Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267771
Dorfles, Gillo 30 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Certo Bacon non costituisce un esempio di “nuova figurazione" nel senso che abbiamo inteso dare a questo termine, anzi a questa tendenza; la sua pittura, di netta derivazione espressionista, si apparenta a quella di altri artisti nordici, ancora legati al periodo tra le due guerre, — da Munch a Ensor, da Dix a Schrimpf — e per questo esula, in certo senso, dalle intenzioni di questo volume. Ciò che contraddistingue tuttavia, l'arte del maestro inglese, è l’atmosfera sadico-surreale, in cui bagnano le sue figure, contorte, macerate, spesso quasi medusiache, e cariche di fermenti che, senza dubbio, valsero ad alimentare tutto un filone di certa arte della deformazione e della degenerazione cui abbiamo dianzi accennato e che, per un altro verso si riallaccia a certi cicli figurativi di de Kooning (le sue "Donne”), e dello stesso Dubuffet (Corps de Dames). Ma, mentre in Dubuffet la figuralità deformata è basata sempre su un rinnovamento della tecnica pittorica e su un rifiuto degli schemi tradizionali, in Bacon la continuità con la pittura precedente è ancora ben evidente e non permette di considerarlo come antesignano di nuove tendenze creative.

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Lebel, il tedesco Daniel Spoerri, l’austriaco Curt Stenwert, e, tra gli italiani che più o meno furono contagiati dal verbo pop, Enrico Baj, cui abbiamo già accennato, e alcuni romani come Franco Angeli, Eliseo Mattiacci, Giosetta Fioroni, Tano Festa, Mario Schifano e il torinese Piero Gilardi, e tra gli spagnoli José Guinovart e Rafael Casamada, e in parte Juan Genovés e Juana Francés e, tra i polacchi, J. Szàjna e Hasior.

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Se vogliamo esaminare almeno imo di questi artisti un po’ più da presso, ritengo che Rauschenberg possa forse costituire una delle migliori pietre di paragone da contrapporre agli artisti esaminati finora nell'ambito delle precedenti correnti pittoriche, anche perché in certo qual modo è ancora molto legato — come abbiamo detto — ai modi della pittura tradizionalmente intesa. In questo caso si può infatti ben ragionare d’una esperienza autentica e significativa, tra le più significative della stagione pop; un’esperienza che si vale d’un processo che chiamerei di “captazione del mondo esterno." L’artista americano ha avvertito — come molti degli altri citati — l’urgenza di far vivere una franche de vie fissandola nei suoi dipinti; e di farla vivere in una precisa situazione esistenziale, esposta com’è allo sgretolamento dell'esistenza, al rapido dilapidamento dovuto al tempo. Quest’opera di fissazione che isola e immobilizza alcuni elementi prescelti a “durare” è alla base di quasi tutte le sue creazioni. E questo significa: isolare una situazione oggettuale, cristallizzarla, e dare a chi osserva la possibilità di partecipare alla vicenda d’un "evento ludico,” d’una creazione che è anche un gioco, d’una contemplazione che è anche un messaggio.

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La scultura nell’ultimo ventennio ha seguito da presso gli indirizzi dell’arte sorella o li ha preceduti; non possiamo certo affermare di trovarci di fronte ad ima netta discrepanza tra gli indirizzi delle due arti, anzi, come avremo agio di constatare, gli stessi confini tra di esse sono ormai cosi sfumati da non permettere più una distinzione netta tra le due forme espressive; per cui, se abbiamo dedicato un capitoletto espressamente alla scultura, l’abbiamo fatto più che altro per ragioni di comodo, ben sapendo di essere in torto. Occorre infatti riconoscere che il più delle volte si è avuto un confluire di un’arte nel territorio dell’altra; tanto che in molti re centi trattati (si veda, ad esempio, quelli di Kultermann: Nuove dimensioni della scultura e Nuove forme della pittura, Feltrinelli, 1967 e 1969), si parla di scultura nell'ambito della pittura e viceversa.

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Sicché, mentre, da un lato, abbiamo ancor oggi il perdurare di certo astrattismo, geometrico, o "pieno," d’una plastica compatta e ancora nettamente derivata dalla statuaria ottocentesca (ed è quella di Brancusi, di Boccioni, di Arp, di Laurens: i grandissimi nomi del principio del secolo, iniziatori della scultura moderna, ma non però sovvertitori delle regole auree imperanti nella tecnica di quest’arte), dall'altro abbiamo avuto il prorompere d’una nuova plastica dove domina il vuoto sul pieno, dove lo spazio interno ha soppiantato per importanza quello esterno, dove il materiale grezzo e rozzo, o quello polito e industrializzato, hanno preso il posto della venatura marmorea, della patina bronzea.

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Per non discorrere di tutto quanto il settore della pop art, che, come abbiamo visto, è il più delle volte infarcita di elementi tridimensionali che integrano magari un "normale” dipinto.

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Allo stesso modo di come abbiamo potuto constatare una ripresa di modi costruttivisti e concretisti in alcuni pittori di oggi fautori d’ima pittura che potremmo definire strutturalista, così anche nella scultura non sono del tutto spenti i ricordi dell’epoca che vide i primi tentativi di portare, anche nel regno delle tre dimensioni, quel rigore compositivo che era stato immesso nell’arte bidimensionale. Perciò le antiche "costruzioni” di un Tatlin, d’un Moholy, di un Pevsner e d'unGabo ebbero i loro continuatori (e non si dimentichi come nell’immediato dopoguerra alcune grandi costruzioni plastiche inserite nell’architettura, come l’immenso plastico metallico di Naum Gabo sul Bijnkorf di Amsterdam o come quello della Hepworth dinanzi alla Staten House di Londra, o quello di Arp all’università di Caracas, appartengono appunto a questa categoria). Tra i continuatori di un formalismo concretista più o meno rigoroso e spesso basato su programmazioni algebriche bisogna ricordare lo svizzero Max Bill, uno dei maggiori propugnatori d’un’arte razionale e architettonicamente concepita, d’un’arte dove la rispondenza tra architettura, scultura e disegno industriale fosse rispettata e incoraggiata. Accanto a Bill si possono ricordare la scultrice brasiliana Mary Vieira, l’altro svizzero, Aeschbacher, gli argentini Girola, Hlito, gli inglesi Mary e Kenneth Martin (autore quest’ultimo di alcuni interessanti mobiles a vite); gli italiani Munari e Mari (che abbiamo già trovati tra i "cinetisti”). Una posizione del tutto particolare è quella dello scultore italiano Fausto Melotti (1900), che dopo un precoce inizio costruttivista negli anni Trenta, (quando fece parte del gruppo astrattista lombardo) e dopo una lunga parentesi di inattività creativa o di eclissi ufficiale, è riapparso alla ribalta dell’arte italiana con una vasta e fantasiosa produzione plastica dove le opere astratto-geometriche si alternano a quelle basate sopra una figuratività allusiva e magica che le distingue nettamente dalla produzione plastica corrente e le pone in primo piano tra i più originali rappresentanti d’una scultura simbolica e allegorica.

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Abbiamo visto cosi gli scultori far ricorso a materiali un tempo ignoti (plexiglas, materie plastiche), (Marotta, Ed Sommer, La Pietra, Gilardi) o a commistioni di piombo e stagno (Arnaldo Pomodoro), ai chiodi rugginosi che rivestono una “anima” centrale costituita da vetrini sovrapposti (Duŝan Džamonja), all’inserzione di cristalli colorati, quasi occhi inseriti entro la trama metallica (Lynn Chadwick), a spaghi e funicelle tese a limitare e segmentare il vuoto dello spazio — divenuto esso stesso “materiale da costruzione” (Hepworth, Moore), a sottili incastellature di fili metallici (Lassaw) o addirittura a tralicci filiformi come gabbie (Lippold), e persino a legni combusti (come quelli di Consagra) o a materiali “poveri” come nelle ultime opere di Mino Trafeli.

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.; in altre parole di tenere conto di altre “sensibilità’’ oltre di quella visiva e tattile che possono colpire il pubblico e sollecitarne l’attenzione; e ne abbiamo avuto degli esempi significativi in molte opere “povere” di artisti italiani (le costruzioni slivellate di Anselmo, il ghiaccio colorato chimicamente di Zorio; i tralicci e gli igloo di Merz); o in quelli di altri artisti come il cecoslovacco Kolibal (coi suoi recipienti “poveri” e gessosi); gli americani Richard Serra, Robert Morris; le costruzioni di Bruce Nauman, di LeWitt, ecc. che nominiamo qui, in questo capitolo dedicato alla scultura, ma che in realtà rientrano in un discorso che non riguarda più questa specifica forma espressiva ma quelle operazioni “concettuali,” di cui parleremo più oltre.

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Partito da posizioni ancora legate alla pop art (o almeno all’utilizzazione di oggetti in parte presi di peso dal loro abituale contesto e immessi in un nuovo ambiente, con quel tipico fattore decontestualizzante che abbiamo potuto osservare in molti artisti pop: briglie, selle di cavallo...) Serra si venne sempre più avvicinando a un genere dove l’aspetto dimesso, efìacé, quasi occasionale del medium usato, contrastava con l’efficacia plastica ed esistenziale dello stesso.

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Ma sarebbe errato e ingiusto non tener conto di alcune operazioni precedenti le famose Tre seggiole di Kosuth (1965), e che in parte si riallacciano a quelle di artisti ancora legati alla pop art come Rauscheilberg, Jim Dine, in parte a quelli del gruppo dei Concerti Fluxus (di cui diremo più oltre), e a musicisti del tipo di Cage, Paik e dell’italiano Giuseppe Chiari ai quali, ovviamente va aggiunto il folto gruppo dei "minimalisti,” ossia dei seguaci della "minimal art” di cui già abbiamo detto.

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Purtroppo i dati negativi del fenomeno non sono pochi e li abbiamo già segnalati a proposito degli esibizionismi sado-masochistici e delle operazioni linguistiche fine a se stesse. Altrettanto si può dire circa molte manifestazioni pseudo-scientifiche, cibernetiche, filosofiche, che, in definitiva, rivelano un’estrema povertà di competenza e di originalità e rimangono ad un livello quanto mai superficiale e spurio, mentre sono avallate soltanto dall'abilità commerciale di alcuni mercanti.

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Sconfitta la falsa atmosfera "bohème” degli studi gelati, con le modelle intirizzite; o degli attici surriscaldati con gli oggetti trovati kitsch, molti di questi artisti — come il gruppo lubianese degli OHO, come alcuni ungheresi isolati, e come, quasi certamente, altrettanti operatori russi, cinesi, sudamericani, ecc. di cui non abbiamo notizia —, hanno compreso che l’uomo può ancora trarre dalla natura degli ammonimenti e degli incoraggiamenti; tanto più se il suo scopo non è quello di "imitare la natura" né di emularla, o di sopraffarla, ma quello di integrarsi ad essa e di scoprire che gli stessi fenomeni naturali possono costituire degli importanti eventi artistici quando siano isolati, fìssati, decontestualizzati.

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Di Warhol abbiamo già detto nel capitolo della pop art; qui dobbiamo almeno ricordare alcuni dei suoi più famosi film come l'Empire (la ripresa a camera fissa dell’Empire State Building), Vinyl (1964), The Chelsea Girls (1967), The Nude Restaurant, Trash, e oltre a questi i film di Gregory Markopoulos (Galaxy), la famosa Art of Vision di Stan Brakhage, i films-collage di Bruce Conner; e i più recenti video-nastri di Joan Jonas, Bruce Nauman, John Baldessari, Trisha Brown, Andy Mann, ecc., e in Italia quelli di Baruchello (il suo Verifica Incerta del 1965) e il Satellite (1968) di Mario Schifano e moltissimi altri, ad opera di Gianni Emilio Simonetti, di Valentina Berardinone, di Pardi, di Valerio Adami.

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Ritengo che il terreno artistico fosse ormai maturo per l’esplosione di nuovi germogli creativi e questo per una precisa ragione: abbiamo potuto constatare quanta importanza avesse avuto il fenomeno dell’arte povera (dilagato non solo in Italia attraverso l’attività del gruppo torinese, ma anche all’estero, persino nei Paesi dell’Est europeo (Gruppo OHO) e dell’America latina (Gruppo dei Tredici). Se l’arte povera costituiva la dimostrazione d’un rifiuto del “bel materiale,” dell’accurata composizione, quasi in antitesi alle sopravissute retroguardie strutturaliste e concretiste (Gruppo Zero, arte programmata e cinetica), d’altro canto, con la body art e la narrative art, si assisteva — come ho già detto — a uno sconfinare di pittura e scultura verso il teatro, la performance, la documentazione fotografica.

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Prima di chiudere questo capitolo nel quale ho cercato di fissare la situazione dell’arte visiva agli inizi degli anni ottanta, una questione forse si pone: come dobbiamo valutare oggi la presenza e l'attività di tutti quegli artisti che si sono venuti evolvendo durante l’ultimo cinquantennio e che abbiamo man mano passato in rassegna nei precedenti capitoli?

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Il che non significa che alcuni dei nomi che abbiamo fatto nelle prime pagine di questo volume non abbiano più nulla da dire. Se questo è vero per alcuni dei “grandi maestri” sopravvissuti “sino ad oggi” (Ben Nicholson, Miró, Melotti), lo è anche per altri, di questi più giovani, ma la cui maniera è ormai da molti decenni “consolidata” sopra un “basso continuo” che non può, e probabilmente non deve, mutare. E potrei citare altri importanti nomi come quelli di Burri, Pasmore, Matta, Vedova, Santomaso, Dorazio, ma anche Bill, Tapies, De Kooning, Vieira da Silva, ecc. ecc.

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Abbiamo assistito, oltre alla costante affermazione degli artisti più noti, a quella di alcune nuove personalità, che si sono venute imponendo nell'ultimo decennio; e tra le quali vorrei almeno rammentare, in Italia: Mauro Staccioli, Italo Antico, Riccardo Camoni, Igino Legnaghi, Pietro Coletta, Igino Balderi, mentre, a cavallo tra pittura e scultura — e forse più prossime alle cosiddette “primary structures,” alle strutture primarie, minimaliste, alle quali già accennai in precedenza — si possono considerare le opere di altri artisti come Bonalumi, Aricò, Pardi, Uncini, Del Pezzo, Pistoletto, Zorio, Carrino, Marco Bagnoli.

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Anche se è sempre un’impresa assai ardua sintetizzare lo svolgersi di un’operazione che abbiamo ancora sotto gli occhi e di cui ci manca ogni prospettiva storica, ritengo tuttavia, che, per grandi linee, si possa riuscire a evidenziare quale sia il panorama che si è presentato ai nostri sguardi in questo burrascoso e al tempo stesso statico periodo.

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Ma cerchiamo di analizzare un po’ più partitamente i quattro raggruppamenti cui abbiamo accennato.

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Si può affermare dunque che soltanto negli ultimi tempi abbiamo assistito a un farsi preminente della materia come ragion prima, o addirittura come ragione unica d’un dipinto (o d’una statua). Ne è un'indiretta prova l’uso dell’aggettivo matèrico a indicare un genere d’arte che proprio dell’importanza conferita alla materia fa il suo primo privilegio.

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Non so a chi si possa far risalire l’inizio della pittura materica; anche perché molto spesso gli artisti che se ne valsero sfociarono in breve, o contemporaneamente, entro altri settori che abbiamo già esaminato: cosi dicasi per il "materismo" d’un Pollock in cui l’aspetto informale divenne tosto più rilevante, o per il materismo del gruppo Cobra, di cui diremo a proposito delle nuove esplosioni espressioniste-astrattiste. Certo i primi esempi di questo nuovo peso dato alla materia si trovano già in certi lavori dei primi surrealisti e addirittura dei dadaisti. Molte opere dada — specie quelle che si valevano del collage dell’oggetto trovato, o i Merzbilder di Schwitters — sono da ascriversi a questo settore come lo sono alcune opere del secondo futurismo e in primo luogo i dipinti "polimaterici" di Prampolini.

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Certo, su alcuni di questi pittori (Gottlieb, Pollock, Stili e Rothko, di cui abbiamo trattato altrove) ebbe una certa influenza l’opera di artisti della precedente generazione americana come Marin e Dove, poco noti in Europa ma abbastanza importanti oltre oceano.

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In Newman abbiamo la consapevolezza d'un’indagine spaziale e proporzionale perseguita attraverso un estremo rigore e una assoluta povertà cromatica e essenzialità compositiva. Il colore di Newman infatti non è "piacevole” come quello di Rothko, e neppure "assoluto" come quello di Reinhardt; la presenza frequente di superfici monocrome contrapposte a bande più ristrette d'un altro colore, non scelto per la sua “complementarità” o comunque per la sua “assonanza,” ma anzi per ottenere un effetto spesso stridente, e “difficile,” Frank Stella, Ophir, 1971 denuncia la sua ricerca di fare del dipinto un "oggetto da meditare” e non solo un oggetto piacevole da assaporare.

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Fu forse in quel periodo che l’opera di Fontana si accostò maggiormente Lucio Fontana, Disegno a quella di Rothko, mentre nei due o tre anni precedenti aveva, in certo senso, precorso quella d'un altro artista che abbiamo già considerato: Antonio Tapies. Infatti, prima di "scoprire”, il sistema di spazializzare la tela mediante il foro e il taglio, Fontana si era servito di modulazioni materiche, di superfici incrostate di frammenti eterocliti, e anche di superfici nere e opache.

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Il conflitto tra concretismo (o astrazione geometrica) e astrattismo non geometrico (detto anche in Francia abstraction lyrique e che come abbiamo visto si venne suddividendo negli svariati movimenti dell’informale, dell’Action Painting, della pittura segnica e materica), doveva esplodere in tutta la sua violenza soltanto negli anni Cinquanta. Infatti nel periodo tre le due guerre il "fronte astratto" aveva ogni interesse a mantenersi compatto contro lo strapotere della pittura figurativa; e invero una sorta di fratellanza di tutti gli artisti "non figurativi" era ancora evidente : ciò che allora contava era il fatto di dar vita a delle opere che non fossero naturalistiche e non avessero riferimento con la realtà del mondo esterno; e questo può spiegare l'associazione di personalità assai lontane tra di loro come un Poliakoff e un Magnelli, o l’inclusione nel gruppo dei "geometrizzanti” francesi di artisti rigorosi e lineari come Pillet e Herbin e d’altri assai più "liberi” come Dewasne, o Lanskoy. In un secondo tempo invece la scissione si fece netta e drammatica: sarebbe inconcepibile rinvenire una qualche affinità tra la pittura segnica e lirica d’un Mathieu e quella rigida e frigida d’un Vasarely.

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Si trattava, come abbiamo già anticipato, d'una ripresa di certi tentativi cari ai neoplasticisti e ai concretisti, ma condotti con maggior coerenza e con minor rigorismo dogmatico. Alcuni gruppi come quelli tedeschi della Stringenz e del Gruppo Zero, quello svizzero della Kalte Kunst, quello italiano Gruppo N, e Gruppo T, quello jugoslavo delle Nove Tendencije, hanno riproposto degli esperimenti che non si distaccano gran che da quelli dei concretisti d’una ventina d’anni prima. La rigidità compositiva, la ricérca di colori esclusivamente timbrici, hanno lasciato il posto a quelle che potremmo chiamare ricerche di "gradienti strutturali” (texture gradients secondo la definizione di Gibson), ossia il tentativo — approssimativo ma evidentemente legato a più esatte e rigorose ricerche percettive — di riuscire ad ottenere, attraverso trame strutturali diverse, degli effetti che sono di carattere piuttosto psicologico che estetico.

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Mentre, oltretutto, il primo impulso alla produzione di opere moltiplicate era stato determinato, come abbiamo visto, dalle opere op e cinetiche, ben presto l’adozione del multiplo avvenne anche da parte di ogni altro genere artistico; di modo che si ebbero multipli cinetici, op (Cruz-Diez, Soto, Vasarely, Colombo, Alviani, Carmi, ecc.), pop (Rauschenberg, Lichtenstein, Oldenburg. Tilson, Baj), e persino concettuali e “poveri” (Fulton, Barry, Pistoletto), alcuni di livello artistico notevole, altri invece decisamente deteriori.

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È questa stessa impronta che appare ancor più evidente nelle curiose, spesso grottesche figurazioni di Asger Jorn e in quelle più raffinate, più leggiadre e più influenzate da ricordi surreali di Alechinsky, di cui abbiamo già detto a proposito degli influssi orientali subiti dall’arte europea. Quanto a Corneille, le sue opere si staccano molto più nettamente da ogni memoria espressionista e acquistano ima particolare pregnanza per la strutturazione assai ricca della materia cromatica che si sposa con la autonoma individualità di forme in divenire, spesso cariche d’una indefinibile ma quanto mai suasiva componente simbolica.

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La pittura di De Staël è, in definitiva, una pittura che segue delle tracce ben note e già individuate e che potremo paragonare — tanto per azzardare alcuni nomi — a quella di Vuillard, di Bonnard, di Marquet, di Bryen e a quelle di tutta una serie di artisti francesi coevi, che non abbiamo preso in considerazione in questo volume, (come: Estève, Jean Bazaine, Lapique, Poliakoff, Jean Le Moal, Bram van Velde, Roger Bissière) appunto perché troppo scarso è il loro apporto alla creazione d’un nuovo linguaggio visuale.

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