Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbiamo

Numero di risultati: 43 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Il divenire della critica

251792
Dorfles, Gillo 43 occorrenze

Solo nell’ultimissima stagione della sua opera (quando, in seguito alla malattia Fontana preferiva non affaticarsi a dipingere) abbiamo una serie di opere dove i fori o i tagli sono eseguiti in maniera meccanica sopra lamine metalliche o lignee realizzate quasi industrialmente.

Pagina 107

Tutte le opere di cui abbiamo discorso sino ad ora furono battezzate da Fontana col generico nome di «concetti spaziali», titolo che doveva rimanere sino alle opere estreme l’unica sua indicazione e descrizione dell’opera eseguita. Le poche eccezioni a questa regola sono costituite dalle «Ova» (pure queste tuttavia definite di solito come «concetti spaziali» o «attese spaziali») e dalla serie di composizioni plastiche denominate talvolta «nature». Si tratta di massicce sculture che l’artista creò attorno agli anni sessanta (più precisamente nel 1959) composte di grossi grumi di creta, appena sbozzati, e nei quali l’artista inseriva un profondo squarcio, l’equivalente plastico dei suoi tagli. La sensazione d’una corposità quasi carnale di queste sculture viene ad essere bilanciata dalla estrema «castità» e semplicità del materiale usato: una creta rude e persino grossolana lasciata spesso nel suo colore naturale. Si tratta d’un genere di «scultura» quanto mai «antistatuaria» che viene a preludere, in certo senso, quelle opere di «arte povera» che solo negli ultimi anni si sono fatte più frequenti nel panorama dell’arte occidentale, proprio a controbilanciare una eccessiva ricerca di raffinatezza della materia dovuta all’uso dei nuovi materiali plastici e metallici.

Pagina 107

Ecco, si è già giunti - credo lo si possa affermare - ad una saturazione della scultura creata con residui tecnologici, con i rifiuti di macchine e residuati metallici, che aveva costituito una fase immediatamente precedente a quella che ora abbiamo esaminato. Alcune delle prime opere di Jacobsen, il manubrio di Picasso, e a questa stessa mostra le pur solenni sculture di David Smith, di Calder, di Stankiewicz, e quella di Colla (che avrebbe potuto avere un molto maggior spicco se presente con un’opera più impegnativa), di Hoflehner, di Robert Müller (persino di Caro, nonostante la brillante vernice arancione che la ricopre), di Di Suvero, appaiono meno attuali e più remote di quelle costruite secondo criteri più decisamente industriali.

Pagina 126

E ne sono una prova la scarsa efficacia del Rotozaza di Tinguely, tanto di quello esposto al Guggenheim che di quello che abbiamo visto in azione (in un’altra versione, decapitante bottiglie di birra con immenso fracasso e copiosi spruzzi schiumosi sugli astanti, al congresso «Vision 67», che si svolgeva a New York negli stessi giorni).

Pagina 127

E, forse, un analogo declino (e per ragioni abbastanza simili la loro immissione e assunzione in campo commerciale) attende alcune opere della scultura pop, di cui a questa mostra abbiamo solo gli esempi di Segal e di Oldenburg, di Trova e in parte di Chamberlain (che era più fantasioso nelle sue carrozzerie di automobili pressate che in questa opera costruita con elementi di poliuretano legato e ritagliato). Presenze insufficienti, dunque, per consentire un giudizio complessivo sulla situazione attuale in questo settore, ma comunque assai spaesate in mezzo alle frigide strutture primarie, e alle massicce costruzioni metalliche.

Pagina 128

Solo quest’ultimo mi sembra meritare un discorso a parte: ecco un artista che certamente non rientra nei consueti schemi che abbiamo tracciato e che sembra ancorato ad una figuratività ad un tempo truculenta e metaforica. Eppure la sua violenza demistificatoria e la sua macchinosa (o macchinistica) scomposizione della figura umana, ne fanno una delle personalità certo più singolari dell’ultima stagione plastica europea.

Pagina 131

Abbiamo avuto in Italia esperienze del genere già molti anni addietro, già al tempo del Mac lombardo, con i suoi addentellati in altre regioni. E vorrei ricordare opere di tipo «oggettuale» e primario create alcuni lustri or sono da artisti come Franchina, Barisani, Munari, Marotta, e molti altri.

Pagina 134

Si passa, inoltre, dall’oggettualità tipica delle grandi strutture primarie americane (di un Morris, di un Judd, di uno Smith) o a quelle inglesi (di un King, di un Caro, di un Tucker), a quelle di strutture minime, realizzate in serie come alcuni dei numerosi «multipli» che abbiamo potuto osservare di recente anche in Italia. Proprio nel presentare questi multipli scrivevo: «oggi, in un momento che vede declinare l’interesse per il quadro da cavalletto e per la "statua”, l’oggetto "inutile” ma esteticamente stimolante acquista un inatteso vigore». Infatti, molti di questi oggetti (come quelli ideati da Scheggi, Castellani, Alviani, Carmi, Bill, Soto, Del Pezzo, Vasarely, per non citare che i più interessanti), pur nel loro piccolo formato, erano in grado di offrire delle caratteristiche stilistiche e tecniche pari a quelle di opere assai più importanti per mole e impegno. Quello che vale per questi oggetti di serie è la loro precisa ricerca d’una esecuzione perfetta, senza sbavature, senza o con ridotta prestazione artigianale e dove l’aspetto oggettuale sia evidente al punto da riescire a creare un trait d’union con il vero e proprio oggetto dì serie prodotto industrialmente. Un esempio di connubio dei due aspetti si ha, ad esempio nella produzione appena iniziata di alcuni oggetti in piccola serie su disegno di artisti ben noti. Interessanti tra questi oggetti una porta di Fontana e una di Castellani nonché un tavolino di Franco Angeli, tutte in materie plastiche che costituiscono un punto di passaggio tra l’opera unica quale era sin qui concepita e l’oggetto di serie creato attraverso l’intervento dell’industria.

Pagina 134

Gli artisti che abbiamo nominato (e potrei citare ancora Innocenti e Marotta, in una mostra tutta basata sul contrappunto di «naturale-artificiale»: oggetti in materie plastiche che, nella loro sagoma, arieggiano elementi della natura: alberi, nuvole) mirano alla creazione di elementi fattualmente presenti come Sachen selbst, come cose in sé, cariche di quella cosalità - di quella choseité - che non consente trasferimenti affidati all’equivoco del colore imitativo.

Pagina 137

Ma, accanto a questa «poesia visuale» (alla quale ho voluto accennare più che per il suo valore «pittorico» per la sua importanza culturale e sociale) abbiamo assistito negli ultimi tempi ad una vasta fioritura di opere plastiche (pitture e sculture) direttamente o indirettamente influenzate da un analogo tendere verso l’estrinsecazione d’un elemento «narrativo-letterario»: il «racconto per immagini», quel racconto che l’arte d’oggi non può più esprimere attraverso le viete figurazioni naturalistiche (e neppure attraverso quelle d’uno stantio surrealismo), viene ora riproposto attraverso elementi traslati (spesso dei collages polivalenti) dove l’ambiguità iconica - l’ambiguità dell’immagine - si accompagna ad una ambiguità semantica, ad un’ambiguità dei «significati concettuali» espressi dalle parole. Vediamo, in tal modo, rendersi effettiva ed efficiente quell’ambiguità artistica, già preconizzata da tanti studiosi e filosofi moderni (Empson) e ora - consapevolmente o meno - applicata dagli artisti alle loro poesie o alle loro pitture.

Pagina 153

Se nelle opere pittoriche che abbiamo sin qui esaminato il problema del «racconto» è reso più evidente e sviluppato con maggior efficacia anche in seguito all’inclusione di elementi scritti e di parole, tuttavia anche alcune opere plastiche rispondono ad analoghi intenti e meritano a mio avviso di rientrare nella categoria che questa volta ho cercato di illustrare. Ho ricordato altrove l’importante opera di Ceroli, uno degli scultori più vivi dell’ultima generazione romana che - con una sua tecnica molto personale - ci ha dato delle ampie composizioni basate sull’impiego di silhouettes di legno grezzo. Con queste sagome egli riesce a «raccontare» vicende le più varie, che vanno dalla rappresentazione dell’Ultima cena a quella d’un ballo moderno (Piper), dalla scalinata, a una recente rappresentazione della rivoluzione cinese, ecc.

Pagina 155

È ancora troppo presto per giudicare quanto valore e quale durata possano avere gli esperimenti plastici e pittorici che abbiamo cercato di illustrare; una cosa tuttavia mi sembra già sicura: la necessità provata in questi ultimi tempi da molte forme artistiche in molti paesi del mondo di giungere ad un processo di integrazione e di interrelazione così da permettere alle singole arti di attivarsi a vicenda e di ritrovare una maggior possibilità di essere apprezzate ed intese da strati sempre più vasti di pubblico.

Pagina 156

Cosa abbiamo potuto constatare quest’anno attraverso la visita delle grandi rassegne internazionali come la Biennale e Dokumenta? A parte i settori marginali, e decisamente reazionari (vedi padiglione americano a Venezia), o quelli di paesi nettamente sottosviluppati artisticamente ed economicamente, buona parte delle opere presentate dalle nazioni di primo piano nel settore artistico occidentale apparivano realizzate non in seguito ad autentici impulsi formativi, ma per una evidente volontà d’adeguarsi a schemi preformati, quasi sempre mercantilistici o riconducibili a possibili utilizzazioni mercantili e dunque - come si suol dire - «mercificanti».

Pagina 158

Una delle circostanze che differenziano nettamente, ai nostri giorni, l’opera dell’artista «ufficialmente riconosciuto», stipendiato dal mercante, ospitato dal museo (naturalmente questo non vale in maniera assoluta e per le fasi pittoriche che precedettero l’attuale, ma soltanto per quell’indirizzo che abbiamo indicato come quello delle strutture primarie e della minimal art) da quello che vive lontano dai grandi centri artistici e che ancora si sforza di produrre un’opera artigianalmente e coi suoi modesti mezzi, sta appunto nell’ineluttabile dipendenza dell’operare visivo del momento attuale da metodi industrializzati e da quelle possibilità economiche senza le quali tali metodi sarebbero inimmaginabili.

Pagina 168

Il passaggio, poi, di molti grandi artisti europei negli Usa durante la prima guerra mondiale costituì un secondo apporto (dopo quello di cui abbiamo detto dell’«Armory Show») di potenti influssi europei; e basta por mente ai nomi di un Max Ernst, di un Albers, di un Duchamp, e anche di alcuni architetti come Gropius, Mies, Mendelsohn, Breuer, per avvedersene.

Pagina 198

Se abbiamo considerato Alviani come uno dei migliori rappresentanti d’un certo costruttivismo programmato (che ha avuto altri importanti protagonisti in Gianni Colombo e Enzo Mari), dobbiamo ora prendere in considerazione altri due artisti che - pur appartenendo alla corrente non-figurativa - fanno parte di quel raggruppamento che ebbi, a suo tempo, a definire della «pittura-oggetto», o «pittura oggettuale», perché in loro il dipinto si trasforma sin dal suo sorgere in oggetto a sé stante e non in rappresentazione o in immagine traslata. Castellani e Bonalumi, attivi ormai da un decennio a Milano, ebbero a risentire (assieme al loro amico e collega Piero Manzoni) dell’influsso di Lucio Fontana che fu l’iniziatore della corrente «oggettuale» nella pittura italiana e che per primo sottolineò l’importanza della pittura spaziale e monocroma. Nel caso di Castellani l’oggettualità si è sviluppata in una ricerca sempre più approfondita e severa di rigorose scanditure della superficie del dipinto: attraverso l’uso d’una sua personale tecnica di rilievi multipli si vengono così a creare dei ritmi visivi, a volte prospettici, a volte statici o dinamici, che sono in grado di vitalizzare la superficie del dipinto trasformandola in un oggetto attivatore della spazialità circostante.

Pagina 206

Quello però che nessuna macchina potrà né prevedere né mettere a punto è il «momento estetico» in cui si situano codeste operazioni; lo abbiamo potuto constatare ogni qualvolta ci è stato dato di osservare alcuni dei prodotti della computer art (che ormai sono molto numerosi e sono stati più volte sottoposti al giudizio del pubblico e della critica). Non posso certo elencare i moltissimi artisti che, saltuariamente o sistematicamente si sono valsi dei mezzi elettronici per la creazione o la manipolazione delle loro opere; anche a citare soltanto i più noti, potrei ricordare almeno gli italiani Lecci, Nannucci, Colombo; gli americani Donahue, Harmon, Knowlton e Ashworth; il francese Morellet; il belga Van Naelten; il brasiliano Waldemar Cordeiro (uno dei più entusiasti cultori di questo mezzo, recentemente scomparso); i giapponesi M. Komura, Ishioka, Niwa (insieme col Computer technical group); gli jugoslavi Zoran Radović, V. Bonačić (uno dei più acuti teorici di questa disciplina), e I. Picely ; i tedeschi Beckmann, Koepf, Franken, Mohr, e molti altri; gli argentini Delgado, Polesello, Nougues; i brasiliani Aguirre, Roberto e Cordeiro; il danese Aagard; l’olandese Andriessen; gli spagnoli Yturralba e Camarero (quest’ultimo direttore del Centro de Calculo dell’Università di Madrid, uno dei centri più efficienti e impegnati). Molti di questi artisti erano presenti alla grande mostra «Arteonica» organizzata nel 1971, appunto da W. Cordeiro, a San Paolo, che può essere considerata come un punto d’arrivo per la messa in atto delle diverse tendenze e dei diversi apporti della computer art di tutto il mondo. Ebbene, chi osservi le opere esposte a San Paolo (come quelle che a suo tempo fecero parte della «Cybernetic Serendipity») noterà che una qualche analogia le contraddistingue: quella che potremmo definire un’«aria di famiglia». Pur nella varietà e nella complessità dei tracciati, pur nella perfezione delle composizioni, si nota quasi sempre l’assenza d’un elemento che è di solito caratteristico d’ogni opera d’arte: quell’elemento di disturbo che interviene a modificare, magari a contrastare, il naturale svolgersi d’un’operazione sino a un certo punto impeccabile e senza il quale sembra che l’opera non abbia la possibilità di costituirsi a organismo a sé stante e autonomo. È proprio questo elemento di disturbo, che invano cercheremmo di definire e di identificare (e che potremmo forse, secondo la vecchia definizione di Ruskin, riconoscere in una «perfezione geometrica organicamente trascesa»), a permetterci di trasformare il mero dato scientifico, geometrico, matematico in una entità vivente, dotata di autonomia creativa.

Pagina 229

Opere come i labirinti di Benedit, le manipolazioni del proprio corpo di Schwarzkogler o di Acconci, le orge sado-masochistiche di Nitsch, alcune elucubrazioni «linguistiche» del gruppo inglese di Art-Language, ecc. non hanno il più delle volte nessuna componente estetica e addirittura - come abbiamo detto sin dall’inizio - nessuna incarnazione oggettuale. Sono dei meri enunciati (statements) alle volte densi di significati logici e razionali, altre volte (Wilson) addirittura privi d’ogni significato, asemantici, riconducibili a livello di certi koan dei monaci zen, i quali rivolgevano questionari assurdi o pronunciavano sentenze illogiche al solo scopo di sollecitare nel discepolo una risposta non razionalizzata che adombrasse l’inizio d’uno stato di coscienza e conoscenza superiore (prajnà).

Pagina 236

Abbiamo, pertanto, il duplice aspetto d’una musica-da-non-suonare; e d’una serie di oggetti - non-acustici - da «suonare». I due linguaggi, quello musicale e quello grafico, si accavallano in maniera del tutto diversa da quella utilizzata in molti altri esperimenti di notazione musicale che si compiacciono di fioriture rabescanti costituenti più che altro un «abbellimento» della partitura.

Pagina 241

Tra coloro che fanno ancora spesso ricorso a immagini sussunte dall’universo pittorico (anche se spesso solo per negarle o per deviarne l’interpretazione) Paolini, nella sua Apoteosi di Omero (uno dei tanti suoi curiosi e misteriosi interventi tra realtà e finzione) ci riconduce a quella ambiguità semantica di cui abbiamo già detto, presentando un testo letto e alcune fotografie di attori che interpretano ognuno un diverso personaggio d’un celebre dipinto. Anche in questo caso - tra il teatrale e l’esistenziale - può soccorrere una frase illuminante dello stesso autore: «Finora era il linguaggio in se stesso a presumere l’immagine; ora è l’immagine (presunta) che tende a illustrare l’enigma del linguaggio».

Pagina 244

Abbiamo tutta una vasta attività progettativa - da parte di giovani neolaureati, ma anche di parecchi gruppi già agguerriti (e i nomi sono facili a farsi: dal notissimo Archigram al viennese Hollein, a Yona Friedmann, Vjenceslav Richter; dagli Archizoom ai Superstudio, ai Metamorph, ecc.) - che è rivolta quasi esclusivamente alla creazione di progetti sine objecto, sine materia; e questo non solo per le ben note difficoltà che presenta oggi il settore dell’edilizia, ma anche per una evidente volontà di rimanere a livello progettuale, d’un genere di progettualità non oggettualizzabile. Questa «riduzione al progetto» non va intesa nel senso di una riduzione dell’architettura al design, come tipica forma progettativa; ma anzi può essere seguita anche nel campo del disegno industriale, là dove si scorge, accanto ad un design volto alla creazione dell’oggetto, un altro tipo di design che finisce per ridursi ad un «metadesign» (come del resto era già stato osservato a suo tempo da Van Onck). E, visto che ho citato il caso del metadesign, non sarà inopportuno accennare al fatto che, proprio in questo caso, si può effettivamente constatare la presenza d’una riduzione globale dal linguaggio ad un «metalinguaggio», e dunque d’un insistere sul discorso attorno al linguaggio - come sul discorso attorno alla pittura, alla musica, all’architettura - che viene a neutralizzare, corrompere, o anche attivare alcune situazioni altrimenti cristallizzate.

Pagina 247

Lo stesso ricorso oggi così frequente a schemi semiologici, di cui abbiamo spesso discusso, è una riprova della tendenza al progetto cui sopra accennavo: l’analisi semiotica applicata al fare architettonico e artistico altro non è che il bisogno di chiarire a se stessi l’oscurità semantica del proprio e dell’altrui operare.

Pagina 248

L’arte dunque non può essere scienza (oggi, non ieri quando la «funzione» dell’arte era diversa), proprio per il fatto che nella scienza abbiamo una univocità del rapporto signifiant-signifié. Esiste, cioè, soltanto l’aspetto denotativo e non quello connotativo cosi importante e spesso preminente nelle operazioni letterarie e in genere artistiche. Se togliamo, dunque, questa possibilità di una molteplicità del signifié corrispondente ad un determinato signifiant del segno artistico, togliamo le condizioni necessarie alla realizzazione dell’opera d’arte; e abbiamo delle operazioni pseudoscientifiche che non riesciranno mai a tradursi in artistiche.

Pagina 25

Non credo invece che siano riscattabili le opere - ormai divulgate anche dalle cronache provinciali come abbiamo visto - di un Hermann Nitsch - l’austriaco che, ricoperto di paludamenti sacri, ama compiere i tristi rituali d’un suo «Teatro delle orge e dei misteri», dove agnelli sgozzati e sbudellati servono da «ornamento» agli spettatori-attori, più o meno memori di consimili riti neri alla Buchenwald.

Pagina 253

o non piuttosto ad una «sazietà» che abbiamo sviluppato verso le civiltà da cui proveniamo?

Pagina 30

Abbiamo coltivato ormai - nel succedersi delle generazioni cresciute e formate alla luce della civiltà cristiano-giudaico-ellenica - una carica d’«anticorpi culturali» che provocano in noi una sorta di reazione anafilattica verso tutto quello che ci riporta al nostro passato storico-artistico. Il che ovviamente non avviene nel caso delle civiltà precolombiane; alle quali non abbiamo partecipato (né ci hanno partecipato i nostri antenati) e che si sono svolte in maniera del tutto autonoma. Ecco perché l’inaspettatezza (e quindi la «quantità informativa») che le stesse ci comunicano suscita in noi una sensazione di estrema novità, e solletica le nostre facoltà intellettive, che giacevano assopite per il troppo frequente e intenso commercio con le opere del nostro passato.

Pagina 30

Infatti - per tornare all’incontro con l’arte e l’architettura maya e azteca - c’è un altro fatto che si verifica qui mentre non si verifica nell’incontro con le altre civiltà occidentali che abbiamo ricordate prima; e cioè la presenza d’una componente che non saprei come definire se non «stilistica» che, come dissi, appare molto più vicina e «sympathetica» alla nostra odierna delle altre.

Pagina 30

Ma questa parentesi riguardante il nostro atteggiamento di fronte alle opere d’arte di civiltà lontane dalla nostra e l’efficacia «informativa» delle stesse, si può trasporre, in certo senso, a quanto accade di solito nei contatti che abbiamo con l’arte moderna, quando ci troviamo a fronteggiare un’opera d’avanguardia. Anzi credo sia proprio questa una delle spiegazioni più verosimili per giustificare il perché dell’interesse provato — almeno da una certa parte del pubblico e della critica — per le avanguardie.

Pagina 31

Questo, non solo rimanendo entro quella che di solito consideriamo l’arte artistica: il nuovo signifié d’un’opera considerata come artistica potrà benissimo essere un signifié sociale, psicologico, politico (come nel caso che abbiamo considerato di certa arte sudamericana). Il che vale a suffragare la mia convinzione di come molte opere, prive di un valore estetico, siano definite, catalogate e smerciate come «opere d’arte» soltanto perché rientranti in un circuito economico che le ha proclamate tali mentre altre opere «dall’apparenza estetica», e che non lo sono in realtà, continuano a valersi d’un’etichetta artistica riferita a un periodo ormai trascorso, e che come tali le avalla, mentre non dovrebbe più farlo.

Pagina 32

Ne abbiamo già oggi degli esempi anche se marginali e paradossali: la pittura-scultura infantile, quella dei dementi (entrambe spesso «spontanee» o esercitate con precisi intenti pedagogici e terapeutici) sono forme d’arte del tutto avulse da ogni «valore di scambio», cariche invece di un «valore d’uso». (Anche se, persino su questi onesti e candidi esempi d’un’arte fatta per catartizzare e curare, si son visti lanciarsi gli avvoltoi dell’affarismo consumistico: allestitori di mostre d’arte infantile e di arte demenziale, pronti a «valorizzare» tali opere assurde e perciò allettanti sul mercato artistico). E allora non stupisce che, accanto a tanti esempi di body art, di forme autodeformatrici e autolesionistiche, si siano riesumati degli esempi «storici» come quelli del viennese Messerschmid (1736-83)1 e che nella Documenta 73 di Kassel, accanto alla Selbstdarstellungen dei Ben, dei Nitsch, degli Acconci (essi stessi per buona parte rientranti nella categoria d’un’arte patologica anche se già in partenza mercificata) si siano allestite mostre come quelle degli schizofrenici Adolf Wölfli e H. A. Müller. Si tratta comunque di casi e di esempi marginali, che non tolgono nulla alle previsioni, in parte positive, che ho fatto per quanto riguarda la possibilità futura d’un’arte non soggetta all’esclusiva esca del consumismo, e capace invece di valere da complemento e da completamento al «tempo lavorativo», nonché da stimolo per una diversa utilizzazione di quello che - con espressione quanto mai incauta - è stato definito «tempo libero».

Pagina 38

Oggi che abbiamo dinnanzi agli occhi l’ultima sua produzione e possiamo confrontarla con quella degli anni passati, ci sembra di poter concludere con l’affermazione che, di tutti gli artisti italiani, succeduti al periodo futurista e metafisico, Fontana è l’unico che ha saputo dare un apporto veramente autonomo e nel suo genere inconfondibile alla nostra arte visuale. Gli altri artisti italiani - quali appaiono anche da questa esposizione - furono o dei postcubisti e postfuturisti (come il compianto Prampolini di cui è stata ordinata una mostra postuma), o dei neoplasticisti di più o meno stretta osservanza (ed è il caso del recentemente scomparso Rho, di Radice, di Bordoni, pure rappresentati qui con vaste e dignitose pareti). Anche un artista, da noi spesso lodato, come Burri - che certo seppe creare un «genere» nuovo e che forse ci riserverà altre sorprese - in questa edizione non riesce a convincere: la sua combustione è troppo «ben eseguita» e ordinata, e manca anche alle altre due opere quel gusto impeccabile e quel felice incontro di dati tattili e cromatici che costituiva il suo maggior pregio. Quanto ai nuovi «informali» nostrani nessuno raggiunge quella libertà esplosiva e al tempo stesso giocosa dell’ormai anziano Fontana.

Pagina 45

È un’osservazione che abbiamo sentito muovere da molti di fronte a queste ampie e sensibilissime tele, a questi veri «orizzonti ritrovati» dello spagnolo. Il compiacimento, così evidente e scoperto, in un medium insolito, che, valendosi di stratificazioni, anfrattuosità, grafiti, permette una ricca modulazione tridimensionale, può far pensare di primo acchito a una eccessiva volontà di «rifare la natura», non più attraverso il mimetismo illusionista del trompe-l’œil, o il minuzioso e vacuo verismo di certi pedanti illustratori, ma attraverso la artificiosa e artificiale riproduzione di quelle superfici rugose, granulose, corrose, maculate, marezzate, ispessite, scalfite, di certi antichi muri, di certe crete campestri, di certi selciati rustici. Ecco, allora, che dalla più assoluta astrattezza della tela vuota e monocroma (o acromatica) (e ne abbiamo un esempio in una tela tutta nera e in una soltanto grigia e porosa come una superficie di pomice) si passerebbe ad un’assoluta riproduzione - anzi ricostruzione d’una realtà fenomenica, non più «finta», ma addirittura riprodotta, ricostruita con l’uso di materiali che si trovano in natura quasi identicamente usati. È questo fatto che fa guardare a molti con sospetto i dipinti di Tapies. Ma a torto: infatti questo trarre dalla natura delle suggestioni, che chiameremmo «tattili» (di rugosità, di porosità, di grana), è semmai una riprova dell’«umanità» di questo genere di astrazione, della sempre viva e presente lezione della natura, che può suggerire e ispirare attraverso nuove immagini, anche se non più secondo i canoni d’una pedissequa riproduzione illustrativa del vero, o secondo l’applicazione di leggi ormai desuete d’una prospettiva geometrica la cui funzione sarebbe, in questo caso, del tutto superflua.

Pagina 46

Più viva e più convincente è la seconda corrente di cui abbiamo alcuni buoni esempi nelle opere di Canogar, Saura, Suarez, Vela, Tapies e in parte Millares.

Pagina 47

In Germania del pari abbiamo l’esempio d’un predominio dell’astrattismo drammatico nei dipinti di Thieler, di Cavael, di Wessel, e potremo considerare come «lirico» l’astrattismo di Schumacher.

Pagina 47

Qui dunque abbiamo l’applicazione e il trasferimento, diretto e quanto mai suggestivo, di alcuni casuali accorgimenti naturali, sapientemente ripresi e restituiti ad una loro funzione figurale.

Pagina 47

Mark Rothko, dunque - questa figura solitaria, sino ad alcuni anni or sono noto solo a pochissimi e solo al di là dell’Atlantico —, appare qui come l’unico esempio d’un indirizzo diverso da tutti gli altri di cui abbiamo parlato.

Pagina 48

Abbiamo il forte sospetto che si trattasse allora di semplici paesaggi più o meno incerti la cui leggibilità non era altrimenti problematica di quella d’un Turner cent’anni prima o d’un certo Monet dell’ultima stagione delle ninfee.

Pagina 56

Ma, se l’informalismo è dilagato ormai in Europa ed altrove (e a questa Biennale ne abbiamo molti esempi deteriori, come - per l’Italia - quello di un Chighine, di un Sadun, dello stesso Moreni, e di tutta una schiera di spagnoli, tra cui posso nominare almeno Juana Frances, Lucio Muñoz, Tharrats, Viola, molti dei quali si compiacciono solo in un abile ma troppo superficiale gioco «materico»), c’è un’altra tendenza che mi pare di dover ricordare e che si può identificare nelle opere di due artisti qui presenti: l’italiano Dorazio e l’inglese Pasmore.

Pagina 57

(E di questa corrente abbiamo alla Biennale uno dei più audaci pionieri: Kurt Schwitters, i cui collages e i cui Merzbilder ancor oggi offrono un’espressione di impressionante, premonitoria creatività).

Pagina 59

Sappiamo bene quanti influssi le correnti dello zenismo — più o meno mal inteso - abbiamo avuto sulla pittura d’Occidente (basterebbe pensare a un Tobey, a un Kline, di cui il padiglione americano presenta l’importante opera, assieme a quella del venerando Hoffmann e del raffinatissimo Guston). Nei gesti monumentali di Kline, in quelli più dispersi e frenetici di Vedova, in quelli più composti ed ermetici di Hartung, vive l’estrema volontà di dar vita ad una nuova - o resuscitata? - scrittura asemantica e, se la giustificazione di codesti segni «privi di significato» non è equiparabile a quella degli antichi e gloriosi cifrari estremorientali, possiamo tuttavia comprendere come sia più facile e immediata l’espressione attraverso di essi che attraverso le statiche figurazioni naturalistiche d’un’età ormai trascorsa.

Pagina 60

Negli ultimi anni la pittura e la scultura del mondo (ormai il discorso non può più riguardare una singola nazione) sono state soggette ad alcune significative modificazioni: abbiamo potuto constatare l’esattezza delle nostre - del resto facili - previsioni di due anni or sono riguardo all’invecchiamento e alla progressiva perdita di efficacia del tachisme - dell’informale - tanto nel suo aspetto più tipico di «pittura a macchie e a dripping» quanto in quello più compassato e meditato di «pittura a intonaco» o - come si suol dire - «materica». Declino, che era prevedibile proprio per alcune delle ragioni indicate a suo tempo anche da Paci1 quando accennava al fatto che una «scomposizione irrelazionata che appare nel corrompersi delle esperienze estetiche condotte all’estremo limite senza una vera motivazione, è più falsa e più dogmatica del vecchio naturalismo e del vecchio realismo», o quando affermava che «quasi tutti i nuovi esercizi non sono esperienze vissute, ma proiezioni di ragionamenti astratti e gratuiti sulle percezioni», il che rende la loro origine «radicalmente alienata già sul piano del sentire, sul piano del vivo e concreto sentire percettivo e materiale». E, indubbiamente, in un «equivoco percettivo» era spesso situata l’ambiguità e la caducità di tali esperimenti. Quando, del resto, non era addirittura impostata (come ebbi spesso a ripetere) sull’elemento dell’ambiguità e dell’effimericità.

Pagina 77

Negli ultimi anni abbiamo assistito nel campo dell’arte (e qui mi riferisco soprattutto all’arte figurativa) a notevoli e curiosi sovvertimenti: sono note le vicende che portarono all’avvento dell’informale, alla pittura cosiddetta «di gesto» e «segnica», all’«action painting», ecc. Un riassunto di tali vicende sarebbe del tutto inopportuno; ricorderò soltanto alcune di queste tappe che sono passate dinnanzi ai nostri occhi: fine del postcubismo, e tentativo di restaurazione d’un’arte astratto-concreta; scomparsa della figurazione e dominio dell’arte astratta; tentativi realistici tosto stroncati dal trionfo dell’informale; nuovi spunti figurali e finalmente, negli ultimi due anni, sfacelo dell’informale e scindersi delle più vitali ricerche nei due grandi poli del neodada (pop art americana, novorealismo francese e tedesco, ecc.) e della cosiddetta «arte programmata», d’un’arte cioè che si riallacciava alle antiche esperienze costruttiviste e concretiste, tentando di basarle sopra un piedistallo di maggiore rigore scientifico e di nuove sperimentazioni percettive. Naturalmente siamo ancora lungi dall’esser giunti ad un punto fermo - come del resto accade sempre nel dominio dell’arte: negli anni futuri questi germi diversi e spesso opposti si svilupperanno o avvizziranno; non potremo far altro che constatarne il divenire.

Pagina 91

Nel giro d’una quindicina d’anni (tanti sono quelli abbracciati da questi scritti) abbiamo assistito al sorgere e all’affermarsi dell’informale, e al suo rapido declino; al prorompere dell’arte «segnica» e «gestuale», al formularsi d’un’arte «materica»; all’avvento chiassoso e dissacratorio del «pop» e all’organizzarsi meticoloso e pedantesco dell’«op» e dell’arte programmata; e, ancora, al sorgere e allo sfiorire delle correnti definite, secondo i casi e gli autori, come «strutture primarie», «minimal art» «post-painterly abstraction», e via dicendo, fino alla vanificazione - attraverso le metafore visuali-letterarie delle diverse correnti dell’arte concettuale e povera - di buona parte dell’edificio magniloquente e spesso caotico che costituiva la meta tradizionale di pittura e scultura.

Pagina XIII

Cerca

Modifica ricerca