Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l'uso di famiglia

323076
Lazzari Turco, Giulia 3 occorrenze
  • 1904
  • Tipografia Emiliana
  • Venezia
  • cucina
  • UNIFI
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. — Sciogliete un pezzo di burro d'acciughe come una grossa noce, con 50 gr. di burro semplice, aggiungetevi 40 gr. di farina, rimestate al fuoco, diluite con brodo di pesce o consommé e con 2 cucchiai di vino bianco, formate una pappina, unitevi degli avanzi di pesce cotto e passato allo staccio, un cucchiaio di capperi triti, un po' di pepe e 2 tuorli d'uovo, stendete il composto (dopo averlo bene amalgamato) sopra un tagliere e il giorno seguente formate le crocchette come abbiamo visto nelle precedenti ricette.

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. — Preparata la testina come abbiamo detto nella precedente ricetta le leverete con cura gli ossi perchè non si sciupi e la empirete con un ripieno di carne, il quale sarà tanto più gustoso quanto più fino e variato, servendovi d'un fondo di vitello passato dalla macchina (chilog. 1, 1.25 circa) misto con fettine di funghi, di tartufi, di lingua di manzo salata e cotta, con la lingua stessa del vitello cotta a parte, con del buon cervello scottato, pulito e passato allo staccio e qualche cucchiaio di erbe fine ecc. ecc. tutto questo legato con del denso sugo di carne e un pajo di tuorli d'uovo. Ricuocete poi la testina, avviluppatela in sottili fette di lardo e di prosciutto legandola con delle cordicelle, collocatela in un grande tegame, con molte verdure, coprite la testina di brodo o d'acqua mista con estratto Liebig o Maggi, unitevi 2-3 cucchiai d'aceto bianco, un po' di vino secco, e cuocete 3 ore circa.

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Poi mettetela nella sorbettiera, passandola da uno staccio, e lavoratela come abbiamo detto nei preliminari.

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IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

660117
Capuana, Luigi 6 occorrenze

Abbiamo smarrita la strada. - Non mi riconoscete? - Non vi abbiamo mai vista. - Sono la Fortuna. Che volete? Chiedete e vi sarà dato. I ragazzi si consultarono, imbarazzati. - Che chiedere? Ricchezze? Gliele ruberebbe il primo che capitava; non si potevano difendere. Se potesse farci diventar grandi, e darci un po' di denaro, tanto da non dover star a servizio in casa altrui! - Nient'altro? - Nient'altro. - Prendete; mangiate queste due focacce, e poi schiacciate queste due noci. Vedrete. E sparì. Mangiarono le focacce e si addormentarono. La mattina, svegliandosi, si avvidero di esser cresciuti di una ventina d'anni almeno; ma non si riconoscevano. - Chi siete? Che fate qui? - Sono una boscaiola. Faccio legna. E voi? - Sono un boscaiolo; faccio carbone. - Ho una noce: è la Fortuna. - Ne ho un'altra anch'io. Le schiacciarono e ne sgusciarono fuori tante monete d'oro, nuove di zecca. - Questa è la mia dote. - E questa è la mia. Si sposarono, e lavoravano da mattina a sera. Lei faceva legna e lui faceva carbone. Ma era una vita dura. Pure mettevano sempre qualcosa da parte. - Ci servirà per quando saremo vecchi. Spesso si lamentavano: - Che vitaccia! E contavano i quattrini già messi da parte. Erano molti, non però ancora abbastanza da potere passar bene la vecchiezza. - Quando saremo vecchi, ci riposeremo. - C'è ancora tempo, marito mio. Una notte udirono rumore attorno alla capanna, e voci cupe che dicevano: - Tu qua; tu là; io dalla porta, tu dal tetto! - Oh, Dio! Sono i ladri. Marito e moglie si sentirono gelare. Uno scassinava la porta, uno sfondava il tetto: - Non vi muovete o siete morti! Dove sono i quattrini? Erano più morti che vivi soltanto per lo spavento di quelle facce barbute che gli appuntavano i pugnali alla gola: - Dove sono i quattrini? - Eccoli lì. I ladri fecero repulisti e andarono via. La mattina dopo marito e moglie non avevano forza di lavorare e piangevano in mezzo al bosco: - Poveri a noi! Come faremo? - Che avete, buona gente? Perché piangete? - Ah, nonnina! La notte scorsa siamo stati spogliati dai ladri! - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Il meglio sarebbe stato una tranquilla vecchiezza, con tanto da non stentare fino alla morte. - Nient'altro? - Nient'altro. - Ecco qui. Mangiate queste due pere e vedrete. In questa borsa poi ci sarà sempre del denaro. Più ne spenderete e più ne troverete. Prima che le dicessero grazie, era sparita. Marito e moglie mangiarono ognuno la sua pera e si addormentarono. Allo svegliarsi, strascicavano i piedi. E si ricordavano di ogni cosa passata. - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita! Non metteva conto. Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Erano tornati ad abitare la loro casa d'una volta. Si mettevano al sole davanti la porta e stavano lì lunghe ore a guardare i bambini che facevano chiasso. - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita. Non metteva conto. Già, farne un'altra sarebbe stato lo stesso. Fanciulli, giovani, vecchi! O poveri o ricchi, s'invecchia tutti; e tutti dobbiamo morire! Spendevano e spandevano; mangiavano bene, si prendevano ogni sorta di divertimenti, e non avevano nessun pensiero dell'avvenire; la loro borsa era sempre piena; più quattrini ne cavavano e più ce n'era. Sarebbero stati felici, se non li avesse angustiati il pensiero fisso della morte. Ogni giorno che passava, era un passo verso la sepoltura. Non se ne davano pace. Una mattina stavano seduti, al solito, davanti la porta per godersi il sole. - Chi sa, marito mio, se rivedremo il sole domani! - Eh, chi lo sa, moglie mia! Videro accostarsi una vecchina: - Fate la carità! - Siete più vecchia di noi; quant'anni avete? - Gli anni miei non si contano. Non può contarli nessuno. La guardavano sbalorditi. - E camperete molt'altri anni ancora? - Finché ci sarà mondo. - Chi siete? - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Prima di mill'anni, non ripasserò da queste parti. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Gioventù, ricchezze, tutto passava, tutto andava via. Se non si potesse morir mai! L'unica felicità sarebbe questa. - Se non chiedete altro; vi sarà concessa. - Non chiediamo altro. - Ecco qui. E porse una boccettina con poche gocce di un liquore rosso dentro, che pareva sangue. - Bevete, e vedrete. Prima che potessero dirle grazie, era sparita. - Berrò io il primo. - No, berrò io. - Sono il marito; devo bere il primo. - Sono donna, perciò tocca a me. - Facciamo come l'altra volta; dividiamo le gocce. - Dividiamole; sarà meglio. Le divisero e bevvero. Si sentirono diventare quasi di acciaio. - Oh, che felicità, moglie mia! Non morremo mai! - Oh, che felicità, marito mio! Non morremo mai! Passarono più di cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, curvi, canuti, tutti grinze, senza denti, coi piedi strascicanti, e ogni giorno stavano lunghe ore davanti la porta, al sole, a guardare i bambini che facevano il chiasso: - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Ma non erano però così contenti come avevano creduto di dover essere. Tutto cangiava attorno a loro, tutto moriva attorno a loro. Non si potevano affezionare a nulla e a nessuno, che già se lo vedevano portar via dalla morte. Passarono più di mille anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora, sedendo davanti la porta al sole, non badavano più ai bambini che facevano il chiasso; non ripetevano più: Ricordi, marito mio? Ricordi, moglie mia? Sbadigliavano: - Oh, Dio, che noia! - Sempre la stessa storia! Non ne potevano più. Avevano visto tante e tante cose, tanta gente, tanti avvenimenti: guerre, fami, pestilenze, feste d'ogni sorta, cose belle, cose tristi, tante, tante, tante! Ma, infine, gira e rigira un continuo nascere, un continuo morire; gira e rigira, sempre quella! Non ne potevano più; si sentivano sazii di esser vissuti tanto, stanchi di vivere ancora. - Che facciamo, moglie mia! Io vorrei morire. - Anch'io. Chiamiamo la morte. Se non la chiamiamo, non viene. E la chiamarono ad alta voce: - O Morte! O Morte! Accorse, scheletrita, con la falce in mano. - Che volete da me? - Vogliamo morire. - Non posso toccarvi; la Fortuna non vuole. Si sentirono stringere il cuore. Passarono altri cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora non si vedevano più neppure avanti la porta per godersi il sole: erano sazii anche di esso che appariva tutte le mattine dalla stessa parte e andava a coricarsi tutte le sere nella stessa parte. Il sole però non si annoiava mai, non si stancava mai! - Noi no, è vero, moglie mia? - Sì, è vero, marito mio! - E la Fortuna non si vede più! - Dovrà ripassare. Ripasserà. L'attesero altri cent'anni. Finalmente rivenne e non al solito da vecchina, ma sotto l'aspetto di bellissima donna, con lunga veste cosparsa di oro, di perle, di diamanti. Non la riconobbero. - Chi siete? - Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. - Ah Fortuna, Fortuna! Non vogliamo nulla; vogliamo morire! - Va bene; uno oggi e subito subito, l'altro fra cent'anni. - Perché non insieme? - Non si può; uno oggi, subito subito, l'altro fra cent'anni. - Marito mio, per amor tuo, scelgo di morire io fra cent'anni. - Moglie mia, per amor tuo, cedo il posto quest'oggi. - Non siete più a tempo! A rivederci fra altri cento anni. E per cento anni, marito e moglie leticarono continuamente: - La colpa è tua. A quest'ora saremmo bell'e morti e dormiremmo in pace sottoterra! - La colpa è tua! Ah! Perché non abbiamo lasciato andare le cose pel verso loro. Contavano i giorni, le ore, i minuti, e leticavano fin sul conto di essi, tanto smaniavano di veder arrivare la Fortuna. - Eccomi. Chiedete e vi sarà dato. - Ah, Fortuna, Fortuna! Non vogliamo niente: vogliamo morire; non ne possiamo più! - Vado a chiamare la Morte. I vecchietti, contentissimi, imbandirono una bella tavola, e indossarono gli abiti di festa. La gente, meravigliata, domandava: - Che vi accade, vecchietti? - Oggi le cose tornano ad andare pel verso loro. É il verso giusto, tenetelo a mente! E caddero bocconi, freddi stecchiti. La Morte era arrivata senza ch'essi se ne accorgessero. Fiaba oscura, nespola dura La paglia e il tempo ve le matura.

. - Abbiamo fame! Abbiamo fame! Il Re corse ad aprire; gli arnesi stavano al loro posto per terra, dove li avevano buttati alla rinfusa. Appena richiuso l'uscio, rumore daccapo, strilli e pianti: - Abbiamo fame! Abbiamo fame! Per quella notte il Re non poté dormire neppure un minuto. La sera appresso fu peggio. Il Ministro disse: - Maestà, proviamo a dar loro da mangiare. La sega segava, la pialla piallava, il martello martellava, il succhiello succhiellava, la tanaglia attanagliava. - Chetatevi, in nome di Dio! Ecco qui da sfamarvi. E chiusero l'uscio. Ed ecco, acciottolìo di piatti, tintinnìo di bicchieri, rumore di argenteria e di coltelli smossi, quasi lì dentro stessero ad apparecchiare una gran tavola; e poi, risa e strilli: - Tu mi conci! Tu mi strappi! Tu mi inzuppi. Un portento. - Oh, Mastro Acconcia-e-guasta dev'essere un Mago! Il Re spedì le guardie e se lo fece condurre davanti: - Che è questo, Mastro Acconcia-e-guasta? I vostri arnesi parlano e mangiano; come mai? Colui si strinse nelle spalle, e tirò una presa di tabacco. - Se non svelate il mistero, vi faccio tagliare la testa. - Che mistero o non mistero, Maestà! Essi sono i miei figli. - E perché ridotti in quello stato? - Per aiutarmi a buscarci il pane. Il Re gli credette, e ordinò che gli restituissero ogni cosa. - Badate però di non dire più: Ho la bocca come lui! Ve ne pentirete. Mastro Acconcia-e-guasta riprese a lavorare. Ma gli avventori diventarono scarsi; la gente avea paura di aver che fare con lui. Invano egli andava attorno per le vie, gridando a ogni quattro passi: - C'è Mastro Acconcia-e-guasta! Chi ha roba da guastare e da acconciare! Nessuno lo chiamava. - E ora come farete, Mastro Acconcia-e-guasta? - Finché c'è colla, s'ingolla! Infatti di colla in bottega n'aveva una catasta. Di giorno in giorno però essa veniva mancando. Mangia oggi, mangia domani, colla non ce ne fu più. - E ora come farete, Mastro Acconcia-e-guasta? Mastro Acconcia-e-guasta alzava le spalle e tirava su grandi prese di tabacco. Il Re aveva sei figliuoli, tre maschi e tre femmine, tutti belli e di ottima salute. Ma appunto in quei giorni si ammalarono tutti e sei, e il medico non capiva di che male. Languivano, senza appetito, senza poter tollerare il più leggiero cibo nello stomaco. Consulti dietro consulti, medicine, intrugli d'ogni sorta non giovavano a niente. La figliuola maggiore morì. Mentre la portavano a seppellire, ecco Mastro Acconcia-e-guasta, con una cassettina da morto su la spalla che andava dietro l'accompagnamento: - Chi vi è morto, Mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morta Seghina! Il giorno dopo morì uno dei maschi; e mentre lo portano a seppellire, ecco Mastro Acconcia-e-guasta, con una cassettina da morto su la spalla, che andava dietro l'accompagnamento: - Chi vi è morto Mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morto Martellino! Così, ogni giorno, ora moriva un figliuolo, ora una figliuola del Re, e Mastro Acconcia-e-guasta appariva dietro l'accompagnamento con una cassettina da morto su la spalla: - Chi vi è morto, Mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morto Scalpellino! Mi è morta Piallina! Il Ministro, che era furbo, saputo che Mastro Acconcia-e-guasta era stato veduto ogni volta con una cassetta da morto su la spalla dietro l'accompagnamento dei figliuoli del Re, disse: - Maestà, se non volete morti tutti i vostri figliuoli, mandate a chiamare Mastro Acconcia-e-guasta. La disgrazia vi viene da lui. Oramai restava in vita una sola figliuola del Re, ed era già all'agonia. - Ah, Mastro Acconcia-e-guasta, salvate la mia cara figliuola! - Ah, Real Maestà, salvate il mio caro Succhiellino! - In che modo? - C'è un solo modo: farli sposare! Il Re, lì per lì, per amor della figliuola stimò giusto acconsentire: - Poi, gliela farò vedere io, a Mastro Acconcia-e-guasta! - disse fra sé. La Principessa, che era diventata Reginotta perché più non c'erano altri figliuoli, in pochi giorni guarì. Il Re disse a Mastro Acconcia-e-guasta: - Conducete Succhiellino a palazzo. - Badate, Maestà: di giorno sarà proprio un succhiello, la notte no. Per ora, la sua sorte è questa. - E dopo? - Dopo, quando Dio vorrà, sarà altrimenti. - Allora, del matrimonio non ne facciamo nulla per ora. - Come piace a Vostra Maestà. Di tratto in tratto, il Re domandava a Mastro Acconcia-e-guasta: - É ancora succhiello il giorno e la notte no? Ancora, Maestà - Allora del matrimonio non ne facciamo nulla. - Come piace a Vostra Maestà. Gli anni passavano. Il Re era contento che il matrimonio della Reginotta con Succhiello andasse per le lunghe, e si divertiva a canzonare Mastro Acconcia-e-guasta: - Questo è latte che non rappiglia! E voi che Fate, Mastro Acconcia-e-guasta? Ora non avete più arresi e vi rimane soltanto il succhiello. - Racconto fiabe a Succhiellino. Ieri glien'ho raccontata una bella assai. Volete sentirla, Maestà? - Sentiamola, Mastro Acconcia-e-guasta! - C'era una volta un Re che aveva due figliuoli, uno buono e l'altro cattivo. Quello buono era il Reuccio e alla morte del padre doveva essere Re. La cosa non garbava al fratello cattivo. Il Re si turbò, e lo interruppe: - La vostra fiaba non mi piace. - State a sentire, Maestà: il bello comincia qui. Dunque, al cattivo non garbava e pensò di disfarsi del fratello buono, per diventare Re lui alla morte del padre. Disse al fratello: "Andiamo a caccia". E andarono. Quando furono in un bosco, lontani dalle persone del séguito, cava fuori la spada e dà addosso al fratello che non si aspettava il tradimento. Il Re si turbò maggiormente, e lo interruppe: - No, no, la vostra fiaba non mi piace. - Ecco il più bello, Maestà; state a sentire. Egli credeva di averlo ammazzato, e lo lasciò lì per morto dopo averlo coperto con erbacce e rami d'albero. E al padre riferì: "Lo hanno sbranato le fiere!". - Ahimè! - gridò il Re. - Tu sei mio fratello! Perdona! E gli si buttò ai piedi, tremante e piangente: - Non mi far male! ... Eccoti la corona! Non mi far male! Sii Re! - Né tu, né io! - rispose Mastro Acconcia-e-guasta. - Il Re sarà Succhiellino e la tua figliuola Regina. Mastro Acconcia-e-guasta indossò abiti principeschi; non sembrava più lui, e andò a prendere Succhiellino. Non era più un succhiello, ma un bel giovane che pareva proprio nato a posta per essere Re. La Reginotta non era da meno di lui. I due fratelli si abbracciarono, si baciarono; e colui che poco prima aveva il nome di Mastro Acconcia-e-guasta raccontò la propria storia: in che maniera era scampato da morte; e poi diventato falegname. La gente la dice la fiaba della Figlia dell'orco ve la racconterò un'altra volta. Succhiellino e la Reginotta si sposarono con grandi feste, vissero lieti lunghi anni ed ebbero molti figli. E chi più ne vuole più ne pigli.

Non abbiamo il coraggio di scorticarlo. Accorse, il Re, seguito dal Ministri e da tutti i cortigiani; e visto quei piedi di uomo, invece degli scorticatori, fece chiamare i chirurghi di corte perché operassero più delicatamente con l'arte loro. Ma i ferri dei chirurghi non riuscivano a staccare la pelle. - Maestà, - disse il Gessaio - qui ci vuole la mano della Reginotta; e se non fa subito, guai a voi! Il Re che ora, trattandosi di quell'asino, non dubitava più di nulla, senza por tempo in mezzo, mandò a chiamare la Reginotta. - Figliuola mia, scorticalo tu; se no, guai a noi! Aveva ribrezzo e paura; ma sentendo quel: Guai a noi!, la povera Reginotta afferrò con le dita tremanti il lembo di pelle staccato, e nel tenderlo si accorse che si staccava da sé. Allora tirò forte, e fu come se avesse strappato una coperta. Dell'asino non rimaneva più niente, e un bel giovane, riccamente vestito, si rizzava in piedi con tanto di occhi sbalorditi, quasi si destasse da un sonno profondo. - Chi sei? Quegli apre la bocca per parlare; ma invece di parole gli scappa un sonoro: Aah! Aah! Aah! un bel raglio accompagnato da gesti, e dietro, fuori dell'abito, gli s'agitava un moncherino di coda, quello dell'asino morto. Lo condussero a palazzo. Tutti ammiravano il corpo ben conformato e il bellissimo aspetto di quel giovane. Peccato che, in cambio di parlare, ragliasse! - Che si può fare, Gessaio? - Maestà, il bando prometteva: Avrà tant'oro quanto può portarne il cavallo con cui ha fatto la corsa. E io finora non ho avuto niente. - Che c'entri tu con costui? - Il suo destino vuole così. Una Maga lo incantò, mutandolo in asino, per vendicarsi dei parenti di lui che le avevano fatto un'offesa. Venne da me e mi disse: Vuoi comprare quest'asino? Dovresti darmi la moneta d'oro che ti trovi in tasca. Non te ne pentirai; a suo tempo, ti frutterà più del mille per cento. E mi spiegò ogni cosa. Se io non ho il mio oro, non posso rivelare in che modo il Reuccio può riaquistar la parola. E sappiate che costui è proprio di sangue reale. Il Re condusse il Gessaio nella stanza del tesoro. - Serviti con le tue mani; prendine quanto ne vuoi. Il Gessaio si caricò peggio d'un somaro, portò l'oro a casa sua e ritornò a palazzo. - Maestà, ora tocca a voi. Dovete, a forza di braccia, strappargli quel moncherino. Il Re si rimbocca le maniche, afferra con le due mani il moncherino, e tira, e tira, e tira; ma non c'era verso. Sudava, sbuffava, non ne poteva più. - Forza, Maestà! Tira, tira, tira; non c'era verso. - Forza, Maestà! La Reginotta, i Ministri, tutti i cortigiani che stavano attorno, vedendo gli sforzi del Re, si sforzavano anche loro quasi avessero tutti in mano un moncherino di coda; e gridavano: - Forza, Maestà! Il Reuccio, volendo gridare insieme con gli altri: Forza, Maestà! si mise invece a ragliare: - Aah! Aah! Aah! Il moncherino si strappa, e il Re, con esso in mano, batte la schiena per terra. - Grazie, Maestà! Il Reuccio parlava; l'incanto era finito. E Finisce pure la fiaba. A chi non piace, la riporti al ciaba.

. - Anellino, abbiamo fame, aiutaci tu! E avevano subito da mangiare. - Anellino, vogliamo dei balocchi! Aiutaci tu! E avevano subito dei balocchi. - Anellino, vogliamo dei dolci! Aiutaci tu! E avevano dolci d'ogni sorta. Ora che erano avvisati, appena entrava la Mammadraga, si prendevano per la mano e si afferravano ai panni della bambina. - Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame! E la Mammadraga andava via, con la spuma alla bocca, minacciando. Scappare però non potevano. Una mattina, la Mammadraga tornò alla sua spelonca, seguita da una lupa e la mise di guardia all'uscio della grotta dov'erano chiusi i bambini. Era la matrigna di Caterina. La lupa la riconobbe, e disse alla Mammadraga: - Volete l'anellino? Lasciate fare a me! - Caterina, che ignorava quella trasformazione, veniva spesso davanti l'uscio a pregarla: - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dài? - Una bella tana e pecore e polli per pasto. - Me li procuro da me. - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dà!? - Quel che tu vuoi. - Quell'anellino. - Questo no. - Allora restate tutti a morire lì. Così passarono molti mesi. Una notte la bambina si mise a chiamare: - Vecchina mia, dove tu sei? - Eccomi. - La lupa vuole quest'anellino per lasciarci scappare. - Dalle quest'altro. Le spiegò come doveva fare e disparve. La mattina: - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dà!? - Quel che tu vuoi. - Quell'anellino. Gli altri bambini s'erano già presi per la mano e si tenevano attaccati forte ai panni della compagna. - Tieni qui - disse Caterina. La lupa stese la zampa e la bambina le infilò l'altro anellino in un dito. E che accadde? Caterina diventò lupa lei, e tutti gli altri bambini tanti lupacchiotti, l'uno con la coda dell'altro fra i denti; il primo teneva fra i denti la coda di Caterina. La lupa invece ridivenne donna, e la bambina, lupa com'era, riconobbe in lei la matrigna. - Scellerata, che m'hai fatto! Ora la Mammadraga mi mangerà! E andò a rannicchiarsi nell'angolo più oscuro della grotta. Venne la Mammadraga: - Lupa, e questi lupacchiotti? - Sono miei figli; li ho partoriti stanotte. - E i bambini? - Se li è divorati quella lì. La Mammadraga si slanciò addosso alla donna e ne fece quattro bocconi. Intanto lupa e lupacchiotti stavano per scappar via. Si udì un urlo: - É carne avvelenata! Muoio! Muoio! Si voltarono e videro la Mammadraga che si rotolava per terra e dava gli ultimi tratti. - Anellino, aiutaci tu! Ridiventati bambini, si presero allegramente per le mani e fecero un ballo attorno la Mammadraga morta, saltando e cantando: - Qua finisce ogni dolore! Chi ci campa non ci muore. Chi c'è morto, torni in vita. Mammadraga l'è finita! Andarono a guardare nella grotta accanto, dov'erano ammonticchiate tutte le ossa dei bambini che la Mammadraga s'era spolpati e videro un brulichio di ossa che si ricercavano, si riunivano, si vestivano di carne, ridiventavano bambini vivi. Chi c'è morto torna in vita, Mammadraga l'è finita! - Andate via, io debbo restar qui - disse Caterina. - Quest'anellino vi condurrà fino a casa. Anellino aiutaci tu! E vi aiuterà. Si vide uscire dalla spelonca una fila di bambini presi per mano: pareva una processione che non finiva più. I primi erano lontani un miglio, e gli ultimi appena a pochi passi dalla spelonca. E, andavano via cantando: - Mammadraga l'è finita! Mammadraga l'è finita! Partiti loro, la bambina stette ad aspettare. La Fata le aveva detto quel che sarebbe avvenuto. A un tratto, gran rumore, quasi la spelonca crollasse. Invece la spelonca diventava un palazzo così magnifico, che lo stesso palazzo del Re era niente al paragone. Venne l'uccello dalle piume di mille colori. - Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi. Venne la scimmia, saltellando, facendo mosse buffe: - Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi. E Caterina veniva servita come una Reginotta. Passarono parecchi anni. Ella si era già fatta una bella ragazza; ma, sola sola, in quel palazzo cominciava ad annoiarsi. La Fata le aveva detto: - Devi attendere il Reuccio di Francia. Se non vien lui, non puoi uscire di qui. E attendeva, stando alla finestra, guardando lontano tutti i giorni, se mai il Reuccio arrivasse. Una mattina, ecco un uomo laggiù che prendeva la strada della collina: - Sarà il Reuccio. Indossò i più begli abiti, si ornò delle gioie più brillanti, e gli andò incontro in cima alla scala. Invece era un povero vecchio. Saliva gli scalini a stento, appoggiato a un bastone. - Chi siete? Dove andate? - Vo pel mondo in cerca della mia figliuola. L'ho perduta da tant'anni! Lei finse di non riconoscere suo padre, ma dalla contentezza, aveva le lagrime agli occhi. - Mangiate, bevete, e riposatevi. La vostra figliuola non è lontana di qui. - Come lo, sapete, signora mia? - Lo so. Il giorno dopo, il vecchio si apprestava a partire. - Non vo' chiudere quest'occhi, prima di ritrovare la mia figliuola. - É qui vicina. L'ho mandata a chiamare. Mangiate intanto, bevete; vi servo a tavola io stessa. Poteva mai immaginare che la sua figliuola avesse quel palazzo e fosse così straricca? Finalmente, una sera, ecco squilli di trombe e scalpitio di cavalli. Il Reuccio di Francia arrivava col séguito. Si trovava a caccia in quei dintorni, e visto il palazzo in cima alla collina, aveva pensato di chiedere ospitalità per quella notte. Il Reuccio era di malumore. Una zingara gli aveva predetto: - Sposerete la figlia d'un calzolaio! - Ti si secchi la lingua! E, per distrarsi del brutto presagio, andava a caccia tutti i giorni. Vedendo quella bella giovane, rimase sbalordito. - Principessa, vi saluto. - Non sono Principessa, Reuccio. - Che cosa siete? - Quel che vuole il Reuccio. - La mia Reginotta, qua la mano. - Di là c'è mio padre; chiedete il suo consenso. Trovatosi a faccia a faccia con quel misero vecchio, il Reuccio si credette burlato. Pure, per curiosità, gli domandò: - Siete voi il padre di Caterina? - Sono io. - Io sono il Reuccio di Francia e voglio sposarla. - Reuccio, non sta bene farsi beffa d'un povero vecchio! Mia figlia è perduta e non so dove sia. La cerco invano da tant'anni. - Che commedia è questa! - esclamò il Reuccio, sdegnato. Entrò Caterina: - Dite, buon vecchio: dopo tant'anni come riconoscereste la figliuola? - Ha tre nèi sotto la nuca. - Come questi qui? E si chinò per farglieli vedere. - Ah! Figliuola mia! Figliuola mia! Si gettarono, piangendo, l'uno tra le braccia dell'altra. Il Reuccio, tutto contento, disse al vecchio: - Ora manca soltanto il vostro consenso. - E sposereste la figliuola d'un calzolaio? Il Reuccio stupì! La zingara aveva predetto il vero. La giovane però era così bella che non c'era Reginotta al mondo da starle a paro. Il calzolaio diventò Principe, e sua figlia Reginotta. Dormi, figlia Regina! Dormi, il Reuccio arriva! Ed era arrivato davvero! Fiaba detta, fiaba scritta, A chi va storta, a chi va diritta.

. - Quest'acqua è pei seminati; abbiamo fretta. E le nuvole continuarono il loro cammino.. Verso il tramonto, ecco laggiù, lontano, una montagna rocciosa, con in cima un palazzo che pareva di marmo bianco e nero, grande quanto una città, meraviglioso. Piuma-d'-oro si fece animo e pensò: - Mi fermassi almeno colà! Ah, mamma mia, mi sento morire! Infatti, dalla debolezza, le venne una mancanza; non vide né sentì più niente; e quando rinvenne, si trovò stesa su la terrazza del palazzo veduto da lontano. Scese per la scaletta che conduceva all'interno, sperando d'incontrare qualcuno; non si scorgeva anima viva. Le pareti delle stanze erano di marmo bianco, le cornici, gli stipiti degli usci e le colonne, di marmo grigiastro. Tavolini, seggiole, letti, mobili, di marmo bianco o grigiastro. E dappertutto uno strano odore di sale e di pepe. Aperse un armadio; piatti con pietanze svariate, e panini e frutta e dolci; ogni cosa però scolpita in marmo bianco o grigiastro, e con un odore così forte, che la faceva starnutire. Spinta dalla fame, accostò alla bocca una di quelle finte vivande. Stupì; erano proprio di sale e di pepe. Allora si convinse che l'intero palazzo era fabbricato con massi di sale ben levigati e con pepe tanto sodamente impastato, da eguagliare il marmo. Si rammentò della saliera e della pepaiola da lei versata, quand'era bambina, nella minestra della vecchia, e disse: - Questo è il suo palazzo. Mi castiga così. E si mise a gridare, piangendo:: - Vecchina, o vecchina! Dammi da mangiare, vecchina! Una voce fioca fioca rispose da lontano: - C'è tanta roba costì; sentirai che sapore! Costretta dalla necessità, Piuma-d'-oro prese un panino e una mela e cominciò a sbocconcellarli. Sapevano proprio di pane e di mela, ma salati e pepati! E Piuma-d'-oro a gridare, piangendo: - Vecchina, o vecchina! Dammi da bere, vecchina! La voce fioca fioca rispose da lontano: - C'è tanta roba costì; sentirai che sapore! Prese una bottiglia e un bicchiere; l'acqua versata era torbida. Pure, costretta dalla necessità, Piuma-d'-oro bevve tutto d'un fiato. Oh Dio! Anche l'acqua era salata e pepata. E così tutti i giorni, senza veder mai viso di cristiano per quell'immenso palazzo. Fino gli alberi del giardino e i fiori e l'erbe erano di sale e pepe. E Piuma-d'-oro starnutiva starnutiva, versando goccioloni di lagrime. Veniamo, ora al Reuccio di Portogallo, arrivato per visitare la Reginotta. Il Re e la Regina gli dissero, piangendo dirottamente: - La Reginotta se la portò via il vento! Da prima si credette canzonato; poi, udita la storia di Piuma-d'-oro , disse: - Vado a cercarla. - Dove mai? -In capo al mondo. Voglio trovarla a ogni costo. Montò a cavallo e via, solo solo, domandando dappertutto: - In grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento? Molti lo presero per matto, e non gli risposero neppure. - In grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento? - L'abbiamo vista. Volava, volava; pareva un uccellaccio. - E per dove? - Dritto, avanti, avanti. Il Reuccio spronò il cavallo. Incontrò altra gente: - Di grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento? - L'abbiamo vista. Volava, volava; pareva un uccellaccio. Poi il vento la spinse in alto, e sparì fra le nuvole. A questa notizia il Reuccio si perdé di coraggio; e stava per tornarsene addietro, quando fra le macchie scorse un vecchio con la barba bianca, lunga fino ai ginocchi, e con una zappa in mano. - Bel cavaliere, Che cercate da queste parti? - Cerco la Reginotta Piuma-d'-oro che fu portata via dal vento. In grazia, l'avete vista passare? - Chiedeva da mangiare agli uccelli e da bere alle nuvole: ma nuvole e uccelli non le diedero niente, e continuarono il loro cammino. Chi va, arriva; chi cerca trova. Coraggio, bel cavaliere! - E voi chi siete? - Un povero vecchio. Dovrei scavare una radica qui, ma non ho forza. - Datemi la zappa; scaverò io per voi. Il Reuccio smontò da cavallo e si mise a scavare. Scava, scava, scava, la radica non veniva fuori. - Coraggio, bel cavaliere! Chi cerca trova. Il vecchio aveva un bel dire; la radica non veniva fuori. Il Reuccio grondava di sudore, si sentiva rotte le braccia. - Coraggio, bel cavaliere! Chi cerca trova ... Grazie! Eccola qui! E il vecchio stese la mano alla radica terrosa. - Vi do questo fischietto - poi disse. - Se avete bisogno di qualche cosa, sonate e vedrete. Badate però di non perderlo; non ne trovereste un altro simile per tutti i tesori del mondo. Il Reuccio ringraziò, si mise in tasca il fischietto, rimontò a cavallo e proseguì il viaggio. Pensava alla Reginotta: - Se avessi chi potesse scovarla! E tratto di tasca il fischietto, mezzo incredulo, gridò: - Aquila, aquila messaggiera, ai miei comandi! Fischia, ed ecco l'aquila che scende dall'alto con le grandi ali tese. - Aquila messaggiera, va' attorno e recami notizie della mia Reginotta; t'attendo qui. L'aquila ripartì subito, e per due giorni non si fece vedere. Al terzo giorno, ricomparve con una lettera al becco. La Reginotta scriveva: "Sono prigioniera nel palazzo di sale, e pepe d'una Fata, dove non può entrare anima viva". Il Reuccio rammentò allora le parole della vecchia che gli erano state riferite: Tu col vento ci verrai, Con la pioggia te n'andrai. - Va bene - pensò. E cavato di tasca il fischietto: - Nuvole, nuvole, ai miei comandi! Fischia, ed ecco da ogni parte del cielo montagne di nuvole, che accorrono premurose, gravide di pioggia. - Aquila, aquila messaggiera, ai miei comandi. Al fischio, anche l'aquila ricomparve e scese a posarglisi ai piedi. - Su su, aquila mia! Portami al palazzo di sale e pepe della Fata; e voi, nuvole, dietro a me! Inforcò l'aquila, quasi fosse stata un cavallo; e l'aquila, aperte le ali, lo trasportò in alto, via pel cielo; essa col Reuccio avanti, e le nuvole dense, gravide di pioggia, montagne smisurate che oscuravano il sole, dietro a loro, via, via! La Fata visto dalla terrazza del suo palazzo quel temporale che si avvicinava, s'accorse del pericolo; e scatenò il libeccio che teneva chiuso in una stanza. Il vento incontrò l'aquila e le nuvole a mezza strada, e col suo gran soffio non li faceva avanzare. La lotta durava da più ore, senza che l'aquila e le nuvole avessero potuto guadagnare un palmo di spazio. Il libeccio, invece di stancarsi a soffiare, prendeva anzi maggior forza. - Aspetta un po' - disse il Reuccio. Cavò di tasca il fischietto: - Tramontana, tramontana, ai miei ordini! Fischiò; e subito si levò una tramontana furiosa, che soffiando di dietro, spinse in avanti aquila e nuvole con violenza. In pochi istanti, tutti furono sul palazzo di sale e pepe della Fata, e si fermarono. - Vento, chétati. Nuvole scioglietevi in pioggia! Il Reuccio tornò a fischiare. Parve si aprissero a un tratto le cateratte del cielo; e intanto che la pioggia veniva giù a torrenti, il palazzo di sale e pepe si andava squagliando; e giù per le gole della montagna precipitavano torbidi fiumi di sale e pepe liquefatti, che correvano verso il mare. Piovve così sette giorni e sette notti, finché del palazzo della Fata non rimase vestigio. La Fata era sparita lasciando la Reginotta aggrappata a un masso, dopo averle ripetuto all'orecchio: - Tu col vento ci verrai, con la pioggia te n'andrai. Il Reuccio, montato sull'aquila, voleva prendere con sé Piuma-d'-oro . Ma che! A furia di mangiare sale e pepe, ella aveva riacquistato il suo peso, e l'aquila non poteva reggerli addosso tutti e due. - Grazie, aquila forte. Scese a terra, e lasciò l'aquila in libertà. La Reginotta, dall'allegrezza, non riusciva a dire neppure una parola. Il Reuccio intanto, cavato di tasca il fischietto: - Cavalli, cavalli bardati, ai miei comandi! Fischia, e due magnifici cavalli bardati sbucano di sottoterra davanti a loro, scalpitanti. Egli stava per rimettersi il fischietto in tasca; ma rieccoti il vecchio dalla barba bianca, lunga fino alle ginocchia, che gli aveva fatto quel regalo: - Reuccio, il fischietto non vi serve più; rendetemelo, e Dio vi accompagni fino a casa. Il Reuccio veramente voleva trattenerselo; era così comodo! - Provate - soggiunse il vecchio; - in mano vostra non fischia più. Infatti non fischiava più. E il Reuccio glielo rese: - Grazie di nuovo, buon vecchio. Dopo un mese di viaggio, Reuccio e Reginotta arrivarono sani e salvi ai palazzo reale. Si sposarono con grandi feste e vissero felici e contenti. La Reginotta però, a ricordo della sua cattiveria di bambina, fece voto di non mangiare mai più né pepe né sale in vita sua. E così finisce la storia di Piuma-d'-oro .

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 6 occorrenze

A Roma abbiamo battuto il papa, alle Piramidi abbiamo sconfitto Maometto, abbiamo trionfato dovunque: egli guardava, noi vincevamo. A Madrid, quando l'imperatore ha fatto scoperchiare la tomba di Carlo V, io ero lì: a Vienna ho visto l'imperatore Francesco seguire Napoleone col cappello in mano, a Berlino pigliammo la spada di Federico, da Mosca ci trasportammo dietro nella ritirata la grande croce d'Ivano il Terribile. - E la perdeste. - La buttammo in un lago, Napoleone buttava via tutto, le croci e le corone, i reggimenti e gl'imperi. Che cosa credete che sia un regno? Ci avevano messo dei secoli a farlo, noi lo conquistavamo in una settimana. Noi eravamo la Grande Armata, il resto era il mondo. Se Napoleone non fosse morto giovane, l'avremmo preso tutto, saremmo andati per le Indie e ritornati per l'America. Tutti i popoli ci aspettavano. - E che cosa avreste recato loro? - Il vecchio sostò, poi guardandolo serenamente rispose: - Napoleone. - Comprendo - proseguì l'altro rattenuto un istante da quella immensa parola. - Il vostro è stato un gran sogno, ma la nostra realtà è anche più grande. Voi eravate la gloria e noi siamo la libertà, voi eravate l'esercito e noi siamo la moltitudine: voi siete stati gli ultimi conquistatori della storia. La guerra millenaria dell'umanità condensandosi in uno sforzo supremo ha prodotto le vostre battaglie; ora la guerra dei popoli è conchiusa e comincia quella delle classi: la prima condensò le nazioni, la seconda le dissolverà in un solo popolo. Una volta il soldato si batteva per il generale, domani vincerà per se stesso. Il vecchio evidentemente affaticato fece uno sforzo. - Vedete là quella costellazione? Un giorno la chiameranno forse di Napoleone: io ci sono, voi con chi siete? - Sono nichilista! - Poi abbassando la voce soggiunse: - Noi lavoriamo nel secreto a rovinare il vecchio impero per costruire la giovane Russia, cospiratori nell'ombra, martiri al sole. - Le vostre armi? - Tutte quelle che un uomo può usare. - Avete vinto nessuna battaglia? - Abbiamo ucciso un imperatore. - Ma l'impero è rimasto. E il vecchio non parlò più. Il mare era buio, le stelle brillavano ancora. Passarono forse due ore senza che i due strani interlocutori, caduti in una meditazione, forse profonda come quel mare, e scintillante di pensieri come il cielo di stelle, parlassero. Il vapore avanzava sempre agitando nell'ombra un pennacchio di fumo. Poi il vecchio mormorò: - Sono tutti morti... - e la testa gli ricadde pesantemente sopra le mani congiunte sulla canna, come sotto il peso di quell'enorme poema, del quale era l'ultimo verso, di quei due milioni e mezzo di soldati, ai quali solo era sopravvissuto. In quel momento l'alba cominciava a spuntare; lontano, in fondo all'orizzonte, una macchia bruna ed immobile poteva essere un'isola. - Eccola! - esclamò il giovane levandosi. La faccia del vecchio raggiò. Il mare mormorava, l'alba cresceva, il vapore rantolava sordamente. Allora il vecchio alzò ambo le mani come invocando e una lagrima, l'ultima, gli scese dagli occhi appannati. L'altro lo guardò trasalendo. Il vecchio soldato si trasfigurava: i primi rossori dell'alba sembravano vampate di cannoni lontani, l'onde avevano dei fremiti di battaglia, la costellazione era scomparsa, quando uno scoppio immenso squarciò l'Oceano e il sole sfolgorò. - Viva Napoleone! - gridò il vecchio salutando militarmente come se lo pigliasse per il fantasma del morto imperatore. Il sole saliva sopra Sant'Elena. - Andate a visitare la sua tomba? - domandò il giovane. - A morirvi. Egli è stato il primo, io sono l'ultimo. E fu l'ultima parola.

Ebbene abbiamo ragione noi moderni di volere allegri i cimiteri e le biblioteche. - Forse! ma saranno senza monumenti. - Accettereste per caso la formula di Victor Hugo, il libro ha ucciso il monumento mentre - ella aggiunse con sardonico sorriso - i nostri municipi non fanno che smentirla tutti i giorni? Oramai mancano le piazze per le statue. - La formula di Victor Hugo è terribile quanto giusta, ma sciaguratamente ce n'è un'altra più terribile, che egli forse non ha presentito: se il libro ha ucciso il monumento, il monumento è morto anche nel libro. Non si scrivono più capolavori. - Perchè? - Le ragioni sono troppe, dirne una sola, che le riassuma tutte, non è forse meno difficile di un capolavoro. Perchè non siamo noi più belli? Uno scienziato vi risponderà: perchè nella nostra educazione coltiviamo lo spirito trascurando il corpo, e così crederà di avere risposto. Ma questo è un effetto non una causa. Prima che il culto del corpo venisse trascurato, nello spirito sarà stata mortalmente ferita l'idea della bellezza. Perchè? Perchè non abbiamo noi più fede? Se la fede è una visione, l'arte è un processo fotografico che la fissa. Quale è dunque il nostro concetto della vita? Quale il nostro concetto della morte? Come ogni visione è un fatto individuale, così i sensi del corpo e le facoltà dello spirito in ogni individuo hanno una potenza forse indeterminabile ma predeterminata. La prima condizione per fare un capolavoro è dunque che esso esista nella zona, che la vita di un individuo può abbracciare. Ora la nostra vita individuale ha confini ben tracciati, abbastanza difesi, dai quali nessuna invasione di fatti o di idee possa irrompere devastando le pianure o affumicando gli orizzonti, entro cui deve formarsi la visione del capolavoro? Oggi che tutte le barriere sono abbattute fra popolo e popolo, e si fanno le ferrovie sotto il letto dell'oceano, e si sventrano le montagne, che cosa è la patria? Pei popoli, che dicono di averla, è il sentimento di un fatto già trascorso; pei popoli, che non l'hanno ancora, il sentimento di un fatto futuro. I popoli liberi dichiarandosi uguali vogliono uniformare leggi e costumanze, conciliare tutti gli interessi per annullare tutte le differenze; i popoli schiavi aspirano alla patria per smarrirla all'indomani nella fratellanza universale. La patria è il mondo, non vi è dunque più patria. Quale è la nostra religione? - La mia? - esclamò la duchessa con un sorriso - aspetto che me lo diciate. - La vostra risposta invece di essere spiritosa è profonda. Noi non abbiamo più religione: il sentimento religioso è rimasto perchè immortale, ma delle sue molte costruzioni nessuna è ancora dritta in fondo alle coscienze. Rovine dunque! Al principio del nostro secolo la poesia le ha cantate, adesso anche il canto è cessato perchè furono distrutte anche le rovine. La critica arrivò d'ogni lato con un'orda di scienziati, che si divisero ringhiosamente i rottami vantandosi con essi di ripetere l'edificio. Qualche volta son arrivati a ridisegnarne la pianta, e urlarono al miracolo, come se la pianta del Campidoglio rifatta dal Canina, quand'anche vera, potesse valere, non dirò nella coscienza di un popolo, ma nella immaginazione di un artista lo spettacolo del Campidoglio quale l'anima di Roma l'aveva profeticamente intuito, dieci secoli di storia composto, e l'anima di Roma morente l'aveva veduto per l'ultima volta fra le fiamme e la bufera dei barbari trionfanti. Che cosa è oggi la famiglia? La sovranità del padre, l'autorità del cognome, la catena della tradizione, tutto è spezzato. Una volta ogni famiglia era una dinastia, adesso è una democrazia, che sta per diventare demagogia: il padre si vanta amico del figlio, la madre sorella delle figlie. Rovine dunque! Anticamente la famiglia fu una torre nello stato che era una fortezza, nella patria che era un mondo contro il mondo; poi nel medioevo la torre diventò un palazzo, il palazzo una casa, oggi i ricchi hanno un appartamento e i poveri una camera. Ecco la famiglia: il gruppo è rimasto perchè insolubile, ma l'edificio, che s'innalzava sopra di esso come sopra tre cariatidi, padre, madre e figlio, è crollato. - Voi mi spaventate - disse la duchessa, diventando seria suo malgrado. - Perchè? Lo sapete pure che la vita dell'individuo nell'umanità è una rovina, che passa, in una rovina, che resta. Le rovine vi spaventano? Ma non siamo noi stessi un risultato di rovine, non siamo noi composti coi ruderi di venti civiltà, che si frantumarono compenetrandosi? Ieri Renan, il vostro scrittore prediletto, inseguito dal dubbio attraverso la propria nobile ed immensa erudizione, si domandava in un ammirabile opuscolo: che cosa è una nazione? Renan, che nell'estrema sensibilità della propria fibra ha sentito tutte le malattie del nostro secolo, vicino forse a morire s'accorge che la nazione sta morendo. La vita antica aveva due termini, individuo e stato; la vita moderna ne la ancora tre, individuo, stato e umanità; la vita futura tornerà ad averne due, individuo e umanità. Che cosa è la nazione? L'orda. La patria? L'accampamento. Così la storia si mise in cammino, ha scritto con frase immortale il Quinet. Quando la tenda diventò di sasso e il terrapieno una muraglia, l'accampamento si trasformò in città: allora l'orda si mutò in popolo, e la patria arrivava fin dove gli ultimi armati dell'orda potevano accampare lungi dalla città. Lì era il confine della patria, l'orbita tracciata a quel popolo dalla sua doppia forza di attrazione e di ripulsione nel sistema storico del mondo. Adesso le città non hanno più mura e i doganieri passeggiano su tutti i confini invitando i viaggiatori a varcarli: non vi è più patria, non vi sarà dunque più nazione. - Ed è per questo che non si scrivono più capolavori? - Chi sa? Il capolavoro è un quadro: vi sono dunque condizioni di luce e necessità di prospettiva, che lo dominano: poi un quadro dev'essere composto in modo che esprima più di quello che fa vedere. Ogni angolo di campagna non è quindi un paesaggio, nè ogni crocchio un gruppo. Un capolavoro - seguitò l'illustre critico correggendosi con atto nervoso - è anzitutto una visione, che ha bisogno di formarsi nel popolo prima di tradursi nell'opera dell'artista. Laonde occorre che nello spirito del popolo, dal quale deve sorgere, istinto, sentimento e idea, queste tre forme della vita, non si siano offese collo svolgersi; che la sua filosofia non sia troppo alta nè la sua religione troppo bassa, che la sua scienza sappia analizzare ma non ancora decomporre, che la sua civiltà sia arrivata a quel grado e la sua storia a quel punto, nel quale l'una tocca l'apogeo e l'altra trova la coscienza; bisogna finalmente che la stessa perfezione necessaria all'artista per estrarlo si sia prima verificata nel popolo per produrlo. A venti o a settanta anni non si scrive un capolavoro, non si fonda una religione, non si costituisce un impero: le reggi della vita sono identiche nell'individuo e nel popolo. Ci vuole dunque una unità fisica di razza, una unità morale di sentimento, una unità ideale di pensiero; se il popolo non sarà uno come razza, non arriverà alla necessaria intensità di sensazione: se non sarà uno moralmente, mancherà l'unità di composizione; se non sarà uno idealmente, quella di significato alla sua opera. Orbene siamo noi uni come razza, per esempio, noi italiani? Oggi una statistica sta contando il colore dei capelli e degli occhi per apprendere la proporzione fra le razze, che ci compongono; sono molte, troppe anzi. Tutti i barbari attraversarono l'Italia per andare a Roma e nel partirsene ci lasciarono dei bambini per compenso dei tesori rubati o distrutti. Prima del cristianesimo Roma era diventata l'emporio di tutte le religioni: il cristianesimo le divorò, ma esse gli rifiorirono in pustule sulla pelle. Il vapore e il telegrafo hanno reso costante quello che era momentaneo, cioè il passaggio di un popolo attraverso un altro; il commercio ci offre i prodotti, la scienza, le ragioni, l'arte gli spettacoli di tutti i popoli. Noi soccombiamo sotto il peso delle nostre conquiste: lo stato non difende più la nostra personalità storica, l'umanità non ci ha ancora dato la propria. Il cielo non è più per noi che un deserto popolato di mondi, la terra un laboratorio gremito di viventi; la critica ha distrutto la leggenda senza creare la storia, la religione ha perduto Dio conservando i santi, la scienza non ha sorpreso il fenomeno che per disperare di rinvenire la legge. Tutti i medici sostengono oggi che l'ingegno è una nevrosi, e infatti basta guardare la fisonomia d'un uomo d'ingegno per vedere quella di un malato: negli uomini moderni la testa è più grossa e il petto più angusto che nelle statue antiche. L'ultima filosofia, la massima, l'hegeliana, risolve l'universo in una idea: l'ultima scienza, il darwinismo, conclude nell'uomo all'animale; l'ultima affermazione cattolica è stata la necessità del potere temporale, l'ultimo grido della poesia una bestemmia, l'ultima parola dello stato una parola di abdicazione: libertà! - Lo so che non siete liberale: e allora? Egli si fermò. Evidentemente il lungo discorso lo aveva affaticato: la sua bella faccia di pensatore colla fronte alta sotto i lunghi capelli grigi perdette lo splendore della ispirazione, i suoi occhi si appannarono, un'ombra gli si distese sulla bocca e vi spense il sorriso. Quindi reclinando la testa sul petto parve seguire giù nell'oscurità di un baratro lo sprofondarsi di una visione, ma improvvisamente si raddrizzò, e con quella voce lenta e dolce, che ammaliava subito il pubblico dall'alto della cattedra, riprese: - Sainte-Beuve pel primo ha trovato l'immagine paragonando Renè a una torre e le altre opere di Chateaubriand ad un gruppo di case agglomerate sulla sua base. Oggi che il libro ha ucciso il monumento e il monumento è morto nel libro, giacchè non si scrivono più capolavori, l'immagine trovata da Sainte-Beuve per Chateaubriand vale per tutti, e chi fabbrica una capanna, chi una casa, un palazzo, una villa, una città. Guardate Balzac, che Sainte-Beuve, il primo critico del secolo, ha negato: Balzac, il primo genio del secolo, che si dibatte trent'anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi, e invece di alzare un monumento fonda una città. I suoi quaranta volumi sono tanti rioni, nei quali si muove una popolazione identica e diversa siccome in tutte le città: non manca una bottega, una industria, un istituto, una scuola. Dalla pescivendola alla principessa del sangue o dell'avventura la città possiede tutte le categorie e le varietà femminili; vi saranno trenta pittori, cento giornalisti, poeti e scienziati, preti e demagoghi, assassini e gendarmi, burocratici e soldati, parlamento e prigioni, ospedali e teatri, genio e follia, misticismo ed usura: plebe venuta dalla campagna, o germogliata fra il selciato, o nata dal fermento delle immondizie accumulate negli angiporti. Vi sono i martiri oscuri e gli eroi decorati, veri o falsi: Napoleone I vi passa parecchie volte nelle sue varie campagne, i Borboni vi soggiornano molti anni, Svedenborg vi arriva dalla Scandinavia. Vi è il passeggio pubblico costantemente pieno di carrozze, il corso rumoroso di folla; nei quartieri aristocratici la ricchezza moltiplica il frastuono e la luce, si profonde in capolavori e in aborti, ripete tutte le sue eterne grandezze e i suoi eterni obbrobrii. Nei quartieri bassi la miseria prosegue la propria vita di stenti aiutandosi di crimini e di eroismi, ingegnandosi con gioie minuscole e con piaceri bestiali, bestemmiando Dio e credendo nei signori. Ma le stagioni passano, e il clima varia dal gelo alla canicola, mentre migliaia di persone vivono in quella città, e la loro vita vi produce centinaia di drammi, migliaia di sentimenti e di idee. Balzac ha fondato da solo questa città, nella quale tutti verranno poi a costruire. - Ah! - esclamò la duchessa - comprendo. - Badate al primo, Flaubert. Un altro, il quale ha sognato il capolavoro, e penetrato della sua unità decise che ogni artista non può scriverne più di uno, giacchè bisogna attendere per esso il momento armonico di tutte le facoltà dello spirito con tutte le circostanze esterne. Flaubert verrà a fabbricare nella città di Balzac. Vedete quella casa? È la casa di Madame Bovary, forse la più bella della città. Critici ed artisti non si stancano di lodarne la disposizione interna, l'eccellenza dei materiali, l'armonia della facciata e dei fianchi: sciaguratamente critici ed artisti oggi non sono più buoni giudici, e però se molte case di Balzac, per esempio quelle di Eugenie Grandet o di Cousine Bette, mi paiono migliori, la casa di Madame Bovary resterà un eterno modello delle case borghesi al nostro secolo. Vedete dietro di essa quel magnifico mostruoso edifizio? Sono i palazzi di Salambò, ancora un'opera di Flaubert: Madame Bovary doveva essere il capolavoro, Salambò il monumento: il capolavoro è forse più bello del monumento, ma vorrei aver fatto piuttosto Salambò che Madame Bovary. Siete stanca? - No. - Allora, passeggiamo. Guardate, via Alessandro Dumas figlio: le due case all'imboccatura sono di Margherita Gauthier e di Clemenceau, lo scultore, più innanzi in quel vasto palazzo c'è il salone del Demi-monde. Via Emilio Augier: questa è più larga, di stile più solido e moderno. Vedete le finestre al secondo piano della terza casa a sinistra? Là stanno Les Lionnes pauvres, l'altra di facciata appartiene a Maitre Guerin, poi vi è quella del Gendre Poiret e subito dopo il palazzo degli Effrontès. Quest'altra strada, che ha un solo palazzotto elegante, ma pretenzioso, verniciato, leggete: via Octave Feuillet questo è il palazzotto di Camors. Via Champfleury: oggi è poco frequentata, in fondo vi è lo studio di Courbet il pittore. Vicolo Edmondo Duranty; è corto, senza sfondo. Oramai arriviamo alla grarnde piazza De Gonconrt. La vedete? È formata di grandi fabbricati irregolari, palazzi del settecento, prima della rivoluzione, durante la rivoluzione, dopo la rivoluzione. Voltatevi, quella Certosa è di Stendhal, osservate la sua statua, alta in atteggiamento rigido dal profilo tagliente, che domina sul largo piedestallo Rouge et Noir. Egli solo aiutò Balzac nella fondazione della città: adesso avete dinanzi due strade, via De Goncourt, l'altra più recente via Alfonso Daudet. Per quale volete mettervi? - Per la più grande, via Goncourt. - Gettiamo nullameno uno sguardo nell'altra, ne vale la pena. Quel palazzo sontuoso e barocco è del Nabab, negli altri dappresso e che paiono alberghi stanno a pensione gli ex Re in esilio: quella è la piccola casa di Jacque il macchinista, nell'ultima in fondo abitò Numa Roumestan il ministro. Adesso entriamo in via De Goncourt: è una bella strada. Ecco lo studio di Manette Salomon, l'ospedale di Soeur Filomene, la casa della Faustin, in quella casipola nacque la povera Elisa, in quell'altra abitarono i fratelli Zenganno, più in là Renata Mauperin. Quella palazzina, a due passi, con una piccola facciata da museo, è la Maison de l'Artiste, una specie di bazar pieno di mobili, di quadri e di cianfrusaglie. Un momento: osservate quella casa, che si avanza stranamente sulla strada: è di aspetto povero sotto la decenza, è la casa di Germinie Lacerteux. Svoltando si entra nel quartiere di Zola, il più vasto dei quartieri recenti, quantunque sia ancora in costruzione. L'enorme fabbricato che si prolunga dalla casa di Germinie Lacerteux, ripetendone il disegno, dall'insegna della grande liquoreria presso la porta si chiama L'Assomoir: è quello che ha fatto il nome all'ingegnere, no all'architetto, perchè questa volta l'ingegnere è un grande artista. Esaminate come Zola ha riprodotto minuziosamente il cattivo stile parigino moderno nel palazzotto dicontro; questa volta l'esattezza arriva al capolavoro, è il palazzotto della Curèe. Più in là sorge la casa dell'altro Rougon Son Exellence, in fondo alla strada l'immenso, prodigioso mercato, il vero Ventre de Paris. - È bello? - Un mercato difficilmente può esserlo, ma è immenso, prodigioso. Avete ancora notata quella altana? Là abitava Elena Mouret colla figlia, la povera piccina nervosa. - Quell'altana è un capolavoro. - Di costruzione non direi, ma vi si respira un'aria più pura, e sulla conca di questo mercato è di un effetto eccellente. Vogliamo salirvi? - Perchè no? - rispose finalmente la duchessa - forse dalla sua altezza si scorge il grande giardino del Paradou. - Spero che non vi piacerà. Giammai artificio violentò maggiormente la natura: è la farragine del mercato dentro il giardino. - Forse avete ragione, ma il giardiniere è stato nullameno un grande poeta. - E lo sarebbe parso doppiamente, se avesse saputo un po' meno la nomenclatura. La duchessa si arrese. - Ritorniamo - disse poi. - Non vi sembra che il quartiere sia bello e soprattutto grande? - Senza dubbio, ma vi sento due brutti difetti, la monotonia dello stile e una suprema volgarità nelle massime come nelle minime cose. - È moderno. - La città di Balzac lo è del pari e non mi fa pesare sulla coscienza la volgarità di questo quartiere. Poi non tutto vi è compiuto: si capisce che vi abita soltanto la nuova borghesia e il popolino, nessuna famiglia illustre, nessun grand'uomo è ancora venuto a stabilirvisi. Da solo questo quartiere non potrebbe vivere e nemmeno diventare una città. - Infatti tutto vi è come provvisorio, la vita non vi ha conservato nulla. - Vi manca persino una chiesa. - No, girate quell'angolo: ecco la chiesa, forse meglio la cappella di Lourdes: nella volta egri ha dipinto i quattro evangeli. - Povero Zola! il terzo non potè finirlo. - Non ve ne lagnate: Zola della religione non sentiva che l'idolatria e in lui l'artista era finito assai prima che l'uomo morisse. La sua opera conclude al dottor Pascal, l'eroe della scienza, che vorrebbe da questa trarre una morale, una religione nuova, e invece sprofonda nel l'animalità di un incesto. Zola era un pessimista inguaribile: onesto, dolorosamente ammalato della propria onestà, vide e disegnò come nessuno prima di lui l'abbiezione del popolo sino alle classi più alte, ma non vide altro. Tutto quanto la vita ha di nobile, di eroico, di veramente tragico gli sfuggì, eppure la vita dura nella storia soltanto per questa eccellenza di pochi, che vi funzionano come un sale antiputrido: eroismo di pensiero, eroismo di cuore. Ma vinto nel giorno tardo del suo trionfo Zola ebbe paura, e si rifugiò in un sogno ancora più anarchico che socialista: allora non vide più. Le sue ultime figure furono di cartone dipinto, la sua musica rimase un frastuono, il suo colore una macchia, il suo pensiero si oscurò, il suo cuore rimbambì. - Siete violento nelle verità. - La verità lo è sempre finchè combatte: nessun artista ha potuto salvarsi entrando nel socialismo: guardate Zola, Tolstoi, oggi tocca ad Anatole France. Il socialismo è dunque ancora falso, vuoto forse, se i poeti, che hanno sempre l'istinto e la nostalgia del nuovo, non estrarne una novità e vi perdono il senso dell'arte. La duchessa sorrise. - Torniamo nella città di Balzac. - Temereste smarrirvi altrimenti. - Impossibile! ho sempre tenuto d'occhio il grande campanile della chiesta di Svedenborg, il campanile di Seraphitus. E talmente alto che nulla può nasconderlo. - Forse talvolta le nuvole. - Ah! - proruppe quasi stizzosamente la duchessa - non avrete dunque mai un momento di entusiasmo, sarete sempre un critico? Quindi illuminandosi in viso: - Giacchè volevate salire meco sull'altana di Zola, accompagnatemi sul campanile di Seraphitus: là saremo più in alto, in un'aria, in una luce più pura. - E vedremo tutta la città e il suo bel territorio, i villaggi vicini, la grande rocca di Hugo, indefinibile e portentosa agglomerazione di castelli, le ville eleganti di George Sand, il capriccioso villino di Musset, il vecchio Maniero di Lamartine... - seguitò con accento quasi ironico. - Seraphitus! - mormorò la duchessa. - Voi vi chinerete dall'alto del suo campanile come egli dalla cima del Fiord, ed altrettanto impassibIrE. - No. - Non vorrete dunque guardare? - Sì, ma in alto. L'illustre critico non rispose.

. - Abbiamo cantato fino adesso: ohé, Mengo!, torna a dire l'ultimo stornello - esclamò Rocco, che una sbornia affettuosa traeva a confessare la propria inferiorità davanti al rivale. Fiori di cesta. Se Adamo c'ebbe a perdere una costa nel far la donna Dio perdé la testa. Ma gli stornelli non facevano più effetto a quella ora. Fortunatamente Santone s'impegnò con Mengo in un discorso di fieno, che non poteva essere breve, perché quegli ne aveva ancora da vendere una buona partita, tutto il suo ricolto dell'estate. Allora Toto e Viù diedero una occhiata in sala e, non potendo stare neanche lì, uscirono a passeggiare. La notte era sempre così tiepida, umida e nera; non si sarebbe riconosciuto un uomo a cinque passi di distanza. - Andiamo laggiù a vedere - insisteva sempre Toto con un tremito spaurito nella voce dopo quella confidenza. Il gobbo invece rideva silenziosamente: ogni tanto qualcuno usciva o rientrava dal portone. - Dunque nessuno lo sa ancora, perché andrebbero per di là in questo caso? - egli osservò accennando verso il fiume. - Che Berta abbia tenuto il secreto? Sarà stato Sandro che non ha voluto avvisare altri; lo conosco. Se gli fosse capitato il tiro da solo, sarebbe stato anche più contento. - Ma Berta come lo ha saputo? - Non ha voluto dirmelo. - Andiamo a vedere. - Andiamo. Oltrepassarono il muraglione a passi concitati, quindi sfiancando per un sentiero discesero la sponda del fiume per tornare quasi sotto la casa del pozzangherone. In quella oscurità il pericolo di tombolare giù sino all'acqua era imminente ad ogni passo, ma i due ragazzacci conoscevano troppo bene cinghione per cinghione tutta la ripa per darsene pensiero. Appena in fondo Viù si arrestò mettendo un fischio. - Vado io. - No, verrà uno di loro - e ripeté cinque o sei volte quel sibilo del quale era solito servirsi come di un segnale. Nullameno s'inoltrarono. La corrente del fiume ingrossata dallo sciogliersi delle nevi rumoreggiava sordamente; si distingueva appena il vecchio ponte, e giù pel greto una casa perché v'era lume ad una finestra. Dall'altro lato non si vedeva che buio. Viù fischiò ancora, poco dopo un'ombra gli si parò davanti. - Sei tu, Sandro? - Sì. Ah! lo hai saputo. - Lo ha saputo anche Santone, almeno cerca Santina. - Oramai è talmente ubbriaca che non ci riconosce più. Vieni. - No, torno su per trattenere Santone; ma se mi sentite ancora a fischiare, scappate subito; vuol dire che egli viene giù. Lo conoscete! - L'altro era rimasto interdetto. La voce di Viù, la sua premura, mentre tutti lo sapevano così pronto a godersi il male altrui, gli parevano sospette. - Di', vuoi mandarci via per restare tu con lei? - La pigli così? Ti saluto. - Aspetta. Toto era perplesso, ma la soggezione verso Viù lo vinse anche questa volta; allora Sandro andò loro dietro per qualche passo, quindi concluse: - Per me ne ho avuto già abbastanza. - No, per Dio! - ribatté Viù - io torno subito. Se posso, imbroglio Santone e lo mando a cercare dal lato opposto, altrimenti calo anch'io con lui fischiando. Voialtri fuggite per il fiume: ma se veniamo soli io e Toto, ci divertiremo. Com'è, com'è Santina? - chiese mutando tono. - Oh! è da ridere; spranga calci come una cavalla. - Su, svelto, Toto! - E si separarono. Santone scendeva appunto le scale per tornare a casa, quando essi rientrarono nell'andito. - Dove vai? - A letto. - Vuoi venire con noi invece? - Dove? - Abbiamo la Sghemba di Porciano nel capanno della Costa. - Ohé! - esclamò Santone sorridendo - siamo noi soli? - Ritorno adesso di là, è mezzo ubbriaca: ho detto che venivo a prendere un fiasco. Vedrai che rideremo. - Andiamo pure. Toto non aveva fiatato; malgrado la sua precoce malvagità quel tentativo lo spaventava. Lungo il muraglione diede una gomitata a Viù, ma questi gli disse di andare innanzi; quindi scesero adagio, circospetti, perché Santone meno agile di loro veniva ultimo. - Com'è che non parliamo? Pare che andiamo a seppellire un morto - questi esclamò. - Sta zitto, qualcuno potrebbe seguirci; è meglio che siamo soli. - La Sghemba ne ha viste ben altre. - Sai pure che quando s'impunta è capace di non volere alcuno. - Questa volta la vedremo! - replicò Santone con un franco riso. - È tutto carnevale. Erano scesi. - Vado io, voialtri venite adagio - disse Viù sparendo rapidamente nell'ombra. I due si fermarono. Toto tremava. Benché il capanno non si distinguesse ancora, non era a più di cinquanta passi entro una insenatura della ripa coperta di virgulti, pei quali coll'agilità della giovinezza non sarebbe stato molto difficile arrampicarsi; e davanti gli si apriva un bel pezzo di fiume asciutto. Santone andò innanzi. - Vieni, è mezzo addormentata - gli sussurrò improvvisamente Viù sorgendogli di faccia ad una svolta: - Entra tu per il primo che sei il più forte: con te certo non la può. - Non c'è nessun altro? - No, io non sono nemmeno entrato: l'ho sentita dal di fuori nicchiare sul fieno. - Lascia fare a me. - Bada che ci siamo anche noi dopo - riprese Viù sogghignando. - Diavolo! - Ecco. Toto e Viù si ritrassero, mentre Santone allungando due passi imboccava l'apertura del capanno. - Ohé, Sghemba! - chiamò a mezza voce. Un urlo soffocato fu la risposta, intanto che Toto e Viù sgattaiolavano su per la macchia, nella quale gli altri tre erano già fuggiti. Ma Viù si fermò: il rombo del fiume in quel momento gli parve spaventevole. Aspettò ansiosamente con Toto senza capire che cosa potesse accadere, giacché Santone era sparito dentro al capanno ridendo all'urlo di Santina senza riconoscerla. S'intese un rumore sordo di lotta e la voce di Santone che disse: - Va là, Sghemba, che non mi scappi. - No, no - esclamò soffocatamente Toto alzandosi. - Che fai? - Vado via. - Vigliacco! hai paura - rispose Viù con voce tremula. - Tu sei il vigliacco - replicò l'altro: - va là, questo non ti tornerà a conto. Un urlo di donna, sottile, disperato, si spense dentro al capanno. Allora Viù rimasto solo ebbe paura. Benché la notte fosse buia, si sentì veduto fra quei cespugli: l'aria era pesante, la corrente del fiume scura come l'aria trabalzava rantolando sui sassi, tutto il resto era solitudine. Coll'orecchio teso colse i più piccoli suoni, seguì su per la ripa l'ascensione di Toto, che si separava fuggendo da quel delitto per correre senza dubbio a letto. Nel capanno non si udiva più altro. Santone scambiando la figlia per la Sghemba non si era fatto naturalmente alcun riguardo, mentre l'altra inorridita, inebetita dalla violenza aveva tentato invano di difendersi, poi si era taciuta per una ultima disperata lusinga di non essere così riconosciuta. - Cercherà di sfuggirgli improvvisamente dal capanno, dopo - pensò Viù. Ed egli aveva voluto questo per vendetta dello scapaccione toccato come risposta alla coltellata colla quale per poco non aveva aperto un fianco a Santone. Tutto quanto gli restava ancora di meno guasto nella precoce perversità del cuore balzò in sussulto; poi il silenzio dentro il capanno, come se quei due vi fossero morti, gli dié una paura istantanea, pazza, di poter essere anch'egli ucciso. D'un salto, col medesimo ribrezzo di Toto, si cacciò a caso su per l'erta, ma quando giunse sulla cima era già pentito di aver ceduto a quel moto istintivo; allentò il passo e si dispose a tornare nel pozzangherone. - Sei stato da Santina? - gli chiese Berta col suo sorriso sfrontato. La festa non gli parve più quella. Infatti la maggior parte di coloro che non ballavano l'avevano abbandonata; per le finestre spalancate l'aria della notte, entrando con un freddo umido, sbatteva sinistramente le fiamme dei lumi a petrolio, mentre gli ultimi ballerini, i più ostinati, ballavano come trottano i cavalli da vettura poco più discosti dalla stalla anche se sfiniti. Egli non rideva più. Gli sembrò che la gente lo esaminasse, Toto e Ghino erano spariti, nel botteghino vuoto del caffè la Veronica affranta dormigliava sopra una sedia. Nell'insopportabile crescendo di quella oppressione si ricordò l'atroce ingiuria detta nel pomeriggio al padre, ridotto ad uno spettro, spregiato da tutti per le violenze di una volta, e che nullameno lo aveva sempre amato alla propria maniera. La mamma era morta l'anno passato, in una sera di carnevale, mentre egli, Viù, ballava in quello stesso pozzangherone: se ne ricordava benissimo, che erano venuti indarno a chiamarlo, ma sin d'allora anche i peggiori giovinastri del paese lo avevano giudicato e condannato senza appello. - Vogliamo fare il saltarello? - gli passò innanzi Berta. - Balla tu l'ultima zucchetta - aggiunse un altro. - Balliamola, balliamola! - replicò Berta. - Ti ho detto di no, figlia di beccamorti. - Tu sei il beccamorti, che uccidi tuo padre. - Ohé, ohé! - intervenne il padrone - qui si sta allegri. Balli o non balli la zucchetta? - Viù scrollò la spalla gobba senza rispondere. - Che canaglia! - gli disse dietro il padrone. Ma appena fuori il tormento gli si fece più acuto, avrebbe voluto sapere a qualunque costo come la era andata a finire, e invece appena il pensiero gli si fermava su quella domanda si sentiva correre per le ossa un brivido gelato. Qualche cosa, che prima non avrebbe mai supposto, gli capovolgeva la coscienza, bizzarri rimorsi della vita condotta sino allora gli battevano sul cervello colla violenza di un'accusa, contro la quale non trovava risposta; perché aveva fatto così? Involontariamente tornò al muraglione spiando giù nelle tenebre, ma non udì altro che il rombo del fiume, continuo e misterioso, perdersi nell'invisibile. La notte buia diventava sempre più fredda senza stelle e senza vento: egli solo era così agitato. Sapeva dove abitava Santone, ma non ebbe il coraggio di passare da quel vicolo per vedere se vi era lume alle sue finestre, e Santina vi fosse tornata. Ella era come lui depravata e perversa. Era riuscita a scappare senza farsi riconoscere? Avrebbe voluto sperarlo, perché non ne sarebbe a quel modo rimasto più che uno scherzo: che importava il fatto, se Santone non se ne accorgeva? Questa strana moralità era la sola, nella quale vedesse chiaro. Poi quella tensione troppo forte per il suo spirito si spezzò lasciandolo in una specie di sonnolenza bruta, con un malessere di sbornia e una ripugnanza istintiva a tornare in casa, dove suo padre solo sul pagliericcio stava senza dubbio rantolando come tutte le altre notti. Accese la pipa e ripassò per tutto il villaggio, quanto era lungo, mettendosi sulla strada di Porciano. Adesso pensava alla Sghemba, quell'altra sgualdrina egualmente nota ai due paesi per la brutalità chiassosa delle proprie avventure, e ancora abbastanza bella malgrado i quarant'anni passati. Cantò Mengo, da lontano: Fior di cicuta. Io remo e la barchetta va spedita Perché, donna, dal cor mi sei caduta. Allora Viù affrettò il passo per incontrarlo, ma quando poté scorgere un'ombra s'accorse che un'altra le veniva dietro. Si avvicinava lentamente, egli riconobbe Santone e saltò la siepe nascondendosi dietro un grosso olmo. Si capiva che andavano a spasso per digerire il troppo vino ingollato, poi Mengo traballando riprese il discorso di prima con quella ostinazione degli ubbriachi, specialmente quando un ricordo affettuoso li mette sui racconti di famiglia. - Perché vedi - si sentiva piagnucolare la sua voce - io le volevo un gran bene; l'avevo sposata senza la camicia contro la volontà di mio padre, che mi avrebbe voluto dare in moglie la Ghita. Va là, vi avrei trovato duecento scudi di dote, che non mi avrebbero giovato gran cosa. Bisogna amarsi piuttosto in famiglia: allora, anche se torni a casa qualche volta ubbriaco, tutto si accomoda. La Ghita ha sposato Giustino, ebbene, Giustino ha fatto un cattivo affare... bisogna che porti sempre il basto e lei sopra. Tu capisci. Ma se vi volete bene in famiglia... la non dura. Qualche cosa ci ha sempre da essere di guasto in casa, o la moglie o la figlia. Santone dié un soprassalto. - Non dico per la tua, ma è così. Io non ho figlie, se le avessi, farebbero come le altre; che colpa ne abbiamo noi? Io me lo sono detto mille volte, i primi giorni, quando mi veniva da piangere anche per strada; e che, la colpa è mia, se Teresa mi è morta di parto? Lo so, doveva accadere così, perché fu così, ma mi pare, guarda, mi pare talvolta ancora di avercene avuto colpa. Non è vero: io non ce ne ho avuta, dillo anche tu. Non avrebbe potuto accadere anche a te? Tu vai a casa, e la moglie resta gravida: ebbene? Dovevo saperlo io che sarebbe morta? - Santone alzò la testa; erano oramai presso l'olmo, ma l'altro non finiva il discorso. - Infine - mormorò Mengo - chi non ne ha colpa non ne ha. Che cosa ci può fare un uomo? Ti capitano alle volte delle cose che non si crederebbero a raccontarle: io ho ammazzato mia moglie, sono io l'assassino! - esclamò Mengo con un singhiozzo. - L'assassino è chi lo sapeva! - mugghiò Santone cupamente stringendo i pugni nell'ombra. Eppure nessun altro assassinio n'è seguìto. Il fatto narrato la mattina da Toto occupò tutti i discorsi del paese senza che alcuno pensasse a denunciarlo alle autorità. Viù, sbigottito, sulle prime tentò di negare, ma siccome Santone era partito per Porciano, dove andava qualche volta a lavorare nelle carbonaie, non stette molto a vantarsene. Quindi la lubricità dello scherzo ne fece presto dimenticare l'orrore, molto più che Santina negando risolutamente non se ne mostrava affatto preoccupata. - Il rovescio di Mirra! - disse un giorno il segretario comunale, appassionato filodrammatico, vedendola passare sgonnellando per la strada. - Mirra, che cosa? - chiese il sindaco, ex maresciallo dei carabinieri, che aveva preso moglie nel paese. E l'altro colse a volo l'occasione di spiegargli lungamente il caso della tragedia alfieriana.

. - Vorreste mangiarci quei due soldi che abbiamo - rispose il maggiore dei due figli, il più lacero. - Ti ho detto di bere - ribatté il conte rattenendosi. - Dove avete i quattrini voi? - Il vecchio, che si vide penetrato, gli lanciò una occhiata sinistra; la plebaglia rideva e fermava quanti passassero per farli assistere alla scena. - Il conte, il conte! - vociavano i bambini. Il conte era diventato livido. - Tu dunque vai a batterti per la patria? - replicò con voce stridula. - Sai che cosa ti darà la patria, dopo? - Non voglio niente io. - Te lo darà ugualmente: ti darà la galera. Il figlio alzò la mano, ma la gente s'interpose. Nullameno il conte trovò modo di farsi ubbriacare da un altro volontario, e prima di sera incontrandosi coi figli: - Ohé! - gridò loro barcollando - io ho fatto bene la mia prima tappa. Questo scherzo li rappattumò. Ma come il vecchio aveva predetto accadde: dopo cinque o sei anni ambo i figli quantunque non malvagi finirono in galera. Egli proseguiva la solita vita, solamente era stato nominato organista della parrocchia con cento lire annue di stipendio e, ciò che maggiormente importava, con una nuova facilità a scroccare buoni pranzi. D'allora non fu festa di campagna alla quale si suonasse o no l'organo senza di lui. Arrivava primo, nel tempo della caccia, colle reti e i richiami, per cacciare in qualche campo vicino ove in mancanza d'uccelli s'ingegnava colla frutta o altro; d'inverno col solito mantello bucherellato di panno turchino, un residuo dell'antica eleganza, e il caldanino sotto. Partiva ultimo non senza qualche cartoccio nelle tasche, giacché a tavola domandava quasi per ogni pietanza il permesso di conservarne un ricordo, esagerando questo uso già troppo sfacciato di molti preti. Nella primavera, a caccia proibita, invescava le cingallegre, d'estate arretiva gli ortolani, nel settembre le passere, d'ottobre trovava qualche paretaio disusato per i fringuelli; e d'inverno tornava colla pania ai tordi, o saliva malgrado la neve al paretaio, ne spazzava la platea, e lì nel casotto, semivestito, gelato, con una pignattina di caffè, nella quale intingeva un pezzo di pane, aspettava tutto il giorno che un fringuello più affamato di lui venisse a beccare l'erba presso il boschetto. Era una caccia rabbiosa e desolata. Spesso il vento alzando turbini di neve glieli sbatteva sul volto incorniciato dal finestrino, immobile come un ritratto: aveva i diacciuoli nella barba, il naso pavonazzo, le lagrime agli occhi, e nullameno raggomitolato nel vecchio mantello, il caldanino sulla pancia e le mani sul caldanino, i piedi dentro una vecchia sporta piena di paglia, aspettava sempre. L'uccello arrivava pigolando: allora i suoi occhi scintillavano, un brivido più freddo lo faceva tremare sulla panca, afferrava colla mano dritta la ciambella del tiratoio e attendeva senza respirare. Ma se l'uccello saltarellando per la platea s'involava prima di essere entrato fra le reti, la sua passione scoppiava in un delirio di collera. Poneva il caldanino sul parapetto e alzando le corna al cielo chiamava Dio ad alte grida come un nemico personale, che si compiacesse a torturarlo vigliaccamente. - Nemmeno un uccello... To'! - e un gesto intraducibile conchiudeva la bestemmia. La sera giù nel villaggio, vedendolo arrivare mezzo morto dal freddo senza nemmeno un passerotto, gli davano la berta: egli tornava ad inviperirsi. Poi il governo mise una forte tassa di trentacinque lire sui paretai, di quaranta sulle reti a mano, di dieci per le panie, e proibì i lacciuoli. La nuova legge, soggetto, prima e dopo la promulgazione, di tutti i discorsi del villaggio, fu pel conte causa di nuove tragedie. Egli aveva giurato di cacciare senza nessuna licenza, ma nonostante tutti i riguardi dei carabinieri, che fingevano di non vederlo, cadde più volte in contravvenzione, e dovette scontarla con la perdita degli attrezzi e parecchi giorni di carcere. Le sue bravate al caffè, dove parlava dei carabinieri col più insultante disprezzo, li aveva costretti a catturarlo. Allora fu eroico: colle cento lire dell'organo, la sua unica rendita, comprò tutte le licenze e venne trionfante al caffè ad inveire contro quei signori che per paura della nuova tassa avevano dismessi i paretai. - E quest'inverno? - gli chiese un bracciante che giuocava a scopa. - Sai leggere tu? - No. - Io so scrivere - rispose sardonicamente, e una risata in coro gli diede ragione. Infatti le lettere restavano sempre la sua migliore risorsa, anche quando giuocava. Ma questa frenetica passione del giuoco, che gli aveva fatto perdere i lenzuoli, le sedie e una volta persino i tortellini di Pasqua, prima di cuocerli, a un centesimo l'uno, non riusciva oramai più a soddisfarla. I due o i cinque franchi spillati ai gonzi sfumavano tosto in dolciumi, se il gioco non era pronto: nullameno se ne rifaceva alla meglio. Talora nel paretaio, mentre passava un branco di passeri e dava loro lo zimbello, aveva scommesso: - Cinque soldi che piglio almeno tre passere? - Intanto gli uccelli giungevano al tiro. - Scommettiamo, tiravia: cinque soldi... - Ma come vuoi fare? Potresti prendere anche tutto il branco. - Ebbene in questo caso avrò perduto - rispondeva il giuocatore indiavolato. Un'altra volta gli dettero tre lettere da portare a tre parrocchie: erano inviti per un funerale. Egli partì sollecitamente; cinque soldi per lettera e senza dubbio una pagnotta e un bicchiere di vino dal prete che la riceveva. A un miglio dal paese si incontrò in un altro giuocatore, vecchio contadino, già possidente andato a male. Si fermarono a chiacchierare presso il parapetto di un ponte: ambedue non avevano sciaguratamente giuocato da un pezzo, quindi il conte mostrò le tre lettere e gli espose l'incarico. - Eh! - mormorò l'altro invidiosamente - quindici soldi con poca fatica. - Vogliamo giuocarli? - Non ho le carte - ribatté il contadino con tono amaro. Il conte ebbe un sorriso umiliante di superiorità. - Ecco, sono tre lettere a cinque soldi l'una, vanno a tre parrocchie: scommettiamo. Se indovini la parrocchia hai vinto tu, se non la indovini ho vinto io. - Ma se non ho un soldo! - replicò l'altro solleticato dal giuoco e forse anche dalla sua stranezza. Poi una idea lo illuminò. - Facciamo così: se vinco, tu mi cedi l'incarico e le porto io; così tu non metti fuori niente. - E se perdi? - L'altro si grattò la testa. - Va là, imbecille, l'ho trovata io: se perdi mi accompagnerai nel giro senza guadagnare nulla. Invece perdette il conte. Così erano passati molti anni, poi i figli uno alla volta tornarono dalla galera: il maggiore ripartì dal villaggio e andò a fare il manovale a Roma, l'altro si acconciò nel paese da stalliere presso un oste. Il conte viveva solo. Stava lassù in un solaio screpolato, quasi senza porta, col tetto troppo incline, attraverso il quale si vedevano le stelle: d'inverno la neve gli cadeva intorno al letto alta sino al ginocchio senza che egli pensasse a spazzarla, non aveva camino, e d'altronde gli sarebbe mancata la legna. Il fornaio gli riempiva gratis il caldanino di carbonella: del letto non aveva rimasto che il pagliericcio, entro il quale si cacciava tutto vestito, poi col mantello si faceva una coperta e col vecchio cappellaccio una specie di berrettone. Nei giorni di gran freddo non si alzava più; passava le lunghe ore a guardare i propri uccelli chiusi dentro un abbaino sporgente sul tetto e difeso da una rete di ferro, rifacendo forse per la milionesima volta gli stessi sogni di giuoco, di caccia o di dolciumi. Aveva pochi bisogni e meno rimorsi; se fosse ridivenuto ricco si sarebbe nuovamente rovinato. Oramai in paese la sua miseria e le sue stravaganze si erano talmente invecchiate nell'abitudine di tutti che nessuno gli badava più. Egli tirava dritto. Finalmente si ammalò. Un giorno la ruota di un biroccino pigliandogli il mantello lo fece cadere; parve cosa da nulla, ma non si rimise più. Gli vennero meno le gambe, si mise a letto. Il figlio per rispetto mondano, fors'anche per un rimasuglio di pietà, venne ad usargli qualche cura, a portargli qualche zuppa. Egli non si lagnava. Era d'inverno. Nel solaio aperto a tutti i venti sarebbe gelato il vino: le pareti scrostate e sudicie annebbiavano la poca luce, il pavimento era tutto rotto, la porta sgangherata metteva certi urli ai buffi del vento, che parevano umani. Solo gli uccelli nell'abbaino saltellavano o canticchiavano di quando in quando. Nessun altro mobile o soprammobile occupava un poco di quella nudità desolata, tranne un fiasco spagliato, sospeso per un chiodo a capo del letto. Una volta, quando lo poteva ancora, vi faceva il caffè attaccandolo alla catena del focolare; adesso era vuoto, impolverato, e per coperchio aveva un guscio d'uovo. E, sintomo di morte vicina, egli aveva venduto quasi tutti gli attrezzi di caccia, meno un sacco di reti che gli servivano da guanciale. - È morto? - domandava talvolta la gente al figlio. Questi si stringeva indifferentemente nelle spalle. Ma un giorno l'arciprete si credette in dovere di visitare il suo organista, che da sei mesi non suonava più e si faceva sostituire dal capobanda del villaggio, un giovane di carattere dolcissimo. Quando il conte scorse l'arciprete: - È venuto per darmi il buon viaggio? - esclamò. - Mi dispiace che dovrà accompagnarmi gratis al cimitero, ma io non ce ne ho colpa; l'uso l'hanno inventato loro. Per me ne farei anche a meno. - Non volete dunque i conforti della religione? - Il conte ebbe un sorriso spavaldo. Egli si era sempre vantato d'empietà pur bazzicando nelle chiese, ma la sua fisonomia era così disfatta che il prete credette di non essere venuto inutilmente. Il medico aveva già dichiarato da tempo che il conte oltre la paralisi alle gambe soffriva di un aneurisma. Nullameno l'occhio dell'infermo era sicuro. Allora s'impegnò una lunga discussione fra il prete, che voleva convertire il conte, e questi che, rabbrividendo a qualche sua ragione, non voleva mostrarlo per un'ultima bravata di morire senza sacramento. Erano le tre dopo mezzogiorno; il figlio uscito da un'ora non sarebbe ritornato che a notte. Il vecchio colla testa appoggiata sulle reti, nascosto dentro il pagliericcio, col vecchio mantello sopra il cappellaccio che gli si rialzava come una sporta sulla fronte, non mostrava che la faccia bianca sotto la barba bianca cresciutagli nell'ultimo mese. Ad un tratto si sentì male. Il prete gli si chinò sopra premurosamente: - Aspettate, vado a prendere i sacramenti - mormorò vedendolo mutare fisonomia. Ma l'altro mise fuori una mano e lo rattenne. - È tardi. - Raccomandatevi a Dio. - Ma c'è? - Ne dubitereste proprio? - Il vecchio dubitava davvero. Ma il prete richiamato a tutta la serietà del proprio ufficio da quella agonia improvvisa, si trasse di tasca una grossa medaglia e presentandogliela perché la baciasse: - È la Madonna delle Grazie, vi sono due mesi di indulgenza a dirle un'avemaria. Il vecchio tese la mano. - Baciatela dunque. - Ma c'è? - Chi? - Dio - e tacque; poi facendo uno sforzo per voltarsi a guardare in faccia l'arciprete, gli mostrò la medaglia. - Scommettiamo: io prendo testa, voi lettera. - Disgraziato! - gridò il prete, offeso nella propria fede da quello che egli prendeva per uno scherzo brutale. - Avete paura di perdere; scommettiamo: non c'è. - Dio?! - Testa... - chiamò l'infermo gettando la medaglia in mezzo alla stanza, e piegò subitamente il capo. Rantolava: il prete si voltò al tintinnìo della medaglia, ma attratto dal rantolo del morente non poté raccoglierla. Il conte moriva, aveva gli occhi vitrei, un filo di bava sulla bocca. A un tratto, mentre il prete suo malgrado agitato da quella suprema scommessa stentava a trovare le parole rituali per raccomandargli l'anima, il vecchio sbarrò gli occhi: parve voler parlare. - Raccomandatevi a Dio! - La testa ricadde, era morto. Il prete si chinò atterrito per vedere se respirava ancora, ma sentendolo già freddo provò un brivido alla schiena. Allora confuso, quasi palpitante in un dubbio che non avrebbe voluto sentire, andò a raccogliere la medaglia: era dentro un crepaccio del pavimento. Così al buio non si discerneva da che parte fosse voltata. Si abbassò. - Testa! - Il conte aveva vinto l'ultima scommessa.

- proruppe Tarlatti - bisogna pagarlo ugualmente, poichè l'oste ha dovuto sopportare quanto abbiamo detto finora. Si erano rimessi i mantelli e si avviarono per uscire: piovigginava. Scambiarono qualche parola sulle lezioni dell'indomani all'università, erano tutti studenti, poi si strinsero con affetto la mano. - Dunque, caro abate - disse ancora Tarlatti - la conclusione è: Laus Christo, come l'intestatura dell'ultimo capitolo nell'ultimo volume di Renan sulle Origini del cristianesimo. - E a Bovio? - interruppe sardonicamente Mattioli prevenendo la risposta. - Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo - rispose l'abate coll'imperturbabile fede dei mistici.

. - Allora vieni con me, abbiamo una cena con cinque o sei sgualdrine del teatro Brunetti. Staremo allegri. Almeno quelle sono donne che si conoscono prima; non c'è pericolo di essere ingannati. - Tanto peggio, mio caro! - replicò l'altro. E si lasciò trascinare.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 26 occorrenze

Abbiamo fretta di vendicare Sing-Sing. - E di ucciderci, è vero? - chiese Fedoro, sdegnosamente. - Sì, se siete colpevoli. - Tu sai meglio di noi che noi non abbiamo commesso quell'abominevole delitto. - Il tribunale giudicherà. Venite e non opponete resistenza perché i soldati hanno ricevuto l'ordine di fare fuoco su di voi. - Andiamo - disse Fedoro a Rokoff, dopo avergli tradotto quanto aveva detto il giudice. - Vedremo se il tribunale oserà condannare degli europei senza l'intervento d'un membro dell'ambasciata russa. Ritenendo inutile ogni protesta e troppo pericolosa una nuova resistenza, seguirono il giudice, attraversando parecchi androni quasi bui, dove non si vedevano altro che gabbie destinate ai prigionieri più ricalcitranti, ed entrarono in una saletta quadrata e bassa, ammobiliata con un lurido tavolo sopra cui si vedeva un tappeto ancor più lurido. Due giudici, appartenenti probabilmente all'alta magistratura, avendo sui loro conici cappelli di feltro il bottone di corallo con fibbia d'oro, insegna dei mandarini di seconda classe, stavano seduti dinanzi al tavolo. Erano due panciuti cinesi, dalle facce color del limone, con grandi occhiali di quarzo, vestiti di seta a enormi fiori gialli, rossi e azzurrini. Presso di loro un cancelliere magro e sparuto, stava sciogliendo un bastoncino d'inchiostro di Cina e preparando dei pennelli, non conoscendo ancora i cinesi la penna o reputandola per lo meno inutile per le loro calligrafie veramente mostruose. In un angolo invece si tenevano ritti due individui d'aspetto sinistro, che portavano alla cintura certi coltellacci da far rabbrividire. Erano due esecutori della giustizia, pronti a far subire ai condannati i più atroci tormenti, anche lo spaventoso ling-cih o taglio dei diecimila pezzi, riservato ai traditori e ai più pericolosi delinquenti. Nel vederli, Fedoro aveva provato un lungo brivido. I due mandarini si sussurrarono alcune parole, guardando di traverso i due europei, poi il più anziano si volse verso Fedoro, chiedendogli: - Voi comprendete il cinese? - Sì, ma il mio compagno non parla che il russo, quindi domando che vi sia un interprete dell'ambasciata russa. - Tradurrete voi; noi non vogliamo stranieri qui, all'infuori dei colpevoli. - Noi non siamo sudditi cinesi, quindi voi non avete alcun diritto di giudicarci senza la presenza d'un rappresentante del nostro paese. - Per far intervenire l'ambasciatore e levarvi dalle nostre mani? Oh! Le conosciamo queste cose. - Io protesto. - Lo farete poi - disse il mandarino. - Voi siete accusati di aver assassinato Sing-Sing, un fedele suddito dell'Impero. - Chi lo afferma? - Tutta la servitù di Sing-Sing ha deposto contro di voi. - Sono dei miserabili, degli affiliati alla società segreta della "Campana d'argento", che per salvare i veri assassini incolpa noi. - Sì, sì, la vedremo. Da dove venite voi? - Io ed il mio amico Rokoff, ufficiale dell'armata russa, siamo sbarcati a Taku sette giorni or sono per venire qui ad acquistare cinquecento tonnellate di tè. - Siete un negoziante di tè, voi? - Sì, e la mia casa si trova a Odessa. - Siete venuto altre volte in Cina? - Tutti gli anni ci torno. - E conoscevate Sing-Sing? - Da molto tempo ed ero suo amico. Quale scopo dovevo dunque avere io per assassinarlo? - L'odio che tutti gli europei nutrono verso di noi e ... - Mentite! - E poi quello di derubarlo, perché il suo forziere è stato trovato vuoto. - E dove volete che noi abbiamo nascosto il suo denaro? - Chi mi assicura che non abbiate avuto dei complici? - chiese il mandarino. - Il maggiordomo di Sing-Sing ha affermato d'aver veduto delle persone sospette aggirarsi intorno al palazzo, anche dopo che tutte le lanterne erano state spente. - Allora è lui il colpevole! È lui il ladro! È lui che ha protetto gli affiliati della "Campana d'argento". - Il maggiordomo era affezionato al suo padrone; tutta la servitù lo ha confermato. - Sicché voi siete convinto che Sing-Sing sia stato assassinato da noi? Il mandarino alzò le braccia, poi le lasciò ricadere con un gesto di scoraggiamento, più simulato però che reale. Fedoro fu preso da un impeto di furore. - Voi non ci ucciderete, canaglie! - urlò, battendo furiosamente il pugno sul tavolo. - Noi siamo innocenti e per di più europei. - Se siete innocenti, provatelo - rispose il mandarino con calma. - Cominciate coll'arrestare il maggiordomo e costringerlo a confessare la verità. A voi i mezzi non mancano per strappargli quanto egli sa e che non vuol dire. - Non abbiamo alcun motivo per tradurlo qui e sottoporlo alla tortura. Non è già nella sua stanza che fu trovato il pugnale che servì agli assassini per trucidare Sing-Sing. - Siete dei banditi! ... - Dei giudici. - No, delle canaglie, che per odio di razza volete sopprimerci, ma le ambasciate europee non vi permetteranno di compiere una simile infamia. Il mandarino alzò le spalle, poi fece un gesto. Prima che Fedoro e Rokoff potessero sospettare ciò che significava, si sentirono afferrare per le spalle e per le braccia da dieci mani vigorose ed atterrare. Una banda di carnefici o di carcerieri, tutti di statura gigantesca, era entrata silenziosamente nella sala ed al cenno del mandarino si era scagliata improvvisamente sui due europei, prendendoli di sorpresa. Né Fedoro, né Rokoff avevano avuto il tempo di opporre la menoma resistenza, tanto quell'assalto era stato fulmineo. Mentre i giudici si ritiravano per deliberare sulla pena da infliggersi ai due colpevoli, i carcerieri ed i carnefici, aiutati anche dai soldati, strappavano di dosso ai due russi le loro vesti, costringendoli ad indossare una ruvida keu- ku, specie di casacca fornita d'ampie maniche ed un paio di keu-ku, sorta di calzoni molto ampi che formano sul ventre una doppia piega e che usano portare i barcaioli ed i contadini. Levarono quindi loro gli stivali, surrogandoli invece con le ha-tz, ossia scarpe grosse, a punta quadra e un po' rialzata, con suola di feltro bianco, poi con pochi colpi di rasoio fecero cadere le loro capigliature, non lasciando coperta che parte della nuca. Era una trasformazione completa: i due europei erano diventati due cinesi e per di più dell'ultima classe. Quando quei manigoldi ebbero finito, sollevarono violentemente Fedoro e Rokoff e li cacciarono a forza entro una gabbia di bambù, d'una solidità a tutta prova e così stretta da contenerli a malapena. Quando Rokoff si sentì libero, mandò un vero ruggito. S'aggrappò alle sbarre e le scosse con furore, mentre dalle sue labbra contratte uscivano urla feroci. - Banditi! Canaglie! Vi mangerò il cuore! Siamo europei! Aprite o vi uccido tutti! Erano vani sforzi. I bambù non si piegavano nemmeno, quantunque l'ufficiale, come abbiamo detto, fosse dotato d'una forza più che straordinaria. Fedoro invece, accasciato da quell'ultimo colpo, si era lasciato cadere in fondo alla gabbia girando intorno sguardi inebetiti. Intanto il cancelliere era rientrato tenendo in mano un cartello su cui si vedevano dipinte delle lettere contornate da geroglifici superbi. Lo mostrò per un momento ai due prigionieri, poi lo appese sotto la gabbia. Fedoro era diventato orribilmente pallido e si era avventato contro le traverse come se avesse voluto strappare al cancelliere quel cartello che annunciava la loro pena. Ed infatti aveva potuto leggere: Condannati a morte perché assassini. Subito otto uomini avevano alzato la gabbia ed erano entrati in un'altra sala dove se ne vedevano parecchie altre contenenti ciascuna due prigionieri, ma molto più piccole, tanto anzi, che i disgraziati che vi erano rinchiusi non potevano fare il più piccolo movimento senza mandare urla spaventose. - Fedoro - disse Rokoff, che aveva gli occhi schizzanti dalle orbite. - È finita, è vero? - Sì, se non interviene l'ambasciatore russo. - E oseranno ucciderci? - Come cinesi. - Perché ci hanno vestiti così? - Onde nessuno possa sospettare che noi siamo europei. - E come ci faranno morire? - Non so ... ma ho paura e sento che divento pazzo! ...

. - E non abbiamo nemmeno più le carabine - aggiunse Fedoro. - Si trovano in fondo al torrente. - Su chi vorreste far fuoco? - chiese il capitano. - Su chi? Non vedete lassù gli jacks che ci guardano. - Ostinati animali! - gridò Rokoff. - Se avessi ancora il mio fucile, ne farei cadere giù qualcuno. - Come vedete, non ci resta che fare un altro salto nel torrente, se vorremo fare colazione. Per un cosacco è una cosa da nulla - disse il capitano un po' beffardamente. - È vero, signor Rokoff? - Per tutti i diavoli dell'inferno! ... Volete proprio che prenda un altro bagno? - Allora rinunciamo alla colazione e anche alla libertà e aspettiamo che i nostri compagni ci trovino. - Alla nostra libertà! - esclamò il cosacco. - Sì, mi è venuta un'idea. - Quale? - Di tentare la discesa della cateratta. - E calarsi nell'altro abisso? - Sì, Rokoff. - Se fosse chiuso anche quello? - Ho veduto una gola e suppongo che metterà in qualche burrone. - E come faremo a calarci? Non abbiamo corde. - Sì, le nostre fasce di lana - disse Fedoro. - Non basterebbero - rispose il cosacco. - La cascata ha un salto di venticinque o trenta metri. - Le corde ce le darà lo jack - disse il capitano. - Tagliando a liste la sua pelle? - Sì, Rokoff. - Sono deciso. - A che cosa fare? - A riattraversare il torrente. Datemi il vostro acciarino onde accenda un fuoco sull'altra riva per riscaldarmi e asciugarmi. - Rimanete qui; andrò io. - No, capitano. I cosacchi hanno la pelle più dura degli uomini d'altre razze. Fece un pacco delle sue vesti che erano quasi asciutte e si diresse risolutamente verso il torrentaccio, stringendosi ai fianchi la fascia di lana per passarvi il bowie-knife. Il capitano si era alzato per trattenerlo, ma già il cosacco, con un magnifico salto di testa, si era slanciato fra le gelide acque. - Che uomo! - esclamò il capitano. - Forte come un toro e temprato meglio dell'acciaio di Toledo. Rokoff era subito rimontato a galla, nuotando precipitosamente. Il torrente in quel luogo era largo cinque o sei metri e le sue acque scorrevano rapidissime, frangendosi con mille fragori contro le rocce delle rive. Il cosacco però, abituato ad attraversare i larghi fiumi del suo paese, nuotava con vigoria, tagliando la corrente diagonalmente. - È fredda l'acqua, signor Rokoff? - chiese il capitano. - Mi pare che lo sia meno di prima, nondimeno mi sento gelare perfino il cuore. - Accendete il fuoco, prima di tutto. Vedo che anche sull'altra riva i licheni e gli sterpi abbondano. Il cosacco, dopo essere stato più volte trascinato via dalla corrente riuscì finalmente ad aggrapparsi alla sporgenza d'una rupe e ad issarsi sulla riva. Appena fuori dall'acqua fece raccolta d'erbe e le accese, mettendosi a saltare intorno alla fiamma per sgranchirsi le membra rattrappite da quel bagno più che gelido. Avendo trovato anche alcune betulle nane, piantò a terra dei rami per asciugare meglio le vesti che si erano nuovamente bagnate, quantunque le avesse legate sulla testa. - È proprio morto lo jack? - chiese il capitano, che era tornato presso il suo falò. - Mi pare che respiri ancora - gridò Rokoff. - Gli dò il colpo di grazia prima che gli salti il ticchio d'alzarsi e di fare un altro bagno. Si levò dalla cintura il bowie-knife e glielo immerse nel collo, facendo uscire un abbondante getto di sangue, poi tornò sollecitamente presso il fuoco, riprendendo i suoi salti. Una mezz'ora dopo, indossate le vesti che erano asciutte e ben calde, si metteva al lavoro. Strappò prima la lingua che gettò ai suoi compagni, poi si mise a scuoiare quel corpaccio, impresa tutt'altro che facile per lui ma che tuttavia, bene o male, condusse a termine, seguendo i consigli datigli dal capitano. Levata una costola ed infilzatala in un ramo verde la mise ad arrostire, non sentendosi in grado, almeno in quel momento, di fare il terzo bagno per recarsi a far colazione col capitano e con Fedoro. Mentre l'enorme braciola si cucinava, si mise a tagliare la pelle in strisce che subito annodava prima che seccassero, ottenendo una corda d'una trentina di metri, lunghezza sufficiente per tentare la discesa della cascata. - Signor Rokoff! - gridò il capitano. - Possiamo offrirvi un pezzo di lingua? - Preferisco la mia bistecca - rispose il cosacco, che stava già levandola dal fuoco. - Fate una buona scorpacciata perché sarete costretto a ripassare ancora il torrente. - Se potessi fare a meno del bagno sarei ben lieto, quantunque mi sia ormai un po' abituato - rispose Rokoff a bocca piena. - Delizioso questo jack, capitano! Peccato dover lasciar qui tutta questa carne. - Abbiamo l'altro lassù. - Andatelo a prendere. - Non ho alcun desiderio di lasciarlo tutto alle aquile. - Volete ritornare sull'altipiano? - Ci saremo costretti per rinnovare le nostre provviste. Torneremo col macchinista e col mio amico e anche con una bomba ad aria liquida per far saltare in aria gli jacks, se li troveremo ancora. - Un'idea, capitano. - Dite, signor Rokoff. - Dove credete che metta questo torrentaccio o fiume che sia? - Certamente in qualche bacino o laghetto. Non dobbiamo essere lontani dal Tustik-Dung e dal Lob-nor. - Se gettassimo questo animale nella corrente? - Per riprenderlo abbasso? - Sì, capitano. - La vostra idea non mi sembra cattiva, anzi. Gli è che da solo non potrete muovere una tale massa, quantunque siate d'una robustezza eccezionale. - Passate il torrente e venite ad aiutarmi. - Ah! Rokoff! - esclamò Fedoro. - Tu giochi d'astuzia per non fare il terzo bagno. Io però sono pronto a tentare la prova. - Se non sai nuotare! - Hai la corda. - Che noi terremo tesa, signor Rokoff - disse il capitano. - In quanto a me, non ne avrò bisogno. - No - disse il cosacco, con tono risoluto. - Esporre Fedoro ad un simile pericolo mai; d'altronde possiamo spingere egualmente lo jack nel torrente. La corda è solidissima e non si spezzerà! Ora vedrete. Legò le due gambe anteriori dell'animale, esaminò tutti i nodi per accertarsi se erano bene stretti, poi gettò l'altro capo della corda ai compagni, dicendo: - Tirate, mentre io spingo. Vi dico che riusciremo. Doveva possedere una forza più che erculea quel cosacco perché spingendo ora da una parte ed ora dall'altra, riuscì a smuovere l'enorme massa la quale, trovandosi su un pendio ed a soli pochi passi dalla riva, in causa anche delle frequenti scosse del capitano e di Fedoro, finì per rotolare nel fiume. Essendo trattenuta dalla corda, l'acqua la spinse verso la riva opposta, dove il capitano l'attendeva per tagliare alcuni pezzi di carne, prima d'abbandonare l'animale alla corrente. Rokoff intanto era tornato a spogliarsi per intraprendere la sua terza traversata che compì non meno felicemente delle altre due. L'aver appena fatto colazione, non aveva recato alcun disturbo a quell'ercole che sembrava fosse corazzato con lamine d'acciaio. Lo jack intanto, abbandonato a se stesso, veniva travolto dalla corrente impetuosa. Fu veduto girare un momento su se stesso presso la cascata, poi inabissarsi. - Buon viaggio - disse Rokoff, che alimentava il fuoco. - Mentre vi asciugate, io e Fedoro andremo a vedere da qual parte potremo scendere - disse il capitano. - Sono già le due e chissà quanta via dovremo percorrere prima di ritrovare lo "Sparviero". I nostri compagni saranno un po' inquieti per la nostra prolungata assenza. Seguirono la riva del torrente portando con loro la corda e s'arrestarono all'estremità del burrone. Le acque, chissà dopo quanti anni di continuo lavoro, si erano aperte un largo passaggio fra la parete rocciosa e si precipitavano nel sottostante abisso da un'altezza di oltre venticinque metri, con un rombo assordante, che l'eco delle rupi ripercuotevano ed ingrossavano. Le due pareti erano quasi lisce, ma lasciavano ai due lati del torrente un po' di spazio sufficiente a lasciar passare un uomo. - Potremo scendere - disse il capitano. - Prenderemo una doccia gelata, ma bah! Penseremo poi a riscaldarci. - Dove legheremo la corda? - chiese Rokoff. - A quella roccia, che sembra sia stata collocata lì per servire a noi. - Non cadremo in una nuova trappola? - Vi è una gola nel burrone - rispose il capitano, il quale si era spinto fino sull'orlo della cascata. - Speriamo che non sia chiusa. Alcuni passi più indietro vi era uno scoglio aguzzo che s'alzava in forma d'obelisco. Il capitano legò la corda, poi lanciò l'altra estremità parallelamente alla cascata. - Ce n'è a sufficienza - disse. - A me l'onore di tentare pel primo la discesa. Prima che Fedoro avesse potuto rispondere, l'intrepido comandante si era aggrappato alla corda, lasciandosi lentamente scivolare. Ben presto si trovò avvolto in una nube di schiuma e di acqua polverizzata. Degli spruzzi, tratto tratto, gli piombavano addosso accecandolo e quasi soffocandolo, mentre il rombo della cascata lo assordava, pure resisteva tenacemente, tenendosi ben stretto alla corda. Fedoro lo seguiva cogli sguardi, fremendo. Se un nodo si fosse sciolto, quale spaventevole caduta! Il capitano non si sarebbe certamente salvato, il fondo della cateratta essendo irto di rocce sottili come aghi. A un tratto lo vide scomparire dietro l'angolo della parete, poi udì confusamente la sua voce. - Deve aver toccato il fondo - disse Fedoro a Rokoff il quale si era rapidamente svestito. - A te ora - disse il cosacco. - Io scenderò ultimo per tenerti la corda ben tesa. Bada di non lasciarti andare prima del tempo e di non cadere in acqua; nessuno potrebbe salvarti e la corrente ti fracasserebbe subito contro le rocce. Se soffri le vertigini, chiudi gli occhi. - Sì, Rokoff - rispose il russo. Strinse la corda con tutta la forza delle mani e si lasciò scivolare adagio adagio per non scorticarsi le palme e le dita. Quella discesa era veramente terribile, con quella cascata che precipitava a pochi passi, fra tutta quella spuma che gli impediva di vedere la rupe, quel fracasso rimbombante e quei getti d'acqua che lo inondavano, freddi come se fossero di ghiaccio liquido. Due o tre volte, intontito, mezzo soffocato, fu lì lì per perdere la sua energia e lasciarsi andare, non sentendosi più in grado di poter resistere a quella prova tremenda. A un certo punto sentì due braccia robuste afferrarlo ed attirarlo verso la parete. - Qui, mettete i piedi qui! - gli gridò una voce agli orecchi. - La discesa è finita. Era il capitano che lo aspettava su una piccola piattaforma che si trovava a pochi metri dal fondo della cascata. - Aggrappatevi a questi sterpi - disse il comandante dello "Sparviero" - Poco piacevole questa discesa, è vero, signor Fedoro? - Stavo per lasciarmi cadere - rispose il russo, afferrandosi, coll'energia che infonde la disperazione, ad alcune radici che uscivano da un crepaccio della parete. - Vi sareste sfracellato. E Rokoff? - Sta per scendere. - Aspettiamolo, poi andremo a visitare quella gola. Il cosacco non si fece aspettare molto. Quel diavolo d'uomo non aveva provato alcuna vertigine, né un momento di debolezza. Pure non sembrava troppo contento. - Per le steppe del Don! - esclamò, appena mise i piedi sulla piattaforma. - Quasi avrei preferito fare un altro salto nell'abisso. All'inferno gli jacks e anche le cascate! Possiamo almeno uscire? - Ora lo sapremo - rispose il capitano. Saltarono su un'altra piattaforma che si trovava un metro più sotto e scesero nel burrone che era molto più ampio del primo e del pari attraversato in tutta la sua lunghezza dal torrente, il quale si precipitava, con un altro salto, entro un bacino profondo che sboccava in una stretta valle. - Vedete lo jack in qualche luogo? - chiese Rokoff. - No - rispose il capitano. - La corrente l'ha portato via. - In quale stato giungerà abbasso con tutte queste cascate? Lo troveremo a pezzi. - Abbiamo l'altro sull'altipiano - rispose il capitano. - Ecco la gola! Attraversato il burrone giunsero dinanzi ad uno stretto passaggio aperto fra due rupi enormi che s'alzavano fino al piccolo altipiano e così lisce da rendere impossibile una scalata. Il capitano ed i suoi compagni si cacciarono nella gola che descriveva delle curve e dopo dieci minuti giungevano in una valletta la quale scendeva ripidissima fino al deserto. - Urrà'. - gridò Rokoff. - Ecco laggiù lo "Sparviero"! Siamo salvi! Infatti, adagiata sulle sabbie, si scorgeva la macchina volante, colle sue immense ali distese. Una macchietta nera si muoveva sulla sabbia, ora accostandosi e ora allontanandosi dal fuso. - Un nostro compagno che veglia - disse il capitano. - Scendiamo amici. - E il torrente? - chiese Fedoro. - L'odo rumoreggiare sulla nostra destra. - Andremo a cercarlo poi? - Sì, signor Fedoro; preme anche a me lo jack. Si misero a scendere la valletta, fermandosi di quando in quando per tema di fare un altro incontro con quei formidabili animali, incontro che avrebbe potuto avere gravi conseguenze, non avendo più le carabine che erano rimaste in fondo al torrente. Alle sei di sera toccavano le sabbie del deserto. Stavano per dirigersi verso lo "Sparviero", quando Rokoff segnalò uno stormo di grossi uccelli che s'alzava e s'abbassava dietro un ammasso di rocce. - Capitano - disse. - Non sono avvoltoi quei volatili? - Si - rispose l'interrogato, dopo averli osservati qualche istante. - Ci deve essere qualche carogna per averli attirati in così grosso numero. - Che sia il nostro jack? - Pensavo anch'io in questo momento a quell'animale. Forse il torrente o fiume che sia, scorre dietro a quelle rupi. - E lo abbandoneremo a quegli ingordi uccellarci? - No, l'abbiamo cacciato noi e l'avremo. Signor Fedoro, recatevi allo "Sparviero" e dite al macchinista di venire a raggiungerci. Non è che ad un miglio da noi. Mentre il russo si allontanava, il capitano ed il cosacco girarono intorno a quell'ammasso di rupi, che formavano l'ultimo sperone della piccola catena. Il torrente, diventato un largo fiume, scorreva dietro di esse, dirigendosi verso l'est.-Era un affluente del Darja, oppure andava ad alimentare il lago di Tuslik-dung o quello più ampio del Lob-nor? Le sue acque avevano cominciato a fertilizzare le aride terre del deserto. Sulle due sponde si vedevano numerose betulle nane e fitti cespugli. - Ecco là gli avvoltoi - disse Rokoff. - Saccheggiano la nostra selvaggina; vedete che s'innalzano portandosi via dei pezzi di carne sanguinante? I bricconi! Affrettarono il passo e giunsero sulla riva. Non si erano ingannati. Lo jack si era arenato su un banco di sabbia e una quarantina di brutti avvoltoi, col collo spellato e rognoso, le penne oscure ed arruffate, stavano dilaniandolo con ingordigia feroce; ci vollero molte sassate prima di deciderli ad abbandonare l'enorme preda che avevano già intaccata in più parti, aprendo dei buchi considerevoli. Vi era però ancora tanta carne, da assicurare i viveri per un mese intero ai cinque aeronauti. Nelle continue cadute l'animale era stato ridotto in deplorevoli condizioni. Gambe e costole erano state fracassate e la carne in più luoghi sbrindellata. - Sarà più frolla - disse Rokoff. Lo "Sparviero" giungeva volando a pochi metri dal suolo. Si posò a cinquanta passi dalla riva ed il macchinista, e l'uomo silenzioso scesero armati di scuri. Due ore dopo lo jack, ridotto a pezzi, gelava nella ghiacciaia dello "Sparviero".

. - Ritroveremo ancora quel fiume che abbiamo già attraversato nel Tibet? - Sì, signor Rokoff. - E poi? - Ecco dei montanari che si preparano a farci cattiva accoglienza - disse il capitano, senza rispondere alla domanda. - Teniamoci alti; qui hanno dei fucili di lunga portata e d'una precisione che stupirebbe i migliori armaioli. - Anche qui non amano gli uomini bianchi? - Non li vedono troppo volentieri, quantunque nella capitale di questo Stato risieda un rappresentante consolare inglese per la protezione degli europei. Anche oggidì di quando in quando fanno un'alzata di scudi e danno addosso ai coloni anglo-indiani, senza preoccuparsi delle continue minacce del governatore del Bengala. A voi il cannocchiale; li vedete su quell'altura? Due o tre dozzine d'uomini sbucati da un vallone, si erano radunati su una piccola piattaforma e guardavano con stupore lo "Sparviero", tenendo in mano delle lunghe carabine. Più coraggiosi dei cinesi, dei mongoli e anche dei tibetani, invece di fuggire si preparavano a moschettare l'enorme uccello, che scambiavano probabilmente per qualche aquila mostruosa. Erano tutti di statura alta e vigorosa, colla pelle quasi bianca, capelli neri e corti, per lo più gozzuti e molto sporchi. Indosso avevano dei mantelloni di pelle di montone, col pelo all'infuori e ai piedi stivali che salivano fino alle cosce. Quando parve loro che lo "Sparviero" fosse a tiro, si gettarono a terra, nascondendosi dietro le rocce e lo salutarono con una scarica nutrita. - Ho udito qualche palla fischiare - disse Fedoro. - Non mi stupisco - rispose il capitano - eppure ci troviamo a milletrecento metri. Non sono i moschettoni a miccia dei tibetani questi; sono buone carabine di precisione. Guardiamoci da questa gente e questa sera riprendiamo i nostri quarti di guardia. Il deserto finisce qui e su questi territori non siamo sicuri né da parte degli uomini, né delle belve. - Dove ci fermeremo? - chiese Rokoff. - Sulle frontiere dell'Assam. Ora che non ci sono più correnti d'aria furiose, marciamo con una velocità di quaranta o forse più miglia all'ora. Fra poco ci libreremo sopra la capitale del Butan. Lo "Sparviero" precipitava la corsa, mantenendosi sempre a un'altezza di milleduecento o milletrecento metri per evitare le catene di montagne che sorgevano un po' dappertutto. Il paese era sempre scarsamente popolato. Non si vedevano che pochissimi villaggi, per lo più costruiti malamente, con pietre e tronchi d'albero, con pochi tratti di terreno coltivato a granturco e a orzo. Abbondavano invece i buoi, i montoni e i cavalli, i quali scorrazzavano sugli altipiani erbosi. Mezz'ora prima del tramonto, lo "Sparviero", come aveva predetto il capitano, passava con velocità fulminea su Tassesudon, la capitale dello Stato, spargendo un vivo terrore fra gli abitanti, i quali, vedendo quel mostruoso volatile, si precipitavano per le vie urlando e battendo furiosamente i gong, certo per spaventarlo e costringerlo a fuggire. Tassesudon è la residenza del deb-rajah e viene annoverata come la principale fortezza del Butan, avendo mura massicce che hanno un'altezza di oltre trenta piedi e solidi bastioni. Nel mezzo giganteggiava il palazzo reale, una costruzione enorme, in forma di parallelogramma, a otto piani e il tetto a punta adorno d'antenne e di bandiere, con sulla cima una statua rappresentante Mahamonnie, una delle divinità adorate dai butani. Le case degli abitanti, invece, sorgevano più lontano, disposte a casaccio e senza ordine, per lo più in legno e a un solo piano. Gli aeronauti ebbero appena il tempo di gettare uno sguardo sulla città. Lo "Sparviero", spinto da un vento fortissimo che soffiava dalle altissime giogaie degli Himalaya accelerava sempre la corsa, diventata ormai vertiginosa. Il capitano, vedendo delinearsi verso il sud una catena coperta di folte boscaglie, lanciò la macchina volante in quella direzione, non osando scendere nei dintorni della città. Non fu che verso le dieci della sera che quei monti furono raggiunti. Trovato un posto sgombro d'alberi, lo "Sparviero" discese lentamente su un piccolo altipiano che era circondato da nim, alberi dal tronco colossale e dal folto fogliame, da splendide mangifere, da pipal e da superbi palmizi tara. Stava per adagiarsi su un folto e altissimo strato di kalam, erbe dure che raggiungono un'altezza considerevole, quando il capitano, che stava osservando i dintorni, indicò a Rokoff alcune ombre che si dirigevano verso la foresta. - Animali? - chiese il cosacco. - E di quelli che vi piacciono tanto arrostiti - rispose il capitano. - Vi ricordate dei laghi del Caracorum? - Ma quelle bestie non sono trote. - Parlo di orsi io, o meglio di zamponi d'orso. - E come? Vi sono anche qui di quei plantigradi? - Appartenenti ad un'altra famiglia, pure egualmente squisiti, mio caro signor Rokoff. Quello che avete ucciso nel Caracorum era un melaneco; questi che fuggono sono invece dei labiati, più grossi e anche più pericolosi. - E li lasceremo andare? - Avete sonno, signor Rokoff? - No, capitano. - Accettereste una partita di caccia notturna all'agguato? Siamo scarsi di viveri e prima di lasciare l'India dovrò rinnovare le mie provviste, non desiderando accostarmi ad alcuna città. Per ora gli orsi; più tardi andremo a cacciare nelle giungle, dove i bufali abbondano al pari delle tigri e dei rinoceronti. Questi pochi giorni che passeremo ancora assieme, li dedicheremo alla caccia. Vi piace, signor Rokoff? - Vorrei che si prolungassero indefinitamente per non lasciarvi. - Che cosa volete, signor Rokoff? Devo andarmene lontano, molto lontano. - E dove? Il capitano col braccio indicò il settentrione. - Lassù - disse. - Ritornerete nel Tibet? - Più su ancora. - In Mongolia? - Non so, vedremo - rispose il capitano. - Se dal personaggio che ci accompagna non avessi appreso certe cose, invece di scendere in India vi avrei condotto per lo meno fino al Caucaso, facendovi attraversare il Turchestan e la Persia ... ; chissà che un giorno, in qualche angolo del mondo ci possiamo ancora incontrare e farvi fare un altro meraviglioso viaggio ... speriamolo ... Signor Rokoff, ceniamo e poi andiamo a vedere di sorprendere qualche orso. - Abbondano qui quei plantigradi? - Il Butan e anche il Nepal sono molto frequentati da quegli animali. Non torneremo colle mani vuote, ve lo assicuro e forse riusciremo ad abbattere anche dei black-bok. - Che animali sono? - Dei caproni neri, che hanno delle costolette eccellenti. Essendo la cena pronta, mangiarono in fretta, raccomandarono ai compagni di fare buona guardia, dividendosi i quarti, poi armatisi di carabine express e munitisi di abbondanti munizioni e d'una fiasca di brandy per combattere il freddo che si faceva sentire, lasciarono il fuso, dirigendosi verso la foresta. La notte era chiara, perché la luna si era già alzata e nessuna nube offuscava il cielo; vi era quindi qualche probabilità di poter sorprendere gli orsi che, ordinariamente, si tengono nascosti durante le notti oscure e umide. Il capitano e Rokoff attraversarono velocemente le alte erbe che crescevano intorno al fuso, occupando tutto il piccolo altipiano e raggiunsero il margine della foresta, arrestandosi un momento ad ascoltare. Un profondo silenzio regnava sotto la cupa ombra delle mangifere e dei pipal. Solamente in lontananza si udiva qualche rado urlo di cane selvaggio, urlo più prolungato e più acuto di quello che lanciano gli sciacalli. - Cerchiamo un posto per metterci in agguato - disse il capitano. - Fra poco questo silenzio verrà rotto dalle belve. - Vedo là un grosso albero il cui tronco è circondato da folti cespugli - disse Rokoff, indicando un maestoso nim, che sorgeva isolato nel mezzo d'una minuscola radura. Si diressero da quella parte, coi coltelli s'aprirono un passaggio, e fatto intorno a loro un piccolo spazio, stesero a terra le coperte che avevano portato. - Il posto è buono - disse il capitano, dopo d'aver armato la carabina. - Udite questo gorgoglio? - Sì - rispose Rokoff. - Indica la vicinanza d'una sorgente o d'un torrentello. Gli animali non tarderanno a venire a dissetarsi. - Gli orsi neri? - Forse anche gli orsi. Perbacco, ci tenete agli zamponi di quei plantigradi? - Sono così eccellenti. - Non dico il contrario, signor Rokoff. Accesero le pipe, si sdraiarono sulle coperte, si misero le carabine a fianco e attesero che gli animali della foresta uscissero dai loro covi. Il silenzio che poco prima regnava quasi sovrano, veniva ora turbato con maggior frequenza. Dei rumori, vaghi dapprima, si propagavano sotto le ombre dei palmizi e delle mangifere; ora era un urlo che pareva l'ululato d'un lupo indiano, ora un miagolio rauco di qualche gattone selvaggio, ora invece un fischio acuto. Si trovavano colà da un quarto d'ora, quando il cosacco si sentì cadere addosso un ramo, che lo colpì proprio sul naso. - Chi mi bombarda? - si chiese. - Qualche ramo morto che il vento ha spezzato - disse il capitano. - Non secco, signore - rispose il cosacco, che lo aveva raccolto. - È verde e sembra che sia stato appena spezzato. - Se vi fossero qui delle scimmie direi che qualcuna si è rifugiata su quest'albero, ma qui non se ne trovano. Le vedremo più abbasso, nelle pianure dell'Assam e del Bengala. Poco convinto che quel ramo si fosse spezzato da sé, Rokoff s'alzò guardando fra il fogliame del nim, senza riuscire a scorgere alcunché di sospetto. - Non sta lassù la selvaggina - disse il capitano, che si era pure alzato. - Udite le foglie scrosciare? Qualcuno si avvicina. Un urlio assordante, un misto di ululati e di latrati echeggiò in quel momento a breve distanza, nel mezzo d'una massa di cespugli che dovevano coprire le rive del torrentello. - Chi sono questi concertisti scordati? - chiese Rokoff. - Non fate fuoco - disse il capitano, fermandogli il braccio e abbassandogli l'arma. - Non valgono una palla e poi non ci conviene spaventare la selvaggina. - Pare che l'abbiano con noi. - Ci hanno fiutati. - Che cosa sono? Sciacalli forse? - No, dei bighana, ossia dei lupi indiani un po' più piccoli di quelli siberiani e dei russi, tuttavia assai coraggiosi. - Che vengano a seccarci? - Non lo credo. Siamo in due e non oseranno farsi innanzi. Sarei però ben contento di fucilarli. Questi bricconi terranno lontana la selvaggina. - Facciamo una scarica. - No, signor Rokoff, aspettiamo e ... Un altro ramo era in quel momento caduto, colpendolo sulla testa. - Diavolo - esclamò. - Prima uno a voi, ora uno a me! - Vi dico, capitano, che lassù vi è qualcuno che si diverte a bombardarci. Guardate: anche questo ramo è verde ed è stato appena spezzato perché è ancora bagnato di linfa. - Chi può essersi rifugiato lassù? - Qualche tigre? - Non si arrampicano sugli alberi, signor Rokoff, e poi qui non ve ne sono, trovandoci noi ancora troppo alti. - E quei lupi che pare si avanzino minacciosi? Stiamo per venire presi fra due fuochi? - Signor Rokoff, che lassù si celino quegli zamponi che tanto vi piacciono? - Qualche orso? - I labiati e anche i panda si arrampicano al pari dei gatti. - E sono pericolosi? - I primi sì. Assaliti si difendono e strappano gli occhi ai cacciatori. - Ci tengo a non perdere i miei. Se lasciassimo questi cespugli? - Se voi ci tenete ai vostri occhi, io non ho alcun desiderio di perdere le mie gambe o per lo meno di lasciare i polpacci fra i denti dei bighana. A giudicare dalle loro urla, devono essere straordinariamente cresciuti di numero. Vedo dappertutto brillare i loro occhi. - Allora quegli animali sono pericolosi. - Più degli orsi, in questo momento. Ci hanno circondati e non mi pare che abbiano l'intenzione di lasciarci, senza aver almeno assaggiato un pezzetto delle nostre gambe. - Proviamo a respingerli - disse Rokoff. - E l'orso? - Non lo vedo scendere. - Una scarica a destra e una a sinistra. I due cacciatori si fecero largo fra i cespugli, per giudicare prima la loro situazione. Entrambi non poterono reprimere una smorfia di malcontento. I bighana a poco a poco li avevano circondati e si erano radunati in numero tale da temere un furioso assalto. Se ne vedevano dappertutto e s'avanzavano lentamente e incessantemente, stringendo i loro ranghi. Come il capitano aveva detto, i lupi indiani, quando si trovano in buon numero, sono coraggiosi, anzi non la cedono, per audacia, ai grossi lupi delle steppe e della Siberia. Somigliano ai loro congeneri del settentrione, sono invece più piccoli, non essendo più alti di sessanta centimetri, né più lunghi di ottanta o novanta. Hanno il pelame rossiccio o grigiastro, colle parti inferiori bianco sporco. Ordinariamente vivono in piccoli branchi di sette od otto individui; sovente si radunano in grosse bande e allora diventano il terrore dei pastori e dei villaggi montanini. Intelligenti, velocissimi, coraggiosi, si precipitano sui montoni e sui buoi senza spaventarsi delle grida dei mandriani e osano perfino entrare, in pieno giorno, nelle borgate per rapire i bambini sotto gli occhi dei genitori. Il capitano, che li conosceva, vedendoli in così grosso numero, era diventato inquieto. - Non credevo che in così poco tempo si fossero radunati in tanti - disse a Rokoff. - Il pericolo maggiore non sta alle nostre spalle, bensì dinanzi a noi. - Cerchiamo un rifugio - disse Rokoff. - E dove? - Arrampichiamoci sul nim. - E avremo da fare i conti coll'orso. - Non sappiamo ancora se lassù si trovi veramente un tale animale. - Questo è vero - rispose il capitano. - Dei due mali, scegliamo il minore. - Proviamo prima a fucilare questi audaci predoni. - Sono pronto, capitano. Le due carabine tuonano quasi contemporaneamente con un rimbombo assordante, coprendo le urla acute dei bighana. I grossi proiettili atterrano due file di animali. Gli altri indietreggiano vivamente, balzando attraverso i cespugli e s'arrestano cinquanta passi più lontano, riprendendo con maggior lena il loro scordato concerto. - Non ci lasceranno - disse il capitano. - Vedete l'animale scendere il nim? - No - rispose Rokoffi. - Ho invece ricevuto un altro ramo sul viso e più grosso degli altri. - Mettiamo in salvo le gambe; ecco i bighana che tornano a restringere le file e che si preparano per un assalto generale. Caricate la carabina. - È già pronta. - Salite, mentre io faccio una nuova scarica. Il cosacco si gettò a bandoliera l'express, s'aggrappò al tronco e aiutandosi con delle piante parassite che lo avvolgevano, si mise a salire, tenendo gli sguardi volti in alto per paura di vedersi rovinare addosso l'animale. Il capitano, fatto una nuova scarica, si era affrettato a raggiungerlo. I lupi, furiosi di vedersi sfuggire la preda, si erano subito scagliati contro il tronco del nim, ululando ferocemente e spiccando salti colla speranza di raggiungerli. Erano quattro o cinque dozzine, numero più che sufficiente per mettere a mal partito due uomini, anche se formidabilmente armati. Rokoff e il capitano, ormai al sicuro, salivano con precauzione, guardando sempre in alto. Un animale che non riuscivano ancora a distinguere in causa della foltezza del fogliame, si agitava fra i rami, scuotendoli vigorosamente e facendone cadere parecchi. Si erano elevati d'una decina di metri, quando Rokoff, che distava pochi passi dalla prima biforcazione della pianta, si fermò, dicendo: - La bestia che sta lassù, mi pare molto grossa, capitano. - Che cosa vi sembra? - Un'enorme scimmia. - Questo non è il paese dei gorilla e nemmeno dei mias, signor Rokoff - rispose il capitano. - Sono convinto che si tratti d'un orso. - Se ci piomba addosso ci getterà giù e allora verremo alle prese coi bighana, se non ci romperemo il collo o le gambe. - Non potete far fuoco? - È impossibile, capitano, non vi sono più piante parassite a cui aggrapparmi e il tronco è così liscio che è un vero miracolo che ci possiamo sorreggere con ambo le mani. - Che cosa fa quell'animale? - Scuote i rami e grugnisce come un porco. - Potete raggiungere la biforcazione? - Mi ci proverò, ma ... se quell'animalaccio scende? - Non affrontatelo; piuttosto ridiscendete. Se è grosso deve essere un labiato e non già un panda. - Bella posizione! - borbottò Rokoff. - Abbasso i cani che non attendono altro che di rosicchiarci le gambe e sulla testa quattro zampe armate d'unghie. Siamo fra Scilla e Cariddi. - Orsù, signor Rokoff, decidetevi. Non ho più forze per sorreggermi - disse il capitano. - Giacché non vi è scampo né da una parte né dall'altra, affrontiamo il nemico che può fornirci degli zamponi. Il cosacco si assicurò la carabina onde non gli sfuggisse dalla spalla, si mise fra i denti il coltello da caccia e riprese la salita, la quale diventava sempre più difficile, non essendovi più piante arrampicanti ed essendo il tronco ancora più grosso da non poterlo abbracciare interamente. Sotto, i lupi indiani continuavano a ululare e a saltare come se fossero impazziti; sopra, l'orso, ammesso che fosse tale, continuava a scuotere furiosamente i rami, minacciando a ogni istante di lasciarsi scivolare lungo il tronco e di travolgere i due cacciatori. Rokoff, che faticava assai a tenersi stretto, con un supremo sforzo riuscì a raggiungere la biforcazione dei rami. Stava per mettersi a cavalcioni e aiutare il capitano, quando si vide precipitare addosso l'animale, il quale, fino allora, si era tenuto aggrappato a un grosso ramo trasversale, situato due metri più sopra. Come il capitano aveva supposto, si trattava veramente d'un orso della specie dei labiati, chiamati dagl'indiani adamsad, molto comuni sulle catene dell'Himalaya e anche nelle foreste del Nepal. Quantunque appartengano alla medesima razza degli altri plantigradi, sono diversi nelle forme e nelle abitudini. Hanno il corpo più corto e più massiccio, le zampe assai basse, armate di robuste unghie ricurve; muso molto sporgente che finisce in una punta tronca, pelame lunghissimo, nero sul dorso, grigio sulla testa, con qualche macchia gialla e una lunga criniera che finisce in due lunghi ciuffi, che danno a quegli animali uno strano aspetto. A prima vista, sembrerebbero gobbi. Abilissimi arrampicatori, si può dire che vivono più sugli alberi che in terra, nutrendosi quasi esclusivamente di frutta. Amano però anche le alte rupi e se sono inseguiti non esitano a slanciarsi negli abissi, nascondendo la testa fra le zampe e cavandosela senza troppi guasti. L'animale che stava per assalire il cosacco, era grosso e pesante almeno un quintale e mezzo, un nemico certo pericoloso, che poteva abbattere i due uomini. Vedendolo avanzarsi, Rokoff aveva afferrato precipitosamente la carabina, mentre gridava al capitano: - Aggrappatevi ai miei piedi! Resisterò meglio! L'orso scese rapidamente il ramo, mise le zampe posteriori sulla biforcazione e s'alzò brancolando con quelle anteriori, armate di lunghi artigli. - Fuoco! Fate fuoco! - gridò il capitano. Rokoff aveva puntato la carabina, sparando precipitosamente, quasi senza mirare. Non ebbe il tempo di constatare gli effetti della scarica, perché si sentì afferrare strettamente da due zampacce e scuotere a destra e a manca, mentre si sentiva soffiare in viso un alito caldo e fetente. Credeva di sentirsi già dilaniare le carni o scaraventare nel vuoto da un'altezza di cinquanta piedi, quando una seconda detonazione rimbombò. Era stata sparata così da vicino, che per un momento si credette accecato dalla polvere. Il capitano, comprendendo che il cosacco stava per venire oppresso e che non doveva aver colpito la belva, tenendosi con una mano, coll'altra aveva scaricato la carabina. Il labiato aveva mandato un urlo di dolore, poi aveva lasciato il cosacco, arrampicandosi su pel tronco e rifugiandosi sui rami. - Colpito! - gridò Rokoff, allungando le braccia verso il capitano, il quale si era lasciato sfuggire di mano la carabina, pel contraccolpo della grossa carica di polvere che per poco non l'aveva gettato giù. - Ma è ancora vivo - rispose il comandante. - L'avete colpito, voi? - Lo credo. - E io l'ho solamente ferito. - Forse gravemente. Guardate, mi gocciola addosso del sangue. - Morisse almeno dissanguato! - esclamò il capitano, mettendosi a cavalcioni del ramo. - Sapete che vi credevo già perduto? - Ancora un momento e venivo gettato giù. - Vi ha piantato le unghie nelle spalle? - Non ne ha avuto il tempo; ha lacerato solamente la mia casacca. - E la mia carabina è caduta! - Ne abbiamo ancora una - disse Rokoff. - Io non l'ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso. - E perdereste gli zamponi. - Perché, capitano? - I bighana ve li mangerebbero. - E durerà molto questo assedio? - Fino all'alba, se i nostri compagni non vengono a liberarci - disse il capitano. - Quei lupi non torneranno alle loro tane prima che spunti il sole. - Brutta prospettiva. Che non vengano Fedoro e gli altri? Abbiamo già sparato cinque colpi di carabina e devono averli uditi. - Diranno che noi abbiamo fatto buona caccia e non si muoveranno, signor Rokoff. - Fuciliamo i lupi. - Abbiamo una carabina troppo grossa per ottenere buoni risultati - rispose il capitano. - Queste armi sono buone contro le tigri e i rinoceronti. - Non credevo che questa caccia finisse così male! - E come, vi lamentate, incontentabile cacciatore? Siamo qui da sole due ore e abbiamo già ucciso sette od otto lupi e ferito un orso. - E siamo assediati - disse Rokoff. - Sia pure, ma siamo anche completamente al sicuro dalle offese dei nemici. Il labiato non pensa più a discendere per attaccarci e i lupi non possono salire. Che cosa volete di più, signor cosacco? E avete il coraggio di lamentarvi? - Adagio, capitano, colle vostre buone speranze. Vedo invece l'orso agitarsi e l'odo brontolare. - Si lamenta delle ferite. - E se invece scendesse? - Allora perderete gli zamponi perché sarete costretto a fucilarlo e gettarlo a pasto dei lupi - disse il capitano. - Preferisco che rimanga lassù - rispose Rokoff. - Credo che ci tenga anche lui a non esporsi agli assalti dei lupi. Se non fosse ferito, non avrebbe paura ad affrontarli, mentre chissà in quale stato si trova e se le sue zampe sono in grado di distribuire colpi d'artiglio. - Cade sempre il sangue? - Mi piove addosso - rispose Rokoff. - Devo sembrare un macellaio. - Signor Rokoff! - Capitano. - Siete annoiato? - Un pochino. - Allora tirate al bersaglio. Abbiamo ancora centonovantacinque cartucce e i lupi non sono più di cinque o sei dozzine. Se volete, divertitevi, mentre io sorveglierò l'orso. Vi concedo un lupo ogni cinque palle. - Cercherò di ammazzarne invece due su cinque colpi - disse Rokoff, accomodandosi sul ramo, onde tirare con maggior attenzione. I bighana non avevano lasciato la base dell'albero. Continuavano a saltellare, mordendo la corteccia della pianta e strappandola a larghi pezzi coi loro denti acuminati e robusti e ad urlare con tale fracasso da far rintronare la foresta. Di quando in quando alcuni si allontanavano in diverse direzioni e andavano a urlare cinque o seicento passi più lontano, su diversi toni. - Chiamano altri compagni - disse il capitano. - Che sperino di rosicchiare l'albero fino a farlo cadere? - chiese Rokoff. - Non temete; ci vorrebbero delle settimane per atterrare una simile pianta. Signor Rokoff, aspettano i vostri saluti. Il cosacco puntò la carabina mirando in mezzo al gruppo e sparò il primo colpo, facendo cadere due bestie nello stesso momento. - Ho nove palle di vantaggio - disse ridendo. - Continuate - rispose il capitano. - Ah! L'amico che sta lassù comincia ad inquietarsi. Il labiato, udendo quello sparo e vedendo il fumo salire fra il fogliame, aveva ricominciato a dimenarsi, facendo scricchiolare i rami. - Che ci cada addosso? - chiese Rokoff, guardando in alto. - Non sarà così stupido da tentare un simile capitombolo, quantunque abbiano l'abitudine di precipitarsi da altezze considerevoli, allorquando si vedono in pericolo. Se non vi fossero sotto di noi i lupi, chissà, potrebbe tentare un simile salto. - Senza fracassarsi? - Pare che abbiano le ossa molto dure i labiati e posseggano una elasticità incredibile. Signor Rokoff, i lupi aspettano sempre. - Eccomi! Il cosacco aveva ripreso il fuoco. Sparava con calma, mirando attentamente, come se si trovasse in un tiro a segno durante una gara e i lupi cadevano a uno e a due alla volta. Era davvero un valente bersagliere; di rado sbagliava l'animale che aveva scelto. In cinque minuti, undici lupi giacevano attorno all'albero, massacrati dai grossi proiettili della carabina express. - Rimangono ancora cinque dozzine - disse il capitano. - E ne giungono altre due o tre - disse Rokoff, con accento scoraggiato. - Quelli che erano partiti urlando al largo tornano con nuovi rinforzi. - Che questa foresta sia piena di bighana? - Pare che sia così, capitano. E l'orso? - Si è tranquillizzato e non l'odo più muoversi. - Che sia morto? - Sarebbe caduto. - Salutiamo i nuovi arrivati - disse Rokoff. Aveva ripreso il fuoco, mirando in mezzo ai gruppi e senza mai mancare al bersaglio. I bighana però non accennavano a volersi ritirare, quantunque vedessero aumentare i morti. Avevano tuttavia compreso che rimanendo così uniti offrivano un bersaglio troppo facile e si erano dispersi fra i cespugli, senza però allontanarsi troppo dalla pianta. - Il tiro a segno comincia ad andare male - disse Rokoff, dopo aver sprecato cinque o sei palle. - Rimarremo senza cartucce prima di averli distrutti. - Me ne sono accorto - disse il capitano. - Devo continuare? - Sì, signor Rokoff. I nostri compagni, udendo questi continui spari, s'immagineranno che noi corriamo qualche pericolo e verranno di certo in nostro soccorso. Non siamo lontani più d'un chilometro dallo "Sparviero" e le detonazioni giungeranno distinte fino al fuso. Ah! Udite? Uno sparo si era udito in quel momento in direzione del piccolo altipiano. - È uno Snider - disse il capitano. - Signor Rokoff, rispondete. Il cosacco scaricò la carabina facendo cadere un altro lupo. Un istante dopo un altro sparo echeggiava verso lo "Sparviero". - Continuate il fuoco senza interruzione - disse il capitano. - Ormai i nostri compagni hanno compreso che noi abbiamo bisogno d'aiuti. - E non li assaliranno i lupi? - chiese Rokoff. - Ci siamo anche noi, e cinque uomini bene armati possono tener testa a quei piccoli predoni. Rokoff riprese a sparare senza far risparmio di cartucce. Ormai sapeva che gli aiuti stavano per giungere e non si preoccupava di rimanere con sole poche cariche. I lupi dovevano essersi accorti che altri uomini s'avvicinavano, perché alcuni si erano distaccati dal grosso ed erano partiti ululando, in direzione del piccolo altipiano. - Li hanno fiutati - disse il capitano. - Prepariamoci ad appoggiare i compagni. D'un tratto sotto gli alberi si videro balenare dei lampi seguiti da spari. - I Winchesters - disse il capitano. - Buone armi a ripetizione che faranno ballare i bighana! I lupi che assediavano l'albero, udendo quelle detonazioni, erano partiti a corsa disperata, ululando a piena gola. - Scendiamo! - gridò il capitano. Si lasciarono scivolare lungo il tronco, toccando ben presto terra. Il capitano raccolse la sua carabina, l'armò precipitosamente e si slanciò fuori dai cespugli, gridando: - Signor Fedoro! Badate a non fucilarci! Veniamo in vostro aiuto! Vedendo i lupi radunarsi innanzi a una folta macchia, in mezzo alla quale dovevano trovarsi il russo, il macchinista e lo sconosciuto, li presero alle spalle fucilandoli senza misericordia. I bighana, presi fra due fuochi non ressero molto a quella tempesta di palle che li decimava rapidamente. Dopo d'aver cercato di far fronte ai due pericoli, si sbandarono, fuggendo velocemente attraverso la foresta, perseguitati per qualche tratto da Fedoro, dal macchinista e dal loro compagno. Rokoff stava per seguirli, quando udì il capitano gridare: - L'orso! Ecco che scende! Il cosacco si era subito arrestato, ricaricando la carabina. Il labiato, approfittando della discesa dei suoi compagni e del combattimento coi lupi, aveva lasciato gli alti rami del nim e si lasciava a sua volta scivolare lungo il tronco, colla speranza di raggiungere inosservato i cespugli e di scomparire entro le folte macchie. Aveva però fatto i conti senza il capitano, il quale, pur facendo fronte ai bighana, non aveva dimenticato quella grossa e succolenta selvaggina. Vedendo i cacciatori tornare, nascose la testa fra le zampe anteriori e si lasciò andare precipitandosi da un'altezza di otto o dieci metri. Piombò in mezzo ai cespugli che schiantò col proprio peso e senza farsi, probabilmente, troppo male, poi si rialzò di scatto e si scagliò contro il capitano, che gli era vicino, cercando di piantargli gli unghioni nel viso. - Badate! - gridò Rokoff, che giungeva di corsa. Il capitano aveva fatto un salto indietro per evitare l'urto e aveva puntato la carabina facendo fuoco quasi a bruciapelo. Quantunque ferito a morte, il labiato non era caduto, anzi si era alzato sulle zampe posteriori facendo un salto innanzi. L'attacco era stato così improvviso e così impetuoso, che il capitano, il quale credeva di averlo fulminato sul colpo, non poté reggere e cadde lungo disteso. Fortunatamente Rokoff era vicino. Si udì un secondo sparo. Il labiato brancolò un istante dimenando disordinatamente le zampe, poi stramazzò mandando un rauco urlo che finì in una specie di sibilo soffocato. - Pare che sia proprio finito questa volta - disse Rokoff. - Tre palle express e quasi non bastavano ancora! ... Che pelle dura hanno questi animali! Fedoro e i suoi compagni, dispersi i lupi, tornavano. - Un orso! - esclamò il russo. - Che ci fornirà degli zamponi deliziosi - rispose Rokoff. - E centocinquanta chilogrammi di carne eccellente - aggiunse il capitano. - Lasciamo i lupi e portiamo questo morto allo "Sparviero". La caccia, come avete veduto, signor Rokoff, non poteva riuscire migliore.

. - Noi non abbiamo il diritto d'immischiarci nei suoi affari. D'altronde un giorno conosceremo il motivo di questa sua corsa misteriosa attraverso il deserto. Gli occhi li abbiamo anche noi per vedere. Il deserto cominciava. Oltrepassata una piccola catena di montagne che limita verso il nord il bacino dell'Hoang-ho, lo "Sparviero" era sceso sopra una sterminata pianura priva di vegetazione e coperta di sabbia in gran parte riparata da un fitto strato di neve. Era il principio dello Sciamo o meglio del Gobi, il Sahara dell'Asia centrale, che occupa buona parte della Mongolia e che forma come una barriera fra la Siberia meridionale e l'impero cinese propriamente detto. Non è veramente un deserto arido, come quello africano, e nemmeno così infuocato, anzi d'inverno è freddissimo in causa dei venti gelati che soffiano dalla vicina Siberia e delle nevi che cadono abbondantemente in novembre, dicembre e gennaio. Se ha dei vasti tratti sabbiosi, ha pure delle steppe dove l'erba cresce molto alta, poi dei corsi d'acqua quali l'Urangu, lo Zankin, l'Oukom e il Kerulen, oltre a parecchi piccoli laghi, sempre ricchi d'acqua. Esso va dalla catena dei Grandi Altai che giganteggia verso l'ovest a quella del grande Chingan che corre verso l'est, ed è popolato da numerose tribù nomadi che allevano cavalli, cammelli e montoni in gran numero; però al pari dei terribili tuareg del Sahara, si dedicano anche al ladroneggio, taglieggiando e saccheggiando le carovane. Nel momento in cui lo "Sparviero" scendeva nel deserto, nessun accampamento appariva, quantunque vi fosse entrato in un luogo che ordinariamente frequentavano i nomadi urati, che formano una delle tribù più popolose dello Sciamo. Non si vedevano altro che numerose lepri, le quali, spaventate dall'ombra proiettata dall'aerotreno, fuggivano in tutte le direzioni, nascondendosi fra i radi cespugli che crescevano qua e là, specialmente nelle bassure. In alto, invece, volteggiavano grossi falchi e, non meno spaventati dei piccoli corridori, s'affrettavano ad allontanarsi da quel mostro che procedeva con un rombo strano, sbattendo febbrilmente le sue immense ali. - Che solitudine - disse Rokoff a Fedoro. - Sono tristi le steppe del Don e del Caspio, ma anche questo deserto non è allegro, in fede mia. Si vedessero almeno degli accampamenti! - Non desiderarli, Rokoff - rispose Fedoro. - Se ci scorgono non mancheranno di darci la caccia e di perseguitarci accanitamente. - Non potrebbero resistere a lungo a una simile corsa. - Non dico di no, tuttavia è meglio che si tengano lontani. Sono meglio armati dei tartari, comperando fucili dai russi di Kiathta e una palla può raggiungerci. - Sono lontani questi laghi del Caracorum? - Se continuiamo ad avanzare con questa velocità, vi giungeremo prima di domani sera. - Che il capitano abbia qualche appuntamento in quel luogo? - Colle trote forse? - Uhm! Vedremo se saranno trote, mio caro Fedoro. Questa volata verso il nord mi è sospetta. - Verso il nord-ovest - corresse il negoziante di tè, gettando uno sguardo su una bussola situata presso la prora. Mentre si scambiavano i loro pensieri, lo "Sparviero" continuava la sua corsa indiavolata, lottando senza fatica contro il gelido vento che soffiava dalla non lontana Siberia. Si era elevato fino a quattrocento metri e di quando in quando deviava ora a destra e ora a sinistra, come se il capitano cercasse un luogo acconcio per discendere. Vedendo finalmente delinearsi all'orizzonte una piccola catena di alture, puntò verso di essa, spingendo la velocità a quaranta e anche più miglia all'ora. La regione d'altronde era sempre deserta, interrotta solamente da zone nevose sulle quali si vedevano correre, con fantastica rapidità, numerosi cani viverrini, animali somiglianti alle martore, col corpo assai allungato, la testa corta e affilata, le gambe assai basse e il pelame bruno, con striature più oscure. Probabilmente andavano in cerca di qualche laghetto, essendo abilissimi pescatori. Verso le cinque, nel momento in cui il sole scompariva e che le tenebre calavano rapidissime, lo "Sparviero" calava dolcemente su una collinetta sulla quale crescevano macchie di betulle, di lauri e di piccoli pini. - La cena è pronta - disse il macchinista. - E noi siamo pronti a divorarla - rispose il capitano. - Speriamo che nessuno venga a disturbarci - disse Rokoff. - Qui non siamo sull'Hoang-ho e finora non abbiamo incontrato alcun abitante. Prima di discendere ho osservato attentamente i pendii della collina e non ho scorto alcun accampamento. - Signori, quando vorrete. Quantunque soffiasse un vento freddissimo, cenarono sul ponte, al riparo d'una tenda di feltro che il macchinista aveva tesa onde non si spegnesse la lampada ad acetilene. - Ritengo inutile montare la guardia - disse il capitano, quando ebbero finito. - Chiuderemo il boccaporto e dormiremo tranquillamente. - Non vi sono animali feroci nel Gobi? - chiese Rokoff. - Sì, degli orsi e dei leopardi delle nevi, ma il fuso è troppo solido per le loro unghie. Signori, andiamo a dormire. Alzarono le ali onde qualche animale non le guastasse, chiusero il boccaporto e si ritirarono nelle loro cabine, augurandosi la buona notte. Rokoff, che non era molto stanco, invece di chiudere gli occhi e di spegnere la sua lampadina, si gettò sul letto per fumare ancora qualche pipata di tabacco. Di quando in quando prestava orecchio agli urli del vento che da qualche po' era aumentato, spazzando la cima della collina e torcendo con mille scricchiolii le cime dei pini, dei lauri e delle betulle e piegando anche le immense ali dello "Sparviero". Senza sapere il perché, il buon cosacco non si sentiva tranquillo e pensava ostinatamente agli orsi e alle pantere accennate dal capitano. Stava però per chiudere gli occhi e cedere al sonno, quando gli parve udire dal lato della parete contro cui si appoggiava il lettuccio, degli stridii inesplicabili. Pareva che delle unghie robustissime grattassero l'esterno del fuso. - Che sia il vento che rotola dei sassi contro la parete metallica? - si chiese. - Oppure qualcuno che cerca di arrampicarsi sul ponte? Un po' inquieto s'alzò a sedere, tendendo gli orecchi. Il vento fischiava fortissimo al di fuori, imprimendo al fuso un leggero fremito, causato probabilmente dalle ali, nondimeno udì distintamente certi stridori poco rassicuarnti. - Qualche animale cerca d'intaccare la parete metallica - disse Rokoff. - L'alluminio non cederà di certo, ma se quella bestia giunge sul ponte e se la prende colle ali? Vedendo sospesa sopra il letto una grossa rivoltella, la impugnò, poi prese la lampada ed entrò nella cabina di Fedoro, che si trovava attigua alla sua. Il russo dormiva profondamente, ben avvolto nella sua grossa coperta di lana. - Svegliati - gli disse, scuotendolo vigorosamente. - Che cosa fai qui, Rokoff? - chiese il russo, aprendo gli occhi e guardandolo con stupore. - C'è qualcuno che cerca di salire sul ponte. - Hai sognato, Rokoff? - Non ho ancora chiuso gli occhi. - Chi può minacciarci? Qui non vi sono i manciù. - Vi sono delle belve, però. - Il boccaporto è chiuso e il fuso è solido. - E se fanno a brani le ali? O se guastano le eliche e gli strumenti? - Hai ragione Rokoff - disse Fedoro balzando dal letto e infilando rapidamente i calzoni. - Hai svegliato il capitano? - Siamo in due e basteremo. - Hai veduta la belva? - No, invece l'ho udita. Vieni nella mia cabina e prendi anche tu la rivoltella. Fedoro si vestì e lo seguì frettolosamente. - Odi? - chiese Rokoff, accostando un orecchio alla parete. - Sì, il vento che urla. - Ascolta attentamente, Fedoro. - Ah! Qualcuno tenta d'intaccare il metallo. - E sopra? Hai udito? - Sì, qualche oggetto è stato rotolato sul ponte. - Che siano i nomadi del deserto? - Rokoff, andiamo a vedere. Abbiamo dodici palle e di grosso calibro. - Saliamo, Fedoro. - Senza avvertire il capitano? - Noi non sappiamo ancora se esista veramente qualche pericolo; lasciamolo quindi dormire per ora. - Andiamo, Rokoff. - Tu prendi la lampada e sta dietro di me. Salirono in punta dei piedi i quattro gradini che mettevano sotto il boccaporto, poi il cosacco tirò risolutamente la sbarra che tratteneva internamente la botola e saltò fuori, tenendo la rivoltella puntata. Fedoro lo aveva subito seguito, ma un furioso colpo di vento aveva spento la lampada che teneva nella sinistra. - Ah! Per le steppe ... Rokoff non finì la frase. Aveva fatto un salto indietro, urtando così malamente il compagno da farlo cadere. Fra le tenebre aveva veduto un'ombra agitarsi a poppa, presso la ruota del timone. Era un uomo o una belva? Il cosacco, ancora abbagliato dalla luce della lampada, non poté subito sapere con quale avversario aveva a che fare. Tuttavia puntò risolutamente la rivoltella e scaricò, uno dietro l'altro, tre colpi. L'ombra mandò un urlo rauco, poi, con un balzo, varcò la balaustrata, precipitando giù dal fuso. - Colpito? - chiese Fedoro, che si era prontamente risollevato e che si preparava, a sua volta, a far fuoco. - Ferito, forse - rispose il cosacco, slanciandosi verso la balaustrata. L'ombra si era subito rialzata e galoppava fra i cespugli, cercando di guadagnare un folto gruppo di betulle. In quel momento il capitano e il macchinista comparvero sul ponte, entrambi armati di carabine. - Che cosa fate qui, signori? - chiese. - Contro chi avete fatto fuoco? - Ho sparato contro un animale che passeggiava sul cassero - rispose Rokoff. - L'avete veduto bene? - Vagamente. - Qualche leopardo delle nevi? - Mi parve piuttosto un orso, capitano - disse Fedoro. - È fuggito? - Sì - disse Rokoff. - Perché non avvertirci? Potevano essere più d'uno e assalirci. - Avevamo dodici colpi. - Signori miei, ammiro il vostro coraggio e sono ben lieto d'aver preso con me due uomini senza paura. Ha guastato qualche cosa quell'animale? - Non mi pare. - E come vi siete accorti che il ponte era stato invaso? - Ero ancora sveglio e ho udito qualcuno che cercava di arrampicarsi - disse Rokoff. - Gli orsi non sono rari nel Gobi, quantunque non molto pericolosi, se soli. Doveva essere un melanoleco, un plantigrado che si trova solamente nel Tibet e nella Mongolia. Domani cercheremo di scovarlo. Andiamo a riprendere il nostro sonno; ritengo che dopo simile accoglienza non gli salterà più il ticchio di venire a passeggiare sul nostro "Sparviero".

Il capofila l'aprì con un poderoso calcio, gridando con voce imperiosa: - Changhi, portaci del ciam-sciù; abbiamo tanta sete da vuotare tutti i tuoi vasi. Non ricevendo risposta, entrò seguito da tutti gli altri. - Changhi è scomparso, - disse un manciù - ed ha lasciato a guardia della sua casa questi sei ubriachi. Bah! Non protesteranno se noi diamo l'assalto a questi vasi che pare siano stati messi qui per noi. Tanto peggio per Changhi se non troverà più una goccia di sciam-sciù. I manciù, bevitori formidabili quanto i cosacchi e gli irlandesi, si sedettero intorno ai vasi e cominciarono a bere a garganella senza occuparsi dei mangiatori d'oppio, i quali d'altronde non avevano interrotto il loro sonno. I tre aeronauti, sdraiati al suolo, spiavano i bevitori attraverso uno strappo della stuoia. Di quando in quando, or l'uno e ora l'altro, s'alzavano per dare uno sguardo alla foresta, temendo il ritorno del tartaro. - Appena saranno ubriachi ce ne andremo lestamente - aveva detto il capitano. - Se quel tartaro compare prima, guasterà ogni cosa e vorrei che rimanesse lontano qualche ora ancora. I manciù, trovandosi liberi, ne abusavano per bere a crepapelle. Le tazze s'immergevano e si vuotavano con rapidità straordinaria, senza estinguere la sete che divorava quei robusti stomaci. Cominciavano però a provare i primi sintomi dell'ubriachezza. Ridevano, schiamazzavano, parlavano tutti a un tempo, si dimenavano come ossessi e altercavano. A un tratto uno di loro s'alzò e staccò una pipa che si trovava appesa al muro. - Cerchiamo dell'oppio! - gridò. - Abbiamo ancora due vasi da bere e Changhi non è ancora giunto. - Così si ubriacheranno più presto - disse Fedoro. - Si vede il tartaro? - chiese il capitano a Rokoff, il quale si era allora recato sulla veranda. - Non ancora. - Se quei manciù continuano a bere con quell'avidità, fra un quarto d'ora saremo padroni del campo. I manciù, già quasi ebbri, avevano trovato in un vano della parete una grossa pallottola d'oppio, del vero chandoo, il migliore che si conosca e che è molto apprezzato dai cinesi, e anche parecchie pipe adatte per fumarlo. Sono un po' diverse da quelle usate dai fumatori di tabacco. Si compongono d'un tubo cilindrico, lungo ordinariamente mezzo metro, aperto da una parte e chiuso dall'altra e d'un fornello di forma conica situato a circa dieci centimetri dall'estremità che è chiusa. Essendo l'oppio sciropposo e impregnato sempre d'umidità, prima di versarlo nella pipa lo si mette in un cucchiaio e lo si riscalda fino a che abbia preso una certa consistenza. Ciò ottenuto lo si versa sull'orlo del fornello e lo si accende avvicinandolo a un bastoncino d'incenso o semplicemente alla fiamma del focolare. I manciù, preparate ed accese le pipe, ricominciarono a bere con maggior ardore, alternando oppio e acquavite di riso. Una densa nuvola di fumo oleoso invase ben presto la stanza sfuggendo lentamente attraverso la stuoia. - Ci ubriacheremo anche noi - disse Rokoff, alzandosi. - Credo che sia il momento di andarcene - disse il capitano. - Ormai i soldati non lasceranno i vasi, finché rimarrà in fondo una goccia di liquore. Si vede nessuno fuori? - No - rispose Fedoro. - Dove sarà andato il tartaro? Questa assenza così prolungata non mi tranquillizza affatto. - Lasciamolo dove si trova e sgombriamo - disse Rokoff. Afferrò la scala e la calò fuori della veranda. - A voi, capitano - disse. - Eccomi - rispose il comandante, afferrando il fucile. Diede un rapido sguardo sotto le piante e non vedendo o almeno credendo che non vi fosse alcuno, scese rapidamente. Era appena giunto a terra e Rokoff e Fedoro stavano scendendo l'uno dietro all'altro, quando un lampo balenò dietro un cespuglio, seguito da una fragorosa detonazione e dal ben noto fischio della palla. Il capitano si volse rapidamente, puntando il fucile. Un uomo fuggiva rapidamente attraverso le piante, cercando di ripararsi dietro ai tronchi. - Canaglia! - gridò il comandante. - Lo sospettavo! Lasciò partire i due colpi. L'uomo che fuggiva cadde senza mandare un grido, scomparendo in mezzo a un cespuglio. Rokoff e Fedoro con un solo salto erano balzati a terra, preparando le armi. - Fuggiamo! - gridò il cosacco. - I soldati! - Dove? - chiesero Fedoro e il capitano. - Eccoli là che si avanzano fra gli alberi. Due o tre colpi di fucile rimbombarono. Dei soldati accorrevano fra i tronchi dei pini e delle querce, facendo fuoco. - Via! - gridò il capitano, ricaricando prontamente il fucile. Tutti e tre si slanciarono furiosamente innanzi, raccomandandosi alle proprie gambe e dirigendosi verso l'Hoang-ho. I manciù si erano già gettati sulle orme dei fuggiaschi, continuando a sparare con nessun successo, perché le palle, mal dirette, non colpivano che i tronchi degli alberi. In un quarto d'ora il capitano e i suoi compagni giunsero sulla riva del fiume, a breve distanza dalla barca. I manciù, che si fermavano sovente per caricare i loro moschettoni, erano rimasti molto indietro. Tuttavia si udivano le loro grida avvicinarsi. - Presto, imbarchiamoci - disse il capitano. - Andiamo all'isolotto? - chiese Rokoff prendendo i remi. - No, passiamo sull'altra riva. Sarebbe pericoloso mostrare ai manciù che noi abbiamo stabilito il nostro domicilio su quest'isola. La scialuppa, spinta poderosamente innanzi dal cosacco, tagliò la corrente obliquamente, dirigendosi verso la riva sinistra, che si trovava lontana quasi tre chilometri. Per metterla al coperto dal fuoco dei soldati, Rokoff prima si accostò all'isolotto, onde ripararsi dietro di esso. Il capitano e Fedoro si erano sdraiati a poppa, tenendo i fucili in mano. I manciù cominciavano a comparire. Urlavano come belve feroci e saltavano come capre. Giunti sulla riva si sparpagliarono dietro i tronchi dei pini e delle querce, aprendo una nutrita fucilata. Erano una ventina e alla loro destra si vedeva il tartaro. Il briccone era miracolosamente sfuggito ai colpi del capitano e per paura degli altri si era lasciato cadere, fingendosi morto. - Canaglia! - esclamò il comandante dello "Sparviero", scorgendolo. - Peccato che i nostri fucili da caccia non abbiamo che una portata assai limitata. Se avessi un Mauser o uno dei miei Winchester, non grideresti tanto. Il fuoco dei manciù continuava senza interruzione, ma le armi degli aeronauti non potevano servire più, in causa della distanza; nemmeno quelle antichissime dei soldati riuscivano a colpire il bersaglio. Qualche palla, è vero, giungeva fino alla scialuppa, senza avere la forza di traforare le tavole. Rokoff, che arrancava con furore, con pochi colpi di remo raggiunse la punta meridionale dell'isolotto, virò prontamente di bordo, scomparendo agli occhi dei manciù, poi riprese la corsa verso la riva opposta. Il capitano e Fedoro, entrambi in piedi, guardavano fra gli alberi per vedere se il macchinista compariva. Quegli spari dovevano averlo allarmato e fattogli interrompere la riparazione. La scialuppa si era allontanata di cinquanta o sessanta metri, quando lo videro comparire fra i canneti. - Non mostrarti! - gli gridò il capitano, mentre i manciù riprendevano il fuoco mandando le loro palle sopra l'isolotto. - Ti aspettiamo laggiù: affrettati. Il macchinista fece col capo un cenno affermativo, poi lo videro slanciarsi fra le piante e scomparire. - Che la riparazione sia quasi finita? - chiese Fedoro. - Se il macchinista ha lavorato sempre, fra qualche ora lo "Sparviero" potrà rialzarsi - rispose il capitano. - E se i manciù attraversano il fiume? - Fuggiremo lasciando la cura al macchinista di raggiungerci. - E se sbarcassero sull'isolotto? - Perché dovrebbero prendere terra colà? Vedono bene che ci dirigiamo verso la riva opposta, quindi non si occuperanno che di noi. Io credo che nessuno abbia veduto lo "Sparviero" scendere in mezzo al fiume. E poi, almeno pel momento, non hanno barche. - Che sia stato il tartaro a tradirci? - Non ho più alcun dubbio - rispose il capitano. - Mentre noi facevamo colazione, si è recato al fortino ad avvertire i soldati della nostra presenza. Forse contava su qualche premio. - Briccone! - E l'ha avuto - disse Rokoff, ridendo. - Tre vasi di sciam-sciù vuotati e che i soldati non gli pagheranno di certo. - Ci siamo! E non vedo alcuna capanna. La scialuppa si era arenata su un banco di sabbia il quale si prolungava fino alla riva. I tre aeronauti la trascinarono più innanzi onde la corrente non la portasse via, poi si diressero verso la foresta la quale bagnava le radici dei suoi ultimi alberi nelle acque del fiume. Il luogo pareva deserto. Non vi erano che pini, querce, alberi del sevo, giuggioli e bande di uccelli. Rokoff si avventurò sotto gli alberi per qualche centinaio di passi, giungendo sulla sponda d'una vasta palude ingombra di canne e da dove lo sguardo poteva spaziare liberamente per parecchie miglia. Intanto i manciù, dopo aver sprecato buona parte delle loro munizioni, non ottenendo altro risultato che quello di spaventare gli uccelli acquatici, si erano diretti verso il nord seguendo la riva del fiume, onde poter meglio sorvegliare le mosse degli stranieri e fors'anche colla speranza di trovare qualche giunca. Invece, in quella direzione non si scorgeva alcun veliero e nemmeno una di quelle barche che servono pel trasporto del riso o del tè e che sono, di solito, così numerose sull'Hoang-ho. - Si vede che non hanno rinunciato alla speranza di darci la caccia - disse il capitano, che li aveva seguiti collo sguardo. - Se trovano qualche imbarcazione attraverseranno il fiume. - Capitano, accettate un mio consiglio? - chiese Rokoff, il quale era ritornato dalla sua esplorazione. - Dite pure. - Risaliamo il fiume anche noi. - Ed a quale scopo? - Per allontanare sempre più i soldati dall'isolotto e per respingere a fucilate le giunche che potrebbero scendere l'Hoang-ho e venire requisite dai nostri avversari. - La vostra idea non mi piace. Lo "Sparviero" ci raggiungerà egualmente e così facendo allontaneremo ogni pericolo pel nostro macchinista e per l'aerotreno. - E potremo continuare la nostra caccia - aggiunse Fedoro. Tornarono verso il banco e ripresero i loro posti nella scialuppa, rimontando lentamente la corrente e oltrepassando l'isolotto. I manciù rivedendoli comparire li salutarono con selvaggi clamori, ma sapendo che il loro fuoco non sarebbe stato efficace in causa della distanza, non sprecarono le munizioni. I tre aeronauti finsero di non essersi nemmeno accorti della loro presenza e continuarono tranquillamente il loro viaggio, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile contro le anitre mandarine, i marangoni, i beccaccini e le oche che erano sempre numerose. Avevano già percorso tre o quattro miglia facendo delle frequenti fermate per raccogliere i volatili che abbattevano, quando Fedoro, che si trovava a prora, mandò un grido di rabbia: - Stiamo per venire presi! ... - Da chi? - chiesero a una voce Rokoff e il capitano. - Una giunca di guerra scende il fiume! - Per tutte le steppe del Don! - esclamò Rokoff. - L'avventura minaccia di finire male! ... - E lo "Sparviero" è ancora ammalato! - esclamò Fedoro. - Dove fuggire? Il capitano non rispose. Invece di guardare la giunca aveva volti gli occhi verso l'isolotto, dove vedeva apparire e agitarsi al disopra degli alberi, le immense ali del suo aerotreno. - Giungeranno troppo tardi - disse finalmente. - Lo "Sparviero" fra poco sarà qui e ci rapirà sotto gli occhi dei manciù e dell'equipaggio della giunca. Signor Rokoff, ridiscendiamo la corrente.

Come abbiamo già detto, il monastero di Dorkia è il più celebre di quanti sorgono sui promontori del lago sacro, perché è sede d'un Bogdo-Lama, ossia d'una specie di pontefice che porta il titolo di Perla dei sapienti, potente quasi quanto l'altro che risiede nell'altro famoso monastero di Tascilumpo, che si chiama invece il Dalai-Lama. Questi due pontefici sono i custodi della religione e sono venerati per i lumi della loro scienza, ma non hanno che un potere limitato, spettando il diritto di governare al Grande Lama, il cui nome significa Perla dei vincitori e anche dei re. Il Dalai-Lama di Tascilumpo è indubbiamente più venerato e molto più potente del Bogdo-Lama di Dorkia; nondimeno anche questo gode grande fama, dominando la regione in cui si trova il famoso lago sacro. Il monastero che si presentava agli sguardi stupiti di Fedoro e del cosacco, era degno della sua fama. Era un insieme di costruzioni enormi, con in mezzo un tempio a quattro piani, sormontato da una cupola colossale, coperta di foglie d'oro e sorretta da un numero infinito di colonne del pari dorate. Terrazze ampissime s'estendevano tutto all'intorno, cinte da balaustrate di pietra e già piene di monaci in attesa dell'arrivo dei due figli del cielo. Ce n'erano delle centinaia con lunghe tonache di feltro bianco e nero che il vento, sempre impetuosissimo, scompigliava con un effetto fantastico. I tam-tam sospesi alle diverse parti del monastero squillavano fragorosamente sotto i colpi precipitosi dei martelli, destando l'eco delle immense montagne che giganteggiavano dietro al lago, mostrando le loro punte aguzze coperte di nevi e i loro fianchi ingombri di ghiacciai. Il capo della scorta si era fermato dinanzi a un'ampia gradinata che metteva a un vasto edificio di stile cinese, coi tetti doppi e che finivano, agli angoli, in punte arcuate, adorne di campanelli che il vento sbatacchiava con un tintinnio assordante. Fedoro e Rokoff, ancora abbagliati dalla magnificenza di quel monastero, si erano decisi a scendere da cavallo e a salire la gradinata, passando fra due ali di monaci che si curvavano fino a terra. Dinanzi alla porta dell'edificio, circondato da altri monaci, un uomo dalla lunga barba nera, che gli scendeva fino a metà del petto, coperto d'un'ampia tonaca rossa e che aveva al collo grossi monili d'oro, pareva che li aspettasse per dare loro il benvenuto. - Che sia il capo del monastero? - chiese Rokoff, che si sentiva scombussolato da quel ricevimento che sorpassava tutte le sue previsioni. - È la Perla dei sapienti, il Bogdo-Lama - rispose Fedoro. - Come ci accoglierà? Mi sento indosso un certo malessere che si direbbe paura. Se indovinasse in noi degli europei? - Taci, Rokoff; mi fai venire la pelle d'oca. - Non perderti d'animo e dalle da bere grosse, a quella Perla dei sapienti. Se potessi parlare correntemente il cinese, improvviserei un discorso tale da farlo piangere, mentre ... - Zitto. Erano giunti sulla cima della gradinata. - Fa come faccio io - disse Fedoro, rapidamente. Il Bogdo-Lama e i due europei si guardarono per parecchi istanti in silenzio, mentre tutti i monaci cadevano al suolo toccando le pietre colla fronte e sporgendo, più che potevano, le loro lingue, poi il grande sacerdote fece alcuni passi, inchinandosi profondamente. Fedoro ritenne opportuno rispondere con un altro inchino, meno deferente però nella sua qualità di figlio di Buddha, subito imitato da Rokoff. Poi il Lama prese per mano i due europei e li introdusse nel tempio, fermandosi dinanzi a una gigantesca statua del Dio, simile a quella che già avevano veduto nell'altro monastero e pronunciò delle parole che né Fedoro, né Rokoff riuscirono a comprendere. Ciò fatto li condusse attraverso una galleria le cui pareti erano coperte da paraventi ricamati in seta e oro, d'una finitezza e d'una bellezza meravigliosa, ed entrò in un'immensa sala illuminata da una specie di lucerna di talco e circondata da divani di seta azzurra e bianca, ricamati in argento. Anche le pareti erano coperte da arazzi di manifattura cinese e il pavimento di tappeti del Kascemir a mille colori. Tutti i monaci si erano arrestati sulla porta, continuando gl'inchini e salmodiando, a mezza voce, delle preghiere. Fedoro e Rokoff, quantunque facessero sforzi sovrumani per apparire tranquilli, si sentivano tremare non solo il cuore, ma anche le gambe e si chiedevano ansiosamente come sarebbe andato a finire quel ricevimento e come avrebbero potuto sostenere dinanzi alla Perla dei sapienti, di essere veramente degli esseri superiori, dei figli della grande divinità. Si guardavano l'un l'altro con occhi smarriti, maledicendo in loro cuore quell'uragano che li aveva precipitati nel lago sacro, invece che in qualche bacino deserto. Il Bogdo-Lama lasciò che i monaci sfilassero dinanzi alla porta, poi, quando se ne furono andati, fece sedere i due europei su un divano, pronunciando alcune parole che Fedoro non riuscì a capire. Non ricevendo risposta, il Lama si lasciò sfuggire un gesto di sorpresa. E infatti il sapiente doveva ben stupirsi di non farsi capire dai figli di Buddha. Trovava certo strano che non parlassero il tibetano. Fortunatamente Fedoro non aveva perduto completamente il suo sangue freddo. Comprendendo che stava per tradirsi, giocò risolutamente d'audacia. - La Perla dei sapienti ha parlato una lingua che noi non possiamo capire - disse in cinese. - Non deve stupirsi, perché noi eravamo stati incaricati dallo spirito divino che regna nel nirvana, di visitare i monasteri buddisti della Mongolia e non già quelli del Tibet. In quattro siamo discesi dal cielo con diverse missioni e quello che doveva qui venire, non è ancora giunto. - E perché vi siete spinti fino qui? - chiese il Bogdo-Lama rispondendo nell'eguale lingua. - Volevamo venire a vedere il lago sacro e ritemprarci nelle sue acque, prima di riguadagnare la Mongolia. - Voi siete scesi dal cielo sul dorso d'un immenso uccello, è vero? - Sì - rispose Fedoro. - Una grande aquila, che era prima la guardiana del nirvana, un uccello terribile che è stato incaricato di difenderci dalle insidie e dalle offese di coloro che non credono in Buddha e che sono i nemici della nostra religione. - Quanto desidererei vedere anch'io quel volatile! - esclamò la Perla dei sapienti. - M'hanno narrato meraviglie della potenza di quel mostro alato; m'hanno detto che turbinava sulle ali della tempesta, lasciandosi dietro una striscia di fuoco. Solo il grande Buddha poteva creare un simile uccello. Verrà qui? - Lo aspettiamo. - E condurrà l'essere divino incaricato di rimanere fra di noi? - Nostro fratello verrà. - Ha eguale potenza di voi? - - Siamo tutti eguali. - È bianco come voi? - Sì. - E perché il grande Buddha che era bronzeo al pari degli indiani, ha creato dei figli dalla pelle bianca? - Tutti nel nirvana sono bianchi, perché la luce intensa che regna lassù, scolorisce presto gli uomini che hanno la pelle nera o bronzina. - Buddha è grande! - esclamò il Lama battendo il petto con ambo le mani. - È contento di noi? - Se non lo fosse, non ci avrebbe mandati sulla terra a visitare i suoi fedeli - rispose Fedoro. - Egli però vorrebbe che la sua religione si estendesse maggiormente e che si diffondesse in tutto il mondo. - Siamo in molti. - Non basta. - Abbiamo monasteri nell'India, in Cina, nel Siam e anche nella Birmania e persino nel Turchestan. - Ne vorrebbe di più. - Ne costruiremo degli altri e manderemo i nostri monaci in altre regioni a fare nuovi proseliti. - Ecco quel che desidera da voi il grande Illuminato. - L'avete finita? - chiese Rokoff, che cominciava a perdere la pazienza. - Riprenderei volentieri il sonno così inopportunamente interrotto; manda a dormire quest'uomo barbuto e fagli comprendere che ci ha seccati abbastanza col suo Buddha. - Il vostro compagno parla un'altra lingua! - esclamò il Lama. - Non andrà nella Mongolia? - No - rispose prontamente Fedoro. - Egli è destinato a recarsi presso le tribù dei Calmucchi e dei Kirghisi, presso le quali la religione buddista non è rigorosamente osservata; ecco perché non parla il cinese. - E il vostro quarto fratello dove andrà? - Nella Siberia. - Un paese che non ho mai udito nominare, ma il mondo è così vasto! E poi noi non usciamo mai dai confini del Tibet. Stette un momento silenzioso, guardando ora Fedoro e ora Rokoff con una cert'aria imbarazzata. Pareva che volesse fare una domanda, ma che non osasse. - Fedoro - disse Rokoff a mezza voce - sta in guardia. Mi pare che questo monaco rimugini qualche cosa di pericoloso nel suo cervello. Bada di non farti cogliere in fallo. - Me ne sono accorto anch'io - rispose il russo. Il Lama, dopo aver scosso più volte la testa ed essersi lisciata ripetutamente la lunga barba, disse con una certa timidezza. - Vorrei rivolgere una preghiera ai figli del grande Illuminato. - Parlate - rispose Fedoro - quantunque, prevedendo un grave pericolo, si sentisse accapponare la pelle. - La voce del vostro arrivo deve essersi sparsa fra tutti gli abitanti e i monasteri del Tengri-Nor e domani i pellegrini accorreranno in folla a vedere gl'inviati del nostro Dio. - Non abbiamo alcuna difficoltà a mostrarci alle turbe dei fedeli - rispose Fedoro, credendo che tutto si limitasse a quella domanda. - Il nostro monastero organizzerà una grande cerimonia religiosa per rendere grazie all'Illuminato d'essersi degnato di mandare qui i suoi figli. - Diavolo, dove andrà a finire costui? - pensò Fedoro. - Vorrei pregarvi di tenere una conferenza sui doveri dei buoni buddisti, per ispirare maggior zelo nei nostri pellegrini. Sarà un avvenimento pel nostro monastero, il quale acquisterà una maggior celebrità tale da oscurare per sempre quella di Tascilumpo. Altro che pelle d'oca! Fedoro sudava a freddo. - Hai capito nulla? - chiese a Rokoff. - Affatto - rispose questi. - Domanda a me di fare un discorso. - Trovi difficile il farlo? - Non conosco che vagamente la religione buddista. Che cosa potrei dire? Che racconti delle frottole? Non dobbiamo scherzare colla Perla dei sapienti. - Come vuoi cavartela? Se ti rifiuti chissà che cosa potrà nascere. Per ora acconsenti, tanto per guadagnare tempo, poi vedremo. - Il figlio del grande Illuminato accetta? - chiese il Lama. - Sì - rispose Fedoro, a denti stretti. - Quale onore pel nostro monastero! - esclamò il Lama. - Poi sospirò a lungo, guardando Fedoro. - Si prepara a darti un altro pugno - disse Rokoff. - Lo vedo; prepara la difesa, Fedoro. - Potessi prepararla almeno tu, questa volta! - Io non so il cinese; non parlo che il calmucco e il kirghiso - rispose il cosacco che rideva sotto i baffi. - Ah! Se voi voleste! - disse finalmente il Lama con un altro sospiro più lungo del primo. - Quale sarebbe l'onore pel nostro monastero! ... Più nessun pellegrino si recherebbe a quello di Tascilumpo e nemmeno a quello di Lhassa. - Con tutti questi onori chissà in quale ginepraio finirà per cacciarmi - mormorò il povero russo, le cui inquietudini aumentavano. Nondimeno si fece animo, dicendo: - Parlate, spiegatevi meglio. - Rimanete sempre qui con me - disse il Lama. - Faremo di voi, due Buddha viventi, due vere incarnazioni del Dio. - È impossibile! - esclamò Fedoro, spaventato. - E perché? - Siamo attesi in Mongolia e in Siberia. - I mongoli e i siberiani potranno farne a meno di voi - rispose il Lama, con una certa durezza che sconcertò il russo. - La vera religione buddista è qui, non fra quei selvaggi, ed è sulle sacre rive del Tengri-Nor che viene più scrupolosamente osservata. - E se nostro padre non lo permettesse? - Buddha è grande e ama i suoi adoratori, potrebbe lui scontentarli? Noi raddoppieremo le preghiere e i sacrifici e sarà contento. - Ciò che voi ci chiedete non sarà mai possibile - rispose Fedoro, con voce recisa. - Noi dobbiamo compiere la nostra missione. - E se i montanari si opponessero alla vostra partenza? - chiese il Lama. - Come potrei io impedirlo? Non ne avrei l'autorità. - Voi, un Bogdo-Lama! - esclamò Fedoro. - Un pontefice della religione a cui tutti i fedeli debbono obbedienza? - Sono molti e quando vogliono una cosa nessuno potrebbe più domarli. Pensate che io non ho forze da opporre loro. - Minacciate di scomunicarli e di scatenare tutti i fulmini del grande Buddha. Un sorriso un po' beffardo spuntò sulle labbra del Bogdo-Lama. - Vedremo - disse poi - spero che non spingeranno le cose fino a tal punto. Però vi dico che sarebbero orgogliosi di avere, sulle sponde del lago sacro, due Buddha viventi. Si era alzato. - Sarete stanchi - disse. - Molto - rispose Fedoro, che non desiderava altro che tagliare corto quel dialogo, che diventava di momento in momento più imbarazzante. - Gli esseri celesti saranno miei ospiti e nulla mancherà loro, finché si fermeranno nel mio monastero. Fin da questo istante verranno trattati cogli onori dovuti ai Buddha viventi. - Il grande Illuminato sarà riconoscente ai suoi fedeli adoratori del Tengri- Nor, dell'accoglienza fatta ai suoi figli. Il Bogdo-Lama s'accostò a un piccolo tavolo e scosse un campanello d'argento. Quattro monaci, che dovevano essersi fermati al di fuori, in attesa dei suoi ordini, entrarono. Il Lama rivolse loro alcune parole, poi s'inchinò dinanzi ai due europei, facendo quindi segno di seguire i religiosi. - Siamo finalmente liberi? - chiese Rokoff. - Se la durava ancora un po', perdevo la pazienza e prendevo quel monaco per la barba. - Avresti compromesso gravemente la nostra posizione di Buddha viventi - rispose Fedoro, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte. - Di Buddha viventi? Che cosa dici, Fedoro? - Taci per ora. Restituirono al pontefice di Dorkia il saluto e uscirono preceduti dai quattro monaci, i quali a ogni istante si volgevano verso i due europei inchinandosi fino al suolo e balbettando delle preghiere incomprensibili. - Come sono cerimoniose queste persone - brontolò il cosacco - comincio ad averne fino ai capelli. Percorsero parecchi corridoi sempre tappezzati di meravigliosi paraventi, salirono parecchie gradinate e finalmente furono introdotti in una sala immensa, colle pareti coperte di seta gialla fregiata da iscrizioni tibetane, ammobiliata con divani d'eguale stoffa e colla volta a cupola la quale, essendo composta di lastre di talco, lasciava trapelare un debole chiarore. All'estremità s'aprivano due porte che pareva mettessero in altre sale o in altre stanze. Un dolce tepore regnava là dentro, nonostante la vastità dell'ambiente. - Il vostro appartamento - disse uno dei quattro monaci, in lingua cinese. - Tutto quello che potrete desiderare vi sarà recato; basta battere il gong sospeso alla porta. - Una bella prigione - disse Fedoro, volgendosi verso Rokoff, mentre i monaci uscivano. - Una prigione! - esclamò il cosacco. - Come! Questi bricconi osano mettere in gabbia degli uomini scesi dal cielo? - Faranno di più, mio povero Rokoff. - Che cosa vuoi dire? - Che noi stiamo per diventare dei Buddha viventi. - Ne so meno di prima. - Non hai mai udito parlare dei Buddha che vivono? - Niente affatto, Fedoro. Mi spiegherai ciò dopo colazione. L'aria del lago mi ha messo indosso un appetito indiavolato. Non so più dove sia andata a finire la cena che ci ha offerto l'altro monaco. - Tu scherzi? - Vorresti vedermi piangere? - Rokoff la va male. - Perché vogliono fare di noi dei Buddha viventi? Se così fa piacere a loro, lasciali fare amico mio. Purché non ci impalino o non ci gettino in qualche cantina piena di scorpioni, non vi è motivo di spaventarci. - Non sai tu che cosa sono i Buddha ... ? - Persone che mangiano e bevono al pari di tutti gli altri mortali, a quanto suppongo. - Se non vengono strangolati. - Eh! Che cosa dici, Fedoro? Vuoi guastarmi l'appetito? - Non ne ho alcun desiderio. E poi, come me la caverò colla predica che devo tenere ai fedeli? Io che conosco così poco la religione buddista! Sarà una catastrofe completa. - Dimmi, Fedoro, credi tu che quel monaco barbuto abbia prestato cieca fede a quanto noi abbiamo narrato? - Uhm! Ho i miei dubbi. Non deve essere così sciocco la Perla dei sapienti. - E perché non ci ha scacciati come impostori? - Non avrebbe guadagnato nulla, mentre presentandoci come figli del cielo attirerà al suo monastero migliaia e migliaia di pellegrini. - E gli abitanti? - Sono così idioti da credere a tutte le panzane che smerciano i loro Lama. - E come te la sbrigherai colla predica? - Non lo so, Rokoff. - Chi è, innanzi tutto, questo signor Buddha? - Un saggio, un illuminato nato a Ceylon che creò una nuova religione, non so precisamente se per convinzione o per detronizzare la triade indiana di Brahma, Siva e Visnù. - Un brav'uomo? - Certo, perché predicò la pietà verso il prossimo non solo, bensì anche verso gli animali. - Allora dirai che il paradiso di Buddha è pieno d'asini, di cavalli, d'insetti, di balene ... un vero serraglio. - Ah! Rokoff. - Non preoccuparti. Facciamo colazione e vedrai che dopo riempito il ventre le idee scaturiranno in tale abbondanza da fare un predicone. Ah! se conoscessi il cinese vorrei far stupire perfino la Perla dei sapienti. Ci metterei perfino dentro il Don e i cosacchi delle steppe. Combineremo tutto insieme e ... - Ci farai prendere a legnate. - E noi risponderemo a calci. Rokoff s'alzò e percosse furiosamente il gong, gridando: - La colazione pei figli di Buddha e per oggi non seccateci più le tasche. Siamo occupati a pregare Domeneddio, cioè no, l'Illuminato.

Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

. - Ve lo auguro; disgraziatamente vi sono ormai troppe prove contro di voi e abbiamo anche trovata l'arma che ha spento Sing-Sing. - E dove? - chiese Fedoro. - Nella vostra stanza. - È impossibile! Voi mentite! - gridò il russo. - Rokoff, amico mio, queste canaglie cercano di perderci! - Noi? - chiese Rokoff, il quale non aveva compreso fino allora che pochissime parole, conoscendo la lingua cinese assai imperfettamente. - Dicono che hanno trovato nella nostra stanza il coltello. - Ve l'avranno posto coloro che ci hanno trasportati sui nostri letti. La cosa è chiara. - Per noi, sì, ma non per questo magistrato e nemmeno per la servitù. - Si convinceranno. - Volete seguirmi? - chiese il magistrato, volgendosi verso Fedoro. - E dove? - chiese questi. - Nella vostra stanza. - Andiamoci - disse Fedoro, risolutamente. Appena usciti, videro schierati nel corridoio attiguo parecchi servi i quali li guardavano quasi ferocemente. - Hai osservato, Rokoff? - chiese Fedoro. - Tutti sono convinti che noi abbiamo assassinato Sing-Sing e tutte le prove stanno contro di noi. - Ricorreremo ai consoli - rispose Rokoff. - Questi cinesi non oseranno arrestare due europei. - E chi li avvertirà? Non abbiamo nessun amico qui. - Troveremo il modo di far sapere all'ambasciata russa il nostro arresto. Canaglie! Incolpare noi! - Più canaglie sono stati gli affiliati della società segreta, i quali hanno agito in modo da far ricadere su di noi questo infame delitto. Giunti nella stanza, il magistrato si diresse verso il letto che Rokoff aveva occupato, levò il materasso ed estrasse un pugnale lungo un buon piede, con la lama di forma triangolare, coll'impugnatura sormontata da una piccola campana d'argento. L'arma era insanguinata fino alla guardia. - Lo vedete? - chiese, mostrandolo ai due europei, smarriti. - Sing-Sing è stato ucciso con questo e voi, compiuto il delitto, l'avete nascosto qui. Potevate essere più furbi o per lo meno più prudenti. - E voi credete? - chiese Fedoro, facendo un gesto di ribrezzo. - La prova è chiara - disse il cinese con un sorriso maligno. - E non vedete che questo pugnale non è di quelli che si usano in Europa? - Potete averlo comperato qui od in altra città. - È un pugnale appartenente ad una società segreta. Guardate, vi è una piccola campana d'argento sull'impugnatura. - E che cosa proverebbe questo? - chiese il magistrato accomodandosi tranquillamente gli occhiali. - Che l'assassino, di Sing-Sing non può essere stato che un membro della società della "Campana d'argento", alla quale il nostro amico era affiliato. - Ed ha nascosto l'arma in uno dei vostri letti? Eh! via, non sono uno sciocco per crederlo! - Ascoltatemi - disse Fedoro, coi denti stretti per la collera che già lo invadeva. - Vi narrerò come sono avvenute le cose. - Dite pure. Fedoro gli espose chiaramente quanto era accaduto dopo il banchetto, ciò che gli aveva raccontato Sing-Sing: la veglia angosciosa, il sonno misterioso, la comparsa delle ombre umane e finalmente il loro risveglio nella stanza che era stata loro destinata dal maggiordomo. Il magistrato lo aveva ascoltato pazientemente, colle mani incrociate sul ventre rotondissimo, crollando di quando in quando la testa pelata. Quando Fedoro ebbe finito, lo guardò in viso, poi disse: - Quello che mi avete raccontato, quantunque mi sembri assolutamente straordinario, può essere vero. Io però intanto vi dichiaro in arresto, e se volete un consiglio, cercate di scolparvi meglio che potete, perché la vostra testa è in pericolo. - Voi non lo farete! - E perché? - Chiederemo l'intervento dell'ambasciatore russo. - Ah! - fece il cinese ridendo. - Sì, l'ambasciata, poi minaccia di far intervenire la flotta, colpi di cannone, invasione armata. Ah! no! basta! Conosciamo troppo bene gli europei per farli entrare nei nostri affari. La giustizia avrà corso senza l'ambasciata. Avete assassinato un cinese: vi condannerà un tribunale cinese. - Noi protesteremo. - Fatelo. - Non ci lasceremo assassinare da voi! - urlò Fedoro, alzando minacciosamente il pugno sul magistrato. - Badate! I miei uomini sono armati e le vostre rivoltelle sono nelle nostre mani. - Maledizione! Rokoff, quantunque ben poco avesse compreso dalle grida e dal gesto di Fedoro, si era accorto che la cosa si aggravava e si era spinto addosso al magistrato, pronto ad afferrarlo pel collo e gettarlo fuori dalla porta o anche giù dalla finestra. - Fedoro - disse inarcando le robustissime braccia. - Si tratta di menare le mani? Sono pronto a fare una marmellata di queste teste pelate. - No, Rokoff, non aggraviamo la nostra posizione - disse il russo, fermandolo. - E poi non esiterebbero a far uso delle loro armi. - Afferro un letto e glielo butto sulla testa. - Ci sono i servi appostati nel corridoio. - Ti ho veduto furibondo. Si guasta la faccenda? - Ci hanno intimato l'arresto. - Ah! Bricconi! E noi obbediremo? - A che cosa servirebbe ribellarci? Sono i più forti e dobbiamo cedere per ora. - E ci condurranno in prigione? - Sì, Rokoff. - E dopo? - Cercheremo di persuadere i magistrati della nostra innocenza. Lasciamoli fare per ora e prendiamo tempo. - Dunque? - chiese il magistrato, che aveva fatto avvicinare i suoi uomini. - Siamo pronti a seguirvi, però pensate che noi siamo europei, che siamo innocenti e che qualunque violenza sarà vendicata dal nostro paese. - Sta bene, intanto venite con noi. Vi sono delle portantine dinanzi alla porta del palazzo. - Andiamo, Rokoff - disse Fedoro. - Ah! Per le steppe del Don! Mi sentirei capace di rompere la testa a questi bricconi e di disarmarli tutti. - No, amico, sarebbe peggio per noi. - Andiamo allora in prigione. Uscirono dalla stanza preceduti dal magistrato, il quale camminava tronfio e pettoruto, e seguiti da quattro agenti di polizia che avevano snudate le scimitarre, onde prevenire qualsiasi tentativo di ribellione. Alla base della gradinata vi erano già due portantine guardate da altri quattro agenti e da otto robusti portatori. I due europei furono fatti salire, si abbassarono le tende onde sottrarli alla vista dei curiosi, poi i facchini partirono a passo rapido, scortati dagli agenti di polizia. Nessuno pareva che si fosse accorto dell'arresto dei due russi. D'altronde era una cosa talmente comune il vedere in Pechino delle portantine, che i passanti non vi avevano fatto alcun caso, quantunque vi fossero intorno i poliziotti. Dopo una lunga ora, i facchini si fermarono. Rokoff e Fedoro, che cominciavano a perdere la pazienza e ad averne abbastanza di quella prigionia, si trovarono sotto uno spazioso atrio, dove si vedevano gruppi di agenti, di soldati e di guardiani che chiacchieravano fumando o masticando semi di zucca. - È questa la prigione? - chiese Rokoff. - Lo suppongo - rispose Fedoro. - Che ci chiudano ora in qualche segreta? - O in gabbia invece? - Vivaddio! Io in una gabbia? Non sono già una gallina! - La vedremo! - Non lasciarti trasportare dall'ira, Rokoff - disse Fedoro. - Forse non oseranno trattarci come delinquenti comuni, per paura dell'Ambasciata. Due uomini seminudi, dai volti arcigni, colle code arrotolate intorno al capo, armati di certi coltellacci che pendevano snudati dalle loro cinture, si fecero innanzi, afferrando brutalmente i due europei. Rokoff, sentendosi posare una mano sulla spalla, fece un salto indietro, gridando con voce minacciosa: - Non toccatemi o vi spacco il cranio! Anche Fedoro aveva respinto violentemente il suo carceriere o carnefice che fosse, prendendo una posa da pugilatore. - Noi siamo europei - gridò. - Giù le mani! ... I due carcerieri si guardarono l'un l'altro, forse sorpresi di quell'inaspettata resistenza, poi piombarono sui due prigionieri, cercando di abbatterli. Avevano però calcolato male le loro forze. Rokoff, con una mossa altrettanto fulminea, si era gettato innanzi a Fedoro, poi con due ceffoni formidabili che risuonarono come due colpi di fucile, fece piroettare tre o quattro volte i due cinesi, finché caddero l'un sull'altro, sradicati da due pedate magistrali. Urla furiose echeggiarono sotto l'atrio. Soldati, poliziotti e carcerieri si erano slanciati come un solo uomo verso i due europei, sguainando le scimitarre ed impugnando picche, coltellacci e rivoltelle. - Siamo perduti! - esclamò Fedoro. - Non ancora - rispose Rokoff, furibondo. - Possiamo accopparne degli altri prima di cadere. Si abbassò rapidamente, raccolse uno dei caduti e lo alzò sopra la testa preparandosi a scaraventarlo come un proiettile fra l'orda urlante. A quella nuova prova di vigore così straordinario, i cinesi si erano arrestati. - Vi accoppo tutti, canaglie! - urlò Rokoff. - Indietro! A quel fracasso però accorreva la guardia delle carceri, comandata da un ufficiale. Erano dodici soldati, armati di fucili a retrocarica, e a quanto pareva, non troppo facili a spaventarsi. Ad un comando dell'ufficiale inastarono risolutamente le baionette e le puntarono verso Rokoff. - Indietro! - tuonò il colosso. L'ufficiale invece armò la rivoltella e lo prese di mira dicendogli - Non opponete resistenza o comando il fuoco. Tale è l'ordine. - Rokoff, bada - disse Fedoro. - Sono soldati e obbediranno. - Meglio farci fucilare che lasciarci imprigionare. - No, amico, noi riacquisteremo presto la libertà perché la nostra innocenza verrà riconosciuta. Siamo prudenti per ora. Rokoff, quantunque si sentisse prendere da una voglia pazza di scaraventare il carceriere addosso ai soldati, comprese finalmente il pericolo e depose il povero diavolo, che pareva più morto che vivo. Nel medesimo istante compariva il magistrato che li aveva fatti arrestare. - - Una ribellione? - disse, aggrottando la fronte. - Volete aggravare la vostra posizione o farvi uccidere. - Dite ai vostri uomini che siano meno brutali - rispose Fedoro. - Noi non siamo stati ancora condannati. - Darò gli ordini opportuni perché vi rispettino, ma non opponete alcuna resistenza. Seguitemi. - Obbediamo, Rokoff. - Se tu mi avessi lasciato fare, avrei sgominato questi poltroni - rispose il cosacco. - Avevo cominciato così bene! - E avremmo finito male. - Ne dubito. - Seguiamo il magistrato. Scortati dai soldati, i quali non avevano ancora levato le baionette dai fucili, furono introdotti in un'ampia stanza dove si vedevano sospese quattro gabbie contenenti ciascuna tre teste umane che parevano appena decapitate, colando ancora il sangue dal collo. Erano orribili a vedersi. Avevano i lineamenti alterati da un'angosciosa espressione di dolore, gli occhi smorti e sconvolti, la bocca aperta ed imbrattata da una schiuma sanguigna. Sotto ogni gabbia era appeso un cartello su cui stava scritto: La giustizia ha punito il furto. - Mille demoni! - esclamò Rokoff, stringendo le pugna. - È per spaventarci che ci hanno condotto qui? - Sono gabbie che poi verrano esposte su qualche piazza, onde servano di esempio ai ladri - disse Fedoro. - Guarda altrove. - Sì, perché mi sento il sangue ribollire. Attraversato lo stanzone, passarono in un altro, le cui pareti erano coperte da strumenti di tortura. Vi erano numerose kangue, specie di tavole che servono ad imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani, pesanti venti, trenta e persino cinquanta chilogrammi; canne di ogni lunghezza e d'ogni grossezza, destinate alla bastonatura; arpioni di ferro per infilzarvi i condannati a morte; pettini d'acciaio per straziarli, poi tavole con corde destinate a distendere fino alla rottura dei tendini, le mani ed i piedi dei pazienti. - Canaglie! - brontolò Rokoff. - Altro che l'Inquisizione di Spagna! Questi cinesi sono più feroci degli antropofagi. Stavano per varcare la soglia, quando giunse ai loro orecchi un clamore che fece gelare il sangue ad entrambi. Era un insieme di urla acute e strazianti, di gemiti, di rantoli, di singhiozzi a malapena soffocati e di ruggiti che parevano mandati da belve feroci. - Qui si ammazza! - gridò Rokoff, guardando il magistrato ed i soldati, minacciosamente. - Si tortura - rispose Fedoro. - E noi lasceremo fare? - Non spetta a noi intervenire. - Io non posso tollerare ... - Devi resistere, Rokoff. - Che non veda nulla, altrimenti mi scaglio contro questi bricconi e ne ammazzo quanti più ne posso. Il magistrato, che aveva forse indovinato le idee bellicose del cosacco e che non desiderava vederlo ancora arrabbiato per paura di provare la sua forza, piegò a destra, inoltrandosi in un corridoio e si arrestò dinanzi ad una porta ferrata. Un carceriere stava dinanzi, tenendo in mano una chiave enorme. Ad un cenno del magistrato aprì ed i due europei si sentirono bruscamente spingere innanzi. Rokoff stava per rivoltarsi, ma la porta fu subito chiusa. Si trovavano in una cella lunga tre metri e larga appena due, rischiarata da un pertugio difeso da grosse sbarre di ferro e che pareva prospettasse su un cortile, essendo la luce fioca. L'unico mobile era un saccone, forse ripieno di foglie secche, che doveva servire da letto. - Bell'alloggio! - esclamò Rokoff. - Nemmeno una coperta per difenderci dal freddo. - E nemmeno uno sgabello - disse Fedoro. - Molto economi questi cinesi. A un tratto si guardarono l'un l'altro con ansietà. Avevano udito dei gemiti sordi e strazianti, che parevano provenire dal cortile. - Si tortura anche presso di noi? - chiese Rokoff. S'avvicinò al pertugio guardando al di fuori, e subito retrocesse, pallido come un cadavere. - Guarda, Fedoro - disse con voce soffocata. - Che cosa fanno subire a quei miseri? ... L'orrore mi agghiaccia il sangue.

. - Quantunque noi siamo europei, non abbiamo alcuna intenzione di farvi male. Siamo qui per cacciare e nient'altro. Il tartaro, poiché doveva essere tale, a giudicarlo dai lineamenti del suo volto, fece silenziosamente un saluto muovendo le mani e guardando di sotto le folte ciglia gli stranieri. - Potete accordarci ospitalità per qualche ora, pagandovi? - chiese il capitano. - Siamo carichi di selvaggina, abbiamo fame e la nostra barca è lontana. - La mia casa non è un albergo - rispose il tartaro, che pareva assai contrariato. - E poi ho degli amici che dormono. - Non li disturberemo. Non vi chiediamo che di accendere il fuoco e di arrostirci un paio di questi fagiani e qualche anitra mandarina. Siete un coltivatore? - Un tartaro non si occupa dei prodotti della terra - rispose il proprietario, con accento piccato. - Sono un allevatore di cani. - Bell'industria! - esclamò Rokoff, a cui era stata tradotta la risposta da Fedoro. - Anzi, molto proficua - rispose questi. - Orsù, acconsentite? - chiese il capitano impazientito. - Un tael si troverà bene nelle vostre tasche. Udendo parlare di denaro, il tartaro, venale come tutti i suoi compatrioti, abbozzò un sorriso e fece col capo un cenno affermativo. - Date - disse poi. Il capitano gli gettò fra le mani due fagiani e un'anitra. - Sbrigatevi soprattutto - gli disse. - È mezzodì e non abbiamo fatto ancora colazione. - Ecco un volto che non mi rassicura affatto - disse Rokoff, seguendo collo sguardo il tartaro. - Gli abitanti di questa regione sono mezzo selvaggi - rispose Fedoro. - I cinesi non sono ancora riusciti a civilizzarli, dopo tanti secoli di contatto. - Avrei preferito tornarmene all'isolotto - disse Rokoff. - Ed io no - disse il capitano. - E si può conoscerne il motivo? - Sapete che io penso continuamente ai manciù che ci hanno cannoneggiati? Io temo una sorpresa da parte loro ed è perciò che ho acconsentito ad attraversare il fiume onde sorvegliare le loro mosse. - Dove si trova il fortino? - Su questa riva; sicché, se vorranno cercarci, saranno obbligati a passare per di qua, o alla nostra destra, o alla nostra sinistra. In tale caso ci ripiegheremo prontamente sul fiume e prenderemo il largo. - E se giungessero prima che la riparazione fosse compiuta? - chiese Fedoro. - Ci innalzeremo come meglio potremo e andremo più lontano a trovare un luogo più deserto. - O daremo battaglia - disse Rokoff, risolutamente. - Io non ho paura né dei manciù, né dei cinesi. Un latrare assordante interruppe la loro conversazione. - Che i cani del tartaro odino gli europei? - chiese Rokoff, ridendo. - Udite che fracasso! L'hanno con noi. - O che che il nostro ospite o qualcuno dei suoi abbia invece cominciato a strangolarli? - disse Fedoro. - Eh che! - esclamò il cosacco. - Si allevano i cani per poi ucciderli? - E per mangiarli anche. - Oh! S'ingrassano appositamente come si fa da noi coi maiali? - Sì, e non solo per le loro carni, bensì per ottenere delle bellissime pellicce innanzitutto - disse Fedoro. - In questa regione e anche nella vicina Manciuria, migliaia e migliaia di famiglie vivono con questa curiosissima industria. I cani appartengono a una bella razza, fornita d'un manto finissimo, che tiene più caldo della lana dei nostri montoni e che viene adoperato nella confezione di pellicce di valore. Per avere un buon mantello non occorrono meno di otto animali e si vende in media a diciotto lire, qualche volta anche a venti. - Due lire per cane! Poca cosa, Fedoro. - E non conti la carne? - Puah! ... - Si fa una immensa esportazione di prosciuttini di cane, che sono molto stimati dai cinesi e che si vendono anche cari, specialmente se sono grassi. Come vedi, è un'industria produttiva. - Capitano, - disse Rokoff - non fatevi servire alcun piatto del paese. Quel tartaro sarebbe capace di portarci qualche strano manicaretto di carne canina. - Ci tengo più ai nostri fagiani e alla nostra anitra - rispose il comandante ridendo. - Non amo né topi, né cani. - Ah! ... - disse ad un tratto Rokoff. - Non ci aveva detto il tartaro di avere degli amici nella sua casa? - Sì - rispose Fedoro. - Che dormano? Io non odo alcun rumore e non vedo che il nostro ospite passare e ripassare dinanzi alla porta. - È vero - disse il capitano, colpito da quella osservazione - Andiamo a vedere se ha mentito o se i suoi amici sono scomparsi sotto terra. I tre cacciatori s'avvicinarono alla casa e s'affacciarono alla porta. Il tartaro aveva spennato i tre volatili e li aveva messi già ad arrostire, infilati in una corta lancia. Non aveva però mentito dicendo di avere nella sua casa degli amici. In un angolo, il più oscuro della stanza, si vedevano seduti o meglio semisdraiati su una stuoia, cinque individui pallidi, trasfigurati, colla pelle dei volti grinzosa, gli sguardi istupiditi, il naso affilato. Si tenevano gli uni addosso agli altri e tremavano come se fossero assaliti da una forte febbre, mentre i loro petti si alzavano con un rantolo strano che aveva qualche cosa di lugubre. Uno pareva che fosse morto od addormentato e dalle sue labbra, agitate da un tremito convulso, sfuggiva una bava giallognola, la quale si spandeva fino sulla stuoia. Il capitano e i suoi due compagni si erano arrestati sulla soglia della stanza, guardando con orrore quegli uomini che pareva dovessero da un momento all'altro esalare l'ultimo respiro. - Chi sono costoro? - chiese il capitano. - Dei moribondi? Il tartaro, che stava facendo girare lo spiedo, si volse, facendo un gesto di stizza, poi disse con voce tranquilla: - Miei amici. - Che tu hai avvelenato? - No ... sono dei mangiatori d'oppio. Lasciateli dormire; non vi daranno alcun impaccio. - Lo hanno fumato? - No, mangiato. Potete accertarvene, perché nelle loro borse devono avere ancora parecchie pallottole. - Che il diavolo se li porti! - esclamò Rokoff, slanciandosi fuori della stanza. - Quei miserabili mi fanno perdere l'appetito. Il capitano e Fedoro, non meno nauseati, lo avevano seguito, preferendo fare colazione all'aperto piuttosto che con quei ributtanti individui. - Io avevo finora creduto che l'oppio si fumasse e non già che si mangiasse - disse il capitano. - Quella gente si avvelena lentamente. - I mangiatori d'oppio sono numerosi in Cina e soprattutto nella Mongolia - rispose Fedoro - nonostante le leggi severe decretate dall'imperatore. - E ne assorbiscono molto? - Generalmente si accontentano di una pallottolina di cinque o dieci centigrammi; fatta però l'abitudine, raddoppiano e anche triplicano la dose. - E che cosa provano? - chiese Rokoff. - Dapprima una viva sovreccitazione fisica e intellettuale che li rende talvolta pericolosi, diventando temerari e spavaldi; poi un benessere generale che li immerge in un sonno profondo, abbellito da sogni piacevoli. A poco a poca si abbrutiscono e diventano ributtanti, ischeletriti, tremanti come se avessero sempre indosso la febbre e quasi nella impossibilità di camminare diritti. Un mangiatore d'oppio si riconosce subito essendo sempre in preda a una specie di sonnolenza che rende le sue mosse tarde e incerte. - E non possono abbandonare quel brutto vizio? - Sarebbe peggio; ricadrebbero in una profonda apatia che ben presto li condurrebbe alla morte - rispose Fedoro. - E fumandolo, invece? - chiese il capitano. - I fenomeni sono quasi identici, tuttavia meno intensi. Volete farne la prova? Il tartaro non mancherà di pipe, né di oppio; devo avvertirvi, innanzi tutto, che le prime volte quel narcotico produce nausee e acuti dolori di testa. - Non ne ho alcun desiderio. Ho udito raccontare che si beve anche col caffè. - Sì, nel Turchestan; e quella bevanda eccitantissima si chiama koknar. È anzi tale l'abitudine che hanno ormai quegli abitanti, che non potrebbero farne a meno. Per loro è diventata una vera necessità, come per la maggior parte degli europei il vermut, l'assenzio o la birra. L'uomo che volesse rinunciarvi, non potrebbe resistervi a lungo; diverrebbe presto un infelice, privo di qualsiasi energia, apatico, svogliato e non saprebbe imprendere qualsiasi lavoro. - Al diavolo l'oppio! - esclamò Rokoff. - Preferisco mille volte la mia pipa carica di buon tabacco. In quel momento il tartaro usciva dalla capanna, recando su un tondo d'argilla i fagiani e l'anitra mandarina con un contorno di pien-hoa, specie di radici e di hing, frutti angolosi che crescono negli stagni e che assieme alle prime surrogano, fino a un certo punto, il pane, che è quasi sconosciuto nella Tartaria e nella Mongolia. Portava inoltre un vaso colmo di acquavite e di riso e alcuni prosciutti, che dalla loro forma dovevano essere di cani e forse ingrassati con bachi da seta, come usano i cinesi. - Riporta i prosciutti - disse Fedoro. - Non fanno per noi. Il tartaro lo guardò con una certa meraviglia, poi ritornò nella sua casupola borbottando. I tre aeronauti si sedettero sotto una superba quercia che nonostante il freddo aveva conservato ancora gran parte del suo fogliame e attaccarono con molto appetito l'arrosto, le radici e gli hing, magnificando soprattutto la squisitezza dei due fagiani. - Ecco una colazione che molti ci invidierebbero, - disse Rokoff che divorava per quattro. - Capitano, i vostri pasticci di California e dell'Australia farebbero certamente una ben meschina figura dinanzi a questi deliziosi volatili. - Nessuno c'impedirà di provvederci sempre di questi arrosti - rispose il comandante. - La Mongolia è ricca di uccelli e anche di selvaggina da pelo e faremo ogni giorno una battuta. Voi non avete fretta di tornarvene in Europa, è vero? - No, signore - rispose Fedoro. - Desiderei però avvertire la mia casa di Odessa di non fare, almeno per un certo tempo, alcun assegnamento su di me e d'incaricare il mio rappresentante a Hong-Kong di acquistare il tè che io non ho potuto avere dal defunto Sing-Sing. - Una cosa facilissima - rispose il capitano. - Si manda un telegramma. - Ma ... signore ... voi vi dimenticate che qui non vi sono uffici telegrafici e che siamo nella Mongolia. - Se qui non ve ne sono, ne troveremo presto uno il quale trasmetterà in poche ore il vostro dispaccio. - E dove lo cercheremo? - Non occupatevene, - disse il capitano con un sorriso misterioso. - Preparate il telegramma e fra tre giorni o quattro la vostra casa lo riceverà. Ehi, tartaro, portaci delle altre radici. Il signor Rokoff ha divorato tutto. - Erano così eccellenti! - rispose il cosacco, ridendo. - Mi avete capito? - gridò il capitano, dirigendosi verso l'abitazione. Con sua sorpresa il tartaro non si fece vivo. - Dove sarà andato? - chiese Fedoro, un po' inquieto. Il capitano si spinse fino alla porta chiamando il proprietario ad alta voce e anche questa volta senza successo. Entrò nella cucina e vide solamente i mangiatori d'oppio coricati l'uno presso l'altro e profondamente addormentati. - Non c'è più? - chiese Rokoff raggiungendolo. - È sparito - rispose il capitano. - Che sia fuggito? - Signori miei - disse il capitano - questa scomparsa m'inquieta. Raccogliamo la nostra selvaggina e andiamocene. Io non sono tranquillo. - Che cosa temete? - chiese Fedoro. - Non dimentichiamo che noi siamo stranieri e che l'odio del cinese e del tartaro verso l'uomo bianco non è ancora spento. - Che quel briccone si sia recato in qualche villaggio a chiamare degli amici, per poi farci prendere? - È quello che sospetto. Orsù, prendiamo i nostri volatili e corriamo al fiume. - Maledetto paese! - esclamò Rokoff. - Non si può nemmeno fare colazione senza apprensioni! Stavano per slanciarsi attraverso il bosco, quando Fedoro si arrestò dietro un gruppo di pini colossali, esclamando: - Fermi tutti! - Che cosa c'è - chiese Rokoff. - Ci hanno tagliato la ritirata. - Chi? - I manciù! Eccoli che si avanzano attraverso il bosco. - Ah! Brigante d'un tartaro! - gridò Rokoff. - Egli ci ha traditi! Che siano i soldati del fortino? - Lo saranno di certo - rispose Fedoro. - Nella casa - disse il capitano. - Là almeno ci troveremo al coperto e potremo resistere lungamente. - E lo "Sparviero"? - chiesero con angoscia il cosacco e il russo. - Il mio macchinista non è uomo da lasciarsi sorprendere e le eliche possono funzionare subito. Siamo noi invece che corriamo il pericolo di passare un brutto quarto d'ora. Fortunatamente abbiamo dei buoni fucili da caccia e mitraglieremo i manciù.

. - Abbiamo ancora delle trote e un altro prosciutto d'orso. - Che noi mangeremo assieme a quel signore ... - disse il cosacco, accennando lo sconosciuto. - Ah? Mi scordavo di presentarvelo - disse il capitano. - Un mio amico e soprattutto un valoroso. - E pescato dove, se è permesso saperlo? - chiese Fedoro. - Mi rincresce di non potervelo dire - rispose il capitano. - Non vi avrei addormentati. - È un segreto che noi non vogliamo conoscere, signore - disse Rokoff. - Sì, non ne abbiamo il diritto - aggiunse Fedoro. - Non ci darà impaccio - proseguì il capitano. - Attraversato il deserto ci lascerà, non avendo alcun desiderio di tornarsene in Europa. Lo sconosciuto ad un cenno del comandante si era fatto innanzi. - Il signor Rokoff, tenente dei cosacchi ... un brav'uomo ... L'incognito fece un gesto come di sorpresa, poi, dopo una breve esitazione, porse la mano al cosacco, guardandolo però attentamente e corrugando impercettibilmente la fronte. - Ben felice - disse in cattivo russo. Poi strinse la mano a Fedoro, limitandosi ad inchinarsi. Ciò fatto si ritrasse a poppa senza aver pronunciata nessuna altra parola, sedendosi presso il macchinista. - Sapete dove andiamo! - chiese il capitano, che pareva premuroso di fare una diversione. - Mi pare che lo "Sparviero" abbia cambiato rotta - disse Fedoro. - Sì, marciamo verso il sud-ovest con una velocità di quaranta miglia. Sono curioso di vedere gli altipiani del Tibet. Si dice che siano meravigliosa. - E verrà anche quel signore? - chiese Rokoff. - Andremo a visitare il paese dei Lama - continuò il capitano, fingendo di non aver udito la domanda - una regione che ben pochi europei hanno percorsa e viaggiando sempre lontani dalle città. Farà molto freddo su quegli immensi altipiani, spazzati sempre da venti freddissimi che screpolano la pelle e che gelano le mani ed il naso come al Polo Nord ... - Avete qualche altro da raccogliere lassù? - chiese Rokoff. - Ah! Poi andremo a visitare la gigantesca catena dell'Himalaya la più superba di tutte quelle che si ammirano nel mondo. Voi non l'avete mai veduta, signor Fedoro? - No, mai - rispose il russo. - Poi ... - Signore - disse Rokoff - andremo anche in India? ... - Toh! Mi dimenticavo che avete fame! Trentasei ore a digiuno! Macchinista, preparaci la colazione! - gridò il capitano. - I miei carissimi ospiti faranno onore al pasto! Fortunatamente ho fatto una buona pesca nel Caracorum e le trote sono al fresco! Non avranno perduto nulla della loro squisitezza con trenta gradi sotto lo zero. Vi pare, signor Rokoff? - Oh! Ne sono convinto - rispose il cosacco che avrebbe invece preferito lasciarle a gelare, per trovarsi solo con Fedoro e scambiare le sue impressioni sul misterioso personaggio caduto sullo "Sparviero" quasi per opera magica. Fu però un pio desiderio, perché il capitano, quasi avesse indovinate le loro intenzioni, durante tutta la giornata non li lasciò un momento soli, parlando dei suoi viaggi, delle regioni che si proponeva di attraversare, delle tribù che popolano il deserto, dei Lama del Tibet, della guerra che combattevano in quell'epoca gl'inglesi contro le tribù montanare dell'India, facendo scappare più volte la pazienza al cosacco, che ne aveva invece così poca. Lo sconosciuto, durante quelle spiegazioni, si era tenuto costantemente da parte, sempre seduto presso il timone. Aveva mangiato con buon appetito, senza mai parlare o limitandosi a rispondere con dei semplici cenni al cosacco ed al russo e facendo loro comprendere che conosceva male la loro lingua, poi aveva accesa una vecchia pipa di porcellana, simile a quelle che usano i tedeschi e gli olandesi e non si era più mosso dal suo posto. Solamente verso le dieci di sera, i due amici poterono trovarsi soli in una delle loro cabine. Lo "Sparviero" si era arrestato sulla cima d'un enorme ammasso di rupi, quasi al confine del deserto, a non molta distanza dalla via carovaniera che va da Sa- ciou, città cinese, a Uromei, grossa borgata mongolica, passando per Artsi e Pigian. Il capitano, dopo essersi accertato che nessuno poteva minacciarli, in causa della ripidità delle rupi, aveva lasciato il ponte per ritirarsi nella sua cabina assieme allo straniero, ma non aveva ancora discesi due gradini che era tornato indietro, dicendo a Fedoro. - Oh! mi ero dimenticato di darvi comunicazione d'una cosa che per voi è della massima importanza. - Quale capitano? - chiese il russo, un po' sorpreso. - Il vostro dispaccio è già stato spedito e la vostra casa di Odessa a quest'ora deve essere informata che voi state per ritornare in Europa attraversando l'Asia. - Il mio dispaccio spedito! - esclamò Fedoro. - E da quale ufficio telegrafico? - Da uno che ho potuto raggiungere - rispose il capitano, che pareva si divertisse dello stupore del suo ospite. - Se siamo nel deserto! - Costui deve essere il diavolo - pensava intanto Rokoff, guardandolo sospettosamente. - Il deserto! - disse il capitano. - Qui, sotto di noi, vi è infatti lo Sciarno; più lontano vi sono anche delle città che in poche ore possono metterci in comunicazione coll'Europa. Vi rincresce? - Tutt'altro, signore. E che cosa avete telegrafato alla mia casa? - Che voi, per circostanze inaspettate, non avete potuto fare i vostri acquisti e che l'imperatore di Cina vi rimanda in Europa attraversando l'Asia, sotto pena di farvi decapitare. - Su una macchina volante? - Questo lo direte voi, quando giungerete a Odessa. - E da dove avete spedito ii dispaccio? - Che v'importa di saperlo? - Capitano, vi ringrazio della vostra gentilezza. - Bah! Una cosa facile! Non ho impiegato che due minuti! A voi la ricevuta e buona notte, signori. Spero domani di farvi vedere la Mongolia meridionale. Ciò detto il capitano era sceso nella sua cabina, dove già lo aveva preceduto lo sconosciuto. Rokoff e Fedoro non trovarono di meglio che d'imitarlo, premurosi di trovarsi soli per poter parlare liberamente. - Finalmente! - esclamò Rokoff, quando si trovò nella sua cabina che era la più lontana da quella occupata dal capitano. - Potremo parlare senza testimoni. Che cosa ne dici tu di quell'uomo? Da dove viene? O meglio, da dove è caduto costui? È un mistero che sarei ben lieto di poter chiarire. - Che rimarrà, almeno per noi, sempre un mistero - rispose Fedoro. - Chi credi che sia? Un abitante di questo deserto? - Lui! È un uomo di razza bianca come noi, mio caro Rokoff. Ha tutti i tratti dei caucasi e nulla affatto dei mongoli. Mi è anzi venuto un sospetto. - E quale? - Che possa essere invece un russo. - Oh! - Sì, Rokoff. Dalle poche parole che ha pronunciate nella nostra lingua, quantunque orrendamente storpiate, ho sorpreso un accento che noi soli russi possediamo; e poi quella barba, quegli occhi azzurri, quella faccia un po' larga con zigomi un po' salienti, affatto speciali della razza slavo-tartara ... no, non devo ingannarmi. Quell'uomo deve essere un nostro compatriota. - E perché non dirlo? Che cosa può aver da temere da noi? - Ho notato un'altra cosa, Rokoff. - Quale? - Che quando il capitano ti ha presentato come ufficiale dei cosacchi, sulla sua fronte è passata come una nube e che nei suoi occhi è balenato un cupo lampo. - Perché dovrebbe odiare i cosacchi? - disse Rokoff, stupito. - Come tutti gli esiliati che nostro padre, lo Zar, manda a marcire nelle orribili miniere della gelida Siberia - disse Fedoro. - Tu sai e te lo dico senza che tu abbia ad offendertene, che i cosacchi sono i tormentatori di quei disgraziati, anzi i loro più feroci aguzzini. - Sicché tu sospetti? ... - Che sia un evaso delle miniere d'Algasithal o di altre peggiori. - Raccolto nel deserto per combinazione? - No, doveva esistere qualche accordo: diversamente non saprei spiegare questa corsa dello "Sparviero" verso il settentrione, mentre avrebbe dovuto dirigersi costantemente verso il sud-ovest per condurci nell'Europa meridionale, come ci ha promesso. - Allora sarà andato a prenderlo in qualche città della frontiera siberiana. - Ah! Stupido! - Che cos'hai, Fedoro? - La ricevuta del telegramma! Si frugò nelle tasche e trovatala, la spiegò rapidamente, gettandovi sopra uno sguardo. - Maimacin - disse. - È stato spedito dall'ufficio telegrafico di quella città, che è l'ultima della Mongolia e che si trova proprio sul confine della Siberia, di fronte alla città russa di Kiachta. Ecco la chiave del mistero. - E tu vuoi che lo "Sparviero" si sia spinto fino in Siberia in così breve tempo? - Abbiamo dormito trentasei ore - disse Fedoro. - Colla velocità che sviluppano le macchine dello "Sparviero", la cosa non mi sembra affatto straordinaria. - Briccone d'un liquore! - esclamò Rokoff, ridendo. - Ce l'ha fatta bella! - Più che il liquore, il narcotico che il capitano vi aveva messo dentro - disse Fedoro. - Quell'uomo dunque sarà un amico del comandante. - Certo. - Fuggito da Kiachta e rifugiatosi a Maimacin. - Sì, Rokoff, deve essere così. - E come l'avrà saputo il capitano? - Ecco quello che noi non sapremo mai. - Altro che le famose trote del Caracorum! - Una scusa per salire verso il nord, senza metterci in sospetto. - Avrebbe potuto dircelo liberamente. Io non avrei avuto nulla a che dire, anche nella mia qualità d'ufficiale dei cosacchi. - E nemmeno io, Rokoff. - Bel tipo quel capitano! ... - Un uomo incomprensibile. - Ma gentile, Fedoro, quantunque un po' originale. - Che ci terrà buona compagnia. Buona notte, amico; me ne torno alla mia cabina. E si separarono, lieti di aver delucidato, se non interamente, almeno parte di quel mistero. L'indomani, dopo la colazione, lo "Sparviero" lasciava quel gruppo di rocce, riprendendo la sua corsa attraverso il deserto. Deserto veramente non si poteva più chiamare, perché le sabbie rapidamente scomparivano, lasciando il posto a distese considerevoli di pini, di betulle e di erbe altissime in mezzo alle quali saltellavano legioni di lepri. Verso l'ovest invece si delineava la imponente catena dei Tian-Scian, una delle più considerevoli dell'Asia centrale e che divide la Dzungaria dal bacino del Tarim e da cui scendono numerosi fiumi. Qualche accampamento di mongoli, formato di tende di feltro di colore oscuro, si cominciava a distinguere verso gli ultimi contrafforti della catena e anche qualche carovana di cammelli sulla strada che va da Pigion a Chami. - Scendiamo verso la Mongolia meridionale - disse il capitano, il quale aveva raggiunto Fedoro e Rokoff che stavano a prora, osservando l'imponente panorama che si svolgeva sotto i loro sguardi. - Fra tre giorni noi ci libreremo sugli altipiani del Tibet. - Ci avanziamo con una velocità straordinaria - disse Fedoro. - Percorriamo cinquanta miglia all'ora, signori miei, abbiamo il vento favorevole. - Quasi come gli uccelli - disse Rokoff. - Oh no! Guardate come corrono quelle aquile che pare abbiano intenzione di venirci a fare una visita. - Delle aquile! - esclamò Rokoff. - Non le vedete? Vengono dai Tian-Scian ed ingrandiscono a vista d'occhio - disse il capitano. - Non danneggeranno le nostre ali! - Lo cercheranno. Quei volatili sono coraggiosi. - E non le respingeremo noi? - Ho già dato ordine al macchinista di portare in coperta dei buoni fucili da caccia. Non c'è da fidarsi di quei rapaci e stizzosi volatili. - Che credono il vostro aerotreno un uccellaccio? - È probabile, signor Rokoff. L'hanno proprio con noi. Una schiera di volatili, che avevano delle ali gigantesche, scendeva, con velocità fulminea, gli ultimi scaglioni del Tian-Scian, movendo verso lo "Sparviero". Erano dieci o dodici, tutte di dimensioni poco comuni, essendo le aquile della Mongolia molto più grosse di quelle che vivono sulle montagne dell'Europa. Non uguagliano ancora i maestosi condor delle Ande americane, che sono i più giganteschi della famiglia, nondimeno raggiungono uno sviluppo straordinario. Le aquile s'avanzavano su doppia fila, gridando a piena gola, colle penne arruffate, ed i lunghi e robusti becchi adunchi aperti, pronti a lacerare. Volavano con tale velocità, che in meno d'un quarto d'ora si libravano sopra lo "Sparviero", sbattendo vivamente le loro immense ali. - Sono furiose - disse Rokoff, prendendo un fucile da caccia, di fabbrica americana, a due canne, che gli porgeva il macchinista. - Attenti alle ali del nostro "Sparviero" - disse il capitano. - E anche ai piani orizzontali - aggiunse Fedoro. - Stracceranno la seta. Anche lo sconosciuto si era armato d'un fucile, collocandosi a poppa. Come il giorno innanzi non aveva pronunciata una sola parola, anzi si era sempre tenuto lontano dal russo e dal cosacco quasi avesse avuto timore di venire interrogato. Le aquile, dopo essersi tenute ad una considerevole distanza volando sempre sopra lo "Sparviero", avevano cominciato ad abbassarsi descrivendo degli ampi giri che sempre più restringevano. - Canaglie! - esclamò Rokoff. - L'hanno con noi perché disputiamo loro l'impero dell'aria! Le signore sono molto stizzose! Vi calmeremo con un po' di piombo che vi guasterà le penne e anche la pelle. Il capitano vedendone una che stava per piombare sullo "Sparviero", sparò il primo colpo alla distanza di sessanta passi. I pallottoloni le fracassarono di colpo le zampe e l'ala destra. Il volatile per un po' si sostenne, battendo furiosamente quella che era rimasta incolume, poi incominciò a scendere verso il deserto, descrivendo dei bruschi angoli. - E una - disse Rokoff. - A me la seconda! Tre colpi di fucile rimbombarono, seguiti da altrettanti. Anche Fedoro e lo sconosciuto avevano fatto fuoco, quasi contemporaneamente. Due aquile capitombolarono come corpi morti e un'altra le seguì poco dopo, facendo sforzi disperati per sorreggersi. Le altre un po' calmate da quell'accoglienza punto incoraggiante, s'innalzarono precipitosamente, senza però decidersi a lasciare in pace il trenoaereo. - Sono ostinate - disse Rokóff. - Non ne hanno ancora abbastanza. - Ritenteranno l'assalto - rispose il capitano. - Non è la prima volta che il mio "Sparviero" viene assalito da quei rapaci volatili. Nel traversare le Montagne Rocciose m'hanno dato una caccia accanita per sette e più ore e m'hanno lacerata tutta la seta dell'ala destra, mettendomi in un gravissimo imbarazzo. Se non avessi avuto le eliche il mio viaggio sarebbe terminato in America. - Sono ben coraggiose - disse Fedoro. - Il mio macchinista porta ancora la traccia d'un colpo di rostro che gli aveva stracciato il cuoio capelluto. Se fosse stato più leggero, l'avrebbero portato via. - Che sia vero che talvolta le aquile osano rapire perfino delle persone? - chiese Rokoff. - Degli adulti no, ma dei ragazzi sì - rispose il capitano - Questi volatili posseggono una forza muscolare incredibile e veramente prodigiosa. Non si trovano imbarazzati a rapire dei montoni e dei camosci che poi portano nel loro nido per divorarseli con maggior comodità. - E anche dei fanciulli? - Nella Scozia, per esempio, dove le aquile sono molto numerose, ogni anno ne rapiscono e anche qui nel deserto. Le madri mongole hanno anzi tanta paura che non osano lasciare soli i loro bambini e se li tengono sempre presso, quando s'accorgono della presenza di qualche aquila. - Signore, tornano - disse il macchinista. - Ancora? Sono cariche le vostre armi? - chiese il capitano. - Sì - risposero il russo e il cosacco. - Mirate le ali. Le aquile si erano riunite in gruppo e tornavano ad abbassarsi. Questa volta pareva che avessero preso di mira i piani inclinati, la cui seta, che luccicava ai raggi del sole, doveva aver attirata maggiormente la loro attenzione. Calavano con furia, tenendo le ali aperte e le zampe allungate, con un gridio assordante. - Sono a buon tiro! - gridò il capitano. I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l'una dietro l'altra in mezzo al gruppo. Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian. - Che batosta! - esclamò Rokoff. - Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti? - Per cosa farne? - Degli arrosti. - Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi - rispose il comandante. - Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro. - È selvaggina, signore - Che non vale una pipa di tabacco. D'altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d'argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti. - E li cacceremo da qui? - E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. In quell'istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo "Sparviero". Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili. - Una carovana! - esclamò il capitano. - Da dove è sbucata che prima non l'avevamo veduta? - Da quel bosco di betulle e di larici - disse Rokoff. - Ma ... to'! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole. - Sono calmucchi - disse il capitano. - Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro. - Non mi rincrescerebbe - rispose Rokoff. - E poi, non sono che una dozzina - disse Fedoro. - Prenderemo le nostre armi. - Macchinista! Scendiamo - comandò il capitano.

Abbiamo ancora alcune bottiglie di brodo di coda di canguro che abbiamo preparato in Australia e che ci daranno una zuppa eccellente. - Del brodo che viene dall'Australia! - esclamò Fedoro. - Gelato a quaranta gradi sotto zero - rispose il capitano, ridendo. - Sarà squisito, ve lo assicuro, quantunque messo nella mia ghiacciaia venticinque giorni or sono. Abbiamo anche dei pasticci, della carne di montone, del bue, dei puddings e anche dello champagne, che salterà ben alto. Ah! Sapete signori dove si è adagiato il mio "Sparviero"? In mezzo a una piantagione di tè! Signor Fedoro, voi sapete di certo prepararlo. Ne faremo una buona provvista, visto che i cinesi non vogliono lasciarci avvicinare. Mezz'ora dopo i quattro aeronauti, seduti presso un allegro fuoco, essendo la temperatura assai fredda, cenavano con un appetito invidiabile, facendo buona accoglienza alla zuppa di coda di canguro, ad un pasticcio di gamberi preparato chissà in quale città dell'America o dell'Australia, a un cosciotto di montone e a un superbo grappolo di banane ottimamente conservate. Il capitano fece servire dell'eccellente vino di California, poi una bottiglia di champagne, il cui vetro era incrostato di ghiaccioli. - Signor Rokoff - disse il comandante, messo in buon umore da quel delizioso vino bianco. - È l'aria delle alte regioni o la mia tavola che vi mette in appetito? - L'una e l'altra - rispose l'ufficiale, che aveva divorato per due e che da vero cosacco faceva gli occhi dolci a una veneranda bottiglia di whisky recata dal macchinista. - Voi, signore, avete una dispensa ammirabile. - Che cercheremo di vuotare presto per rinnovarla con qualche cosa di meglio. Entriamo in una regione ricca di selvaggina e il mio macchinista è un cuoco famoso. - Siete anche cacciatore? - Mi vedrete presto, alla prova. Nel deserto di Gobi gli yacks selvaggi abbondano e anche le lepri sono numerose. Faremo delle belle battute. - Attraverseremo il deserto? - Tale è la mia intenzione. - E poi? - chiese Fedoro. - Il Tibet mi tenta colle sue montagne spaventevoli, coi suoi altipiani immensi, coi suoi lama e il suo Buddha vivente. Tutto però dipende da certe circostanze. - E quali, se è lecito conoscerle? Il capitano, invece di rispondere, caricò flemmaticamente la sua pipa, l'accese, poi cambiando bruscamente tono, disse: - Signor Fedoro, voi che dovete aver viaggiato molto pei vostri commerci, siete mai stato a Kiakta? - No, signore - rispose il russo. - Meglio così - mormorò il capitano. - Perché dite questo? - Ah! Voi conoscete molto bene la preparazione del tè? - Ma ... - disse Fedoro, sorpreso da quel continuo cambiamento di discorso. - Come negoziante ... - Questo è vero. - Ne troveremo da raccogliere in questa piantagione? - Uhm! Ne dubito, capitano. La stagione è ancora troppo fredda. - Mi rincrescerebbe, perché la mia provvista è finita ed i cinesi non vogliono saperne di avvicinarsi a noi. - In tutte le case se ne trova qui - disse Rokoff. - Mi hanno detto che il cinese rinuncia piuttosto al riso anziché al tè. - E che cosa volete concludere? - Che la prima fattoria che troveremo la metteremo a sacco - rispose Rokoff. - Da noi si fa così, quando i soldati mancano del necessario. - È vero - disse il capitano, sorridendo. - Mi dimenticavo che voi siete cosacco. Signori, è tardi e le nostre cabine hanno dei buoni letti. - Andremo a dormire a bordo? - chiese Fedoro. - Ah! Voi non avete ancora veduto l'interno della mia aeronave. Macchinista, una lampada. - E vi fidate a dormire senza sentinelle? - Chi volete che di notte vada a passeggiare sulle montagne? Andiamo. Prese la lampada che il macchinista aveva acceso e condusse i suoi ospiti a bordo, facendoli scendere pel piccolo boccaporto situato dinanzi alla macchina. L'interno dell'immenso fuso di metallo era disposto con cura estrema e anche con molto lusso. Vi era un bellissimo salotto lungo quattro metri e largo quanto l'intera aeronave, due gabinetti da toletta, quattro cabine con soffici letti e un salottino da lavoro ingombro di carte geografiche e di strumenti di varie specie. Le due estremità erano occupate dalle ghiacciaie riboccanti di viveri d'ogni specie e dalle macchine destinate alla riproduzione dell'aria liquida. - Buona notte. - Domani faremo una lunga volata al disopra del Gobi e andremo a pescare le trote nei laghetti del Caracorum.

. - Abbiamo toccato. Il comandante si era spinto fuori dal bordo per riconoscere l'ostacolo e vide confusamente una punta aguzza che si piegava sotto il peso del fuso. - È la cima d'un abete o d'un pino - disse. - Pare che vi sia una foresta sotto di noi. - Potremo scendere? Invece di rispondere il capitano si slanciò verso la macchina mettendo in movimento l'elica anteriore. Cercava di spingere innanzi lo "Sparviero", temendo che dovesse cadere in mezzo a qualche foresta, ciò che avrebbe prodotto qualche catastrofe o per lo meno dei gravi danni. E infatti il fuso, non trovando spazio sufficiente, poteva rovesciarsi e piombare in mezzo alle piante fracassando i piani orizzontali e lacerandosi le ali. Sembrava però poco credibile al capitano che sotto di lui si estendesse una vera foresta, essendo gli altipiani del Tibet settentrionale quasi privi di piante d'alto fusto. Qualche abete o qualche pino, trovato il terreno favorevole, poteva essere cresciuto, ma non di più. Fortunatamente lo "Sparviero", rimorchiato dall'elica, a poco a poco si spostava, cadendo molto lontano da quell'ostacolo che aveva sfiorato l'estremità inferiore del fuso. Il capitano, che non aveva abbandonato il suo posto a prora, non ne aveva scorto altri. La nebbia però era sempre foltissima, anzi più che sull'altipiano. D'improvviso il fuso tornò a toccare. Si udì un urto, seguito poco dopo da uno scricchiolare di tavole o di rami, accompagnato da grida acute. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Schiacciamo della gente noi? - Mi pare che siamo caduti su un'abitazione - disse il capitano. Urla di terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s'inclinava verso poppa, trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi orizzontalmente. A un tratto però l'ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii. L'abitazione doveva essersi spezzata, perché lo "Sparviero" riprese il suo appiombo, rimanendo immobile. - Le armi! Le armi! - gridò il capitano. Attraverso la nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi. Il macchinista e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington. Il capitano era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola. - Pace! Pace! Non temete! Siamo amici! Degli uomini coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati. - Chi siete! - chiese una voce imperiosa. - Amici - rispose il capitano. - Da dove siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna. - Siamo pronti a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato. - Siete mongoli? - Europei che non vi faranno alcun male. - Che cosa sono questi europei? - Degli uomini bianchi - rispose il capitano. - Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo. Quindici o venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre altri s'aggiravano presso lo "Sparviero", cercando di distinguere che cosa fosse quella massa enorme che cadeva dall'alto schiacciando le case. Un uomo, grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo: - Se cercate il capo del villaggio, sono io. Che cosa volete? Da qual parte siete scesi in questa valle senza chiedermi il permesso e mettendo in pericolo i miei sudditi? Per poco non avete schiacciato una intera famiglia. - È l'uragano che ci ha fatto cadere qui. Se il vento non ci avesse spinti, non saremmo discesi. - E che cos'è quella bestia? Sarà poi una bestia? - È la nostra casa. - Gettata giù dal vento? E non vi siete uccisi? Siete uomini o demoni? - Vi ho già detto che siamo degli uomini bianchi. - Venite nella mia capanna; voglio vedere se somigliate a quelli che sono passati per di qui molti anni or sono. - Vi consiglio di far ritirare tutti i vostri uomini e di non toccare la nostra casa. Potrebbe scoppiare e farvi saltare tutti in aria. - Allora la vostra casa è una bestia cattiva! - esclamò il tibetano, retrocedendo vivamente. - Non toccatela e non farà male ad alcuno. Se ci accordate ospitalità, noi vi faremo dei regali. - So che gli uomini bianchi sono generosi. Anche gli altri mi hanno fatto dei regali. - A quali europei allude? - chiese Rokoff, cui il capitano traduceva le risposte del tibetano. - A quelli della missione Bonvalot - rispose il comandante. - Questo selvaggio probabilmente ha veduto il principe Enrico d'Orléans, il figlio del duca di Chartres e cugino del pretendente al trono di Francia. Giacché acconsente a offrirci ospitalità, andiamo subito nella sua capanna. Qui fa un freddo cane e non si vede a due passi di distanza. - E il macchinista e il vostro amico? - chiese Fedoro. - Rimarranno a guardia dello "Sparviero". - Che corrano qualche pericolo? - Ho detto loro di montare la piccola mitragliatrice e con un simile arnese possono tenersi sicuri. D'altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni ostili. Andiamo nella casa di questo capo. I tibetani, dopo aver ronzato un po' attorno allo "Sparviero", senza poter indovinare che cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si erano dileguati. Era rimasto solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli. - Vi seguiamo - disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro. Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi. Dopo trenta o quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto. Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell'argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l'unico combustibile usato sull'altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un'apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati. - All'inferno i palazzi tibetani! - esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una tana da volpi! - Ci abitueremo presto a questo fumo - rispose il capitano. Il capo si era intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all'infuori, e del suo berrettone di pelle d'orso, che gli nascondeva mezzo volto. Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po' obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle. Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell'uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo. Prima d'accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all'altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. - Sta appiccandosi costui? - Ci saluta - rispose il capitano. - Con quella lingua! Da dove l'ha cacciata fuori! - Tutti i tibetani l'hanno così lunga. - Dite mostruosa. È ributtante! Sembra quella d'un orso formichiere. - Se saremo costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi. - Mille storioni! Il tibetano, dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di feltro. Tutti i montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti, come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far comprendere i loro desideri. Anche quando vogliono salutare, invece di dare un cordiale "buon giorno" o la "buona sera", si limitano a sporgere più che possono la lingua. Il capo andò a prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a mangiare. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Questo scimmiotto ci prende per tigri o per lupi per darci della carne cruda. - Non usano cucinarla - disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d'orzo e di carne cruda. Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè! - Io non farò onore a questo pasto da cannibali - disse Fedoro. Abbiamo le nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle. Aveva portato delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti, dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro. Depose ogni cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto. Il montanaro, vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po' confuso, però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi accesi i pezzetti di zucchero. - Io conosco quei pezzi di pietra - disse. - Gli uomini bianchi che sono passati per di qua molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare. - To'! Li chiama pezzi di pietra! - esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. - A te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col ginepro. Terminato il pasto il capo, che era diventato molto loquace dopo parecchi bicchieri della forte bevanda, spiegò al capitano che erano caduti in una profonda vallata racchiusa fra montagne tagliate a picco, che aveva una sola uscita verso il Ruysbruck, il più alto ed imponente picco dei Crevaux e che il suo villaggio si componeva di sessanta famiglie di pastori. Si dimostrava però sempre curioso di sapere in qual modo erano caduti da una così spaventevole altezza senza fracassarsi le ossa e di sapere che cosa era quella massa enorme che aveva schiacciata una capanna. La spiegazione fu laboriosa ma senza successo, non avendo quel tibetano mai udito parlare né di palloni, né di macchine volanti e tanto meno di uomini che viaggiavano fra le nubi. - Se è vero quello che tu mi racconti - concluse il montanaro - tu devi essere l'uomo più potente della terra. Finché però non ti vedrò volare come le aquile, non ti crederò mai, perché solo Buddha, potrebbe tentare una simile cosa. Volle in seguito vedere i fucili degli aeronauti senza poter comprendere come facessero fuoco non avendo la miccia. Gli sguardi d'ardente cupidigia che lanciava su quelle armi erano tali da impressionare il capitano. - Finirà per chiedercele - disse a Rokoff ed a Fedoro. - Noi però non gliele daremo. Si accontenti del suo moschettone a miccia. Dopo un paio d'ore lasciarono la capanna, non fidandosi di dormire in compagnia del capo. Il nebbione non si era ancora alzato e la neve cadeva abbondante anche nel vallone. Il macchinista e lo sconosciuto per riparare il ponte del fuso, avevano in quel frattempo tesa una immensa tenda di tela cerata e messa in batteria una piccola mitragliatrice a sette canne disposte a ventaglio, arma sufficiente per tenere in rispetto i tibetani, nel caso che avessero tentato di saccheggiare o di guastare lo "Sparviero". - È venuto nessuno ad importunarvi durante la nostra assenza? - chiese il capitano. - Abbiamo veduto, a più riprese, aggirarsi fra la nebbia alcune ombre che si sono subito dileguate al mio grido d'allarme - rispose il macchinista. - Si direbbe che voi non siete tranquillo - disse Fedoro, un po' sorpreso. - I tibetani non vedono volentieri gli stranieri - rispose il capitano. - E poi qui, in queste gole, non vivono che dei briganti, non essendovi pascoli fra questi orridi dirupi. E poi sapete che cosa m'inquieta? - Dite, signore. - L'assenza completa delle donne; ne avete vedute voi? - Io no. Dunque non credete che le capanne e le tende siano abitate da famiglie. - Solamente da uomini. - Che ci diano delle noie? - chiese Rokoff. - Non mi sorprenderei. Durante la buona stagione, all'epoca dei pellegrinaggi, tutte le vie che attraversano gli altipiani sono infestate da banditi. Chi mi assicura che non lo siano anche questi? Vegliamo amici e non lasciamoci sorprendere. - Brutto affare, collo "Sparviero" immobilizzato. - Aiuteremo il macchinista ad accomodare l'ala. I pezzi di ricambio sono già pronti. - Sarà lunga la riparazione? - Non avrò terminato prima di domani a mezzodì - disse il macchinista. - Il vento ha spezzato più di mezze verghe. - Al lavoro - disse il capitano. - Intanto uno di noi veglierà passeggiando intorno al fuso, onde i Tibetani non ci guastino i piani orizzontali. Se sventrano la seta, per noi sarebbe finita e l'idea di un viaggio a piedi attraverso il Tibet, specialmente in questa stagione così fredda, vi assicuro che non mi sorride affatto. - M'incarico io del primo quarto di guardia - disse Rokoff. Si gettò sulle spalle un ampio gabbano di tela impermeabile, si calcò in testa il suo berretto di pelo simile a quello che portano i tartari della steppa e armatosi dello Snider balzò a terra, scomparendo nella nebbia.

. - E noi abbiamo lasciato fare! - Non era cosa che ci riguardasse - disse il capitano. - D'altronde non intervenendo abbiamo abbreviato le torture che quel disgraziato soffriva e forse da parecchi anni. Scendiamo e tagliamo il passo a quelle persone. Se il loro villaggio non è lontano, andremo a farci vendere del tè. Girarono la rupe e avendo trovato un sentieruzzo, si calarono nel burroncello, giungendovi quando gli uomini e donne stavano per lasciare la tomba del lebbroso. Vedendo comparire improvvisamente quei tre uomini armati di fucili, i cinesi si radunarono prontamente coprendo le loro donne le quali, credendo forse d'aver a che fare con dei briganti, si erano messe a urlare disperatamente. - Pace - disse il capitano in buon cinese. - Non temete nulla dall'uomo bianco, che è amico dei cinesi. Un vecchio, che aveva una coda lunghissima e due baffi che gli giungevano fino a mezzo petto, si fece innanzi, muovendo le mani in forma di ventaglio e ripetendo: isin! isin! parola che equivale ad un deferente saluto. - Chi è l'uomo che avete sepolto? - chiese il capitano. - Un lebbroso, signore, che era stanco di soffrire - rispose il vecchio, gettando uno sguardo spaventato sui tre stranieri. - Non l'avete costretto? - No, signore, lo giuro sui miei antenati. - Dov'è il vostro villaggio? - Laggiù, in fondo a quella valletta. - Siete in molti? Tutta la popolazione è qui. - Avete del tè da venderci? - Sì, signore. Me ne porterete quanto più potrete; vi avverto però che se vi farete attendere troppo o se fuggirete, manderò ad inseguirvi un drago enorme, il quale vi divorerà tutti. - Conosciamo abbastanza la potenza degli uomini bianchi per non esporci al rischio di provarla - rispose il vecchio, che continuava a tremare. - Siccome non mi fido di te, lascerai qui qualche ostaggio fino al tuo ritorno. - Ti lascerò la figlia del lebbroso. - Purché non abbia delle pustole. - Giudicherai tu stesso, signore, se è più sana di me. Vieni, Tsi! Una fanciulla di tredici o quattrodici anni, con un visetto grazioso che la faceva rassomigliare ad una europea, salvo la tinta della pelle che era d'un giallo sbiadito, e un'abbondante capigliatura raccolta in trecce, si fece innanzi, barcollando sulle due scarpettine quasi microscopiche. Come suo padre, il povero lebbroso, indossava un casacca di seta e portava dei larghi nin-ku, specie di calzoni che scendono fino alla noce dei piedi. Sulla testa aveva una di quelle piccole sciarpe chiamate nin-hiai, usate dalle piccole persone benestanti. Guardò curiosamente il capitano ed i suoi due compagni, alzando abbassando vivamente le palpebre dalle lunghe ciglia di seta, poi sedette su sasso in attitudine rassegnata, dicendo brevemente al vecchio: - Ti obbedisco. Il drappello, dopo aver salutato gli stranieri, s'allontanò percorrendo il fondo del burrone, senza che un muscolo di quel grazioso visino avesse trasalito. - Il padre di questa fanciulla doveva essere un ricco agricoltore - disse Fedoro, che la osservava attentamente. - Le contadine non vestono mai in seta, né si storpiano oggidì i piedi. - Che suo padre fosse il capo del villaggio? - chiese il capitano. - Certo. - Che piedini graziosi! - disse Rokoff. - Non ne ho mai veduti di piccoli, e non credevo che le cinesi riuscissero ad arrestarne lo sviluppo a tal punto. - Le persone di buona condizione ci tengono ad avere figlie coi piedi minuscoli, perché ciò aumenta il valore commerciale della donna, e tu sai che qui le spose si comperano. Più la scarpa che si presenta al futuro marito è piccola, più egli deve sborsare. - Quindi qui la bellezza non conta? - Viene dopo i piedi. - Singolare paese! - In origine però quest'usanza deve aver avuto qualche altro motivo - disse il capitano. - Si dice che i cinesi di tempi antichi fossero terribilmente gelosi delle loro donne e che siano ricorsi a questo barbaro uso per impedire loro di fuggire. Infatti, coi piedi così storpiati, non possono camminare a lungo. - Devono soffrire assai, almeno nei primi tempi - disse Rokoff. - Questo è certo - rispose Fedoro. - E come fanno per arrestarne lo sviluppo? - chiese il capitano. - Perché l'operazione riesca perfettamente, secondo l'ideale degli uomini, piegano le dita sotto la punta del piede, eccettuato il pollice che deve rimanere libero, poi fanno in modo che il tallone cambi direzione diventando verticale, invece di orizzontale. Per ottenere ciò, adoperano delle fasce di seta o di cotone lunghe un metro e mezzo e larghe un palmo. L'operazione comincia quando la fanciulla ha sei o sette anni e non cessa se non quando tutte le parti molli sono atrofizzate ed il piede ha cessato di crescere. Ricorrono però sovente a dei modi più barbari, battendo la faccia dorsale dei piedi perfino coi ciottoli e producendo perfino delle fratture. - Che tormento - disse Rokoff. - Talora poi le fasce vengono continuamente strette e cucite. - Vorrei vedere quei piedi. - Non lo otterresti. Le donne cinesi sono così gelose da non concedere tale permesso nemmeno ai loro mariti. - Ah! Che bel paese è la Cina! - esclamò Rokoff, ridendo. - Il paese delle sorprese strabilianti! - Ecco gli uomini che tornano - disse il capitano. - La minaccia di scatenare il terribile drago ha fatto effetto. Il vecchio era ricomparso seguito dai due portatori della bara carichi di due enormi canestri contenenti la deliziosa infusione. Il capitano regalò ai tre uomini due tael, prezzo ben superiore al contenuto dei panieri, un altro alla fanciulla, poi si diresse verso l'altipiano con Rokoff e Fedoro. - Partiamo - disse. Quando giunsero allo "Sparviero" la macchina già funzionava. - Siamo pronti? - chiese il comandante. - Sì, signore - rispose il macchinista. Passarono sul fuso, le eliche orizzontali si misero in movimento turbinando, le ali si mossero sbattendo lievemente per non guastarsi al suolo e il treno aereo s'innalzò prendendo subito lo slancio verso l'opposto declivio della montagna. Sul margine della foresta i tre cinesi e la fanciulla, istupiditi dallo spavento, lo guardavano innalzarsi. - All'ovest - disse il capitano al macchinista. - Andremo a cacciare sulle rive dell'Hoang-ho.

Abbiamo troppa fiducia in voi e nel vostro "Sparviero". - Voi però potreste supporre di aver salvato due bricconi - disse Fedoro. - Ho avuto il tempo di apprezzarvi e d'altronde so che voi siete uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia meridionale e che il vostro amico è un ufficiale dei cosacchi. Tali persone non possono essere dei banditi. - Come sapete questo? - esclamò Fedoro. - Lo so e basta, è vero, signor Rokoff? - disse il capitano. - Più tardi mi racconterete le vostre avventure; per ora occupiamoci del mio "Sparviero". I PRODIGI DELL'ARIA LIQUIDA Il capitano si alzò, fece il giro del ponte guardando l'immensa pianura che si estendeva sotto la macchina volante, si fermò un istante dinanzi ai barometri ed ai termometri appesi alla balaustrata, scambiò alcune parole col macchinista in una lingua sconosciuta, poi tornando verso la tavola, accese una sigaretta e si sedette. - Ditemi, signori miei, - disse, guardando con aria di grande condiscendenza i suoi due compagni di viaggio - siete soddisfatti delle evoluzioni compiute dal mio "Sparviero"? - È una macchina perfetta, davvero stupefacente - disse Rokoff con convinzione. - È lo scioglimento della questione della navigazione aerea - aggiunse Fedoro. - Sì, il vero scioglimento - disse il capitano, - Da parecchi lustri, gli scienziati studiano invano per trovare un pallone dirigibile che permetta all'uomo di solcare l'aria con piena sicurezza e senza porsi in balia delle correnti aeree così mutabili e sovente così pericolose. Quali risultati hanno ottenuto i loro studi? Nessuno di certo che sia per lo meno pratico. E sapete il perché? Perché hanno trascurato la meccanica, ostinandosi invece coll'idrogeno. Le innumerevoli catastrofi che si sono susseguite dall'innalzamento delle prime mongolfiere agli ultimi e più perfezionati palloni, non li hanno ancora persuasi che col gas non si deve avere troppa sicurezza. Si è fatto un gran chiasso intorno agli esperimenti di Giffard e di Renard coi loro palloni dirigibili, perché quest'ultimo era riuscito, con tempo calmo, a compiere un breve tragitto tornando al punto di partenza; ha sollevato immenso entusiasmo il brasiliano Santos Dumont; si attendono meraviglie dal pallone del conte da Schio, un italiano, e da altri ancora. Ebbene si provino costoro a tentare una lunga traversata, a sfidare venti impetuosi, ad affrontare uragani. I loro palloni, nonostante le loro eliche e la forza delle loro macchine, verranno abbattutti, squilibrati, trascinati e altre catastrofi si seguiranno. - Lo credo anch'io - disse Rokoff. - Per molto tempo - proseguì il capitano - mi sono pur io ostinato coi palloni dirigibili. Ho fatto costruire fusi semplici e accoppiati, ho fatto perfezionare macchine a petrolio ed a benzina, spendendo somme enormi e senza risultati pratici. Eppure oggi abbiamo motori potenti e leggeri, abbiamo metalli del pari leggeri e solidi quanto il ferro, abbiamo mille perfezionamenti nella meccanica e anche delle forze che ieri ancora erano sconosciute e che se fossero state note trentanni or sono, avrebbero segnato un completo trionfo per Spencer e per Kaufmann. - Chi sono costoro? - chiese Fedoro, il quale ascoltava attentamente il capitano. - È qui che vi aspettavo per dimostrarvi che la questione della navigazione aerea, avrebbe potuto essere stata risolta da trenta e più anni. Nel 1868, all'esposizione del classico Palazzo di cristallo di Londra, fra i vari palloni più o meno dirigibili, venivano presentate due macchine volanti: una ideata da Spencer, l'altra da Kaufmann. Salvo alcune modificazioni da me introdotte, rassomigliavano nelle forme al mio "Sparviero". Provate su corde tese, lunghe quattrocento metri, e trattenute da pulegge scorrenti, avevano dato risultati stupefacenti. Che fossero perfette, io non lo credo, ma se lo Spencer e Kaufmann avessero proseguito i loro studi, io sono convinto che a quest'ora gli uomini volerebbero per l'aria gareggiando cogli uccelli. Che cosa ho fatto io? Ho modificato le loro macchine, scartando però i loro motori a carbone, troppo pesanti e poco maneggiabili. Al ferro ho surrogato l'alluminio, molto più leggero ed egualmente resistente; al carbone ... una forza ben più poderosa, poco costosa, ieri ancora ignota e che domani metterà in azione locomotive, corazzate, telai, automobili e che risolverà tutti i problemi della dinamica. Questa forza me l'ha data l'aria liquida. - L'aria liquida! - esclamarono Rokoff e Fedoro. - Quando Tripler pel primo riuscì ad ottenerla, non si immaginava certo di aver scoperta una forza che porterà la rivoluzione nel mondo. Solamente molto più tardi doveva accorgersi dell'importanza straordinaria della sua scoperta. Pensate che l'aria liquida ha circa cento volte il potere espansivo del vapore e che essa comincia a produrre la sua forza nel medesimo istante in cui è esposta all'aria esterna. Per ottenere il vapore è necessario che l'acqua raggiunga una temperatura di 212o Fahrenheit, ossia che se l'acqua entra nelle caldaie a 50o di calore, se ne devono immettere in essa altri 162o prima che possa fornire una libbra di pressione. L'aria liquida invece ne dà venti. Valendomi dunque degli studi fatti dal Tripler e da altri scienziati, e specialmente dall'Estergren, che ha già applicato l'aria liquida a molti meravigliosi congegni, ho costruito un motore d'una solidità a tutta prova, d'una leggerezza unica, il quale mi fornisce a esuberanza la forza necessaria per far muovere le ali del mio "Sparviero" e le eliche. Come vedete, una cosa semplicissima. Un'altra macchina, costruita nelle officine dell'Estergren, mi fornisce l'aria necessaria con una spesa modicissima ed in tale quantità da non saper che cosa farne, perché in una sola ora me ne procura tanta da bastarmi per una settimana. Ma vi è di più. Fa troppo caldo? Metto in azione il mio ventilatore e ottengo in pochi istanti una temperatura da Siberia. Ho dei viveri da conservare? Li metto nelle celle refrigeranti del mio fuso e li gelo ed ecco perché posso farvi assaggiare delle trote pescate due mesi or sono nel San Lorenzo o dei pasticci acquistati a San Francisco o della frutta raccolta nelle isole dell'Oceano Pacifico. Voglio sparare il cannoncino che tengo là dietro la macchina? È l'aria liquida che me ne dà la forza, senza ricorrere alla polvere. Voglio far saltare mezza città? Non faccio altro che immergere un pezzo di lana nella mia aria liquida ed ecco che infiammandosi esplode con tutta la terribile violenza del cotone fulminante. A suo tempo, se le circostanze lo esigeranno, ve ne darò la prova. - Ma da dove venite voi? Chi siete? - domandò Rokoff, che lo guardava quasi con terrore. - Da dove vengo? Dall'Oceano Pacifico, per ora. Chi sono io? Il capitano dello "Sparviero". Venite: ecco delle cose interessanti da vedere. Le tombe dei Ming! Un'altra meraviglia che vale veramente la pena di guardare con attenzione. Quello strano personaggio si era vivamente alzato dirigendosi verso la prora, dove la grande elica che serviva di rimorchio e fors'anche di direzione, turbinava velocemente. Rokoff e Fedoro, che non si erano ancora rimessi dal loro stupore, stettero un momento seduti, guardandosi l'un l'altro, poi seguirono il capitano senza parlare. Lo "Sparviero" si dirigeva verso una collina verdeggiante, sulla quale si vedevano biancheggiare delle strane costruzioni. Sotto, la pianura s'alzava gradatamente, coltivata a piante di gelso e di cotone, intersecata da torrentelli che parevano nastri d'argento e cosparsa di capanne di fango secco e di paglia. Dei contadini di quando in quando apparivano fra i solchi e dopo un momento di stupore, fuggivano urlando come ossessi, alla vista della macchina volante. - Sapete come si chiama quella collina? - chiese il capitano ai suoi ospiti? - No, signore - rispose Fedoro. - Non sono mai andato oltre Pechino. Dopo la distruzione di Taku, la presa di Tient-tsin e l'entrata delle truppe europee nella capitale, l'uomo bianco non osa più inoltrarsi nelle provincie interne della Cina. - È vero - disse il capitano. - Gli europei e gli americani, colla loro grande spedizione, credevano di aprire per sempre le barriere cinesi ed invece le hanno chiuse più di prima. I boxer vivono ancora dovunque e la tremenda lezione non è bastata a calmarli. - E quella collina? - chiese Rokoff. - È la Scisan-ling, ossia dalle tredici fosse - rispose il capitano. - Là vi sono le famose tombe della dinastia dei Ming. - E andiamo a vederle? - Vi passeremo sopra. Si appoggiò al bordo e si rimise a fumare, tenendo gli sguardi fissi sulla collina che pareva si precipitasse incontro allo "Sparviero" con velocità straordinaria. Intanto nelle vallette, all'ombra di gruppi di pini e di ginepri, cominciavano ad apparire numerose tombe, appartenenti probabilmente a ricchi personaggi od a principi. Quasi tutte avevano la forma di tartarughe gigantesche, portanti sul clipeo delle tavole di marmo piene d'iscrizioni con ai lati colossali leoni e chimere di bronzo o di pietra bigia. Lo "Sparviero", rallentata la corsa, dopo essersi innalzato di altri trecento metri onde poter dominare tutta intera la collina, ridiscese imboccando una stretta valletta che s'inoltrava fra profondi burroni, e si arrestò al disopra d'un vasto spiazzo dove si vedevano delle superbe costruzioni. Era il parco sepolcrale dei Ming, uno dei più splendidi che si vedono nel circondario di Pechino. Esso si trova a circa quaranta chilometri dalla capitale, in un luogo solitario della catena dei Tiencia, fra gruppi di pini che formano dei bellissimi viali ombrosi e di querce grossissime. Vi si penetra per un immenso porticato di marmo bianco, il quale mette in un viale abbellito da statue che rappresentano dei mandarini, dei sacerdoti e dei guerrieri, elefanti, cammelli, leoni, cavalli e liocorni mostruosi, alcuni in piedi ed altri inginocchiati e alti due, tre e perfino quattro metri. Vi sono monumenti bellissimi, fra i quali spicca il tempio dei sacrifici sostenuto da sessanta colonne di lauro alte ognuna tredici metri, con una circonferenza di tre. Lo "Sparviero" descrisse parecchi giri al disopra del parco, poi deviando bruscamente prese la corsa verso il nord-ovest, attraverso le montagne dei Tiencia. Dove andava? Rokoff e Fedoro avrebbero desiderato saperlo, ma non osarono chiederlo. Il capitano, d'altronde non pareva disposto a soddisfare la loro curiosità, perché li aveva bruscamente lasciati dirigendosi verso poppa, dove si trovava il macchinista. Si sedette dietro la ruota e dopo aver scambiato alcune parole col suo compagno, si era messo a osservare il paese circostante, senza più occuparsi dei suoi ospiti. - Ebbene, Fedoro, che cosa ne dici di tutto ciò? - chiese Rokoff. - A me pare di essermi risvegliato in questo momento e d'aver sognato. - Anch'io mi domando ancora se sono vivo o morto - rispose il russo. - Vi sono certi momenti in cui dubito di non essere stato ammazzato. Se non avessi veduto coi miei occhi Pechino, mi crederei in un nuovo mondo. - Infatti, l'avventura è strana, Fedoro, tale da far impazzire. Trovarci dinanzi alla morte e risvegliarci in aria in viaggio per l'Europa! Quando noi lo racconteremo ai nostri amici, non ne troveremo uno che ci crederà. - Mostreremo loro lo "Sparviero". - Se ci porterà fino a Odessa. Il capitano ha detto che vuole raggiungere l'Europa, ma non dove ci deporrà - disse Rokoff. - E chi credi che sia quell'uomo? - Non te lo saprei dire, perché mi ha detto che parla tutte le lingue. - Un gran dotto di certo. - E anche un originale, Fedoro. - E non vuole dirci dove ci trasporterà ora. - Attraverso l'Asia. - Un, viaggio meraviglioso - disse il russo. - Che non mi rincresce affatto - aggiunse Rokoff. - E che compiremo presto, perché questa macchina mi pare dotata di una velocità tale da sfidare gli uccelli. - Filiamo come le rondini, Fedoro. Guarda come spariscono i campi, i boschi e i villaggi! Questa macchina volante è una vera meraviglia. - Purché qualche accidente non le faccia spezzare le ali e ci mandi a fracassarci sulla superficie della terra! - Non credo che ciò possa accadere - disse Rokoff. - Questo treno aereo è d'una solidità incredibile. Malgrado lo sforzo poderoso delle macchine, non si sente il più leggero fremito nel fuso. Leggerezza, potenza e solidità! Quel diavolo d'uomo non poteva ottenere di più. Ma e dove andiamo noi? Mi pare che lo "Sparviero" abbia deviato ancora. - Si dirige verso quella città che vedo sorgere là in fondo - disse Fedoro. - Una città? - Forse quella di Tschang-pin, perché alla nostra sinistra vedo un corso d'acqua che deve essere molto voluminoso. Deve essere il Pei-ho. - Allora ci dirigiamo al nord. - E verso la grande muraglia, ne sono certo - rispose Fedoro. - - L'Europa non si trova già al nord. - Lo "Sparviero" piegherà poi verso l'ovest. - No, signori - disse una voce dietro di loro. - Non ora; più tardi, molto tardi. Il macchinista si era accostato loro tenendo fra le labbra una di quelle monumentali pipe di porcellana, usate dagli olandesi e dai tedeschi. Il compagno del capitano era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura media, muscoloso e ad un tempo di taglia snella, colla pelle assai bruna, gli occhi nerissimi tagliati a mandorla e i capelli ondulati e biondissimi, che portava lunghi. Dire a quale razza appartenesse, sarebbe stato molto difficile, perché pareva che i lineamenti degli uomini del nord e del sud si fossero fusi in lui. Aveva del semitico, del greco, del romano e dell'anglosassone. Da quale paese dunque veniva? Che però appartenesse alla razza bianca, malgrado la tinta oscura della sua pelle, non vi era da dubitare. - Non piegheremo verso l'ovest? - chiese Rokoff dopo averlo osservato con curiosità. - Non per ora - ripeté il macchinista in cattivo russo. - Continueremo dunque la corsa verso il nord. - Sì, signore. - Allora andremo in Siberia. - Non lo so - rispose il giovane, quasi si fosse pentito d'aver detto troppo. - È il capitano che comanda. - Eppure ci aveva detto di condurci in Europa - insistette Rokoff. - Se lo ha detto, manterrà la parola. - È molto tempo che viaggiate? - chiese Fedoro. - Molto e poco. - Vale a dire? - Che non lo so. - Ecco una risposta strana. Non siete partito col capitano? - Può essere. - Non sapremo mai nulla da costui - disse Rokoff in francese a Fedoro. - Non devo parlare, tale è l'ordine - disse il macchinista nell'egual lingua e sorridendo. - Ah! Voi parlate anche il francese! - esclamò il cosacco, confuso. - Ed altre ancora, signore. Ecco Tschang-pin: la gran muraglia non è lontana. - Faremo provare una gran paura ai cinesi. - To'! Che cos'è quell'immenso recinto brulicante d'animali? - chiese Rokoff indicando una specie di parco che si estendeva per miglia e miglia verso l'ovest. - Una delle riserve dell'imperatore - rispose Fedoro. - Ne ha parecchie nella provincia di Pechino. - Vi sono migliaia di cavalli. - E tutti di proprietà imperiale. - E che cosa ne fa l'Imperatore? - Non lo saprei, perché non cavalca quasi mai. Tuttavia posso dirti che tiene a sua disposizione quasi centomila destrieri, scelti fra i migliori del suo sterminato impero. - Tanti da morire prima di averli provati tutti, anche se dovesse diventare vecchio quanto gli antichi patriarchi. - Sì, Rokoff. - Vedo anche dei buoi. - Ne possiede dodicimila. - E delle pecore. - Si dice che ne abbia duecentoquarantamila. - Ecco un proprietario che invidio, Fedoro. E quella massa enorme che s'innalza presso le mura del parco? La si direbbe una campana. - Fedele copia di quella di Pechino - disse il capitano, che si era silenziosamente accostato a loro. - Solamente che quella è in pietra, mentre quella della capitale è di bronzo finissimo. - Io non ho mai potuto vederla, ma se quella è una copia, deve essere ben mostruosa. - La più grande che esista al mondo, avendo tra una altezza di cinque metri, un diametro di quattro e mezzo e un peso di sessantamila chilogrammi. Se la bella Ko-hi non si fosse sacrificata, non so se i cinesi, per quanto abili, sarebbero riusciti a fonderla. - Ko-hi! - esclamò Rokoff, guardando il capitano. - Chi era? - Una delle più belle fanciulle dell'impero. - E che cosa c'entra colla famosa campana? - Signor Fedoro - disse il capitano, volgendosi verso il russo. - Non conoscete la storia di questa campana? - No, signore. Il capitano s'appoggiò al bordo, guardò per alcuni istanti Tschang-pin che ingrandiva a vista d'occhio, poi disse, quasi bruscamente: - Narrasi che l'imperatore Yung-ko avesse incaricato il mandarino Kuang-yo di fondergli una campana che, per mole, non avesse l'eguale nel mondo. L'impresa era così ardua, che per due volte l'immenso torrente di bronzo fuso si riversò nello stampo senza riuscire a dare una campana perfetta. L'imperatore, sdegnato, concesse una terza prova, minacciando di morte lo sventurato mandarino nel caso che non fosse riuscito. Interrogato un astrologo, questi aveva predetto che la fusione sarebbe riuscita se assieme al bronzo si fosse mescolato il sangue d'una vergine. Kuang-yo aveva una figlia, giovane e bellissima. Apprendendo la profezia dell'astrologo e temendo l'ira dell'imperatore contro suo padre, la fanciulla si decise per l'orrendo sacrificio. Ed ecco che, quando il fiume di bronzo usciva come lava ardente dall'immensa fornace, la bella giovane si slancia, gridando: "Per mio padre!" Un soldato si precipitò su di lei per trattenerla, ma già il giovane corpo si era immerso nel metallo, non lasciando in mano dell'uomo, che voleva salvarla, che una delle sue piccole scarpe. Il mandarino, che aveva assistito al sacrificio della figlia, impazzì, ma la fusione riuscì pienamente, come aveva predetto l'astrologo. Si dice che il primo suono che diede la campana sembrò un colpo di scarpetta. Era la disgraziata giovane che reclamava ancora, nelle vibrazioni del bronzo, la sua piccola shieh. Macchinista alziamoci! Ecco le prime case di Tchang-pin ed ecco i primi colpi di fucile destinati a noi. Non sono cortesi questi abitanti!

. - Abbiamo bisogno di rinnovare le nostre provviste, prima di affrontare gli altipiani del Tibet, che sono d'una aridità spaventosa, e anche di procurarci delle pellicce ben calde e del grasso. Farà molto freddo lassù. - Non fuggiranno intanto gli jacks? - Dove trovano pascoli si fermano e siccome il deserto non abbonda di vegetazione, non lasceranno quelle rupi. - Dove ci fermeremo per passare la notte? - Sulle sabbie, per metterci al riparo dal vento. Non sentite come soffia? - È freddissimo, capitano. Sarebbe da preferirsi ora una macchina a vapore alla vostra aria liquida. - Un brutto cambio in queste regioni che sono prive di grossi vegetali. Sugli altipiani non troveremo nemmeno un albero. Essendo giunti quasi di fronte a quell'enorme accatastamento di rocce, il capitano diede il segnale della discesa. Lo "Sparviero" poco dopo si adagiava sulle sabbie, in una profonda depressione del terreno, circondata da rupi e che pareva dovesse essere stato anticamente il fondo di qualche bacino, essendovi abbondanza di lastre di sale. Quantunque riparati, il vento soffiava freddissimo, scendendo dalle non lontane catene nevose degli Allyn-tag, i quali segnano il confine fra il deserto e il Tibet. I cinque aeronauti, dopo essersi accertati che non vi era alcuno in quei dintorni, cenarono alla lesta e si rinchiusero nel fuso d'alluminio, raddoppiando le coperte. Non era ancora sorta l'alba, che già il capitano, Rokoff e Fedoro erano in piedi ansiosi di dare la caccia agli jacks che avevano veduto pascolare la sera innanzi. Sapendo d'aver a che fare con animali pericolosi, armati di corna formidabili e dotati d'una forza non inferiore a quella dei bufali, si erano armati di carabine di grosso calibro e di lunghi coltelli da caccia, dei bowie-knife americani colla lama solidissima. La giornata si annunciava bellissima, quantunque il freddo fosse notevolmente aumentato. Un'aria secca, che tagliava i volti e che screpolava le labbra, soffiava sempre dagli Allyn-tag, sollevando le sabbie del deserto in fitte cortine. - Con una buona camminata ci scalderemo - disse Rokoff mettendosi in tasca alcuni biscotti e qualche scatola di carne conservata. - E gli jacks vi faranno anche correre - disse il capitano. - Sono animali assai diffidenti, che non si lasciano avvicinare facilmente. Badate di non commettere imprudenze e di non sparare se non a colpo sicuro, perché, quando sono feriti, si rivoltano furiosamente. La catena di rocce non era lontana che un quarto di miglio. Era formata da ammassi di rupi ripidissime, coperte da una magra vegetazione, composta per lo più di graminacee e di licheni, divise da minuscole vallette che salivano tortuosamente verso le cime. Il capitano avendo scoperto un burrone che pareva meno aspro degli altri, fiancheggiato da qualche gruppetto di betulle nane, guidò i compagni attraverso quel passo che doveva condurre sui piccoli altipiani superiori. - Che si trovino lassù gli jacks? - chiese Fedoro. - Per lo più si tengono alti - rispose il capitano. - Mentre i nostri bufali preferiscono le bassure e soprattutto i terreni paludosi, i loro confratelli della Mongolia di rado abbandonano le cime delle montagne. - Sono indomabili? - Non del tutto; i tibetani li adoperano per trasportare le tende e le merci, quantunque siano sempre un po' selvaggi. - Non ne vedo però alcuno in questo burrone - osservò Rokoff, che era impaziente di misurarsi con quella grossa selvaggina. - Ne troveremo, non dubitate - rispose il capitano. - Ho già scorto le loro tracce e anche molto argol. - Che cos'è questo argol? - Sterco disseccato degli jacks che i tibetani raccolgono preziosamente. - Per cosa farne? - Per bruciarlo, non avendo legname sugli altipiani. - Che minestre profumate devono riuscire! - esclamò Rokoff. - Non sono tanto sottili. - Sicché sulle loro montagne manca perfino l'erba. - Non vi sono altro che sassi. - E non allevano bestiame? - Sì, dei piccoli cavalli. - E che cosa danno da mangiare a quegli animali, se non possono raccogliere fieno? - Avete mai udito narrare che nell'Islanda vi siano delle praterie? - No, signore. Mi hanno detto che in quella grande isola dell'Atlantico settentrionale non vi sono che vulcani e montagne di lava e di pomici. - Eppure non vi è islandese che non abbia almeno una mezza dozzina, se non due, di cavalli. Qualche praticello, magrissimo, si trova anche su quei terreni tormentati dai vulcani, ma non basteranno a nutrire nemmeno dieci di quegli animali. - E come vivono allora? - Di teste di merluzzi e d'avanzi di pesce. - Oh! Questa è grossa! - E così anche quelli dei tibetani si sono abituati a nutrirsi di carni e, quello che è più sorprendente, di carne cruda. - E non deperisce la razza? - Al pari di quelli d'Islanda, i cavalli tibetani sono, a poco a poco, diventati piccolissimi. - Silenzio - disse in quell'istante Fedoro. - Odo dei muggiti lassù. Avevano allora quasi raggiunto l'estremità del burrone, che in quel luogo si stringeva tanto da rendere quasi impossibile il passaggio. Da quell'apertura si udivano dei muggiti prolungati, accompagnati da colpi di zoccolo. - Siamo vicini agli jacks - disse il capitano, armando la carabina. - Gettiamoci in mezzo a quelle rocce e avanziamo senza far rumore. - Non udite questi rumori? - chiese Rokoff. - Si direbbe che quegli animali battagliano fra di loro. - Meglio così; potremo sorprenderli più facilmente. Superarono, con non lievi fatiche, un enorme masso che chiudeva parte della gola e gettatisi al suolo si misero a strisciare l'un dietro l'altro, procurando di tenersi sottovento. Appena giunti allo sbocco del burrone si fermarono tutti e tre, appiattandosi dietro la sporgenza d'una rupe. Dinanzi a loro si estendeva un minuscolo altipiano, di poche centinaia di passi d'estensione, limitato da una parte da un abisso, dal cui fondo salivano dei cupi muggiti, prodotti da qualche impetuoso torrente o da qualche cascata. Su quello spiazzo una mandria di grossi ruminanti d'aspetto selvaggio, col pelo lunghissimo e la testa armata di lunghe corna, stava sdraiata, mentre due dei più grossi si assalivano furiosamente, cozzandosi le solide fronti e staccandosi grossi ciuffi di pelo. Quei due campioni avevano quasi la statura dei bufali e dovevano anche possederne la forza. Colla testa bassa, gli occhi iniettati di sangue, le code in aria, i fianchi palpitanti e le bocche coperte di schiuma sanguigna si guatavano un momento, poi si scagliavano l'un contro l'altro coll'impeto di due arieti o meglio di due catapulte, cercando di sfondarsi il petto a colpi di corna. Sì l'uno che l'altro perdevano sangue in abbondanza da numerose ferite, eppure continuavano a caricarsi con maggior lena, decisi a uccidersi. I loro compagni intanto ruminavano pacificamente, senza inquietarsi di quel duello che doveva finire colla morte di uno o dell'altro degli avversari, se non di tutti e due. - Fate fuoco sulle femmine - sussurrò il capitano agli orecchi di Fedoro e di Rokoff. - I maschi hanno la carne troppo coriacea. - Io ho scelto la mia - disse il cosacco. - Ed io pure - aggiunse il russo. - Fuoco! I tre colpi di carabina non ne formarono che uno solo. Una femmina, colpita forse al cuore, cadde fulminata, le altre invece s'alzarono rapidamente, fuggendo al galoppo. I due maschi, udendo quelle detonazioni che l'eco delle rupi centuplicava, si erano fermati guardandosi intorno. Vedendo il fumo alzarsi dietro le rupi, dimenticando per un momento i loro rancori, si precipitarono verso quella parte, a testa bassa, mostrando le loro minacciose corna. - Fuggite! - ebbe appena il tempo di gridare il capitano, aggrappandosi a una radice che pendeva da un crepaccio. Rokoff con un salto balzò su una rupe che gli stava presso, scalandola precipitosamente, ma Fedoro non poté mettersi in salvo. Mancandogli il tempo di caricare e vedendosi piombare addosso i due formidabili animali, si gettò da un lato onde evitare le loro corna, poi si slanciò a corsa disperata verso il piccolo altipiano, senza pensare che duecento passi più innanzi v'era l'abisso. - No, da quella parte! - gridò il capitano, che si era accorto del pericolo. - Salvatevi su qualche roccia! Mentre un jack si fermava sotto la rupe scalata dal cosacco, sforzandosi di salirla, l'altro si era slanciato sulle tracce del russo muggendo e facendo volare i sassi sotto gli zoccoli. Il maledetto animale, quasi si fosse avveduto che dalla parte del precipizio Fedoro non poteva sfuggire, con un fulmineo giro lo aveva costretto a ripiegare verso l'abisso. Il disgraziato cacciatore si era pure accorto che la morte lo minacciava dinanzi e di dietro. Cercò di tornare sui propri passi per raggiungere la gola, ma era troppo tardi. Lo jack, sempre più inferocito, lo incalzava da presso. - Fedoro - gridò Rokoff, il quale caricava frettolosamente la carabina. - Gettati al suolo! Il capitano, che non era riuscito a raggiungere la cima della roccia, si trovava nell'assoluta impossibilità di tentare d'accorrere in aiuto di Fedoro. Costretto a tenersi aggrappato alla radice, si trovava lui stesso in grave pericolo, perché sotto di lui il secondo jack balzava come un indemoniato, sfiorandogli le suole degli stivali colle corna. Fedoro, smarrito, si era arrestato sull'orlo della spaccatura. Era un abisso di venti metri e largo più di cento colle pareti tagliate a picco e con in fondo un torrentaccio che scrosciava cupamente fra le rocce. - Sono perduto! - mormorò. Lo jack caricava allora a testa bassa, pronto a precipitarlo nel baratro. Già non restavano che pochi metri, quando si udì la detonazione della carabina di Rokoff. L'animale, colpito in qualche organo vitale s'impennò, rizzandosi sulle zampe posteriori, girò due volte su se stesso, poi stramazzò su un fianco. - Fuggi, Fedoro! - gridò Rokoff. Non vi era bisogno che lo incitasse. Il russo, sfuggito miracolosamente a quel terribile salto che doveva ridurlo in una poltiglia sanguinosa, si era già messo a correre verso la gola, ricaricando la carabina. - Salviamo ora loro - si era detto. Il secondo jack, accortosi della presenza di quel nuovo avversario, si era lasciato scivolare dalla rupe, ma doveva far i conti con due fucili. Anche Rokoff non aveva perduto il suo tempo dopo quel colpo fortunato. Si era appena slanciato, quando i due amici fecero fuoco a pochi secondi l'uno dall'altro. Lo jack nondimeno continuò la sua corsa indemoniata, ma non già contro Fedoro. Correva lungo il precipizio, dirigendosi verso una gola che s'apriva all'estremità del piccolo altipiano e per la quale era fuggita la mandria. - Badate! - gridò il capitano, che aveva potuto finalmente abbandonare la radice. - Odo i muggiti degli altri jacks! Presto, cerchiamo un rifugio! - Qui! Qui! - disse Rokoff. Fedoro e il capitano stavano per slanciarsi verso la rupe, quando videro ritornare a corsa sfrenata l'animale che aveva ricevuto poco prima i due colpi di carabina. Non era però solo. Guidava la mandria, alla quale si erano uniti parecchi maschi che fino allora dovevano essersi tenuti nascosti dietro le rocce e che erano occupati a combattersi. Quei venti o trenta animali passarono come un uragano attraverso la gola e scesero il burrone col fragore d'una valanga. - Per tutti gli storioni del Volga! - esclamò Rokoff, che era riuscito ad issare il capitano e Fedoro sulla rupe. - Se ci sorprendevano sul loro passaggio, ci riducevano in briciole! Che siano discesi fino nel deserto? - E lo "Sparviero"? - chiese Fedoro, impallidendo. - Ho detto al macchinista di mantenere la macchina in funzione - rispose il capitano. - E poi non credo che gli jacks lascino queste rupi. - Che li ritroviamo? - chiese Fedoro. - Non mi sorprenderei; anzi, se troviamo un altro passaggio, seguiamolo. Non vorrei imbattermi ancora con quella mandria. - E l'animale che abbiamo ucciso? - Sceglieremo i pezzi migliori. - Signor Rokof, avete le braccia che non tremano, voi. Ecco qui una ferita che i migliori cacciatori del Far-West americano vi invidierebbero certamente. - Toccato al cuore? - Sì, signor Rokoff. - Si trattava di salvare Fedoro da una morte certa. - E che morte! - esclamò il russo, gettando uno sguardo atterrito verso l'abisso. - Che salto! Più di venti metri con un torrente nel fondo! Rabbrividisco ancora pensando al pericolo corso. - Dovete la vostra vita a quella palla fortunata - disse il capitano. - Eppure io non avrei esitato a tentare il salto - disse Rokoff, che guardava il torrente. - L'acqua deve essere profondissima e me la sarei cavata con un semplice bagno. - Voi cosacchi trovate tutto possibile - rispose Fedoro, ridendo. - So che per una scommessa qualunque non esitate a saltare da un bastione coi vostri cavalli e senza fiaccarvi il collo. - Facciamo anche di peggio - disse Rokoff. - Aiutatemi - disse il capitano. Aveva estratto il bowie-knife e aveva cominciato a sventrare l'jack con un'abilità da far stupire i suoi compagni. - Voi avete ammazzato ancora di questi animali? - chiese Rokoff. - No, ma invece dei bisonti. - Maneggiate il coltello meglio d'un cow-boy - disse Fedoro. - Ho imparato da loro - rispose il capitano. - Ah! Siete stato nel Far-West? Il capitano, invece di rispondere, aprì la gola all'animale e con un colpo maestro strappò la lingua, dicendo: - Ecco un boccone da re. La depose sul muschio che cresceva lì presso e cominciò a disarticolare il corpaccio dell'jack spaccando ad una ad una le costole alle loro congiunzioni colla spina dorsale, mentre Rokoff e Fedoro s'impadronivano del fegato e del cuore. Avevano già separato interamente l'animale, quando verso la gola udirono un fragore assordante. - Prendete le carabine! - gridò il capitano ringuainando prontamente il bowie- knife. - Gli jaks tornano. - Ancora! - esclamò Rokoff. - Se ci sorprendono qui siamo spacciati. - Guadagniamo le rocce - disse Fedoro. Stavano per slanciarsi attraverso il piccolo altipiano per cercare un rifugio, quando videro la mandria sbucare a corsa sfrenata. I vendicativi animali, dopo aver percorso tutto il burrone, erano risaliti senza che i cacciatori se ne fossero accorti ed ora stavano per caricarli su quello spazio ristretto che pareva non avesse alcuna uscita. Il capitano e i suoi due compagni, atterriti da quell'improvviso ritorno, si erano raggruppati nuovamente verso l'abisso, essendo loro mancato il tempo di salvarsi sulle rupi. - Siamo perduti! - aveva esclamato il capitano. Gli jacks, vedendoli, si erano fermati colle teste basse, mostrando le loro lunghe corna. Pareva che esitassero ad attaccare, forse tenuti in rispetto dalle tre carabine che li minacciavano. - Non fate fuoco - disse il capitano, precipitosamente. - Cerchiamo di non irritarli. - E se ci assalgono, dove ci salveremo noi? - chiese Fedoro, rabbrividendo. - Chi resisterà a simile carica? - Verremo scagliati nell'abisso - disse Rokoff. - Cercate di saltare nel torrente, se vi sarete costretti, o vi sfracellerete sulle rocce. Gli jacks non accennavano a muoversi, come se si divertissero delle angosce terribili dei disgraziati cacciatori. Solamente i maschi erano passati dinanzi, disponendosi su una linea, come per proteggere le femmine. Il capitano e i suoi compagni, pallidissimi, tenevano sempre le carabine puntate, quantunque non avessero molta speranza di fugare la mandria con tre sole palle. Quella situazione tremenda durò due o tre minuti, che ai cacciatori parvero lunghi come ore, poi gli jacks, con un movimento fulmineo, si disposero su un mezzo cerchio, caricando alla disperata. - Fuoco! - gridò il capitano. Scaricarono precipitosamente le carabine. Un animale cadde, ma gli altri, maggiormente inferociti, non interruppero la corsa. - Saltate! - gridò Rokoff. Con un coraggio che doveva rasentare la follia, pel primo diede l'esempio. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere nel vuoto, roteando due o tre volte su se stesso. Gli parve di sentirsi mancare il respiro, come una specie d'asfissia fulminante, poi provò un'atroce sensazione di freddo e udì un rombo assordante che gli parve gli spezzasse il cranio. Era caduto in mezzo al torrente, inabissandosi in un'acqua così gelata che credette, di primo colpo, di morire assiderato. Per sua buona sorte e come d'altronde aveva previsto, l'acqua era assai profonda, sicché, invece di sfracellarsi sulle rocce che dovevano coprire il letto, poté risalire a galla stordito sì, ma incolume. Aveva appena aperto gli occhi che vide Fedoro e il capitano precipitare a dieci metri più sopra assieme a un enorme jack che non era stato capace di fermarsi a tempo sull'orlo dell'abisso. Tutti e tre s'immersero, sollevando giganteschi sprazzi. - Capitano! Fedoro! - gridò, mettendosi a nuotare vigorosamente per non venire trascinato via dalla corrente che era impetuosissima. Prima a comparire fu la testa del capitano, poi anche Fedoro emerse agitando disperatamente le braccia. - Che non sappia nuotare? - si chiese il cosacco. Fendette la corrente e lo raggiunse nel momento in cui stava per scomparire di nuovo. - Coraggio, amico! - gli gridò. Sorreggendolo per un braccio, si spinse verso la riva, sulla quale stava arrampicandosi il capitano. - Aiutatemi, signore! - gridò. - A voi! - rispose il comandante. Si era slacciata la lunga sciarpa di lana rossa che gli cingeva i fianchi e gliela aveva lanciata, tenendola per l'altro capo. Rokoff la prese al volo e si lasciò portare verso le rocce, sempre sorreggendo l'amico. - Ferito? - chiese il capitano, vedendo Fedoro pallidissimo. - No ... No ... è il freddo e anche l'emozione - rispose il russo - e poi non so nuotare ... grazie Rokoff. Senza di te l'acqua mi avrebbe trascinato via. Che salto! Tremo come se avessi la febbre. - E quel maledetto jack? - chiese Rokoff. - Credevo che vi piombasse addosso e vi schiacciasse. - Si è messo in salvo sull'altra riva - rispose il capitano. - Mi pare però che si sia spezzate le gambe o fracassate le costole. L'animale pareva infatti che non se la fosse cavata molto liscia in quel terribile capitombolo. Era riuscito a salire la riva, poi si era lasciato cadere al suolo muggendo lamentosamente e perdendo sangue dalla bocca. - Muori dannato! - gridò Rokoff. - Ed ora, che cosa facciamo? - chiese Fedoro. - Mi sembra di avere al posto del cuore un blocco di ghiaccio. Come era gelata quell'acqua! - Cerchiamo un'uscita e torniamo allo "Sparviero" - disse il capitano. - Ne ho anch'io abbastanza di questa caccia. - Uscire! - esclamò Rokoff. - Lo potremo noi? Guardate, signore, e ditemi come potremo fare a tornare lassù.

. - È già stanco delle innumerevoli scelleratezze che compiono quei miserabili e abbiamo anzi già ricevuto l'ordine di farli divorare, dove li incontreremo, dal nostro terribile uccello. - Deve essere terribile quel mostro - disse il Lama, mentre un brivido di terrore lo faceva sussultare. - Divora cento uomini cattivi al giorno e con pochi colpi delle sue ali abbatte dei villaggi interi. Quattro giorni or sono ha distrutto un covo di banditi, bruciandolo completamente. - Ha il fuoco nel ventre? - chiese il Lama stupito. - Vomita fiamme che nessuno può spegnere. - Quanta potenza vi ha dato Buddha! Dove risiede ora il nostro Dio? - Sta pregando sulla vetta del Tant-la. - E quando tornerà a mostrarsi ai suoi fedeli? - Deve compiere ancora molte incarnazioni, prima di tornare uomo - rispose Fedoro sempre imperturbabile. - Forse fra mille anni si degnerà di mostrarsi sulle acque del Tengri-Nor, montando un uccello simile al nostro, ma cento volte più grande. Tremino allora i cattivi, gli empi. Tutti verranno distrutti dal fuoco del suo mostro e dannati per tutta l'eternità a cucinare nel lago di Boracee sotto forma di scorpioni. - Basta, Fedoro - disse Rokoff, il quale non comprendeva nulla. - Domanda se ha una cena da offrirci e del fuoco per asciugarci. Questo monastero è freddo come una ghiacciaia. - Stiamo discutendo su Buddha. - Me ne infischio io del loro Dio color della terracotta. - Un po' di pazienza. Il Lama li lasciò parlare, poi riprese: - Non parla il cinese, il vostro compagno? - No - rispose Fedoro. - Egli non conosce che la lingua che si parla sulle montagne della luna, dove si trovano i Lama della Mongolia, che si sono guadagnati il nirvana. - Desidera qualche cosa? - Si lagna d'aver fame e freddo e di essere ancora bagnato. - Potevate dirlo prima. Tutto ciò che si trova nel mio monastero è a disposizione dei figli prediletti del grande Buddha. S'accostò a un piccolo tam-tam e fece vibrare due volte il disco metallico. Il monaco che aveva la collana entrò, inchinandosi fino a terra. Il Lama scambiò con lui alcune parole, poi si volse verso i due europei, dicendo: - Seguitelo e avrete cena, fuoco e da dormire. Io intanto approfitterò del vostro riposo per avvertire del vostro arrivo il Bogdo Lama del monastero di Dorkia. - Pare che non sia questo quello di Dorkia - pensò Fedoro. - Purché non ci invitino a recarci colà! Mi spiacerebbe che il capitano non ci trovasse più qui. S'inchinarono dinanzi alla statua di Buddha e seguirono il monaco che aveva staccato dalla volta una lanterna. Al di fuori li attendevano gli altri cinque monaci, pure muniti di lampade. Rifecero parte del corridoio, poi salirono una scala a chiocciola che doveva condurre ai piani superiori ed entrarono in un'altra stanza, più vasta di quella di prima, egualmente tappezzata e illuminata e fornita d'un caminetto dove ardeva un allegro fuoco. Nel mezzo vi era una tavola, molto bassa, e all'intorno dei comodi divani. I sei monaci, con cenni, invitarono i due europei a sedersi, poi uscirono per rientrare poco dopo portando dei vasi e dei tondi d'argento, finemente cesellati, e dei bricchi col collo assai lungo e molto artistici. - Che ci sia da mangiare, lì dentro? - chiese Rokoff. - Certo - rispose Fedoro. - Se questi monaci ci lasciassero ora soli! Non mi piace che vedano come mangiano i figli della luna o del cielo. - Li pregherò di andarsene, quantunque non capiscano una parola di cinese. - Mandali via con una spinta; capiranno meglio. - Oh! Rokoff! Dei figli di Buddha che maltrattano i loro adoratori! ... I monaci continuavano a portare vasi, tondi, recipienti, chicchere, bricchi, coprendo tutta la tavola. Fedoro li lasciò fare, poi con una mimica molto espressiva, indicò loro la porta. Fu subito compreso perché i monaci, dopo un altro e più profondo inchino, se ne andarono non senza manifestare però un certo stupore che non sfuggì al russo. - Probabilmente avevano ricevuto l'ordine di servirci - disse a Rokoff, il quale, per non venire più disturbato, aveva spinto un divano contro la porta. - Ne faremo senza - rispose il cosacco. - Quelle facce smorte m'avrebbero fatto perdere l'appetito. Sai che son ben brutti questi tibetani, specialmente quando caccian fuori le loro lingue d'appiccati? Ora che siamo soli, asciughiamoci un po'. Credo di avere dei pezzi di ghiaccio dentro la camicia. Stava per spogliarsi, quando Fedoro gli mostrò parecchie tonache di feltro pesantissimo, che parevano affatto nuove e che si scaldavano presso il caminetto. - Devono averle portate per noi - disse. - Getta via le tue vesti e indossa queste. Ti troverai meglio. - E tu? - Io faccio altrettanto. To'! Vi sono anche delle camicie di seta e delle calze. Questi bravi monaci hanno pensato a tutto. Vedo anche delle scarpe somiglianti a quelle dei cinesi. - Allora lascia i tuoi stivali, che spandono acqua da tutte le parti. - È il ghiaccio che si fonde. Ma ... per le steppe del Don! Che figura faremo noi vestiti da monaci! - Superba, Rokoff - disse Fedoro, ridendo. - Tu poi, colla tua statura e colla tua lunga barba rossa, diverrai maestoso. D'altronde, dei figli di Buddha vestiti all'europea non devono ispirare fiducia agli abitanti di questa regione. - Ah! Siamo figli di Buddha! - Non so ancora quale posizione veramente noi occupiamo, ma altissima di certo, al rispetto che ci dimostrano questi monaci. - Diventiamo allora buddisti - disse Rokoff. - Dopo tutto, una religione vale l'altra. Si riscaldò alla fiamma del caminetto, indossò una superba camicia di grossa seta cruda, infilò le calze e le scarpe e si cacciò dentro a una tonaca ben calda, mandando un lungo sospiro di soddisfazione. - Come ti sembro? - chiese a Fedoro, che faceva altrettanto. - Tu farai morire d'invidia tutti i Lama dei monasteri - disse il russo. - Che aspetto imponente! Sei un magnifico superiore, parola d'onore. - To'! un'idea! - Parla, Rokoff. - Se chiedessi un monastero? A un figlio, o segretario, o messo di Buddha non si dovrebbe negarlo. - Penseremo a questo dopo la cena. - Mille fulmini! Mi dimenticavo che ho il ventre vuoto. Speriamo di trovare in questi recipienti qualche pezzo di jack o un prosciutto d'orso. Ho udito narrare che i monaci mangiano bene. - Uhm! della carne! Non ne troverai, mio povero amico. - Eh! Forse che i Tibetani vivono d'erbe cotte? Rinuncio fin d'ora a diventare il superiore d'un convento. - Come vuoi che un buddista osi mangiare un animale? Mangeresti tu l'anima di tuo padre, o di tuo fratello, o di qualche caro amico? Qui la metempsicosi vive sovrana. - Non ti capisco, Fedoro - disse Rokoff. - Ignori dunque che i buddisti credono che l'anima d'un defunto s'incarni subito nel corpo d'un animale? Se ammazzi un bue, un cavallo, un orso, un cane, un gatto, magari un verme qualunque, potresti uccidere tuo padre incarnato in uno qualunque di quegli animali o insetti. - Sicché qui le bestie si lasciano vivere. - Finché muoiono di vecchiaia o per qualche accidente inatteso. Solo, allora, e non tutti i buddisti, osano ancora cibarsi di quelle carni. - Al diavolo i buddisti e le loro stupide superstizioni. Buon Dio, che cosa mangeremo noi? - Vediamo, Rokoff; sento sfuggire dei profumi che non mi sembrano sgradevoli. - Procediamo a una visita e facciamo la scelta. Alzarono i coperchi cacciando il naso dentro a quindici o venti recipienti d'argento e il cosacco dovette convincersi che non v'era nemmeno l'ombra d'una costoletta o tanto meno del sospirato pezzo d'arrosto. Vi erano invece delle salse di tutti i colori, dell'orzo bollito nel latte, dei pasticci pure d'orzo, delle erbe di varie specie, condite con certe poltiglie nere. In un grande piatto d'argento scoprirono però un magnifico pesce che nuotava in una certa materia trasparente e gommosa. - Che questo abitante delle acque non contenesse l'anima di nessun buddista? - chiese Rokoff. - Hanno fatto forse un'eccezione a noi - rispose Fedoro. - E noi mostreremo che i figli di Buddha non sdegnano i pesci. Che cosa sarà poi questa salsa? - Sarà impossibile saperlo. Assaggia, amico Rokoff. - Non è cattiva, almeno alla mia bocca. - Allora divoriamo, finché si scalda l'acqua del tè. Il pesce scompare ben presto, quantunque dovesse pesare almeno quattro chilogrammi, poi a poco a poco sparirono anche le focacce e l'orzo al latte e finalmente anche le salse. Otto o dieci chicchere di tè squisito, finirono quella cena che era meno cattiva di quanto dapprima i due europei avevano creduto. - Peccato non aver con me la mia pipa e la mia borsa di tabacco - disse Rokoff - Non si fa uso qui di tabacco - rispose Fedoro. - Avrebbero dovuto portarci almeno qualche bottiglia di vino. - Non si conosce qui il vino; fanno però molto uso d'acquavite d'orzo che bevono tiepida e non so davvero perché non ce l'abbiano portata. Bah! Quando verrà il capitano vuoteremo una bottiglia di più. - Chissà quando tornerà, Fedoro. Il vento deve averlo trascinato molto lontano; non poteva più resistere. - E che le ali non siano state spezzate, mio caro Rokoff. - Sarebbe stato meglio. In tal caso non sarebbe caduto molto lontano. Mi rincrescerebbe però assai che fosse toccata qualche disgrazia a quel valoroso aeronauta. - Io non ho alcun dubbio che abbia potuto raggiungere le spiagge settentrionali e prendere felicemente terra - rispose Fedoro. - Con una simile macchina e così perfetta, si può sfidare impunemente qualsiasi uragano. No, io sono completamente tranquillo e sono certo che appena cessato questo ventaccio furioso, lo vedremo ritornare a riprenderci. - Avrà osservato dove siamo caduti? - Come noi abbiamo veduto, il monastero non gli è sfuggito agli sguardi. Rokoff facciamo un buon sonno e aspettiamo domani. Questo tepore invita a chiudere gli occhi. - Seguo il tuo consiglio - rispose il cosacco. Si sdraiarono sui divani coprendosi con dei pesanti feltri e chiusero gli occhi, mentre gli ultimi tizzoni scoppiettavano nel caminetto. Il loro sonno fu cortissimo. Un colpo di tam-tam che fece rintronare la sala, li fece balzare in piedi. - Che sia già l'alba? - si chiese Rokoff, fregandosi gli occhi. - No, la fiamma non si è ancora spenta - disse Fedoro. - Che cosa vogliono da noi? Ci hanno chiamato, è vero? - Ci invitano ad aprire. - Che sia giunto il capitano? - Uhm! Non odi il vento ruggire al di fuori! - Allora li mando a quel paese. - No, non guastiamoci con questi monaci, Rokoff; non è prudente. Il cosacco allontanò il divano e aprì la porta. I sei monaci, ancora gli stessi che li avevano trovati sulla spiaggia, entrarono prosternandosi dinanzi ai due europei, poi fecero segno a loro di seguirli - Cominciano a diventare noiosi coi loro inchini - disse Rokoff. - Sarebbe stato meglio se ci avessero lasciato dormire fino a domani. Che cosa vogliono? - Non ne so più di te - rispose Fedoro. - Se ci pregano di seguirli, ci sarà qualche cosa di nuovo che ci riguarda. - Che ci conducano ancora da quella mummia vivente? - Lo vedremo, Rokoff. Seguirono i monaci che li attendevano nel corridoio e furono condotti nella sala dove vi era la statua di Buddha. Il vecchio Lama li aspettava pregando dinanzi al Dio. - Ci mancherebbe altro che ci facesse inginocchiare dinanzi a questo pezzo di terracotta - disse Rokoff, che era diventato di pessimo umore. - Che questi monaci invece di dormire passino le notti pregando? Il Lama, vedendoli entrare, si era alzato, poi, dopo un inchino, disse a Fedoro: - Preparatevi a partire. - A partire! - esclamò il russo, sorpreso. - E per dove? - Pel monastero di Dorkia. - A che cosa fare? - Il Bogdo-Lama di quel convento desidera vedervi. Fedoro aggrottò la fronte, fingendosi indignato. - Noi non siamo i servi del Lama di Dorkia - disse con voce acre. - Perché non viene lui qui? - Io non posso altro che obbedire - rispose il monaco. - È mio superiore, comanda a tutta la regione e se io volessi rifiutarmi, sarebbe capace di mandare qui i suoi guerrieri e farci tutti prigionieri. - Noi dobbiamo aspettare qui il nostro terribile uccello e anche i nostri compagni. - Se tornano, dirò loro che siete nel monastero di Dorkia - rispose il Lama. - Ce lo promettete? - Ve ne dò la mia parola. - Come andremo noi a quel convento? - Il Bogdo-Lama ha mandato dei cavalli e una numerosa scorta. - Chi l'ha avvertito che noi siamo scesi qui? - Su tutte le spiagge del lago si è sparsa la voce che dei figli del cielo percorrevano la regione montati su un'aquila di grandezza prodigiosa ed è giunta anche agli orecchi del Bogdo-Lama di Dorkia, il quale ha mandato messaggeri e scorte in tutti i conventi per condurre a lui i santi uomini, nel caso si fossero degnati di scendere sul Tengri-Nor. Non indugiate, la scorta vi attende. Fedoro tradusse a Rokoff l'esito di quel colloquio, non senza celargli le sue apprensioni. - Se ci rifiutassimo? - chiese il cosacco. - Il Lama di Dorkia, a quanto ho capito, è potentissimo e potrebbe ricorrere alla forza. Potremmo noi resistere a tutti i suoi guerrieri, che ascendono forse a delle migliaia? - Sicché non ci rimane che obbedire. - Purtroppo Rokoff. - Ah! Diavolo! Mi pare che quest'avventura s'imbrogli; non vedo chiaro in questa faccenda. Se al Lama di Dorkia saltasse il ticchio di tenerci prigionieri? - O fare di noi dei Buddha viventi? - disse Fedoro. - Prenderemo a pugni il Lama e i suoi monaci. - Dunque? - chiese il vecchio, con una certa ansietà. - Siamo pronti a seguire la scorta - rispose il russo. Avremmo però desiderato fermarci presso di voi alcuni giorni. - E io sarei stato orgoglioso di ospitarvi nel mio monastero - rispose il monaco, con un sospiro. - Avrei attirato, durante la buona stagione, migliaia e migliaia di pellegrini, colla vostra presenza. Accompagnò i due europei fino sulla porta del convento, sulla cui gradinata stavano schierati numerosi monaci, portando delle lanterne, poi baciò i lembi delle loro tonache, dicendo: - Spero di rivedervi presto: che il grande Buddha, vostro padre, vegli su di voi. - Vi promettiamo di tornare - rispose Fedoro. - Non dimenticatevi però di avvertire i nostri fratelli, se giungeranno, che siamo stati condotti a Dorkia. - Saranno miei ospiti. La scorta mandata dal possente Lama del celebre monastero si componeva di cinquanta uomini d'aspetto brigantesco, con ampie vesti di grosso feltro, armati di lunghi moschettoni a miccia e di larghe scimitarre e montati su piccoli cavalli colle groppe villose e le gambe secche come quelle dei cervi o degli stambecchi, animali senza dubbio impareggiabili, che non dovevano temere né gli aspri sentieri di quelle orribili montagne, né i freddi intensi degli altipiani. Due cavalli più robusti, col mantello bianco, con una lunga gualdrappa rossa che ricadeva fino a metà delle gambe e le criniere adorne di nastri, attendevano i due figli di Buddha. Il comandante della scorta, un montanaro d'aspetto imponente, con un barbone che gli saliva fino quasi agli occhi e che indossava il pittoresco costume dei Butani, si avanzò verso Fedoro e Rokoff, e dopo essersi inginocchiato tre volte dinanzi a loro, disse in cinese: - Ricevete fin d'ora i saluti del possente Bogdo-Lama di Dorkia, il quale sarà altamente onorato d'ospitarvi. Poi li condusse verso i cavalli, invitandoli a salire. I cavalieri intanto avevano acceso delle piccole lanterne cinesi appendendole alle canne dei loro moschettoni. - Decisamente noi stiamo per diventare personaggi celesti - disse Rokoff, accomodandosi sulla larga, ma anche molto dura sella del cavallo. La scorta si era messa in moto: dieci cavalcavano dinanzi ai due europei; gli altri dietro su due file. La notte era orribile, essendo l'uragano tutt'altro che cessato. Un vento impetuosissimo e così freddo da far tremare persino i cavalli, nonostante il loro villoso mantello, soffiava dalle montagne circostanti, cacciandosi entro le gole con ruggiti tremendi e in lontananza si udivano i boati delle valanghe, rotolanti dai ghiacciai. Il lago, che lambiva il sentiero percorso dalla scorta, presentava uno spettacolo terribile. Montagne d'acqua si rovesciavano contro le spiagge con fracasso spaventevole, rimbalzando e ricadendo, formando gorghi e colonne liquide e lanciando cortine di spuma fino addosso ai cavalieri. Sopra, l'immensa nuvola nera, in balìa dei venti che si incontravano in tutte le direzioni, roteava vertiginosamente, ora abbassandosi quasi fino a sfiorare le creste dei marosi e ora squarciandosi. I lampi però erano cessati. Solamente il tuono, di quando in quando, faceva udire la sua possente voce. - Bella notte, per farci fare un viaggio - disse Rokoff, che rialzava a ogni istante il bavero della sua tonaca. - Mi pare che questo vento mi strappi, pezzo a pezzo, tutta la carne del mio volto. - Non mi stupirei se ciò ti toccasse - rispose Fedoro. - Certe volte i venti acquistano una tale violenza, in queste regioni, e sono così secchi, da strappare perfino la carne delle braccia. Il capitano Gill, del corpo degli ingegneri reali inglesi, che ha visitato queste regioni, ha provato quei terribili morsi del vento tibetano. - Il Bogdo-Lama poteva ben attendere domani, invece di esporci di notte, a questo viaggio. Aveva paura che scappassimo? - Io sospetto invece qualche cosa d'altro. - Ossia? - Che temesse che il Lama che ci ha ospitati ci nascondesse, facendo poi spargere la voce che noi eravamo tornati in cielo. - Che questi signori monaci abbiano l'intenzione di tenerci prigionieri? - Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai stati veduti volare sul dorso d'un uccello. - E noi ci lasceremo sequestrare tranquillamente? - Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna. - Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia - disse Rokoff. - Un figlio di Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano. - Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri? - Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto. - E se fosse morto? Fedoro non osò rispondere. Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente. La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor. I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un'abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta. Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri. Che magnifici cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini. Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall'altro, durò tre lunghe ore. Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente. I cavalli s'arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l'altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone. Giunti dall'altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s'innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor. - Dorkia - disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. - Il Bogdo- Lama vi attende.

- Eppure non abbiamo sognato. Il tuo padrone aveva paura di venire assassinato e ci aveva pregati di tenergli compagnia. - E vi siete svegliati nella vostra stanza? Oh! - Ci hai ben veduti uscire. - È vero - disse il cinese, il cui stupore non aveva più limiti. Poi, come fosse stato colpito da un improvviso pensiero, chiese: - Voi avete veduto il mio padrone toccare la molla segreta che doveva aprire la porta? - Eravamo assieme a lui - rispose Fedoro. Il viso del maggiordomo si fece oscuro ed i suoi occhi si fissarono sul russo. - Ah - disse poi. - Che cos'hai? - chiese Fedoro con inquietuline. - Dico che se conoscevate il segreto della molla, potevate anche uscire e tornare nella vostra stanza. - Tu oseresti sospettare di noi? - Non è a me che tocca indagare su questo affare misterioso, - disse il cinese con voce lenta - bensì ai magistrati della giustizia. Ecco la polizia: sbrigatevela come meglio potete.

Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

Come abbiamo veduto, la predica era terminata malamente e Rokoff era dovuto scappare a precipizio, per non farsi lapidare o, peggio ancora, moschettare dai pellegrini. La paura aveva fatto snebbiare il cervello del cosacco, il quale aveva finalmente compreso quale grosso pericolo si era tirato addosso coi suoi asini pascolanti nelle praterie del nirvana di Buddha e i suoi episodi della guerra russo-turca. Suo primo pensiero era stato quello di abbandonare subito il monastero assieme a Fedoro, ma il tempo gli era mancato, perché i monaci avevano invaso l'appartamento dei due falsi figli di Buddha, rendendo impossibile qualsiasi evasione. I due disgraziati, dopo una lotta disperata, erano stati atterrati, legati, e lì per lì condannati a essere divorati vivi dalle aquile e quindi condotti sull'alta montagna, dove avrebbero certamente lasciato la loro pelle, senza il provvidenziale arrivo dello "Sparviero". Il capitano aveva ascoltato quelle comiche avventure, ridendo a crepapelle. Perfino il muto personaggio non aveva saputo frenare più volte un sorriso. - Povero signor Rokoff! - esclamò il comandante. - E tutto in causa di quel sermone. - E un po' del sciam-sciù che avevo tracannato per farmi coraggio. - Chissà quante ne avrete dette sul conto di quel povero Buddha. - Credo di averlo paragonato a un gran diavolo con venti o trenta corna. Se aveste visto che smorfie faceva il vecchio Bogdo-Lama e che occhiate furiose mi lanciava! - Ne sono convinto. È stata una vera fortuna che quei buddisti abbiano pensato a farvi divorare dalle aquile. Potevano cacciarvi in una stanza oscura piena di scorpioni o farvi mangiare dai selvaggi di U. - Allora sarebbe stata proprio finita per noi - disse Fedoro. - Lo credo, perché non avrei potuto certo salvarvi o sarei giunto troppo tardi - rispose il capitano. - Ci avreste almeno vendicati - disse Rokoff. - Avevo già fatto preparare delle bombe ad aria liquida per far saltare il monastero. - Se lo avessi saputo prima, le avrei gettate sui pellegrini - disse Rokoff. - Perché non dirmelo? - Dovete averne schiacciati un bel numero con quella pesante cassa. Sono stati abbastanza puniti. - Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto. - Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all'ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta. - Non andremo a Lhassa? - chiese Fedoro. - No, ho fretta di attraversare la grande catena dell'Himalaya e di calare nell'India. - Attraversando il Nepal? - È probabile - rispose il capitano. - E dove finiremo? - Lo ignoro ancora. Tutto dipende da certe circostanze. - Non andremo a Calcutta? - insistette Fedoro. - Non desidero che mi si veda colà. Il capitano, che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo: - Guardate il Nigkorta: è stupendo. L'enorme montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l'est, capofila dell'immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin- thang-la. Al pari delle altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in gran copia da quel colosso. Lo "Sparviero", costretto a mantenersi a un'altezza di tremila metri, faticava non poco, in causa delle furiose correnti aeree che s'incrociavano in mille guise e che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue trentacinque o quaranta miglia all'ora. Alla sera passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla cima d'una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava deserto. L'indomani, ai primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il Tibet, dava il segnale della partenza. Cominciavano allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per riprendere più tardi il suo impero al di là del Brahmaputra, colla gigantesca catena dell'Himalaya. Alle due del pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che scorreva dall'ovest all'est con larghi serpeggiamenti. Era il Brahmaputra, uno dei più celebri fiumi dell'Asia, perché le sue acque, al pari di quelle del Gange, vengono ritenute sacre. Questo gigante fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali dell'Himalaya. Si apre un varco attraverso l'infinito numero di montagne che ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell'India per la valle dell'Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemilacinquecentosettanta chilometri di percorso. È più lungo del Gange e ha una massa d'acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per gl'indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama. Nel momento in cui lo "Sparviero" lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume, carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua, urlando come se fossero diventati pazzi. - Noi spargiamo il terrore dappertutto - disse Rokoff. - Vedremo se anche gl'indiani fuggiranno. - Se ci vedranno - disse il capitano. - Viaggeremo di notte? - Non amo che gl'inglesi mi scorgano. - Non volete aver rapporti coi popoli civili? - chiese Rokoff, sorpreso. - Per ora no. - Eppure avete attraversato l'America. - E chi mi ha veduto? - chiese il capitano. - Avete mai udito raccontare che una macchina volando sia stata osservata a Nuova York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a San Francisco di California? - No, mai, signore. - Eppure io sono passato su tutte quelle città. - E perché non volete che i popoli civili ammirino il vostro "Sparviero"? - Per ora è un segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando. Lo "Sparviero" correva in quel momento sopra le montagne del Giangtse, le quali s'alzavano in forma d'immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremilanovecento metri. La gigantesca catena dell'Himalaya non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le vette di quei colossi che separano il Tibet dall'India. Il passo era ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire faticosamente le strette vallate dei monti. Verso sera lo "Sparviero" si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell'Himalaya e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d'inverno e a riaccendere la stufa. - Sarà domani che passeremo la grande catena? - chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina. - A mezzodì passeremo presso il Dorkia - rispose il comandante. - E non andremo a vedere l'Everest? - Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile. - Sicché non andremo verso l'ovest? - No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani. Erano appena le quattro del mattino, quando lo "Sparviero" riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s'innalzavano rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli. La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l'orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l'imponente massa dell'Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri, chiudevano tutto l'orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All'ovest, a una grande distanza, scintillava l'enorme Gaurinkar, o meglio l'Everest, il monte santo degl'indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando un'altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri. La catena dell'Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante l'estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all'est dal Brahmaputra e all'ovest dall'India, i due più grandi fiumi della penisola indostana. Ancora cent'anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne. Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione. Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l'ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l'Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente. Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un'altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell'America meridionale. Tutti gl'indiani hanno una grande venerazione per la catena dell'Himalaya, che per loro è d'origine santa e da migliaia e migliaia d'anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi. - Che cosa ne dite di queste montagne? - chiese il capitano, mentre lo "Sparviero", che aveva raggiunto un'altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che s'apriva da un fianco orientale del Dorkia. - Mettono spavento - disse Rokoff. - Un panorama meraviglioso, unico al mondo - rispose Fedoro. - Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra. - Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell'Europa - disse il capitano. - Questi colossi vincono tutti. - E animali se ne trovano qui? - chiese Rokoff. - Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero. - Spero che non lasceremo l'India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre - disse Rokoff. - Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete - rispose il capitano. - Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo. - Per sempre? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - Chi può saperlo? - rispose il capitano. - Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora ... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un'aquila, su quel dirupo. È Pharò, l'ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo per entrare nell'India: il Butan non è che a due passi. Lo "Sparviero" era uscito da quell'immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d'altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un'altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz'ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan. L'India s'apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue giungle immense e le opulente città.

Il primo che s'intitola, come abbiamo detto, la Perla dei vincitori, è il protettore del Tibet e il custode della religione; il secondo non è che un pontefice in sott'ordine, ma gode la venerazione di tutti per i lumi della sua scienza. Fra questi due ne esiste un altro, il reggente, che esercita i poteri civili e politici, coadiuvato da quattro ministri, personaggio pericolosissimo, perché è quello che s'incarica di far sparire l'uno o l'altro quando gli danno qualche fastidio o che per suoi scopi personali reputa necessario, creare nuovi e più giovani pontefici. Il Dalai-Lama e il Grande Lama rappresentano, pei tibetani, due vere incarnazioni di Buddha. In sostanza non sono che due divinità, due veri Buddha viventi. Pel reggente e pei monaci, non sono invece altro che degli uomini comuni, destinati presto o tardi a scomparire. Nel Tibet, generalmente, hanno vita piuttosto lunga; nella Mongolia e nelle regioni vicine, dove esistono pure dei Buddha viventi, di rado toccano vent'anni. Sembra che un Buddha un po' attempato non piaccia ai governanti forse pel timore che abbia ad abusare della sua posizione e dare dei seri grattacapi. Quando uno muore o per morte naturale o violenta, i monaci si affrettano a cercare uno che possa surrogarlo, impresa un po' difficile, perché il Buddha che ha cessato di vivere non ha l'abitudine, prima di andarsene, di dire in quale fanciullo trapasserà la sua anima. Dopo qualche tempo però, in un modo o nell'altro, il fanciullo-miracolo viene scoperto e portato in trionfo a Lhassa o in qualche celebre monastero della regione, dove riprende senz'altro possesso del posto che occupava prima. A udire i monaci tibetani, nessuno dubita che egli sia veramente quello che era morto, poi risuscitato per virtù divina. Dicono che si manifesti subito per una intelligenza straordinaria, che riconosca di primo acchito gli oggetti e gl'indumenti che già aveva più cari e che conosca le persone che prima erano addette alla sua persona. Che più? Si dice perfino che ricordi perfettamente certi aneddoti della sua vita anteriore! Non vi è alcun dubbio che i monaci, per coprire bene l'inganno, vadano a cercare il fanciullo più svegliato onde possa degnamente rappresentare la sua parte e che poi lo istruiscano meravigliosamente onde possa, all'età di cinque anni, sostenere un esame pubblico per togliere gli ultimi dubbi sulla sua identità, esame che si fa con pompose cerimonie, nel monastero di Terpaling o di Tascilumpo, alla presenza delle più alte autorità, delle truppe di Lhassa, e d'un ambasciatore straordinario dell'Imperatore della Cina. Viene interrogato sopra certe circostanze della sua esistenza passata; deve riconoscere tutti gli oggetti che sono appartenuti al Lama defunto, vale a dire a lui stesso, chiedere i libri, i vestiti, gli oggetti di cui si era servito. Un diplomatico inglese, sir Turner, che ha potuto assistere a uno di questi esami, fu talmente meravigliato della svegliatezza e delle risposte date dal piccolo Buddha, che per poco non credette seriamente d'aver dinanzi il defunto Lama risuscitato fanciullo! L'esistenza che conducono però questi Buddha non è molto allegra. Confinati nei più celebri monasteri, dai quali non possono uscire, trascorrono la loro vita fra le preghiere, le tazze di tè e i bicchierini d'acquavite calda. Un brutto giorno, quando meno se lo aspettano, dietro un comando del reggente di Lhassa o della Mongolia, un favorito entra di nascosto, getta al loro collo un laccio di seta e li mandano a ritrovare il grande Buddha. Niente di male, perché sanno bene che ritorneranno a rioccupare la carica di prima, più giovani però. Nessuno piange, anzi è un pretesto per dare delle grandi feste. Si consultano gl'indovini, si studia la direzione degli arcobaleni, si scrutano le stelle e si fanno preghiere per conoscere il luogo ove si potranno ritrovare i Buddha rinati, poi si organizza una numerosa carovana per andarli a ricercare. Dopo un certo tempo si ritrovano, vengono condotti nel Tibet o nella Mongolia, si fanno nuove feste, si chiamano truppe da tutte le parti, si fanno venire nuovi ambasciatori dalla Cina e i Buddha riprendono, beati loro, il loro posto ... in attesa di fare un nuovo viaggio all'altro mondo! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Rokoff, udendo tutte queste spiegazioni che Fedoro gli aveva dato sui Buddha viventi, aveva perduto gran parte del suo appetito e non aveva più osato assalire i pasticci delicatissimi che i monaci avevano portato in così gran copia, da nutrire venti persone. Aveva però vuotato un vaso intero colmo di acquavite tiepida, per prendere un po' di coraggio.. Il buon cosacco ora sudava anche lui freddo, nonostante quelle soverchie libazioni e il dolce tepore che regnava nella sala. La tragica fine di tutti quei poveri Buddha viventi, gli aveva gelato il sangue. - Che sia proprio vero tutto quello che mi hai raccontato? - aveva finalmente chiesto a Fedoro. - O hai voluto semplicemente guastarmi la digestione appena cominciata? - È verissimo, mio povero Rokoff - aveva risposto il russo. - Tutti questi particolari riguardanti i Dalai-Lama del Tibet e i Kutuska della Mongolia, che sono pure dei Buddha viventi, io li ho appresi da un funzionario cinese che aveva preso parte a un'ambasciata mandata a Lhassa dal suo Imperatore onde assistere a un esame pubblico. - Ma noi non siamo fanciulli, Fedoro! ... - E che importa? Forse che non siamo discesi dal cielo? Forse che gli abitanti di questo lago sacro non ci hanno veduto solcare l'aria sul dorso d'un uccello mostruoso? Queste sono prove troppo evidenti della nostra origine divina. I piccoli Buddha viventi, con tutta la loro potenza e sapienza, non sono mai stati capaci di fare altrettanto. Chi oserebbe ora dubitare che noi siamo figli prediletti del grande Illuminato? - E se tu facessi comprendere a quel barbuto Bogdo-Lama che la potenza di Buddha non c'entra con noi? Che quell'uccello non era altro che una macchina inventata da noi e che siamo capitombolati in questo lago per disgrazia e non per nostra volontà? Mi pare che si leverebbe per sempre dal cervello di quel monaco l'idea di fare di noi, due Buddha viventi. - Non ci crederebbe. - Digli che siamo europei. - Ci smentirebbe; e poi, credi tu che non ne abbia il sospetto? Oh, deve essere un furbo quel sapiente! - E perché non ci scaccia? - Perché credendoci e facendoci credere d'origine divina ha tutto da guadagnare. - Non ti capisco più - disse Rokoff, stupito. - Tutti i capi dei monasteri sono invidiosi l'uno dell'altro. Il caso ci ha fatto cadere nelle mani di quello di Dorkia, che deve essere nemico di quello di Tascilumpo e anche del Bogdo-Lama di Terpaling, i quali sono, o meglio si spacciano per Buddha viventi. Vuoi che questo non approfitti delle circostanze straordinarie e dell'entusiasmo religioso che si è impadronito delle popolazioni del lago santo, per avere anche lui dei Buddha che mangiano e che parlano? Noi siamo persone sacre, superiori alle altre, dei veri figli del cielo e colla nostra presenza faremo accorrere qui tutti i pellegrini che prima si recavano agli altri monasteri. Noi rappresentiamo per questi monaci dei milioni. Lascia che si diffonda la voce che due uomini sono caduti dalle nuvole, che questi uomini sono figli dell'Illuminato e tutti correranno qui ad adorarci e Tascilumpo e Terpaling non avranno più che una mediocre importanza e potranno chiudere le loro porte. Questi monaci non sono stupidi. - E noi ci presteremo a fare i loro interessi? - Per ora sì, mio caro Rokoff. - E diventeremo dei Buddha viventi? - Non possiamo fare diversamente. - E ci lasceremo poi strangolare, sia pure con un laccio di seta? - Non avranno fretta, ammenoché non intervenga il Gran Lama o, peggio ancora, il suo reggente. - Per le steppe del Don! In quale ginepraio ci siamo cacciati? Fedoro, amico mio, andiamocene e senza perdere tempo. - Lo vorrei anch'io, Rokoff, ma non ne trovo il mezzo. Ci sono parecchie centinaia di monaci in questo monastero e dietro di loro la popolazione, e chissà come siamo sorvegliati! E poi, dove sono le armi per difenderci? Non possediamo nemmeno un misero coltellino. Rokoff lasciò andare un pugno così formidabile sulla tavola, da far rovesciare tutti i vasi d'argento che la coprivano. Udendo quel fracasso la porta si era bruscamente aperta e i quattro monaci, che dovevano aver ricevuto l'ordine di sorvegliarli, erano comparsi. - Andate all'inferno! - gridò Rokoff con voce terribile, stendendo la destra. I monaci, comprendendo più l'atto che le parole, s'inchinarono profondamente e uscirono. - Hai veduto se vegliano su di noi? - chiese Fedoro. - Con quattro pugni li atterro tutti - rispose il cosacco. - E poi? - Dimmi un po', Fedoro, su che cosa speri? - Sul capitano. - Ancora? - Non ci lascerà. - Può crederci annegati o fulminati. - Verrà a cercare i nostri cadaveri. - E se fosse morto anche lui? Hai pensato a questo? - Non ne sono convinto. - Ammettiamolo per un momento. Che cosa ci rimarrebbe da fare? - Allora penseremo a fuggire. - E intanto? - Occupiamoci a preparare il sermone. - Preferisco andare a coricarmi; non mi sono mai occupato del buddismo. Che cosa dirai? - Non lo so ancora; ci penserò. - Ispirati con un po' d'acquavite. - Un consiglio da cosacco - disse Fedoro, ridendo. Allora bevi dell'acqua; io vado a dormire; ma prima farò un'esplorazione nel nostro appartamento e se trovo un buco me ne vado subito. Il cosacco vuotò un altro bicchierino e si diresse verso una delle due porte che s'aprivano all'estremità della sala. Si trovò in un corridoio altissimo che riceveva un po' di luce da piccoli buchi rotondi, aperti nella volta e coperti da talco o da qualche altra materia trasparente, troppo alti però per poterli raggiungere e anche troppo stretti per lasciar passare un uomo. - I furfanti! - esclamò. - Hanno preso tutte le loro misure per impedirci l'evasione. Che il diavolo se li porti nell'inferno di Buddha, se ve n'è uno. Attraversato il corridoio si trovò in un'altra sala, tappezzata tutta in seta rossa a fiorami gialli, circondata da bellissimi divani ricamati in oro, con parecchi tavoli laccati di manifattura cinese e con in mezzo un letto massiccio, molto ampio, con incrostature di madreperla e le coperte di seta. - Suppongo che sarà la stanza per dormire - disse Rokoff. - Devono essere ben ricchi questi monaci, per sfoggiare un tale lusso! ... Anche quella sala riceveva la luce da un lucernario di talco. All'intorno invece nessuna finestra, nemmeno un pertugio. - Se si potesse salire lassù - mormorò il cosacco, misurando collo sguardo l'altezza della volta. - Sei metri! Come arrivarci? Perlustriamo ancora: chissà! ... Passò un'altra porta ed entrò in un gabinetto di toeletta, tutto in seta azzurra, con altri tavoli laccati coperti da barattoli, da bottigliette, da piccoli recipienti d'argento, contenenti probabilmente dei profumi e delle pomate. Dei bastoncini odorosi, piantati su dei candelieri d'oro, di fattura squisita e finemente cesellati, bruciavano spandendo all'intorno un profumo penetrante. Anche là nessuna finestra, perché la luce scendeva dall'alto, da un foro circolare. - Siamo prigionieri - disse Rokoff, che era assai di cattivo umore, molto impressionato dalla brutta piega che prendevano le cose. - E poi anche se noi riuscissimo a raggiungere la volta e sfondare un lucernario, come fuggire? Il monastero è altissimo e almeno io non ho alcun desiderio di rompermi il collo e di fracassarmi le gambe. Prima di coricarci andiamo a udire se Fedoro sa trovare un mezzo qualunque per andarcene. Si dice che i meridionali hanno la fantasia feconda. Rifece lentamente la via percorsa, rientrò nel salone e vide il russo sprofondato nella sua sedia a braccioli e che dormiva profondamente. - A quanto pare né l'amico Buddha, né l'acquavite tiepida non l'hanno ispirato - mormorò Rokoff, che non seppe trattenere un sorriso. - Che discorso farà domani? Mi si rizzano i capelli solamente a pensarlo! Giacché dorme, imitiamolo; i monaci aspetteranno. Si recò nella stanza da letto e si avvolse nelle coperte di seta, senza più preoccuparsi né dei Buddha viventi, né del Bogdo-Lama dalla lunga barba. Quel sonno dovette essere ben lungo, perché quando si svegliò una profonda oscurità regnava nella stanza. Il giorno era trascorso e la notte era nuovamente scesa. - Che cosa diranno i monaci? - pensò, sbadigliando come un orso. - Che i loro letti sono molto soffici o che i figli del cielo amano dormire come le marmotte? E Fedoro? Si alzò e tese gli orecchi. Al di fuori si udiva il vento ruggire ancora intorno alle torri e sui tetti arcuati del monastero; nell'interno invece regnava un profondo silenzio. - La burrasca non è ancora cessata - mormorò. - Che duri dei mesi interi in queste regioni? Il peggio è che con questo ventaccio il capitano non potrà ritornare. Scese dal letto, andò a prendere nel gabinetto di toeletta un bastoncino profumato che ardeva ancora e si diresse verso la sala da pranzo. Tutto il vasellame era scomparso e con esso anche Fedoro e la sua poltrona. - Che l'abbiano portato via? - si chiese. Ricordandosi però che vi era un'altra porta all'estremità della sala, s'armò d'una sedia che nelle sue mani diventava un'arma formidabile e la varcò. Vi era un corridoio eguale a quello che conduceva nel suo appartamento, coperto di paraventi. Lo attraversò con precauzione e giunse in una stanza da letto precisa alla sua. Fedoro non era stato rapito. Dormiva beatamente su un soffice e ricchissimo letto avvolto in una coperta di seta azzurra. - Svegliati - disse Rokoff, scuotendolo vigorosamente. - Hai dormito dodici ore, se non venti o ventiquattro. È un po' troppo per un Buddha vivente. Il russo aprì gli occhi, stiracchiandosi. - Ah! sei tu, Rokoff? - chiese. - Grazie. - Di che cosa? - Di avermi portato su questo buon letto. - Io! Ho dormito come un tasso. - Chi mi ha messo a letto? Io non avevo mai veduto prima questa stanza. - Saranno stati i monaci. E il sermone che devi pronunciare domani? - Il sermone! Ah! Sì, mi ricordo ... d'essermi addormentato mentre lo pensavo. - Ti ha per lo meno ispirato il sonno? - Non so, Rokoff, ma ho tante idee pel capo. Sai che ho sognato di vedere Buddha? - Fedoro! ... Che l'Illuminato si sia cacciato davvero nelle nostre anime? L'ho sognato anch'io. - Un bell'indiano di statura gigantesca? - No, il mio era più brutto d'un calmucco - disse Rokoff. - Colla pelle bronzina? - Niente affatto, era verde come un ramarro e aveva le corna. - Quello doveva essere il diavolo dei buddisti - disse Fedoro. - Il diavolo o Buddha per noi fa lo stesso. Io non me ne intendo di queste cose e poi ... Un fracasso assordante, che fece tremare l'intero monastero gl'interruppe la frase. Si udivano tam-tam e gong strepitare, campanelli squillare, trombe lanciare note acute e in lontananza scariche di fucile. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, balzando in piedi. - Che cosa succede! Si assale il monastero? Guardò verso la volta e vide una debole luce diffondersi sul lucernario. - L'alba! - esclamò. - Quanto abbiamo dormito noi? Stava per precipitarsi fuori della stanza, quando udì il gong sospeso alla porta della sala da pranzo squillare rumorosamente. - Sono i monaci che chiedono di entrare - disse Fedoro, gettandosi giù dal letto. - Che sia accaduto qualche grave avvenimento? Se fosse il capitano che arriva col suo "Sparviero"? - disse Rokoff. - Amico, prepariamoci a dar battaglia ai monaci se vorranno impedirci di prendere il volo. - E se fossero invece i pellegrini che vengono ad ascoltarmi? - chiese Fedoro, impallidendo. - Farai a loro la predica. - Non l'ho preparata e poi che cosa dire? Non ho mai studiato la religione buddista. No, non avrò mai il coraggio di pronunciare un simile discorso. - Inventa delle carote. - Per perderci entrambi? - Ah! Quale idea! - esclamò Rokoff. - Getta fuori. - Se parlassi io invece di te. - Se nessuno ti comprende! ... - Gli spiriti celesti devono parlare un linguaggio speciale. Lascia fare a me, Fedoro. Se nessuno riuscirà a capirmi, tanto peggio per loro e meglio per me. Almeno potrò dire tutte le asinità che mi verranno in bocca, senza che nessuno possa offendersi. - E io? - Ti fingerai ammalato. - Non commetteremo una balordaggine? - È l'unico mezzo per levarci d'impiccio - disse Rokoff. - Tuonerò come un cannone e li farò rimanere tutti a bocca aperta. Senza aspettare la risposta di Fedoro, il cosacco, convinto della bontà del suo straordinario progetto, era uscito dalla stanza, correndo verso la sala dove i quattro monaci lo aspettavano picchiando e ripicchiando sul gong. - Che cosa volete? - chiese. I quattro monaci, che non comprendevano una parola di russo, si guardarono l'un l'altro con stupore, poi, con una mimica molto espressiva, gli fecero capire che volevano vedere il suo compagno. - Seguitemi - disse Rokoff - che aveva indovinato il loro desiderio. Quando entrarono nella stanza, trovarono Fedoro cacciato sotto le coperte e che mandava dei sospironi interminabili. - Signore - disse uno dei monaci, inchinandosi fino a toccare il suolo. - Tutti gli abitanti del lago muovono in pellegrinaggio verso il monastero, per ascoltare il vostro sermone. Sono migliaia e migliaia che s'avanzano per vedere i futuri Buddha viventi. - Ahimé! - gemette il russo. - Io sono assai ammalato e dovrò rinunciare all'insuperabile piacere di mostrarmi ai miei futuri adoratori. L'aria fredda delle vostre montagne mi ha abbattuto e mio padre, il grande Buddha, non mi ha inviato ancora la medicina che gli ho fatto chiedere. Onde però non privare i pellegrini del loro giusto desiderio, mio fratello mi surrogherà. - Nessuno però comprende il suo linguaggio, signore - disse il monaco. - Egli parla la lingua usata nel nirvana, ma quantunque non compresa, entrerà nel cuore dei pellegrini. Andate a dirlo al grande Bogdo-Lama. Udendo quelle parole, una profonda costernazione si era dipinta sul volto dei monaci, nondimeno salutarono rispettosamente e uscirono, facendo cenno al cosacco di seguirli. - Bada, Rokoff - disse Fedoro. - Non temere - rispose l'ex-ufficiale. - Farò stupire tutti, anche se non capiranno niente. Cinque minuti dopo Rokoff si trovava in presenza del Bogdo-Lama, a cui i monaci avevano narrato dell'improvvisa malattia che aveva colto Fedoro. Anche il vecchio pareva assai contrariato. Era bensì vero che Rokoff era il fratello di Fedoro, che al pari di lui era sceso dal Cielo, che aveva pure un aspetto più imponente e anche una magnifica barba rossa che doveva destare l'ammirazione generale dei pellegrini e che parlava la vera lingua usata nel paradiso di Buddha che nessuno, disgraziatamente o meglio fortunatamente, poteva comprendere. Vi fosse stato almeno qualcuno, fra i mille monaci che avesse potuto tradurre il discorso! ... Questa idea aveva però colpito il Bogdo-Lama. Possibile che nessun essere terrestre potesse capire quel maestoso figlio del grande Illuminato? Che parlasse proprio una lingua assolutamente ignota? Rokoff, che pareva indovinasse i pensieri che turbavano il cervello della Perla dei sapienti, cominciava adiventare inquieto. Sentiva per istinto che quella testa pelata doveva maturare qualche cosa di pericoloso. E non si era ingannato. Mentre i gong e i tam-tam e i campanellazzi delle torri e dei tetti strepitavano senza posa, e in lontananza echeggiavano sempre più rumorosamente i colpi di fucile dei montanari, con sua viva sorpresa vide la sala riempirsi di monaci. Tutti gli sfilavano dinanzi rivolgendogli qualche parola ed inchinandosi. Ne erano già passati tre o quattrocento quando, con suo vivo stupore, udì uno di costoro salutarlo in lingua russa. - Tu parli la lingua del nirvana! - esclamò, involontariamente. - Non so se questa sia la lingua che si usa nel paradiso dell'Illuminato - aveva risposto il monaco. - Io l'ho appresa da un tartaro e son ben felice di conoscerla, perché mi permette di farmi comprendere da un figlio del cielo. Il Bogdo-Lama, che assisteva alla sfilata a fianco di Rokoff, udendoli parlare, aveva fatto un gesto di gioia. Il cosacco però era rimasto tutt'altro che contento e aveva mandato in cuor suo a casa del diavolo quel monaco che veniva a guastargli i progetti. - Se costui mi capisce, che cosa dirò ora su Buddha? - si era chiesto, con angoscia. - Me lo appiccicheranno ai fianchi perché traduca alle turbe tutte le mie corbellerie. Che s'affoghino Buddha, i pellegrini, il Lama e quell'imbecille di tartaro che ha insegnato il russo a questo monaco. Se potessi trovare un mezzo qualsiasi per rifiutarmi di parlare? Se dicessi di essere diventato improvvisamente muto? Era troppo tardi ormai per ritirarsi o per cercare dei pretesti per rinunciare alla famosa predica. I fedeli erano già entrati a centinaia e centinaia nel monastero, impazienti di vedere i figli di Buddha, che si erano degnati di scendere sulle sante acque del Tengri-Nor e di udire la loro parola divina. - Venite - disse il monaco che parlava il russo, prendendolo per una mano e traendolo con dolce violenza. Il tempio è pieno. Rokoff si sentì gelare il sangue. - Datemi prima da bere - disse, tergendosi alcuni goccioloni di sudore che gl'imperlavano la fronte, nonostante il freddo intenso che regnava in quella sala. - Avrete tutto ciò che desiderate. - Dell'acquavite e molta per ispirarmi meglio e acquistare un po' di coraggio - mormorò il disgraziato cosacco. Seguì il monaco attraverso parecchi androni, insieme a una dozzina di preti, incaricati probabilmente di sorvegliarlo e d'impedirgli qualsiasi tentativo di fuga e venne condotto in un gabinetto dove si trovava una tavola imbandita. Con mano nervosa afferrò un fiasco d'argento pieno di acquavite tiepida e senza preoccuparsi della presenza dei monaci, lo vuotò più di mezzo senza staccarlo dalle labbra. Era forse una grave imprudenza, essendo quel liquore fortissimo, del sciam-sciù cinese estratto dal riso fermentato, che doveva produrre una semiubriachezza quasi fulminante, ma Rokoff ne aveva proprio bisogno, in quel momento, per affrontare coraggiosamente la terribile prova. E quella bevuta fenomenale fece davvero un buon effetto. Il cosacco, mezzo stordito, si sentì tutto d'un tratto acquistare un'energia straordinaria. - Andiamo - disse con voce risoluta. Il monaco che doveva servirgli da interprete gli fece percorrere un ultimo corridoio, poi aprì una porticina e Rokoff, stupito, si trovò su una specie di palco coperto da un ricco baldacchino di seta gialla a frange d'argento e dinanzi a un mare di teste. Era entrato nel tempio del monastero, una immensa sala sorretta da sessanta colonne di legno dipinte in rosso e con ornamenti d'oro, capace di contenere due o tremila persone. Nel mezzo, sotto un lucernario, troneggiava un Buddha di proporzioni gigantesche, seduto colle gambe incrociate, su un enorme blocco di pietra staccato probabilmente da una delle più sante montagne del Tibet, forse dalla famosa Tisa, la grande piramide dei Hano-dis-ri, il Mera degli antichi indiani. Tutto all'intorno, centinaia e centinaia di pellegrini, giunti da tutte le parti del lago, si pigiavano, conservando però un religioso silenzio. Erano tutti montanari dalle facce poco rassicuranti e colle cinture riboccanti d'armi, fanatici pericolosissimi, che potevano far passare un brutto quarto d'ora al povero cosacco se li avesse ingannati, anche se si trovavano nel tempio dedicato al grande Illuminato. Vedendolo comparire sul palco, i pellegrini erano caduti in ginocchio, battendo la fronte sulle pietre del pavimento e borbottando delle preghiere. Nessuno aveva avuto il coraggio di guardarlo. Rokoff, già stordito da quell'abbondante bevuta che gli faceva ronzare gli orecchi e girare la testa, era rimasto come inebetito dinanzi a quella folla in adorazione, colla bocca aperta e gli occhi dilatati da un terrore invincibile. - Devo confessare che ho paura - aveva mormorato. - Che cosa sta per succedere? Mi sento mancare il coraggio e paralizzare la lingua. Si era voltato per vedere se la porta era aperta. Se non fosse stata chiusa sarebbe certamente fuggito, precipitando la catastrofe. - I birbanti! - esclamò. - M'hanno chiuso nel palco. Coraggio, mio caro Rokoff: si tratta di salvare la mia pelle e anche quella di Fedoro. Alzando gli sguardi aveva veduto di fronte al suo palco, presso la statua di Buddha, il Bogdo-Lama assiso su un divano circondato da un numeroso stuolo di monaci e con a fianco il prete che doveva servire d'interprete. Il barbuto pontefice non staccava i suoi sguardi dal cosacco e cominciava a dar segni d'impazienza, meravigliandosi forse che il figlio di Buddha tardasse tanto a trovare la parola. Già due volte aveva alzato il braccio, facendogli cenno di principiare il sermone e anche i pellegrini cominciavano ad alzare la testa e a lanciare sguardi verso il palco. Rokoff, comprendendo che ormai non poteva più indugiare senza compromettere gravemente la sua posizione di uomo celeste, fece appello a tutto il suo coraggio e alla sua fantasia, e tossì rumorosamente tre o quattro volte per richiamare su di sé l'attenzione dei fedeli. Cosa strana però, l'eterno chiacchierone non riusciva a trovare la parola, né da qual parte cominciare. E poi si sentiva girare sempre più la testa e montare in volto delle fiammate ardenti. Certamente aveva bevuto troppo. Finalmente si decise. - Buddha! ... Il grande Buddha! - gridò con voce tonante e picchiando il pugno sul parapetto del palco con tale violenza, da far scricchiolare le tavole - Era il grande Illuminato! ... Un Dio ... il più possente Dio che regna sopra le nuvole, fra il sole e la luna ... Si era interrotto mentre il monaco traduceva ai fedeli, silenziosi e raccolti, le sue parole. Dopo quell'esordio, certamente di grande effetto quantunque assolutamente vuoto, il buon cosacco non si era più sentito in grado di continuare. Che cosa dire? Non lo sapeva assolutamente e poi nel suo cervello cominciava a regnare una tale confusione che nessuna idea voleva uscire. Doveva essere quel maledetto sciam-sciù che lavorava. Quella tregua però non poteva durare delle ore. Gli sguardi del Bogdo-Lama dicevano abbastanza che era giunto il momento di riprendere il sermone, e Rokoff, che vedeva dipingersi sui visi dei pellegrini una certa meraviglia per quel lungo e inaspettato silenzio, dovette ricominciare. - Buddha ... era Buddha ... un uomo ... ma che dico, un Dio ... più scintillante del sole e più dolce della luna! ... Un'orribile smorfia che fece il Bogdo-Lama e un gesto d'impazienza, lo rese avvertito che era tempo di lasciare in pace il sole e anche la luna, che nulla avevano a che fare con Buddha e di venire a qualche cosa di più concreto. Disgraziatamente le idee del cosacco si annebbiavano sempre più e anche le gambe cominciavano a piegarglisi sotto. Che cosa disse allora? Non lo seppe di certo nemmeno lui. Preso da una subitanea foga oratoria, una foga da ubriaco, il cosacco si era messo a predicare all'impazzata, tuonando spaventosamente e picchiando pugni formidabili sul palco. Parlava di santi, di religioni, confondendo Cristo con Buddha, tirando in campo Brahma, Siva e Visnù, il diavolo, le stelle, le nuvole, le macchine volanti, i cinesi, i tibetani e perfino gli asini che popolavano il nirvana dell'Illuminato e tante altre bestie che i veri credenti dovevano rispettare e amare invece di mangiarle. Il monaco, soffocato da quel torrente di parole, si era più volte interrotto, dimenticandosi di tradurre buona parte di quella massa di corbellerie. Guardava con spavento Rokoff chiedendosi se non capiva più quello che diceva o se il figlio di Buddha era diventato improvvisamente pazzo. Che cosa c'entravano gli asini, le divinità indiane, le macchine volanti, ecc., col grande Illuminato? Anche i pellegrini sembravano stupefatti di quel sermone sconclusionato, che il monaco aveva in parte tradotto. Il Bogdo-Lama invece era diventato furioso e guardava ferocemente il cosacco che continuava a parlare come un vero demente, tirando pugni a manca e a dritta, minacciando di sfasciare il palco e tentando di sfondare la porta. No, non era un figlio del cielo, costui! ... Era un energumeno, un ignorante, un buffone che minacciava uno scandalo enorme. Finalmente, non potendo più trattenersi, il Lama si era alzato.col pugno teso, gridando con voce sibilante: - Mentitore! Rokoff, che era completamente ubriaco in quel momento e che parlava delle steppe del Don e della guerra russo-turca, ebbe un barlume. Aveva compreso il pericolo. Tutti i pellegrini si erano alzati urlando a loro volta: - Mentitore! Non sei un buddista! Era una catastrofe completa. Rokoff intuì che stava per succedere qualche cosa di grave. Il baccano era diventato assordante e la confusione al colmo. Tutti lo minacciavano e delle armi luccicavano nelle mani dei più fanatici. Con una spinta irresistibile, il disgraziato predicatore sfondò la porta, mandò a gambe levate i monaci che gli stavano dietro, passando sui loro corpi a corsa sfrenata e fuggì a rompicollo attraverso i corridoi, mentre nel tempio scoppiavano rumori terribili. Un momento dopo, senza sapere il come, Rokoff piombava come una bomba nell'appartamento di Fedoro. Questi, vedendolo entrare ansante, col volto congestionato, colla tonaca raccolta attorno ai fianchi e gli sguardi smarriti, si era gettato giù dal letto, chiedendo: - Rokoff ... che cosa è accaduto? - Non lo so ... disastro completo ... mi vogliono accoppare ... fuggiamo! ...

Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso. - Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci. - E chi? - Quel furfante di maggiordomo. - Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della "Campana d'argento", messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone. - Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco. Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell'ufficiale dei cosacchi. Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d'una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari. Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime. Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione. Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all'eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S'intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all'indomani sarebbero stati rimessi in libertà. - Fedoro - disse Rokoff, quando furono soli. - Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie. - Senza liberarci però - rispose il russo, che pareva un po' preoccupato. - Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci. - No, ma ... vorrei essere già lontano da qui. - Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un'ora dopo ... - Dopo che cosa? - Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff! Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare. Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d'imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All'indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini. Due lunghe aste, un po' elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde. - Pare che si preparino a portarci via - disse Rokoff. - Che ci conducano all'ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo. Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato. Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d'una larga e lunghissima scimitarra. - Fedoro, - riprese Rokoff - dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo. - È vero, Rokoff; sono preoccupato per l'assenza del magistrato. - Si sarà ubriacato d'oppio e giungerà più tardi. In quel momento l'ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo: - Andiamo. - E dove? - chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata. Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero. - Vi ho domandato dove ci volete condurre - replicò Fedoro. - Ci era stata promessa la libertà per stamane. - Ah! - fece l'ufficiale. Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse: - Orsù, sbrigatevi. Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati. L'ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata. - Comprendi nulla tu? - chiese Rokoff al negoziante di tè. - Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà - rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.- Vedremo come finirà questa avventura. Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione. La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù. - Questi cinesi vogliono rovinarci - disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. - Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po' la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone! Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell'impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi. Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l'ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata. - Dove ci conducono, Fedoro? - chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni. - Vorrei saperlo anch'io. - All'ambasciata no di certo. - Siamo usciti dalla città. - E ci dirigiamo? - Verso il Pei-Ho, se non m'inganno. Ah! Mi viene un sospetto. - E quale Fedoro? - Che c'imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all'ambasciata russa. - Ci sfrattano dall'impero? - Lo suppongo, Rokoff. - Che ci mandino via non m'importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare. Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d'artiglieria di legno. Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l'attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo. Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente "fiume" e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord- est. - Mi pare che ci conducano a Tong - disse Fedoro. - Che cos'è? - Una borgata sulle rive del Pei-Ho. - Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci. - Tale è ancora la mia opinione, Rokoff. - Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi? - Sì, Rokoff. - In conclusione, trattano i prigionieri come polli. - Né più né meno - rispose Fedoro. - Bel sistema per far rompere le gambe. - Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili. - In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani! - E lontani centinaia di miglia? - aggiunse Fedoro. - All'inferno i cinesi! - Vedo delinearsi all'orizzonte delle abitazioni. - - Che sia la borgata? - Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d'alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare. I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all'immensa capitale. I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l'altro dietro. Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre. In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine. Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata. - Che siamo aspettati? - chiese Rokoff. - Non so - rispose Fedoro, il quale era diventato pallido. Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi. Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento. Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell'urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche: - Fan-kwei-weilo! Weilo! Fedoro aveva mandato un grido d'orrore. In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s'appoggiava ad una larga scimitarra. Era un carnefice in attesa delle sue vittime.

. - Suppongo che non sarà peggiore di quella dei cavalli, e nella guerra russo-turca e anche nella spedizione di Samarcanda, dei corsieri ne abbiamo divorato più d'uno. Il capitano non si era ingannato a scendere in quel luogo. Lo "Sparviero" si era, l'indomani, appena alzato costeggiando le rive del lago, quando a circa un mezzo miglio fu veduta una immensa truppa di quegli animali galoppare sull'altipiano. Erano tre o quattrocento che s'avanzavano su parecchie linee, preceduti dai capi, coi maschi dinanzi e le femmine in coda. Correvano all'impazzata, facendo rimbombare il suolo e ragliando rumorosamente, poi s'arrestavano un momento, quasi tutti d'un colpo, per fare poco dopo un rapido dietrofront e ripartire come un uragano. Brucavano un po' le magre erbe e i licheni, quindi, presi da un nuovo capriccio, riprendevano le loro corse disordinate. Erano animali grossi quasi quanto gli asini europei, cogli orecchi però meno lunghi, il pelame bigio oscuro, attraversato sul dorso da una lunga striscia nera che s'incrociava sulle spalle con altre due bigie. Questi animali sono anche oggidì numerosissimi e s'incontrano di frequente sugli altipiani dell'Asia centrale, nelle pianure persiane e anche nell'India settentrionale. Viaggiano in bande immense, emigrando ora fra i deserti e ora fra le steppe, non temendo nemmeno le tigri, che affrontano con un coraggio straordinario, colpendole cogli zoccoli, e se non basta, mordendole ferocemente. La truppa scorta dagli aeronauti pareva che colle sue continue mosse disordinate e colle sue fughe precipitose, cercasse appunto di sfuggire a qualche pericolo che la minacciava. Il capitano, che la osservava con un cannocchiale, indovinò ben presto da quali nemici era assediata. - Si difendono dai lupi - disse a Rokoff che lo interrogava. - Sono numerosi? - Un centinaio. - Che riescano a fare un macello degli onagri? - Saranno i lupi che avranno la peggio. Cercano di forzare le linee degli asini per gettarsi sui piccoli, ma non riusciranno a nulla. Assisteremo a una bella battaglia. Ehi, macchinista, rallenta e teniamoci ben alti onde non spaventare i combattenti. Gli asini, dopo aver fatto parecchie corse, si erano fermati in mezzo a una vasta pianura, dove avevano potuto spiegare i loro battaglioni. Con un insieme ammirabile avevano formato un immenso cerchio: i maschi alla periferia, le femmine e i piccini al centro. I lupi, che erano più di cento e molto affamati a giudicarli dalla loro spaventosa magrezza, correvano intorno ululando ferocemente, cercando il punto più debole per rompere le linee. Ogni volta però che s'avvicinavano al circolo, i maschi voltavano il dorso e colle zampe posteriori tiravano calci con un rapidità sorprendente. Più d'un lupo, colpito, volteggiava in aria semifracassato e quando cadeva, tre o quattro asini gli si precipitavano addosso mordendolo ferocemente, finché esalava l'ultimo respiro. Non ancora soddisfatti, lo calpestavano furiosamente riducendolo in un informe ammasso di ossa e di carne triturata. Le asine e i loro piccini, spaventati dalle urla dei carnivori, si serravano le une addosso agli altri, ragliando disperatamente come per incoraggiare i maschi a difendere la loro prole. Non ne avevano veramente bisogno, perché quei bravi animali mantenevano le linee sempre strette, tempestando senza posa gli assalitori. - Come si difendono bene! - esclamò Rokoff. - Non credevo che potessero tener testa a un simile attacco. - Aspettate - disse il capitano. - A loro volta daranno la carica e io non vorrei trovarmi al posto dei lupi. Infatti gli asini, vedendo che i loro avversari continuavano le loro corse, perduta la pazienza, si preparavano ad assalire a loro volta. Non fu che la prima linea che si mosse. La seconda, con una prudenza incredibile, rimase ferma per impedire ai lupi di irrompere attraverso il cerchio. Quei cinquanta o sessanta animali, i più robusti e i più coraggiosi, partirono al galoppo, spezzando in più parti le linee dei voraci avversari. S'impennavano lasciandosi cadere di peso, distribuivano calci con rapidità vertiginosa, afferravano i nemici colle poderose mascelle e li scuotevano furiosamente, strappando a un tempo lembi di pelle e di carne. Qualcuno, assalito da tre o quattro lupi, che lo azzannavano alla gola o agli orecchi, cadeva, ma tosto i compagni accorrevano in suo soccorso, liberandolo prontamente. La battaglia durò un quarto d'ora e, come il capitano aveva predetto, finì colla completa sconfitta dei carnivori che, perduta ogni speranza di fare un pasto abbondante, almeno per quel giorno, dovettero in breve salvarsi con una pronta fuga, lasciando sul terreno un bel numero di morti e di moribondi. Era in quel momento che lo "Sparviero" scendeva. Gli asini, vedendo proiettarsi sul suolo quell'ombra gigantesca, s'arrestarono stupiti; poi, scorgendo quel mostro scendere, presi da una pazza paura, partirono ventre a terra in direzione del lago, salutati da tre colpi di fucile. Una femmina, colpita mortalmente, cadde dopo breve tratto, ma gli altri continuarono la loro corsa indiavolata, scomparendo in mezzo alle rupi. - Signor Rokoff - disse il capitano, balzando a terra. - Avrò l'onore di offrirvi delle bistecche così squisite da far perdonare il vostro disprezzo per questa delicata selvaggina. - Non ho ancora dato il mio giudizio - rispose il cosacco, ridendo. - Non dubito che sarà favorevole. Due ore dopo il bravo cosacco confessava candidamente che la carne degli asini selvaggi valeva ben quella degli jacks e dei bovini europei e che gli sciah persiani avevano pienamente ragione di stimarla come un boccone degno dei re.

. - Signor Rokoff - disse con voce un po' grave - credo che l'aria cominci ad intorbidirsi e temo che abbiamo commesso una vera minchioneria imbarazzandoci in questa avventura che avremmo potuto evitare facilmente. Quel mandiki comincia a diventare pericoloso. - Insiste nella sua idea di farmi sposare quella vecchia? - Più che mai, mio caro tenente e minaccia d'impadronirsi del nostro "Sparviero" se non accettate. - Volete che lo faccia scoppiare come una vescica? - So che ne sareste capace, ma dietro di lui vi è la popolazione di Turfan, un quattro o cinquecento nomadi e tutti armati. Se ci guastano le ali od i piani orizzontali, non potremo più fuggire. - Capirete bene che io non ho alcuna voglia di diventare principe di Turfan e tanto meno il marito di quella vecchia scopa vestita da donna. - Non domando tanto da voi - disse il capitano. - Non sono così pazzo da consigliarvi ad accettare. - Che cosa volete infine da me? - Che teniate a bada il monaco e anche la principessa, almeno fino dopo la cena. Ah se potessimo ubriacare l'uno e l'altra! - Non avete quel famoso liquore dei monaci del monte Athos? - La splendida idea! - esclamò il capitano. - Accompagnate la principessa, mentre io vado a prendere delle bottiglie per loro e per noi. Il mandiki che non li perdeva di vista, sospettando qualche trama, vedendo che il futuro principe di Turfan rimaneva, anzi, che s'avvicinava alla vecchia col sorriso sulle labbra, non si occupò di sapere dove si recava il capitano. A lui bastava che rimanesse il cosacco e non interruppe la conversazione che aveva cominciata con Fedoro sul numero dei montoni e dei cammelli e sulle ricchezze che possedeva la vecchia strega. Quando entrarono nella tenda, trovarono quattro capi della tribù, certe figure gigantesche, colle cinture riboccanti di pistoloni e di certe specie di corte scimitarre somiglianti alle tarwar dei montanari dell'Himalaya, e d'aspetto ben poco rassicurante. La principessa aveva preso posto sul divanetto, mentre i servi avevano coperto il tappeto, che occupava parte della tenda, di giganteschi piatti ricolmi di cibi. Vedendo comparire Rokoff, lo guardò sorridendo e gli fece un grazioso inchino. Il cosacco, che non voleva scatenare una tempesta, specialmente con quei quattro figuri, rispose con un altro sorriso, anzi fece di più, giunse perfino a mandare un bacio, sulle punte delle dita, alla futura moglie! Se Fedoro non scoppiò in un'omerica risata fu un vero miracolo e dovette soffocarla con una tazza di kumis che per caso si trovava a portata della sua mano. Stavano per cominciare la cena, quando entrò il capitano portando un cesto pieno di bottiglie di ginepro, whisky, gin, brandy e anche alcune di quel famoso liquore del monte Athos, che Fedoro e Rokoff avevano esperimentato dopo la celebre pesca delle trote. Ne mise una dinanzi a ciascun commensale, tenendo in serbo quelle dei monaci, per dare più tardi l'ultimo colpo. Quantunque avesse pranzato poche ore prima, il mandiki si era messo a divorare come una belva a digiuno da una settimana, gagliardamente imitato dai quattro capi e anche dalla principessa, la quale, fra un boccone e l'altro, guardava sempre Rokoff che le faceva gli occhi dolci, pur mandandola, in cuor suo, a raggiungere presto i suoi cinque mariti ed il diavolo. Il mandiki, che aveva vantato la squisitezza delle bottiglie dei figli di Buddha, si era attaccato alla sua con tanta avidità da asciugarla completamente in pochi minuti. Anche la principessa aveva cominciato a baciare la sua con tale frequenza da sperare che si ubriacasse presto senza attendere il liquore del monte Athos. I suoi occhietti neri a poco a poco si animavano, il suo naso adunco come il becco d'un pappagallo si coloriva meglio, diventando color cioccolata e si era messa a chiacchierare con vivacità, rivolgendosi più spesso verso Rokoff il quale, si capisce, non la comprendeva affatto non conoscendo la lingua calmucca. Immaginandosi però che gli indirizzasse delle gentilezze, rispondeva coi più amabili sorrisi e con inchini infiniti. Il capitano intanto sorvegliava l'effetto che produceva l'whisky sui quattro capi, che erano i più pericolosi con tutte quelle armi che avevano indosso. Vedendo che avevano meravigliosamente resistito a quella prima prova, sturò due bottiglie di ginepro, poi provò il brandy con grande consolazione del mandiki il quale beveva come una spugna. Quell'acquavite vecchissima e di prima qualità, fu come un colpo di mazza anche pei capi. - Cominciano a sentirlo - mormorò il capitano all'orecchio di Fedoro. - Ed il sonno li prende - rispose questi. - Che bevitori però, questi selvaggi! - Guardate se fuori non vi è nessuno. - Ci saranno i servi. - Ho regalato anche a loro delle bottiglie perché si ubriachino. Fedoro si alzò colla scusa di respirare una boccata d'aria fresca e rientrò quasi subito, dicendo: - I servi russano presso i fuochi. - E gli altri? - Sono tutti nelle loro case e nelle loro tende. - Avanti il liquore del monte Athos. Sturò quattro bottiglie, riempì le ciotole d'argento e le offrì ai calmucchi dicendo al mandiki: - Questo è il liquore che offre il mio amico dalla barba rossa ed è il migliore che si beva nella luna e nel paradiso di Buddha. Il monaco, che già barcollava, afferrò una ciotola e la porse alla principessa, traducendole come meglio poté le parole del capitano, poi tracannò la propria d'un colpo solo. - Questo è il nettare dell'immortalità - barbugliò. - Si beveva sotto Gengiz Khan per rendere i guerrieri più formidabili. - Aspetta un po', vedrai come diventerai terribile - mormorò Rokoff. - Sarai ben bravo se domani ti sveglierai. I capi vedendo la principessa bere l'avevano imitata, quantunque non potessero più tenersi seduti, non avendo la resistenza del mandiki. Avevano appena vuotato le ciotole che si videro, uno dietro l'altro, accasciarsi e quindi stramazzare col corpo innanzi ed il viso in mezzo ai tondi ancora semipieni di pasticci e di carne. La principessa, dopo un lungo sospiro ed un'ultima occhiata al cosacco si era rovesciata sul divanetto, cadendo addosso al mandiki il quale pareva che non sapesse più in quale mondo vivesse. Rokoff, Fedoro e il capitano si erano alzati, estraendo le rivoltelle. - Fuggiamo - disse il cosacco. - Cara sposa, non mi vedrai mai più. Ti lascio i montoni, i cammelli e anche il secolo che ti pesa sulle spalle. Stavano per slanciarsi fuori, quando videro il monaco alzarsi e fare, brancolando, qualche passo innanzi. - Fug ... gono ... all'ar ... mi ... ca ... pi ... ! servi ... ! - gridò facendo sforzi disperati per attraversare la tenda. - Non l'hai ancora finita? - urlò Rokoff, furibondo. - Prendi! Il suo pugno piombò col rumore d'una mazza, sulla faccia paffuta del mandiki. Il calmucco cadde in mezzo ai piatti e alle salse, colle gambe levate, facendo tremare perfino il suolo. I tre aeronauti, sbarazzatisi di quell'importuno, balzarono fuori della tenda, passando sul corpo dei servi ubriachi e si precipitarono verso il luogo ove avevano lasciato lo "Sparviero". Qualcuno se n'era accorto, poiché tutto d'un tratto si udì rimbombare un gong, poi un secondo, quindi un terzo. - Presto! - gridò il capitano, precipitando la corsa. - Vengono! Degli uomini uscivano dalle tende che erano ancora illuminate! Vedendo quei tre fuggire si misero ad inseguirli, urlando a piena gola. Lo "Sparviero" era però vicino e la macchina era pronta a funzionare, avendo il capitano avvertito il macchinista. I tre fuggiaschi con un solo salto varcarono la balaustrata, mentre lo sconosciuto che si era armato d'un Winchester a ripetizione apriva un magnifico fuoco accelerato contro i calmucchi che accorrevano da tutte le parti, vociando minacciosamente. - Via! - gridò il capitano che bruciava le cariche della sua rivoltella. Lo "Sparviero" agitò le sue immense ali correndo addosso ai calmucchi per prendere lo slancio, poi cominciò ad innalzarsi fra alcuni spari. - Eccoli corbellati - esclamò Rokoff, mentre il trenoaereo fuggiva con una velocità di quaranta miglia all'ora. - Io spero che quel briccone di monaco, dopo una simile avventura, non resterà nemmeno mandiki. Ah! Voleva innalzarsi sulle mie spalle e sul mio matrimonio! Sposala tu quella vecchia strega! Formerete una coppia unica al mondo. Turfan scompariva rapidamente; non si vedevano che pochi punti luminosi che diventavano, di momento in momento, sempre meno visibili. - Dove andiamo, capitano? - chiese Fedoro. - Verso il lago Bagratsch-kul - rispose il comandante. - A pescare delle altre trote? - Non sono più necessarie. Lo attraverseremo verso la sua estremità orientale poi ci slanceremo sopra le sabbie dello Sciamo meridionale per raggiungere le frontiere del Tibet. Comincio ad averne abbastanza della Mongolia. - Ed io pure - disse Rokoff. - Speriamo che non trovi anche là qualche principessa che s'innamori della mia barba rossa. - Ci guarderemo dall'accostare i tibetani, molto più pericolosi dei calmucchi, non vedendo volentieri gli stranieri sul loro territorio. Se volete andare a riposarvi, fatelo pure; veglierò io assieme al macchinista. - Non vi fermerete in qualche luogo? - chiese Fedoro. - Domani, quando avremo raggiunto il deserto. - Allora possiamo tenervi compagnia - disse Rokoff. Lo "Sparviero" filava colla velocità d'un uccello, costeggiando l'acquitrino che si estende al sud di Turfan e muovendo verso la piccola catena dei Chacche-tag. Alla mezzanotte gli aeronauti si libravano sopra Toksun, piccola fortezza mongola, occupata da un presidio cinese per frenare le tribù nomadi del deserto che esercitano, su vasta scala, il brigantaggio contro le carovane degli zingari. All'alba il lago di Bagratsch-kul era già in vista e le sue acque salate assai scintillavano, come bronzo ardente, ai primi raggi del sole. È un bel bacino, di forma molto allungata, formato dal Chaidagol e che ha, a poca distanza, delle cittadelle molto importanti e popolose, assai frequentate dalle carovane. Al pari di tanti altri, del Tibet specialmente, è tenuto in molta venerazione e nelle sue acque vengono gettate le ceneri dei defunti, credendo gli abitanti che giungano più presto nel paradiso di Buddha. Lo "Sparviero" rasentò per alcune miglia le rive orientali, poi continuò la sua corsa verso la piccola catena dei Kuruk-tag, entrando poco dopo il mezzodì nello Sciamo occidentale, molto più sabbioso, più brullo e più pericoloso di quello orientale, in causa dei venti impetuosi che soffiano dagli elevati altipiani del vicino Tibet. Non è però arido quanto il Sahara, avendo dei laghi di estensione considerevole, come il Lob-nor che si trova ad un'altezza di settecentonovanta metri sul livello del mare ed il Tustik-dum, ed anche un fiume di largo corso che lo attraversa dal sud al nord, il Darja, senza contarne altri minori. Sabbie se ne vedevano dappertutto e sempre irrequiete. I venti del Tibet le sollevavano in ondate e cortine e talvolta in colonne immense, roteando su se stesse e le cui cime toccavano di frequente anche lo "Sparviero", quantunque questo si mantenesse ad una altezza di quattrocento metri. - Come è brutto questo deserto - disse Rokoff che lo guardava con una certa curiosità. - Non è allegro di certo - rispose il capitano, che gli stava vicino, tracciando delle piccole croci rosse su una carta geografica. - In tre giorni e anche meno lo attraverseremo e ci slanceremo sugli immensi altipiani del Tibet. - E mi pare che non faccia nemmeno caldo qui. - Ci troviamo a milleduecento metri sul livello del mare. - Ditemi, capitano, è vero che sulle rive dei fiumi che attraversano lo Sciamo si trova molto oro? - Tutta l'Asia centrale e specialmente la Cina ha miniere ricchissime, forse più che l'America e l'Australia. - E non si lavorano? - Voi dimenticate che la Mongolia appartiene all'impero cinese. - E che cosa volete dire con ciò? - chiese Rokoff. - Che il governo imperiale proibisce severamente ai suoi sudditi di lavorare sia le miniere d'oro, che d'argento e di mercurio. - E per quali motivi? - Per non togliere braccia all'agricoltura e anche per evitare disordini. Ogni minatore sorpreso a cercar l'oro, qui come in Cina, senz'altro viene decapitato. - Oh! gli stupidi! Eppure la Cina non è molto ricca in fatto di monete d'oro e d'argento. - Lo so e anche l'Imperatore ricaverebbe immensi vantaggi se levasse la sciocca proibizione. Ciò non impedisce però che nella Mongolia, la quale è prodigiosamente ricca di miniere, talune vengono lavorate di nascosto. I minatori per far ciò devono riunirsi in bande numerose e bene armate, onde tener testa alle truppe che il governo non esita a mandare contro di loro per catturarli e decapitarli. Si può anzi dire che buona parte delle ribellioni interne avvengono precisamente per la lavorazione delle miniere, essendo i minatori costretti ad inalberare il vessillo della rivolta. Sono per lo più banditi, bene armati, che non s'accontentano solamente di frugare le viscere della terra, saccheggiando anche le vicine regioni per provvedersi gratuitamente dei viveri necessari. - All'incirca come i primi minatori californiani e australiani - disse Fedoro. - Anche essi, prima della proclamazione della famosa legge di Lynch, derubavano tutti. - Peggio ancora - disse il capitano. - Non sono molti anni, precisamente in queste regioni, un cinese, e ve ne sono molti che sono dotati d'una capacità straordinaria per trovare i giacimenti auriferi, regolandosi, a quanto si assicura, sulla conformazione delle montagne e sulle piante che vi crescono, scopriva una ricchissima miniera. Sparsasi la voce, in pochi giorni diecimila banditi si radunavano per sfruttarla. Mentre però la metà di quei minatori passavano al crogiuolo i quarzi che contenevano oro in abbondanza incredibile, l'altra metà devastava i dintorni saccheggiando mezzo regno d'Uniot, che allora era tributario della Cina. Per due anni lavorarono estraendo tali ricchezze, che l'oro in tutta la Cina diminuì la metà del suo valore. - Che miniera! - esclamò Rokoff. - Saranno diventati tutti ricchissimi costoro. - No, finirono invece tutti male - disse il capitano - e in causa dei loro continui saccheggi e dei loro disordini. Il loro numero era così aumentato, che il re d'Uniot non osava assalirli, malgrado i reclami dei suoi sudditi e anche della Cina; ma un giorno costoro ebbero l'imprudenza di fermare la regina mentre stava attraversando una vallata per recarsi a pregare sulla tomba dei suoi avi e di depredarla di tutte le gioie che aveva indosso. - Si vede che non erano ancora contenti dell'oro che estraevano - disse Rokoff. - E fu la loro rovina, perché il re, indignato, mosse contro di loro, aiutato da buon nerbo di cavalleria tartara e ne fece un orribile macello. Essendo alcuni riusciti a fuggire e riparare entro la miniera, i tartari turarono tutte le uscite e poi li affumicarono. Per alcuni giorni si udirono le urla e i gemiti di quei disgraziati, che erano racchiusi in parecchie migliaia, poi a poco a poco si spensero, finché il silenzio regnò assoluto. - L'oro non aveva portato fortuna a quei minatori. - Nemmeno ai pochi che erano caduti vivi nelle mani dei vincitori; furono fatti tutti accecare per ordine del re. E ora, se volete, signor Rokoff, andate a lavorare le ricche miniere dell'impero cinese. Per parte mia vi rinuncio, preferendo conservare i miei occhi e anche la testa.

. - Volevate andare a Turfan coi figli della luna e noi vi abbiamo accontentato. - E non ci ammazzeremo tutti? - chiese il monaco, che sudava freddo. - Giungerete in ottimo stato, ve lo prometto. - E questa bestia non mangerà nessuno? - Non le piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza. Il mandiki, un po' rassicurato, si riaccostò alla balaustrata, poi tornò a retrocedere, coprendosi gli occhi colle mani. - Cadiamo! - gemette. - Animo - disse il capitano. - pensate che da questa discesa dipende il vostro avanzamento. Ecco gli abitanti che vi acclamano. Una folla numerosissima si accalcava sulla piazza del villaggio, mandando urla di sorpresa e anche di terrore. Si vedevano donne e fanciulle fuggire e uscire invece dalle tende uomini armati di fucili e di tromboni. - Fatevi vedere - disse il capitano al monaco. - Se fanno fuoco io non scenderò e sarete costretto a rimanere con noi. - Ho paura! Ho paura! - balbettava il mandiki. - Se non obbedite vi getto giù! A quella minaccia il calmucco impallidì come un cencio lavato e fu lì lì per lasciarsi cadere. Vedendo però il capitano avanzarsi, si fece animo e si curvò sulla balaustrata, gridando alcune parole. Le urla erano subito cessate. I calmucchi avevano lasciato cadere le armi, facendo gesti di maraviglia e di stupore. Il loro mandiki scendeva dal cielo, portato da quel mostruoso uccello! La cosa doveva sembrare ben meravigliosa a quei poveri nomadi, che non avevano mai udito parlare né di aerostati, né tanto meno di macchine volanti. La loro sorpresa era tale, che parevano come pietrificati. Lo "Sparviero" intanto scendeva descrivendo dei larghi giri che a poco a poco si restringevano, poi le sue ali rimasero tese formando un paracadute assieme ai piani orizzontali e la massa si lasciò cadere proprio in mezzo alla piazza. La folla, vedendolo abbassarsi, si era ritirata precipitosamente per non farsi schiacciare, mentre il monaco, che aveva riacquistato il coraggio, ritto a prora con un'aria da trionfatore, trinciava benedizioni a destra e a manca, invocando Buddha. Grida d'ammirazione scoppiavano da tutte le parti. Si urlava, si applaudiva il monaco che aveva saputo, certo per opera del dio, domare quell'enorme mostro e renderlo docile ai suoi voleri. Tuttavia nessuno osava accostarsi a quell'uccellaccio di nuova specie, anzi alcuni avevano armato i fucili, temendo un improvviso attacco. Il mandiki, con un gesto da sovrano, impose silenzio alla turba e gridò con un vocione da basso profondo: - Giù le armi, figli miei. Questa bestia non farà male a nessuno, perché io l'ho domata e fate buona accoglienza agli uomini che mi accompagnano, che sono i figli di Buddha. - Ah! Il volpone! - esclamò Rokoff. - Per lui eravamo figli della luna; ora siamo diventati, per gli altri, nientemeno che figli del dio. Sfrutta bene l'ignoranza di questi poveri calmucchi. Il mandiki, dopo molti sforzi e anche coll'aiuto del cosacco e di Fedoro, era riuscito a scavalcare la balaustrata, muovendo, con incedere maestoso, verso la folla che gli si era subito stretta intorno disputandosi l'onore di baciargli l'orlo della veste. I calmucchi parevano in preda a un vero delirio. Finirono per sollevare il monaco, nonostante il suo enorme peso, portandolo in trionfo per la piazza. - Ci lascia? - chiese Rokoff. - Non sarei stupito che se ne andasse dimenticandosi d'inviarci i promessi montoni. Ma il cosacco giudicava male il mandiki, perché questi, appena calmatosi un po' l'entusiasmo della folla, si fece deporre a terra e s'avvicinò allo "Sparviero", dicendo al capitano: - Signore, degnatevi d'accettare l'ospitalità nella tenda della principessa che comanda in Turfan. Si sta preparando il pranzo pei figli di Buddha. - Durante la nostra assenza nessuno toccherà il mio uccello? - Oh! Non temete! Questi stupidi hanno troppo paura e non oseranno nemmeno accostarsi. Non sono sacerdoti essi. - Per prudenza lasciamo qui il macchinista e quel signore - disse il capitano. - E noi, signor Rokoff e voi, Fedoro, armiamoci delle rivoltelle. Non si sa mai quello che può accadere. Nascosero le armi sotto le larghe fasce, delle rivoltelle di grosso calibro, vere Colt americane e seguirono il monaco fiancheggiati da due o trecento calmucchi, i quali però si tenevano a una certa distanza. - Sarà giovane o vecchia questa principessa? - chiese Rokoff al capitano. - Se sarà bella e giovane, vi concedo il permesso di corteggiarla - rispose il comandante, ridendo. - Non rimarrà insensibile agli omaggi d'un figlio di Buddha. - Non mi comprenderà. - Ah, sì, mi dimenticavo che non parlate nemmeno il cinese. - Ditemi, capitano, comandano le donne qui? - Sarà la vedova di qualche capo. - Allora sarà vecchia. - Aspettate a giudicarla. All'estremità della piazza s'alzava una vastissima kibitka di forma quasi ovale, coperta di grosso feltro impermeabile, con un'apertura sulla cima per lasciar penetrare la luce e uscire il fumo, non conoscendo i calmucchi, al pari dei duzungari loro vicini e anche dei mongoli, i camini. Il mandiki alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L'interno era montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli, con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa. Dinanzi stava un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in disparte un ricco cofano d'origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno poi alla tenda v'erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti, destinati di certo ai visitatori. - Che lusso! - esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. - La principessa deve essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di dover starmene muto dinanzi a lei. - Eppure voi, che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco - disse il capitano. - Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai confini dell'Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell'Astrakan. - Ha invaso mezza Asia? - Se non di più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli unni, che con Attila invasero perfino l'Italia, siano stati gli antenati di questi nomadi, che ora vedete così miserabili? - Ne ho udito parlare. Ora però non sono capaci d'altro che di condurre al pascolo i loro montoni e i loro cammelli. - Perché si sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le une dalle altre. - Ecco la principessa - disse Fedoro. I tre aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l'entrata della tenda, che l'enorme monaco teneva alzata. - Ah! La brutta vecchia! - esclamò Rokoff. - Ma questa è una strega! La principessa si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso. Era una donna piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio, grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent'anni? Rokoff gliene avrebbe dati anche di più. Come tutte le ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi, aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l'inferiore rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera. Le dita ossute erano coperte di anelli d'oro e d'argento e anche al collo portava pesanti monili formati da tael cinesi e da grani d'oro. Nonostante quello sfarzo di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa con ricami d'argento, la principessa era d'una bruttezza ripugnante. Il monaco, che pareva all'apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa. Quasi subito entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso. - Diamo un saggio della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha - disse Rokoff. Il mandiki, nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su piatti d'argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa Khurull-Kyma-Chamik. - Mi pare che abbia sternutato - disse Rokoff. - No, ha pronunziato il nome della bella principessa - rispose Fedoro. - Un nome superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa. Si erano messi a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa, quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli all'orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco. Il capitano, che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli: - Badate! La principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore. - Per le steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo. - E che, non vi piacerebbe diventare principe di Turfan? - Con quella vecchia! - Non è poi tanto brutta - disse il capitano, frenando a stento le risa. - Che il diavolo se la porti! - E sarà anche ricchissima. - Non continuate, o scappo via. - Non guastate le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in pezzi lo "Sparviero". - Dopo il pranzo ce ne andremo. - Dobbiamo assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i preparativi. - Chi ve lo ha detto? - Il mandiki. - Avrei preferito andarmene. - Più tardi, quando avremo ricevuto i montoni promessi. Mentre chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo. Avevano appena terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo: - Ecco che la sulla comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza. Tutti uscirono dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso la piazza come un immenso serpente fiammeggiante. Dinanzi alla dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d'altare, il dender, formato con rami d'abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti d'erba. Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael. La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi. Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente. Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi. - Che cosa può raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle. - Io non so, ma vedo una cosa. - Quale? - Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi. - Che quella vecchia pazza ... - Signor Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato, dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik. - Una commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore. - Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni. - Che cosa c'entrano i montoni ... i cammelli ... Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente: - Io saluto in voi il principe di Turfan. - Io principe! - gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare. - Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo. - Fulmini del Don! - Fortunato amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava d'avermi accompagnato in Cina!

. - Noi non abbiamo veduto alcuno, signor Rokoff. - Manca nulla qui? - Nessuno è salito sul fuso; col fuoco che brilla, lo avremmo veduto. - È strana. - Cercate di sorprenderne qualcuno. - È quello che farò; torno al posto. Rokoff rifece per la quinta volta il giro del fuso, senza notare alcunché di straordinario. Stava per tornare al suo cumulo di neve che gli era servito da sedile, quando vide un'altra ombra fuggire dinanzi a sé. - Questa volta non mi fuggirai - disse, alzando il fucile. - Uomo od animale ti prenderò. Si era slanciato a tutta corsa dietro quell'ombra che cercava di dileguarsi nella nebbia. Aveva percorsi appena quindici o venti passi, quando incespicò in qualche cosa che gli si aggrovigliò attorno alle gambe come una rete od uno straccio. - Per le steppe ... ! - esclamò, cadendo in mezzo alla neve. Si rialzò prontamente ma l'ombra aveva approfittato per sparire fra il nebbione. Si curvò per cercare l'ostacolo che lo aveva fatto cadere e che doveva essergli stato gettato fra le gambe dal fuggiasco e mandò un grido di rabbia. - Canaglia! Si trattava realmente d'un lungo pezzo di stoffa che aveva subito riconosciuta. Era un pezzo di seta levato dai piani orizzontali. - Ci guastano lo "Sparviero"! - urlò, slanciandosi verso il fuso. - Ci hanno rubata la seta dei piani! All'armi! Il capitano era balzato a terra seguito dal macchinista il quale portava una lampada. - La seta dei piani! - esclamò, pallido d'ira. - Ne ho trovato un pezzo. Le ombre che fuggivano erano uomini e non cani o lupi. - Se è vero, me la pagheranno cara! Prese la lampada e si diresse velocemente verso i piani di babordo. - Canaglie! - gridò. - Ci hanno rovinati! I tibetani, approfittando del nebbione, avevano strappata tutta la seta del terzo piano, ossia di quello che posava al suolo e che doveva opporre la maggior resistenza. La perdita era grave, perché il capitano non aveva seta sufficiente per sostituire tutta quella rubata. E non era tutto! Anche i piani di tribordo erano stati privati d'una buona parte del tessuto. - Non potremo alzarci egualmente? - chiese Rokoff. - Non oserei - rispose il capitano. - È necessario ritrovare la seta e l'avrò, dovessi mitragliare tutti questi ladri - rispose il capitano, che una bella collera bianca rendeva furibondo. - È in questo modo che il capo ci fa pagare l'ospitalità? Avrà da fare con me. Signor Fedoro! Le nostre carabine! - - Cosa volete fare, capitano? - chiese Rokoff. - Recarmi dal capo e costringerlo a farci restituire la seta. - Cattiva mossa, signore, perché saremo costretti a dividere le nostre forze e poi, chi mi assicura che i tibetani, approfittando della nebbia, non ci abbiano preparato qualche agguato? Ormai sanno che noi ci siamo accorti del furto. - Temete un attacco? - E contro lo "Sparviero" - rispose Rokoff. - Se non avessimo da difendere il nostro aerotreno, io per primo vi consiglierei di agire senza indugio; lasciarlo con due soli uomini non mi sembra prudente. - Hanno la mitragliatrice. - Lo so, tuttavia pensate che le palle dei moschettoni a miccia possono danneggiare gravemente anche l'altra ala. - È vero - disse il capitano che a poco a poco s'arrendeva alle giuste riflessioni dell'uomo di guerra. - Potrebbero guastarci le ali e distruggerci anche i piani e allora lo "Sparviero" non ci servirebbe più a nulla. Eppure io non posso perdere la seta che mi è necessaria quanto l'aria liquida per poterci sorreggere. Ce ne hanno rubati almeno cento metri, mentre io non ne possiedo più di quaranta, avendo già subito un altro guasto gravissimo sulle Montagne Azzurre del continente australiano. - Aspettiamo che la nebbia si alzi prima d'affrontare i tibetani. Impegnare un combattimento con simile oscurità contro un nemico che può essere cinquanta volte più numeroso di noi, sarebbe una vera pazzia, signore. Saremmo costretti a sparare a casaccio, senza o con scarsissimi risultati - disse Rokoff. - Condivido pienamente le tue idee - disse Fedoro, che li aveva raggiunti coi fucili. - Il fuso per noi rappresenta, in questo momento, una piccola fortezza, sulla quale potremo resistere lungamente. - Sì, avete ragione - rispose il capitano, che riacquistava il suo sangue freddo. - Se però i ladri tornano, non li risparmieremo. Signor Rokoff, voi sorvegliate il piano di babordo ed io quello di tribordo e voi, signor Fedoro, andate ad aiutare il macchinista. È necessario che per domani l'ala sia riparata onde essere pronti a partire. Spero di potermi innalzare fino al margine di questo vallone anche coi piani semi-sventrati, ma non lo faremo che all'ultimo momento, nel caso d'un gravissimo pericolo. Tornarono verso il fuso. Fedoro si unì al macchinista e allo sconosciuto, il quale lavorava non meno febbrilmente del compagno, dimostrando molta perizia, mentre Rokoff ed il capitano si collocavano a babordo ed a tribordo, coi fucili in mano. Essendosi la nebbia un po' diradata, potevano sorvegliare i piani che s'allungavano ai due lati del fuso. Nel piccolo villaggio pareva che tutti dormissero, nondimeno né il comandante né il cosacco si lasciavano ingannare da quel silenzio, il quale poteva invece nascondere qualche sorpresa. Nessuna ombra più vagava fra le nebbie, tuttavia le due sentinelle non rallentavano la loro vigilanza. Anzi talora scendevano dal fuso spingendosi fino alle estremità dei piani. La sera era calata e l'oscurità era aumentata in quel selvaggio burrone, rendendo più difficile la sorveglianza. L'uragano continuava intanto ad imperversare sull'altipiano. Il vento ruggiva sempre in alto, lanciando nel vallone nembi di neve, le quali s'accumulavano in masse enormi qua e là, e si udivano ancora i rombi delle valanghe. Doveva essere la mezzanotte quando Rokoff vide alcune ombre scivolare cautamente fra i mucchi di neve, cercando di accostarsi allo "Sparviero" - Capitano! - gridò. - Vengono. - I tibetani? - Sì, li vedo strisciare verso di noi. - Salutateli con un colpo di fucile. - Faccio di meglio, signore; metto in opera la mitragliatrice. Si persuaderanno in tal modo che possediamo delle armi terribili. Il cosacco s'avvicinò al pezzo che era stato collocato a prora. Le ombre aumentavano di numero di momento in momento. Cercavano d'accostarsi ai piani per rubare dell'altra seta o muovevano all'assalto dello "Sparviero" sperando di sorprendere gli aeronauti e di opprimerli colla loro enorme superiorità? Il cosacco che aveva già maneggiato altre mitragliatrici nella sanguinosa guerra russo-turca, mise in azione il terribile istrumento di distruzione, scatenando un uragano di piombo. Urla terribili seguirono quella salva di detonazioni, poi si videro le ombre gettarsi precipitosamente al suolo e scomparire in direzione del villaggio. - Pare che abbia levato la pelle a più d'uno - disse Rokoff. - Speriamo che ci lascino ora in pace. Aveva sospeso il fuoco e si era slanciato giù dal fuso, assieme al capitano ed a Fedoro, per vedere se i tibetani si erano realmente allontanati. Aveva fatto venti o trenta passi, quando vide alcune scintille brillare fra le tenebre. - Guardatevi! - gridò. - Le micce bruciano Si erano lasciati cadere a terra tutti e tre, riparandosi dietro un cumulo di neve. Quattro o cinque spari rimbombarono in quel momento e udirono sibilare in alto. - Si tenevano in agguato - disse Rokoff. - Nemmeno la mitragliatrice è stata sufficiente a calmarli. - Ripieghiamoci verso il fuso - disse il capitano. - Qui corriamo il pericolo di farcì fucilare a tradimento e anche di venire circondati. Vedendo brillare altri punti luminosi, si gettarono in mezzo ai cumuli di neve, salutati da una seconda scarica, che come la prima non ebbe alcun effetto. Quei moschettoni, non dovevano tirare troppo bene, tuttavia qualche palla, anche per puro caso, poteva giungere a destinazione e costringere il macchinista, il quale aveva dovuto scendere dal fuso per lavorare intorno all'ala ferita, a sospendere la riparazione. - La cosa minaccia di diventare grave - disse Rokoff. - Siamo caduti in mezzo a dei veri briganti. - Che cosa mi consigliereste di fare? - chiese il capitano, le cui inquietudini aumentavano. - Scacciare questi banditi. - Non siamo in numero sufficiente. - Ritiratevi tutti a bordo e facciamo lavorare la mitragliatrice e le carabine. - E voi? - Io vado ad incendiare il villaggio. - Fatelo saltare con una bomba d'aria liquida. - To'! Non avevo pensato che disponiamo di mezzi così potenti. Datemene una e m'incarico io di mandare in aria tutte le catapecchie di questi briganti. - Teneteli occupati per cinque minuti ed io m'incarico del resto. - E se vi sorprendono? - Con questa oscurità! E poi mi difenderò. Datemi un paio di rivoltelle. - Sbrigatevi, signor Rokoff. Vedo i tibetani avanzarsi e tremo per i miei piani orizzontali che possono venire distrutti in pochi minuti. - Sono pronto a partire. Risalirono precipitosamente a bordo. Il cosacco prese le rivoltelle e la bomba che il capitano erasi recato a prendere e discese dalla parte opposta. I montanari avevano ricominciato a sparare e la mitragliatrice rispondeva vigorosamente, appoggiata dagli Sniders del macchinista; di Fedoro e dello sconosciuto, il quale anche in quel terribile frangente non si era lasciato sfuggire una sola parola che avesse potuto tradire la sua vera nazionalità. Rokoff appesosi il tubo di ferro, che racchiudeva l'aria liquida, alla cintura ed impugnate le sue rivoltelle, si era messo a strisciare lungo il piano di tribordo. Fortunatamente per lui, i tibetani invece di accerchiare lo "Sparviero", avevano cominciato l'attacco su un solo punto, ossia verso il piano di babordo. Dall'altra parte non si vedevano né ombre avanzarsi, né scintillare le micce dei vecchi moschettoni. Nondimeno il cosacco procedeva cautamente, temendo di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche drappello di nemici. - Mi parve che le casupole fossero disposte su una vasta fronte - disse - e che si trovassero su due file. Salteranno tutte insieme. A un tratto un pensiero lo trattenne. - E la seta dei piani? - si chiese. - Non verrà distrutta? M'immagino che i ladri l'avranno nascosta nelle loro capanne. Bah! In qualche modo la surrogheremo più tardi. Pensiamo per ora a salvare la pelle. Dall'altra parte le fucilate continuavano, aumentando d'intensità. I tibetani non cedevano nemmeno dinanzi alle poderose scariche della mitragliatrice le cui palle dovevano spazzare il terreno in tutte le direzioni, essendo le canne disposte a ventaglio. Rokoff, raggiunta l'estremità del piano, si gettò al suolo per non venire colpito dai proiettili dei montanari che passavano sopra il fuso e si spinse risolutamente innanzi, brancolando fra l'oscurità. Sapeva press'a poco dove si trovavano le capanne. Non dovevano distare che tre o quattrocento metri dallo "Sparviero". Si era messo a correre, udendo le urla dei tibetani aumentare, come se si incoraggiassero per un assalto decisivo. Ad un tratto andò a urtare contro un ostacolo. Era una parete in legno od in muratura. - Una casupola - disse. - Fosse almeno quella del capo! Girò rapidamente intorno finché trovò un'apertura e vi si cacciò dentro. Un po' d'argol bruciava su alcuni sassi, spandendo all'intorno una vaga luce. Rokoff depose il tubo di ferro in un angolo, mise a posto il rocchetto, svolse il filo e poi fuggì a tutte gambe per non saltare assieme al villaggio. La fucilata in quel momento era diventata furiosa. Presso il fuso, si combatteva ferocemente fra gli aeronauti e i tibetani, i quali parevano più che mai decisi d'impadronirsi dello "Sparviero" e dei suoi difensori o meglio delle loro formidabili armi. Già il cosacco stava per raggiungere il piano di babordo, quando vide sorgere dalla terra alcune ombre. - Largo! - gridò. Vedendo altri uomini accorrere alzò le due rivoltelle e aprì un vero fuoco di fila facendone cadere alcuni, poi approfittando del terrore dei superstiti si slanciò verso il fuso, urlando: - Tenete fermo! Il villaggio sta per saltare! E sprigionò la scintilla elettrica, servendosi del filo che non aveva abbandonato. Una spaventevole detonazione rimbombò nel vallone, seguita da urla di spavento e da un precipitare di rottami. La spinta dell'aria era stata così violenta da spostare perfino il fuso e da atterrare di colpo gli aeronauti. Per alcuni minuti si udirono dei clamori assordanti che si allontanavano verso l'uscita del vallone, poi una luce intensa s'alzò forando il nebbione. - Il villaggio ha preso fuoco! - gridò Rokoff, il quale si era risollevato. Il capitano si era slanciato verso il cosacco aiutandolo a salire. - Grazie - disse. - Stavamo per venire sopraffatti. - Non avrà sofferto lo "Sparviero"? - chiese Rokoff. - Nulla di guasto - gridò il macchinista, che si era precipitato verso le ali. - E i tibetani? - chiese Fedoro. - Fuggiti - rispose il capitano. - E credo che non torneranno nemmeno più - aggiunse Rokoff. Intanto le fiamme aumentavano, distruggendo tutto ciò che l'esplosione aveva risparmiato. Lingue di fuoco s'alzavano dappertutto rischiarando il vallone come in pieno giorno. Nembi di scintille, che il vento spingeva altissime, facendole turbinare fino ai margini superiori dell'altipiano, solcavano le tenebre come miriadi di stelle. - Capitano! - gridò ad un tratto Rokoff. - Se provassimo a qualche cosa? Vi è la nostra seta in quelle casupole. - È quello che pensavo anch'io - rispose il comandante. - E poi vedo anche delle tende di feltro che potrebbero servire pei nostri piani. Signor Fedoro, venite con noi e voialtri guardate lo "Sparviero". I tre uomini si slanciarono verso il villaggio, il quale ardeva come un fastello di legna secca. La violenza dell'esplosione aveva atterrato una terza parte delle abitazioni e parecchie tende. Le altre però erano ugualmente perdute, perché le le avevano ormai avviluppate divorando i legnami con rapidità incredibile. Sarebbe stata una follia il volersi cacciare fra quella fornace ardente per cercare la seta rubata. Il capitano ed i suoi compagni s'impadronirono di tre vaste tende che erano state gettate al suolo, formate di spesso feltro e le trascinarono presso lo "Sparviero". La stoffa era più che sufficiente per coprire i piani e poteva surrogare, quantunque assai più pesante, la seta presa dai tibetani. - Lasciamo che il fuoco termini di consumare le catapecchie e occupiamoci dell'ala - disse il capitano. - Vorrei andarmene prima che sorgesse l'alba. - Che i briganti ritornino? - chiese Rokoff. - Se hanno altri compagni in questo vallone, non mi stupirei di vederli ricomparire, per vendicare la loro disfatta e punirci d'aver incendiate le loro case. Se il freddo non vi importuna andate a esplorare i dintorni, onde non ci sorprendano nuovamente. - Un cosacco non sente la neve. Contate su di me, signore. Mentre Rokoff s'inoltrava nel vallone, verso la parte donde erano fuggiti i tibetani, il macchinista, il capitano e i loro compagni si rimettevano al lavoro con febbrile attività. Già il macchinista aveva preparate le traverse che dovevano surrogare quelle spezzate dall'uragano e non si trattava che di saldarle, operazione però che richiedeva un certo tempo onde la grave avaria non si ripetesse più tardi per la terza volta e in circostanze maggiormente difficili. Alle quattro del mattino, con uno sforzo supremo, l'ala era accomodata con una serie di robuste saldature, rinforzate da anelli d'acciaio. Non rimaneva che coprire i piani inclinati nei luoghi dove la seta era stata levata, cosa facilissima perché non si trattava che di tagliare il feltro delle tende e d'inchiodarlo. Rokoff non era ancora tornato dalla sua esplorazione. Quel coraggioso doveva essersi spinto ben innanzi per impedire una nuova sorpresa. - Affrettiamoci - disse il capitano. - Fra un'ora potremo innalzarci e riguadagnare l'altipiano. Intanto mettiamo in funzione la macchina. Avevano appena tagliato il feltro e lanciata l'aria liquida attraverso i tubi della macchina, quando udirono improvvisamente echeggiare la voce di Rokoff: - All'armi! Poi uno sparo, seguito a breve distanza da un altro e da un fragore assordante misto a muggiti ed a nitriti. - Quale valanga sta per rovesciarsi su di noi? - si chiese il capitano. Delle grida e delle detonazioni formidabili si udivano in lontananza, verso l'estremità del vallone e si vedevano anche delle linee di fuoco solcare di quando in quando la nebbia. La voce di Rokoff, improntata d'un profondo terrore, era echeggiata più vicina: - All'armi! Preparate la mitragliatrice! Ecco il nemico! Poco dopo usciva dalla nebbia, correndo all'impazzata. I clamori erano diventati assordanti. Muggiti, nitriti, urla umane e spari si confondevano con un crescendo spaventevole. - Signor Rokoff! - gridò il capitano, balzando dietro la mitragliatrice, mentre il macchinista portava in coperta Winchester, Snider, Mauser, Remington e parecchie rivoltelle. - Che cosa succede? - Non so - rispose il cosacco, scavalcando rapidamente la murata del fuso. - Una torma infinita d'animali sta per irrompere addosso a noi. Mi parve che fossero jacks. - E i tibetani? - Spingono le bestie attraverso la valle, spaventandole con colpi di fucile e con rami resinosi accesi. - Mille tuoni! Se quegli animali ci rovinano addosso, fracasseranno i nostri piani. Del fuoco! Mi occorre del fuoco! - Le casupole stanno per spegnersi e poi sono dietro di noi - disse Rokoff. - Ma sì! Possiamo salvarci! Per due o trecento metri potremo sorreggerci anche senza i piani ... Macchinista, è sotto pressione la macchina? - Sì, signore. - Metti in movimento tutto ... ali ... , eliche ... Signor Rokoff! Venite! Il capitano si era precipitato verso il boccaporto, seguito dal cosacco. Un momento dopo risalivano portando ognuno due barili della capacità di cinquanta litri ciascuno. - Partite! - gridò il capitano. - Non occupatevi di noi! Aspettateci dietro al villaggio ... La valanga vivente stava per rovesciarsi addosso allo "Sparviero". Era un'enorme mandria di jacks, probabilmente ammaestrati, la quale scendeva attraverso il vallone a galoppo sfrenato, con mille muggiti. Dietro si vedevano galoppare confusamente numerosi tibetani, montati su piccoli cavalli. Per spaventare i grossi ruminanti, agitavano dei rami di pino infiammati e sparavano colpi di moschetto. Il capitano e Rokoff si gettarono in mezzo alle casupole quasi interamente consunte, stapparono due barili e lasciarono sfuggire il liquido sui tizzoni fumanti. Era brandy e di prima qualità. Le fiamme che stavano per spegnersi, d'un tratto si ravvivarono. Una cortina di fuoco, alta parecchi metri, che mandava dei riflessi sinistri e lividi in un baleno si estese su una larghezza di oltre cento metri. In quel momento lo "Sparviero" s'alzava precipitosamente, appena in tempo per evitare l'urto formidabile di tutti quegli animali, che il terrore rendeva pazzi. Spinto anche dal vento che soffiava in favore, la macchina volante passò sopra la cortina di fuoco, abbassandosi quattrocento passi dietro le ultime casupole. Gli jacks, vedendo fiammeggiare quel fuoco immenso che pareva dovesse divorare l'intera valle, nonostante le urla e le fucilate dei pastori, si erano arrestati di colpo, muggendo spaventosamente. Rimasero un momento irresoluti, poi con un volteggio fulmineo si scagliarono a testa bassa contro i loro padroni, volgendo le spalle alle fiamme. Successe allora una confusione indicibile. I cavalli tibetani, colpiti dalle corna dei furibondi ruminanti, cadevano l'uno sull'altro, sferrando calci in tutte le direzioni, poi i superstiti fuggirono all'impazzata, fra un clamore immenso. - Ecco una disfatta pagata cara da quei bricconi - disse Rokoff. - Se tornano ancora dovranno avere il diavolo in corpo e la protezione di Buddha.

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