Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Questioni politico religiose

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

In queste parole abbiamo lo scopo dello Stato; abbiamo la sua origine prossima, e con essa quella delle diverse forme del suo governo; abbiamo altresì un criterio per definire a che cosa s' estenda l' autorità e la potestà del governo civile. Lo scopo dello Stato è la tutela e la prospera coesistenza, mediante uniformi regolamenti, di tutti i diritti razionali di quelle famiglie e di quegli uomini che si sono e si trovano così uniti sopra un medesimo territorio, e che singolarmente prendono il nome di cittadini, e nella collezione ordinata quello di Stato. L' origine prossima dello Stato è il desiderio e la volontà di tutta questa moltitudine di persone, che ha bisogno e brama di convivere pacificamente, con buon ordine, e non solo senza reciproco danno o molestia, ma con il maggiore vantaggio possibile. La forma di governo risulta dal numero di quelle persone a cui viene affidata l' autorità di tutelare e di governare, mediante uniformi e giuste disposizioni, tutta questa massa di diritti. Poiché se i padri di famiglia, uniti allo scopo indicato, avessero da principio voluto stabilire in comune, per via di discussioni tra loro, le dette disposizioni, che prendono il nome di leggi , senza commettere questa incumbenza ad una commissione permanente o ad una persona o famiglia particolare; ne sarebbe uscita una forma intieramente popolare. Se invece di ciò fossero state elette alcune famiglie o persone, e queste solo incaricate di un tale ufficio, a cui tutte le altre ubbidissero, se n' avrebbe avuta la forma degli Ottimati. Finalmente, se di tutto ciò si fosse incaricato un sol uomo od una sola famiglia, ne sarebbe uscito il governo di un solo. Ma qualunque sia la forma del governo dello Stato, o democratica, o aristocratica, o monarchica, o mista, l' origine prossima dello Stato rimane sempre la medesima, consistente nella volontà di quella prima massa di uomini che hanno sentita la necessità e l' utilità di coesistere e di convivere pacificamente e vantaggiosamente tra loro. La prima e più rimota causa sarebbe stata la causa universale di tutte le cose, cioè Dio, e dico Dio non considerato solo come causa efficiente, ma di più come autore e vindice della giustizia, come fonte dell' ordine e del bene, come istitutore dell' umana natura e della società domestica. Da questo si deduce qual sia l' estensione e il limite del potere civile. L' autorità e la potestà del governo civile non può essere certamente se non di quella natura, e al più di quella estensione, che si trova esistere nella moltitudine accennata di famiglie e di uomini che in tale società s' uniscono e ordinatamente si collegano. Egli è evidente, che un governo civile (o che il potere sia tutto concentrato nelle mani di uno solo, o che sia diviso in più parti e affidato a più mani, per esempio ad un Re, e ad un Parlamento, e ad alcuni tribunali) non potrà mai pretendere di possedere un' autorità, che ecceda o per eccellenza di natura, o per ampiezza d' oggetti ad essa subordinati, quell' autorità che era posseduta da quell' intera massa di famiglie o d' individui, che costituisce, come dicevamo, lo Stato; e ciò per la ragione semplicissima, che l' effetto non può essere maggiore della sua causa, e niuno può dare quello che non ha [...OMISSIS...] Conosciamo in questa maniera, che cosa sia lo Stato civile, e trovata l' origine prossima del suo potere, e quindi ancora un criterio per definire fino a qual limite si possa estendere la sua massima e totale potestà, ritorniamo alla questione che ci eravamo proposta: - Lo Stato è egli indipendente dalla Chiesa? - Egli è evidente, che sarà indipendente, se si verifica che la moltitudine di quelle famiglie e di quegli individui che lo formano, sieno indipendenti, ma se ciascuna di queste famiglie e di questi individui dipendesse o dovesse dipendere dall' autorità della Chiesa, anche lo Stato, che non è altro che il loro complessivo aggregato, avrà una subordinazione e dipendenza dalla Chiesa. Prima dunque di venire ad una decisione, noi dobbiamo fare la domanda: - Chi sono quelli che vogliono risolvere la proposta questione? Sono i Cattolici, sono gli Acattolici? E se questi, sono gli eretici o gli infedeli? Egli è evidente, che un cattolico, che riconosce la Chiesa, deciderà la questione in un modo diverso da un infedele, che non riconosce in essa nessuna potestà ricevuta da Gesù Cristo. E del pari in altro modo scioglierà la questione un eretico, secondo le sue individuali persuasioni, e secondo l' opinione che si è formata della Chiesa. Per questo noi dicevamo da principio, che è impossibile andar tutti d' accordo nel rispondere alla proposta questione, se non abbiamo uno stesso concetto, non solo dello Stato, ma ancora della Chiesa. Restringiamoci adunque per intanto a vedere in che modo questa questione di somma importanza venga necessariamente risolta da uno il quale professa la Religione Cattolica, come noi la professiamo, e nel suo ragionare si mantiene coerente ai principii della sua fede. Qual è dunque il concetto che un cattolico, secondo la sua fede, ha e deve avere della Chiesa di Gesù Cristo? Un cattolico crede come dogma, che Gesù Cristo, fondando la sua Chiesa, le ha dato un' autorità suprema di ammaestrare tutti gli uomini e di giudicare intorno a tutte quelle cose che riguardano il lecito e l' illecito, l' onesto e il giusto; intorno a tutte quelle cose che spettano alla coscienza, e di legare e sciogliere le anime, e di aprire e chiuder loro le porte del cielo, secondo i giudizi ch' ella pronuncia: crede viceversa del pari come una verità dogmatica, che Gesù Cristo ha imposto a tutti gli uomini il dovere di ascoltare la sua Chiesa, e di uniformarsi e sottomettersi alle sue decisioni nel detto ordine morale, in tutta l' estensione di quest' ordine, sia per quella parte che riguarda i doveri che hanno per oggetto immediato Iddio, e sia per quella parte che riguarda gli altri, che hanno per oggetto il prossimo. Essendo questo indubitato, e, come dicevamo, riconosciuto come una verità dogmatica da tutti quelli che professano la Religione Cattolica, ne viene questa inevitabile conseguenza, che ciascun uomo è soggetto e dipendente dalla Chiesa in tutte quelle cose che riguardano l' ordine religioso e morale, e che si rende colpevole e macchia la sua coscienza, ogni qualvolta ricusa di soddisfare a questa obbligazione di soggezione e di dipendenza; e perciò, che anche una moltitudine di uomini, in qualunque maniera si uniscano insieme, e qualunque sia il numero, anche grandissimo, della medesima, non possono mai né avere né costituire una potestà qualunque, che sia nel detto ordine indipendente della Chiesa Cattolica. Poiché questa indipendenza che non ha un uomo, non possono averla come dicevamo, né pure due, né pure tre, né pure mille uomini; e per la stessa ragione né pure molti milioni; niente aggiungendo il nome di nazione , o di Stato , o di società civile , o di governo , o altro qualunque che essi assumano. Come se voi fate un aggregato, grande quanto vi piaccia, di zeri, e li sommate insieme, non potete avere nella somma alcun valore, perché le singole cifre che avete messe insieme ne sono prive; come se mettete insieme molte gocce d' acqua pura, per quante esse sieno, riuscirete ad ottenere neppure un centellino di vino, perché in nessuna c' era mescolato del vino; come, in generale, un aggregato d' elementi non può dare quello che non ha niuno di essi, così del pari se si uniscono molti uomini, ciascuno dei quali sia dipendente da una data autorità, pel semplice fatto della loro volontaria unione non diventano indipendenti, e però nella loro unione non si può trovare l' indipendenza, di cui ciascuno di essi è privo. Se dunque non è altro lo Stato civile, che l' unione ben regolata di questi uomini, dei quali ciascuno dipende nell' ordine delle obbligazioni morali e di coscienza dalla Chiesa; anche lo Stato, sia piccolo o grande, potente o debole, questo è indifferente, è necessariamente in egual modo dipendente da essa; e tutta la sua autorità, sotto questo rispetto, non è assoluta, né suprema, ma a quella istituita da Gesù Cristo nella Chiesa pienamente subordinata. La conseguenza è logica, e può sfidare tutti i sofismi: essa non è già una dottrina opinabile o controversa; ma è necessariamente professata da ogni cristiano cattolico. Ciascuno uomo adunque deve pensarci a mente tranquilla, facendo tacere le prevenzioni, e gli sarà facile convincersi, che non ci sono che due vie per le quali mettersi, o quella di rinunziare alla Religione Cattolica, senza ambagi, né cavilli; o quella di riconoscere che il governo civile, in quel che riguarda il giudizio intorno al lecito ed al peccaminoso, dipende dalla Chiesa Cattolica. E questo viene a dire, che se nasce dubbio che una qualche legge o disposizione governativa possa essere illecita od ingiusta o contraria alla legge di Dio, il supremo giudice, a cui spetta di conoscere della questione, non è lo Stato medesimo, ma la Chiesa Cattolica, alla cui decisione, quando sia emanata, lo Stato ha obbligazione di sottomettersi né più né meno che ogni individuo o famiglia, che sono gli elementi dello Stato. Qualora adunque quelle persone, nelle cui mani è depositata l' autorità civile dello Stato, invece di sottomettersi agli insegnamenti e giudizi della Chiesa in tali materie, si arrogano l' indipendenza e la pretesa di giudicare in modo opposto al giudizio della Chiesa, o senza alcun riguardo a questo giudizio, essi mancano alle loro obbligazioni, ed il peccato che commettono, trae seco la loro eterna dannazione, e può essere punito con la scomunica e con le altre pene ecclesiastiche. La dottrina adunque dell' indipendenza dello Stato o della società civile dalla Chiesa, è l' abolizione del Cattolicismo e della Religione di Gesù Cristo, ed essa non può essere professata se non dagli infedeli, e solo fino ad un certo segno dagli acattolici. In questo modo Gesù Cristo ha istituita nel mezzo del genere umano una autorità d' origine veramente soprannaturale e immediatamente divina, al di sopra di tutte le autorità umane, dei regni e degli imperii, a temperamento salutare e benefico della loro materiale potenza e della forza bruta. Per essa tutti questi, ricevendo la luce e l' ordine della giustizia, secondo una stessa legge, da un medesimo tribunale, possono costituire una unità maravigliosa e pacifica, e l' umana famiglia essere di nuovo raccolta dalla sua dispersione sotto un padre comune, Iddio (4). Un' altra delle questioni più clamorose de' nostri tempi è quella della separazione dello Stato dalla Chiesa. Che cosa s' intende per separazione dello Stato dalla Chiesa? Questo è quello che niuno vi dice. Pure se non si sa con tutta chiarezza che cosa si voglia significare con questa separazione è impossibile di giudicare se chi la proclama abbia ragione o torto, e per lo meno ha torto nel non ispiegarsi a sufficienza. Diamo adunque noi un senso a questa espressione, quel senso a cui sembra che mirino quei dottrinari, che ne fanno più uso. Diremo dunque d' intendere per separazione dello Stato dalla Chiesa « quel sistema, che pretende che lo Stato debba fare le sue proprie leggi e prendere le sue disposizioni governative senza avere nessun riguardo alle leggi, prescrizioni e disposizioni della Chiesa, come se non esistessero o fossero a lui del tutto ignote, e ciò pel motivo che lo Stato ha un fine diverso da quello della Chiesa, cioè ha il fine del bene temporale, quando la Chiesa ha il fine del bene spirituale ». Merita un tale sistema di essere approvato o piuttosto conviene disapprovarlo? Egli è chiaro, che se a questa domanda risponderà un uomo, che non crede che la Chiesa Cattolica abbia una potestà divina, ricevuta da Gesù Cristo, come sarebbe un infedele, o un cristiano che ha del tutto perduto la sua fede, non troverà nessuna difficoltà ad approvare il sistema di tale separazione. Ma noi vogliamo conoscere, e prima di tutto definire, come la debba intendere un uomo che professa sinceramente la Religione Cattolica, e che crede alla divina istituzione della Chiesa. Determinata così la questione, non sarà difficile accorgersi che il risolverla si riduce ad un corollario della questione precedente: « se lo Stato sia indipendente dalla Chiesa ». Trattando la questione precedente, abbiamo veduto che, secondo i princìpii del Cattolicismo, niun uomo è indipendente dalla Chiesa, e però neanche una congregazione di uomini; né lo Stato è nulla più che una congregazione di uomini. Ma abbiamo veduto nello stesso tempo, che questa dipendenza dello Stato dalla Chiesa è ristretta alle cose morali, cioè all' ordine del giusto e dell' ingiusto, del lecito e dell' illecito. Nel resto, come ci risultò da quella discussione, lo Stato è indipendente; ed è indipendente ogni altra società umana, la famiglia, per esempio, ed ogni altro individuo particolare. Infatti quando l' uomo o una società qualunque ha da operare qualche cosa, si presentano naturalmente al pensiero due questioni distinte: E` lecita od illecita questa cosa? E` utile o dannosa? Il giudice supremo della prima di queste due questioni è la Chiesa, secondo la credenza cattolica. Il giudice supremo della seconda è lo Stato, o il padre di famiglia e l' uomo particolare, secondo che è l' uno o l' altro di questi subbietti che deve operare, e che propone a se stesso, prima di operare, quelle questioni. Da questo ne viene, che se la Chiesa dicesse allo Stato: « Operate così perché vi è utile »(ciò che ella non fa mai), in tal caso lo Stato potrebbe giustamente rispondere alla Chiesa: « Voi siete uscita dalla sfera delle vostre attribuzioni: sono io il giudice di quello che mi è utile, e in questo sono da voi indipendente ». Ma qui si conviene sempre avvertire, che la stessa cosa potrebbe rispondere un padre di famiglia, od un uomo qualunque. Se poi la Chiesa per lo contrario dice allo Stato: « Questa cosa è illecita: non la potete fare senza peccato », allora, pronunciando la Chiesa in cosa di sua competenza, né un uomo particolare, né una congregazione d' uomini, qual è lo Stato, può ricusare di sottomettersi all' autorità della Chiesa. Tale è indubitatamente la dottrina della Religione Cattolica. Per vedere dunque se lo Stato che ha per fine l' utilità temporale, e che circa questa è giudice supremo, possa secondo i princìpii della Cattolica Religione fare le sue leggi e tutti gli altri atti governativi, separandoli e astraendoli nel detto modo dalla Chiesa, senza avere nessun riguardo alle sue leggi, alle sue prescrizioni, basterà dimandare se la questione di ciò che è utile si possa intieramente separare dalla questione di ciò che è onesto: e se lo Stato possa adoperare tutti i mezzi che crede conducenti all' ottenimento dell' utile, che è il suo fine proprio, senza avere nessun riguardo, e senza volgere il pensiero a ciò che è giusto, lecito ed onesto. La questione dunque della separazione dello Stato dalla Chiesa si trasforma in un' altra equivalente, ma più generale, della separazione dell' utile dall' onesto. Ridotta la questione a questa nuova forma, diviene di facile ed evidente soluzione per tutte le persone che tengano in qualche pregio l' onestà e la giustizia, e che non si sono ancora date al più abietto utilitarismo. Per tutte queste persone non può esistere il menomo dubbio; ma è cosa certissima che l' utile non si può separare dall' onesto, e che non si deve cercar quello senza nessun riguardo a questo, e che perciò quando la Chiesa Cattolica, che n' è il tribunale competente, giudica che qualche progetto di legge e qualunque altra disposizione governativa è ingiusta od illecita, ovvero quando si rileva che un dato progetto s' oppone a quello che è insegnato o comandato dalla Chiesa, il governo civile non può indurlo in legge, pel solo motivo che gli sembri utile o conducente al comun bene; e tutti coloro che occupassero qualche carica nel governo, concorrendovi, peccherebbe. E conviene qui osservare la somma differenza tra le false religioni, per esempio quelle del paganesimo, e la vera religione di Gesù Cristo. Nelle religioni pagane il sacerdozio si restringeva ad aver cura dei riti religiosi, e non credeva di sua spettanza tutto ciò che eccedesse le pratiche religiose e l' onoranza de' falsi Dei. Ma Gesù Cristo ha fondata una religione che non riguarda già soltanto alcuni riti e pratiche, ma riguarda tutta la vita dell' uomo e tutte le sue azioni private e pubbliche, e che ha per iscopo la intera santificazione e salute dell' uomo stesso. Perciò a differenza delle religioni false, che sono piuttosto superstizioni, Gesù Cristo pose per fondamento della sua la verità, la giustizia, la rettitudine in ogni cosa, l' onestà, la carità e ogni specie di perfezione morale. Quindi egli doveva dare alla sua Chiesa, come effettivamente le diede, un potere che s' estendesse a tutto l' ordine morale, a tutti i doveri dell' uomo, del padre o figlio di famiglia, del cittadino, dell' uomo di Stato, dell' imperante. A tutti questi doveri dunque s' estende il potere di giudicare che ha la Chiesa. E la Chiesa ha ed ha sempre avuta la coscienza di questa sua autorità maravigliosa, e l' ha sempre e verso tutti praticata. Le sette all' incontro che si sono da essa separate, prive di questa coscienza, da sé stesse si sono collocate in un luogo inferiore, e di rado o debolmente, e per una impotente imitazione della Chiesa, hanno tentato d' esercitare una simile autorità, ben sentendo che qualora avessero voluto seriamente usarne, si sarebbero rese ridicole. E` dunque impossibile, secondo i princìpii della Religione Cristiana Cattolica, che lo Stato, si separi talmente dalla Chiesa, che egli sia licenziato a far leggi e disposizioni governative senza aver nessun riguardo a ciò che dice o giudica la Chiesa intorno al giusto ed all' onesto, al lecito e al peccaminoso, senza riguardo alle sue prescrizioni e ai suoi materni insegnamenti. Quindi per sostenere il sistema della separazione dello Stato dalla Chiesa, preso nel senso indicato, conviene rinunziare alla Religione Cattolica, e negar fede a quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] o a quell' altro: [...OMISSIS...] . Ma se anche si guarda la questione sotto un altro rispetto, si troverà ugualmente che non si può sostenere la sentenza di coloro che dicono che l' autorità civile deve fare le sue leggi ed altri atti governativi secondo la norma dell' utile, senza avere nessun riguardo alle leggi e prescrizioni ecclesiastiche o religiose, chiamando questo « separazione dello Stato dalla Chiesa ». La società civile fu istituita, come abbiamo veduto, acciocché tutti i diritti de' suoi membri, cioè dei cittadini, venissero con il mezzo della pubblica sanzione tutelati e difesi. A questa condizione l' individuo e la famiglia entrando a far parte della società civile rinunziano a difenderli e a tutelarli da sé stessi con la forza privata. E` dunque il governo civile, per la natura della sua istituzione e per il suo fine, obbligato a difendere efficacemente, con i mezzi preventivi e repressivi, tutti i diritti di quelli che alla sua autorità si sottomettono per essere ben governati. Ed è naturale, che se il governo civile manca a questa sua obbligazione, e rimangono i diritti indifesi, ritorni ad aver luogo l' uso della forza privata, con il quale lo Stato fa un passo indietro verso la barbarie, e la società civile, turbata, verso la sua dissoluzione, come avveniva sovente nel medio evo, quando le nuove società civili non erano ancora pienamente costituite. Ora ogni cosa amata ed apprezzata può essere oggetto d' un diritto, e non le sole cose materiali. Certo, che alcuni governi nei nostri tempi sembrano concedere alle cose materiali una attenzione quasi esclusiva, e si persuadono d' aver fatto tutto, quando abbiano reso lo Stato materialmente prospero. Ma questa maniera di pensare gretta ed assai limitata s' oppone alla ragione, ed è respinta dagli istinti più nobili della natura umana, che sono i morali. Che anzi gli stessi governi nei quali più domina questo spirito e sistema di materialismo, diventano necessariamente incoerenti seco stessi, non potendo prescindere in molte loro disposizioni da considerazioni superiori a quelle degli interessi materiali. E` dunque fuori di controversia, che tutti i diritti dei cittadini devono essere protetti e difesi dal potere dello Stato; non quelli soli che hanno oggetti materiali, ma anche quelli che hanno per oggetto dei beni invisibili e morali, e tra questi i diritti religiosi. Tutti quelli che professano sinceramente qualche religione, apprezzano talmente il libero culto di essa, che niuna delle cose terrene gli paragonano, ma considerano la loro religione come la cosa più preziosa, e più cara di tutte, senza confronto. Sarebbero dunque disposti, quando fossero nello stato di natura, a difendere la loro religione con tutte le loro forze, e non solo con il sacrificio delle sostanze temporali, ma con quello della vita stessa. Quanto dunque un tal bene è apprezzato, altrettanto grande è l' obbligazione del governo civile di guarentirlo e di difenderlo ai cittadini che lo possedono. Ma se il governo civile è obbligato a difendere i diritti religiosi dei cittadini, egli deve conoscerli questi diritti e averli presenti, sia per istabilire delle leggi e dei regolamenti atti ad ottenere questa difesa, sia per non esporsi a far tali leggi e tali regolamenti, che fossero essi stessi una violazione di tali diritti, o conducessero alla violazione dei medesimi. Se dunque il governo deve aver riguardo, nel fare le sue leggi e nel prendere le sue disposizioni, alla religione professata dai cittadini, dunque è falso e contrario al sociale diritto il sistema della separazione totale dello Stato dalla Chiesa . Concludiamo: il governo civile deve aver riguardo, nella formazione delle sue leggi ed altri atti governativi, alla religione dei cittadini per due motivi: I) per proteggere i diritti religiosi dei medesimi; II) per evitare di violarli egli stesso. E` dunque contraria alla religione e al buon senso quella separazione assoluta dello Stato dalla Chiesa, che è divenuta uno dei luoghi comuni della politica volgare (3). Non c' è dubbio alcuno, che ogni Stato, grande o piccolo, ha la sua Autonomia. Perché dunque ci proponiamo noi una questione intorno all' Autonomia dello Stato? Se questa parola venisse sempre adoperata in quel senso che l' adoperano i più assennati pubblicisti, cioè a indicare l' indipendenza che ciascuno Stato pienamente costituito, e avente una esistenza propria riconosciuta, ha da ciascun altro, sia nel dare a se stesso le proprie leggi, sia nella direzione del proprio governo, crederemmo inutile il parlare di questo argomento. Ma ci sono alcuni, che, invece di riporre l' Autonomia dello Stato in una relazione d' indipendenza rispetto agli altri Stati, estendendo il significato della parola, vi parlano dell' Autonomia dello Stato in relazione a un ordine di cose più elevato, alla legge morale e alla Chiesa Cattolica. Questi, che sotto l' autorità d' una parola vecchia e accreditata vogliono introdurre una teoria nuova, ci obbligano a proporci la questione: « Se ci abbia un' Autonomia dello Stato presa sotto questo nuovo punto di vista ». Rispondiamo: Se voi intendete una Autonomia ristretta dentro la sfera delle cose morali ed oneste, lo Stato è Autonomo in verso a qualunque potere; ma se voi intendete per Autonomia la facoltà di far leggi indipendentemente da qualsivoglia legge morale e religiosa e dall' autorità, che alle cose morali e religiose presiede, questo ritorna alla questione dell' indipendenza dello Stato dalla Chiesa, già da noi prima trattata. Ripetiamo dunque, che una tale autonomia dello Stato né c' è, né ci può essere. Che cosa importa l' Autonomia in questo senso? Importa l' Arbitrio del legislatore. Infatti dandosi al legislatore un potere incondizionato di far leggi, questo potere non è più regolato né moderato da cosa alcuna: tutto si riduce alla sua volontà: [...OMISSIS...] Ora che cosa è una volontà, che non ha altra regola che sé medesima, se non l' arbitrio? Poiché da qual' altra cosa ripeterà un tal potere la sua regola? Donde prenderà la moderazione, la misura, l' ordine delle sue disposizioni? Dalla legge naturale? No, perché l' Autonomia, di cui si parla, non è obbligata ad alcun riguardo verso le leggi naturali. Dalle leggi divine? Neppure, perché ella anche da queste vanta una perfetta indipendenza. Da ciò che la Chiesa Cattolica insegna e comanda a nome di Dio? Meno assai, perché questo potere non è che conseguente al potere divino, che lo ha istituito. L' Autonomia dello Stato dunque in questo senso è l' umano arbitrio messo in trono. A una teoria così fatta, figlia dell' orgoglio e dell' immoralità, si volle dare nei nostri tempi anche veste filosofica. Si cominciò dallo stabilire, che « l' uomo è il legislatore di sé stesso ». Il Kant, che ripose in questa sentenza il principio supremo dell' Etica, le diede il nome appunto d' Autonomia. Egli però non ne trasse, e probabilmente non ne vide, tutte le conseguenze di cui era gravido (1). L' Hegel fa l' ostetrico del parto mostruoso. Se l' uomo è il legislatore, se esso è il fonte d' ogni morale e d' ogni diritto, conviene di conseguente che sia Dio, poiché ognuno sente che l' autorità della legge morale e la natura del giusto e dell' onesto è qualche cosa di eterno e di divino. Cotesti pensatori dunque, che, senza darsi gran cura di accertarsi che un principio sia vero, si danno per somma cura di cavarne imperterriti tutte le conseguenze, non ebbero difficoltà di asserire appunto non esservi altra divinità fuori di quella dell' uomo o dell' umanità, e così venne al mondo la moderna Antropolatria . Dopo che l' uomo fu divinizzato a questo modo, era naturale che ancor più s' accordassero allo Stato gli onori divini. L' Hegel dunque vi descrive lo Stato come un gran Dio organizzato, con l' unione, quasi direi, d' altrettante minori divinità. Qual maraviglia, dopo di ciò, che si parlasse dell' onnipotenza dello Stato, della sua assoluta indipendenza, della sua Autonomia! Ora voi non sentite solamente l' eco di una dottrina così stravagante nelle frasi del nostro Mazzini; ma la sentite anche nelle bocche di quelli che rifiutano ogni consorzio con il Mazzini, e che vi parlano sul serio di libertà costituzionale; la sentite nelle bocche de' così detti dottrinari francesi; in bocca di molti che governano: onnipotenza delle leggi, indipendenza, autonomia , sono le loro frasi più care. Questo sistema dunque altrettanto scempio quanto brutale, è quello che fu denominato Statolatria . Gli autori e i fautori di questo sistema, distruggendo la religione e la morale, che sono le naturali moderatrici del potere civile (ed è il medesimo che si distruggano con il negarle, come gli Hegeliani, o con l' astrarre pienamente da esse), abbandonano i popoli alla mercé dell' arbitrio de' governanti. Se il nudo arbitrio del legislatore civile è quello, che, senza alcun riguardo alle morali obbligazioni, dee fare la legge civile e darle esecuzione, l' umanità è divenuta il ludibrio di pochi scellerati. E può essere benissimo, ed anzi è infatti, che un tale sistema di schietta tirannia si denomini libertà; poiché che cosa più facile d' applicargli una parola? Quanti sciocchi poi la raccolgono, quasi avessero trovato un caro tesoro, e la ripetono come una luminosa verità. Ai fautori di cotesto sistema non mancano tuttavia le loro giustificazioni, e conviene ascoltarli. « Non è vero, dicono, che noi abbandoniamo i popoli all' arbitrio de' governanti; poiché, sebbene noi non vogliamo che lo Stato sia soggetto a nulla, neppure alla morale e alla religione, ciò non di meno in luogo di queste due forze temperatrici dell' arbitrio, noi surroghiamo altri temperamenti egualmente efficaci, cioè il calcolo dell' utilità , e dell' opportunità, l' opinione pubblica , e finalmente il voto popolare , che legittimamente si manifesta nelle assemblee parlamentari . Se si trattasse dell' arbitrio di un solo, ci avrebbe, lo concediamo, dispotismo; ma presso di noi vale l' arbitrio di tutti; e ciò che risulta, quasi forza media, da tutti questi arbitrii è appunto la regola di coloro che governano lo Stato; questo arbitrio collettivo tempera adunque ottimamente l' arbitrio individuale e gl' impedisce di trasmodare ». Queste giustificazioni non sono rivolte, come si vede, a dimostrare che un tale sistema di governo non sia immorale e irreligioso, anzi concedono pienamente che il sistema è ateo; ma sono rivolte a provare che esso non è tuttavia un sistema tirannico avente a sola sua base l' arbitrio del legislatore civile. Non è dunque giustificabile da parte della religione e della morale: e però niuno che professi la Religione Cattolica, niuno che di buona fede e in un modo conseguente professi qualche altro culto, e finalmente nessuno che abbia in sé qualche poco di onestà e di morale, potrà accettarla. Tuttavia è necessario ancora esaminare, se quei temperamenti che propongono, al di fuori d' ogni autorità e obbligazione morale e religiosa, sieno sufficienti a temperare e regolare l' arbitrio legislativo e governativo per così fatto modo da non degenerare in oppressione, dispotismo e tirannia. Qualor anche dunque si supponga, che gli spedienti proposti come temperamenti dell' arbitrio legislativo avessero per sé considerati tutta l' efficacia di cui si dicono forniti; che cosa si potrebbe conchiudere intorno a così ingegnosi ritrovati? - Rimarrebbero sempre davanti a noi distinte e inconfusibili le due questioni, della morale e dell' utilità. Supponendo che fosse provveduto con gli indicati spedienti all' utilità temporale, ch' è il fine prossimo ma non il principale dello Stato (2); rimarrebbe sempre vero, che la morale in un tale sistema sarebbe interamente sacrificata; dico interamente, perché non si tratta solo di violare qualche legge particolare della morale o della religione, ma si nega la stessa autorità della legge morale religiosa, e così si riduce l' uomo ad uno stato brutale, spoglio della sua propria dignità, che dalla sola morale procede e dalla sua relazione con le cose eterne e divine. Laonde niun uomo onesto (poiché l' onesto è quello che ama sopra tutti i beni l' onestà, la giustizia, la moralità, la religione e in tutti i suoi passi le consulta riverente), e soprattutto niun uomo religioso, niuno per certo che professa la Cattolica Religione, può dare la sua adesione ad un tale sistema, e non anzi pienamente riprovarlo. Ma uno Stato, che in questo modo rinunci alla dignità morale, potrà egli procacciarsi veramente e a lungo l' utilità temporale? Non entrerà da tutti i lati, in una nazione così governata, la corruzione del costume? e nell' inondazione di ogni mollezza e di ogni vizio, non si videro far naufragio i più grandi regni e i più potenti imperii, a malgrado de' consigli i più prudenti di quelli che governavano? Basta aprire le storie: gli esempi sono molti e tremendi, e troppo divulgati per fermarci a narrarli. Ma esaminiamo a parte a parte il valore di quei poteri moderatori che si vogliono sostituire a quelli della morale e della religione. Sarà, dicono, un temperamento all' arbitrio il calcolo dell' utilità . - Ma chi obbliga i governanti a fare un tal calcolo, se non hanno obbligazioni morali? Dico a fare questo calcolo tanto a favore degli altri che a favore di se stessi? Poiché un calcolo che riguardasse l' utilità di tutti e di ciascuno è certamente compreso in quel precetto della morale evangelica: « Non fare ad altri quello che tu non vorresti fatto a te stesso, fa' agli altri quello che tu vorresti che gli altri facessero a te ». E in virtù d' un precetto della morale questo calcolo si fa praticamente; ma senza alcun precetto, alcuna obbligazione, sono essi gli uomini disposti a farlo tuttavia? Se poi si tratta d' un calcolo del bene maggiore e più generale nella somma, chi mai degli uomini sa fare un tal calcolo con perfezione, e senza sbagli? E poi, se si cerca soltanto un calcolo della utilità generale, rimarranno sacrificati all' utilità dei più i singoli cittadini e la minorità, rimarranno sacrificati i deboli ai forti, poiché se non c' è la giustizia che difenda i diritti degli individui, se deboli, e delle minorità, a questi non resta certamente alcun' altra guarentigia; ricorreranno dunque per disperazione alla rivoluzione, e tale è il solito risultato de' governi immorali e irreligiosi. L' opinione pubblica . - C' è obbligo di seguirla? anche qui noi domandiamo. Obblighi morali di nessuna sorta, rispondono i sostenitori dell' Autonomia dello Stato. Perché dunque l' ascolteranno quelli che governano, quando sembrasse loro utile, almeno a se stessi, il non ascoltarla? L' hanno mai ascoltata i despoti e i tiranni? Mai: dunque se ne può fare senza, se non accomoda. Di più, quanti mezzi non ha il governo di falsare l' opinione pubblica? Quanti mezzi di dividerla, producendo la discordia negli animi e il gioco de' partiti? E poi, chi fa o chi manifesta l' opinione pubblica? Sempre quelli che più gridano. Niun partito confesserebbe mai di non averla a sé favorevole: la vorrà dunque avere per sé anche il partito del governo, né questo sarà perciò sicuro segno che l' abbia. « Ma noi nel nostro sistema intendiamo che l' opinione pubblica debba essere la prima regola del governo, e che il governo non possa mai abbandonarla ». E che? dopo aver abolite tutte le obbligazioni della morale e della religione, vorreste forse imporre voi stessi al vostro governo un' obbligazione. Non si riderà di voi, come voi vi ridete della morale e della religione? Il vostro princìpio non ammette temperamento. Se al governo attribuite un' assoluta Autonomia, statevi dunque zitti, che il vostro sistema è qui tutto; non potete aggiungere una sola parola di più né una condizione; dovete lasciargli fare quello che vuole, perché se gli imponeste la più piccola obbligazione, già con questo gli avreste tolto l' Autonomia. Il voto delle Assemblee Parlamentari . - E` egli certo che le assemblee parlamentari rappresentino la nazione? - Tutto ciò che di più favorevole si possa dire delle assemblee parlamentari, si è ch' esse rappresentino la maggioranza della nazione. Ma se questa maggioranza si crede indipendente da ogni legge morale e religiosa, e se il solo arbitrio della medesima deve esser legge, che cosa se ne avrà se non la tirannia della maggioranza? e per poco che altri conosca la storia delle assemblee parlamentari, e abbia osservato che cosa possono produrre cotali macchine governative, si persuaderà della verità di quello che molti pubblicisti asseriscono, cioè che di tutte le tirannie la peggiore è quella della maggioranza. Le minoranze non possono essere protette che da una potenza morale: tolta dunque questa, e proclamato il princìpio, che il solo arbitrio e la sola Autonomia della maggioranza governi, le minoranze sono alla loro mercè, al loro capriccio. Niun avvilimento, niuna servitù, niuna oppressione è simile a questa. Il Sismondi non vede altro temperamento nei sistemi costituzionali, che lo spirito di una reciproca conciliazione. Ma dove si stabilisca in principio che il governo non riconosca altra autorità che la propria, e non dipenda da una legislazione superiore, qual è la morale e la religiosa; che conciliazione si può concepire? Quella sola tutt' al più per la quale colui che ha in mano il potere, vede riuscirgli utile ad accrescere o a conservare lungamente questo stesso potere, questo potere, dico, del tutto arbitrario. Ma la supposizione da noi fatta, che la maggioranza nel Parlamento rappresenti la maggioranza della nazione, non si verifica sempre, e ad ogni modo è un puro accidente che si verifichi. Non s' è trovata ancora una legge elettorale, che guarentisca questo risultato. Me ne appello agli uomini di Stato più perspicaci; i soli cangiamenti continui della legge elettorale, che si succedono a poca distanza l' uno dall' altro, e la critica che subisce ciascuno di essi, ben lo provano ad evidenza. E poi, nell' esecuzione, chi non sa che cosa voglia dire la lotta dei partiti? Fu detto che il governo costituzionale è la guerra incruenta: guerra certo, benché non sempre incruenta; ma appunto perché guerra, vince chi può più, e può più il partito più audace, più risoluto, quello che ha meno ritegni morali, il quale di solito è uno de' partiti estremi. Allora questo è la nazione, cioè quella nazione che si dice rappresentata da' Parlamenti. La verità si è, che non è punto la nazione, ma è un pugno di gente astuta e violenta, che espila a suo pro la nazione, che la lacera e la corrompe, e che tuttavia prende il suo nome e incorona questo bel nome usurpato con l' aureola d' un altro bel nome, usurpato pur esso e mentito, quello di libertà. Niuno dunque degli espedienti, che con abuso d' ingegno, si cercano o nell' equilibrio delle forze, o nei calcoli dell' utilità, o nella potenza dell' opinione, o nella numerosità di quelli che influiscono nelle deliberazioni governative, possono aggiungere un temperamento sufficiente alla Autonomia dello Stato, quando per Autonomia s' intenda un potere assoluto di far leggi, e di governare in un modo indipendente da ogni altra legge e autorità superiore, morale e religiosa. Questa Autonomia è dunque il nudo arbitrio, l' essenza stessa dell' assolutismo, la tirannia eretta in un sistema che da alcuni si chiama liberalismo. Che se poi a questa parola tanto di frequente adoperata di Autonomia si dà un altro significato, non saremo certamente noi quelli che la neghino allo Stato. Lo Stato, come qualsiasi umano individuo, in ogni sua operazione, come abbiamo già detto, deve proporsi, prima di operare, due questioni diverse, l' una riguardante la giustizia e la moralità, l' altra l' utilità. Questa seconda è di sua natura subordinata alla prima. Lo Stato, come qualunque individuo, non può fare cosa alcuna, che giudichi a sé utile, se prima non si sia assicurato che la cosa è onesta, e onesto il modo di farla. Prima si ascolti il consiglio di Aristide, e poi quello di Temistocle. Per attignere ciò che appartiene all' onesto, deve lo Stato accostarsi ad altri fonti, e ad altri per attignere ciò che è utile. Ora né questi fonti possono essere confusi insieme, né può essere confuso l' utile con l' onesto. Se si domanda che cosa sia l' onesto per tutti quelli che professano la Religione Cristiana Cattolica, che cosa sia l' onesto secondo i princìpii di questa religione, che sparse sull' onesto cotanta luce, che ne dilatò i confini, che lo innalzò sopra tutte le cose, e lo dichiarò quella sublime ed altissima potenza, da cui dipende tutta l' umanità e il fine di tutto l' universo, si avrà bene spesso una risposta diversa da quella che si otterrebbe risolvendo la domanda secondo altri princìpii meno perfetti e meno elevati. Certo un uomo che professasse il paganesimo, o un filosofo che professasse l' ateismo, vi dichiarerà cosa onesta quello che il figlio della Chiesa Cattolica e il discepolo di Gesù Cristo pronuncierà essere turpissimo e inonestissimo. Ora quello che a noi più di tutto interessa, si è di sapere che cosa sia onesto o inonesto, giusto od ingiusto, lecito od illecito, morale o immorale, per un cristiano cattolico. Questo si desume, sia dall' insegnamento scritto o tradizionale, sia dalla viva voce di quella autorità che ha istituito Gesù Cristo nel mezzo del genere umano e che si chiama Chiesa Cattolica. Rispetto dunque a questa dottrina, e rispetto a questa autorità vivente, e che persevererà nel mondo fino alla fine dei secoli secondo la promessa di Cristo, niun governo civile è autonomo. Tale è indubbiamente il dogma del Cristianesimo. Ma risoluta una volta questa questione dell' onestà, il governo civile, per tutto ciò che riguarda l' altra questione subordinata dell' utilità, ha una pienissima Autonomia. Che cosa dunque si dovrà dire di quelli i quali, come foste de' fanciulli, vogliono spaventarvi con la parola di teocrazia, quasi come con la befana? Ecco il discorso che vi tengono: « Volete far ritornare il mondo al medio evo: volete sacrificare i progressi della civiltà moderna: volete aggiungere al pastorale la spada: volete confondere le cose sacre con le profane: volete che il governo si renda schiavo dei preti... ». Ma dove mai correte con la vostra immaginazione riscaldata? Noi non vogliamo nulla di questo: noi non vogliamo confondere, ma distinguere: vogliamo distinguere quello che voi confondete: voi confondete il bene col male, l' onesto con l' utile, e noi vogliamo stabilire quella separazione che queste due cose hanno in natura: voi volete confondere i poteri, volete che il potere dello Stato giudichi ad un tempo dell' onesto e dell' utile, ed anzi che sacrifichi l' onesto all' utile; e noi vogliamo, che altro sia il potere che giudica dell' onesto, ed altro il potere che giudica dell' utile. L' onesto, essendo una cosa eterna e divina, non può avere per giudice altro che un' autorità divina, qual è quella istituita da Gesù Cristo nella sua Chiesa; l' utile poi, essendo cosa umana, può essere benissimo oggetto di un' autorità umana, qual è quella del governo civile; vogliamo quindi lasciare alla Chiesa il suo, e allo Stato il suo. E poi non siamo noi che stabiliamo questo: perché questi non sono altro che i princìpii della religione cristiana cattolica, e questi princìpii non li abbiamo inventati noi, né possiamo noi mutarli. Noi diciamo solamente una cosa di fatto, diciamo che tale è la dottrina necessaria e inevitabile della Religione Cristiana: tali per conseguente sono i princìpii di quelli, che professano questa religione. Non volete voi professarla? sarà questa un' altra questione: l' abbiamo già detto prima, che chi non professa la Religione Cristiana deciderà in altro modo le questioni che discutiamo: abbiamo detto, che un pagano e un ateo verrebbero ad altre conclusioni, così proporzionatamente un eretico. Non si tratta di convincervi che la Religione Cristiana Cattolica sia vera o falsa, perfetta o imperfetta: si tratta di sapere che cosa consegua logicamente, secondo i princìpii di questa religione, intorno all' Autonomia dello Stato; ed è indubitato, che consegue quello che abbiamo detto, cioè che lo Stato non ha punto né poco un' Autonomia assoluta, essendo egli obbligato di seguire intorno al giusto e all' onesto, in tutta la sfera che abbracciano queste parole, un' altra legge anteriore alla sua e un' altra autorità, che è quella di Cristo e della sua Chiesa. Se voi dite che questa dottrina è del medio evo, noi vi rispondiamo, che è di tutti i tempi; perché la dottrina di Gesù Cristo e della sua Chiesa è immutabile, e durerà sino alla fine del mondo; vi rispondiamo ancora, che fu certamente anche del medio evo questa dottrina, perché anche allora si professò la Religione Cristiana, ed essa fu quella che nel medio evo concepì, e più tardi partorì la civiltà europea, di cui noi godiamo. Il corso di questa civiltà non può dare indietro, e di questo è prova luminosa questo fatto, che ella resse al terribile urto di quella rivoluzione che scosse l' Europa negli ultimi anni del secolo scorso, nella quale gli atti dell' empietà, della barbarie, dell' impudicizia, e d' una inumana crudeltà toccarono gli ultimi eccessi. Dall' immondo vortice uscirono allora a nuova vita le idee pagane: si voleva far tornar il mondo indietro di venti secoli, distruggendo gli acquisti inapprezzabili che aveva fatto l' umanità per mezzo del Cristianesimo. Ma tutto indarno: la marcia trionfale di questo non si arresta per gli sforzi impotenti dell' orgoglio umano, come non si arresta il sole nel suo corso al gracidare delle ranocchie. Le sole menti più deboli vacillarono, e molte ce ne restano ancora di ammalate e di convalescenti. Voi dunque, signori miei, prendete un equivoco chiamando progresso della civiltà uno sforzo, com' era quella rivoluzione, di farla retrocedere; e prendete alcune dottrine tendenti a imbarbarire il mondo, come fossero le massime della civiltà stessa. E questa civiltà appunto, e il vero bene, il vero progresso dell' umanità, è quello che richiede che ogni governo civile e specialmente costituzionale sia sottomesso alle leggi della morale, e da queste sia temperato il suo potere. Né il governo civile potrebbe mai essere veramente sottomesso a tali leggi, se non ci fosse nel mondo costituita da Dio una autorità reale e vivente, atta ad insegnarle e dichiararle con ogni sicurezza, o non fosse da lui riconosciuta. Senza una tale autorità morale e spirituale, che contrabbilanci l' immensa forza bruta, accumulata in alcune mani, sieno queste poche o molte, non si sarebbe mai potuto rimediare all' incomodo gravissimo che trae seco di necessità un governo civile, cioè il pericolo della tirannia. Questo rimedio e questo mezzo di emendazione non fu trovato, né si poteva trovare avanti Gesù Cristo: quindi fino allora durò la burbanza dei superbi dominatori, e le tirannie e le oppressioni non ebbero misura. Ma il consiglio e l' intendimento di Gesù Cristo, secondo un divino decreto eterno, fu quello di provvedere e di soccorrere da tutti i lati e sotto tutti gli aspetti all' umanità che egli redimeva. Eresse dunque, egli che solo il poteva, un magistero e un tribunale altissimo di morale sopra la terra, a cui promise immancabilmente assistenza; e poi facendo entrare le nazioni nella sua Chiesa, le accolse a questa condizione, che i loro imperanti e i loro civili governi, ed esse stesse le nazioni intere ed i popoli i più potenti, rinati nel suo battesimo, piegassero la fronte e prendessero la legge della perfetta giustizia, umiliati a quel magistero e a quel tribunale. Così governi civili divennero giusti, onesti, mansueti, benefici, promovitori del bene di tutti, e questo è l' unico santissimo fondamento della civiltà e della libertà civile e politica. Fu provveduto in questo modo al povero popolo, provveduto ai deboli, a tutti; su questa via solamente sta il progresso civile ed umanitario, e sono possibili le costituzioni. Solo quelli che ripugnano ad una tale dottrina, qualunque sia il lenocinio delle loro parole, sono i nemici del progresso, della libertà, dell' incivilimento, i nemici pur troppo infaticabili dell' umanità, i veri autori e fautori della servitù e della tirannia. Accordiamo dunque ai governi civili anche noi, per dirlo di nuovo, la loro Autonomia, l' Autonomia nella sfera dell' utile, sfera subordinata a quella dell' onesto. E` dunque anche per noi, ed anzi per noi soli, interamente distinto il potere dello Stato e il potere della Chiesa. Il potere dello Stato è assoluto rispetto all' utile, che forma il suo fine immediato, ma a condizione che l' utile sia subordinato all' onesto. Il sacerdote non deve entrare, come sacerdote, punto né poco in questa sfera dell' utile, perché non è sua. Le due potestà dunque hanno i loro proprii oggetti distintissimi e inconfusibili: ma tuttavia subordinati. Questo non è soltanto conseguente ai princìpii della cristiana dottrina; ma, anche in sé stesso considerato, è razionale, vantaggioso, necessario all' umanità, e desiderabile che fosse vero, quando pure non lo fosse. Abbiamo escluso il sistema d' assoluta separazione dello Stato dalla Chiesa, come affatto inconciliabile con il Cattolicismo. Coloro che, lasciandosi governare dalla fantasia, si compiaciono di rappresentare lo Stato e la Chiesa come due pianeti che percorrono orbite diverse senza mai incontrarsi, non si dimostrano soltanto mancanti de' princìpii proprii della questione, per la soluzione della quale si consigliano di ricorrere all' astronomia, ma si chiariscono ugualmente imperiti di questa ultima scienza. Infatti per appigliarsi ad una similitudine di tal fatta conviene dire che del tutto ignorino come niuna parte del sistema planetario sia disgiunta o indipendente dall' altre, e come i pianeti non percorrerebbero le diverse loro orbite con tanta regolarità, se nel bel mezzo di essi non ci fosse il sole, che con la sua attrazione ne determinasse loro il corso, e nel debito ordine, aggirantisi a sé d' intorno, li mantenesse. Che due governi che abbiano sudditi diversi possano conservar l' indipendenza reciproca e una totale separazione di leggi e d' atti, questo certamente s' intende. Ma che due governi che hanno gli stessi sudditi possano imporre a questi, senza aversi alcun riguardo reciproco, varie leggi ed obbligazioni, negandosi che possano nascere collisioni, e supponendo in pari tempo che i sudditi, nel caso che nascano, possano ubbidire contemporaneamente ai due contrarii comandi, questo è così impossibile, che lo vedono gli stessi fanciulli. Conviene dunque lasciare da banda il sistema dell' assoluta separazione dello Stato dalla Chiesa; e poiché, lasciato questo sistema, rimane che lo Stato e la Chiesa devano procedere con una certa relazione armonica, resta che al presente cerchiamo quale deva essere l' armonia che accordi tra loro le leggi e gli atti de' governi civili, e le leggi e gli atti della Chiesa Cattolica. Circa questa questione sono stati inventati, e più o meno praticati, tre sistemi, che noi chiameremo, il sistema d' immistione , il sistema d' alleanza e il sistema d' organismo . Nel sistema d' immistione le due potestà si confondono: lo Stato entra in molte di quelle cose che appartengono alla Chiesa, la Chiesa in molte di quelle cose che appartengono allo Stato. Questo fonda sulla supposizione che ci sieno delle materie veramente miste. Altri negano che queste materie miste ci sieno, tra i quali monsignor Affre, il glorioso martire della carità pastorale. Noi siamo dell' avviso di quest' ultimo. Possono bensì i due poteri determinare qualche cosa intorno ad uno stesso oggetto, ma sempre sotto un rispetto diverso; ed essendo diverso il rispetto, la materia delle due legislazioni, formalmente considerata, rimane già con questo distinta. Non si può dunque erigere in sistema il principio, che una delle due potestà, deva di necessità immischiarsi in ciò che appartiene all' altra; e se così accade per mutua concessione, questo non deriva dalla natura intrinseca delle potestà stesse, e si dee riguardare siccome cosa transitoria ed accidentale, né mai può erigersi in sistema. Tuttavia se le materie non sono miste, sono talvolta affini per le due ragioni già toccate, cioè perché le due potestà impongono le loro leggi a sudditi identici, essendo un identico uomo il cattolico e il cittadino; e perché gli stessi oggetti, sotto rispetti diversi, possono dar materia alle prescrizioni dell' uno e dell' altro potere. E` dunque chiaro, che il tracciare la linea di confine delle due giurisdizioni riesce in alcuni casi difficile: di che la necessità che i due poteri entrino tra loro in amichevoli e coscienziose trattazioni, affine di accordarsi e convenire sulla separazione delle due materie distinte sì, ma quasi impercettibilmente tra loro: e di qui conseguentemente la necessità de' Concordati (1). Ma da questo stesso apparisce, che il sistema d' immistione non è punto necessario, potendosi sempre le materie delle due giurisdizioni, con più o meno di cura e di studio, distinguere e separare. E la distinzione d' altra parte è dimandata sì dalla natura dei due poteri, sì dall' ordine e dalla chiarezza con cui devono entrambi procedere, e giova oltremodo alla conservazione del loro buon accordo, in conformità del volgare proverbio: « Conti chiari, amicizia lunga ». Il secondo sistema, che si suol chiamare d' alleanza , è quello secondo il quale le due potestà si obbligano ad aiutarsi reciprocamente, di maniera che le disposizioni dello Stato riescano vantaggiose al fine della Chiesa, e le disposizioni della Chiesa riescano vantaggiose al fine dello Stato. Sebbene questo sistema abbia tutta l' apparenza di esser utile ad entrambe le potestà, tuttavia noi lo crediamo inapplicabile e l' escludiamo del pari, come abbiamo escluso il sistema d' immistione. E` certo, che se le due potestà si mantengono dentro i propri confini, la concordia loro è immanchevole, e dai loro atti risulta naturalmente a ciascuna un reciproco vantaggio. Ma lo stabilire questo reciproco vantaggio, come la materia di un trattato espresso o tacito d' alleanza, invece di lasciare che esso nasca da sé spontaneamente per la natura stessa della cosa, lungi d' accrescere questo vantaggio medesimo, lo diminuisce; e molte volte lo impedisce e genera di più il pericolo, che ciascuna delle due potestà, uscendo dalla propria via, che diritta le scorge al proprio fine, per far troppo e quello che non le appartiene, faccia meno, e per giovare all' altra imperitamente, noccia a sé medesima. La Chiesa Cattolica è stata istituita da Gesù Cristo per dirigere tutti gli uomini in questa vita alla loro perfezione morale, e alla beatitudine nell' altra, per insegnar loro a non peccare, ma in tutte le loro relazioni, come individui e come membri di qualunque società, osservare la giustizia, l' onestà ed ogni virtù, e perciò le è stata data l' autorità di giudicarli, se peccano, e d' ammonirli e di castigarli; se ritornano poi in sé stessi ascoltando le sue parole, d' assolverli in nome di Dio dai peccati. Tutte le cose temporali, secondo la dottrina cristiana, devono subordinarsi a questo altissimo fine morale; ed è indubitato poi, che, mediante questa fedele subordinazione, gli uomini in complesso vantaggiano anche temporalmente; non che questo sia un fine diretto della Chiesa, ma è stato promesso da Gesù Cristo come un soprappiù, quando ha detto: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » (2). » Laonde S. Paolo pure scrisse: [...OMISSIS...] Ma nel sistema d' alleanza si pretende che la Chiesa con le sue disposizioni influisca direttamente al bene dello Stato: almeno di questo sistema io parlo. Ora questo facilmente diventa un far servire le cose di un ordine superiore, come sono le religiose e le divine, ad un ordine inferiore; e questo è altamente riprovevole. Pure questo è quello che molti governi malavveduti, ostentando una falsa pietà, pretesero dalla Chiesa. Il sistema di questi governi conduce ai due funestissimi effetti, della corruzione del Clero, e dell' odio della religione da parte dei popoli. Se la religione fa direttamente e in proposito causa comune in tutto co' governi esistenti, egli è naturale che venga combattuta dai partiti e considerata anch' essa un partito politico, o come un istrumento politico. Allora essa non si presenta più ai popoli nella sua augusta maestà di religione e nella sua imparzialità e quasi impassibilità di giudice del bene e del male; ma travestita, ridotta negli angusti confini d' un interesse temporale, non più padrona del proprio giudizio, avente almeno l' aspetto di congiungere in sé le due qualità inconciliabili di giudice e di parte, è necessariamente presa a sospetto, disamata, disprezzata. In questo sistema d' alleanza, oltre di ciò, le scissure tra il potere temporale e l' ecclesiastico scoppiano all' improvviso e con maggior furore, come tra due alleati infedeli. Il governo pretende che la religione serva ai suoi interessi. Ma il governo talora è una usurpazione; l' usurpatore, quando è invalso questo sistema, pretende dalla Chiesa tutto ciò che pretendeva il governo legittimo. Posto che il governo sia legittimo, egli è certamente il giudice di quello che gli è utile e che gli è dannoso; pretendendo dunque di essere aiutato ne' suoi interessi dalla Chiesa, pretende di conseguenza, che la Chiesa riceva da lui la direzione, se l' assoggetta, esige che serva ai suoi capricci. Ma viene un tempo in cui la Chiesa non può, non vuole assolutamente farlo. Allora scoppia la scissura, ed anche la persecuzione: intanto il governo ha creato, per mezzo dei suoi uomini di legge, un diritto pubblico, in forza del quale egli vanta delle magnifiche ragioni, che hanno per base consuetudini o concessioni, o finalmente massime cavillose; e con un tale diritto fatto ad arte, insensibilmente introdotto, e già quasi riconosciuto, almeno in apparenza, vuol riconvenire la Chiesa del suo torto. Ma non regge questo sistema, neppur considerato da parte dei vantaggi che lo Stato si obbliga di recare alla Chiesa, mediante l' accennato trattato tacito o espresso di alleanza. Deriva bensì dalla natura del potere civile, che questo deve essere subordinato alla Chiesa nelle cose morali e religiose, in tutto ciò che riguarda il giudizio sul lecito o sull' illecito, ma non deriva nulla più di questo. Qualora il governo operi in modo che non entri mai con le sue leggi e disposizioni in niuna collisione coi giudizi e con le leggi della Chiesa, e che protegga i diritti religiosi de' cittadini, la Chiesa ne avrà vantaggio indubitatamente, ma in un modo indiretto. Se all' incontro il governo, oltre di tutto questo si propone di fare di più, eccedendo il suo mandato, nasceranno, almeno in certi tempi e in certe circostanze, molti incomodi sì per lo Stato, e sì per la Chiesa. Primieramente il governo civile non entra in questa via se non con la speranza e con la pretensione d' averne un ricambio corrispondente: vuole che i patti dell' alleanza sieno reciproci; e noi abbiamo veduto come ripugni alla natura della Chiesa il mettersi a disposizione dello Stato, ossia l' operare direttamente al fine di questo. Di poi lo Stato, occupandosi direttamente di un fine diverso dal suo, intorno al quale egli non è giudice competente, perde la sua naturale libertà e s' espone al pericolo di commettere molti errori, come s' è veduto, per parlare di cosa lontana, ne' governi teologizzanti del basso impero. Non è dunque migliore del precedente il sistema che abbiamo chiamato di alleanza, inteso in quella maniera nella quale noi l' abbiamo definito. Rimane il terzo, che abbiamo chiamato il sistema dell' organismo . Basterà esporlo brevemente per intendere, che esso è quello che nasce logicamente dalla natura delle due potestà, utile e decoroso ad entrambe e solo degno d' essere adottato. Questo sistema richiede che non rimangano confuse le materie soggette alle due giurisdizioni, e però esclude il sistema d' immistione: richiede che l' uno e l' altro potere conservi la sua libertà di operare dentro la propria giurisdizione, e però esclude il sistema d' alleanza. In altro non consiste tale sistema se non in questo, che i due poteri riconoscano ed osservino quelle relazioni fra loro, che escono dalla loro natura e non son sopraggiunte dall' artificio o dall' arbitrio, due cose che sogliono così facilmente alterare e guastare il bello e il perfetto ordine della natura. La natura de' due poteri, cioè la natura del potere della Chiesa istituita nel mezzo degli uomini da Gesù Cristo, e la natura del potere dello Stato istituito dagli uomini stessi che si aggregano in società civile, hanno di comune questo, che l' uno e l' altro potere intende ad unire e ad associare gli uomini. Associano gli stessi uomini in due società contemporanee e viventi sul medesimo territorio. Il potere della Chiesa unisce gli uomini in una gran famiglia di cui è capo Iddio, acciocché socialmente uniti, e con vari legami e mezzi interni ed esterni congiunti, tutti d' accordo, e ciascuno da sé, cooperino al bello e alla perfezione morale di ciascuno e di tutti. Il potere dello Stato, unisce questi stessi uomini in un altro modo e per un altro fine, che non impedisce l' altissimo fine della Chiesa: li unisce affinché abbiano tutela e regola i loro diritti reciproci, ed essi coesistano e convivano con sicurezza e pace e prosperità temporale tra loro. Egli è evidente, che questa seconda società con l' ottenere il proprio fine, lungi dall' arrecare nocumento, giova non poco alla prima società, cioè alla Chiesa di Gesù Cristo, che abbisogna di pace e di ordine e che desidera la felice e fraterna convivenza degli uomini. Ma di più è da considerarsi, che l' istituzione di questa seconda società, cioè della società civile, continua naturalmente e compisce l' opera della prima, considerata quest' opera come un' organizzazione dell' umanità. Infatti, la prima associa e organizza l' umanità relativamente alla sua perfezione morale. Ma l' umanità composta di spirito e di corpo, e bisognosa per la esistenza temporanea di mezzi esteriori, sente anche l' impulso d' associarsi e d' organizzarsi, per regolare pacificamente e col maggior vantaggio tutto ciò che riguarda tali mezzi, cioè i beni temporali; e questa è la ragione per cui ella si move ad istituire la società civile. Come dunque l' uomo è un individuo, così l' umanità, cioè l' unione degli uomini, aspira ad avere, propriamente parlando, una sola e individua organizzazione. Ma come l' uomo, benché individuo, è composto di due parti intimamente connesse, l' anima e il corpo, così parimente l' organizzazione dell' umanità risulta di due parti, che per la stessa natura della cosa hanno il più intimo nesso tra loro, e che si dicono la Chiesa e lo Stato, la società ecclesiastica e la civile. Queste società dunque, sebbene distinte e inconfusibili, non formano e non devono formare che una sola e perfetta organizzazione dell' uman genere. Ma l' uomo non poteva formare da se stesso la prima, la formò dunque il Padre del genere umano, Iddio: la formò Gesù Cristo, da lui mandato. La seconda società era tale, che poteva essere congregata dagli uomini, non eccedendo le loro forze: Iddio dunque ne abbandonò ad essi il lavoro. L' organizzazione della prima, cioè della società ecclesiastica, avendo per autore e capo Gesù Cristo, poté essere una e indivisibile per tutta l' umanità: la società civile, avendo per autori gli uomini stessi che si uniscono, ritenendo dell' imperfezione della causa, dovette dividersi in più governi o Stati limitati. E non di meno la Chiesa di Gesù Cristo nella sua magnifica universalità ed unità, onde riceve il nome di Cattolica, unisce nel suo seno e di nuovo organizza e moralmente avvincola i diversi Stati tra loro, formandone la Cristianità. Così, ordinati nell' umanità della Chiesa, anche gli Stati civili acquistano una specie di consacrazione, e partecipano in qualche modo di quella dignità che viene alla Chiesa dalla sua divina origine. Che se taluno sfugge ribelle, almeno per qualche tempo a questa mirabile armonica unione, non è da imputarsi il difetto dell' ideale disegno; ma parte alla malizia degli uomini che ricalcitrano al proprio bene, parte all' ignoranza che non lo intende o non lo abbraccia nella sua pienezza. Tale è indubbiamente la dottrina del Cattolicismo: né i Cattolici possono averne un' altra. Così s' avvera quello che disse San Paolo: « « Non c' è potere che non sia da Dio: ma i poteri che sono da Dio, sono ordinati » » l' ordinazione dei poteri è dunque un criterio dato dall' Apostolo, per riconoscere quali poteri si possono dire esser da Dio. Il sistema della totale separazione dello Stato dalla Chiesa, di cui noi abbiamo veduto l' erroneità e l' impossibilità, fu riprodotto sotto diverse denominazioni, tra le quali sotto una divenuta celebre, di sistema della legge atea . Questa questione nondimeno indica qualche cosa di più, perché esige che il legislatore civile, nel fare le leggi, non solo consideri come non esistente la Religione Cattolica, ma come non esistente in sulla terra né pure una religione qualunque. I fautori di questo sistema, sia che pretendano che il legislatore nella formazione delle leggi civili parta dall' ipotesi che non esista la Religione e la Chiesa Cattolica, sia che parta dall' ipotesi che non esista religione di sorta alcuna, il consigliano fondare le sue leggi sopra un errore di fatto , essendo un errore di fatto che tra gli uomini, pe' quali fanno le leggi, non esista religiosa credenza. Questa sola osservazione potrebbe sembrar sufficiente a dimostrare che il sistema della legge atea è contrario alla logica, alla ragion giuridica e al buon senso. Ed anzi sembra che non si possa trovare un pensiero più strano e più disordinato di questo, che le buone leggi devono essere basate sopra ipotesi, e queste erronee; e che il legislatore, per elevarsi al livello del presente secolo, sia obbligato a supporre che i fatti più luminosi e importanti dell' umanità e della società, uno de' quali è quello della fede religiosa de' popoli, non esistano punto. La cosa è così nuova, che riesce difficile fin anco a spiegare l' origine d' una teoria di questa fatta. E nel vero, per ispiegare come possa essere stata concepita, non basta né pure ricorrere all' ateismo dei suoi inventori. Poiché, se noi ci rivolgessimo a de' filosofi atei, ma del resto ragionevoli, e dimandassimo loro che cosa pensano d' un così fatto precetto che si dà ai legislatori civili, crediamo che ci risponderebbero: « Noi reputiamo che le religioni sieno de' meri pregiudizi, ma poiché esistono ed hanno profonde radici negli uomini, il savio legislatore dee avere ad esse quello stesso riguardo ch' egli ha alle altre condizioni di fatto in cui si trova l' umanità, agli altri istinti, passioni e forze interne, dalle quali gli uomini si lasciano movere e determinare alle loro operazioni ». L' ateismo stesso dunque, puro e solo, non avrebbe potuto inventare il sistema della legge atea. Che cosa dunque ci bisognava di più? Era necessario che all' ateismo si unisse l' odio della religione e degli uomini che la professano. Per quanto possa parere misterioso un tale sentimento, non se ne può negare l' esistenza in alcuni uomini, e solamente questa mostruosa passione è una causa sufficiente a spiegare come sia potuto cadere in mente umana il sistema della legge civile atea. La legge atea fa due cose: 1) Cancellando dai codici e dagli atti del governo ogni vestigio di religione, tende a distruggere tutte le religioni; 2) Venendo di necessità con la religione in frequente collisione, vessa e martoria tutti coloro che la professano. L' odio dunque della religione, che contiene in se stesso quello degli uomini, è lo spirito da cui uscì una tale dottrina. Ora l' odio d' Iddio e degli uomini non è per verità un felice ispiratore de' legislatori: l' odio di Dio e degli uomini non è quello che possa dare al legislatore un' intenzione retta che gli possa far conoscere e volere quel bene che è il naturale scopo della legge: ella è piuttosto una passione rea e truce, che perverte, agita, disordina la mente del legislatore medesimo, e in appresso lo rende subdolo, astuto, iniquo, sedizioso, traditore della società che gli è commessa, e che egli sacrifica alla sua irreligiosa passione. Il legislatore di questa scuola sta di continuo in sul timore che la secreta molla de' suoi atti sia discoperta; s' infinge e la ricopre con tutte le arti della simulazione e della ipocrisia. Egli di frequente ha in bocca questo già troppo vecchio sofisma: « Io non sono incaricato della religione, ma di procacciare con le leggi civili il bene temporale del popolo ». Il più leggero buon senso gli risponde: « Se voi non siete incaricato della religione, siete però obbligato a non recarle offesa: certo voi siete incaricato del bene temporale del popolo, ma a questa condizione, che badando al bene temporale non sacrifichiate ad esso quello che al popolo è ancor più caro, la sua religione ». Cotesti legislatori adunque sono sleali: secondo la loro passione irreligiosa interpretano il mandato ricevuto dal popolo contro l' intenzione del popolo. Sotto la coperta della massima « le leggi civili non sono leggi religiose », vi danno « leggi irreligiose ». Così è del tutto falso che cotesti legislatori prescindano dalla religione: anzi questa sta di continuo presente al loro pensiero: l' hanno presente, ma per distruggerla; e quand' essi vi parlano dello scopo d' un bene temporale puro e separato da ogni religioso elemento, rimangono convinti con ciò stesso, che nel formare in tal modo le leggi, il loro scopo è il progresso dell' empietà. La questione dunque svela così la sua indole: non si tratta più di sapere se la legge civile possa essere neutrale rispetto alla religione, neutralità che non esiste, ma si tratta di sapere se la legge civile deva essere religiosa ovvero irreligiosa, dovendo necessariamente e per natura della cosa aver l' una o l' altra di queste due qualità. Quest' origine del sistema che si dice della legge atea è confermata dalla storia. Le due grandi bandiere che dividono profondamente il genere umano, sono e sono sempre state la religione e l' empietà . Questo è un fatto umanitario che bisogna riconoscere e dargli tutta l' importanza che merita. Come non mancò mai una classe d' uomini cultori di Dio, così si perpetuò in sulla terra anche un' altra classe d' uomini che presero Iddio e le cose divine più o meno in odio, e con un' ira segreta o palese, che ha qualche cosa di portentoso e di oltrenaturale, cercarono con tutta la costanza e a forze unite, ogni qualvolta ebbero l' occasione e la possibilità d' unirsi, di propagare la propria empietà, aspirando a questo infernale intento, come al massimo de' loro desiderii, al più ardente de' loro voti. Quanto più l' umanità svolse di mano in mano le sue varie facoltà e propensioni, e con l' incivilimento divenne più molteplice e più scaltra nell' uso dei mezzi al conseguimento dei suoi fini, tanto più anche gl' inimici delle cose divine manifestarono d' astuzia e di potenza, e con associazioni e con sistemi sofistici tentarono di spingere avanti la malaugurata loro impresa. Di tutti questi sistemi sofistici, forse il più efficace, il più prudente e coperto, fu quello che essi applicarono al raffazzonamento delle società civili che dà materia alla nostra presente questione e fu chiamato la legge atea . Quello che è più singolare, e che dimostra come i sofismi possano allacciare anche delle menti non comuni e delle persone ben intenzionate, si è il fatto che alcune appunto di queste persone colte e sinceramente cattoliche abbracciarono e presero la difesa d' un sistema di tal natura; e a queste nostre parole non pochi forse si risovverranno d' un celebre giornale francese d' alcuni anni fa. L' inganno nasceva e nasce da questo, che tali persone suppongono sempre che la legge civile possa totalmente separarsi dalle cose religiose senza venire in alcuna collisione e contraddizione con le medesime. Ma questa è una supposizione interamente falsa, e che nasce da una imperfetta considerazione della legge civile, delle sue disposizioni e de' suoi oggetti. Non basta partire da una notizia astratta e confusa della legge civile: conviene vedere da vicino come ella è, conviene esaminarne con diligenza la natura. L' illusione infatti si dilegua, tostoché si considera la legge civile nella sua integrità, e fornita di tutti i suoi elementi essenziali. Quando dunque si medita sulla vera e compiuta indole della legge civile, allora si perviene ad una conclusione del tutto contraria alla precedente, la quale è questa. « Niuna legislazione civile può riuscire indifferente alle credenze religiose, ma sempre e necessariamente, in qualunque modo ella si faccia, riesce o amica o nemica alle medesime ». La verità di questa proposizione apparisce manifesta, tanto se si considerano le disposizioni che è obbligata a prendere la legge civile, quanto se si considerano gli oggetti , intorno ai quali ella non può astenersi dal disporre. 1) Infatti supponiamo prima, che la legislazione civile si possa astenere e si astenga dal disporre cosa alcuna riguardante la religione, s' astenga dallo stabilire premii o castighi all' osservanza o all' inosservanza di religiosi doveri: che si restringa ad oggetti puramente temporali, la difesa personale, l' ordine pubblico, la tutela delle proprietà e cose simili. Questa legislazione riuscirà essa per ciò indifferente alle religiose credenze? E` facile accorgersi che né pure una tale legislazione sarà indifferente, ma riuscirà anch' essa necessariamente o amica od ostile alle medesime. Restringiamo il nostro discorso per intanto alla Religione Cattolica. Egli è evidente che gli autori d' una tale legislazione nel compilarla hanno potuto prendere per loro norma due princìpii diversi, cioè o il princìpio « di prescindere dalla Religione Cattolica, come se non esistesse al mondo »; o il princìpio « di restringersi bensì agli oggetti non religiosi, ma di stare avvertiti nello stesso tempo che le disposizioni della legge intorno ad oggetti di natura temporali non vengano in alcuna collisione con la Cattolica Religione ». Ora egli è del pari evidente a chi alcun poco riflette, che nel caso che in compilando la legge avessero preso per loro norma il primo di questi due princìpii, la legge da essi formata sarà una legge ostile alla Religione Cattolica, attese molte collisioni che diverse delle sue disposizioni verrebbero indubbiamente a produrre con la medesima, le quali non si possono evitare se non da que' legislatori che se le propongono espressamente; nel caso poi che i detti legislatori avessero abbracciato per loro norma il secondo princìpio, col quale appunto si propongono d' evitarle, la legge uscita dalle loro mani sarebbe amica alla medesima religione. Tanto l' una quanto l' altra di queste due legislazioni, create secondo le due diverse ipotesi che abbiamo accennato, sarebbero limitate alla sfera di oggetti puramente temporali, escludendo tutti quelli che fossero di natura religiosa. Pure la prima riuscirebbe una legge atea: non così la seconda, perché questa anzi avrebbe un continuo riguardo alla religione, e si sarebbe composta ed ammodata ad essa per non urtar da nessuna parte con le prescrizioni della medesima. Quand' anco dunque si conceda che ci sia una sfera d' oggetti propri della legislazione civile che non hanno natura d' oggetti religiosi, e quindi che ci possa essere una separazione tra oggetti non religiosi e oggetti religiosi, rimane ancora ad esaminare se le disposizioni che dà la legge intorno ad oggetti non religiosi vengano o non vengano a collidersi con la religione medesima. Se tali disposizioni intorno ad oggetti non religiosi non arrecano collisione alcuna con le leggi della religione, in tal caso, come dicevamo, la legge non è indifferente; ma è da collocarsi tra le legislazioni amiche. Se poi ella trae seco qualche reale collisione, in modo che non si possa eseguire ad un tempo la legge civile e quello che la religione prescrive, in tal caso ella è ostile e nemica alla religione epperciò né pure in questo caso è indifferente. Si dirà forse, da chi considera poco addentro la materia, che qualunque sieno le disposizioni che fa la legge civile intorno ad oggetti non religiosi, queste disposizioni non possono venir mai in collisione con la religione. Ma questo è un manifesto inganno. E l' inganno nasce di qui, che non si considera che la Religione Cristiana Cattolica per la sua stessa essenza non si restringe già alle cose interne e spirituali, ma riguarda e prescrive molte cose esterne e corporali: tali, a ragion d' esempio, sono i Sacramenti e il sacrificio: tale la gerarchia de' Pastori e tutto il loro governo disciplinare, del quale almeno una parte è certamente essenziale: ci sono case, luoghi, persone e azioni sacre, e anzi tutte le azioni tanto interne quanto esterne degli uomini sono regolate dalle leggi e dai precetti della Religione Cristiana, e ciò perché questa non è già una religione da burla o di mera cerimonia, come vorrebbero farla credere i suoi nemici, ma è una compiuta legislazione e istituzione di Dio per la perfezione morale dell' uman genere. Per questo fra l' altre cose, Gesù Cristo ha riservato alla sua propria autorità il vincolo che stringe la società domestica, cioè il matrimonio, rendendolo cosa sacra con l' elevarlo alla dignità di Sacramento. A chi negasse queste cose non si potrebbe rispondere altro se non: « Informatevi, si tratta di un semplice fatto che ben potete verificare; la Religione Cristiana esiste; i suoi Pastori la insegnano; fatevi dunque ad ascoltarli ed interrogateli, e tantosto vi persuaderete di tutto ciò ». E` dunque cosa evidente che la legislazione civile, anche in quelle sue disposizioni che riguardano oggetti puramente esterni e materiali e per sé considerati non religiosi, può venire in gravissime collisioni con la Religione Cattolica. E questo conviene che avvenga di necessità ogniqualvolta il legislatore nella formazione delle leggi segue il principio « di non badare affatto a niuna credenza religiosa come se non esistesse ». 2) Noi abbiamo supposto che i legislatori civili si astengano nelle loro leggi da tutti affatto gli oggetti religiosi e si restringano a disporre unicamente intorno a cose di natura loro temporali. Ma è ella possibile una tale supposizione? Si trovò mai o si trova al mondo una legge civile che abbia potuto essere coerente a questo principio? Quelli che lo affermano prendono il più grossolano equivoco. Essi vi dicono: gli oggetti religiosi non sono di competenza del potere civile, e per ciò niuna disposizione della legge civile dee ricordare tali oggetti. Il principio è vero, ma la conseguenza è falsa. E` vero che gli oggetti religiosi non sono di competenza della civile autorità, ma è falso che la civile autorità possa astenersi dal fare delle disposizioni intorno ai medesimi. Solamente che ella o può fare tali disposizioni in armonia con la Religione, o in disarmonia con essa: ecco il bivio dove conviene scegliere. Spieghiamoci, e la cosa riuscirà chiarissima. Che cosa vuol dire: gli oggetti religiosi non sono di competenza della civile autorità? Vuol dire che la civile autorità non può giudicare intorno ad essi, non può fare che sieno diversi da quel che sono, non può cangiarli; deve prenderli come un fatto esistente; riconoscerli come si riconoscono i fatti che si producono indipendentemente dal civile potere: la sola testimonianza di quel corpo che professa una religione, cioè dell' autorità religiosa che in quel corpo si trova, è atta a determinare quale sia questa religione, quali i suoi dogmi, quali i suoi precetti, quali le sue pratiche obbligatorie. A questa testimonianza deve ricorrere il governo per conoscere la Religione di cui si tratta, in tutte le sue parti. Questo vuol dire non essere gli oggetti religiosi di competenza del governo civile: il principio dunque è vero. Ma ne viene forse da ciò che il governo civile possa astenersi dal dare qualunque disposizione intorno a tali oggetti religiosi? Il credere questo è soltanto proprio di quegli uomini superficiali, che, rimanendo nel mondo dell' astrazione, giudicano di quelle cose che appartengono al mondo concreto, e che sembrano persuadersi che sieno sufficienti gli astratti a regolare le cose dei concreti; ben inteso che quando ci mettono le mani essi, sono i primi a cadere nelle più aperte contraddizioni con il loro principio. Infatti il governo civile mancherebbe al fine della sua istituzione, se interdicesse a se stesso la facoltà di fare qualunque legge, e di prendere qualunque disposizione intorno ad oggetti religiosi. Vediamolo brevemente. a ) In primo luogo egli è indubitato, che il fine del governo civile abbraccia tra l' altre cose la tutela di tutti i diritti de' cittadini. Il diritto altro non è che la facoltà di operare quello che è lecito ed utile: quello poi che è obbligatorio è al sommo lecito, è al sommo utile per tutti coloro che hanno una morale e una coscienza. Laonde la libertà di coscienza abbraccia i più preziosi ed i più sacri fra i diritti. A questa classe appartengono i diritti religiosi. Se dunque il governo civile ha indubitatamente per suo fine la tutela di tutti i diritti dei cittadini, molto più de' principali che sono i religiosi. Se dunque egli è obbligato di provvedere alla tutela di questi diritti, conviene che le sue leggi e le sue disposizioni abbiano anche per loro materia degli oggetti religiosi, tali essendo i diritti di cui parliamo (2). b ) In secondo luogo, come certe disposizioni intorno ad oggetti puramente temporali possono venire in collisione con la Religione; così certe pratiche ed atti religiosi che all' esterno si manifestano, possono avere degli effetti temporali intorno ai quali debba disporre il civile potere. Ora quantunque questi effetti, presi da se stessi, appartengano all' ordine temporale, tuttavia essi sono connessi indivisibilmente con la loro causa religiosa, ed esistono quando questa è posta, non esistono se questa non è posta; e la stessa causa religiosa di tali effetti, può esser posta in diversi modi, anche senza che ne soffra la Religione. A ragion d' esempio nasce una pestilenza. A giudizio dei medici l' adunarsi il popolo in chiesa produrrebbe l' effetto di una maggiore mortalità: il governo lo proibisce per tutelare la vita de' cittadini. Il fine è temporale, ma l' oggetto di cui dispone, cioè l' adunanza sacra, è religioso. D' un oggetto religioso può anche abusare la malizia umana a danno del governo: il governo civile viene a conoscere che è ordito un tumulto popolare in occasione d' una sacra pompa; egli ne proibisce l' effettuazione: dispone di un oggetto sacro per un fine temporale. Si può dire ugualmente d' infinite cose. E` dunque impossibile, che il governo civile non prenda delle disposizioni riguardanti oggetti religiosi, per la intima connessione che questi talvolta hanno con altri oggetti temporali, intorno ai quali il governo civile può e deve disporre. Da questo si rende manifesto quanto sia erronea l' asserzione di coloro che affermano, che il governo può prescindere con le sue leggi e con le disposizioni da qualunque oggetto e da qualunque riguardo religioso. Quelli che spacciano una sì strana proposizione, contraria al fatto che tutti i governi restringerebbero il potere governativo entro confini assai più angusti di quelli che gli assegna il diritto: poiché verrebbero a sottrarre alla sua potestà non solo le cose riguardanti la religione, ma anche innumerevoli oggetti ed effetti temporali, co' quali le cose religiose sono intimamente connesse. Eppure (prescindendo da alcuni che non intendono affatto la questione di cui si tratta, e sono ignoranti sotto sopra di buona fede) gli altri che spacciano una tale teoria come un acquisto della moderna civiltà sono lontanissimi dal pensiero di restringere entro troppo brevi confini l' autorità del potere civile, che anzi sono appunto quelli che la dichiarano indipendente da ogni altra autorità. Costoro dunque non sono in buona fede, e quando vi dicono che il legislatore civile può prescindere dalla Religione, e la legge deve essere atea, adducendo per ragione di questo, che il civile governo non ha per suo oggetto la Religione o le cose religiose, essi non intendono già di dire che il governo e la legge civile devano veramente lasciar da parte tutti gli oggetti religiosi; ma intendono che il governo e la legge civile devano disporre di tutto, tanto degli oggetti profani quanto dei religiosi, considerandoli tutti come oggetti egualmente profani, e di conseguenza disporne senz' alcuna riverenza alla religiosità dei medesimi. Ora questo sistema, che è quello che domina in alcuni Stati d' Europa (benché non del tutto, perché del tutto è impossibile), questo sistema, che in altri Stati si vuole al presente introdurre, magnificandolo come un gran progresso di civiltà, è quello appunto che non solo suppone, dicevamo, l' ateismo nell' animo dei suoi autori; ma di più l' odio della Religione, e lo spirito di proselitismo all' empietà: poiché c' è indubitatamente anche un proselitismo di questa sorte. L' ateismo, per vero dire, si può speculativamente concepire sotto la forma di indifferenza religiosa. E quando non ci fosse nell' animo che un ateismo senza odio, rimarrebbe ancora nella mente sufficiente calma per intendere che il governo civile, secondo la sua istituzione e il suo proprio vantaggio, è obbligato a far leggi, e prendere disposizioni tali che non osteggino la religione dei cittadini, è obbligato di più a difendere i loro interessi religiosi. Ma se insieme con l' ateismo domina nel cuore di tali filosofi politici l' odio, come dicevamo, della Religione, questa terribile passione non calcola più né quel che deva fare il governo né quel che sia utile a se stesso o alla nazione, non calcola e non cerca altro, che di ottenere la propria soddisfazione. E la propria soddisfazione giace nella distruzione d' ogni Religione, nella estinzione nel mondo d' ogni sentimento religioso, nel regno sognato dell' ateismo. Secondo l' ardente brama e il cieco giudizio di costoro, questo è l' apice, questo l' ideale del progresso civile. Uomini animati da un sentimento infernale, formolarono questa teoria già da due secoli nel celebre « Tractatus theologico7politicus » (1670), divenuto poi il manuale delle società segrete e degli stessi gabinetti. Essi videro che il più potente istrumento per annientare la religione ed estinguere il sentimento religioso nelle nazioni, era il governo civile. Diedero dunque forma al loro concetto di una teoria politica. Nello stesso tempo che diffusero le massime di cui questa teoria si compone tra i popoli, adulandoli ed eccitandoli a scuotere ogni giogo, s' impossessarono di molti uomini di governo, e, per mezzo di essi, introdussero ne' consigli de' regnanti le stesse dottrine in forma di massime politiche, adulando al pari gl' imperanti, ed eccitandoli ad esercitare il potere più assoluto e più indipendente da ogni religione e da ogni morale. Tale è la teoria che si riassume nella parola premessa a questo articolo: La legge atea . Il sistema, come risulta da ciò che dicevamo, ha due facce, l' una onesta, ed è quella dalla quale si presenta quando coloro che lo insegnano lo espongono così: « Noi rispettiamo la religione e desideriamo che ella fiorisca, ma crediamo che la civiltà dei tempi esiga che il governo civile nelle sue leggi e nelle due disposizioni faccia astrazione da ogni religione, lasciando alle convinzioni particolari di praticare quella che ciascuno scieglie liberamente, o nessuna ». Udendo queste parole accompagnate da tali proteste, alcuni che non esaminano più avanti, sono presti a dire: la cosa è ragionevole: questo sistema non osteggia niuna religione, le lascia tutte libere, e però è il sistema della vera libertà. Ma se invece di questa faccia fraudolenta è la vera e propria faccia del sistema, quella che lo fa conoscere, noi avremo il sistema medesimo tradotto in questa altra forma più esplicita: « Il governo e la legge civile devono disporre di oggetti tanto profani quanto religiosi; ma con il pretesto che egli non è incaricato che di provvedere a un fine profano, deve riguardare come fossero profani anche gli oggetti religiosi, e però non deve prestare alcuna attenzione alle collisioni che le sue leggi e le sue disposizioni incontrassero con le religiose credenze ». Ridotto a questa formola più chiara e più vera della precedente, svanisce dal perfido sistema la lode che gli si attribuisce, di favorire la libertà religiosa, ed è messo pienamente al nudo il suo vero fine, quello di stabilire nella società l' ateismo. Infatti abbiamo veduto: 1) Che le disposizioni delle leggi civili, anche quando riguardano oggetti puramente temporali, possono venire in collisione con la Religione; 2) Che le leggi civili dispongono necessariamente diverse cose intorno ad oggetti religiosi; 3) Che dunque sotto il nome di legge atea non si può intendere né che la legge civile sia priva d' ogni relazione con la Religione, né che la legge civile s' astenga del tutto dal disporre qualche cosa intorno ad oggetti religiosi, perché l' una e l' altra cosa è impossibile. Rimane dunque che il sistema della legge atea non abbia altro significato se non questo che dicevamo, cioè che quantunque la legge civile abbia molta relazione con la Religione, e disponga anche d' oggetti religiosi, tuttavia ella non deve avere riguardo alle collisioni che ella involgesse e producesse con le religiose credenze. Egli è evidente, che i legislatori che fanno tali leggi, se si vogliono supporre coerenti a se stessi, non solo si mostrano atei indifferenti, ma le loro leggi sono un monumento d' odio e di disprezzo di ogni religione, essendo fatte quelle leggi con questo sentimento e secondo la massima, che la religione dei cittadini non meriti il più piccolo riguardo, e non sia cosa degna di alcuna riverenza. Il che suppone certamente l' odio e l' intento di abolire la Religione. Senza quest' astiosa passione la mente tranquilla del legislatore intenderebbe, che le cose che i cittadini hanno più care e preziose, quali sono le religiose, non solo vanno rispettate e non offese, ma anco protette; e che questo è un dovere e un vantaggio ad un tempo del governo. Onde non si può spiegare come un governo civile metta sotto i piedi i propri doveri, e sacrifichi i proprii vantaggi, se non supponendo che la passione irreligiosa l' acciechi e gli tolga il giudizio, oppure che pecorescamente vada dietro agli scaltri maestri della irreligione, che sanno così ben lusingare la vanità filosofica di tutti quelli che sono al potere. Ma è dunque vero che un tale sistema lasci, come si dice, alle convinzioni private il praticare quella religione che a ciascuno più piace, e però che questo sia il sistema della libertà religiosa? Se le disposizioni governative e le leggi non venissero mai in alcuna collisione con le religiose credenze dei cittadini, la cosa potrebbe passare; se poi accade appunto il contrario, ell' è una menzogna. Ora noi lo vedemmo: le leggi e le disposizioni governative non possono evitare tali collisioni, se non a condizione che il legislatore abbia un continuo riguardo, nel formarle, alle stesse credenze religiose, e le rispetti ammondando ad esse le proprie leggi. Il che è appunto proprio quello che non si vuole dagli autori del sistema che discutiamo, i quali prescrivono anzi, che la legge civile proceda così franca e così indipendente, da non badare a qualunque collisione possa insorgere tra lei e la religione dei cittadini. Le collisioni sono dunque inevitabili tra le leggi di tali governi e la Religione. E se queste collisioni devono indubitatamente essere frequenti, come ci può essere libertà religiosa sotto una legge che osteggia e cozza con la religione professata dai cittadini? La libertà religiosa importa tre cose: 1) Che la propria religione rimanga incolume in tutte le sue parti, e da tutti rispettata; 2) Che ognuno possa soddisfare ai propri doveri religiosi e agli spontanei movimenti della sua pietà, senza che per questo motivo venga a patire molestia o vessazione alcuna; 3) Che nessuno possa violare i diritti reciproci che vengono in conseguenza della Religione agli occhi di quelli che la professano. Ora quando la legge civile non si dà alcun pensiero di evitare le collisioni con la Religione, come vogliono i filosofi politici di cui parliamo, essa offenderà indubitatamente la libertà religiosa dei cittadini sotto tutti tre questi aspetti. Poiché, ora distruggerà qualche parte della Religione, ora metterà qualche impedimento al libero esercizio di lei, ora renderà impossibile ai fedeli la conservazione dei proprii diritti reciproci, quali vengono loro assegnati dalla Religione. In tutti questi tre casi c' è tirannia della legge, oppressione, e non libertà religiosa. Tutto questo è contrario all' istituzione ed alla natura del governo civile; per ciò stesso è contrario alla stabilità dei governi. Infatti ricorriamo all' origine giuridica del governo civile. Egli è indubitato che il governo civile nasce da una specie di mandato che una o più persone ricevono dal popolo, cioè dai padri di famiglia, col quale mandato sono investite della potestà civile (3); è indubitato che tale mandato esprime e determina i limiti di questa potestà. Ora i padri di famiglia hanno una religione, e la religione è riguardata da quelli che la professano come la più preziosa e la più importante di tutte le cose che si possedono. E` egli dunque presumibile, che questi padri nel loro mandato impongano alle persone a cui affidano il governo la obbligazione di comporre e promulgare una legislazione atea? Il che viene a dire: E` egli presumibile, o piuttosto è possibile, che quei padri di famiglia, istituendo un governo, dieno ai futuri governanti un mandato espresso sostanzialmente in questo modo: « Noi padri di famiglia vi incarichiamo di farci delle leggi, in modo che sieno tutelati i nostri diritti temporali, e che sorga fra di noi la prosperità di tutti i beni materiali. Per riguardo poi alla nostra religione, la quale c' è più cara della vita, vi dispensiamo intieramente dal proteggerla; ve ne facciamo anzi proibizione, e vi diamo ampia facoltà di far leggi contrarie alla medesima; di distruggerla tutta, o quella parte che voi crederete; di vessarci o di molestarci in conseguenza della legge atea che ci farete ogniqualvolta noi soddisferemo ai nostri doveri religiosi o alla inclinazione della nostra pietà in opposizione alla detta legge; di manomettere i nostri reciproci diritti religiosi, il che vi sarà facile parimente di fare promulgando delle leggi che esse stesse li infrangano, e che proteggano tutti quelli che li vorranno infrangere? ». Sarà dunque questa la voce dei padri di famiglia che istituiscono il governo civile? Questa la volontà del popolo? Questo il mandato che hanno ricevuto i governi esistenti, dal quale mandato essi stessi riconoscono il loro potere, sopratutto quelli che si dànno il vanto d' essere governi popolari? Si può rispondere evidentemente di no. Ci può essere sicuramente qualche ateo tra i padri di famiglia, ma la massa non è mai atea, le nazioni non sono atee: molto meno le nazioni cristiane e civili. Il sistema della legge atea dunque contraddice direttamente al mandato che hanno ricevuto i governi dai popoli; insegna loro a operare in opposizione a questo mandato, e così rompere la fede ai loro mandati, e infrangere (per usare le frasi d' un Sommo Pontefice) (4) il patto sociale, e in una dottrina così insensata ed immorale si fa consistere la civiltà e la luce del secolo. Intanto i governi risicano la propria esistenza, e nella turbazione delle pubbliche cose essi stessi sono reputati sediziosi. Trattando la questione precedente, abbiamo osservato, che il legislatore civile non può astenersi dal prendere alcune disposizioni intorno ad oggetti religiosi: uno di questi è il matrimonio. Di conseguente il legislatore dovrà scegliere tra quei due partiti che soli gli rimangono, come abbiamo dimostrato, cioè o di usare la cautela, dettando queste sue leggi intorno al matrimonio, di non far nascere nessuna collisione tra il disposto dalle sue leggi e la religione, ovvero di non fare alcuna osservazione a ciò che la religione stabilisce, il che conduce per inevitabile conseguenza a stabilire delle leggi che lottano col princìpio religioso e con la religiosa coscienza de' cittadini. Questo secondo è il sistema della legge atea, il primo è il sistema favorevole alla Religione: la legge civile, come abbiamo provato, in qualunque maniera sia dettata, non può riuscire indifferente, conviene per necessità della cosa che sia o pia od empia. Vero è che alcuni signori, di quelli che si dicono del giusto mezzo, hanno proposto come componimento amichevole di fare una legge sul matrimonio che fosse mezzo pia e mezzo empia: le leggi che si volevano introdurre in Piemonte erano appunto di questo tenore, ma il buon senso, non meno che la Religione piemontese, resero vani fin qui gli sforzi di questi incivilizzatori del giusto mezzo. Fra le ragioni che adducevano per difendere l' opera mezzanamente empia del governo, c' era questa, che si negava addirittura che il matrimonio fosse un oggetto religioso. Ma l' argomento era sciancato da due parti. Infatti, se l' oggetto del matrimonio è profano, que' diversi progetti di legge peccavano di grosso, perché lo facevano sacro; e se il matrimonio è sacro, que' progetti di legge peccavano di grosso ancora più, perché lo facevano profano. Il giusto mezzo infatti è uno di que' sistemi che non trovò mai un' argomentazione a suo favore che non possa essere ancora rivolta contro di lui. Del rimanente il decidere che il matrimonio sia un argomento profano sembra una corbelleria fino che non si sa chi decide così, poiché è necessario prima di tutto sapere, come si possa conoscere, se un argomento sia sacro o sia profano. Per arrivare a saperlo, interrogheremo noi quelli che non professano nessuna religione? Sarebbe assurdo, che è ben facile intendere che per coloro che non hanno religione d' alcuna sorte non ci sono oggetti sacri, ma son tutti profani. Interrogheremo noi di quelli che asseriscono di avere una religione, ma una religione che si compongono da se stessi sull' autorità della propria ragione e del proprio senso? Neppure: perché è certamente in arbitrio di costoro di fare e disfare gli oggetti religiosi una o più volte al giorno. Lasciando dunque da parte anche queste religioni individuali (se pur meritano un tal nome) interrogheremo noi le religioni stabili, professate costantemente e immutabilmente da una comunità di persone. Supponiamo che tra queste ce ne fosse una che non annoverasse tra gli oggetti sacri il matrimonio, e ce ne fosse un' altra che lo annoverasse tra gli oggetti sacri. In tal caso, rispetto a tutti quelli che professano la prima di queste religioni, il matrimonio sarà profano; e rispetto a tutti quelli che professano la seconda, il matrimonio sarà un oggetto sacro. Si vede dunque che l' essere sacro o profano un oggetto, è una qualità relativa alle diverse religioni; e che se una data religione riconosce tra gli oggetti sacri che gli sono proprii il matrimonio, questo, relativamente a quella religione, sarà sacro, e niuno lo potrà rendere o dichiarare profano. Non è dunque posto nell' arbitrio né degli uomini di legge, né degli uomini di Stato lo stabilire se un oggetto sia sacro o profano; ma questo giudizio appartiene essenzialmente alla Religione medesima; e se la Religione, cioè l' autorità religiosa, dichiara che un oggetto è sacro, niuno può dire il contrario relativamente a quella Religione. Ora tra gli oggetti sacri della Religione Cristiana Cattolica c' è appunto il matrimonio, il quale non solo da questa, che è l' unica vera Religione, si dichiara sacro, ma di più Sacramento. Onde per tutti quelli che riconoscono questa per la vera religione, il matrimonio è assolutamente e non già relativamente cosa sacra. Ma qui entrano in campo i signori del giusto mezzo con nuovi argomenti. In primo luogo dichiarano, che essi non negano punto al matrimonio la qualità di sacro, ma che esso nello stesso tempo è anche profano: è un oggetto che ha le due qualità di essere sacro e di essere profano ad un tempo. La sottigliezza di cotesti ingegni è maravigliosa. Che cosa significa profano? Apriamo il vocabolario, e troviamo: non sacro. Il matrimonio dunque di costoro è sacro e non sacro nello stesso tempo! Or qui, per evitare questa troppo aperta contraddizione, o piuttosto per velarla, mettono mano alle distinzioni. Noi non diciamo, dicono, che il matrimonio sia sacro e non sacro sotto lo stesso aspetto: è sacro come Sacramento, ma non è sacro come contratto. - Così dicendo, essi si sono dimenticati il criterio che abbiamo poco prima stabilito per conoscere se un oggetto sia sacro o profano. Noi abbiamo detto, che non c' è altra via per saperlo se non quella d' interrogare la Religione, e nel caso nostro la Religione Cattolica. Poiché se la Religione è quella sola che può dire se un dato oggetto sia sacro, ella sola può anche dire, di necessaria conseguenza, sotto quale aspetto quell' oggetto sia sacro. Ora la Religione Cattolica ci dice nello stesso tempo e che il matrimonio è sacro, e che è sacro come contratto, perché il matrimonio non è altro che contratto, ma contratto sacro. Quando dunque i signori del giusto mezzo gravemente ci dicono, che il matrimonio è profano come contratto, ed è sacro come Sacramento, altro non fanno che separare dal contratto matrimoniale la qualità di sacro, mentre la Religione Cattolica gliela unisce. Poiché il Sacramento non è altro che la qualità di sacro, di cui gode, per giudizio della Chiesa Cattolica, e per istituzione di Gesù Cristo, il contratto matrimoniale. Si arrogano adunque con la loro distinzione l' autorità di decidere quale sia l' oggetto sacro e come sia sacro; mentre abbiamo veduto, che nessuno può decidere questa questione se non la Religione stessa, dalla quale viene che un oggetto sia sacro. Caduta questa, eccoci in campo un' altra distinzione, sgraziatamente non meno sofistica della prima. Vi dicono: Accordiamo che nel matrimonio ci sia un contratto sacro, ma aggiungiamo che ce n' è anche uno profano: il matrimonio non è un contratto solo, ma è due contratti; l' uno è ecclesiastico, e l' altro civile. - Sarà ben difficile concepire una simile distinzione: qual più contraria al senso comune? Chi può pensare che un uomo, il quale abbia contratta un' obbligazione mediante un contratto, possa contrarre la stessa obbligazione mediante un altro contratto, di maniera che la stessa identica obbligazione possa esser prodotta da due diverse convenzioni? Poiché il matrimonio alla fine non è che un' obbligazione reciproca, che nasce pel consenso dei contraenti. Ci vorranno dunque due consensi, e non basterà uno solo per fare il matrimonio! Se uno di questi consensi è valido, cioè esso produce l' obbligazione, a che cosa servirà l' altro consenso? E se uno di questi due consensi non è valido, cioè se non produce l' obbligazione, sarà egli un consenso o un contratto? Se dunque è assurdo immaginare due consensi nel matrimonio e due obbligazioni, del pari è assurdo immaginare due contratti. Ma siamo giusti: tra i fautori del così detto matrimonio civile ce ne sono de' meno irragionevoli dei precedenti, i quali abbandonano la pluralità dei contratti per uno stesso matrimonio. De' quali alcuni vi dicono, che non c' è altro contratto del matrimonio fuori del contratto civile, il quale è materia esclusiva della legislazione civile. Altri vi dicono, che l' unico contratto matrimoniale è il naturale, ma questo poi deve essere rivestito delle formalità ecclesiastiche, acciocché sia riconosciuto valido dalla Chiesa, e deve essere rivestito delle formalità civili, acciocché sia riconosciuto valido dallo Stato; di maniera che, secondo questi, ci sarebbe un contratto valido di matrimonio benché la Chiesa e lo Stato nol riconoscessero per tale; e quando si dice contratto valido, si dice certamente contratto obbligatorio, che se non indicasse obbligazione, non sarebbe punto un contratto. Ebbene, per quanto vadano costoro errati nelle loro opinioni, quello che a noi importa dimostrare non è precisamente l' erroneità di queste. Anzi, noi vogliamo stabilire una proposizione indipendente dalla verità o dall' erroneità di tutte le opinioni accennate e d' altre simili; e con ciò vogliamo dimostrare, che questi diversi sistemi, a cui si appigliano gli uomini di legge, non sono punto atti a risolvere la vera questione di cui si tratta. Infatti la questione fondamentale è questa: « Se la legge civile deve essere amica, o deva essere nemica alla religione dei cittadini; se deva essere in accordo con questa religione, o deva mettersi in disaccordo ed in collisione con la medesima ». Ecco l' unica questione veramente importante al presente, da cui conviene che noi partiamo per risolvere l' altra delle leggi civili, intorno al matrimonio. E infatti supponiamo per un po' che il matrimonio non sia altro che un contratto civile, ovvero supponiamo che il matrimonio deva essere rivestito delle formalità civili, e cose simili. A malgrado di queste verità, come di pretende che sieno, rimarrà ugualmente vero anche questo, che, a giudizio della Religione e della Chiesa Cattolica, il contratto matrimoniale è un Sacramento, e che non ci può essere alcun contratto valido di matrimonio, cioè obbligatorio, se non è Sacramento, e se non ha tutto ciò che si richiede per essere Sacramento; e di più, che esistendo questo valido contratto, esso è indissolubile, a malgrado di tutte le leggi e di tutte le autorità cattoliche ed acattoliche della terra. Questa è la dottrina religiosa cattolica, e rimane tale a fronte di tutte le opinioni e di tutte le dispute, per quanto i disputanti pretendano avere la verità dalla loro. Ciò posto, noi dicevamo, che una legislazione civile qualunque intorno al matrimonio non può rimanersi indifferente rispetto ad una tale dottrina religiosa, ma che le conviene di necessità scegliere tra questi due partiti, o di esserle amica o di esserle inimica. Se dunque una legislazione riconosce per validi contratti matrimoniali tutti quelli che sono riconosciuti dalla Chiesa Cattolica e nissun altro in tal caso ella è amica della detta religione; e se fa il contrario, ella è inimica, seguendo in quest' ultimo caso il sistema della legge atea. Sciolta dunque la questione intorno a questo sistema della legge atea, e dimostrato, come abbiam fatto trattando la questione precedente, che la legislazione civile non deve essere ostile alle credenze religiose dei cittadini, è sciolta di conseguente anche l' altra che riguarda il così detto matrimonio civile, e che non è altro che un caso d' applicazione. Veniamo dunque alla conclusione, che sarà necessariamente questa: La questione, se ci possa essere o no un matrimonio civile, è superiore e indipendente da tutte le diverse private opinioni che possono avere i legisti e gli statisti intorno alla natura del matrimonio; e invano essi si perdono in tali dispute, non accorgendosi che la vera soluzione del problema dipende da un princìpio più elevato e più universale, che sfugge alla loro considerazione. Che poi la legge del così detto matrimonio civile sia contraria e ostile alla Religione Cattolica, non sembra necessario dimostrarlo maggiormente dopo quello che abbiamo detto di sopra e quello che ne fu scritto in occasione de' progetti di legge presentati al Parlamento piemontese. Che anzi, se ci fu mai legge che fino dalla sua origine portasse con sé i caratteri storici dello spirito irreligioso e astioso alla Religione Cattolica, essa è indubitatamente quella del matrimonio civile. Basta considerare in qual tempo e da quali mani ella uscì per restarne convinti. Chi non conosce qual era lo spirito dei legislatori francesi del 1791 e susseguenti? Lo spirito d' empietà, sempre subdolo e astuto, procede sino a un certo segno cautamente e gradatamente, ma quando crede d' essere sicuro del fatto suo, svela senza pudore la sua faccia: seguitiamolo ne' suoi passi a quel tempo e in quella nazione in cui egli, rompendo violentemente ogni tradizione co' secoli trascorsi, creò il matrimonio civile. Nella prima Costituzione politica che si diede la Francia nel 1791 fu inserito questo articolo: [...OMISSIS...] - Era appunto il contrario di quello che per 1. secoli aveva insegnato la Religione Cattolica: secondo la sua parola, che è parola di verità, il matrimonio non fu mai e non è un contratto civile. A quella Costituzione tenne dietro ben presto il decreto dello stato civile, che dedusse la prima conseguenza da quel princìpio, conseguenza sì prossima che si annunciò come una spiegazione della Costituzione stessa; e questa conseguenza fu la dissolubilità del matrimonio: [...OMISSIS...] - Ecco di nuovo il contrario di quanto insegna la Religione Cristiana Cattolica, della quale è un dogma che il matrimonio è un vincolo e un contratto indissolubile. L' effetto che immediatamente produssero queste leggi, in aperta contraddizione alla Religione si fu l' indebolimento d' ogni affetto domestico, e si vide in breve tempo triplicato il numero degli infelici bambini abbandonati dagli snaturati loro genitori (2). Tali disposizioni di quel governo civile contrariavano bensì direttamente la Religione, però con quelle forme legali che coprono, in qualche modo, lo spirito d' impietà che vi si racchiude. Ma ben presto questo spirito, tenendosi già sicuro della vittoria, si manifestò apertamente con caratteri più ributtanti dell' immoralità, mediante una serie di decreti e di leggi che sono troppo conosciuti, e provano ad evidenza come l' ateismo, di quelle leggi provenisse non già soltanto da freddi principii di diritto, o da un ateismo del legislatore puramente speculativo, ma da un odio profondo ad ogni religione; e basterà per tutte indicare la legge con la quale i legislatori pretendevano abolire il pregiudizio intorno alle concezioni illegittime, e a tal fine concedevano una ricompensa alle figlie che avrebbero avuto il coraggio di allattare i loro bambini in pubblico (3). Ognuno sa che il matrimonio civile del 1791 facendo continui progressi, nel corso di soli due anni (1793) giunse al tempio della ragione. E uno di que' legislatori del matrimonio civile e dell' abolizione del culto cristiano cattolico in Francia, il Chaumette, con molta semplicità spiegò che era la nova Dea, la ragione, che si voleva unicamente adorare. Riconducendo in trionfo alla Convenzione l' invereconda femmina ch' era stata posta in sull' altare nella chiesa di Nostra Donna, e rendendo conto del novo rito: « Colà », disse il Chaumette, « abbiamo abbandonati idoli inanimati, per seguire la ragione, per seguire quest' imagine animata, capolavoro della natura! ». Tale era la ragione, la dea di quei famosi legislatori. E uno storico del giusto mezzo trova veramente deplorabili queste scene, rappresentate senza raccoglimento e senza bona fede (4). Fu necessario che Massimiliano Robespierre, trascorsi pochi mesi dall' istituzione del culto della ragione, ammonisse questi invidiati legislatori civili, che l' ateismo era aristocratico. Allora si risolsero di distruggere l' opera della loro legislativa sapienza, riabilitando, in virtù della stessa autorità dello Stato, l' Ente Supremo. La legge civile che vuol esser atea, non arriva che ad essere incoerente; così si punisce e confonde da se medesima. E` dunque provato ad evidenza dalla storia, quanto onorati e puri sieno i natali del matrimonio civile, che può senza controversia vantare d' esser legittima prole dell' odio di ogni religione e della morale, di questo odio che nei momenti del suo trionfo rende i civili legislatori, letteralmente, de' mentecatti e de' furiosi. Chi vuol conoscere la natura del seme, esamini l' erba che da lui nasce. Ma le aberrazioni dello spirito umano non hanno lunga durata; il mondo va ogni giorno più aprendo gli occhi, ammaestrato dall' esperienza e dalla riflessione sull' empietà, sulla immoralità profonda, sull' abiezione, sul danno sociale, sulla dissennatezza del matrimonio civile: pur ora l' Olanda, dove era stato introdotto dall' armi francesi, lo scancellò dalle sue leggi, almeno pe' cattolici: la Francia stessa, esperta de' funestissimi effetti di questo nuovo matrimonio di sua invenzione, si va ogni dì più convincendo del suo antico errore: già anche gli scrittori laici di quella nazione apertamente lo impugnano (5), e di questi giorni stessi una numerosa petizione, presentata a quel Senato, ne domanda l' abolizione (6). E il Piemonte? Il buon senso del Senato piemontese ha mandato a vuoto il tentativo dei retrogradi che volevano regalarci questa merce straniera del 1791, e si spera che niun altro tentativo di tal sorta verrà a disonorare e ad affliggere un popolo così sveglio e religioso. Noi ci proponiamo di cercare in che cosa consista la libertà di coscienza. Lo faremo con il separare prima di tutto le interpretazioni false di questo acclamato principio, le interpretazioni mancanti di sincerità. Dimostreremo che mediante queste interpretazioni subdole e sofistiche, la libertà di coscienza è divenuta una coperta e uno strumento d' interessi egoistici e di passioni irreligiose e immorali; il che è quanto un dire, che quello che molti chiamano libertà di coscienza non è tale, ed è anzi il contrario. Rimossa poi questa libertà di coscienza finta e bastarda, facilmente apparirà da sé qual sia il vero significato di questa espressione libertà di coscienza , intesa non meno secondo il diritto, che secondo la logica. E non intendiamo punto parlare di que' legislatori o governi civili, che invocando la libertà di coscienza nelle loro leggi e nei loro atti, non si curano di velare l' insincerità del loro procedere, e di più hanno la vanità di far trasparire ad un tempo e la loro falsità e la loro incredulità, dichiarandosi per la libertà di coscienza. La prima volta che in Francia si promulgò una legge che stabiliva la libertà di coscienza, fu al tempo della Convenzione, e sotto questa legge di libertà fu abolita la religione! E` troppo noto come il procuratore del comune di Parigi, Chaumette, spasimante della libertà di coscienza, prese un bel giorno ad inveire contro la pubblicità del culto cattolico, e sostenne che questo era un odioso privilegio, che si doveva abolire; e infatti quel Comune nel giorno 14 ottobre 1793 decise, sempre appellando alla libertà di coscienza, che i ministri di qualunque religione non potessero più esercitare il loro culto fuori dei templi, instituì ancora nuove cerimonie funebri profane da sostituire alle sacre; e ne' cimiteri, rimossi tutti i simboli religiosi, fece collocare la statua del sonno, con altre disposizioni di simil genere. Di poi alcuni legislatori e governatori di quel tempo andarono in persona a sedurre il miserabile Gobel, vescovo costituzionale, e lo persuasero a rinunziare solennemente all' esercizio del culto; e nella farsa che se ne fece davanti alla Convenzione, il presidente della medesima al discorso del rinunziante rispose con tutta gravità che [...OMISSIS...] . E lo storico del giusto mezzo aggiunge, che rispose accortamente (2). Il qual fatto fu seguito dall' abolizione della religione, e da tutte quelle abbominazioni che rimangono e rimarranno nella storia siccome un indelebile commentario della maniera in cui veniva intesa da quei governatori riformatori la libertà di coscienza. Il principio della libertà di coscienza professato a questo modo non può formare l' oggetto di una seria discussione, e la menzogna della legge e de' legislatori s' affaccia tanto chiara e tanto impudente, che non ha bisogno di essere svelata. In altri non pochi di quelli che vogliono comparire come fautori della libertà di coscienza, c' è un' altra maniera di mancanza di sincerità più imprudente e s' involge in artificiosi sofismi; e questa stessa ha diversi gradi. Prima di descriverla, noi protestiamo di riconoscere che in taluni di tali uomini l' incoerenza di cui danno manifesta prova quando parlano di libertà di coscienza, non è neppure totalmente insincerità; c' è mescolato indubitatamente dell' ignoranza, del pregiudizio, dell' irriflessione. Infine quando noi nominiamo l' insincerità degli uomini, intendiamo non altro che l' insincerità dei sistemi. Crediamo perciò che molti di tali sistemizzatori possano essere utilmente richiamati al vero concetto della libertà di coscienza, e che meritino d' essere invitati a considerare le contraddizioni in cui cadono, forse senz' avvedersene, quando prendono a ridurre all' atto questo principio. Tale è l' intento che noi ci proponiamo nello svolgere la presente questione. Tre di questi fallaci e ingannevoli sistemi intorno alla libertà di coscienza ci si presentano, che noi chiameremo: il sistema legale, il sistema filosofico e il sistema utilitario. Gioverà meglio il far conoscere qual sia il carattere proprio di ciascuno di questi sistemi per mezzo di esempi, non solo perché vedendolo in atto più facilmente se ne raccoglierà l' indole, ma ben anco affinché niuno creda che noi forse gl' inventiamo e non sieno sistemi reali esistenti nella pratica de' governi e nelle teorie de' governanti. Il sistema legale, il più decente nelle forme e il più coperto, sedusse uomini d' altra parte rispettabili. L' esempio che sono per darne ne somministra la prova. Nella seduta del 10 giugno, anno corrente 1.53, nella Camera de' deputati di questo Stato, il ministro di grazia e giustizia, rispondendo all' interpellanza d' un deputato savoino, fece questa dichiarazione: [...OMISSIS...] Niente di più esplicito. Ma rimane a conoscersi l' interpretazione di questo principio ancora indeterminato; e l' interpretazione non si fa aspettare, perché lo stesso ministro ce la dà non meno esplicita in queste parole: [...OMISSIS...] Qui il ministro vuole che nessuno sia costretto, né impedito a fare un atto religioso, ma però ad una condizione, che quest' atto non sia proibito dalle leggi civili. Suppone dunque che la legge civile possa impedire o proibire un atto qualunque che emani dalla fede religiosa de' cittadini: e questa è l' assoluta e piena libertà religiosa di coscienza ch' egli loro promette. Ecco che cosa s' intende nel sistema legale quando si dice d' ammettere pienamente, interamente ed in tutte le sue conseguenze il principio della libertà di coscienza: s' intende quella porzione che non viene loro tolta dalla legge civile. All' opposto, la questione della libertà di coscienza consiste appunto nella ricerca: « Se la legge civile possa proibire o impedire un atto che emani dalla fede religiosa de' cittadini ». Chi suppone che la legge possa far questo, in generale non ammette per fermo la libertà di coscienza, stabilisce bensì l' intolleranza e il dispotismo insieme con la pazza onnipotenza della legge civile. E` anche evidente che una tal legge, se riguarda la vera religione, è assolutamente empia; e se riguarda religioni false, è almeno riguardata come empia da que' cittadini che la professano. Tutta la questione dunque viene stranamente falsata, ed è pur necessario restituirle la sua vera forma, che non può essere altra che questa: Si ricerca « se la religione sia anteriore e superiore alla legge civile, o se la legge civile sia anteriore e superiore alla religione »; ovvero « se le leggi di Dio si debbano conformare alle leggi degli uomini, o viceversa se gli uomini debbano conformare le loro leggi a quelle di Dio »; e di conseguente, quando le due leggi riuscissero contraddittorie, « se le leggi di Dio debbano essere rispettate e ubbidite a preferenza delle leggi degli uomini, o se le leggi civili degli uomini debbano essere rispettate e ubbidite a preferenza delle leggi di Dio ». Per verità, se la libertà di coscienza consiste in questo solo, che « niun cittadino possa mai essere né costretto, né impedito a fare un atto qualunque non proibito dalle leggi, che emani dalla sua fede religiosa », egli è evidente, che non ci può essere niuna legge civile, qualunque sia, che offenda il principio della libertà di coscienza, e che perciò la legge civile è sempre, per sua propria essenza, liberalissima. A valutar bene a solo colpo d' occhio questo sistema legale della libertà di coscienza, gioverà ricorrere ad un esempio estremo, poiché il principio, essendo generale, vale ugualmente pei casi estremi, che pei più moderati. Ricorriamo dunque a Nerone. Quando questo Imperatore (e lo stesso si dica degli altri governi, non pochi di simil tempra, che furono al mondo) proibì sotto pena di morte il Cristianesimo, c' era ancora in quegli Stati un' intera e perfetta libertà di coscienza? Secondo il sistema legale surriferito bisogna rispondere di sì: perché anche allora « niun cittadino era impedito a fare atto qualunque non proibito dalle leggi, che emanasse dalla sua fede religiosa ». E` vero che i cristiani non potevano fare gli atti che emanavano dalla loro fede religiosa; ma questi atti non essendo legali, poiché erano proibiti dalla legge civile, andavano esclusi dalla libertà religiosa, secondo i legisti di cui parliamo: godevano però i cittadini cristiani di quel tempo pienamente e interamente e in tutte le sue conseguenze, della libertà di coscienza, perché niuno di essi poteva essere costretto o impedito a fare un atto qualunque di quegli altri non proibiti dalle leggi che emanassero dalla loro fede religiosa! Che se non avevano altra fede religiosa che quella i cui atti erano proibiti dalle leggi civili, quei magistrati di allora potevano dire come i magistrati d' adesso: « Noi non abbiamo facoltà di ricercare o l' incredulità o lo scetticismo di nessuno ». Egli è dunque evidente, se non vogliamo corbellare la gente, quando parliamo di libertà di coscienza, che con questa questione si tratta unicamente di sapere se le leggi civili debbano essere subordinate al principio della libertà di coscienza, o se la libertà di coscienza debba essere subordinata alle leggi civili. Poiché conviene scegliere, i legisti (già s' intende, non tutti, ma quella specie di cui parliamo) scelgono che il principio della libertà di coscienza sia subordinato alla legge civile, non sofferendo che cosa alcuna sia superiore all' autorità di questa terribile legge. Ma è pur cosa maravigliosa, che chiamino principio quel che è subordinato alla legge civile, e che ci facciano tali leggi che hanno i principii non di sopra, ma di sotto. I legisti di questa sorte sono stati sempre uguali in tutti i secoli e sotto tutte le forme di governo. Gli avvocati d' Enrico V e di Federico Barbarossa partivano dallo stesso principio da cui partono oggidì gli avvocati degli Stati costituzionali e delle repubbliche, che dettano le loro leggi atee; soltanto che allora s' attribuiva alla volontà d' un legislatore individuale quello che ora s' attribuisce alla volontà collettiva d' alcuni legislatori. Questa volontà può sempre tutto indipendentemente da principii: da essa sola emana esclusivamente il diritto, l' obbligazione: [...OMISSIS...] Noi intanto crediamo che basti la più piccola dose di buon senso per intendere, che il collocare la libertà di coscienza in questo, che « niun cittadino possa mai essere né costretto né impedito a fare un atto qualunque che emani dalla sua fede religiosa, con la restrizione che questo atto non sia proibito dalle leggi », non è un dichiararsi a favore della libertà di coscienza, ma è soltanto pronunciare una celia. Escluso il sistema legale, vediamo qual sia il filosofico (già s' intende nel senso abusivo della parola), e cerchiamo se in questo secondo sistema ci abbia più sincerità che nel primo. - In uno Stato ci sono o ci possono essere anche di quelli che non hanno alcuna credenza religiosa, o che non vogliono almeno professarne nessuna. Da questo i filosofi, di cui parliamo, si credettero giustificati a dedurre, che la legge civile, acciocché riesca formata secondo il principio della libertà di coscienza, debba regolarsi in modo che, rimanendo identica per tutti, possa convenire a tutte egualmente le credenze, come pure a tutti i sistemi d' incredulità. Ma come arrivare a questo intento? Essi risposero: con la legge atea, della quale noi ragionammo nella questione precedente. I detti filosofi non si dettero, non si vollero dare la menoma pena di esaminare se sia possibile una legge alla condizione che le imponevano; ma, parlando sempre in astratto, assicurano sulla loro fede i popoli, che una legge, quando è atea, adempie perfettamente alla condizione indicata. Noi abbiamo dimostrato che non diedero in questo gran prova di sagacità, poiché s' avvera appunto il contrario; dimostrammo di più, che una legge di tal sorta è solo favorevole a quella classe di cittadini che non professa credenza alcuna, o che è indifferente a tutte; e allo stesso tempo che offende da molte parti la coscienza di tutte le altre classi de' cittadini che hanno una credenza, e che perciò essa è una legge di privilegio per gli increduli. Noi ripeteremo qui solo una osservazione, e questa si è, che quel definire la questione così in astratto, trasse in inganno anche persone non prive al tutto di fede religiosa, ma inette a cercare il fondo delle questioni. Quando la Francia, facendo ritorno al culto cattolico, abolì quelle leggi che erano state dettate dall' odio della Religione e a nome della libertà di coscienza, si esaminò se doveva essere abolita con esse anche la legge sul divorzio [...OMISSIS...] I giureconsoli che presero parte alle conferenze tenute per la compilazione del Codice di Napoleone, non erano certo più gl' increduli furiosi del 93: pure mantennero il divorzio, ingannati da quell' illusorio princìpio della libertà di coscienza, nel senso che gli avevano assegnato i filosofi della rivoluzione. « Il vero motivo », dissero, « che obbliga le leggi civili ad ammettere il divorzio, è la libertà dei culti. Ci sono dei culti che autorizzano il divorzio; ce ne sono degli altri che lo proibiscono. La legge dunque (ecco le conseguenze che ne cavano) deve permetterlo, affinché quelli la cui credenza l' autorizza, possano farne uso ». Questo argomento, ridotto a forma generale, si può esprimere così: La legge civile per rispettare la libertà di coscienza deve adattarsi a quelli che credono meno. E questa è appunto la massima che conduce all' ateismo totale della legge. Poiché tra tutte le gradazioni di credenza c' è anche quella in cui ogni credenza svanisce, e perciò la legge si dovrà adattare propriamente a quelli che non hanno alcuna credenza, e così dovrà essere essa stessa atea. Se nella gravità di quella discussione intorno al divorzio avesse trovato grazia la logica, questa avrebbe mostrato a que' legisti che la conseguenza che essi deducevano dall' esserci nello Stato dei culti che autorizzavano il divorzio, era assai più estesa della premessa; poiché dall' esserci dei culti che autorizzavano il divorzio si può trarre benissimo la conseguenza, che la legge per la libertà di coscienza permetta a coloro che professano quei culti il divorzio, ma non si può trarre la conseguenza universale, che dunque lo permetta a tutti, anche a coloro che professano dei culti che non autorizzano punto il divorzio e che lo condannano. I legisti ricorreranno qui probabilmente al male inteso e mal applicato princìpio dell' uniformità della legge civile, del quale noi ci proponiamo di trattare a parte in un' altra questione. Qui ci basta di riconvenirli, che non fu dunque il princìpio della libertà di coscienza, com' essi dichiararono solennemente, quello che suggerì loro la legge universale sul divorzio, ma un altro princìpio tutto diverso. E così appunto sogliono fare i legisti: vi dicono di partire, nella formazione delle loro leggi, dal princìpio della libertà di coscienza, e poi, quando voi li riconvenite della falsità del loro asserto, vi scambiano le carte in mano, e vi dicono di essere partiti da un princìpio tutt' altro, come nel caso nostro, dalla pretesa necessità, che le leggi civili sieno uniformi per tutti quelli che professano culti diversi ed opposti. Dicendo ciò cotesti filosofi legali, sembra che non si accorgono della necessità almeno che hanno di accordare un princìpio con l' altro, seppur vogliano persuaderci che essi li seguano entrambi. Uniformità di leggi per tutti i culti diversi e libertà di coscienza sono esse cose conciliabili? Noi abbiamo anzi dimostrato che sono princìpii perfettamente contraddittori. Se le leggi civili, abbiamo detto, potessero astenersi da disporre intorno a tutto ciò che ha qualche relazione anche lontana con le religiose credenze, la cosa sarebbe possibile, e però quelle leggi che non involgono relazione alcuna coi vari culti, possono benissimo essere uguali ed uniformi per tutti i cittadini. Ma poiché ci sono sempre molte altre leggi civili che involgono diverse relazioni con gli oggetti religiosi, perciò il princìpio dell' uniformità delle leggi cade in aperta contraddizione con quello della libertà di coscienza; e in tutto questo genere di leggi non è mai possibile conciliare i due princìpii, ma l' uno o l' altro deve essere abbandonato. E così fecero i legisti della Francia trattando e adottando le leggi sul divorzio. Ma quale dei due princìpii abbandonarono? Furono forse sinceri? ci dissero chiaro e da galantuomini che il princìpio dell' uniformità delle leggi li obbligava a sacrificare quello della libertà di coscienza? Io crederò, per diminuire il loro torto, che prima di mentire a noi, abbiano mentito a se stessi, e che perciò non si sieno accordi della falsità che profferivano. Ma il fatto si è, che l' unico princìpio, di cui fecero pompa nei motivi della legge, fu quello della libertà di coscienza, cioè quello che andavano ad immolare; e dell' altro, cioè della materiale uniformità delle leggi, che era il solo che veramente mantenevano, non fecero una sola parola. Il primo era popolare e riscuoteva facilmente l' applauso; conveniva dunque far passare sotto gli auspizi di questo princìpio una legge che da tante parti lo violava. Tale è la sincerità de' filosofi legali. E che la legge che permette a tutti i cittadini il divorzio osteggi la Religione Cattolica che lo proibisce e offenda la libertà religiosa dei cattolici, è facile di vederlo: Quella legge agli occhi della Religione Cattolica contiene un' eresia, e perciò insulta il dogma cattolico col dichiararlo falso, poiché la legge dice assolutamente e universalmente: « il matrimonio è dissolubile »; il dogma cattolico dice: « non è dissolubile »(5). La legge dunque non era già indifferente alla Religione, ma si fondava sopra un princìpio d' empietà agli occhi della Religione Cattolica. Questo offendeva tutto il corpo dei cittadini cattolici, quando la libertà di coscienza esige che la propria religione rimanga incolume, e da tutti, specialmente dal legislatore, rispettata [...OMISSIS...] ; Due coniugi cattolici divorziati, e passati ad altre nozze col favore della legge, si pentono del fatto che hanno commesso, giusta i princìpii della Religione che professano. Questa religione impone loro, come obbligazione gravissima, di dividersi l' uno dalla supposta moglie, l' altra dal supposto marito. Ma non ci sono cause per ottenere dalla legge un altro divorzio. La legge obbliga la moglie ad abitar col marito, ed obbliga il marito a ricevere presso di sé la moglie «( Cod. del R. d' Italia , 214) ». La legge dunque impedisce a questi cristiani cattolici di adempire alle più gravi obbligazioni che impone loro la fede religiosa che professano, e li obbliga a permanere in uno stato condannato dalla propria coscienza. C' è dunque sincerità in legislatori di questa sorta, quando vi fanno delle leggi che torturano crudelmente la coscienza cattolica, e poi vi danno per motivo di tali leggi la libertà dei culti, la libertà di coscienza? Avranno mentito, a se stessi, lo replichiamo, ma in qualunque modo si spieghi, la menzogna è innegabile; Due cattolici divorziati, poniamo per mutuo consenso, risentendo i giusti rimorsi della propria coscienza, vogliono ricongiungersi. Questo è un loro sacro diritto, è un atto altamente morale. La legge civile vi si oppone (6). Che se si riuniscono, devono farlo in onta della legge, e i loro figli sono considerati illegittimi. I diritti dunque che vengono loro in conseguenza della religione che professano, sono distrutti da quella legge civile del divorzio, ed il loro esercizio aggravato d' incomodi e danni gravissimi. Ora, come noi vedemmo, la libertà di coscienza sincera e non mentitrice, importa che coloro che professano una religiosa credenza possono liberamente esercitare i loro religiosi diritti. Di nuovo adunque hanno pronunziata una manifestissima falsità i legislatori del Codice Napoleonico, dicendo che dal princìpio della libertà dei culti erano stati obbligati a stabilire la legge del divorzio. Tale è la sincerità e la lealtà del sistema filosofico della libertà di coscienza. Gli autori di quel Codice l' avevano ereditato dai così detti filosofi della rivoluzione, e non fa maraviglia che non è la prima volta che i legisti bevano grosso in punto di princìpii (7). Il princìpio della libertà di coscienza non comparisce solo sulla bocca dei legisti e dei filosofi che arrivano al governo; comparisce financo sulla bocca dei politici utilitari. Parrà strano a prima vista, che costoro, che non hanno princìpii fissi di sorta alcuna, professino in certe circostanze il princìpio della libertà di coscienza. Ma il mistero è spiegato, quando si distingua il dire dal fare, e una professione sincera da una professione ingannatrice. Ecco in qual modo si distingue il sistema utilitario dal legale e dal filosofico. Quando gli utilitari sono al potere, essi cercano di guadagnarsi quei partiti ne' quali credono di poter trovare una forza maggiore, senza riguardo all' onestà, alla giustizia, alla moralità, alla religione, che sono cose che non hanno per essi realtà, o se ci danno qualche peso, le considerano sempre come subordinate all' utilità. Ora, egli avviene quello che noi vediamo co' nostri occhi, che il partito più violento si compone di quegli uomini che non hanno religiose credenze, o non ne hanno abbastanza per raffrenare le loro passioni, l' orgoglio sopratutto, e lo spirito di dominazione. Questi arditi brigatori e faccendieri sono temuti oltremodo per la loro attività sempre inquieta e intraprendente. I governi utilitari dunque si mettono dalla loro parte, fanno loro delle concessioni e così la fazione incredula riesce infine facilmente ad essere quella che più di tutti influisce nella formazione delle leggi e negli atti del governo stesso. Non avendo dunque gli utilitari un princìpio proprio, prendono i princìpii da quei partiti a cui s' associano, e il più delle volte ne' tempi nostri s' associano, come dicevamo, al partito irreligioso, che essendo più violento, facilmente è stimato anche il più forte. Nel che va spesso errato il calcolo degli utilitari, calcolo difficilissimo a farsi bene. La libertà di coscienza dunque degli utilitari, o è una promessa che non viene mantenuta, come quella de' due sistemi precedenti, o è una libertà effimera e accidentale, perché è quella, né più né meno, che viene loro imposta dai partiti su cui s' appoggiano. Riassumendo, tre sono dunque le false ed incoerenti interpretazioni del princìpio della libertà di coscienza: 1) Quella de' legali che definiscono la libertà di coscienza, la libertà di fare quegli atti religiosi, che non sono proibiti dalla legge civile; 2) Quella de' così detti filosofi, che definiscono la libertà di coscienza, quella che consiste nell' ateismo della legge; 3) Quella degli utilitari, che non amano definizioni, e che perciò non hanno definizione alcuna, ma consiste in promettere, quando torna conto, libertà di coscienza, e poi governare secondo l' opportunità a seconda di quel partito, qualunque sia, in cui si credono consistere la forza maggiore. Con l' aver noi indicate queste tre principali contraffazioni della libertà di coscienza, noi abbiamo risposto negativamente alla nostra questione. Ma crediamo d' aver fatto con ciò solo buona parte del cammino. Poiché il lettore, rimosse quelle libertà di coscienza illusorie, facilmente può da se stesso arrivare a trovare in qualche modo la libertà vera che andiamo cercando. Pure per approfondire e sviluppare da' suoi diversi lati il vero concetto della libertà di coscienza, dovremmo metterci in altre questioni che con questa della libertà di coscienza si complicano; il che ci proponiamo di fare in appresso. Per ora ci contenteremo di conchiudere indicando i due caratteri principali che deve presentare il vero sistema della libertà di coscienza, i quali sono: 1) Che la legge civile non s' opponga mai né direttamente né indirettamente alla coscienza religiosa dei cittadini; 2) Che la libertà di coscienza conceduta dalla legge civile sia tale e tanta, quale e quanta può essere acciocché la legge non si contraddica. Questi caratteri essenziali riceveranno lume e sviluppo dalla trattazione delle seguenti questioni. Che i cittadini sieno uguali davanti alla legge è princìpio santissimo. Ma noi abbiamo veduto già, rispondendo alle questioni precedenti, quanti equivoci si possano prendere intorno all' intelligenza dei princìpii. La loro universalità, quel ch' è più, e le parole indeterminate con le quali s' esprimono, danno luogo a varie interpretazioni delle quali una sola è vera e l' altra è falsa. Al nostro tempo non mancano i princìpii, ma le società civili sono tuttavia sofferenti e non trovano riposo, perchè i princìpii si sono divulgati senza darsi cura di determinarne esattamente il valore. Laonde, i partiti appassionati ed irreligiosi, approfittandosi sofisticamente della loro indeterminazione, se ne prevalsero per ingannare ugualmente i popoli ed i governi. Quello che resta a fare, e che è desiderabilissimo che si faccia da tutti, si è riprendere in mano i princìpii che già si sono dichiarati, rimovere da essi l' indeterminazione dei significati, fissarne il vero ed unico senso, rendendoli intelligibili alle moltitudini sin qui corbellate. Quando il popolo stesso intenderà il significato legittimo di quei solenni princìpii, che gli si fanno tuttodì risuonare all' orecchio come altrettante parole magiche, finirà il giuoco de' mariuoli, sieno questi governanti o demagoghi, e la società entrerà nella strada d' un vero e veramente umano progresso. « I cittadini sono uguali in faccia alla legge »: che cosa significa? Questo, al solito, non si dice mai. Tutt' al più si traduce quel principio in altre parole egualmente indeterminate, come a dire: « le leggi debbono essere uniformi per tutti i cittadini ». La indeterminazione tanto dell' una quanto dell' altra formola, per poco che si considerino, è manifesta. La prima, dicendo che i cittadini debbono essere eguali in faccia alla legge, non dichiara in che consista quest' eguaglianza, e pure c' è indubitatamente una disuguaglianza anche in faccia alla legge: perché la legge stessa non giudica eguale colui che è innocente e colui che è ladro; ma mette in carcere questo secondo e lascia in libertà il primo: e così essa pronunzia, che questi due cittadini non sono eguali in faccia a lei. La seconda formola dice che le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini; e qui del pari resta indeterminato di quale uniformità si parli. Infatti, se si prendesse la cosa alla lettera, tutti i cittadini dovrebbero essere soggetti a tutte le leggi; e così ne verrebbe l' assurdo, che le leggi civili non potessero essere fatte mai per una singola classe di cittadini, e che riguardassero soltanto a quello che hanno di comune e di uguale tutti affatto i cittadini. Si dirà, a cagion d' esempio, che le leggi fatte per regolare l' agricoltura, sieno uniformi tanto per gli agricoltori quanto per quelli che né lavorano, né posseggono terreni? O che le leggi che regolano l' esercizio della medicina debbano valere anche per quelli che non sono medici, e perciò non sono uniformi per tutti i cittadini, ma riguardano solamente una classe di essi, e tengono conto della disuguaglianza delle altre classi? Essendo tutto questo assurdo, è evidente per lo contrario, che gli indicati princìpii sono nelle loro espressioni indeterminati, e che involgono dell' incertezza nel modo in cui si possono intendere. Or bene, eccovi lo spirito d' irreligione e di sofisma che abusa di questa indeterminazione, e che si prevale di essa per condurre i legislatori e le leggi a favorire l' empietà, e a vessare ingiustamente i cittadini che professano la religione. Invece di fare quel che c' era da fare, cioè spiegare prima di tutto e determinare bene il senso di quelle formole, i filosofi politici, animati da quello spirito, ne deducono francamente la conseguenza che la legge civile non debba aver nessun riguardo a quelle differenze che nascono tra' cittadini dal professare alcuni una religione e alcuni un' altra, e alcuni nessuna religione, argomentando così: Le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini. Ma non potrebbero essere uniformi, se esse tenessero conto delle diverse comunità religiose, e provvedessero a ciascuna di esse in separato, quando volgono relazioni con oggetti religiosi. Dunque le leggi civili, benché involgano relazioni con oggetti religiosi, debbono essere uniformi per tutti i cittadini, qualunque religione professino o non professino. Su questa argomentazione si fondò da' filosofi politici, noi lo vedemmo nelle questioni precedenti, la teoria del matrimonio civile. Dovendoci essere, a giudizio di costoro, delle leggi anche sul matrimonio uniformi per tutti i cittadini, ne venne di conseguenza che la legge dovesse stabilire un matrimonio estraneo ad ogni credenza religiosa; e in tal modo s' ottenesse in Francia (che ebbe però assai pochi imitatori) di stabilire per tutti, anche per la gran massa dei cittadini che non hanno rinunziato alla fede, cioè per la immensa maggioranza, quello che a tutta ragione si può definire: « Il matrimonio privilegiato de' pochi increduli ». La legge civile infatti non riconosce altro matrimonio. Così questa legge uniforme, favorevole esclusivamente agli increduli, e gravosa, ingiuriosa ed ostile a tutti gli uomini religiosi, pei quali il matrimonio è sacro, costituisce un vero privilegio sotto coperta d' uniformità. Que' filosofi dunque e que' legislatori, che credono di avere stabilito un argomento insuperabile nel sillogismo testé riferito, non s' accorgono e non vogliono accorgersi dell' incoerenza, in cui poi cadono, quando nella formazione dell' altre leggi non seguono più quel principio d' uniformità, inteso in un modo così assurdo. Poiché, riducendo, la questione alla sua generalità, noi domandiamo loro: si devono o non si devono osservare dal legislatore nella formazione delle leggi le differenze che dividono i cittadini in classi distinte? Se rispondono di sì, perché dunque pretendono che le leggi non abbiano riguardo alle differenze religiose, che pur dividono anche esse in differenti classi i cittadini? Se rispondono di no, perché dunque nella formazione di moltissime leggi hanno essi continuamente riguardo alle differenze che distinguono appunto i cittadini in diverse classi? E, per vero dire, sono assai poche quelle leggi che riguardano tutti egualmente i cittadini. Queste si riducono unicamente a quelle che non hanno altro oggetto se non l' uomo o il cittadino, senz' altra considerazione. Ma tutte l' altre leggi regolano e dispongono di condizioni speciali de' cittadini, e però riguardano esclusivamente certi gruppi di essi, gruppi o classi formate da certe loro differenze, a ciascuna delle quali ha minuto riguardo la legge. La legge civile, a ragion d' esempio, considera la differenza dell' età; quindi attribuisce diritti ed obblighi diversi alle diverse età; attribuisce ai minori d' età obblighi e diritti diversi che ai maggiori; punisce meno severamente quelli che non hanno passato un certo numero di anni di quelli che l' hanno passato; classifica dunque i cittadini secondo la differenza dell' età, e non pretende che le stesse leggi valgano per tutti ugualmente. La legge civile considera la differenza di sesso, e molte leggi ci sono che, fatte per l' uno dei due sessi, non possono valere per l' altro. Attribuisce ai maschi doveri e diritti civili e politici, che non attribuisce alle femmine. La legge civile considera la differenza delle professioni e delle arti; e ciascuna classe de' cittadini risultante da queste differenze è regolata da leggi sue proprie. La legge civile considera la differenza del sapere; fa leggi pei professori, per gli scolari, per le accademie degli scienziati. La legge civile considera la differenza dell' avere i cittadini impiego o no dallo Stato, e tra gli impiegati distingue i civili dai militari; ciascun dicastero ha i suoi propri regolamenti e le sue leggi. La legge civile considera la differenza delle fortune, quella della nobiltà di stirpe o personale, e innumerevoli altre differenze, che sarebbe lungo d' annoverare. Se dunque la legge civile è obbligata a considerare per la necessità stessa del suo fine, tutte le altre differenze dei cittadini, perché non sarà obbligata a considerare la differenza della religione? Perché questa sola differenza sarà disprezzata e negletta dalla legge civile, e riguardo a questa sola si metterà avanti il principio che la legge civile deve essere uniforme per tutti i cittadini, e non limitata ad una sola classe di essi? Perché solo in questo caso si teme che, se la legge civile si limita ad una classe, ella costituisce un privilegio? Quasiché la massima parte delle leggi civili non fossero necessariamente fatte per classi distinte, o quasiché fosse un privilegio il dare a tutti il suo, e non fosse anzi privilegio la legge universale, quando riesca utile a pochi e dannosa ed offensiva a molti? Come se dovendosi decretare l' uniforme per un esercito si pretendesse che la misura dell' abito si dovesse desumere dalla statura minima assegnata al soldato, e ciò per non creare un privilegio a favore de' soldati di statura più alta. Certamente ci sarebbe in tal caso l' uniformità materiale della legge, e lo Stato non somministrerebbe più braccia di panno all' un soldato che all' altro; ma la legge non si rimarrebbe d' essere stoltissima, e costituirebbe veramente un ridicolo privilegio a favore dei soldati più piccoli. In un modo somigliante, se quelle leggi che involgono relazioni con le credenze religiose e con i doveri e diritti che procedono dalle medesime, si vogliono fare materialmente uniformi, e per ciò stesso riguardare come non esistenti le differenze religiose, si avranno leggi d' uguale stoltezza, ingiuriose ed offensive a tutti i credenti, e favorevoli ed utili a quei pochi che avessero totalmente rinunziato ad ogni fede religiosa, e che sarebbero i privilegiati. Forse si risponderà che il legislatore non considera la differenza della religione, perché egli non vuol perscrutare i pensieri e le opinioni degli uomini: che le differenze religiose non sono differenze esterne; e che le altre differenze a cui la legge ha riguardo, essendo esterne, sono tali che distinguono gli uomini secondo la vita sociale. Certamente non mancherà e non è mancato chi risponda a questa maniera. Ma si può egli credere che una tale risposta sia di buona fede? Quando sia così, ella ci rivela la più crassa ignoranza di ciò che costituisce una religione. E infatti le religioni non sono soltanto opinioni interne, benché le interne e invisibili credenze ne sieno il fondamento: come anche in ogni altr' ordine di cose le interne opinioni e i sentimenti invisibili dell' animo sono il fondamento delle operazioni umane. Che cosa è dunque la Religione? La Religione è una credenza che produce un' esterna e visibile società; in ispecie la Religione Cattolica, l' unica vera e compiuta, è la grande società fondata da Gesù Cristo, la quale, oltre la fede, ha una organizzazione visibile, de' magistrati visibili, distribuiti in una certa gerarchia, e composta da un sorprendente numero di soci, sparsi sopra tutta la terra, che tutti si riconoscono come appartenenti al medesimo corpo sociale, aventi le stesse obbligazioni, gli stessi diritti, un culto esterno comune, un codice di leggi disciplinari, dei tribunali e dei giudizi. Tale è la Religione Cattolica. Incominciando dal simbolo, che è il segno esterno della fede, e che tutti sono obbligati di professare esternamente in faccia a tutti i governi civili, e anche a tutti i tiranni del mondo, sigillandolo con il proprio sangue, se l' empietà delle leggi civili a ciò li riduca: tanti altri sono i segni esteriori e visibili, tante le differenze profonde che separano questi credenti da tutti gli altri uomini, che presi insieme, tutti questi segni formano la maggiore e più complessa delle differenze esterne che possono mai separare una classe d' uomini da un' altra, una classe di cittadini da un' altra, né v' ha cosa che possa distinguere i cittadini tra loro, in tutta la loro vita e in tutte le loro abitudini, e in tutto il modo di operare, anche riguardante le cose umane, quanto questa credenza religiosa, da tutti quelli che la professano. Perché dunque il legislatore civile, che fa le leggi speciali per tante altre società di commercio e d' industria, società di lettere e di scienze, società di beneficenza e di carità, chiuderà poi gli occhi in faccia a questa sola, la più grande e la più importante di tutte, anche per gli interessi temporali, e dirà: Io non la vedo? Perché o affetterà d' ignorare o pretenderà d' essere obbligato a lasciar da parte una differenza così visibile, che è come città fabbricata sul monte, così luminosa, che è come il sole che illumina il mondo, una differenza che risulta da tanti doveri e diritti, costumi e azioni? Perché sarà così schifiltoso da adattare le sue leggi a questa immensa classe de' cittadini per non offenderla e danneggiarla con le sue leggi ne' più cari interessi di lei, e qui solo tutt' ad un tratto gli nascerà scrupolo di non forse creare a suo favore un privilegio, quand' egli pure adatta senza alcuno scrupolo, l' altre leggi all' altre classi e società, e tien conto, secondo il dovere, delle diverse condizioni in cui i cittadini si trovano, e delle varie loro differenze? Se la legge civile è istituita all' utilità de' cittadini, e non a soddisfare a chimeriche e incoerenti teorie, ella è obbligata certamente a rispettare tutti gli interessi religiosi dei cittadini medesimi; e quindi a considerarli, per non mettersi a cimento co' suoi ordinamenti di pregiudicarli. Non ha dunque il legislatore che due sole vie d' esser coerente a sé medesimo, o di proibire e condannare la Cattolica Religione (e lo stesso dicasi d' un' altra qualunque) o, ammettendole, di conformare ad essa le sue proprie leggi. Nel primo caso, non si parli dunque di libertà di coscienza; nel secondo caso soltanto questa libertà è salvata. La ragione dunque, che importa di necessità la coerenza, non si trova punto dalla parte de' legislatori di cui parliamo, e di cui è infetta l' Europa. Non è in un qualche ragionamento che si possa trovare il fondamento del loro sistema, ma nelle loro disposizioni d' animo e ne' loro istinti. Alcuni di essi non si persuadono che la Religione sia qualcosa di serio. Essendo essi indifferenti, o credenti freddi e trascurati, si persuadono che anche tutti gli altri cittadini non ne facciano gran conto, e sieno disposti facilmente a transigere, quando la legge civile viene a cancellare, se non direttamente, almeno le conseguenze, qualche linea del Codice religioso. Quindi, con tanto più piacere inseriscono nelle loro leggi qualche elemento d' empietà, inquantoché sembra loro con ciò di fare una bravata, e d' ostentare nello stesso tempo la potenza e l' autorità dello Stato, mettendola al di sopra delle cose divine ed umane. Schiavi del rispetto umano (segno di una gran debolezza di carattere morale), si mettono così al sicuro di non apparir troppo religiosi e un tantino increduli. E` questo un gusto delicatissimo alla loro vanità! Fatti uomini leggeri da questa loro tutta individuale disposizione (quando altramente potrebbero essere uomini serii), applauditi dagli increduli o settari di professione, a cui s' accordano tutti quelli che vogliono ficcarsi negli impieghi e procacciarsi onori governativi, con merito e senza merito, si trovano infine aver perduto totalmente di vista lo scopo vero della legge, la giusta e ragionevole soddisfazione di tutti i cittadini, per cui dovrebbe esser fatta. Costoro straziano i popoli e guastano le nazioni. Contro l' aspettazione poi, incontrano fermo ostacolo nelle coscienze, onde o sono rovesciati da' loro gradi, o, essendo scaltri e proteiformi, cedono senza convertirsi. Del resto, a coloro che s' immaginano poter le leggi civili indirettamente modificare la Religione Cattolica e abituare i cittadini cattolici a far senza di qualche suo articolo, come si tentò con il progetto di legge sul matrimonio civile, io direi: Disingannatevi; imparate a conoscere che cosa sia questa Religione: ella è un tutto solo, e questo è più duro del diamante: voi potrete con le vostre ugne graffiarlo quanto volete, ma non potrete farne saltare la più piccola scheggia, né manco un atomo. Infatti la Religione, per la sua propria essenza, o è tutto o è nulla: i cattolici lo sentono, e il volere che essi vi cedano un briciolo della loro religione, è impresa così pazza, come pretendere che ve la cedano tutta. E sta qui appunto un altro pregiudizio di certi civili legislatori: sono contrariissimi (a udire le loro proteste) a voler distruggere la Religione, ma si contentano che essa si adatti in qualche piccola cosa alle leggi civili dello Stato, e ciò per il pubblico bene. All' incontro la Religione Cattolica è di natura sua così inflessibile, sapete voi perché? perché è divina. Sembrando loro impossibile che la cosa sia così da vero, scherniscono come fanatici coloro che non si adattano alle loro voglie discrete. Ma tant' è: o conviene abolire il Cattolicismo con la legge civile, o conviene che questa legge s' inchini a lui riverente, lo rispetti in tutte le sue parti; se no, la legge cozzerà e si spezzerà contro lo scoglio: quelli che lo professano, il Cattolicismo, sanno d' essere in questo superiori alla legge civile, e superiori a tutta la forza da cui è circondata: poiché questa Religione è essenzialmente libera anche sotto il ferro, ed ella sola dà al suo seguace la vera indipendenza e il coraggio dell' uomo libero. Uno dei più grossolani equivoci è certamente quello che prende il volgo delle rivoluzioni, quando gli si fa risuonare agli orecchi la parola libertà . Per lui la libertà è la facoltà illimitata di fare tutto ciò che gli attalenta, di soddisfare agli impulsi delle sue passioni senza ostacolo d' alcuna autorità, di non essere obbligato ad alcun ordine nel suo operare. E` consentaneo che coloro i quali in un dato stato vogliono distruggere l' ordine stabilito, s' approfittino di questa viziosa disposizione d' una gran parte della plebe, e facciano risuonare a' suoi orecchi questa parola vaga di libertà, senza darsi alcuna sollecitudine di determinarla; anzi tenendola sempre a bella posta sull' indeterminato. Se ella venisse determinata ad un senso razionale, sarebbe finito l' incanto, e la magica verga si spezzerebbe nelle mani dei prestigiatori. Per questo è impossibile ragionare co' rivoluzionari di professione, e sperare di indurli a distinguere la libertà dalla licenza, considerando essi come mezzo opportuno al loro intento la confusione stessa de' concetti. Tutto questo non ci può sorprendere. Ma c' è una cosa che deve cagionare giustamente maraviglia, ed è, che non tutti quelli che prendono la licenza per la libertà , rivolgono per questo nell' animo di rovesciare i governi stabiliti: meraviglia ancor maggiore dee produre, che ce ne sieno degli altri che con quella confusione tanto volgare e tanto immorale credano di stabilirli; e sopratutto che anche non pochi di questi stessi che presiedono a' governi, almeno nella pratica, si mostrino di un tale avviso. Una persuasione così fatta genera una politica abbietta e dispregevole; si crede guadagnare al governo l' affetto del popolo abbandonandolo alla licenza e promovendola con mille modi indiretti sotto il magnifico nome di libertà; ma i governi immorali non solo si discreditano nell' opinione de' savi, ma il popolo stesso più si corrompe, e dispregia quel governo che gli fornisce i mezzi di corrompersi. Che se si cerca il fondo di questo sistema politico della licenza, si riconoscerà che i governi licenziosi, lungi dal mirare co' loro atti a stabilire la libertà, mirano veramente ad edificare il dispotismo: partono da una segreta persuasione che sia più facile dominare un popolo corrotto e sfibrato, a cui in pari tempo sia dato ad intendere che è libero, perché è libero il vizio di spaziare impunito, in parte anche onorato. Questa perfidia s' è più volte praticata tanto da' governi assoluti, quanto da' governi costituzionali e dalle Repubbliche, ché la forma del governo non impedisce punto che i governanti e i governi possano andar privi d' ogni moralità. Solamente che i primi non possono coprire la licenza sotto il mantello della libertà: è un previlegio de' secondi l' abusare ipocritamente di questa parola per trasformare il vizio in diritto pubblico. D' altra parte a questa maniera d' operare de' governi licenziosi, che per abuso di parole si dicono liberi, si rattaccano molte questioni: questioni di morale, questioni di diritto, questioni di religione e di politica. Che cosa è la licenza? - Ecco già una questione grave di morale, e può essere anco di religione, su cui si può disputare e si può non intendersi. Ha il governo civile il diritto di reprimere la licenza? o una qualche parte almeno di ciò che costituisce la licenza? - Ecco un' altra questione di diritto, che divide parimenti le opinioni. Può il governo reprimere la licenza, ogni licenza, senza mettere a rischio o la tranquillità o la sicurezza dello Stato? - Ecco una terza questione di politica, o di prudenza governativa, la cui soluzione varia indefinitamente secondo le indefinite circostanze in cui si trova la società civile. Ma qualunque sia la maniera di risolvere queste diverse questioni, conviene prima di tutto convenire in questo, che la licenza e la libertà sono cose diverse e che non conviene attribuire all' una il nome dell' altra, non conviene credere, o mostrare di credere, di far progredire la libertà quando si fa progredire la licenza. Ora la confusione delle idee nel mondo è pervenuta a tal segno, che su questo stesso è difficile ad intendersi « se esista della licenza », se differisca d' essenza dalla libertà, e l' una sia l' opposto dell' altra. Infatti, come possono concedere che si abbia una licenza opposta essenzialmente alla libertà, coloro che non riconoscono l' essenza della morale e tutto riducono ad un calcolo d' utilità? Egli è evidente, che agli occhi di costoro la licenza non può differire dalla libertà, se non per essere in certe circostanze inopportuna e disutile: non ci vedono costoro nessun male intrinseco ed assoluto: tutti credono dover valutare dagli effetti che la licenza produce. E da quali effetti? Non certamente da effetti moralmente buoni, o moralmente cattivi, ché la questione si volgerebbe in circolo, ma dagli effetti piacevoli o dolorosi, da vantaggi o svantaggi temporali, i quali si possono avere nella vita presente, da effetti utili e disutili alla potenza del governo e all' economia pubblica. Egli è dunque evidente che per tutti quegli uomini che non riconoscono la Morale, e non vedono altro che l' utilità e la disutilità nelle azioni umane, non ci può essere azione alcuna che non sia essenzialmente licenziosa e assolutamente malvagia. Epperò, se costoro hanno in mano le redini de' governi, non possono avere scrupolo a promulgare leggi licenziose e a pretendere disposizioni immorali, quando ci trovino il tornaconto, o credano secondo il loro calcolo di trovarcelo: né si può entrare con cotestoro in discussione su ciò, perché disconoscono la prima e fondamentale distinzione del bene e del male, sulla quale s' appoggia la dignità e la nobiltà del vivere umano e la sua viltà e ignobilità. Il nostro discorso adunque non può indirizzarsi a questi. Altro non possiamo dir loro, se non: ritornate ad essere uomini: se il vostro imbrutimento nasce da errore d' intelletto, istruitevi e vi sarà facile convincervi, che esiste una morale che non è l' utilità, e che quella è d' un valore assoluto, a cui niun vantaggio temporale è comparabile. Se poi, rinunziando alla morale, avete rinunziato anche alla ragione, e negate l' autorità morale unicamente perché non la volete, non ho alcun rimedio a suggerirvi; il libero arbitrio appartiene a voi, non a me; ma a chi ve l' ha dato appartiene il dimandarvene conto. Vi fo soltanto riflettere, che, se voi negate l' esistenza della legge morale e di una conseguente obbligazione morale, abdicate tutti i suoi diritti. Poiché come potete imporre altrui la obbligazione di rispettarli, quando negate ogni obbligazione? Dovete dunque convenire che voi non avete più diritti, perché non esiste più la natura del diritto, quando non ci sia di contro l' obbligazione morale che lo protegga; né voi potrete più lamentarvi, che gli altri uomini seguendo la vostra dottrina si levino la vita, l' onore, la roba, ecc., ogni qual volta il calcolo dell' utilità (ché nessun altro può fare per essi) li consiglia di operare in questa maniera. Vi resterà la forza: ma n' avreste sempre abbastanza per difendervi? Questo è quello che è dubbioso, specialmente se la dottrina che voi professate sia abbracciata da chi è più forte di voi. Lasciati adunque da parte costoro, noi vogliamo ragionare, come abbiamo cominciato, con uomini onesti, di buona fede, che non solo riconoscono l' esistenza d' una morale, ma l' apprezzano al di sopra di tutte le cose. Esistendo agli occhi di questi l' autorità, superiore ad ogni autorità, della legge morale, esiste per essi l' obbligazione e il diritto, la virtù e il vizio, la libertà e la licenza. Con costoro si può dunque proporre e discutere la questione: « che cosa è la libertà, che cosa è la licenza? ». La libertà, per contrapposto alla licenza, non può essere che il libero esercizio di tutte le facoltà umane regolato dalla legge morale. La licenza all' opposto è bensì in qualche modo un esercizio delle facoltà umane, ma non regolato dalla legge morale, anzi a questa opposto. Tutto quello adunque che è vizioso nell' umana attività, è licenza e non libertà: tutto quello che è lecito e virtuoso, appartiene alla libertà. Questi princìpii non possono esser addotti in controversia da quelli che ammettono l' ordine morale, né sono mai stati dubbiosi pel senso comune. Se dunque noi vogliamo partire da questi semplici princìpii, ci riuscirà facile rilevare quale sia la natura dei governi liberali, e quale la natura de' governi licenziosi che fanno uso riprovevole del nome di libertà per venirci. Poiché que' governi, che con le leggi e con le loro disposizioni lasciano i cittadini liberi ad operare quanto naturalmente è lecito e buono, questi, qualunque sia la loro forma, o monarchia, o aristocratica, o democratica, o mista, sono a tutta ragione governi liberali, e quanto più li lasciano liberi a ciò e meno dànno loro impacci di leggi e di decreti, tanto più sono liberali. Que' governi all' incontro, di nuovo qualunque sia la loro forma, che nella formazione delle loro leggi, e in tutti i loro atti seguitano la massima, che c' è tanto più di libertà in un popolo, quanto maggiore gli si lascia facoltà, e maggiore gli si dà occasione di ubbidire alle passioni e di sfogarsi ne' vizi: que' governi, di conseguenza, che con le dette leggi ed atti stabiliscono quasi un diritto universale l' essere impunemente licenzioso (il che provoca la pubblica licenza), questi, liberali falsamente si chiamano, ma sono veramente licenziosi. Egli è pur singolare a vedere che nell' animo di molti s' è confitta questa assurda opinione, che ci possa essere un diritto del vizio. Il vizio non può essere oggetto d' alcun diritto, assolutamente parlando, perché il diritto è cosa morale, non un semplice fatto: il diritto è una facoltà di operare protetta dalla legge morale, il vizio all' incontro è ciò che la legge morale condanna. Ma qui nasce un dubbio, che è quello che complica la questione e la rende difficile; poiché gli uomini viziosi difendono la loro libertà di peccare impunemente in due modi. Alcuni con la fronte alta vi dicono: noi siamo in diritto di fare quello che vogliamo. Alcuni altri, più cauti, dicono: l' operare viziosamente non può costituire un diritto, lo accordiamo, ma neghiamo che il governo civile abbia alla sua volta il diritto d' impedire l' operar vizioso e immorale; e però reclamano questa pretesa libertà. Questa è la seconda questione che ci proponevamo. Ai primi adunque crediamo superfluo rispondere, poiché quando dicono: noi abbiamo il diritto di operare tanto il bene quanto il male, scambiano manifestamente il diritto col fatto: che abbiano la libertà naturale d' eleggere il bene o il male non è che un fatto; non è e non può essere per modo alcuno un diritto: converrebbe confondere tutte le nozioni per dire il contrario. Se si ammette che l' operare il male sia proibito dalla legge morale; con ciò stesso si riconosce che non può essere. O dunque non ammettono l' esistenza della legge morale, e in tal caso non esiste più diritto alcuno, come dicevamo, ma dei puri fatti; o ammettono l' esistenza d' una tale legge, e in tal caso il diritto non può essere che una facoltà d' operare protetta dalla medesima, e però una facoltà d' operare il lecito. La potenza dunque che ha l' uomo di scegliere il bene ed il male, è un fatto naturale, che contiene un diritto, ma che non è tutta diritto nel suo esercizio; poiché operare il bene essendo approvato dalla legge morale, acquista con ciò la dignità di diritto; ma operare il male non ha in sé alcuna dignità morale, e però non può costituire diritto alcuno. Rispondiamo adunque ai secondi, a quelli che concedono a noi, che non si può dare un diritto assoluto del male, ma tuttavia vogliono stabilire un diritto relativo del male, cioè un diritto di non essere molestati dal governo a cagione del loro operare vizioso: onde in questo senso chiamano l' impunità del vizio, diritto di libertà civile. Interviene in questa questione un singolare equivoco. Volete voi dire, noi dimanderemo a costoro, che il vizio non possa essere represso dall' autorità de' governi civili, purché esso abbia qualche cosa di rispettabile, per un titolo insomma inerente al vizio stesso? Ovvero, volete dire che l' autorità del governo ha i suoi limiti, determinati dal fine della sua istituzione, e che la sua autorità a cagione di questi limiti non può arrivare fino alla repressione del vizio? La prima di queste due cose è così apertamente stravagante, che non fa bisogno di parlarne; convien dunque che vi appigliate alla seconda. Ora che cosa prova la seconda? Che cosa prova e che cosa viene a dire la proposizione, che il governo civile ha un' autorità ristretta entro certi limiti determinati dal suo fine? Null' altro, se non che il governo civile non avrà forse autorità di stabilire pene per tutti gli atti viziosi, potendovene essere di quelli che al fine della società civile non s' oppongono, almeno direttamente, ovvero che non si possono sopprimere senza cagionare un male maggiore. Ma poiché ci sono indubitatamente anche quegli atti viziosi ed immorali, i quali nuociono gravemente alla società civile ed al suo fine; per ciò appunto è da dire, che il governo civile abbia l' autorità e il diritto di reprimerli e di punirli. La questione in tale modo cangia di natura, e non si tratta più di sapere « se il governo possa e deva reprimere ciò che è vizioso, senza offendere la libertà »; ma si tratta di determinare entro quali limiti questo diritto del governo civile sia naturalmente ristretto, ristretto dico, non già da un sognato diritto di libertà che possa avere l' uomo a peccare impunemente, ma dallo stesso fine del governo, che ne determina le incombenze e i poteri. Ora questa è la seconda questione che noi accennavamo intorno al diritto e al dovere de' governi civili, di reprimere la licenza: tentiamone la soluzione. Ma prima qual è, ci si dice, la soluzione della questione nel sistema utilitario? parlo di quella che logicamente deriva da questo sistema. Sarà forse favorevole alla licenza? Può essere, ma certo è contraria alla libertà. Non esistendo più né morale né giustizia, per l' utilitario (poiché di tutte queste cose tien luogo la sola utilità) consegue che anche il governo civile, non possa prendere a sua direzione altra norma o regola, che la sola utilità. L' utilità checché si dica, è sempre ed essenzialmente personale, poiché colui che preferisce l' utilità altrui alla propria, non seguirebbe la norma della utilità, ma della virtù. Onde gli utilitari al governo devono di necessità considerare l' utilità propria come fine, l' altrui come mezzo, che è il carattere del dispotismo. Ma supponiamo che gli uomini del governo per una felice incoerenza si propongano a fine l' utilità pubblica; anche in questo caso ne verrà che il sistema penale, come ogn' altra disposizione governatica, sarà regolato unicamente secondo il calcolo dell' utilità. Quando la sia così, alla legge o ai giudici sarà facoltativo di sottoporre a pene anche degli innocenti, se parrà che questo sia utile. Così infatti presso certe nazioni utilitarie si puniva di morte il generale che perdesse una battaglia, benché senza la menoma sua colpa. Le vite dunque e le sostanze de' cittadini, ammessa una tale dottrina, sono subordinate a' calcoli utilitari, più o meno approssimativi degli uomini che governano. Ora da una parte quest' è il più orribile e barbaro dispotismo, dall' altra è la più obrobriosa servitù e il più profondo avvilimento della dignità umana. Per compenso questo governo tirannico potrà essere a sua voglia licenzioso, purché da' suoi calcoli utilitari risulti proficua la licenza. Il diritto penale filosofico senza alcuna base di giustizia era divenuto in fatti la dottrina comune, prima che Pellegrino Rossi, e qualche altro scrittore italiano, di nuovo lo rimettesse sulla sua base naturale ed eterna, rovesciata da sensisti e da quello spirito d' empietà e di immoralità che guastò profondamente ne' tempi recenti, più o meno, tutte le università e i governi d' Europa. Sembra già tempo di guarire da questa vertigine, di ritornare ai princìpii di giustizia e d' onestà, non meno che di ragione. Secondo questi princìpii esiste nello Stato un diritto di punire che non può applicarsi che ai colpevoli: è un diritto rivolto appunto a reprimere la licenza e a proteggere la libertà... (2).

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 11 occorrenze

- Non sospetti che possa essere quel servo di stalla, che abbiamo licenziato tre anni fa .? - Or fa un anno che è andato in America. - Ma dall'America si ritorna - disse sospirando il buon uomo, che all'idea d'un viaggio in America si sentiva venir le vertigini. - Dall'America si ritorna: e poi si lascia sempre a casa qualcuno . - Conosco questa gente, stia sicuro. Solamente sarà prudenza non dir nulla di questa lettera, né alla contessa né alla contessina . - Sicuro, sicuro! le donne si lasciano facilmente impressionare. Anzi bisognerà stare attenti che non facciano loro qualche brutto scherzo nella strada. Ahimè, si precipita! È una cosa che dobbiamo trattare fra te, me e il Riboni. Dovresti chiamarlo, se c'è . - Tornerà stasera. Ora beva il suo brodo e non ci pensi. - Portalo via, non mi va giú - disse restituendo la scodella, con una mesta espressione di abbattimento. - Guasterei anche quella poca colazione delle undici e mezzo. Lasciami vedere ancora una volta quegli scarabocchi. Altro che! si precipita maledettamente, si precipita! - Non ci pensi piú. Vedrò io il signor Riboni - disse Fabrizio, facendo scomparire il foglio nella pettorina del suo grembiale di servizio. - Vedete se con una cinquantina di lire si può mandare in pace un povero affamato. - Se lei comincia a dare, non si salva piú. Queste lettere è meglio fingere di non averle ricevute, o si consegnano al questore. - Guardatevi bene dal metter in mezzo la polizia! non voglio gendarmi in casa. Ve lo comando! - gridò, alzandosi quanto era lunga la sua piccola persona, lasciando cadere un gran pugno sul "Dizionario dei sinonimi". - Non voglio intrighi, deposizioni, arresti, diavolerie di questo genere, né per tre mila né per sei mila, né per dieci mila. Avete capito? comando io! - Mai la paura d'un uomo aveva parlato con piú coraggio. Fabrizio finse acconciarsi e disse: - Come vuole, signor conte. Del resto, creda pure, che quando non si dà nulla e non si ha nulla a temere, queste lettere son buone per la stufa. - E soprattutto si badi a non far saper nulla ai giornali. Non voglio pettegolezzi. Come si semina si raccoglie! brontolò parlando con sé stesso - Per certa gente è già una grande colpa il nascere bene. Come se avessi domandato io al padre creatore di farmi nascere dal grembo d'una nobile Magnenzio. Si precipita . Fabrizio lasciò il conte in preda alle sue smanie piagnucolose, e corse a far leggere la lettera alla contessa, perché fosse avvertita in tempo di questa nuova minaccia. Donna Cristina aveva ricevuto alcuni giorni prima la lettera di Giacomo e in seguito a una nuova visita di don Angelo cominciava appena a veder un po' di lume in mezzo a quella spaventosa oscurità, in cui si dibatteva da cinque mesi. La bontà di Giacomo l'aveva commossa. Seguendo l'ispirazione del cuore riconoscente, stava preparando una lettera di conforto al generoso amico, che non rifiutava d'essere suo alleato nell'opera di riparazione, mentre gli sarebbe stato cosí facile vendicarsi colla rovina di tutti. Il cuore della donna, della madre, della cristiana, ravvivato da un raggio di speranza, insieme alla riconoscenza, sentiva un ardore insolito di bene, quasi un desiderio di emulazione in questa gara di sacrificio, e andava pensando quel che poteva restituire di bene al mondo in compenso di tanto male e quale soddisfazione, degna di sé e dell'uomo, potesse offrire al giovine avvilito e trafitto nei sentimenti piú sacri. "Io non so scrivere" gli diceva "e mi manca l'arte di esprimere tutta la pietà, che ho provato e che riprovo leggendo la vostra lettera. Non al professore, non all'uomo dotto, ma immagino dunque di scrivere a quel giovinetto Giacomo, che in altri tempi frequentava la mia casa e al quale non mi pento ancora d'aver dato un forte consiglio. È invocando questa mia benevolenza quasi materna, che vi parlo come da amica ad amico, da donna che ha salito il Calvario ad uomo che ha salita la croce, nella fratellanza dei comuni dolori. Conforti materiali, riparazioni degne di voi non potremo darvene. Indegna io stessa d'ogni consolazione, sarei quasi spregevole, se volessi offrirne a voi; tanto meno ho consigli a darvi. Vi dico soltanto questo: che prego per voi colla stessa anima con cui prego pe' miei figli, nella fiducia che Dio, che ha la mano miracolosa, voglia versare nelle vostre piaghe l'unico balsamo che può col tempo ristabilire le forze perdute. Lasciatemi almeno l'illusione, povero Giacomo, che io non prego, no, per il riposo d'un morto, ma per la pace di un vivo. Davanti ai mali irreparabili l'uomo forte ha sempre un rifugio nell'idea che non vi è cosí gran male che non possa essere superato da una piú grande speranza. I mali vengono piú dalla fatalità che non dalla cattiva volontà degli uomini; ma l'idea del bene vien tutta da noi. Io ho troppa stima della forza del vostro cuore, per non sperare che chi ha scritto qualche pagina virtuosa e sublime non sappia arrivare col cuore fin là dove un giorno è volato col pensiero. Spero che in molti istanti, cosí piagato come siete, abbiate a sentire la santità e la dignità della natura umana ingrandita in voi. "Il fuoco raffina i nobili metalli. Il dolore ha scoperto e messo a nudo molta parte di voi, ch'era prima ignota a voi stesso e che, senza queste scosse, sarebbe rimasta per sempre sepolta. Non dite dunque come un povero merciaio alla vigilia del suo fallimento, che la vostra vita è finita. Provate a chiedervi una volta se per caso una vita nuova non stia per cominciare per voi. Che voi abbiate gettato alle fiamme il manoscritto in cui, come dite, eran raccolte le illusioni della vostra giovinezza, non mi fa pena, come pare che infondo faccia a voi. A me basta che non abbiate abbruciata la vostra fede. Purché la fiamma salga al cielo, poco importa che abbruci l'altare. Provate a cercare nella cenere e ritroverete il vostro diamante. Per quanto grande possa essere il vostro sacrificio, i meriti che acquistate agli occhi di Dio e a quelli della vostra coscienza sono tali che non potranno produrre col tempo che un gran bene. Voi siete giovine e dovete conservare intatte le vostre idealità. Seguitate a studiare. Noi abbiamo bisogno di chi sostenga la fede nella virtú. I nostri figli, lo vedete, non credono piú all'affetto delle madri, e quelli stessi, che dovrebbero combattere in prima fila per l'onore, sono i primi a imbrattarsi di fango. Voi potrete fare del bene, non solo coll'ingegno che Dio vi ha dato, ma anche coll'esperienza che vi siete acquistata. Nessun privilegio nobilita tanto l'anima nostra quanto la coscienza di aver molto sofferto ." A questo punto era arrivata e stava quasi per chiudere la lettera nella quale il suo cuore, nella felice improvvisazione del sentimento, si esaltava della misteriosa dolcezza che hanno le umane consolazioni, quando Fabrizio con un passo sospettoso entrò a farle vedere la scarabocchiata lettera, che aveva tanto spaventato il povero conte. Essa, che quasi s'illudeva di toccare il porto, trasalí a questo nuovo inaspettato assalto. Quel mondo geloso e avaro nelle sue pretensioni, a cui aveva sperato di sfuggire, dava segno di risvegliarsi e già si presentava all'uscio come un esoso creditore. I debiti del male voglion essere scontati e pagati; l'esattore era qui. Pallida, tremante, nascose il lurido scarabocchio tra le carte profumate dello stipetto. - Non dite al conte che mi avete fatta vedere questa lettera: cercherò di parlare col Prefetto. Non parlatene con nessuno. Ah mio Dio, non abbiamo finito!

che male abbiamo fatto noi due per essere cosí puniti? L'ascoltava essa? pareva che uno spirito vegliasse nell'oscurità profonda di quel sonno letale, che impiombava le sue palpebre e snervava tutte le sue forze, perché alle parole carezzevoli rispondeva talvolta un breve corrugare delle ciglia, un movimento languido delle labbra, che cercavano ancora un sorriso. Di mano in mano che la luce si diffondeva nella stanza e i pensieri della realtà entravano a dominare la sua commozione, Giacomo, nel contemplare quel povero corpo rattrappito nelle sue braccia, quei piedi nudi illividiti, le vesti sciupate, i capelli cascanti sul viso arso dalla febbre, non seppe più trattenere il pianto. Credeva che fosse inaridita per sempre la fonte delle lagrime, e invece se le sentiva colare tiepide e larghe nei solchi del viso, le vedeva scorrere come un vero lavacro dagli occhi suoi sul viso e sulle mani della disgraziata . - Povera Celestina, povera "Frulin"! se ti vedesse lo zio Mauro, che ti voleva tanto bene. Perché dovevo provare questo dolore? no, no, non avrei mai creduto che si andasse cosí lontano nella via del patimento. Se non si muore di questi mali, è segno che veramente c'e in noi qualche cosa che non può morire. Cosí parlava o credeva di parlare a lei, ma in fondo non faceva che ascoltare sé stesso. E intanto non osava muoversi per paura di rompere quel breve momento di riposo e di benedetta dimenticanza, che la ristorava. Pensava che, perché la poverina avesse avuta l'audacia di fuggir da una casa ospitale di notte, e di mettersi tutta sola per una strada piena di neve, affrontando i pericoli e gli sgomenti di un viaggio cosí pauroso, questo voleva dire che la febbre dei suoi mali l'aveva eccitata fino al delirio. Ne' suoi discorsi, nel suo stesso ridere festoso c'era già qualche cosa di troppo, di oscuro, di irregolare; e questa febbre cresceva spaventosamente ad abbracciarla, la faceva gemere nel sonno, emanava in una vampa rovente, in cui cominciava ad ardere egli stesso, come di un fuoco che si propaga . Finalmente sentí muovere nella stanza di sopra gli zoccoletti della Lisa, che poco dopo sonarono sulla loggetta. Aspettò ch'ella venisse dabbasso e, quando la vide entrare in cucina, le fece un richiamo colla mano.

Noi abbiamo ritrovato in Cremona le solite nebbie e le tristezze solite; e temo che il verno per le presenti difficoltà politiche non abbia a rimuovere i dolori di questa plebe, cui già troppe voglie mettono in quello stato, che non può trovar posa in sulle piume. Spero nella diligenza vostra (tosto che le forze vel consentano) per dar opera a ordinare un primo catalogo di quelle mie iscrizioni, alle quali è, posso dire, attaccata una parte della mia vita e di quella vanità, che nella vita serve come l'olio delle lampade a rischiarare il sentiero che mena alla morte. Vorrei che l'opera del padre tornasse di sprone al figlio, quando questi occhi saranno morti alla luce del sole, per nobilitarsi, come dice il nostro divino Petrarca, in qualche bell'opera di mano o d'ingegno. La classe nostra, per troppa sete di godimenti sensuali, trascura oggidí quell'arti, che ai nostri maggiori diedero lustro e autorità nel mondo, onde nessuna meraviglia, se all'insorgere dei nuovi ordini e dei nuovi dritti popolari, l'aristocrazia epicurea si mostri impari al compito suo. Questo, come sapete, è mia intenzione dire in quel "Discorso preliminare", che premetterò alla raccolta delle iscrizioni gentilizie e che sarà la mia fatica e il mio ozio in questo tenebroso verno. Vi mando la copia definitiva dell'iscrizione, che ho preparato alla memoria del vostro compianto genitore. "Brevis esse laboro, obscurus fio", posso dire con Orazio: ma nulla è piú tedioso quanto una parola vana; e qui sonmi ingegnato di stringer la maggior quantità di fatti nel minor numero di segni. Ditemi tuttavolta il parer vostro, ché non tanto m'ingegno di piacere quanto di non dispiacere agli amici. Ho dovuto lasciar tale e quale la frase arte laterizia, checché dica quel bon'omo del canonico Ostinelli a cui sono cosí care le cianciafruscole manzoniane. Abbiatemi per vostro. Lorenzo Magnenzio di Villalta. GIACOMO A CELESTINA Fornaci, 15 dicembre. Mia cara e buona Celestina, mia buona sorella, sono stato molto malato, molto malato per te. Per poco morivo del tuo dolore, mia povera innocente. Sarei venuto prima a consolarti, ad asciugare le tue lagrime, se Dio non avesse avuto pietà del mio patimento e non mi avesse per molti giorni tolte le forze e la coscienza di me stesso. Ma verrò, sta certa, appena potrò sopportare questi freddi e le fatiche del viaggio senza pericoli. Ho bisogno di piangere con te e di dirti una parola che ti consoli. Qualunque sia la tua disgrazia, per me è certa l'innocenza tua come è certa la luce del sole. Dio terrà conto de' nostri patimenti e farà giustizia. Se anche la contessa non avesse sostenuta la tua parte contro l'iniquo che ti ha oltraggiata, puoi credere che io avrei dubitato un istante della tua virtú e del tuo affetto? Gli uomini e Dio giudicheranno il colpevole come si merita; ma tu lasciati giudicare da me. Sí, Celestina, il tuo cuore, la tua vita, la tua virtú sono nelle mie mani come il giorno che ho raccolto il tuo primo sguardo d'affetto. Hanno empiamente calpestato questo nostro affetto, hanno trascinata nel fango la nostra virtú, e questo colpo sarà il principio della nostra morte, ma noi possiamo guardarci in faccia senza rimproveri e senza rossore. Io ti assolvo e ti benedico, mia povera figliuola! Se potessi essere costí, vorrei metterti le mani sulla testa per rendere piú fortequesta benedizione. Lascia che essa scenda fino al tuo cuore e lo rinfranchi. Immagino tutto quello di piú spaventoso agiterà i tuoi giorni e le tue notti. Forse avrai maledetta la vita, la fede, la religione, e nel delirio del male avrai meditato cose perverse e terribili. Ebbene, non pensar piú a nulla, non dir piú una parola, non far piú un passo senza prima interrogarmi. Se qualche volta ti par di morire di dolore, come è sembrato a me, pensa che la tua vita non è tua, e che nella tua disperazione io perderei l'ultima forza e l'ultimo sostegno di quel coraggio, di cui ho molto bisogno per me e per gli altri. Se mi vuoi proprio bene, in nessuna maniera potresti dimostrarmelo di piú, come nel mostrarti dolce e ubbidiente a' miei consigli. Fino alle feste di Natale io resterò alle Fornaci: dopo andrò a insegnare in una scuola del Lago Maggiore, a Pallanza, dove hanno bisogno d'un professore supplente per il principio dell'anno. Lascerò accomodare queste nostre cose in modo che non manchino a' miei fratelli i mezzi per lavorare. Se la mamma vorrà venire con me, impedirà che m'intristisca nella solitudine. E chi sa che tu non possa tenerle compagnia? Essa potrebbe avere in te una mano che l'aiuti e nello stesso tempo avresti in lei una dolce e materna assistenza. In paese nuovo molte malinconie passeranno da sé, e può essere che Dio trovi nell'avvenire e per te e per me un compenso a queste terribili prove. Quel che ti scrivo, mia povera creatura, è la voce sincera del cuore, e vorrei scrivere ancora di piú, se non mi sentissi gli occhi velati di lagrime. Ho bisogno di sapere che tu sei buona, tranquilla, obbediente: e poiché queste signore ti usano molta carità, pregale per me di mandarmi spesso tue notizie. Prega l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è presente: anzi, non è mai cosí vicino a noi, come quando ci sembra che ci abbia abbandonati. Il tuo Giacomo. Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce. Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: "Mio zio - le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò mortodel tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma .". - E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.

Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo! ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto, il sapiente, vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche? Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper. Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese: - Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena. - Lo farò volentieri. - Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno. - Tu pensavi forse a prender moglie . Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse: - Sai che io son legato da un'antica promessa . - Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo. - Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro . Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

Abbiamo di là una piccola raccolta di monete antiche, che forse potranno interessarla. Norma sa distinguere benissimo un Nerone da un Diocleziano. Sento dire che anche il conte Magnenzio è un mezzo antiquario. Lo incoraggi, e me lo conduca qualche volta. Troverà prezzi, dirò cosí, di fallimento. Norma, accompagna il signor professore . E dopo avere stretta la mano di Giacomo nelle sue di scheletro vivente, s'inchinò per l'ultima volta, chiuse l'uscio, lasciando che la ragazza accompagnasse il giovane a vedere la raccolta delle medaglie antiche. Ma Giacomo, che possedeva la sua psicologia e sapeva servirsene, mostrò di avere una grande premura, promise che sarebbe tornato con piú comodo e, rinnovati i suoi rispetti alla signorina, si avviò verso il portone seguito dai botoli, che mostrarono colle loro giravolte e con certi mugolii di tenerezza di saper anch'essi apprezzare la filosofia. Quando Giacomo fu di fuori, corse a un tratto per la bella strada al sole, colla contentezza del topolino che fugge da una trappola troppo grande per il suo piccolo corpo. Che il signor Ignazio volesse bene a sua figlia e lavorasse per accrescerle la dote, che Norma, la figlia della spagnuola, avesse due magnifici occhi e un fare procace di baiadera, eran cose naturali, che stavan bene al loro posto; il punto difficile cominciava nel voler trovare quel tal uomo rispettabile, che servisse di errata corrige alle cattive speculazioni del suocero e che, insieme a una bella ragazza spettinata, si rassegnasse a sposare una ricchezza racimolata nei due emisferi a furia di baratti e di usura. Sollevando lo sguardo alla finestra della sua Celestina, l'ultima sopra le serre, che splendeva nella luce del sole, gli parve di guardare in un angolo del paradiso.

. - Noi abbiamo dei doveri non solo verso i vivi, ma anche verso i morti e verso quelli che verranno. Per la colpa d'un povero ragazzo, che sarà stato tirato nelle tentazioni, non si possono sacrificare le tradizioni e il decoro di due antichissime famiglie. Non si scherza! Che cosa dirà monsignor vescovo e nostra cugina monaca .? - Che ora voglion nominare superiora! - completò Gesumina, che pareva un'anima smarrita nello spazio vuoto del salone. - Ci sono doveri e doveri, non è vero, donna Cristina? - insinuò donna Adelasia. - Ho io mancato al dovere di madre? - uscí a dire con appassionata tristezza la contessa, a cui la parola dovere risvegliò quasi nell'animo un acerbo risentimento. - Fu appunto per educare mio figlio a sentimenti elevati di virtú e di dignità che ho combattuto tutta la vita. La nobiltà ha i suoi doveri, sí, donna Adelasia; ma nessun dovere si compie bene, se manca la forza morale e l'educazione della mente. Se qualche volta ho potuto sembrare rigorosa verso questo disgraziato, era per tentare di sottrarlo con tutte le mie forze alla decadenza fatale che ci perseguita e al contagio degli oziosi suoi pari. Sono stata troppo superba e Dio mi ha castigata. Il tono doloroso, non privo di dignità, col quale donna Cristina pronunciò queste parole, sgomentò non poco le due vecchie zitelle, che, incapaci dientrare colle loro piccole cuffie in un concetto superiore, si affrettarono a chiedere mille perdoni, dimostrando che ci doveva essere stato qualche malinteso nelle parole. - Io non ho detto, cara contessa, che qualcuno abbia mancato al suo dovere. Parlavo dei doveri del nostro ceto . - Che cosa si può fare per salvare Giacinto? - chiese la madre, stendendo la mano in segno di pace a donna Adelasia. I progetti messi innanzi e discussi furono molti. Prima d'ogni cosa, bisognava fare in modo che il conte non ne sapesse nulla, perché nelle condizioni precarie della sua salute, sarebbe stato come un dargli una pugnalata. Non meno necessario era di tener celato il disonore della casa a monsignor vescovo e a tutti i San Zeno, che avrebbero potuto disinteressarsidel povero ragazzo e danneggiare col suo anche l'avvenire di Enrichetta. Infine la prudenza voleva che la ragazza fosse allontanata subito, con un bel pretesto, dalla casa, dove la sua presenza diventava sempre più pericolosa e occasione di scandalo; e poiché un pretesto lo si trova facilmente, sarebbero venute esse stesse al Ronchetto a chiedere la ragazza in prestito per qualche tempo colla scusa di farsi aiutare a finire un certo padiglione di seta, che avevano promesso all'altare della Madonna per la prossima festa del centenario. Anzi, per semplificare di piú l'impresa e per non suscitare inutili discorsi, al prossimo martedí l'avrebbero aspettata alla Madonnina della Noce, dove sarebbero andate colla carrozza a prenderla. E rimasero in quest'accordo.

Stese le braccia verso di lui, mormorando con una scossa dolente del capo: - Giacomo, noi vi abbiamo sempre voluto bene - e pose la mano sulla chiave, quasi per impedire che egli la lasciasse cosí. - Qualcuno pagherà col sangue - ruggí l'uomo ferito, mentre cercava di aprire; e colla furia di chi invoca uno scampo contro le fiamme che lo inseguono, tirò l'uscio, andò fuori: e, trovata nell'andito oscuro la scaletta, scese a precipizio, a lume d'istinto, uscí a precipizio dall'atrio, pigliando a scendere pel viale della fontana tutto giallo di foglie, senza vedere davanti a sé che una nuvola di nebbia, da cui non riusciva a liberare il capo. Valicata la soglia del giardino, entrò in una vigna, e poi da questa vigna in un bosco di castagni, che viene a cadere quasi sulla chiesa del Santuario, e sempre a corsa discese il dosso del Ronchetto fin sulla strada comunale, che traversò per entrare in altre boscaglie piú basse e piú fitte, sempre nella direzione del fiume. Cosí una fiera ferita cerca i cespugli e va a inasprire nei rovi la piaga che sanguina, ma teme, arrestandosi, di sentire piú vivo il suo dolore. Seguendo la stradicciuola che costeggia il corso dell'acqua, ora per luoghi aridi, ora per campi di stoppia, ora tra vecchie paludi disseccate, dove i canneti e le scope contrastano il terreno alle alluvioni, egli andava cercando il deserto per poter mandare il suo grido di dolore, un gran grido, che, non potendo uscirgli dalla strozza, minacciava di soffocarlo. La verità turpe, sguaiata, gli si avventava contro con impeti improvvisi, lo mordeva, facendogli provare orribili strazi, quantunque il caso gli paresse cosí inverosimile da far pensare piuttosto a un delirio angoscioso e crudele. Che Celestina fosse perduta per lui e perduta in quel modo nefando, era un pensiero atroce, che spingeva l'animo a propositi atroci: ma quando gli si presentava l'idea che in compenso di questo delitto, egli aveva allegramente accettato e speso un denaro che non era piú in grado di restituire: quando ricordava i commenti che la gente da un pezzo andava ripetendo alle sue spalle, erano lampi di vera follia che luccicavano nel suo cervello. I vili, i bigotti avevano voluto ipotecare la sua coscienza! I vili, i bigotti volevano pagare a denaro il prezzo di due vite! Ignominiosa bindoleria! esecrato delitto! A quest'infamia non c'era che una riparazione possibile: la lama di un coltello nel cuore dell'assassino, o nel proprio cuore. Oh distruzione di ogni illusione! oh rovina d'ogni ideale! Aveva cercato l'uomo morale e non trovava che la belva! Che farne di Celestina? come proteggerla contro i morsi del mondo? come purificare o almeno giustificare la sua condotta d'uomo pagato? Dove trovare credito e stima e un denaro meno infame per riscattare sé stesso da questa schiavitú? Se egli avesse potuto fare un gran rogo di tutta la sua casa e se in questo rogo avesse potuto gettare sé stesso, non gli pareva ancora sufficiente olocausto per redimersi da questo cumulo d'ingiustizie e di offese, che l'opprimevano. Anche dalle ceneri delle sue ossa sarebbe uscita abbastanza vergogna per far ridere un Brognòlico. Da qualunque parte si voltasse, si sentiva respinto, come se agitasse in una gabbia irta di punte. A impeti d'odio e di vendetta mescolavansi altre immagini piú miti che avevano nella loro desolazione la forza d'arrestarlo sul sentiero. Alla sua povera mamma non poteva dire: andiamo via, mi hanno assassinato. Egli non aveva il diritto di affamare dei poveri innocenti. O Dio, come mai era potuto venire in questo abisso di mali? In qual parte del mondo era egli vissuto finora, per non accorgersi di questa enorme e grottesca canzonatura, a cui aveva dato fin qui il nome pomposo di ideale filosofico? A che cosa aveva giovato a lui l'aver studiato tanto nei libri, l'esser vissuto onestamente povero, castamente fedele a una dolce immagine, se all'uomo sapiente e virtuoso non era riservata che una corona di spine e una finale fischiata? Inseguito, sferzato da questi furori, dopo aver percorso in un vacillamento da sonnambulo forse due miglia nel ghiaieto del fiume, trovato un luogo cespuglioso in mezzo a morti stagni, dove era sicuro che nessun occhio umano poteva rattristarsi della sua vista, si lasciò stramazzare sulla sabbia, che per voglia di mordere strinse nelle unghie e portò rabbiosamente alla bocca. Non aveva piú lagrime negli occhi, ma se le sentiva piovere sul cuore. Il patimento morale, fondendosi col patimento fisico in un unico spasimo, produsse un lungo e doloroso singhiozzo, in cui gli parve che si rompesse tutta la compagine della sua vita. Un'onda amara e verde di saliva rigurgitò e traboccò in un fiotto spumoso dalla bocca, mentre i sudori freddi scorrevano a irrigidire la sua carne. Rimase cosí come morto tutta la notte. Fu un sabbionaio che, scendendo sul fare dell'alba con un carro a prendere materiale al fiume, vide quel corpo intirizzito e umido di guazza. Riconosciuto el sor Giacom, lo prese sul carro e lo portò alle Fornaci.

Giacomo, come si è detto, conosceva tutti i segreti di questo paradiso terrestre, ch'egli aveva cominciato a frequentare da ragazzo ed era, in certa qual guisa, cresciuto con lui: talché poteva considerarlo un poco come suo, per quel diritto di possesso morale, che abbiamo su tutto ciò a cui è attaccata una parte della nostra fanciullezza. Quando viveva ancora la vecchia contessa, madre di don Lorenzo, Giacomo era solito salir tutte le mattine a servir la messa, che si celebrava nella cappella del palazzo. Strada facendo, nell'attraversare ilgiardino, la sua festa era di andar per le macchie, a ritrovare le traccie dei nidi degli usignuoli e dei capineri, che in primavera facevano nei boschetti una orchestra. Fu appunto per la sua docilità di carattere, per il suo raccoglimento religioso, per il suo viso delicato sotto i riccioli spessi di un color quasi d'oro, per la sua speciale devozione alla Madonna, che donna Matilde, detta ancora oggi la contessa vecchia, formò l'idea che si potesse cavare da Giacomino un buon ministro del Signore e nello stesso tempo un buon cappellano per la casa. Se ne parlò a don Angelo, che persuase Mauro a non lasciar scappare una cosí bella occasione. Il pà, che aveva imparato dai suoi vecchi a ricevere tutto quel che veniva dal Ronchetto come una benedizione, non seppe dir di no: la mamma vide subito il vescovo nel suo figliuolo; e Giacomo fu vestito da prete. Nelle vacanze tornò sempre a servir la messa in palazzo, finché visse donna Matilde, e quando, morta questa, cominciò a comandare donna Cristina, il chierichetto non cessò d'essere considerato come un figliuolo della casa; anzi, siccome don Giacinto cresceva un po' pigro e sventato, la contessina pensò di servirsi di Giacomo per dargli un compagno buono, studioso, che gli si imponesse colla serietà del carattere. Toccò dunque al pretino l'incarico d'accompagnare il contino, non solo alla messa tutte le mattine alla Madonna del Bosco, e di esercitarlo nel leggere e nello scrivere, ma gli fu compagno nella caccia colla civetta, lo seguiva al "Roccolo" di don Andrea, o nelle escursioni ch'egli volesse fare nei dintorni. Allo spuntare dell'alba, tutte le mattine di bel tempo, era lí sotto le finestre di don Giacinto a tirare sassolini nei vetri, colle gabbiette e le canne del vischio sulle spalle, finché il piccolo poltrone si risolveva a cacciar le gambe dal letto. Uscivano insieme a correre nei prati umidi dell'Adda, a tendere nei boschetti di nocciuoli insidie e trappole ai passeri e ai fringuelli, finché la fame, che si risvegliava presto negli stomachi digiuni, faceva levare i cartocci della colazione. Molte volte il contino cedeva il suo pollo fritto e lo spicchio del suo pasticcio per gustar la polenta fredda e il caciolino del compagno; ma qualche altra volta l'umore dell'eccellenzina non era molto trattabile. Per quanto Giacomo avesse qualche anno di piú e vestisse da prete, i vizi e l'orgoglio dei sangue si ribellavano non di rado agli ordini e alla dottrinetta del pedagogo, che mammà mandava per far la spia; e piú d'una volta all'ombra delle siepi di sambuco, e negli aridi fondi dei ghiaieti, tra il nobile spavaldo e prepotente, e il giovine povero, che sentiva fin d'allora la forza della sua aristocrazia morale, erano corse amare parole e qualche cosa di più solido. Un giorno don Giacinto, vedendo di non poter spuntarla, minacciò di ammazzare il suo chierichetto con un tremendo coltellaccio, che aveva levato dal cassetto della cucina; e da quel dí Giacomo non ne volle piú sapere. L'uno fu messo in collegio presso i Gesuiti, l'altro partí per gli studi di teologia, e non si videro piú, se non a brevi intervalli, come due uomini che camminano in senso inverso, si voltano e si rivedono di tanto in tanto sempre piú confusi e sempre piú rimpiccioliti, finché l'uno non sa piú nulla dell'altro. Giacomo, nel tiepido silenzio di quel caldo pomeriggio di settembre, nel riandare col pensiero in modo saltuario e confuso a queste memorie d'altri tempi, ricordava il giorno, in cui era venuto a dichiarare a donna Cristina che la sua coscienza non gli permetteva piú di vestir l'abito ecclesiastico. Fu una grande battaglia, la piú terribile battaglia de' suoi vent'anni, di cui le piante del giardino eran state non insensibili testimoni. Oh se avessero potuto parlare, e dir quante lagrime egli avesse sparso nei dolorosi istanti del suo combattimento, quando invocava inutilmente da Dio il coraggio d'una risoluzione che avrebbe suscitata una tempesta! Quasi vicino a toccare la mèta, dopo aver goduto per dodici anni i benefici in una casa che aveva pagata sempre la sua pensione e sollevata la sua famiglia da tutte le spese, dopo aver ridestate molte speranze nei professori, nei compagni, nel cuore dei parenti, che vedevano già in lui il difensore della chiesa, egli era arrivato al punto scabroso di dover rinnegare tutte queste speranze e tutti quei benefici. Il doloroso segreto non era ancora uscito dal suo cuore, ma sentiva questa necessità crescere, giganteggiare, sospingere la sua coscienza. Per quanto rumorosa e aspra potesse essere la meraviglia della gente, tuttavia qualunque rimprovero gli doveva sembrare piú sopportabile di fronte al rimorso di commettere un tradimento sull'altare di Dio. Dopo aver cercato inutilmente vicino a sé un amico o un confidente discreto, che l'aiutasse a essere sincero, fu quasi per un istintivo consiglio del cuore che si lasciò condurre a confessare il suo tormento a donna Cristina. La scena gli era ancor viva davanti agli occhi. La contessa l'aveva fatto chiamare per consegnargli, secondo era sua abitudine, alcune piccole elemosine da distribuire ai vecchi piú poveri. Era una domenica piovosa. Essa portava ancora il lutto per la morte recente di donna Matilde. Gli parlò di Giacinto, gli mostrò una bibbia illustrata del Doré, lo pregò di scegliere alcuni versetti d'un salmo adatti per una miniatura, e, mentre essa parlava e si moveva nella luce blanda della finestra, il cuore di Giacomo batteva d'un'insolita commozione. Colle lacrime agli occhi, egli cominciò a parlare: e la buona signora lo lasciò dire, lo lasciò piangere un pezzo, lo compatí, gli parlò da buona madre e prese sopra di sé l'impegno di persuadere il conte, lo zio prete, i parenti. - Lei potrà far del bene lo stesso e anche di piú, - gli aveva detto - e son persuasa che i Magnenzio non avranno mai a pentirsi d'aver incoraggiato il suo ingegno e la sua volontà. Da quel giorno Giacomo aveva avuto per donna Cristina un sentimento di illimitata gratitudine, quasi di venerazione, e avrebbe voluto che si presentasse una grande occasione per dimostrarle che i benefici di casa Magnenzio non erano caduti a nutrire un ingrato. A lei aveva piú tardi confessato il suo amore e le sue idee per Celestina, provando nel rivelare alla gentildonna il dolce segreto del suo cuore il sollievo stesso che aveva provato qualche anno prima a piangere davanti a lei. Dolci memorie, che tornavano a consolarlo in questi nuovi frangenti in cui era venuto a cadere! E fu per godere piú a lungo della freschezza, dirò cosí, di questi pensieri che invece di procedere pel viale di mezzo, che va diritto all'ingresso del palazzo, piegò pel piccolo viale, detto dei carpini, per una lunga allea di queste piante, che il gusto architettonico del vecchio conte Massimiliano aveva fatto ritagliare a foggia di portici con arcate, disposte intorno a un obelisco in una piazzuola deserta, che pareva preparata per un minuetto di fate. Quando fu giunto presso l'obelisco, s'imbatté in Celestina, che usciva dal viale della serra con un gran mazzo di fiori freschi da mettere in tavola. Appena essa vide il giovane, trasalí, cercò sfuggirgli, ma non fu piú a tempo. *** - Sei tu? - le disse lentamente Giacomo, senza quasi alzare gli occhi - la povera mamma ha cercato piú volte di te. - Povero zio .! - mormorò Celestina; e come se in quella compassione cercasse un pretesto per liberarsi da una grande sofferenza, che le riempiva il cuore di lagrime, portandosi frettolosamente l'angolo del grembiale al viso, pianse in modo cosí dirotto che mosse Giacomo a piangere e a confortarla. - Tu gli volevi bene, lo so, e lui te ne ha sempre voluto a te come una sua figliuola. Ma chi sa che egli non sia uscito dalle tribolazioni . - Oh sí, oh sí! - ripeté la ragazza senza levare il grembiale dagli occhi, acconsentendo con forza. - Tocca ora a noi aver del coraggio - disse Giacomo colla voce insinuante e tenera, che gli usciva naturale, quando una forte emozione agitava il suo spirito. E alzando una mano, volle asciugare egli stesso col grembiale gli occhi della giovane, che voltò via il volto e rimase come intimidita davanti a lui. - Tocca a noi, non è vero Celestina? Quest'anno ero tornato con molte speranze. Credevo proprio che sarebbe stato l'anno buono di coronare il nostro amore, ma Dio non vuole: pazienza! Sarei un cattivo figliuolo, se pensassi a me in questi momenti cosí dolorosi, in cui sento che resto solo alla testa della mia povera famiglia. No, l'avvenire è troppo scuro e prevedo che dovrò rinunciare a molte altre speranze. Celestina fece uno sforzo per prendere la parola, ma, soffocata da una grande angoscia, portò il palmo della mano alla gota e ve la tenne con uno sforzo rigido e pesante, come se cercasse con quell'atto di energia di sorreggere la testa. Un lampo di disperazione balenò nel suo sguardo, ma Giacomo non se ne accorse. Era uno de' suoi difetti d'andar troppo vagando nelle idee generali anche quando la realtà lo menava in mezzo alle ortiche. Continuando sempre con sommesso tono di dolcezza, mentre andava giocherellando coi coralli della collana ch'essa aveva al collo, seguitò come se parlasse a sé stesso: - Non ho amato che te nella mia vita, lo sai, non potrei essere di nessun'altra. Anche tu mi hai voluto bene e me ne vuoi, vero? - Egli la interrogava col suo sguardo affettuoso, che penetrava nelle radici del cuore. - No? non me ne vuoi piú? - insistette con un sorriso carezzevole, passando leggermente la mano sui neri e lisci capelli della ragazza. - Sentite, Giacomo, - proruppe finalmente la fanciulla con una voce lacerata da un dolore sordo e crudele. - È un pezzo che volevo parlarvi di questa cosa, e forse è bene che ve ne parli ora per sempre. Voi non dovete piú pensare a me. - Perché io non devo piú pensare a te? - chiese senza rancore Giacomo, che prevedeva questi nuovi scrupoli in un'anima delicata. - Perché io non son degna di voi. - E prima ch'egli avesse tempo di protestare, ritrovando nell'eccitazione del suo sentimento la forza che nessuna autorità esterna avrebbe saputo darle, seguitò con tono eguale, quasi freddo, ma convinto, senza togliere lo sguardo dai fiori, che andava sbadatamente sfogliando con le dita: - Penso che la Madonna vi abbia mandato oggi in un momento di dolore, perché io trovi il coraggio di dirvi quel che devo dirvi. Forse è meglio che questo vostro pensiero non si compia mai. Voi non siete piú quello d'una volta. - Perché "Frulin", io non sono piú quello d'una volta? - disse Giacomo, evocando un piccolo soprannome che il pà, per far presto, aveva inventato per lei quando era venuta in casa: e mise in questa voce senza senso una tale dolcezza allegra e canzonatoria che Celestina impallidí come se agonizzasse, un velo nero le offuscò gli occhi, e fattasi a un tratto sdegnosa e dura: - Ascoltate, Giacomo - gli disse aggrottando le ciglia. - Quando è nata questa nostra affezione eravamo due ragazzi, e non si poteva sapere dove si sarebbe finiti. Povero voi, poveretta io, ci siam voluti bene senza capire cosa volesse dire volersi bene. Il tempo non è passato allo stesso modo per noi due: io sono ancora la povera ignorante di una volta, mentre voi avete fatta molta strada, e ne dovrete fare molta ancora. Sento come tutti parlano di voi: avete stampato anche dei libri, e ne stamperete ancora; ma per andare avanti avete bisogno di essere libero, di non dover trascinare una povera contadina, che sarà sempre per voi un peso morto. Se io potessi essere la vostra serva, ma vostra moglie è un'altra cosa. Avete bisogno di una ragazza che vi possa seguire e capire. In questa buona casa vedete che non mi manca nulla: e poi, se devo dirvi tutto, da qualche tempo sento una voce che mi chiama. - Che cosa ti dice questa voce "Frulin"? - seguitò Giacomo, sempre sul medesimo tono di chi non vuol pigliare le cose sul serio. - Alcune monache cappuccine, che vengono spesso al palazzo per la questua e che rimasero qualche volta a dormire, mi hanno parlato di quel che soffrono le povere morette in Africa e vorrebbero che io andassi con loro. Poiché non posso essere vostra, voglio essere di Dio. Che cosa volete, Giacomo - continuò con un singulto, come se si sforzasse di reprimere un'amarezza rigurgitante. - Mi pare di essere già stata per voi una cattiva tentazione quel giorno che lasciaste di studiare da prete, con molto dispiacere dei vostri, specialmente dello zio prete, che dopo d'allora mi ha sempre chiamato un diavolo . Giacomo non poté nascondere un sorriso di compiacenza a questa antica facezia dello zio prete, e avrebbe voluto cominciare a parlar lui; ma la ragazza, trascinata dalla foga appassionata del suo pensiero, non lo lasciò dire: - Non voglio ora essere il vostro inferno, dopo essere stata la vostra tentazione. Lasciatemi andare per il mio destino e voi andate per il vostro. Troverete cento buone ragazze migliori di me, con istruzione, con dote, che vi permetteranno di studiare con meno stenti, che sapranno capire quello che scrivete, che vi faranno onore in società . Giunta a questo punto, come chi arriva sfinita dopo una gran corsa sulla cima erta d'un monte, le mancò tutt'a un tratto la lena. Un terribile impeto che, venendo dallo stomaco minacciò di soffocarla, la fece andare indietro di qualche passo: ma la volontà fu ancora piú forte del patimento. Non volendo piangere, si portò alle labbra una cocca del grembiule, che prese a mordere, mentre cercava intorno a sé cogli occhi se arrivava qualcuno a liberarla. - Chi mi ha parlato già di queste monache cappuccine e di questa voce che chiama? - prese a dire Giacomo con flemmatica bonomia: - Credo la contessa, una volta: non ho capito ben con quale intenzione, se non fu per mettere alla prova anche la mia vocazione per te . Da quel fino psicologo che credeva d'essere, Giacomo avrebbe voluto aggiungere che queste titubanze e questi scrupoli nel suo "Frulin" non solo non lo persuadevano, ma erano per lui una ragione di piú per voler bene alla sua tentazione e al suo diavolo. Di donne dotte ormai ne son piene le dispense; mentre una donna semplice e sincera non c'è scienza che la possa fabbricare, se non la fabbrica la mamma natura. E avrebbe voluto aggiungere, se fosse stato il caso fare una lezione in quel sito, che quanto piú gli uomini sono analitici, complicati, foderati di sapere, tanto piú cercano di riposare la testa sul seno d'un amore semplice e naturale, che li aiuti a essere semplici e naturali. I piú occulti misteri si svelano nelle anime più ingenue, mentre gli spiriti superbi e raffazzonati non sentono piú se non quel che il loro orgoglio permette di sentire. E all'uomo moderno non mancherebbe che questa disgrazia per essere il piú disgraziato degli animali, vale a dire, che, dopo aver guastato molte cose belle per il capriccio di voler vedere come son fatte, avesse a guastare anche l'amore, riducendolo a un dialogo tra un filosofo e una donna cogli occhiali. Questo, ripeto, avrebbe voluto dire Giacomo Lanzavecchia, a una santarella piena di titubanze e di scrupoli inutili. Ma avrebbe "Frulin" penetrato lo spirito della sua sottile psicologia? Si limitò a castigarla con due schiaffetti, soggiungendo: - Avremo tempo di parlar di queste faccende con piú comodo. Ora ho troppe cose per la testa. È in casa la contessa? Celestina accennò di sí col capo. - Vorrei domandarle che ti lasciasse venire tre o quattro giorni alle Fornaci a far compagnia alla povera mamma, che non ha piú la forza di reggersi. Mentre io vado dal conte, dille che desidero parlarle. e . e . (girando il braccio intorno alla vita della ragazza, la trasse un poco a sé, premendo le labbra a lungo nel fitto de' suoi capelli) e di' alle monache che il tuo moretto da salvare l'hai trovato da un pezzo. Giacomo se ne andò pel viale dei carpini, non volendo piú far attendere il conte, e lasciò Celestina irrigidita in tutto il corpo, cogli occhi aridi e fissi, col cuore inerte, indurita, come una statua. Quando il giovane scomparve dietro la casa del fattore, venendo a un tratto a mancare in lei la forza artificiale che l'aveva sorretta finora, il suo corpo si sfasciò, e cadde sul margine dell'erba, colla faccia rivolta alla terra, urlando nel silenzio di quella verde solitudine: - Madonna, Madonna, Madonna, fatemi morire!

Noi abbiamo le nostre Società operaie fortemente organizzate, e, se tre o quattro giornali vogliono divertirsi, lo scandalo Magnenzio, San Zeno, Lanzavecchia, abilmente lanciato, in quindici giorni fa il giro di tutta Italia. Siccome sonoamico politico non solo di Ferrazzi, ma ho qualche relazione all'Estrema, so quel che si può fare, quando c'è l'interesse di fare. D'altra parte, ho molta stima per l'onorabilità e la rispettabilità della sua casa, caro signor conte; conosco anche il signor Giacomo Lanzavecchia e so che uomo è; finalmente son uomo anch'io, so capire e compatire questi peccati di gioventú; anzi, è il caso di dire: chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma la politica non ha viscere di pietà; quando ha fame divora, se non altro, anche i suoi figli. Permodoché, tutto sommato, vale a dire, tenuto conto degli interessi morali da una parte, degli interessi pubblici dall'altra, io credo che, in ultima analisi, noi dovressimo proprio venire a una soluzione pacifica. Ci vuol pazienza, caro conte, il mondo va pigliato com'è. Pensi che nel grosso del pubblico non c'è nulla che faccia tanta impressione come un romanzetto galante tra un elegante della jeunesse dorée e una povera ragazza del popolo. Le figlie del popolo, che servono ai piaceri dei ricchi, è un tema non ancora sfruttato, molto piú in questo caso, in cui c'è modo di battere insieme al blasone anche l'eroismo d'un ufficiale di cavalleria, che, mentre gli altri vanno a farsi ammazzare in Africa, resta a casa ad abbracciare e sedurre le cameriere. Perdoni, don Lorenzo, se oso dare al cuore d'un padre queste crudeli trafitte; ma è bene che ella abbia sott'occhio tutto quel che si può dire e tutto quel che domani potressimo stampare. Qualora, invece, si cercasse di accomodare lo strappo inter nos, senza bisogno di testimoni e di reciproche scritture, né venti, né venticinque mila lire devono parere una somma esorbitante. A questa lunga e corrente esposizione dell'avvocato Brognòlico, don Lorenzo, tenendo le mani appoggiate ai ginocchi e gli occhi immobili nel volto del suo interlocutore, prestò un'attenzione che andò di sorpresa in sorpresa, di meraviglia in meraviglia, di curiosità in curiosità, di paura in paura come proverebbe un villano ignorante davanti ai prodigi diabolici d'un abile prestigiatore. Partito col desiderio di conoscere chi fosse il famigerato Galiasso, prima trovò che il brigante era un giornalista, poi che il giornalista era d'accordo col deputato, il quale, non capiva bene in qual modo, se l'intendeva col vescovo per minacciare qualche cosa di grosso, non a lui, pover'uomo, ma a qualcuno de' suoi, che aveva abbracciata una cameriera. E quel ch'era piú bello ancora, le tremila lire di Galiasso diventavano, strada facendo, ventimila, venticinquemila. Nello sforzo che egli faceva dentro di sé per entrare nello spirito di questo strano racconto, in cui vedeva, peggio che nelle Metamorfosi d'Ovidio, un brigante trasformarsi in un narciso e un framassone in una mitria, tutte le rughe del volto confluirono sulla sua fronte, le grosse ciglia bianche formarono come un cespuglio spinoso sopra il naso, la sua carnagione andò oscurandosi come sotto una nuvola, che passasse davanti al globo della lucerna. E di mano in mano che l'avvocato andava pesando il pro ed il contro, riferendosi con certezza a fatti che erano ignoti a uno di loro, il povero conte si sentí inondare da una fredda paura, da un febbrile sgomento, che gli tolse la capacità di rispondere. Quando il Brognòlico cessò di parlare, don Lorenzo rimase lí colle mani sui ginocchi, gli occhi attenti ad aspettare il resto della curiosa storia. Vedendo che l'avvocato non aveva piú nulla a dire e che ora toccava a lui, proprio a lui, di parlare, alzò lentamente una mano, che tenne sollevata un pezzo in aria, mosse le labbra entro una frase sconnessa, in cui passò ancora una volta il nome di Galiasso, e, allungato il braccio tremante fino a toccare il bottone del campanello, a Fabrizio che comparve sull'uscio, chiese: - È tornata la signora contessa? - Sí, signor conte. - Digli che l'aspetto qui. Nel breve intervallo che rimasero ancor soli, l'avvocato, che stava studiando l'effetto della sua proposta sulla cera appannata del conte, interpretando il suo silenzio come un freddo e disdegnoso risentimento, cercò di raddolcire la sua proposta, dicendo che non si sarebbe mai fatta una questione di numeri, che, con un po' di deferenza dalle due parti, si sarebbero facilmente messi d'accordo. Donna Cristina era appena tornata dalla conferenza, quando Fabrizio venne ad avvisarla che il conte aveva bisogno di parlarle. Al nome dell'avvocato Brognòlico, ch'essa conosceva come un suo nemico nato, vale a dire quanto un giacobino deve essere nemico di un aristocratico, indovinò quel che poteva essere accaduto. Fabrizio non osò disingannarla. Si può immaginare che cuore fosse il suo, quando con passo rotto, con una pesante spossatezza di tutto il corpo, entrò nello studio del conte - Guarda un po', Cristina, se sai spiegare questo biglietto del deputato di Breno - Il conte, in piedi dietro la scrivania, indicò col tagliacarte d'avorio l'avvocato, che all'entrare della contessa si era tirato in piedi anche lui e stava in attitudine rispettosa: - Presento il signor avvocato Galeazzi: voglio dire Ferrazzi . - Brognòlíco - corresse l'altro; il quale, volendo in poche parole far capire alla signora lo scopo e l'importanza del suo mandato, si affrettò di soggiungere: - Signora contessa, vengo a nome di Monsignor vescovo. Il conte, sempre in balía d'un tremito convulso, toccando ora un libro, ora un calamaio, ora una penna, come se cercasse con questi contatti materiali di scaricare una corrente di elettricità, agitando il tagliacarte in aria, domandò volgendosi alla contessa: - Devi tu qualche cosa a Monsignore? ti sei forse impegnata in qualche obbligazione politica? chi è che abbraccia le cameriere in casa mia? Si può sapere qualche cosa di quel che si fa e di quel che si búggera in questa casa? mi scrivono lettere minacciose, vengono in casa mia a farmi delle proposte disonoranti, mi oltraggiano in ciò che mi resta di piú nobile, e non mi è dato nemmeno sapere a chi devo dir grazie. E che c'entrano i giornali coi fatti miei? Io non li leggo nemmeno i giornali, per non guastarmi lo stile, e quindi posso pretendere che non abbiano a occuparsi di me. Sai che cosa ha avuto il coraggio di dire questo signore a un nobile Magnenzio di Villalta? - Il conte nel metter fuori queste parole appuntò il tagliacarte d'avorio come una spada verso gli occhiali affumicati. - Ha avuto il coraggio di dire che in casa Magnenzio le figlie dei popolo servono ai piaceri dei padroni . La contessa, non potendo piú sostenersi sulle gambe, si lasciò cadere col corpo quasi sfasciato sopra una sedia. Era un'altra battaglia perduta. E il conte, sempre piú acceso in viso d'un color rosso, che faceva comparire ancor piú candidi i capelli lunghi ed i baffi, battendo col tagliacarte sul legno della scrivania, prese a dire, colla dignità con cui avrebbe declamato all'Ateneo di Bergamo il suo "Discorso preliminare": - Signor avvocato Brognòlico, lei è entrato in casa nostra colla presentazione d'un amico e d'un parente e io amo rispettare in lei il carattere sacro dell'ambasciatore; ma mi permetta di dirle, e lo dica pure a chil'ha mandato, che i Magnenzio, da Berengario in poi, non solo non hanno mai risposto a proposte disonoranti, ma possono dire con Dante: la vostra miseria non mi tange . E come se in questo supremo sforzo morale si fosse consumata l'ultima energia della schiatta, il conte, arruffato un gran gesto colla mano stanca in aria, restò a bocca aperta, paralizzato, nell'incapacità fisica di continuare. Accorse Fabrizio, che, sorreggendolo, gl'impedí di cadere. La contessa gettò un grido spaventato e si affrettò a riceverlo nelle braccia. Si mosse anche l'avvocato, che ritirò le sedie, fece largo per aprir la strada verso l'uscio della cameretta vicina, dove il povero conte fu adagiato su un divano. Preso da uno dei suoi accessi di cuore, sbarrando gli occhi, non faceva che mormorare delle sillabe scucite, che parevano invocare un po' di carità, un po' di compassione. Agli squilli dei campanelli uscirono altri servi, accorse miss Haynes, che fu mandata indietro a trattenere donna Enrichetta. Il conte cominciò presto a riaversi. Allora donna Cristina, tirato in disparte l'avvocato, definí con lui in un discorso concitato e positivo quest'ultima parte della vertenza e gli consegnò un biglietto per il ragioniere Riboni. - Sono addoloratissimo, creda, signora contessa, di essere stato causa innocente di tanto male; se avessimo immaginato che il signor conte non era al fatto delle cose, non avressimo certamente. - Ma la contessa gli voltò le spalle prima che egli avesse potuto finire. Col prezioso biglietto in mano Brognòlico traversò le due anticamere, uscí sullo scalone, si fece indicare da un servo lo studio del ragioniere Riboni, e guardando l'orologio per rifare i suoi conti sul tempo, si rallegrò in cuor suo di aver spazio avanti a sé anche per mangiare un boccone. Se avesse potuto formulare in parole la confusa compiacenza, che rischiarava in quel momento la sua diplomazia, senza pretendere di far ombra a Nicolò Machiavelli, avrebbe potuto riassumere il suo pensiero in questa grave sentenza: "La miglior politica non è quella che corre, bensí quella che arriva a tempo".

Le vecchie e illustri biblioteche sono in bocca ai sorci o nelle mani dei rigattieri; i preziosi archivi se li mangiano le tarme; le raccolte dei quadri di valore se li portano via i sarti e i dentisti arricchiti; e cosí il basso popolo si abitua a non stimarci più, ci considera come nati solamente fruges consumere, aspettando il momento di portarsi via colla forza quel che non abbiamo ancora perduto colla pigrizia. Brutti tempi! ma ne vedremo di piú brutti: e quando diremo "mea culpa, mea maxima culpa", non ci sarà piú nessuno dei nostri in grado di dettare sul nostro sepolcro una iscrizione passabile. - Queste erano le idee, dirò cosí, in camicia, che dovevano entrare vestite e decorate nel gran "Discorso preliminare" pel quale andava facendo spogli di lingua dal Davanzati, dal Machiavelli e dall'aureo libretto della "Vita civile" del Palmieri; e passeggiando nelle sue pantofole, mentre risaliva col pensiero alla grandezza politica dell'aristocrazia romana e veneta, gli pareva di diventar grande anche lui e di sentirsi lo stomaco riscaldato da un sentimento nuovo di coraggio e di magnanimità che lo faceva digerire piú bene. Non meno felice del babbo fu donna Enrichetta per questa ritardata partenza. Per lei Cremona era una specie di monastero, senza nemmeno la distrazione del coro. Vecchie dame austere, reverendi sacerdoti, antichi amici, affumicati come i ritratti dell'anticamera, formavano l'unico diversivo delle sue eterne giornate piene d'inglese, di aritmetica, di musica tedesca, di orazioni. Qui al Ronchetto le era concessa piú libertà di svolazzare per il giardino, di scendere in compagnia di qualche buona ragazza a visitare le sue vecchie malate nei cascinali circostanti o a copiare dal vero un gruppo di piante, senza quella fodera inglese di miss Haynes, o di pregare sola nella chiesa del Santuario, da dove l'occhio scorreva nella valle dell'Adda coperta di neve. La malattia di mammà e qualche cosa d'insolito, che non osava indagare, rendevano la vigilanza meno rigida: quindi quel trovarsi a un tratto libera da ogni reticolato d'orario prestabilito, le fecero parere quei venti giorni di freddo dicembre una vera e mai provata vacanza. E cercò di goderseli leggendo e scrivendo a lungo, improvvisando grandi poemi in prosa sulla natura bianca, sui morti che sognano al camposanto, sui genii del molino, sul fumo che esala dagli umili tuguri verso il cielo, su un mondo non ancora esplorato di sentimenti, d'impressioni, di fantasie poetiche, che, prima di partire, voleva dedicare al suo professore sotto il titolo di "Foglie cadenti". Un giorno, tornando dalla messa, sentí da una vecchietta della cascina Colombera, che il signor Giacomo era stato trovato come morto in un luogo detto la Cava presso il fiume, e,portato a casa, dibattevasi da una settimana tra la vita e la morte. Questa notizia colpí il cuore della ragazza come una pugnalata. Di mano in mano che dalle Fornaci arrivavano cattive notizie, sentiva crescere le lagrime negli occhi. Fece accendere una lampada all'altare della Madonna e distribuí ad alcune povere donne gli ultimi avanzi del suo privato peculio, perché pregassero secondo la sua intenzione. Se mammà avesse permesso, sarebbe discesa tutti i giorni alle Fornaci a chieder notizie; non potendofarlo, cercava cogli occhi i neri fumaioli nel candore della neve e dalla sua finestra stava molto tempo immobile e pensierosa a ripetere mentalmente degli auguri. Quando il dottore assicurò che la congestione cerebrale era vinta e che il signor Giacomo si metteva in via di sicura guarigione, donna Enrichetta, come se anche il suo cuore uscisse da una grande malattia, aggiunse molte pagine alle "Foglie cadenti". Una finiva con queste parole: "Come ti chiami, o fiorellino, che dalla candida e sterile neve sbocci, portando il saluto della terra? Sei tu il fiore della vita, o sei il fiore della speranza, che nessun gelo può spegnere? O modesto fiore dell'elleboro, va fino a lui e portagli il saluto della vita e della speranza. Possa, allo sciogliersi di questa neve, apparire la terra seminata di violette. Già presento il profumo che inebria l'anima". Pensieri ben diversi passavano intanto nell'animo di suo fratello, il bel tenente di cavalleria. La contessa giudicava male suo figlio, quando scriveva in una lettera alla Breno: "La gioventú è egoista. Egli crede che col denaro oggi si arrivi dappertutto e dorme nell'illusione, in cui vissero i suoi antenati, che mezzo mondo sia stato creato da Dio a servizio e a divertimento dell'altro mezzo". No, Giacinto non arrivava fino all'orgoglioso concetto di creder sé qualche cosa di superiore e di privilegiato, a cui gli umili dovessero inginocchiarsi. Questa idea spagnolesca di sé stesso non poteva essere nell'indole allegra, cordiale, espansiva, leggerona del giovine, che amava semplicemente il vivere allegro, interrotto, e odiava come la morte le cose difficili e noiose. Bellissimo, ben costituito e pieno di tutte le sue forze vitali, soltanto una ferrea volontà e una solida tempera di carattere avrebbero saputo salvarlo dagli istinti prepotenti e dalle tentazioni cosí numerose, cosí seducenti per i giovinotti ricchi, molto in vista, molto cercati e pei quali la vita galante è quasi un obbligo sociale; ma su questo argomento egli soleva ripetere una facezia, che non mancava d'una certa ingegnosità filosofica: - Per fabbricar la volontà ci vuol la volontà, e non è colpa mia, se il buon Dio non mi ha data questa materia prima. Avrebbero potuto salvarlo le tradizioni austere della casa, l'affetto de' suoi parenti e l'azione moderatrice della religione; ma le tradizioni di casa Magnenzio, per quanto donna Cristina si sforzasse di tenerle su, s'erano già troppo illanguidite nella bonaria incapacità dei padri; l'affetto non era in armonia colle idee; e la religione non passava la pelle. Quel buon uomo del conte, allevato in un guscio d'uovo nei tempi della Ristorazione, quando s'è creduto di poter rompere le corna al diavolo a colpi di rosario, da uomo cosí amico della sua pace, pur di non turbarla questa pace, pur di non sentirgridare, metteva sottoterra i cocci delle cose rotte e ci metteva su una pietra. La mamma, alla quale era mancata nella sua vita di donna la rivelazione di quell'affetto, che sorregge nel tempo stesso che si abbandona, metteva forse nella sua educazione troppi sforzi spirituali, troppe idee estranee alla natura delle cose, credendo in buona. fede che il volere possa sostituire il sentimento. In quanto alla religione, è vero che Giacinto si sentiva e si confessava buon cristiano cattolico e osservante;è vero che non senza rimorso trasgrediva ai precetti della Chiesa; è vero che, vivendo in compagnia di amici nobili e ricchi, pei quali la religione, cosí come sta, non è l'ultima delle difese sociali, era tratto a considerare con rispetto e con benevolenza tutto ciò che si riferiva allo spirito e al meccanismo della Chiesa; ma gli pareva di aver fatto abbastanza, quando aveva pagato il suo tributo alla pratica obbligatoria. Farsi veder alla messa, specialmente in campagna, mangiar di magro il venerdí in faccia alla servitù, comunicarsi a Pasqua e a Natale, rispettar qualche vigilia, non celiar mai sulle convinzioni. Andiamo, via! per un giovinotto, che portava una spada, era piú di quel che si potesse domandare. Queste quattro pratiche non eccessivamente complicate, in cui è riassunto in certo qual modo il pensiero della Santa Chiesa, lo sbarazzavano dall'obbligo di pensare al resto, cioè, a Dio, all'immortalità e a tutte quell'altre tribolazioni, che logorano la coscienza degli spiriti filosofici. Anzi, come uno scolaro che, sbarazzati in fretta i quattro lavorucci di scuola la sera del sabato, si piglia tutta la santa festa per spassarsela, cosí don Giacinto, una volta eseguite le quattro pratiche tradizionali, sentiva d'aver una maggior libertà di movimento per tutto il resto. Di contro a questi argini posticci vennero a urtare le onde minacciose delle passioni e delle seduzioni mondane nella compagnia allegra di giovani corrotti e di ragazze disinvolte, nelle lusinghe dei balli e dei teatri, dove anche lesignore oneste fanno di tutto per piacere in quel che hanno di piú bello e di meno morale. Tutto stimola i sensi di un giovine di vent'anni, tutto parla al suo essere fisico in questi ritrovi, in cui la donna è specchio alla vanità dell'uomo; ed e facile che la donna cosí detta onesta, riesca anche piú pericolosa delle altre, se le piglia il ghiribizzo di giocare coll'inesperienza d'un giovane non spento del tutto. Questo fu appunto il caso di Giacinto colla famosa principessa romana, che lo fece soffrire sulla corda fin dove un giovane come lui era capace di soffrire, e gli tolse quest'ultimo sentimento di rispetto, che il maschio conserva anche in mezzo alla sua decadenza per la piú fragile delle creature. Celestina ne pagò le spese. Ma, per arrivare fin qui, era necessario che il vino gli togliesse il sentimento di rispetto che ogni uomo, anche il piú tristo, nutre per sé. Nelle accese giornate di corsa, nell'ebbrezza di un trionfo, nell'espansione d'una riunione di caccia, ora all'ombra di una tribuna, ora nella frescura d'un bosco selvaggio, dove anche la piú gentile signora cerca a un bicchier di sciampagna il grido selvaggio dell'amazzone, Giacinto aveva presa l'abitudine di bere, senz'accorgersi, due volte, tre volte piú della sua sete, deliziandosi nel ritrovare tra i fumi della vaga ebbrezza una dolcezza di cose misteriose, che parevano scendere a lui da un mondo ideale. Il vino dà spesso anche agli imbecilli l'idea delle cose grandi, per le quali non son nati: e cosí accadeva che don Giacinto vedesse attraverso al lucente tremolio del cristallo la bellezza e la perfezione di quel misterioso ed eroico gentiluomo che era in lui, che Dio aveva mandato in terra a riassumere la secolare tradizione di casa Magnenzio, per consegnarla nobile e pura a un'altra serie di illustri discendenti. Peccando d'intemperanza, egli sacrificava all'ideale. Il male era questo: che passata la sbornia. non restavano della dolce poesia che i conti da pagare! "Naturam expelles furca ." ha detto un poeta latino, Orazio, salvo errore, in un verso che Giacinto sapeva citare a mezzo nella fiducia che gli altri sapessero il resto. Tutta la sua erudizione classica si arrestava a quella furca ma credeva di saperne abbastanza per tirare anche Orazio dalla sua. Del resto che male c'è, se a ventidue anni un ragazzo si sente giovine? Un uomo, che può spendere diecimila lire all'anno senza sconcertare i bilanci del suo ragioniere; che col tempo avrebbe raccolta la bellezza di tre patrimoni, non solamente non era nato per portare gli occhiali, ma non poteva capacitarsi come mammà si ostinasse a voler cavare da lui un assessore comunale, o un fabbriciere, o un segretario di opere pie. Era lo stesso come voler cavare da un cavallo da sella un professore di greco. Vedendo che mammà non sapeva risolver nulla, e che alle sue insistenti lettere non rispondeva piú che inconcludenti querimonie, chiesto un congedo di alcuni giorni, capitò a Milano, dopo aver scritto un biglietto a donna Fulvia, che aveva in ogni circostanza mostrato per lui delle tenerezze materne. Donna Fulvia, che era appena entrata nel suo elegante quartiere d'inverno, lo invitò a colazione. Prima di andare da lei, il bel giovane si lasciò vedere al circolo degli ufficiali; quindi in compagnia di Pierino Scala feceuna passeggiata nelle sale dell'Unione, dove si raccoglie la sera il bello e il buono dell'aristocrazia maschile di Milano. Capí, dalle accoglienze e dai discorsi degli amici, che la sua avventura campestre non era ancora uscita dalle siepi e dall'ombra, e si consolò come un capitano, che sente di arrivare prima del nemico in una buona posizione. Donna Fulvia lo accolse colla espansione gioviale che fa di lei una delle piú ridenti signore di Milano. A colazione si parlò di tutto un po' delle corse di Roma,della bella principessa di Cerere, che doveva venir sposa nel prossimo carnevale con uno dei piú amabili gentlemen della società lombarda. Don Lodovico di Breno, uomo di non troppe parole, ma fino come una lesina, intavolò una discussione semipolitica sull'espansione italiana in Africa, ch'egli riteneva, a quei tempi, la cagione principale del nostro disagio economico; ma Giacinto, che non per nulla portava una divisa coi bottoni d'argento, gli dimostrò, tenendo la forchetta in aria, che l'avvenire del paese era là, al lago Tsana. I popoli vecchi, diceva, non hanno che da guadagnare nella fusione coi popoli nuovi; e in quanto all'Italia, noblesse oblige, era il caso di dire. Quando si è stati una volta i padroni del mondo, non si può senza vergogna rinunciare alla propria missione civilizzatrice. Per conto suo, se mammà non avesse avuto dei pregiudizi, avrebbe domandato subito d'essere mandato a combattere ras Alula. - Sí, sí, ma intanto - brontolò il conte, abbassando la sua testa precocemente calva e aguzzando gli occhi miopi su una certa miscela di carne fritta, che il cuoco aveva mandato in tavola con una salsa, in cui entrava, non so come, il principe di Galles - intanto noi roviniamo la nostra agricoltura. - Voi moderati non vedete che la politica dei vostri fagiuoli. Siete un partito vecchio, senza ideali. La bella faccia del giovane Magnenzio si rianimò all'immagine delle caccie grosse, che si posson fare al pian delle Scimmie, e alzando il calice pieno di bordò, il bel tenente bevette alla gloria dell'esercito. - Noi non ti lasceremo partire, Giacinto - soggiunse la contessa, che nella luce candida della finestra brillava d'una biondezza trasparente; - noi siamo gelose di quest'Africa, che ci toglie i nostri figliuoli. - In quanto a' tuoi figliuoli - brontolò il conte, ridendo nel piatto, mentre rivoltava la carcassa africana di quel suo magro pollo inglese - non te li toglie nessuno i tuoi figliuoli. Giacinto fissò gli occhi scherzosi negli occhi ridenti dell'amica di mammà, che rimbeccò con spirito: - La colpa è della tua politica moderata. Il bel tenente si rovesciò sulla spalliera della sedia e, balestrando il conte con una briciola di pane, gli disse: - Te la sei meritata questa volta, Vico. - Tu, taci - ribatté il conte, minacciando il giovane col dito - ne sappiamo di belle della tua politica liberale. Giacinto arrossí, e fu sul punto d'aversene a male. Ma la contessa fu pronta ad alzarsi e ad invitare il giovine a prendere il thè nel salottino. - Io vi lascio. Ho una seduta al tocco presso la Deputazione provinciale per la difesa di quei quattro fagiuoli che ci restano. Fulvia ha carta bianca per tutto ciò che posso fare per te; abbi confidenza in lei e lasciati guidare, mio caro Orlando paladino. Siamo tutti interessati a proteggerti, ma bisogna che tu faccia giudizio. Giacinto strinse la mano del conte con lunga e affettuosa insistenza per fargli comprendere che apprezzava il suo valido appoggio, e, raggirando nei polpastrelli la punta dei baffetti, promise cogli occhi quel che l'emozione non gli lasciò dire colle parole. Nel salottino rosso della contessa ardeva un bel focherello. Quando il giovine fu seduto davanti al caminetto, donna Fulvia gli offrí una sigaretta, poi gli domandò con un'intonazione un po' grave: - Ebbene? devo fare una predica? - Sono cosí pentito, cara contessa, - rispose il giovine, voltando la sigaretta fra le dita - che potrei già scrivere un quaresimale. - La povera mammà è desolata. - È desolata, ma non sa trovare un rimedio. - Non è sempre facile trovare un rimedio: ma come impedire uno scandalo? - Ha parlato con questo signor cugino, sí o no? - Nell'ultima sua lettera non mi dice ancora quale sia stato il risultato del suo colloquio con lui. E comincio anch'io ad essere un po' agitata. Comprendo tutte le preoccupazioni della povera donna. Questa benedetta questione s'impernia in un complesso di cosí gravi circostanze che ogni passo falso può condurre a un disastro. Monsignor vescovo non resterà certamente troppo edificato, quando saprà che quel suo san Luigi di nipote si compromette colle cameriere. Ma come è potuto accadere? - Come, come, - balbettò con una spallata chinandosi ad accendere la sigaretta alla fiamma del camino. - È cosí facile immaginare, Dio buono . - Diremo che è stata anche questa una passione africana, - disse col suo bel ridere argentino donna Fulvia, mentre allungavasi sulla poltrona, stendendo il corpo fino a toccare colle punte delle scarpette gli alari dorati. - È almeno bella questa Lucia del Ronchetto? - Non mi tormenti, via! - replicò egli, non senza una certa scontrosità; e, facendo sonare sul tappeto gli speroni, buttò la sigaretta nel fuoco. - Povero Giacinto, mi piace di vederti cosí contrito e umiliato. Giovinastri senza principii, senza garbo, senza orgoglio! Ma lasciamo perdere le prediche e parliamo seriamente per rendere il male minore di quel che è. Perché è inutile illudersi, in questa faccenda siamo interessati un po' tutti, i Magnenzio e i San Zeno per primi, e un poco anche i di Breno in seconda riga. Vico, che ho dovuto mettere a parte del segreto, come hai capito, ha fiutato subito il pericolo che l'affare, da scandalo privato, pigli per contraccolpo una estensione immensa, fino a compromettere i nostri interessi politici. Siamo alla vigilia delle elezioni amministrative, e puoi immaginare con che gusto i nostri nemici s'impadroniranno di questa belle Hélène. Sai che Vico l'ultima volta la portò fuori per un pelo; e uno scacco nelle elezioni amministrative vorrebbe dire in questi momenti la fine dei partito moderato nella nostra provincia. Tu non capisci che la tua politica africana, ma bisogna essere sul campo di battaglia per capire che cos'è una lotta elettorale. Come una cartuccia sparata a tempo dall'ultimo dei fantaccini può decidere una vittoria, cosí un sasso, una trave messa di traverso, può trascinare la sconfitta. Vedi quindi se Víco è interessato a mettere cenere su questo fuoco, che tu gli hai acceso accanto al pagliaio. Egli ha forti aderenze anche fuori dei suo partito e potrebbe con qualche compromesso ottenere e, se occorre, comperare il silenzio degli organetti. Ma bisognerebbe che tu aggiustassi presto i conti col cugino. Non ho ancora capito di che stoffa sia fatto questo contadino filosofo fabbricatore di tegole. Sento che ha stampato dei libri, quindi è presumibile che sia un uomo ragionevole. Vediamo un caso: potresti accettare senza scapito una sfida da lui e portare cosí la controversia sul terreno cavalleresco? Vico trova che, se egli potesse seguirti su questa via, sarebbe forse il caso di transigere su qualche particolare e di trattarlo come da pari a pari. Un reduce delle patrie battaglie, se non è nato, è cavaliere per diritto di conquista. Vico osserva anche che, se questo signor Lanzavecchia non manca d'orgoglio, dovrebbe aggradire d'essere considerato senza restrizioni. Un duello limiterebbe la questione personale e obbligherebbe piú tardi le due parti a un reciproco rispetto. Ma questo, ripeto, è il discorso di Vico. Noi donne, naturalmente, e come donne e come buone cattoliche, non possiamo approvare le risoluzioni violente. La tua povera mammà si sente morire alla sola idea che tu possa trovarti di fronte alla canna di una pistola: ma la tua divisa non ti dà un certo diritto per la scelta dell'arme? Oh che pasticcio! Vedi, benedetto figliuolo, in che imbroglio ci ha messi tutti quanti questa tua ragazzata? Donna Fulvia, che si era mossa per accendere la fiamma sotto un bricco di porcellana, si volse e, con un atto di protezione materna, passò leggermente la mano sui capelli corti, tagliati a spazzola, del bel giovinotto, che, sprofondato nella poltroncina, colle mani infossate nei taschini de' suoi stretti calzoni d'alta tenuta, stava come oppresso sotto il peso della sua responsabilità. - Quando penso che Giacinto, il biondo Apollo, è già divenuto papà. - Un sorriso d'ironia, che vibrò nella tenerezza di quella voce carezzevole, fu per il giovine tenente un filo rovente raggirato intorno alla carne viva del cuore. Nell'inchinarsi su lui, l'amica di mammà vide ch'egli piangeva. Una piccola stilla aveva già solcato il panno scuro della giubba, lasciando tra un bottone e l'altro il segno d'un punto esclamativo rovesciato. - O povero Giacinto, ti ho fatto male? come sono stata cattiva! - riprese la signora con delicata sollecitudine e con tono piagnucoloso di rimprovero a sé stessa. Volendo rimoverlo da quell'inerzia di spirito, in cui lo vedeva immiserito, si affrettò a soggiungere: - Io non dico che tu non possa trovare qualche altro rimedio. Tra gli espedienti, se io fossi in te, vorrei prendere il mio coraggio colle due mani e andrei diritto a confessare tutto allo zio vescovo. Peccato confessato è mezzo perdonato. Credo che monsignore amerà meglio saperle da te le cose, come sono andate, mentre si è ancora in tempo a rimediare, che se venisse a conoscerle dai giornali, quando non c'è piú tempo di far nulla. Nella sua alta posizione egli è piú di noi in grado di misurare il pericolo e anche di prendere gli opportuni provvedimenti. Per quanto rigido e intransigente, non può non assolvere un peccatore, che confessa piangendo il suo peccato. - Andrò a farmi ammazzare in Africa - borbottò tra il rustico e lo spavaldo il giovine, buttando nella fiamma, con un gesto aspro, la sua seconda sigaretta, come se cercasse di riaversi e di darsi della forza. Il suo capriccio non si era mai trovato a contrastare con tante seccature. Abituato a trovar sempre le porte del suo piacere spalancate, si meravigliava con attonita impazienza che non si potesse passare anche questa volta. Possibile che mancando la chiave, non si potesse sfondare l'uscio? - Per Dio! - disse ingrossando la voce per far comparire piú rauca la tenue bestemmia soldatesca, alzandosi, movendosi per il salottino. Era agitato e girava in cerca d'uno specchio per vedersi la faccia in collera. Come se l'elettricità gli uscisse da tutti i bottoni lucidi, mosse le sedie, scrollò un tavolino, e mise cosí malamente la mano sopra una gracile donnicciuola di vieux Saxe , che la rovesciò e le ruppe il naso. - Che cosa si vuole, per Dio? che mi tiri un colpo di pistola nella testa? che faccia contessa la mia cameriera? - Queste sono brutte parole, Giacinto, che ti fanno torto. Abbi pazienza. Oggi scriverò a mammà e domani concerteremo qualche cosa con Vico. Avresti difficoltà, per esempio, che mio marito andasse a parlare direttamente con Monsignore? Son due mezze potenze, sai, che nelle condizioni attuali hanno bisogno d'intendersi, e chi sa che il diavolo non sia poi cosí brutto come ce lo immaginiamo. Non andar poi a dirglielo, a monsignore, che l'ho chiamato diavolo. Donna Fulvia, sentendo muggire il thè nel bricco, ne versò una chicchera e l'offrí al giovine, stando in piedi sotto la grande specchiera, nella quale le loro belle immagini si riflettevano con nitido splendore. Calmati gli spiriti, la contessa poté condurre il discorso ad argomenti meno spinosi, e tutti e due, dopo un pezzetto, finirono col ridere come due ragazzi.

Abbiamo fatta la conoscenza di Celestina. - Dove? - Qua presso. La signora ha dovuto rimandarla a casa. - Ebbene? - Ebbene, molto bene. Per un filosofo distratto è forse troppo bella, ma tu la meriti, povero Giacomo. - Aspetta, cavallino, che l'erba cresca - disse con un sospiro. - Non sarà sempre cosí, vedrai. La felicità non si compra a danaro. Da quel che sento, il figlio di questi bravi signori va a comperarsi la rovina co' suoi denari. - È vero. Don Giacinto può essere definito il fallimento di tutte le nostre massime educative. Cresciuto sotto gli occhi di una donna santa e virtuosa, che lo raccomanda a Dio tutti i giorni nelle sue preghiere, il caro giovanotto batte allegramente una brutta strada. Un po' le donne, un po' lo sport, un po' il giuoco, a quest'ora ha già dissipata la dote di venti ragazze da marito. - E come spieghi il fenomeno? - Che vuoi che ti dica? ai ricchi la virtú è piú difficile che a noi. L'ozio, il rispetto umano, lo spirito d'imitazione, le digestioni pesanti . - Questo è del materialismo, caro mio. - Come ci sono i malati di denutrizione, cosí ci sono gli esuberanti e i pletorici. Il conte, immerso ne' suoi libri e nelle sue iscrizioni non ha la forza di volere; e la contessa forse vuol troppo, con troppo rigore e con troppo orgoglio. L'educazione se non è un equilibrio di forze, è una macchina che stritola. Se la povera donna si cruccia, n'ha di che. Essa ha provato varie volte a cambiar aria al ragazzo: l'ha tenuto in collegio presso i gesuiti a Ventimiglia, se l'è tenuto in casa sotto la guida d'un precettore tedesco, suggerito dal cardinale Hohenlohe; ma il giovine, che è già grande e grosso come tre filosofi, dice che mammà lo vuol far morir tisico. Donna Cristina si compiace d'interrogarmi per vedere se nella mia profondità pedagogica so dare un suggerimento: ma che rimedi possiamo suggerire noi, poveri pedagoghi che viviamo di pane e formaggio, a questi giovinotti che possono spendere venticinque lire inuna colazione? Le madri vorrebbero poter edificare la loro casa sui figliuoli, e hanno ragione. Se questo orgoglio è naturale in ogni donna, pensa la contessa! Quando si nominano i Magnenzio di Villalta, e piú ancora quando si parla dei San Zeno, non solo in questi paesi, ma a Cremona, a Milano, a Roma, è come nominare la famiglia di Sant'Ambrogio. Il partito conservatore ha in questi nomi i suoi stemmi piú illustri: in hoc signo vinces Dispiace veramente che un patrimonio cosí prezioso di buone condizioni vada sperperato nelle mani delle ballerine; ma sa piú bene il suo mestiere il diavolo che non tutti i moralisti presi in mazzo. COMINCIANO I GUAI Era mia intenzione di fermarmi alle Fornaci alcuni giorni, durante i quali avrei potuto farmi una idea piú esatta delle condizioni in cui si dibatteva il signor Mauro, che mostrò di aver fiducia ne' miei consigli; se non che un improvviso telegramma da casa mi obbligò a partire la mattina stessa del lunedí. Pregai Giacomo di tenermi informatodell'andamento degli affari e partii, promettendo di ritornare appena egli avesse creduto utile di servirsi dell'opera mia. Non andò molto che l'amico mi scriveva questa lettera, che fu il principio di una lunga via crucis di guai: "Ieri ho avuto una lunga conferenza coll'avvocato Brognolico, e quel che prevedevo pur troppo si verifica, anzi arriva troppo presto. Il mio povero padre è ridotto al punto che dovrà entro l'anno dichiarare il suo fallimento; e siccome l'azienda dei Lanzavecchia è sempre stata condotta coi sistemi primitivi, senza i voluti registri di commercio, cosí l'avvocato mi avverte che c'è pericolo che il fallimento possa essere dichiarato doloso. Non oso domandare quel che la legge riserva in questi casi ai colpevoli; ma sento che intornoa me precipita la mia casa sulla bianca testa de' miei poveri vecchi. Intanto mi domando quel che posso fare. Nulla di piú malinconico d'una grande dottrina incapace. Tutto occupato a edificare delle magnifiche costruzioni ideali, sento che non saprei salvare un mattone da questa grande rovina che ci travolge. Alla mamma non si può più nascondere la verità. I creditori, che assediano di continuo il nostro uscio, s'incaricano essi di farle capire, e non sempre nel modo piú cristiano, quel che mio padre con uno sforzo sovrumano di energia e di dissimulazione ha sempre cercato di nasconderle. La povera donna ora non fa che piangere, e mi domanda con voce spezzata dai singhiozzi, se alla sua età sarà costretta di stendere la mano. Battista, che non sa entrare, (per sua fortuna) in certi dolori e che in questo momento non sente che il bisogno di prender moglie, impreca e minaccia non so che cosa, se non gli lasciano sposare la sua Fiorenza. Egli pretende la sua parte, vuole andarsene a far casa da sé e non capisce che di casa non ce n'è per nessuno. Anche la Lisa, che fu sempre una ragazza di buon senso, non sa rassegnarsi a questa disgrazia, e la sua lingua dice piú di quel che vorrebbe il suo cuore. Angiolino invece, che nella sua semplicità fanciullesca crede d'aver diritto alla sua parte di felicità, mi domanda con una segreta speranza se il fallimento lo salverà dal servizio militare. Il povero vecchio è diventato torbido e intrattabile. Per stordirsi ricorre piú che non sia permesso alla sua tazzetta di vino, va da un avvocato all'altro, minaccia cause e processi e torna spesso la sera come non fu mai visto. La gente, che vorrebbe trovare in lui un uomo ragionevole e accomodante, vedendo ch'egli non si lascia piú cogliere, prima di procedere a misure estreme, vien da me, vuol sentire da me quel che intendo di fare, nel riguardo dei creditori. Chi vanta un credito di mille, chi di cinquecento, chi di cinquanta lire, chi si appoggia a un'ipoteca, chi ha prestato roba, chi esige il pagamento di alcune giornate di lavoro. A me vien sulla punta della lingua di rispondere a tutti questi cari signori: - Io non so nulla, io ho sempre studiata filosofia. - Che mi può suggerire in questi casi Platone? - ma questi bravi signori vorrebbero almeno che io dichiarassi che intendo assumere la mia parte di responsabilità. Nella loro ignoranza nessuno ammette che io possa aver studiato tanto per arrivare a capir nulla; e credono che operi con malizia, per lavarmene le mani e avere un pretesto di rinnegare gli obblighi di mio padre. Un uomo che si dichiara onesto, che ha ricevuto un gran premio, che è nelle grazie di molti signori, dice questa buona gente, non può sottrarsi senza vergogna a certe obbligazioni morali. Un certo mugnaio di Lavello, uomo grosso e naturale, che si vanta di non portar barbazzale per nessuno, l'altro dí, alzando la voce nella mia stanza, e mettendo le sue manacce infarinate nelle mie bozze di stampa, mi diceva: - Se il sor Giacomo trova i denari per stampare le sue chiacchiere, deve trovarli anche per pagare le cambiali di suo padre. La gloria, per sua regola, non la si fabbrica mica alle spalle dei minchioni. - E come se queste verità non bastassero, con un tremendo colpo della sua mano, abituata a sollevare i sacchi della. farina, fece saltare il calamaio sul tavolino e sprizzare macchie d'inchiostro sulle carte e sui muri. "Non credere, Edoardo, che io mi diverta a colorire questi episodi, per un cattivo gusto di far dello spirito sui nostri dolori. Oh, se tu vedessi gli sforzi grotteschi della mia povera disinvoltura e della mia povera dialettica, quando cerco di persuadere il mugnaio, l'oste della Fraschetta, il carrettiere, il capomastro ad aver pazienza, avresti compassione di me! Domani cercherò di rivedere questo avvocato (che avrà anche lui il tornaconto, come un filosofo, ad arruffare cose chiare), e procurerò di entrare nei particolari tecnici e legali, che minacciano di far comparire ladro e intrigante un povero galantuomo che ha sempre lavorato come un martire per amore della sua famiglia. Cercherò anch'io di mettere la mano su quel fascio di carte bollate in cui è scritta una storia e una filosofia troppo vere per essere ideali. Non so quel che farò e quel che saprò fare; ma sento che ormai la mia strada è questa che va tra le cose, e che fu una grande sciocchezza d'aver battuto finora quell'altra delle nuvole. "Non so dove andrò ad attingere la forza necessaria per lottare contro questa tempesta; non certo nei libri, che quasi non posso vedere senza provare uno stringimento di stomaco. Se non fosse che per il novembre devo licenziare questi quattro fogli di stampa, e ritirare quei quattro quattrini del premio, avrei già rinchiuso questi miei rimorsi in una cassa, e confinata la filosofia sul tetto. Dicesti una volta che giova sempre avere una testache pensa. Ma, domando, a che cosa serve il pensare la sua miseria? Che Blitz, il vecchio scettico, abbia ragione quando abbaia?". Era la metà di settembre. Mauro Lanzavecchia tornava sul far della notte, dopo una giornata calda e afosa, dall'aver visto il suo terzo avvocato a Oggiono, colla brutta notizia in corpo che il tribunale di Lecco, sull'istanza dei piú ostinati creditori, aveva fatto dichiarare il fallimento. Questo era il bel risultato di una lunga e accanita battaglia che da due anni a questa parte sosteneva egli solo contro la mala fortuna, contro gli imbroglioni, contro il governo, contro l'agente delle tasse, contro ogni sorta d'angherie e di strazi. Era partito a piedi da Oggiono per il bisogno di rompere in qualche gran sforzo la tremenda irritazione che il brutto avviso aveva prodotto nel suo sangue già avvelenato e guasto. E per darsi forza, e piú ancora per prepararsi un coraggio fittizio che l'aiutasse a portar a casa la sua condanna di morte, s'era fermato lungo la strada alla soglia di parecchie osterie a bere qualche tazzetta del solito scongiurato meridionale, a far delle celie amare cogli osti e cogli avventori contro questa perla di governo d'italiani, che prima ruba ai galantuomini e poi, se non può scannarli, li mette in prigione. Quando giunse in vista del Ronchetto, che dominava col suo palazzone come una macchia biancastra sul fondo oscuro del poggio, si fermò un respiro in mezzo alla strada, si appoggiò colle due mani sul pomo del bastone, fermo coi piedi nella polvere a contare le ore che scoccavano alla Madonna del Bosco. - Sette, otto, nove, nove e mezzo - contò, movendo un dito dopo l'altro come se sonasse il cembalo. A quest'ora a casa sua dormivano già. Che faceva lí nel buio, nel deserto di una strada? Se invece di voltar verso le Fornaci avesse preso il sentiero che scende all'Adda? Or sí or no, a seconda dei voli del vento, s'egli stava a sentire, saliva il rumore stridulo dei fiume a dirgli qualche cosa. "Cani, cani, cani" diceva mentalmente con forza; dopo tregenerazioni di galantuomini, dopo quasi ottant'anni di onesto e indefesso lavoro, tràcchete, i Lanzavecchia erano costretti a dichiarare il loro fallimento, a lasciar portar via le fornaci, la terra, la casa, vale a dire costretti a cercar l'elemosina, a mangiare il pane degli altri, a patire il disonore come se si trattasse d'una stirpaccia di scongiurati italiani. Insieme alla brutta parola di fallimento l'avvocato di Oggiono aveva fatto capire per giunta che il tribunale avrebbe cercato i libri. Che libri? I Lanzavecchia avevano scritto su tutti i muri: "Poveri, ma onesti ." questo sí; ma era inutile cercar loro dei libri. - Sarebbe bella, - disse sospirando e fermandosi un'altra volta presso il muro del camposanto, su cui batteva il chiarore d'un pezzo di luna avvolta in una nuvolaglia piena di guizzi di caldo, - sarebbe bella che si dovesse, per far presto, andare in galera. E come se all'idea sola di questo curioso accidente si svegliasse in lui la voglia di ridere, rise un pezzo di sé stesso, dondolandosi sulle gambe stracche, facendosi vento al viso infiammato col cappello. In quel camposanto lí vicino era sepolto Galdino Lanzavecchia suo padre, che portava sul capo una croce di sasso con su scritto in parole di bronzo: "Negoziante probo ed onesto .". Vicino a questa ce n'era un'altra di croce, d'un sasso vecchio vecchio con su scritto in parole, sbiadite: "Nicodemo Lanzavecchia uomo operoso e integerrimo .". Sarebbe stata bella, gamba d'un cane, che i suoi figliuoli dovessero scrivere sulla terza: "Mauro Lanzavecchia, fallito come un governo" .! Soltanto a pensarle queste cose, sudava nella freschezza che la valle mandava su; ma egli aveva la fornace di dentro. Era un calore che, gli abbruciava le viscere, che tutta l'acqua dell'Adda non sarebbe bastata a spegnere. Che gli restava di fare? annegarsi? attaccarsi a una trave della stalla prima che il governo mandasse i carabinieri ad arrestarlo? - O povero me! o me disperato per sempre! che cosa ho io fatto di male in tutta la mia vita? poveri morti, ditelo voi, se non ho sempre lavorato con giustizia e con carità. E doveva proprio toccare a me questa maledizione, a me che ho salvato cento volte gli altri, e non solo a parole, ma coi fatti, coi fatti, coi fatti . Un passo dopo l'altro, guidato dalla pratica che fa trovare all'orbo la strada della dispensa, venne fin presso le case del paese, fin all'osteria della Fraschetta, che fa quasi da sentinella sull'incontro delle strade. Un chiarore caldo traspariva attraverso le tendine rosse della porta, da cui usciva anche un brontolare spesso di voci rotto dai colpi di nocca che i giocatori lasciavano cadere sul banco. Mauro montò sul primo dei tre scalini che mettono alla bottega e cercò di ficcar l'occhio dentro per vedere chi c'era. Attraverso agli interstizi, che lasciavano le tende flaccide e molli, vide la solita compagnia, cioè il mugnaio del Lavello, il sarto, il magnano idraulico, il beccamorto, raccolti sulle ultime tre carte di una partita a tresette, a cui assistevano, fumando un'oncia di pipa, due o tre villani scamiciati. Una lampada tonda a petrolio versava dal palco su quel gruppo di faccie indurite dall'attenzione una luce cruda e lividastra che sbiadiva sul fustagno sporco, sulle rozze camicie, lasciando ombre nere negli angoli piú segreti della stanza. Mauro cercò se c'era in bottega Francesco, l'oste, il piú grosso de' suoi creditori. Avaro come una formica, arido come l'esca, non era uomo da regalare il suo a nessuno, ma il fornaciaio sperava che in considerazione del pattuito matrimonio fra Battista e la Fiorenza, trattandosi di mescolare il sangue e i denari, l'oste avesse ad accettare una combinazione, che permettesse a un povero uomo di vivere gli ultimi giorni in casa sua e di morire nel suo letto. Forse era conveniente parlargliene subito e strappargli di bocca una promessa prima che la notizia del dichiarato fallimento gli arrivasse all'orecchio. Esitò un momento prima d'entrare, perché, tra i soliti avventori seduti al banco, c'era la lingua maledica del mugnaio di Lavello, al quale Mauro si era creduto in obbligo di dare in piú d'un'occasione, qualche lezione gratuita di educazione e di saper vivere. Gli pareva già di sentirne i commenti: - Come? (avrebbe detto il mugnaio) un sapientone come Mauro Lanzavecchia ha fatto crac? non è lui quello che inventò la polvere di pimpirimpara e la trivella per succhiellare i maccheroni? non aveva le mani piene di consigli per tutti gl'ignoranti, che facevan diverso da quello che faceva lui? non ha in casa un avvocato che stordisce l'Europa e il mondo intero colla profondità del suo immenso sapere? Piú d'una volta e forse piú di quel che era necessario, il fornaciaio aveva vantato all'osteria davanti a quei quattro o cinque zoticoni il talento eccezionale di suo figlio Giacomo, un filosofo di primo ordine, capace di mettere in un sacco tutti i professori di Pavia. Quando l'Istituto veneto ebbe assegnato il premio alla dissertazione, Mauro era venuto appositamente alla Fraschetta colla Gazzetta di Venezia in mano, l'aveva distesa sul banco, perché leggessero, se sapevano leggere, quel che a Venezia si stampava in intuito di un Lanzavecchia delle Fornaci; e picchiando col dito sulle parole, nell'effusione dell'orgoglio paterno, aveva sostenuto che l'Italia avrebbe avuto un altro Cesare Cantú, o qualche cosa di piú rotondo ancora. Nulla piú offende l'orgoglio degli ignoranti quanto il trionfo d'un confinante, nel quale, come avviene anche in politica e nella stessa filosofia, si suol vedere un pericoloso competitore, e come tale, il primo e il piú vicino dei nostri nemici. Si aggiunga che l'orgoglio umano è cosi fatto che ogni lode data agli altri par sempre qualche cosa che non viene data a noi, o che ci vien sottratta, o per lo meno che ci vien ritardata con ingiustizia e di cui dobbiamo un giorno o l'altro rifarci con un proporzionale risarcimento. Era naturale adunque che gli ignoranti e gli invidiosi ridessero ora colla bocca larga del gran talento di casa Lanzavecchia e si pigliassero sulle disgrazie di Mauro, non solo il capitale, ma anche gli interessi delle cambiali ch'egli aveva scontato in anticipazione. Sarebbe troppo infelice la vita degli sciocchi, se Dio non riservasse loro di tanto in tanto di queste consolazioni. Questi riflessi, che si presentarono in nube, quasi di scorcio alla mente di Mauro, lo trattennero un poco sulla soglia dell'osteria e forse se ne sarebbe andato via senz'altro, se uno di quei contadini che sedevano nell'osteria, aprendo improvvisamente la porta, non l'avesse riconosciuto e salutato a voce alta. Egli si trovò cosí nella bottega portato da una volontà piú forte del suo orgoglio. Girò gli occhi intorno e visto Francesco che sonnecchiava dietro una tavola, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate, il capo cascante, la berretta sugli occhi, passò in mezzo al frastuono dei giuocatori, che commentavano rumorosamente la partita, e, sedutosi in faccia all'oste, lo toccò, dolcemente nel gomito. - Siete voi? - fece l'oste, dopo aver aperti dogliosamente gli occhi. - Ebbene? che vi ha detto l'avvocato? - La va male, Cecco, - disse il fornaciaio con voce coperta da un pesante affanno. - Cioè? - tornò a domandare l'amico, senza distaccare le spalle dal muro, al quale pareva incollato, socchiudendo di nuovo gli occhi impiombati dal sonno. - Cioè, - disse Mauro, che vedendo passare il piccolo dell'osteria, gridò: - Tu, portami un mezzo litro del tuo scongiurato meridionale. - Poi riprese sottovoce: - La va da cani, Cecco, ma non è detta ancora l'ultima parola in quest'Africa maledetta. Solamente voi, dovete procurarmi altre cinque mila lire. - Non vi conviene, Mauro - disse l'oste colla voce fredda con cui soleva tirar le somme agli avventori. E come se non avesse più nulla a dire, chiuse la bocca e tornò a lasciar cascare la testa - Voi non sapete quel che c'è in aria, - disse Mauro, che per darsi un po' di forza riempí la tazzetta col vino che il ragazzo mise davanti; e dopo averla trangugiata tutta d'un fiato: - Son quarant'anni che faccio il fornaciaio e sfido a trovare un mattone piú sincero del mio. - È il vostro torto di lavorar troppo bene - osservò l'oste che sapeva a memoria la sua filosofia, aprendo un poco gli occhi rimpiccioliti di fronte alla luce tagliente della lucerna. - Comincio ad accorgermi d'essere sempre stato una bestia, - disse Mauro, alzando alquanto la voce e lasciando cadere con forza la tazzetta sul piatto. - Non bisogna mai dirlo, Mauro, - saltò su dal banco del giuoco il mugnaio, che parlò senza togliere gli occhi dal ventaglio delle sue dieci carte sporche . - Sí, il mio torto è di non aver saputo fare l'italiano a tempo. - replicò vigorosamente l'altro, facendo un mezzo giro sulla panca e alzando in aria una mano. Poi stendendo l'altra a stringere con uno slancio d'amicizia il polso dell'oste:- Potete dire che i Lanzavecchia abbiano mai venduto lucciole per lanterne? mio padre Galdino, mio nonno Nicodemo . - Altri tempi - fu presto a interrompere l'oste, un uomo piuttosto indifferente per i grandi principi della giustizia. - Una volta, - soggiunse poi con un sorriso secco, che stentò a muoversi sulla sua bocca asciutta priva di labbra - una volta il vino lo si faceva anche coll'uva. Mauro sentí il veleno dell'argomento e battendo due volte la tazzetta sul banco: - Lo so - disse - che in un paese di ladri chi non ruba mangia il suo pane a tradimento. Voi però non mi abbandonerete, Francesco. - Io faccio l'oste, vedete - osservò il compare, indicando con un piccolo gesto i suoi avventori, il banco, la lucerna. E tornò a chiudere gli occhietti cenericci. - Volevo dire che questi nostri figliuoli devono maritarsi a San Martino. - Ecco! - riprese l'oste, mandando avanti una sua favorita particella dimostrativa, colla quale soleva, come con una lanterna cieca, illuminare le idee degli altri e fare il buio sulle proprie. Anch'io dovrò fare i miei conti. - Non li avete già fatti mille volte questi benedetti conti? - notò con un tono di rancore il fornaciaio. - Non si finisce mai di fare i conti. Se con poco si fa poco, che cosa volete che si faccia con niente? - Volete dire, se capisco il latino, che poiché io sono un uomo fallito, mi si può, parlando con poco rispetto . L'oste lo pregò con un gesto frettoloso della mano di non gridar troppo forte. Ma l'altro, che attingeva l'eloquenza dalla tazzetta: - Ho capito, - seguitò con piú calore - volete dire che poiché m'è entrata la disgrazia in casa, la vostra Fiorenza . - Non gridate sui tetti i vostri interessi, benedetto uomo - tornò a raccomandare vivamente il buon Francesco della Fraschetta, distaccando la schiena dal muro, rianimando gli occhi sotto la tesa della berretta, che faceva un color solo col colore scialbo del suo viso teso, liscio, immobile come un viso di legno. - Sí, ora mi si può, con licenza parlando, sputare addosso, - seguitò il fornaciaio con voce scalmanata. E dopo aver sogghignato il tempo necessario per inghiottire il fiotto amaro di saliva che gli inondava la bocca: - Allora - riprese, porgendo il fiaschetto vuoto al ragazzo - portamene un altro di questo tuo scongiurato veleno. E a voi, eccovi i vostri soldi. Cosí dicendo, stese una gamba tra la tavola e la panca, infilò una delle sue grosse mani nella tasca dei calzoni, ne trasse una manata di soldi e, fattone un pugnetto, lo batté sul banco, sotto il naso dell'oste, che, avvezzo a queste ed altre mimiche, non dette segno di meraviglia. - Cosí non direte che Mauro Lanzavecchia abbia bevuta una goccia del vostro vino senza pagare. E in quanto alla vostra Fiorenza, se vi piace sentire, vi dirò che un Lanzavecchia si degnava fin troppo di bere a questo boccale. Parole grosse, cattive, superbe, che, una volta uscite, lasciarono il buco fatto per tutte le altre che vollero tener dietro. L'orgoglio di tre generazioni di galantuomini, infiammato dalle molte tazzette di vino bevuto nella giornata, non troppo d'accordo tra loro, e mal trattenuto da una volontà già sconnessa per troppi colpi, traboccò in epifonèmi e in dichiarazioni che avrebbero fatto onore a un principe del sangue, non che a un fabbricatore di tegole; ma in quel momento, in quel sito, sulla bocca d'un uomo cosí scassinato nel credito, non ebbero la forza di far tremare nessuno. I giocatori, al diavolío che faceva il Bismarck delle Fornaci, dissero, parlando sommessamente tra loro: - Pare che laggiú si guasti la parentela. - È la tazzetta che suona - osservò il magnano. - La superbia non paga debiti - notò con burbanza il mugnaio del Lavello. - Staremo a vedere quel che stamperanno le gazzette questa volta. Mauro poco prima che sonassero le dieci e mezzo si alzò, facendo puntello coi pugni sulla tavola, e con passo che voleva essere da bersagliere, traversò lo spazio libero dell'osteria, avviandosi alla porta senza salutare nessuno. Prima però di chiudere l'uscio dietro di sé, parendogli di non aver detta l'ultima ragione o che tutti quei bravi signori avessero bisogno d'una soddisfazione, si voltò verso di loro, che aspettavano cogli occhi aperti, mosse la mano allargata a guisa d'un ventaglio, la girò nell'aria, come se la sfregasse su un muro, e quando vide tutte le faccie immobili e tutte le bocche attente, mise fuori con misurata intenzione la morale solenne della favola: - Vicende umane, oggi la lepre, domani il cane! E si tirò dietro l'uscio, mentre un rumoroso scoppio di risa accoglieva questa sentenza nova novissima, non mai udita, non mai stampata sulle gazzette.

L'ANNO 3000

677893
Mantegazza, Paolo 7 occorrenze

Colla limitazione del matrimonio fecondo noi abbiamo già in gran parte risolta la questione, ma abbiamo sempre contro di noi gli antimaltusiani, che vorrebbero si togliesse ogni impedimento alla fecondità umana, dicendo che gran parte ancora del nostro pianeta rimane a coltivarsi e la produzione agricola potrebbe in poco più d'un secolo triplicarsi. Un altro problema occupa oggi i nostri dotti di questo dipartimento centrale governativo, ed è il risanamento delle regioni miasmatiche, che abbiamo ancora in Africa, in America e in gran parte della Malesia. Di questo problema si occupano insieme i dotti di due sezioni, così quelli addetti alla Terra e gli altri addetti alla Salute, essendo questa una questione complessa, che non può essere risolta che dai medici e dagli agricoltori messi insieme. In Europa non abbiamo più una sola palude, ma ne abbiamo ancora tante e tante nei paesi, dove la civiltà è giunta più tardi e dove ci troviamo sempre tra i piedi le foreste, che sono anch'esse sorgente di miasmi e che è doloroso distruggere, pericoloso il conservare. In questo dipartimento dedicato alla Terra abbiamo un'intiera sezione, che si occupa delle strade e di tutti i mezzi di comunicazione fra i diversi paesi del nostro pianeta. Una volta non si viaggiava che per terra e per acqua: oggi vi abbiamo aggiunto anche l'aria; per cui abbiamo ingegneri terrestri, acquatici e aerei, che fanno a gara di abbreviare e rendere più comode le vie di congiunzione fra popoli e popoli, persuasi come siamo tutti che ciò allunga la vita e aumenta e coltiva la fraternità dell'umana famiglia. Qui in un altro planisferio potrete vedere tutto il tracciato delle strade mondiali, e siccome queste interessano tutti quanti gli uomini della terra, il problema stradale può dirsi una delle questioni più universali e che quindi deve avere la sua sede in Andropoli. Anche su questa questione vi è dissenso fra ingegneri ed economisti. I primi, a sentirli loro, a lasciarli fare, convertirebbero ben presto tutta la superficie della terra in tante strade e non rimarrebbe più un palmo per l'agricoltura. Essi dicono che la navigazione aerea non soddisfa i gusti di tutti, e che conviene sempre lasciare aperte le vie elettriche per chi preferisce la terra all'aria. Dal Ministero o Dipartimento della Terra i nostri pellegrini passarono a quello della Salute, dove i medici più dotti del mondo nei loro laboratorii studiano questi due grandi problemi: Abolire le malattie. Prolungare la vita umana e togliere alla morte ogni dolore e ogni terrore. Anche nell'anno 3000 nascono uomini deboli e destinati a corta vita e benchè si distruggano i neonati patologici, pur rimangono ancora molti organismi imperfetti, che non possono trovar gioconda la vita, nè renderla utile a sè e agli altri, e che per di più giungono all'età feconda, in cui possono trasmettere le loro magagne ad un'altra generazione. La visita degli sposi per autorizzarli al matrimonio fecondo ha diminuito assai le malattie ereditarie, ma pur ne esistono ancora per gli errori dei medici visitatori, pei vizii che sciupano anche le buone costituzioni. Fin dal secolo XIX la medicina aveva fatto un passo da gigante colla scoperta dei microbi morbigeni, ma le epidemie continuarono a regnare sulla terra fino al secolo XXV, quando un celebre medico francese scoperse una sostanza antisettica potente come il sublimato corrosivo, ma che può essere iniettata nelle vene senza nuocere alla salute. In questo modo, quando compariva il colera, la febbre gialla, la peste bubbonica o un'altra malattia epidemica, tutta quanta la popolazione del paese minacciato si sottoponeva alla nuova vaccinazione e il focolaio infettivo si spegneva subito. È singolare però, che nei paesi dove ancora non si è voluto adottare la limitazione maltusiana delle nascite, e dove per conseguenza la popolazione si addensa, nascono epidemie nuove, per le quali la vaccinazione attuale non serve più e quindi si stanno ora cercando i nuovi microbi, per trovare poi l'agente che li uccida. Pare davvero una legge fatale della vita cosmica, che quando si genera troppo, una causa nuova di morte appare a un tratto a ristabilire l'equilibrio. - Quanto inchiostro, - diceva il medico direttore della Salute, - si è sparso per combattere Malthus e le conseguenze inevitabili delle sue dottrine, quando la natura stessa fin dalla comparsa della vita sulla superficie del nostro pianeta, si è dichiarata maltusiana ed ha gridato a tutti gli esseri vivi: "Se volete generar molto, morirete troppo!" Anche la vita umana si è prolungata assai, grazie alla cresciuta agiatezza delle classi povere, e a tutti i progressi dell'igiene. Mentre nel secolo XIX la vita media oscillava fra i 28 e i 36 anni, oggi la vita media planetaria è di 72 anni e in alcune regioni più salubri giunge fino ad 85. Allora forse uno sopra un milione di abitanti moriva senza malattia, e cioè di morte fisiologica: ora invece la morte naturale figura per un trenta per cento in tutte le morti e si spera che un giorno essa sia l'unico modo di morire di tutti gli uomini. I problemi igienici, che si studiano qui in questo Ministero, giungono spesso sotto forma di domande dalle autorità sanitarie delle diverse parti del mondo, dacchè ogni regione ha accanto al Podestà un medico, che si occupa di tutte le questioni della pubblica salute. Dalla Salute passarono i nostri viaggiatori al Dipartimento della Scuola. E il nuovo cicerone spiegava loro, di quali questioni si occupassero gli addetti a questa terza sezione. - Ecco: mentre là dove eravate si studia di migliorare la salute degli uomini e di prolungar loro la vita, qui ci occupiamo di educare e di istruire, rendendoli migliori nel sentimento e più fecondi nel pensiero. Accrescere il patrimonio delle gioie intellettuali e renderle possibili a tutti, ecco lo scopo alto e difficile dei nostri studii. Ma non crediate però che da Andropoli partano leggi imperative, che impongano metodi speciali di istruzione alle diverse regioni del mondo. Ogni Comune e ogni Regione si danno le scuole che vogliono, e il Governo Centrale non esercita su di essi alcuna autorità. Qui si consiglia, si suggerisce, null'altro, o si risponde ai problemi che ci mandano da risolvere. La città di Andropoli ha una scuola modello, che potrete visitare. Quanto al resto del mondo noi ci accontentiamo di mandare ogni anno degli Ispettori, che si recano nelle diverse regioni, esaminando le scuole e studiando i metodi, che vi sono adottati e poi presentano al Governo Centrale le loro relazioni. Nell'ultima relazione dello scorso anno, in cui si riassumevano le condizioni delle scuole in tutto il nostro pianeta, si confermò un fatto, che già si era subodorato, ma non mai si era affermato come questa volta e che riempì il cuore di allegrezza a tutti coloro, che son persuasi che la felicità umana consista di questi due grandi fattori: Buona salute. Equilibrio armonico di tutte le facoltà del pensiero e di tutte le energie del sentimento, in modo che tutte sieno attive e nessuna si esaurisca per troppa fatica. Or bene, mentre nel secolo scorso i metodi di educazione e di istruzione erano tanto diversi fra di loro nelle varie regioni del globo, oggi si sono ridotti a pochissimi, e questi si vanno ravvicinando talmente tra di loro, che finiranno per fondersi in uno solo; e quest'uno, con compiacenza nostra grandissima, è quello adottato da forse cinquant'anni in Andropoli, dove il riunirsi di tanti grandi uomini doveva rendere più facile il compito di raggiungere un'educazione ideale. Questa concordia di intenti, questo fondersi di idee pedagogiche diverse in poche idee e poi in una sola erano da prevedersi, dacchè la strada più breve che deve congiungere due punti lontani è una sola e dopo molti tentativi e molto tentennìo di esperimenti e di prove si deve pur sempre cadere in quell'unica via, che per essere la più breve, deve essere anche la più facile. Il direttore del Dipartimento della Scuola è, dopo il Pancrate, il cittadino collocato più in alto nella gerarchia sociale e si potrebbe dire ch'egli rappresenta il Pontefice dell'antica Chiesa cattolica. L'attuale Direttore, che è italiano d'origine, è in ufficio da venti anni, ed è stimato oggi come il genio più alto di tutto il mondo. Egli è sempre consultato anche dai direttori degli altri Ministeri ed ogni Pancrate non muove un passo senza chiedere il suo consiglio. Può dirsi che egli da venti anni raccoglie nel suo cervello il pensiero di tutto il mondo, essendo alla testa di tutte le scuole e facendo in tutte sentire la corrente delle proprie idee e del proprio affetto ardente per il progresso dell'umanità. Quando egli ogni anno riunisce intorno a sè i proprii consiglieri e gli Ispettori, che gli presentano la relazione sulle scuole di tutte le regioni del pianeta, egli suol dire sempre: - Andiamo a toccare il polso al mondo. Frase, che in bocca di chiunque altro, potrebbe sembrare troppo superba, ma che detta da lui non esprime che una grande e una semplice verità. Oggi il grand'uomo si sta occupando di un grande problema, quello cioè di sapere fin dove la donna possa accompagnar l'uomo negli studii superiori. È questo un problema vecchio come il mondo, ma che non è ancora risolto. Dal secolo XIX al XXII si volle concedere alle nostre compagne una più larga parte negli studii e nelle professioni liberali, e si ebbero medichesse, avvocatesse, ingegneresse e tante altre esse. Fin qui si era fatto bene, ma l'entusiasmo per quelle esse crebbe a tanto da creare una seria concorrenza professionale fra gli uomini e le donne, fonte di discordie domestiche e di litigi senza fine; ma quel che è peggio, le nostre compagne, abusando del lavoro intellettuale, al quale resistono assai meno di noi, caddero in tale nervosismo, da allarmare l'umanità. Le malattie nervose, gli aborti, l'epilessia, la nevrastenia erano all'ordine del giorno in ogni famiglia e i figli crescevano nevrosici e gracilissimi. Com'è naturale, questo stato di cose produsse una reazione, e dall'eccessivo lavoro mentale che si imponevano le donne si passò ad un'inerzia esagerata. E d'allora in poi si può dire che nei diversi paesi del mondo si mantenne sempre aperta la questione: se cioè le donne debbano studiare e sapere quanto gli uomini, o se invece ogni sesso, avendo un diverso organismo e una diversa missione da compiere, debbano anche avere una parte diversa nel lavoro intellettuale. È questo l'eterno problema, che sta studiando il nostro illustre Direttore, ed egli spera di risolverlo, perchè egli dice con quel suo sorriso fra l'ironico e il benevolo: "Io per la mia età credo di poter studiare questa questione senza spirito di parte. I giovani, pur che siano uomini, in tutti i problemi che riguardano la donna, sentono sempre troppo che dall'altro lato c'è la femmina. Così come le donne, anche le più intelligenti e le più oneste, pensano sempre all'uomo come ad un maschio, da cui aspettano la massima delle voluttà e il diritto di esser madri." Il nostro Direttore è un grande nemico dell'intervento governativo nelle cose della scuola, ed egli dice che se le Religioni di Stato furono strumento di tirannia e di oscurantismo in tempi di barbarie ormai molto lontani, dobbiamo badare di non creare un'Istruzione o una Scienza dello Stato, che sarebbe egualmente fatale al progresso umano. La religione alleata del Governo voleva dire tirannia delle coscienze, schiavitù del pensiero; dacchè chi proclama di avere in mano le chiavi della vita al di là può guidare le anime del volgo, che formano sempre la grande maggioranza di un popolo e condurla dove vuole collo scudiscio della paura e collo zucchero del paradiso. Oggi la fede non si impone nè si governa dall'alto, ed ognuno crede ciò che vuole e quanto vuole; ma se il Governo da un unico centro dettasse la legislazione delle scuole, potrebbe guidare il pensiero dove egli credesse meglio e imporrebbe un nuovo giogo, creando una seconda forma di schiavitù. Anche qui non abbiamo che poche scuole governative, nelle quali i grandi scienziati e letterati addetti a questo Dipartimento procurano di applicare le ultime riforme, facendone degli istituti modelli; ma fuori di esse anche in Andropoli abbiamo scuole fondate da privati o da società e dove si insegna ciò che si vuole e come si vuole. Nei giornali della capitale leggerete ogni giorno avvisi, che annunziano una nuova scuola, un nuovo insegnamento, una nuova cattedra. Vi sono scuole gratuite fondate da ricchi signori o da apostoli di nuove idee, che vogliono crearsi dei discepoli, e ve ne sono a pagamento. Lo Stato non interviene che per autorizzare l'esercizio di una data professione, e in ogni regione vi è un Consiglio di dotti eletti dal Podestà, che una volta all'anno esamina coloro che vogliono una patente di medico, di ingegnere, di meccanico; insomma di una qualunque delle cento professioni, nelle quali si suddivide il lavoro umano. A chi si presenta non si domanda mai dove egli abbia studiato, nè con chi. Gli si fanno esami rigorosissimi teorici e pratici a seconda dei casi e poi si concede o si rifiuta la patente a cui egli aspira. Non vi sono gradi di merito, onde non offendere l'amor proprio di alcuno ed anche perchè una lunga esperienza ha dimostrato, che per quanto le Commissioni esaminatrici sieno scrupolosamente imparziali e gli esami si facciano con tutta la coscienza e tutta la maturità, i giudizi non corrispondono sempre fedelmente al merito reale del candidato. Naturalmente le scuole di Andropoli sono giudicate le migliori del mondo e quindi i diplomi che si rilasciano qui dall'Università della capitale hanno un grandissimo valore e ogni giorno giungono dai più lontani paesi studenti non laureati o già laureati, ma che vogliono conquistare il prezioso diploma metropolitano. L'uomo quando pensa e quando discute, è sempre un grande decentratore, ma quando agisce diventa feroce centralizzatore, e a questo istinto, che ha dell'automatico, direi quasi dell'animalesco, i nostri scienziati moderni cercano di opporsi con tutte le armi della critica, della persuasione, dell'autorità indiscutibile, che danno ad essi la dottrina e l'esperienza. Un altro problema, che tormenta attualmente il pensiero de' nostri alti consiglieri della scuola, è quello di conoscere le attitudini individuali, onde i maestri privati o pubblici possano guidare lo studente nella scelta della professione, nell'elezione degli studii. Qui, secondo noi, è riposto il segreto di tutta quanta l'efficacia della istruzione e della educazione. Non vi ha forse uomo sulla terra, che non sia adatto a far qualcosa di utile e di buono; ma questa attitudine non è sempre cosciente, nè si rivela sempre anche al più acuto osservatore di cervelli e di intelletti. L'esame delle cellule centrali fatto colla luce penetrante e cogli acuti strumenti ottici dei nostri psicoigei è ancora molto addietro nelle sue possibilità. Questi dotti sanno ben dirci, se un cervello porterà l'individuo a cui appartiene necessariamente al delitto, se appartiene ad un imbecille, a un uomo volgare o ad un genio; ma più in là non sanno andare. Resta quindi ancora all'individuo, ai suoi genitori e ai maestri lo spiare l'andamento evolutivo del pensiero nelle prime età della vita, per scoprire quali sieno nel suo cervello gli organi deboli, quali i forti, onde rinforzare i primi e approfittare degli altri per la scelta della professione e l'indirizzo degli studi. Noi non vogliamo spostati nella nostra società e chi sbaglia nella scelta della carriera è uno spostato e quindi un infelice. *** Paolo e Maria, ringraziando il cortese impiegato, che aveva fatto loro da cicerone nel Ministero della Salute, passarono nell'ultimo braccio della gran croce governativa, dove sulle pareti sta scritto Industria e Commercio. E anche qui un nuovo cicerone fu loro di guida. Sull'ingresso una statua gigantesca della Libertà domina alta e sublime, come per esprimere l'indirizzo nuovo preso dal lavoro umano nell'anno 3000, ma iniziato già da parecchi secoli. - Vedi, - disse Paolo a Maria, - questa statua rappresenta un bellissimo schiavo, che ha rotte le catene, che stanno infrante ai suoi piedi. Esso si appoggia sopra un trofeo di ruote; di pile e di altri strumenti; mentre dall'altro lato un aerotaco e una nave indicano il commercio. Vedi, Maria, quelle catene rappresentano i ceppi, nei quali visse o meglio soffrì l'industria col suo fratello il commercio nei tempi antichi. Il pensare a quei tempi mi da raccapriccio e sento una profonda compassione per quei nostri remoti padri, che subivano pazienti tutte quelle forme variate di schiavitù commerciale e industriale. Figurati, che fino al secolo XX in molte città d'Europa e in tutte le città italiane non si poteva entrare senza essere sottoposti ad una visita, brutale spesso e sempre noiosa, per parte di rozze guardie, che ti frugavano nelle valigie e nei bauli, dapertutto, per vedere se avevi oggetti sottoposti al dazio consumo, che pesava su tutte le derrate alimentari, sul vino, sul latte e sopra mille altre cose. E quando la città o il villaggio era in riva al mare, anche se tu fossi giunto in barchetta da un paese lontano da quello, forse non più di tre o quattro chilometri, tu dovevi passare per la trafila di due categorie di guardie, quelle di finanza per vedere se portavi merci dall'estero e quelle municipali per verificare se volevi defraudare il dazio consumo. Una doppia imposizione da subirsi in una passeggiata di un'ora! Grazie a Dio, si abolì il dazio consumo fin dal secolo XXI in tutte le città d'Europa e d'America; e poi man mano si andavano costituendo gli Stati Uniti del mondo, si abolirono anche le dogane in tutto il mondo ed oggi gli economisti non si ricordano più neppure del significato delle parole protezionista e liberoscambista. Evviva la civiltà! Evviva il progresso! Oggi tutti i paesi del mondo si scambiano liberamente i loro prodotti e le dogane son relegate insieme alle fortezze nel Museo delle rovine del passato. E qui intervenne il cortese cicerone a dare i necessari schiarimenti. - In questo dipartimento gli economisti, gli industriali, i commercianti, che per il loro ingegno, per le loro intraprese, per i loro studi hanno acquistato una fama mondiale, esaminano i grandi problemi del commercio cosmico, a cui danno preziosi consigli, grazie alle informazioni statistiche, che qui si raccolgono da ogni parte del mondo e a cui fanno appello gli industriali e i commercianti di tutto il pianeta. Eccovi un esempio di una delle funzioni esercitate da questo Ministero. Da tre o quattro anni nel Canadà si fondò una gran fabbrica di un nuovo materiale di costruzione per le case, che consiste nella riduzione in pasta degli alberi di acero di quelle immense foreste e che si mescola con diversi silicati solubili. La solidità e il poco prezzo di questo materiale, la sua poca o nessuna conducibilità per il calorico lo resero in poco tempo popolarissimo, e l'uso andò diffondendosi in tutti i paesi del mondo. La fabbrica, incoraggiata dal successo, raddoppiò la produzione della pasta e la spinse ad un eccesso superiore al bisogno. In pari tempo a Giava sorse un'altra fabbrica dello stesso genere, che anch'essa produce troppo. Il Governo centrale di qui, avvertito del fatto e forte dei dati statistici raccolti dalla produzione e il consumo della pasta di carte costruttive, avvertì per telegrafo l'una e l'altra fabbrica, perchè limitassero la produzione al necessario. Senza questo avvertimento, che fu comunicato proprio in questa settimana, dopo poco tempo una delle due manifatture avrebbe dovuto fallire. E lo stesso vien fatto per tutte le altre grandi industrie, che da questo centro ricevono istruzioni e consigli. Un'altra grande missione di questo Dicastero consiste nello studiare in opportuni laboratori i prodotti delle industrie nuove, che spesso non corrispondono per il loro valore reale alle speranze sempre troppo ottimiste dei loro inventori. Qui si sfrondano molte illusioni, ma si impediscono anche molte catastrofi. Quanto al commercio si fa lo stesso come per l'industria. Questo Dicastero non è un organo fiscale, ma un semplice ufficio di informazioni. Ogni grande commerciante di Pechino o di Nuova York, di Genova o di Londra, può nello stesso giorno conoscere per telegrafo il movimento commerciale di tutto il mondo rappresentato dalle navi entrate e uscite nei diversi porti e la natura e la quantità delle merci che portano in grembo. *** Dopo aver salutato e ringraziato la loro guida, i nostri viaggiatori lasciarono il Palazzo del Governo, ammirati dell'ordine, che vi regna sovrano e superbi di essere nati in un'epoca, che ha raggiunto tanti e così alti progressi nel movimento della civiltà. Nell'uscire dal palazzo però Paolo e Maria videro a fianco dell'entrata una palazzina a un sol piano, da dove partono un'infinità di fili, che si dirigono verso tutti i punti dell'orizzonte. Sulla porta sta scritto a grandi caratteri una sola parola: Denaro. Vollero informarsi che cosa fosse quell'uffizio. È null'altro che la ragioneria cosmica, come chi dicesse l'organo finanziario del nostro pianeta e che rappresenta tutte le funzioni, che un tempo esercitavano con un complicatissimo meccanismo i ministri di finanza, la Corte dei Conti, le Esattorie e tutti gli svariati strumenti di tortura, coi quali si estorceva il denaro dalle borse dei contribuenti per sopperire alle spese del Governo. Le quattro grandi sezioni dello Stato informano la ragioneria centrale di quanto occorre per le spese universali di bonifica, di esplorazioni scientifiche, di salvaguardia della salute pubblica; e il ragioniere capo, dopo essersi consultato coi suoi pochi colleghi, una volta all'anno fa sapere a tutto il mondo il tributo che si esige da Andropoli. Il Podestà di ogni regione ripartisce il tributo sopra ogni cittadino secondo le sue ricchezze. La tassa cresce in ragione geometrica della rendita di ogni cittadino. I poveri non pagano nulla. Questo è il bilancio cosmico, ma ogni Comune ha il proprio bilancio e anche qui le tasse sono geometricamente progressive e i poveri sono esenti da ogni tributo. Ogni regione ha un Consiglio dei reclami, dove si mandano le proteste di coloro, che si credono tassati soverchiamente o ingiustamente, e Andropoli ha poi il proprio Consiglio per i reclami della tassa cosmica. I giudizii emanati da questo Consiglio sono senza appello. Le proteste poi nell'anno 3000 sono molto rare, perchè le tasse non vengono pagate che dai ricchi, perchè sono molto modeste e sopratutto perchè ognuno sa di pagare in proprio vantaggio; dacchè le entrate sono spese tutte a beneficio di ciascuno e dei grandi interessi universali.

Quanto al capo, lo troverete nella via 6.a al numero 1000, dacchè le nostre case non si distinguono che per cifre: così come noi tutti non abbiamo nome, ma al nascere riceviamo un numero, che ci distingue da tutti gli altri e che portiamo fino alla tomba. Quando uno di noi viene a morire, il primo che nasce prende il suo numero, onde la serie non sia interrotta. Il numero più alto è quello dell'ultimo nato e rappresenta anche la cifra esatta della popolazione, che oggi è di 10000. Quanto al capo della città, si chiama il Diverso di quest'oggi, perchè ogni giorno per turno ognuno di noi, che abbia più di vent'anni, uomo o donna non importa, diventa capo per un giorno solo, e al numero 1000 scioglie i problemi d'ordine che possono offrirsi; amministra la giustizia e fa insomma tutto ciò che nell'Andropoli fanno centinaia d'impiegati. Del resto il governo dell'Eguaglianza è facilissimo, perchè nella casa del Diverso di quest'oggi sta esposto a tutti il codice, che stabilisce e regola la vita di ciascuno. Noi abbiamo in orrore la diversità, perchè offende la giustizia, che è la nostra Dea; e ognuno di noi denunzia subito al Diverso d'un giorno chi nel vestire, nel mangiare o in qualsiasi cosa si comporti diversamente dagli altri. Maria non potè frenar le risa a questo discorso dell'egualitario, ma questi non ebbe tempo di accorgersene, perchè, salutati i viaggiatori, aveva già ripreso il suo passo cadenzato e monotono. - Ma, Paolo mio, noi siamo venuti in una gabbia di matti! Andiamo via e presto. - Ma no, Mariuccia mia! Questo regno dell'Eguaglianza mi par curioso assai e vorrei studiarlo più da vicino. Son più di mille e cento anni che i francesi fecero una terribile e sanguinosa rivoluzione per conquistar fra le altre cose l'eguaglianza. Si tagliarono colla ghigliottina migliaia di teste innocenti, ma gli uomini continuarono a nascere gli uni diversi dagli altri e le gerarchie sociali si adagiarono nella società in cui oggi viviamo e dove la giustizia concede non più le stesse cose a tutti, ma bensì ciò che ognuno si merita. Ma ecco qui che nell'Isola degli esperimenti troviamo dopo undici secoli rinnovellato lo stesso sogno del 1789. - Meno male che qui non vedo la ghigliottina e questi matti di egualitarii si sono liberamente raccolti per attuare il loro sogno. - Ma io, dolce compagna mia, mi sento un grande appetito e vorrei picchiare alla prima porta, che incontriamo per chiedere l'ospitalità. E così fecero i nostri viaggiatori. Al numero 365 della via numero 6 entrarono in una casa dell'Eguaglianza, che aveva spalancate le sue porte, come tutte le altre. Nel vestibolo trovarono una creatura bianco-vestita. Sarà un uomo o una donna? Era molto difficile il dirlo; ma quando aprì la bocca per salutarli, si accorsero che era una donna e che parlava come tutti gli altri la lingua cosmica. - Perdoni, signora, ci hanno detto che in questa città non vi sono alberghi, e che ogni casa offre l'ospitalità ai viaggiatori. E perciò vorremmo pregarla a darci da colazione. - Entrino e si mettano a sedere. Mi duole però doverle dire, che l'ora della colazione è passata e converrà che aspettino l'ora del pranzo, che è alle diciassette. - Scusi, signora; ma abbiamo molto appetito e ci basterebbe il più modesto spuntino: due uova e un po' di pane. - Non potrei trasgredire la legge dell'Eguaglianza. Da bravi viaggiatori avrete con voi qualche piccola provvista, che vi permetterà di aspettare l'ora del pranzo, che si farà in comune. Intanto eccovi aperta la camera degli ospiti, che è per l'appunto libera. Paolo e Maria avevano sempre nella loro borsetta da viaggio degli albuminoidi condensati e degli alimenti nervosi, per cui chiedendo mille scuse all'egualitario si raccolsero nella camera degli ospiti, ridendo come due pazzi della singolarità dei costumi di quel paese. Venuta l'ora del pranzo, sentirono suonare un campanello elettrico, che lo annunziava, e nello stesso tempo suonavano tutti i campanelli della città. Introdotti nella sala da pranzo, videro sedute a mensa cinque persone, il babbo, la mamma e tre figliuoli. Nessun cameriere, nessuna serva. Per turno si alzava ora il padre, ora la madre, ora uno dei tre figli e da uno sportello aperto nel muro prendevano le vivande, preparate da essi in cucina con piccola fatica personale e congegni ingegnosissimi di meccanica e di chimica. Il padrone di casa, poco diverso dalla padrona nella fisionomia, e in tutto eguale ad essa nel vestito, era ilare e cogli ospiti gentilissimo. Si informava del loro viaggio, dava notizie preziose sulla città dell'Eguaglianza e sugli altri Stati dell'isola, ma sopratutto ci teneva a portare a cielo la perfezione sociale del governo sotto cui viveva. - Vedete, che mirabile cosa è questo sistema, tutto ordine e simmetria! A questa stessa ora nella nostra città tutti pranzano e tutti mangiano la stessa cosa, e in molte mense siede anche lo stesso numero di persone, dacchè il celibato è proibito; come è proibito avere più di tre figli. Soltanto nel caso in cui la sventura ce ne involi uno, possiamo sostituirlo con un quarto. Il primo d'ogni mese tutti i capi di famiglia mandano alla casa del Diverso d'un giorno la proposta dei cibi, che si dovrebbero mangiare a colazione, a pranzo e a cena, e la maggioranza delle proposte divien legge per tutti. Così si variano le vivande e le ore dei pasti a seconda delle stagioni e della pubblica salute. Non vi par questo l'ideale d'una società? Nessuno primo, nessuno secondo; ma tutti eguali. Nessuna ambizione, nessuna lotta per il potere, che abbiamo tutti quanti per un giorno; nessuna invidia. Che ve ne pare? Paolo non voleva umiliare un uomo così gentile, nè disingannarlo nella beatitudine sicura delle sue convinzioni. Si accontentò di dire: - Di certo, il vostro organismo sociale è molto curioso, molto originale ... - Oh, caro signore, non è soltanto curioso e originale; ma è la perfezione, l'ideale di tutti i governi umani. - Ma come riuscite a far trovar piacevoli a tutti le stesse cose? Gli uomini nascono tanto diversi gli uni dagli altri ... - Può darsi, ma l'abitudine delle stesse cose li rende sempre più eguali e noi speriamo col tempo di farli nascere tutti eguali, tutti della stessa robustezza, della stessa intelligenza, degli stessi gusti. Una legge votata nello stesso anno impone a tutti di fecondare la propria moglie soltanto il primo di maggio. Quanto all'amore, lo facciamo tutti alla stessa ora, ogni mattina, quando suona una campana speciale dalla casa del Governo. Non vi par bello, poetico il pensare che voi mangiate, che voi dormite, che voi passeggiate alla stessa ora di tutti i vostri concittadini? Qui Paolo, frenando a stento il sorriso, non potè a meno di dire: - Caro signore, fino dal 1600 i Gesuiti del Paraguay avevano pensato la stessa cosa, e una certa campana suonata al mattino, ingiungeva ai cittadini di porgere il loro tributo a Venere feconda ... - Non so chi fossero questi Gesuiti, dei quali mi parlate, ma trovo che un'idea, che rimane dopo tanti secoli, deve avere un serio fondamento nei bisogni della natura umana ... - Io credo invece, - soggiunse Paolo, - che la natura umana è così elastica, è così proteiforme, che ci permette di ripetere a lunghi intervalli le stesse esperienze, e di ritentare le stesse strane utopie, come credo che sia questa vostra repubblica egualitaria. *** Il giorno dopo i nostri viaggiatori partirono dall'Eguaglianza e si diressero a Tirannopoli, piccolo stato, dove il popolo viveva sotto il regime dispotico d'un piccolo tirannetto, Niccolò III, che portava il titolo di czar in memoria degli imperatori di Russia, che avevano governato molti secoli prima gran parte dell'Europa orientale e dell'Asia occidentale. Non si fermarono che un giorno indignati della pecoraggine di quella gente, che ubbidiva a un uomo solo, che non aveva altro merito che quello di essere nato da Niccolò II, che alla sua volta aveva ereditato il trono di Niccolò I, fondatore della dinastia. Tirannopoli formicolava di soldati, che non avevano a difendere la patria, che non aveva nemici; ma che facevano la parte di carabinieri e di guardie di pubblica sicurezza, riferendo ogni giorno al Capo della polizia ciò che avevano veduto e udito nel loro spionaggio quotidiano. Una parola sola poco riverente pronunciata contro lo czar era punita col carcere e ogni tentativo di ribellione si meritava la pena di morte, che veniva eseguita collo strangolamento. Niccolò era non solo re assoluto, ma anche capo della religione. Questa era semplicissima: adorazione di un Dio solo e dei suoi santi, che erano tutti tiranni celebri nella storia del passato. Augusto, Tiberio, Nerone, Ezzelino da Romano, Luigi XI, Luigi XIV, Enrico VIII d'Inghilterra, Napoleone I, Re Bomba di Napoli, Pietro il Grande e tanti altri erano altrettanti santi, che avevano il loro tempio e il loro culto. Intorno al trono vi era una doppia aristocrazia, la civile e la religiosa, strette entrambe da vincoli di parentela e di una comune solidarietà. Portavano titoli diversi secondo la gerarchia a cui appartenevano e in cambio dei servigi, che rendevano al trono, erano pagati lautamente; senza far altro che difendere il trono e l'altare. Tirannopoli era circondata da Stati liberi e qualche cittadino era riuscito a fuggire dalla tirannia di Niccolò III per recarsi all'Eguaglianza, alla Metropoli del socialismo, allo Stato parlamentare; ma l'emigrazione era rara e difficile, essendo punita colla morte, se si poteva ghermire il colpevole. In caso diverso era punita nelle persone dei congiunti più vicini al colpevole. Del resto l'emigrazione era rarissima per un'altra ragione. Gli abitanti di Tirannopoli, nati da due generazioni di schiavi, nascevano già rassegnati e pazienti della schiavitù e ubbidivano alle leggi più assurde e tiranniche. I più intelligenti e i più fieri speravano in un Messia, che aveva di là a venire, che avrebbe ucciso il tiranno e distrutta l'aristocrazia dominante, dando a tutti la luce della libertà. Quando Paolo e Maria, inorriditi dal triste spettacolo di quella società di schiavi, stavano per uscire dalla frontiera di quel paese, s'incontrarono con un giovane signore, che Paolo aveva conosciuto a Roma, quando vi faceva i suoi studi e che poi si era recato per diporto ad Andropoli. Fin da fanciullo aveva istinti tirannici e divenuto uomo, in pubbliche conferenze e in articoli di giornali, predicava la necessità di rinforzare il Governo degli Stati Uniti d'Europa con leggi restrittive. Ora il tribunale supremo di Andropoli gli aveva imposto di recarsi per un mese nell'Isola di Ceilan e vedere cogli occhi suoi, che bella e buona cosa fosse uno Stato governato coll'antica tirannide. Fu egli stesso che narrò ai due sposi lo scopo del suo viaggio, e Paolo, ridendo, gli disse: - Vai, vai a Tirannopoli e un mese sarà soverchio tempo, perchè tu possa guarire dalle tue idee autoritarie. *** Continuando il loro viaggio di esplorazione Paolo e Maria giunsero a Turazia, capitale d'un piccolo Stato governato dal Socialismo collettivo. Le cose si rassomigliavano assai a quelle vedute da essi nella città dell'Eguaglianza e non erano meno curiose e ridicole. Incontratisi in un giovinetto che passeggiava per la via, gli chiesero l'indirizzo di un albergo e mentre egli li accompagnava entrarono in conversazione con lui, chiedendogli di chi fosse figlio: - Non lo so, come non lo sa alcuno degli abitanti di questo paese. Non conosco che mia madre, ma siccome essa ebbe molti amanti, parecchi pretendono di avermi data la vita. Qui il nostro cognome è quello della mamma, perchè l'amore è libero e non esiste il matrimonio. I figli son tutti dello Stato, che è il gran padre di tutti. Maria chiese ancora a quel giovinetto socialista, perchè la loro città si chiamasse Turazia. - È in onore d'un certo Turati, che visse in Italia verso la fine del secolo XIX e che fu uno dei più onesti e ragionevoli socialisti di quel tempo e che colla penna e colla parola preparò l'avvento della gran Repubblica socialista, che governò più tardi l'Europa. Maria s'interessò vivamente allo studio di Turazia e Paolo in poche parole le fece la storia della grande e generosa utopia del socialismo, ch'egli definiva un'arcadica tenerezza del cuore accompagnata dalla più profonda ignoranza della natura umana. - Vedi, Maria, fin dal 1895 l'Europa contava socialisti di diverse specie, e un certo Bianchini, arguto e profondo scrittore di quel tempo, ne trovava tre diverse categorie. In prima fila vi erano i socialisti della scienza, una scienza nella sostanza non sempre purissima, ma che nell'esteriorità curava gelosamente il proprio incedere grave, sistematico, dignitoso. Questi socialisti dicevano giorno, ora e minuto della prossima trasformazione sociale e del relativo fallimento borghese. Le loro trovate non peccavano di eccessiva varietà. Si lavorasse troppo o non si lavorasse affatto, vi fosse ingombro o deficienza, piovesse o tempestasse, essi non vedevano al mondo che l'infame capitale in basso e Dio Marx in alto, un grande precursore del Turati. Vi erano poi i socialisti della letteratura: qualche uomo di talento, alcuni mediocri, e dietro il gregge infinito degl'autori traditi dalla sorte, cui l'avvento del socialismo sorrideva come una rivendicazione della propria genialità incompresa, ad una santa opera nella quale la tirannia del capitale più non tarperebbe le ali ai voli sconfinati del pensiero. Essi sognavano il giorno felice, in cui la sordida avarizia degli editori più non contrasterebbe l'ineffabile dolcezza di far gemere i torchi, e quel sogno li esaltava, faceva vibrare le parti più sensibili e più accese del loro cuore. Il socialista letterato era un animale entusiasta, espansivo, convinto fino all'assurdo delle proprie idee, ma personalmente molto innocuo. Il Bianchini distingueva per ultimo i socialisti della cattedra, e trovava al suo tempo, che erano pochi, ma singolarmente cocciuti. Erano uomini spaventosamente eruditi, che si erano tuffati col più eroico dei coraggi nel mare magno delle leggi e degli istituti giuridici per ricavarne l'infallibile ricetta, che doveva cancellare dal dizionario umano la triste parola di dolore. Il loro lavoro speculativo li aveva inconsciamente separati dal mondo dei viventi per portarli in un ambiente, in cui non si riconosceva che una divinità, la legge: che era tutto, doveva tutto, poteva tutto. Non vi era esigenza fisiologica o naturale, che si degnassero considerare nell'uomo, ma colla massima disinvoltura essi la perfezionavano, volgevano e capovolgevano così come domandavano i bisogni del loro sistema prestabilito. E accanto ai maestri, lavoratori sobrii, illusi in buona fede, sorgevano i discepoli, leggeri, superficiali, che si pavoneggiavano nella loro veste pretensiosa di essere superiori a buon mercato. Studiando la storia del socialismo però, cara Maria, io credo che alle tre specie di socialisti magistralmente definiti dal Bianchini sulla fine del secolo XIX se ne debba aggiungere una quarta, che era fors'anche la più numerosa ed è quella dei socialisti per pietà. A questi appartenne Edmondo De Amicis, un celebre scrittore italiano del secolo XIX. E questi sono per l'appunto quelli che, dopo undici secoli, hanno voluto ritentare l'antica prova, fondando qui nell'isola di Ceilan lo Stato di Turazia. Il dolore fisico non esiste più, ma esistono ancora molte e molte forme di dolore morale, ad onta che si cerchi di sopprimere dalla nascita i delinquenti nati e tutti i mostri e tutti gli organismi consacrati a morire immaturamente e di malattie ereditarie. Qualche volta i biologi periti sbagliano e lasciano vivere uomini, che per la loro costituzione son condannati a soffrire o a far soffrire gli altri, se non fisicamente, moralmente; dacchè la pietà altruistica è un acerbo dolore. Aggiungi a questo la lotta delle individualità forse troppo libere nei loro movimenti e che fanno nascere spesso contrasti, contraddizioni, disuguaglianze. Da quel poco che ho veduto qui in Turazia mi pare che l'esperimento, che non dura che da cinque anni, non avrà lunga vita. La gran massa del popolo socialista è costituita da ignoranti e da gente di carattere debolissimo, venuta qui, sperando di trovarvi una panacea ai loro mali. Alla testa ho veduto uomini d'ingegno, ma con più cuore che testa, e che si affannano a risolvere questa specie di quadratura del circolo; cioè di dare a tutti quel che spetta a ciascuno, misurando con equa bilancia il valore del lavoro, che è così diverso nei diversi organismi umani. Lo Stato è divenuto una specie di tumore gigantesco, che assorbe tutto colla santa intenzione di distribuire a tutti un egual quantità di sangue e di vita; ma questa distribuzione è fatta da uomini, che per quanto intelligenti e buoni, son pur sempre uomini ed hanno le loro simpatie, le loro passioni; e di qui altrettante cause di errore e di malcontenti. Nota poi, che la impossibilità di accumulare il frutto del lavoro per lasciarlo ai figliuoli toglie ogni nerbo all'energia individuale e una grande apatia regna sovrana nell'atmosfera di questo Stato, dove se non vi sono nè oppressori, nè oppressi, mancano però le sante e poderose lotte del primato e le più belle e nobili energie abortiscono, perchè è a loro negato il lavoro. Ieri, mentre tu dormivi, ho avuto una lunga conversazione con uno dei capi principali di Turazia, ma trovai in lui un grande poeta, invece di un sapiente uomo di Stato. Egli era entusiasta del nuovo esperimento e mi diceva che la Repubblica socialista ha un grande avvenire ed è destinata poco per volta ad assorbire tutte le società planetarie. Alla mia obbiezione che essi avevan soppresso Dio e la famiglia, cioè il tempio in cui si crede o si spera e il nido in cui si ama, egli, crollando il capo in aria di compassione e colla voce ispirata e calda di un apostolo e di un profeta mi rispondeva: "Sì, è vero, abbiamo soppresso Dio, perchè è una menzogna. Abbiamo soppressa la famiglia egoistica e animalesca; ma l'abbiamo allargata, portandone i confini a ben più largo giro. Qui siamo tutti fratelli e i giovani son figli dei vecchi. La parentela non è soltanto del sangue, ma del cervello, del cuore, di tutti i nervi che fanno vibrare la natura umana ai sussulti della gioia e del dolore. La gioia di un solo è gioia di tutti; il dolore di un solo è dolore di tutti. "L'individuo, che voi altri planetarii, avete fatto un Dio, qui da noi non è che la molecola, l'atomo sociale, un membro del grande organismo, che è lo Stato. Noi non sentiamo il bisogno di maggior libertà, nè di maggiore agiatezza, perchè lo Stato pensa per noi e a tutti distribuisce ciò che gli spetta. Noi abbiam copiato ciò che fa la natura, quando plasma gli organismi del mondo vegetale e del mondo animale. "Forse che il braccio o un dito del piede o uno dei tanti nostri visceri si lamenta del lavoro che gli spetta nel grande travaglio della vita? No di certo: ognuno dei nostri organi lavora per sè e per gli altri e vive nello stesso tempo della vita propria e della vita collettiva. Voi altri, individualizzatori fanatici, potete salire in alto finchè volete; potete sentirvi potenti, ricchissimi; ma siete sempre unità. Io invece, vedete, sento fremere in me la vita di tutti i 30000 fratelli, che per ora costituiscono la Repubblica sociale di Turazia, come se la coscienza del mio Io fosse grande come quella di tutti i miei concittadini." Molte altre e belle cose disse quel socialista, e anche a lui non ebbi il coraggio di gettare in faccia una sola delle tante obbiezioni, che mi venivano al labbro. Mi accontentai di stringergli forte la mano, dicendogli: "Vi ammiro e vi invidio, benchè sia di opposto parere sulla forma di governo sociale che vi siete data. Ogni entusiasmo, ogni fede ardente è sempre un fenomeno del pensiero, che sorprende e che per di più fa felice chi ne è capace." *** Da Turazia i nostri pellegrini, viaggiando nell'interno dell'Isola, si recarono a Logopoli, o città della parola; una nuova ricostruzione di un antico Stato parlamentare. Vi trovarono poco di nuovo e di interessante. Logopoli è una copia perfetta dell'antica Inghilterra, quando era uno Stato indipendente retto da un governo parlamentare. Di diverso non c'è che questo; che il Re non è un capo ereditario, ma elettivo. Ogni cinque anni Camera e Senato si riuniscono in una sola assemblea per dare il loro voto nell'elezione del Re. Questo Capo dello Stato è però un Re travicello, che non fa che firmare i decreti e a cui hanno tolto anche il diritto di grazia. Ha un ricco appannaggio e porta intorno la maestà e gli orpelli del suo alto posto. Del resto ministri, deputati e senatori, come negli antichi Stati a regime parlamentare. Gli stessi intrighi, le stesse corruzioni per essere eletti membri dell'una o dell'altra Camera, essendo a Logopoli elettivi anche i senatori. Pagati gli uni e gli altri profumatamente, ma esclusi da ogni impiego. Così pure esclusi tutti gli avvocati e quelli che abbiano interessi comuni colle imprese dello Stato. La rappresentanza del popolo però è divenuta un po' più sincera e seria; dacchè ad ogni votazione importante, ad ogni atto politico di grande gravità, sia pur di un ministro, di un deputato o di un senatore, gli elettori del Collegio hanno diritto di riunirsi in comizio straordinario e di dare un voto di disapprovazione al loro rappresentante. Questi cessa da quel momento di essere membro del Parlamento o del Gabinetto e dev'essere sostituito per via di una nuova elezione. Questa ed altre riforme di minor conto hanno migliorato in Logopoli l'antica forma parlamentare, ma vi rimangono sempre queste due infermità organiche:... Quella di fabbricar le leggi con una commissione di troppi individui, facendole mutevoli ad ogni accidente od incidente di persone o di cose. E l'altra di mutar sempre al capriccio vagabondo degli elettori coloro che devono dettar le leggi e reggere il timone dello Stato. *** I nostri compagni non visitarono tutti gli Stati dell'Isola degli esperimenti, ma soltanto i principali. Oltre gli egualitarii, oltre Tirannopoli, Turazia e Logopoli, vi sono altre genti e altri paesi governati diversamente. Basta che un centinaio di uomini pensino un'utopia sociale nuova o ne ripensino una antica già sepolta da secoli, ed essi sanno che nell'Isola di Ceilan si trova sempre un piccolo o grande territorio vergine, dove possono fondare la nuova Repubblica o la nuova Teocrazia. E così si fanno e rifanno gli esperimenti: così sorgono e muoiono città e falansteri e organismi nuovi e bizzarri; che servono poi di svago ed anche di scuola agli uomini politici degli Stati Uniti planetarii. Paolo e Maria seppero infatti, che Ceilan possiede oltre gli Stati da essi visitati: Poligamo, staterello a governo semidispotico, dove ogni uomo ha molte mogli. Poliandra, altro Stato, dove invece ogni donna ha molti mariti. Cenobia, una immensa città ieratica, da cui sono escluse le donne e gli uomini vivono in un ascetismo continuo. Monachia, piccola città tutta di monache date al culto di Saffo. Peruvia, uno Stato comunista, dove si ricopia l'antico regime socialista dell'Impero degli Incas; e dove la proprietà, essendo tutta dello Stato, si presta a ciascuno secondo i suoi bisogni, allargandone la frontiera secondo il numero dei figli. Così pure il lavoro, vien distribuito nei diversi giorni della settimana per sè, per i poveri e i malati, per il re e i principi e per le spese del culto.

Questa suddivisione del lavoro medico andò sempre più allargandosi, finchè oggi per ogni viscere abbiamo uno specialista, tante e tante sono le alterazioni che può subire ogni organo e tanti sono i mezzi per ricondurlo all'andamento normale delle sue funzioni. Si figuri, che per il solo cervello abbiamo almeno una ventina di specialisti, che curano le malattie delle cellule motrici e delle pensanti, che studiano le malattie del pensiero, della volontà e così via; così come abbiam osteopati per le affezioni delle ossa, ematopati per le malattie del sangue, epatopati per quelle del fegato, nefropati per quelle del rene, gastropati per quelle del ventricolo, e così di seguito. Abbiamo poi la più alta gerarchia fra i medici, quella degli Igei, che studiano gli organismi sani, per spiare prima dello sviluppo della malattia la disposizione ad ammalare; e sono essi che visitano i neonati per verificare se sono atti alla vita. Anche fra essi si è formata una sottospecialità, che è quella dei Psicoigei, che come vedremo fra poco, constatano nel neonato le future attitudini al delitto, onde sopprimere i delinquenti, prima ch'essi possano recar danno alla società in cui son nati. Ma ecco qui, che un medico astante passa in rivista i clienti giunti questa mattina, per indicare loro a quale sezione dell'Igeia devono dirigersi per essere visitati Un giovane chiamava i clienti per il numero, che era stato loro consegnato alla porta, e dopo aver domandato loro di che soffrissero, indicava loro se dovessero consultare il gastropato, l'epatopato o l'ematopato. Era una visita molto sommaria e l'indicazione poteva anche essere sbagliata, ma lo specialista l'avrebbe poi corretta, quando avesse visitato il cliente colla luce perfezionata del Röntgen. Quest'operazione distributiva dei malati si faceva col massimo ordine, senza dispute e senza confusione e in meno di mezz'ora tutta la sala rimase vuota, perchè ognuno aveva avuto l'indicazione, che doveva guidarlo all'uno o all'altro dipartimento dell'Igeia. - Ed ora che abbiamo veduto la sala d'aspetto, - disse il Direttore, - andiamo a visitare uno dei tanti compartimenti, nei quali gli specialisti osservano i malati e prescrivono loro il metodo di cura. Se non dispiace loro, andremo nella sezione dei pneumopati, cioè di quelli che soffrono degli organi respiratorii. Entrarono infatti in questa sezione, dove molti malati d'ambo i sessi aspettavano di essere visitati. Un giovane gracile, pallido e sottile stava per l'appunto aspettando la chiama. Il pneumologo lo invitò a svestirsi e quando fu del tutto nudo, lo pregò di mettersi in piedi in una specie di nicchia e allora a un tratto scomparve la luce che rischiarava la camera e tutto rimase nel buio. Subito dopo però il medico diresse un fascio di luce su quell'uomo nudo, che divenne trasparente come se fosse di vetro. Si vedeva il cuore batter frettoloso e irregolare, si vedevano i polmoni dilatarsi e contrarsi ritmicamente, si vedevano tutti i visceri del ventre, come se quell'uomo fosse stato aperto dal coltello anatomico; si poteva scorgere perfino il midollo nel profondo delle ossa. Il pneumologo lo guardò lungamente con un doppio cannocchiale, facendo mettere il malato di fronte, poi di fianco, poi col dorso rivolto a lui e poi: - Consolatevi, che il vostro male è sul principio ed è guaribile in poco tempo. Voi siete minacciato da una tubercolosi, ma sarà vinta con un buon regime respiratorio e alimentare. Vestitevi ed io scriverò ciò che dovete fare. Il medico andò a un tavolino e scrisse queste prescrizioni: Recarsi subito sull'Everest, alla stazione di Darley, posta all'altezza di 2000 metri, prendervi alloggio e rimanervi per un anno intero: poi in seguito per parecchi anni ritornarvi soltanto nei mesi dell'inverno. Dieta lattea e carnea. Per gli altri particolari l'ammalato seguirà i consigli del medico direttore della Stazione di Darley. L'ammalato, che veniva da un villaggio lontano e molto all'infuori della corrente della nuova civiltà, domandò al medico pneumologo: - Non dovrò prendere nessuna medicina? Il medico si mise a ridere e poi: - Chè nel vostro villaggio avete ancora dei farmacisti? Qui ad Andropoli e in tutte le grandi città planetarie le farmacie non esistono più da forse un secolo. Le pillole, le pozioni, i cerotti sono avanzi della medicina antica. Oggi si curano tutte le malattie col cambiamento di clima, col regime alimentare, e coll'applicazione razionale del calore, della luce e dell'elettricità. I farmacisti furono per molti secoli i continuatori dei maghi, che curavano le malattie cogli esorcismi, e coi versetti del Corano o colla preghiera rivolta a Dio, alla Beata Vergine e ai suoi santi. E le ricette erano come lettere indirizzate a persone, di cui si ignora il domicilio. Qualche volta per caso incontravano chi doveva riceverle, ma il più delle volte pillole, polveri e decotti, dopo una corsa più o meno rapida attraverso il tubo gastroenterico, andavano a finire nel cesso, senza aver incontrato il viscere a cui erano indirizzate e che avrebbero dovuto curare e guarire. Ogni medico aveva la sua ricetta e ogni scuola cambiava metodo di cura. È in quell'epoca, che un grande poeta francese, che fu anche per poco tempo Presidente della Repubblica di Francia, fece la più amara, ma la più vera critica della medicina del suo tempo, dicendola: une intention de guèrir; ma anche per parecchi secoli dopo il Lamartine quella definizione fu la fotografia fedele dell'arte di curare i malati. Il pneumologo passò a visitare gli altri malati, e i nostri viaggiatori colla loro guida escirono da quel riparto per recarsi a quello in cui si visitavano i neonati. Paolo e Maria avevano osservato che quel malato di petto, che aveva subito la visita davanti ad essi, ringraziando il medico, gli aveva messo in mano un piccolo cartoncino. Era il pagamento della sua visita. Nell'anno 3000 da gran tempo non circolava più il denaro e la moneta corrente è costituita da tanti cartoncini piccolissimi, e tutti della stessa grandezza, che portano un timbro, quello del ministro delle finanze, e dove in una linea lasciata in bianco, ognuno scrive il proprio nome e la somma che vuole. Il colore del cartoncino indica le somme che si possono scrivere su di esso, essendovi venti serie, contraddistinte ciascuna da un diverso colore: Da una lira a cento - cartoncino bianco. Da 100 a 500 - cartoncino bigio. Da 500 a 1000 - cartoncino azzurro chiaro. Da 1000 a 2000 - cartoncino azzurro oscuro. Da 2000 a 5000 - cartoncino verde glauco. Da 5000 a 10000 - cartoncino verde smeraldo. Da 10 a 20000 - cartoncino giallo pallido. Da 20 a 50000 - cartoncino arancione. Da 50000 a 100000 - cartoncino violetto chiaro. Da 100 a 200000 - cartoncino violetto oscuro. Da 200 a 300000 - cartoncino mezzo bianco e mezzo nero. Da 300 a 500000 - cartoncino roseo. Da 500 a 600000 - cartoncino roseo oscuro. Da 600 a 700000 - cartoncino mezzo giallo e mezzo verde. Da 700 a 800000 - cartoncino mezzo azzurro e mezzo rosso. Da 800 a 900000 - cartoncino mezzo verde e mezzo rosso. Da 900000 a un milione - cartoncino mezzo bruno e mezzo rosso. Da 1 a 2 milioni - cartoncino mezzo bianco e mezzo verde. Da 2 a 3 milioni - cartoncino argenteo. Da 3 a 10 milioni - cartoncino aureo. Il valore di queste monete è dato però non dalla firma di chi lo spende, ma da quella dell'ottimato, che si legge in basso a destra del cartoncino. Gli ottimati sono i cittadini più onesti, più ricchi e più stimati del paese, ai quali il Consiglio Superiore di Governo ha dato dopo lunga discussione e ponderato esame quel titolo onorifico. Così come vi sono cartoline di diverso valore, così ogni ottimato, secondo la fortuna ch'egli possiede, può firmare una diversa categoria di cartoncini. Come è naturale gli ottimati più ricchi possono firmare anche i cartoncini argentei e aurei, e ve n'ha alcuni, di fama così universale, che la loro firma vale in tutto quanto il pianeta. I più modesti di fortuna, conosciuti soltanto nel loro villaggio o nella loro città, non sono autorizzati che a firmare i cartoncini di somme più esigue. Gli ottimati per dare a quei pezzetti di carta il valore desiderato non hanno bisogno di altre firme oltre la propria, e si può dire, che batton moneta in casa propria. Quando si vuol comperare un oggetto si da al venditore un cartoncino, che corrisponde al suo valore, scrivendovi le cifre intermedie fra quelle che vi sono iscritte, e quando col lungo uso questa moneta di carta è troppo sudicia e troppo sdruscita, si porta alla Cassa centrale dello Stato, dove è cambiata. Unico inconveniente di questa moneta è la sua combustibilità, ma in caso d'incendio chi può presentarsi alla Cassa centrale, raccomandato da quattro ottimati, come onesto, giura sul proprio onore di aver perduto una data somma, e questa gli è puntualmente e subito rimborsata. Se quella sventura colpisce un ottimato, basta la sua parola per dar fede alla propria dichiarazione. Ed ecco come si è incoraggiati nell'anno 3000 ad essere onesti, sinceri, ad essere perfetti galantuomini; dacchè l'onestà dà credito e il credito procura la ricchezza. È inutile dire che due volte all'anno in ogni città e in ogni provincia i consiglieri della finanza si riuniscono per fissare le norme della circolazione, la quale è sempre regolata dalla ricchezza del paese e dalla capacità finanziaria dei singoli ottimati, che firmano i cartoncini. Questa moneta comoda a maneggiarsi e garantita dalla perfetta onestà di chi la firma, corre collo stesso valore in tutti i paesi del mondo, ed ha semplificato d'assai il corso del commercio e l'andamento di tutti gli affari. Il cartoncino, con cui il povero tubercoloso aveva pagato il medico pneumologo, era bianco e vi era scritta la cifra di L. 50; onorario comune in quel tempo di una semplice visita medica. I poveri sono visitati gratuitamente o per essi sono pagati dai ricchi. I nostri viaggiatori percorsero rapidamente le corsie, dove erano curati gli infermi, a cui occorre una pronta e urgente medicazione o che devono subire operazioni chirurgiche difficili o impossibili nelle abitazioni private. Le chiamo corsie, per adoperare una vecchia parola e perchè le camere dei malati erano poste le une dopo le altre e in due file separate da un ampio corridoio, ma ciascun malato ha la propria camera, bastantemente ampia e dove opportuni ventilatori rinnovano l'aria, di giorno e di notte, mantenendovi sempre la temperatura dovuta, secondo la stagione e la natura del male. Inutile dire che pareti e pavimento sono di porcellana azzurrina, onde non offendere la vista, e vengono lavate ogni giorno onde impedire qualunque infezione. - Prima di passare alla sezione degli Igei, - disse il Direttore, - daremo un'occhiata al dipartimento, in cui si curano le malattie traumatiche, cioè le ferite, le bruciature, le fratture e tutte le lesioni prodotte da accidenti meccanici o da violenze esteriori. Pur troppo la civiltà, per quanto avanzata, non può difenderci da queste disgrazie e la chirurgia deve curarle, come la medicina fa delle malattie che si sviluppano spontaneamente. Entrati nella sezione dei traumi, un chirurgo stava appunto medicando una grave ferita in un braccio, con grave perdita di sostanza. - Ecco qui, miei signori, un caso molto interessante. Un tempo questa ferita, anche colla cura antisettica più perfetta, avrebbe lasciato una gran deformità con assoluta impotenza dell'arto ferito. Invece oggi sappiamo produrre artificialmente dei protoplasmi, che appena preparati si applicano dove manca una porzione di pelle o di muscolo. Si fa in questo modo un vero innesto di sostanza germinativa, che messa in contatto dei tessuti vivi, prolifica e riproduce il muscolo che manca; e così il braccio è restituito allo stato normale e riprende le sue funzioni. La parte difficile di quest'operazione consiste nel mettere la quantità precisa di protoplasma che si richiede, e che non deve essere nè scarsa nè eccessiva; ma la pratica del chirurgo riesce a raggiungere lo scopo desiderato. Paolo e Maria videro altri casi di fratture, di lussazioni, che erano medicati senza dolore e colla massima facilità. - Ed ora, - disse il Direttore, - andiamo a visitare la sezione degli Igei. Maria, che aveva udito parlare della soppressione dei bambini inabili alla vita, ma che non ne sapeva altro, era alquanto turbata e incerta, se dovesse entrare in quel dipartimento, ma Paolo le disse: - Noi dobbiamo e vogliamo vedere ogni cosa. Andiamo. Entrarono in una vasta sala, dove si sentiva un confuso guaito di cento bambini, che piangevano fra le braccia delle loro mamme o di altre donne. Era una scena molto triste, perchè il pianto di tante creature innocenti era reso ancora più tristo dalla fisonomia angosciosa di quelle donne, che aspettavano dal medico la sentenza di vita o di morte dei loro figliuolini. - Ecco qui, - disse il Direttore, - tutti questi bambini non hanno più di tre giorni di vita e le loro mamme possono accompagnarli, dacchè ora il parto non è più una malattia, che un tempo obbligava le partorienti a stare a letto per più d'un mese. I progressi dell'igiene hanno reso il parto una funzione naturale, che si compie senza dolore e senza lasciare alcuna triste conseguenza. La donna oggi partorisce come qualunque altro animale e poche ore dopo il parto si alza dal letto per accudire alle proprie faccende e qui, come vedete, quasi tutti i bambini sono condotti dalle loro stesse madri, meno alcune poche, molto sensibili e timorose di lasciare qui per sempre il frutto delle loro viscere, e che li affidano a qualche loro stretta parente. In quel momento fu chiamato il bambino del numero 17. - Avanti il 17. Una mammina giovane, robusta e bella si alzò da sedere col proprio bambino in braccio. Si vedeva nel suo volto, che nessuna trepidazione la tormentava e che era troppo sicura di ritornare a casa colla sua creaturina. L'Igeo prese il bambino, che era già quasi svestito e lo mise nudo affatto sopra una specie di trespolo. Immediatamente un fascio di luce lo innondò, rendendolo trasparente, come se fosse di vetro e il medico, dopo averlo mutato di posizione, guardandolo con un cannocchiale, disse ad alta voce: - Numero 17: Bambino sano, robusto, atto alla vita. E poi si ritirò, mentre un altro medico, un Psicoigeo, lasciando il bambino sullo stesso trespolo, diresse una luce più penetrante sul suo cranio, guardandolo lungamente con un altro cannocchiale, che ingrandiva centinaia di volte le cellule cerebrali. L'esame durò una buona mezz'ora, poi il medico disse: - Cervello normale, nessuna tendenza a delinquere. I due verdetti dei due medici furono ripetuti per iscritto da un segretario, poi firmati dall'Igeo e dal Psicoigeo e consegnati alla madre, che lieta e orgogliosa se ne partì, ringraziando i dottori e gettando intorno a sè nel circolo affollato dalle mamme uno sguardo di trionfatrice e di donna felice. Essa aveva dato al mondo un cittadino sano, robusto e incapace al delitto. - Numero 18! E un nuovo bambino fu sottoposto allo stesso duplice esame del numero 17, riportando questi due verdetti: - Bambino sano, ma non robusto. Atto a vivere, ma bisognoso di un'alimentazione tonica e ricostituente. Cervello normale. Carattere timido e pauroso. Educazione virile e spartana. Il numero 19 era un bambino bellissimo e robusto, ed esso riportò questa doppia sentenza: Bambino sano, robusto, atto alla vita. Cervello normale; ma con una ipertrofia del centro genitale. Disposto alla lussuria. Dirigere l'educazione ad indebolire questa tendenza. Maria sperava che le visite avrebbero avuto tutte un analogo risultato, per cui non avrebbe assistito alla distruzione di nessuna creatura, ma ecco che il numero 20, un bambino gracilissimo e che per di più era nato di otto mesi, sottoposto all'esame dell'Igeo fece aggrottare le sopracciglia al medico, il quale con un campanello chiamò a sè altri due medici consulenti, che stavano in una camera vicina, pronti ad esser chiamati, e l'un dopo l'altro rifecero l'esame del povero bambino, crollando anch'essi il capo con aria compunta e dolorosa. I tre medici si accordarono in questo giudizio: Bambino gracilissimo, tubercoloso, inetto alla vita. Quando la madre ebbe udito questa lugubre sentenza, si mise a singhiozzare, chiedendo ai medici: - Non potrebbe una cura opportuna dare al mio bambino una buona salute? - No, - risposero tre voci ad un tempo. E allora l'Igeo, che per il primo aveva visitato il bambino, rivolto alla madre: - E dunque? La madre raddoppiò i singhiozzi, e restituendo il figliuolo ai medici, con voce appena sensibile rispose: - Sì. Quell'E dunque voleva dire: Permettete dunque che il vostro bambino sia soppresso? E infatti, un inserviente prese il bambino, aprì un usciuolo nero, posto nella parete della sala e ve lo mise, chiudendo la porticina. Fece scattare una molla, si udì un gemito accompagnato da un piccolo scoppio. Il bambino innondato da una vampa di aria calda a 2000 gradi era scomparso e di lui non rimaneva che un pizzico di ceneri. La madre, appena aveva pronunziato il suo disperato sì era scomparsa dalla sala, e l'Igeo, triste in volto ma calmo, aveva chiamato: - Numero 21! Maria piangeva e voleva ad ogni costo lasciare quella sala d'orrore, ma Paolo, che pur sapendo come si sopprimessero i bambini inabili alla vita, non aveva mai voluto assistere a quella crudele insieme e pietosa operazione, era affascinato da quella scena terribile, per cui disse: - Maria, ancora uno, uno soltanto e poi ce n'andremo. Maria gli prese una mano e se la pose al cuore, ne più la lasciò, tenendola stretta stretta, come per attingere coraggio. Non sapeva mai dire di no al suo Paolo e rimase. Il bambino numero 21 era più gracile ancora di quello che lo aveva preceduto, e per di più era livido e chiazzato di macchie rosse nel volto. L'Igeo dopo un brevissimo esame, sentenziò: - Bambino con grave vizio di cuore, inabile alla vita. La madre non piangeva, ma più pallida della morte, esclamò: - No, dottor mio, non può essere, il parto fu lungo e difficile; è per questo che il mio bambino è livido. Guarirà, guarirà di certo. Non ho che lui. Non ne posso aver altri; mio marito è morto. Il dottore era costernato, ma: - No, no, cara donna, questo bambino potrà vivere qualche anno, ma sempre soffrendo e la sua morte sarà dolorosa, straziante. Non abbiamo modo di guarire i vizi di cuore congeniti. E poi: - E dunque? La mamma aveva ripreso il suo figliuolo, e se lo stringeva al seno, come se avesse voluto farlo guarire coi suoi baci ardenti, col suo amore caldissimo. Ma non rispondeva. - E dunque? - riprese il medico.- Voi sapete, che la soppressione non può farsi senza il consenso della madre o senza quello del padre, in caso di morte della madre. Pensate che le vostra pietà sarebbe crudele, perchè consacrereste la vostra creatura a patimenti inauditi, feroci e che potrebbero durare molti anni. Il vostro bambino non ha la coscienza di esistere e la sua soppressione non è nè dolorosa nè lunga. Un minuto lo ridurrà in fumo e in un pizzico di cenere, che potrete conservare. Siete ancora giovane, potrete rimaritarvi ed avere altri figliuoli. Pensate bene a ciò che state per dire. Ma la mamma non rispondeva e da un mutismo di pietra era passata ad un pianto dirotto framezzato da crudeli singhiozzi. Maria, che teneva sempre la mano di Paolo sul suo cuore, piangeva anch'essa e insisteva collo sguardo per partire. - E dunque, e dunque? - ripetè per la terza volta l'Igeo con un leggero accento di impazienza. Fu veduta allora la mamma alzare il capo come in atto di sfida e di disperazione in una volta sola, poi: - E dunque, e dunque? - Dunque no!! E come se fuggisse da un inseguitore, uscì dalla sala col suo bambino stretto fra le sue braccia. L'Igeo guardò Paolo e Maria e poi: - Povera donna! Povera donna! Quante volte essa si pentirà di quel no. Essa si crede una buona madre e invece non è che una madre crudele. La soppressione dei bambini consacrati ai patimenti e a una morte immatura è vera pietà. *** Maria e Paolo profondamente commossi non vollero veder altro e lasciarono l'Igeia col bisogno urgente di essere all'aperto, di cercare il cielo azzurro e le piante verdi e ritemprarsi nell'ammirazione della natura, che però più crudele e più pietosa degli Igei, sopprime ogni giorno migliaia e migliaia di creature, solo perchè son nate male!

E noi abbiamo qui nel nostro tempio un vero Museo di medagliette, che furon trovate smarrite o che lo Stato raccolse per la scomparsa delle famiglie a cui appartenevano. Oggi la siderofilia è usata assai poco, perchè nell'anno 2858 si scoperse, che un chimico di quel tempo, che si era dato alla specialità di cavare il ferro dai cadaveri umani per farne poi le medagliette necrofore, si faceva pagare profumatamente l'operazione chimica, ma per risparmiarsi il lungo travaglio, invece di ricavare il ferro dal corpo del morto, prendeva un chiodo, un pezzo di ferro qualunque, e con esso coniava la sua medaglietta. Quel furbo aveva davvero inventato un'industria molto lucrosa, dacchè convertiva un pezzetto di ferro del valore di forse un soldo, in una medaglia che gli era pagata fin cinquecento lire. Egli arricchì immensamente, ma dopo di lui, per molti anni il pubblico dei morti ebbe grandissima diffidenza, e le medagliette di ferro umano, cadute in ridicolo, ebbero il loro tramonto. Non è che da alcuni anni, che una società di siderofili si è costituita in Andropoli, e qui hanno fondato un laboratorio, che presenta tutte le garanzie possibili, e dove per turno assistono alle nostre operazioni alcuni consiglieri di questa Società. L'ingegnere siderofilo, prima di congedarsi dai suoi visitatori, mostrò loro un laboratorio speciale, dove si stavano facendo degli studi per assecondare il desiderio di un ricco milionario, il quale vorrebbe che dopo la sua morte non solo venisse estratto il ferro dal suo cadavere, ma ad uno ad uno si isolassero tutti gli elementi; e così l'ossigeno, l'idrogeno, il carbonio, l'azoto, lo solfo, il fosforo, ecc. Questo signore, che è un inglese, ha messo a nostra disposizione pei nostri studi più di un milione, e da sè stesso ha disegnato un monumento tutto in pietra dura e che rassomiglia ad un'antica farmacia, e dove dovrebbero essere collocati tutti i corpi elementari, che hanno costituito il suo corpo. Nessun'altra iscrizione dovrebbe leggersi in questo monumento fuori di questa: Corpi elementari che formavano il corpo di N. N. Salutato l'ingegnere, Paolo e Maria passarono nella Sezione degli Imbalsamatori, dove si preparano i cadaveri di coloro, che vogliono resistere al tempo anche dopo la morte, conservando integri i loro corpi. La visita fu lunga e molto curiosa, dacchè gli imbalsamatori nel loro testamento non si accontentavano di dire, che volevano che il loro corpo fosse preservato dalla putrefazione; ma dicevano anche come volessero essere imbalsamati. E nell'anno 3000 i metodi di conservazione dei cadaveri sono molti e svariatissimi. I corpi imbalsamati sono poi ritirati dalle famiglie o conservati nella necropoli a seconda del desiderio espresso dal defunto o dai suoi parenti. I nostri viaggiatori, percorrendo il lungo Museo degli imbalsamati, poterono coi loro occhi vedere tutto quel popolo di morti superbi, che avevano voluto sopravvivere a sè stessi. Alcuni pochi erano imbalsamati come gli antichi egiziani, tutti chiusi nelle loro bende incatramate e chiusi in sarcofaghi di legno intarsiato e dipinto. Altri erano semplicemente disseccati in un forno, dopo essere stati imbevuti di sublimato corrosivo. Facevano ribrezzo, sembrando grandi stoccafissi. Più in là chiusi in grandi vetrine si vedono cadaveri pietrificati, rigidi e duri come la pietra, che paiono statue modellate da un pessimo scultore. Meno orribili sono altri imbalsamati col processo più perfetto, che si conosca nell'anno 3000. Sono vestiti dei loro abiti e serbano la loro fisonomia e il loro colorito; ma i loro occhi di vetro e immobili paiono guardar sempre fissi in un luogo. Si può ammirar l'arte, con cui sono stati preparati, ma fanno terrore e sembrano protestare contro chi ha voluto in uno strano connubio associare la vita alla morte. Maria guardava tutte quelle mummie con un evidente ribrezzo e non potè far a meno che di dire al suo Paolo: - Paolo mio, se muoio prima di te, io desidero che tu non mi faccia nè disciogliere nell'acido nitrico, nè cremare, nè molto meno imbalsamare. Fammi seppellire nella terra molle e odorosa, senza cassa alcuna, ond'io, anche morta, possa sentirmi circondata e abbracciata dalla nostra eterna madre, dal cui grembo siamo usciti. Io voglio disciogliermi in essa e nutrire col mio sangue e i miei visceri i fiori, che tu pianterai sulla mia fossa. Me lo prometti, non è vero, Paolo mio? - Sì, te lo prometto, - rispose Paolo colla voce interrotta dal singhiozzo, - ma sarai tu quella che mi adagerai nella terra molle e odorosa, perchè io ho parecchi anni più di te e prima di te devo fare il lungo viaggio; il viaggio senza ritorno. - Ma non parliamo di cose tristi. - E come non parlarne, qui, dove non siamo circondati che da morti, che ci ridestano l'eterno pensiero del mondo al di là, di cui tutta la nostra civiltà non ha saputo svelarci il segreto? Ma andiamo all'ultima tappa del nostro triste pellegrinaggio. Andiamo a visitare il cimitero. E i nostri viaggiatori rientrarono nel tempio, e avendolo attraversato, per una porticina si trovarono in un vasto giardino, tutto quanto popolato di arbusti sempre verdi e di fiori. Nel mezzo si innalza una colonna gigantesca di bronzo, che porta sulla cima una fiamma sempre ardente. Nello zoccolo della colonna sta scritta anche là la bella parola: Sperate. Dalla colonna partono come tanti raggi cento piccoli sentieri, che finiscono alla periferia del campo dei morti, e da ambo i lati del sentiero sono poste le tombe. Ogni tomba è un piccolo giardino in miniatura e in mezzo ad esse si innalza un cippo di marmo nero, in cui non si legge che il nome del morto e la data della nascita e della morte. Null'altro. - Vedi, Maria, qui non vi ha distinzione alcuna tra ricchi e poveri, tra genii e volgo. Chi può pagare il cippo, se lo fa da sè, e ai poveri provvede lo Stato. È assolutamente proibito di scrivere sulla tomba alcuna parola di elogio, nè di innalzare statue o mausolei sontuosi. Una volta, molti secoli or sono, le disuguaglianze e le vanità umane parlavano ad alta voce anche nei cimiteri, e chi li visitava, doveva credere che tutti quei morti erano stati in vita uomini di genio; eroi del cuore o del pensiero. E chi aveva dettate quelle epigrafi aveva spesso tormentato il povero morto, quando era in vita; lo aveva offeso, calunniato, fors'anche gli aveva affrettata la morte. Maria disse allora a Paolo: - Ho sempre trovato giusta questa eguaglianza di tutti gli uomini nel cimitero, ma mi pare che si dovrebbe fare un'eccezione per gli uomini di genio o per quelli, che colla carità o coll'eroismo hanno resi grandi servizi all'umanità. - E tu hai ragione, ma questi uomini grandi hanno la loro apoteosi in un Panteon, che è un po' più in là di questa necropoli e che noi visiteremo. Qui giacciono i loro corpi, là troveremo raccolte le memorie delle loro opere. - Permettimi, Paolo, un'altra osservazione. Mi è sempre parso, che nella nostra civiltà lo Stato prenda una parte eccessiva, invadente quasi. E perchè i superstiti non possono innalzare ai loro cari perduti una statua, un monumento, se vogliono, anche un mausoleo? Il nostro tempo si distingue soprattutto per il trionfo dell'individualismo e mi pare che qui, dove si dovrebbe lasciare all'affetto e al dolore tutti i loro santi diritti, lo Stato si intromette con troppa tirannia. - Ma no, Maria mia, lo Stato non è invasore. Qui dirige e comanda, perchè le necropoli sono monumenti pubblici, ma ognuno nella propria casa, nel proprio giardino, nel proprio paese è padrone di innalzare ad un caro morto, anche un tempio, se lo vuole. - Ma andiamo nel Panteon: là non troveremo più cadaveri, ma dei morti che son più vivi di quando erano di questo mondo. Un viale tutto fiancheggiato di alberi giganteschi li condusse ad una vera città, dacchè ogni regione del globo vi ha i proprii templi innalzati alla memoria dei grandi uomini. E ogni tempio ha l'architettura caratteristica del paese, a cui quei genii appartenevano. Ne ha la China: ne hanno il Giappone, l'India, l'Australia, l'America, l'Africa e l'Europa. In ogni tempio si innalzano infiniti monumenti di bellissimo stile, dove non sono deposte le ossa dei genii scomparsi, ma dove si trova come in compendio tutta la loro vita. In tutti si trova o il busto o la statua, che riproduce i lineamenti del grande estinto e poi, come in una chiesetta chiusa, si vedono alle pareti tutti i ritratti di lui nelle diverse età della vita. Un albero genealogico della famiglia segna la sua discendenza e poi, se autore di libri, in una libreria son poste tutte le sue opere, colle diverse edizioni, e le sue biografie. Spesso si vedono anche gli oggetti che gli sono stati più cari, il suo cane o il suo gatto imbalsamati, i fiori che prediligeva, il suo bastone, la poltrona in cui sedeva e tanti altri oggetti. Se il morto era un artista, si vedono le riproduzioni in fotografia dei suoi quadri, delle sue statue, degli edifizi che aveva innalzati. Se era un meccanico o un ingegnere si trovano nel monumento, che gli è stato innalzato, i disegni delle macchine inventate, delle strade, dei ponti che aveva costruiti. In una parola ogni monumento è una biografia parlante dell'uomo grande, a cui era stato innalzato. - Tu vedi, Maria, che per aver soppressi i mausolei vanitosi nel cimitero, i grandi uomini non sono meno onorati da noi di quello che lo furono dai nostri antichi padri, i quali, lasciando ai superstiti la cura di ricordare i loro morti, misuravano col denaro e non col merito l'altezza della statua e il lusso dei marmi; per cui spesso un uomo volgarissimo aveva in quei cimiteri uno splendido mausoleo, mentre un genio non era ricordato che da una modestissima lapide. Paolo, come facevano tutti i visitatori di quel Panteon, entrando nei diversi monumenti, si levava il cappello, facendo una genuflessione dinanzi all'effigie del grand'uomo. - Questi sono i nostri santi, e che tengon luogo degli antichi, spesso fabbricati per industrie simoniache da preti furbi ed ignoranti o che non avevano avuto altro merito che quello di aver digiunato o di aver contraddette le più sacre leggi della natura; quelle che ci comandano di amare e di riaccendere nei nostri figli la fiaccola della vita. Commossi, ma non rattristati, i nostri due compagni passeggiarono lungamente nel Panteon di Andropoli, richiamando alla memoria le grandi azioni e le grandi opere di quei grandi. Maria, commossa profondamente dalla lunga passeggiata, fece un'ultima domanda al suo Paolo: - Dimmi, Paolo, qui non trovo più l'uguaglianza, che ho veduta nel campo dei morti. Qui trovo monumenti piccini, mezzani, grandissimi, e chi è giudice e esecutore di queste grandi disuguaglianze? - Gli uomini grandi, mia cara, son tutti degni di gloria; ma son molto disuguali fra di loro. Abbiamo i genii, che colla luce del loro pensiero innalzano un faro che illumina tutto il pianeta; che colle loro opere segnano un'era nuova nella storia dell'umanità. E ne abbiam altri, che col loro talento e il lavoro indefesso perfezionano le scoperte dei primi; nè è cosa giusta, che essi abbiano gloria eguale agli altri. È il concorso dei più, è il voto dei membri della grande Accademia di Andropoli, che decide quale sia il monumento, che deve essere innalzato alla memoria del grande scomparso. E il giudizio non è pronunziato che dopo una lunga e profonda discussione.

L'invenzione è di una straordinaria importanza e perciò abbiamo dato all'ingegnere Newton il terzo premio. Lo invito a recarsi alla Presidenza, per ricevere il premio. L'ingegnere Newton era seduto accanto a Paolo. Si alzò, e recatosi al banco del Sofo, ricevette un diploma e una medaglia. La musica intonò le sue armonie, e tutti gli astanti si alzarono ad applaudire il premiato. E il segretario continuò a leggere la sua relazione: Il celebre astronomo Carlo Copernic ha perfezionato talmente il telescopio da permetterci di vedere gli abitanti dei pianeti più vicini. Questa invenzione segna un'era nuova nella storia della civiltà, e permettendoci di allargare i confini del mondo conosciuto, accrescerà all'infinito i tesori del nostro pensiero, lasciandoci anche sperare, che in un tempo non troppo lontano noi potremo metterci in relazione coi nostri fratelli planetarii. Si trovò quindi ragionevole e giusto di accordare il secondo premio all'astronomo Copernic. E qui nuovi applausi e nuove armonie. Dopochè il Copernic ebbe ricevuto il premio, vi fu una lunga pausa di silenzio e di aspettazione. Quel silenzio esprimeva l'infinita curiosità di sapere, chi mai avesse potuto fare una scoperta ancor più grande. Perforare la terra da parte a parte e comunicare direttamente cogli antipodi! E spiare la vita degli abitanti di Venere, di Mercurio, di Marte! Che cosa vi può essere mai di più grande? *** E il segretario riprese la parola. La terza scoperta, signori e signore, e di certo la più grande, è quella dello psicoscopio, strumento che ci fa leggere facilmente i pensieri dell'uomo, verso cui si dirige. Prego il signor Paolo Fortunati, di Roma, a voler venire al banco della presidenza per dimostrare praticamente come agisce il psicoscopio. Maria a queste parole si sentì battere il cuore forte forte, guardò Paolo, che dopo averle stretta una mano convulsivamente, le disse all'orecchio: - Ecco il mio segreto! Si alzò, e salito a fianco del presidente dell'Accademia, si levò di tasca un piccolo strumento, a guisa di un doppio cannocchiale di tasca e lo rivolse verso il pubblico. Il silenzio era stato grandissimo, appena il segretario aveva parlato, ma ora un grande rumore di seggiole smosse e di gente che si alzava, turbò la serena pace di quel luogo sacro alla scienza. Era il rumore di molti, che improvvisamente lasciavano la sala, perchè avevano paura che si leggessero i pensieri, che in quel momento, passavano per il loro cervello. Paolo, benchè in quel momento fosse estremamente commosso, non potè a meno di ridere a quella fuga tumultuosa. Appena si ritornò al silenzio dell'aspettativa e più nessuno si mosse, Paolo rivolse il psicoscopio verso un fanciullo sui dieci anni, che stava seduto accanto alla sua mamma, e poi: - Ecco là quel fanciullo, che pensa con grande dolore, che egli si sta annoiando in questa sala, ascoltando discorsi che non intende; mentre a casa sua i suoi fratelli giuocano a palla nel giardino. Egli dirige mentalmente a tutti noi delle maledizioni ... Tutta l'assemblea scoppiò in una risata omerica. Paolo diresse allora il suo strumento qua e là, come se cercasse qualcuno o qualche cosa, e in modo da non far capire dove si fermasse più a lungo. - Non accennerò ad alcuno in particolare, ma io leggo in più di dieci fra le persone qui convenute un grandissimo sdegno per la solenne ingiustizia commessa a loro riguardo dai nostri accademici. Essi avevano concorso al premio cosmico e non l'hanno conseguito ... In uno di essi poi leggo anche pensieri orrendi di odio e di vendetta ... A queste parole il tumulto di prima sorse di nuovo e più violento. Alle sedie smosse e cadute di chi abbandonava la sala, si unirono grida irose: Profanazione! Profanazione! Abbasso il psicoscopio ... Paolo rimase imperterrito, e il Presidente suonò più volte il campanello, invocando silenzio e pace. Intanto la sala si era vuotata più che mezza, e il segretario potè ripigliare la sua relazione: L'Accademia ha creduto a voti unanimi di conferire il primo premio al signor Fortunati, perchè se le due altre scoperte ci allargano le frontiere del conoscibile, il psicoscopio ci promette un'era nuova di moralità e di sincerità fra gli uomini. Quando noi tutti sapremo, che chiunque può leggere nel nostro cervello, faremo sì che pensieri e opere non si contraddicano, e noi saremo buoni nel pensiero, come cerchiamo di esserlo nelle opere. È a sperare che col psicoscopio la menzogna sarà bandita dal mondo o almeno sarà un fenomeno rarissimo, che si andrà perdendo del tutto; come tutte le funzioni e gli organi, che non hanno più uno scopo necessario o utile. E lasciamo da parte tutti i vantaggi, che potrà arrecarci il nuovo strumento nella diagnosi delle malattie mentali, nell'educazione, nella psicologia. La scienza del pensiero entrerà ben presto in un nuovo mondo, e di certo è assai più utile all'uomo il conoscere se stesso, che il centro della terra o gli abitanti degli altri pianeti. Dacchè l'uomo è comparso sulla terra, egli ha fatto immensi progressi nelle scienze, nelle arti, nelle lettere; in tutto ciò che riguarda la vita del pensiero; ma nella moralità il progresso è ancora molto addietro, e non è punto in armonia con quello della mente. Il psicoscopio ci promette di realizzare questo sogno di tutti i secoli, quello cioè che il progresso morale sia parallelo a quello intellettuale, e siccome tutti crediamo, che il primo per la felicità degli uomini sia molto più importante dell'altro, ecco perchè l'Accademia ha creduto di dover assegnare il primo premio al signor Paolo Fortunati, che ha inventato il psicoscopio. Tutti quelli che erano rimasti nella sala, perchè non avevano paura che il terribile strumento ottico leggesse attraverso il loro cranio alcuni pensieri malvagi, si alzarono in piedi, applaudendo fragorosamente il fortunato vincitore del premio cosmico, e che anche nel suo nome portava quasi il vaticinio della sua gloria ... L'unica persona che non si alzò, era la più felice e la più commossa. Era Maria, che si nascondeva il volto nel fazzoletto per celare le lagrime di una gioia infinita, che la innondava tutta quanta dal capo ai piedi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo intanto era sceso dal banco della presidenza, era ritornato al suo posto, e là le lagrime di due felici si univano insieme, confondendosi nell'estasi di un'ebbrezza sola. Tutti i presenti guardavano commossi quel gruppo dei due felici, persuasi che l'abbraccio di quella donna in quel momento, in quel luogo, era il premio più alto e primo della scoperta immortale di Paolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . *** Pochi giorni dopo Paolo e Maria, dopo aver avuto l'alto consenso del Tribunale sanitario di Andropoli, per unirsi nel matrimonio fecondo; ne ricevevano nel Tempio della Speranza il sacramento solenne, e da amanti, che lo erano già da varii anni, diventavano marito e moglie; avendo acquistato per consenso della scienza il più alto dei diritti, una volta concesso a tutti nei tempi barbari; quello cioè di trasmettere la vita alle generazioni future. 1 Il Panglosso è un teatro riserbato agli uomini molto colti e dove si danno rappresentazioni nelle lingue morte, dal greco all'italiano, dal latino e dal sanscrito all'inglese, al turco, al chinese. 2 Il Teatro dei buffoni di Andropoli ha lo scopo di far ridere ad ogni costo, onde rallegrare gli ipocondriaci, gli annoiati e tutti i depressi. 3 Il Teatro del pianto non dà che rappresentazioni melanconiche, ma non mai strazianti, per mettere una nota triste e pur desiderata nella vita dei troppo felici.

Gli altri tre centri planetarii compiono lo stesso lavoro e così, riunendosi ogni anno in Andropoli i quattro volumi, abbiamo segnato con esattezza matematica il bilancio complessivo della civiltà planetaria. Maria si azzardò a dire: - Della civiltà meccanica, però ... non della morale. L'ingegnere sorrise, poi: - Signora gentilissima, io come ingegnere non posso occuparmi che del progresso meccanico; ma creda pure che questo va quasi sempre parallelo al progresso morale. Ad Andropoli però, se ella vi andrà, potrà vedere come ogni anno si raccolgono anche le cifre, che segnano il progresso morale dell'umanità. *** I nostri viaggiatori, passando di meraviglia in meraviglia, visitarono l'un dopo l'altro tutti i laboratorii di Dinamo, e dopo aver ringraziato il gentile ingegnere, che li aveva accompagnati, lasciarono l'isola più superbi di prima di essere uomini.

Ciò non toglie che abbiamo sempre dei ladri e degli assassini. Il progresso morale è assai più lento del progresso intellettuale, ma non dobbiamo disperare che un giorno l'uno si metta a livello dell'altro. - Dunque oggi non si puniscono più i delitti? - Sì, ma la pena è ridotta alla perdita temporanea della libertà. Non ti pare forse una punizione sufficiente quella di essere segregato dal consorzio umano? Nella Casa di giustizia, il ladro, l'assassino son tenuti chiusi, mentre si cerca di dimostrar loro l'enormità della colpa commessa persuadendoli che il delitto non è soltanto una colpa, ma è un errore e una cattiva speculazione. La chiusura non dura che pochi giorni o poche settimane ed è caso molto raro che si prolunghi ad alcuni mesi E la punizione non finisce lì, perchè quando il colpevole è rimesso in libertà porta per qualche tempo all'occhiello dell'abito un nastrino giallo, che segna in lui un marchio di infamia, per cui tutti lo guardano con diffidenza e sospetto. I ladri lo portano di color giallo, gli assassini o tutti quelli che hanno commesso atti di grande violenza, lo portano rosso. E quel segno non si toglie che dopo che il colpevole ha mostrato colla sua condotta di esser ritornato nel grembo dei galantuomini. - E quando il delinquente è recidivo? - Oh allora, la pena della prigionia è raddoppiata o triplicata secondo i casi, e il colpevole, uscendo dalla Casa di giustizia, porta due nastri invece di uno. Ciò avviene però rarissime volte e per lo più in delinquenti nati, che per errore dell'esame cerebrale, son sfuggiti alla soppressione. *** Pochi momenti dopo Paolo e Maria, scendevano dal mercato, dopo aver comprato molti fiori e molte frutta e ritornavano al loro albergo.

Teresa

678401
Neera 6 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Ne abbiamo, signor sindaco, ma la faccenda è brutta assai; temo l'abbia da andar male per tutti. Chi rispondeva così alla grande autorità del paese, era il vecchio Toni, l'anziano dei barcaiuoli, che di piene ne aveva vedute parecchie, e crollava il testone grigio arruffato, sul quale stava in permanenza il tradizionale berretto rosso dei paroni del Po. - Noi facciamo il nostro dovere, Toni, e il resto alla provvidenza. Toni non rispose; si rimise al lavoro, insieme agli altri barcaiuoli e operai; tutti intenti a trasportare fascine, sacchi di terra, cocci, mattoni, ciottoli per far argine al fiume. - Santo Iddio! - esclamò il sindaco, con un accento metà di bestemmia e metà di preghiera - guardando il fiume che ingrossava sempre. La notte era nera, con un cielo minaccioso, gravido di pioggia. Era piovuto tutto il giorno - pioveva da trentaquattro giorni. La pietra sulla quale erano segnati i gradi d'altezza delle precedenti inondazioni, era già tutta coperta. Il fiume saliva con una lentezza implacabile, colla calma feroce di un mostro che è sicuro della sua preda. Aveva invaso l'argine basso; ora toccava l'orlo dell'argine superiore, spumeggiando, con un brontolìo sordo. Il gran pericolo era che l'acqua minasse l'argine al di sotto. Da quarantotto ore si lavorava senza posa, atterrando alberi e vecchie case, le piú vicine al fiume, quelle in maggior pericolo; gli abitanti di tali casupole, quasi tutti poveri, fuggivano trasportando le masserizie - e non erano ancora fuori che già il piccone dei muratori risuonava sui muri, facendo rimbalzare i calcinacci, alla luce scialba delle torce a vento portate dai ragazzi. Una vecchia ottuagenaria, alla quale avevano tolto il letto per trasportarlo in posto piú sicuro, si avvicinò agli uomini che sorreggevano quel povero mobile tarlato, e disse loro piangendo: - Gettatelo dentro anch'esso, tanto domani io non vi potrò piú dormire. - Sì, gettatelo, - aggiunse il sindaco - ne farò dare un altro a questa povera donna. Il letto della vecchia sparve subito nelle onde ingorde che salivano, salivano. Il sottoprefetto e il tenente dei carabinieri giungevano insieme dalla parte dei boschi, dove erano andati ad ispezionare la sicurezza delle rive. - E così? - fece il sindaco appena li vide. - Nessun pericolo, per il momento; e qui? Hanno paura? - Ha messo un po' di sgomento l'ordine di poco fa, di non coricarsi per tutta la durata della notte, e star pronti al suono della campana. - Si capisce! Il sotto-prefetto, un meridionale bello, elegante, colla fronte di poeta, si cacciò - per una abitudine da salotto - la mano destra nei capelli, ravviandoli, intanto che guardava la folla nereggiante dei cittadini, quasi tutti raccolti sull'argine, ansiosi, formando gruppi vari e fantastici, tra i quali correvano, come fuochi fatui, le torcie di resina. Poi si chinò all'orecchio del tenente, mormorando con gesti vivaci: - Ma ditemi un poco, se c'è stato senso comune a fabbricare un paese in queste condizioni, coll'acqua sul capo! Dietro all'argine il suolo digrada con un pendìo spaventoso, e laggiú, quella buca, dove hanno fabbricato il loro maledetto paese, par proprio la coppa destinata al brindisi. Il tenente dei carabinieri, piemontese e calmo, ammutolì; e non sapendo che cosa rispondere alle brillanti sì, ma poco opportune osservazioni del suo superiore, si accontentò di fare: - Hem! Hem! La gente accorreva da tutti gli sbocchi, piagnucolando, imprecando, interrogandosi gli uni gli altri, urtandosi, facendosi avanti, senza complimenti, senza riguardi. Assalivano di domande i due ingegneri mandati dal governo, dando pareri, suggerendo. Gli ingegneri rispondevano: "sì, sì", frettolosi, chini sul fiume, tentando col piede la resistenza dell'argine nei punti piú deboli. - Che gradi abbiamo, Toni? - È salito ancora di mezzo centimetro - rispose il barcaiuolo, dopo aver accostato il testone grigio alla pietra, facendosi lume con un fiammifero. Un gemito scoraggiante serpeggiò nella folla. Qualcuno, che non aveva compreso, domandava: - Che cosa? Che cosa? - È salito ancora mezzo centimetro. Un gruppo di donne circondano il sindaco: - Signor sindaco, se permettesse una processione in onore di San Giovanni Nepomuceno, che è sopra alle acque e ha fatto dei miracoli ... Il sottoprefetto interruppe: - Che fanno qui le donne? Via le donne. Andate a casa. E i bambini? Anche i bambini? Via i bambini. Via, via, via. Andate a casa. Il sindaco lo rabbonì dicendogli piano: - Che mai vuole che facciano alle loro case? se non possono nemmeno coricarsi in questa notte sciagurata! - È vero; è vero; ma le donne non le posso soffrire, mi urtano i nervi. - Ooh! ... - In certi casi, s'intende, come questo. Luzzi, - prese per un braccio il suo segretario - telegrafate subito a S. E. il Ministro che occorrono denari, che il fiume ingrossa sempre, e che lo stato morale della popolazione è depresso. Il segretario correva. - Luzzi! - lo richiamò - aggiungete che le autorità sono sul posto, incoraggiando e aiutando. Un omino vestito di nero, col cranio coperto da una papalina di pelle, si avvicinò al gruppo delle autorità, biascicando tra la spalla del sindaco e quella del sottoprefetto: - Monsignore mi manda a vedere se la sua presenza è necessaria ... a dir il vero, ha i suoi reumi che lo tormentano ... - Ma stia comodo Monsignore! - esclamò il sottoprefetto - curi i suoi reumi; qui occorrono piú braccia che giaculatorie. - Sì, - aggiunse il sindaco, con accento conciliativo - è inutile che esponga la sua preziosa salute. Riveritelo, e ditegli che preghi per tutti. - E che stia attento se suona la campana! L'omino nero sgusciò via tra la folla. - Chi è quel tipo? - chiese al tenente uno degli ingegneri. - È il cameriere di Monsignore. - E Monsignore? - Capperi, è Monsignore; l'abate mitrato, il capo del nostro clero, colui che officia nelle feste solenni. - Quante autorità vi sono in questo paese! - esclamò l'ingegnere ironicamente - e si rimise a guardare l'argine corroso dalle acque, e le acque minaccianti, e il paese la città distesa, come un condannato, nel suo letto di morte. Una voce fessa gridò: - È allagata la ferrovia presso Cremona, le corse sono sospese. Tutti guardarono chi aveva parlato. Era il signor Caccia, l'esattore delle imposte; un uomo alto, rosso in volto, colle spalle poderose, con una testa bizzarra a riccioloni sulle orecchie e con due sopracciglia inarcate che lo facevano somigliare un poco a un ritratto di Goldoni; ma un Goldoni burbero. - Dice davvero, signor Caccia? Come lo sa? - Ho avuto notizie da mio cognato che è arrivato da Piadena, saranno due ore. - Sì? E che narra? - Uno spavento. In una cascina presso Bosco morì annegata una famiglia intera; padre, madre e cinque figli, colla moglie di uno dei figli. Non si poté salvare nessuno. - Madonna! - I fondi del marchese d'Arco sono tutti allagati; il frumento rovinato; dell'uva non si parla nemmeno. Cinquanta famiglie di contadini che non sapranno che cosa mangiare quest'inverno! - Pazienza ancora. Quegli altri della cascina sarebbero contenti a non saper che cosa mangiare quest'inverno. Una donna domandò piano all'esattore: - E sua moglie, signor Caccia, mi dice, come sta sua moglie? - Se lo può immaginare! ... È tutto il giorno che ha i dolori. Un'altra udì, chiese a sua volta: - È ammalata sua moglie? Il signor Caccia arrotondò piú ancora l'arco delle sopracciglia mormorando: - Eh! Eh! Allora la donna si ricordò; arrossí leggermente, e disse fra i denti: - Poverina, proprio questa notte! Il signor Caccia cercò, nella folla, la figura lunga e magra del dottor Tavecchia - e, trovatolo che discorreva animatamente col pretore, gli disse: - Se puoi, un qualche momento, dare una capata a casa mia ... in amicizia, sai? ... per mia moglie, tanto da rassicurarla. - Vado, vado ... - Oh! non preme; mi basta un qualche momento. Poi, vedendo passare Caramella, lo zoppo che vendeva le mele cotte, e dirigersi verso il paese, lo prese per la manica. - Vai a casa, Caramella? - Sì, signor ricevitore. Le occorre qualche cosa? - Appunto. Già che passi davanti a casa mia, entra, e di' a mia moglie che pericolo per il momento non c'è; che stia tranquilla; che il dottor Tavecchia andrà a trovarla ... che io mi fermo ancora un po', tanto per vedere come si mettono le cose. Caramella si allontanò zoppicando. A un tratto, l'attenzione generale venne rivolta a una massa nera che scendeva la corrente del fiume presso alla riva. - È legna morta. - È una tavola. Si vede muovere qualcuno, forse poveri naufraghi cacciati dalle loro case - vanno incontro a una morte certa. - È una barca - gridò Toni. - Una barca? Impossibile. Chi volete che la guidi? - Non è guidata affatto; scende alla deriva. - Allora è vuota. - No. - Sì. L'attenzione si fece così intensa che piú nessuno parlava. Cercarono tutti di cacciarsi avanti, per vedere meglio. Gli ingegneri, presa una torcia a vento, si avanzarono, risalendo l'argine. Il sottoprefetto e il sindaco li seguirono, e così man mano tutti paurosi, curiosi, trepidanti. Alcune donne recitavano sommessamente il rosario, stringendosi sotto il mento la pezzuola che avevano in capo, non osando avanzarsi troppo. - È proprio una barca. - Date su la voce. - Oh! là! Non una, cento voci ripeterono: - Oh! là! - e la barca intanto scendeva a rotta di collo. Subito prepararono funi ed uncini per aiutare il battello, che era un rozzo battello di pescatori, a toccare la riva. - Ma chi è quel matto? - domandò piano il sottoprefetto al tenente dei carabinieri, che si strinse nelle spalle. Si distingueva una forma d'uomo, ritta in piedi in mezzo alla barca, lottando fortemente coi remi per allontanare l'urto dei tronchi d'albero che la corrente trascinava ne' suoi vortici; e tutto intorno il fiume mugghiava sollevando una grossa spuma giallastra, torbida, alla superficie della quale galleggiavano cenci, pezzi di legna, mobili infranti, cadaveri d'animali. - Non c'è nessuno che lo conosca? - tornò a domandare il sottoprefetto. - Sì ... mi pare - rispose il sindaco, esitando, non bene sicuro. Una voce, tra i barcaiuoli, gridò: - È l'Orlandi. - È l'Orlandi, è l'Orlandi - ripeterono in giro, attoniti, ammirati. - Voleva ben dire, - mormorò il sindaco - non vi è che lui! ... - Orlandi? uno del paese? - No, è di Parma; ma qui lo conoscono tutti: un capo scarico ... - Si vede. Intanto che le autorità commentavano, poco benevolmente, l'audacia del temerario, il popolo, entusiasta, lo acclamava. Quando la barca toccò terra, e Orlandi ne uscì, bagnato, coi panni in disordine, colle mani lacerate, eppure baldanzoso ancora come avesse fatto una gita di piacere, tutti quei barcaiuoli lo circondarono, affollandolo di domande. Innanzi di rispondere ad alcuno, Orlandi prese dal fondo della barca un fardello, ravvolto in una coperta di lana, e lo gettò nelle braccia della prima donna che si trovò accanto. - Ecco un bambino che vi arriva senza fatica vostra. - Santa Vergine! - esclamò la donna, e scoperse delicatamente il corpicino d'un bimbo. Le donne gli furono subito intorno baciandolo, accarezzandolo, scaldandogli le manine intirizzite. Orlandi disse d'averlo salvato per miracolo, in un misero casolare, dal quale erano fuggiti tutti, resi pazzi e crudeli dal terrore. - Ma e lei, caro Orlandi, - interrogò il sindaco, facendosi avanti - ha la sua vita in così poco conto da esporla sul fiume con una notte simile? - Non aveva tempo di pensarci, le assicuro - rispose Orlandi, scuotendo la testa altera e sorridendo, cosí che nella penombra si poté vedere, come un lampo, la bianchezza dei denti sotto i piccoli baffi neri. - Sono tre giorni che giro, portando soccorsi che molte volte arrivavano come quelli di Pisa. Non importa, si fa quello che si può. Mi trovavo laggiù, nei boschi dell'Arese, quando il fiume ha rotto l'argine, e non ci fu piú scampo. Ho preso questa barca, vi ho cacciato il bambino, e mi ci sono messo anch'io, in mano di Dio o del diavolo! - Non bestemmi, - osò dirgli la donna che aveva preso il fanciullo - l'ha campata bella e deve proprio ringraziare la provvidenza ... Orlandi non badava piú a nessuno, intento a guardare i lavori di arginatura e i guasti terribili della piena. - Pare che non cresca altro, per questa notte. - Se Dio vuole! I gruppi cominciarono a diradare; le donne, i vecchi si persuasero a tornare alle loro case; il signor Caccia s'avviò trascinandosi dietro il dottore. Restarono le Autorità, per obbligo; e poi restarono i giovani, i forti, fra cui Orlandi, inebbriati dal pericolo e dalla fatica, aiutando il trasporto dei sacchi, reggendo le fiaccole, dando mano al piccone dei muratori; finché l'alba biancheggiò sui boschi, illuminando le faccie pallide e abbattute, il fiume ancora minaccioso, e a tergo il paese colle sue case sventrate, simili ad enormi e inguaribili cancrene.

Non si deve pensare alla morte; quando viene, è perché deve venire; del resto noi donne abbiamo sette anime e un animino ... allegra dunque. Fra un'ora, un'ora e mezzo al piú tutto sarà finito. Guardi, l'ho detto a mia cognata Peppina prima di uscir di casa: aspettami all'alba, che la signora Caccia si sbriga presto. Non è il primo giorno che ci conosciamo, eh! Si fidi. La signora Soave, un po' calmata, girò attorno per la stanza uno sguardo carezzevole, quasi per trovare degli amici nei due canterani di legno di noce a pancia rigonfia; nel letto, mezzo nascosto sotto una bella coperta di filugello giallo a fioroni verdi, colle lenzuola rimboccate, guernite di una gala di mussolino; nell'inginocchiatoio, tutto pieno di libri, col predellino incavato dalle lunghe genuflessioni; nello specchio piccolo, verdognolo, appeso troppo in alto, dove non si vedeva che la faccia; nelle tende della finestra, lavorate da lei, a rombi, con un uccellino e una palma alternati per ogni rombo; nei due unici quadri, in cornice di legno nero, rappresentanti il matrimonio di Maria Vergine. Ma piú che tutto, lo sguardo della signora Soave si arrestò con compiacenza sopra un bambinello di cera coperto da una campana di vetro. Quel bambinello giallino, con due puntini neri al di sopra di un piccolo rialzo che simulava il naso; quel bambinello dall'espressione dolce e rassegnata, coricato da piú che vent'anni in mezzo ai fiori di carta e alle striscioline d'argento che gli ornavano la culla; quel bambino nudo e santo attirava in modo particolare la tenerezza della signora che si sentiva struggere di amore e di rispetto; con una voglia di piangere, una voglia di baciarlo, e una voglia di raccomandarsi alle sue manine benedette. La grandezza di Dio, rappresentata da quel piccolo bambino, la colpiva di uno stupore pietoso e devoto. Si alzò, e, movendosi a stento, andò a deporre un bacio sulla campana di vetro; restando poi immobile, colle mani giunte, assorta in una contemplazione dolorosa. L'uscio, di fianco al letto, si aperse pian pianino, e una testa di fanciulla, passando tra la fessura, domandò: - Mamma! La signora Soave si scosse: - Che vuoi Teresina? Non ti sei coricata un poco? - Oh! com'è possibile? Sto alla finestra con Carlino; aspettiamo il babbo. È passato Caramella, mi ha detto di stare tranquilli, che pericolo per il momento non c'è. Papà verrà presto. - Dio sia lodato! Va' a letto, Teresa, va' a letto. - E tu mamma? - Or ora ci vado. La fanciulla fece atto di ritirarsi; ma, prima che l'uscio fosse chiuso, la madre le si avvicinò, perplessa, ponendole una mano sulla spalla e dicendole a bassa voce con accento tremante: - Prega per me ... - Mamma ... mamma ... Ella si pose un dito sulle labbra, composta, con una solennità misteriosa e dolce: - Questa notte avrai un altro fratellino ... sono cose che capirai piú tardi ... ma già sei la maggiore tu, devi pur saperlo. Ora va a letto. La pose fuori con amorevolezza, e chiuse l'uscio. Dall'altra parte, in uno stretto corridoio, che divideva la camera nuziale dalla camera delle ragazze, Teresina rimase immobile, appoggiata allo stipite dell'uscio, con una oppressione in gola e un turbamento improvviso. Aveva quindici anni. Era cresciuta nell'ambiente tranquillo della famiglia, in quella cittaduzza di provincia, lontana da tutte le emozioni. Era il primo anno che stava a casa da scuola, e ne' suoi doveri di giovane massaia aveva ancora l'incertezza della inesperienza; ma si sentiva compresa della sua missione di aiutare la mamma. Il suo temperamento la portava alla serietà, e il suo cuore all'affetto. Le poche parole della madre, pronunciate lì sull'uscio, nel turbamento di quella notte, l'avevano profondamente impressionata. Si sentiva a un tratto fatta donna - con un presentimento improvviso di dolori lontani, con una responsabilità nuova, con un pudore bizzarro, misto di una straordinaria dolcezza. Sembrava che in quel momento, solamente in quel momento, ella riconoscesse il proprio sesso, sentendosi scorrere nelle vene un'onda di languore non mai avvertita prima, e, nel cervello, sorgere una curiosità viva, pungente, la quale cessò di colpo davanti al rossore che le invadeva le guancie. Tutto ciò durò lo spazio di cinque minuti, come fosse ricaduto il lembo di velo che le aveva squarciato il futuro. Ella si rifece calma, di una calma piú malinconica, piú intensa; rientrò nella propria cameretta; il fratello che l'aspettava, appoggiato al davanzale della finestra, guardò con una intuizione nuova, ed avendo egli pronunciata qualche parola, trasalì al suono di quella voce d'uomo, e lo guardò, alla sfuggita, temendo ch'egli potesse leggerle sul volto il suo segreto. Ma Carlino non si occupava che della piena. Avrebbe voluto trovarsi anche lui sull'argine, insieme agli altri, e si sporgeva fuori dalla finestra per vedere se passava qualcuno a cui domandare notizie. Qualche altra finestra, come quella dei due ragazzi, era aperta; donne spaurite vi si affacciavano origliando, temendo sempre i rintocchi della campana che doveva avvertirle di fuggire. - Sai? - disse Carlino, col riso un po' melenso dei fanciulloni di quattordici anni - la vecchia Tisbe è in piedi da due ore, colle sue posate d'argento nel grembiale e il cagnolino sotto il braccio. Teresina non rise. - Se potessi ... - tornò a dire Carlino, ponendo una gamba a cavalcioni del davanzale - solamente una scappata, tanto da vedere. Credi che non sarei capace di scendere dalla finestra? - Andiamo, via, ci mancherebbe altro. Gli rispose cosí, a fior di labbro, dritta dritta nel vano della finestra, collo sguardo fisso ostinatamente nel buio. A un tratto si accostò a suo fratello, passandogli un braccio intorno al collo, chinandosi lievemente, fino ad accarezzare colla guancia i capelli di lui corti ed ispidi come le setole di una spazzola. Egli non avvertì la carezza. Tutto sporto fuori colle braccia, guardando in direzione della piazza, diceva: - Se venisse giù di lì! giù! giù! uh! che fracasso ... Non lo sgomento del pericolo lo agitava, bensì l'emozione di quel divertimento nuovo. Tutto il fiume giù in paese! uh! ... E rideva, pensando ancora alla vecchia Tisbe, col cagnolino sotto il braccio e le posate nel grembiale. - Che grossa disgrazia! - mormorò Teresina, rabbrividendo, stringendosi contro al ragazzo con un bisogno irresistibile di tenerezza. - Auf! - fece egli, dando una crollata di spalle - mi soffochi. E si sciolse dall'amplesso, sbuffando. La fanciulla, mortificata, si ritirò in fondo alla camera, dove c'era il suo letto. Sedette sulla seggiolina, accanto al capezzale, e lasciò cadere la testa fra i cuscini. Lì presso c'era il letto delle gemelle; coricate l'una da capo e l'altra da piedi, vestite, con un scialle buttato a traverso dei loro corpi. Dormivano saporitamente. Di lí a poco, un andirivieni, un movimento insolito in camera della madre, fece risollevare il capo a Teresina, che si portò accanto all'uscio, origliando. Successe un breve silenzio. Ella stava per riprendere il suo posto, accanto al letto, quando un vagito di bimbo le trasse una esclamazione; e subito, senza riflettere, obbedendo ad uno slancio del cuore, entrò nella camera attigua. - Mamma, mi permetti? La signora Caterina si fece sull'uscio, seria, con un dito sulle labbra. - La lasci entrare - mormorò fiocamente di sotto la coperta a fiorami, la voce della signora Soave. Teresina entrò in punta di piedi, commossa, rattenendo il fiato. La signora Caterina le presentò una bambinetta appena nata, tutta rossa, avvolta in un pannicello. - Oh! com'è piccolina. Voleva prenderla in braccio, ma la signora Caterina non lo permise. - Dopo, quando sarà fasciata. Teresina la baciò adagio sui capelli; poi, avvicinandosi al letto di sua madre, vi si chinò sopra, riverente, piena di tenerezza, con un senso recondito di timore. - Lasciala stare la mamma - disse bruscamente la signora Caterina. - Sto bene - tornò a mormorare la signora Soave, ricambiando con uno sguardo le carezze della figlia; e soggiunse: - Teresa è la mia donnina, dovrà fare da seconda madre ... - Sí, sí - rispose la fanciulla, tanto commossa, che quasi singhiozzava. La signora Caterina, senza dir altro, la prese per un braccio, e la pose fuori della camera. Carlino venne incontro a sua sorella, gridando: - C'è qui il babbo. Ora sentiremo le notizie; mi ha già detto che hanno atterrato tutte le case vicine a San Rocco. Teresina non capì nulla; aveva anche lei la sua notizia e la disse al fratello, tremante, tutta pallida: - Ci è nata una sorellina. - Ah! sì? - fece Carlino - lo sapevo che doveva nascere. E scese le scale di corsa, per incontrare suo padre. Teresina rimase immobile, colpita dalle ultime parole del fratello. Come mai egli lo sapeva?

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. - Abbiamo anche un corredo da bambini già pronto; desiderano vederlo? - Di chi è? - Della signora Luzzi. - Oh! la sorella. - Appunto. - È dunque vero? ... Si è fatta aspettare alquanto, eh? La direttrice non rispose. Ella non aveva l'obbligo di conoscere queste cose. La pretora diede un'occhiata superficiale al corredino. Ne erano già passati tanti per le sue mani! ed alla fanciulla che lo andava esaminando disse: - Per questo hai tempo. Teresina arrossì. - Ne facciamo dei piú semplici all'occorrenza, - soggiunse la direttrice, la quale seguiva il filo delle sue idee, impassibile - e prendiamo tutto dalle nostre clienti, la tela, i merletti ... - Bene, bene. - Si fa per queste povere ragazze che non hanno né padre né madre. Teresina guardò le orfane schierate in fila, e le parvero tutte così brutte che ne provò una compassione grandissima. Certo, nessuna fra esse avrebbe conosciuto l'amore; e, senza amore, a che cosa si riduce la vita di una donna? - Poverine! La direttrice, credendo quella parola pietosa fosse diretta alla povertà delle sue allieve, si affrettò a soggiungere: - Qui però stanno bene; il cibo è sano, il lavoro non eccessivo. Quando escono, se hanno imparata un'arte, è tutto vantaggio loro. La pretora approvò in silenzio, col capo. Teresina non era convinta di quella fortuna. Pensava ad Egidio, a' suoi sguardi di fuoco, alla stretta appassionata delle sue mani. A poco a poco si staccò dall'ambiente in cui si trovava. La sua amica parlava, in piedi, colla direttrice, ed ella, interrogata, diceva: sì, no, bello sorridendo o crollando il capo, come una macchina, senza capire. Dentro a lei, intorno a lei, un'onda di pensieri la cingeva al pari di una nube, isolandola. Erano frasi tronche, un moto delle labbra, un guizzo, un silenzio, un sospiro ... L'ultima volta che si erano trovati insieme, egli aveva detto "le mie manine" baciandole; e, ripensando a quella sera, Teresina ripeteva "le mie manine" cogli occhi socchiusi, le braccia lente, stringendosi da se stessa la mano. Si scosse quando la direttrice la salutò, ed a quel saluto fecero eco le orfanelle, in coro. Ma fuori, nell'ampiezza delle vie deserte, nel verdeggiamento degli alberi, sotto il cielo digradante in pallori da opale, la seguì quell'onda dolcemente incalzante, quell'assorbimento in un pensiero unico che tiranneggiava tutti gli altri. Alla sera, intanto che si stava spogliando, rivide la fantasmagoria delle trine, della batista ricamata, dei nastri cerulei e color di rosa. Sospirò lievemente, con un'ombra di malinconia sulla fronte, e provò ad arrotolare le maniche della sua camicia, in alto sulle spalle, per giudicare l'effetto delle camicie senza manica. Concluse ch'ella non avrebbe mai osato portarle; ma si pose a letto turbata, assalita da tentazioni che la tennero desta per molto tempo. Aveva ventidue anni, si trovava nel pieno rigoglio della giovinezza; pura, non insensibile. Il mistero della vita incominciava a farsi strada nel suo cervello; ma non avendo ancora avuta una rivelazione brutale, il fatto restava sempre soggetto all'idea. Sentiva, non sapeva; e queste sue sensazioni tentava nascondere come una colpa, appunto perché ignorava che fossero le sensazioni di tutto il mondo. Non le passava neppure per la mente che sua madre avesse potuto amare così, neanche la sua amica, né alcuna delle persone di sua conoscenza. A tutti costoro, che amava da anni, cui era legata per vincoli d'abitudine e di confidenza, non avrebbe palesato uno solo de' suoi ardori. Un pensiero che l'assaliva ogni sera, nella solitudine del suo lettuccio, nella infinita dolcezza del buio, era questo: Che cosa avrebbe fatto Egidio appena si fossero sposati? subito, il primo momento? Ella non dubitava punto che l'avrebbe abbracciata. Aveva letto qua e là, di amplessi amorosi, ricordava certe frasi, certi lembi di conversazione e le sembrava che l'abbraccio, senza l'inferriata di mezzo, dovesse essere la maggior delizia dell'amore. Chiudeva gli occhi, e si sentiva scorrere un brivido per tutto il corpo. Però, se il curato di San Francesco tuonava qualche volta contro le passioni peccaminose, se nel suo libro da messa leggeva gli anatemi scagliati contro la carne, era assalita dagli scrupoli. Si credeva allora una grande colpevole, e arrossiva nel suo lettuccio, al buio, raggomitolandosi tutta nella camicia con un pudore bizzarro. Un altro pudore strano, inesplicabile, le era venuto ne' suoi rapporti col fratello. Aspettava le visite di Carlino con ansia grandissima, per avere notizie di Orlandi, per sentirne parlare; ma non correva piú a' suoi baci; non cercava le sue carezze; non gli si metteva vicino vicino, come una volta, per fiutare l'odore del sigaro o per sfiorargli la barba nascente. Se egli la prendeva per la vita, scherzando, si scioglieva come sotto l'impressione di un malessere, quasi di una ripugnanza fisica. Si affrettava poi a correggerla con una parola affettuosa, ma una specie di acredine le restava nel sangue. In una di queste occasioni, Carlino le disse: - Come sei selvaggia! Se fai sempre così non potrai piacere molto agli uomini. Ella rimase un po' mortificata, temendo di non avere grazie sufficienti. Tuttavia sapeva bene che con Egidio non sarebbe stata selvaggia; al contrario, era sempre tormentata dal desiderio di accarezzarlo, ed uno de' suoi piaceri piú intensi, quando sarebbero maritati, doveva essere quello di abbracciarlo e baciarlo come faceva coll'Ida. L'Ida se la prendeva sui ginocchi e, incominciando dai capelli, le baciava ridendo tutto il volto, fino al mento, fino al collo, fin dietro nella nuca dove spuntavano i riccioli ribelli. Egidio però non lo poteva prendere sui ginocchi, e l'idea che si potessero invertire le parti, le procurò una delle veglie piú agitate.

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E abbiamo il maschio, il sostegno della famiglia! È per lui che dobbiamo fare dei sacrifici. Quando saremo vecchi non è dalle ragazze che potremo sperare aiuto. Il maschio porta il nome e l'onore dei Caccia: non posso trascurare il suo avvenire per dare alle femmine una dote, che andrebbero a portare in casa altrui. La signora Soave non parlò piú. Era convinta, rassegnata; piegava il capo davanti all'eloquenza del marito, fatta persuasa da una lunga abitudine che le donne devono cedere sempre. Lo strazio fu quando dovette spiegarsi con Teresina. La ragazza aveva già letta la propria sentenza sul volto accigliato del padre, che a lei non si degnò dir nulla; ma quando la mamma tentò di rimuoverle il pensiero di quell'amore, mostrandole che non poteva condurla ad altro che a gravi dispiaceri, ella proruppe in un pianto così disperato, e si disse cosí ferma nella decisione di sposare Orlandi, che la signora Soave dovette, per la prima volta, riconoscere in sua figlia qualche somiglianza coll'energia e colla fermezza del signor Caccia. Né tale scoperta in quel momento poteva farle piacere, che vide subito a quali attriti sarebbero giunti i due caratteri in lotta. Veramente spaventata, ella chiese a Teresina, se avrebbe avuto il coraggio di resistere a suo padre. Senza esitare la fanciulla rispose: - Sì. - Di disobbedirgli? Il sì, questa volta non venne cosí subito. - Disobbedirgli veramente ... non credo ... ma nemmeno rassegnarmi. - Figlia mia! - gridò la povera donna singhiozzando - non vorrai dare a me e a tuo padre il dolore di maritarti, senza la nostra benedizione! Teresina la rassicurò, dicendole che non avrebbe fatto cosa che potesse recare disonore o dispiacere alla propria famiglia. - E allora? - Aspetterò. E perché questa parola non avesse da essere fraintesa, soggiunse prontamente: - Orlandi mi ama ed io ho fede in lui. Fra un anno egli avrà una posizione così brillante che mio padre non potrà piú rifiutarlo per genero. La signora Soave credeva di sognare. Sua figlia parlava con sicurezza, coll'accento di una volontà irremovibile. La guardava e le sembrava trasfigurata: piú alta, colle linee del volto che avendo perdute le rotondità esuberanti della giovinezza, davano alla fisionomia una espressione caratteristica. Aveva nell'occhio la serietà pensosa delle donne che amano, e il raggio di quelle che si sanno amate. Era nel massimo sviluppo della sua bellezza e della sua forza. - Che Dio t'ascolti e ti benedica! La madre non trovò altro da dire. Dopo averla contemplata se la tirò vicina, abbracciandola, ravviandole i capelli sulla fronte, come avrebbe fatto con un bambino; presa tutta dalla tenerezza di quella grande passione. La sera stessa Teresina riceveva una lettera d'Orlandi, nella quale il giovane le giurava eterno amore. Madre e figlia piansero nel leggerla.

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Spesso il giornale recava le notizie del tempo: "Oggi abbiamo avuto una giornata splendida" - oppure - "La pioggia minaccia di eternizzarsi". Teresina correva subito col pensiero ad Egidio, seguendolo nelle vie a lei ignote sotto il sole e sotto l'acqua, facendosi la di lui compagna, seguendolo passo a passo. Qualcuno disse una volta in sua presenza che le milanesi sono molto simpatiche, e Teresina ne ebbe dispiacere; un dispiacere muto, profondo, al quale si univa, come gli altri suoi dispiaceri, il sentimento umiliante di persona legata, che non può difendersi, e le cresceva sempre piú quel livore, quel fermento del cuore insoddisfatto che, mal pago dell'amore, sente la tentazione dell'odio. Ma poi veniva la reazione, veniva il pentimento. Erano i momenti in cui si confessava a Dio, come una grande colpevole, e, non volendo accusare nessuno, si reclinava su se stessa, piangendo a calde lagrime.

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. - La stagione è favorevole, abbiamo una primavera che è un incanto. Esca spesso. Vada a trovare un'amica, procuri di interessarsi a qualche cosa, di cambiare l'ordine abituale de' suoi pensieri, di non fissarsi in una idea. Faremo una piccola cura arsenicale combinata col ferro, ma il primo rimedio, se ne persuada, lo deve trovare in se stessa. Mi comprende, nevvero? Le strinse la mano, colla sua dolcezza indolente d'operatore, mostrando i denti bianchi nell'arco del sorriso; lasciando sul capezzale come un profumo della sua vigorosa giovinezza. Tornò qualche giorno dopo, per vedere l'esito della cura, ed essendo comparso all'improvviso davanti a Teresina, ella arrossì, tutta confusa, con un sentimento recondito di vergogna. Quella specie di intimità con un uomo giovane, senza il legame dell'amore, la turbava. Era meravigliata di non trovare maggior avversione al contatto, di sorprendere nei suoi sensi una vita autonoma, indipendente dal cuore e dalla volontà. Fino allora aveva amato, in un sol uomo, l'incarnazione dell'amore; ma nella tensione di tutto il suo essere verso quell'ideale, il cuore e la mente resistevano, i nervi no. I nervi, a sua insaputa, con una ribellione mostruosa, vibravano quando il giovane dottore le stringeva la mano, e la guardava colla sua pupilla intenta. E Teresina spasimava, sentendosi prendere alla gola da un rantolo convulso; trovando in se stessa, nella tardiva rivelazione dei propri sensi, l'enigma della vita, che le era sempre apparso a tratti, mascherato, svisato, tenuto nascosto come un'onta. In quei giorni, per una combinazione, avendo suo padre acquistata, senza guardarla, una partita di libri vecchi, ella pose le mani sopra un libriccino gualcito. Il titolo l'invitò a leggere le prime pagine, e poi continuò meravigliata, ansiosa; passando dalla sorpresa alla indignazione, fino a un feroce diletto, fino alla nausea la piú ributtante. Restò immobile, col sangue che le formicolava nelle vene, con una fiamma sulle gote, il palato arido, le fauci ingrossate, gli occhi vitrei. Non aveva mai udito né immaginato niente di simile. Al primo rinvenire, l'indignazione la vinse su ogni altro sentimento; stracciò il libro in mille piccoli frammenti, rendendoli sempre piú piccoli, piú piccoli ancora, ponendoli da ultimo sotto i piedi e gustando, nel calpestarli, una gioia che la purificava. Raccolse poi gli avanzi informi e li gettò nella cassetta delle spazzature; ma si vedevano; la loro bianchezza sudicia risaltava sul fondo nero. Ella non era contenta. Tornò a raccattarli e li volle abbruciare - vivi - ché quei frammenti agitati dalla fiamma, le davano veramente l'impressione di cose vive, di mostri osceni, condannati al rogo. Ristette infine, palpitante, davanti al mucchietto di cenere, persuasa che nulla piú esistesse di quelle sozzure. Ma si ingannava. Il suo pensiero era colpito, macchiato irrimediabilmente. Per quanto facesse non poteva togliersi il ricordo delle pagine lette; ed era un ricordo amaro, come di medicina che torni a gola. E venivano, non cercate, le riflessioni, i confronti, le induzioni. Cento cose rimaste oscure fino allora le si chiarivano spietatamente; non poteva piú dubitare, non poteva piú illudersi. Quelle spiegazioni crudeli erano la sola risposta ch'ella trovava alla sua lunga, insoddisfatta curiosità di fanciulla. Quelle pagine stampate, che non volavano come le parole, che non svanivano come i sorrisi, che ella aveva distrutte in un esemplare ma che esistevano in mille altri, quelle pagine infami erano un documento della miseria umana, della sua propria miseria. Un libro osceno le dava la chiave del mistero ch'ella aveva ricercato invano; ch'ella aveva interrogato nei fremiti paurosi e pudibondi di se stessa, nelle reticenze maligne degli altri. Era dunque quello l'ignobile segreto che teneva uniti gli uomini alle donne? Quello l'amore? Sottile, profondo, un pensiero sopra tutti la martoriava: Egidio. Quando l'immagine di lui venne a mischiarsi alle rimembranze lascive, ella provò la maggior vergogna della sua vita. Le parve di veder trascinare nel fango tutto quanto aveva di sacro al mondo. Era la profanazione dell'affetto piú gentile, era l'altare che si frangeva, l'idolo che diventava creta. Arrossì, sola, di se stessa. E la prese una tristezza, un dolore come avesse perduto per sempre una persona adorata. Per tutto quel giorno non poté incontrare alcuno a viso alzato; aveva orrore dei suoi simili. Alla sera, chiudendosi nella sua camera, si illuse di potersi disfare dall'incubo; ma l'incubo divenne piú violento. Mentre si spogliava, era assalita da curiosità brutali. Sembrava che le pagine infami si fossero incollate alla sua pelle, che le formassero, come la camicia di Nesso, un involucro di fuoco, entro il quale si dibatteva. Cadde in ginocchio disperata, recitando macchinalmente tutte le orazioni che sapeva, unendo il nome di Egidio al nome della Madonna, con un bisogno ardente di dimenticare. Accovacciandosi sotto le coltri, spossata, evocò le pure visioni del suo amore: l'incontro nella cappella, i ritrovi in chiesa, il primo appuntamento alla finestra, sotto l'acqua che veniva a rovesci, che nessuno di loro sentiva, e quei baci di cielo in cui ella credeva di dare l'anima. A poco a poco la pace entrava in lei. Una dolcezza malinconica la cullava, la consolava. Egidio era sempre stato sincero; non l'aveva ingannata, non l'aveva tradita mai, non si era fatto migliore di quel che fosse. Che cosa si può chiedere di piú agli uomini? Sentiva ora una tenerezza straordinaria a compatirlo, a comprenderlo nelle debolezze del suo sesso. Il recente dolore le faceva sanguinare il cuore; ma da quella stessa ferita saliva, alle piú nobili idealità del suo pensiero, una compassione pietosa, una commiserazione di questa umanità sofferente e bestiale, un delicato istinto di perdono. E piú forte, piú puro, emergeva da tanto fango l'affetto ch'ella aveva nel cuore e che sapeva diviso. Chiuse gli occhi rassegnata, sospirando lievemente. A tratti, un fremito l'agitava ancora ma anche quello andò scomparendo sotto il torpore del sonno; finché rimase l'affanno dei sospiri, sempre piú lievi, a indicare che il pensiero si addormentava.

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