Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Personaggi e vicende dell'arte moderna

260371
Venturoli, Marcello 37 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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Perché al fondo della nostra coscienza, anche noi «sani» ed «equilibrati» abbiamo storture e frenesie, paure e inettitudini gravi e ingloriose, anche noi dobbiamo avere il coraggio di portare una parte di quella angoscia che domina oggi il mondo. E se è vero che nel padiglione italiano della XXX Biennale sono stati accolti con eccessiva larghezza parecchi manieristi (che hanno già fatto il loro tempo, se pure hanno mai contato qualche cosa) è un nucleo di artisti che esprimono proprio i sentimenti di quest’epoca corrucciata e «indifesa», nonostante le sue mille nuove macchine.

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Dopo queste precisazioni di fonti e di accostamenti non parrà peregrino trattare ora dei valori assoluti di Vuillard; e se non si può parlare nel maestro francese di eccezionale fantasia a confronto dei suoi colleghi impressionisti famosi, si deve a lui riconoscere il merito di una esemplare interpretazione di quei modi, di una rara attitudine a decantarne le superstiti scorie aneddotiche o le eccessive punte «decorative»: è un fatto che in taluni interni (di cui abbiamo indicato qualche esempio eccezionale) Vuillard sia più intenso dei divisionisti, pur essendo costoro collocabili storicamente in una fase successiva a quella in cui operò il maestro.

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Taluni critici, come il Nibbi — di cui abbiamo riportato le parole — hanno voluto dare una risposta che è accettabile, ma che va completata. Essi dicono che «più che la natura (la esperienza diretta della vita, cioè) ciò che condiziona l’austerità di questi protestanti è il mito. E diventa il loro incubo». Ma il mito non nasce in Norvegia allo stato naturale, come gli abeti; e se è vero che la tradizione romantica dei popoli nordici è senza dubbio più drammatica e negativa, è anche vero che soltanto Munch fra tutti i pittori del Nord si presenta come un pessimista. Né è a dire che una coscienza più turbata, una angoscia più durevole sui problemi della carne, siano privilegio dei nordici, nei cui Paesi, anzi, certi rapporti sono assai più evoluti e pacifici e non costituiscono, come per esempio nel mondo cattolico, un problema importante.

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Abbiamo guardato la grandiosa Mostra di Picasso alla Galleria d’arte moderna in tempi successivi, prima rapidamente, poi sempre meno in fretta, quasi al rallentatore, stratificando, per dir così, nella nostra mente, le varie impressioni.

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Nello scritto precedente abbiamo cercato di dimostrare che Picasso attinge le sue impressioni dal vero e che queste sue impressioni assumono una forma assai diversa da quella tradizionale nella pittura e nella scultura, non già perché egli sostituisca alla realtà di tutti una realtà che non esiste, ma perché egli interpreta questa realtà da par suo. Le signore coi nasi fuori centro, con gli occhi in mezzo alle guance — abbiamo scritto — sono figure in movimento, sono persone che vivono — e fanno vivere a chi le guarda — stati d’animo, sentimenti successivi nella stessa unità di tempo. Tutta la pittura che ha preceduto Picasso, dai Bizantini agli Impressionisti, è statica per eccellenza; Picasso, in molte sue opere, esprime invece il divenire delle immagini; una donna che discorre, che legge, una bambina che giuoca, una madre che tiene in collo i suoi bimbi, sono per l’artista «esseri continuamente viventi», sono il momento in cui li ha visti la prima volta, e il momento in cui li vede mentre dipinge, sono, insomma, una realtà in sviluppo. Da qui la ragione di quei trofei di espressioni, di quello intersecarsi di prospettive, di profilo e di fronte, di quella apparente mancanza di disegno, per cui gambe e braccia, corpi e visi, paion piantati nelle tele come per sbaglio, o per giuoco, collocati sempre in un punto diverso da quello che si aspetterebbe chi guarda.

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Noi pensiamo che Picasso abbia voluto dirci: nascono dentro di noi per ogni cosa che vediamo, per ogni persona che amiamo, vicino a sentimenti semplici, umani, anche dei sentimenti inconfessabili (ciò che prima abbiamo chiamato inconscio, bestiale, assurdo) ma fino a quando questa parte del nostro sentire rimarrà dentro di noi come un peso, una colpa, noi non potremo liberarcene. Soltanto quando questo inconscio sarà fatto conscio, questo inespresso sarà reso espresso, noi cesseremo d’esserne le vittime. Per non avere più paura — sembra dire l’artista in questo quadro — è necessario riconnettere punto per punto l’immagine della paura. Ecco perché a noi il quadro, «alla fine», non ripugna. Vi troviamo, e in maniera molto evidente, in quel consolidarsi grandioso e solenne di un corpo diviso, la vittoria della ragione.

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Quando abbiamo ben penetrato le ragioni stilistiche dell’arte di Picasso e abbiamo sostituito al nostro gusto, il gusto suo, tutta la poesia della famiglia, il senso della paternità, dall’artista profondamente sentiti, ci appaiono nella loro evidenza. E non ci accorgiamo neppure (come ci accade per i colli lunghi delle donne di Modigliani) che la meravigliosa «Paloma con la sua bambola» (1952), bianca e azzurra, ha tutti e due gli occhi di lato!

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Abbiamo accennato, e qui ripetiamo, che la situazione culturale di Picasso è quella di un artista che opera al di fuori della concezione mitica della avanguardia, e tanto meno, del «movimento» o «della scuola»: perfino nel periodo cubista, in cui l’artista può essere considerato a ragione nonostante l’enorme contributo stilistico di Braque e le componenti di Gris e degli Orfisti, il prim’attore, egli si sviluppa su una linea assai meno «ortodossa», dove il quanto di scultura negra sembra sopravanzare il quanto di «analisi» scientifica. E se è vero quanto dice assai suggestivamente il Bertini a proposito della poetica di Picasso che il Maestro — all’opposto di Paolo Uccello, il «folle della prospettiva» — è il «desperado dell’antiprospettiva, gettato di pari impegno sulla via, non della costruzione, ma della distruzione di questa rappresentazione spaziale», è anche vero che a questa distruzione egli arriva per costruire qualche altra cosa di ugualmente solido e possente; egli arriva alla definizione tattile dello spazio interiore: dove uomo e paesaggio, esterno e interno, tempo presente e memoria, il molteplice e l’uno, la dinamica dei gesti e la misura frontale delle cose, si compongono nella unità della visione. Ma la «scienza» di Picasso non è mai soverchiarne, dicevamo, nei confronti del «messaggio»: l’uomo, nei suoi valori eterni, è per Picasso una costante.

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Noi non siamo del tutto persuasi che il pittore Hans Hartung (tedesco, antifascista, passato ai francesi democratici durante la guerra, mutilato a una gamba, decorato della Legion d’Onore) esprima nei suoi prestigiosi dipinti quel clima di tensione, quella protesta e quella negazione che abbiamo cercato di mettere in luce esaminando l’arte di parecchi altri espositori di qualità alla XXX Biennale di Venezia. A noi sembra che, magistero formale a parte, l’artista appartenga con tutte le sue eccezionali qualità, al gruppo dei manieristi della scuola di Parigi in chiave astratta, un manierista sublime, se vogliamo, ma con una carica umana relativa, e, comunque, di natura diversa o per lo meno assai più dolcificata e preziosa di quella degli artisti protestatari più importanti della sua generazione. Ciò non significa tuttavia — e non era forse neppure il caso di sottolinearlo — che il pittore non abbia doti eccezionali di evocatore; ma in un altro ordine, più d’incanto che di dolore, più di rapimento che di spasimo, più nell’ordine della felice grande tradizione impressionista (la misura astratta di quei rapimenti sensibili) quasi che per l’artista il messaggio dell’espressionismo e del surrealismo sia davvero passato invano.

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Come accennavamo al principio di questa nota, nella mostra di Braque alla XXIX Biennale di Venezia non sono molte le opere che si prestano a documentare un discorso del tipo di quello che abbiamo fatto; però le opere non mancano: da «L’Estaque» (1906) le cui soluzioni, piú che fauviste, sono ancora in una certa misura divisioniste, a «La Ciociat» (1907) e «Paesaggio di Provenza» dello stesso anno, opere, queste due, inconfondibilmente fauves, ai pezzi cubisti «Veduta di Montmartre» (1910), «Natura morta con violino» (1911), «Il Musicista» (quest’ultimo con punti di incontro con Severini) il discorso si sviluppa agevolmente e con una certa probanza.

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Abbiamo fatto un ulteriore giro nella Mostra con l’intenzione di tenerci il più possibile dalla parte del pubblico, non nel senso di compiacerlo nei suoi dinieghi e nelle sue (spesso frettolose) «stroncature», ma con l’animo di chi vuol comprendere le ragioni psicologiche, giustificarne — almeno sul momento — le idiosincrasie; e abbiamo dovuto constatare che tra i molti «lettori umili» che dichiarano cordialmente di «non capirci niente», sono gruppi di persone che pretendono di aver compreso tutto, pur rifiutando in blocco quanto di buono e di ottimo appare dinnanzi ai loro occhi. Mentre è possibile indicare a visitatori della prima categoria l’alto significato dell’arte di Kandinskij, è assai più difficile, forse disperato, persuadere chi si rifiuta di comprendere. Soprattutto perché il negatore per partito preso giudica con un metro diverso da quello che presuppone l’opera astratta. «Perché — egli si domanda — l’artista non ha messo a servizio di immagini plausibili, visive, le sue grandi qualità di pittore? Perché Kandinskij, il quale sa «figurare» benissimo, ha preferito muoversi in un mondo di segni e di colori fuori d’ogni verosimiglianza?».

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In Italia non abbiamo avuto fino ad oggi la fortuna di studiare il movimento surrealista nei suoi più probanti valori, come è invece accaduto in Francia, negli Stati Uniti (roccaforte del Surrealismo intorno agli anni Quaranta) e nel Messico; né la Biennale di Venezia, benemerita altresì per la divulgazione di altri movimenti formativi dell’attuale clima artistico, credette necessario intorno al 1954 di dedicare al surrealismo una mostra antologica. In quello stesso anno, vicino alle riproposte neo-surrealiste di Bacon, e di Sutherland nel padiglione della Gran Bretagna, vedemmo nel Padiglione belga una bella personale di Magritte, pittore surrealista che vive a Bruxelles dal 1930 e che può essere considerato, quanto ad elezione della sua arte, surrealista... di nascita, anzi di cultura e di storia.

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Il momento comunque meno distaccato e più intenso dell’arte del pittore, come abbiamo accennato, è secondo noi quello astratto strictu sensu. Singolarità e valore massimo dell’impegno di de Staël in questo periodo è una ricerca di assoluti: la via più essenziale e insieme la più semplice e la più pittorica, la più rivoluzionaria e la meno fuori della «grande corrente».

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In queste opere che abbiamo voluto esaminare più da vicino, noi notiamo uno dei momenti più felici ed alti dell’arte di de Staél, questo tendere ad accendere le forme per mezzo di rilevature e solidificazioni, questa aspirazione a incielare le cose della natura e dell’uomo. E prima palese via atmosferica, se pure sperimentale, è quella che il pittore scopre in «Composizione in grigio e azzurro», vasta, sognata, quasi surreale, in quel beccheggiare di grandi tasselli grigi e azzurri: vasto quadro che noi siamo spinti a porre nel gruppo di quelli delle «favole atmosferiche» del tipo de «La Luna» 1952; quel cielo che pare ricucito con gugliate dolcissime e strazianti, su screpolature e brividi di tagli rossi, forme di spazio consunte di azzurri profondissimi dalla compatta e luminosa materia. (Ma un quadro così de Staël non l’ha più fatto).

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Tanto che a noi è parso doveroso dopo anni di equidistanza fra artisti realisti e paladini dell’ultimo «ismo», scegliere, come critici militanti: e ancora una volta, sbolliti i complessi di inferiorità e ridimensionate le prospettive troppo drastiche tracciate in tante «revisioni», abbiamo sentito il dovere di far leva sui «valori nazionali», sulla «aderenza alla realtà».

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In questa prima fase, se le opere di Ben Shahn, come abbiamo accennato, non appaiono mature, rivelano tuttavia una statura e un piglio eccezionali in USA, sia per la scelta appassionata e coraggiosa dei temi, sia per la intrinseca qualità, rintracciabile in nuce. Infatti la grafia di Ben Shahn non è mai scissa dal suo pur magro e dimesso senso del colore; e l’una e l’altro crescono di pari passo, si integrano, col chiarirsi nella coscienza dell’artista del sentimento della umana solitudine.

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Abbiamo già detto del nucleo centrale delle opere sulla Resistenza; aggiungiamo che l’artista fin da allora, nonostante la sua univoca ispirazione (quei suoi inventari di pensieri e sentimenti trafitti dalle immagini) non limitò la pittura ai soggetti «sociali» e «pubblici», come il «Fucilato» e il gruppo degli «Otages», una diecina di pezzi che fanno parte ormai della storia della pittura contemporanea — ma attinse ispirazione anche da altri temi: prevalendo talvolta, non come risultato ma come una componente, un genere determinato, se non proprio la natura morta, un emblema significante di cose come «Frutto aperto» (1946), «La tazza» (1943), «Bicchiere senza gambo» (1945); o un pivi fiducioso discorso con se stesso, appoggiato alle immagini della natura, come in «I rami» (1945) o, rivivendo con la libertà conquistata negli «ostaggi» il classico tema del nudo: «Fanciulla nuda», «La dolce fanciulla», «Donna soave», opere dal 1941 al 1946 nelle quali la grazia di un tono pare allarmarsi dinnanzi al trepido vibrar di un rilievo, il frammento assumere corpo di figura vivente in virtù della sua autonomia nello «spazio»; e quelle sagome abbreviate in una plastica senza dimensione prendono pienezza dal caldo lievito del colore.

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Mai come in questa mostra di un anziano ci siamo sentiti giovani e vivi, mai come di fronte alle ottantacinque opere di Melli abbiamo sentito, commossi, la continuità, e la perpetua giovinezza dell’arte.

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Quante volte abbiamo invidiato la freschezza e la felicità delle «difese» di Melli, in risposta ai nostri attacchi sul suo «comportamento»; e quante volte, dopo esserci condannati aspramente, come presuntuosi o mancanti di misura, ci siamo abbracciati. «Mio caro Marcello — ci scriveva nel 1956 — quel che mi ha fatto impressione in prima è stata la sollecitudine quasi imperiosa delle tue risposte, come se io avessi toccato nel punto troppo sensibile in te. Ma la tua libera franchezza, ad onta dei miei capelli bianchi, mi ha dato la prova della tua amicizia e vi ho colto un così vivo senso di affetto e sensi così umani e familiari, che mi sono riusciti molto graditi. Riconosco di aver conservato in me qualche parte incorrotta e incorruttibile, quello, probabilmente, che tu dici io sia «in certe cose bambino», ma questa condizione nel giudizio generale delle cose, può confinare con l’innocenza che vede in fondo. Nessuno quanto me è stato più ciecamente fiducioso negli uomini, più bambinescamente vorrei dire, e, ancora, fiducioso; e credo anch’io che molte volte la loro cattiveria sia involontaria e nasca da ignoranza, mal costume, leggerezza, spesso da incoscienza, propriamente...». E così via, in quella prosa di saggia perplessità, in quel suo guardarsi indietro per aver la faccia serena oggi e domani, cogli amici «delle generazioni dopo la (sua)», i quali — come ci scrisse in altra lettera —gli avevano «ad abundantiam» dimostrato interesse, simpatia ed anche devozione ed amore», tanto che «i riconoscimenti avuti —somma soddisfazione per un Maestro — (gli erano) pervenuti da quelle».

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E la Mostra retrospettiva di tutte le opere del marchigiano, pitture e disegni, organizzata con grande cura da Palma Bucarelli alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna non è, per questo, soltanto un importante avvenimento nel campo della cultura figurativa italiana, ma il modo, definitivo, con cui possiamo formulare un giudizio sul pittore: il tempo è davvero passato a sufficienza, perché la Mostra di Scipione non appaia alle nostre coscienze come un semplice omaggio, o una turbata nostalgia o una abiura da quei valori morali, sociali ed umani che abbiamo tanto faticosamente conquistato.

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Pittore modesto, un po’ impacciato, di età incerta, ma non più giovane, informato delle avanguardie ma non portato da queste al punto estremo di rottura (come in Wols, o in Pollock, o in Fautrier, o in De Kooning, tutti artisti della generazione di Mafai, all’incirca) questo pittore che espone alla Tartaruga (che abbiamo voluto non ricollegare a Mafai, per scommessa) non è nuovo e importante; soprattutto non è nuovo e importante nel quadro dei valori europei e nazionali dell’arte astratta: il lirismo scattante di un Soffiantino, la malinconia nella radicale astrazione di Morandi, di un Parzini, il gioco trepido e ammiccante di uno Strazza, il polimaterico drammatico e di protesta di un Burri, la immagine del gesto raffrenata e gemente di Moreni, la insopprimibile permanenza della realtà sensibile che lotta per non scomparire in Morlotti, sono valori e contenuti, stili e linguaggi, troppo al di sopra di questi dieci quadri.

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Nel nostro piccolo, diverse sono state le occasioni per le quali abbiamo scritto dell’arte del pittore: una di queste, anzi, Pier Carlo Santini, curatore del catalogo della Mostra, ha voluto ricordare, bontà sua. Né qui staremo a ripeterci. Ma in un punto del nostro saggio (pubblicato nel volume «Dagli Impressionisti a Picasso») siamo orgogliosi di aver dato un contributo alla collocazione della personalità di Rosai nel quadro dei valori del Novecento: poiché Rosai — scrivevamo — fu un novecentista sui generis, forse sotto taluni aspetti il meno legato — come per altro avvenne a Lorenzo Viani — al rituale parnassiano, o magico, o ermetico, di cui poco o tanto furono investite le opere degli altri Maestri, coetanei di Rosai. E che Rosai — aggiungevamo nel nostro scritto — il quale fu «diciannovista e uno dei fondatori del fascismo fiorentino, nel momento di dipingere prende le parti del popolo che odia ogni sopruso, che vuol vivere in pace nel mondo, senza manganelli e cortei, senza falò e teschi di morto, che il fascista Rosai diventasse in sostanza antifascista nei suoi quadri, è un fatto sintomatico, il quale conferma la veridicità e la insopprimibile umanità dei suoi personaggi... Noi crediamo che in quegli anni, tra le ultime esperienze dei futuristi... e i saggi aristocratici dei metafisici, non vi fu in Italia pittura più aperta e commossa per la sorte del popolo di quella di Rosai».

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Per noi che abbiamo seguito passo passo dal 1938, appunto, gli sviluppi dell’arte a Roma, sarebbe quasi impossibile esprimere sulla Mostra di Zi veri una opinione distaccata se non fidassimo nella condizione particolare degli isolati; se cioè non facessimo ancora una volta leva sul nostro modo di vedere le cose da spettatori, o da viaggiatori in casa.

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Ma che cosa è dunque la pittura di Carlo Levi in se stessa, riconoscibile tra le componenti di questo gusto, cui noi fin qui abbiamo dato nomi di maestri, precisi? È, intanto, nella libertà fantastica e spirituale del pittore di fronte ai suoi personaggi, è nella interpretazione dei Fauves in un ordine psicologico, nella accentuazione lirica dei caratteri dei modelli, che diventano, come immagini, piuttosto stati d’animo del pittore, la sua gamma di affetti verso gli intimi.

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Ziveri — lo abbiamo recentemente affermato in polemica con Antonello Trombadori — si presenta come il meno aggiornato; anche gli altri non seppero cambiar pelle del tutto, né poterono, nel quadro dei valori europei del medesimo momento, a causa della posizione tradizionalmente subalterna dell’arte italiana; ma seppero tuttavia avvertire — e questo è senza dubbio il lato positivo dell’arte italiana antinovecentista — sia pure attraverso schermi e complicazioni, la lezione dell’avanguardia, in quanto c’era di meglio in Italia (sopratutto in Morandi) e in quanto di stupefacente aveva dato la generazione dei Maestri in Francia.

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Va da sé che questo suo accostamento non era affatto acritico, come potrebbe sembrare a chi, in base alle partiture comunemente accettate della nostra arte dal 1910 al 1945, si rifiutasse di esaminare le ragioni dei contatti fra Novecento e anti-novecento, assai suggestive: contatti (come abbiamo accennato di già in questa nota e nel corso della nostra critica militante) spesse volte così «unitari», così poco marginali ed epidermici, da far pensare seriamente — non con lo spirito polemico e liquidatorio che è proprio del Crispolti quando si occupa d’arte non astratta italiana — a un antinovecento novecentista. A proposito dei contatti fra i maestri del Novecento, da una parte, e scuola romana dall’altra, la recente mostra retrospettiva a Palazzo Strozzi di Ottone Rosai (il cui catalogo è stato curato da Santini) offre parecchi spunti e più di una sorpresa. Non vediamo però il motivo di porre sulla stessa linea di sviluppo l’arte di Rosai e quella di Scipione, o, più generalmente, l’arte dei maestri del Novecento e quella dei giovani che reagirono ad essa: sappiamo bene che i modi di questa rivalsa non furono opposti, che parecchie furono le indulgenze, le suggestioni, le rettoriche di questi giovani troppo ingenuamente convinti d’esser liberi dalla chiusura che li opprimeva, nel costume e nella circolazione delle idee dell’Italia fascista; ma il fervore romantico di uno Scipione, il cordiale assenteismo di Mafai, la passionalità della Raphael, stanno a indicare un diverso modo di intendere la vita quotidiana, la consapevolezza, che era quasi il modo di esistere per costoro, d’essere contro, o fuori; l’agognata aspirazione a vivere senza orbace, non soltanto sotto il profilo politico, ma umano, dando una dimensione più diretta e non recitata alle idee, ritrovando dopo tanto frastuono di folle e di rapporti, di comandamenti e di ordini, le semplici gioie della vita domestica, la dimensione ineffabile e rara della propria individualità.

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Non vogliamo molto formalizzarci sui due vasti quadri di Sergio Vacchi da Castenaso, che porta dentro fondi di Museo, chiaroscurali perfino, la lezione di Jorn, i suggerimenti di Appel; abbiamo visto del pittore nella sua recente bella mostra personale alla «Odyssia» presentata da Francesco Arcangeli altre opere di più intensa e felice esplosione come «Per un giudizio secondo» dipinto estremamente vario e ricco di soluzioni materiche fino alla eccessiva delibazione delle singole parti in una implacata sensualità divagante, e «Attendendo lo spazio», opera a nostro avviso eccellente, per la serrata e consapevole determinazione figurale nello spazio; tuttavia anche in queste proliferazioni animali e vegetali insieme, del quadro «La famiglia terrestre» esposto alla Quadriennale, in queste forme membranose color melanzana che franano e si espandono da sopra in sotto, il diapason «viscerale» è raggiunto: per quella repellenza della materia imbarocchita ma non rettorica, per quella continua allusione antropomorfica, senza per altro contrabbandare la immagine umana, per quella occupazione, infine, dello spazio da parte di una vita bruta e irresistibile.

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Nei quadri più recenti di Sughi abbiamo notato una capacità grafica sposata ad una gentilezza e duttilità di impasti, una intuizione felice a scegliere per i contorni delle sue figure e delle sue cose nella notte, bordi e aloni di luci: vibrano di un’aria luminosa, di una tenera fosforescenza il vetro e gli oggetti sulla mensola della «Tavola calda», le spalliere delle sedie nella semivuota platea, perfino i polsini di uno spettatore in primo piano. Il quadro che si intitola «Intervallo al cinema» è la composizione di figure più bella fra le cinque di Sughi. E come sa trasportarci l’artista, immediatamente, dal fatto di cronaca, sul piano di una allarmata fantasia! È vero che il cinema accoglie la poca gente, così come avrebbe potuto inventariarla un obbiettivo fotografico: un giornale aperto, dietro il quale si avverte una persona che aspetta, un tale che si appoggia coi gomiti alla spalliera della sedia della fila che gli è dinnanzi; chi fuma, chi entra col pastrano sul braccio, chi infine, come la signora col turbante viola, macina la sua noia in compagnia di pensieri fastidiosi; tuttavia l’insieme delle figure dentro questa luce fioca è ben poco aneddotico. La atmosfera del cinema, nel momento in cui le lampade, da abbaglianti, scemano di intensità (e così rimangono per un lungo istante) è emblematica: di una sorta di irrealtà cui gli uomini si sono assuefatti, ma non persuasi, di una stupefazione che rasenta quasi l’angoscia. E il viso della signora in primo piano è la chiave del quadro: un velo d’aria fumosa balena dinnanzi a quell’incamato cotto, ma non cancella il bagliore vitreo della pupilla: questa di Sugh: è gente che non si arrende, resa vigile dalla propria infelicità.

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Abbiamo notato che il pittore di Cervignano è quasi arrivato all’espressionismo astratto ma la sua è una astrazioni cui sembra essere costretto il suo modo di immaginare e di approfondire, non per una suggestione di moda o per una tentazione estetica. Avviene in lui quanto è avvenuto in Morlotti e in Birolli; e che in queste sue tele sia qualche cosa di intenso, un animo pensoso e tormentato, si avverte per la persistenza quasi pietrosa dell’immagine, anche se poco leggibile nella fattura gremita, in quel tessuto cromatico maturato a strati, a rilevature, in quelle reti prudenti di pennellate, che assorbono volumi e spazi, che legano sagome a fondi: ci riferiamo soprattutto al vasto «Notturno italiano». Ma dove Zigaina ha reso al massimo concreta la sua fantasia è nei quadri, piccolo e grande, delle «Teste di pesci» e dell’«Uomo al telefono». Si potrebbe dire, senza per questo diminuire di una spanna la statura di Zigaina, che in questi dipinti l’artista abbia dato una soluzione tutta pittorica del pessimismo grafico di Sughi. D’altra parte certe tumefazioni e deformazioni dell’«Uomo al telefono» fanno accostare questa pittura a quella dell’ultimo Vespignani. Ma Zigaina si avvale di una esperienza espressionista per le sue tipologie più diretta nel colore: la donna di profilo dal viso livido e duro sul quale sono incise le rughe col bianco, l’uomo scimmia col fiore mostruoso del telefono alla tempia, la bocca infarinata di baffi, le mani paonazze. E come è felice, nel fondo pur battuto, l’incontro dei due toni verde e rosso, fusi nella penombra! Brulicanti di luci argentee come su un catafalco, le teste e le liste dei pesci sul tavolo nero, sembrano le figure di un domino cinese vissuto nell’incubo. La versione minore di questa natura morta ci pare fin troppo bella, un boccone da collezionisti consumati: un viola quasi tonale si soffonde in quel piano atmosferico intriso di metafisica (dalla lontanissima radice morandiana); sopra di esso balenano le teste di pesce in quella «putredine fossile» che sembra una delle caratteristiche dello Zigaina d’oggi.

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Di Fausto Pirandello, che espone cinque quadri, tre di figure e due di paesaggi, abbiamo così frequentemente e diffusamente parlato, che un ennesimo discorso sul singolare e prestigioso artista non aggiungerebbe molto da parte nostra. Tuttavia le opere presentate alla Quadriennale si prestano ad un ulteriore approfondimento delle ragioni psicologiche ed estetiche del «viaggio» artistico di un ex realista di avanguardia verso i lidi dell’astrattismo. Ci domandiamo intanto se in questa sua rarefazione geometrizzante di oggetti e di figure egli appaia più libero o più povero che non ai tempi delle sue nature morte dal ciarpame di elettricista, delle sue terrazze romane, delle sue bagnanti aggrovigliate su spiagge di terra, dei suoi contadini urlanti in mezzo al granoturco. Quel modo allucinato di accendere luci di spilli, rilevare blocchi di gesso, come trasferendo dalla sua retina l’immagine, visiva al cento per cento, dentro una ribalta di avanguardia, su spazi e plasticazioni cubiste, quel conflitto mai sanato tra naturalismo e astrazione, tra Ottocento e «scuola di Parigi», ha oggi un equivalente? Oppure il «Pirandello conciliante» d’oggi, in queste sue crisalidi di immagini vere, è una larva del più fisionomico artista fra le due guerre? Fortunato Bellonzi, che presenta in catalogo l’artista, considera sul medesimo piano di risultati le sue fasi di sviluppo, facendo omaggio alla personalità di Pirandello concepita come sempre vitale e indenne, operi essa nel momento della rottura antinovecentista o in questo decennio ultimo, di reperimento delle avanguardie post-cubiste e astratte. Siamo d’accordo con Bellonzi sulla statura dell’artista e sulla sua originalità anche oggi, ma noi siamo spinti a veder questi suoi cinque quadri (non molto diversi da quelli esposti nella recente personale alla Galleria Russo) come opere di minore intensità e di minore incidenza nel quadro dei valori attuali. In «Inverno» e «Pergola e pini», i dipinti più «astratti» dei cinque, l’artista, persuaso di penetrare più a fondo le ragioni delle immagini, la loro intima essenza formale corre il pericolo di un formalismo, di scambiare il mezzo col fine: d’altra parte è per lo meno retrospettivo porsi di fronte alla realtà con l’intenzione di limitarla ad una rete di atmosferiche tessere, come avveniva ai tempi eroici del cubismo; mentre allora certe forme pure, scoperte per la prima volta, riuscivano rivoluzionarie (emblema di una nuova moralità, nella gelosa consapevolezza di uno stile), oggi (cinquant’anni dopo, cioè) la medesima posizione psicologica ed estetica può apparire senza mordente, un alibi di avanguardia per scaricare contenuti e atteggiamenti reputati dal pittore troppo naturalistici e romantici. Noi non sappiamo se gli ultimi «ismi» abbiano creato in Pirandello un certo timore reverenziale, oppure se l’artista andando innanzi negli anni, in questa sua fuga progressiva dai contenuti «fisici», di verosimiglianza, narrativi, in un processo puramente mentale, si sia illuso di trovare la forma dei suoi passati contenuti, quasi una legge interna, prima sconosciuta, oggi emblematica, che regolasse le sue spiagge e i suoi nuotatori; un fatto è certo, sulla scorta di questi cinque «pezzi»: che l’artista si fa meno apprezzare quanto più si allontana da quella realtà sensibile, quanto più questa realtà, un tempo ai ferri corti con l’astrazione, assume una labilità, diremmo una impassibilità di «fattura», perdendo l’originaria tensione. Si guardino i nuotatori, ridotti a un puro arabesco di mosse-pose dentro una atmosfera di aloni bianchi e di scaglie d’argento: il «reo peso» delle antiche carni di terra, diventa qui tutt’uno col giulivo e un po’ esterno spazio decorativo, la plasticazione terrea di una volta in quelle selve di umanità nuda sulle spiagge, un ghirigoro figurale di cadmio e arancio. E che dire delle «Bagnanti»? Grigette, scaldate appena da un giallo di Napoli su ritagli d’aria e d’acqua fra azzurra e cenere, appaiono troppo meditatamente divise in due parti, il busto all’asciutto a fare i conti con l’aria, i sederi, scompagnati e lunati, sotto il pelo dell’acqua, per conto loro. L’unico dipinto che conservi in parte l’unità vigorosa e drammatica di un tempo è il «Nudo riverso»: per il difficile scorcio, per l’ombra nera sotto la gamba destra, nostalgia chiaroscurale qui per nulla fuori posto, per la tensione del collo e del braccio, per la coloritura delle tessere che piegano solidamente nel cadmio e nell’arancio, in una tavolozza meno squillante, sull’ocra e le terre, questo dipinto ricorda le opere del miglior Pirandello.

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Nella medesima sala è un’altra litografia a colori, «Ragazzi ebrei», dove nonostante la pietà del tema per un artista così sensibile ai lager come è il Guerreschi — e diremo poi in che modo — le facce di questi fanciulli grami non sono meno gremite di quelle stesse ciglia di piaghe e spacchi e tumefazioni che abbiamo visto nel precedente ritratto di signora. Forse nella signora questi «segni distintivi» son nati per colpa sua e, certamente, questi poveri megalocefali dai corpi di feti sono diventati così per una colpa diversa, che non è di loro, ma della ferocia e della barbarie di cui fu capace il nazismo?

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Ma, se guardi al modo della descrizione, troverai sempre, non diciamo l’asprezza acida del segno, il rodere e corrodere delle facce e dei corpi con le piaghe e le ferite di cui s’è detto, ma addirittura, in una sorta di collage disegnato di reti metalliche e di fili spinati, il rituale del campo di concentramento, quasi che per Guerreschi la guerra continui nella vita civile, sia — lo abbiamo scritto -— la proiezione di un passato nel presente, la immagine incarnata di un pericolo. Sembra, insomma, che l’animo ipersensibile di Guerreschi abbia subito un trauma durante questa seconda guerra mondiale, e che da questa spaventosa impressione egli non si sia più riavuto, non abbia voluto liberarsi del tutto: sembra che per Guerreschi la guerra sia scoppiata ieri e che sotto un certo profilo duri anche adesso.

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Diciamo subito che Guerreschi è una misura più figurativamente leggibile della paura e dell’angoscia informali; e se noi abbiamo mostrato di apprezzare la paura e l’angoscia di un Burri o di Paolozzi, a maggior ragione potremo apprezzare le paure e le angosce di Guerreschi: e proprio sotto il profilo della urgenza di un sentimento, o di un turbamento che agita le coscienze degli uomini onesti e pacifici, sotto il profilo di un «No», che Guerreschi grida in un modo e che i suoi colleghi informali gridano in un altro.

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La mostra personale di Ugo Attardi alla Galleria «La Nuova Pesa» si presta ad alcune considerazioni che ci sembrano pertinenti nel quadro delle ricerche dei pittori realisti d’oggi, di cui con attenzione noi abbiamo seguito e continuiamo a seguire lo sviluppo in tutta Italia. Si avverte, intanto, soprattutto in questa mostra, la intenzione esplicita di Attardi di muovere le sue tematiche attinte dall’espressionismo storico — i grossi borghesi dalle teste calve e le prostitute, i pallidi e misteriosi prelati, le dolci vite d’ogni quartiere alto — con una pittura di concetto, che si articoli fin dallo schema immaginativo, al di fuori e al disopra di una composizione logica, costruita senza soluzione di continuità fra figura e figura dentro uno spazio fisico: Attardi in questo delicato e attivo momento della sua carriera di pittore, si è accorto che esistono nella più recente storia della pittura, proposte diverse, che vanno dal modo col quale i surrealisti di ieri hanno espresso lo inconscio, al modo col quale la pittura sociale dei romantici si è espressa per altra via, in Siqueiros e in Orozco e nella seconda ondata espressionista prima dell’astrattismo, in tutta Europa.

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Le simbologie e le suggestioni che, per esempio, in un Guerreschi sono il frutto di una autentica «malattia psicologica», quel trasferire il passato dei lager nel presente della realtà «pacifica» in città, torturando di filo spinato, di squarci e di muffe le sue composizioni, in Attardi sono il frutto di una volontà che si risolve nella immaginazione e che non si scalda nella fantasia: così il quadro «Sulla via di Palermo» — il meno felice che noi abbiamo potuto vedere nella ricca produzione di Attardi — è una inerte mescolanza, in tanto agitarsi di personaggi, mondi, aranci, carabinieri e feticini (degni davvero di figurare, quanto a livello, nel più basso ciarpame della morbosità espressionista), di elementi surrealisti ed elementi realisti, fino a una inconcepibile compromissione classica (con rigurgiti michelangioleschi nella plasticazione e nei chiaroscuri), per di più dentro uno spazio fisico, da «Giudizio Universale», dove frammenti di quadri di Delacroix, tirati come una gomma dalla parte dell’espressionismo, dovrebbero fare il sogno o l’incubo o la favola.

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Naturalmente, al di sopra delle apparenti contraddizioni della personalità umana e artistica di Brancusi — di cui abbiamo fin qui descritto le principali — i si può leggere una stupenda unità: è in quasi tutte le opere dello scultore un valore finale e irrepetibile, al di sopra di ogni compromesso col gusto corrente.

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Scopre il divisionismo quarant’anni dopo; ne prende un campione raffinato, diciamo quello del Severini del 1908, vi mescola qualche tassello magico del liberty che piacque al Kandinskij prima del 1910 e il «fioretto» è pronto; quindi, quasi con il medesimo ritardo, il Pasmore si esercita nei collages storici («Motivo quadrato, bruno, bianco, azzurro e oliva» 1948), si aggiorna con lucido zelo dinnanzi agli ovali del cubismo analitico, e poi... poi, al momento in cui si potrebbe pensare che tale adolescenza nei confronti della pittura adulta fosse finita, ecco questo ritardatario per scommessa come in una gara di regolarità entrare negli schemi di Mondrian: e fa di tutto per comprenderli, amarli, divulgarli, variarli con spessori, listelli, vuoti e pieni; tanto che il nome di Mondrian vien letto in varia guisa: Mondrian, oppure m-o-n-d-r-i-a-n, o anche mo-nd-ri-an, ma, per quanti sforzi abbiamo fatto dinnanzi ai polimaterici puristi dell’artista, non siamo stati capaci di leggere altro nome.

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