Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 43 occorrenze

Volgendo ancora uno sguardo a due opere minori di Bellini, abbiamo da una parte il Ritratto del Loredano, dall'altra la Sacra allegoria degli Uffizi.

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Abbiamo accennato brevemente al rinnovamento compositivo operato da Caravaggio; ora dobbiam dire che B. è stato fra i pochi ad intenderlo almeno parzialmente, Già il Davide si pone di scancìo verso di voi, il San Carlo con la Trinità aumenta questa impressione con quel moto ritorto per cui il corpo si assetta di spigolo e si rannoda coll'angolo internato della Trinità; e qui finalmente in questa brevissima figura B. ci offre uno degli esempi più semplici e comprensivi di composizione secentesca, poiché non ci sarà che Preti a saper impietrare nelle pose arretrate le direzioni compositive: ma mentre egli le appianerà di luce, Borgianni con resultato meno intenso le fissa alla meglio con un luminismo marginale che dà alla forma un sapore curioso di disegno luminoso. Tutto ciò cela un dissidio tra luce, forma e composizione su cui ritornerò e che era già stato terribilmente profondo in Tintoretto.

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Il primo riguardava il soggetto (oggetto) poetico idest psicologico ed è contro questa interpretazione che noi abbiamo reagito, poiché si trattava di letteratura.

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Mi conosco un poco in arte Italiana, e vi posso assicurare che di grandi scultori non ne abbiamo avuti molti; ma alcuni grandissimi addirittura, che bastano. Sono Giovanni Pisano - Giotto - Jacopo della Quercia - Antonio Rizzo - Michelangelo. Eppoi di grande tradizione scultoria di grande stile - poiché voi credete bene al grande stile, lo so - più nulla.

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Ora che abbiamo seguito con tanta diligenza, magari con tanta prolissità, lo svolgimento dell'arte del Napoletano, la nostra conclusione sarà brevissima; soltanto per ribadire gli anelli della catena battuta.

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Battistello invece tende a tradurre Caravaggio in disegno e in plastica e quanto sia connessa questa sua tendenza alla risoluzione del problema dell'affresco abbiamo detto nel nostro saggio. L'affresco lo costringe per prima cosa a schiarire il campo e per ciò stesso a non essere più caravaggesco, nell'atto di distruggere l'architettonismo luminoso del maestro. Tuttavia vorrebbe tenergli fede e pensa a rinchiudersi in un disegno largo, ampio e sano, ma tuttavia facile a divenire il contorno del nulla in quanto non pare essere più che il diagramma probabile dei corpi del Lombardo, una volta che la luce abbia cessato di operare sopra di essi; avviene un po' come quando il repertorio figurato di scultura sia costretto a rendere una statua dorica con il solo contorno. E in un altro modo Battistello pensa a tener fede al maestro, sviluppando cioè i riservati e rari accenni plastici con cui quegli, vorrei dire, drogava improvvisamente il volume luminoso. Ma svilupparli - astratti dal significato che nel maestro avevano - non poteva significare che enfatizzarli e farli ricadere inevitabilmente in un'apparenza che sarebbe stata nuova se non avesse già appartenuto all'immenso repertorio dell'arte fiorentina. Frammenti di plasticità, dunque, enfatizzati: una mano, un avambraccio, una spalla interessano più che un torso, e tutto infine rinchiudersi nella gravità di rabeschi vastamente ondulati, dove la luce è ridotta a chiaroscuro astratto operante su una più e più tonda plasticità; dove la composizione è per conseguenza di nuovo l'accordo plastico o lineare e non l'accordo luminoso: è cioè per masse accentrate e per ritmi di ondulazioni vivamente corrisposte.

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Anche Borgianni se non si interessasse di filare luminosità rare e impreviste sarebbe sempre un pittore di tocco alla Frans Hals; e senza nominare Borgianni noi abbiamo l'altro grande premorto pittore, Domenico Feti che s'è conosciuto fin qui troppo per le sue cose piccole, briose e piene di verve e storicamente importanti per la preparazione ch'è in esse della scapigliatura di Jan Lys. Ma vedo girare di lui in questi tempi fra i collezionisti e i mercanti cose di forza superba, al naturale, per lo più mezze figure di vecchi buzzurri, o di vecchie infreddolite, di bevitori o di filatrici ove si potrebbe seguire uno svolgimento quanto mai prossimo a quello di Frans Hals *. Il Cecconi di Firenze alcuni anni fa pubblicò una di queste mezze figure credendola di Rembrandt e la cosa, nello stesso errore, è, come sintomo, infinitamente simpatica7.

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L'Orfeo del Palazzo Reale di Napoli ** opera che già nel '700, quando fu inviata da Roma a Napoli 29, passava per un Caravaggio di prim'ordine, rivela per contro a un conoscitore spregiudicato di cose secentesche un Gentilesco sotto l'impero dell'impasto liscio dei caravaggeschi di Utrecht, e sta a rappresentare con il Riposo in Egitto della cappella di Palazzo Pitti l'altro ordine di ricerche cui abbiamo accennato.

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E, precisamente, l'opera deve assegnarsi al periodo ottobre 1603-aprile 1604, termini estremi di quel soggiorno di Caravaggio nelle Marche di cui abbiamo sicuri indizi3 e che si spiega forse con una fuga da Roma per sottrarsi alle noie e agli obblighi del processo famoso del 1603. Era forse durante la sua assenza forzata, nel novembre, che Onorio Longhi s'incaricava di fame le vendette tirando mattoni al Baglione e insolentendo il suo tirapiedi, Salini 4.

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Tuttavia anche traverso queste debolezze, questi pentimenti, qualcosa abbiamo visto mutarsi volontariamente, qualcos'altro sorgere ed affermarsi. È indubitato che Orazio fu il primo a tentare un che di nuovo - sulle tracce di Caravaggio primo - anche nell'affresco, durando ancora il secolo XVI. Ciò avvenne nei lavori, ora troppo manipolati per discuterne a lungo, di S. Nicola in Carcere a Roma. Ne esce qualcosa che sembra un affresco di provincia lombarda, come d'un seguace di Calisto, o di Lotto, o di Moretto. Purtroppo tutto ciò non ha seguito. Il rinnovamento caravaggesco non riescendo a penetrare anche le altre forme d'arte, scultura e architettura, che si adagiarono nei più o meno agili accomodamenti post-cinquecenteschi del barocco, ebbe sempre bisogno di infinite restrizioni, e lo vedemmo già studiando Caracciolo e i frescanti napoletani che pure furono i più inclini a forzare l'affresco alle nuove tendenze pittoriche. E quando a Napoli Ribera pose i suoi Apostoli a coronare gli archi delle cappelle di S. Martino, fece tutt'altro che della decorazione; hanno tutta l'aria quegli apostoli di essere dipinti da galleria sforbiciati alla meglio per adattarsi ai vani. A Roma soltanto, quindici anni dopo il tentativo di Gentileschi, Saraceni si riprovò a qualcosa di simile nei suoi musicanti della Sala Regia al Quirinale; e anche là pare di vedere una sala frescata da qualche seguace del Romanino o del Moretto; ma il tentativo fallì per l'inferiorità qualitativa degli affreschi, eppoi perché Saraceni stesso credette necessario inframmettere e scorniciare il tutto in modo affatto « decorativo», cinquecentesco, per via di festoni, medaglie, figure affrontate, eccetera; ciò che avvenne in gran parte per opera di Lanfranco.

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A questa concretazione e fissazione si giunge appunto traverso quella strana anfibia interpretazione in istampo «attuale» della scena biblica o mitica che abbiamo visto nel Mosé salvato; sicché quando, verso la metà del '600, Giovanni Vermeer s'inizia con la sua Diana e le Ninfe, con la signorile e casalinga Allegoria del Nuovo Testamento all'Aja, e col Cristo in casa di Marta, del sig. Coats, ci pare ch'egli riveli chiaramente la sua origine italica- per il tramite - così credo - di Orazio Gentileschi.

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È infatti eccezionalmente interessante vedere Artemisia svolgere fatalmente il programma protoolandese iniziato dal padre; ché questa Nascita del Battista è effettivamente il più condotto studio d'interno, come luce e determinazione ambientale, che il '600 italiano abbia prodotto, per la conoscenza che ne abbiamo a tutt'oggi; ed è implicitamente una delle risoluzioni più «attuali» che l'arte italiana di quel tempo abbia dato di un soggetto religioso. Non rileveremo mai abbastanza le difficoltà che si opponevano a un’artista nella trattazione di soggetti come questo che erano anche più restii a mutamenti per essere già accomodati da tempo in certi stampi apparenti di «genere», affatto mnemonici.

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Non abbiamo altro da dire di meglio; solo abbiamo portato innanzi la prova palmare di questa affermazione, esaminando la Nascita del Battista, opera di Artemisia essenzialmente «prima di Cavallino»72. E vorremmo avere tempo per esaminare non solo il delizioso quadretto dell’Adultera al Museo di Verona, dove infiniti elementi di fonte «Artemisia» rischiarano di nuova luce l’attribuzione al primo Cavallino*, ma anche un’altra mirabile opericciola che a questa si rannoda e che dovrebbe rappresentarci Cavallino più giovine, seppure non debba risalire ad Artemisia addirittura: è un piccolo Incontro sulla via di Emmaus**, delicatissima romantica novella cristiana, in forme affatto nuove di pittura; e si vede nella raccolta dei Borromeo all’Isola Bella ove porta il nome di Caravaggio.

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Qualche volta è un po’ pavona, e deliziosamente mendace: «Vengono ad una donna che è piena di questa merentia cioè di variar soggetti in dela mia pittura: et mai si è trovato ne’ quadri miei corrispondentia d’inventione etiam in duna mano»; e pensare che proprio le mani le abbiamo visto trasferire d'un'opera in altra!

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Questo che abbiamo detto ci esime dall'accompagnare il Nicodemi negli ultimi passi, quando segue (Cap. VI) «I continuatori della tradizione neoclassica». De Antoni e Palagi, Sabatelli e Bellosio, sono al disotto dei loro maestri. Ed anche Agostino Comerio del quale, chissà perché, il Nicodemi loda i freschi che deturpano la bella cupola tibaldiana di S. Sebastiano. Loda? Chissà se veramente loda, o se non si tratta di uno di quei trascorsi sproporzionali d’espressione che non possono non occorrere una volta avventuratisi in argomenti siffati? Ancora una volta consigliamo: proporzioni.

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Ci dispiace mettere tante pulci nell'orecchio alla critica, ma da un esame delle opere che abbiamo appena citate non appaiono meno divari di quelli che abbiam detto. Si tratta di Bramante in periodi diversi? E bisognava determinarlo, seguire lo sviluppo in qualche modo; non già accettare tutto così alla cieca.

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Ma non anticipiamo i giudizi; poiché per ora non abbiamo che il diritto di affermare che la prima parte (se il Dami ha seguito a puntino i suoi principi) non può fregiarsi del titolo di Sommario di Storia dell'Arte senese, ma tutt'al più di «archivio sommario per la storia dell'arte senese»; «documentazione sommaria per la storia dell'arte senese» o altri titoli egualmente modesti. Di che titolo possa poi fregiarsi la conclusione, che, è strano, ma lì per lì, parrebbe una conclusione del sommario archivistico, mentre il Dami ha asserito che i due lavori debbono restare perfettamente separati; che titolo, ripeto, le possa convenire, questo, vedremo.

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Il Moncalvo ritorna ancora per noi nel quadretto (n. 199) attribuito a scuola veneta del secolo XVI, e, infatti, dopo averlo riconosciuto per tale, abbiamo potuto riscontrare che esso non è che il bozzetto per il fondo della Processione del Santo Chiodo che il Moncalvo dipinse nella chiesa di S. Marco a Novara.

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Altre opere importantissime del primo periodo spiace di non vedere citate; e sono la Predica e la Decollazione del Battista a San Domenico di Napoli; la Madonna della Lettera nel Museo di Messina, L'Enea e Anchise dei Depositori della Corsiniana a Roma [figura 150], la Samaritana e Cristo, già in Sant'Apollinare, ora nella pinacoteca in formazione al Laterano, la Maddalena di Oldenburg [figura 151], le opere di collezioni private aquilane già pubblicate dal Serra, e la grande tela con il Tasso alla corte di Ferrara (sotto forma di concerto caravaggesco) che abbiamo riconosciuto da poco come un Preti affatto giovenile, nella quadreria dell'Accademia Albertina di Torino, dove reca l'attribuzione generica a un caravaggesco del secolo XVII [figure 152-154].

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La bella fermezza con la quale Morelli gli tolse i due Santi cavalieri di Lovere, che abbiamo appena illustrati, e negò fede alla identificazione con il Bonvicino di quell' «Alexander Brixiensis»che firmò la lunetta dell'Incoronazione* nella cappella di San Giovanni Evangelista20, erano buoni avviamenti per ricostruire saldamente la persona dell'artista: ma il Morelli guastò questa buona apertura, aggiogando il Moretto dal 1521 in poi, al carro del Romanino.

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Certo che questo è il paesaggio veneziano dei primi del '500, combinato già con le specifiche qualità bresciane che Moretto forma affatto personalmente su ricordi foppeschi e dopofoppeschi; quali si rivelano nel piegare strano del panneggio sulla gamba del Cristo, nel suo stesso tipo, nel modellare un po' ossuto del piede, e in quel gioco di luce tutt'affatto «lombardo», nel senso che abbiamo da poco definito, che modella a macchietta e non a piani le figure degli angeli intorno all'alone celeste.

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È come un seguito all'articolo sulle «Caratteristiche generali della scultura barocca» apparso nel numero precedente della stessa rivista, e del quale abbiamo parlato.

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Potremmo anche citare molti esempi di quella frattura che abbiamo rilevato tra la creduta «tecnica» in cui essi mandavano al macello buona porzione dell'arte, e «l'invenzione» o «arte di pensiero, di commozione» e simili; null'altro che vignetta: «Se in coloro che sono ricchi d'invenzione questa prepondera sulla tecnica, d'altra parte in quelli in cui prepondera la tecnica spesso l'invenzione è povera». Altrove a proposito di Gérôme: « Non gl'interessa né di essere l'una e l'altra cosa (eh, eh, che ne dite?), ma la sua missione non è questa; non di parlare ai tecnici; egli vuol discorrere con l'universo, e ci riesce; e a chi lo biasima per la tecnica risponde che egli si serviva della pittura per esprimere quanto egli sentiva ». Dove si rileva, che secondo Dalbono i «coloristi e i disegnatori» sono semplicemente «tecnici» (per esempio Tiziano, Michelangelo), e poi che Gérôme si faceva servire dalla pittura; e noi sappiamo come si trattino i servitori. Infine basta pensare a Gérôme, e il giudizio di queste affermazioni del D. è subito dato. Il gioviale partenopeo s'accorse almeno due volte che in tal modo si veniva a cacciare dalla porta non la «tecnica» ma l'arte della pittura, e tentò di ovviarvi in due modi. Il primo, ch'era poi quello effettivamente applicato nell'arte dal Morelli stesso e da altri romantici illustratori, consiste nel ritenere, secondo principî che non riescono certo ad avere un carattere di peremità appoggiati come sono a concezioni letterarie affatto di transito, che si possa, com'egli afferma di Pagliano, «colorire il tema con colori propri adatti al carattere e al sentimento del soggetto ». E sentite come applica nella critica questo simbolismo cromatico parlando della Congiura dei Buondelmonte: «combinazioni dei colori in armonie ricche e tragiche... chiaroscuri aspri e vigorosi, come si convengono ai prossimi colpi di pugnale (qui proprio si ride) dei quali sarà vittima il Buondelmonte... », e seguita su questo tono. L'altro modo di superare il «tecnicismo» e l'«illustrazionismo» in una concezione unitaria è quello che chiameremmo volentieri il «misticismo critico»,cioè l'acriticismo per definizione. Nulla lo rispecchia meglio che questa effusione da Piedigrotta: «La tecnica è l'arte,e l'arte è la tecnica. Ma in queste parole, o signori, è compreso un mistero senza confine, mistero che non si sa dove comincia e dove finisce».

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Di questo siamo responsabili noi, e non è il signor West che debba giudicarne; e quanto al dopoguerra speriamo di dimostrare che non abbiamo affatto bisogno che la ricerca artistica tedesca si offra di pagarci la tassa molto forte dell'eredità della nostra vecchia tradizione artistica; pagheremo noi, lo promettiamo; e convinceremo implicitamente di nullità molti dei sedicenti eredi, e, primo fra tutti, il signor West.

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Dello stile che segue immediatamente a questo gruppo dei manieristi d'Anversa noi abbiamo in Italia un bellissimo esempio nel famoso trittico del Museo di Palermo. Ma il Friedländer ha torto di credere che le forme torte e ricercate dei primi manieristi d'Anversa siano indipendenti dal sud e 'Perciò schiettamente nazionali. Questi artisti non sono semplicemente, come vuole il Friedländer, un parallelo alla stranezza di Cranach, del giovane Altdorfer, o del Dürer dell’Apocalisse (i quali, anch'essi non si spiegano senza il sud), ma sono proprio null'altro che i precursori del romanismo fiammingo.

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S'intende che lo Schmidt ha buon gioco nel respingere le stroncature del Carstens fatte in base a criteri puramente impressionistici; ma noi abbiamo gioco anche migliore nel mettere a fronte frasi scritte dallo Schmidt a poche linee d'intervallo. Come mettere d'accordo le affermazioni che Carstens rappresenterebbe coi Nazareni il genuino classicismo tedesco; che la sua grandezza nasce dal fatto che le sue opere sono «espressioni delle stesse ideali forme umane che avevano avvivato la fantasia dello scultore greco», con le altre secondo le quali sotto il neoclassicismo di Carstens si può scovrire la più schietta «Deutschtum»; che in Carstens il «classico» è solo il punto d'appoggio, il mezzo, non il fine; che anzi il fine di Carstens non è la bellezza, ma il carattere, il misticismo, l'interiorità,tutte insomma le stimmate del più puro «gotico»?

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Salvo una riduzione del Cristo della Minerva e del Bacco ebbro di Michelangelo, abbiamo a che fare con abili copie di opere classiche come il Laocoonte, l’Ercole, la Flora, il Toro Farnese, figure di Pan, di Satiri, di Sileno e Bacco, resi con grande scioltezza e tuttavia con certa fedeltà di carattere.

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Noi abbiamo in serbo un «Trio: Strozzi, Feti, Jan Lys» dove lo studio dei tre artisti era condotto per simpatie parallele di tendenze formali. Ma l’Oldenbourg conosce così poco il Feti che la frase del Sandrart la quale insiste straordinariamente sull'azione del Feti su Jan Lys resta presso a poco per lui lettera morta, e peggio che lettera morta se fa discendere di Fiandra il gusto delle parabole fetiane, se afferma che Feti il grande colorista della Manna di Mantova si sia interessato al colore in se stesso molto meno di Jan Lys. Lo Strozzi è per 1'Oldenbourg un'altra incognita ci pare, s'egli ha il coraggio di affermare che il pittore genovese non giunse mai a liberarsi dal fondamento tenebroso mentre tutti sanno che proprio tutto il periodo veneziano di Strozzi rappresenta questa liberazione e che il San Lorenzo ai Tolentini dà dei punti in chiarezza cromatica e in «plein air» al San Girolamo proprio nella stessa chiesa, a non più che cinquanta metri, di Giovanni Lys, detto Pan.

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Ed abbiamo esaminato con grandissimo interesse i primi quattro volumi di questa senza dubbio bella e rispettabile impresa, la quale merita appunto per la severità dei suoi fini, severità di esame.

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No, meglio accontentarsi di una guida come quella che il Touring oggi ci offre, migliorata soltanto in que' particolari che abbiamo colto in fallo; e tutt'al più scrivere sul frontespizio con desolata condiscendenza: «Ma viva la statistica, vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, [le guide], e le tante belle creazioni del nostro secolo».

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Noi abbiamo già tratto dalle lettere di Artemisia Gentileschi al Ruffo tutto il partito che si poteva per la storia di una personalità artistica e del gusto di quei tempi. Minor partito di certo si può trarre dalla corrispondenza del Cortona (Roma, 1645, 1659), del Ribera (Napoli, 1650), dello Stanzioni (Napoli, 1649, 1650, 1651, 1653), del Guercino (da Bologna, 1648, 1649, 1650, 1660-1663), del Gennari negli anni successivi fino al 1670, salvo il profitto inevitabile per i soliti termini cronologici, e per la datazione di certe opere, oltre che per le notizie sui nuovi quadri napoletani e bolognesi (Carracci, Franceschini, Reni e G. A. Sirani, Preti, Guercino, ecc.), che entrarono per tal via nella raccolta del Ruffo.

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Abbiamo già ricordato la perfetta corrispondenza tra la descrizione del quadro del Jordaens citato nell'inventario del 1640, e quello che si conserva nel Museo di Bruxelles; noi propendiamo per una identificazione delle due citazioni.

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Abbiamo invece a che fare con un'opera di Mattia Preti, verso il 1640; eroe del suo primo periodo. L'influenza della tarda cerchia caravaggesca e riberiana rappresentata da P. Fr. Mola (Omero di Venezia *, di Torino, ecc.), unita a elementi guercineschi è anche troppo evidente. La caratteristica illuminazione grassa della guancia e del goletto del bambino in costume veneziano, può confrontarsi utilmente con il Concerto Doria, le due tele di Brera, il Tasso dell'Accademia Albertina a Torino, il Concerto [figura 174] del prof. Podio a Bologna, tutte opere bellissime del primo periodo del cav. Calabrese.

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Abbiamo ora, dunque, la chiesa-museo, il modello didascalico di basilica cristiana; e anche i bimbi da cresima sapranno che Santa Sabina era così, o così avrebbe dovuto essere, non diversamente, nel primo quarto del secolo quinto. (Ma chi sa poi?). C'erano allora, di certo, i grandi finestroni a transenne, e sono stati rifatti; c'era la schola cantorum, la cattedra vescovile, e sono state rifatte, o, come si dice, pomposamente, restaurate; rifatto l'altare di finto porfido, e sopra i candelabri di stagno e il crocefisso, rifatti così che il rigattiere più spregiudicato si periterebbe dall'accogliere in vetrina.

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Infine, noi non abbiamo nessuna tenerezza speciale per gli autografi; ma via, non possiamo nascondere l'emozione cordiale di fronte ad alcuni biglietti firmati in Amsterdam da Rembrandt van Rijn. In verità dopo l'esumazione dei tesori barbarici nei paesi latini nulla mi ha commosso più di queste improvvise orme giganti.

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Abbiamo dunque il libro sul Piranesi. Poiché per quante correzioni di particolari possano venire avanzate da specialisti, lo scritto del Focillon è squisitamente intelligente e le linee maestre necessarie alla comprensione di Piranesi non potranno esser spostate di molto.

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Non abbiamo dunque quasi nulla a ridire sulla parte che riguarda l'architettura, salvo il giudizio non abbastanza favorevole sul Borromini.

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Nel far critica figurativa abbiamo sempre inteso di fare storia, ed abbiamo anzi fin dagli inizi del nostro lavoro esplicitamente dichiarato di esserci accorti che «la critica coincideva con la storia». Tale dichiarazione abbiamo creduto di comprovare con studi storici singoli, condotti sempre con quel «puro» metodo figurativo, sempre cioè per via di un rilievo esatto di tutti gli elementi formali che, esaminati con acutezza nei rapporti tra opera e opera, si dispongono inevitabilmente in serie di sviluppo storico, cui tuttavia il rapporto con una qualsiasi serie cronografica è inessenziale.

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Pagina 455

Ecco infine, classica riescita di quei suoi studî speciali sul divino gruppo della Sacra Famiglia, la Madonna di Hampton Court; e la sua sorella carnale, che abbiamo ritrovato.

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Abbiamo notato la tendenza di alcune opere di Ardengo Soffici per superare il cubismo: la stessa 'Via sta seguendo Carrà.

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