rivolta ai poveri era proprio il «buon appetito», che serviva per ingraziarsi i sottoposti e come segno di munificenza. Insomma, diciamo che quando la pronunciamo è come se dessimo dei «pezzenti» ai nostri commensali, e non è carino, soprattutto se a pronunciarlo è l'anfitrione. Punto. 3. È l'anfitrione che apre le danze. Dopo essersi assicurato che tutti siano stati serviti e si siano sistemati comodamente, fa un bel sorriso e comincia a mangiare. Punto 6. Chiaro che si riferisce ai pranzi in casa privata: esiste un certo tipo di invitato che chiamerei l'invitato «premuroso», ed è molto diffuso. Anche se conosce appena la padrona di casa, si alzerà con i piatti sporchi in mano chiedendo agli ospiti di cosa hanno bisogno. È quello che entrerà direttamente in cucina e oserà, questo è davvero grave, aprire il vostro frigorifero, il che, come è ben noto, è uno dei gesti più indelicati, importuni e intimi che si possano commettere. Al ristorante. il Premuroso è quello che aiuta il cameriere, che prima che arrivi ha già raccolto le posate, quello che piega i tovaglioli e passa l'orlo dei bicchieri. Nei locali pubblici paghiamo perché qualcuno faccia questo per noi. Evitiamo, grazie. Si trovano tipi del genere tra le donne materne che escono poco: ecco, le rappresentanti di questa categoria spazzano la tovaglia raccogliendo le briciole, impilano i piatti e li passano al cameriere. Punti 8/11. Li ho raggruppati perché hanno un comune denominatore: sono disgustosi. Molti di voi giureranno di non aver mai assistito a tali deplorevoli comportamenti, altri diranno che ne sono stati testimoni. In realtà, ci siamo completamente anestetizzati e non ci accorgiamo se non di quelli più evidenti. Per esempio, non facciamo quasi più caso a chi parla con la bocca piena, e magari lo facciamo anche noi. Anni fa mi ritrovai a mangiare in uno di quei bistrot con arredamento liberty ricco di specchi e rimasi scioccata: eravamo noi quei commensali rumorosi in fondo alla sala con le bocche piene e il mento un po' lucido? Ebbene sì. Donne e uomini poco educati si toccano parti del corpo a tavola, detto così sembra quasi sexy: ma non lo è, e con questo intendo sfregarsi il viso, la testa, togliersi capelli dai vestiti e così via. Vale una sola regola per tutto quello che riguarda i bisogni del corpo, cioè pruriti vari, fastidi diffusi, pulizie dentali e di altri orifizi, ravvivatine ai capelli e al trucco: tutto ciò va fatto rigorosamente in privato, cioè allontanandosi dal tavolo. Chi soffre di pruderie non legga da qui in poi. Non esistono solo i toccamenti che ciascuno può operare sul proprio corpo, esistono anche i toccamenti reciproci, cioè i «piedini» e intrecci di mani e altre parti del corpo. Capita a volte di assistere con un misto di fastidio, invidia ed eccitamento a commensali che trafficano sotto il tavolo: non si fa. O meglio, si fa, solo se siete talmente abili da non farvi sorprendere. Durante le cene passionali tra innamorati ogni galateo sarà bandito, lasciando libero sfogo alle fantasie. Punto 10. Questo punto merita un ulteriore approfondimento, intanto perché si tratta di una storia bellissima, poi perché fa capire come ciò che oggi consideriamo rozzo fosse, fino alla prima metà del Cinquecento, simbolo di prestigio. Tra i quadri del grande pittore bergamasco Lorenzo Lotto c'è una tela che ritrae una signora dal viso tondo e dagli abiti eleganti, riccamente ingioiellata; la tela è datata 1518. Il ritratto è detto «notturno» perché sullo sfondo si intravede un paesaggio lunare. Tra gli altri gioielli, la donna sfoggia una collana con un pendente che a prima vista sembra un corno portafortuna, ma in realtà è uno stuzzicadenti in corno incastonato in oro. Una chicca, insomma. Ma chi era la «Dama con stuzzicadenti»? Il mistero si è svelato non da molto. Nel quadro c'è un vero e proprio rebus. Gli indizi sono una CI dipinta su una falce di luna e una B impressa su un anello indossato dalla dama. Ecco la soluzione: LU-CI-NA, il nome della donna. Si tratta di una ricca signora dal nome Lucina Brembati, attenzione ricca, non di sangue blu, che sfoggia un gioiello un po' pacchiano: uno stuzzicadenti, monile assai diffuso appena prima dell'avvento di Della Casa. Ciò testimonia che all'epoca le famiglie agiate (non nobili, però) lo usavano per pulirsi i denti durante il pasto. Il nostro Monsignore, come abbiamo visto, quarant'anni dopo circa lo bollerà come segno di volgarità. Se capitate da quelle parti, il Ritratto di Lucina Brembati è conservato all'Accademia Carrara di Bergamo. Punto 12. Non è il capo che si avvicina al cibo, ma la forchetta che si avvicina alla bocca. Avevo un amico infallibile, che riusciva a mettere in relazione la curvatura del commensale sul piatto con l'estrazione sociale. 90 gradi? Figlio di professore universitario; 70? di impiegato. 45? classe operaia. Sotto i 30 gradi, bassa scolarizzazione. Dito mignolo alzato? Estrazione contadina. Punto 14. Ho chiesto ad alcuni amici sparsi per la penisola di fare una semplice ed empirica indagine: contare quante persone infilano il tovagliolo nel collo della camicia. L'esperimento si è svolto con un certo rigore, abbiamo identificato anche la fascia di prezzo dei locali: dai 20 ai 40 euro. Ovvio che quando sale il costo medio del pasto, diminuisce il numero dei nostri «indagati». Ebbene, contati i coperti in sala, coloro che preferiscono tenere il tovagliolo al collo anziché sulle ginocchia sono circa il 30 per cento al Nord e il 40 per cento al Sud. In prevalenza uomini, e questo non solo perché il sesso debole (intendo gli uomini) è - credo - meno attento alle norme di buon comportamento a tavola, ma anche, e questo va detto, per motivi di abbigliamento: la camicia e la cravatta allentata facilitano l'odioso gesto di infilarci dentro il tovagliolo. Punto 15. Nuovi tempi, nuove regole. La tecnologia a tavola non è ben vista, dal momento che la circostanza dovrebbe indurci alla convivialità e alla condivisione di cibo e valori. È vero, il cellulare non va sopra la tovaglia, ma soprattutto non va sotto il tavolo. Già, perché è proprio lì che avviene il più trafficato incrocio di onde e frequenze tra noi e il mondo esterno. A volte è difficile resistere a lungo alla tentazione di controllare se è arrivato un sms del fidanzato o della propria amata, ma trattenetevi il più possibile. In genere i cosiddetti VIP a tavola si comportano in modo abominevole, soprattutto i personaggi che sono diventati famosi per aver fatto televisione fortuitamente: per la maggior parte sono digitatori accaniti e compulsivi. Ricordo una sera, in un noto ristorante romano all'aperto, due commensali molto noti, un opinionista e direttore di un settimanale di gossip e un conduttore televisivo: ebbene, non fecero altro che messaggiare tutta la sera ignorando la conversazione. Il culmine venne raggiunto quando, spaventoso a dirsi e motivo di ribrezzo per ogni persona rispettosa del bon ton, uno di loro cominciò a far leggere i messaggi sul proprio cellulare inviati da una nota starlette. Appunto, c'è di peggio di messaggiare a tavola, ed è far leggere i messaggi privati agli altri commensali. È ammessa una sbirciatina a metà cena alle mamme un po' ansiose, alle adolescenti in odore di fidanzamento, ai padri in attesa; ma massaggiare per tutta la cena è intollerabile e maleducato. Al limite, dopo aver chiesto il permesso, allontanatevi da tavola e controllate il vostro cellulare in privato e in tranquillità.

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Lo abbiamo già incontrato tra gli ospiti un po' scomodi. Lui ha una frustrazione, quella di non essere pagato per raccontarci le sue esperienze di ristorazione. In genere, sputa sui ristoranti di alta cucina e sulle guide gastronomiche, soprattutto sulla cucina d'avanguardia. Lo fa con la perfidia di quelli che non se la possono permettere o non la capiscono. Lui quel piatto lo sa fare meglio, quel formaggio lo trova più buono da un altro fornitore, quel vino lo conosceva già tre anni fa, quel tipo di pane lo trova scadente eccetera. La moglie tradita che sa di esserlo. La moglie tradita che sa di esserlo non ha il coraggio di affrontare la verità con se stessa e tanto meno con il coniuge fedifrago. Quando è sola con lui o in famiglia cerca di controllarsi, ma quando è in pubblico si scatena e approfitta della situazione per rinfacciare, ferire, punzecchiare a morte il partner. Esiste una sottocategoria di maschi traditi che sospettano di esserlo, ma sono rarissimi, perché le donne, in questo campo, possiedono quella punta di crudeltà in più. Accettano di essere cornute piuttosto che perdere il privilegio di torturare una vittima. Secondo, perché l'uomo non riesce quasi mai a vivere con la certezza di essere «cornuto» (con il sospetto, sì). Il single appena lasciato dalla moglie. Se siete riusciti a trascinarlo fuori casa con quel muso lungo, siete delle/dei crocerossine/i. Il marito separato con minaccia di elevato assegno alimentare lo riconosci subito a tavola: o non parla perché è sull'orlo della depressione, oppure tiene comizi molto aggressivi contro le donne che lasciano i mariti e la categoria degli avvocati. Lo so che avete un'amica vergine di quarant'anni che volete sistemare e il single-appena-lasciato-dalla-moglie è un candidato ideale, ma sappiate che non contribuirà più di tanto alla buona riuscita della conversazione. Il cacciatore di consulenze gratuite. Di norma lo individuate così: lo hai appena conosciuto, sei appena passato al tu dicendogli che sei dentista e lui con nonchalance spalanca la bocca a due centimetri dalla tua e dice: «Scusa se ne approfitto, ma secondo te questa otturazione tiene ancora un po'?» Se sei commercialista sarà una nuova ordinanza su cui chiedere informazioni, se sei dermatologo ti farà vedere un eritema sul fianco eccetera. I medici sono le vittime ideali del cacciatore-di-consulenze-gratuite. Il bon ton raccomanda di chiarire le proprie perplessità in un luogo appropriato, a tempo debito e soprattutto dietro compenso. Il compulsivo delle barzellette. Raccontare bene una barzelletta è una vera arte, e anche piuttosto rara. A meno che non siate un professionista, volete davvero giocarvi tutte le vostre carte per catturare l'attenzione della ragazza seduta di fronte a voi raccontando una barzelletta? Meglio trasformarla in una semplice battuta. E, se qualche recidivo non sa rinunciare alla barzelletta, gli altri commensali, per primo l'anfitrione, faranno il piacere almeno di sorridere. Avviso dedicato alle signore: se la barzelletta si dimostra davvero gustosa, evitate di ridere rumorosamente e in maniera sguaiata. Sugli uomini ha un terribile effetto di allontanamento. In genere queste signore hanno anche la cattiva abitudine di parlare con un tono di voce piuttosto alto; cercate di evitare, è molto maleducato. Non bisbigliate, però. Modulare il tono e la voce è un'arte. Mia nonna diceva che è più facile imparare a scegliere un vestito che a domare le proprie corde vocali. L'interlocutore manolunga. Può essere anche una donna e si riconosce dalla sua completa e testarda noncuranza nell'ignorare le regole della prossemica, quelle regolette di cui abbiamo già parlato. Ebbene, l'interlocutore-mano- lunga vi parla troppo da vicino, e anche se voi arretrate continua ad avvicinarsi. È un po' viscido e spesso adulatore. Ma la cosa più fastidiosa sono quei continui colpetti che vi dà per richiamare la vostra attenzione e quelle gomitatine allusive che in genere dissemina durante la noiosa conversazione. Ma l'invadenza continua a livello verbale: di solito, dopo tre minuti che vi conosce vi appioppa subito un grazioso e confidenziale diminutivo e con quello vi chiamerà per tutta la serata. Il tuttologo. Nulla innervosisce e fa sentire inadeguati più della supponenza di chi fa credere agli altri di sapere tutto. Lui/lei conosce gli onomastici di tutti i parenti di terzo grado, le date delle guerre puniche, la soluzione dei vostri problemi familiari, economici, sessuali, domestici, di salute. Lui/lei sa come risolvere la crisi economica mondiale, come mai lo spread è sceso, perché si è fermato l'ascensore nel vostro condominio: sa tutto. Il pettegolo impenitente. Inserisco la tipologia al maschile, perché sarebbe stato banale declinarla al femminile, inoltre ho scoperto che nell'arte del pettegolezzo gli uomini eccellono. Il suddetto non riesce a seguire una normale conversazione senza inserire una miriade di cattiverie su parenti, amici e perfetti sconosciuti. Il tutto senza smettere un secondo di messaggiare con il cellulare. Concludo citando uno dei soliti infallibili detti popolari di mia nonna: chi parla male degli altri con te, parla male di te con gli altri. Come sempre, a fine paragrafo, riassumiamo le regole: - Non peccare di narcisismo. Attenzione: abitudine molto diffusa tra gli scrittori, gli accademici e i docenti universitari. - Anche l'argomento più interessante deve avere i suoi tempi. Brevi. - Argomenti come il tempo e il traffico, massimo due minuti. - Non si interrompe chi parla. - Non si parla di cose private (per esempio problemi economici o abitudini sessuali). - Non ci si vanta (di soldi, conquiste eccetera). - Non si parla, né si fa ironia sulle persone assenti, e presenti. - Non si parla di politica. - Non si parla di sport. - Non si parla di religione. - Non si parla di persone sconosciute ai commensali. - Mai ignorare completamente un commensale. - Non si parla «troppo» in dialetto, con tante parole in inglese o in maniera molto tecnica. Ricordando bene ciò che è stato detto in precedenza riguardo ai «tempi», e soprattutto facendo attenzione se l'argomento che abbiamo introdotto provoca interesse negli altri, impariamo a leggere i segnali del nostro interlocutore: se guarda ripetutamente l'orologio sbuffando, forse si annoia. Si potranno affrontare brevemente discorsi inerenti a: - Tempo atmosferico. - Salute (senza entrare nei dettagli). - Fatti di attualità (non politica). - Film, teatro, spettacoli visti e non. - Libro letto o che si vuole leggere. - Fatti curiosi accaduti. - Professione, ambiente di lavoro. - Amicizie in comune. - Vacanze e gite vissute o programmate. - Progetti, speranze e desideri (solo se si è già in confidenza). Prima di chiudere, qualche altra riflessione sul buon conversare. Purtroppo riesce più facile tratteggiare il pessimo interlocutore che il migliore. Ecco tre cose che trovo insopportabili in un interlocutore e che sono riuscita a vedere riunite in un solo uomo: serata memorabile. Primo posto assoluto: chi ti fa una domanda, fingendosi interessato a ciò che ti riguarda, e poi cambia discorso senza aspettare la risposta. Secondo posto: chi si intromette nelle conversazioni altrui senza essere interpellato. Terzo posto: chi sbaglia i congiuntivi e continua a sbagliarli anche dopo che è stato corretto. L'interlocutore ideale: - È in sintonia. - Alterna momenti in cui si apre e comunica a momenti in cui ascolta attivamente. - Usa un tono cordiale, convincente, affascinante. - Riesce a «farti volare» raccontandoti anche il meteo. - Ti guarda negli occhi, senza giudicare. - Ti fa sentire l'unica persona presente nella stanza. Come dice Cicerone: «Neque enim disputari sine reprehensione potest» (De finibus, I, 18), ossia non c'è conversazione senza contradditorio. Un po' di dibattito è l'ideale, basta che sia moderato e arguto, anziché aggressivo e polemico. Nei Saggi di Montaigne si trova sempre l'osservazione giusta per ogni situazione. Montaigne, si sa, era un grand'uomo, ma non un campione di femminismo. Tuttavia, questa affermazione potrebbe riferirsi tranquillamente anche al mondo femminile: «Mi piace, tra galantuomini, che ci si esprima coraggiosamente, che le parole vadano dove va il pensiero. Bisogna irrobustire il nostro udito e indurirlo contro la dolcezza del suono cerimonioso delle parole». E aggiunge, un po' trasgressivamente, riguardo alla conversazione: «Mi piace una dimestichezza e una familiarità forte e virile, un'amicizia che si compiaccia dell'asprezza e del vigore della sua pratica, come l'amore di morsi e graffi sanguinanti». Capito?

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