Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Le tre vie della pittura

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Caroli, Flavio 22 occorrenze

Abbiamo parlato di “pittura tonale", termine che tornerà da questo momento in poi per cinque secoli, poiché si tratta di uno dei cardini della rappresentazione pittorica. Pittura tonale significa che ogni punto del dipinto deve essere imbevuto della stessa quantità di luce, deve essere "intonato” con tutti gli altri punti dell'immagine. Il pittore identifica una precisa entità di luce ambientale che guida il quadro e governa la rappresentazione. Ogni singolo dettaglio dell’opera deve vivere a interno di questa norma, altissima, supremamente gratificante, ma anche inflessibile.

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Vermeer appoggia sul pane chicchi di luce, a segnalare una divisione dell’entità luministica che avrà infinito futuro, e lo stesso fatto che abbiamo usato questa parola, “divisione”, dice che un’intuizione comincia a far capolino nella pittura occidentale, verso risultati ai quali mancano ancora due secoli. Ci vorranno ancora duecento 19. Johannes Vermeer, La lattaia. Amsterdam, Rijksmuseum. anni, infatti, prima che maturi il Divisionismo, o, più propriamente, il Puntinismo francese.

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Uno dei suoi massimi protagonisti è il grande pittore inglese William Turner, erede dell’idea di luce della quale abbiamo parlato a proposito di Rembrandt, cioè di una luce sovrannaturale, eccezionalmente rivelatrice, concepita però da Turner in un empito di sentimento, in un turbine emotivo che sommerge e stravolge ogni visione. La valorosa “Temeraire" (fig. 24) raffigura il veliero che era stato la nave regina della flotta britannica, la nave che, nella battaglia di Trafalgar, aveva salvato con un’eroica manovra l’ammiraglia “Victory”, sulla quale, dopo ore di battaglia con le navi spagnole, era caduto Nelson. Da quell’evento sono passati più di trent’anni, è nata la navigazione a vapore, éd ecco che, al tramonto di un giorno del 1830, l’enorme veliero costruito con il legno di 5000 querce, trainato da un rimorchiatore, viene portato alla demolizione, e gli viene anche vietato di innalzare, in un ultimo gesto d’orgoglio, la bandiera dell’Union Jack. Turner dipinge la scena come un’ode al vecchio pachiderma trascinato alla morte, ed è un’immagine di emozioni e bellezza assolute, perché è tutta oro, ed è oro insanguinato, non oro che scintilla come in Rembrandt, ma oro e 24. Joseph Mallord William Turner, La valorosa "Temeraire". Londra, National Gallery. sangue in un tramonto colorato di oro e sangue. Dall’acqua emerge la forma un po’ sinistra del rimorchiatore, sentiamo quasi il suo rumore: tum tum tum tum, e dietro, come un fantasma bianco, ecco il nostro eroe della battaglia di Trafalgar, che da lì a poco verrà distrutto e venduto a peso di legno: questo è il suo destino. Una suggestione enorme, nella quale Turner mette se stesso. William Turner a questo punto non è più giovane, è in crisi creativa, e forse nel funerale del pachiderma vede anche il proprio funerale.

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Le idee rivoluzionarie dell’impressionismo sono due: la prima, come abbiamo detto, consiste nella volontà di rappresentare l’attimo luminoso, cioè un attimo di luce e solo quello. La luce, e con essa ciò che ne è toccato, cambia aspetto istante per istante. La seconda novità è il fatto che, me di rappresentare l’attimo luminoso, Monet inventa la tecnica, o l'escamotage, 28. Tiziano, Concerto campestre. Parigi, Musée du Louvre. delle ombre colorate. Le ombre non dovranno più essere un elemento scuro e ottundente all’interno del dipinto, ma dovranno avere una loro tonalità, saranno esse stesse un colore. Non si ricorrerà più al chiaroscuro semplicemente aggiungendo nero alle parti più in ombra del dipinto, ma si descriveranno le differenze di luce come differenze di colore. La schiena della donna al centro del quadro di Monet è dipinta come un’ombra colorata che fa sì che risuoni l’arancio bellissimo della cintura, l’erba si divide fra la parte in luce e la parte in ombra, che possiede anch’essa una propria quantità di colore e di luce, e negli alberi ogni foglia è costruita di luce, abbagliante dove la luce è piena, e attenuata dove invece c’è ombra. La figura dell’uomo è esemplare per il modo con cui la luce si disegna per tacche colorate, nel passaggio fra la manica, il polsino e la mano. Il risultato è inebriante, una entità panica di chiarore che domina la visione, riposante, felice, del pomeriggio d’estate in cui vive questo quadro, anzi del minuto, dell’attimo nel quale tutto questo viene colto. Colui che capisce immediatamente la novità dell’intuizione di Monet è Renoir, il quale è solito andare a dipingere con lui durante i primi anni della propria storia. Vediamo il Ballo al Moulin de la Gaiette (fig. 29), dipinto nel momento chiave dell’impressionismo, e troviamo esemplarmente attuati i principi di cui abbiamo parlato: anche il suolo ha una propria tonalità, un colore blu che rimarca le ombre, e gli alberi lasciano trapelare tra le foglie macchie di luce, e macchie di luce si accendono sul dorso dell’uomo appoggiato alla seggiola, e sul bellissimo abito rigato di rosa e grigio-azzurro della donna. L’attimo luminoso e le ombre colorate sono il volto stesso della figura femminile in primo piano, che ha la parte 29. Pierre-Auguste Renoir, Ballo al Moulin de la Galette. Parigi, Musée d'Orsay. alta del viso in ombra (ma in un’ombra che ha una sua specifica tonalità colorata) e ha invece il resto del viso in piena luce.

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Abbiamo detto che, a questo punto, il pensiero in figura si mette alla Prova su varie facce del prisma, e, mentre su una delle facce Matisse arriva alla felicità di luce terrena e quotidiana, c’è anche chi dipinge una luce che non c’è, e chi fa questo è Giorgio de Chirico (Le muse 36. Giorgio Morandi, Natura morta (Grande natura morta metafisica). Milano, Pinacoteca di Brera, Donazione Jesi. inquietanti, fig. 35). De Chirico è il marziano dell’arte del XX secolo, la sua luce è quella di un pianeta sconosciuto nel quale non c’è atmosfera, e in cui il cielo ha una tonalità verdastra. È proprio la luce assurda a rendere coerente ciò che assurdamente compare nel dipinto: il castello di Ferrara accanto a una fabbrica con ciminiere, i manichini, il parallelepipedo a spicchi colorati come quelli dei palloni con cui un tempo si giocava sulla spiaggia. De Chirico cambia a un tratto le carte in tavola, e cancella ogni veridicità: basta guardare le ombre nere, cupe, che assolutamente se ne infischiano di una luce tonalisticamente verosimile. Sembrerebbe la negazione della linea che abbiamo ricostruito fino a questo momento.

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Sono le due del pomeriggio in Costa Azzurra, tutto tace, si sente un po’ di brezza, e un po’ di sciabordio delle onde, qualcuno ha appena fatto il bagno in mare: la vita è questa, il lusso, la calma e la voluttà sono questo attimo, fatto di picchiettamenti di luce d’oro nel cielo, nella sabbia che diventa infuocata nella pittura, eredità della tecnica divisionista di cui abbiamo parlato precedentemente, e qui interamente acquisita e travalicata. La luce è - sic et simpliciter - appagamento universale.

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Abbiamo, a questo punto, ormai terminato il nostro viaggio che ci ha portato, nei secoli, da una luce prima classicamente naturale, a una luce drammatica, poi sempre più quotidiana e realistica, poi esistenziale e contemplativa, poi esistenziale con vocazione spiritualistica. Ma quello raggiunto è soltanto un traguardo volante, perché sicuramente il discorso non si ferma qui. Gettando uno sguardo nel futuro, che già 39. James Turrel, Sky Window I. Varese, Collezione Panza di Biumo. 40. Maria Nordman, Progetto per una stanza di Villa Panza di Biumo. Varese, Collezione Panza di Biumo. si scorge nel presente, vorrei indicare sostanzialmente due direzioni verso le quali sembrano orientarsi le ricerche. La prima, è quella di artisti soprattutto californiani, che fondano il loro lavoro su un’idea di luce che è contemporaneamente naturale e trascendente: un’alta finestra a lunetta, una vera finestra, che da un corridoio neutro e spoglio si apre su uno scorcio di cielo la cui luminosità e il cui colore cambiano continuamente e costituiscono, a ogni ora del giorno o della notte, una visione di estremo risalto e di grande fascinazione (James Turrei, Sky Window I, fig. 39). E ancora, una stanza priva di illuminazione e di aperture, a eccezione di sottili fenditure verticali attraverso le quali man mano che l’occhio si abitua all’oscurità, comincia a filtrare un chiarore uniforme e lattiginoso che stravolge la percezione dello spazio fisico (Maria Nordman, Progetto per una stanza di Villa Ponza di Biumo, fig. 40).

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Leonardo affida tale mole impressionante di pensieri e di immagini, un geniale lavoro contemporaneamente intellettuale e formale, ai codici che porta sempre con sé, di cui, come abbiamo detto, gran parte, forse anche un vero e proprio Trattato di Fisiognomica, è andata perduta. Ed è persino inutile ribadire l’attenzione di Leonardo per l’interiorità nei ritratti, in quella Gioconda 44. Leonardo da Vinci, La Gioconda. Parigi, Musée du Louvre. (fig. 44) che è l’emblema stesso dei segreti dell’animo, ma anche nella Dama con l’ermellino (fig. 45), o in Isabella d’Este (fig. 46), pur ritratta di profilo. Una vera sublime sinfonia di “moti dell’animo” è poi magistralmente condotta nell'Ultima Cena (fig. 47), in cui gli apostoli sono ritratti nel momento stesso in cui Gesù pronuncia la frase “Uno di voi mi tradirà”.

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Prove documentarie di questo incontro non ne abbiamo, ma esiti del dialogo fra i due artisti esistono indubitabilmente: esattamente nel 1500, la ritrattistica giorgionesca cambia marcia, e si immette sulla via leonardesca della rappresentazione introspettiva. Vediamo, ad esempio, Doppio ritratto (L’innamorato) (fig. 48). Il giovane in primo piano è chiaramente concentrato in un proprio mondo interiore, attitudine d’animo che la posizione iconograficamente canonica del “melanconico” (mento appoggiato sul palmo della mano) e il frutto, simbolo dell’amore, confermano, ma che già è implicita nell’espressione trasognata. Ciò, inoltre, è contrappuntato dalla figura in secondo piano, la cui immagine è l’opposto 45. Leonardo da Vinci, Dama con l'ermellino, Cracovia, Museo Czartoryski. 46. Leonardo da Vinci, Ritratto di Isabella d'Este. Parigi, Musée du Louvre, Gabinetto dei Disegni. 47. Leonardo da Vinci, Ultima Cena. Milano, Santa Maria delle Grazie, refettorio. dell’altra: vediamo un giovane attento, uno sguardo vivace e astuto, un atteggiamento che rivela energia e padronanza di sé, il contrario della debolezza sognante del giovane innamorato. Oggi diremmo, due psicologie opposte, a darci in questa rappresentazione l’idea di una nuova ricchezza e di una nuova spiritualità dell’uomo d’occidente.

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Infatti, e lo noteremo spesso, il cammino della linea introspettiva ha uno sviluppo parallelo a quello che, nel capitolo sulla luce, abbiamo visto partire dall’assolutezza e gradualmente portarci verso la quotidianità.

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Del resto, abbiamo una incontrovertibile prova dell’attenzione di Tiziano per la fisiognomica, in particolare con l’aspetto zoomorfico della medesima, nella sua tarda Allegoria della Prudenza (fig. 52).

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Cultura lombarda, dei cui semi di novità abbiamo un altro esempio in un piccolo disegno dal grande destino. Verso il 1555, una pittrice cremonese, Sofonisba Anguissola, esegue a matita e carboncino un ritratto familiare: 52. Tiziano, Allegoria della Prudenza. Londra, National Gallery. 53. Giovan Battista Moroni, Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (Il cavaliere in rosa). Bergamo, Collezione Palazzo Moroni. Fanciullo morso da un gambero (fig. 54), in cui il piccolo fratello è colto nell’attimo di acuto dolore che gli stravolge i tratti del viso e gli fa ritrarre le manine, mentre la sorella lo guarda, stupita e spaventata. La volontà di rappresentare proprio l’attimo, l’istante della traduzione di un dolore improvviso nei tratti fisici, fanno di questo disegno un’assoluta novità nel panorama artistico del momento, tanto che Roberto Longhi vi riconobbe una specie di vocazione espressionistica, vocazione che si espliciterà più di tre secoli più tardi. Ma è veramente miracoloso il destino che tocca a quest’opera. I numi della pittura conoscono e ammirano il piccolo disegno della giovane pittrice lombarda. Michelangelo Buonarroti vede lo schizzo, e intuisce le sue straordinarie potenzialità innovative. Ne scrive al padre di Sofonisba, inizia addirittura un carteggio con lui, che anzi arriverà a chiedergli un suo disegno “per farlo colorire dalla figlia”. E probabilmente è dovuta a Michelangelo l’attenzione inaspettata che il Vasari dedicherà al gruppo di sorelle pittrici di Cremona, fra cui risalta Sofonisba per le eccellenti doti che la porteranno a una produzione di tutto rilievo, nel corso di una vita lunga e avventurosa. Ma non è finita: anche l’altro Michelangelo, Michelangelo Merisi da Caravaggio, è legato a questo disegno. Presumibilmente lo 54. Sofonisba Anguissola, Fanciullo morso da un gambero. Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte. 55. Giovan Battista Della Porta, De Humana Physiognomonia. Milano, Biblioteca Trivulziana. 56. Rembrandt van Rijn, Autoritratto con la bocca aperta. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett. vede, o ne viene a conoscenza, perché troppo diretta è l’ispirazione per il suo Fanciullo morso da un ramarro (cfr. fig. 11), che abbiamo visto nel capitolo precedente. Il moto di dolore, lo sguardo pieno d’orrore e di repulsione, la bocca urlante, sono realizzazioni di eccezionale efficacia fisiognomica, ma qui il tutto è immerso in una placenta luministica ormai vera, che non è più la luce generica cinquecentesca dell’Anguissola. Per queste ragioni il dipinto caravaggesco costituisce un vero incrocio, un punto d’intersezione, fra la via della pittura di introspezione e quella della pittura di luce. Verità ambientale e verità interiore, una confluenza determinante, in grazie della quale la pittura compie un perentorio balzo verso la modernità.

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Abbiamo qui un uomo rappresentato a tutto tondo, nella sua eccezionalità e nella sua normalità. Questo ritratto è di per sé un romanzo. Per il secondo esempio, vorrei andare in terra di Francia, perché in questo paese, che è detonatore delle rivoluzioni di tutt’Europa, consuma la sua breve vita il “divino fanciullo” Jean-Antoine Watteau. Come vedremo anche nel prossimo capitolo, nessuno più di lui può darci in una sola immagine la lettura introspettiva di quella classe del privilegio sociale che, per tracotanza e disinteresse ai mutamenti della storia, sta inconsapevolmente precipitando verso la propria rovina. L’indifferente (fig. 62. Francisco Goya, Il sonno della ragiona genera mostri. Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli. 60) è il ritratto di un damerino profumato e incipriato, agghindato di sete, pizzi e rose, rose sul cappello, rose sugli scarpini, rose in mano e persino sulla manica; un vagheggino che, trasognato in un proprio mondo di vanità, si avvicina a passo di danza, indifferente, appunto, alla nebbiosa consunzione della natura che lo circonda, e che è già presagio dell’estinzione e del trapasso.

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È stupefacente notare come la posa del dottor Cachet non sia altro che quella iconograficamente attribuita alla “malinconia”, come abbiamo visto in Giorgione e come è riscontrabile in numerosi altri casi, a cominciare da Melancolia 1 (fig. 66) di Albrecht Dürer. Ma ancora più stupefacente è stato scoprire che il dottor Gachet era uno psichiatra, che la sua tesi di laurea, tuttora consultabile, ha per tema “La malinconia” (cioè quella che oggi chiamiamo depressione), e che in essa Gachet elenca criteri precisi di riconoscimento visivo di questa malattia, criteri che puntualmente e 67. Vincent van Gogh, Strada con cipresso sotto il cielo stellato. Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller. puntigliosamente ritroviamo rappresentati nel ritratto. Inoltre, vediamo nel quadro due libri, identificabili e dedicati a tristi vicende di morte e suicidio ambientate nel mondo dell’arte, e una pianta che veniva usata per la cura della malinconia. Tutto ciò apre a due considerazioni di grande interesse. Primo: Van Gogh era presumibilmente affetto da psicosi maniaco-depressiva, e ciò spiegherebbe sia l’enorme produzione, sempre tenuta ad altissimi gradi di energia psichica (Strada con cipresso sotto il cielo stellato, fig. 67), della fase maniacale negli ultimi mesi di vita; sia il suicidio, conseguente al repentino passaggio alla fase depressiva. Secondo: Van Gogh, in linea con le più avanzate teorie del suo tempo, era perfettamente consapevole dei propri problemi di salute mentale, ben più consapevole dei medici che l’avevano ricoverato e curato per epilessia. Dietro la pittura di Van Gogh, pittura diretta, veloce, fatta di colori puri schiacciati febbrilmente sulla tela (a riportare in tempo reale l'emozione, anche l’allucinazione: “Voglio dipingere con il rosso e con il 68. Edvard Munch, L'urlo. Oslo, Nasjonalgalleriet. verde le terribili passioni umane”), non c’è affatto lo spontaneismo e l'improvvisazione che una certa letteratura gli attribuisce, facendone una figura bizzarra e lontana dalla cultura. Van Gogh incarna la sintonia più diretta tra il turbine dei temi teorici del suo tempo e una volontà espressiva assolutamente determinata e consapevole.

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Come accennavamo nel capitolo sulla luce, il percorso, tutto sommato lineare e conseguente, che abbiamo compiuto fino a questo punto, ora si dirama, anzi dalle due dimensioni di una via si trasforma nelle pluridimensioni dello spazio o addirittura dell’iperspazio. Quello che era l’obiettivo finale, il bersaglio grosso di una traiettoria identificabile, si è frantumato ed è esploso in particelle di verità che si disperdono nell’universo della mancanza di certezze. Ogni grande artista, e il Novecento ne ha avuti moltissimi, porta il bagaglio comune di storia a concretizzarsi in un proprio tassello di ricerca, che a sua volta porterà a ulteriori concrezioni. Tra la miriade di punti focali, tralasceremo, quindi, gli ambiti di indagine diversi dal nostro discorso, e rimarremo strettamente legati a realizzazioni di prevalente aspetto introspettivo.

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Un essere artificiale, un “replicante”, è l’uomo del futuro, dice Ridley Scott in Blade Runner, che abbiamo già citato nel primo capitolo. Che ne è stato dell’uomo del Rinascimento, del semidio che a tutto poteva aspirare? È accaduto che, mentre la storia portava l’umanità a nuove conquiste e a nuove catastrofi, si è man mano drammaticamente modificata la consapevolezza di sé dell’uomo d’occidente, come ci racconta puntualmente la storia dell’arte.

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Quel viaggio all’interno dell’uomo che è stato compiuto, con la guida della fisiognomica, nel corso del Cinque e del Seicento e che abbiamo seguito nel capitolo precedente, conosce in questo momento una definizione, arriva a concretizzare il proprio oggetto tramite l’evoluzione della fisiognomica stessa in psicologia. Finisce cioè il mondo magico in cui un’idea di “psiche” ancora generica considerava separatamente i vari aspetti del carattere, e nasce la consapevolezza dell’unità complessa di ciascun individuo. Individui, dunque, ciascuno con una propria psicologia, che agiscono in base a essa, in base alle dinamiche sociali e in base agli avvenimenti: ecco il personaggio, ecco la narrazione, ecco il racconto. Il significato e la portata filosofica di tali raggiungimenti è enorme. Nella società, e nell’arte, acquistano man mano rilevanza categorie sociali che fino a questo momento erano rimaste sullo sfondo, e intendiamo parlare, in primo luogo, delle classi umili, e poi delle donne. Vedremo come nel Settecento i poveri e le figure femminili di ogni classe sociale acquistino piena dignità di rappresentazione e, anche se qui parleremo soprattutto di arti visive, non mancheremo di rilevare che ciò avviene in tutte le arti: avviene in letteratura, con i romanzi, in cui i personaggi, potenti o umili, sono delineati a tutto tondo, e in cui nascono le prime grandi figure femminili; avviene nella musica, che, lasciando il tecnicismo seicentesco, si avventura nei piaceri e nella sensualità del nuovo melodramma; avviene nel teatro, in strettissimo legame con la pittura, come vedremo con Carlo Goldoni-Pietro Longhi e, soprattutto, con John Gay-William Hogarth.

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Non per nulla, il grande tonalista del XX secolo, Giorgio Morandi, che, per quanto riguarda la costruzione dell’immagine, come abbiamo detto, aveva come riferimento Piero della Francesca, guardava proprio a Chardin per la verità e per la straordinaria pregnanza delle sue luci.

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Roma, Accademia di San Luca. che abbiamo visto in precedenza. Poiché sappiamo che Bazzani non si è mai mosso dalla sua Mantova, è sorprendente come abbia saputo captare le arie più innovative, e le abbia lui stesso influenzate, soprattutto in area mitteleuropea.

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Abbiamo visto Fra Galgario descrivere mirabilmente la decadenza della nobiltà lombarda; lo vediamo ora, con la stessa ineguagliabile ricchezza di pittura, narrare la psicologia di un ragazzo, un aiutante che impara il mestiere di scultore (Ritratto di giovane in veste di scultore, fig. 88). Sui dipinti dedicati a giovani apprendisti ha scritto pagine memorabili Giovanni Testori, che suggeriva qualche tensione ambigua del pittore verso i suoi modelli. In effetti, non si 87. Thomas Gainsborough, I raccoglitori di legna. New York, The Metropolitan Museum of Art. può negare la sensualità di questo ritratto, certamente nello splendore della pittura, nei rossi, nei blu appaganti e sontuosi, ma anche nelle labbra tumide dell’adolescente, nei suoi occhi sgranati m uno sguardo scultore. Milano, Pinacoteca infantile e diretto, nel ciuffo sbarazzino dei capelli. È il ritratto di un del Castello Sforzesco, ragazzo goloso, curioso della vita e di tutto ciò che la vita stessa può offrire, colto nel gesto spontaneo di presentare, stretta in mano, la piccola scultura su cui si è esercitato. Un attimo psicologico, sensuale, fuggevole, ambiguo...

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In questi anni nasce la caricatura giornalistica, e, come abbiamo detto, nasce il “carattere”, cioè il personaggio nella sua ricchezza. Hogarth le sue teorie le applica fin da giovanissimo, come si vede in una delle sue prime opere, Predica a fedeli addormentati (fig. 99), che è ricca di simbologie, forse massoniche, e che squaderna un campionario ricchissimo di fisionomie, campionario che nella fattispecie denuncia e irride la superficialità e l’ipocrisia con cui viene vissuta la religione. Siamo nel 1728, e nulla di simile si era mai visto in pittura: l’immagine di Hogarth è teatro nell’istante stesso in cui si manifesta, in unità di tempo e di luogo, secondo le idee fondamentali della stessa rappresentazione scenica.

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L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

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Vettese, Angela 7 occorrenze

Nel pensiero di Platone abbiamo due atteggiamenti opposti: da una parte, la condanna per l imitazione del vero che appare nel X libro della Repubblica, dall’altra, l’ammirazione per ciò che oggi chiameremmo «creatività» che il filosofo mostra nel Filebo. Diversamente da quanto si scrive spesso, non c’è nemmeno per Hegel alcuna «morte dell’arte» all’orizzonte: semplicemente, nella storia essa perde pregnanza con l’avanzare del linguaggio lucido e insuperabile della filosofia. Più di recente, studiosi come Hans Belting (nel suo The End of the History of Art del 1987) e teorici anche molto diversi, da Paul Virilio a Slavoj Žižek a Jean Clair, hanno ipotizzato che l’arte visiva sia meno adatta di un tempo a descrivere la condizione umana; non a causa della sua debolezza, ma perché provoca troppo baccano mediatico e vive un’infausta commistione con il denaro.

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Eppure, proprio il successo mediatico degli artisti, la proliferazione dei musei anche in luoghi remoti, l’incessante fiorire di istituzioni e figure professionali sembrano dirci che abbiamo un bisogno profondo di opere d’arte. Altrimenti il marketing si attaccherebbe ad altro. E ricordiamo che ambiti come la letteratura, la musica sia classica sia contemporanea, il cinema non sono per nulla alieni da un sistema nel quale la realizzazione di un lavoro da un’opera lirica, in cui la relazione costi/ricavi è sempre in rosso, alla pubblicazione di un romanzo, alla promozione di un disco, sovente «dopata» dalla costruzione di un consenso preventivo tra agenti, promotori e produttori e da premi predefiniti passa attraverso forche caudine dominate dal denaro e spesso dal cattivo gusto. Ma allora, se la logica è questa (tanto profitto / tanta attenzione) non c’è da stupirsi che l’arte visiva sia beneficiata dal sistema, dal momento che il suo carattere di permanenza nel tempo le conferisce anche lo status di investimento. Dobbiamo condannarla per questo? I compratori dei quadri di Rubens non lo fecero, anzi ne furono orgogliosi.

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Forse non abbiamo più bisogno di parlare di «arte contemporanea» e qualcuno, come la curatrice di DOCUMENTA (13) Carolyn Christov-Bakargiev, potrà ritenere che si tratti di una categoria tipica del XX secolo. Alcuni artisti sentono fortemente la necessità di uscire dai luoghi deputati: ad esempio, in Italia Studio Azzurro ha scelto di creare soprattutto percorsi di visita per ambiti non artistici. Tra gli operatori più sensibili è in atto un ripensamento dell’oggetto o dell’evento artistico, legato alla nostra nuova condizione di soggetti always on, per cui perdiamo facilmente la distinzione tra ciò che è vero e ciò che non lo è: l’intercapedine tra queste due categorie è tutta da ripensare, così come è da ripensare la nozione di oggetto distinta da quella di strumento, dispositivo, finestra piena di «apps» verso un contesto interattivo. Ma se cambiano i modi di vivere, permane sempre l’urgenza di descrivere la condizione umana. Tanto più ora, quando le cose si stanno modificando troppo velocemente per non infuocare questa necessità.

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Al contrario, come abbiamo visto, quest’ultima ha continuato a rimanere viva, anche se spesso incline alla deformazione dell'immagine. In ambito scultoreo, ricordiamo Henry Moore con le sue forme antropomorfe; Alberto Giacometti con corpi spigolosi e sofferenti; Giacomo Manzù, Marino Marini e Arturo Martini con la retorica del monumento. In pittura, torniamo a Francis Bacon, Graham Sutherland e Lucian Freud, che hanno lacerato il corpo umano fino a creare figure al limite del mostruoso; a Klossowski e Balthus, che hanno ripensato il surrealismo con risvolti erotici ed esoterici; al folto gruppo di coloro che, da Edward Hopper a Richard Estes, hanno esasperato a tal punto l’immagine fotografica in pittura da arrivare a una rappresentazione iperrealista. E ancora ricordiamo le figure ritratte tra tragedia e commedia umana nei quadri, distanti per geografia ma non lontani nello spirito, di autori come Maria Lassnig, Marlene Dumas, John Currin.

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Sappiamo bene che la tecnologia delle comunicazioni ha richiesto il lavoro di enormi masse di persone, ma abbiamo avuto bisogno di mitizzare Steve Jobs, dalla sua infanzia di figlio adottivo alla sua morte precoce, per quanto allontanata da una disciplina di vita divenuta anch’essa parte del mito. L’epoca del social network non diminuisce affatto l’importanza dell'individuo rispetto alla massa, dal momento che, anzi, consente a tutti di creare una propria identità in rete, vera o fittizia.

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Non abbiamo abbandonato la pittura vascolare di tipo greco per disamore o protesta, ma perché nel tempo ha cessato di essere un mezzo comodo e un linguaggio efficace.

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Eppure abbiamo sempre più bisogno di mediatori capaci di scegliere per noi: le informazioni sono troppe. Più che l’opera in sé, queste persone sono in grado di spiegare il suo background e le modalità formali con cui questo viene reso visibile. Nel processo di conoscenza e apprezzamento di un’opera si devono infatti tenere in considerazione anche i differenti approcci dovuti a una specifica educazione, personalità e cultura. Come è stato più volte evidenziato da teorici come Rudolph Arnheim, Arthur Danto e Nelson Goodman ma, procedendo a ritroso, si potrebbe arrivare fino a Kant l’occhio non è mai vergine né innocente. Ciascuno di noi guarda con alle spalle un bagaglio carico del proprio vissuto e dei propri bisogni e stimoli percettivi e, per neutralizzare le nostre deformazioni personali, può essere necessario metterci a confronto con più opinioni di esperti.

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L'arte di guardare l'arte

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Daverio, Philippe 2 occorrenze

Abbiamo letto i loro romanzi e loro ci forniscono importanti pianisti e direttori d’orchestra. L’Occidente ha offerto loro occasioni eccellenti per i commerci e trappole letali per il risparmio. Hanno comprato il Rockefeller Center e pagato poi la parte principale per il conto economico della prima guerra del Golfo. Siamo parenti stretti, nelle università e nelle borse. Il segno della loro calligrafia ha contribuito non poco alla nostra ricerca del gesto nell’astrazione visiva. La concettualità di Gutai ha mutato la nostra concettualità già negli anni Cinquanta. Eppure non sappiamo quasi nulla dello spirito profondo che li anima, e loro ben poco di noi. Dunque il rapporto Giappone-Europa è importante per capire meglio quanto di loro si ritrova nella trasformazione dell’estetica pittorica durante gli ultimi decenni del XIX secolo anche in un momento così particolare come quello che stiamo vivendo, quando dopo un decennio in cui si è creduto in una globalizzazione definitiva ci si è accorti invece, da pochi mesi, che il percorso sarà ben più complesso, che le identità del mondo andranno invece verso un consolidamento utile ai confronti. La crisi mondiale finirà pure per passare e ci troveremo dinnanzi a un panorama sostanzialmente mutato, negli equilibri e nelle prospettive. È tanto più utile prepararsi, informarsi e ricercare.

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«Abbiamo vegliato tutta la notte, i miei amici e io, sotto lampade da moschea con cupole di rame, traforate come la nostra anima, che avevano invece cuori elettrici. E mentre calpestavamo la nostra pigrizia nativa su opulenti tappeti persiani, avevamo portato la discussione agli estremi confini della logica e segnato la carta con scritture dementi».

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L'arte è contemporanea. Ovvero l'arte di vedere l'arte

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Sgarbi, Vittorio 10 occorrenze
  • 2012
  • Grandi Passaggi Bompiani
  • Milano
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Kihlgren, meglio di Beuys, è riuscito a trasformare l’immagine che noi abbiamo del reale, costringendoci a tornare indietro, e avvertire, nelle differenze, una diversa consapevolezza della storia e del tempo. Credo che questi, come gli altri padiglioni, siano stati, tra le mie proposte per la Biennale, passaggi obbligati. Non possiamo pensare che la creatività che la Biennale deve documentare, possa limitarsi a un dipinto o a una fotografia o a una scultura, o a una “installazione”. Dobbiamo immaginare che alcune idee dell’uomo, dal Leoncavallo a Fontanellato a Santo Stefano di Sessanio, vadano intese come esperienze estetiche totali.

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Cioè, oggi abbiamo, a differenza del passato, un mercato che ci propone cose orrende, valutando dei disgraziati come artisti. Però è difficile che un artista vero, serio, non diventi un apprezzato artista. Questo è l’aspetto centrale: il problema non è quando il mercato “fa” l’artista, il problema è quando “tenta di fare” l’artista senza riuscirvi. Ma quando l’artista è un vero artista, sia Guttuso oppure Freud, il mercato non può che attestarlo. Quindi, teniamo fermo questo elemento: non essere preda del mercato ma neanche abolirlo.

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Nel cuore della notte, con lei, ho guardato la televisione e abbiamo visto dei videoclip. Io li apprezzavo. Questa ragazza conosceva i nomi di tutti gli autori di quei videoclip. Sapeva tutto. D’altra parte, se vi capitasse di fare il presidente di commissione della “Pupa e il Secchione”, scoprireste che la ragazza interrogata non è veramente ignorante, perché se le fai vedere una fotografia di Montale non lo riconosce, perché non sa chi è Montale, ma riconosce una canzone di Lenny Kravitz, dalla prima nota, dopo un secondo. Allora, che cos’è la contemporaneità? Propongo a una ragazza di ventitré anni di venire al novantesimo compleanno di Amintore Fanfani, che era fuori servizio da oltre dieci anni, e lei mi dice: “Fanfani chi?” Perché quando lui cessò la sua attività politica, lei aveva dieci anni circa. Ed era già abbastanza agghiacciante vedere che quest’uomo minuto, seduto in poltrona, che rappresentava un mondo, per lei non significava niente. Un’altra volta, ero con una diciannovenne e le dico: “Ti vorrei far vedere questa cosa di Mao Tse-tung.” “Chi?”, ha detto lei. Non sapeva chi era Mao Tse-tung. Che era scomparso pur essendo apparso nei quadri di Andy Warhol, quindi un mito, come Marilyn Monroe dalla sfera di attenzione tanto che una ragazza di diciannove anni ignorava già chi fosse.

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Abbiamo una vita troppo limitata nel tempo per poterci distanziare e cogliere il passaggio da un’epoca all’altra, dal Medioevo al Rinascimento come dal Barocco all’Illuminismo. Ma a Costantinopoli il 1454 non sarà stato molto diverso dal 1449, eppure in mezzo c’è il 1453, ossia la caduta dell’impero Romano d’Oriente. Noi oggi lo studiamo come uno iato nella Storia, ma chi viveva allora avvertiva qualcosa di non immediatamente percepibile nei termini storiografici. È difficile essere coscienti di un passaggio d’epoca. Tutt’al più si può cogliere impercettibilmente (ma concettualmente) un passaggio di millennio. Ed è per questo che nel primo decennio del nuovo millennio ho tentato e tento di vedere quale sia lo stato dell’arte in Italia.

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Non in quanto la morte debba essere di per se stessa un’opera d’arte: in quanto ciò che noi abbiamo visto era una rappresentazione. In tempo reale. Ricordo che, come tanti altri, quando vidi quelle immagini in tv pensai subito che si trattasse di un film, ossia di una rappresentazione. Poi mi resi conto che era la realtà. Noi eravamo a casa nostra, a non più di dieci ore di volo, a mangiare, a bere, a dormire, a far l’amore, a parlare di vicende famigliari, e intanto laggiù ma davanti ai nostri occhi morivano duemilasettecentocinquanta persone. Quella era la realtà, ma noi ne abbiamo visto la rappresentazione, quindi nelle immagini c’era qualcosa di potentemente creativo per noi che in quel momento percepivamo quelle, come vedessimo un film.

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Nel passato, invece, abbiamo cataloghi di artisti straordinari con poche opere: cinquanta, settanta, cento opere. Jan Vermeer, il grande artista olandese, ha eseguito poco più di trentacinque dipinti; Antonello, venticinque o ventisei; Giorgione, circa una dozzina. Ma tra gli artisti del passato ve ne sono anche che hanno lavorato molto, come Tiziano: e infatti hanno avuto un successo più risonante. Ma certamente il “molto” di Tiziano vale per trecento dipinti; e, man mano che ci si avvicina ad artisti come Giorgio Morandi, si vede che il conflitto fra qualità e quantità è vissuto nella volontà di produrre opere che siano ciascuna distinta, precisa e diversa dalle altre, ma anche, in fondo, di realizzare multipli di un modello riconoscibile. Ecco allora le nature morte di Morandi, che esprimono sì una massima varietà di invenzione, ma su un tema che è sempre il medesimo.

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Nell’arte contemporanea, invece, abbiamo la coincidenza fra stile e soggetto: le nature morte di Morandi, le forchette di Capogrossi, i sacchi di Burri, i tagli di Fontana, i manichini di De Chirico. Lo stile dell’autore coincide con il soggetto che egli sceglie per essere riconosciuto, poiché va verso il mercato, che per costituzione è quantitativo, e quello che importa all’artista cioè quello che importa al mercato è che si possa dire: “quello è un De Chirico”, “quello è un Burri”, “quello è un Fontana”.

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“Perché nascondere ai cittadini il fatto che l’arte cosiddetta ‘contemporanea’, questa immagine di marca inventata di sana pianta dal mercato finanziario internazionale, non ha più niente in comune né con tutto quello che fino ad oggi abbiamo chiamato ‘arte’ né con gli autentici artisti viventi, ma non quotati in questa Borsa? Perché mettere sullo stesso piano un artista come François Morellet, che, invitato al Louvre, studia lo spirito del palazzo e lo abbellisce, e un Koons o un Murakami di cui ci vorrebbero far credere che il loro kitsch, trasportato a Versailles, ‘dialoghi’ con lo sfarzo magnificente di Le Brun, Le Nôtre o Lemoyne? [...] La chiave del malessere attuale è il conflitto di interessi velato che ha indebolito, se non proprio annullato, la distinzione classica fra Stato e mercato, fra politica e affari, fra servizio pubblico e interessi privati, fra servitori dello Stato e collaboratori di uomini d’affari. Le considerazioni di estetica, di gusto, di arretratezza e di avanguardia sono soltanto cortine di fumo per dissimulare un’offensiva in piena regola del ‘business dei beni culturali’ (copyright di Salvatore Settis) contro quel poco di buon senso che resta nel pubblico francese e quel poco di senso dello Stato che resta nell’amministrazione e nella classe politica francesi.” Marc Fumaroli, “Le Monde”, 1 ottobre 2010

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Per esempio: come mai abbiamo esposto Hirst al Museo Archeologico di Napoli, triplicando il suo valore di mercato? Che utile ha tratto da questa operazione l’amministrazione pubblica che ne ha sostenuto i costi? È un utile paragonabile a quello che ne ha tratto, senza sborsare un euro, chi gestisce l’artista sul mercato dell’arte contemporanea? O ancora: perché abbiamo esposto Chia al Museo Archeologico di Firenze? Per dargli un’ulteriore legittimazione pubblica attraverso un museo che ne testimonia il valore? Si tratta di artisti viventi, che in quanto viventi hanno un mercato vivo che lavora con loro e per loro. Quindi non si capisce per quale motivo debbano fare mostre pagate dallo Stato in maniera che chi li amministra possa vendere le loro opere al triplo del valore che avevano prima. Cosa facciamo, l’elemosina ai ricchi? Viventi per viventi, è più utile che lo Stato assista artisti che hanno un mercato milionario e spesso drogato o sconosciuti che hanno valore nell’arte ma ai quali viene negato il valore decisivo della visibilità?

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Se invece consideriamo una scultura di Fidia o un capolavoro di Canova - oppure, più in generale, un’opera classica o neoclassica abbiamo la sensazione di un pulsare della carne che viene congelato nel marmo, sentiamo la passione della carne in composizioni “finite”, in cui emozione e ragione stanno insieme, e in cui la ragione finale del disegno riesce a stringere l’emozione dell’artista in una forma chiusa e compiuta.

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