Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Un vampiro

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Luigi Capuana 1 occorrenze

"Lo abbiamo fatto; è stato inutile. I primi fenomeni, le prime manifestazioni più evidenti sono avvenuti in campagna, nella nostra villa di Foscolara ... Siamo scappati via. Ma la stessa sera dell'arrivo in città ... ". "È naturale. Che distrazione poteva darvi la vostra casa? Dovevate viaggiare, far vita d'albergo, un giorno qua, un giorno là; andare attorno l'intera giornata per chiese, monumenti, musei, teatri; tornare all'albergo a sera tardi, stanchi morti ... ". "Abbiamo fatto anche questo, ma ... ". "Voi due soli, m'immagino. Dovevate cercare la compagnia di qualche amico, di una comitiva ... ". "Lo abbiamo fatto; non è valso a niente". "Chi sa che comitiva!". "Di gente allegra ... ". "Gente egoista vuol dire, e vi siete trovati isolatissimi in mezzo ad essa, capisco ... ". "Prendevamo anzi molta parte alla loro allegria, sinceramente, spensieratamente. Appena però ci trovavamo soli ... Non potevamo mica condurre la comitiva a dormire con noi ... ". "Ma dunque dormivate? Ora non capisco più, se tu intendi parlare di allucinazioni o pure di sogni ... ". "E picchia con le allucinazioni, coi sogni! Eravamo svegli, con tanto di occhi spalancati, nelle più limpide funzioni dei sensi e dello spirito, come in questo momento che vorrei ragionare con te e tu ti ostini a non volermi concedere..". "Tutto quel che vuoi". "Vorrei almeno esporti i fatti". "Li so, me li figuro; i libri di scienza ne sono pieni zeppi. Potranno esservi diversità insignificanti nei minuti particolari ... Non contano. L'essenziale natura del fenomeno non muta per ciò". "Non vuoi darmi neppure la soddisfazione ... ?". "Cento, non una, giacché ti fa piacere. Tu sei di coloro che amano di grogiolarsi nei dolori, quasi vogliano centellinarseli ... È stupido, scusa! ... Ma se ti fa piacere ... ". "Francamente, mi sembra che tu abbia paura". "Paura di che? Sarebbe bella! ... ". "Paura di dover mutare opinione. Hai detto: Io non credo agli spiriti. E se, dopo, fossi costretto a crederci?". "Ebbene, sì; questo mi seccherebbe. Che vuoi? Siamo così noi scienziati: siamo uomini, caro mio. Quando il nostro modo di vedere, di giudicare ha preso una piega, l'intelletto si rifiuta fin di prestar fede ai sensi. Anche l'intelligenza è affare di abitudine. Tu intanto mi metti con le spalle al muro. Sia. Sentiamo dunque questi famosi fatti". "Oh! ... ", esclamò con un largo respiro Lelio Giorgi. "Già sai per quali tristi circostanze dovetti andarmene a cercar fortuna in America. I parenti di Luisa erano contrari alla nostra unione; come tutti i parenti - e non dico che avessero torto - anch'essi badavano, più che ad altro, alla situazione economica di colui che doveva essere il marito della loro figliuola. Non avevano fiducia nel mio ingegno; diffidavano anzi della mia pretesa qualità di poeta. Quel volumetto di versi giovanili pubblicato allora, è stato la mia maggiore disgrazia. Non che pubblicati, non ne ho scritti più da quell'anno in poi; ma anche tu, poco fa, mi hai chiamato caro poeta! L'etichetta mi è rimasta appiccata addosso, quasi fosse stata scritta con inchiostro indelebile. Basta. Suol dirsi che c'è un Dio per gli ubriachi e pei bambini. Bisognerebbe aggiungere: E talvolta anche pei poeti, giacché devo passare per poeta". "Ecco come siete voialtri letterati! Cominciamo sempre ab ovo! ". "Non spazientirti. Ascolta. Durante la mia dimora di tre anni a Buenos Aires, non aveva più avuto nessuna notizia di Luisa. Piovutami dal cielo quell'eredità di uno zio che non s'era mai fatto vivo con me, tornai in Europa, corsi a Londra ... e con dugentomila lire di cartelle della Banca d'Inghilterra volai qui ... dove mi attendeva il più doloroso disinganno. Luisa era sposa da sei mesi! Ed io l'amavo più di prima! ... La povera creatura aveva dovuto cedere alle insistenti pressioni dei suoi. Ci mancò poco, te lo giuro, che non commettessi una pazzia. Questi particolari, vedrai, non sono superflui ... Commisi però la sciocchezza di scriverle una focosissima lettera di rimproveri, e di spedirglierla per posta. Non avevo previsto che potesse capitare in mano del marito. Il giorno dopo egli si presentò a casa mia. Compresi subito l'enormità del mio atto e mi proposi di esser calmo. Era calmo anche lui. "Vengo a restituirle questa lettera" mi disse. "Ho aperto sbadatamente, non per indiscrezione, la busta che la conteneva; ed è stato bene che sia accaduto così. Mi hanno assicurato che lei è un gentiluomo. Rispetto il suo dolore; ma spero che lei non vorrà turbare inutilmente la pace di una famiglia. Se può fare lo sforzo di riflettere, si convincerà che nessuno ha voluto arrecarle del male volontariamente. Certe fatalità della vita non si sfuggono. Lei intende qual è ormai il suo dovere. Le dico intanto, senza spavalderia, che son risoluto a difendere a ogni costo la mia felicità domestica". Era impallidito parlando e gli tremava la voce. "Chiedo perdono dell'imprudenza" risposi. "E, per meglio rassicurarla, le dico che domani partirò per Parigi". Dovevo essere più pallido di lui; le parole mi uscivano a stento di bocca. Mi stese la mano; gliela strinsi. E mantenni la parola. Sei mesi dopo, ricevevo un telegramma di Luisa: "Sono vedova. T'amo sempre. E tu?". Suo marito era morto da due mesi". "Il mondo è così: la disgrazia di uno forma la felicità di un altro". "È quel che egoisticamente pensai anch'io; ma non sempre è vero. Mi era parso di toccare il cielo col dito la sera delle nozze e durante i primi mesi della nostra unione. Evitammo, per tacito accordo, di parlare di colui . Luisa aveva distrutto ogni traccia del morto. Non per ingratitudine, giacché quegli, illudendosi di essere amato, aveva fatto ogni sforzo per renderle lieta la vita; ma perché temeva che l'ombra di un ricordo, anche insignificante, potesse dispiacermi. Indovinava giusto. Certe volte, il pensiero che il corpo della mia adorata era stato in pieno possesso, quantunque legittimo, di un altro mi dava tale stretta al cuore, che mi faceva fremere da capo a piedi. Mi sforzavo di nasconderglielo. Spesso però l'intuito femminile velava di malinconia i begli occhi di Luisa. E per ciò la vidi raggiante di gioia, quando ella fu sicura di potermi annunciare che un frutto del nostro amore le palpitava nel seno. Ricordo benissimo: prendevamo il caffè, io in piedi, ella seduta con una posa di dolce stanchezza. Fu quella la prima volta che un accenno al passato le sfuggì dalle labbra. "Come sono felice" esclamò "che questo sia avvenuto soltanto ora!". Si udì un gran colpo all'uscio, quasi qualcuno vi avesse picchiato forte col pugno. Trasalimmo. Io corsi a vedere, sospettando una sbadataggine della cameriera o di un servitore; nella stanza allato non c'era nessuno". "Vi sarà parso colpo di pugno qualche schianto forse prodotto nel legno dell'uscio dal calore della stagione". "Diedi tale spiegazione, visto il turbamento grandissimo di Luisa; ma non ne ero convinto. Un forte senso di impaccio, non so definirlo altrimenti, si era impossessato di me e non riuscivo a celarlo. Stemmo alcuni minuti in attesa. Niente. Da quel momento in poi, però, notai che Luisa evitava di rimaner sola; il turbamento persisteva in lei, quantunque non osasse di confessarmelo, né io di interrogarla". "E così, ora comprendo, vi siete suggestionati, inconsapevolmente, a vicenda". "Niente affatto. Pochi giorni dopo io ridevo di quella sciocca impressione; e attribuivo allo stato interessante di Luisa l'eccessivo eccitamento nervoso che traspariva dai suoi atti. Poi parve tranquillarsi anch'essa. Avvenne il parto. Dopo qualche mese però, mi accorsi che quel senso di paura, anzi di terrore, l'aveva ripresa. La notte, tutt'a un tratto, ella si avvinghiava a me, diaccia, tremante. "Che cosa hai? Ti senti male?" le domandavo ansioso. "Ho paura ... Non hai udito?". "No". "Non odi? ... " insistette la sera appresso. "No". Invece quella volta udivo un fioco suono di passi per la stanza, su e giù, attorno al letto; dicevo di no per non atterrirla di più. Levavo il capo, guardavo ... "Dev'essere entrato qualche topo in camera ... ". "Ho paura! ... Ho paura!". Per parecchie notti, ad ora fissa prima della mezzanotte, sempre quello scalpiccio, quell'inesplicabile andare e venire, su e giù, di persona invisibile, attorno al letto. Lo attendevamo". "E le fantasie riscaldate facevano il resto". "Tu mi conosci bene; non sono uomo da essere eccitato facilmente. Facevo il bravo anzi, per riguardo di Luisa; tentavo di dare spiegazioni del fatto: echi, ripercussioni di rumori lontani; accidentalità della costruzione della villa, che la rendevano stranamente sonora ... Tornammo in città. Ma, la notte appresso, il fenomeno si riprodusse con maggior forza. Due volte la spalliera appiè del letto venne scossa con violenza. Balzai giù, per osservar meglio. Luisa, rannicchiata sotto le coperte, balbettava: "È lui! È lui!"". "Scusa" lo interruppe Mongeri "non te lo dico per metter male tra tua moglie e te, ma io non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo! Qualcosa permane sempre del marito morto, a dispetto di tutto, nella vedova. Sì. "È lui! È lui!". Non già, come crede tua moglie, l'anima del defunto. È quel lui , cioè sono quelle sensazioni, quelle impressioni di lui rimaste incancellabili nelle sue carni. Siamo in piena fisiologia". "Sia pure. Ma io" riprese Lelio Giorgi "come c'entro con la tua fisiologia?". "Tu sei suggestionato; ora è evidente, evidentissimo". "Suggestionato soltanto la notte? A ora fissa?". "L'attenzione aspettante, oh! fa prodigi". "E come mai il fenomeno varia ogni volta, con particolari imprevisti, poiché la mia immaginazione non lavora punto?". "Ti pare. Non abbiamo sempre coscienza di quel che avviene dentro di noi. L'incosciente! Eh! Eh! fa prodigi anch'esso". "Lasciami continuare. Riserva le tue spiegazioni a quando avrò finito. Nota che la mattina, nella giornata, noi ragionavamo del fatto con relativa tranquillità. Luisa mi rendeva conto di quel che aveva sentito lei, per raffrontarlo con quel che avevo sentito io, appunto per convincerci, come tu dici, se mai le fantasie sovraeccitate ci facessero, nostro malgrado, quel brutto scherzo. Risultava che avevamo sentito l'identico rumore di passi, nella stessa direzione, ora lento, ora accelerato; la stessa scossa alla spalliera del letto, lo stesso strappo alle coperte e nella stessissima circostanza, cioè quando io tentavo, con una carezza, con un bacio, di calmare il suo terrore, d'impedirle di gridare: "È lui! È lui!" quasi quel bacio, quella carezza provocassero lo sdegno della persona invisibile. Poi, una notte, Luisa, aggrappandosi al collo, accostando le labbra al mio orecchio, con un suono di voce che mi fece trasalire, mi sussurrò: "Ha parlato!", "Che dice?", "Non ho sentito bene ... Odi? Ha detto: Sei mia!". E siccome anch'io la stringevo più fortemente al petto, sentii che le braccia di Luisa venivano tratte indietro, violentemente, da due mani poderose; e dovettero cedere non ostante la resistenza che mia moglie opponeva". "Che resistenza poteva opporre, se era lei stessa che agiva in quel modo, senza averne coscienza?". "Va bene ... Ma ho sentito l'ostacolo anche io, di persona che si frapponeva tra me e lei, di persona che voleva impedire, a ogni costo, il contatto tra me e lei ... Ho visto mia moglie rigettata indietro con una spinta ... Giacché Luisa voleva stare in piedi, per via del bambino che dormiva nella culla accanto al letto, ora che sentivamo scricchiolare i ferri a cui la culla era sospesa e vedevamo la culla dondolare, traballare e le copertine volare via per la camera, buttate per aria malamente ... Non era allucinazione questa. Le raccoglievo; Luisa, tremante, le rimetteva al posto; ma di lì a poco esse volavano per aria di nuovo, e il bambino, destato dalla scossa, piangeva. Tre notti fa, peggio ... . Luisa sembrava vinta dal malefico fascino di colui ... Non mi udiva più, se la chiamavo, non si accorgeva di me che le stavo davanti ... Parlava con colui e, dalle sue risposte, capivo quel che colui le diceva. "Che colpa ho io, se tu sei morto? Oh! no, no! ... Come puoi pensarlo? Avvelenarti io? ... Per sbarazzarmi di te? ... È un'infamia! E il bambino che colpa ha? Soffri? Pregherò per te farò dire delle messe ... Non vuoi messe? ... Me, vuoi? ... Ma come mai? Sei morto! ... ". Invano io la scotevo, la chiamavo per destarla da quella fissazione, da quell'allucinazione ... Luisa si ricomponeva tutt'a un tratto. "Hai sentito?", mi diceva, "Mi accusano di averlo avvelenato. Tu non ci credi ... Tu non mi sospetterai capace ... oh Dio! E come faremo pel bambino? Lo farà morire! Hai sentito?". Io non avevo udito niente, ma capivo benissimo che Luisa non era pazza, non delirava ... Piangeva, abbracciando stretto stretto il bambino levato dalla culla per proteggerlo dal maleficio di colui . "Come faremo? Come faremo?"". "Il bambino però stava bene. Questo avrebbe dovuto tranquillarvi". "Che vuoi? Non si assiste a fatti di tale natura senza che la mente più solida non ne riceva una scossa. Io non sono superstizioso, ma non sono neppure un libero pensatore. Sono di quelli che credono e non credono, che non si occupano di quistioni religiose perché non hanno tempo né voglia di occuparsene ... Ma nel mio caso e sotto l'influenza delle parole di mia moglie: "Farò dire delle messe" pensai naturalmente all'intervento di un prete". "L'hai fatta esorcizzare?". "No, ma ho fatto ribenedire la casa, con gran spargimento di acqua benedetta ... anche per impressionare l'immaginazione della povera Luisa, se mai si fosse trattato d'immaginazione esaltata, di nervi sconvolti ... Luisa è credente. Tu ridi, ma avrei voluto veder te nei miei panni". "E l'acqua benedetta?". "Inefficace. Come se non fosse stata adoperata". "Non l'avevi pensato male. Anche la scienza ricorre talvolta a mezzi simili nelle malattie nervose. Abbiamo il caso di quel tale che credeva gli si fosse allungato enormemente il naso. Il medico finse di fargli l'operazione, con tutto l'apparato di strumenti, di legatura di vene, di fasciature ... e il malato guarì". "L'acqua benedetta invece fece peggio. La notte dopo ... Oh! ... Mi sento rabbrividire al solo pensarci. Ora tutto l'odio di colui era rivolto contro il bambino ... Come proteggerlo? ... Appena Luisa vedeva ... ". "O le sembrava di vedere ... ". "Vedeva, caro mio, vedeva ... Vedevo anche io ... quasi. Giacché mia moglie non poteva più avvicinarsi alla culla; una strana forza glielo impediva ... Io tremavo allo spettacolo di lei che tendeva desolatamente le braccia verso la culla, mentre colui - me lo diceva Luisa - chinato sul bambino dormente, faceva qualcosa di terribile, bocca con bocca, come se gli succhiasse la vita, il sangue ... Sono tre notti di seguito che la nefanda operazione si ripete e il bambino, il caro figliuolino ... non si riconosce più. Bianco, da roseo che era! come se realmente colui gli abbia aspirato il sangue; deperito in modo incredibile, in tre sole notti! È immaginazione questa? È immaginazione? Vieni a vederlo". "Si tratta dunque?..". Il Mongeri rimase alcuni minuti pensoso, a testa bassa, aggrottando le sopracciglia. Il sorriso un po' sarcastico e un po' compassionevole apparsogli su le labbra mentre Lelio Grandi parlava, si era spento tutt'a un tratto. Poi alzò gli occhi, fissò l'amico che lo guardava con ansiosissima attesa e ripetè: "Si tratta dunque? ... Ascoltami bene. Io non ti spiego niente, perché sono convinto di non poter spiegarti niente. È difficile essere più schietto di così. Ma posso darti un consiglio ... empirico, che forse ti farà sorridere alla tua volta, specialmente venendoti da me ... Fanne l'uso che credi". "Lo eseguirò subito, oggi stesso". "Ci vorrà qualche giorno, per parecchie pratiche che occorrono. Ti aiuterò a sbrigarle nel più breve tempo possibile. I fatti che mi hai riferito non li metto in dubbio. Devo aggiungere che, per quanto la scienza sia ritrosa di occuparsi di fenomeni di tale natura, da qualche tempo in qua non li tratta con l'aria sprezzante di prima: tenta di farli rientrare nella cerchia dei fenomeni naturali. Per la scienza non esiste altro, all'infuori di questo mondo materiale. Lo spirito ... Essa lascia che dello spirito si occupino i credenti, i mistici, i fantastici che oggi si chiamano spiritisti ... Per la scienza c'è di reale soltanto l'organismo, questa compagine di carne e di ossa formante l'individuo e che si disgrega con la morte di esso, risolvendosi negli elementi chimici da cui riceveva funzionamento di vita e di pensiero. Disgregati questi ... Ma appunto la quistione si riduce, secondo qualcuno, a sapere se la putrefazione, la disgregazione degli atomi, o meglio la loro funzione organica si arresti istantaneamente con la morte, annullando ipso facto la individualità, o se questa perduri, secondo i casi e le circostanze, più o meno lungamente dopo la morte ... Si comincia a sospettarlo ... E su questo punto la scienza verrebbe a trovarsi d'accordo con la credenza popolare ... Io studio, da tre anni, i rimedi empirici delle donnicciuole, dei contadini per spiegarmi il loro valore ... Essi, spessissimo, guariscono mali che la scienza non sa guarire ... La mia opinione oggi sai tu qual è? Che quei rimedi empirici, tradizionali siano i resti, i frammenti della segreta scienza antica, e anche, più probabilmente, di quell'istinto che noi possiamo oggi verificare nelle bestie. L'uomo, da principio, quando era molto vicino alle bestie più che ora non sia, divinava anche lui il valore terapeutico di certe erbe: e l'uso di esse si è perpetuato, trasmesso di generazione in generazione, come nelle bestie. In queste opera ancora l'istinto; nell'uomo, dopo che lo svolgimento delle sue facoltà ha ottenebrato questa virtù primitiva, perdura unicamente la tradizione. Le donnicciuole, che sono più tenacemente attaccate ad essa, ci han conservato alcuni di quei suggerimenti della natura medicatrice; ed io credo che la scienza debba occuparsi di questo fatto, perché in ogni superstizione si nasconde qualcosa che non è unicamente fallace osservazione dell'ignoranza ... Perdonami questa lunga disgressione. Quello che qualche scienziato ora ammette, cioè che, con l'atto apparente della morte di un individuo, non cessi realmente il funzionamento dell'esistenza individuale fino a che tutti gli elementi non si siano per intero disgregati, la superstizione popolare - ci serviamo di questa parola - lo ha già divinato da un pezzo con la credenza nei Vampiri, ed ha divinato il rimedio. I Vampiri sarebbero individualità più persistenti delle altre, casi rari, sì, ma possibili anche senza ammettere l'immortalità dell'anima, dello spirito ... Non spalancar gli occhi, non crollare la testa ... È fatto, non insolito, intorno al quale la così detta superstizione popolare - diciamo meglio - la divinazione primitiva potrebbe trovarsi d'accordo con la scienza ... E sai qual è la difesa contro la malefica azione dei Vampiri, di queste persistenti individualità che credono di poter prolungare la loro esistenza succhiando il sangue o l'essenza vitale delle persone sane? ... L'affrettamento della distruzione del loro corpo. Nelle località dove questo fatto si produce, le donnicciuole, i contadini corrono al cimitero, disseppelliscono il cadavere, lo bruciano ... È provato che il Vampiro allora muore davvero; e infatti il fenomeno cessa ... Tu dici che il tuo bambino ... ". "Vieni a vederlo; non si riconosce più. Luisa è pazza dal dolore e dal terrore ... Mi sento impazzire pure io, anche perché invasato dal diabolico sospetto ... Ma ... Invano mi ripeto: Non è vero! Non può esser vero! ... Invano ho tentato di confortarmi pensando: E dato pure che fosse vero? ... È una gran prova d'amore. Si è fatta avvelenatrice per te! ... - Invano! Non so né posso più difendermi da una vivissima repugnanza, da una straziante violenza di allontanamento, altra malefica opera di colui ! ... Egli insiste nel rimprovero: lo capisco dalle risposte di Luisa, quando colui la tiene sotto il suo orrido fascino, e la poverina protesta. "Avvelenarti? Io? ... Come puoi crederlo? ... ". Oh! Non viviamo più, amico mio. Sono mesi e mesi che sopportiamo questo tormento, senza farne parola a nessuno per timore di far ridere di noi le persone che si dicono spregiudicate ... Tu sei il primo a cui ho avuto il coraggio di farne la confidenza per disperazione, per invocare un consiglio, uno scampo ... E avremmo ancora pazientemente sopportato tutto, lusingandoci che così strani fenomeni non avrebbero potuto prolungarsi troppo, se ora non corresse pericolo la nostra innocente creaturina". "Fate cremare il cadavere. È una prova che m'interessa, oltre che come amico, come scienziato. Alla moglie, quantunque non più vedova, sarà facilmente concesso; ti aiuterò nelle pratiche occorrenti presso le autorità. E non mi vergogno per la scienza di cui sono un meschino cultore. La scienza non scapita di dignità ricorrendo anche all'empirismo, facendo tesoro di una superstizione, se poi potrà verificare che è superstizione soltanto in apparenza; ne riceverà impulsi a ricerche non tentate, a scoprire verità non sospettate. La scienza deve essere modesta, buona, pur di aumentare il suo patrimonio di fatti, di verità. Fate cremare il cadavere. Ti parlo seriamente", soggiunse il Mongeri, leggendo negli occhi del suo amico il dubbio di esser trattato da donnicciuola, da popolano ignorante. "E il bambino intanto?", esclamò Lelio Giorgi torcendosi le mani. "Una notte io ebbi un impeto di furore; mi slanciai contro colui seguendo la direzione degli sguardi di Luisa, quasi egli fosse persona da potersi afferrare e strozzare; mi slanciai urlando: "Va' via! Va' via, maledetto! ... ". Ma fatti pochi passi, ero arrestato, paralizzato, inchiodato là, a distanza con le parole che mi morivano in gola e non riuscivano a tradursi neppure in indistinto mugolio ... Tu non puoi credere, tu non puoi immaginare ... ". "Se volessi permettermi di tenervi compagnia questa notte ... ". "Ecco: me lo chiedi con tale accento di diffidenza ... ". "T'inganni". "Forse faremo peggio: temo che la tua presenza non serva che ad irritarlo di più, come la benedizione della casa. Questa notte no. Verrò a riferirti domani ... ". E, il giorno dopo, egli tornò così spaventato, così disfatto che il Mongeri concepì qualche dubbio intorno all'integrità delle facoltà mentali del suo amico. "Egli sa!", balbettò Lelio Giorgi appena entrato nello studio. "Ah, che nottata d'inferno! Luisa lo ha sentito bestemmiare, urlare, minacciare terribili gastighi se noi oseremo". "Tanto più dobbiamo osare", rispose il Mongeri. "Se tu avessi visto quella culla scossa, agitata in modo che io non so spiegarmi come il bambino non sia cascato per terra! Luisa ha dovuto buttarsi ginocchioni, invocando pietà, gridandogli: "Si, sarò tua, tutta tua! ... Ma risparmia quest'innocente ... ". E in quel momento mi è parso che ogni mio legame con lei fosse rotto, ch'ella non fosse davvero più mia, ma sua, di colui !". "Càlmati! ... Vinceremo. Càlmati! ... Voglio esser con voi questa notte". Il Mongeri era andato con la convinzione che la sua presenza avrebbe impedito la manifestazione del fenomeno. Pensava: "Accade quasi sempre così. Queste forze ignote vengono neutralizzate da forze indifferenti, estranee. Accade quasi sempre così. Come? Perché? Un giorno certamente lo sapremo. Intanto bisogna osservare, studiare". E, nelle prime ore di quella notte, accadeva proprio com'egli aveva pensato. La signora Luisa girava gli spauriti occhi attorno, tendeva ansiosamente l'orecchio ... Niente. La culla rimaneva immobile: il bambino, pallido pallido, dimagrito, dormiva tranquillamente. Lelio Giorgi, frenando a stento l'agitazione, guardava ora sua moglie, ora il Mongeri che sorrideva soddisfatto. Intanto ragionavano di cose che, nonostante la preoccupazione, arrivavano in alcuni momenti a distrarli. Il Mongeri aveva cominciato a raccontare una sua divertentissima avventura di viaggio. Bel parlatore, senza nessun'affettazione di gravità scientifica, egli intendeva di deviare così l'attenzione di quei due, e intanto non perderli d'occhio, per notare tutte le fasi del fenomeno caso mai dovesse ripetersi, e già cominciava a persuadersi che il suo intervento sarebbe stato salutare, quando nell'istante che il suo sguardo si era rivolto verso la culla, egli si accorse di un lieve movimento di essa, il quale non poteva esser prodotto da nessuno di loro perché la signora Luisa e Lelio gli sedevano dirimpetto e discosti dal posto dov'era la culla. Non poté far a meno di fermarsi, di farsi scorgere, e allora Luisa e Lelio balzarono in piedi. Il movimento era aumentato gradatamente e quando la signora Luisa si volse a guardare là, dove gli occhi di Mongeri si erano involontariamente fissati, la culla si dondolava e sobbalzava. "Eccolo!", ella gridò. "Oh, Dio! Povero figliuolino!". Fece per accorrere, ma non poté. E cadde rovesciata su la poltrona dov'era stata seduta fin allora. Pallidissima, scossa da un fremito per tutta la persona, con gli occhi sbarrati e le pupille immobili, balbettava qualcosa che le gorgogliava nella gola e non prendeva suono di parola, e sembrava dovesse soffocarla. "Non è niente!", disse Mongeri, levatosi in piedi anche lui e stringendo la mano di Lelio che gli si era accostato con vivissimo atto di terrore, quasi per difesa. La signora Luisa, irrigiditasi un istante, ebbe un tremito più violento e subito parve ritornasse allo stato ordinario; se non che la sua attenzione era tutta diretta a guardare qualcosa che gli altri due non scorgevano, a prestar ascolto a parole che quelli non udivano, e delle quali indovinavano il senso dalle risposte di lei. "Perché dici che voglio continuare a farti del male? ... Ho pregato per te! ... Ho fatto dir delle messe! ... ". "Ma non si può sciogliere! Tu sei morto ... ". "Non sei morto? ... Dunque perché mi accusi di averti avvelenato? ... ". "D'accordo con lui? Oh! ... ". "Ti aveva promesso, sì; ed ha mantenuto ... Per finzione? C'intendevamo da lontano? Lui m'ha spedito il veleno? ... È assurdo! Non dovresti crederlo se è vero che i morti vedono la verità ... ". "Va bene. Non ti stimerò morto ... Non te lo ripeterò più". "È in istato di trance spontanea!", disse Mongeri all'orecchio di Lelio. "Lasciami". Presala pei pollici, dopo qualche minuto, e ad alta voce, chiamò: "Signora! ... ". Alla voce cupa e irritata, voce robusta, maschile, con cui ella rispose, Mongeri dié un salto indietro. La signora Luisa si era rizzata sul busto con tal viso rabbuiato, con tale espressione di durezza nei lineamenti, da sembrare altra persona. La speciale bellezza della sua fisionomia, quel che di gentile, di buono, quasi di verginale che risultava dalla dolcezza dello sguardo dei begli occhi azzurri e dal lieve sorriso errante su le labbra, come un delicato palpito di esse, quella speciale bellezza era compiutamente sparita. "Che cosa vuoi? Perché t'intrometti tu?". Mongeri riprese quasi subito padronanza di sé. L'abituale sua diffidenza di scienziato gli faceva sospettare di aver dovuto sentire anche lui, per induzione, per consenso dei centri nervosi, l'influsso del forte stato di allucinazione di quei due, se gli era parso di veder dondolare e sobbalzare la culla che, ora, egli vedeva benissimo immobile, con dentro il bambino tranquillamente addormentato, ora che la sua attenzione veniva attirata dallo straordinario fenomeno della personificazione del fantasma. Si accostò, con un senso di dispetto contro se stesso per quello sbalzo indietro al rude suono di voce che lo aveva quasi investito, e rispose imperiosamente: "Finiscila! Te l'ordino!". Aveva messo nell'espressione tale sforzo di volontà che il comando avrebbe dovuto imporsi all'esaltamento nervoso della signora, superarlo - egli pensava -. La sardonica e lunga risata che rispose subito a quel te l'ordino , lo scosse, lo fece titubare un istante. "Finiscila! Te l'ordino!", replicò poi con maggior forza. "Ah! Ah! Vuoi essere il terzo ... che gode ... Avvelenerete anche lui?". "Mentisci! Infamemente!". Mongeri non aveva potuto trattenersi di rispondere come a persona viva. E la lucidità della sua mente già un po' turbata, non ostante gli sforzi ch'egli faceva per rimanere osservatore attento e imparziale, venne sconvolta a un tratto quando si sentì battere due volte su la spalla da mano invisibile, e nel medesimo istante si vide apparire davanti al lume una mano grigiastra, mezza trasparente, quasi fosse fatta di fumo, e che contraeva e distendeva con rapido moto le dita assottigliandosi come se il calore della fiamma la facesse evaporare. "Vedi? Vedi?", gli disse Giorgi. E aveva il pianto nella voce. Improvvisamente ogni fenomeno cessò. La signora Luisa si destava dal suo stato di trance , quasi si svegliasse da sonno naturale, e girava gli occhi per la camera, interrogando il marito e Mongeri con una breve mossa del capo. Essi s'interrogavano, alla lor volta, sbalorditi di quel senso di serenità, o meglio di liberazione che rendeva facile il loro respiro e regolari i battiti del cuore. Nessuno osava parlare. Solamente un fioco lamento del bambino li fece accorrere ansiosi verso la culla. Il bambino gemeva, gemeva, dibattendosi sotto l'oppressione di qualcosa che sembrava aggravarglisi sulla bocca e gli impedisse di gridare ... Improvvisamente, cessò anche questo fenomeno, e non accadde più altro. La mattina, andando via, Mongeri non pensava soltanto che gli scienziati hanno torto di non voler studiare da vicino casi che coincidono con le superstizioni popolari, ma tornava a ripetersi mentalmente quel che aveva detto due giorni avanti ai suo amico: Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo . Come scienziato è stato ammirevole, conducendo l'esperimento fino all'ultimo senza punto curarsi se (nel caso che la cremazione del cadavere del primo marito della signora Luisa non avesse approdato a niente) la sua reputazione dovesse soffrirne presso i colleghi e presso il pubblico. Quantunque l'esperimento abbia confermato la credenza popolare e dal giorno della cremazione dei resti del cadavere i fenomeni siano compiutamente cessati, con gran sollievo di Lelio Giorgi e della buona signora Luisa, nella sua relazione, non ancora pubblicata, il Mongeri però non ha saputo mostrarsi interamente sincero. Non ha detto: "I fatti sono questi, e questo il resultato del rimedio: la pretesa superstizione popolare ha avuto ragione su le negazioni della scienza: il Vampiro è morto completamente appena il suo corpo venne cremato". No. Egli ha messo tanti se, tanti ma nella narrazione delle minime circostanze, ha sfoggiato tanta allucinazione , tanta suggestione , tanta induzione nervosa nel suo ragionamento scientifico, da confermare quel che aveva confessato l'altra volta, cioè: che anche la intelligenza è affare d'abitudine e che il mutar di parere lo avrebbe seccato. Il più curioso è che non si è mostrato più coerente come uomo. Egli che proclamava: "Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo" ne ha poi sposata una per molto meno, per sessantamila lire di dote! E a Lelio Giorgi che ingenuamente gli disse: "Ma come? ... Tu! ... ", rispose: "A quest'ora non esistono insieme neppure due atomi del corpo del primo marito. È morto da sei anni!", senza accorgersi che, parlando così, contraddiceva l'autore della memoria scientifica Un preteso caso di Vampirismo , cioè se stesso.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 26 occorrenze

. - Abbiamo mille cose da dirci. - Un momento, Sandokan, - disse Yanez, arrestandolo. - Fa' mettere la prora al nord e risaliamo a piccolo vapore verso la seconda foce del Redjang. Vi è un leopardo nero che ci aspetta lassù e che se non lo assaliamo ci guasterà i nostri piani. Si dice che sia molto forte. - Una nave? - Sì e che a quest'ora si prepara per darci la caccia. - Ah! - fece Sandokan, quasi con noncuranza. - Domani ci sbarazzeremo di quell'importuno. Chiamò Sambigliong e l'ingegnere di macchina e diede loro alcuni ordini, poi scese nell'elegante salotto del quadro con Tremal-Naik, Darma e Surama che s'appoggiava dolcemente a Yanez, il suo sahib bianco. Quando ebbe appreso l'esito della spedizione e quand'ebbe spiegato a Tremal-Naik tuttociò che era accaduto dopo il combattimento avvenuto sulle coste del Borneo, dell'acquisto della potente nave americana e della dichiarazione di guerra lanciata contemporaneamente all'Inghilterra ingenerosa ed al nipote di James Brooke, disse: - Non sono già le squadre inglesi, che non tarderanno a darci la caccia, nè la flottiglia del rajah di Sarawak che m'inquietano: è sempre il mistero che avvolge il figlio del tuo antico nemico, mio caro Tremal-Naik. Dove si nasconde quell'uomo che ha dato una rara prova della sua potenza, distruggendo per opera del pellegrino, le tue piantagioni e le tue possessioni? Quando ci assalirà? Che cosa sta tramando costui? Io non temo nessuno, eppure quell'uomo che non abbiamo mai veduto, che non sappiamo nè dove sia nè che cosa stia preparando, mi preoccupa, più che la presenza d'una squadra inglese. - Non avete raccolta nessuna notizia su di lui? - chiese Tremal-Naik, che pareva non meno preoccupato del formidabile pirata. - Abbiamo interrogato parecchie persone durante la nostra corsa verso il sud avendo fermato parecchi velieri di Sarawak, e senza riuscire a sapere dove sia quell'uomo. - Non sarà già uno spirito. - Si mostrerà una volta o l'altra, - disse Yanez. - Se vuole farci la guerra e vendicare la morte di suo padre, non rimarrà già eternamente nascosto. - Che cosa conti di fare intanto, Sandokan? - chiese Tremal-Naik. - Di cominciare le ostilità col dare battaglia a quella nave che si tiene ancorata alla foce del Redjang. Giacchè abbiamo dichiarata la guerra diamo segno di farla davvero. - Volete affondarla? - chiese Darma con un tono di voce che fece trasalire Yanez. - La distruggerò, Darma, - rispose freddamente Sandokan. Il portoghese, che la guardava attentamente, la vide leggermente impallidire e gli parve che un lieve sospiro le fosse uscito dalle labbra, ma fu tutto, poichè la fanciulla non ribattè parola alla terribile sentenza di morte pronunciata dal formidabile pirata contro la nave di sir Moreland. Tutti si erano alzati per risalire in coperta. Surama aveva presa per una mano Darma, dicendole: - Lasciamo fare agli uomini e tu vieni a riposarti nella mia cabina. Ho fatto preparare un bel lettino per te, perchè ero sicura di rivederti presto. La figlia di Tremal-Naik sorrise senza rispondere e la seguì nell'interno del quadro. Quando Sandokan, Tremal-Naik e Yanez furono in coperta, tutti gli uomini erano ai loro posti di combattimento, avendo Sambigliong avvertito le tigri di Mompracem che l'incrociatore si preparava ad assalire una grande nave nemica. I fanali di posizione erano stati accesi e le batterie illuminate e raddoppiato il personale del timone. I quattro enormi pezzi da caccia, disposti in barbetta, a prora e a poppa entro torri giranti difese da piastre di ferro di spessore considerevole, erano già stati caricati. Un colpo di vento avendo dispersi nuovamente i vapori che ingombravano il cielo, cacciandoli verso il sud, le stelle erano riapparse, sicchè un vago chiarore si era diffuso nelle nere acque del vasto golfo di Sarawak, chiarore che permetteva di poter facilmente distinguere una nave, anche se navigasse coi fanali spenti. Il Re del Mare s'avanzava a piccolo vapore, per non consumare troppo combustibile, anzi Sandokan, per maggior economia, aveva fatto spiegare le vele basse sul trinchetto e sull'albero maestro, essendo il vento abbastanza fresco e non del tutto sfavorevole. Dopo i consigli del capitano americano, il formidabile pirata era diventato eccessivamente economico nel consumo del combustibile, non potendo provvedersi in alcun porto dopo l'audace dichiarazione di guerra, e durante la traversata fra Labuan e il golfo di Sarawak non aveva fatto uso che delle vele, manovra d'altronde più familiare ai suoi uomini, quantunque non pochi di loro fossero stati già istruiti nel servizio delle macchine dagli americani rimasti a bordo. Yanez e Tremal-Naik, appoggiati alla murata di prora, il cui capo di banda era stato imbottito da amache arrotolate per riparo dei fucilieri, scrutavano attentamente l'orizzonte, mentre Sandokan visitava le batterie e i pezzi per vedere se tutto era in ordine. A levante le coste apparivano confusamente, diventando sempre più elevate di miglio in miglio che s'avvicinavano al dirupato e altissimo promontorio di Sirik, che chiude verso occidente la vasta baia o golfo di Sarawak. Nessun lume però brillava, quantunque in quei luoghi si trovasse la cittadella di Redjang. La notte trascorse così in una continua esplorazione, senza risultato alcuno, ma appena cominciò a diffondersi un po' di luce, si udì subito la voce della vedetta installata sulle crocette del trinchetto a gridare a squarciagola: - Fumo a levante! Yanez, Tremal-Naik e Sandokan si erano subito issati sulle griselle di babordo del trinchetto, innalzandosi fino alla coffa e videro subito, là dove il mare pareva confondersi col cielo, un pennacchio di fumo alzarsi nettamente nella limpida atmosfera mattutina. - Viene dalla foce del Redjang, - disse Yanez. - Scommetterei cento sterline contro una sigaretta che quella è la nave di sir Moreland. - L'hai veduta tu quella nave? - chiese Sandokan a Tremal-Naik. - No, - rispose l'indiano. - Mi hanno detto però che stava completando le sue provviste di carbone alla foce del secondo braccio del Redjang. - Vi è un deposito di combustibili colà? - Udii a parlare d'un praho carico di carbone mandato da Sarawak. Non deve esservi nemmeno una misera borgata su quelle spiaggie. - Peccato, - disse Sandokan. - Ma io ho udito a raccontare che ve n'è uno alla foce del Sarawak invece, su di un'isoletta e dove va a provvedersi la squadra del rajah. - Chi te lo ha detto? - sir Moreland. - Se ci va la squadra del rajah, possiamo bene andarci anche noi, è vero Yanez? - E senza pagarlo, - rispose il portoghese, che non dubitava mai di nulla. - Ecco la prora che comincia ad emergere. Muovono su di noi, Sandokan, ed a tutto vapore. Devono aver scorto anche essi il nostro fumo. Sandokan si levò da una tasca un cannocchiale, lo allungò più che potè e lo puntò sulla nave il cui scafo si cominciava a distinguere anche a occhio nudo. - Una bella nave infatti, - disse. - Lo si direbbe un incrociatore e di forte tonnellaggio. Vedo molti uomini a bordo. - Corre su di noi? - chiese Yanez. - A tiraggio forzato, credo. Teme che noi scappiamo. No, mio caro, non ne abbiamo alcun desiderio. È qui che noi cominceremo le ostilità. - Lo caleremo a fondo? - Mi rincresce pel capitano, - disse Tremal-Naik. - Contraccambiamo molto male la sua ospitalità. - Dorata, ma senza libertà, - disse Yanez. - Prepariamoci, - disse Sandokan. Scesero in coperta, dove s'incontrarono con Darma e con Surama che erano allora salite. - Ci attaccano, mio sahib6?- chiese l'indiana a Yanez. - E farà molto caldo qui fra poco, Surama, - rispose il portoghese. - Noi vinceremo, è vero? - Come abbiamo vinti i thugs di Suyodhana. - È la nave di sir Moreland? - chiese Darma, con una certa ansietà, che non isfuggì all'astuto portoghese. - Almeno lo supponiamo. Poi, prendendola per un braccio e traendola verso la torre di prora, le chiese, sorridendo: - Che cos'hai Darma? È già la terza volta che, udendo parlare del capitano, mi sembri commossa. - Io! - esclamò la fanciulla, arrossendo leggermente. - Vi siete ingannato, signor Yanez. - Per Giove! Che la vecchiaia mi abbia indebolita la vista? - Oh no, ci vedete ancora troppo bene. - Allora? Darma volse il capo verso il mare, fissando i suoi sguardi sulla nave nemica, che forzava la sue macchine e dicendo: - È una grossa nave anche quella. - Che non varrà la nostra - rispose Yanez. - Costringetela ad arrendersi piuttosto che affondarla. Potrebbe esservi utile. - Se è comandata da sir Moreland non abbasserà la bandiera. Quell'uomo, quantunque giovane, deve essere un valoroso e si batterà finchè tutto il suo equipaggio non sarà distrutto. - E non accorderete quartiere a nessuno? - Quando la nave calerà a picco vedremo di salvare i superstiti, te lo prometto, Darma. Ritirati nella cabina con Surama. Qui stanno per piovere le granate. La voce formidabile, sonora come lo squillo d'una tromba, della Tigre della Malesia, echeggiò in quel momento sul ponte: - A tutto vapore, ingegnere di macchina! Pronti pei fuochi di bordata! Dietro le brande i fucilieri! La nave avversaria che doveva essere fornita di macchine poderose, non era più che a duemila metri e muoveva diritta sul Re del Mare delle tigri di Mompracem, come se avesse avuto intenzione di speronarlo o per lo meno di abbordarlo. Era un bell'incrociatore e fornito di sperone, con tre alberi e due ciminiere. Pareva che fosse potentemente armato a giudicarlo dal numero dei suoi sabordi e anche in coperta si scorgevano parecchi pezzi, ma non protetti da torri blindate come quelli delle tigri di Mompracem. Dietro le murate e perfino sulle coffe si vedevano numerosi fucilieri e sul ponte di comando parecchi ufficiali. - Ah! - disse Sandokan, che lo contemplava con occhio tranquillo. - Vuoi misurarti pel primo colle tigri di Mompracem? Siamo pronti a riceverti. Mentre le due fanciulle sgombravano rapidamente la coperta rifugiandosi nel quadro di poppa, Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si ritrassero nella torretta di comando dove potevano mettersi in comunicazione col personale di macchina. Gli artiglieri americani, assieme ai migliori puntatori malesi, attendevano dietro ai loro pezzi col cordone tira-fuoco in mano. Ad un tratto una detonazione scoppiò al largo, mentre un getto di fuoco sfuggiva da uno dei due pezzi di prora dell'incrociatore. Si udì un rauco sibilo, che s'avvicinava rapidissimo attraverso gli strati d'aria, poi una vampa s'alzò sull'orlo della prima torretta di babordo del Re del Mare, mentre delle schegge passavano sibilando sopra i fucilieri appiattati dietro le murate. - Granata da dodici pollici! - aveva esclamato Yanez. - Buon tiro! La voce di Sandokan si fece udire subito. - Artiglieri, non vi trattengo più! I due pezzi da caccia di prora avvamparono nell'istesso tempo, mentre quelli della batteria di tribordo, trovandosi a buon tiro, tuonavano a loro volta con rimbombo tale da far tremare tutta la nave. L'incrociatore, che aveva già guadagnato altri cinquecento metri e che manovrava in modo da presentare all'avversario il suo fianco di babordo, fu sollecito a rispondere. Palle e granate cominciavano a cadere in gran numero su entrambi i vascelli, scrosciando lungo i fianchi di ferro e scheggiando i ponti, smussando i pennoni e massacrando le manovre. Le granate, scoppiando, lanciavano in alto getti di fuoco, minacciando ad ogni istante di incendiare le alberature. I fucilieri, coricati dietro le murate, a loro volta avevano aperto il fuoco, facendo delle scariche nutrite. Una fitta nuvola di fumo avvolgeva le due navi, rotta da lampi, mentre il fracasso era diventato così formidabile da soffocare la voce dei comandanti. La nave americana, meglio protetta, meglio armata e anche più rapida, e montata da un equipaggio ormai incanutito fra il fumo delle battaglie, aveva buon gioco contro l'avversario. Le sue poderose artiglierie battevano terribilmente l'incrociatore, coprendolo di fuoco e di ferro, demolendogli le murate, massacrando le sue manovre e aprendogli fori considerevoli nello scafo. Invano la povera nave, che aveva creduto di annientare facilmente i pirati di Mompracem, cercava di tener testa a quell'uragano di ferro che cadeva sui suoi ponti con un orrendo frastuono, facendo strage degli artiglieri della coperta e dei fucilieri. Le sue palle rimbalzavano sulle piastre metalliche del Re del Mare e le sue granate non riuscivano a demolire le torri blindate, dietro le quali gli artiglieri di Mompracem, sotto la direzione dei quartiermastri americani, sparavano al sicuro. Sandokan aveva fatto ritirare sotto coperta i suoi fucilieri, avendo compresa l'inutilità di quegli uomini, necessari sui prahos, ma non su simili navi, e aveva dato il comando di muovere addosso all'incrociatore per dargli l'ultimo colpo. Il Re del Mare, quasi ancora incolume, nonostante il furioso e ininterrotto cannoneggiamento dell'avversario, si era slanciato innanzi descrivendo una immensa curva attorno all'incrociatore che si era fermato. A quattrocento metri gli scaricò addosso una terribile bordata coi pezzi del ponte e quelli di babordo, demattandolo e rasandolo come un pontone. Perfino le due ciminiere erano rovinate in coperta, divelte da due granate scoppiate alla loro base. - È finito, - disse Yanez. - Intimiamogli la resa. - Se si arrenderanno, - rispose Sandokan. Lasciò che il vento diradasse il fumo e fece innalzare sulla cima dell'alberetto maestro la bandiera bianca. La risposta fu una bordata che fulminò metà dei timonieri del Re del Mare. - Non ne avete abbastanza? - gridò Sandokan. - Calatelo a fondo! Fuoco! Fuoco senza tregua! Il cannoneggiamento ricominciò con un crescendo spaventevole. Il Re del Mare continuava la sua rapida corsa circolare opprimendo il disgraziato incrociatore sotto un fuoco spaventevole. La nave americana faceva meraviglie. Pareva un vulcano avvampante, pronto a tutto distruggere. L'incrociatore nondimeno opponeva una resistenza eroica, quantunque ormai fosse ridotto ad un ammasso di rovine. I due pezzi della coperta, smontati da quella grandine di granate, non rispondevano più. Il ponte era pieno di morti e di feriti mescolati a pezzi di murate, a pennoni spaccati, a lembi di manovre cadute dalle alberature sotto gli ultimi uragani di mitraglia ordinati da Sandokan. Getti di fuoco correvano da prora a poppa, illuminando sinistramente il mare, mentre dagli ombrinali di babordo e di tribordo sfuggivano getti di sangue. La nave si sfasciava sotto i colpi furiosi, mortali del Re del Mare. - Basta! - gridò ad un tratto Yanez, che dalla torre di comando assisteva a quella strage. - Cessate il fuoco! Le scialuppe in mare! Sandokan che guardava freddamente, terribilmente impassibile, si volse verso il portoghese, dicendogli: - Che cosa comandi, fratello? - Che il massacro cessi. La Tigre della Malesia ebbe un momento di esitazione, poi rispose: - Hai ragione: salviamo i superstiti. Quegli uomini o meglio il loro comandante è un eroe! Mettete in acqua le scialuppe!

Noi da molti anni abbiamo rinunciato alle nostre scorrerie e non prestiamo più appoggio ai bornesi, che scorazzano i mari della Malesia. - Sono infamie! - gridò Tremal-Naik. - È questa la ricompensa che l'Inghilterra riserbava pei valorosi che hanno liberata l'India dagli strangolatori? Hanno ben ragione di chiamare quel governo l'insaziabile leopardo. - E Sandokan, che cosa ha risposto a quell'insolente governatore? - chiese Yanez. - Che è pronto a difendere la propria isola e che non cederà dinanzi ad alcuna minaccia. - E sta fortificandosi? - Ha fatto arruolare già cento dayaki di Sarawak e a quest'ora li avrà ricevuti. Voi sapete che contate ancora dei fidi amici fra gli antichi partigiani di Muda Hassim, il competitore di James Brooke, lo sterminatore dei pirati. - Sì, vi son laggiù delle persone che si ricordano ancora che fummo noi a rovesciare Brooke e rimandarlo in Inghilterra senza una ghinea, - rispose Yanez. - E chi è che ha mosso tutta questa guerra? Qui i dayaki fanatizzati da un pellegrino che vogliono la testa del tuo padrone; là gli inglesi aizzati da chissà chi, giacchè fino a poche settimane or sono noi vivevamo in buoni rapporti col governatore di Labuan. - E pare che vi sia anche il rajah di Sarawak della partita, il nipote di Brooke, - aggiunse Kammamuri. - Una nave di quel reame, senza alcun motivo plausibile, ha affondato in questi giorni un praho di Sandokan lasciando affogare l'intero equipaggio. Mandata la Marianna a dargli la caccia e chiedere al comandante spiegazioni e riparazioni, per tutta risposta l'equipaggio ricevette l'intimazione di seguirlo a Sarawak. - Ciò che non avrà fatto, suppongo, - disse Tremal-Naik. - No, ma dovette ritornare più che in fretta a Mompracem sotto il fuoco d'una nave a vapore giunta improvvisamente per sostenere la prima, e che portava pure sul picco le bandiere del rajah. - Tremal-Naik, - disse Yanez che si era alzato e che passeggiava nervosamente per la sala. - Mi viene un sospetto. - E quale? - Che tutta questa congiura sia opera del rajah per vendicare la caduta di suo zio e che si sia accordato col governo inglese. Già noi siamo una spina per Labuan, che è così prossima a Mompracem e che noi molti anni fa per poco non abbiamo espugnata e conquistata. - Non solo, signor Yanez, vi è qualche altro nella partita, - disse Kammamuri. - E chi? - Sapete che cosa mi ha raccontato l'ex servo del mio padrone che mi ha aiutato ad attraversare gli accampamenti dei dayaki e giungere qui inosservato? - Che cosa? - chiesero ad una voce Yanez e Tremal-Naik. - Che il pellegrino che ha fanatizzato i dayaki e che li ha armati e pagati largamente, non è un arabo, come lo si è creduto finora, bensì un indiano. - Un indiano! - esclamarono i due amici. - E ho da dirvi qualche cosa di più grave ancora, che vi farà aprire di più gli occhi e meglio comprendere con quale nemico noi abbiamo da fare. L'ex servo ha aggiunto d'averlo sorpreso una notte in una capanna inginocchiato dinanzi ad una bacinella piena d'acqua contenente dei piccoli pesci rossi, dei manghi del Gange, di certo. - Per Giove! - esclamò Yanez, fermandosi di colpo, mentre Tremal-Naik balzava in piedi col viso alterato. - Un bacino con dei pesci dentro! - Sì, signor Yanez. - Allora quell'uomo è un thug! - esclamò Tremal-Naik con accento di terrore. - Deve essere tale perchè solamente gli strangolatori indiani adorano i manghi del Gange che, secondo le loro credenze, incarnano l'anima della dea Kalì, - rispose Kammamuri. Per alcuni istanti nella sala regnò un profondo silenzio. Perfino Darma, la superba tigre ammaestrata, divorava la sua cena senza più brontolare, come se avesse compresa la gravità eccezionale della situazione. - Udiamo, - disse ad un tratto Yanez, che aveva riacquistato subito il suo sangue freddo. - Chi è l'uomo che ti ha raccontato ciò? - Karia, un dayako che fu ai nostri servigi e che ora si trova nel campo dei ribelli, un uomo intelligentissimo che corseggiò i mari parecchi anni. Un giorno gli ho salvato la vita, mentre una tigre stava per divorarlo ed ha conservato a me un po' di riconoscenza. È stato lui, come vi dissi, a farmi attraversare le linee dei ribelli. - Dove lo avevi trovato? - chiese Tremal-Naik. - Nella foresta, mentre io cercavo di accostarmi inosservato al kampong. Invece di tradirmi e di consegnarmi al pellegrino, mi guidò qui, dopo d'avervi avvertiti, con una freccia ed un mio biglietto, della mia presenza. - Possiamo quindi fidarci di quanto ti ha narrato? - disse Yanez. - Pienamente; e poi non ha mai udito parlare dei thugs indiani ed è rimasto molto meravigliato quando mi udì a dire che se il pellegrino adorava di nascosto i pesci non era mussulmano. - Yanez, - disse Tremal-Naik, che era ancora in preda ad una profonda agitazione, - che cosa pensi di fare? Il portoghese, appoggiato alla tavola, con una mano sulla fronte e la testa china, pareva che meditasse profondamente. - Siamo stati degli stupidi, - disse ad un tratto. - Io mi chiedo come mai non abbiamo pensato che quel dannato pellegrino potesse essere un thug! Eppure l'odio che ha contro di te, Tremal-Naik, che hai rapito prima loro la Vergine della pagoda e poi hai strappato pur loro tua figlia Darma, che doveva surrogare sua madre, doveva bastare per aprirci gli occhi. Poi, dopo un breve silenzio, aggiunse: - Se noi non avessimo veduto Suyodhana, il loro capo, spirare sotto il pugnale di Sandokan, si potrebbe credere che tutto ciò è opera sua, ma noi tutti abbiamo constatata la sua morte ed abbiamo veduto il suo cadavere gettato nella gran fossa comune assieme ai ribelli di Delhi. - Chi può essere quel pellegrino? Uno dei luogotenenti di Suyodhana? - Yanez, che cosa dobbiamo fare? - chiese per la seconda volta Tremal-Naik. - Ora che sappiamo che vi è la mano dei thugs che noi credevamo per sempre annichiliti, io tremo per la vita della mia Darma. - Non ci resta che andarcene al più presto da qui e raggiungere Sandokan. Qui non abbiamo più nulla da fare ed io e Sandokan sapremo compensarti largamente di ciò che abbandoni nelle mani dei dayaki. - Sono ancora abbastanza ricco e ho, tu lo sai, delle fattorie anche nel Bengala. Vorrei invece sapere come potremmo noi fuggire cogli assedianti alle costole. - Il mezzo lo troveremo. Si dice che la notte porti consiglio. Già che i dayaki ci lasciano un momento tranquilli, andiamo a riposare. Sambigliong s'incaricherà di disporre gli uomini di guardia. Chissà che domani il mio cervello non abbia trovato qualche buona idea. Certi che gli assedianti, colla terribile batosta ricevuta, non sarebbero tornati alla riscossa, i tre uomini che erano stanchissimi si ritrassero nelle loro stanze non certo lieti, specialmente il portoghese e Tremal-Naik, della brutta piega che prendevano le cose. La notte passò tranquilla. I dayaki, scoraggiati e anche addolorati per le gravi perdite subite, non avevano più osato lasciare i loro accampamenti che dovevano rigurgitare di feriti. Gli uomini di guardia del kampong udirono fino all'alba rullare i tamburoni e i lamenti dei parenti dei morti rimasti nei fossati delle cinte, che nessuno aveva levati di là. Al mattino seguente Yanez, che aveva dormito male e pochissimo, angosciato dalle tristi notizie recate dal maharatto, era già in piedi prima ancora che il sole fosse spuntato all'orizzonte. Pareva che fosse tormentato da qualche idea, perchè, invece di scendere nella sala per farsi servire il thè come faceva tutte le mattine, raggiunse il terrazzo su cui esisteva ancora un pezzo della torretta di legno che le artiglierie nemiche avevano demolito e di lassù si mise ad osservare attentamente le cinte e la disposizione interna del kampong. La fattoria formava un vasto parallelogrammo, tagliato a metà dal bengalow e dalle tettoie e da una palizzata in modo da poter dividere la difesa. La prima parte, dove trovavasi la saracinesca, comprendeva i fabbricati in muratura: la seconda le aie e le abitazioni della servitù e dei campieri e i recinti degli animali. Fu quella disposizione, prima non attentamente notata, che colpì il portoghese. - Per Giove! - mormorò, stropicciandosi allegramente le mani. - Ciò si presta meravigliosamente al mio progetto. Tutto dipende dalla provvista delle cantine del mio amico Tremal-Naik. Se il bram abbonda il colpo è fatto. I dayaki non sono meno golosi dei negri e anche su loro i forti liquori esercitano un fascino irresistibile. Cane d'un pellegrino! Ti preparerò un tiro da maestro. Ridiscese visibilmente soddisfatto e trovò Tremal-Naik e Kammamuri nel salotto, che stavano vuotando alcune tazze di thè. - Hai trovato nessuna buona idea che ci permetta di andarcene? - chiese, rivolgendosi al padre della fanciulla. - Ho tormentato invano tutta la notte il mio cervello, - rispose Tremal-Naik che sembrava assai abbattuto. - Non vi sarebbe che un solo tentativo da fare, un tentativo disperato. - Quale? - Di aprirci il passo attraverso le file degli assedianti coi parangs in pugno. - E farci probabilmente massacrare, - rispose Yanez. - Trenta contro trecento, avendo ormai dieci o dodici uomini feriti che non varranno gran che in una lotta corpo a corpo; brutto affare. - Non ho trovato altro di meglio. - Di quanti vasi di bram disponi? - chiese bruscamente Yanez. - A che cosa potrebbe servirci quel liquore? - chiesero ad una voce Tremal-Naik e Kammamuri guardandolo con sorpresa. - Per farci scappare, amici miei. - Scherzi, Yanez. - No, Tremal-Naik. D'altronde il momento sarebbe male scelto. Sei ben provvisto? - Le mie cantine sono piene, provvedendo io tutte le tribù dei dintorni. - I dayaki sono buoni bevitori, vero? - Come tutti i popoli selvaggi. - Se trovassero sui loro passi un centinaio di vasi di quel liquore, a loro disposizione, credi tu che si fermerebbero per vuotarli? - Non glielo impedirebbe nemmeno il cannone, - rispose Tremal-Naik. - Allora, miei cari amici, il pellegrino è giocato, - disse Yanez. - Non ti comprendiamo. - Il kampong è diviso in due dalla palizzata interna? - Sì, l'ho fatto appositamente costruire per opporre maggiore resistenza nel caso che il nemico avesse potuto forzare la saracinesca, - rispose Tremal-Naik. - L'idea è stata buona, amico mio, e ci servirà magnificamente in questo momento. Noi concentreremo tutte le nostre difese verso le aie e le abitazioni dei servi, lasciando ai dayaki il passo libero e abbandonando loro il bengalow e le tettoie. - Come! - esclamò Tremal-Naik. - Tu cederesti loro le nostre migliori opere di difesa? - Non ci servirebbero più dal momento che abbiamo deciso di evacuare la piazza, - rispose Yanez. - Anzi abbatteremo una parte della cinta che guarda la saracinesca per attirare meglio i dayaki. - La palizzata interna non è molto solida. - Mi basta che resista qualche ora e poi i dayaki non si affaticheranno ad abbatterla. Preferiranno bere il tuo bram, - disse Yanez ridendo. - Noi collocheremo nel cortile tutti i vasi che contiene la tua cantina e vedrai che quella barriera li arresterà meglio di qualunque altra. - Si ubriacheranno, ne sono certo. - È quello che desidero; perchè noi ne approfitteremo per andarcene, dopo d'aver incendiato il bengalow e le tettoie. Protetti dalla barriera di fuoco, nessuno ci molesterà almeno per alcune ore. - Tippo Sahib, il Napoleone dell'India non sarebbe certo capace di architettare un simile piano. - Quella non era una tigre di Mompracem, - disse Yanez con comica serietà. - Cadranno nel laccio i dayaki. - Non ne dubito. Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli. - A quando il colpo? - chiese Kammamuri. - Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti. - All'opera Yanez, - disse Tremal-Naik. - Io ho piena fiducia nel tuo piano. - Hai un cavallo per Darma? - Ne ho quattro e buoni. - Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla? - Tre giorni, signore. - Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle. L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione. I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow. Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica. Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong. Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico. Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto. Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi. Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico. I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa. I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

. - Sono due anni che vi abbiamo lasciato. - Abbiamo sempre da fare laggiù, a Mompracem. - Medita sempre spedizioni la Tigre della Malesia? Che uomo terribile, - disse Darma sorridendo. - Ah ... il cannone! Non udite? - È già mezz'ora che rimbomba, figlia mia, - disse Tremal-Naik, - e annunzia forse una grave disgrazia. - Chi è che fa fuoco, padre? - Sono le tigri di Mompracem. - Che difendono la mia nave, - aggiunse Yanez. - Tacete! Mi pare che i colpi rallentino! E non poter vedere nulla! Si erano tutti curvati sul parapetto della piattaforma, ascoltando ansiosamente. Non si udivano più che a rari intervalli le secche detonazioni delle spingarde e la cupa voce dei pezzi da caccia. Ad un tratto si fece un gran silenzio, come se la battaglia fosse bruscamente cessata. - Hanno vinto o sono stati schiacciati? - si chiese Yanez che si sentiva bagnare la fronte di sudore. Ad un tratto una formidabile detonazione attraversò gli strati d'aria e si propagò con tale intensità che la torre tremò dalla base alla cima. Yanez aveva mandato un grido, mentre Tremal-Naik e Darma erano diventati pallidissimi. - Mio Dio, che cosa è successo? - chiese la fanciulla. - La mia Marianna deve essere saltata in aria, - rispose Yanez con voce rotta. - Poveri i miei uomini! Un dolore intenso traspariva sul viso del portoghese, mentre qualche cosa di umido brillava nei suoi occhi. - Yanez, - disse Tremal-Naik, con voce affettuosa, - noi non abbiamo ancora la certezza che la tua nave sia saltata. - Questo rombo spaventevole non può essere stato prodotto che dallo scoppio della santabarbara, - rispose il portoghese. - Io che ne ho vedute saltare tante delle navi, non mi posso ingannare. Che la Marianna sia calata a fondo non me ne importa, avendo noi a Mompracem velieri in buon numero. Sono i miei uomini che rimpiango. - Possono avere lasciata la nave prima che scoppiasse. Chissà, forse sono stati essi stessi a dar fuoco alle polveri onde non cadere nelle mani dei dayaki. - Può essere vero, - rispose Yanez, che aveva riacquistata la sua calma. - Vi era qualcuno a bordo che sapesse dove si trova il mio kampong? - Sì, il corriere che ti abbiamo mandato sei mesi fa. - Quell'uomo allora, se è sfuggito alla morte, potrebbe condurre qui i superstiti. - E passare attraverso le file dei dayaki! Ecco un'impresa che sarà ben difficile per così pochi uomini. E poi, quand'anche giungessero qui, la nostra situazione non migliorerebbe. - È vero, - rispose l'indiano. - Come potremo scendere il fiume senza la tua nave? - Cercheremo dei canotti, padre, - disse Darma. - Per esporsi ad un fuoco incessante senza alcun riparo? Chi giungerebbe vivo alla foce del fiume? - Guarda i dayaki, - disse in quel momento Yanez. Gli assedianti, che dovevano aver pure udito quello scoppio formidabile e anche quel vivo cannoneggiamento, avevano abbandonate le loro trincee mobili, ritirandosi verso le foreste che circondavano la pianura, come se avessero l'intenzione di togliere il blocco. - Se ne vanno, padre! - esclamò Darma. - Che abbiano compreso che era inutile ostinarsi contro questo kampong? - Yanez, - disse Tremal-Naik, - che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti? - O che cerchino di trarci in qualche agguato? - chiese invece il portoghese. - In qual modo? - Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti. - Signor Yanez, - disse Darma. - Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione. Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti. Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio. Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto: - All'armi! E subito dopo rimbombarono alcuni spari. Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura. Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo. Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano: - Le tigri di Mompracem! Sambigliong! Poi lanciarono due grida tuonanti: - Fuoco le spingarde! - Alzate la saracinesca ai nostri amici! I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente. I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta. Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare. La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso. I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro. - La mia nave? - gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong. - Saltata, capitano, - rispose il mastro con voce rantolante. - Da chi? - Da noi ... non potevamo più resistere ... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso ... tutti i nostri compagni sono stati uccisi ... anche i feriti ... ho preferito dar fuoco alle polveri ... - Sei un valoroso, - gli disse Yanez, con voce profondamente commossa. - Capitano ... vengono ... sono molti ... preparatevi alla resistenza. - Ah! vengono! - esclamò Yanez con voce terribile. - Vendicheremo i nostri morti!

La Tigre della Malesia stette un istante pensieroso, poi rispose: - Mompracem ormai è perduta, ma abbiamo a Gaya i nostri prahos ed i nostri uomini e là abbiamo amici devoti. Conduceteci in quell'isola, se non vi rincresce. Fonderemo una nuova colonia lassù, lontani dalle minaccie degli inglesi. Poi, dopo un'altra breve pausa, continuò: - Chissà che non ci rivediamo un giorno nell'India. Da tempo accarezzavo un sogno. - Quale? - chiesero Tremal-Naik, Darma e sir Moreland. Sandokan fissò i suoi sguardi su Surama quindi rispose: - Tu sei figlia di rajah e t'hanno rubato il posto che ti aspettava. Perchè non daremo a te, fanciulla, un trono da dividere con Yanez, che diverrà fra giorni tuo sposo? Ne riparleremo, mia buona Surama. 1 I malesi per addormentare le persone, ricorrono a quella strana compressione, e l'uomo così trattato, durante quel sonno, è in preda ad una anestesia completa. 2 È la divinità protettrice dei cacciatori di nidi di rondini salangane. 3 Vengono chiamati con tale nome dai malesi. 4 Nel 1844, un piroscafo da guerra olandese, mandato dal governatore di Macassar a castigare i pirati del Cotti, diede una terribile lezione a quel sultanato. Arse mille case della capitale, impose una taglia di 120.000 fiorini, il risarcimento dei danni subiti dalle navi mercantili assalite e volle ostaggi fino al pagamento completo delle somme fissate. 5 Questa tortura crudelissima, fu largamente usata dai soldati americani del generale Smith contro gli insorti delle isole Filippine. 6 Mio signore. 7 Un tipo di alghe brune. 8 In America, nello stabilimento elettrico di Davson, sono riusciti con una corrente elettrica a far scoppiare cinquanta punds di polvere alla distanza di 800 metri.

Quando è giunto a Mompracem il messo che vi abbiamo spedito? - Tre giorni or sono e come vedi noi non abbiamo perduto tempo ad accorrere col nostro miglior legno. - Che cosa pensa la Tigre della Malesia di questa improvvisa insurrezione dei dayaki, che fino a tre settimane or sono guardavano il mio padrone come il loro buon genio? - Abbiamo fatto insieme tante congetture e forse non abbiamo indovinato il vero motivo che ha deciso i dayaki a prendere le armi e a distruggere le fattorie che erano costate tante fatiche a Tremal-Naik. Sei anni di lavoro e più di centomila rupie spese forse inutilmente! Avete qualche sospetto? - Ecco, signore, quanto abbiamo potuto sapere. Un mese fa e probabilmente anche prima, è sbarcato su queste coste un uomo che non sembra appartenere nè alla razza malese, nè a quella bornese, che si diceva fervente mussulmano e portava in testa il turbante verde come tutti coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. Voi sapete, signore, che i dayaki di questa parte dell'isola non adorano i geni dei boschi, nè gli spiriti buoni e cattivi come i loro confratelli del sud e che sono invece mussulmani, a loro modo s'intende e non meno fanatici di quelli dell'India centrale. Che cosa abbia dato ad intendere quell'uomo a questi selvaggi, nè io nè il mio padrone siamo riusciti a saperlo. Il fatto è che riuscì a fanatizzarli ed indurli a distruggere le fattorie ed a ribellarsi all'autorità del signor Tremal-Naik. - Ma che istoria mi racconti tu! - esclamò Yanez, che era al colmo della sorpresa. - Una storia tanto vera, signor Yanez, che il mio padrone corre il pericolo di morire abbruciato nel suo kampong assieme alla signorina Darma, se voi non accorrete in suo aiuto. - L'uomo dal turbante verde ha aizzato quei selvaggi non solo contro le fattorie ... - Anche contro il mio padrone e vogliono la sua testa, signor Yanez. Il portoghese era diventato pallido. - Chi potrà essere quel pellegrino? Quale misterioso motivo lo spinge contro Tremal-Naik? L'hai visto tu? - Sì, mentre scappavo dalle mani dei dayaki. - È giovane, vecchio ... - Vecchio, signore, alto di statura e magrissimo, un tipo da vero pellegrino che ha fame e sete. E vi è di più ancora che aggrava il mistero, - aggiunse il meticcio. - Mi hanno detto che due settimane or sono è giunta qui una nave a vapore che portava la bandiera inglese e che il pellegrino ha avuto un lungo colloquio con quel comandante. - È partita subito quella nave? - La mattina seguente ed ho il sospetto che, durante la notte, abbia sbarcato delle armi, perchè ora non pochi dayaki posseggono dei moschetti e anche delle pistole, mentre prima non avevano che delle cerbottane e delle sciabole. - Che gli inglesi c'entrino in tutta questa faccenda? - si domandò Yanez, che appariva molto preoccupato. - Possibile, signor Yanez! - Sai la voce che corre a Labuan? Che il governo inglese abbia intenzione di occupare la nostra isola di Mompracem col pretesto che noi costituiamo un pericolo costante per la sua colonia e di mandarci a occupare qualche altra terra più lontana. - Gli inglesi che devono a voi tanta riconoscenza, per averli sbarazzati dei thugs che infestavano l'India! - Mio caro, credi tu che un leopardo possa avere della riconoscenza verso una scimmia, supponiamo, che l'ha sbarazzato degli insetti che lo tormentavano? - No, signore, quei carnivori non hanno quel sentimento. - E non ne avrà nemmeno il governo inglese che viene chiamato il leopardo dell'Europa. - E voi vi lascerete cacciare da Mompracem? Un sorriso comparve sulle labbra di Yanez. Accese una sigaretta, aspirò due o tre boccate di fumo, poi disse con voce calma: - Non sarebbe già la prima volta che le tigri di Mompracem si mettono in guerra col leopardo inglese. Un giorno hanno tremato e Labuan ha corso il pericolo di vedere i suoi coloni divorati da noi o cacciati in acqua. Non ci lasceremo nè sorprendere, nè sopraffare. - Sandokan ha mandato dei suoi prahos a Tiga ad arruolare uomini? - chiese il meticcio. - Che non varranno meno per coraggio, delle ultime tigri di Mompracem - rispose Yanez. - L'Inghilterra ci vuole scacciare dalla nostra isola, che da trent'anni occupiamo? Si provi e noi metteremo la Malesia intera in fiamme e daremo battaglia, senza quartiere, all'insaziabile leopardo inglese. Vedremo se sarà la Tigre della Malesia che soccomberà nella lotta. In quel momento si udì la voce di Sambigliong, il mastro della Marianna, a gridare: - In coperta, capitano! - Giungi in buon punto, malese mio, - rispose Yanez. - Ho appena terminato ora il mio colloquio con Tangusa. Che cosa c'è di nuovo? - S'avanzano. - I dayaki? - Sì, capitano. - Va bene. Il portoghese uscì dal quadro, salì la scala e giunse in coperta. Il sole stava allora per tramontare in mezzo ad una nuvola d'oro, tingendo di rosso il mare, che la brezza lievemente corrugava. La Marianna era sempre immobile, anzi essendo quello il momento della massima marea bassa, si era un po' coricata sul fianco di babordo, in maniera che la coperta rimaneva sbandata. Verso le isolette che facevano argine all'irrompere del fiume, una dozzina di grossi canotti, fra cui quattro doppi, s'avanzava lentamente verso il mezzo della baia, preceduta da un piccolo praho che era armato d'un mirim, un pezzo d'artiglieria un po' più grosso dei lilà, quantunque fuso allo stesso modo, con ottone grossolano, rame e piombo. - Ah! - fece Yanez, colla sua solita flemma. - Vogliono misurarsi con noi? Benissimo, avremo polvere in abbondanza da regalare, è vero Sambigliong? - La provvista è copiosa, capitano, - rispose il malese. - Noto che s'avanzano molto adagio. Pare che non abbiano nessuna fretta, mio caro Sambigliong! - Aspettano che la notte scenda. - Prima che la luce se ne fugga vediamo che musi sono. - Prese il cannocchiale e lo puntò sul piccolo praho che precedeva sempre la flottiglia delle scialuppe. Vi erano quindici o venti uomini a bordo, che indossavano l'abito guerresco; pantaloni stretti, abbottonati all'anca e al collo dei piedi, sarong cortissimo, in testa il tudung, un curioso berretto con lunga visiera e molte piume. Alcuni erano armati di fucile; i più avevano invece dei kampilang, quelle pesanti sciabole a doccia d'un acciaio finissimo, dei pisau-raut, ossia specie di pugnali dalla lama larga e non serpeggiante come i kriss malesi, e avevano dei grandi scudi di pelle di bufalo di forma quadrata. - Bei tipi, - disse Yanez colla sua solita calma. - Sono molti, signore. - Ouff! Un centinaio e mezzo, mio caro Sambigliong. Si volse guardando la tolda della Marianna. I suoi quaranta uomini erano tutti ai loro posti di combattimento. Gli artiglieri dietro ai due cannoni da caccia e alle quattro spingarde, i fucilieri dietro alle murate i cui bordi erano coperti di fasci di spine acutissime e gli uomini di manovra, che pel momento non avevano nulla da fare essendo il veliero sempre arenato, sulle coffe muniti di bombe da lanciare a mano e armati di carabine indiane di lunga portata. - Vengano a trovarci! - mormorò, visibilmente soddisfatto degli ordini impartiti da Sambigliong. Il sole stava per scomparire, diffondendo i suoi ultimi raggi e bagnando di luce aurea o rossastra le coste dell'immensa isola e le scogliere contro cui si frangevano rumoreggiando le onde che venivano dal largo. Il grande globo incandescente calava superbamente in acqua, incendiando un gran ventaglio di nubi al di sopra delle quali s'innalzavano grandi zone d'oro e lembi ampi di porpora, smaglianti sull'azzurro chiaro del cielo. Finalmente s'immerse, quasi bruscamente, infiammando per alcuni istanti tutto l'orizzonte, poi quell'onda di luce si attenuò rapidamente, non essendovi crepuscoli sotto quelle latitudini, la grande fantasmagoria solare si estinse e le tenebre piombarono avvolgendo la baia, le isole e le coste bornesi. - Buona notte per gli altri e cattiva per noi, - disse Yanez, che non aveva potuto fare a meno di contemplare quello splendido tramonto. Guardò la flottiglia nemica. Il piccolo praho, le doppie scialuppe e quelle semplici affrettavano la corsa. - Siamo pronti? - chiese Yanez. - Sì, - rispose Sambigliong per tutti. - Allora, Tigrotti di Mompracem, non vi trattengo più. Il piccolo praho era a buon tiro e copriva le scialuppe che lo seguivano in fila, l'una dietro all'altra, per non esporsi al fuoco delle artiglierie della Marianna. Sambigliong si curvò su uno dei due pezzi da caccia piazzati sul cassero che erano montati su perni giranti onde potessero far fuoco in tutte le direzioni e, dopo aver mirato per qualche istante, fece fuoco, spezzando netto l'albero di trinchetto, il quale cadde sul ponte assieme all'immensa vela. A quel colpo veramente meraviglioso, urla furiose s'alzarono sulle scialuppe, poi la prora del legno mutilato a sua volta avvampò. Il mirim del piccolo veliero aveva risposto al fuoco della Marianna, ma la palla, male diretta, non aveva fatto altro danno che quello di forare il contro fiocco che Yanez non aveva fatto ammainare. - Quei bricconi tirano come i coscritti del mio paese, - disse Yanez, che continuava a fumare placidamente, appoggiato alla murata di prora. A quel secondo sparo tenne dietro una serie di detonazioni secche. Erano i lilà delle doppie scialuppe che appoggiavano il fuoco del piccolo praho. Quei cannoncini non erano fortunatamente ancora a buon tiro e tutto finì in molto baccano e molto fumo senza nessun danno per la Marianna. - Demolisci il praho, innanzi tutto, Sambigliong, - disse Yanez, - e cerca di smontare il mirim che è il solo che possa danneggiarci. Sei uomini ai due pezzi da caccia e accelerate il fuoco più ... Si era bruscamente interrotto ed aveva lanciato un rapido sguardo verso poppa. Ad un tratto trasalì e fece un gesto di sorpresa. - Sambigliong! - esclamò, impallidendo. - Non temete, signor Yanez, il praho fra due minuti sarà fracassato o per lo meno rasato come un pontone. - È il pilota che non vedo più. - Il pilota! - esclamò il malese lasciando il pezzo di caccia che era già puntato. - Dov'è quel briccone? Yanez aveva attraversata rapidamente la tolda, in preda ad una visibile emozione. - Cerca il pilota! - gridò. - Capitano, - disse un malese che era al servizio dei due pezzi di poppa, - l'ho veduto or ora scendere nel quadro. Sambigliong, che forse aveva avuto il medesimo sospetto del portoghese, si era già precipitato giù per la scaletta, impugnando una pistola. Yanez lo aveva subito seguìto mentre i due cannoni da caccia tuonavano contro la flottiglia, con un rimbombo assordante. - Ah! cane! - udì gridare. Sambigliong aveva afferrato il pilota che stava per uscire da una cabina, tenendo in mano un pezzo di corda incatramata accesa. - Che cosa facevi, miserabile? - urlò Yanez precipitandosi a sua volta sul malese che tentava di opporre resistenza al mastro. Il pilota, vedendo il comandante che aveva pure impugnata una pistola e che pareva pronto a fargli scoppiare la testa, era diventato grigiastro, ossia pallido, pure rispose con una certa calma: - Signore, sona disceso per cercare una miccia per le spingarde ... - Qui, le micce! - gridò Yanez. - Tu, briccone, cercavi d'incendiarci la nave! - Io! - Sambigliong, lega quest'uomo! - comandò il portoghese. - Quando avremo battuto i dayaki avrà da fare con noi. - Non occorrono corde, signor Yanez, - rispose il mastro. - Lo faremo dormire per una dozzina d'ore, senza che ci dia alcun fastidio. Afferrò brutalmente per le spalle il pilota che non cercava più di opporre resistenza, e gli compresse coi pollici tesi la nuca, poi gli affondò nel collo, un po' al disotto degli angoli mascellari, gli indici ed i medi in modo da stringergli le carotidi contro la colonna vertebrale. Allora si vide una cosa assolutamente strana. Padada stralunò gli occhi e spalancò la bocca come se si fosse manifestato un principio d'asfissia, la respirazione gli divenne improvvisamente affannosa, poi rovesciò il capo indietro e s'abbandonò fra le braccia del mastro, come se la morte lo avesse colto. - L'hai ucciso! - esclamò Yanez. - No, signore, - rispose Sambigliong. - L'ho addormentato e prima di dodici o quindici ore non si sveglierà.1 - Dici davvero? - Lo vedrete più tardi. - Gettalo su qualche branda e saliamo subito. Il cannoneggiamento diventa vivissimo. Sambigliong alzò il pilota, che pareva non desse più alcun segno di vita, e lo adagiò su un tappeto, poi tutti e due salirono rapidamente sulla tolda, nel momento in cui i due cannoni da caccia tornavano a tuonare con tale fragore da far tremare tutto il veliero. Il combattimento fra la Marianna e la flottiglia si era impegnato con grande ardore. Le scialuppe doppie, che, come abbiamo detto, erano armate di lilà, si erano disposte su una fronte piuttosto larga, a destra e a sinistra del praho, onde dividere maggiormente il fuoco del veliero e si erano impegnate risolutamente a proteggere le altre imbarcazioni che, quantunque più piccole, portavano equipaggi più numerosi, riserbati certamente per l'attacco finale. Gli spari si succedevano agli spari e le palle, quantunque tutte di piccolo calibro, fischiavano in gran numero sulla Marianna, smussando qualche pennone, forando le vele, maltrattando il sartiame e scheggiando le murate. Alcuni uomini erano stati già feriti e qualcuno ucciso, nondimeno gli artiglieri di Mompracem facevano freddamente il loro dovere, con una calma ed un sangue freddo meraviglioso. Le spingarde, essendo ormai la distanza diminuita, avevano pure cominciato a tuonare, lanciando sulla flottiglia bordate di mitraglia, composta per la maggior parte di chiodi, che si piantavano nella pelle dei dayaki, facendoli urlare come scimmie rosse. Nonostante quelle scariche formidabili, la flottiglia non cessava di avanzare. I dayaki, che sono generalmente coraggiosi non meno dei malesi e che non temono la morte, davano dentro ai remi furiosamente, mentre quelli che erano armati di fucile, mantenevano un fuoco vivissimo, quantunque poco efficace, non avendo molta pratica di quelle armi, che forse adoperavano per la prima volta. Erano già giunte le scialuppe a cinquecento passi, quando il praho su cui si era concentrato il fuoco dei pezzi da caccia della Marianna, si coricò su un fianco. Aveva ormai perduto i suoi due alberi, il bilanciere era stato fracassato di colpo da una palla tiratagli da Yanez e le sue murate erano state ridotte in così cattivo stato, che non esistevano quasi più. - Smonta il mirim, Sambigliong! - gridò Yanez, vedendo una doppia scialuppa accostarsi al praho coll'evidente intenzione d'impadronirsi del pezzo d'artiglieria, prima che il piccolo veliero affondasse. - Sì, comandante, - rispose il malese, che serviva al pezzo da caccia di babordo. - E voi altri mitragliate l'equipaggio prima che venga raccolto, - aggiunse il portoghese, che dall'alto del cassero seguiva attentamente le mosse della flottiglia, senza levarsi dalle labbra la sigaretta. Una bordata colpì il praho, bordata di pezzi da caccia e di spingarde, smontando il mirim il cui carrello fu fracassato di colpo e spazzando il ponte da prora a poppa, con un uragano di mitraglia che storpiò e ferì la maggior parte dell'equipaggio. - Bel colpo! - esclamò il portoghese, colla sua flemma abituale. - Eccone uno che non ci darà più fastidio. Il piccolo veliero non era ormai che un rottame che si empiva rapidamente d'acqua. Gli uomini che erano sfuggiti a quella tremenda bordata, si erano gettati in mare e nuotavano verso le scialuppe, mentre i pontoni tiravano furiosamente coi lilà con non troppa fortuna, quantunque la Marianna, colla sua mole ed immobilizzata come era, offrisse un ottimo bersaglio. Ad un tratto il legno si capovolse bruscamente, rovesciando in acqua morti e feriti e rimase colla chiglia in aria. Urla feroci s'alzarono dalle scialuppe, vedendo il praho andarsene alla deriva in quello stato. - Gridate come oche, - disse Yanez. - Ci vuole ben altro per vincere le tigri di Mompracem, miei cari. Fuoco sulle scialuppe! Avanti, fucilieri! L'affare diventa caldo. Sebbene privati del praho che col suo pezzo poteva contrabbattere i cannoni da caccia, la flottiglia aveva ripreso la corsa e s'avvicinava rapidamente alla Marianna. Le tigri di Mompracem non facevano economia nè di palle nè di polvere. Colpi di cannone e di spingarda si alternavano a nutrite scariche di fucileria che facevano dei larghi vuoti fra gli equipaggi delle scialuppe e dei pontoni. Quei vecchi guerrieri, che un giorno avevano fatto tremare gli inglesi di Labuan, che avevano vinto e rovesciato James Booke, il rajah di Sarawak, e che avevano distrutti, dopo formidabili combattimenti, i terribili thugs indiani, si difendevano con accanimento ammirabile, senza nemmeno prendersi la briga di ripararsi dietro i bordi. Anzi, sprezzanti d'ogni pericolo, nonostante i consigli del portoghese che ci teneva a conservare i suoi uomini, erano saliti tutti sulle murate per mirare meglio e di là, e anche dalle coffe, facevano un fuoco infernale sulle scialuppe, decimando crudelmente i loro equipaggi. Gli assalitori però erano così numerosi, che quelle gravi perdite non li scoraggiavano. Altre scialuppe, uscite dal fiume, avevano raggiunta la flottiglia e anche quelle cariche di guerrieri. Erano almeno trecento selvaggi, sufficientemente armati, che muovevano all'abbordaggio della Marianna, risoluti, a quanto pareva, ad espugnarla e massacrare i suoi difensori fino all'ultimo, non potendosi sperare quartiere da quei barbari sanguinari che non hanno che un solo desiderio: quello di fare raccolta di crani umani. - La faccenda minaccia di diventare seria, - mormorò Yanez, vedendo quelle nuove scialuppe. - Tigrotti miei, date dentro più che potete o noi finiremo per lasciare qui le nostre teste. Quel cane d'un pellegrino li ha fanatizzati per bene e li ha fatti diventare idrofobi. S'accostò al pezzo da caccia di tribordo, che in quel momento era stato scaricato e allontanò Sambigliong che stava pigliando la mira. - Lascia che mi scaldi un po' anch'io, - disse. - Se non sfasciamo i pontoni e mandiamo in acqua i loro lilà, fra tre minuti saranno qui. - Le spine li tratterranno, capitano. - Eh, non so, mio caro. I loro kampilang avranno buon gioco. - Ed i nostri gabbieri non ne avranno meno colle loro granate. - Sia, ma preferisco che non giungano qui. Diede fuoco al pezzo e, come al solito, non mancò il colpo. Uno dei pontoni, formati da due scialuppe riunite da un ponte, andò a catafascio. Le prore, spaccate a livello d'acqua, in un momento si riempirono ed il galleggiante affondò. Un secondo fu pure gravemente maltrattato, ma al terzo colpo di cannone sparato da Yanez le scialuppe erano già quasi sotto. - Impugnate i parangs e portate le spingarde a poppa! - gridò, abbandonando il pezzo che ormai diventava inutile. - Sgombrate la prora! In un baleno quei comandi furono eseguiti. I fucilieri si ammassarono sul cassero, lasciando soli i gabbieri nelle coffe, mentre Sambigliong con alcuni uomini sfondava a colpi di scure due casse lasciando scorrere per la coperta una infinità di pallottoline d'acciaio irte di punte sottilissime. I dayaki, resi furiosi dalle gravi perdite subite, avevano circondata la Marianna urlando spaventosamente e cercavano di arrampicarsi, aggrappandosi alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi ed alla dolfiniera del bompresso. Yanez aveva impugnata una scimitarra e si era messo in mezzo ai suoi uomini. - Stringete le file attorno alle spingarde! - gridò. I fucilieri che stavano presso le murate non avevano cessato il fuoco, fulminando a bruciapelo i dayaki dei pontoni e quelli che cercavano di montare all'abbordaggio. Le canne dei fucili e delle carabine indiane erano diventate così ardenti che scottavano le mani dei tiratori. I dayaki arrivavano, inerpicandosi come scimmie. Ad un tratto atroci urla di dolore scoppiarono fra gli assalitori. Avevano posate le mani sui fasci di spine che coprivano le murate e che erano dissimulati dalle brande stese sopra i bastingaggi, straziandosi orribilmente le dita e non reggendo a così atroce dolore si erano lasciati cadere addosso ai compagni, travolgendoli nella loro caduta. Se non erano pel momento riusciti a scavalcare le murate di babordo e di tribordo, quelli che si erano issati sulle trinche del bompresso, erano stati invece più fortunati, avendo trovato subito un appoggio sull'albero istesso. Accortisi delle spine, a gran colpi di kampilang staccarono i fasci gettandoli in mare, ed in dieci o dodici irruppero sul castello di prora mandando urla di vittoria. - Dentro colle spingarde! - gridò Yanez che li aveva lasciati fare. Le quattro bocche da fuoco lanciarono una bordata di chiodi su quel gruppo, spazzando tutto il castello. Fu una scarica terribile. Nessuno degli assalitori era rimasto in piedi, quantunque non vi fosse nemmeno un morto. Quei disgraziati, che avevano ricevuto in pieno quella bordata, si rotolavano pel castello, dibattendosi e mandando urla spaventevoli e gemiti strazianti. I loro corpi, foracchiati in cento luoghi dai chiodi, parevano schiumarole gocciolanti sangue. La vittoria era nondimeno ancora ben lungi. Altri dayaki salivano da tutte le parti, disperdendo prima le spine coi kampilang e rovesciandosi in coperta, malgrado il fuoco vivissimo delle tigri di Mompracem. Là un altro ostacolo però, non meno duro delle spine, attendeva gli assalitori: erano le pallottole d'acciaio che coprivano tutta la tolda e le cui punte non si potevano sfidare senza i pesanti stivali di mare. Per di più, i gabbieri delle coffe avevano cominciato a lanciare le granate che scoppiavano con fragore, lanciando intorno frammenti di metallo. I dayaki, presi fra due fuochi, impossibilitati ad avanzare, si erano arrestati; poi un subitaneo terrore, accresciuto da un'altra bordata di mitraglia che ne gettò a terra parecchi, li prese e si precipitarono confusamente in acqua, nuotando disperatamente verso i pontoni e le scialuppe. - Pare che ne abbiano finalmente abbastanza, - disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. - Ciò v'insegnerà a temere le vecchie tigri di Mompracem. La disfatta degli isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più rispondere al fuoco del veliero, fuoco che ben presto fu fatto cessare dal portoghese, ripugnandogli di massacrare delle persone che ormai non si difendevano più. Dieci minuti dopo, la flottiglia, le cui scialuppe facevano per la maggior parte acqua, scompariva entro il fiume. - Se ne sono andati, - disse Yanez. - Speriamo che ci lascino tranquilli. - Ci aspetteranno nel fiume, signore, - disse Sambigliong. - E vi daranno nuovamente battaglia, - aggiunse Tangusa, che ai primi colpi di cannone era pure salito in coperta per prendere parte alla difesa, quantunque esausto di forze. - Lo credi? - chiese il portoghese. - Ne sono certo, signore. - Daremo loro un'altra lezione che leverà loro, e per sempre, la voglia d'importunarci. Troveremo acqua sufficiente per spingerci fino alle scale del kampong? - Il fiume è profondo per un tratto lunghissimo e purchè il vento sia favorevole non troverete difficoltà a salirlo. - Quanti uomini abbiamo perduto? - chiese Yanez a Kickatany, il malese che funzionava da medico a bordo. - Ve ne sono otto nell'infermeria, signore, fra cui due gravemente feriti e quattro morti. - Che il diavolo si porti quei maledetti selvaggi ed il loro pellegrino! - esclamò Yanez. - Orsù, così è la guerra, - aggiunse poi con un sospiro. Quindi volgendosi verso Sambigliong che pareva aspettasse qualche ordine: - La marea sta per raggiungere la sua massima altezza. Cerchiamo di trarci da questo maledetto banco.

Forse che noi non abbiamo sempre protetti gli indigeni bornesi contro le vessazioni degli inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l'indipendenza ai dayaki di Sarawak? - E perchè mai, signor Yanez, - disse Sambigliong - i dayaki della costa si sono messi in armi improvvisamente, contro i nostri amici? Eppure Tremal-Naik, creando fattorie su queste spiagge, che prima erano quasi deserte, ha dato loro il mezzo di guadagnarsi da vivere comodamente, senza correre i rischi della pirateria che li decimava. - È un mistero questo, mio caro Sambigliong, che nè io nè Sandokan siamo ancora riusciti a spiegare. Questo improvviso scoppio d'ira contro Tremal-Naik deve avere una causa che per ora ci sfugge, ma certo qualcuno ha soffiato sul fuoco. - Che Tremal-Naik e sua figlia Darma corrano un vero pericolo? - Il messo che ci ha mandato a Mompracem ha detto che tutti i dayaki sono in armi e sembrano presi da una improvvisa pazzia, che tre delle fattorie sono state saccheggiate e poi incendiate e parlavano di massacrare Tremal-Naik. - Eppure non c'è un uomo migliore di lui in tutta l'isola, - disse Sambigliong. - Non comprendo come quei furfanti guastino e saccheggino le sue proprietà. - Ne sapremo qualche cosa quando giungeremo al kampong di Pangutaran. La comparsa della Marianna sul fiume calmerà un po' i dayaki e se non deporranno le armi, li mitraglieremo come si meritano. - E conosceremo le cause che li hanno indotti a sollevarsi. - Oh! - esclamò ad un tratto Yanez, che aveva volti gli sguardi verso la foce del fiume. - Vi è qualcuno che pare voglia dirigersi verso di noi. Un piccolo canotto, munito d'una vela, era sbucato dietro gli isolotti che ingombravano la foce del fiume ed aveva puntato la prora verso la Marianna. Un solo uomo lo montava, ma era così lontano ancora da non poter distinguere se era un malese o un dayako. - Chi può essere costui? - si chiese Yanez, che non lo perdeva di vista. - Guarda, Sambigliong, non ti sembra indeciso sulla sua manovra? Ora si dirige verso gli isolotti, ora se ne allontana per gettarsi verso le scogliere corallifere. - Si direbbe che cerchi d'ingannare qualcuno sulla sua vera rotta, signor Yanez, - rispose Sambigliong. - Che sia sorvegliato e che cerchi d'ingannarli? - Pare anche a me, - rispose l'europeo. - Va'a prendermi un cannocchiale e fa' caricare una spingarda a palla. Se si cercherà d'intralciare la manovra di quell'uomo, il quale evidentemente mira a raggiungerci, faremo fuoco. Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna. Ad un tratto gli sfuggì un grido: - Tangusa! - Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore? - Sì, Sambigliong. - Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, - disse il dayako. - Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh! - Che cosa avete, signore? - Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi? Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati. - Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, - disse. - Hai fatto caricare una spingarda? - Tutte e quattro. - Benissimo: aspettiamo un momento. Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa. Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna. - Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, - rispose l'europeo colla sua solita calma. Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa. La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via. Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo. Yanez, calmo, impassibile mirava sempre. - È sulla linea, - mormorò dopo qualche minuto. Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s'infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia. Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose. - Presa, signor Yanez! - gridò Sambigliong. - E fra poco affonderà, - rispose il portoghese. I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse. Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa. Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo. Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero. - Salvatevi pure, - disse Yanez. - Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi. Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque. L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue. - Che l'abbiano ferito? - si chiese Yanez. - Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale. Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero. - Sali presto! - gridò Yanez. Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda. Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese. Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. - Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa? - Le formiche bianche, signor Yanez, - rispose il malese con voce strozzata facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava. - Le formiche bianche! - esclamò il portoghese. - Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne? - I dayaki, signor Yanez. - Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente. - Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki. - Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare. Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo. - Oh diavolo! - mormorò il portoghese. - Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche. - Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. - Palle d'acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez. - Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati? - Anche quelli. - Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota! Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente. - Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche? - Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, - rispose il malese. - Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità? - Non credo, padrone. - Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale. - Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito: - Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone. - Vedremo in seguito, - rispose Yanez. - E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

La nostra crociera comincia bene, più di quanto speravo e non sono che pochi giorni che abbiamo cominciate le ostilità. La distanza spariva rapidamente, continuando il Re del Mare ad aumentare la sua velocità, onde tenersi pronto ad impedire la fuga al piroscafo che pareva essere un buon camminatore. Gli uomini in vedetta sulla piattaforma avevano già riconosciuta la bandiera spiegata sull'asta di poppa ed un immenso grido aveva salutata quella notizia. - Non mi ero ingannato, - disse Sandokan. - Quella è inglese. Ispezionò rapidamente le scialuppe, che erano già state calate fino ai sabordi ed i sessanta uomini che dovevano occuparle, quasi tutti malesi; poi fece dirigere l'incrociatore sul piroscafo, in modo da tagliargli la via. Quella nave che doveva provenire probabilmente dai porti dell'India, era un grosso piroscafo di duemila o forse più tonnellate, a due alberi e due ciminiere. Sulla sua tolda si vedevano numerose persone affollate alle murate, attratte dalla presenza di quel legno da guerra che correva velocemente incontro a loro. A mille metri, Sandokan fece spiegare all'albero di mezzana la sua bandiera, poi sparare un colpo in bianco, che significava: - Fermatevi! Una subitanea confusione si era manifestata a bordo del piroscafo a quella inaspettata intimazione. Si vedevano marinai e passeggeri precipitarsi verso la prora, fra assordanti clamori che giungevano distintamente fino sul legno corsaro. Certo la vista di quella bandiera, già conosciuta nei mari della Malesia, doveva aver prodotto una profonda impressione fra tutti, tanto più che il Re del Mare aveva continuata la sua corsa come se avesse voluto speronare la povera nave. Per alcuni minuti fu visto il piroscafo virare ora a babordo ed ora a tribordo, come se fosse irresoluto sulla via da prendere e sul da farsi, ma una palla lanciata da uno dei pezzi da caccia e che passò sul suo ponte con rombo minaccioso, lo decise a fermarsi. - Macchina indietro! - aveva comandato Sandokan. - In acqua le scialuppe e gli uomini da sbarco a posto. A te il comando, Yanez. Il portoghese cinse la sciabola che Sambigliong gli aveva porta, si sospese al fianco le pistole e scese nella scialuppa più grossa assieme a Tremal-Naik. Il piroscafo si era fermato a ottocento metri, reputando inutile ogni resistenza contro quel formidabile incrociatore che avrebbe potuto colarlo a fondo con poche scariche. Clamori assordanti si alzavano fra i passeggeri affollati sulla tolda, credendo forse che fosse suonata la loro ultima ora. Le quattro scialuppe, montate da sessanta uomini armati di carabine e di kampilang, avevano preso rapidamente il largo, dirigendosi verso il piroscafo, mentre gli artiglieri del Re del Mare puntavano due pezzi delle torri di babordo, pronti a scatenare un uragano di fuoco e di ferro al menomo indizio di resistenza da parte degli inglesi. Giunte le scialuppe a trenta passi, Yanez diede imperiosamente l'ordine ai marinai inglesi di abbassare la scala, minacciando in caso contrario di far fuoco. A bordo vi fu un po' di esitazione e di confusione. Alcuni marinai erano comparsi sulle murate armate di fucili, come se avessero avuto l'intenzione di opporre resistenza, poi le grida furiose dei passeggeri, i quali non volevano esporsi al pericolo di venire colati a fondo dalle formidabili artiglierie del corsaro, li avevano subito costretti a ritirarsi e la scala era stata calata d'un colpo solo. Yanez, seguito da Tremal-Naik, da Kammamuri e da dodici uomini, si slanciò sulla piattaforma sguainando la sciabola. Il comandante del piroscafo lo aspettava, circondato dai suoi ufficiali, mentre i passeggeri, una cinquantina di persone per lo meno, si affollavano dietro, muti e terrorizzati. Era un bell'uomo, di statura superiore alla media, dal volto energico ed abbronzato dal sole dei tropici, con capelli bruni e barba arricciata, un bel tipo di marinaio, insomma. Vedendo comparire Yanez, colla sciabola sguainata, impallidì, poi corrugò la fronte. - A quale onore devo la vostra visita? - chiese con voce fremente. - Avete veduto i colori della nostra bandiera? - chiese invece il portoghese, salutando ironicamente. - So che i pirati di Mompracem avevano un vessillo rosso con una testa di tigre, un tempo. - Allora permettetemi di avvisarvi che i pirati hanno dichiarata la guerra alla vostra nazione ed al rajah di Sarawak. - Mi avevano assicurato che non corseggiavano più. - Ed era vero, signor mio. Il vostro governo ha provocato le tigri di Mompracem e quelle hanno riprese le armi. - In conclusione, che cosa volete voi? - Accordarvi venti minuti per imbarcarvi sulle scialuppe e colare a fondo la vostra nave. - È una pirateria questa! - Chiamatela come meglio vi piace, ciò non m'interessa, - rispose Yanez. - O obbedire o affondare: scegliete! - Accordatemi qualche minuto onde interroghi i miei ufficiali. - Ve ne ho concessi venti, dopo noi ci ritireremo e l'incrociatore aprirà il fuoco, ci siate o non ci siate a bordo. Sbrigatevi, perchè abbiamo fretta. Il capitano che si frenava a stento, chiamò a consiglio i suoi ufficiali, poi dette l'ordine di mettere in mare le scialuppe e di farvi scendere innanzi a tutto i passeggeri. - Cedo alla forza, non potendo resistervi, - disse poi a Yanez. - Appena però noi avremo approdato a Natuna o a Banguram informerò telegraficamente il governatore di Singapore. - Nessuno ve lo impedirà, - rispose Yanez. - Vi faccio intanto osservare che sono trascorsi dieci minuti e che permetto ai passeggeri e al vostro equipaggio di portare con loro ciò che posseggono. - E la cassa di bordo? - Non sappiamo che cosa farne: se vi dispiace di perderla, prendetevela. I marinai nel frattempo avevano messo in acqua tutte le lance, dopo d'averle fornite di viveri per parecchi giorni, di remi e di vele. Ad un ordine del loro capitano, l'imbarco cominciò, facendo prima scendere le donne, poi i passeggeri. Ultimi furono gli ufficiali che portavano le carte di bordo e la cassa. - L'Inghilterra vendicherà questo atto di pirateria, - disse il capitano del piroscafo che appariva vivamente commosso. Yanez salutò senza rispondere. Quando la nave fu sgombrata, i malesi delle scialuppe salirono a bordo, mentre la scialuppa a vapore del Re del Mare s'accostava rapidamente. Le carboniere furono aperte e lo scarico del combustibile, molto scarso però, dovendo il piroscafo far scalo e rinnovare le provviste a Saigon, cominciò alacremente. Due ore dopo i malesi lasciavano la nave. Le scialuppe montate dall'equipaggio inglese erano ancora in vista. - Due cannonate alla linea d'acqua, - aveva comandato Sandokan. Poco dopo due granate sfondavano le lamiere di babordo del piroscafo, aprendo due squarci immensi, attraverso i quali si precipitò tosto il liquido elemento. Quattro minuti dopo il piroscafo scompariva negli abissi del mar della Sonda, con un frastuono orrendo, essendo le sue macchine scoppiate, ed il Re del Mare riprendeva la crociera, allontanandosi verso il sud-ovest. L'indomani un veliero inglese, subiva l'egual sorte, dopo d'averlo privato d'una parte del suo carico consistente in pesce secco destinato ai porti d'Hainau, e parecchie altre navi, a vela ed a vapore, andarono a tenergli compagnia nei profondi baratri. L'incrociatore batteva indisturbato le linee di navigazione, corseggiando dalle coste del Borneo fino in vista delle isole Anaba, tagliando la via alle navi provenienti dallo stretto di Malacca e dirette nei mari della Cina e del Giappone. Già oltre trenta navi erano state colate a fondo a colpi di cannone o incendiate causando danni enormi alle compagnie di navigazione, quando un giorno un praho bornese che era stato accostato, informò quei formidabili distruttori che una squadra composta di parecchie navi da guerra era stata veduta nelle acque di Natuna. Doveva certo essere quella di Singapore, inviata a cannoneggiare la nave corsara. Lo stesso giorno Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere Horward tennero consiglio e deliberarono di interrompere la crociera e di muovere senza indugio su Sarawak, a cercare la Marianna che doveva attenderli alla foce del Sedang. Forse i dayaki, i loro antichi alleati, avevano cominciato ad invadere il sultanato; era quindi quello il momento buono di assalire il rajah dal lato del mare e fargli pagare cara la sua cooperazione nella conquista di Mompracem. Il Re del Mare quindi, che aveva le carboniere piene e anche parte della stiva ingombra di combustibile, fece rotta verso il sud-est, desiderando Sandokan fare prima una punta verso la sua isola, per accertarsi se gli inglesi la tenevano ancora. Aveva dato ordine di procedere colla massima velocità, sicchè l'incrociatore divorava miglia e miglia. Per quarant'otto ore navigò verso le coste bornesi, senza far cattivi incontri, quantunque tutti fossero persuasi che una grossa squadra battesse quei mari per sorprenderli. Verso il tramonto del secondo giorno, il Re del Mare giungeva in vista di Mompracem, l'antico rifugio delle tigri della Malesia. Fu con una profonda commozione che Sandokan e Yanez rividero la loro isola, da dove per tanti anni avevano fatto tremare, coi loro prahos, il possente leopardo inglese. Quando raggiunsero il capo orientale, entro cui aprivasi la piccola rada, la notte era già scesa da qualche ora, ma una luna splendida permetteva di discernere l'alta rupe su cui un giorno sventolava orgogliosa la temuta bandiera della Tigre della Malesia. La casa che aveva servito d'asilo ai due capi della pirateria, non si vedeva più. In suo luogo era stato eretto un fortino, probabilmente poderosamente armato per impedire alle ultime tigri erranti sul mare di riconquistare il loro covo. Anche in fondo alla rada si scorgevano confusamente delle opere di difesa, dei bastioni e delle cinte altissime. Sandokan, appoggiato al coronamento di poppa, collo sguardo torbido e la fronte abbuiata, guardava la sua rupe senza parlare; dall'espressione del suo viso si capiva però facilmente che il suo cuore doveva in quel momento sanguinare. Yanez che gli stava presso, gli mise una mano sulla spalla, dicendogli: - Un giorno noi la riconquisteremo, è vero Sandokan? - Sì, - rispose il pirata, tendendo minacciosamente il pugno verso l'isola. - Sì, quel giorno li cacceremo tutti in mare senza misericordia. Volse lo sguardo verso il mare che scintillava superbamente sotto i raggi della luna. - Mi riprende una voglia furiosa di tutto distruggere, - disse poi. - Rivedo sangue dinanzi ai miei occhi. Quasi nel medesimo istante, si udirono verso la prora delle grida: - Là! Là! Guardate! Sandokan e Yanez si erano precipitati verso la murata di babordo vedendo gli uomini di guardia slanciarsi attraverso la tolda: - Dei fanali! - aveva esclamato il portoghese. - Il sangue che cercavo! - gridò Sandokan, nel cui cuore pareva che d'un tratto si fossero risvegliati gli antichi istinti di ferocia. Verso levante, in direzione delle isole Romades, le cui cime si delineavano di già, sei punti luminosi, verdi e rossi, quasi a fior d'acqua e due bianchi in alto, apparivano distintamente. - Sono due navi a vapore, - disse Yanez, - e scommetterei che vengono da Labuan. - Tanto peggio per loro, - disse Sandokan, tendendo i pugni verso quei punti luminosi. - Pagheranno per Mompracem! Da' ordine di alimentare i fuochi. - Che cosa vuoi fare, Sandokan? - chiese il portoghese impressionato dal lampo sinistro che brillava negli occhi del formidabile uomo. - Colarli con tutti quelli che li montano. - Sandokan, non dimenticare che noi siamo corsari e non più pirati. E poi non sappiamo ancora se quelle sono navi da guerra o mercantili e se battono bandiera inglese. Invece di rispondere, la Tigre della Malesia comandò di spegnere i fanali, di far suonare il "tutti in coperta" e dirigere l'incrociatore verso le due navi. Alle undici di sera il Re del Mare virava di bordo a soli cinquecento metri dai due piroscafi, i quali ignari del tremendo pericolo che li minacciava, navigavano a breve distanza l'uno dall'altro, a piccolo vapore. - Sembrano due trasporti, - disse Yanez. - Ascolta, Sandokan. Dai frapponti illuminati, s'alzavano rulli di tamburi, squilli di trombe e dei canti. Pareva che dei soldati si divertissero, approfittando della splendida serata e della tranquillità del mare. Il vento che soffiava da settentrione portava quei clamori fino sul ponte del Re del Mare. - Sono soldati inglesi di Labuan che tornano in patria, - disse Yanez. - Odi, Sandokan? Noi abbiamo udito ancora queste canzoni negli accampamenti inglesi dell'India, durante l'assedio di Delhi. - Sì, sono soldati, - rispose la Tigre della Malesia con strano accento. - Ridono e salutano la patria lontana e la morte invece sta per piombare su di loro. - Non parlare così, amico. - E non pensi tu, Yanez, che quegli uomini m'hanno cacciato dall'isola, dopo d'aver fatto strage dei miei prodi? Si era rizzato in tutta la sua altezza, col viso animato da una collera terribile, gli occhi fiammeggianti. L'antico pirata, la formidabile Tigre della Malesia che per tanti anni aveva bagnato di sangue quei mari, si risvegliava. - Sì, ridete, cantate, intrecciate danze: sono danze funebri! Domani, ai primi albori, le vostre risa vi si geleranno sulle labbra. Troppo presto avete dimenticato il mio piccolo popolo, soppresso e sgozzato sulle spiagge della mia isola. Il vendicatore è qui e vi spia! Il Re del Mare, virato di bordo, si era messo a seguire silenziosamente le due navi, tenendosi ad una distanza di un miglio. Ormai non potevano più sfuggire, non potendo gareggiare con un camminatore di quella forza. Avrebbero potuto bensì poggiare verso le Romades, che erano allora vicinissime e tentare di gettarsi verso la costa, ma anche in tale caso non sarebbero riuscite a salvarsi. Sandokan, curvo sulla murata, non staccava gli sguardi da loro. Pareva calmo, eppure terribili pensieri di vendetta, di stragi, di sangue, dovevano tormentare ancora il suo cervello. - Chi m'impedirebbe, - disse ad un tratto, - di piombare come un avvoltoio su di esse e mandarle fracassate a fondo, a colpi di sperone? E non sarei nel mio diritto? Il mare custodisce bene i segreti che gli si affidano e più nessuno saprebbe nulla! - Non lo farai, per umanità, Sandokan, - disse Yanez. - Umanità! Parola vuota di senso in guerra. Forse che gli inglesi se ne sono ricordati, quando decretavano a sangue freddo la conquista della nostra isola e l'esterminio del nostro piccolo popolo? Che cosa rimangono oggi delle Tigri di Mompracem? Di quelle Tigri che resero a questi inglesi un così grande servigio, liberandoli dalla infame setta dei thugs? Per riconoscenza quegli avidi cenciaiuoli degli oceani ci hanno carpito a tradimento la nostra isola, assalendoci di notte, dieci volte superiori, come se noi fossimo belve feroci, e tu Yanez, parli d'umanità! Credi tu che se domani una squadra inglese piombasse su di noi o sui nostri prahos, ci risparmierebbe? No, ci colerebbe a fondo e ci manderebbe a dormire il sonno eterno negli abissi del mare della Malesia. - Noi potremmo difenderci, Sandokan, disputare la vittoria, mentre quelle due navi nulla potrebbero opporre alle nostre formidabili artiglierie ed al nostro sperone. - È vero, signor Yanez, - disse una voce dietro di loro. Sandokan si era voltato impetuosamente e si trovò dinanzi a Darma. - Tu l'approvi, perchè ... Non compì la frase, che doveva alludere all'amore della giovane coll'anglo- indiano. - Che provino a difendersi anche essi, Darma, - disse poi, cambiando tono. - Non lo potrebbero, signor Sandokan, - ribattè la giovane. - Forse vi sono su quelle due navi cinque o seicento poveri giovani che sospirano il momento di rivedere la loro patria e di abbracciare i loro vecchi genitori. Non fate piangere tante madri, voi che siete sempre stato generoso. - Anche i miei uomini, le vecchie Tigri di Mompracem hanno pianto la notte che venivano cacciati dalla loro isola, - disse Sandokan, con ira repressa. - Piangano dunque le loro donne dell'Inghilterra. Sandokan si era staccato dalla murata volgendosi verso le due torri di poppa dalle cui feritoie uscivano le estremità dei due grossi pezzi da caccia, minacciami l'orizzonte. Stava per aprire la bocca e far scatenare quei due mostri di bronzo, quando Darma posò la sua mano sulla bocca del formidabile pirata: - Che cosa state per comandare, mio generoso protettore? - chiese l'anglo- indiana. - Il segnale della strage. Io voglio mutare quei canti giocondi in un immenso urlo d'angoscia e di morte. Il mare apra i suoi baratri e inghiotta i conquistatori della mia isola. - Non lo farete, signor Sandokan, - rispose Darma, con voce ferma. - Pensate che un giorno potreste venire assalito da forze superiori e vinto. Chi di noi risparmierebbero i vincitori? - Mentre tu non devi dimenticarti, Sandokan, - aggiunse Yanez con voce grave, - che noi a bordo abbiamo due fanciulle, Surama, la prima donna che io abbia amata e questa fanciulla che per salvarla noi abbiamo intrapresa una guerra contro ai thugs e compiuti mille prodigi. Nemmeno esse sfuggirebbero alla rabbia dei vincitori. Vorresti tu, con questo atto inumano, renderle nostre complici? - La Tigre della Malesia aveva incrociate le braccia, guardando ora Darma ed ora Surama, che s'avanzava lentamente in quel momento, scendendo dal ponte di comando. Il lampo terribile che poco prima gli balenava negli occhi, a poco a poco si spegneva. Ad un tratto tese la mano a Yanez, senza parlare, scosse due o tre volte il capo, poi si mise a passeggiare, fermandosi di quando in quando a guardare le navi che continuavano la loro rotta, passando al largo delle Romades. Il Re del Mare le seguiva sempre, mantenendo la distanza. La notte trascorse senza che Sandokan avesse preso un momento di riposo. Aveva continuato a passeggiare in coperta, fra le torri, senza mai aprire bocca. Quando però i primi albori cominciarono a diffondersi pel cielo, fece accelerare la marcia dell'incrociatore, comandando agli artiglieri di prendere i loro posti di combattimento. Con una rapida manovra si portò a poche gomene dalle due navi e fece issare la sua bandiera, appoggiandola con un colpo in bianco. Urla acutissime si erano alzate dai due trasporti, i cui ponti si erano gremiti di soldati, pallidi di terrore. - Mettetevi in panna e arrendetevi a discrezione o vi affondo, - aveva fatto segnalare Sandokan. Nel medesimo tempo aveva fatto puntare le artiglierie sulle due navi, pronto a far eseguire alla lettera la minaccia.

. - Voi sapete che noi non abbiamo mai avuto paura. - Accostiamoci in silenzio e prendiamoli alle spalle. Non farete fuoco se non quando lo comanderò io. Formiamo la colonna d'assalto. Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli. Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime. La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi dagli assedianti. I dayaki, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno al falò. Trecento metri più oltre s'alzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lilà se non ai mirim e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla d'assalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di scarpe. Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, s'alzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna. - Tangusa, - disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi un conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria, - dove si trova il passaggio? - Di fronte a noi, signore. - Non cadremo in mezzo alle spine? - Vi guido io. - Siete pronti? - chiese Yanez rivolgendosi ai pirati. - Pronti tutti, capitano. - Caricate al grido "Viva Mompracem!" onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti! I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribile tigri della Malesia: nè artiglierie, nè fucili, nè armi bianche. Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d'assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola: - Viva Mompracem! I tagliatori di teste, sorpresi da quell'improvviso assalto, che erano ben lungi dall'aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè l'animoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta. Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò: - Fermi! Sono amici! Aprite la porta! - Ohe, amico Tremal-Naik, - gridò Yanez con voce giuliva. - Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki. - Yanez! - esclamò l'indiano, con una vera esplosione di gioia. - Chi credevi che fosse dunque? - Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa! Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco di fucileria. Un uomo di statura piuttosto alta, un po' attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po' abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese. Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino. - Qui, sul mio petto, amico Yanez! - aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. - È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia? - Muore di salute. - E la tua Surama? - Mi ama sempre intensamente. E Darma dov'è che non la vedo? - La tigre o mia figlia? - L'una e l'altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia. - Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri. - Come! il maharatto non è qui? - esclamò Yanez. - Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest'ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem. - Lo ritroveremo più tardi. - Vieni, amico, - disse Tremal-Naik. - Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa' gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle tigri di Mompracem. S'avviò verso il bengalow che s'alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l'amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all'intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù. - Un buon bicchiere di bram innanzi tutto, - disse l'indiano, empiendo due bicchieri con quell'eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. - Arresta il sudore. - Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d'un fiato. Non sono più giovane, amico mio, - disse Yanez, vuotando poi d'un fiato il bicchiere. - Ed ora spiegami questo mistero. - Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto? - Colla Marianna e dopo d'aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta. - Dove l'hai lasciata? - All'imbarcadero. - È numeroso l'equipaggio? - Ha forze uguali alle mie. Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto. - Sono uomini capaci di difendere il mio veliero, - disse Yanez che se n'era accorto. - Sono molti i dayaki, più di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati. - Dal pellegrino? - Sì, Yanez. - L'avrai veduto, tu, quel briccone. - Io? Mai! - Non sai nemmeno tu chi è? - chiese Yanez al colmo dello stupore. - No, - rispose Tremal-Naik. - Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita. - E lui si è guardato bene dall'obbedire? - Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia figlia. - Tanta audacia ha avuto quel miserabile! - esclamò Yanez, indignato. - Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi. - Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell'uomo non è un dayako, - rispose l'indiano. - Chi è dunque? - Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano. - Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto. - Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un sospetto. - Quale? - È così assurdo che rideresti se te lo dicessi. - disse Tremal-Naik. - Gettalo fuori. - Che potesse essere qualche thug. Yanez invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l'indiano s'aspettava, era diventato lievemente pallido. - Sei ben certo, Tremal-Naik, - disse poi con voce grave, - che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Raimangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura? - E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni? - Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l'odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa della loro fine. Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi disse: - No, è impossibile, è assurdo. I thugs, ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d'imporsi ai dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d'altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug. - Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie? - Le hanno saccheggiate e poi arse. - Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem. - Volevo tentare di colonizzare queste coste e incivilire questi barbari. - E hai fatto un buco nell'acqua, - disse Yanez, ridendo. - Purtroppo. - E ci rimetterai qualche centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala possono pagare le spese. Quando sgombreremo? - Ti chiedo solo ventiquattro ore, - rispose Tremal-Naik, - per poter raccogliere il meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave. - E correremo al più presto verso Mompracem, - disse Yanez. - La nostra presenza è necessaria laggiù. Aveva pronunciate quelle parole con un tono così grave, che l'indiano ne fu colpito. - C'è qualche cosa in aria? - chiese. - Ma ... non si sa ancora. Corrono delle voci che inquietano la Tigre della Malesia. - E quali? - Che gli inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po' di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell'isola li addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese. - E anche la sua ingratitudine, - disse l'indiano. - Ecco come vorrebbero compensarci d'aver liberata l'India dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe? - Lui! Ah! Quell'uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l'Inghilterra e di ... Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase. - Hai udito? - esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Sì, il cannone tuona verso il sud. - I dayaki attaccano la Marianna! - Seguimi sull'osservatorio, Yanez, - disse Tremal-Naik. - Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.

. - Ne abbiamo salvati ... basta, non affaticatevi. - Grazie ... - mormorò il ferito. Poi s'abbandonò richiudendo gli occhi: era nuovamente svenuto. - A voi, dottore, - disse Sandokan. - Non dubitate, signore, lo curerò come fosse vostro figlio. A me gli infermieri! Mentre gli uomini richiesti entravano con disinfettanti, rotoli di cotone fenicato e numerose bottigliette, Sandokan rifece lentamente le scale, con Yanez e Tremal-Naik, rimontando in coperta. Darma che li aspettava sulla porta del quadro, s'appressò al portoghese. - Signor Yanez, - gli sussurrò, sforzandosi di rendere la sua voce ferma. Il portoghese la guardò per qualche istante senza rispondere, poi sorrise e le strinse silenziosamente la mano. - Lo salveranno? - chiese Darma con angoscia. - Lo spero, - rispose Yanez. - T'interessa molto quel giovane, Darma? - È un valoroso ... - Sì e qualche cosa di più anche. - Se guarirà, lo terrete prigioniero? - Vedremo che cosa deciderà Sandokan; ma è probabile. Darma raggiunse Surama che si era un po' scostata, mentre Yanez s'accostava a Sandokan che stava parlando animatamente con Tremal-Naik. - Che cosa ti pare di quel giovane? - gli chiese. - È quello che comandava il forte di Macrae? - Sì, - risposero ad una voce Tremal-Naik e Yanez. - Quell'uomo ha del fegato, - disse Sandokan. - È stata una vera fortuna per noi a catturarlo. Se il rajah avesse una mezza dozzina di quei comandanti ci darebbero troppo da fare. Quello non deve essere un inglese puro sangue. È troppo bruno. - Mi ha detto che sua madre sola era inglese, - disse Tremal-Naik. - Faceva parte della flotta anglo-indiana prima? - Sì, come luogotenente, così mi disse una sera. - Che cosa ne faremo di lui? - chiese Yanez. - Lo terremo come ostaggio, - rispose Sandokan. - Un giorno potrebbe esserci utile. In quanto agli altri prigionieri li farai imbarcare su una scialuppa e li lascerei liberi di raggiungere la costa. - Ed ora, dove volgerai le tue imprese? - chiese Tremal-Naik. - Io e Yanez abbiamo già formato il nostro piano di guerra, - rispose Sandokan. - Nostro primo, anzi principale disegno, è quello di non lasciarci sorprendere dalle squadre di Sarawak e da quelle inglesi. È certo che cercheranno di riunirsi per schiacciarci d'un colpo solo; se troviamo il modo di aver sempre carbone a nostra disposizione, colla velocità di cui è dotato il Re del Mare potremo riderci del rajah e anche del governatore di Labuan. - È appunto perciò che vi consiglierei, innanzi a tutto e prima che abbia luogo la riunione delle due squadre, di tentare un colpo contro i depositi di carbone che si trovano alla foce del Sarawak, - disse Tremal-Naik. - È quel che tenteremo, - rispose Sandokan. - Andremo poi a distruggere quelli che gli inglesi hanno sull'isoletta di Mangalum. Privi dei loro rifornimenti, noi avremo buon gioco sugli uni e sugli altri e potremo gettarci sulle linee di navigazione e dare un colpo mortale ai commerci inglesi colla Cina e col Giappone. Approvate questa mia idea? - Sì, - risposero ad una voce Yanez e Tremal-Naik. - Ho però un altro progetto, - continuò Sandokan dopo un breve silenzio. - Di fare insorgere i dayaki di Sarawak. Tra di loro abbiamo dei vecchi amici, quelli che ci aiutarono a rovesciare James Brooke. Io vorrei mandare a loro un buon carico d'armi onde possano mettersi in campagna. Con noi in mare e quei terribili tagliatori di teste alle spalle, il rajah ed il suo alleato, il figlio di Suyodhana, non si troverebbero certo su un letto di rose. - Supponi che il figlio del capo dei thugs si trovi col rajah? - chiese Tremal- Naik. - Ne sono sicuro, - rispose Sandokan. - E anch'io, - aggiunse Yanez. - Avete dato un appuntamento alla Marianna? - chiese l'indiano. - Ci aspetta al capo Tanjong-Datu con carico di carbone, di munizioni e di armi! - Che vi sia di già? - Lo suppongo. - Allora andiamo a Sarawak, - concluse Tremal-Naik.

- Li abbiamo sorpresi e non potevano misurarsi con noi. Capitano, buona notte e buona fortuna. - Ci rivedremo più presto di quello che credete. - Vi aspettiamo, sir Moreland. Su, imbarcate! Tremal-Naik prese per mano Darma, che non aveva mai aperto bocca e la trasse dolcemente verso la scialuppa facendola sedere a poppa, poi s'imbarcarono tutti gli altri, mentre il capitano passeggiava nervosamente sulla spiaggia, cercando di spezzare le corde che gli legavano le mani. La scialuppa prese subito il largo dirigendosi verso la barcaccia che fumava sempre e che aveva a prora il fanale acceso. Darma, dopo d'aver stretta mestamente la mano al portoghese ed averlo ringraziato con un sorriso, si era appoggiata con un gomito al banco di poppa e teneva gli sguardi fissi sulla riva. Anche il capitano aveva cessato di passeggiare. Ritto su una duna di sabbia guardava la scialuppa ad allontanarsi e forse non era la scialuppa che guardava. - Ebbene, Tremal-Naik, che cosa ne dici di questo colpo di testa? - chiese Yanez, ridendo. - Che voi siete dei demoni, - rispose l'indiano. Non dubitavo che un giorno o l'altro sareste venuti a salvarci, non però così presto. Come avevate saputo che ci avevano condotti a Macrae? - A Labuan; più tardi ti narrerò tuttociò che è avvenuto dopo il vostro rapimento. Sappi intanto che abbiamo una delle più potenti navi del mondo e che ci prepariamo a fare la guerra al rajah di Sarawak e all'Inghilterra, per vendicarci di averci scacciati da Mompracem. - Tanto osate? - E devo aggiungere un'altra cosa che ti farà stupire. - Quale? - Che quel pellegrino che ci diede tanto da fare era un emissario del figlio di Suyodhana. - Tu dici ... - Quando saremo a bordo del Re del Mare ti spiegheremo meglio. Vorrei ora sapere se nessuno ti disse mai che Suyodhana avesse un figlio. - Mai ne ho udito parlare e poi, come capo dei thugs, non poteva ammogliarsi. Sicchè sarebbe stato lui a muoverci la guerra? - Sembra, e appoggiato dagli inglesi e dal rajah di Sarawak. - E come gli inglesi possono aver accordata protezione al figlio d'un thug perchè venga a misurarsi con noi che abbiamo estirpata quella piaga che disonorava l'India? - È un mistero che noi non siamo riusciti a spiegare. - E dove si trova quell'uomo? - Ecco un altro mistero, mio caro Tremal-Naik. Speriamo in qualche luogo d'incontrarlo e di fargli fare la fine di suo padre. Signor Horward! La scialuppa era giunta presso la barcaccia e l'americano era salito prontamente in coperta. - Tutto bene, signor Yanez? - Meglio non la poteva andare. Avete la massima pressione? - Da un'ora. - Ed i prigionieri? - Sembrano conigli. - A bordo, ragazzi. Aiutò Darma a salire sulla barcaccia, poi tutti si issarono sulla tolda. - Sbrighiamoci, - disse Yanez. Fece slegare uno ad uno gli indiani che formavano l'equipaggio della barcaccia, fece scivolare nelle tasche del sergente un pugno di sterline e li fece scendere nella scialuppa dicendo loro: - Il capitano Moreland vi aspetta sulla spiaggia. Portate a lui i miei saluti ed i miei ringraziamenti per la bella barca a vapore che mi ha regalato. Signor Horward, a tutto vapore. L'americano fece fischiare ripetutamente la macchina, come un ironico saluto agli indiani della scialuppa, e la barcaccia, sbarazzata dell'ancora, filò rapidamente verso l'uscita della baia. Yanez, affidata la barra del timone a Sambigliong, si era collocato a prora assieme a Tremal-Naik e scrutava attentamente le tenebre per cercare di discernere la nave di Sandokan, che doveva incrociare a non molta distanza dalla costa. Dovendo però avere i fanali spenti non era cosa facile scoprirla. - Si sarà portata più al largo a menochè non siano avvenute delle novità durante la mia assenza, - disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava. - Da un praho che veniva da Labuan abbiamo saputo che una squadriglia d'incrociatori inglesi ha lasciato Victoria per darci la caccia. - Che Sandokan li abbia incontrati? - Avremmo udito il cannone e poi Sandokan non è un uomo da lasciarsi sorprendere, specialmente colla nave che possiede. Vedo laggiù delle scorie accese alzarsi. È il Re del Mare! Signor Horward, caricate le valvole! La barcaccia, che era davvero una buona camminatrice, s'avanzava sempre più rapida sul tenebroso mare, lasciandosi a poppa una scia che talvolta diventava luminosa per effetto d'un principio di fosforescenza. Ad un tratto una massa enorme, che scivolava sulle acque con un sordo fragore, comparve dinanzi alla scialuppa a vapore sbarrandole la via, mentre una voce formidabile gridava: - Puntate il pezzo di prua! - Alt! - aveva comandato prontamente Yanez. - Ehi, Sandokan, cala la scala. Sono le tigri di Mompracem che tornano! La barcaccia, che aveva rallentato il cammino, abbordò l'enorme nave presso l'anca di tribordo, sotto la scala che era stata abbassata d'un colpo solo.

Fece colle mani porta-voce, gridando: - Se vuoi la mia nave vieni a prenderla: ti avverto solo che abbiamo abbondanza di polvere e di piombo. Ed ora non seccarmi più, che ho altro da fare in questo momento. - Il pellegrino della Mecca ti punirà. - Va' ad appiccarti insieme al tuo Maometto. Ti troverai bene in sua compagnia. Sambigliong, fa' calare la scialuppa e manda sei uomini a tagliare la catena: attenzione agli artiglieri di babordo e proteggete chi scende. La più piccola delle due imbarcazioni fu messa rapidamente in acqua, e sei malesi, armati di pesanti scuri e di fucili, si calarono dentro. - Picchiate sodo e fate presto soprattutto! - gridò loro il portoghese. Poi salì sulla murata, aggrappandosi ad un paterazzo e guardò attentamente verso la riva, su cui era echeggiata la voce del misterioso pellegrino. Attraverso la foresta scorse ancora passare dei punti luminosi, che si allontanavano con fantastica velocità. - Che cosa preparano quei furfanti? - si chiese, non senza un po' di preoccupazione. - Signor Yanez, - disse Tangusa, che aveva lasciato il timone, essendo diventato pel momento inutile. - Ho scorto dei fuochi anche sulla riva destra. - Che siano dayaki che radunano delle altre noci di cocco? È un bel po' che vediamo passare quelle luci. Ad un tratto mandò una sorda imprecazione. Trenta o quaranta lingue di fuoco si erano improvvisamente alzate fra i cespugli delle due rive, rompendo l'oscurità fittissima che regnava sotto gli alberi. - Mettono fuoco alle foreste! - gridò. - Miserabili! - E quello che è peggio, signore, - aggiunse il meticcio, con voce alterata dallo spavento, - tutti questi alberi sono avvolti da giunta wan satura di caucciù. - Pra-la! - gridò il portoghese, rivolgendosi all'uomo che comandava la scialuppa. - Potete resistere da soli? - Abbiamo le nostre carabine, signor Yanez. - Affrettatevi più che potete, poi raggiungeteci. Sambigliong, fa' salpare l'ancorotto. - Ridiscendiamo il fiume, capitano? - chiese il mastro. - Ed in fretta, mio caro. Non ho alcun desiderio di farmi arrostire vivo. Lesti Tigrotti. Tutto alla banda il timone, Tangusa! In un baleno il ferro fu strappato dal fondo e la Marianna, che aveva in quel momento il vento a mezza-nave, virò rapidamente di bordo, lasciandosi trasportare dalla corrente. Una dozzina d'uomini, muniti di lunghi remi, aiutavano l'azione del timone, che diventava poco efficace avendo l'acqua a seconda. I sei marinai della scialuppa, quantunque privi della protezione dei loro compagni, non avevano abbandonata la catena e continuavano a tempestarla di colpi furiosi non accennando i grossi anelli a cedere tanto facilmente. Intanto l'incendio avvampava con rapidità spaventevole e nuove lingue di fuoco s'alzavano qua e là, per propagarlo su una più vasta estensione. Le fiamme trovavano un ottimo elemento nelle giunta wan (urceola elastica), quelle grosse piante rampicanti dalle quali i malesi traggono una sostanza vischiosa, di cui si servono per prendere gli uccelli, nei gambir, nei colossali alberi della canfora e nelle piante gommifere che sono numerose in tutte le foreste del Borneo. Tutte quelle piante crepitavano, come se contenessero nelle loro fibre delle cartuccie di fucile o detonavano e dai loro squarci lasciavano colare la linfa più o meno satura di resina, la quale a sua volta prendeva fuoco allargando sempre più l'incendio. Una luce intensa era successa alle tenebre, mentre miriadi di scintille s'alzavano a grande altezza volteggiando fra turbini di fumo. La Marianna scendeva precipitosamente, aiutata dai remi per sottrarsi a quell'incendio, che si propagava ormai anche alle piante prossime alle due rive, ma non aveva percorso che cinquecento passi, quando un urto avvenne a prora, che si ripercosse in tutte le parti della carena. Urla furiose erano scoppiate sul castello di prora, dove eransi radunati la maggior parte dei malesi, temendo che da un momento all'altro comparissero le scialuppe e i pontoni dei dayaki. - Siamo presi! - Ci hanno tagliata la ritirata! Yanez era accorso, immaginandosi che cos'era accaduto. - Un'altra catena? - chiese, respingendo i suoi uomini per farsi largo. - Sì, capitano. - Allora l'hanno tesa pochi minuti fa. - Così deve essere, - disse Tangusa, che appariva esterrefatto. - Signor Yanez, non ci rimane che di prendere terra mentre l'incendio non è ancora attaccato dovunque. - Lasciare la Marianna! - esclamò il portoghese. - Oh mai! Sarebbe la fine di tutti, anche di Tremal-Naik e di Darma. - Devo mettere in acqua l'altra scialuppa? - chiese Sambigliong. Yanez non rispose. Ritto sulla prora, colle mani strette sulla scotta della trinchettina, la sigaretta spenta e compressa fra le labbra, guardava l'incendio che s'allargava sempre più. Anche verso il basso corso del fiume delle vampe cominciavano ad alzarsi. Fra poco la Marianna doveva trovarsi in mezzo ad un mare di fuoco e, siccome gli alberi quasi riunivano i loro rami sopra il fiume, l'equipaggio correva il pericolo di vedersi rovesciare addosso una pioggia di tizzoni ardenti e di cenere calda. - Capitano, - ripetè Sambigliong, - devo mettere in acqua la seconda scialuppa? Noi corriamo il pericolo di perdere la Marianna, se non fuggiamo. - Fuggire! E dove? - chiese Yanez, con voce pacata. - Abbiamo il fuoco dinanzi e di dietro e anche spezzando le catene la nostra situazione non migliorerebbe. - Ci lasceremo dunque arrostire, signor Yanez? - Non siamo ancora cucinati, - rispose il portoghese, colla sua calma meravigliosa. - Le tigri di Mompracem sono costolette un po' dure. Poi, cambiando bruscamente tono, gridò: - Stendete la tela sul ponte, abbassate le vele sui ferri di sostegno. In acqua le maniche delle pompe e affondate le àncore. Gli artiglieri a posto! L'equipaggio che attendeva con angoscia qualche decisione, in pochi momenti issò i ferri di sostegno e ammainò le due immense vele. La Marianna, come tutti gli yacht che intraprendono dei viaggi nelle regioni estremamente calde, era fornita d'una tela per riparare il ponte dagli ardenti raggi solari e dei relativi sostegni. In un baleno fu stesa all'altezza delle bome e le due vele vi furono gettate sopra, lasciando cadere i margini lungo le murate, in modo da coprire interamente la piccola nave. - Manovrate le pompe e inaffiate, - comandò Yanez, quando l'ordine fu eseguito. Riaccese poscia la sigaretta e si spinse verso la prora, mentre torrenti d'acqua venivano lanciati contro la tela inzuppandola completamente. Gli uomini incaricati di spezzare la catena, tornavano in quel momento a bordo, arrancando disperatamente. Sopra di loro fiammeggiavano i rami degli alberi, coprendoli di scintille. - Giungono a tempo, - mormorò il portoghese. - Che spettacolo magnifico! Che peccato non poterlo vedere un po' da lontano! Lo ammirerei meglio! Una vera tromba di fuoco si rovesciava sul fiume. Gli alberi delle due rive, composti per la maggior parte di piante gommifere, ardevano come zolfanelli, lanciando dovunque mostruose lingue di fuoco e turbini di fumo denso e pesante. I tronchi, carbonizzati, rovinavano al suolo, facendo crollare le piante vicine a cui erano collegati da piante parassite e gambir e spandendo torrenti di caucciù ardente. Alberi della canfora enormi, casuarine, sagu, arenghe saccarifere, dammar saturi di resina, banani, cocchi e durion fiammeggiavano come torce colossali, contorcendosi e tuonando; poi s'abbattevano, rovesciandosi nel fiume con fischi assordanti. L'aria diventava irrespirabile e le tende e le vele che coprivano la Marianna fumavano e si contraevano, nonostante i continui getti d'acqua che le innaffiavano. Il calore era diventato così intenso che i Tigrotti di Mompracem, malgrado la protezione delle vele, si sentivano mancare. Immense nuvole di fumo e nembi di scintille, che il vento spingeva, si cacciavano entro lo spazio racchiuso fra il ponte e le tele, avvolgendo gli uomini terrorizzati, mentre dall'alto cadevano senza interruzione rami fiammeggianti, che le pompe penavano a spegnere, quantunque energicamente manovrate. Una cupola di fuoco avvolgeva ogni cosa: la nave, le rive ed il fiume. I malesi ed i dayaki che formavano l'equipaggio, guardavano con spavento quelle cortine fiammeggianti, che non accennavano a scemare, chiedendosi angosciosamente se stava per suonare per loro l'ultima ora. Solo Yanez, l'uomo eternamente impassibile, pareva che non si occupasse affatto del tremendo pericolo che minacciava la Marianna. Seduto sull'affusto di uno dei due pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini. - Signore! - gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore, - noi ci arrostiamo. Yanez alzò le spalle. - Non posso fare nulla io, - rispose poi, colla sua calma abituale. - L'aria diventa irrespirabile. - Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni. - Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l'alto corso. - Lassù non farà più fresco di qui, mio caro. - Dovremo perire così? - Se così è scritto, - rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta. Si rovesciò sull'affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante: - Bah! Aspettiamo! Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti. Yanez si era alzato. - Come diventano noiosi questi dayaki! - esclamò. Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d'acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell'immensa tenda, guardò verso la riva. Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perchè osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino. Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell'uomo, che pareva avesse dell'acqua agghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche. - Ah! Miserabili! - gridò. - Nemmeno in mezzo al fuoco volete lasciarci un momento di tregua! Sambigliong, Tigrotti di Mompracem, bordate senza misericordia quei demoni! Fu un po' rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l'incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro. Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilatarsi. - Potesse essere caduto anche il pellegrino! - mormorò Yanez. - Quel furbone si sarà purtroppo ben guardato dall'esporsi ai nostri tiri. Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornata a bordo nel momento in cui gli alberi costeggianti il fiume prendevano pure fuoco. - L'hai spezzata la catena? - gli chiese. - Sì, capitano Yanez. - Sicchè il passo è libero. - Completamente. - Il fuoco scema verso l'alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso, - mormorò Yanez. - Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checchè debba succedere, partiamo. La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall'uragano di fuoco che l'aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia. Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna. Il pericolo quindi che il veliero s'incendiasse, era ormai evitato. - Approfittiamo, - disse Yanez. - L'aria comincia a diventare un po' più respirabile e la brezza è sempre favorevole. Fece togliere l'immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, accecando e facendo tossire gli uomini. Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati. Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata. I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere. Forse l'incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata. - Non si scorgono più, - disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. - Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l'imbarcadero! Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti. - Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone. - Eppure nessuno glielo ha detto. - Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto o ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all'uomo che vi fu mandato. - Che sia così? - Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna. - Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! - esclamò Yanez. - Giacchè i dayaki ci lasciano un po' di tregua e l'incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po' di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino. - Se parlerà! - Se si ostinerà a rimaner muto, m'incarico io di fargli passare un brutto quarto d'ora. Vieni, Tangusa. - Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora. In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procurategli dalle compressioni energiche di Sambigliong. Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi. Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell'addormentato, poi gli alzò le braccia ripiegandole all'indietro più che potè onde dilatargli i polmoni, eseguendo quel movimento parecchie volte. Alla nona o alla decima mossa il malese aprì finalmente gli occhi, fissandoli sul portoghese con un lampo di terrore. - Come stai, amico? - gli chiese Yanez con accento un po' ironico. - Mentre noi combattevamo contro i tuoi alleati, tu dormivi saporitamente. Diventano poltroni i malesi. Il pilota continuava a guardarlo senza rispondere, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte che s'imperlava di sudore. Pareva che cercasse di riordinare le sue idee e di mano in mano che la memoria gli ritornava, la sua pelle diventava sempre più smorta ed una espressione angosciosa gli si diffondeva sul viso. - Orsù, - disse Yanez, - quand'è che ci farai udire la tua voce? - Che cosa è avvenuto, signore? - chiese finalmente Padada. - Non riesco a spiegarmi come io mi sia addormentato di colpo, dopo la stretta datami dal vostro mastro. - È cosa tanto poco interessante che non vale la pena che io te la spieghi, - rispose Yanez. - Tu invece dovresti darmi qualche spiegazione che mi premerebbe. - Quale? - Sapere chi è che ti ha mandato verso di noi per far arenare la mia nave sui banchi. - Vi giuro, signore ... - Lascia andare i giuramenti: già non credo a quelle cose io, mio caro. È inutile che tu ti ostini a negare: ti sei tradito e ti tengo in mia mano. Chi ti ha pagato per rovinare la mia nave? Tu stavi per incendiarla. - È una vostra supposizione, - balbettò il malese. - Basta, - disse Yanez. - Vuoi farmi perdere la pazienza? Voglio sapere chi è quel maledetto pellegrino che ha messo in armi i dayaki e che domanda la testa di Tremal-Naik. - Voi potete uccidermi, signore, ma non obbligarmi a dire delle cose ch'io ignoro. - Sicchè tu affermi? - Ch'io non ho mai veduto alcun pellegrino. - E che anche non hai mai avuto rapporti coi dayaki che mi hanno assalito? - Non mi sono mai occupato di costoro, signore, ve lo giuro su Vairang kidul2 (La regina del sud). Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l'incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso. - Perchè sei pallido allora? - Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall'impressione provata, - rispose il pilota. - Tu menti come un ragazzo, - disse Yanez. - Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai. - Che cosa volete fare, signore? - chiese il miserabile con voce tremante. - Tangusa, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio. - Lega le mani a questo traditore, poi conducilo in coperta. Se cerca di resistere bruciagli le cervella. - La mia pistola è carica, - rispose l'intendente di Tremal-Naik. Yanez uscì dal quadro e salì sul ponte, mentre il meticcio metteva in esecuzione l'ordine ricevuto, senza che il malese avesse osato ribellarsi.

. - Li abbiamo bene ingannati, - disse a Yanez, che lo aveva raggiunto insieme a Darma. - Noi raggiungeremo il capo Tanjong senza fare cattivi incontri. A proposito, cosa avrà pensato sir Moreland della cannonata che abbiamo sparato? - Il dottor Held mi ha detto che si era molto inquietato, temendo che qualche nave fosse stata colata a fondo, - rispose Yanez. - Andiamo a trovarlo. - Mi permettete di venire con voi? - chiese Darma. - Non trovo alcun inconveniente, - rispose Sandokan. - Sarà anzi lieto di rivedere la sua graziosa prigioniera. Vieni, fanciulla. - Ciò farà piacere a lui e ... anche a te, - aggiunse Yanez, sottovoce accostandosi alla giovane. Quando scesero nel quadro, sir Moreland era già sveglio e chiacchierava col medico. Vedendo apparire Darma dietro a Sandokan ed a Yanez, una viva fiamma animò gli sguardi dell'anglo-indiano e per qualche istante non le staccò di dosso gli occhi. - Voi, miss! - esclamò. - Quanto sono lieto di rivedervi! - Come state, sir Moreland? - chiese la giovane, arrossendo. - Oh! La ferita si va cicatrizzando rapidamente, è vero dottore? - Fra otto o dieci giorni sarà interamente chiusa, - rispose l'americano. - Una guarigione veramente miracolosa. - Avrei preferito non vedervi ferito, sir Moreland, - disse Darma. - Allora non mi avreste di certo trovato qui, - rispose l'anglo-indiano. - Mi sarei lasciato affondare assieme alla mia nave, a fianco della bandiera della mia patria. - Sono più lieta che vi abbiano strappato alla morte. Il giovane capitano la guardò sorridendo, poi disse: - Grazie miss, ma ... - Che cosa volete dire, sir Moreland? - Che sarei stato più contento anch'io se avessero salvata anche la mia nave ed i miei marinai. Ah! Miss, non m'aspettavo di dover subire una così disastrosa sconfitta e da parte dei vostri protettori. Tuttavia, credetelo, non rimpiango la mia prigionia. - sir Moreland, - disse Sandokan, - sapete che questa notte le navi inglesi ci hanno quasi sorpresi? - La squadriglia di Labuan? - esclamò il ferito con emozione. - Suppongo che fosse quella, ma siamo riusciti ad ingannarla ed a sottrarci facilmente al pericolo. - Non illudetevi tuttavia di poter aver sempre una tale fortuna, - disse l'anglo-indiano. - Un giorno, quando meno lo supporrete, vi troverete dinanzi ad un uomo che forse non vi accorderà quartiere. - Volete alludere al figlio di Suyodhana? - chiese Sandokan. - Non posso spiegarmi di più. È un segreto che io non posso tradire, - rispose l'anglo-indiano. - Non può essere che lui, - disse Yanez, - quantunque voi abbiate affermato di non saper nulla su quel nostro ostinato e misterioso avversario. Sir Moreland pareva che non lo avesse nemmeno udito. Guardava Darma con un senso di profonda angoscia. Sandokan, Yanez e la giovane s'intrattennero alcuni minuti ancora nella cabina, scambiando qualche parola col dottore, poi si accommiatarono. Prima però che la giovane uscisse, sir Moreland le disse, guardandola con una certa tristezza: - Spero, miss, di rivedervi presto e che non vorrete considerarmi sempre come un nemico. Quando la giovane fu uscita, l'anglo-indiano rimase a lungo alzato, tenendo gli occhi fissi sulla porta della cabina e le braccia incrociate sul petto, in attitudine pensierosa, poi si riadagiò, dicendo al dottore, con un lungo sospiro: - Che triste cosa è la guerra. Getta l'odio perfino fra due cuori che potevano battere insieme col medesimo affetto. - Ed il vostro avrebbe battuto assai, è vero, sir Moreland? - disse l'americano sorridendo. - Sì, dottore, ve lo confesso. - Per miss Darma? - Perchè dovrei nascondetelo? - Una bella e coraggiosa giovane, degna di suo padre e di voi. - E che non sarà giammai mia, - disse sir Moreland, con accento strano. - Il destino ha scavato fra noi, senza nostra colpa, un abisso che nessuno potrà mai colmare. - Per quale motivo? - chiese Held, stupito dal tono che pareva avesse in sè dell'angoscia e dell'odio profondo. - Questi uomini sono nemici del rajah, e degli inglesi e non già vostri. Sir Moreland guardò l'americano senza rispondere. Il suo viso però in quel momento aveva assunto una espressione così terribile da colpire vivamente l'americano. - Si direbbe che vi è un segreto nella vostra vita, - disse il dottore. - Maledico il destino, ecco tutto, - rispose il giovane con voce sorda. Poi, cambiando bruscamente tono, chiese: - Dottore, dove ci conduce il comandante? - Va al nord-ovest, per ora. - A Sarawak forse? - Può darsi, Sir. - Che voglia sbarcarmi? - Vi rincrescerebbe? - Forse sì. - Per lasciare miss Darma? - Per altri motivi più gravi, - rispose l'anglo-indiano. - Quali, se è lecito saperlo? - Perchè il rajah mi lancerà nuovamente contro di voi e forse spetterà a me compiere il doloroso dovere di darvi il colpo mortale e di sommergere la donna che amo, - disse Moreland. - Quel giorno può essere molto lontano. - Io credo il contrario, perchè la vostra nave non potrà tenere eternamente il mare, nè rifornirsi sempre di viveri, di munizioni e di combustibile, senza avere un porto amico. - L'oceano è immenso, Sir. - Sì, è vero, ma quando dieci o venti navi solcheranno da tutte le parti quest'oceano e chiuderanno, come in un cerchio di ferro, il vostro incrociatore, quale speranza vi rimarrà? Ammiro l'audacia di questi pirati della Malesia, come ammiro la loro nave, un capolavoro dell'ingegneria navale, tuttavia permettetemi di dubitare sul buon esito della vostra crociera. Che gravi danni possiate recare alla marineria inglese e creare molti fastidi al rajah, non lo nego, essendo il vostro Re del Mare il vascello più rapido che ora esista e forse il meglio armato, nondimeno non la durerete a lungo. - Questi formidabili corsari non hanno la pretesa di tenere in iscacco, per molti anni, le squadre inglesi, sir Moreland. Sanno perfettamente la sorte che li attende e non ignorano che un giorno i loro cadaveri andranno a dormire il sonno eterno nelle tenebrose vallate del mar della Sonda o in fondo a qualche spaventevole baratro. - E anche miss Darma lo sa? - chiese l'anglo-indiano con un brivido. - Lo suppongo, sir Moreland. - Ah! Sbarcatela! Salvatela! - Qui combattono suo padre ed i suoi protettori, ai quali deve la vita, a quanto mi si disse, e non li lascerà, - rispose l'americano. Sir Moreland si passò una mano sulla fronte, poi disse come parlando fra sè: - Sarebbe meglio che domani le squadre riunite affondassero tutte, me compreso. Almeno sarebbe finita e non udrei più mai il grido del sangue che reclama vendetta!

. - Abbiamo ancora combustibile per un paio di giorni. Il Re del Mare aveva volta la prora a ponente, non essendovi in quella direzione nè banchi, nè scogliere. L'uragano lo assaliva allora con violenza inaudita, imprimendogli delle scosse spaventevoli. Tutti erano in coperta, perfino Darma e sir Moreland. Le onde, vere montagne mobili, si rovesciavano addosso all'incrociatore con muggiti assordanti, ostacolandogli la marcia e minacciando di trascinarlo ben lontano dalla sua rotta. - Una burrasca terribile, - disse sir Moreland a Darma, la quale si teneva riparata tra la torre poppiera e la murata del cofferdam. - La vostra nave avrà molto da fare a cavarsela. - Che vi sia pericolo di affondare? - chiese la giovane, senza però manifestare alcuna apprensione nel tono della voce. - No, almeno per ora, miss. Il Re del Mare è una nave a prova di scoglio e nessuna ondata potrà demolirla. - Che onde gigantesche però. - Enormi, miss. Ed è qui, in questi paraggi che raggiungono delle altezze spaventevoli. Ritiratevi, non è il vostro posto qui. Vi è del pericolo. - Se l'affrontano gli altri, perchè dovrei sfuggirlo io? - Sono uomini di mare. Ritiratevi, miss, perchè ora che l'incrociatore si prepara a virare di bordo, le onde spazzeranno la poppa e un cavallone potrebbe irrompere nella torre. - Mi rincresce di non poter ammirare questa bufera in tutta la sua terribile rabbia. Ah! Quale spettacolo! Guardate, sir Moreland, che ondate! Si direbbe che stanno per chiudersi sopra di noi. Aspettate un minuto ancora. - Badate, miss, le onde assalgono la poppa. Le vedete? Il Re del Mare, che faticava immensamente a prendere il largo, trovandosi di frequente le sue eliche fuori dalle acque, pareva che fosse diventato un misero guscio di noce. Balzava sulle creste, sbandandosi in modo da temere che da un momento all'altro si squilibrasse, poi strapiombava negli abissi, dai quali pareva che non dovesse mai più uscire. I colpi di mare si succedevano senza tregua, frangendosi contro le torri con mille muggiti e spazzando la tolda con grave pericolo pei marinai, che venivano sbattuti contro le murate e talvolta perfino sollevati. Yanez e Sandokan pareva che se ne ridessero dei furori dell'uragano. Aggrappati alla balaustrata del ponte di comando, calmi, impassibili, impartivano gli ordini con voce tranquilla. Avevano ormai troppa fiducia nella propria nave per dubitare della vittoria finale. D'altronde avevano prese tutte le misure per poter lottare vantaggiosamente coll'uragano. Avevano raddoppiato il personale di macchina ed i timonieri, avevano fatto doppiare i cavi delle scialuppe, legare le artiglierie leggere, assicurare le grosse e chiudere tutti gli sportelli ed i boccaporti, onde non una goccia d'acqua potesse entrare nella nave. Tutta la notte il Re del Mare fece valorosamente fronte all'uragano, senza troppo allontanarsi dai paraggi di Mangalum ed essendosi verso il mezzodì dell'indomani calmata la furia del vento, riprese la sua rotta primitiva. Il cielo si manteneva ancora minaccioso e tutto faceva credere che quella bufera dovesse avere più tardi un seguito. - Affrettiamoci ad approfittare di questo momento di calma relativa, - disse Sandokan a Yanez ed a Tremal-Naik. - Le carboniere sono quasi vuote e sarebbe una grave imprudenza lasciarci cogliere da un altro uragano coi fuochi semispenti. L'isola non doveva essere lontana, poichè il Re del Mare, pur tenendosi al largo per tema di venire spinto contro quella terra o verso le scogliere che la circondano, non si era molto scostato verso l'ovest. Ed infatti verso le dieci del mattino, essendosi spezzate le masse di vapore che turbinavano in cielo, una montagna si delineò finalmente all'orizzonte. - Mangalum? - chiese Tremal-Naik a Yanez che l'osservava col cannocchiale. - Sì, - rispose il portoghese. - Affretteremo la marcia e faremo arrabbiare quegl'isolani ed il loro minuscolo governatore. Il Re del Mare aumentava la corsa, consumando le sue ultime tonnellate di carbone. La montagna ingrandiva a vista d'occhio. Era una vetta coperta da una fitta vegetazione assai verdeggiante e alla sua base si scorgeva, in uno squarcio considerevole, il suo porticino. - Fra due ore vi giungeremo, - disse Yanez all'indiano. Il portoghese non s'ingannava. Non era ancora mezzodì quando il Re del Mare si trovò di fronte alla piccola rada sulla cui spiaggia si scorgevano dei gruppetti di capanne e delle barche tirate a secco. - Scandagliate! - aveva gridato Sandokan. - Forse avremo acqua sufficiente per entrare. Sambigliong con parecchi marinai muniti di scandagli si era recato a prora per misurare la profondità delle acque, mentre il Re del Mare moderava rapidamente la sua velocità. Vedendo apparire quella grossa nave, gli abitanti, per la maggior parte di razza bianca, si erano precipitati fuori delle loro capanne e, credendo che fosse inglese, si erano affrettati ad inalberare sull'antenna dei segnali la preziosa bandiera regalata loro dall'ammiraglio della squadra del Mar Giallo. Erano una cinquantina fra uomini, donne e ragazzi, che sgambettavano allegramente fra i fuchi7 giganti, che coprivano le rive della minuscola baia, sperando forse di vedersi regalare un secondo banchetto gargantuesco, come l'aveva offerto l'ammiraglio britanno. Sandokan, dopo aver raccomandato ai timonieri di tenere il Re del Mare al largo dalle spiagge, aveva dato ordine di calare in mare la scialuppa a vapore e le due baleniere più grosse, essendo i cavalloni sempre fortissimi. - Vedo del carbone, - aveva detto a Yanez. - Ed io dei buoi che pascolano nei recinti, - aveva risposto il portoghese. - Questa corsa non sarà stata quindi inutile, - aveva concluso la Tigre della Malesia. - Almeno qui non avremo da temere alcuna resistenza. Trenta malesi, armati di fucili e di kampilang, erano già scesi nella scialuppa, dopo non poche fatiche, in causa delle frequenti ondate. Essendosi il Re del Mare messo attraverso i cavalloni ed avendo gettato una buona quantità d'olio sotto e sopravvento, una certa calma erasi ottenuta. Fra la nave e l'isola, l'acqua si era spianata, in modo da rendere facile l'approdo. Ad un comando di Yanez, la scialuppa a vapore aveva preso a rimorchio le due baleniere, dirigendosi rapidamente verso la spiaggia, ove s'apriva un piccolo bacino ingombro di alghe che metteva in un secondo più ampio e assolutamente sgombro. La traversata si era compiuta in meno di cinque minuti. Yanez che aveva assunto il comando della spedizione, sbarcò per primo fra la minuscola popolazione, domandando del governatore. - Sono io, signore, - rispose un vecchio che indossava un costume da tamburo maggiore dell'esercito inglese, sfoderato per la circostanza. - Sono ben felice di vedere un capitano di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra. - La Regina d'Inghilterra non ha nulla a che fare con noi, signor governatore, - rispose Yanez, mentre i suoi uomini sbarcavano e caricavano i fucili. - D'altronde io non sono un rappresentante dell'Impero Britannico. - Che cosa dite, signore! - esclamò il vecchio scoprendosi il capo. - Pare che manchiate di notizie fresche dal resto del mondo. - Non approdano che rare navi qui, e gli ammiragli inglesi non si fanno più vedere. - Allora ho il dispiacere d'informarvi che noi siamo in guerra coll'Inghilterra e che perciò dovete considerarci come vostri nemici. - E venite a conquistare l'isola! - esclamò il governatore, impallidendo. - Chi siete? Degli olandesi forse? - Noi siamo le tigri di Mompracem. - Ne ho udito vagamente a parlare. - Tanto meglio, d'altronde rassicuratevi. Noi non abbiamo l'intenzione di destituirvi e tanto meno d'impossessarci della vostra isola, signor Griell. - E che cosa desiderate, dunque? - chiese il governatore con voce tremante. - Gli inglesi hanno qui un piccolo deposito di carbone, è vero? - È vero, ma non appartiene a noi, bensì al governo della Gran Bretagna. Comprenderete quindi che io non posso toccarlo senza aver ricevuto l'ordine dell'Ammiragliato. - Quell'ordine ve lo farò dare più tardi, - rispose Yanez. - Per diritto di guerra quel carbone, che voi non potreste difendere, è nostro. Se poi vorrete evitare dei malanni, fra un'ora dovrete far portare qui anche dell'acqua dolce e dei viveri; passato il quale tempo i miei uomini procederanno alla distruzione delle vostre abitazioni e delle vostre piantagioni. - Signore! - esclamò il povero governatore. - Io protesto contro questa violenza. - Protesterete presso l'Ammiragliato che non ha pensato a mandare qui una squadra per difendervi, - disse Yanez, con voce secca. - Orsù, attendo coll'orologio alla mano. - È una pirateria! - Chiamatela come volete, ciò non mi da alcun fastidio. Che tutti si ritirino o i miei uomini faranno fuoco! Quella minaccia, formulata in lingua inglese, ottenne un successo immediato. La popolazione, che già guardava in cagnesco i corsari, temendo una scarica, si era prontamente dispersa, rifugiandosi nelle case. Solamente il governatore, per non perdere della sua dignità, si era ritirato ultimo, dopo aver chiamato a consiglio tre o quattro vecchi coloni, certamente i personaggi più influenti e più rispettati dell'isola. Yanez, senza attendere le decisioni del governatore, si era diretto verso il deposito di carbone, situato all'estremità della baia, sotto una vasta tettoia. Ve n'erano perlomeno seicento tonnellate, provvista ragguardevole, ma il cui trasporto a bordo richiedeva molto tempo. Furono rimandate a bordo le scialuppe per condurre a terra altri ottanta uomini di rinforzo ed il carico cominciò nonostante il pessimo tempo ed i furiosi acquazzoni che si succedevano di quarto in quarto d'ora. Mentre i malesi ed i dayaki lavoravano febbrilmente, Yanez si era seduto sotto la tettoia coll'orologio in mano e la sigaretta fra le labbra, risoluto ad agire. Aveva radunato presso di sè una dozzina di fucilieri, i quali altro non aspettavano che un ordine per mettere a sacco le abitazioni degli isolani e distruggere le poche piantagioni. Non era però ancora trascorsa l'ora, quando si videro alcuni coloni spingere verso la piccola baia una cinquantina di capre e altrettante pecore, animali di bell'aspetto e di buona razza, che dovevano somministrare all'equipaggio dell'incrociatore delle superbe bistecche. Il governatore, accompagnato dai suoi consiglieri, li precedeva. Il povero uomo pareva molto afflitto, ma anche molto incollerito. - Signore, - disse, accostandosi a Yanez. - Cedo alla forza, però farò le mie lagnanze all'Ammiragliato. Il portoghese invece di rispondere trasse da un portafoglio una carta e gliela rimise. - Che cos'è questo? - chiese il governatore, con sorpresa. - Una tratta di cinquecento sterline in oro che potrete far incassare a Pontianak dove abbiamo i nostri banchieri. Questi animali appartengono ai vostri amministrati e ve li paghiamo; il carbone appartiene al governo inglese e ce lo prendiamo. Ora lasciateci tranquilli e non occupatevi altro di noi. - Avrei preferito tenermi i miei animali, assai più utili del vostro denaro, - rispose il governatore stizzito. Avrebbe forse voluto aggiungere qualche altra parola; ma vedendo i marinai alzare i fucili, battè prudentemente in ritirata assieme ai suoi consiglieri. Intanto altri uomini erano sbarcati ed altre scialuppe erano giunte, e mantenendosi il mare relativamente tranquillo fra la spiaggia ed il Re del Mare, facendo questo argine all'irrompere delle onde colla sua massa, il carico del combustibile cominciò con febbrile attività. Tutti si affrettavano, perchè al largo il mare infuriava, rompendosi con rabbia contro le scogliere e il tempo non accennava a rischiararsi, e mentre l'imbarco di quella massa di combustibile doveva richiedere molte ore. Durante tutta la giornata e buona parte della notte, monti di combustibile furono precipitati nelle carboniere. L'indomani, Yanez, essendo stato surrogato da Tremal-Naik, ed essendo il mare un po' calmato, sebbene il tempo fosse sempre minaccioso, fece la proposta a sir Moreland di fare una gita a uno dei due isolotti fiancheggianti Mangalum, per fare un massacro d'uccelli marini onde variare la minuta di bordo. Trovandosi Surama indisposta, in causa del mal di mare che la tormentava, fu offerto a Darma di accompagnarli, tanto più che la giovane era una valente cacciatrice. A mezzodì, dopo il pranzo, l'anglo-indiano, il portoghese e la fanciulla, armati di fucili da caccia, s'imbarcavano sulla piccola baleniera, dirigendosi verso l'isolotto di ponente, uno scoglio enorme che lanciava la sua vetta a sette od ottocento piedi d'altezza e che da tre lati cadeva quasi a piombo. Sui cornicioni si vedevano stormi di uccelli a nidificare. Erano per lo più albatri bianchi e neri, i quali, quantunque vivano insieme sugli isolotti deserti, mantengono una linea di divisione che si vede a prima vista, dato il colore delle loro penne. Non mancavano però molti altri uccelli marini, ben migliori dal lato commestibile. Yanez che dirigeva la scialuppa, in meno di mezz'ora sbarcò l'anglo-indiano e Darma alla base dello scoglio dove si prolungava un tratto di spiaggia di alcune centinaia di metri. Legata l'imbarcazione dietro una linea di rocce che la difendevano dagli assalti delle onde, i due cacciatori e Darma si arrampicarono sui fianchi della rupe, fucilando vigorosamente i grossi volatili che turbinavano sopra le loro teste in bande così fitte da oscurare talvolta i raggi del sole. Albatri bianchi e neri, sule, rompitori d'ossa, gabbiani e rondini di mare cadevano in gran numero sulla spiaggia sottostante, non prendendosi nemmeno la briga di abbandonare i cornicioni sui quali nidificavano. La caccia si protrasse fino verso il tramonto, con grande divertimento di sir Moreland, che era pure un tiratore valentissimo, poi, essendosi il mare fatto grosso ed essendosi il vento alzato violentissimo, pensarono a far ritorno. Stavano per imbarcarsi, quando udirono la sirena dell'incrociatore a fischiare replicatamente. - Ci chiamano, - disse Yanez. - Il carico è finito e il Re del Mare si prepara a prendere il largo. Ad un tratto corrugò la fronte, fissando le onde che si rovesciavano con estrema violenza contro lo scoglio. - Che abbiamo commesso una grossa imprudenza a tardare tanto? - si chiese. - Che brutto mare! - Affrettiamoci, signor Yanez, - disse sir Moreland, guardando con inquietudine Darma. - Avremo da fare a tornare a bordo. La sirena dell'incrociatore continuava a fischiare e si vedevano i marinai a fare dei larghi cenni. - Pare che ci invitino a non prendere il largo, - disse Yanez. - Che al di là delle scogliere il mare sia più cattivo di quello che crediamo? Bah! Tentiamo! Afferrò i remi e spinse risolutamente la scialuppa fuori dal piccolo seno, ma appena ebbe oltrepassata la linea degli scogli, un'onda immensa, una vera montagna d'acqua si rovesciò su di loro e per poco non li subissò. Quasi nel medesimo istante videro l'incrociatore, assalito da una seconda ondata, ancora più enorme, salita dal sud, e respinto bruscamente al largo dall'imboccatura della rada di Mangalum. Quel terribile colpo di mare doveva aver spezzate le catene delle àncore. - Signor Yanez! - gridò Darma spaventata. - Il Re del Mare fugge! Nuove montagne d'acqua si rovesciavano con estremo furore, fra le isole e l'incrociatore, mentre la notte calava quasi di colpo, tutto avvolgendo nel suo nero manto. - Torniamo, signor Yanez, - disse sir Moreland. - L'incrociatore viene respinto al largo e ... Non finì la frase. Un cavallone enorme si era precipitato sulla scialuppa, capovolgendola e gettando tutti in acqua. Yanez, pronto come un lampo, aveva avuto appena il tempo di strappare il salvagente attaccato al banco di poppa e di afferrare per un braccio Darma. Appena tornato a galla, dopo passato il cavallone, si vide di fronte l'anglo- indiano che s'appoggiava pure ad un salvagente, quello di prora. - Aiutatemi, sir Moreland! - gridò. Darma gli era sfuggita, ma la sottana di percalle azzurro che ella indossava era ricomparsa a poche braccia da loro, poi la lunga capigliatura disciolta dall'onda. Il portoghese, valentissimo nuotatore, con due poderose bracciate era giunto in tempo per afferrare la veste. - Sir, aiutatemi! - ripetè con voce soffocata. Il capitano giungeva, dibattendosi disperatamente. Pareva che in quel supremo istante avesse recuperate d'un colpo tutte le sue forze. Mentre colla sinistra stringeva il salvagente, passò il braccio destro sotto il collo della giovane, alzandole la testa. - Miss ... aggrappatevi ... siamo qui ... col signor Yanez ... vi salveremo. Darma sentendosi afferrare e rialzare, aveva aperti gli occhi. Era pallida come un cencio lavato, e dai suoi sguardi traspariva un profondo terrore. Vedendo il salvagente che l'anglo-indiano le spingeva contro, vi si era aggrappata con suprema energia. - Voi ... Sir ... - balbettò. - Ed anch'io, Darma, - disse Yanez. - Non lasciare! Ecco l'onda che ci investe. - Una corda! - gridò il capitano. - Legate il salvagente. - La mia cintura, - rispose il portoghese. - A voi ... prendete! Badate ... l'onda ... L'anglo-indiano, con una rapidità meravigliosa aveva unito i due larghi anelli di sughero. Aveva fatto appena il nodo che un'onda gigantesca s'abbatteva addosso a loro. Istintivamente i due uomini avevano stretta fra di loro la giovane, sorreggendola con un braccio. Si sentirono travolgere, poi spingere in alto fra un turbine di spuma che li accecava, quindi precipitare in un baratro spaventevole che pareva non avesse più fondo. - Signor Yanez ... Sir Moreland! - gridò la giovane. - Dove scendiamo noi? - Coraggio, miss, - rispose il capitano. - La terra non è lontana e le onde ci spingono. Ecco che rimontiamo un'altra onda. - L'isolotto sta di fronte a noi, a meno di cinquecento metri, - disse Yanez. - sir Moreland, potrete resistere? - Lo spero, - rispose il capitano. - E la vostra ferita? - Non occupatevene ... è ben fasciata e quasi chiusa ... Ancora l'onda! Un altro cavallone li prese per di sotto, li sollevò fino quasi a toccare le nubi, poi tornò a precipitarli con vertiginosa rapidità. - Dio ... che colpi, - disse Darma. - Non abbandonate il salvagente, - disse il capitano. - La nostra salvezza sta in questi anelli di sughero. - Ed il Re del Mare si vede ancora? - Scomparso, trascinato via dall'uragano, - rispose Yanez. - Non temere, Sandokan e Tremal-Naik non ci abbandoneranno. Ecco lo scoglio! Non verremo frantumati fra le rocce? sir Moreland, non lasciatevi spingere. Il capitano non rispose. Guardava verso l'enorme scoglio, la cui vetta era coperta di nubi tempestose e sui cui fianchi strisciavano le folgori. D'improvviso mandò un grido di gioia. - La ... la ... calma ... l'olio! - esclamò. - Brahma ci protegge! Era impazzito l'anglo-indiano? No, sir Moreland aveva ben veduto. Le onde, dinanzi a loro, si spianavano, come per opera magica, dissolvendosi di colpo. Durante l'imbarco del carbone, Sandokan aveva fatto spargere intorno alla nave alcuni barili d'olio onde ottenere un po' di calma e permettere alle scialuppe cariche di abbordarlo. Quello strato oleoso, trascinato forse da qualche corrente, si era accumulato dinanzi al terribile scoglio, formando una zona brillante, lunga parecchi chilometri e larga alcune gomene. Si conoscono già le miracolose proprietà che hanno le materie grasse di calmare le onde. Non avendo il vento alcuna presa su di esse, e non essendo penetrabili nè all'aria, nè all'acqua, dove esse vengono sparse, i marosi si dissolvono e tutt'al più formano delle lunghe ondate senza frangersi, affatto innocue. Qualche barile, e anche meno, basta sovente a ottenere una specie di calma attorno alle navi, avendo l'olio la proprietà di espandersi a grandi distanze. Quello sparso dall'equipaggio del Re del Mare, in quelle quattordici o quindici ore, era stato tanto da far regnare una certa tranquillità fra le tre isole. - Sì, l'olio, - aveva risposto Yanez. - Un'altra onda e noi giungeremo nella zona tranquilla. Il nuovo cavallone sopraggiungeva mungendo e urlando. Era alto almeno quindici metri, tutto creste spumeggianti e lungo parecchie miglia. Afferrò i tre naufraghi, li scosse sulle sue cime, poi li scaraventò innanzi, ma appena toccata la zona oleosa perdette improvvisamente il suo impeto e scivolò sotto lo strato, trasformandosi come per incanto in un'ondata lunga, priva d'ogni violenza. - Siamo salvi! - gridò il portoghese. - sir Moreland, uno sforzo ancora e giungeremo sull'isolotto. L'anglo-indiano lo guardò senza aprire bocca. Era pallidissimo e un rauco respiro gli usciva dalle labbra contratte. Forse la ferita, appena rimarginata, si era riaperta in causa degli incessanti sforzi e della prolungata immersione e la sua energia si esauriva rapidamente. - Sir, - disse Darma, la quale se n'era accorta. - Voi state male. - È nulla ... la ferita ... - rispose il capitano con voce rotta. - Bah! Resisterò ... presso ... di voi ... miss ... La terra è ... lì ... Le onde che si seguivano, li spingevano dolcemente verso lo scoglio, la cui massa imponente giganteggiava a meno di una gomena. Se l'oceano era tranquillo o quasi in quel luogo, sui margini dello strato oleoso, infuriava sempre tremendamente. Onde mostruose si seguivano con scrosci orrendi, mentre sopra di loro il vento ruggiva tremendamente, gareggiando coi tuoni che rombavano fra le nubi. I naufraghi, ormai quasi al sicuro dai furori della burrasca, s'inoltravano sempre fra lo strato oleoso, aprendosi il passo fra enormi cumuli di alghe. Le onde le avevano strappate in gran numero, spingendole poscia verso la scogliera ed accumulandole intorno alle sue ripide spiagge. - Sbrighiamoci, sir Moreland, - disse Yanez, il quale nuotava con vigore, rimorchiando i due gavitelli. - Queste acque sature d'olio ridurranno le nostre vesti in pessime condizioni. Altro che i balenieri e i cacciatori di foche! - Sì, affrettiamoci, - rispose Darma. - sir Moreland è stremato. - Non lo nego, - rispose l'anglo-indiano, il quale si reggeva con immense fatiche. - Un altro meno robusto e meno energico di voi, a quest'ora sarebbe colato a picco, - disse Yanez. - Ah! Sento delle alghe sotto i miei piedi! Lasciamoci portare dall'onda. La fortuna li aveva spinti verso la spiaggia dove avevano cacciato gli uccelli marini. Pochi gruppi di erbe marine, di quelle chiamate dagli isolani beccalunga, si vedevano spuntare fra le fessure delle rupi; più sopra invece nulla, solamente la nuda roccia di colore nerastro, come se dei torrenti di pece fossero calati dalle altissime cime dello scoglio. Spinti da un'ultima ondata, i tre naufraghi furono deposti, quasi dolcemente, sul greto. Era tempo perchè sir Moreland stava per abbandonarsi. Yanez aiutò Darma a superare la spiaggia, poi l'anglo-indiano che era incapace di reggersi. - I salvagente! - balbettò sir Moreland. - Ah, sì! E vero, - rispose Yanez. - Sono troppo preziosi per perderli. Ridiscese la spiaggia e li tirò a secco, assicurandoli alla punta di una roccia. - Come vi sentite, sir Moreland? - chiese premurosamente Darma. - Un po' debole miss, ma tutto passerà. La ferita fortunatamente non è riaperta. - Cerchiamo qualche riparo, - disse Yanez. - Il Re del Mare, coll'uragano che ingrossa al largo, non potrà tornare molto presto - Che corra qualche pericolo, signor Yanez? - Non credo, Darma. Resisterà meravigliosamente anche a questa seconda prova. Fortunatamente ha completato a tempo le sue provviste di combustibile. - Sicchè saremo costretti a passare la notte qui, - disse Darma. - Nessuno verrà a disturbarci: non vi saranno delle pantere nere su questa roccia. Rifugiamoci sotto questa sporgenza e aspettiamo l'alba. Il portoghese prese una bracciata d'alghe e si diresse verso una rupe, la cui cima si sporgeva molto innanzi formando un riparo abbastanza sufficiente per tenere al coperto i tre naufraghi. Sir Moreland e Darma l'avevano seguìto, portando altre alghe per formarsi un giaciglio.

. - Abbiamo l'ordine di proibire lo sbarco a tutti fino all'alba. - Chi ha dato quest'ordine? - Il capitano Moreland, che si trova nel fortino in attesa che la sua nave si sia rifornita di carbone. - Aspetteremo l'alba presso di voi, - rispose Yanez. Poi, volgendosi verso il macchinista americano ed a Sambigliong che gli stava presso, disse a mezza-voce: - Non sapevo che vi fosse una nave in queste acque. Il capitano Moreland! Chi sarà costui? - Qualche inglese ai servigi del rajah di Sarawak, senza dubbio, - rispose l'americano. - Priveremo la nave del suo capo, - disse Sambigliong. - Lo faremo prigioniero assieme alla guarnigione del fortino. - Adagio, mio caro, - disse Yanez. - Vi possono essere in quel fortino più uomini di quello che crediamo e noi dobbiamo giuocare d'astuzia. D'altronde nulla sospetteranno, ora che abbiamo fermata la scialuppa che era incaricata di approvvigionarlo. - Una vera fortuna, signor Yanez, - disse l'americano. - Non dico il contrario ... Là, vedete se mi ero ingannato? È una scialuppa a vapore e non già un praho. Ragazzi, tenetevi pronti. - Accosta! - gridò in quel momento una voce rauca, - o vi scarico addosso un po' di mitraglia. - E assassinereste dei camerati, - rispose Yanez. - Vi avverto intanto che io sono un ufficiale del rajah e non un dayako. L'uomo che aveva formulata quella minaccia brontolò qualche parola che non giunse fino a Yanez. La scialuppa a vapore era ormai tanto vicina da distinguerla benissimo, essendo illuminata da un grosso fanale di marina appeso sulla cima del fumaiolo. Era una barcaccia lunga una decina di metri, larga di fianchi, fornita di ponte, con un piccolo pezzo di cannone collocato a prora. Alcuni uomini erano appoggiati alla murata di babordo, vestiti di bianco e sembravano indiani dai turbantini che portavano in testa. - Gettate una gomena, - disse Yanez, mentre i suoi malesi alzavano i remi e afferravano i parangs tenendoli nascosti sotto i banchi. Una fune fu gettata dalla barcaccia e venne subito afferrata da Sambigliong che era passato a prora. - Pronti, - sussurrò Yanez ai suoi uomini. - Quando udrete il mio comando, balzate sopra il bordo. Con poche bracciate la scialuppa si trovò addosso alla barcaccia. Yanez e l'americano in un momento passarono a bordo della seconda. - Chi è che comanda qui? - chiese il portoghese, con voce imperiosa. - Sono io, signore - rispose un indiano che portava sulle maniche i galloni di sergente, salutando. - Perdonate, signor tenente, di avere minacciato di mitragliarvi ma il capitano Moreland ha dato ordini severissimi e non posso permettervi d'approdare. - Dov'è il capitano? - Nel fortino. - E la sua nave? - Alla foce del Redjang, dinnanzi la bocca settentrionale. - I prigionieri sono sempre nel fortino? - Quell'indiano e quella fanciulla? - Sì, - disse Yanez. - Ieri vi erano ancora, ma credo che appena la nave del capitano avrà compiuta la sua provvista di carbone, li trasporterà a Sarawak. - Che cosa si teme? - Un colpo di mano da parte delle Tigri di Mompracem. Corre voce che si siano messi in mare contro l'Inghilterra e il rajah. - Baie, - disse Yanez. - Sono tutti fuggiti al settentrione di Borneo. Quanti uomini hai qui? - Otto, signor tenente. - Arrenditi! Prima che il sergente si fosse rimesso dallo stupore, il portoghese con una mossa fulminea l'aveva afferrato colla destra per la gola, mentre colla sinistra gli aveva puntato al petto una delle due pistole che teneva alla cintura. Vedendo quell'atto, i dodici tigrotti che formavano l'equipaggio della scialuppa, avevano scavalcata rapidamente la murata scagliandosi contro gli altri indiani coi parangs alzati. - Chi oppone resistenza è uomo morto! - tuonò Yanez. Il sergente, che doveva essere un uomo di fegato, con una brusca mossa cercò di sottrarsi alla stretta del portoghese e di estrarre la sciabola, mentre gridava ai suoi uomini: - Prendete le carabine! L'americano Horward che gli si era posto dietro, fu pronto ad afferrarlo a mezzo corpo ed a farlo ruzzolare sul ponte con uno sgambetto dato a tempo. Vedendo il loro sergente a cadere e che i pirati stavano per far uso dei parangs, l'equipaggio non osò muoversi. - Sambigliong, lega il sergente e voi altri disarmate tutti e calateli sotto il ponte bene assicurati. L'ordine fu subito eseguito senza che gli indiani opponessero resistenza. - Ora, - continuò il portoghese, sedendosi presso il sergente che era stato legato solidamente alla murata, - se ti preme salvare la pelle, discorriamo un po'. Sarebbe inutile che tu ti ostinassi a tacere, conoscendo noi il modo di far urlare anche i muti. Quanti uomini vi sono nel fortino di Macrae? - Cinquanta, compreso il capitano ed un tenente del rajah. - Chi è quel sir Moreland? - Si dice che prima fosse un tenente della marina anglo-indiana. - Che cosa è venuto a far qui? - Non lo so, signore; pare che siasi unito al rajah di Sarawak e che goda anche la protezione del governatore di Labuan. So che comanda una bella nave a vapore, formidabilmente armata. - È un inglese dunque? - Così si dice, - rispose il sergente, - quantunque sia di carnagione molto bruna. - Che bandiera batte la sua nave? - Quella del rajah di Sarawak. - Quale distanza corre da qui al fortino? - Appena un miglio. - Tu avrai salva la vita e dieci sterline di regalo. Signor Horward, voi rimarrete qui con due dei nostri e nel frattempo accenderete la macchina. Ne avremo bisogno fra alcune ore. Gli altri s'imbarchino con me. Poi, rivolgendosi nuovamente al sergente: - Si trova su un'altura il fortino, è vero? - Di fronte a noi, - rispose l'indiano. - È la sola altura che vi sia su questa costa. - Benissimo: voi rimarrete prigionieri fino al nostro ritorno e, se rimarrete tranquilli, vi lasceremo poi liberi. Signor Horward buona notte e buona guardia. - Buona fortuna, capitano Yanez, - rispose l'americano. Il portoghese ridiscese nella scialuppa con Sambigliong e nove uomini, lasciandone due all'americano e diede il segnale della partenza. L'imbarcazione si staccò dalla barcaccia e filò verso la spiaggia che si trovava a tre o quattrocento passi e contro cui rompevasi, con cupo fragore, la risacca, risalendo per un buon tratto la spiaggia. Gli undici uomini sbarcarono senza alcun inconveniente, tirarono in secco la scialuppa, poi deposero i parangs, armandosi invece delle carabine e caricandosi di ampie ceste che parevano piuttosto pesanti. - Siete pronti? - chiese Yanez. - Sì, capitano, - risposero tutti. - Lasciate parlare me solo e tenetevi pronti a tutto. - Saremo muti. - Avanti, miei prodi. Le tigri di Mompracem non temono i mammalucchi del rajah di Sarawak. Essendosi in quel frattempo diradato un po' il velo nebbioso che nascondeva le stelle, Yanez aveva subito scorta l'altura su cui trovavasi il fortino, essendo il paese circostante tutto piano. Il drappello si mise in marcia nel più profondo silenzio. Yanez rischiarava la via con una grossa lanterna, che aveva tolta dalla scialuppa e che dovevasi scorgere a una grande distanza fra l'oscurità della notte. Scoperto al di là delle dune una specie di sentiero che serpeggiava fra delle piantagioni d'indaco e che pareva si dirigesse verso l'altura, gli undici uomini vi s'inoltrarono camminando in fila indiana. Non avevano scelto male la direzione, perchè venti minuti dopo si trovavano alla base della minuscola collina, alta appena duecento metri, sulla cui cima scorgevasi confusamente una specie di torricella con intorno delle case e delle cinte. - Se non dormono o non sono ciechi devono aver scorta la mia lampada, - disse Yanez. - Mio caro signor Moreland, vedrai come ti giuocheranno le tigri di Mompracem! Poi Sandokan si occuperà della tua nave, giacchè ne hai una. Un sentieruzzo che s'innalzava a zig-zag conduceva al fortino. Yanez, dopo d'aver accordato ai suoi uomini un momento di riposo, essendo quelle ampie ceste assai pesanti, cominciò a salire, tenendo la sciabola sguainata. Il drappello era giunto già a metà costa, quando da uno spalto del fortino si udì una voce a gridare: - Chi va là? - Il tenente Farshon con cipai di Sarawak che portano viveri pel fortino e ordini pel capitano Moreland. - Attendete. Si udirono delle voci, poi si videro parecchi lumi brillare sulle palizzate e finalmente tre uomini che parevano dayaki, quantunque indossassero il costume indiano e armati di carabine, mossero incontro al drappello. Uno di essi portava una torcia. - Da dove venite, signor tenente? - chiese uno dei tre. - Da Kohong, - rispose Yanez. - È ancora sveglio il capitano Moreland? - Ha finito or ora di cenare assieme ai prigionieri. - Si mangia molto tardi a Macrae. - Il capitano è tornato dopo il tramonto, questa sera. - Conducetemi subito da lui; ho delle gravi notizie da comunicargli. - Seguitemi, signor tenente. Yanez gli si mise dietro, mormorando fra i denti: - Ecco una cosa che non avevo prevista. Se Tremal-Naik o Darma, vedendomi comparire improvvisamente, mandassero un grido di sorpresa? Mio caro Yanez sta' in guardia. La carta che stai giuocando è terribile. Il drappello varcò un ponte levatoio, attraversò due cinte e un vasto cortile e giunse dinanzi ad un fabbricato piuttosto vasto, costruito in muratura e sormontato da una torricella. Dalle finestre del pianterreno uscivano due sprazzi di luce, essendo le imposte ancora aperte. - Venite, tenente: il capitano è là, - disse uno dei tre dayaki. - Devo dare ricovero ai vostri uomini? - No, per ora: lasciateli qui nel cortile. Ringuainò la sciabola, si assicurò le pistole dentro la fascia, scambiò con Sambigliong un rapido cenno e affettando una grande calma entrò in una saletta illuminata da una lanterna cinese, di carta oliata, dove dinanzi ad una tavola riccamente imbandita si trovavano tre persone: un capitano di marina, Tremal- Naik e Darma.

. - Non credevo però che spingesse le cose tanto oltre verso di noi, che abbiamo reso all'Inghilterra un così grande servigio sbarazzando l'India dalla setta dei thugs. Invece quattro giorni or sono un messo inglese mi recò l'ordine di sgombrare l'isola entro quarantott'ore, sotto la minaccia di cacciarmivi colla forza. Scrissi allora al governatore che l'isola da vent'anni era stata occupata da me e che per diritto mi apparteneva e che la Tigre della Malesia era tale uomo da difenderla a lungo; quand'ecco che ieri sera, senza alcuna dichiarazione di guerra, mi vedo piombare addosso la squadra che tu hai trattata così bene, mentre un'altra, composta di piccoli velieri, sbarcava sulle rive occidentali quattro compagnie di cipai con quattro batterie di artiglieria. - Canaglie! - esclamò Yanez, indignato. - Ci hanno considerati come fossimo ancora dei pirati! - Peggio, come degli antropofagi, - disse Sandokan, con voce fremente. - A mezzanotte i villaggi sorpresi erano in fiamme ed i loro abitanti massacrati con inaudita ferocia, mentre la squadra apriva un fuoco terribile contro le nostre trincee della piccola baia, distruggendomi buona parte dei prahos. Quantunque preso fra due fuochi, fra i pezzi delle navi e le batterie dei cipai, ho resistito disperatamente fino all'alba, respingendo più di quattordici attacchi; poi, quando vidi che ogni resistenza era inutile, mi sono imbarcato cogli avanzi delle mie bande ed a colpi di cannone mi sono aperto il passo fra gli incrociatori e le cannoniere, riuscendo a fuggire in tempo. - Ed ora che cosa intendi fare? La Tigre della Malesia alzò la destra agitandola come se impugnasse qualche arma e si preparasse a vibrare un colpo mortale, poi, contraendo le labbra come la belva di cui portava il nome, disse con uno scoppio d'ira spaventevole: - Che cosa penso di fare? Come vent'anni or sono ho fatto tremare Labuan, tornerò a spargere il terrore su tutte le sue coste. Dichiaro la guerra all'Inghilterra ed a Sarawak insieme. - Od al figlio di Suyodhana? Sandokan aveva fatto un soprassalto. - Che cosa hai detto, Yanez? - gridò, guardandolo con profonda sorpresa. - Che l'uomo che ha sollevati i dayaki del Kabatuan, che ha fatto muovere il governatore di Labuan e quello di Sarawak per cacciarci da Mompracem è il figlio della Tigre dell'India che tu hai uccisa a Delhi. Sandokan era rimasto muto: pareva che quella inaspettata rivelazione lo avesse fulminato. - Aveva un figlio, il capo degli strangolatori indiani! - esclamò finalmente. - E molto abile e molto risoluto e deciso a vendicare la morte di suo padre, - aggiunse Yanez. - Noi abbiamo perduta già la nostra isola, tutte le fattorie di Tremal-Naik sono state distrutte e quel caro amico e Darma si trovano in sua mano. - Te li hanno rapiti! - gridò Sandokan. - Dopo un combattimento terribile che sarebbe terminato colla morte di tutti, senza l'arrivo provvidenziale di questa nave. Sandokan si era messo a girare pel salotto cogli scatti d'una belva rinchiusa in una gabbia, la fronte burrascosamente aggrottata e le mani raggrinzite sul petto. - Narrami tutto, - disse ad un tratto, fermandosi dinanzi al portoghese e vuotando d'un fiato solo una tazza di whisky. Yanez, più brevemente che potè, raccontò le diverse avventure toccategli dopo la partenza da Mompracem e che già noi conosciamo. Sandokan le aveva ascoltate in silenzio, senza interromperlo. - Ah! Questa nave è nostra? - disse quando Yanez ebbe finito. - Sta bene: faremo guerra all'Inghilterra, a Sarawak, al figlio di Suyodhana, a tutti! - E dei nostri prahos che cosa ne farai? Non potrebbero seguire questa nave che fila come un pesce veliero. Vorresti affondarli? - Li manderemo nella baia d'Ambong. Colà abbiamo degli amici e terranno in consegna i nostri velieri fino al nostro ritorno, mantenendo un equipaggio solo sulla Marianna. - Che ci seguirà? - Potremmo averne bisogno più tardi. Lasciarono il quadro e salirono in coperta, dove Kammamuri, il prode maharatto, e Sambigliong li attendevano. La nave filava a piccolo vapore verso oriente, seguìta a breve distanza dalla Marianna di Sandokan e dai prahos, i quali avevano il vento in favore. In lontananza si profilavano debolmente le alture di Labuan, indorate dagli ultimi raggi del sole, prossimo ormai al tramonto. Alle nove di sera l'incrociatore s'arrestava a mezzo miglio dalla spiaggia, di fronte al luogo ove aveva sbarcato i due marinai potendo darsi che il segnale venisse fatto quella notte istessa. Nessuno aveva acceso i fanali, nemmeno la poderosa nave onde non attirare l'attenzione delle cannoniere inglesi a guardia dell'isola. Erano trascorse quattro ore, quando un razzo verde, s'alzò sulla cima d'una scogliera. Yanez, Sandokan, l'americano e la giovane indiana che stavano chiacchierando sulla plancia di comando, seduti su delle poltrone a dondolo, si erano bruscamente alzati. - Il segnale dei miei uomini! - aveva esclamato lo yankee. - Sapevo che erano due furbi quelli e che non avrebbero perduto il loro tempo nelle taverne di Victoria. Ad un suo comando un marinaio lanciò un razzo rosso a cui i due americani risposero subito con un altro d'eguale colore. Poco dopo una sottile linea oscura si staccava dalla scogliera, lasciandosi dietro una scia fosforescente. Il mare, saturo di nottiluche, luccicava sotto i colpi dei remi come se dei getti di zolfo fuso scorressero sotto la scialuppa. Yanez aveva fatto abbassare la scala. Dieci minuti dopo l'imbarcazione abbordava la grossa nave e i due americani salivano frettolosamente. - Dunque? - chiesero ad una voce Yanez ed il comandante, con ansietà. - Siamo riusciti al di là delle nostre speranze, signori, - rispose uno dei due. - Sbrigati a spiegarti, Tom, - disse lo yankee. - Sai dove sono state condotte quelle persone? - Sì, capitano. L'ho saputo da un nostro compatriotta che montava quella scialuppa a vapore di cui vi ha parlato il signore, - disse, accennando a Yanez. - Si è fermata a Labuan quella scialuppa? - chiese il portoghese. - Solo pochi minuti per rinnovare la provvista di carbone e per sbarcare quel nostro compatriotta a cui una palla aveva spezzato un braccio, - rispose il marinaio. - Mi disse quell'uomo che a bordo vi era un indiano, una fanciulla e cinque malesi. - E dove li hanno condotti? - A Redjang, nel fortino di Sambulu. - Nel sultanato di Sarawak! - esclamò Sandokan. - Allora è stato quel rajah che li ha fatti rapire? - No, signore. Il nostro compatriotta ci ha detto che è stato un uomo che si fa chiamare il Re del Mare ma che pare abbia l'appoggio, più o meno velato, del governatore di Labuan e del rajah. - Non sa chi è costui? - chiese Yanez. - Lui stesso lo ignora, non avendolo mai veduto. Ma tuttavia ha assicurato che quell'uomo è potente e che è amico del rajah - disse il marinaio. Si volse verso il comandante americano: - Volete sbarcare qui? - gli chiese. - Preferirei piuttosto qui che su di un'altra costa. - Non avrete dei fastidi da parte degli inglesi, dopo quello che avete fatto? - Nessuno mi conosce, signore, e poi sono suddito americano e gli inglesi non oseranno molestarmi. D'altronde inventerò una storiella qualunque per spiegare la mia presenza sulle coste di Labuan: un naufragio per esempio avvenuto molto al largo, la presa della mia nave da parte dei pirati bornesi o qualcos'altro. Non inquietatevi per me. - V'incarichereste di affidare una lettera all'ufficio postale di Victoria pel governatore di Labuan? - Figuratevi se vi negherei un tal favore, signore. - Vi avverto che si tratta d'una dichiarazione di guerra. - Me l'ero immaginato, - rispose l'americano. - Mi guarderò dall'avvertire il governatore di averla impostata io. - Yanez, - disse Sandokan, volgendosi all'amico, - preleva dalla mia cassa, che si trova nella mia cabina della Marianna, mille sterline che regalerai all'equipaggio americano e fa' preparare le scialuppe onde sbarchi. Scendo un momento nel quadro a scrivere la lettera pel governatore. Quando tornò sul ponte, l'equipaggio americano che doveva lasciare la nave, escluso il personale di macchina ed i due quartiermastri cannonieri che avevano già firmato l'arruolamento, lo salutò con un formidabile: - Hurrà alla Tigre della Malesia! Hurrà! Hipp! Hipp! Hipp! Sandokan reclamò con un gesto un breve silenzio, poi fatti salire a bordo della nave i comandanti dei prahos e la maggior parte dei suoi Tigrotti, lesse ad alta voce: Noi Sandokan, soprannominato Tigre della Malesia, ex principe di Kini-Ballon e Yanez de Gemerà legittimi proprietarii dell'isola di Mompracem, notifichiamo al signor governatore di Labuan che da oggi dichiariamo la guerra all'Inghilterra, al rajah di Sarawak ed all'uomo che è da loro protetto. Da bordo del Re del Mare: 24 maggio 1868. SANDOKAN E YANEZ DE GOMERA Un urlo terribile, selvaggio, si scatenò come un uragano dai petti delle terribili tigri di Mompracem. - Viva la guerra! Morte ed esterminio alle giacche rosse! - Signore, - disse il comandante americano, tendendo a Sandokan la destra, - vi auguro di dare a quel prepotente di John Bull una dura lezione. Della potenza della nave che v'ho venduto, ne rispondo pienamente e nessun'altra che si trovi in questi mari potrà tenervi testa. Prima però di lasciarvi vi voglio fare una domanda e darvi un consiglio. - Parlate, - disse Sandokan. - La nave non possiede che cinquecento tonnellate di carbone, provvista che, anche economizzata, non potrà durarvi più d'un mese. Servitevi più che potete delle vele, perchè dopo la vostra dichiarazione di guerra, avrete chiusi i porti olandesi e del sultanato di Bruni che si manterranno indubbiamente neutrali e che si rifiuteranno di provvedervi. - Avevo già pensato a questo, - rispose Sandokan. - Mandate, quindi, prima che la guerra scoppi, la vostra Marianna a caricare carbone a Bruni e datele un appuntamento in qualche punto della baia di Sarawak onde la vostra nave non rimanga senza combustibile in sul più bello della guerra. Il carbone per voi non sarà meno prezioso della polvere, ricordatevelo. - In caso disperato andrò a saccheggiare i depositi che gli inglesi hanno su certe isole pel rifornimento delle loro squadre, - rispose Sandokan. - Ed ora, signori, buona fortuna, - disse l'americano, stringendo energicamente le mani ai due antichi pirati di Mompracem. Mise la lettera nel portafoglio e scese la scala. Il suo equipaggio aveva già preso posto nelle imbarcazioni che erano guidate da numerosi pirati. La squadriglia prese subito il largo, dopo un altro fragoroso urrah. Mezz'ora dopo, le imbarcazioni, sbarcato l'equipaggio americano sulla spiaggia di Labuan, fecero ritorno. La Marianna ed i prahos avevano sciolte le vele, pronti a salpare pel nord e raggiungere il porto amico di Ambong, con equipaggi ridotti, essendo la maggior parte dei loro marinai passati sull'incrociatore. - Ed ora, - disse Sandokan, quando ebbe dato gli ultimi ordini ai comandanti dei legni e che questi si misero in marcia, - andiamo a liberare Tremal-Naik ed abbattere la potenza del rajah di Sarawak, suoi alleati e protetti. Un momento dopo, il Re del Mare, come era stata battezzata la poderosa nave americana, si slanciava a tutto vapore verso il sud, per raggiungere la baia di Sarawak.

Quando si apprenderà quali danni noi abbiamo recato alle loro linee di navigazione, gli inglesi non esiteranno a lanciare su questi mari il meglio della loro squadra indiana. - E allora? - chiese Tremal-Naik. - Faremo quello che potremo, - rispose Sandokan. - Se il carbone non ci mancherà la faremo correre e molto. - È sempre il carbone il nostro punto nero. - Di' il nostro lato debole, Tremal-Naik, perchè a noi tutti i porti sono chiusi. Fortunatamente la marina inglese è la più numerosa del mondo e piroscafi ne troveremo sempre, dovessimo andarli a cercare perfino nei mari della Cina. Ah! Cala la nebbia! È una fortuna per noi, che stiamo per passare dinanzi alle coste del sultanato. - Quanto distiamo dal Sedang? - Forse duecento miglia. Queste sono le acque più pericolose. Se questa notte non facciamo alcun incontro, domani troveremo la Marianna. Apriamo gli occhi, Tremal-Naik ed aumentiamo la nostra velocità. Tanto peggio a chi tocca se taglieremo qualche legno. Pareva che la fortuna proteggesse le ultime tigri di Mompracem, perchè poco dopo il tramonto del sole una folta nebbia era cominciata a scendere sul golfo, in dense ondate. Il Re del Mare aveva quindi maggiori possibilità di sfuggire alla caccia delle navi alleate, ammesso che si fossero realmente messe in moto per sorprenderlo. Nondimeno Sandokan e Yanez avevano dati gli ordini per tenersi tutti pronti. Qualche nemico poteva comparire, impegnare subito la lotta e colle sue cannonate attirare l'attenzione della squadra. L'incrociatore, che aveva aumentata la sua velocità portandola a tredici miglia, muoveva rapido attraverso il nebbione che sempre più si addensava. Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere americano erano tutti sul cassero, presso i timonieri, cercando, ma invano, di distinguere qualche cosa attraverso le ondate caliginose che il vento, di quando in quando, scompaginava. Gli artiglieri erano dietro i loro mostruosi pezzi o accanto alle piccole artiglierie; i malesi ed i dayaki dietro le murate. Tutti tacevano ed ascoltavano attentamente. Non si udivano che i rauchi muggiti del vapore ed il gorgoglìo prodotto dalle eliche e dallo sperone fendente le acque. La seconda foce del Sarawak doveva essere stata oltrepassata di una cinquantina di miglia, quando tutto d'un tratto si udì a echeggiare una sirena. - Una nave esplora il mare e segnala la sua presenza ad altre, - disse Yanez a Sandokan. - Sarà mercantile o da guerra? - Suppongo che sia qualche avviso del rajah, - rispose la Tigre della Malesia. - Ci aspettavano? - Fa' puntare verso levante. - Vorrei però prima conoscere con quale avversario abbiamo da fare. - Con questa nebbia non sarà cosa facile, Sandokan, - disse Tremal-Naik. - Quando potremo giungere alla foce del Sedang? - Fra cinque o sei ore. Vedi nulla, Yanez? - Null'altro che nebbia, - rispose il portoghese. - Non devieremo: tanto peggio per chi si caccerà sotto il nostro sperone. Poi, accostandosi al tubo che comunicava colla sala della macchina, gridò con voce poderosa: - Signor Horward! Avanti a tutto vapore, a tiraggio forzato! Il Re del Mare continuava la sua corsa, aumentandola rapidamente. Da tredici nodi era salita a quattordici all'ora, e non bastava ancora. L'ingegnere americano aveva comandato il tiraggio forzato per raggiungere possibilmente i quindici. Era ben vero che il carbone se ne andava rapidamente, però ne avevano in quantità sufficiente per tenere il mare alcune settimane senza bisogno di provvedersi. Erano già trascorse due ore, quando tutto d'un tratto la nebbia s'illuminò come se un gran fascio di luce l'attraversasse. Luce lunare non doveva essere, perchè assai più intensa e brillante e poi non ne aveva l'immobilità. Veniva dall'est e scorreva dal sud al nord, facendo scintillare vivamente le acque. - Un fanale elettrico! - esclamò Yanez, trasalendo. - Ci si cerca. - Sì, ci cercano, - disse Tremal-Naik. - Che siano in molti? Sandokan non aveva aperto bocca; la sua fronte però si era bruscamente aggrottata. Trascorsero alcuni minuti ancora. - Macchina indietro! - tuonò ad un tratto la Tigre della Malesia. Il Re del Mare trasportato dal proprio slancio, s'avanzò per due o trecento metri, poi s'arrestò lasciandosi cullare dall'onda larga del golfo. Una nave e forse non sola, si trovava dinanzi all'incrociatore ed esplorava il mare, proiettando dovunque fasci di luce. - Che la squadra di Sarawak si sia accorta della nostra presenza? - chiese Tremal-Naik. - Dobbiamo essere stati segnalati da qualche veliero, forse da qualche praho che è sfuggito alla nostra sorveglianza, - disse Sandokan. - Che cosa farai, Sandokan? - Aspetteremo, per ora, poi passeremo, dovessi fracassare dieci navi a colpi di sperone. Il Re del Mare ha la prora a prova di scoglio e le macchine d'una solidità tale che non si sconquasseranno per l'urto. Il fascio di luce continuava a scorrere lentamente dal nord al sud, tentando di forare la nebbia, fortunatamente sempre foltissima. D'improvviso, un secondo ne apparve dal lato opposto, ossia verso la poppa dell'incrociatore, poi altri due al nord e uno al sud. Una sorda imprecazione sfuggì dalle labbra del portoghese, il quale stava a guardia dei timonieri. - Ci hanno ben circondati! Alla malora quegli squali! Fra poco qui farà caldo! La Tigre della Malesia aveva seguìto attentamente la direzione di quei diversi fasci di luce. La sua nave che occupava il centro, non poteva essere stata ancora scorta, però non poteva slanciarsi innanzi nè retrocedere senza farsi scoprire. Con un gesto chiamò Yanez e l'ingegnere americano. - Si tratta di forzare il passo, - disse. - Dinanzi, presumibilmente, non abbiamo che una sola nave. Il nostro carico è stato ben stivato? - Assaliremo collo sperone? - chiese l'americano. - Ne ho l'intenzione, signor Horward. Fate raddoppiare il personale delle macchine. - Bene, comandante, - rispose lo yankee. - I miei compatriotti non agirebbero diversamente in simile frangente. - Sono tutti ai pezzi gli artiglieri? - Sì, - rispose Yanez. - Avanti a tutto vapore! Passeremo a qualunque costo. I fasci di luce elettrica continuavano ad incrociarsi in tutti i sensi e a poco a poco diventavano più luminosi. Probabilmente i comandanti di quelle navi dovevano aver scorta l'ombra immensa del Re del Mare e si preparavano ad assalire, dirigendosi verso uno stesso punto. Il momento stava per diventare terribile; tuttavia malesi, dayaki ed americani conservavano anche in quel supremo momento, una calma ammirabile. - Tutti nelle batterie! - gridò Sandokan, entrando nella torretta di comando con Yanez e con Tremal-Naik. Il Re del Mare balzò avanti. La sua velocità aumentava di momento in momento ed il fumo usciva turbinando dalle due ciminiere abbattendosi sui ponti in causa della nebbia. Un fremito sonoro lo scuoteva tutto, mentre gli alberi delle eliche raddoppiavano i giri ed il vapore muggiva nelle caldaie. L'incrociatore attraversò come un gigantesco proiettile la zona luminosa, ma appena rientrato nella nebbia oscura, altri fasci di luce lo raggiunsero, diventando rapidamente più luminosi. Le navi nemiche si erano messe in caccia e cercavano di rinchiuderlo in un cerchio di ferro e fuoco. Sandokan non si sgomentava e lasciava che la sua nave corresse sempre verso l'est. Alcune cannonate rimbombarono al largo e si udì in aria il rauco sibilo dei proiettili. - Pronti pel fuoco di bordata! ... - gridò Yanez. - Per Giove! ... E le fanciulle? - Sono al sicuro nel quadro, - rispose Tremal-Naik. - Manda qualcuno ad avvertirle che non si spaventino se succede un urto, - disse Sandokan. Delle ombre gigantesche si muovevano fra la nebbia che i riflettori elettrici rendevano sempre più luminosa. La squadra nemica stava per piombare sull'incrociatore delle tigri di Mompracem per tentare di sbarrargli il passo. Ad un certo momento una massa nera comparve bruscamente dinanzi la prora, sulla dritta del Re del Mare, a meno di quattro gomene di distanza. Era impossibile arrestare lo slancio dell'incrociatore. - Speronate! - gridò Sandokan con voce tuonante. Il Re del Mare si precipitava sul legno nemico come un ariete. Un rombo assordante, spaventevole, seguìto da urla d'angoscia echeggiò fra la nebbia perdendosi lontan lontano sul mare. Lo sperone dell'incrociatore era entrato tutto dentro la nave avversaria, producendole uno squarcio immenso ... Il Re del Mare s'arrestò un momento inclinandosi a prora, mentre degli scoppi accadevano sulla nave investita e colpita a morte da quella terribile speronata. Le caldaie scoppiavano. - Macchina indietro! - gridò l'ingegnere americano. Si udirono a prora dei sordi scricchiolii, poi il Re del Mare con una brusca scossa liberò il suo sperone indietreggiando e virando a babordo. La nave sventrata calava a fondo a vista d'occhio, fra i clamori assordanti del suo equipaggio. Il Re del Mare aveva ripresa la corsa, passando a poppa della nave sommergentesi, gettandosi nuovamente tra mezzo alla nebbia. Altre ombre pure apparivano a babordo e a tribordo. Le navi della squadra, approfittando di quel momento di sosta, avevano raggiunto il Re del Mare e gli proiettavano sul ponte fasci di luce. - Fuoco accelerato! - comandò Yanez. L'incrociatore s'infiamma come un vulcano in eruzione, con un rimbombo orrendo. I giganteschi pezzi delle torri hanno fatto fuoco quasi simultaneamente, facendo tremare la nave dalla chiglia alla punta degli alberi, scagliando sulle navi nemiche i loro grossi proiettili, poi i pezzi di medio calibro delle batterie hanno seguìto l'esempio, tempestando i nemici. Gli inseguitori non parvero spaventarsi, quantunque quella tremenda scarica delle più grosse artiglierie moderne dovesse aver prodotto danni gravi e forse, per qualche piccolo e maldifeso legno, irrimediabili. Da tutte le parti i lampi spesseggiano. I proiettili delle granate che si spaccano sulla solida blindatura della nave corsara, scoppiano sui ponti lanciando dovunque schegge di metallo. Colpiscono il tribordo ed il babordo, piombano a poppa ed a prora, scivolando sui ponti e rimbalzano sulle cime delle torri. Il Re del Mare nondimeno non s'arresta, anzi risponde con una furia spaventevole, mandando palle a destra, a sinistra e dietro la poppa. Una piccola nave, che fila con una velocità vertiginosa, emerge bruscamente fra la nebbia e con una pazza temerità corre addosso all'incrociatore. È una grossa scialuppa a vapore che porta a prora una lunga asta, l'antica torpediniera Horward. L'ingegnere americano, che conosce quell'arme micidiale, manda un grido: - Badate, cercano di torpedinarci! Sandokan e Yanez erano balzati fuori della torretta di comando. La scialuppa, che era illuminata dalle lampade elettriche delle altri navi, muoveva veloce verso il Re del Mare, cercando di raggiungerlo. Un uomo, il comandante, stava a prora, dietro l'asta. - sir Moreland! - gridarono ad una voce. Era infatti l'anglo-indiano che cercava, con una pazza temerità, di torpedinare l'incrociatore. - Arrestate quella scialuppa! - aveva gridato Sandokan. - No, nessuno faccia fuoco! - urlò invece Yanez. - Che cosa fai, fratello? - chiese la Tigre della Malesia, stupita. - Non uccidiamolo: Darma piangerebbe troppo. Lascia fare a me. A tribordo vi erano parecchi pezzi di medio calibro. Yanez s'appressò al più vicino che era stato già puntato sulla scialuppa, corresse rapidamente la mira, poi diede uno strappo al cordone tirafuoco. La scialuppa non si trovava allora che a trecento metri, non riuscendo a guadagnare via sull'incrociatore. Il proiettile la colpì con matematica precisione a poppa, asportandole ad un tempo il timone e l'elica e fermandola, per modo di dire, in piena volata. - Buon viaggio, sir Moreland! - gli gridò il valente artigliere, con voce ironica. L'anglo-indiano aveva fatto un gesto di minaccia, poi il vento portò fino agli orecchi delle tigri di Mompracem queste parole: - Fra poco incontrerete il figlio di Suyodhana! ... V'aspetta nel golfo! ... L'incrociatore aveva allora oltrepassata la zona luminosa e si rituffava nella nebbia. Scaricò un'ultima volta i suoi pezzi da caccia in direzione delle navi nemiche, che non potevano gareggiare colle sue macchine e sparve verso l'est, mentre i malesi ed i dayaki urlavano a squarciagola: - Viva la Tigre della Malesia! ...

. - Ne abbiamo ancora abbastanza da farli correre e poi, ci riforniremo più tardi a spese dei piroscafi mercantili. Il Re del Mare continuava intanto la sua corsa rapidissima a tiraggio forzato. La squadra degli alleati, che aveva tentato di circondarlo presso la scogliera, era ormai quasi fuori di vista, mentre i quattro incrociatori, pur perdendo via, continuavano vigorosamente la caccia. Dovevano possedere nondimeno anche essi delle macchine poderose, poichè, quando l'alba sorse, il Re del Mare non era riuscito a guadagnare che un miglio e divorando immense quantità di carbone. Avendo però quattro miglia di vantaggio fino da prima, si teneva benissimo fuori di portata dalle artiglierie che in quell'epoca non potevano tirare a simile distanza. A mezzodì la caccia non era cessata, ma un altro miglio era stato raggiunto. Yanez, che non aveva lasciato un solo istante la coperta, stava per scendere nella sala da pranzo, quando fu avvicinato da Darma. La fanciulla appariva imbarazzata e molto triste. - Signor Yanez, - disse fermandolo. - L'avete veduto? ... - Chi? - chiese il portoghese, quantunque avesse compreso che cosa desiderava sapere. - sir Moreland. - No Darma. Non l'ho scorto su nessun ponte di comando della squadra degli alleati. La fanciulla era diventata pallida. - Che sia morto? - chiese poi. - Lui? ... E perchè? ... Non si è misurato con noi e quando io gli ho danneggiata la sua scialuppa a vapore era vivo quanto me. - Che sia su una di quelle quattro navi? - Non l'ho veduto nemmeno su quelle, Darma. Ho osservato attentamente i ponti col cannocchiale, senza scorgerlo. - Eppure il mio cuore mi dice che egli deve essere su uno di quegli incrociatori. Yanez sorrise senza rispondere e offertole il braccio la condusse nella sala da pranzo. Alla sera i quattro incrociatori erano ancora in vista, ad una distanza di dodici miglia. I loro camini vomitavano torrenti di fumo, tuttavia perdevano continuamente strada. A mezzanotte, il Re del Mare, che non aveva accesi i suoi fanali, virava bruscamente di bordo dirigendosi verso ponente, in direzione del capo Tanjong- Datu per gettarsi nel mare della Sonda. Il bisogno di rifornirsi di carbone s'imponeva e, privi come erano di porti amici, senza più l'aiuto della Marianna, non avevano altra speranza che di prenderne alle navi inglesi, le quali non dovevano certamente avere interrotto i loro viaggi. Sandokan, dopo essersi assicurato che gli incrociatori non erano più visibili, aveva ordinato di ridurre la velocità dell'incrociatore onde economizzare il combustibile, non sapendo quando avrebbe potuto rinnovare le sue provviste di già nuovamente molto scarse. Avvistato due giorni dopo il capo Tanjong-Datu, il Re del Mare aveva proseguita la corsa verso il nord-ovest, sperando di sorprendere in quella direzione qualche nave proveniente da Singapore o dai porti di Giava o di Sumatra, tuttavia nei primi giorni che si seguirono nessun fumo fu segnalato all'orizzonte. Certo, la voce che un corsaro batteva quei paraggi si era sparsa su tutte le isola della Sonda ed i piroscafi inglesi non avevano osato abbandonare i loro ancoraggi ed attendevano che la squadra di Labuan lo catturasse o lo affondasse. Sandokan e Yanez, quantunque molto preoccupati, dipendendo dall'abbondanza del carbone la loro salvezza, non erano però uomini da disperarsi. Potevano ancora percorrere, a velocità ridotta, tre o quattrocento miglia e spingersi quindi fino nei mari della Cina meridionale e, se lo avessero desiderato, tentare ancora qualche buon colpo. Non avevano però, almeno pel momento, alcun desiderio di allontanarsi troppo dalle coste del Borneo. Forse anche la flotta inglese dell'estremo Oriente doveva già essersi messa in moto per catturarli e non desideravano affrontarla con una così scarsa dotazione di carbone. - Aspettiamo, - aveva detto Sandokan a Tremal-Naik che lo interrogava sui suoi progetti. - Non ci conviene pel momento lasciare questi paraggi ed oltrepassare le isole Natuna e Bunguran. So bene che lassù le navi da predare non mi mancherebbero, se lo volessi; però anche qui il lavoro non ci mancherà. - Che cosa aspetti qui? Si direbbe che tu attenda qualche cosa? - Infatti, aspetto, - rispose Sandokan con un sorriso misterioso. - Desidero raccogliere, ad un tempo i due piccioni ed anche la fava. - Sono già quattro giorni che abbiamo lasciato le acque di Sarawak. - Il tempo per noi non ha valore. Aspettiamo dunque. - E quegli incrociatori che continuano l'inseguimento? - Certo, - rispose Sandokan, - ma dietro a chi? Io sono ormai convinto di averli ingannati e dubito molto di ritrovarli per ora sulla mia via. Per quarantott'ore il Re del Mare continuò a navigare verso il nord-ovest, spingendosi assai lontano dalle coste bornesi, poi, avendo nuovamente avvistate le isole Natuna e Bunguran, ripiegò verso levante, desiderando i due comandanti fare una punta a Bruni, la capitale del sultanato del Borneo, sapendo che era di quando in quando frequentato da piroscafi inglesi. Non dovevano ingannarsi. Avevano lasciate le isole da una quindicina di ore, quando una grossa nave si profilò sull'orizzonte limpidissimo. Era uno steamer a due ciminiere e tambure, che filava in direzione di Bruni, forse per far scalo colà prima di risalire verso i mari della Cina. La bandiera rossa che si vedeva ondeggiare a poppa, aveva confermato le speranze di Yanez e di Sandokan, i quali pareva che fiutassero da lontano le navi avversarie. Lo steamer, accortosi della presenza dell'incrociatore e anche dei suoi colori, dapprima aveva continuata la sua corsa verso il nordest, poi aveva bruscamente virato di bordo lanciandosi verso levante, onde cercare un rifugio in qualche baia del Borneo. Il suo comandante, prima della sua partenza dai porti dell'India, doveva aver ricevuto avviso della presenza d'un corsaro malese nelle acque dei mari della Sonda e si era subito dato alla fuga, non potendo impegnare la lotta. Il Re del Mare però, quantunque lo steamer corresse velocissimo e vomitasse torrenti di fumo dalle sue due ciminiere, segno certo che forzava le sue macchine, con un'abilissima manovra lo raggiunse, sparando dapprima una cannonata a polvere, poi a palla, per fargli meglio comprendere che era risoluto ad affrontarlo. Vedendo che non obbediva, e che anzi aumentava la velocità, con una seconda cannonata tirata da uno dei suoi pezzi da caccia gli sconquassò il cassero. Un momento dopo la bandiera bianca s'alzava sulle cime del trinchetto, mentre la velocità scemava. - Ha del fegato quel comandante, - disse Yanez, mentre si mettevano in acqua le scialuppe. - Disgraziatamente non possiamo essere generosi e quel superbo piroscafo andrà a raggiungere gli altri in fondo al mare della Malesia. Discese nella lancia a vapore e si diresse verso lo steamer seguìto da cinque scialuppe montate da settanta uomini, fra malesi e dayaki. Il piroscafo si era arrestato a dieci gomene dal Re del Mare. Era una magnifica nave, montata da numerosi passeggeri, i quali, muti, atterriti, aspettavano ansiosamente l'abbordaggio dei corsari. Il comandante, attorniato dai suoi ufficiali, non aveva abbandonato il ponte. Yanez fu il primo a salire a bordo. Attraversò la folla e si fece sotto il ponte di comando, dicendo al capitano dello steamer, che non si era mosso per incontrarlo: - Non siete troppo cortese, signore, verso un uomo che avrebbe potuto cannoneggiarvi. - Fatelo, se così vi piace, - rispose freddamente il comandante. - Io non mi oppongo. Pensate però che a bordo della mia nave vi sono cinquecento e più donne, molti fanciulli e molti uomini che non sono inglesi. - Avete scialuppe sufficienti per contenerli tutti, compreso l'equipaggio? - Sì. - La costa bornese non è lontana e il mare per ora non ha alcuna intenzione di guastarsi. Fate imbarcare tutti e andatevene, perchè il piroscafo non appartiene ora che a me. - I miei marinai ed i passeggeri sono liberi di abbandonare la nave, io resterò qui, qualunque cosa debba accadere, - disse l'inglese. - Io non cedo ai pirati di Mompracem. - Ah! ... Sapete chi noi siamo? Bravissimo: vi affonderò colla vostra nave. - Voi l'affonderete? ... - Ci appartiene per diritto di guerra e, non avendo alcun interesse per conservarla, la offriremo ai pesci. Vi accordo due ore e aspetto coll'orologio alla mano. - Vi ripeto che io non lascerò la nave, - rispose l'inglese con ostinazione. - Desidero affondare insieme ad essa. - Se non vi strapperemo colla forza dal ponte di comando, - rispose Yanez, impazientito. Il portoghese stava per ritornare verso i suoi uomini che aiutavano i marinai del piroscafo a mettere in acqua le scialuppe, quando si vide venire incontro un uomo piccolo, tozzo, col mento accuratamente rasato e che celava gli occhi sotto due occhiali affumicati. - Comandante, - gli disse lo sconosciuto, levandosi vivacemente il cappello e sbottonandosi una lunga zimarra di panno oscuro che pareva non gli desse alcun fastidio, nonostante il caldo intenso. - Voi siete uno di quei famosi pirati della Malesia? - Uno dei capi, - rispose Yanez, guardando con curiosità quell'omiciattolo panciuto e paffuto. - Allora mi prenderete con voi, perchè io stavo appunto cercando una nave che mi sbarcasse a Mompracem. - Noi non andammo in quell'isola, che d'altronde non è più in nostro possesso e non imbarchiamo altro che uomini di mare e di guerra. - Io volevo venire con voi per combattere gli inglesi, signore. Io conosco tutte le vostre meravigliose imprese. - Voi! - esclamò Yanez, con accento beffardo. - Voi non sapete chi sono io. - No di certo. - Il demonio della guerra, o meglio, se vi piace, il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, infine un uomo che potrà causare danni immensi agli inglesi. Ecco perchè, signore, voi non rifiuterete d'imbarcarmi sulla vostra nave assieme ai miei bagagli. Vi renderò dei preziosi servigi, tali da far stupire e anche tremare il mondo! ...

Quando le ultime scialuppe, cariche di carbone, si furono allontanate, il portoghese s'avvicinò all'inglese e dopo d'averlo salutato cordialmente, gli disse: - Signore, noi abbiamo finito. - Allora tocca a me di finire la mia esistenza, - rispose il comandante dello steamer. - Metto a vostra disposizione la mia jola ben fornita di viveri e anche d'una vela, che vi permetterà di raggiungere le scialuppe prima che giungano alla costa. Guardate, la brezza soffia dall'ovest e vi è favorevole. - Vi ho detto che io non abbandonerò la mia nave e manterrò la parola. Questo steamer, che da sei anni guido attraverso l'oceano, lo amo troppo per lasciarlo e se deve andare a picco mi inabisserò con lui. - Ditemi almeno quale morte preferite? Volevo farlo saltare in aria con una tonnellata di polvere, nondimeno se desiderate lo squarceremo invece con una palla dei nostri più grossi cannoni. Almeno lo vedrete sommergersi lentamente e forse potrete pentirvi, prima che scompaia tutto sotto le onde. - Ciò non mi riguarda, signore; fate quello che credete. - Addio, signore, siete un coraggioso. - Addio comandante e buona fortuna, - rispose l'inglese, un po' ironicamente. - Ah! vi pregherei di un favore. - Dite pure. - Di far avvertire i miei armatori di Bombay, se ne avrete l'occasione, che John Kopp è morto a bordo della sua nave, come un vero uomo di mare. - Lo farò, ve lo prometto. Fra dieci minuti avrò l'onore di cannoneggiarvi. - Per quel momento avrò terminata la mia pipata. Si separarono, levandosi le berrette, poi Yanez scese nella baleniera che l'aspettava all'estremità della scala, mentre l'inglese sempre impassibile riprendeva il suo posto sul seggiolone, dopo d'aver issata la bandiera inglese. - E dunque non si muove? - chiese Sandokan, quando Yanez fu sull'incrociatore. - Ecco un ostinato degno d'ammirazione, - rispose il portoghese. - Vuole andare a picco colla sua nave. Lo farai tu? - Non siamo ancora partiti, - disse Sandokan con un sorriso. S'avvicinò a poppa dove il vecchio artigliere americano stava appoggiato a una delle torrette e gli sussurrò all'orecchio alcune parole. Poco dopo l'incrociatore virava di bordo, avanzandosi verso lo steamer a piccolo vapore. L'inglese fumava sempre, in attesa del colpo di cannone che doveva sventrare la sua nave. Sandokan si era portato a prora e lo guardava sorridendo. Il Re del Mare, guidato da Sambigliong, passò a trenta passi dalla poppa del vapore, rallentando la marcia. Allora Sandokan imboccando il porta-voce, gridò all'inglese: - Signore, vorrei pregarvi di un favore. Se avrete l'occasione di rivedere i vostri armatori, dite loro che le tigri di Mompracem hanno risparmiata la loro nave perchè la comandava un coraggioso quale siete voi. Buona fortuna! Poi mentre la bandiera di Mompracem salutava l'inglese, l'incrociatore s'allontanò velocemente verso il settentrione. L'astuto e prudente Sandokan, non osando trattenersi troppo a lungo in quei paraggi così prossimi a Labuan, per timore di venire preso fra la squadra della colonia ed i quattro incrociatori che dovevano cercarlo accanitamente, aveva preso il partito di dirigersi verso le coste settentrionali di Borneo, per piombare sulle navi provenienti dall'Australia. Era impossibile o per lo meno difficile che gli inglesi si immaginassero che egli potesse allontanarsi così tanto dal golfo di Sarawak. Era quindi certo di sorprendere parecchie navi australiane prima che gli armatori, spaventati, pensassero a sospenderne la partenza. Desiderando rimanere assolutamente incognito, si tenne lontano dalle vie tenute ordinariamente dalle navi, ed un bel giorno si trovò a sole quaranta miglia dalla punta settentrionale del Borneo. Fu una crociera di soli sei giorni, eppure quali disastri dovette subite la marina mercantile inglese in così breve tempo! Due piroscafi e tre velieri caddero nelle mani delle implacabili tigri di Mompracem, subendo l'egual sorte toccata a quelle catturate nel mare della Malesia. Equipaggi e passeggeri lasciati liberi di salvarsi sulle coste delle isole, le navi affondate senza misericordia coi loro carichi quasi completi. Avendo però appreso da alcuni prahos che anche la squadra della Cina, allarmata da tante catture, stava per radunarsi, il Re del Mare, coi pozzi di carbone al completo, aveva un'altra volta preso subito il largo ridiscendendo verso il sud. Sandokan e Yanez volevano andare a distruggere gli splendidi steamers che facevano il servizio fra l'India e la bassa Cocincina. Una smania terribile di affondare aveva preso Sandokan, il quale pareva ritornato il sanguinario pirata d'altri tempi. Sapendo che presto o tardi si sarebbe trovato di fronte a qualcuna di quelle poderose squadre che l'Ammiragliato aveva lanciato sulle sue orme, prima di cadere vinto, voleva dare un colpo mortale al commercio inglese e fare stupire a sua volta il mondo colla sua audacia. - I nostri giorni sono contati, - aveva detto a Yanez e a Tremal-Naik. - Fra qualche mese non troveremo più nessuna nave inglese che ci fornisca il combustibile. Finchè ne abbiamo, approfittiamone; poi accadrà quello che la sorte avrà decretato. - Troveremo altre navi che ce ne forniranno, - aveva risposto Yanez. - Costringeremo quelle d'altre nazionalità a vendercene, dovessimo ricorrere alla violenza. - E dopo?! ... - Non ci sono io forse dopo? - disse una voce chioccia dietro di loro. - La mia invenzione stupefacente distruggerà tutti quelli che cercheranno di assalirvi. Era il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, il demonio della guerra del quale finora quasi nessuno si era più occupato. - Ah! già, ci siete voi, - disse Yanez, con un sorriso un po' beffardo. - Voi che al momento del pericolo fermerete i proiettili che verranno scagliati contro di noi. - No, signore, v'ingannate, non arresterò i proiettili, io, - rispose l'omiciattolo con vivacità. - Farò invece saltare le polveriere delle navi che vi assalteranno. La mia macchina non fallirà. - Ed anch'io ne ho la convinzione, - disse in quel momento l'ingegnere Horward. - Questo mio compatriota mi ha spiegato in che cosa consiste la sua macchina e, per quanto la cosa possa sembrarvi stupefacente, io credo che riuscirà a far saltare le navi che ci daranno la caccia. - Lo vedremo alla prova, - disse Sandokan, con accento di dubbio. - Se continuiamo a scendere verso il sud, un giorno o l'altro incontreremo di certo i nostri avversarii. Tenete pur pronta la vostra macchina meravigliosa, signor Paddy. Per due altri giorni il Re del Mare scese costantemente verso il sud, facendo delle punte molto al largo, senza scorgere alcuna nave a vapore in nessuna direzione. Gli armatori dovevano aver dato gli ordini necessari per trattenere nei porti delle isole della Sonda le loro navi, onde non vederle sommergere dall'audace corsaro che fino allora, colle sue corse fulminee e coi suoi spostamenti, era sfuggito alla caccia delle squadre. L'interruzione delle linee di navigazione doveva aver causato perdite immense agli inglesi. Che cosa sarebbe avvenuto del Re del Mare quando l'ultima tonnellata di carbone fosse scomparsa nelle bocche ardenti dei suoi immensi forni? - Non avevo pensato che l'arma che io adoperavo avesse un doppio taglio, - mormorò un giorno Sandokan. - Uno per gli inglesi ed uno per me. Cinquecento miglia erano state percorse, avvicinandosi il Re del Mare alle coste di Malacca e ancora nessuna nave inglese si era mostrata. Alcune ne erano state vedute, tedesche, italiane, francesi ed olandesi, navi che costituivano piuttosto un pericolo perchè potevano dare avviso all'Ammiragliato delle rotte del corsaro, temendo che questi un giorno si rivolgesse anche contro di esse. Sandokan e Yanez cominciavano a preoccuparsi. Sentivano per istinto che pel Re del Mare i giorni erano contati e che il cerchio di ferro stava per stringersi intorno alle ultimi tigri di Mompracem. Tremal-Naik e Kammamuri li sorprendevano di frequente colla fronte pensierosa e cogli occhi torbidi. Talvolta invece li vedevano guardare a lungo Darma e Surama e scuotere la testa con tristezza, come se avessero un rimorso di averle imbarcate, per travolgerle in una tremenda catastrofe, che ormai pareva loro certa. - Fanciulle, - disse un giorno Yanez, mentre Darma contemplava l'orizzonte infuocato dagli ultimi raggi del sole morente, come se sperasse di veder comparire già da quella parte l'uomo che amava, - avete paura della morte voi? - Perchè ci fate questa domanda signor Yanez? - chiese l'anglo-indiana con un triste sorriso. - Perchè forse l'ultima ora sta per suonare per noi tutti. - Quando morrete, noi vi seguiremo negli abissi del mare, - rispose Darma. - Sì, io non lascerò il sahib bianco, che mi ama, - disse Surama, guardando dolcemente il portoghese. - Io vorrei però sottrarvi alla morte, prima che essa vi sfiori colle sue gelide ali e tale è anche il pensiero di Sandokan. Noi corriamo verso la Malacca e possiamo sacrificare le ultime provviste di carbone per deporvi su quelle spiagge. Darma e Surama fecero col capo un energico segno negativo. - No, - disse la prima, con voce recisa. - Io non lascerò nè mio padre, nè voi, checchè debba succedere. - Nè io mi separerò da te, sahib bianco, a cui devo la vita e la libertà, - disse Surama. - Pensa, Darma, che tu potresti un giorno diventare sposa felice e unirti ad un uomo, sia pure inglese, che t'ama immensamente e che io stimo. - sir Moreland mi avrà a quest'ora dimenticata, - rispose la fanciulla con un sospiro. - Pensa che da un momento all'altro la flotta degli alleati può piombarci addosso e stringerci in un cerchio di fuoco, e che tu sei donna. - No, signor Yanez, - disse Darma, con maggior fierezza. - Noi non vi abbandoneremo, è vero Surama? - Io sarò felice di morire a fianco del mio sahib bianco, - rispose l'indiana. Yanez le accarezzò con una mano la lunga capigliatura nera, poi disse: - Bah! ... chissà! ... Non siamo ancora vinti.

Non abbiamo lesinato e, come avete potuto osservare, questo piroscafo vale meglio d'un incrociatore di prima classe. Disgraziatamente quando condussi la nave alla foce del Cotti, fui informato che il sultano era stato assassinato da un suo parente, ad istigazione degli olandesi, a quanto pare, per evitare una nuova campagna. Il suo erede non ne volle sapere della nave, abbandonandoci l'anticipo fattoci. - Quello là è una bestia, - disse Yanez. - Con un simile piroscafo avrebbe potuto far tremare anche il sultano di Varauni. - Da Ternate ho telegrafato ai costruttori e mi hanno incaricato di offrirla al rajah di Sarawak o a qualche sultano. Signor de Gomera, vorreste acquistarla? Con questa voi potreste diventare il re del mare. - Vale? - chiese Yanez. - Gli affari sono affari, signore, - disse l'americano. - I costruttori chiedono cinquantamila sterline. - Ed io, signor Brien, ne offro sessantamila, pagabili sul banco di Pontianak, a condizione che mi lasciate il personale di macchina a cui offrirò doppia paga. - Sono gente che non rifiuterà, avventurieri della più bella razza, pronti a chiudere ed aprire una valvola ed a sparare il fucile. - Accettate? - By God! È un affare d'oro, signor de Gomera, e non me lo lascerò sfuggire. - Dove volete sbarcare col vostro equipaggio? - A Labuan possibilmente, per prendere il postale che va a Shangai, da cui troveremo facile imbarco per San Francisco. - Quando saremo a Mompracem farò mettere a vostra disposizione un praho onde vi sbarchi in quell'isola, - disse Yanez. Estrasse un libriccino che teneva gelosamente nascosto in una fascia che portava sotto la camicia, si fece dare una penna e appose delle firme su diversi biglietti. - Ecco degli chèques per sessantamila sterline, pagabili a vista sul banco di Pontianak, dove io e Sandokan abbiamo un deposito di tre milioni di fiorini. Signor Brien, da questo momento la nave è mia e ne assumo il comando. - Ed io, signor de Gomera, da comandante divento un pacifico passeggero, - disse l'americano, raccogliendo gli chèques. - Signor de Gomera, visitiamo la nave. - Non mi occorre mi è bastato uno sguardo per giudicarla. Solo desidero conoscere il numero delle bocche da fuoco. - Quattordici pezzi, fra cui quattro da trentasei, un'artiglieria assolutamente formidabile. - Mi basta: devo occuparmi del pellegrino. O egli mi dice dove la scialuppa ha condotto Tremal-Naik e Darma o lo martirizzo fino a che esalerà l'ultimo respiro. - Conosco un mezzo infallibile per costringerlo a parlare, l'ho appreso dalle nostre pelli-rosse, - disse l'americano. - Sempre la rotta su Mompracem, signor de Gomera? - Ed a tiraggio forzato, - rispose il portoghese. - È probabile che in questo momento Sandokan stia per misurarsi cogli inglesi e non ha che dei prahos. - E voi, signor de Gomera, avete a disposizione una nave da cacciare tutti a fondo. Pezzi da 36! Faranno saltare le cannoniere di Labuan come giuocattoli. Lasciarono il quadro e salirono in coperta. La nave filava a tutto vapore verso il sud-ovest, con una velocità assolutamente sconosciuta ai piroscafi di quell'epoca. Quindici nodi all'ora e sei decimi. Chi avrebbe potuto gareggiare con quel piroscafo americano che filava come una rondine marina o poco meno? Yanez ne era entusiasmato. - È un fulmine! - aveva detto ad Harry Brien. - Con tale nave, nè gli inglesi di Labuan, nè il rajah di Sarawak mi fanno paura. Sandokan, se volesse, potrebbe dichiarare la guerra anche all'Inghilterra! Kammamuri in quel momento gli si appressò, dicendogli: - Signor Yanez, la ferita del pellegrino non ha alcuna importanza. La vostra palla deve aver colpito prima qualche cosa di duro, probabilmente l'impugnatura del tarwar, che quell'uomo portava alla cintura e l'ha colpito solamente di rimbalzo, strisciando su una costola. - Dov'è? - In una cabina di prora. - Signor Brien, volete accompagnarmi? - Sono con voi, signor de Gomera, - rispose l'americano. - Cerchiamo di strappare il velo che nasconde quel misterioso personaggio. Scesero nella corsia di babordo di prora ed entrarono in una stanzetta che serviva d'infermeria. Il pellegrino giaceva su una branda, guardato da Sambigliong e da un marinaio della nave. Era un uomo sui cinquant'anni magrissimo, dalla pelle assai abbronzata, coi lineamenti fini come quelli degli indiani delle alte caste e gli occhi nerissimi, penetranti, animati da un fuoco sinistro. Aveva i piedi e le mani legate e conservava un mutismo feroce. - Capitano, - disse Sambigliong a Yanez, - ho veduto or ora il petto di quest'uomo e vi ho scorto un tatuaggio rappresentante un serpente con una testa di donna. - Ecco la prova che egli è veramente un thug indiano e non già un arabo maomettano, - rispose Yanez. - Ah! Uno strangolatore! - esclamò l'americano, guardandolo con vivo interesse. Il prigioniero udendo la voce di Yanez aveva trasalito, poi aveva alzato il capo, fissandolo con uno sguardo ripieno d'odio. - Sì, - disse, - sono un thug, un amico devoto di Suyodhana, che aveva giurato di vendicare su Tremal-Naik, su Darma, su te e più tardi sulla Tigre della Malesia la distruzione dei miei correligionari. Ho perduto la partita quando credevo di averla vinta: uccidimi. Vi è qualcuno che penserà a vendicarmi e più presto di quello che credi. - Chi? - domandò Yanez. - Questo è il mio segreto. - Che io ti strapperò. Un sorriso ironico sfiorò le labbra dello strangolatore. - E mi dirai anche dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i miei Tigrotti sfuggiti al fuoco dei tuoi lilà. - Questo non lo saprai mai! - Adagio, signor strangolatore, - disse l'americano. - Permettetemi di avvertirvi che io conosco un mezzo infallibile per farvi parlare. Non resistono nemmeno le pelli-rosse, che sono d'una cocciutaggine incredibile. - Voi non conoscete gli indiani, - rispose il thug. - Mi ucciderete, ma non mi strapperete una sillaba. L'americano si volse verso il suo marinaio dicendogli: - Prepara sul ponte un paio di tavole ed un barile d'acqua. - Che cosa volete fare, signor Brien? - chiese Yanez. - Ora lo vedrete, signor de Gomera. Fra due minuti quest'uomo parlerà, ve lo prometto. - Voi, - aggiunse poi rivolgendosi a Sambigliong e a Kammamuri, - prendete quest'uomo e portatelo in coperta.

- Abbiamo qualche cosa di meglio, signor strangolatore, - disse l'americano. - Vi duole la ferita? Lo strangolatore alzò le spalle con disprezzo. - Non datevi alcun pensiero per quella graffiatura, - disse con voce recisa. - Mi prendete per un fanciullo? - Meglio così. Portate un paio di secchie e l'imbuto. Tre marinai si fecero largo, portando quanto era stato chiesto. L'imbuto era quello che usava il cambusino per riempire le botti, un arnese massiccio dall'imboccatura abbastanza larga per tappare completamente la bocca dell'indiano. - Vuoi confessare? - chiese per l'ultima volta l'americano. - Mi risparmierai una tortura inutile, perchè non potrai resistere. - No, - rispose seccamente lo strangolatore. - Neanche se ti promettessi un giorno la libertà? - chiese Yanez, a cui ripugnava ricorrere ai mezzi estremi. - Quel giorno io non sarei più vivo. - Agite, - disse l'americano. Tutti si erano ristretti attorno alla tavola. Solo il timoniere era rimasto dietro la ruota ed i fuochisti dinanzi ai forni. Due marinai introdussero nella bocca dell'indiano l'estremità dell'imbuto, tenendovelo ben fermo, mentre un terzo vi versava lentamente l'acqua contenuta nel bugliolo5. Lo strangolatore, costretto a bere per non morire soffocato, aveva cercato con uno sforzo disperato, di spezzare i legami per allontanare l'imbuto. Aveva subito compreso che non avrebbe potuto resistere a lungo a quella tortura che prima di allora non aveva mai conosciuta. Tuttavia, deciso a resistere fino all'ultimo, anche a morire, non fece alcun atto che potesse far supporre all'americano ed al portoghese di essere pronto a confessare. Il liquido continuava a scorrergli nello stomaco ed il suo ventre si gonfiava a vista d'occhio. I suoi lineamenti dimostravano uno spasimo estremo, gli occhi pareva che volessero schizzargli dalle orbite e respirava affannosamente per le nari, con un rantolo sinistro, lugubre. - Confesserai? - gli chiese l'americano che assisteva, freddo, impassibile, a quella scena, facendo segno al marinaio che teneva la secchia di fermarsi. Il thug fece col capo un feroce gesto di diniego ed i suoi denti scricchiolarono sulla canna di ferro dell'imbuto. Un altro paio di litri d'acqua scorsero pel tubo. Il martirizzato, col viso congestionato, gli occhi già spaventosamente sbarrati, lo stomaco enormemente dilatato, fece ad un tratto un brusco soprassalto. Era la sua resa. - Basta, - aveva detto Yanez, nauseato. - Basta. L'imbuto fu tolto. Il thug aspirò a lungo l'aria, poi con voce rantolosa mormorò: - Assassini! - Oh! Non morrai per un po' d'acqua, - disse l'americano. - Non si può resistere, questo è vero, ma non si corre alcun pericolo se non si continua. Parlerai? L'indiano stette un momento silenzioso, poi vedendo l'americano fare cenno ai marinai di ricominciare, una orribile espressione di spavento si diffuse sul suo viso. - No ... no ... più - balbettò. - Chi è l'uomo che ti ha mandato qui? Parla o ricominciamo, - disse Yanez. - Sindhya, - rispose l'indiano. - Chi è costui? E tu, soprattutto, chi sei veramente? - Sono ... sono ... il precettore ... di Sindhya ... l'ho allevato ... io ... io ... l'amico ... fedele ... di Suyodhana ... - E quel Sindhya? - insistette Yanez che vedeva l'indiano girare gli occhi e respirare sempre più affannosamente. - Parla o torniamo all'acqua, - disse l'americano. - È ... è ... il figlio ... di ... Suyodhana, - burbugliò lo strangolatore. Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Kammamuri e di Sambigliong. Suyodhana aveva lasciato un figlio! Era possibile? Il capo dei settari, che meno degli altri avrebbe potuto amare una donna, lui che incarnava sulla terra il Trimurti della religione indiana, come un giorno la piccola Darma aveva incarnata Kalì, la sanguinaria divinità, aveva avuto il suo romanzo, come un mortale qualunque? Yanez si era curvato sull'indiano, per chiedergli maggiori spiegazioni e s'avvide che il povero uomo aveva smarrito i sensi. - Che muoia? - chiese, rivolgendosi all'americano. - Non ha confessato tutto e bisogna che sappia dove si trova il figlio del terribile strangolatore e dove hanno condotto Tremal-Naik e Darma. - Lasciatelo digerire tranquillamente la sua acqua, - rispose lo yankee. - Questa tortura non uccide, se viene sospesa a tempo e domani quest'uomo starà bene quanto me e voi. Facciamolo riportare nella cabina e lasciamo che dorma. - È svenuto. - S'incaricherà il medico di bordo di farlo tornare in sè. Non temete, signor de Gomera. Questa sera o domani, noi sapremo tutto quello che desiderate sapere. Fece un cenno ai due marinai e questi sollevarono l'indiano, che non dava più segni di vita e lo portarono nel frapponte. - Ebbene, signor de Gomera, - disse l'americano, rivolgendosi a Yanez che pareva assai preoccupato e pensieroso. - Pare che non siate troppo lieto della nuova che avete appreso. È un uomo pericoloso, il figlio del capo degli strangolatori? - Può diventarlo, - rispose Yanez, - non sapendo noi nè dove si trovi, nè chi sia, nè di quali mezzi disponga. La guerra sorda ma implacabile, fattaci finora, dimostra che quel Sindhya deve possedere l'energia e la ferocia del padre. È necessario che io sappia dove si nasconde. - Non era dunque fra i dayaki che vi hanno assaliti? - Non sembra. Non vi era che quel pellegrino alla testa dell'insurrezione, di questo siamo certi. Se vi fosse stato qualche altro indiano a quest'ora l'avremmo saputo. - Che sia veramente possente quel Sindhya? - I fatti lo dimostrano. È stato lui ad armare i dayaki, lui a sobillare gli inglesi e forse anche il nipote di James Brooke. Sono certo che deve disporre di ricchezze incalcolabili. - E l'oro è il nerbo della guerra, - disse l'americano. - E deve aver armato qualche nave anche. - Che la vostra affonderà senza fatica, signor de Gomera. Nessuno potrà sfidare impunemente le vostre artiglierie che sono le più moderne e le più formidabili che finora si conoscano e che anche la marina del mio paese sta adottando. Che peccato non potervi tenere compagnia! - Signor Yanez, - disse in quel momento Kammamuri, che fino allora era rimasto silenzioso e non meno pensieroso del portoghese, - che cosa ne dite di questa inaspettata rivelazione? - Che non avrei mai supposto che noi dovessimo trovarci ancora di fronte ai thugs indiani. Tu che sei stato loro prigioniero parecchio tempo, non hai mai udito a narrare che Suyodhana avesse un figlio? - No, signor Yanez, e poi se i thugs lo avessero saputo, il loro capo avrebbe molto perduto della sua influenza. Egli deve averlo fatto allevare molto lontano dalle Sunderbunds, all'insaputa di tutti, per celare la propria colpa. Un capo come lui non può amare una mortale: il suo cuore non deve battere che per la sanguinaria dea e per nessun'altra donna. - Credi tu che la comunità dei thugs fosse molto ricca? - Mi fu detto che poteva disporre di tesori favolosi e che solo Suyodhana sapeva dove erano collocati. - Distrutti i settari, certo quelle ricchezze saranno state raccolte da Sindhya. - È probabile, signor Yanez, - rispose il maharatto. - Ed ora viene a sfidarci per vendicare suo padre! - disse il portoghese, come parlando fra sè. - Come la Tigre della Malesia ha vinto e ucciso la Tigre dell'India abbatterà anche il tigrotto. - Mi stupisce però, - disse l'americano, - come lui, figlio d'uno strangolatore, sia riuscito a procurarsi l'appoggio degli inglesi, se è vero quanto voi sospettate. - Sapete voi sotto quale nome o quale titolo si nasconda? - chiese Yanez. - Non sarà stato così sciocco da dire al governatore di Labuan che è un seguace di Kalì. Mi occorre sapere dove si trova ed il suo precettore me lo dirà, dovessi torturarlo fino a che muoia. - Basterà minacciarlo d'una nuova bevuta, - disse l'americano. - Non resisterà, lo vedrete e vi spiattellerà tutto. Signor de Gomera, andate un po' a riposarvi. Dovrete essere assai stanco, dopo tante emozioni. I vostri marinai dormono già come ghiri. Il portoghese, che da due notti non chiudeva gli occhi, seguì il consiglio dell'americano e scese nel quadro con Kammamuri, gettandosi vestito come era in un lettuccio. Intanto la nave continuava la sua rotta verso il sud-est, tenendosi a una dozzina di miglia dalla costa. Divorava i suoi quindici nodi, velocità assolutamente straordinaria in quell'epoca, in cui i piroscafi migliori, non esclusi gli incrociatori, non riuscivano ordinariamente a percorrerne più di dodici. Al largo non appariva alcuna nave; verso la costa, assai sinuosa e frastagliata da minuscoli seni, veleggiavano lentamente alcuni prahos montati probabilmente da pescatori, essendo le acque che bagnano quella grande isola ricchissime di pesci. A mezzodì il Nebraska - tale era il nome del magnifico vapore - avvistava già l'isola di Tiga e puntava direttamente verso il capo Nosong, che forma l'estremità d'una vasta isola staccata dalla terraferma da uno stretto canale che sbocca nella vasta baia di Bruni. Alle quattro, Labuan, la colonia inglese, a cui Sandokan per tanti anni aveva dato da fare, minacciando l'esterminio dei suoi primi coloni, era in vista verso il sud. Quasi nel medesimo istante la voce dell'americano svegliava bruscamente Yanez. - In piedi, signor de Gomera! - aveva gridato il comandante. Vi era nella voce un certo tono, che fece balzare subito in piedi il portoghese. Anche il viso dell'americano era assai oscuro. - Avete qualche brutta nuova da comunicarmi? Mi sembrate sconvolto, signor Brien. - By God! - bestemmiò lo yankee grattandosi rabbiosamente la testa. - Non me l'aspettavo, signor Yanez. - Insomma, che cosa c'è di nuovo? - C'è ... c'è ... che quel maledetto indiano se n'è andato all'altro mondo senza completare le sue confessioni. - Morto! - Aveva qualche terribile veleno nascosto in un anello. Vi rammentate che ne aveva uno al dito medio, con un grosso corindone? - Sì, mi pare di averglielo veduto. - Ho trovato il corindone levato e sotto di esso un piccolo vuoto che doveva contenere qualche granello di chissà quale sostanza tossica ed è rimasto fulminato sotto gli occhi del marinaio di guardia, - disse l'americano. Yanez aveva fatto un gesto di collera. - Morto, portando nella tomba il segreto che più mi premeva! - esclamò coi denti stretti. - Come faremo noi a sapere dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i loro uomini? Maledizione! La stella che per tanti anni ci ha protetti, comincia a offuscarsi. Sarebbe il principio della fine? - Non scoraggiatevi, signor Yanez, - disse l'americano. - Non li avranno già mangiati i vostri amici. Se non li hanno uccisi subito, vuoi dire che i rapitori avevano ricevuto l'ordine di tradurli in qualche luogo. - E dove? - Ecco il punto nero, per ora. Yanez, che in quella disgraziata spedizione più volte aveva perduto la sua calma, si era messo a passeggiare per la cabina in preda ad una vivissima agitazione. Che cosa fare? Che cosa risolvere? Dove dirigere le ricerche? Erano quelli i pensieri che turbavano la sua mente. - Dove ci troviamo ora, signor Brien? - chiese ad un tratto fermandosi dinanzi all'americano. - In vista delle coste di Labuan, signor de Gomera. - Quando potremo giungere a Mompracem? - Fra le dieci e le undici di notte. - Fate mettere in acqua una scialuppa con viveri e armi per due uomini e accostate Labuan. - Che cosa volete tentare, signor de Gomera? - Mi è venuto un sospetto. - E quale? - La scialuppa a vapore si è diretta verso il sud, senza entrare nella baia di Kabatuan, che i miei prahos avevano già oltrepassata. - Sicchè voi credete? - Che abbia condotti Tremal-Naik, Darma e i loro uomini a Labuan. - E vorreste sbarcare un paio dei vostri malesi onde vadano ad informarsi? - E raccoglierli più tardi. - Due uomini bianchi avrebbero maggiori probabilità e ve ne sono a bordo di quelli che hanno fegato. Basta pagarli. - Avranno ciò che chiederanno. - Seguitemi, signor Yanez. Quando salirono in coperta, le spiagge di Labuan erano perfettamente visibili, non distando che una dozzina di miglia. L'americano fece armare una scialuppa, chiamò due marinai, due californiani alti come granatieri e li informò del desiderio espresso dal portoghese. - E offro cento sterline a ciascuno se riuscirete a darmi notizie dei miei amici, - aggiunse Yanez. - Andiamo anche all'inferno noi, - rispose uno dei due marinai. - A prendere Belzebù, se lo vorrete, signor comandante, - disse l'altro. - Fra due giorni al più tardi io verrò a raccogliervi. - Di notte? - chiese Bob. - Sì, e segnalerò la nostra presenza con un razzo verde. - Che il diavolo ci porti via se non riusciremo, signor comandante, - rispose il primo. La scialuppa era pronta. I due californiani vi discesero e presero subito il largo arrancando verso l'isola, mentre il Nebraska riprendeva frettolosamente la sua rotta, dirigendosi verso ponente. Un po' più tardi lo strangolatore, dopo che il medico ebbe constatato essere veramente morto, veniva gettato in mare chiuso entro un'amaca e con una palla di cannone ai piedi, onde sottrarlo alla voracità dei pescicani, che si tengono ordinariamente a fior d'acqua. Alle otto di sera il Nebraska, che non aveva rallentata la velocità, si trovava già a mezza via fra Labuan e Mompracem. Il mare era sempre deserto e la luna sorgeva lentamente all'orizzonte, specchiandosi in esso. Una calma assoluta regnava intorno alla nave. Nessuna ondulazione increspava la superficie che pareva d'olio. Yanez, Kammamuri e Sambigliong, dal castello di prora, spiavano ansiosamente l'orizzonte, impazienti di avvistare l'alta rupe su cui sorgeva la dimora della Tigre della Malesia, mentre l'americano, che aveva ripreso momentaneamente il comando della poderosa nave, passeggiava sulla plancia di comando. - Quale sorpresa per Sandokan vedendoci giungere con un simile rinforzo! - disse Sambigliong. - Abbiamo perduto la Marianna e torniamo con una nave che ne vale venti. - Che darà del filo da torcere a Sindhya ed ai suoi alleati, se veramente ne ha, - rispose Yanez. - Che gli inglesi si siano accontentati d'una semplice minaccia, capitano? - È un bel po' che ci hanno fatto capire di andarcene lontani da Mompracem. - E l'ultima minaccia era grave, signor Yanez, - disse Kammamuri. - Non avevo mai veduto Sandokan così preoccupato prima di allora. - Si preparava alla resistenza? - Sì, signor Yanez. Ad un tratto il portoghese impallidì. - Se giungessimo troppo tardi? - chiese con ansietà. - No, è impossibile che abbiano potuto vincere in così breve tempo Sandokan. Ha uomini di ferro e navi e cannoni e batterie formidabili. Le sole forze di Labuan non sarebbero sufficienti per una tale impresa. Fra un'ora sapremo che cosa sarà avvenuto. Si era messo, come era sua abitudine, quando un pensiero lo tormentava, a passeggiare pel castello, colle mani affondate nella tasca e la sigaretta spenta fra le labbra. Passarono quindici o venti minuti. Solo diciotto o venti miglia separavano la Nebraska da Mompracem. Ad un tratto, verso ponente, si udì un rombo lontano, che si propagò sul mare rumoreggiando sinistramente. Yanez aveva interrotta bruscamente la sua passeggiata, mentre l'americano scendeva precipitosamente la plancia di comando. - Un colpo di cannone! - aveva esclamato Yanez. - E viene da Mompracem, signor de Gomera, - disse l'americano, salendo il castello. - Il vento ci soffia di fronte. - Che gli inglesi abbiano assalito l'isola? - Ma ci siamo noi e vi mostrerò la potenza delle nostre artiglierie. Uomini di macchina! A tiraggio forzato e caricate le valvole più che potete. Uomini dei pezzi! Ai vostri posti! Una seconda detonazione rimbombò in quel momento, più distinta della prima, seguìta dopo qualche po' da una serie non interrotta di spari più o meno sonori. Non ci si poteva ingannare. All'orizzonte, in direzione di Mompracem, si combatteva un'aspra battaglia. Yanez e l'americano si erano slanciati sul ponte di comando, mentre gli artiglieri caricavano frettolosamente i pezzi della coperta e delle batterie e si raddoppiava il personale di macchina. - Siamo pronti? - chiese Brien all'ufficiale di quarto che aveva ispezionati rapidamente tutti i pezzi. - Sì, comandante. - Doppia riserva al timone ed in coperta la guardia franca. Le detonazioni continuavano con un fragore crescente. Si udivano quelle secche dei piccoli pezzi e quelle poderose e più prolungate delle artiglierie di grosso calibro. Yanez, un po' pallido per l'emozione, ma calmo, aveva puntato un cannocchiale verso ponente, mentre la nave correva come una rondine marina, lasciandosi dietro una interminabile scia spumeggiante. - Fumo all'orizzonte! - gridò ad un tratto il portoghese. - Vi sono delle navi a vapore laggiù. Sono navi inglesi, non ne dubito. Presto! Presto! - Corriamo il pericolo di saltare, signor de Gomera. Non possiamo forzare di più le caldaie. Un fumo biancastro, che la luce lunare mostrava perfettamente, si alzava verso Mompracem. I colpi spesseggiavano. Si combatteva furiosamente in quella direzione. Poi cominciarono a scorgersi i lampi delle artiglierie. Avvampavano su una vasta zona, come se un gran numero di navi combattessero. - I nostri prahos! - urlò d'improvviso Yanez, staccando dall'occhio il cannocchiale. - La Tigre della Malesia s'allontana al nord. Maledetti! Ancora una volta gli inglesi ci hanno vinti! L'americano gli aveva strappato di mano il cannocchiale. - Sì, i prahos - disse poi, - e cannoneggiati da cannoniere. Veleggiano al nord. - Cannonieri! - gridò Yanez. - Pronti pel fuoco di bordata! Massacrate quelle navi! Il Nebraska si avanzava rapido, in modo da frapporsi fra i velieri che fuggivano sempre sparando, colla Marianna di Sandokan in coda che avvampava come un vulcano e le piccole navi a vapore che li perseguitavano con scariche formidabili. - Eccoci in pieno ballo, - disse l'americano. - Giovanotti! Fuoco di bordata!

- Sì, - rispose il pilota, - otto giorni or sono, ma nulla abbiamo potuto concludere. Il rajah, sospettando di loro, ne ha fatto imprigionare per precauzione una buona parte ed altri li ha esiliati lontani dalle frontiere. - Maledizione! - esclamò Yanez. - Ecco una notizia che non m'aspettavo. Addio speranze! ... - Forse abbiamo tardato troppo, - disse Sandokan. - Il rajah ci ha prevenuti. - Che cosa faremo ora, Sandokan? ... - Non ci rimane che lottare sul mare, - rispose la Tigre della Malesia. - Ritorneremo verso il nord, giacchè il grosso degli alleati si trova nelle acque di Sarawak e riprenderemo la guerra contro le navi mercantili, arrecando alle linee di navigazione il maggior danno possibile. Se sarà necessario ci spingeremo fino nei mari della Cina. A bordo, amici! ... Non perdiamo tempo. Stavano per ridiscendere nella scialuppa, quando udirono un colpo di cannone rimbombare a bordo del Re del Mare. Sandokan aveva trasalito. - Che segnali la flotta degli alleati? - si chiese. - Lo suppongo, - rispose Yanez. - Vedo che si muove e che punta la prora verso di noi. - Guardate! - gridò Tremal-Naik. Verso l'ovest una luce vivissima illuminava l'orizzonte che poco prima era ancora tenebroso. La flotta degli alleati, composta d'una mezza dozzina di navi, muoveva velocemente per impedire all'incrociatore di prendere il largo. - Presto, a bordo! - gridò la Tigre della Malesia. Si lasciarono scivolare l'un dietro l'altro giù per la fune e la scialuppa mosse velocemente verso il Re del Mare, che dal canto suo le muoveva incontro. Le navi nemiche, quantunque fossero ancora lontane, avevano aperto il fuoco e le cannonate si succedevano alle cannonate e qualche proiettile s'inabissava a poche dozzine di metri dall'imbarcazione. Fra qualche minuto quelle masse metalliche dovevano giungere a destinazione. Il Re del Mare era però ormai a poche gomene. Manovrò in modo da coprire la scialuppa dai tiri delle artiglierie avversarie, opponendo ai proiettili i suoi poderosi fianchi, poi la scala fu abbassata d'un colpo solo. L'ingegnere Horward, Darma e Surama con Kammamuri erano usciti dalla torretta di poppa, gridando: - Presto! ... Presto! ... Salite! ... Alcuni marinai avevano già calati i paranchi per issare la scialuppa. Yanez, Sandokan, Tremal-Naik ed i loro compagni si slanciarono sulla scala, dopo d'aver assicurato i ganci. - Finalmente! - esclamò l'americano. - Credevo che non arrivaste in tempo. - A posto gli artiglieri! - gridò Sandokan. - Doppi timonieri alla ruota! ... - Avremo da fare per sbarazzarci della squadra; però siamo forti e veloci, - disse Yanez.

Tangusa che teneva la barra e che, come abbiamo detto, conosceva a menadito la baia, guidò la Marianna in modo da tenerla lontana dai fuochi che ardevano presso le scogliere e che dovevano dominare gli accampamenti dei nemici, poi con un'abile manovra la spinse dentro un canale piuttosto stretto che s'apriva fra la costa ed un isolotto, senza che alcun grido d'allarme fosse partito nè da una parte nè dall'altra. - Siamo nel fiume, signore, - disse a Yanez, che lo aveva raggiunto. - Non ti sembra un po' strano che i dayaki non si siano accorti della nostra entrata? - Forse dormivano della grossa e non sospettavano che noi potessimo trarci così felicemente dal banco. - Uhm! - fece il portoghese, scuotendo il capo. - Dubitate? - Io ritengo che ci abbiano lasciati passare per darci battaglia sull'alto corso del fiume. - Può darsi, signor Yanez. - Quando potremo giungere? - Non prima di mezzodì. - Quanto dista il kampong dal fiume? - Due miglia. - Di foresta, probabilmente. - E folta, signore. - Peccato che Tremal-Naik non abbia fondata la sua principale fattoria sul fiume. Noi saremo costretti a dividere le nostre forze. È bensì vero che i miei Tigrotti si battono splendidamente sia sui ponti dei loro prahos, che a terra. - Saliamo dunque, signore? Il vento è favorevole e la marea ci spingerà per qualche ora ancora. - Avanti e bada di non mandare la Marianna in secco. - Conosco troppo bene il fiume. - Il veliero superò una lingua di terra che formava la barra del fiume e rimontò la corrente, spinto dalla brezza notturna che gonfiava le sue enormi vele. Quel corso d'acqua, che è ancora oggidì poco noto, in causa della continua ostilità dei dayaki che non risparmiano nemmeno le teste degli esploratori europei, era largo un centinaio di metri e scorreva fra due rive piuttosto alte, coperte da manghi, da durion e da alberi gommiferi. Nessun fuoco si vedeva brillare sotto gli alberi, nè si udiva alcun rumore che indicasse la presenza di quei formidabili cacciatori di teste. Solo di quando in quando nelle acque, che dovevano essere profonde, echeggiava un tonfo prodotto dall'improvvisa immersione di qualche gaviale addormentato a fior d'acqua, che la massa del veliero aveva spaventato. Quel silenzio tuttavia non rassicurava affatto Yanez, il quale anzi raddoppiava la vigilanza, cercando di scoprire qualche cosa sotto la fosca ombra degli alberi. - No, - mormorava, - è impossibile che noi abbiamo potuto passare inosservati. Deve succedere qualche cosa; fortunatamente conosciamo il nemico e non ci coglierà di sorpresa. Era trascorsa una mezz'ora, senza che nulla fosse accaduto di straordinario, ed il portoghese cominciava a rassicurarsi, quando, verso il basso corso del fiume, si vide una linea di fuoco alzarsi al di sopra dei grandi alberi. - Toh! un razzo! - aveva esclamato Sambigliong, che aveva potuto scorgerlo prima che si spegnesse. La fronte di Yanez si era abbuiata. - Come mai questi selvaggi posseggono dei razzi di segnalazione? - si chiese. - Capitano, - disse Sambigliong, - ciò è una prova che in tutta questa faccenda vi è lo zampino degli inglesi. Questi ignoranti non li hanno mai conosciuti prima d'ora. - O che li abbia portati quel pellegrino misterioso. - Là, guardate, comandante: si risponde. Yanez si era vivamente voltato verso la prora ed a una notevole distanza, verso l'alto corso del fiume, invece, aveva veduto spegnersi in cielo un'altra linea di fuoco. - Tangusa, - disse, volgendosi verso il meticcio, che non aveva abbandonata la barra. - Pare che si preparino a farci passare una brutta notte, gli ex coltivatori del tuo padrone. - Lo sospetto anch'io, signore, - rispose il meticcio. In quell'istante verso prora si udirono delle esclamazioni. - Lucciole! - O fuochi? - Guarda lassù. - Brucia il fiume! - Signor Yanez! Signor Yanez! Il portoghese in pochi salti fu sul castello di prora, dove si erano già radunati parecchi uomini dell'equipaggio. Tutto l'alto corso del fiume, che scendeva in linea quasi retta con leggeri serpeggiamenti, appariva coperto da miriadi di punti luminosi che ora si raggruppavano ed ora si disperdevano, per riunirsi poco dopo in linee ed in macchie foltissime. Yanez era rimasto talmente sorpreso, che stette per qualche minuto silenzioso. - Qualche fenomeno, capitano? - chiese Sambigliong. - È impossibile che quelle siano lucciole. - Nemmeno io lo credo, - rispose finalmente Yanez, la cui fronte si abbuiava sempre più. Tangusa che aveva affidato momentaneamente la barra a uno dei timonieri, era pure accorso, allarmato da quelle esclamazioni. - Sapresti dirmi di che cosa si tratta? - chiese Yanez, vedendolo. - Quelli sono fuochi che scendono il fiume, signore, - rispose il meticcio. - È impossibile! Se ognuno di quei punti luminosi segnalasse una barca, ve ne dovrebbero essere delle migliaia e non credo che i dayaki ne posseggano tante, nemmeno riunendo tutte quelle che si trovano sui fiumi bornesi. - Eppure sono fuochi, - replicò Tangusa. - Accesi dove? - Non so, signore. - Su dei tronchi d'albero? - Non saprei dirvelo. - Il fatto è che quei fuochi s'avvicinano, capitano, e che la Marianna potrebbe correre il pericolo d'incendiarsi. Yanez lanciò un "per Giove!" tuonante che fece stupire Sambigliong, che non l'aveva mai veduto prima d'allora uscire dai gangheri. - Che cos'hanno preparato quelle canaglie? - esclamò il bravo portoghese. - Capitano, prepariamo per maggior precauzione le pompe. - E arma i nostri uomini di buttafuori e di manovelle per allontanare quei fuochi. Questi maledetti selvaggi cercano d'incendiare la nostra nave. Su lesti, Tigrotti miei: non vi è tempo da perdere. Quelle centinaia e centinaia di punti luminosi ingrandivano a vista d'occhio, trascinati dalla corrente e coprivano un tratto immenso di fiume. Scendevano a gruppi, danzando con un effetto meraviglioso, che in altre occasioni Yanez avrebbe certamente ammirato, ma non in quel momento. Giravano su loro stessi, seguendo i gorghi, formando delle linee circolari e delle spirali, che poi bruscamente si rompevano, oppure delle linee rette che poi diventavano delle serpentine. Un gran numero filava lungo le rive; molti invece, anzi i più danzavano in mezzo, essendo la corrente ivi più rapida. Dove posassero nessuno poteva dirlo, essendo la notte oscura, anche a causa dell'ombra proiettata dalle piante altissime che coprivano le rive. Certo però dovevano ardere su dei minuscoli galleggianti. Tutto l'equipaggio, armatosi frettolosamente di buttafuori, di pennoni, di aste e di manovelle, si era disposto lungo i fianchi della Marianna per allontanare quei fuochi pericolosi. Alcuni erano scesi nella rete delle dolfiniere del bompresso e nelle bancazze per poter meglio agire. - Sempre in mezzo al fiume! - aveva gridato Yanez a Tangusa, che aveva ripresa la barra del timone. - Se prenderemo fuoco, faremo presto a poggiare sull'una o sull'altra riva. La flottiglia giungeva a ondate, correndo addosso alla Marianna la quale s'avanzava lentamente essendo il vento debolissimo. - Recatemi uno di quei fuochi, - disse Yanez ai malesi che si erano calati nella rete della dolfiniera, la cui estremità inferiore sfiorava quasi l'acqua. Tutti i marinai si erano messi all'opera, vibrando furiosi colpi di buttafuori e di manovelle su quei fuochi galleggianti che ormai circondavano la Marianna. Un malese, presone uno, lo aveva recato a Yanez. Si componeva d'una mezza noce di cocco, piena di bambace inzuppato d'una materia resinosa e attaccaticcia che ardeva meglio dell'olio vegetale, di cui fanno ordinariamente uso i bornesi al pari dei siamesi. - Ah! Bricconi! - aveva esclamato il portoghese. - Ecco una trovata meravigliosa che io non avrei mai immaginata! Come sono diventati furbi, da un momento all'altro, questi dayaki! Tigrotti, date dentro a tutta lena; se questo cotone s'attacca ai madieri, arrostiremo come anitre allo spiedo. Aveva gettato via il guscio di cocco e si era slanciato a prora, dov'era maggiore il pericolo, perchè quei fuochi investendo il tagliamare si rovesciavano in gran numero e la materia attaccaticcia e resinosa ond'era imbevuto il cotone poteva attaccarsi al fasciame, dove avrebbe trovato buon alimento nel catrame che lo copriva. I Tigrotti, che avevano compreso il gravissimo pericolo che correva il veliero, non risparmiavano i colpi. Specialmente quelli che si trovavano nella rete della dolfiniera ed a cavalcioni delle trinche, avevano un bel da fare a rovesciare quei minuscoli galleggianti, che giungevano sempre a ondate, scivolando e capovolgendosi lungo i fianchi della Marianna. Tuttavia dei fuochi di cotone di quando in quando s'appiccicavano al fasciame, ed il catrame subito prendeva fuoco, sviluppando un fumo denso ed acre. Guai se quel legno avesse avuto un equipaggio poco numeroso! Le tigri di Mompracem fortunatamente erano bastanti per sorvegliare tutti i bordi e, quando il fuoco cominciava a manifestarsi, le pompe lo spegnevano di colpo con un abbondante getto d'acqua. Quella strana lotta durò una buona mezz'ora, poi i pericolosi galleggianti cominciarono a diradarsi e finalmente cessarono di sfilare, scomparendo verso il basso corso del fiume. - Che ci preparino ora qualche altra sorpresa? - disse Yanez che aveva raggiunto il meticcio. - Vedendo il loro criminoso tentativo andato a male, escogiteranno qualche cosa d'altro. Che cosa ne dici, Tangusa? - Che noi non giungeremo all'imbarcadero del kampong, senza che i dayaki ci diano una seconda battaglia, signor Yanez, - rispose il meticcio. - La preferirei a qualche altra sorpresa, mio caro. Finora però non vedo alcuna scialuppa. - Non siamo ancora giunti, anzi tarderemo assai con questo vento così debole. Se non aumenta, invece del mezzodì dovremo faticare fino alla sera di domani. - E ciò mi rincrescerebbe. Ohè, Tigrotti, aprite gli occhi e tenete le armi in coperta. I tagliatori di teste ci spiano di certo. Accese una sigaretta e si sedette sul capo di banda di poppa, per meglio sorvegliare le due rive. La Marianna, sfuggita miracolosamente a quel secondo pericolo, s'avanzava sempre più lenta, essendo scemata la brezza. Nessun rumore si udiva sulle rive, che erano sempre coperte da alberi immensi che stendevano i loro rami mostruosi sul fiume, rendendo maggiore l'oscurità, eppure nessuno dubitava che degli occhi seguissero nascostamente il veliero. Era impossibile che i dayaki, dopo quel tentativo che per poco non riusciva, avessero rinunciato all'idea di distruggere quella piccola sì, ma poderosa nave che aveva inflitto loro quella sanguinosa sconfitta. Altre cinque o sei miglia erano state guadagnate, senza che alcun nuovo avvenimento fosse accaduto, quando Yanez scorse, sotto le foreste, scintillare dei punti luminosi che apparivano e scomparivano con grande rapidità. Pareva che degli uomini muniti di torce corressero disperatamente fra gli alberi, scomparendo subito in mezzo ai cespugli. Poi dei sibili si udivano in varie direzioni che non dovevano essere mandati da serpenti. - Sono segnali, - disse il meticcio, prevenendo la domanda che Yanez stava per rivolgergli. - Non ne dubitavo, - rispose il portoghese, che ricominciava ad inquietarsi. - Che cosa ci prepareranno ora? - Una sorpresa non migliore dell'altra di certo, signore. Ci vogliono impedire a qualunque costo di giungere all'imbarcadero. - Comincio ad averne le tasche piene, - disse Yanez. - Almeno si mostrassero e ci attaccassero risolutamente. - Sanno che siamo forti e che non manchiamo di artiglierie, signore, ed un assalto diretto non lo tenteranno. - Eppure sento per istinto che quei bricconi preparano qualche cosa contro di noi. - Non dico il contrario e vi consiglierei di non far disarmare le pompe. - Temi che ci mandino addosso un'altra flottiglia di noci di cocco? Invece di rispondere, il meticcio si era vivamente alzato, dando un colpo di barra al timone. - Siamo al passo più stretto del fiume, signor Yanez, - disse poi. - Prudenza o daremo dentro a qualche banco. Il fiume, che fino allora si era mantenuto abbastanza largo, permettendo alla Marianna di manovrare liberamente, si era repentinamente ristretto in modo che i rami degli alberi s'incrociavano. L'oscurità era diventata ad un tratto così profonda che Yanez non riusciva più a discernere le sponde. - Bel luogo per tentare un abbordaggio, - mormorò. - E anche per fucilarci per bene, signore, - aggiunse Tangusa. - Punta le spingarde verso le due rive, Sambigliong! - gridò Yanez. Gli uomini addetti al servizio delle grosse bocche da fuoco avevano appena eseguito quell'ordine, quando la Marianna, che da alcuni minuti aveva accelerata la corsa essendo la brezza diventata più fresca, urtò bruscamente contro un ostacolo che la fece deviare verso babordo. - Che cosa è avvenuto? - gridò Yanez. - Ci siamo arenati? - Ma no, capitano, - rispose Sambigliong che si era slanciato verso prora. - La Marianna galleggia! Il meticcio con un colpo di barra rimise il legno sulla rotta primiera, quando avvenne un secondo urto e la Marianna tornò a deviare indietreggiando di alcuni passi. - Come va questa faccenda? - gridò Yanez, raggiungendo Sambigliong. - Vi è una linea di scoglietti dinanzi a noi? - Non ne vedo, capitano. - Eppure non possiamo passare. Fa' calare in acqua qualcuno. Un malese gettò una fune e dopo averla assicurata, si lasciò scivolare, mentre il veliero per la terza volta tornava a indietreggiare. Yanez e Sambigliong, curvi sulla murata prodiera guardavano ansiosamente il malese che si era gettato a nuoto per cercare l'ostacolo che impediva al legno di avanzare. - Scogliere? - chiese Yanez. - No, capitano, - rispose il marinaio, che continuava a inoltrarsi tuffandosi di quando in quando, senza preoccuparsi dei gaviali che potevano mozzargli le gambe. - Che cos'è dunque? - Ah! Signore! Hanno tesa una catena sott'acqua, e non possiamo avanzare se non la taglieremo. Nel medesimo istante una voce poderosa s'alzò fra gli alberi della riva sinistra, gridando in un inglese molto gutturale: - Arrendetevi, Tigri di Mompracem, o noi vi stermineremo tutti!

- Come artiglieria siamo debolucci in confronto a loro, - rispose il portoghese, - ora che non abbiamo più i nostri due pezzi da caccia, ma prima che gli assedianti montino all'assalto, ci vorrà del tempo e decimeremo per bene le loro colonne, se vorranno tentare di espugnare a viva forza la nostra fortezza. Basta che i viveri e le munizioni non ci vengano a mancare. - Ti ho già detto che siamo ben forniti, specialmente dei primi. Tutte le tettoie ne sono piene. - Allora terremo duro fino a che tornerà Kammamuri. Sapendoci in pericolo, Sandokan non indugerà a mandarci altri soccorsi. Quanto avrà impiegato a raggiungere la costa? - Non meno d'una settimana. - Sicchè a quest'ora dovrebbe essere a Mompracem. - Lo spero, se i dayaki non lo hanno ucciso, - rispose Tremal-Naik. - Uhm! Assalire un uomo che è scortato da una tigre! Nessuno avrebbe osato attaccarlo. Quindi, a conti fatti, fra una quindicina di giorni potrebbe essere qui. Terremo duro fino allora e intanto cercheremo di divertire i dayaki facendoli ballare a colpi di mitraglia. - E se Sandokan non ci mandasse soccorsi? - In tal caso, mio caro amico, ce ne andremo, - rispose Yanez, colla sua calma abituale. - Con tutti questi assedianti?! - Vedremo se fra quindici giorni saranno così numerosi. Non caricheremo già le spingarde con patate e le carabine con uova di passeri. Terminiamo la nostra ispezione, mio caro Tremal-Naik, e vediamo di fortificare i punti più deboli. Dobbiamo resistere e resisteremo. Mentre riprendevano il loro giro, i dayaki si erano accampati intorno alla fattoria, tenendosi fuori di portata dai tiri delle spingarde, costruendo rapidamente, con rami e con foglie di banano, delle capannuccie per ripararsi dagli ardenti raggi del sole, mentre i loro artiglieri innalzavano senza indugio delle piccole trincee formate di terra e sassi e piazzavano i loro pezzi in modo da poter battere la fattoria tutta all'intorno. Quei cannoni non potevano recare quindi danno alle massiccie tavole che formavano la cinta, essendo il tek un legno durissimo che offre una grande resistenza, tuttavia quando Yanez, terminata l'ispezione, salì sulla torricella con Tremal-Naik e Sambigliong, per dominare tutta la pianura, non potè frenare un gesto di stizza. - Quel pellegrino deve essere stato un soldato, - ripetè. - I dayaki non avrebbero mai pensato innalzare delle trincee, nè a scavare dei fossati per ripararsi dai tiri degli avversari. - Lo vedi? - chiese in quel momento Tremal-Naik. - Chi? - Il pellegrino. - Come! Osa mostrarsi? - Guardalo là, in piedi su quel tronco d'albero che gli artiglieri hanno fatto rotolare dinanzi al mirim per rinforzare la trincea. Yanez guardò attentamente nella direzione indicata, poi, tratto da una tasca un binoccolo di marina, lo puntò. Sul tronco stava un uomo molto alto e molto secco, vestito tutto di bianco, con alamari d'oro, con scarpe rosse a punta rialzata come usano i ricchi bornesi di Bruni ed il capo difeso da un ampio turbante di seta verde che gli calava fino sugli occhi. Pareva che avesse cinquanta o sessanta anni. La sua pelle era assai abbronzata, ma non così oscura nè opaca come quella dei malesi e dei dayaki e anche i suoi lineamenti, che Yanez distingueva benissimo, erano molto più fini e più perfetti di quelli delle due razze dominanti le grandi isole malesi. - Parrebbe un arabo o un birmano, - disse Yanez, dopo di averlo osservato a lungo. - Un dayako no di certo e nemmeno un malese. Da dove sarà piombato costui? - Non lo hai mai veduto? - chiese Tremal-Naik. - Frugo e rifrugo nella mia memoria e mi convinco sempre più di non aver mai avuto a che fare con quell'uomo, - rispose il portoghese. - Eppure in qualche luogo dobbiamo averlo veduto. Il suo odio contro di me e anche contro di voi, avendo udito narrare che dopo di me si sarebbe anche occupato delle tigri di Mompracem, deve essere stato motivato da qualche cosa. - Ah! Vorrebbe prendersela anche con Mompracem, - disse Yanez, sorridendo. - Si capisce che non conosce ancora quanto valgono i nostri Tigrotti. - Si provi a rovesciare le sue orde sulle coste della nostra isola! Vedrà quanti dayaki torneranno alle loro natie foreste. Ah! La danza di guerra! Brutto indizio. - Che cosa vuol dire, Yanez? - Che i dayaki si preparano alla pugna. Si esaltano prima colla danza quando mettono mano ai kampilang. Sambigliong, va' ad avvertire i nostri uomini di tenersi pronti e fa' portare le spingarde ai quattro angoli della fattoria, onde possano battere tutti i punti dell'orizzonte. Quando i dayaki si muoveranno, verremo noi a dirigere la difesa. Un centinaio e mezzo di guerrieri, che tenevano in ambo le mani una sciabola, si erano staccati dal grosso su quattro colonne avanzandosi verso il kampong, per eseguire la danza di guerra. Giunti a cinquecento passi dalla cinta, mandarono un urlo altissimo, un urlo di sfida, poi formarono quattro circoli, mettendosi a ballare disordinatamente. Nel centro avevano deposto i loro kampilang, incrociando l'uno coll'altro in modo da occupare un vasto spazio, poi alcuni avevano tratto dai panieri che portavano appesi al fianco, alcune teste umane che parevano recise di recente, collocandole fra i gruppi formati dalle sciabole. Vedendo quelle teste, Yanez aveva fatto un gesto d'ira, a malapena represso. - Miserabili! - aveva esclamato. - Appartenevano ai tuoi uomini, è vero mio povero amico? - disse Tremal-Naik. - Sì, - rispose il portoghese. - Devono aver pescato i cadaveri lanciati nel fiume dall'esplosione, per impadronirsi delle loro teste. Noi non faremo altrettanto ma, vivaddio, contraccambieremo con piombo senza risparmio. - Vuoi che li mitragliamo giacchè sono a buona portata? - Non ancora. Dobbiamo lasciare a loro di sparare il primo colpo. I dayaki intanto continuavano a sgambettare come scimmie o come ubriachi in delirio, ululando spaventosamente, dimenando le braccia e contorcendosi, mentre alcuni suonatori percuotevano con delle mazze dei tamburoni di legno coperti con una pelle di tapiro. Ora i danzatori procedevano a passo cadenzato, poi spiccavano salti come se calpestassero dei carboni accesi, finalmente si davano ad una corsa pazza, impugnando certe specie di kriss, come se inseguissero dei nemici fuggenti. Quella danza durò una buona mezz'ora, poi, i guerrieri esausti, trafelati, rientrarono nei loro accampamenti. Successe un profondo silenzio che si prolungò per alcuni minuti, poi un urlo formidabile, mandato da tutti i combattenti, echeggiò nella pianura, propagandosi sotto i boschi che la circondavano. - Si preparano all'attacco? - chiese Tremal-Naik a Yanez che aveva puntato nuovamente il binocolo. - No: vedo un uomo che esce dalla tettoia abitata dal pellegrino con una banderuola verde infissa su una lancia. - Che ci mandi un parlamentario? - Sembra, - rispose il portoghese. - A proporci la resa? - La pace no di certo. Un dayako, un qualche famoso guerriero a giudicarlo dalle lunghe penne che gli ornavano la testa e dalla straordinaria quantità di braccialetti di ottone che portava alle braccia e alle caviglie, aveva lasciato il campo, seguìto da un altro che reggeva a stento uno di quei grossi tamburi di legno che avevano servito poco prima per accompagnare i danzatori. - Cospettaccio! - esclamò il portoghese. - Ecco un parlamentario in piena regola; invece d'avere un trombettiere ha un tamburino o meglio un tamburone. Quel pellegrino deve essere un uomo civilissimo. Scendiamo, Tremal-Naik, e andiamo a udire che cosa ci manda a dire il generalissimo dei dayaki. - Avevano appena lasciata la torretta e raggiunta la terrazza che si alzava sopra la saracinesca, quando il parlamentario giunse, chiedendo di voler parlare all'uomo bianco. - Non sono io il padrone del kampong, - disse il portoghese, curvandosi sul parapetto e guardando con curiosità il guerriero ed il suo tamburino. - Non importa, - rispose il parlamentario. - Il pellegrino della Mecca, il discendente del gran Profeta, desidera che io comunichi solamente coll'uomo bianco, il fratello della Tigre della Malesia. - Per Giove! - esclamò Yanez, ridendo. - Due fratelli di colore diverso! Quel pellegrino deve essere un grande sciocco. Poi alzando la voce, proseguì: - Mi dirai allora che cosa ha da dirmi il discendente del Profeta. - Egli ti manda a dire che accorda per ora la vita a te ed ai tuoi uomini, a condizione che tu gli ceda Tremal-Naik e sua figlia. - E per cosa farne di loro? - Per decapitarli, - rispose candidamente il guerriero. - Mi dirai almeno per quale motivo. - Allah così vuole. - Dirai allora che il mio Allah invece non lo vuole e che io sono qui venuto per far rispettare il suo desiderio e che sono pronto a difendere i miei amici. - Ti ripeto che Allah ed il Profeta hanno decretato la morte di quell'uomo e di quella fanciulla. - Io me ne infischio di loro e di quell'imbroglione di pellegrino che vi ha fanatizzati dandovi da bere delle panzane. - Il pellegrino è uomo che ha compiuto dei miracoli sotto i nostri occhi. - E non sotto i miei e gli dirai anzi che lo sfido a farne qualcuno. Fino a prova contraria non lo crederò altro che un intrigante che abusa della vostra dabbenaggine o dei vostri istinti sanguinari. - Io andrò a riportare a lui le parole dell'uomo bianco. - Senza fretta, giacchè noi non ne abbiamo, - disse Yanez, ironicamente. Il tamburino fece echeggiare per tre volte il suo pesantissimo istrumento che risuonò come il tuono udito in lontananza, poi i due selvaggi tornarono verso l'accampamento dove tutti i guerrieri pareva che li aspettassero con viva impazienza. - Quel pellegrino deve essere il più gran furbo che viva sotto la cappa del cielo, - disse Yanez a Tremal-Naik, quando i due parlamentari si furono allontanati. - Che specie di miracoli può aver compiuto quell'uomo per persuadere i dayaki d'essere un semi-dio? Vorrei saperlo. - Qualche cosa deve evidentemente aver fatto, - rispose l'indiano. - Non ci si impone da un momento all'altro a questi selvaggi che sono per natura diffidenti. - Armi, denari e miracoli! - esclamò Yanez. - Con tuttociò si domano anche gli antropofagi della Malesia. E non sapere per quali cause quell'uomo se la prende con noi! - Con me e con mia figlia, - corresse Tremal-Naik. - Per ora e poi? ... E poi non mi fiderei delle promesse di quell'impostore. Toh! Ecco il parlamentare che ritorna. Comincia a diventare noioso lui e anche il suo tamburone. Se si mostra ancora gli farò tirare nelle gambe una scarica di pallottole o di chiodi. - Uomo bianco, - disse il parlamentario, quando giunse sotto il terrazzo, - il pellegrino mi manda a dire che egli compirà dinanzi a te un miracolo stupefacente che nessun altro uomo potrebbe fare, per dimostrare a te ed ai tuoi uomini la sua invulnerabilità. - Vuole che io provi sul suo corpo la penetrazione delle palle della mia carabina? - chiese Yanez beffardemente. - Egli si propone di eseguire dinanzi ai tuoi occhi la prova del fuoco e vuol mostrarti come ne uscirà incolume per la protezione celeste che gode. Chiede solo che tu gli conceda una zona di terreno in prossimità del kampong, in modo che tu possa ben osservarlo. - E poi? - Non ti basta? - Domando che cosa farà dopo. - Aspetterà la tua decisione. - Che sarebbe? - Di consegnargli nelle sue mani l'indiano e sua figlia, perchè dopo una simile prova non ti rimarrà più alcun dubbio che egli non sia un semi-dio, contro cui nessuno potrebbe lottare, nè tu, nè i tuoi uomini e nemmeno la Tigre della Malesia, quantunque la si dica invincibile. - Giacchè il pellegrino è così gentile da offrirci uno spettacolo, digli che noi non ci opponiamo. Ci servirà almeno di svago. - Tu non credi, uomo bianco, che il pellegrino possa subire una simile prova? - Te lo saprò dire quando avrò veduto quel miracolo. - E ti arrenderai allora? - Questo poi non te lo posso dire per ora. - I tuoi uomini disarmeranno subito e ti abbandoneranno. - Va bene: aspetterò che gettino a voi i loro fucili, - rispose Yanez col suo sorrisetto ironico. Non era trascorso un quarto d'ora da che i due parlamentari avevano fatto ritorno per la seconda volta all'accampamento, quando Yanez e Tremal-Naik, che non avevano abbandonato il terrazzo, curiosi di godersi quel miracolo, videro due drappelli di dayaki, formati d'una quindicina d'uomini ciascuno, tutti disarmati, accostarsi al kampong portando delle grandi ceste colme di pietre, per la maggior parte piatte, che dovevano aver raccolte di certo nel letto di qualche ruscello. Si fermarono a cinquanta passi dal terrazzo e si misero a disporle in modo da formare una specie di aia, larga una mezza dozzina di metri e lunga il doppio. - Preparano il letto del braciere, - disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava. Ripartiti i due drappelli, se ne avanzarono due altri carichi di legname resinoso che accumularono sulle pietre e che poi accesero lasciandolo avvampare per un paio d'ore. Yanez, Tremal-Naik e tutta la guarnigione, eccettuate le sentinelle, avevano assistito pazientemente a quei preparativi, tenendosi al riparo degli alberi i cui rami fronzuti proiettavano una fresca ombra sulle terrazze costruite sulla cinta per permettere ai difensori di far fuoco più comodamente. I dayaki, che da quanto si poteva capire, ci tenevano a mostrare all'uomo bianco, - essere superiore per loro, - i miracoli del pellegrino, a poco a poco si erano radunati intorno al falò, senza che i difensori del kampong si fossero presi la briga di protestare, essendosi avanzati tutti inermi. - Ecco un divertimento che non godremo mai più, - aveva detto Yanez, - e che non produrrà alcun effetto, almeno sui miei Tigrotti. - E nemmeno sui miei malesi e giavanesi, - aveva aggiunto Tremal-Naik. - Già non credono in Allah come questi fanatici imbecilli. Chi può essere stato a far conoscere a questi selvaggi la religione maomettana? - Gli arabi antichi, mio caro, - rispose il portoghese. - Non sai tu che quegli intrepidi navigatori conoscevano e percorrevano queste regioni, quando gli europei non sapevano nemmeno che esistessero in questa parte del globo le grandi isole malesi? Tu non conosci certo Tolomeo che visse 166 anni dopo la nascita di Gesù Cristo, il dio dei cristiani. Ti posso però dire che fino da quell'epoca gli arabi conoscevano perfettamente i malesi, la Chersoneso Aurea ove si poneva il monte Ofir, che altro non sarebbe che Sumatra; Glabadiva che è l'attuale Giava; i Satiri che sono Battias, gli antropofagi. Eh! Guarda il pellegrino che si avanza! Quel birbone si lascerà bruciare le piante dei piedi per dare ad intendere ai suoi fanatici che è un semi-dio, un essere superiore, un vero discendente del gran Profeta? Io ammiro la sua forza d'animo. - Ed io vorrei ucciderlo con un buon colpo, - rispose Tremal-Naik. - Non commettiamo un simile assassinio, amico mio. Dobbiamo essere gli ultimi a rispondere alle provocazioni. Siamo persone civili, noi. Un urlo immenso li avvertì che il pellegrino stava per lasciare l'accampamento onde mostrare all'uomo bianco ed ai suoi guerrieri la sua invulnerabilità e la sua potenza di essere superiore. Darma, la gentile e graziosa anglo-indiana, aveva raggiunto suo padre e Yanez. Anche i Tigrotti di Mompracem si erano radunati sul terrazzo, appoggiando le carabine ai parapetti, temendo qualche sorpresa da parte di quei selvaggi nei quali non avevano nessuna fiducia. Il pellegrino si avanzava verso la via formata dalle pietre, rese ardenti da due ore di fuoco continuo. Aveva sul capo il suo turbante verde ed il viso nascosto da un piccolo drappo di seta d'egual colore. Il corpo invece era avvolto in una specie di camicia assai attillata, di nanchino giallo, che gli scendeva fino alle ginocchia ed i suoi piedi erano nudi. - O che quell'uomo è un gran ciurmadore o è una vera salamandra, - disse Yanez. - Forse che i fakiri dell'India non passeggiano sui tizzoni ardenti invece che sulle pietre arroventate? - disse Tremal-Naik. - Non ricordi della festa di Darma Ragia, dove tu hai conosciuto l'adorabile Surama, la nipote del rajah di Gualpara? - Per Giove! Se me ne ricordo, - rispose Yanez. - Anche in quella festa i fanatici correvano sulle brace. - Ma uscivano da quell'inferno zoppi, mentre questo demonio di pellegrino promette di passeggiare su quelle pietre scaldate a bianco senza alcun malanno. - Lo vedremo, Yanez, a meno che non sia un gran fakiro. - Apri gli occhi, Darma, - disse Yanez, vedendo la fanciulla curvarsi sul parapetto. - Non mi fido di quei bricconi. - Che cosa temete, signor Yanez? - Eh! Un colpo di carabina si fa presto a spararlo. - Non hanno alcuna arma, - rispose Darma. - Sì, visibile. Avanti, signor discendente di Maometto, mostrateci il vostro miracolo. Il misterioso avversario di Tremal-Naik era giunto dinanzi all'aia lastricata di pietre che doveva proiettare un calore assolutamente intollerabile. Stette un momento raccolto in se stesso, colle mani alzate e gli sguardi fissi verso occidente, ossia in direzione del lontanissimo sepolcro del Profeta, agitò per qualche po' le labbra come se recitasse una preghiera, poi si slanciò risolutamente sulle pietre, gridando per tre volte, con voce rimbombante: - Allah! Allah! Allah! Quindi con passo sicuro, insensibile all'ardente calore che saliva dalle pietre, coi piedi e le gambe nude, s'avanzò sull'aia, a passi lenti, senza che gli sfuggisse un moto che tradisse qualche dolore. I dayaki, stupiti, ammaliati da una simile prova, lo guardavano con profonda ammirazione, alzando le braccia. Quell'uomo per loro doveva essere assolutamente un semi-dio, un vero discendente del grande Profeta. Il pellegrino compiuta la traversata si fermò un momento, poi ritornò sui suoi passi, sempre calmo, sempre impassibile, come se passeggiasse su un prato anzichè su delle pietre che potevano cuocere benissimo del pane. - Costui deve essere un figlio di compare Belzebù! - esclamò Yanez, che non poteva fare a meno di ammirare lo stoicismo di quell'uomo. - Come può resistere a quel calore? Eppure i suoi piedi sono nudi e qui non vi può essere alcun trucco. - Quell'uomo deve essere insensibile come una vera salamandra, - rispose Tremal- Naik. Il pellegrino, compiuta la seconda prova, volse il viso mascherato dal drappo verso Yanez, guardandolo per qualche istante, poi si allontanò a lenti passi, dirigendosi verso la sua tettoia, mentre i dayaki, in preda ad una vera esaltazione, urlavano a squarciagola: - Allah! Allah! Allah! Qualche minuto dopo, mentre i guerrieri raggiungevano i loro accampamenti, precipitandosi verso il pellegrino, il parlamentario, accompagnato dal suo tamburino, si presentava per la terza volta sotto la terrazza. - Che cosa vuoi ancora, uomo noioso? - gli chiese Yanez. - Vengo a chiederti se dopo una simile prova data dal discendente del gran Profeta tu ti sei deciso ad arrenderti, - disse il guerriero. - Ah! È vero, dovevo darti una risposta, - disse Yanez. - Dirai dunque al figlio o nipote o pronipote di Maometto, che io lo ringrazio dell'interessante spettacolo che si è degnato di offrire a noi, poveri miscredenti. Poi levandosi, con un gesto superbo, un magnifico anello che portava in un dito, lo gettò al parlamentario stupito, aggiungendo: - E questa è la sua ricompensa! ...

Noi non abbiamo mai avuto a che fare con dei fanatici mussulmani. - Non so che cosa dirvi, signore. - Se è vero quello che ci hai narrato, quel miserabile ci insidierà dovunque? - Non vi lascerà tranquilli, badate a me e farà di tutto per massacrarvi dal primo all'ultimo, - disse il pilota. - Io so che ha fatto giurare ai capi dayaki di non risparmiarvi. - E noi faremo il possibile per ucciderne più che potremo, è vero, Tangusa? - Sì, signor Yanez, - rispose il meticcio. - Padada, - disse il portoghese, - sai tu che la fattoria di Pangutaran sia già assediata? - Non lo credo, signore, avendo il pellegrino radunate quasi tutte le sue forze per schiacciare prima voi. - Dunque la via che va dall'imbarcadero al kampong di Tremal-Naik può essere libera. - O almeno poco guardata. - Quanto ti ha dato il pellegrino perchè tu mandassi la mia nave sui banchi e me la incendiassi? - Cinquanta fiorini e due carabine. - Io te ne darò duecento se tu mi guidi al kampong. - Accetto, signore, - rispose il malese, - e avrei accettato anche senza alcun compenso, dovendovi la vita. - Siamo ancora lontani dall'imbarcadero? - Fra un paio d'ore vi giungeremo, è vero? - disse Tangusa guardando il malese. - Fors'anche prima. Yanez sciolse le corde che stringevano le mani del prigioniero e uscì, dicendo: - Saliamo in coperta. Sul fiume regnava ancora una gran calma e le acque si svolgevano tranquille, fra due rive coperte di superbe felci arborescenti, di belle piante di cycas, di pandanus, di casuarine e di palme, che spiegavano a ventaglio le loro gigantesche foglie piumate. Fra i rotangs che cadevano in festoni lungo i tronchi degli alberi, vi erano delle siamang, quelle orride scimmie nere che hanno la fronte bassissima, gli occhi infossati, la bocca enorme, il naso piatto e sotto la gola un lungo gozzo che pende come una vescica gonfia, le quali saltellavano di ramo in ramo, senza dimostrare alcuna preoccupazione. In acqua invece nuotavano fra le erbe, numerose bewah, quelle gigantesche lucertole semi-acquatiche che raggiungono sovente i due metri di lunghezza. Dei dayaki nessun indizio. Se fossero stati vicini, i quadrumani non avrebbero mostrato tanta tranquillità, essendo in generale estremamente diffidenti. La Marianna, che s'avanzava assai lentamente aiutata anche dai remi, non potendo il vento soffiare troppo liberamente fra quelle due immense muraglie di verzura, continuò a salire indisturbata fino al mezzodì, poi si arrestò dinanzi ad una specie di piattaforma che s'avanzava nell'acqua sorretta da alcune file di pali. - L'imbarcadero del kampong di Pangutaran, - avevano esclamato simultaneamente il pilota e Tangusa. - Giù le àncore e accosta, - aveva comandato subito il portoghese. - Alle spingarde gli artiglieri. Due ancorotti furono affondati e il veliero, spinto dalla corrente, andò ad appoggiarsi all'imbarcadero ai cui pali fu legato. Yanez era salito sulla murata, per accertarsi meglio che nessun dayako si trovava imboscato su quella riva. Che qui crudeli selvaggi vi fossero passati non vi era dubbio, potendosi scorgere a breve distanza dall'imbarcadero gli avanzi di parecchie capanne distrutte dal fuoco e una vasta tettoia semi-scoperchiata, coi pilastri anneriti dal fumo e dalle fiamme. - Pare che non vi sia nessuno qui, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio che si era pure rizzato sulla murata. - Non si aspettavano che noi giungessimo fino qui, - rispose Tangusa. - Erano troppo sicuri di poterci fermare e massacrare alla foce del fiume. - Quanto distiamo dal kampong! - Un paio d'ore, signor Yanez. - Facendo tuonare i cannoni da caccia, Tremal-Naik potrebbe udirci? - È probabile. Contate di partire subito? - Sarebbe imprudenza. Aspettiamo la notte; passeremo più facilmente e forse senza essere veduti. - Quanti uomini prenderemo? - Non più di venti. Mi preme che la Marianna non rimanga troppo sprovvista. Se la perdessimo sarebbe finita, per tutti, anche per Tremal-Naik e per Darma. Frattanto noi faremo una breve esplorazione nei dintorni, per accertarci che non ci si tenda qualche agguato. Questa tranquillità non mi rassicura affatto. Fece mettere in batteria le spingarde e i pezzi, volgendoli verso l'imbarcadero, rizzando delle barricate formate con barili pieni di ferraccio, onde meglio riparare gli artiglieri, quindi comandò di ammainare le vele sul ponte, senza levarle dai pennoni onde la nave fosse pronta a salpare in pochi minuti. Terminati quei preparativi, Yanez, il meticcio ed il pilota, scortati da quattro malesi dell'equipaggio, armati fino ai denti, scesero sull'imbarcadero per fare una ricognizione nei dintorni, prima di avventurarsi col grosso sotto le folte foreste che si estendevano fra la riva del fiume ed il kampong di Pangutaran.

Quell'americano, che come abbiamo detto, aveva accettato le proposte fattegli da Sandokan, proposte che potevano costargli però la vita, era un bel giovane di ventisei o vent'otto anni, alto, piuttosto magro, dallo sguardo intelligentissimo e vivo, colla fronte spaziosa ed il viso roseo come quello d'una fanciulla, adorno d'una barbetta bionda tagliata a punta. - E dunque, signor Held? - gli chiese Sandokan muovendogli sollecitamente incontro. - Ormai rispondo della sua guarigione, - rispose il medico. - Fra quindici giorni quell'uomo starà perfettamente bene. Quegli anglo-indiani hanno la pelle ben dura. La campana che annunciava il pranzo interruppe la loro conversazione. - A tavola o Yanez s'impazienterà, - disse Sandokan. Mentre scendevano nel salone del quadro, il Re del Mare continuava la sua corsa verso il sud-sud-ovest. L'oceano era sempre deserto, percorrendo la nave una zona pochissimo frequentata dai velieri e dai piroscafi, i quali ordinariamente si tengono più al nord o più al sud, gli uni per evitare le calme e gli altri per evitare i banchi sottomarini che sono numerosissimi intorno alle coste di Borneo. Di quando in quando una banda di volatili calavano sulle coffe degli alberi, prendendone possesso e lasciandosi avvicinare dai marinai senza dimostrare di spaventarsi. Erano dei grossi uccellacci, specie di procellarie giganti, colle penne brune, chiamati dai marinai rompitori d'ossa e dagli scienziati quebranta huesos, formidabili pescatori, armati d'un rostro così acuto e così robusto che permette loro di affrontare i più grossi pesci, colpendoli mortalmente nel cranio. Anche qualche splendido albatro veniva a volteggiare intorno alla nave, salutando i marinai con dei grugniti da porco e attraversando senza paura la tolda, nonostante le fucilate che sparavano i malesi. Magra selvaggina però, perchè se sembravano immensi, misurando le loro ali unite perfino tre metri e mezzo, è molto se i loro corpi pesano otto o dieci chilogrammi, senza contare poi che le loro carni sono coriacee e impregnate d'un pessimo odore di pesce. Comunque erano ammirabili nei loro voli, essendo dei volteggiatori straordinari. Certi momenti rimanevano quasi immobili al di sopra dell'incrociatore, vibrando appena le loro gigantesche ali, poi partivano come fulmini e calavano in mare a pescare i piccoli cefalopodi, i loligo, dei quali si nutrono di preferenza. Le prede d'altronde non mancavano a quegli avidissimi volatili, perchè le acque dell'oceano si mostravano straordinariamente ricche di pesci, con molto piacere anche dei marinai, i quali o con reticelle o con fiocine, nonostante la rapidità dell'incrociatore, s'ingegnavano di prenderli onde variare la minuta di bordo. Oltre a grosse bande di dorate, di piccoli delfini e di serpenti di mare, lunghi un metro, di forma cilindrica, colla pelle bruna nera e la coda gialla, si vedevano a galleggiare un numero sterminato di diodon, pesci assai strani, che abitano quasi esclusivamente le zone torride e che hanno l'abitudine di navigare col ventre in aria e di gonfiarsi fino a diventare completamente rotondi. Salivano dagli abissi dell'oceano a centinaia e centinaia, mostrando le loro spine acute che coprono i loro corpi, facendoli rassomigliare ai ricci terrestri, a tinte però svariate, bianche, violacee o macchiate in nero, mentre in mezzo a loro sfilavano, coi tentacoli al vento onde approfittare del menomo soffio d'aria, lunghe file di nautilus. Di quando in quando un improvviso terrore si manifestava fra tutti quegli abitanti dell'oceano tropicale. Le dorate scomparivano precipitosamente, i diodon si sgonfiavano rapidamente, lasciandosi colare a picco; i nautilus ripiegavano i loro tentacoli, rovesciavano la loro conchiglia navigante fino allora come una leggera barchetta, e si sommergevano. Un nemico terribile e avidissimo, si era bruscamente scagliato in mezzo alle bande colla formidabile bocca spalancata, irta di denti acuti come quelli delle tigri. Era un vorace charcharias, un pescecane di cinque o sei metri di lunghezza, che aveva sparso quell'improvviso terrore, un nemico pericoloso anche per gli uomini. Con rapidità fulminea ingoiava i ritardatari, poi scompariva, sempre preceduto dal suo pilota, un grazioso pesciolino colla pelle azzurra porporina, a striscie nere, non più lungo di venticinque centimetri e che serve di guida al suo formidabile padrone e protettore. Cessato però il pericolo, le dorate ricomparivano giuocherellando e i diodon si rigonfiavano ballonzolando sulle onde e le splendide conchiglie dei nautilus dai margini di madreperla raddrizzavano gli otto tentacoli leggermente arrotondati all'estremità. Verso il tramonto, quando Sandokan e Yanez scesero nella cabina dove trovavasi l'anglo-indiano, constatarono con piacere che il ferito si trovava in condizioni migliori che al mattino. La febbre era quasi cessata e la ferita, sapientemente cucita dall'abile americano, non dava più sangue. Quando entrarono, sir Moreland stava parlando, con voce abbastanza chiara, col signor Held, chiedendo informazioni sulla potenza della nave corsara. Vedendoli, l'anglo-indiano fece uno sforzo per alzarsi a sedere; Sandokan con un gesto glielo impedì. - No, sir Moreland, - disse. - Siete troppo debole e per ora dovete evitare qualsiasi sforzo. È vero, mio caro Held? - La ferita potrebbe riaprirsi, - rispose il dottore. - Vi ho proibito, Sir, di fare qualsiasi movimento. L'anglo-indiano porse la mano all'americano, a Yanez e a Sandokan, dicendo loro: - Grazie di avermi salvato, signori, quantunque avessi desiderato di affondare assieme alla mia nave ed ai miei disgraziati marinai. - Vi è sempre tempo a morire per un marinaio, - rispose Yanez, sorridendo. - La guerra non è ancora finita, anzi per noi è appena cominciata. Una nube oscurò la fronte dell'anglo-indiano. - Credevo che la vostra missione terminasse colla liberazione di quella fanciulla e di suo padre, - disse. - Non avrei acquistata una nave di tale potenza per una simile impresa, - disse Sandokan. - I miei prahos sarebbero stati sufficienti. - Sicchè voi continuerete a corseggiare? - Sì e finchè avrò un solo uomo ed un pezzo d'artiglieria servibile. - Io vi ammiro, signori, ma credo che le vostre corse finiranno presto. L'Inghilterra ed il rajah non tarderanno a farvi inseguire dalle loro squadre. Come resisterete voi a simili attacchi? Il carbone vi verrà meno e sarete costretti ad arrendervi o a farvi colare a picco dopo una inutile resistenza. - Lo vedremo ... Poi Sandokan, cambiando bruscamente tono, chiese: - Come state, sir Moreland? - Relativamente bene; il dottore mi assicura che io potrò alzarmi fra una diecina di giorni. - Avrò molto piacere di vedervi passeggiare sul ponte della mia nave. - Sicchè contate di tenermi prigioniero, - disse l'anglo-indiano, sorridendo. - Anche se volessi rendervi la libertà in questo momento non potrei farlo, perchè siamo ben lontani dalle coste. - Risalite verso il nord? - No, sir Moreland, andiamo invece verso il sud; desidero vedere la foce del Sarawak. - Vi comprendo, signore. Tenterete un colpo di mano sui depositi di carbone del rajah. - Non lo so ancora. - Signor Sandokan, desidererei una spiegazione, se lo permettete. - Parlate, sir Moreland, - rispose la Tigre della Malesia. - Poi, se me lo permettete, vi farò anch'io qualche interrogazione. - Desidererei sapere perchè avete coinvolto nella guerra anche il rajah di Sarawak. - Perchè noi siamo convinti che egli sia il protettore dell'uomo misterioso che ha scatenato contro di noi gli inglesi di Labuan e che in un solo mese ci ha recato tanti danni. - Chi è costui? Sandokan fissò sull'anglo-indiano uno sguardo acutissimo, come se avesse voluto leggergli fino in fondo al cuore, poi disse: - È impossibile che voi, che appartenete alla marina del rajah, non lo abbiate conosciuto. Qualche cosa, come un fremito, passò sul viso di sir Moreland, il quale rimase per qualche istante muto. - No, - disse poi, - non ho mai veduto l'uomo a cui voi alludete. Ho udito però a narrare che un individuo misterioso, che pare possegga delle ricchezze favolose, ha visitato il rajah, mettendogli a sua disposizione navi e uomini per vendicare James Brooke. - Un indiano, è vero? - Non lo so, - rispose sir Moreland. - Io non l'ho mai veduto. - È quell'uomo che ha spinto gli inglesi ed il rajah contro di noi? - Così mi hanno narrato. - Il figlio d'un famoso capo di thugs indiani. - Non ve lo saprei dire. - E vuole misurarsi colle tigri di Mompracem? - Ed è anche certo di vincervi. - Cadrà come è caduto suo padre e come è caduta tutta la sua setta, - disse Sandokan. Un secondo fremito passò sul viso dell'anglo-indiano, mentre negli occhi nerissimi balenava come una fiamma. Stette un'altra volta qualche istante muto, come se qualche improvviso pensiero lo turbasse, poi disse: - L'avvenire ve lo dirà. Poi, cambiando bruscamente discorso, chiese: - Sono sempre a bordo quell'indiano e sua figlia? - Non ci lasceranno, perchè la loro sorte è unita alla nostra, - rispose Sandokan. Sir Moreland si lasciò sfuggire un sospiro e s'abbandonò sul guanciale. - Riposate tranquillo, - gli disse Sandokan. - Non accadrà nulla questa notte. - Uscì insieme a Yanez e salì sul cassero. Surama e Darma stavano prendendo il fresco, chiacchierando con Tremal-Naik. Vedendo Yanez, Darma gli si appressò, interrogandolo collo sguardo. - Tutto va bene, - le sussurrò il portoghese col suo solito sorriso. - Potrò visitarlo? - Domani nessuno te lo impedirà, se ... La frase gli fu spezzata dal grido della vedetta istallata sulla coffa dell'albero di trinchetto: - Fumo all'orizzonte! Guarda all'ovest! Quel grido aveva fatto balzare in piedi Sandokan, che si era appena allora seduto presso Tremal-Naik e fatto accorrere in coperta tutto l'equipaggio. Sul cielo ancora fiammeggiante, non essendosi il sole ancora completamente immerso, si vedeva una sottile colonna di fumo alzarsi nella limpida e tranquilla atmosfera. - Che sia qualche nave da guerra in cerca di noi? - chiese Yanez, - o un pacifico piroscafo in rotta per Sarawak? - Sospetto più che sia una nave da guerra, - disse Sandokan, che aveva puntato un cannocchiale recatogli da Sambigliong. - Ah! Toh! Sembra che si allontani verso l'ovest; il pennacchio di fumo si è piegato verso la nostra parte. - Che ci abbia scorti? - chiese Tramal-Naik, che li aveva raggiunti. - Come noi ci siamo accorti della sua presenza, è probabile che il suo comandante abbia veduto anche il nostro fumo. - Mi viene un sospetto, - disse Yanez. - Quale? - Che sia qualche esploratore. - È possibile, Yanez, - rispose Sandokan. - Che cosa risolvi di fare? - Seguirlo a distanza. Domani, ai primi albori, ci metteremo in caccia e tanto peggio per lui se appartiene alle squadre del rajah o di Labuan. Passeremo la notte in coperta. Le tenebre che calavano rapidissime non permettevano più di poter scorgere quel pennacchio di fumo, ma il Re del Mare aveva messa la rotta a ponente per seguirlo nella sua rotta. Colle sue poderose macchine era certo di raggiungerlo prima dell'alba e di catturarlo o di affondarlo colle sue formidabili artiglierie. La guardia franca, per precauzione, era stata tenuta in coperta, potendo darsi che durante la notte gravi avvenimenti accadessero. - A dodici nodi! - aveva comandato Sandokan. - Lo seguiremo da presso. Il comando era stato appena dato che il Re del Mare ripartiva colla prora a ponente. La notte era splendida, una vera notte tropicale piena di fascino e d'incanto, come solo si possono vedere in quelle regioni delle calme quasi eterne. Quantunque il sole fosse scomparso da parecchie ore, pareva che avesse lasciato dietro di sè una porzione della sua luce, perchè nel firmamento non regnava oscurità completa. Un vago chiarore, scialbo, d'una trasparenza incredibile, regnava lassù e si proiettava sulle acque dell'oceano, permettendo agli uomini di quarto di spingere i loro sguardi a distanze infinite. Le acque, tratto tratto, parevano incendiarsi. Dai profondi abissi del mare salivano a battaglioni le meduse, mentre gli splendidi anemoni schiudevano le loro brillanti corolle rosee, bianche azzurre, gialle e violette, ondeggiando mollemente le loro frange sfolgoranti. In mezzo a quelle ondate di luce sottomarina, di quando in quando si vedevano scivolare dei mostri, i quali spargevano il terrore e la confusione fra quei molluschi. Ora erano dei charcharias, pericolosi e sempre affamati squali; ora dei calamari giganti dal becco da pappagallo, gli occhi glauchi e fissi e i tentacoli coperti da ventose. Ora invece, una massa enorme appariva bruscamente a galla, lanciando in alto spruzzi fiammeggianti e ricadendo poi con un tonfo cupo. Era una balenottera dal dorso nero-verdastro, lunga una quindicina di metri, cetaceo ancora abbastanza comune nei mari intertropicali, nonostante la caccia accanita delle navi baleniere. Sandokan e Yanez, quantunque la giornata fosse stata assai faticosa e nessun pericolo, almeno apparentemente, minacciasse la loro nave, non si erano coricati. Non era già per godersi quella splendida notte, nè per ammirare i fulgori variopinti degli anemoni, spettacoli oramai troppo noti a loro, vecchi naviganti dei mari della Malesia. Un segreto timore li tratteneva sul ponte. Camminavano con una certa agitazione, fermandosi sovente per fissare i loro sguardi verso ponente. Quel fumo li preoccupava vivamente, temendo che quel legno fosse l'avanguardia di qualche flottiglia. - Hai scorto qualche cosa? - chiese Yanez, verso la mezzanotte, vedendo Sandokan arrestarsi per la decima volta e puntare il cannocchiale verso ovest. - Io giurerei d'aver veduto, alcuni minuti or sono, un punto bianco, splendidissimo, brillare nella direzione ove è scomparso quel pennacchio di fumo, - rispose la Tigre. - Il fanale del trinchetto di quella nave oppure una stella? - No, Yanez: nè l'uno nè l'altra. Poi, dopo una breve pausa, riprese: - Credi tu che la squadra di Labuan non ci cerchi? Non sarà certo rimasta inoperosa a Victoria, dopo la nostra dichiarazione di guerra. - Colla velocità che possediamo, non ci sarà difficile lasciarla indietro. - Ed il carbone ci mancherà presto, - rispose Sandokan. - Le nostre carboniere sono ormai semi-vuote. - Ci riforniremo a spese del rajah. - Se potremo giungere alla foce del Sarawak. - Che cosa temi? Sandokan non rispose. Guardava attentamente sempre verso ponente, percorrendo tutta la linea dell'orizzonte. Ad un tratto abbassò il cannocchiale. - Un lampo, - disse. - Dove, Sandokan? - È brillato nella direzione presa da quella nave. Mi parve un lampo di luce elettrica. - Sì, signore, - confermò l'americano Horward, che per un momento aveva lasciato la sala delle macchine. - L'ho scorto anch'io. - Che quella nave corrisponda con qualche altra? - chiese Yanez. - È quello che temo. - rispose Sandokan. - Fortunatamente l'orizzonte è chiaro e vedremo subito il nemico. Signor Horward, date ordine in macchina che si preparino a portare la nostra velocità a quattordici nodi. Sono curioso di sapere chi potrà gareggiare con noi. - L'americano aveva appena trasmesso il comando, quando un nuovo lampo balenò nella direzione di prima. Pareva che una lampada elettrica di grande potenza, avesse proiettato un ampio fascio di luce sull'oceano. Un momento dopo una sottilissima striscia di fumo s'alzò sull'orizzonte. - Un razzo, - disse Yanez. - Sono due navi che corrispondono e una deve essere quella che è fuggita al nostro avvicinarsi. Segnala di certo la nostra rotta. - Signor Sandokan, - disse l'americano. - Se non m'inganno vedo un punto nero scorrere sull'oceano. Sta attraversando un tratto d'acqua fosforescente. - Un punto! Allora non può essere una nave. - E che si muove con rapidità straordinaria, a quanto pare. - Che sia qualche scialuppa a vapore? Allungò nuovamente il cannocchiale, mantenendolo orizzontale per qualche minuto. Il punto nero, che ingrandiva rapidamente, aveva attraversato la zona fosforescente confondendosi colla tinta cupa delle acque, ma più oltre ve n'era una seconda formata da migliaia di nottiluche, di anemoni e di meduse. - Sì, sembra una grossa scialuppa a vapore, - disse Sandokan. - Non è che a duemila metri. La manderemo a far compagnia alle meduse. Mastro Steher!

. - Abbiamo l'anglo-indiano dinanzi. Cercheremo di affondargli una seconda volta la nave. Darma, Surama! Le due fanciulle erano uscite dalla torretta. - Si propone a voi di salvarvi su quelle navi, - disse Sandokan. - Accettate voi? Una scialuppa è pronta. - Mai! - risposero energicamente le due fanciulle. - Pensateci. - No, - disse Darma. - Non lascerò nè voi, nè mio padre. - Comunicate la loro risposta, - comandò Yanez. Un quartiermastro americano segnalò subito. Allora si videro salire lentamente sugli alberetti di maestra dei quattro incrociatori, quattro bandiere nere. Un colpo di vento le allargò mostrando nel mezzo, in giallo, una mostruosa figura con quattro braccia che tenevano nelle mani degli strani emblemi. Un grido di stupore ed insieme di furore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Sandokan e di Tremal-Naik. Avevano riconosciuto l'emblema dei thugs, degli strangolatori indiani. Erano dunque quelle le navi del figlio di Suyodhana, del loro implacabile e invisibile nemico? Quelle bandiere lo confermavano. A bordo del Re del Mare successe un lungo silenzio, tanto era lo stupore che aveva invaso tutti, poi la voce metallica di Sandokan lo ruppe bruscamente: - Fuoco! Fuoco! Fuoco! Spaventevoli detonazioni coprono le sue ultime parole. Le granate piovono da tutte le parti sul Re del Mare, che il flusso ha insensibilmente portato verso il banco di Vernon e che si trova sempre immobilizzato coi fuochi spenti. Sono uragani di ferro e d'acciaio che escono dai grossi pezzi della coperta e da quelli di medio calibro delle batterie: ma non sono diretti sul ponte del Re del Mare dove si trovano, entro la torretta blindata, Darma e Surama. Quelle masse metalliche battono invece solamente i fianchi dell'incrociatore, come se gli artiglieri avessero ricevuto l'ordine di risparmiare le fanciulle, i due comandanti e Tremal-Naik che sono con loro. Delle granate vengono però lanciate contro le torri che riparano i grossi pezzi da caccia, cercando d'imbroccarli o di frantumare le grosse piastre di ferro. Il Re del Mare si difende furiosamente. È un vulcano che fiammeggia da tutte le parti. Le ultime tigri di Mompracem sono ben risolute a far pagar cara la vittoria allo strapotente nemico. I suoi grossi obici battono in breccia le navi avversarie, danneggiando i ponti, squarciando le ciminiere e aprendo larghi fori nelle piastre metalliche. In mezzo a quel rimbombo assordante, si ode tratto tratto la voce formidabile di Sandokan che urla: - Fuoco, tigri di Mompracem! Distruggete, massacrate! Ma quanto potrà resistere il Re del Mare al tiro terribile di tante bocche da fuoco? I suoi fianchi, quantunque solidissimi, dopo mezz'ora cominciano a cedere; anche i suoi pezzi uno ad uno vengono smontati e ridotti al silenzio. Le sue torri, ad eccezione della torretta di comando, sempre risparmiata, cominciano a sfasciarsi sotto quella pioggia incessante di granate, e nelle batterie i morti si accumulano. Sandokan e Yanez, chiusi nella torretta, contemplano quel terribile spettacolo, calmi e sereni. Il primo si morde di quando in quando le labbra a sangue; il secondo fuma flemmaticamente la sua eterna sigaretta e sembra solamente un po' commuoversi, quando il suo sguardo s'incontra con quello di Surama. Darma, seduta in un angolo, su un mucchio di cordami, a fianco di Tremal-Naik, colle mani appoggiate agli orecchi per attenuare il rombo assordante delle grosse artiglierie, sembra che guardi nel vuoto. D'improvviso, il Re del Mare, sollevato da una forza misteriosa, sobbalza da prora a poppa, mentre una enorme colonna d'acqua si rovescia sulla sua coperta spazzandola. Tutto il suo scafo vibra e sembra sfasciarsi come se scoppiassero le munizioni del Re del Mare. Horward, l'ingegnere americano, si precipita in quel momento entro la torretta, pallido, esterrefatto: - Hanno torpedinato il Re del Mare! - grida. - Coliamo a fondo! Grida selvagge salgono dalle batterie, confondendosi cogli ultimi spari dei due pezzi da caccia della coperta, ancora servibili. Il fuoco cessa bruscamente sulle quattro navi nemiche. Sandokan volge un triste sguardo ai suoi due compagni, poi dice: - Ecco il momento supremo: la tomba è aperta per le ultime tigri di Mompracem. Alza Darma ed esce dalla torretta, seguìto da Yanez, da Tremal-Naik e da Surama, e si arresta al di fuori a guardare la sua nave. Povero Re del Mare! La superba nave che ha resistito a tante prove e che pareva invincibile, non è più che una carcassa affondante. Ondate di fumo sfuggono dai boccaporti dai quali irrompono, neri di polvere e lordi di sangue, gli uomini delle batterie. - Una scialuppa in mare! - comanda Sandokan. - Non occuparti di noi. Gli equipaggi degli incrociatori vengono a raccoglierci. Infatti numerose imbarcazioni si staccano dai fianchi delle navi vittoriose ed accorrono a forza di remi. Nella prima si vede sir Moreland, il quale sventola un fazzoletto bianco. La scialuppa, montata dalle due fanciulle, da Tremal-Naik, da Kammamuri e da quattro rematori, s'allontana dal Re del Mare perchè la nave affonda sempre. - Ed ora, - disse Sandokan con un gesto superbo, - lassù, avvolto nella mia bandiera. Vieni Yanez: tutto è finito. - Bah! - fece il portoghese, gettando in aria una boccata di fumo. - Non si può mica vivere all'infinito. Attraversarono il ponte ingombro di frammenti di palle e di granate e salirono sulle griselle dell'albero militare, arrestandosi sulle piattaforme. In lontananza, Tremal-Naik, Darma e Surama facevano cenno a loro di gettarsi in acqua. Risposero con un saluto della mano e un sorriso. Poi Sandokan, strappando la sua rossa bandiera che gli sventolava sopra la testa, si avvolse fra le sue pieghe, dicendo: - È così che muore la Tigre della Malesia. Sotto di loro, gli ultimi Tigrotti di Mompracem, un centinaio circa, per maggior parte feriti, aspettavano, impassibili e silenziosi, che il gran gorgo li aspirasse, tenendo gli sguardi fissi sui loro due capi. Il Re del Mare affondava lentamente, vibrando, e si udivano le acque a muggire cupamente entro la stiva. Le scialuppe degli incrociatori facevano sforzi disperati per giungere in tempo a raccogliere quei naufraghi, votatisi volontariamente alla morte. Quella di sir Moreland era sempre la prima ed era subito seguìta da quella montata da Tremal- Naik e dalle due fanciulle che tornava verso la nave, avendo l'indiano compreso il disegno disperato dei suoi vecchi amici. Sandokan, sempre avvolto nella sua bandiera, li guardava impassibile, con un superbo sorriso sulle labbra. Yanez, colla fronte un po' corrugata, fumava la sua ultima sigaretta colla sua calma abituale. Quando le acque cominciarono ad invadere la coperta, il portoghese lasciò cadere la sigaretta quasi finita, dicendo: - Va' ad aspettarmi in fondo al mare! Ad un tratto, quando pareva che lo scafo dovesse tutto sommergersi, la discesa di quella enorme massa cessò bruscamente. Il flusso che aveva spinto la nave verso l'est, doveva averla portata addosso al banco di Vernon, più di quanto l'equipaggio supponeva e la chiglia doveva essersi indubbiamente posata sul fondo. Ed infatti, nel momento in cui le due scialuppe montate una da sir Moreland e da sei marinai indiani e l'altra da Tremal-Naik, Darma e Surama coi rematori malesi giungevano sotto la scala di babordo, lo scafo s'inclinava dolcemente a tribordo coricandosi di sul fianco. Sir Moreland, vedendo la nave ormai immobile, erasi affrettato a salire sul ponte, seguìto subito da Tremal-Naik e dalle due fanciulle. Yanez si era voltato verso Sandokan, la cui faccia appariva assai abbuiata. - Nemmeno la morte ci vuole, - gli disse. - Che cosa vuoi fare? Si sbarazzò della bandiera e scese lentamente la grisella, colla maestà d'un re che scende i gradini d'un trono e si fermò dinanzi a sir Moreland, dicendogli: - Ebbene? Che volete fare di noi? L'anglo-indiano, che pareva in preda ad una viva commozione, si levò il berretto salutando i due eroi della pirateria, poi disse con nobiltà: - Permettetemi una parola, prima, signori. Prese per una mano Darma, che era salita a bordo con Surama e, conducendola dinanzi a Tremal-Naik, gli disse: - Io l'amo ed ella m'ama: io non potrei vivere senza vostra figlia, eppure i numi dell'India sanno quanto io ho fatto per dimenticarla. Colmate con una vostra parola il rivo di sangue che mi separava da voi onde il grido terribile del mio assassinato genitore si spenga per sempre. La sua anima mi è comparsa ieri notte e mi ha detto di perdonare a tutti! - Che cosa dite, sir Moreland? Di qual genitore parlate? - chiese Tremal-Naik, con angoscia. - Darma, mi amate? - chiese sir Moreland, senza rispondere all'indiano. - Sì, immensamente, - rispose la fanciulla arrossendo e abbassando gli occhi. - La guerra è finita fra noi, - disse sir Moreland, - e la macchia di sangue è cancellata. Tremal-Naik benedite i vostri figli. - Ma chi siete voi? - gridarono ad una voce Yanez, Sandokan e Tremal-Naik. - Io sono ... il figlio di Suyodhana! Venite! Siete miei ospiti.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682529
Serao, Matilde 5 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il torrente dell'umanità, da secoli, in ogni giorno e in ogni minuto si è svolto, ora mite, ora forte, ora fragoroso, ora clamante, sul tuo selciato e sui tuoi marciapiedi: e ogni uomo, ogni donna che vi è passato, dolente, ridente, fremente, pieno di vita o pieno di morte, vi ha lasciato una traccia viva e ogni dramma, ogni tragedia, ogni commedia che vi si è svolta, vi ha messo il riflesso di un suo ricordo: e ogni grande o piccolo fantasma della storia che vi è apparso, vi ha messo l'ombra della sua grandezza o della sua piccolezza: e i nostri e noi vi abbiamo lasciato in tanti periodi della nostra esistenza, vi abbiamo lasciato il meglio di noi, un pensiero, un sentimento, un sorriso, una lagrima. Ah se Toledo è la vita istessa, è perchè ognuno le fece questo dono bello e fatale: è perchè glielo diedero i sovrani e il popolo, in tutti i tempi: è perchè glielo diedero i dittatori e la plebe: è perchè glielo diedero i poeti e gli amanti: è perchè tutti gli diedero vita, gli scienziati, i filosofi, gli uomini di Stato, i capi delle fazioni, i capi della folla: tutti, tutti, le donne, gli uomini, i bimbi, i vecchi, i malati, persino i morti di cui le solenni esequie lasciarono la memoria di un nome e di una pompa lugubre. Ah è la vita istessa, Toledo e tutti così l'adorano, fervida di ogni forma alta o bassa, elegante o triviale, ricca o povera, florida o meschina: e tutti la onorano, e tutti l'hanno onorata e non un sovrano, non un imperatore, non un grande che, quì giunto, non ne sentisse il primo palpito largo e forte, nei clamori della gente, salienti clamori sino al cielo sereno! Questo ho io ripensato, con meraviglia, quando ho notato che, per la prima volta, un ospite sovrano giungerà fra noi e penetrerà nella Casa del Re, in corteo nobilissimo, senza esser passato per via Toledo: e questo sentono e se ne rattristano, profondamente, le migliaja di buoni cittadini di via Toledo, delusi nelle loro legittime speranze e centinaja di commercianti e d'industriali che, da tale avvenimento bello e popolare, attendevano non solo pascolo agli occhi, ma onesto vantaggio al loro lavoro. Alte ragioni che noi ignoriamo fecero scegliere un itinerario bello, ma molto più breve: e tagliarono fuori, con involontaria crudeltà, certo, la vita istessa napoletana, l'antichissima e fedele via di Toledo, quella che cosi lealmente: ed entusiasticamente festeggiò i suoi re ed i suoi ospiti, quella che pure, seppe adornarsi di drappi e di ghirlande e fece piover fiori sulle regine e sulle principesse. Alte ragioni! Noi non le conosciamo: e debbono, certo, esser molto forti e molto rispettabili: nè l'itinerario, oramai, può mutarsi. Sia! Ma come a Parigi, subito dopo che i Sovrani d'Italia ebbero attraversata l'Avenue des Champs Elysèes e la inobliabile piazza della Concordia, per recarsi al palazzo degli Affari Esteri, senza toccare il centro di Parigi viva, il cuore di Parigi, la piazza dell'Opera, si trovò modo di farli escire, novellamente, e di far loro attraversare l' Avenue de l'Opèra, si trovi, anche quì, modo di far traversare, ufficialmente, a ora stabilita, il Presidente della Repubblica, per via Toledo, per tutta la via Toledo, tutta quanta: e questa cosa si promulghi: e si contentino, così le giuste aspettative di una strada ove tutto di Napoli si concentra e si esprime: e si dia agli occhi curiosi e dolci di Emile Loubet che viene da una delle più belle città del mondo questo spettacolo inarrivabile. Se il Presidente della Repubblica va via, di quì, senza aver visto la via Toledo, in un pomeriggio di primavera, gremita di gente, addobbata, imbandierata, infiorata, e fluttuante e ondeggiante e tumultuante di folla, è come se non avesse visto Napoli.

Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l' altra parte ; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s'impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest'altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perchè siete ministro? * * * Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l'avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v'è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell'olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole, che portano i nomi delle arti: la Zabatteria, i Coltellai, gli Spadari, i Taffettanari, i Materassari, e via di seguito. Sono, queste viottole - questa è la sola differenza - molto più strette dei Mercanti, ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in modo diverso: di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico. Varie strade conducono dall'alto al quartiere di Porto: sono ripidissime, strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo a ogni bottega bruna, arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove gli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte, cola sempre una feccia di tintura multicolore. Un'altra strada, le così dette Gradelle di Santa Barbara , ha anche la sua originalità: da una parte e dall'altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio, e, per ozio di infelici disoccupate, nel giorno, e per cupo odio contro l'uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe. e tutto resta, su questi gradini, così che la gente pulita non osa passarvi più. Vi è un'altra strada, che dietro l'educandato di San Marcellino, conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano i Lanzieri: veramente non è una strada, è un angiporto, una specie di canale nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un villaggio africano. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è lubrico e lo stomaco spasima. * * * In sezione Vicaria, vi siete stato? Sopra tutte le strade che la traversano, una sola è pulita, la via del Duomo: tutte le altre sono rappresentazioni della vecchia Napoli, affogate, brune, con le case puntellate, che cadono per vecchiaia. Vi è un vicolo del Sole, detto così perchè il sole non vi entra mai; vi è un vicolo del Settimo Cielo, appunto per l'altitudine di una strisciolina di cielo, che apparisce fra le altissime e antiche case. Attorno alla piazzetta dei SS. Apostoli vi sono tre o quattro stradette; Grotta della Marra, Santa Maria a Vertecœli, vicolo della Campana, dove vive una popolazione magra e pallida, appestata dalla fabbrica di tabacco che è lì, appestata dalla propria sudiceria; e tutti i dintorni di Castelcapuano, di questa grande e storica Vicaria, sembrano proprio il suo ambiente, vale a dire putridume materiale e morale, su cui sorge l'estremo portato di questa società povera e necessariamente corrotta: la galera. La sezione Mercato? Ah, già: quella storica, dove Masaniello ha fatto la rivoluzione, dove hanno tagliato il capo a Corradino di Svevia; sì, sì, ne hanno parlato drammaturghi e poeti. Se ne traversa un lembo, venendo in carrozza, dalla Ferrovia, ma si esce subito alla Marina. Al diavolo la poesia e il dramma! In sezione Mercato, niuna strada è pulita; pare che da anni non ci passi mai lo spazzino; ed è forse la sporcizia di un giorno. Ivi è il Lavinaio, la grande fonte, dove si lavano i cenci luridi della vecchia e povera Napoli: il Lavinaio, che è il grande ruscello, dove il luridume viene a detergersi superficialmente; tanto che per insultare bonariamente un napoletano, sul proprio napoletanesimo, gli si dice. - Sei proprio del Lavinaio . Nella sezione Mercato, vi sono i sette vicoli della Duchesca , in uno dei quali, ho letto un dispaccio, vi sono stati in un'ora trenta casi; vi è il vicolo del Cavalcatoio ; vi è il vicolo di Sant'Arcangelo a Baiano . Io sono una donna e non posso dirvi che sieno queste strade, poichè ivi l'abbiezione diventa così profonda, così miseranda, la natura umana si degrada talmente, che vengono alla faccia le fiamme della vergogna. * * * Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà: bisogna rifare. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi le case che sono lesionate dalla umidità, dove al pianterreno vi è il fango e all'ultimo piano si brucia nell'estate e si gela nell'inverno; dove le scale sono ricettacoli d'immondizie; nei cui pozzi, da cui si attinge acqua così penosamente, vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti; e che hanno tutto un pot-bouille, una cosidetta vinella , una corticina interna in cui le serve buttano tutto; il cui sistema di latrine, quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione. Voi non potrete lasciare in piedi le case, nelle cui piccole stanze sono agglomerate mai meno di quattro persone, dove vi sono galline e piccioni, gatti sfiancati e cani lebbrosi; case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto e si muore nella medesima stanza, dove altri dormono e mangiano, case, i cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, carceri criminali della Vicaria, sotto il livello del suolo. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi i cavalcavia che congiungono le case; nè quelle ignobili costruzioni di legno che si sospendono a certe muraglie di case, nè quei portoncini angusti, nè vicoli ciechi, nè quegli angiporti, nè quei supportici; voi non potrete lasciare in piedi i fondaci . Voi non potrete lasciare in piedi certe case dove al primo piano è un'agenzia di pegni, al secondo si affittano camere a studenti, al terzo si fabbricano i fuochi artificiali: certe altre dove al pianterreno vi è un bigliardo, al primo piano un albergo dove si pagano tre soldi per notte, al secondo una raccolta di poverette, al terzo un deposito di cenci. Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la salute e la coscienza a quella povera gente, per insegnare loro come si vive - essi sanno morire, come avete visto! - per dir loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla.

Noi, però, abbiamo una idea solitaria. Contrariamente a quanto si agita in fondo alle coscienze attaccate dal tarlo del bisogno, minate dal desiderio di ogni ricchezza e di ogni potenza, in opposizione a questo comodo e facile cinismo segreto, noi crediamo che l'onore non sia una parola, non sia un soffio vano e che non sia nè bello nè utile fare un gesto, con la mano, e scacciarlo dalla propria vita. Noi crediamo di più: cioè che, con l'onore, si possa anche batter moneta. Ci riesce impossibile di credere che solo i furfanti, solo i ladri si possano arricchire, nella società; accade, questo è vero: accade troppo: ma, dall'altra parte, di fronte a tutta la gente di coscienza ambigua, di carattere equìvoco, di tendenze losche, di fronte a tutta la gente che farebbe ogni cosa, pur di arrivar a tutto, i nostri occhi mortali ne veggono molt'altra che, quìetamente, austeramente, compie la sua parte, nel mondo, crea la sua fortuna e quella altrui senza mancare all'onore. Di fronte a organismi finanziarî che assidono la loro sorte sovra i mille calcoli più sottilmente ingannatori e di cui ogni manifestazione economica rappresenta un marchè de dupes, di fronte a queste compagini che, ormai, si fanno sempre più rare, nel mondo, altre ne vediamo sorgere, prosperare, fra noi, in Europa, lontano, dapertutto, in cui ogni atto è regolato dalla onestà commerciale, dalla lealtà industriale. Per chi vede il minuto presente, per chi sa guardare verso l'orizzonte, verso l'avvenire, può sembrare, forse, che l'onestà sia una cattiva speculazione e che un galantuomo rimanga povero: così è: ma non per tutti: ma non per molto tempo: ma il galantuomo o finisce per vincere il suo orribile destino, o costudisce, come un tesoro, la sua perfetta reputazione. Con l'onore si batte anche moneta, per grazia di Dio! A centinaia, a migliaia ci confortano in questa fede piuttosto solinga ma salda, gli esempi particolari, gli esempi collettivi, in cui la probità, la integrità, la rigorosa scrupolosità furono la sorgente di fortune individuali e di fortune sociali veramente possenti; da ogni lato della terra, nei libri, nei giornali, nelle cronache, nella vita, germogliano queste istorie di prosperità talvolta colossali, basate solo sul lavoro, sulla volontà, sull'intelletto, ma basate, sovra tutto, sulla onestà personale o collettiva. Era naturale al pancione di Windsor, cui giovava restar seduto sotto la pergola della taverna, bevendo vino aromatizzato e giuocando a dadi, di dir che l'onore non vi porta le aune di velluto per far un giustacuore o non paga il conto dell'osteria: è comodo agli ambiziosi moderni pensare fra sè che l'onore non si tramuta in cheques , in palazzi marmorei, in equìpaggi smaglianti, in gallerie di quadri e in collezioni di giojelli. È comodo: ma è falso. Chiunque ha scritto, scrive, o scriverà la storia della ricchezza, la storia dei ricchi, dica se non è falso: e che paesi, società, uomini, mille volte, centomila volte partirono dalle più umili volontà di bene e di onestà per giungere ai più bei fastigi della fortuna, senza aver traviato, giammai. Pensino questo, coloro che, oggi, si adunano, non senza solennità, questi deputati di Napoli, ardentemente desiosi di fare il bene della loro città. Lo pensino: non lascino vacillare un solo istante, la loro coscienza di galantuomini: non manchi loro un solo momento la fiducia nella probità umana, su cui la loro vita si è formata e ha trovato la sua formola. Essi vogliono, i deputati napoletani, la prosperità larga della metropoli mirabile che, dotata di tutte le bellezze, è ancor povera e triste; ma vogliono la sua prosperità insieme all'alto rispetto del suo onore. Sia, sia anzi tutto, l'onore: anzi tutto che coloro i quali saranno i prescelti, per sedere sulle cose del Comune e che, prescelti, saranno additati al voto popolare, abbiano per insegna del loro nome, la specchiatezza del loro carattere: anzi tutto che, dinnanzi all'Italia, dinnanzi all'Europa, ovunque il nome di Napoli sia pronunciato, sia, oramai, per il decoro, per la coscienza di chi la rappresenta, unito a quello della più bella dignità civile: anzitutto che, per convinzione, giammai più il sospetto, l'accusa, la delazione possa colpirla: anzitutto che ovunque esso sia, l'uomo onesto, intelligente, attivo, fattivo, sia il suo lavoro dato a Napoli, giovandole con tutte le sue forze. Quando ciò sia organizzato, con sapienza, con larghezza, prendendo coloro che dovranno essere i futuri amministratori, dovunque si trovino galantuomini e uomini capaci, senza fare viete questioni di partito, di colore, roba vecchia, roba distrutta: quando ciò sia un fatto compiuto, l'onore di Napoli, che si va lentamente ricostruendo, ma con sicurezza, questo onore di Napoli servirà anche a batter moneta,. Quando i capitalisti dell'estero, del nord, sapranno che, contro ogni ostacolo, Napoli ha voluto per suoi magistrati, comunali, i migliori suoi cittadini, quando gli uomini di finanze di tutti i paesi, di tutte le regioni, sapranno che, quì, il sentimento della probità sociale si è rifatto, nelle persone, nelle cose e nei costumi: quando gli industriali di ogni dove, comprenderanno di poter avere fiducia; allora, sì, che ogni piccola o grande pianta della fortuna pubblica, nascerà, germoglierà, fruttificherà in questo suolo fecondo, in questa terra di anime belle. Tutto si farà, quì, dal momento che il buon nome napoletano, che, il decoro della sua cittadinanza, che, tutto il suo onore, infine, sia esaltato: tutto sarà così facile, così semplice, così naturale che il mondo si stupirà. E nell'onore, in questa potenza tutta morale, in questo elemento più puro e, diciamo, più etereo della coscienza sociale, Napoli ritroverà la sua vita, la sua fortuna, la sua ricchezza!

Non è morta una donna, l'anno scorso, il dieci di settembre: si è dileguata la più incomparabile forza spirituale: è scomparsa la miglior parte di noi, quella che riassumeva le tre virtù dell'anima, la carità, la fede, la speranza: abbiamo perduto, con lei il segreto della nostra vita di cristiani operosi e di creature umane degne di questo nome, il senso della tenerezza fraterna, si è spento, in noi, poichè lei, l'Evocatrice, l'Animatrice di tutte le fraterne tenerezze, è spenta Giusto è che, oggi, in un tempio, i maggiori cittadini napoletani e le più pietose donne e quanti sono i più noti che amarono e ammirarono Teresa Ravaschieri, convengano per onorar la sua memoria e per pregar pace a lei. Tali feste funebri solenni, sono assai belle, e commoventi, anche. Ma se io penso che, in quel tempio, dovrebbero entrare tutti coloro che essa ha beneficati, esso è piccolo, troppo piccolo, infinitamente piccolo: la folla dei poveri, degli infelici, degli infermi, degli abbandonati, cui ella provvide di dignitosa elemosina, di ricovero, di sanità recuperata, di cure materne, la folla, a cui ella dette il suo amore e la sua fortuna, il suo tempo e la sua anima, la folla a cui ella dette sè stessa, in un lungo ed entusiasta olocausto, è immensa. Niun tempio la potrebbe contenere e ognuno di costoro, poichè gli oscuri, i derelitti non dimenticano, certo, ogni volta che il suo spirito si effonde nella preghiera, rammenterà il nome di Teresa Ravaschieri. Ed è, forse, più giusto domandare a Lei, dal suo eterno riposo che ella ci preghi pace: assai più giusto che noi, combattuti, trafitti, stanchi, oppressi, senza più guida nell'esistenza, chiediamo pace a Lei. Ella lottò e vinse, nel nome di Dio e nel nome della virtù d'amore che raccoglie tutta l'umanità. Assai prima di morire, ella era in pace. Ella aveva detto a Dio le parole estreme, assai prima di morire: e aveva avuto il dono della pace. È alla nostra nave pericolante, in gran tempesta, nella notte, che bisogna chiedere l'aiuto di uno spirito orante, nella beatitudine celeste: è al nostro naufragio che l'anima eletta deve dar soccorso, dal misterioso mondo delle anime. La grande anima aveva la consuetudine dei miracoli, per la forza della preghiera, e della bontà. Preghiamo che Ella continui! Napoli, autunno 1904

O che memoria labile abbiamo tutti! E la vita quotidiana? Solo a guardarsi attorno, a osservare quello che accade, anche superficialmente, nessuno poteva lusingarsi che la esaltazione religiosa del popolo napoletano fosse cessata. Di questi altarini, con un paio di ceri innanzi, ve ne sono ad ogni angolo di strada, nei quartieri popolari, in certe tali feste. Li fanno i bimbi è vero: ma le madri sorvegliano, le sorelle grandi chiedono l'obolo ai passanti, un po' ridendo, un po' pregando. Per le feste più grandi, con lampioncini alla Ottino e festoni variopinti, il popolino si quota per un anno, e un vicolo la vuol vincere sull'altro: accadono risse, corrono coltellate per questa emulazione. Queste emulazioni sono pittoresche e fanno andare in estasi gli artisti - razza di egoisti - che se ne stanno immersi nella contemplazione del loro Buddha, che è l'arte. Ancora: quando una donna si salva da una grande infermità, per ringraziare Dio, scioglie il voto di andare cercando l'elemosina, per tutte le case del suo quartiere; sale, scende, con le gambe malferme, con la faccia scialba, ricevendo rifiuti secchi e porte battute in faccia. Non importa, bisogna sopportare, è il voto. Tutto quello che raccoglie, va alla chiesa. Quando un bimbo è malato, lo votano a san Francesco: quando risana, lo vestono da monacello, con una tonaca grossolana, col cordone, coi piedini nudi nei sandali, con la chierichetta rasa. Chi non ne ha incontrati, nei quartieri popolari? * * * Del miracolo di san Gennaro, fate le alte meraviglie? Quelle vecchie abitanti del Molo che si pretendono sue discendenti, che invadono l'altare maggiore, che non lasciano accostarsi nessuno, gridano il Credo , mentre si attende il miracolo, e ogni volta che ricominciano, alzano il tono, sino all'urlo, che si dimenano come ossesse, che lo gratificano di vecchio dispettoso, vecchio impertinente, faccia verde ; vi stupiscono? Vi è il piede di sant'Anna che si mette sul ventre delle partorienti, che non possono procreare il figlio; vi è l'olio che arde nella lampada, innanzi al corpo di san Giacomo della Marca, nella chiesa di Santa Maria la Nuova, che fa guarire i mali di testa; vi è il Crocifisso del Carmine che ha fatto sangue dalle piaghe; vi è il bastone di san Pietro che si venera nella chiesa sotterranea di Sant'Aspreno, primo vescovo di Napoli, ai Mercanti; vi è l'acqua benedetta di San Biagio ai Librai che guarisce il mal di gola; vi sono le panelle, pagnottine di pane benedette di San Nicola di Bari, che buttate in aria, nel temporale, scampano dalle folgori. Vi sono centinaia di ossicini, di pezzetti di velo, di pezzetti di vestito, di frammenti di legno, che sono reliquie. Ogni napoletana porta al collo o sospeso alla cintura, o ha sotto il cuscino, un sacchettino di reliquie, di preghiere stampate: questo sacchettino si attacca alle fasce del bimbo, appena nato. Credete che al napoletano basti la Madonna del Carmine? Io ho contati duecentocinquanta appellativi alla Vergine, e non sono tutti. Quattro o cinque tengono il primato. Quando una napoletana è ammalata o corre un grave pericolo, uno dei suoi, si vota a una di queste Madonne. Dopo scioglie il voto, portandone il vestito, un abito nuovo, benedetto in chiesa, che non si deve smettere, se non quando è logoro. Per l'Addolorata il vestito è nero, coi nastri bianchi; per la Madonna del Carmine, è color pulce coi nastri bianchi; per l'Immacolata Concezione, bianco coi nastri azzurri; per la Madonna della Saletta, bianco coi nastri rosa. Quando non hanno i danari per farsi il vestito, si fanno il grembiule; quando mancano di sciogliere il voto, aspettano delle sventure in casa. E il sacro si mescola al profano. Per aver marito, bisogna fare la novena a san Giovanni, nove sere, a mezzanotte, fuori un balcone, e pregare con certe antifone speciali. Se si ha questo coraggio, alla nona sera si vede una trave di fuoco attraversare il cielo, sopra vi danza Salomè, la ballerina maledetta: la voce che si ode, subito dopo, pronunzia il nome del marito. Anche san Pasquale è protettore delle ragazze da marito e bisogna dirgli per nove sere l'antifona: O beato san Pasquale - mandatemi un marito - bello, rosso, colorito - come voi tale e quale - o beato san Pasquale! - Anche san Pantaleone protegge le ragazze, ma in diverso modo: dà loro i numeri del lotto, perchè si facciano la dote, e si possano maritare. Nove sere bisogna pregarlo, a mezzanotte, in una stanza, stando sola, col balcone aperto e la porta aperta, e dopo gli Ave e i Pater dirgli questa antifona: san Pantaleone mio - per la vostra castità - per la mia verginità - datemi i numeri, per carità! Alla nona sera si ode un passo, è il santo che viene, si odono dei colpi, sono i numeri che dà. Alla quarta o quinta sera di questi strani riti, le ragazze sono tanto esaltate, che hanno delle allucinazioni e cadono in convulsioni. Alcune affermano di aver visto e di aver udito qualche cosa, alla nona sera: ma che mancò loro la fede e il miracolo non è riuscito. Tutte le superstizioni sparse pel mondo, sono raccolte in Napoli e ingrandite, moltiplicate. Noi crediamo tutti quanti alla jettatura . Non parliamo dell'olio sparso, dello specchio rotto, del cucchiaio in croce col coltello, della sottana posta alla rovescia che porta sfortuna, dei soldi mercati (gobbi), dei ragni, degli scorpioni, della gallina: superstizioni vecchie, chi se ne occupa? I napoletani credono ancora alle sibille: vi è una Chiara Stella alle Cento Strade, verso il Corso Vittorio Emmanuele, vi è una siè Grazia al Vicolo Mezzocannone, famosissime; e molte altre minori. Si compensano cinquanta centesimi, due lire, cinque lire. I napoletani credono agli spiriti . Lo spirito familiare napoletano che circola in tutte le case, è il monaciello , un bimbetto vestito di bianco quando porta fortuna, vestito di rosso, quando porta sventura. Una quantità di gente mi ha affermato di averlo visto. In piena Napoli, alla salita di Santa Teresa, una bellissima palazzina non si affitta mai: per vent'anni l'ho vista chiusa, poichè è abitata dagli spiriti. Il napoletano crede agli spiriti che dànno i numeri, crede agli assistiti : gli assistiti sono una razza di gente stranissima, alcuni in buona fede, alcuni scrocconi, che mangiano poco, bevono acqua, parlano per enigmi, digiunano prima di andare a letto e hanno le visioni. Vivono alle spalle dei giuocatori: non giuocano mai. Talvolta i giuocatori delusi bastonano l' assistito , poi gli chiedono perdono. Anche i monaci hanno le visioni. Ve n'era uno famoso, a Marano presso Napoli: vi andava la gente in pellegrinaggio. Un altro giovane, era al convento di San Martino: anche famoso. Talvolta i giuocatori sequestrano il monaco, lo battono, lo torturano. Uno ne morì. Prima di spirare, pronunziò dei numeri: li giuocarono, uscirono, mezza Napoli vinse al lotto, poichè un giornale aveva riportati questi numeri. Il popolo napoletano, specialmente le donne, crede alla stregoneria. La fattura trova apostoli ferventi: le fattucchiere , o streghe, abbondano. Una moglie vuole che suo marito, che va lontano, le resti fedele? La strega le dà una cordicella a nodi, bisogna cucirla nella fodera della giacchetta del marito. Si vuole avere l'amore di un uomo? La fattucchiera brucia una ciocca di capelli vostri, ne fa una polverina, con certi ingredienti: bisogna farla bere nel vino, all'uomo indifferente. Si vuol vincere un processo? Bisogna legare, moralmente, la lingua dell'avvocato contrario: fare quindici nodi ad una cordicella, chiamare il diavolo, uno scongiuro terribile. Si vuol far morire un amante infedele? Bisogna colmare un pignattino di erbe velenose, metterle a bollire innanzi alla sua porta, nell'ora di mezzanotte. Si vuol far morire una donna, una rivale? Bisogna conficcare in un limone fresco tanti spilli che formino un disegnino della sua persona, e attaccarvi un brano del vestito della rivale e infine buttare, questo limone, nel suo pozzo. La fattura ha uno sviluppo larghissimo; letteratura strana, talvolta ignobile, di scongiuri, e di preghiere; ha una classificazione, per le anime timide e per le anime audaci: ha una diffusione in tutti i quartieri; ha un soccorso per tutte le necessità sentimentali e brutali, per tutti i desideri gentili e cruenti. Ecco tutto. Cioè, non è tutto. Esagerate venti volte quello che vi ho detto: forse, non sarete nel vero. Questo guazzabuglio di fede e di errore, di misticismo e di sensualità, questo culto esterno così pagano, questa idolatria, vi spaventano? Vi dolete di queste cose, degne dei selvaggi? E chi ha fatto nulla per la coscienza del popolo napoletano? Quali ammaestramenti, quali parole, quali esempi, si è pensato di dare a questa gente così espansiva, così facile a conquidere, così naturalmente entusiasta? In verità, dalla miseria profonda della sua vita reale, essa non ha avuto altro conforto che nelle illusioni della propria fantasia: e altro rifugio che in Dio.

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