Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti 2

662711
Capuana, Luigi 20 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Sí, una storiella malinconica - riprese il dottore - come possiamo saperne soltanto noi vecchi che abbiamo avuto il non invidiabile privilegio di aver visto troppe cose tormentatrici della mente e del cuore. Non dimenticherò mai la scena a cui ho assistito quattro anni fa, e mi sento venire i brividi ripensandoci. Lei, or ora, ha negato il valore di parecchi presentimenti oscuri, arcani, che ci ammoniscono di un fatto di là da venire. Ha accennato a tanti piccoli particolari che passano inavvertiti e che, accumulati, sviluppati da un lavoro interiore di cui non abbiamo coscienza, si schiariscono tutt'a un tratto e ci danno arie di profeti, di indovini. Ma nel caso che sto per raccontare niente di questo. Vent'anni fa - noti, vent'anni! - io mi trovavo a pranzo dal mio amico Batocchi che non vedevo da un pezzo. Compagni di collegio e di università, ci eravamo poi perduti di vista. Io in America, lui in provincia. Io avevo dovuto conquistare una posizione, un po' di fortuna; egli, ricco, stimato pel suo carattere e pel suo ingegno, era uno dei pochi felici della terra che non debbono far altro che desiderare per essere subito appagati. Bisogna aggiungere che il mio amico aveva cosí modesti desideri, da farsi perdonare da tutti la piena felicità della sua vita. Unico suo difetto era una invincibile indolenza che lo rendeva disadatto a qualunque energica azione. Infatti egli stesso si qualificava, sorridendo, un dilettante della vita. Ci trovavamo dunque a tavola, uno di faccia all'altro, lietissimi di esserci riveduti quando meno ce lo aspettavamo, perché il nostro incontro era stato fortuito. Di discorso in discorso, riandando il passato, rammentando vecchi amici spariti dalla scena del mondo, presi tutt'e due da un sentimento di malinconia, anche perché dovevamo presto dividerci, si venne a parlare di quella terribile cosa che è la morte; forza cieca, benefica e malefica senza ragione apparente; che dimentica spesso quaggiú esseri dai quali viene invocata, e porta via altri degni di vivere lungamente, e ne tronca i disegni, ne interrompe le opere con grave disastro per le famiglie e anche per le nazioni, secondo l'importanza degli individui. Io dissi: "Il peggio è che la morte arrivi sempre inattesa". "Oh! Per questo - esclamò il mio amico - io sono fortunato. So, da un pezzo, l'anno, il giorno e l'ora in cui dovrò morire". Sorrisi, incredulo, scrollando la testa. "Sí, sí - egli riprese. - Io morrò nel 1883@, 1883, il quarto giovedi di maggio, alle cinque di sera". "Chi te l'ha profetato?" "Un presentimento. Guarda, l'ho notato in un libro". E si levò da tavola per andare a prendere nel suo studio il volume a cui aveva accennato. "Tu però non credi a questa sciocchezza - gli dissi dopo di aver letto. - Come ti è passata per la mente?" "Non lo ricordo. Un bel giorno mi sono sentito dire da una voce interiore: "Tu morrai nel 1883@, 1883, il quarto giovedí di maggio, alle cinque di sera." E da allora in poi questa voce si è fatta cosí insistente, che ho voluto prenderne nota perché gli altri verifichino se il mio presentimento si sarà avverato". Parlava tranquillamente, da uomo convinto della possibilità del caso. "Sciocchezza o no, - soggiunse - questo presentimento mi giova. Fidando in esso, io ho potuto affrontare con indifferenza molti pericoli, in terra e in mare. Mi sono trovato in circostanze ... " "Tu scherzi!" lo interruppi. "Prevedo - continuò - che non sarà divertente, se raggiungerò quell'anno, quel giorno. Ma, per ora, ci penso con viva curiosità soltanto. Ho vent'anni davanti a me; siamo nel 1867@." 1867." "Senti - diss'io - se nel maggio dell''83@ dell''83 sarò ancora vivo, accorrerò qui da qualunque parte del vecchio o del nuovo mondo io mi trovi. Dopo le cinque, mi pagherai un pranzo luculliano di cui ti darò la lista un mese avanti per le varietà e le primizie che dovrai ordinare!" "E se il presentimento si avvererà a puntino?" "Non si avvererà!" "Penserai tu ai miei funerali?" "Penserò io ai tuoi funerali". "E me li farai splendidi?" "Splendidissimi". "Bada a campare! Se no, dirò che sei morto per non pagare la scommessa". "Bada a campare anche tu! ... " E mi fermai. Non avevamo preveduto il caso ch'egli morisse prima dell''83@. dell''83. Avrebbe perduto egualmente la scommessa; e glielo feci notare. "Aggiungerò oggi stesso un codicillo al mio testamento. Sta' tranquillo - mi rispose. - Sarà compensato". "Che discorsi, eh!" "Hai tu paura della morte?" "Paura, no; ma ti confesso che preferisco la vita. Almeno non ha misteri!" "A me invece la vita sembra piú misteriosa della morte". Sapendo che il mio amico si compiaceva di certi paradossi, lo lasciai dire senza interromperlo. E poi, parlava cosí bene! Ed io fumavo cosí deliziosamente un suo exceptional Rothschild mentre egli parlava! Da quell'anno, fino al gennaio dell''83@ dell''83 l'amico Batocchi mi aveva dato, di quando in quando, sue notizie, rammentandomi sempre la scommessa. Stava bene, sano di corpo e di mente, com'egli ripeteva scherzando, senza un dolore di capo, senza un raffreddore. Si lamentava soltanto d'ingrassare un pochino; e scherzava anche intorno a la incipiente pinguedine. "Un po' di pancia, per ora, non disdisce a la mia statura!" Era alto, aitante della persona, bell'uomo insomma. Nell'aprile di quell'anno però improvvisamente mi scrisse: "Mi sento finito! Mangio quanto una formica e non riesco a digerire. Non sono piú un uomo, ma una larva di uomo; stenteresti a riconoscermi!" E questa volta non parlava della scommessa. Nei primi di maggio andai a trovarlo. Era roseo, fresco, quasi ringiovanito a sessantatre anni; sembrava la salute in persona. "Ho voluto farti paura!" mi disse, abbracciandomi e ridendo allegramente. La sua allegria, la sua indifferenza, mi parvero simulate, ostentate. Riflettevo: non si porta in mente per piú di trent'anni un lugubre presentimento come quello del mio amico, senza sentirsene un po' scosso. E lo interrogai. "No - rispose -. Attendo con curiosità; è un bel caso, ne convieni? Intanto ho dato gli ordini pel pranzo, secondo la tua lista. Saremo una diecina di amici ... o sarete - si corresse - se mai! Gli antichi banchettavano dopo avere assistito a un funerale." Nel pomeriggio di quel quarto giovedí di maggio, eravamo infatti una diecina in casa sua, e tentavamo di mostrarci allegri; ma questa volta l'ostentazione riusciva evidente. Ci sentivamo impacciati, quantunque tutti scettici; nessuno di noi aveva osato guardare l'orologio, quasi non volessimo punto accorgerci dell'appressarsi dell'ora fatale. Io raccontavo una mia strana avventura nelle pampas americane, tra le pellirosse, e tutti ascoltavano con grande interesse. A un tratto, Batocchi scattò dalla poltrona dov'era seduto, pallido, con gli occhi sbarrati. "Eccola!" balbettò. "Chi?" esclamammo tutti. "La morte!" E, barcollante, egli si mosse verso un uscio del salotto, come chi va incontro a qualche persona arrivata all'improvviso. Fece due o tre passi, e si rovesciò indietro, agitando le braccia, fulminato. L'orologio a pendolo suonava lentamente le cinque -.

Tanto, esso è una sciocchissima cosa, di cui abbiamo fatto il pernio della vita forse per dimostrare che la vita non vale niente di meglio -. E se qualcuno gli faceva notare che parecchie sue azioni contradicevano gli aforismi da lui solennemente e ripetutamente proclamati, egli rispondeva: - Il poter fare il contrario di quel che si pensa e si sente è la miglior prova che uno possa dare a se stesso della propria assoluta indipendenza e della libertà che possiede -. Una volta mi disse: - Cattiva giornata oggi! Ho dovuto fare una buona azione, con la semplice lusinga che essa ne faccia commettere parecchie cattive. - Che cosa hai fatto? - Ho prestato mille lire a un tale che non ardiva di chiedermele perché era certo - diceva - di non potere restituirmele. - Ebbene? - Non capisci che se fosse stato vero, me le avrebbe invece insistentemente richieste? - Te le restituirà dunque. - No, giacché ora sa che io non conto piú su la sua restituzione. - Perché gliel'hai date? - Per togliermi la tentazione di credere che vi sia una persona onesta in questo mondo. - E se, contrariamente a quel che tu sospetti, costui verrà a restituirti, presto o tardi, le mille lire? - Penserò che, tra qualche tempo, vorrà chiedermene diecimila, per fare un colpo piú grosso. L'onestà è un calcolo profondo; è l'impiego d'un capitale ideale con gl'interessi al mille per cento ... - Oh! ... - ... in questo, o nell'altro mondo per coloro che credono. - Eppure tu fai tante cose in ossequio alla morale, alle leggi, alle convenienze sociali! - L'uomo non è perfetto. Vuol dire che sono un onesto anch'io, a intervalli, a grandi intervalli per fortuna -. Sí, era vero: Federico Toacci godeva la vita senza scrupoli, senza ritegni, al pari di tanti altri, che però si guardano bene di formulare in ispietati aforismi le norme della loro condotta. Rimasto libero a ventidue anni da ogni soggezione di famiglia, educato fuori di casa, lontano, a Parigi e a Londra - perché i suoi genitori si erano divisi quasi subito dopo la nascita di lui e il padre non avea voluto impacci tenendolo presso di sé come gli era stato accordato dalla legge, né la madre si era piú ricordata, nel disordine della sua esistenza, di avere un figliuolo - bello, straricco, sviluppato precocemente in ambienti dov'era difficile farsi una ben chiara idea del bene e del male, egli si era formato da sé una particolare filosofia sperimentale e aveva conformato ad essa tutti gli atti della sua vita. Spesso mi viene il sospetto ch'egli fosse un sentimentale camuffato da scettico e da egoista. Era certamente un orgoglioso che non voleva essere ingannato da nessuno, e che pel timore di far ridere della sua bontà naturale e della sua buona fede, s'inducesse, come ho detto, ad esagerare le apparenze dal lato cattivo. Ricordo, a questo proposito, due fatti. Primo, un gran pranzo dato da lui. La lettera d'invito diceva: "Per celebrare un mesto avvenimento. N.B. In abito chiaro". La tavola era sparsa di crisantemi bianchi. La tovaglia e i tovaglioli orlati a lutto. Le massicce fruttiere d'argento, velate di crespo nero. Nessuno degli invitati si era maravigliato di quella stravaganza, ma tutti eravamo curiosissimi di saperne la ragione. Allo sciampagna, rizzatosi in piedi e tenendo con una mano la coppa ricolma, egli disse con tono scherzevole: - Un'umile ragazza si è suicidata ... per me. È il primo caso che mi capita. Lascio cascare una lagrima nella mia coppa, e bevo in onore di quest'avvenimento, che può essere una verità o una menzogna. Amici, fate altrettanto! Nessuno di noi osò di bere. Egli vuotò la coppa, ci guardò sorridendo ironicamente ed esclamò: - Mi compaccio di apprendere che ho ancora qualcosa da insegnare ai miei amici -. Io gli dissi - Tu hai paura di sembrare commosso a chi fai pena. - Mi mancava soltanto la commiserazione di qualcuno! - E accese con indifferenza una sigaretta. Il pranzo fini freddamente. Due anni dopo, accompagnavo un amico di provincia che voleva osservare non ricordo piú qual monumento al camposanto. In quella sera di ottobre, col cielo coperto di nuvole, un po' umida e fredda, la città dei morti era deserta. Per ciò fui stupito di scoprire, in fondo a un viale, un uomo inginocchiato davanti a un monumento che non avevo avuto occasione di vedere prima e che sembrava bello anche da lontano. Sur un piedistallo di marmo scuro, un angelo di bronzo spiegava le ali levando in alto le braccia ap erte, quasi stesse per spiccare il volo verso il cielo e in atto di offerta. Ci accostammo. - Tu! - esclamai maravigliato, riconoscendo Federico Toacci. E mi chinai a leggere l'iscrizione. Essa diceva: A UN'UMILE MORTA PER AMORE Guardai Federico con lunga occhiata significativa. - T'inganni - egli disse col solito ironico accento, tirandomi da parte. - Questo monumento mi è servito bene presso altre donne. Ho dato appuntamento qui a una bellissima signora che vuol essere commossa prima di tradire il marito. Ha tante furberie il cuore umano! ... Mi rincresce che ella sia in ritardo. Volevo farmi sorprendere ginocchioni davanti a questo monumentino ... Fammi il piacere di allontanarti col tuo amico ... Eccola - soggiunse, indicandomi una signora vestita a bruno che s'inol trava pel viale. Invece, quella signora, brutta e vecchia inglese, ci passò davanti, si fermò un istante ad osservare con l'occhialino l'angelo che spiegava le ali, e torse a destra infilando un altro viale. Io feci in modo da accertarmi, non visto, se Federico Toacci si fosse ingannato, e mi avesse detto la verità. Lo vidi andar via dopo un pezzo, guardando cautamente attorno, senza che nessuna signora fosse venuta a sorprenderlo ginocchioni davanti al monumento da lui eretto all'umile suicida per amore. Cosi mi è nato il sospetto che ci siano al mondo anche gl'ipocriti dello scetticismo e dell'egoismo, e che il mio amico fosse di questi. È morto di tifo a trentacinque anni, e nessuno ha potuto conoscere con certezza se egli sia stato proprio scettico ed egoista, e se si sia compiaciuto, per vanità, di mostrarsi sempre tale.

Ne abbiamo quindici oggi? - Ebbene? - fece il dottore. - Dottore, non mi chiedete altro! E tu mangia tranquillo ... Due dolci! ... Voglio mangiarne anche io ... quantunque mi piacciano poco ... - Ma si vedeva benissimo che faceva un gran sforzo per apparire allegro. Teneva fissi gli occhi in viso al fratello, quasi si aspettasse da un istante all'altro qualcosa di straordinario, e nello stesso tempo si maravigliasse di non vederlo accadere. Verso la fine del pranzo arrivava il canonico Stella. - Avete voluto che venissi a prendere il caffè da voi ... Che belle notizie? ... Sponsali prossimi? - Don Rocco sembrava istupidito, e don Lucio peggio di lui. Nel versare il caffè al canonico la mano di don Rocco tremava. - Avete sentito? - disse il canonico. - È morto Bismarco . I francesi saranno contenti ... sí, molto zucchero ... altrimenti il caffè non mi fa digerire ... E anche voi, don Rocco. - Io? chi lo conosce costui? - rispose don Rocco. - Il vostro Barbanera ha indovinato. Morte di un alto personaggio ! annunziava per la prima quindicina di questo mese. - Era alto? ... Piú alto di Lucio? - balbettò don Rocco. - Un omaccione, dicono. Ma non si tratta di questo. "Alto" significa: importante: "alti personaggi" sono i re, il papa, certi ministri ... - E vedendo il viso che faceva don Rocco nell'udire questa spiegazione, il canonico Stella e il dottor Lopiro scoppiarono in una gran risata. Il canonico, preso da un colpo di tosse, sbrufava il caffè che stava per sorbire. - Che vi eravate ... figurato? Ah! Ah! Ah! - Don Rocco piangeva dalla contentezza. Sí, si era figurato - lo confessava ingenuamente - che il Barbanera indicasse ... E non avea voluto dir niente al suo povero fratello, e avea cercato di farlo morire sazio di piatti dolci ... almeno! ... Un alto personaggio! ... Oh! Egli aveva passato due mesi d'inferno, con la gran paura di vederselo cascar davanti, morto di un colpo! ... Sapeva assai lui che "alto" volesse anche dire! ... Solo don Lucio non rideva, pensando che il fratello ora gli avrebbe fatto scontare tutti quei piatti dolci datigli a mangiare in due mesi! E infatti ...

Senza dubbio, il mio amico intendeva parlare dell'amore quale lo abbiamo ridotto noi, gente civile e ... raffinata, come oggi sogliamo poco modestamente qualificarci. La domanda da lei fattami riguarda, è vero? questo sentimento, sublimato, o sofisticato, lungo i secoli con intenso lavorio, in guisa che non si sa piú che cosa esso sia precisamente. L'a mico mio era giunto alla conclusione che nell'amore odierno non c'è piú nulla, proprio nulla, che sia spontaneo, sincero, naturale; e per ciò egli lo chiamava brutalmente: amore-margarina. Sembra amore e non è, come la margarina sembra burro e non è. - Il suo amico era matto! - No, baronessa, - replicò il dottore, rivolgendosi alla interruttrice; - era invece uno scienziato. - Oh! Gli scienziati non sono ... uomini! - esclamò la baronessa Lanari, provocando uno scoppio di risa nel salotto e ridendo anche lei. - Ammettiamo, per farle piacere, che siano un po' diversi dagli altri. Ma il mio amico era scienziato per caso, nelle ore perdute (ed è stato il suo gran torto) quando gli intrighi galanti glielo permettevano; quasi quasi direi che è divenuto tale appunto per questi. Aveva ingegno meraviglioso; immaginazione divinatrice, la piú preziosa e rara facoltà di uno scienziato. E questa, assieme con la sua grande curiosità e col virile orgoglio di non essere ingannato da una donna, lo spinse alla ricerca di un mezz o materiale per misurare i gradi e la qualità dell'amore, simile a quello con cui il Mosso, per esempio, è riuscito a misurare la trasformazione dell'attività psichica in calore ed in moto. - Costui non ha amato mai, se ha potuto riflettere! - lo interruppe la baronessa. - Ha amato, a modo suo, e con straordinaria intensità. "Stavo per perdere la testa, - mi disse un giorno - anzi l'avevo perduta a dirittura, se ho potuto commettere la immensa sciocchezza d'inventare l' eròsmetro . Dal giorno in cui ebbi la soddisfazione di veder agire il mio strumento con precisione mirabile, io ho avuto la stupida soddisfazione di sapere in che modo e fino a quanto amavo ed ero amato; ma non ho piú goduto dell'amore, mai piú! Il mistero era sparito. Maya, la divina illusione, dilegu atasi sdegnosamente nella piú alta profondità dei cieli ... ". Parlava cosí, per immagini, da poeta. - E che cosa era quel suo ... ? - Eròsmetro ? Un gingillo di oro, una specie di armilla che egli, con un gentile pretesto o con un altro, applicava al braccio delle donne da lui amate; giacché ne amava, contemporaneamente, parecchie, secondo una sua particolare teorica intorno alla diversa loro virtú suggestiva. A questo proposito soleva dire: "Se la mia convinzione riuscisse a farsi strada nei cervelli femminili, il sentimento della gelosia sarebbe, di botto, annientato. Ognuna avrebbe la sicura coscienza di dare alla persona amata qualche cosa di speciale che nessun'altra possiede, e addio rivalità! ... Ma i cervelli femminili sono vasi troppo piccoli da poter ricevere cosí grande verità; e la gelosia rimarrà eternamente fra i terribili flagelli di questo mondo". L' eròsmetro , ahimè, gli tolse anche questa illusione! Gli era capitato quel che capita a tutti a detta del proverbio: "Tanto va la gatta al lardo, che vi lascia lo zampino". Proverbio falso, perché gatte che abbiano lasciato lo zampino nel lardo non se n'è mai viste finora; ma lasciamo andare. Insomma, dopo di aver quasi continuamente scherzato con l'amore, c'era cascato e come! Quella nuova e insperata conquista era tale da indurlo fino a dubitare della stessa vittoria. Egli non lo dava a capire a nessuno, ma ne soffriva orribilmente. Amore o capriccio da parte di lei? Non sapeva distinguerlo, e voleva accertarsene. Allora gli balenò nella mente l'idea dell' eròsmetro , non come cosa possibile ma come una di quelle fantasie che rallegrano il meraviglioso regno delle fiabe. A furia però di pensarci su e ripensarci ... La fata odierna è la scienza; gli imbecilli siamo noi che non osiamo di chiederle quel che giudichiamo stoltamente impossibile. Tutti coloro che hanno, in qualche modo, osato sono stati appagati. Io non posso spiegare qui i principii positivi che servirono di base alla creazione di quel mirabile strumento, né descriverlo minutamente. Non rimpiangerò neppure che il mio amico lo abbia distrutto dopo averne fatto amara prova. È bene che certe illusioni sopravvivano per consolare questa nostra misera vita e a lusingarci di crederla meno brutta che non è. Quando egli ebbe fatto parecchi esperimenti, fu atterrito dell'opera propria. L'impassibile rivelatore livellava tutti i pretesi gradi dell'amore, riduceva questo sentimento a cosí meschina realtà da disgustarne qualunque umana creatura. La donna piú bella e la piú deforme, la piú buona e la peggiore venivano poste allo stesso livello; tutta la poesia del sentimento era annullata, ridotta cosa soggettiva dell'amatore, pura opera dell'ingannatrice Maya ... Egli stesso non voleva crederlo, ma nel medesimo tempo non poteva dubitare. La donna che formava in quei giorni l'orgogliosa felicità della sua vita ... No, egli non riusciva a persuadersi che potesse essere anche lei uguale a tutte le altre! ... Ma se era? ... Nonostante questo, esitò parecchi mesi prima di risolversi allo esperimento. "La gelosia mi ha perduto! - egli diceva, raccontandomi il caso con le lagrime agli occhi. - Era avviticchiata al mio collo con le braccia ignude e mi baciava, ribaciata ... Feci uno sforzo supremo. Trassi di tasca la fatale armilla, e, prima ch'ella potesse capire che cosa intendessi di fare, gliel'avevo adattata alla parte superiore di un braccio. Le parve un elegante gingillo imitato dall'antico, mio regalo; e lo guardò commossa, con un senso di vanità che le sfavillava negli occhi e nel sorriso. Io tremavo, quasi commettessi in quel punto il piú vigliacco e il piú tremendo dei sacrilegi. E mentalmente pregavo che lo strumento, almeno questa volta, s'ingannasse o mentisse. "Che hai?" ella mi domandò, guardandomi con diffidenza. E siccome io avevo gli occhi fissi su l'armilla, ella portò la mano al braccio, premé la mollettina e buttò via quell'oggetto con orrore istintivo. Mi affrettai a raccoglierlo. Ella guardò il segno bianco lasciatole dalla pressione sul braccio, e mi prese per le mani interrogandomi sbigottita. "Che è questo? Che mi hai fatto?"" Egli fuggí via come un assassino. Volle però vedere quel che lo strumento aveva registrato. E soltanto allora ... ma era troppo tardi! Maya, la divina illusione - com'egli si espresse - si era dileguata sdegnosamente nella piú alta profondità dei cieli! - Infine, che cosa vide? Che scoperse? - domandò spazientita, la signorina Villotti. - Niente! - rispose, con equivoco sorriso, il dottore. - O dunque? ... - Ho voluto dirle, invece della mia, l'opinione di un altro intorno all'amore. E, se le piace, segua il consiglio del mio amico, faccia secondo il sapiente padre della chiesa da lui citato: creda nell'amore! Fermamente! È un'assurdità, ma non vuol dire ... Credo quia absurdum!

Riguardo a questo mondo, abbiamo sufficienti indizi della sua realtà. Dell'altro non sappiamo niente. Godere quaggiù non è facile. Avere almeno la certezza di vivere a lungo, ecco la felicità. Hai tu mai notato come i disgraziati siano di pelle dura? Essere disgraziati val meglio di avere in tasca una delle tante assicurazioni su la vita, che si dovrebbero chiamare piuttosto assicurazioni della morte. I supposti felici, coloro che toccano il colmo delle loro aspirazioni, dei loro desideri, delle loro speranze, muoiono quasi subito appena raggiunto lo scopo. Se, per caso, non muoiono, ricominciano a desiderare nuovamente, con maggior intensità, a sperare con più forti illusioni, cioè a tormentarsi, ad affaticarsi, a soffrire ansie e timori peggio di prima. Quando i disgraziati che non ne indovinano una si convinceranno del gran compenso che loro accordò la natura, facendoli nascere sotto una cattiva stella ma con forza di vitalità da resistere a qualunque urto, non sentiranno più invidia di coloro che essi considerano in miglior condizione di loro. Amare però l a vita per se stessa non è da tutti". "Non tutti possono essere filosofi - lo interruppi - e pascersi di paradossi!" Ridevo. "Sai tu che significa paradosso? Verità che ha l'apparenza di non esser tale" egli rispose gravemente. "Credevo significasse: stramberia che vorrebbe darsi apparenza di verità". "È errore comune ... Dunque fino ai trent'anni io pensavo come gli altri. Vedendo che non me n'andava una sola pel giusto verso, mi arrabbiavo, mi disperavo. Una volta, dopo una gran delusione, tentai anche di suicidarmi. Avevo preso ogni precauzione per non sbagliare nel finirla. Tu non lo crederai; mi andò a male anche il suicidio per eccesso di precauzioni. Avevo ingoiato cosí forte dose d'arsenico da ammazzare non un uomo ma dieci cavalli. Il mio stomaco si ribellò, rigettò il veleno quasi subito, p rima di esserne intaccato. Anzi, a quel che mi dissero i dottori, se ne assimilò tanto quanto bastò a guarirmi da una malattia viscerale che mi infastidiva e a farmi anche ingrassare. Ridi? È stato proprio cosí. Allora mi son rassegnato. Ne ho viste di tutti i colori, ne ho gustate di tutti i sapori. Quando pensavo che il destino doveva ormai esser stanco di prendersela con me, scoprivo, da lí a poco, che ne aveva già trovata una nova di zecca, assolutamente imprevedibile. "Non sono riuscito ad ammazzarmi con l'arsenico, mi ammazzeranno - speravo - la bile, i dispiaceri! ... " Niente! Muscoli di acciaio, stomaco capace di digerire i ciottoli meglio di quello degli struzzi. E intanto disdette sopra disdette. Il proverbio: se si mettesse a fare il cappellaio, tutti gli uomini nascerebbero senza testa, sembrava di essere inventato unicamente per me. Dissi: "Infine, l'aver studiato filosofia non deve soltanto servirmi per insegnarla agli scolari." E mi misi a filosofare intorno ai casi miei. Non mi parvero accidentali, dopo che intrapresi a studiarli anche negli altri. "Qui sotto c'è una legge! - esclamai. - Bisogna scoprirla!" E l'ho scoperta: legge di compensazione. Mirabile legge! Occorre di essere disgraziati per raggiungere l'estremo possibile limite della vita. Ti par poco? E d'allora in poi - per me che apprezzo la vita per se stessa - le disgrazie son diventate una benedizione di Dio. Ogni volta che intraprendevo un'impresa - qualcosa bisogna fare a questo mondo! - la mia ansietà era al rovescio di quella che sarebbe stata per gli altri: "Se, per sventura, riuscissi!" Fortunatamente non riuscivo. E cosí, di disgrazia in disgrazia, sono arrivato a ottantanove anni. Trovami uno dei pretesi felici che sia arrivato a quest'età". "Io" risposi trionfalmente. "Ebbene, eccezione che conferma la regola. Ma no; sei un disgraziato anche tu! A quest'ora, con la tua scienza, con la tua operosità dovresti essere milionario, come certi tuoi colleghi, che non valgono neppure un terzo di quel che tu vali". "Oh! oh!" feci io. "Ecco: la modestia è stata la tua disgrazia! Non era possibile che la legge fallisse!" E rideva e si stropicciava allegramente le mani. "Andiamo a fare una bella passeggiata! - dissi, levandomi da tavola. - Viva aprile! Viva la primavera!" "Sí, è stata la tua disgrazia! - egli ripeté assorto nella sua idea. - La legge non fallisce". Si fermò su la soglia, guardando un pezzetto di carta per terra. Poi si chinò, e prese con due dita quel fogliolino quadrato. V'erano scritti tre numeri. "Ho trovato piú di venti volte pezzetti di carta come questo, con tre, quattro, cinque numeri, e li ho sempre giocati al lotto, mettendovi su tutto quel che avevo in tasca. Due miei amici sono arricchiti, da un giorno all'altro, facendo cosí; e son morti tutti e due senza poter godersi l'improvvisa fortuna. Ho dieci lire; me ne serbo cinque per vivere due giorni. Siamo al venticinque del mese; tra due giorni esigerò la pensione. Mi è piaciuto sempre di fare questa sfida al destino! Ed ho sempre vinto io, pe rdendo, s'intende. Vediamo: 52, #52, 47, 21! Nemmeno uno di questi numeri uscirà sabato prossimo, in tutte le ruote del regno!" E, piegatolo accuratamente, si mise in tasca il fogliolino. Il mio amico filosofo aveva proprio scoperto, com'egli affermava, una legge? Sembra di si. Due giorni dopo, s'era fermato tutto a un tratto per guardare la tabella di un botteghino del lotto. "52, "#52, 47, 21! Oh, Dio!" esclamò. E indietreggiando, indietreggiando, come davanti all'annunzio d'una grande disgrazia, prima che io potessi afferrarlo per un braccio, era travolto sotto le ruote di una carrozza che, veniva di corsa. Quando potei sollevarlo, pesto e sanguinante, con l'aiuto di due altre persone, egli respirava appena, aveva perduto i sensi. Rinvenne un istante nella farmacia vicina, dove l'avevamo trasportato. "La legge non fallisce!" balbettò, riaprendo gli occhi. E li chiuse per sempre! -

Le idee uomo e donna non le abbiamo foggiate noi, ma Dio o la natura, o non sappiamo chi; e se noi avessimo la potenza di attuarle come la hanno Dio, o la natura, o non sappiamo chi, arriveremmo soltanto a fare quel che hanno già fatto questi onnipotenti maestri - . Dopo una breve pausa, il dottore soggiunse: - Ho conosciuto un uomo singolare a cui la ricchezza, l'ingegno, la forte volontà permisero di cavarsi il capriccio di crearsi una donna ... - Oh! Oh! - urlarono tutti. - La vostra incredulità non mi stupisce - riprese il dottore, calmo e col solito bonario sorriso su le labbra. - Ma io non vi spaccio una teorica; voglio raccontarvi un fatto , avvalorato dalla mia testimonianza. Ho veduto, ho toccato con mano; e per quanto esso sia meraviglioso e quasi incredibile, non è meno vero. Nel maggio del 1881@ 1881 incontrai a Londra un intimo amico che non rivedevo da parecchi anni; tornava allora allora dalle indie. "Che sei andato a fare colà?" gli domandai. Rispose "Un viaggio scientifico". "Da naturalista?" "Per iniziarmi nell'alta scienza, nella Ragi-Yog ." Era la prima volta che ne sentivo parlare, e perciò chiesi spiegazioni. Insomma, il mio amico, attratto dalle pubblicazioni occultiste della signora Blavatsky e del colonnello Olcott, era andato a Adyar, nella provincia di Madras; e, fatto il suo noviziato mistico, di sette anni, nelle solitudini del Himalaja, aveva ricevuto la comunicazione dei grandi poteri dell'antica occulta scienza indiana posseduta dai mahatma del Tibet, come dire dai grandi maghi, depositari gelosi di una scienza a petto della quale la nostra fisica e la nostra chimica, coi loro piú meravigliosi trovati, sembrano veri giuochi da fanciulli. Da prima io credetti che il mio amico volesse divertirsi a mie spese; poi, di mano in mano che udivo le sue spiegazioni, cominciai a sospettare che fosse ammattito, sconvolto dalle astinenze, dai digiuni, dalle mistiche esaltazioni del suo noviziato di sette anni. Infatti aveva preso aspetto da asceta, magro, con barba e capelli già grigi, con lo sguardo vago e sbalordito di chi ha visto cose straordinarie, di un altro mondo, e non sa rendersi ancora conto se ha visto davvero o sognato. "A che scopo tutto questo? - gli dissi all'ultimo. - Non era meglio che tu avessi continuato la tua vita di godimenti e di amori che la giovinezza e la ricchezza ti consentivano?" "Appunto, un terribile disinganno di amore ... " "Volevo ben dire che non c'entrasse la donna!" lo interruppi. "Ma ora sono sul punto di raggiungere la felicità suprema; potrò crearmi una donna a modo mio". "Sarà una bella cosa! Ed hai cominciato?" "Appena arriverò a Napoli. È il luogo prescelto". "Parto per Napoli anch'io. Potrò assistere all'esperimento?" Dovetti dir questo con cosí mal dissimulata incredulità, che il mio amico crollò il capo compassionandomi, e soggiunse soltanto: "Vedrai!" Durante la traversata da Marsiglia a Napoli, Enrico Strizzi m'iniziò con molta pazienza - ero ricalcitrante - nei misteri della scienza occulta, pel tanto che occorreva perché io capissi quel che egli voleva fare. Sopratutto mi spiegò che cosa sono gli elementali: granuli, atomi viventi, sparsi nell'aria, capaci di ricevere, da chi ne ha il potere, la virtú di esplicarsi in una forma determinata. Bisognava afferrare uno di questi atomi, assoggettarlo, incubarlo, trarne insomma la creatura nuova, la donna pe rfetta che egli intendeva creare per sé. "Vedrai!" Gli avevo ormai udito ripetere questa parola tante volte e con tale serietà, che cominciavo a sentirmi scosso ed a pensare: "Ma sarà possibile? Vedrò proprio questo miracolo?" E l'ho veduto! Vi giuro che l'ho veduto. Non è stata un'allucinazione. Ho veduto e toccato con mano! Enrico Strizzi stava chiuso da un mese in quella bella casetta sul Vomero, scelta per operarvi l'esperimento, ed io avevo rare notizie di lui per mezzo di qualche laconico biglietto, che mi assicurava: "Tutto va bene!" "Ma sarà possibile? Vedrò proprio questo miracolo?" Me lo domandavo ogni giorno, ogni momento, e non senza un gran timore che alla fine io non dovessi assumermi il triste incarico di condurre il mio amico al manicomio. Questo timore diventò certezza per me la mattina in cui ricevei un biglietto di Enrico che mi diceva: "Vieni!" E, per precauzione, mi feci portare lassú da una carrozza chiusa, che, caso mai, avrebbe potuto servire a quello scopo. Prima di introdurmi nel laboratorio, - non so come chiamare la stanza dov'egli faceva l'esperimento - Enrico volle spiegarmi la ragione per cui aveva scelto Napoli, e non un altro paese, pel suo tentativo. Anche gli elementali sentono l'influsso del clima, dell'ambiente; e lui, meridionale, voleva crearsi una donna meridionale, forse in omaggio al proverbio: moglie e buoi dei paesi tuoi. Era divenuto piú scarno, piú pallido; e nel suono della voce e nel tremito di tutta la persona appariva una straordinaria concitazione nervosa. "Tu soffri" gli dissi. "Un po'! Parte della mia vitalità si è trasfusa nell'opera mia. Vieni; ma non fare bruschi movimenti, e parla a bassissima voce. Stupirai". La stanza mi parve al buio. Poi cominciai a distinguere la luce dei vetri rosso cupi di parecchie lanterne, e, finalmente, in un angolo, aguzzando lo sguardo, potei discernere una forma biancastra, vaporosa, che oscillava lentamente per aria. "Eccola!" mi sussurrò all'orecchio. Sembrava la proiezione di una bella statua rappresentante una dormente, fatta col mezzo della lanterna magica, sul nero del drappo che rivestiva le pareti e la volta. Se non che quel corpo aveva una trasparenza maggiore di quella dell'alabastro; ed era cosí lieve, che i nostri fiati bastavano a imprimergli un movimento di ondulazione. Si spostava a poco a poco, girando attorno; e quando passava davanti a uno di quei vetri rossi delle lanterne, si coloriva di un rosso tenero, inesprimibile. Ci fu un momento che esso mi passò cosí vicino e cosí lentamente, da permettermi di scorgere quella specie di involucro sottilissimo che lo teneva chiuso e lo proteggeva dalle impressioni esterne. "Tutto questo deve solidificarsi. Occorreranno altri due mesi prima ch'ella si svegli alla vita e rompa l'involucro elementale." Credevo di sognare. Mai la mia ragione e il mio scetticismo erano stati messi a piú dura prova! "Avrà tutte le perfezioni - mi disse Enrico uscendo di là. - Ho voluto incarnare il piú alto ideale di donna che mente umana possa concepire. E sarà mia e m'amerà, come io amo me stesso; è parte di me, e la piú eletta!" Due mesi dopo, il gran portento era compiuto. Quella creatura incredibile aveva rotto l'involucro elementale, e si era come destata da un lungo sonno. l suoi occhi non potevano tollerare la luce viva del giorno; tutti i suoi sensi erano incerti nelle loro funzioni, simili a quelli di un neonato. Ma pochi giorni bastarono perché io non potessi piú distinguere lei da qualunque altra donna che avesse raggiunto l'età di vent'anni. Che incanto però! Che freschezza di carnagione e di tinte! Anche Enrico sembrava ringiovanito. Oh, era felice! Io mi sentivo cosí sconvolto da quella realtà che non potevo piú negare, da sembrarmi, in certi momenti, di essere sul punto di perdere la ragione. Fortunatamente cominciai a riflettere che quel portento, se era avvenuto - e come resistere alla testimonianza di tutti i miei sensi? - se era avvenuto, bisognava crederlo un fatto naturale simile a tanti altri che l'abitudine di ogni giorno, di ogni minuto, ci fa stimare meno miracolosi, meno stupefacenti! E già invidiavo la felicità del mio amico ... Ahimè! Né lui né io avevamo preveduto che si possono spingere, sí, fino oltre certi limiti le forze della natura, ma non mai ridurle diverse da quel che sono. Egli aveva potuto creare, infatti, una donna ideale perfetta, ma in questa creatura si era incarnata l'idea superlativa della donna coi pregi e coi difetti che ne costituiscono l'essenza. Perciò in Eva, l'aveva chiamata cosí - tutto era riuscito estremo; e mai donna ordinaria aveva accumulato in sé tanto orgoglio, tanta vanità, tanta leggerezza, tanta tenerezza, tanta sensualità, tanta gelosia, tanta caparbietà, tanta elevatezza e tanta miseria, da renderla a dirittura insopportabile! Il povero mio amico ne fu spaventato. Dopo sei mesi egli odiava la sua creatura, e già pensava al modo di disfarsene. "Commetteresti un delitto!" gli dissi. "Ne ho già commesso uno assai maggiore - esclamò - violentando la natura!" "Abbandona costei alla sua sorte!" "No!" Era geloso che altri potesse possederla. E, un giorno, mi condusse a casa sua. Non ho mai assistito a spettacolo piú spaventevole e piú triste. La bella creatura era già ridotta di nuovo forma vaporosa, evanescente. Tutte le supreme angosce dell'agonia ne scomponevano il bellissimo viso; gli occhi smorti nuotavano già nell'ultimo sonno, sotto l'influsso di un potere omicida altrettanto forte quanto quello che l'aveva evocata alla vita. Enrico Strizzi - entrato in un convento di frati trappisti - vi medita ancora, nel silenzio, la vanità della scienza e attende, espiando, la morte!

Ma abbiamo anche moltissimi casi in cui avvengono salti, sparizioni inesplicabili, piú inesplicabili riprese. Germi, latenti per due o tre generazioni, si sviluppano a un tratto. Come? Perché? La scienza non ne sa nulla. Né sa in che modo si propaghino, né può prevedere come e quando. Certamente, trattandosi di una specie di gioco d'azzardo, la prudenza consiglierebbe di non giocare. Ma se vi sono altre e forti ragioni che consigliano il giuoco? Un amore come il suo, per esempio, un amore che è la vita, la felicità di due buone creature, per le quali un'interdizione sarebbe grandissima sventura? Verrà forse il giorno che la scienza potrà dare infallibilmente i suoi responsi su questo riguardo; e allora la legislazione dovrà intervenire pel b ene della società sacrificando quello, passeggero, dell'individuo. Ma oggi ... - La baronessa lo aveva ascoltato ansiosa, tremante, trattenendo il respiro, tenendogli fissi gli occhi negli occhi per scrutare se mai le parole non rivelassero tutto il pensiero di lui; ed era rimasta sospesa, ansimante a quel "Ma oggi" che le faceva penetrare nel buio del cuore uno spiraglio di luce. - Ella conosce la famiglia del marchese Volpes. - Ah! Si tratta del marchese? - esclamò il dottore con fina simulazione di sorpresa. - La scelta è indizio di gran senno in lui. Se lo perdesse dopo, la colpa potrebbe essere un po' di lei; ma è un'ipotesi assurda. - Dunque? - Il suo scrupolo la onora. - Questa è la parte dell'amico. Il dottore che cosa consiglia, che cosa impone? - Niente. Io credo che l'individuo non è obbligato a immolare la sua breve felicità ai pretesi eterni diritti della specie. Che farebbe lei se io le dicessi: non sposi? - Ne morrei! ... Forse, mi ammazzerei perché la vita non avrebbe piú nessun'attrattiva per me. - È un po' troppo. La vita ha sempre, finché dura, nuove attrattive da sostituire a quelle disperse dalla sua stessa inconsapevole ferocia. - Non sempre, dottore! - Può darsi. Nessuno però ha diritto di buttarla via come cosa inutile; la religione e la scienza sono di accordo su questo punto. - Sia esplicito; si curi della verità non di me. - Piú esplicito di cosí? È doveroso che la scienza risponda con un forse e non con un'affermazione che potrebbe risultare sbagliata. Sia felice, a modo suo, lasci che al resto pensi la natura. Dio, il caso, insomma quella forza occulta che regola l'universo. Amare ed essere amata valgon bene che si tenti il gioco -. La baronessa rifletté un momento, poi disse: - Grazie! Il dottore uscí dal salotto col cuore sconvolto. Aveva fatto bene? Aveva fatto male? Forse aveva fatto male; ma poteva anche darsi che avesse fatto bene. Eppure il suo scetticismo di scienziato non lo rassicurava pienamente. - La specie! - brontolava, scendendo le scale del palazzo Rivierasco. - Pensi essa ai casi suoi! Non è essa che fa amare a quel modo? ... Pensi essa ai casi suoi -.

non ne abbiamo il tempo, né il modo. La vita c'incalza; la stessa civiltà che dovrebbe renderci piú indipenden ti e piú liberi, ci costringe a una schiavitú di atti e di pensieri di cui non ci rendiamo mai conto. Oggi nessuno di noi avrebbe il coraggio di soffiarsi il naso con le dita, come il gran cavaliere della Mancia e qualche raro contadino attuale. La schiavitú del fazzoletto vi sembra poca cosa? Ne ridete? Ebbene, tant'altre schiavitú di idee non sono meno ridicole di essa. Rifletteteci un po', e ve ne avvedrete. - Che c'entra tutto questo con la fatalità? - disse Mazzani. - C'entra - rispose Remossi - perché noi sogliamo chiamare "fatali" quei fatti dei quali non riusciamo a scorgere la concatenazione e la logica. - Troppa filosofia e, mi sembra, sprecata a proposito di un avvenimento cosí meschino e comune come quello di cui ragioniamo! Gramoglia aveva parlato senza togliersi di bocca il sigaro gustato beatamente, stando sdraiato su la poltrona, su la "sua" poltrona, da lui chiamata cosí perché ogni volta che si trovava nello studio dell'amico Remossi la voleva per sé, o preferiva di restare in piedi se era già occupata da un'altra persona. - Secondo te - soggiunse continuando a fumare - io dovrei ribellarmi alla schiavitú della "mia" poltrona che stimo tanto comoda e tanto dolce. Perché? - Con voialtri è impossibile ragionare! - esclamò Remossi. - Ne volete la prova? Vi racconterò un fatto. È autentico, autenticissimo; non lo invento per comodo della discussione. So già, anticipatamente, il giudizio che ne darete, e sarà la conferma di quel che sostengo. - Non usciamo però dalla specie di fatti dei mariti fatalmente predestinati ... Ce n'è parecchie categorie. Quella di coloro che non hanno occhi per vedere, né orecchie per sentire; quella di coloro che vedono e sentono e si rassegnano al loro destino; quella di coloro che si ribellano inutilmente, giacché un fatto è un fatto e niente può annullarlo dopo che esso è avvenuto. Un marito che ammazza la moglie infedele o l'amante ... - È superfluo che tu balzaccheggi; la Fisiologia del matrimonio l'ho letta anch'io. Che cosa voglio provarvi? Che noi ci siamo appunto resi schiavi di un pregiudizio, o di un sentimento ridotto tale. Non ci sono "predestinati" nel matrimonio, ma, invece, mariti sciocchi, imprevidenti, incuranti, mariti nervosi, irragionevoli, delinquenti ... - Se non è zuppa è pan molle - lo interruppe Mazzani. - Ma è meglio che tu racconti il fatto. Riprenderemo a discutere dopo. - Eccolo - fece Remossi - coi tre soliti personaggi "Ella", "Egli", "Lui". Dispensatemi dal dire i nomi, quantunque non ci sarebbe niente di male se io li rivelassi. Ma si tratta di un fatto intimo, saputo per caso, e la malvagità umana è tale da poter sospettare che le cose siano andate altrimenti di come io le ho apprese. - Non sei assolutamente certo, dunque! - disse Gramoglia. - Certissimo. Non ho conosciuto un uomo piú savio di ... (Mi avvedo che bisogna ribattezzare i miei personaggi per evitare confusione) di Roberto Cagli. La natura e le circostanze lo avevano singolarmente dotato. Era quasi ricco, di eccellente famiglia, e bell'uomo per giunta. Aveva studiato molto, senza prendere una professione. Le professioni stimava tiranne, e voleva godersi le fortunate circostanze che gli permettevano di restare indipendente da tutto e da tutti. Soleva dire: "Uomo perfetto è colui che può conservarsi selvaggio in mezzo alla civiltà." Per lui selvaggio era sinonimo di libero. A trentacinque anni aveva sposato la donna eletta dal suo cuore, bella e colta a bastanza. Vero matrimonio di amore, perché la signorina ... Balestri poteva portargli appena un modesto corredo per dote. I primi anni del loro matrimonio erano trascorsi felici, e la felicità, evidentissima, dei due sposi destava ammirazione ed invidia. Nessuno però osava pensare d'intorbidirla. La signora Cagli veniva stimata u na di quelle donne che, anche per indole, rimangono superiori a ogni insidia. Ma, pur non essendo diversa la convinzione di suo marito, egli non tralasciava di tenerla d'occhio, di osservarla senza averne l'aria e lasciandole amplissima libertà. Qui entra in scena "lui", il terzo, il serpente tentatore, secondo la leggenda, se può dirsi tale uno che in un certo momento, nel momento piú pericoloso e quasi decisivo, rinunziava alla sua parte: era, naturalmente, il piú intimo amico del marito. Conformità di se ntimenti e di idee, oltre a circostanze delle due famiglie, avevano legato Roberto Cagli ad Adolfo Gissi con un'amicizia piú che fraterna sin dai primi anni della loro giovinezza. Avevano studiato insieme, e fatto insieme qualche piccola stravaganza. Il matrimonio dell'uno, che sembrava avesse dovuto rallentare la loro intimità, l'aveva anzi rafforzata. Era un bell'uomo anche Gissi, di carattere gioviale però, e con parola facile e colorita, che formava un po' di contrasto col carattere piú serio e contegno so del suo amico. La signora Cagli, da principio, si sentiva quasi intimidita davanti a quell'espansione di allegria che il Gissi metteva nella conversazione ogni volta che veniva a trovarli o che era invitato a pranzo, cosa che accadeva una volta la settimana, a giorno fisso. (Cagli aveva voluto mantenere quella sua abitudine di scapolo). Poi ... Una mattina, non ricordo per quale circostanza, Roberto Cagli era andato dal suo amico, e lo aveva sorpreso occupatissimo a preparare le valige. "Parti?" "Intraprendo un lungo viaggio". "Come mai non me n'hai detto niente?" "Sarei venuto ad accomiatarmi questa sera". "E dove vai?" "Non lo so; lontano". "Che mistero è questo? Hai tu dunque dei segreti per me che per te non ne ho avuti mai?" Gissi lo guardò negli occhi; anche il suo amico lo guardava intentamente; pareva volessero scrutarsi a vicenda. "Che ti accade? - disse Cagli. - La nostra amicizia mi dà il diritto di farti questa domanda con la certezza di ottenere una schietta e sincera risposta". "Forse non hai bisogno che te la dia" rispose Gissi. "Non capisco. Commetteresti una indegna azione se non mi dicessi la verità". "Vi sono cose in questo mondo che non si possono né si devono confidare neppure al piú intimo amico". "A un intimo amico qualunque, sí; non a me". E tutti e due rimasero interdetti di parlarsi con tanta insolita severità. "Hai ragione!" esclamò Gissi dopo un istante di esitanza. Si passò due o tre volte una mano su la fronte, fece qualche sforzo quasi per trattenere le parole che stavano per sgorgargli dalle labbra, poi, prorompendo, disse: "Parto perché ... amo tua moglie!" "Ella lo sa?" domandò tranquillamente Cagli. "Sí" rispose Gissi, chinando dolorosamente la fronte. "Non c'è altro? ... " "Oh! Sono gentiluomo e soprattutto amico; non dovresti dubitarne un solo momento". "Non ne ho dubitato, e non ne dubito. Mi ero accorto che mia moglie cominciava ad amarti. È un'anima nobile ed onesta anche lei. Di che cosa avete paura tutti e due?" "Della nostra fragilità. Come non intendi ... ?" "La tua partenza, in ogni caso, non rimedierebbe a nulla. Peggiorerebbe la situazione. Sei un uomo?" "Lo vedi. Un altro ... " "Precisamente perché non sei quest'altro tu devi restare. Se ti ostinassi a partire, io avrei ragione di supporre che cedi a un tardivo rimorso". "No, te lo giuro!" "Non occorreva giurarmelo." "Restando non potrei piú frequentare la casa tua. Che direbbe la gente?" "Non mi sono mai curato di quel che la gente può pensare o dire di me e dei fatti miei; intanto non avrà da pensare e da dir niente, perché tu continuerai, tu devi continuare a frequentare la mia casa come hai fatto finora. Sei un uomo? Il tuo dovere è di vincere te stesso. Dammi la tua parola di onore che farai come io voglio". Per quanto Gissi conoscesse l'animo del suo amico, non rinveniva dallo stupore di sentirlo parlare a quel modo. Gli era balenato il sospetto che quella tranquillità apparente nascondesse un tranello; l'uomo non è sempre un eroe, in ogni circostanza, anche quando è dotato di tutte le qualità che producono l'eroismo, egli pensava. Ma il rapido sospetto era sparito dopo le ultime parole del suo amico. "Ti dò la mia parola di onore! ... Rifletti però ... te ne prego". "Per lei, forse? Senti: io sono sicuro di vedere un prodigio. Non credo alle passioni fulminanti, al coup de foudre dello Stendhal. Noi commettiamo cattive azioni, perché ci diciamo che non sapremmo non commetterle, intendo parlare specialmente delle cattive azioni passionali. Se guardi bene dentro te stesso, vedrai che tu hai lusingato, accarezzato, e non inconsapevolmente, sensazioni che avresti potuto con facilità soffocare nel momento che cominciavano a determinarsi. La tua rettitudine di animo ti ha ora suggerito un mezzo violento che, come tutte le violenze, può produrre, anzi, produrrà certamente effetti contrari a quelli preveduti. Se vuoi la tua, la mia e la tranquillità di lei ... " Insomma Gissi dovette arrendersi in faccia a cosí incredibile mitezza. Avvenne, lo stesso giorno, una scena che può sembrarvi strana ma che raggiunse lo scopo voluto. Gissi non se l'aspettava. Era andato, come per una solita visita, in casa del suo amico. La signora Cagli si trovava in salotto col marito che l'avea pregata di suonare mentre egli finiva un sigaro dopo la colazione. "Continua!" disse alla moglie che cessava di suonare all'inattesa apparizione. Ella sapeva che Gissi doveva partire senza piú rivederla, dopo che in un istante di debolezza si erano lasciati sfuggir di bocca il loro reciproco segreto, o piuttosto dopo che l'imprudenza di Gissi le aveva strappato una confessione che l'aveva fatta piangere indignata contro di lui e di se stessa. E soltanto per nascondere il suo turbamento, riprese a suonare; smise dopo poche battute. "Dunque - disse Roberto Cagli - voi due vi amate o state per amarvi ... ?" Gissi scattò in piedi, pallido, portando disperatamente le mani alla testa; la signora chinò la fronte sul leggio del pianoforte mezza svenuta. "Non vi sembra di essere ridicoli? - soggiunse Cagli. - Vorreste diventare due volgari adulteri? Eh, via! Eh, via!" Il colpo era fatto. Gissi e la signora si trovarono, con una mossa involontaria, l'una di faccia all'altro, l'una con gli occhi in quelli dell'altro, ridicoli come quegli aveva detto, nient'altro che ridicoli, e rossi tutti e due dalla vergogna di riconoscersi tali, mentre nei giorni scorsi si erano creduti sopraffatti da fiero tragico destino. E tutto fini là! - Caro Remossi - disse maliziosamente Gramoglia - dobbiamo proprio crederti? ... Tutto finí là? - Io ti credo - soggiunse il Mazzani. - Hai raccontato con troppa calorosa sincerità e con troppi particolari, da non lasciar nessun dubbio su la veridicità del fatto ... Ma esso non prova niente contro la teorica dei "predestinati". Il tuo amico Roberto Cagli non era del bel numero; ecco tutto -.

. - Non abbiamo piú vino ... - Andrò anche pel vino ... Avemmaria! ... - Paternostro! ... - E si addormentavano. La mattina, spazzolato ben bene il vestito spelato e rattoppato e la tuba rossiccia, don Mario si vestiva in fretta e cominciava la giornata con andare alla messa dell'Immacolata, a San Francesco; e cantava le strofette dello stellario tra i confratelli della congregazione, battendo forte con un piede sul pavimento quando tutti gridavano: - A dispetto di Lucifero infernale, viva Maria Immacolata! - Intanto don Mario spesso non sapeva frenarsi dal dire a questo o a quell'altro che gli stava accanto, che gl'i mmacolatisti, come chiamavano quei confrati, erano quasi tutti chi ladro, chi intrigante, chi usuraio. - Canzonano la Madonna e Domineddio! - Badate ai fatti vostri! - Voi siete piú ladro di loro, se li difendete. - E voi, bestione! - Gli dicevano sempre cosí: - Bestione! - tutte le volte che gli scappava detta una verità, compatendolo perché era ingenuo e non parlava per malizia. Don Mario non replicava, ma non mutava parere: - Sono quasi tutti chi ladro, chi intrigante, chi usuraio -. E stringeva al petto, sotto il soprabito, la bottiglia con cui doveva andare a chiedere un po' d'olio e un po' di vino alle persone caritatevoli, dopo ascoltata la santa messa. Si presentava umile e cerimonioso: - È in casa il signor cavaliere? - No; c'è la signora. - Annunziatemi alla signora -. Oramai le persone di servizio sapevano che cosa significasse una visita di don Mario, e lo lasciavano nell'anticamera ad aspettare, o gli dicevano, senz'altro: - Datemi la bottiglia, don Mario -. E non era raro il caso che, mentre di là gli riempivano la bottiglia, egli non stesse piú alle mosse vedendo la sciatteria della stanza. Montava su una seggiola per levar via, con la punta della mazza, i ragnateli della volta; e se trovava a portata della mano una granata - che poteva farci? non sapeva resistere - si metteva a spazzare il pavimento, a spolverare un quadro, a raccattare i pezzettini di carta o di stoffa per terra. - Che fate, don Mario? - La pulizia l'ha ordinata Domineddio! ... Ringraziate la signora! - Donna Rosa però, che si divertiva a discorrere con lui, lo faceva entrare ogni volta in salotto e lo invitava a sedersi. - Che c'è di nuovo, caro don Mario? - Bene, con la grazia di Dio. Voscenza come sta? - Come le vecchie, caro don Mario! - Vecchio è chi muore. Voscenza è cosí caritatevole, che il Signore deve farla campare cent'anni -. Donna Rosa tirava a lungo il discorso, quasi non avesse capito lo scopo della visita; e don Mario si calcava sotto il soprabito la bottiglia vuota, aspettando l'occasione di presentare la richiesta senza parere importuno. Di tratto in tratto, si levava da sedere: - Scusi, voscenza ... - E dava una spolverata a un tavolino - Scusi, voscenza ... - E si chinava per raccattare un filo di lana o di refe e buttarlo fuori del terrazzino aperto. Pareva che quella polvere, o quel po' di refe o di lana gli avessero dato il mal di stomaco, tanto egli s'era dimenato su la seggiola dopo che se n'era accorto. - Lasciate andare, don Mario ... - La pulizia l'ha ordinata Domineddio! ... Ero venuto ... - Vostro fratello è contento del suo impiego? - lo interruppe, un giorno, donna Rosa. - Contentissimo. - Dovreste farvi fare regio pesatore anche voi. Manca tuttavia quello del mulino degli Archi. - E l'addizione, signora? E l'addizione? ... Ignazio sa farla! - Alzò gli occhi al cielo, sospirando per quella che gli sembrava proprio un'operazione di calcolo sublime. - Povero Ignazio! Torna cosí stracco dal mulino! Si figuri: quattro miglia di salita, a piedi! ... Ero venuto per questo ... - E mostrò la bottiglia. - Volentieri! - Chi poteva dirgli di no al buon don Mario? Quando però gli accennavano alla maledetta addizione, neppure il regalo di una bottiglia di vino riusciva a metterlo di buon umore. S'era provato tante volte a fare un'addizione! Il guaio per lui erano le diecine. - Nove e uno, dieci ... Va bene. Ma: lascio zero, e riporto uno! Perché riportare uno, se sono dieci? - Non c'era stato verso che gli entrasse in testa. Eppure non era uno stupido. Bisognava sentirgli leggere correttamente le vecchie scritture notarili, con tutte quelle strane abbreviazioni latine che i nuovi notai e gli avvocati non sapevano decifrare. È vero che le recitava come un pappagallo, senza capirne jota; ma, intanto guadagnava mezza liretta ogni volta, quando lo richiedevano di questo servigio; e ci entravano un par di litri di vino e mezzo chilo di carne di agnello! Pasqua addirittura, quantunque ora, con l'impiego di don Ignazio, i due fratelli piú non stentassero come prima. Sarebbero stati anzi felici, senza quel quacquarà che faceva arrabbiare don Mario. D'onde l'avevano cavato? Oramai egli non poteva dare un passo fuori di casa, che non se lo sentisse gridare o zufolare da qualche impertinente ineducato. - Farò uno sproposito, un giorno o l'altro! - E una mattina andò a ricorrere dal regio giudice, che allora aveva in mano anche la polizia. Fino il giudice rideva! - Vi dicono: quacquarà? E voi lasciateli dire. - Li accuso davanti la vostra giustizia - urlò don Mario. - Ma chi accusate? - Tutti! - Troppi. Non si poteva arrestare l'intera popolazione. - Piuttosto, - rispose il giudice, - smettete di portare cotesto cappello e cotesto soprabito; vedrete che allora non vi diranno piú nulla. - Poiché un galantuomo non può ottenere giustizia! - brontolò don Mario. E andò via dignitosamente, risoluto di farsi giustizia con le proprie mani. Male glien'incolse la prima volta che lasciò correre un ceffone a Sputa cristiani, cosí chiamato perché parlando sputava tutti. Sputa cristiani quel giorno non aveva colpa; montò sulle furie e rispose con piú di mezza dozzina di schiaffi sonori. Il povero don Mario, che non se l'aspettava, rimase interdetto: - Come? ... Per un ceffone, me ne dà sei? - Non rinveniva dallo stupore. Per disgrazia, nella colluttazione, Sputa cristiani gli aveva anche strappato mezzo il vecchio soprabito che si reggeva a stento. Il giudice tenne in arresto un paio d'ore Sputa cristiani che aveva ecceduto, e aprí una colletta in casino per un vestito nuovo e una tuba da regalare a don Mario. Don Mario non volle lasciarsi mai prendere le misure dal sarto; e il giorno che gli portarono in casa il vestito, tagliato e cucito a occhio e croce, insieme con una tuba nuova, ringraziò pulitamente e rimandò indietro ogni cosa. - Sei stato uno sciocco! - gli disse il fratello che, tornando dal mulino, lo aveva trovato intento a rammendare il soprabito. - Con questo è impossibile andar fuori. - Starò in casa! - rispose altieramente. E non fu piú visto attorno. Passava il tempo seduto su la soglia della porta, discorrendo con le vicine, o aggirandosi per le molte stanze vuote della casa crollante. Da anni ed anni non v'erano state fatte riparazioni di sorta; e le imposte si reggevano appena sui gangheri; due solai erano sprofondati e bisognava passare sui tavoloni, posti a mo' di ponticelli, per andare da una stanza in un'altra; i tetti di parecchie stanze, ridotti la piú parte quasi senza tegole, versavano acqua da tutti i punti, quando pioveva. - Vendete metà della casa - gli diceva qualche vicino; - è troppo vasta per le due mosche che siete -. La sera, a cena, ragionando di questo, don Mario e don Ignazio si erano trovati in un bell'imbroglio. - Vendete! È presto detto. Che vendere? ... L'antico studio notarile? - Oh! - esclamò don Mario, indignato. È vero che i grossi volumi, rilegati in pelle scura, non si trovavano piú negli scaffali attorno; li aveva presi il governo, quasi fossero stati roba sua, e non dei mastri notai stipulatori di tutti quegli atti. Ma che importava? Gli scaffali, tarlati e sfasciati, ridotti a ripostiglio di piatti, di tegami, di utensili d'ogni sorta, restavano, ai loro occhi, testimoni quasi viventi dell'antico splendore. I due fratelli si erano guardati in viso: - È possibile? ... Vendete! Che vendere? La camera della nonna? - Camera misteriosa, chiusa da settant'anni, di cui s'era fin perduta la chiave della serratura. Vi era morta la moglie del nonno, una santa; quegli aveva ordinato che, in segno di perpetuo lutto, la stanza rimanesse chiusa per sempre, e cosí era stato fatto. Ogni notte, i topi facevano là dentro balli indiavolati ... Che importava? Un mastro notaio Majori aveva voluto che nessuno l'aprisse, e nessuno l'aveva più aperta. - Dobbiamo profanarla noi? - Si trovavano d'accordo: - Non era possibile! - - Vendete! ... Che vendere? La stanza dei ritratti? - Stava schierata alle pareti mezza dozzina di tele incorniciate, annerite dagli anni e dal fumo, dalle quali scappavano fuori qua la testa maschia e severa di don Gaspare Majori, del 1592@, 1592, rosso di capelli, in gran toga scura e con un rotolo di carte in una mano; là, gli occhi grigi, i baffi bianchi e il pizzo di don Carlo, del 1690@; 1690; accanto, la parrucca e il viso tondo e raso di don Paolo, del 1687@; 1687; piú in là, la testa scarna e allungata di don Antonio, incastrata nel bavero enorme, con il collo fasci ato da un cravattone bianco e i ciondoli pendenti fuori dalle due tasche del vistoso panciotto, del 1805@; 1805; don Mario sapeva a memoria vita, morte e miracoli d'ognuno, e don Ignazio pure. - Dobbiamo scacciarli di casa noi? È possibile? - No, non è possibile! - E preferivano di lasciar crollare ogni cosa; quasi studio notarile, camera della nonna, stanza dei ritratti formassero parte integrale del loro corpo; quasi, col vendere anche un solo palmo di quella casa, essi cessassero d'essere di quei Majori mastri notai da parecchi secoli, di padre in figlio! Tutti erano vissuti là, avevano tabellionato là, di generazione in generazione, fino al padre loro, don Antonio Majori ... - È mai possibile? - ripeterono insieme don Mario e don Ignazio. E andarono a letto, e spensero il lume. - Tanto, ne abbiamo per poco! Siamo vecchi, Mario. - Tu hai due anni piú di me. ... Domani verrà notar Patrizio, per farsi leggere una scrittura antica. - Cosí compreremo mezzo chilo di carne. - Saverio il macellaio truffa nel peso. Aprirò tanto d'occhi. - Ho prestato il mattarello a comare Nina. ... Il vino lo prenderò da Scatà, di quello di Vittoria ... Paternostro! ... - ... Avemmaria! ... - E si addormentarono. - Siamo già vecchi! ... Ignazio ha ragione - rifletteva Don Mario; e si domandava: - Chi dei due morrà il primo? - Rimaneva triste, scoraggiato. - Io sono il minore. Dopo, erediteranno la casa i parenti lontani, se la spartiranno, la venderanno! ... Che ce n'importerà? ... Ignazio ed io non saremo piú qui. I veri Majori siamo noi. Morti noi, morto il mondo! - Pure continuava a spazzare quella rovina con lo stesso amore, con la stessa accuratezza d'una volta; levando via i ragnateli dalle mura e dagli angoli; spolverando i pochi mobili tarlati e sfasciati; piantando un chiodo in una spalliera di seggiolone, in un piede di tavolino; incollando un foglio di carta oleata a una finestra dove mancava un vetro; portando fuori, al solito, a tarda notte, le immondezze. Anzi ora, accadendogli d'addormentarsi anche di giorno, per la solitudine e l'inerzia, passava fuori le nottate, spazzando il vicolo pel lungo e pel largo, contento di sentire la meraviglia del vicinato la mattina dopo: - È passato l'angiolo questa notte pel vicolo. È vero, don Mario? - Egli sorrideva e non rispondeva; rassegnato alla volontaria prigionia, poiché non poteva piú indossare il vecchio soprabito e la vecchia tuba, sempre là, spolverati e senza una frittella, sebbene inservibili. Un giorno però don Mario perdette a un tratto la pace. Affacciatosi a un abbaino della stanza dei ritratti, aveva guardato laggiú, in fondo alla strada, la bella casa del Reina, dal portone stranamente intagliato, dalle mensole dei terrazzini a foggia di mostri contorti. - Bel palazzo, anzi reggia! - diceva don Mario, che non ne aveva mai visto uno piú bello. - Intanto, il proprietario come non s'accorge di quei ciuffi di paretaria cresciuti fra gl'intagli sull'arco del portone, e che deturpano l'edifizio? - La sera, appena don Ignazio, stanco e trafelato, arrivò dal mulino - Senti - gli disse don Mario; - dovresti andare dal signor Reina. Lascia crescere fra gl'intagli del portone, sotto il terrazzino di centro, certe erbacce! ... Fanno stizza a vederle. - Ebbene? - Dovresti avvertirlo, almeno quando lo incontri. - Lo avvertirò -. Don Ignazio, rifinito dalla via fatta a piedi, aveva ben altro pel capo; voleva cenare e andarsene a letto. Ma d'allora in poi non ebbe piú requie neppur lui. Ogni sera, all'arrivo dal mulino, non finiva di deporre in un canto il bastone, che don Mario non gli domandasse: - Hai parlato col signor Reina? - No. - Va' a dirglielo ora stesso. Peccato! Quelle erbacce guastano l'architettura! ... - Se le sentiva come un bruscolo negli occhi; non sapeva persuadersi in che maniera il signor Reina potesse sopportare quel sacrilegio. E si affacciava piú volte ogni giorno all'abbaino, montando una scala a piuoli, appoggiata al muro, con pericolo di fiaccarsi il collo, se per caso fosse cascato. Quelle erbacce, Signore, erano sempre là; crescevano, facevano cesti che tremolavano al vento. Se fossero stati cirri allo stomaco, forse egli non ne avrebbe sofferto altrettanto. - Glielo hai detto al signor Reina? ... - Sí. - Che ti ha risposto? - Una parolaccia! - Quella notte don Mario non poté chiudere occhio. E appena s'accorse che il fratello russava, riacceso il lume, tornò a vestirsi, prese in collo la scala a piuoli, che gli storpiava la spalla, e s'avviò verso la casa del Reina, rasentando il muro dalla parte dell'ombra, per evitare il lume di luna, come ladro che vada a dare la scalata. Per ladro infatti lo presero le guardie di ronda, trovatolo arrampicato lassú, in cima al portone, affannato a strappare le erbacce parassite, a dispetto del proprietario che non se ne curava. - Che fate costí? - Strappo quest'erbe. - Scendete giú. - Lasciatemi finire ... - Giú, vi dico! ... - E alla brusca intimazione, il povero don Mario dovette scendere, lasciando parecchi ciuffi di paretaria, che avrebbero continuato a deturpare la bella architettura. - C'è mancato poco non mi conducessero in carcere! ... Per aver voluto fare un po' di bene! - E morí, da lí a tre mesi, con l'incubo di quelle erbacce che gli pesava sul cuore. Povero don Mario! Roma, giugno 1889@ 1889

E, innanzi tutto, contro l'opinione comune, affermerò che, dormendo, noi sogniamo sempre, anche quando non abbiamo nessun ricordo di aver sognato. Il sogno differisce dalla realtà in questo soltanto: è un'altra realtà. E piú bella, piú libera, piú reale aggiungo, non ostante il suo risolino di compassione, avvocato. - Come piú reale? - lo interruppe questi. - Parecchie volte mi son sognato di essere ferito, di morire, e mi sono svegliato vivo e sano! - Ma di là, nella vita del sogno è stato ferito davvero; ma di là, nella vita del sogno, è morto davvero. E quando, tra cento anni, se le fa piacere, morrà qui, in questa realtà, in questa natura, forse si desterà nell'altra, precisamente come da un sogno, e dirà: "Che stranezza! Mi era parso di morire! Come sembrano veri certi sogni!" Lei ha troppo fiducia nei suoi sensi; si figura che non lo ingannino. Ma sappia che la scienza non ha ancora provato che quel che noi vediamo e tocchiamo sia precisamente qua le noi crediamo di vederlo e di toccarlo. L'enimma sta in questa essenza che noi chiamiamo spirito e non sappiamo affatto che cosa sia. Egli spesso, nel sogno, vede chiarissimo il futuro; scioglie problemi che, sveglio, non era riuscito a distrigare, crea opere d'arte che, sveglio, era incapace di creare. Piú realtà di questa vuole lei? Ma è inutile discutere. Il giovane viennese di cui voglio parlare è una prova evidentissima di quel che sostengo io. Abitavamo nella stessa casa in due stanze, l'una di faccia all'altra; povere stanze a un quarto piano, appena appena mobiliate, ma silenziose e piene di luce; quasi due celle di convento. Saputo che io studiavo medicina, un giorno venne a consultarmi intorno a certo mal di stomaco che gli dava gran fastidio. Era biondo, bianco, esile e di una timidità infantile. Gli volli subito bene. Egli si meravigliò che uno scienziato, diceva lui, si interessasse molto di musica e di musica sacra. Giacché Volgango Brauc hbar si occupava soltanto di musica sacra. Aveva su questo argomento una teorica tutta sua, mistica, elevatissima. Secondo essa, la piú alta espressione musicale si poteva raggiungere soltanto nei soliloqui dell'anima pregante, invocante Dio. E per ciò non studiava altro che i grandi maestri italiani e Bach, il suo Bach, come lo chiamava. Allora io ero materialista, ateo, e quei soliloqui dell'anima pregante e invocante Dio, mi facevano sorridere, con grandissima afflizione del biondo Volgango; ma gustavo i nfinitamente le sue meravigliose esecuzioni; e ammiravo i pezzi di sua fattura che egli si compiaceva di sottomettere al mio giudizio. Spesso spesso però non finiva di sonarli; s'interrompeva, scoraggiato; e non andava piú avanti. "No, no! Non è quel che intravedo. C'è ancora troppa sensualità, troppa materialità in queste note. Non riuscirò; non farò niente di buono!" Ed era inutile che gli dicessi sinceramente: "Anzi! Anzi! Vedete? lo, che non credo, sono commosso. Mi avete quasi costretto a pregare insieme con voi ... Che pretendete di piú?" "La mia disgrazia - mi confessò un giorno, - proviene dallo stato del mio cuore. Amo, riamato!" "E la chiamate disgrazia?" "Per l'arte, sí. Ma come fare?" "Io v'invidio". "Se potessi strapparmi il cuore!" "Non esagerate, amico mio!" "Forse, dopo sposato ... " "Sposerete presto?" "Tra sei mesi". E quel tedesco biondo, mezzo anemico, timido come un fanciullo, si era innamorato di una giovane italiana di forme giunoniche, fior di bellezza e di salute, che rideva sempre, e che alla musica sacra del suo fidanzato preferiva i valzer degli Strauss e le canzonette napoletane. Mai la teorica dei contrasti, che si completano a vicenda, aveva trovato nella vita una piú chiara conferma. Io passavo le giornate all'università e all'ospedale, e Volgango era libero di sonare da mattina a sera senza timore di disturbarmi. Nei giorni di vacanza però mi piaceva di andare a passare qualche ora nella sua stanza a discutere, a sentirlo sonare - bisognava pregarlo - a ricevere le confidenze del suo amore, che non era meno ideale della sua musica. Io, che allora correvo strenuamente dietro le serve e le sartine, lo compiangevo, e glielo dicevo, ridendo. Una notte, cosa affatto insolita - era d'inverno e faceva freddo intensissimo - ecco il pianoforte di Volgango che rompe il gran silenzio della casa e mi desta nel meglio del sonno. Sto ad ascoltare, mezzo insonnolito, e mi metto a sedere sul letto, vinto dalla delizia della musica. Il pianoforte tace per alcuni minuti, poi riprende lo stesso pezzo. L'impressione è cosí viva, cosí forte, cosí meravigliosa, che salto già dal letto, mi vesto in fretta, e picchio all'uscio del mio amico "Volgango! Volgango!" Indietreggiai quando venne ad aprirmi. A quell'ora, con quel freddo, egli era in mutande e aveva la faccia cosí sconvolta e gli occhi cosí sbalorditi, da metter paura. "Scusate! - balbettò. - Vi ho svegliato ... Scusate ... Ah, se sapeste, caro amico! Se sapeste!" "Mi direte tutto, ma prima vestitevi; copritevi bene, se non volete prendere un malanno". E vestendosi, mi raccontava: "Ho fatto un sogno! ... Mi pareva di essere in mezzo a una fitta nebbia, illuminata da luce bianca bianca, assai piú bianca della luce lunare. Ero atterrito di trovarmi cosí sperduto, e non osavo di fare un passo, quando tutt'a a un tratto una dolcissima voce mi disse, piano, all'orecchio: "Ascolta!" Un coro di voci femminili; prima lento, quasi lontano, poi incalzante, incalzante, con una melodia larga, ma piena di fremiti, di lagrime ... Oh! Oh! Una cosa ineffabile! Avevo coscienza di sognare; e ascoltando intentamente, dicevo tra me e me: "Potessi ricordarmene sveglio! Potessi trascriverlo! Basterebbe a immortalarmi! Signore, Signore, fate che io me ne ricordi! Che non ne perda una nota!" E intanto il coro sembrava allontanarsi, diveniva piú fievole, si estingueva quasi in un sospiro. Ma ecco uno scatto di gioia, un sussulto, un inno di liberazione, di redenzione, di trionfo! Tutte quelle voci lo lanciavano per lo spazio, tra la nebbia che nascondeva ogni forma, via per l'infinito, Nessuna musica umana aveva mai attinto quell'altezza di espressione e di forza. Me la sentivo vibrare dentro, dalla testa ai piedi, come se tutte quelle voci scaturissero dai miei nervi in tumulto, dalle mie fibre, dal mio sangue, dal mio spirito ... E la sensazione era cosí forte che credevo di doverne morire. Quando il coro, all'improvviso tacque con uno schianto, io pregavo insistentemente: "Signore, Signore, fate che me ne ricordi svegliandomi!" E quella dolcissima voce tornò a parlarmi, basso, all'orecchio: "Ricorderai la prima pare soltanto. Se ricordassi anche la seconda, morresti!" Mi destai con un gran scossone, tremante, quasi i miei nervi, simili a corde di pianoforte, ancora fremessero delle ultime ondulazioni di quel coro divino". "E, sveglio, ve ne siete ricordato, e vi siete messo a sonare, capisco". "La prima parte soltanto! Dell'altra mi è rimasta una sensazione confusa, indeterminata, indefinibile, inesprimibile! Ah! Vorrei ricordarmene ... " "Anche a costo di morire?" "Anche a costo di morire! Ho tentato, ma invano!" E si slanciò verso il pianoforte, e ricominciò a sonare "Udite! Udite!" Pareva trasfigurato! Mai le sue dita avevano tratto dal pianoforte suoni cosí meravigliosi. "È il vostro capolavoro!" gli dissi. "Mio?" "Di chi dunque?" Qualche giorno dopo, Volgango mi confidò che non aveva piú cercato di rammentarsi. Era anzi atterrito della possibilità di rammentare la sublime seconda parte del coro. Aveva paura di morire. Trascrisse infatti la prima, ma non la suonò piú. Non ne parlò con nessuno, neppure con la sua fidanzata. Aveva sempre nell'orecchio la dolcissima voce da cui gli era stato sussurrato: "Se ricordassi anche la seconda parte, morresti!" Amava e non voleva morire. Io lo punzecchiavo per questa sua ingenua paura. "Siete superstizioso quanto un latino!" gli dicevo. Egli alzava le spalle e sorrideva tristamente. Mi aveva invitato alle sue nozze. Era raggiante di felicità quella sera, in muta adorazione attorno alla sposa, con gli occhi quasi notanti nelle lagrime di tenerezza rattenute a stento. Aveva composto un epitalamio musicale, e fu pregato di sonarlo. Io mi ero seduto accanto a lui per voltargli i fogli della musica. Terminato quel pezzo, tra fragorosi applausi degli astanti, egli non si alzò, ma riprese a preludiare. Si fece subito silenzio. E, con mia grande meraviglia, udii le prime battute del coro da lui sognato. "Perché?" gli dissi sottovoce, vedendolo impallidire. Con gli occhi spalancati enormemente e fissi davanti a sé, quasi non vedessero, egli sonava, sonava, assorto, impallidendo sempre piú. Perline di sudore cominciarono a spuntargli su la fronte e su le tempia; il respiro diveniva affannato, ansimante. "Smettete, Volgango; vi fa male!" "Oh Dio! Oh Dio! - mi disse con un fil di voce. - Ricordo! ... Oh Dio!" E nello stesso tempo scattò dai tasti del pianoforte l'inno di gioia, di liberazione, di redenzione, di trionfo di cui egli mi aveva parlato. Tutti gli invitati si erano levati in piedi, affollandosi attorno a lui, attratti dal fascino di quel miracolo musicale ... Io avrei voluto afferrar le mani di Volgango, impedirgli di sonare, ma ero ammaliato anch'io, incredulo e nello stesso tempo ansioso di vedere quel che ne sarebbe seguito. Con lo schianto delle ultime note, Volgango Brauchbar reclinava la testa sul pianoforte. Era morto! -

Abbiamo bisogno d'un erede, pel nome -. E in un momento d'entusiasmo, marito e moglie avevano fatto voto d'invitare il Patriarca ogni anno, il dí della sua festa, scegliendo tre poverelli del vicinato, un vecchio da rappresentare san Giuseppe, una bambina da rappresentare la Madonna, e un bambino da figurare da Gesú Bambino; e avevano discusso lungamente intorno ai nomi, al pranzo e ai regali da fare ai tre poverelli per gloria del Patriarca miracoloso, in ringraziamento del figliuolino che doveva venir fuori da lí a poco, a rallegrare la loro ca sa, a consolare i loro cuori. Nove mesi erano già passati senza che venisse fuori niente, nemmeno un aborto; e il ventre della signora era rimasto tumido come per l'innanzi, e il seno rigonfio e i capezzoli umidi di latte. - Che vuol dire? Si tratta, forse, di una malattia invece d'una gravidanza? Possibile? Lo stupore del cavaliere era stato grande, e la delusione piú grande ancora. Marito e moglie avevano atteso un altro mese, lusingati dalla speranza di qualche miracolo che forse voleva prolungare i termini della gestazione; il Patriarca non poteva tutto? Poi, disillusi, avevano nascosto in fondo a un cassone, in un angolo oscuro della casa, tutto quel monte di biancherietta che non serviva piú a niente; muti, addolorati, quasi avessero seppellito con le loro stesse mani, in fondo al gran cassone di noce scolpito, il desiderato figliuolino. E il cavaliere, serio e solenne, lanciata un'occhiataccia di rimprovero al santo, gli aveva spento con soffio pieno di dispetto la lampadina a olio sotto il naso; né gliela aveva piú riaccesa da quel momento in poi: non se la meritava! - Chi lo ha pregato di farci il miracolo? Perché burlarsi di noi, a questo modo? E gli tenne broncio fino a marzo. All'avvicinarsi della festa, la fede del credente si riaccese. Egli disse alla moglie: - Se il Patriarca, dal canto suo, ha mancato, non è giusto che noi non eseguiamo il voto d'invitare a pranzo i tre poverelli a gloria di lui. Coi santi non si scherza. Non gli è piaciuto di darci un figliolo? C'impetrerà da Gesú Cristo la grazia dell'anima. Inoltre, i dottori non dicono che tu sei guarita, non si sa come, della misteriosa malattia parsa una gravidanza? Forse il miracolo del Patriarca è stato questo -. Da due mesi lo zi' Pino Cudduruni si cresceva la barba bianca per rappresentare meglio il Patriarca, e si era già provato la tunica e il mantello di mussola azzurra da indossare in tale occasione, fatti lavorare a spese del cavaliere, insieme coi vestitini per la Madonna e pel bambino Gesú. Da otto giorni, il bel castrato, cresciuto a posta solitario fra i buoi e destinato al santo banchetto, era stato condotto in città dal massaio, perché vi fosse ingrassato meglio. E il cavaliere, sentendolo belare giú nella stalla, dov'era attaccato con una corda attorno il collo, per evitare che scappasse, si voltava verso l'immagine del Patriarca e gli diceva: - Patriarca, bela il vostro castrato. L'ho fatto allevare a posta per la vostra solennità -. Quasi gli avesse detto; - Patriarca, fategli attorcigliare la corda al collo tre giorni prima della festa, perché si strozzi e la carne vada a male! - Non fu un dispetto anche questo? Non lo sapeva il Patriarca che quel castrato era destinato ai poverelli? Come mai dunque aveva permesso che si strozzasse attorcigliandosi la corda al collo, tre giorni prima della festa? E la carne era andata a male. Questa disgrazia, oltre a sciupargli tutti i preparativi, l'aveva costretto a fare nuove spese per riparare all'accaduto. Cosí, tra corredo pel bambino e castrato dovuto sostituire, il Patriarca gli costava caruccio. - Vedremo quest'altr'anno! - Il cavaliere, ch'era buono e aveva gran fede nella bontà dei santi tutti e del Patriarca in particolare, una partaccia di nuovo genere non se l'aspettava davvero. Infatti si era voluto superare; e aveva fatto le cose spendendo come un Cesare, ordinando alle monache del Monastero Vecchio dolci e cassate. Aveva anche ottenuto, per favore, il cuoco del principe Grimaldi, che portò in cucina una batteria di arnesi d'ogni sorta pel timballo, pel fritto, per l'arrosto, quasi avesse dovuto preparare un pranzo al sottoprefetto. Era per qualcosa di meglio; il pranzo figurava destinato ai poverelli, ma si dava in onore del Patriarca, che meritava ben altro. Il san Giuseppe di quest'anno, indossata la tunica azzurra e il mantello, si era incollato su la faccia la barba di bambagia. La Madonnina, pronta anche lei, con in testa la corona di carta dorata, si pavoneggiava sotto il velo bianco che le scendeva per le spalle fino alle calcagna; aveva il petto tutto parato di collane di oro e di orecchini appuntati su la stoffa. Il bambino Gesú, in tonacella bianca, incoronato ugualmente di carta dorata, provava la benedizione con due ditini della mano destra. Su la ta vola apparecchiata luccicavano bicchieri, bottiglie, coltelli, posate d'argento, tra fiori sparsi e a mazzi; e sulla credenza biondeggiavano, enormi e rotondi, i buccellati di fior di farina: il piú grande per san Giuseppe, e i piú piccoli per la Madonna e pel Bambino Gesú. Mastro Nunzio e gli altri suonatori già accordavano i violini, intanto che il prete, in un angolo, s'infilava la cotta per benedire tutto e tutti in nome di Dio. Sapete, intanto, che pensò di fare il Patriarca? Pensò di far ruzzolare per le scale la zi' Antonia, la vecchia serva di casa, che correva dalle monache per la cassata e pei dolci! E quando, tra la gran confusione e gli urli, la portarono su, la poverina, che aveva una gamba rotta, pareva già morta sul letto dove l'avevano adagiata! - Insomma, il Patriarca lo fa espressamente, per guastarmi la festa? - Ci mancò poco che il cavaliere non dicesse delle eresie; né era ben sicuro, dopo, che qualche moccolo, di quelli con la rigirata, non gli fosse scappato di bocca senza ch'egli se ne fosse accorto. Strabiliava. Gli pareva di sognare. - Tutto questo però può anch'essere opera del diavolo, per farmi perdere la pazienza! - La sera, andando a letto, disse alla signora: - Vedremo quest'altr'anno! - E, quantunque volesse parere rassegnato, mostrava una bella stizza nella voce. Quell'altro anno, il cavaliere aveva pensato di premunirsi contro ogni possibile accidente. Tutto era stato disposto e preparato in modo che nessuno avesse potuto correr pericolo di rompersi il collo. - Non c'è da attendersi altro, dopo il fatto dell'anno scorso! - pensava il cavaliere. E per ciò il prete era venuto il giorno avanti a benedire stanza, tavola, cucina e arnesi. Il diavolo avrebbe inciampato nell'acqua santa e sarebbe scappato via piú che di corsa. Questa volta però il cavaliere si persuase che il diavolo non c'entrava affatto, e che tutto era una personalità, sí, una personalità di san Giuseppe contro di lui! - Che gli ho fatto al Patriarca, perché proprio il giorno della sua festa, prima che i tre poverelli si mettano a tavola, mandi un accidente a mia suocera? È rimasta stecchita sulla seggiola senza dare un sospiro, come cadavere di cent'anni! ... Che gli ho mai fatto? E preso rabbiosamente il quadro di don Paolo il matto, urlò: - Fuori di casa mia! Fateci un bel crocione! - E lo buttò giú dal terrazzino. - Voi bestemmiate, voi siete incorso nella scomunica! - gli diceva il confessore, che non poteva frenarsi dal ridere. E il cavaliere, duro, intestato, dignitosamente rispondeva: - Come Patriarca e come padre putativo di Gesú Cristo, gli fo tanto di cappello; ma come san Giuseppe, no, non voglio piú aver che fare con lui. Non voglio neppur sentirlo nominare fin che campo! - E mantenne la parola. Napoli, maggio 1888@. 1888.

Abbiamo le chiavi noi, per dar aria alle stanze. Vuol vederle?" Sono cinque al primo piano e due al piano superiore, in quella che vorrebbe essere una torretta merlata; stanz e ariose, pulite, con discreta mobilia un po' invecchiata, di trent'anni addietro o poco piú. E un silenzio, una pace! Vista maravigliosa dal lato di levante, con tutti i colli laziali torno torno; da ponente, Roma con la cupola di San Pietro troneggiante nell'azzurro ... In una settimana, quella villetta potrebbe esser pronta a riceverci - concluse Aldo insinuante. - Sí, sí - rispose Elvia. - È una bella idea -. Aldo Sàmara aveva voluto lasciare a quelle stanze la impronta caratteristica del tempo in cui erano state mobiliate; ed eccettuata la camera degli sposi, esse erano rimaste quali egli le aveva trovate nella sua prima visita, senza spostar nulla, anche perché i mezzadri avevano raccomandato, in nome dei padroni, di conservare, per quanto piú era possibile, la disposizione degli oggetti che vi si trovavano. Non erano punto preziosi i tavolini, i canterali, i divani, le seggiole, le poltrone, le litografie e le incisioni in cornici di ebano, i quattro o cinque quadri a olio, di soggetto sacro, mediocrissime copie di originali del Guercino e di Carlo Dolci, i due specchi ridotti quasi inservibili dall'umido che ne avea macchiato e corroso l'argentatura. Eppure Elvia ed Aldo si erano adattati subito a quell'aria di vecchiezza - di stanchezza, diceva Elvia - quantunque si sentissero stranamente trasportati in un ambiente affatto diverso da quello delle loro case sorridenti di tutta la gaia freschezza dell'ammobiliamento moderno. Le prime due giornate eran passate come in sogno. I due giovani sposi avevano avuto appena tempo di dare un'occhiata al paesaggio e di fare qualche breve passeggiata all'aperto. Ma, il terzo giorno, nelle ore pomeridiane, una pioggerella fina, insistente, li aveva confinati in casa. Si erano un po' svagati leggendo alcuni capitoli di uno dei tanti romanzi nuovi comprati per quell'occasione, e le ombre della sera li avevano sorpresi dietro i vetri della finestra del salotto, silenziosi, intenti a guardare la pioggia che veniva giú piú fitta, velando e quasi sfumando la campagna attorno e i colli laziali lontani. Aldo avea cinto col braccio la vita di Elvia, ed ella si era abbandonata carezzevolmente col capo su la spalla di lui. Tutt'a un tratto, ella trasalí. - Che cosa è stato? - Niente ... Non so! - Intanto spalancava gli occhi spauriti, voltandosi a guardare nella stanza già invasa dall'oscurità. - Insomma? ... - fece Aldo. - Un brivido per tutta la persona, come se qualcuno mi avesse posato una mano diaccia su la spalla. - Chi sa che cosa fantasticavi! - Non pensavo niente, guardavo fuori. - Facciamo accendere i lumi -. Tutta la gran luce che due lumi diffusero poco dopo nel salotto non valse però a rassicurarla pienamente. Avevano ripreso la continuazione della lettura interrotta. Aldo leggeva ad alta voce, alzando, di tratto in tratto, gli occhi in viso a Elvia, che coi gomiti appoggiati sul piano del tavolino e col mento sul dorso delle mani congiunte, stava ad ascoltare. Evidentemente era un po' distratta. Due o tre volte, Aldo aveva notato che ella, pur restando immobile, girava le pupille attorno, con aria di diffide nte paura; e credette opportuno di sgridarla con dolce severità. - Non sei una bambina! ... Eh via! ... O ti senti male? - Sarei proprio imbarazzata - rispose Elvia - se dovessi spiegarti quel che provo ... Ora voglio dirtelo - soggiunse: - Ho provato qualcosa di simile sin dalla prima sera che arrivammo qui, nell'intervallo che tu, sceso a parlare col mezzadro, dovesti lasciarmi sola per qualche istante. - Che cosa provasti? - Un senso di freddo, come al contatto di persona disaggradevole ... invisibile. - Oh! ... - Sarà una ridicolaggine ... che vuoi che ti dica? ... Anche tu? ... - esclamò Elvia, vedendo diventare serio serio il marito e prendere l'atteggiamento di chi sta in osservazione di qualcosa d'insolito. Aldo tardò a rispondere. - Anche tu? - ella replicò afferrandolo, atterrita, per una mano. - Volevo spiegarmi - disse Aldo con qualche imbarazzo - che cosa può mai averti prodotto tale strana suggestione in questo salotto. La vecchia consolle? Lo specchio? Quei quadri anneriti e dai quali non si è potuto togliere la polvere resa aderente dal tempo e dall'umido? Il soffitto troppo alto? La tappezzeria nova delle pareti? I nervi di una giovine signora sono impressionabilissimi, la immaginazione troppo facile ad essere eccitata ... - Ma, cosí parlando, Aldo nascondeva a stento che aveva in quell'istante anche lui un'indefinibile sensazione di malessere, precisamente come pel contatto di persona disaggradevole, invisibile. Chiuse il libro, si alzò da sedere, e sforzandosi di sorridere, disse a Elvia: - Non piove piú! - E aperse la finestra. Il cielo era sereno. Le nuvole si addensavano sui monti in fondo all'orizzonte, e la luna inondava con la sua luce argentea la campagna, che esalava l'odore speciale dei terreni bagnati da pioggia recente. Richiusa l'imposta, egli prese Elvia sottobraccio, e la condusse nella sala da pranzo. La tavola era già apparecchiata per la cena. - Com'è curiosa questa villa, di sera! - esclamò Nannina, la donna di servizio, portando in tavola. - Perché dite cosí? - domandò Elvia. - Mah! ... - fece Nannina. - Anche lei? - pensò Aldo. Egli si era rammentato di un libro inglese letto anni addietro, col quale si pretendeva di dare una prova scientifica dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. L'autore, o gli autori - erano due, se mal non ricordava - credevano di aver dimostrato che fin i piú impercettibili movimenti del nostro pensiero, non che gli atti e le parole, vengono registrati e fissati nell'universa materia cosmica come sur una lastra fotografica, anzi meglio che su una lastra fotografica. E da questa nozione rimastag li chiara nella mente, rannicchiato nel suo cantuccio di letto e fingendo di dormire, egli era venuto fantasticando, durante la nottata, una probabile spiegazione di quel fenomeno ormai innegabile perché avvertito contemporaneamente da tre persone. Le pareti di quella casa dovevano essere certamente sature di misteriosi fluidi, di pensieri e di atti là registrati, e con tale forza da produrre terrificanti sensazioni rivelatrici. Gli erano rivenute alla memoria le notizie del mezzadro intorno all'abbandono i n cui i padroni lasciavano quella villa da anni ed anni, senza mai venire a darvi una fuggevole occhiata. Ora gli sembrava di non aver notato allora certe esitanze nelle risposte del mezzadro e della sua moglie, e si proponeva di interrogarli quella mattina, prima che Elvia si alzasse da letto. E durante la lunga nottata insonne non gli era anche parso di sentire una specie di formicolio dappertutto, nelle pareti, nella volta, dietro gli usci, nelle stanze accanto; un formicolio sordo sordo, che l'orecchio non percepiva ma che intanto non gli sembrava meno reale, quantunque percepito dai nervi di tutto il suo organismo quasi per immediato contatto? Egli s'interessava molto, da un anno in qua, di certi fenomeni di cui soltanto da poco tempo alcuni scienziati osavano spregiudicatamente di occuparsi, e cominciava a sospettare di trovarsi di fronte a qualcuno di tali fenomeni; giacché non poteva credere di essersi lasciato vincere dalla nervosità di Elvia e della donna di servizio per suggestione di seconda mano. - Hai dormito bene? - gli domandò Elvia vedendolo saltar giú dal letto. - Ho fatto tutt'un sonno. E tu? - Io non ho chiuso occhio. C'è mancato poco che non ti svegliassi. - Perché? - Non sgridarmi; avevo paura. - Ancora? - egli esclamò, fingendo di mostrarsi un po' in collera per questa debolezza femminile. - Intanto che tu ti vesti - poi soggiunse - scendo a fumar un sigaro all'aria aperta. Ti mando Nannina -. Non aveva potuto cavar nulla di bocca ai mezzadri. Quando essi avevano preso quella mezzadria, la villa stava chiusa e abbandonata da un pezzo. - Giacché i padroni non se ne curano, perché non abitate le stanze superiori? - Queste a terreno, capisce, sono piú comode per noi. - E dite, prima di me e della mia signora, nessun altro ha preso in affitto la villa? - Sí, quattro anni addietro, due forestieri, un vecchio con la figlia, bellissima creatura, che volle andar via dopo una settimana. - Perché? - Lo dissero forse; ma chi li capiva? Scapparono quasi, brontolando, facendo certi gesti! Già quel vecchio doveva essere mezzo matto. Andava attorno da mattina a sera, raccogliendo erbacce, riportandone a casa mazzi, fasci interi. La figlia dipingeva -. La giornata passò tranquilla. Elvia ed egli avevano quasi dimenticato le tristi impressioni della sera avanti, perché le stanze illuminate dal sole, assumevano durante il giorno aspetto gaio. Ma la sera, dopo il tramonto, sembrava si trasfigurassero; e non valeva l'accendere molti lumi. Qualcosa d'indefinibile, d'inesplicabile vibrava dalle pareti, dagli oggetti; si sarebbe detto anche dall'aria che vi circolava. Elvia, per vergogna di apparire bambinescamente paurosa, non osava di manifestare ad Aldo l'opprimente sensazione che la invadeva; ed Aldo si guardava bene dal confessarle la repugnanza che gli ispirava, di sera, tutta la casa, in qualunque stanza essi si intrattenessero fino all'ora di cenare e di andare a letto. Elvia si stringeva a lui, voleva esser presa tra le braccia, quasi per trovarvi un rifugio; ed egli era contento di tenerla cosí, di accarezzarla, di baciarla, di mormorarle dolci parole a interva lli ... Giacché, a mano a mano che la sera piú s'inoltrava, essi si sentivano costretti a restare silenziosi; e avevano ancora - pensavano - tante dolci cose da dirsi in quelle ore di raccoglimento, in mezzo alla gran pace della vasta campagna! Aldo non poteva piú dubitare che si trattasse di sensazioni reali. Elvia era un organismo solido, ricco di salute, come lui. Egli, è vero, si era occupato di fenomeni anormali, ma solamente leggendo quel che ne scrivevano, pro e contro, scienziati d'alto valore. Non si era mai provato a osservare direttamente, quantunque spesso invitato da persone che volevano iniziarlo ai misteri del magnetismo e dello spiritismo. Elvia lo aveva qualche volta graziosamente punzecchiato per questi suoi studi, mostrandosi pi uttosto incredula che no. Egli non poteva per ciò supporre che quel che essi e Nannina sentivano nella villa provenisse da eccessiva nervosità o da preconcetti capaci di alterare le ordinarie funzioni dei loro sensi. Avevano trascorso la intera giornata vagando per la campagna. Fatto colazione in una vaccheria, si erano inoltrati per sentieri e sentieroli verso le colline, cogliendo bellissimi fiori selvatici, fermandosi, per riposarsi, nelle case dei contadini incontrate qua e là, prendendo istantanee coi loro Kodak, fotografando ognuno un punto di vista diverso per sfida di vedere chi di loro due avrebbe saputo scegliere il paesaggio piú artistico; ed erano tornati tardi alla villa, un po' stanchi ma contentissimi del la bella escursione, e leticando allegramente intorno ai resultati delle pellicole dei rispettivi Kodak. Peccato che bisognasse attendere il ritorno a Roma per svilupparle! Intanto si erano seduti a tavola con grand'appetito, quantunque la cena non fosse ancora pronta. - Hai sonno? - domandò Aldo, scorgendo che sua moglie stentava a tener aperte le palpebre. - Elvia! ... Elvia! ... - egli gridò vedendole travolgere gli occhi fino al bianco. Ella non rispondeva. Rigida, eretta sul busto, con gli occhi chiusi e le sopracciglia corrugate, sembrava guardasse attentamente e vedesse a occhi chiusi. Aldo capí subito che si trattava d'un caso di catalessia spontanea e ne fu atterrito, non potendosi render conto della cagione da cui veniva prodotto, né delle conseguenze che avrebbero potuto seguirne. E continuava a chiamare, scotendola pel braccio: - Elvia! Elvia! - osservando ansiosamente gli atteggiamenti ch'ella prendeva quasi assistesse a uno spettacolo che la faceva inorridire. Poi le labbra di lei si agitarono; suoni inarticolati le uscirono di bocca. In piedi, con le mani sporte in avanti, ella indietreggiava, voltando il capo da una parte come per evitar di vedere. Diè un grido, cadde tra le braccia di Aldo che furon pronte a riceverla ... E riaperse gli occhi. - Perché? - domandò, stupita. - Ti sei lasciata sorprendere dal sonno - balbettò Aldo per non spaventarla. - Volevo metterti a giacere sul canapè -. Elvia non si rammentava di niente. Che cosa avea visto? Aldo non glielo domandò. Ma egli era ormai certo che in quella villa era dovuto accadere qualche terribile tragedia rimasta ignorata. Le pareti vibravano terrore. Si sentiva sopraffare anche lui dalla misteriosa forza ogni giorno piú. Sarebbe soggiaciuto alla catalessi pure lui? Con sua grande meraviglia, quella sera Elvia fu tranquillissima. Non mostrò di sentire nessuna impressione di paura durante la cena né dopo. Fu anzi piú allegra del solito; se non che, tutt'a un tratto, nell'alzarsi da tavola domandò - Dimmi: dove ho letto o dove ho veduto rappresentare ... - Che cosa? - È strano! - ella esclamò dopo breve pausa. - Mi torna in mente una scena di non so piú qual dramma, di non so piú qual capitolo di romanzo ... Come mai mi ritorna in mente cosí viva, cosí fresca, quasi l'avessi letta recentemente o veduta rappresentare? - Quale scena? - Mah! ... È strano! Mi sfugge ... Di quel marito che ordina alla moglie creduta colpevole: "Punisciti da te stessa!" E lei non vuol morire di veleno né di pugnale ... E vorrebbe gridare, chiamare aiuto; e urta agli usci chiusi a chiave, e picchia alle imposte delle finestre inchiodate ... e perde la parola e muor di terrore davanti all'inesorabile marito, che l'ha condotta in una villa lontana! ... Dove ho letto questo? O dove l'ho veduto rappresentare? ... È strano! È strano! - Lascia andare! - la interruppe Aldo. - Dimmi piuttosto un'altra cosa: Non ti sei già annoiata di star qui? - No. E tu? - Quell'inatteso fenomeno di serenità mise in maggior sospetto Aldo Sàmara. Gli parve di vedere la sua Elvia in balía delle misteriose forze spadroneggianti nelle stanze superiori della villa abbandonata, e volle sottrarla e sottrar se stesso al loro occulto potere. Tornati a Roma, egli soffrí per qualche tempo l'irragionevole ossessione di una malefica influenza che avrebbe nociuto a tutti e due; ma, dopo alcuni mesi di chiusa ansietà, ebbe a convincersi perfettamente che si era ingannato. - Soltanto, accadde - due o tre volte, a lunghi intervalli - che Elvia ripetesse, come quella sera: - Dimmi: Dove ho letto ... O dove ho visto rappresentare? ... È strano! È strano! - Da allora in poi, Aldo Sàmara ha riletto piú volte il libro di quei due scienziati inglesi, e metterebbe la mano sul fuoco per attestare che essi hanno ragione.

. - Poco fa in casa Olgani abbiamo scherzato e riso troppo. Le vostre parole di questo momento sono serie e gravi, se io non mi illudo intorno al loro significato. Non posso rispondervi subito. Vorrei potervi dire: restate! Ma sarebbe gran leggerezza da parte mia, se non riflettessi qualche giorno. Vi dispiace di attendere fino a mercoledí prossimo? Ci rivedremo in casa Olgani. Se me lo permetteste, potrei anche scrivervi". "No; mi darete la risposta mercoledí. Sinceramente, spero!" "Sincerissimamente!" "Ho, forse, fatto male a chiedervi un consiglio!" esclamò dopo una breve pausa. "Ve ne sono gratissimo". "Raggiungiamo gli altri" ella concluse, sorridendo tristamente. E nel traversare la via, le strinsi forte una mano, mormorando: "Avete fatto bene; ve ne ringrazio". Intanto ella riprendeva il suo aspetto ordinario; ma io mi sforzavo invano di non apparire turbato; e osservandola, pensavo quanto le donne siano superiori a noi nel dissimulare e nel padroneggiarsi. In quel breve tratto di strada, ella aveva cominciato a parlarmi del soggetto delle nostre risate in casa Olgani mentre un violinista scorticava non so quale sonata di Saint-Saëns; e pareva che avesse dimenticato le gravi cose dettemi poco prima. Tornando a casa e rifacendo la strada fatta insieme con miss Nelly, mi sembrava di riudire, quasi ondulanti ancora per l'aria, il suono della voce e l'accento incerto con cui ella mi aveva domandato: "Debbo andare?" Mi rimproveravo di non essere stato sincero. Perché non le avevo detto immediatamente: "Siete libera! Io non sono in circostanza di darvi una risposta concreta"? E nello stesso tempo che cominciavo a sentire una specie d'irritazione contro di lei per quella domanda intempestiva (non credevo di a ver fatto niente che potesse autorizzarla a rivolgermela), provavo pure un dolce compiacimento che lusingava il mio amor proprio. Non leggevo ben chiaro nel mio cuore. Quell'anno sfarfalleggiavo irrequieto tra le tante signorine che intervenivano in casa Olgani. Ricordi? Noi chiamavamo la "Fiera" quei mercoledí affollatissimi, destinati dalla signora Olgani a combinare matrimoni. Ella pensava soprattutti a sua figlia già sullo sfiorire, ma non voleva farlo scorgere; e perciò gran richiamo di mamme e di raga zze, e balli che dovevano sembrare improvvisati, e accademie di musica e di canto ... e, ogni sera, novità di divertimenti ... Povera signora! Vi ha rimesso le spese. Le quattro ossa spolpate della sua figliuola le sono rimaste in casa; nessuno ha avuto il coraggio di sposare quello scheletro che pure aveva una discretissima dote. - Non divagare - lo interruppe Diego Punzi. - Ricordi? Troppe ragazze! Per ogni scapolo, non meno di tre in concorrenza. Tirati in qua, tirati in là, nessuno di noi riusciva a fissarsi. Piú che non corteggiassimo, eravamo corteggiati. Bei tempi! Anche tu; non negarlo. - Come gli altri; quantunque ... - Lo so; tu pensavi seriamente al matrimonio e volevi sceglier bene. Io, convinto che nel matrimonio tutto è caso, intendevo di lasciare che l'avvenimento, se mai, si compisse senza che dovessi metterci né sale né pepe. E poi, in quella baraonda di serate, mi sembrava che neppur le ragazze facessero sul serio; e rammentando una maccaronica antifona del vecchio prete mio professore di latino, ripetevo spesso, osservando gli altri: "Canzonare te, canzonare me, Virgo sacrata!" Miss Nelly e sua cugina Jane però erano un'eccezione tra la folla. Jane, bellissima, con la sua eccessiva rigidezza britannica teneva un po' in distanza i corteggiatori; in miss Nelly, invece, si scorgeva poco o niente d'inglese, cioè soltanto una dignità semplice e schietta che imponeva rispetto. Si capiva, avvicinandola e conversando con lei, che si aveva da fare con una signorina per la quale le parole significavano precisamente quel che volevano dire e non altro. Non si potevano adoperare sottintesi o esprimere leggermente sentimenti c he erano piuttosto madrigali senza costrutto, o complimenti, o adulazioni, o maliziose canzonature da produrre lievi conseguenze. Per ciò miss Nelly era diventata prestamente la mia preferita; mi sembrava di sentirmi in ogni cosa all'unisono con lei. Mi piaceva soprattutto quella sua dolce gaiezza di spirito ... Ma già io te ne parlo come se si trattasse di persona a te ignota. - Stavo per dirtelo. Insomma, che cosa rispondesti quel mercoledí? - Passai parecchi giorni in un torpore strano, quasi volessi evitarmi la fatica di ricercare in fondo all'animo la risposta da dare. Evidentemente non ero innamorato, e sentivo dispiacere di non esser tale. Miss Nelly mi ispirava una gran simpatia, ma non aveva ancora operato cosí intensamente sul mio cuore da darmi la chiara coscienza che ella fosse per me qualche cosa di piú di una amica o di una persona con cui avrei voluto passare insieme alcune ore della giornata. Non mi trovavo maturo da decidermi a l egarmi con lei per tutta la vita. E poi, c'erano davvero circostanze di famiglia che non mi avrebbero permesso di prendere impegni per un tempo lontano, senza contare che i fidanzamenti a lunga scadenza mi sono sempre stati odiosissimi. Eppure avrei voluto ch'ella avesse atteso ancora prima di mettermi alle strette con quella domanda e con le gravi parole: "Affido il mio avvenire alle vostre mani!" Chi sa? Tra qualche mese, lasciando che gli avvenimenti operassero da sé, forse, mi sarebbe stato facile risol vermi secondo quel che ella sembrava desiderasse ... Ma in quei giorni, no; e non volevo mentire. È vero, pur troppo, che spesso, una parola, una sola parola inopportunamente pronunziata influisce senza rimedio su la intera esistenza di una persona. Tu ti sei consolato facilmente. - Non ho detto: facilmente. - In ogni modo, ti sei consolato; io invece rimpiango ancora quel che ho perduto. Il mercoledí, dunque, mi avviavo verso casa Olgani senza che io sapessi precisamente quel che avrei dovuto dire a miss Nelly, o almeno senza sapere in che modo avrei potuto formulare la mia risposta. Non volevo mentire e non volevo neppure chiudermi ogni via di riprendere quell'argomento nel caso che le circostanze mi avessero, un giorno, permesso di dirle: "Restate!" o qualunque altra parola equivalente. Entrando nel salotto, una rapida occhiata in giro mi aveva consolato; miss Nelly non c'era. "Può darsi che non venga!" pensai ... Ma proprio in quel punto ella appariva su l'uscio preceduta dalla cugina. Le corsi incontro, come chi affronta coraggiosamente un inevitabile pericolo, e le dissi: "Siete in ritardo!" Mi guardò negli occhi, seria, quasi maravigliata di udirsi dire quelle parole. E durante la serata mi sembrò che volesse evitarmi. Uscendo di casa Olgani, qualcuno della comitiva propose una passeggiata al Colosseo. Ci avviammo. Le offersi il braccio. La serata era bellissima; le viuzze che conducono colà quasi deserte. Durante il tragitto, Jane era rimasta a fianco della cugina troppo ostinatamente, contro il solito; pareva che lo facesse a posta, d'accordo con lei. Ma io manovrai in maniera da restare isolati per alcuni istanti. Avevo riflettuto: è naturale che miss Nelly non si mostri impaziente di ricevere la mia risposta; ora spetta a me d'aver premura di darla. "Dunque - dissi, e si vedeva bene che non sapevo co me cominciare a parlare - quella vostra amica ha un progetto ... per voi? Io vi sono gratissimo ... " "Ah! - ella esclamò. - Non ne ragioniamo. L'altra sera mi sono sfuggite parole incoerenti. Scusate. Non val la pena di tornarci su". "Perché?" "È inutile; ho deciso di partire. L'invito è cosí affettuoso, cosí pressante ... E poi ... ho bisogno di aria nuova, di un po' di campagna. La villa della mia amica è in mezzo a una gran foresta ... " Parlava lentamente, con tono severo. Non osai d' insistere, mortificatissimo. Poco dopo, sotto gli archi del Colosseo, appena ella si staccò dal mio braccio, mi parve che qualche cosa di decisivo fosse avvenuto per me. - È tutto? - No. Tre mesi dopo ella era già ritornata. Ma durante quei tre mesi, io avevo commesso la stupidaggine di lasciarmi adescare - misteri del cuore! - da ... Non importa che tu sappia da chi, perché anche questo è un avvenimento ormai passato, quantunque abbia lasciato dolorose tracce nella mia vita. Avevo riveduto miss Nelly, fuggevolmente. Facevo rare e brevi apparizioni in casa Olgani. Tre sere avanti l'onomastico di sua madre, miss Nelly aveva avuto la precauzione di rammentarmi quella data; io non av rei potuto mancare alla festa senza mostrarmi scortese. C'eri anche tu quella sera. - E appunto allora - lo interruppe Diego Punzi - io mi convinsi che nel cuore di miss Nelly non c'era piú posto per me. Vi eravate rifugiati nel salottino in fondo, cosí stranamente illuminato con piccoli globi a colore ... Vi avevo visti sparire e non avevo resistito all'ansietà di sorprendere - ho vergogna di confessartelo - una parola, un gesto che potesse confermare il mio sospetto ... Eravate seduti in un angolo ... Non vi accorgeste di me ... Fu un istante ... Tu stavi a capo chino , con le mani strette accoste al mento e miss Nelly si asciugava gli occhi ... - È vero. "Ho bisogno di parlarle" mi aveva detto sotto voce. E con la scusa di mostrarmi un idolo giapponese, regalo di suo fratello alla mamma, arrivato da Lione il giorno avanti, mi aveva condotto nello strano salottino, dove quei piccoli lumi con globi a colore diffondevano fantastica luce attorno all'idolo istallato in un angolo su una specie d'altare. "Sono stata troppo dura e inconsiderata con voi - disse. - Volevo chiedervene scusa per lettera da Kiel; me n'è mancato il coraggio." "Eccesso di delica tezza da parte vostra" risposi. "Lasciatemi parlare - continuò. - Avevate ragione. Allorché una donna dice a un uomo quel che io ho osato di dire a voi l'altra volta, merita anche una risposta peggiore di quella che voi mi deste ... Ma io ero turbata da un'illusione; credevo che il mio contegno v'impedisse di aprirmi l'animo vostro, e pensai di porgervi un mezzo per vincere il ritegno che vi faceva indugiare. Mi attendevo uno scatto ... Invece, voi foste glaciale, riserbatissimo.. Quando, il mercole dí appresso, già stavate per parlare ... Oh, avevo sofferto tanto in quei giorni di intervallo! Mi ero sentita cosí avvilita, cosí offesa dalla vostra inattesa esitazione! ... E v'interruppi bruscamente, con la malvagia volontà di prendermi una rivincita ... Vi prego di perdonarmi; sono stata perversa. Me ne pentii quasi subito. L'orgoglio ci fa commettere tante cattive azioni!" "Ma niente affatto! ... " "Sí, sí! ... Ditemi che mi avete perdonato ... , che mi perdonate! Io non ho saput o indovinare quale sarebbe stata la risposta che stavate per darmi. Se fosse quella che mi ero lusingata di ricevere ... " "Ah, Nelly! - la interruppi, prendendole le mani che ella abbandonò tra le mie. - È stata una disgrazia! La mia risposta non era, forse, quella che io avrei voluto darvi e che voi desideravate, ma non tale però da precluderci l'avvenire; mentre oggi ... " Non mi resse l'animo di andare innanzi. Vidi riempirsi di lagrime quei begli occhi che mi fissavano con vivissima ansietà, e le sue labbra, improvvisamente impallidite, agitarsi per balbettare: "È dunque vero ... quel che mi hanno detto?" "Non voglio ingannarvi, non posso mentire; sarebbe pietà troppo crudele, e indegna di voi e di me". Ella pianse un po' in silenzio. Estremamente commosso, io la pregavo di frenarsi. Se qualcuno fosse venuto a sorprenderci? "La colpa è stata mia! ... Debbo scontarne la pena!" ella disse, asciugandosi lestamente gli occhi, e facendo sforzi per rimettersi. Io potevo padroneggiarmi a stento. I n quel punto ho capito come mai un'onesta persona possa talvolta lasciarsi indurre a commettere un'inesplicabile infamia. Pensavo all'"altra", avevo il cuore, o meglio, i sensi invasati dall'"altra", che fidava nella mia parola come io fidavo nella sua, e intanto ci mancò poco, assai poco, che io non mi lasciassi lusingare dalla circostanza di giocare una partita doppia con lei e con miss Nelly. E, guarda stranezza della vita! avrei fatto bene. Per comportarmi onestamente, mi sono, forse, lasciato scappar d i mano la felicità! - E forse - soggiunse Punzi - l'hai fatta perdere a un altro! - Mi è rimasto nella memoria l'idolo giapponese che ci guardava da quell'angolo con gli occhi di vetro enormemente spalancati, nelle cui pupille si riflettevano le fiammelle colorate dei lumi, e non ho potuto dimenticare le ultime parole di miss Nelly, quasi un singhiozzo: "Sempre tardi!" - Sempre tardi? ... Perché? ... - È il segreto di quell'anima dolorosa, ed io non ho ardito di domandarle una spiegazione. Sempre tardi! Potrebbe essere il motto di tante buone creature di questo mondo. Motto esplicativo di mille oscure tragedie della vita, non meno triste, anzi assai piú triste di quelle che finiscono con un veleno o con un colpo di pistola; tragedie che tormentano lunghe esistenze, e non hanno neppure il compenso di destare interesse e commozione attorno a loro. - Magro compenso! - esclamò Punzi. - Dopo, quando miss Nelly non era piú qua ed io non sapevo dove poter rintracciarla, ho sentito schiudersi nel mio cuore il germe nascosto di un affetto che avrebbe dato certamente un altro indirizzo alla mia vita. Ed ora che la so morta a Calcutta ... - È morta? - Lo ignoravi? ... Ora mi par di avere qualche cosa che mi si imputridisca nel cuore e vi spanda miasmi deleteri. - Oh, rassicurati! - fece Punzi. - "Vita mors est, et mors vita", ha detto qualcuno -.

. - Certi quadri, come questo che abbiamo visto ora ora ... (O, dissi: come questo che abbiamo sotto gli occhi? ... Non importa ... Si parlava di un quadro che era un'armoniosa festa di colori, di una processione fiorentina del quattrocento? Sí, sí, mi pare appunto di questo ... ) Certi quadri sono anche una musica per gli occhi. Le due arti si confondono insieme talvolta. La pastorale del Beethoven non fa l'impressione di un paesaggio dipinto?" "Con un po' di buona volontà, sí". E sorrise. Questa volta portava un abito di colore azzurro cinereo, con sprone sul petto di seta chiara, lameggiata di oro, e collare della stessa stoffa; e sotto il cappellino di tulle nero con ricami gialli, i capelli arruffati su la fronte spiccavano con toni dorati piú ardenti, e gli occhi sembravano piú azzurri, piú limpidi, sorridenti come cieli di primavera. Com'è dunque che io potei dirle il giorno dopo - il giorno dopo, perché da prima riparlammo del quadro veduto insieme - com'è che potei dirle: "Voi siete di ghiaccio. Avete nel cuore le nevi della vostra Russia. Perché mi fate soffrire? Perché non mi dite una parola di speranza?" "Perché certe parole non si dicono mai; s'indovinano". Ebbi un sussulto, e le presi la mano inanellata. Non me la concedette, ma non la ritirò ... Questa indifferenza m'impedí di baciargliela. Guardai il serpentello col dorso punteggiato di rubini. "È un simbolo?" domandai. "Forse. Un'ammonizione, certamente: abbi prudenza!" Che fascino nella voce e nello sguardo! "Lasciatevi adorare!" esclamai. "Non posso vietarlo". "Che sarò per voi?" "Chi lo sa!" "Ci siamo incontrati invano?" "Può darsi". "Per me, no!" "Si dicono tante cose senza aver coscienza di dire una falsità!" Tremavo, intimidito dal suo sguardo glaciale, con un senso di ribellione e di furore in fondo al petto. Cosí devono tremare i leoni e le tigri sotto il fascino della domatrice che li percuote con lo scudiscio e li fa rannicchiare in un angolo della gabbia di ferro. "Sentite! - esclamai. - Mi avete attratto da lontano, per via di una forza misteriosa. Non pensavo affatto di venire qui. Un impulso improvviso mi suggerí: "Va' a Firenze!" E sono venuto e vi ho veduta lo stesso giorno del mio arrivo, quasi fossi accorso apposta per voi. Sono rimasto qui unicamente per voi ... Rompete l'incanto; liberatemi! Siete una maga?" L'amavo e la odiavo. Mi sentivo in piena balia di costei, e n'ero felice e avevo paura ... Ma è vero che io abbia avuto quest'altra conversazione con lei? ... In certi momenti mi sembra che io sia soltanto rimasto lunghe ore nella camera del mio albergo a fantasticare questi incontri, queste conversazioni, compiacendomi di creare le avventure di un romanzo possibile, dopo che il portoncino di via Enrico Poggi si era chiuso dietro a lei, ed ella era sparita e non avevo potuto rivederla. Non è incredibile? Eppure è cosí. Ma il resto? Sono dunque vissuto nove mesi in continuo sogno, in continua allucinazione? ... Se sapeste quel che provo qui alla fronte, e alla tempia! Una stretta, fiere trafitture! ... Non sono già pazzo, dottore? ... Ditemelo ... No; me lo direte all'ultimo, e tenterete di guarirmi ... O mi ammazzerò ... Non può durare a questo modo! Non dovrei dubitare; è assurdo. Si possono fantasticare alcuni fatti, intensamente, secondo il desiderio dell'istante, pensando: "Oh, se avvenisse cosí e cosí!" e credere per un momento che il desiderio vivissimo si fosse mutato in realtà ... Crederlo a lungo però, agire in conseguenza dell'avvenimento fantasticato e goderne e soffrirne e sentirne cosí sconvolta la vita, quasi tra esso e la realtà non ci fosse stato intervallo né contraddizione ... è anche piú assurdo! Non posso sospettare che io non l'abbia riveduta alle Cascine, in carrozza, con un bell'uomo che le parlava calorosamente, gesticolando, ridendo ... Che cosa le raccontava? Ella stava ad ascoltarlo quasi sdraiata, con la faccia rivolta verso di lui, stupita di quel che udiva; si scorgeva dagli occhi intenti e dai lievi accenni del capo. Si fermarono un minuto davanti al monumento del principe indiano; e fu cosí che io potei osservarla bene e notare che il pallore del mio volto e il fosco lampeggiare dei miei sguardi avevano attirato la sua attenzione. Perché anche questa volta ella finse di non riconoscermi? Perché anche questa volta io secondai la sua finzione? La vidi sparire allo svolto del viale; avevo la morte nel cuore. Chi era colui? Il marito o un amante? Dissi subito, risoluto: "Dovrà confessarmelo". Se io non mi fossi riconosciuto in diritto di domandarglielo, se io non avessi avuto la certezza che avrei potuto domandarglielo, avrei mai pensato: "Dovrà confessarmelo"? Intanto perché spesso mi nasce il dubbio se io sia andato quello stesso giorno in via Enrico Poggi? Ci sono andato, questo è certo; ma ho proprio suonato il campanello del portoncino? Sono stato ricevuto da lei? O la mia immaginazione ha creato il dialogo, che pure rammento parola per parola, tanto da riudire oggi la mia voce e quella di lei con le piú minute particolarità di accento e di gesti? Si può giungere a questo estremo d'illusione? Appena mi vide entrare ella fece una mossa di sorpresa ... Non ero piú capace di contenermi; quella sua mossa però m'impose di forzarmi ad essere calmo. "Mi permetterete un'indiscrezione" dissi. "Chi era colui? ... Ho indovinato". "Non siete maga per nulla. Sí, chi era colui?" "Un mio concittadino, di Pietroburgo". "Nient'altro?" "In ogni caso, è un segreto che mi riguarda". "Non vedete dunque che io fremo ... di gelosia?" "Avete torto. Soltanto il possesso di una donna può giustificare in qualche modo la gelosia. Bisogna essere barbari per essere gelosi. La creatura umana non può appartenere a nessuno: è libera. Esser gelosi significa esser padroni assoluti di un cuore, di un'anima. È bestiale ... scusate la cruda parola". "E impossessarsi violentemente di un cuore, di un'anima, maltrattarli, torturarli come lo chiamate?" "Io rispetto il diritto degli altri quanto il mio. Ho fatto forse qualche cosa per sedurvi? Due mesi fa ignoravo fin la vostra esistenza". "Voi sapete già quel che ha operato la vostra bellezza". "Me lo avete detto voi; non ho obbligo di credervi, perché non ho la possibilità di accertarmi se dite la verità o se mentite per raggiungere uno scopo qualsiasi". "Che cosa debbo fare per essere creduto?" "Niente. Non c'è modo di arrivare alla certezza". "Siete cosí scettica?" "Cosí ragionevole intendete dire". "Mi avete messo l'inferno nell'anima!" "Ci sono degli esorcismi, affermano i popi, per debellare l'inferno". La vedevo in nuovo aspetto. Sul bellissimo viso tremolava un'espressione di crudeltà, di maligna ferocia, di spietata raffinatezza nel godere del tormento altrui. I ceruli occhi limpidissimi sembravano intorbidati da improvviso rimescolamento fangoso. Ai lati delle rosee labbra apparivano due pieghettine lievi ma rigide che davano alla fisonomia il carattere ripugnante di una maschera. Rimasi a guardarla, interdetto. La trasfigurazione durò un baleno. Sorrise, mi stese una mano e soggiunse: "Siete un bambino!" Non avevo forza di risponderle. "Voglio essere creduto!" esclamai. "Voglio la luna!" rispose, contraffacendo il mio accento. "Che cosa debbo fare?" "Continuate ad amarmi! È assai lusinghiero per una donna". "Oh, Kitty!" Era la prima volta che la chiamavo per nome, e mi parve di rivelarle cosí l'immenso amor mio, come non avevo saputo mai fare fino a quel giorno. Sorrise nuovamente; ma tosto che feci atto di voler baciarle le mani, si rizzò in piedi, severa. Mi par di vederla qui, davanti a me, con le mani vietanti, col gesto di congedamento ... Dovrei dubitare? No, no! ... Per qual ragione avrei inventato questo significativo dialogo? Non una ma cento volte l'ho ripensato, senza mutarvi neppure una sillaba; e non una ma cento volte alla convinzione della realtà del fatto son seguiti sempre quel senso di perplessità, di incertezza, quella sensazione ineffabilmente dolorosa che mi stringe la fronte con un cerchio di ferro, che mi conficca due chiodi qui alle tempia ... Credete voi alla malia? Io sí. Credo che l'uomo possa acquistare, per via d'iniziazione, un quasi illimitato potere su la natura e sui suoi simili; benefico e malefico; malefico piú spesso, sventuratamente ... Avete letto il recente romanzo dell'Huysmans, Au de là . Non è un romanzo come gli altri; è storia antica e contemporanea nello stesso punto ... Oh! La mia fede nella magia non proviene soltanto da quel libro. I giornali francesi, mesi fa, hanno parlato a lungo dell'atroce vendetta di u no di questi maghi contro un infelice che era incorso nell'ira di colui, prete, a quel che dicevano ... Fate tacere per un momento i vostri pregiudizi scientifici, riflettete intorno al mio caso. Io ero a Napoli, tranquillo, spensierato ... e mi sento consigliare, mi sento anzi ordinare, non è eccessiva la parola: "Va' a Firenze!" Quella spiegazione che mi davo poco fa, la malia della melodiosa voce udita per caso nell'Acquario, è insufficiente. Mi si è presentata discorrendo, ed ho voluto manifesta rvela, perché debbo dirvi tutto quel che può aiutarvi nella diagnosi del mio male ... Ma la vera spiegazione è là; ne ho avuto coscienza sin dal giorno in cui dissi a Kitty: "Rompete l'incanto! Liberatemi!" Il mistero però non si schiarisce. Perché ella ha scelto me per sua vittima? Me ignoto a lei, lontano, che non posso averle fatto niente di male? ... Glien'ho fatto poi ... sono stato inesorabile, se è vero che ... Giudicherete ... Procediamo intanto ordinatamente, finché mi riesce. In poco piú di tre mesi, la mia passione era giunta al parossismo. La resistenza che colei mi opponeva, le scarse concessioni che si degnava di farmi, seguite subito da altre e piú vive resistenze, mi tenevano in uno stato di eccitazione di cui non può farsi nessuna idea chi non ha amato a quel modo. E la gelosia era sopravvenuta a metter legna al fuoco che mi divampava nel cuore, terribile! Ella aveva detto: "In ogni caso, è un segreto che mi appartiene". Dunque avevo indovinato! Qual altro genere di segre ti poteva mai esistere tra lei e quel giovane veduto in carrozza con lei alle Cascine? Avevo farneticato una settimana: cercarlo, domandargli impertinentemente: "Siete suo amante?" Insultarlo, sfidarlo ... E avevo insistito presso Kitty ... Mi aveva risposto ridendo. "Ah, non ridete, per carità!" le avevo detto supplicandola a mani giunte. Si era fatta seria tutt'a un tratto: "Io non metto la mia libertà alla mercè di nessuno! Con qual diritto pretendete di strapparmi una confessione, ammesso che ne abbia una da farvi?" "Vi amo!" "Non è una ragione per me". "Mi avete detto: "Continuate ad amarmi!"" "Visto che vi fa piacere!" "Che cosa sono dunque per voi?" "Uno che dice di amarmi". "Nient'altro?" "Anche questo è un segreto che mi appartiene. Può arrivare un giorno, un momento che stimerò opportuno di rivelarvelo". "Come siete crudele!" "Sincera piuttosto". E mentre ella pronunziava queste brevi risposte, mi fissava con gli occhi cerulei, limpidissimi, che però mi turbavano profondamente quasi rafforzassero l'opera della sua malia. Quel giorno sembrava proprio una maga, con quella scura vestaglia trasparente su fodera di seta gialla e con pizzi neri che le coprivano le mani e facevano risaltare gli anelli delle dita e i braccialetti ai polsi, di foggia stranissima, quasi rami attorti, di simboliche piante - immaginavo - con foglioline di smeraldi. Non erano state incoraggianti, subdolamente incoraggianti le sue parole? ... Allora io le domandai: "Lo avete riveduto?" "È stato qui mezz'ora fa". "Volete farmi la grazia di promettermi ... " "Che non lo rivedrò piú? ... E se lo amassi?" Mi avesse detto effettivamente lo amo, non avrei potuto sentirmi trafiggere con maggiore strazio. Impallidii, mi parve di morire! Ebbe pietà di me in quel punto? Mentí per confortarmi? "Non l'amo, no! ... Siete contento?" Scattai con tale impeto ch'ella non fece in tempo per impedirmi di prenderle una mano e di coprirgliela di baci. Dio mio! Com'era fredda quella mano! Infatti pareva esangue, tanto era bianca, senza traccia di vene sotto la pelle fina e lucente. Ho vivissimo il ricordo di questa sensazione di cosa ghiaccia ... Non è un'aberrazione della mia fantasia ... Eppure sono arrivato a dubitare anche di essa. Perché? Ecco: rammento di averla incontrata un giorno nei giardini di Pitti con le sue due amiche dell 'altra volta. Mi passò davanti senza guardarmi, e levava appunto in alto una mano per indicare non so che cosa; ed io, vedendo quella mano cosí bianca che pareva esangue, pensai cosí: "Dev'essere fredda come il ghiaccio! ... " Se l'avessi realmente baciata, avrei pensato: "È fredda come il ghiaccio!" Avrei ricordato la impressione ricevuta ... Ah, se poteste sentire che male mi produce questo cerchio qui! Se poteste sentire come mi si conficcano piú addentro i chiodi delle tempie! ... Vorrei non poter pensare! Soltanto non pensando avrei un po' di requie! ... Ma ci accostiamo alla fine. Sopporterò questa tortura; voi troverete un rimedio per addormentarmi il pensiero ... C'è un rimedio? Ah! ... Benissimo! Vivevo di odio, di gelosia, di amore sfrenato ... Avrei voluto fuggire lontano, ma non potevo. Restavo per lunghissime ore nella camera del mio albergo; mi aggiravo per Piazza dell'Indipendenza passavo e ripassavo davanti al fatale portoncino di via Enrico Poggi senza osare di stendere la mano al campanello, quasi quel portoncino non fosse mai stato aperto per lasciarmi entrare, e con l'angoscia che forse non si sarebbe aperto mai, mai per me! Non è strano che mi torturassi per questo, se ormai bastava che stendessi la mano al campanello per venire introdotto nel salottino azzurro, varcando l'andito coi busti, coi vasi di spetriste e di cactus, e in fondo, la vetrata medievale con vetri a colori? Passavo e ripassavo, sconvolto dal sospetto: "In questo momento forse egli è là! ... Forse la stringe tra le braccia! Forse ella si abbandona a lui, follemente! O, forse lo fa soffrire al pari di me, assaporando il maligno godimento della sua potenza di nuocere ... !" Suonai violentemente. Il campanello ondulò a lungo per l'andito, mentre io mi pentivo di essermi annunziato a quel modo; e il ritardo del servitore che doveva venir ad aprire mi faceva imaginare che ella avesse ordinato di fingere che nessuno era in casa. Invece ella mi accolse con aria lieta. "Oh! ... E venite qui cosí fosco?" "L'unico mezzo di farmi accorrere raggiante di felicità, voi lo sapete, è in mano vostra". "Non posso adoperarlo. Una fatalità mi perseguita ... " "Siete voi, voi, la terribile fatalità!" "È vero! E non so piú attristarmene, né commovermene. Contro l'ineluttabile non si combatte". La sua fisonomia aveva mutato espressione; la qual cosa mi faceva pensare che l'aria lieta con cui ella mi aveva accolto non fosse stata sincera. "Eravate ... sola?" "Sola ... coi miei pensieri, come dicono i personaggi di certi drammi". Voleva riapparir gaia ... E anche questo mi mise in sospetto. Guardavo attorno, se mai scoprissi nel salotto un indizio di disordine, nelle seggiole, nelle poltrone, non potuto riparare per la fretta ... Niente! "Che cercate con quegli occhi gelosi? Il vostro preteso rivale?" E, dopo una breve pausa, soggiunse: "Si è ucciso ieri; per me, ha lasciato scritto. Che pazzia! ... Voi non ne commettereste una simile ... " "Forse! ... " risposi cupamente. E la lasciai. Mi era parsa coperta dal sangue del misero che si era ucciso per lei. E non aveva nell'accento nessun fremito di compassione! Non una lagrima negli occhi azzurri limpidi, impassibili! Che terribile creatura era ella dunque? Aveva bisogno di sangue umano per le sue orrende incantagioni? "Forse!" mi era sfuggito. Ma sentivo che mi spingeva furiosamente verso l'abisso, verso la morte. Chi sa di quanti altri disastri era colpevole! ... Ed io non volevo morire! Amarla, possederla volevo, sentirla tremare sotto la forza della mia volontà, domarla ... annullarla, volevo! Annullarla! Per parecchi giorni fui sotto l'ossessione di questa idea! Vendicare gli altri e me, impedirle di esercitare sopra nuove innocenti creature la sua malefica influenza! Nello stesso tempo, mi sembrava di compire un gran sacrilegio attentando soltanto col pensiero alla sua perfetta bellezza. Chi ero io da pretendere di essere riamato da lei? Non era anche troppo ch'ella mi avesse permesso di continuare ad amarla e di ripeterglielo quante volte mi fosse piaciuto? "Può arrivare un giorno, un momento! ... " Non significava: "Sperate?" Cercai nei giornali la notizia di quel suicidio; nessuno ne faceva cenno. Aveva ella mentito? ... Riflettei che non mi aveva detto che colui si fosse ammazzato a Firenze o in qualche altra città italiana. Era tornato, probabilmente a Pietroburgo, lusingandosi di sfuggire al letale potere di lei ... Ma inutilmente! Ella aveva reciso il filo di quella vita come una inesorabile parca, da lontano! ... Neppure io avrei potuto evitarla, se tardavo ancora, se non mi decidevo ... E mi decisi, una no tte, dopo lungo dibattermi tra le smanie dell'insonnia e della passione che piú non distinguevo se fosse amore o odio, o l'uno e l'altro insieme. E mi immersi subito in un sonno cosí profondo da impensierire le persone dell'albergo. Quando risolsero di accertarsi se stavo male, erano le due pomeridiane. Mi sentivo calmo, e non me ne maravigliavo. Il mio primo pensiero, appena scosso dalla voce del cameriere, era stato: "Annullarla!" Certamente il mio spirito aveva continuato durante il sonno l'intenso lavorio della giornata precedente, e aveva maturato e rafforzato la mia decisione. Io non so qual uso voi farete della rivelazione che sto per farvi. Se la vostra professione di dottore v'impone dei doveri, adempiteli senza esitare. Ho preveduto questo caso. Qualunque cosa sia per accadere, non potrà mai raggiungere quel che dovrei continuare a soffrire tacendo ... Notate: ho la visione netta, evidentissima della terribile scena, come se fosse accaduta poche ore fa. Ciò non ostante ... Oh! È spaventevole, dottore! Aveva ella qualche tristo presentimento? Non si sedette accanto a me al solito posto, ma dietro al tavolino con la scusa di accendere una sigaretta. Io rifiutai quella che mi era stata offerta, sottilissima, troppo profumata pel mio gusto. "Non dite nulla? Che guardate? Questo spillone?" "Sembra un pugnaletto". "È un ornamento femminile di certe regioni del Caucaso." "D'argento?" "Di acciaio, e ben temprato". Tirò due o tre boccate di fumo, socchiudendo gli occhi deliziata, poi soggiunse: "Vi do una notizia che vi farà gran piacere". "Finalmente!" "Non quella che voi imaginate. Parto". Balzai in piedi, sbarrando gli occhi. "Non è vero!" balbettai. "Poiché ve lo dico!" "E io? ... " Ogni possibilità mi era passata per la mente all'infuori di questa ch'ella partisse, che si sottraesse cosí alla mia vendetta! ... Credetti che me lo annunziasse quasi ad irrisione, per sfida, mentre io non avrei potuto mai levarmi di addosso il funesto dominio del suo filtro, del suo misterioso potere, che forse avrebbe operato piú terribilmente da lontano ... Infatti, se ella mi avesse detto in quel momento, invece di: "Parto!" "Domani non spunterà piú il sole, tutto rimarrà sepolto in tenebra ete rna! ... " anche credendole, ne sarei stato assai meno atterrito. "E io? Io? ... " replicai. "Che volete che ne sappia? Farete quel che vi piacerà ... Mi dimenticherete, innanzi tutto". "Fatemi prima dimenticare! Datemi qualche vostra magica bevanda di oblio!" "Si dimentica cosí facilmente!" "Non quando si ama come io vi amo! Neppure in questo momento mi credete? E mi vedete agonizzare!" Parlavo a stento, ansavo; sentivo gorgogliarmi nel petto un rantolo di morte; gli occhi mi si erano annebbiati, un lentore mi invadeva. Dovetti appoggiarmi al tavolinetto per non cadere. "Ho visto uno dei vostri grandi attori fare qualche cosa di simile. Siete inarrivabili voialtri italiani nella espressione di certi stati d'animo". Era come dirmi: "Commediante!" Afferrai lo spillone, lo brandii minacciosamente. "Bravo! - esclamò - Ferite!" E si rizzò e mi offerse il seno coperto di trine. Ebbi la forza di sorridere, di rispondere con profonda dissimulazione "Sapete bene che non posso! ... Ah, Kitty!" "Non mi amate fino al delitto? Misero amore, il vostro!" Mi provocava, mi aizzava ... Era proprio sicura che non avrei potuto colpirla? Con una mano si tolse la sigaretta di bocca, esalò lentamente con voluttuosissimo godimento il fumo dalle labbra ristrette e dalle rosee narici, e aperse le braccia, ripetendo: "Ferite!" "Sí, è vero - dissi -. Se vi amassi in modo estremo ... " Mi accostai, scartai con una mano la trina, appuntai lo spillone in direzione del cuore ... " ... farei ... cosí!" Lo spillone era penetrato senza nessuna resistenza fino alla capocchia ... Non diè un grido ... Travolse gli occhi e mi si rovesciò addosso, con un lieve sussulto per tutto il corpo. Che cosa io abbia fatto dopo non so. Ricordo soltanto che passai la nottata presso San Domenico su la strada di Fiesole, seduto su un muricciolo, e che la luna inondava la campagna col suo pieno lume sereno, e che i grilli zirlavano? tra le erbe dei prati attorno e che un cane abbaiava, a intervalli, lontano. Ricordo che, a giorno alto, tornai a Firenze e che dovetti mettermi a letto con la febbre ... Volli leggere i giornali ... E vidi con stupore che nessuno di essi parlava dell'assassinio della bella signora russa in via Enrico Poggi. Tre giorni dopo, non interamente guarito, mi levai da letto, e mi feci condurre colà da un fiacchere, senza dare indicazione precisa ... La via era silenziosa, come al solito; tutti i portoncini chiusi; tutte le persiane delle finestre o chiuse o socchiuse ... Ne ssun indizio che in quella via, in quella nota casa fosse avvenuta qualche cosa di straordinario. Sapevo che gli assassini sentono una irresistibile attrazione verso i luoghi dov'essi hanno commesso un delitto, e pensavo: "È vero! È vero!" giacché un vivo impulso mi dominava, un'imperativo suggerimento mi diceva: "Scendi dal legno! ... Domanda a qualcuno ... Saprai!" E il terrore che mi invadeva non era quello di ottenere la certezza del mio delitto, ma l'opposto. Suonai replicatamente al portoncino. Nessuno venne ad aprirmi. Una donna che usciva dalla casa accanto si fermò a guardarmi esitante, poi mi disse: "Sa? Non c'è nessuno". "Abitava qui ... una signora ... " "È partita, da un pezzo. L'appartamento è sfitto". "Da un pezzo?" domandai stupito. "Eh! Da tre settimane, almeno". Mi sentii dare un tuffo al sangue ... E da quell'istante ho questo cerchio, qui, attorno alla fronte, e questi chiodi confitti nelle tempie ... Com'era possibile! Non l'avevo uccisa giorni addietro? Partita da tre settimane! ... O dunque? In che modo io sono vissuto questi ultimi due mesi? In che modo tutto quel che vi ho narrato si è andato formando nella mia mente con la suprema evidenza della realtà? Io la ho vista ... le ho parlato, ho udito la sua voce. È certo che ella abitava colà, in quel villino di via Enrico Poggi. È certo che io sono stato piú volte in quel salottino azzurro ... Visitai la casa, col pretesto di prenderla in a ffitto ... Non c'erano piú i mobili, niente; le nude pareti ... E c'era tuttavia il suo profumo, il profumo acutissimo di quelle sue sigarette ... Se non fossi stato colà altre volte, avrei potuto riconoscerlo? Il guasto è qui, nel mio cervello ... Dottore, liberatemi da questo cerchio alla fronte! ... Strappatemi questi chiodi dalle tempie! ... Non voglio impazzire! ... È orribile! ... Se non è morta, se ha potuto sopravvivere al colpo dello spillone conficcatole nel seno ... è lei, la maga, che continua a tormentarmi! ... Non crollate la testa ... È lei! ... Che male le ho fatto? L'amavo! ... Oh! Immensamente! ...

La colpa è nostra; non abbiamo saputo trovare la chiave -. E non la seppero trovare né allora, né poi. Don Ottavio Giglio però, quantunque non avesse testimoni del fatto, sporse querela contro quel gobbaccio che gli aveva rovinato il fondo. E ora stava, giorno e notte, in guardia lassú tra i fichi d'India, per fargli fare una fiammata con lo schioppo a due canne, a quel gobbaccio. Aveva una gran paura che non gli rubassero davvero l'incantesimo della Grotta dalle sette porte, dopo aver saputo da don Tino che il Rutilio, quello proprio autentico, era nelle loro mani. Forse mancava la chiave. Don Tino gli aveva mostrato il libro con una pagina strappata. - Giusto quella della chiave, sacro Dio! ... Ma può darsi che c'inganniamo -. Dal canto suo, mastro Rocco stava in guardia contro don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula. Gli era entrato il sospetto che volessero operare soli, da quella domenica in cui aveva visto don Tino in stretti ragionamenti con don Ottavio, sotto il portone di casa di costui. Don Tino gesticolava, si strappava i capelli, e don Ottavio approvava, serio serio. - Perché smisero di parlare, appena mi accostai? - Ma egli non era uomo da lasciarsi canzonare da quei due. Si lasciò canzonare però da Zangàra, Perillo e Passolone, tre burloni che, avuto vento degli scongiuri fatti da mastro Rocco con don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula, volevano divertirsi. Mastro Rocco se li vide arrivare lassú una mattina, Zangàra col trombone, Perillo col clarinetto e Passolone col corno di caccia; e assordavano le gole di Rosignolo, dell'Arcura e di Santa Margherita. Tru! Tru! Titiri tru! - Ehi! Fate la mattinata alle mulacchie? - Andiamo per una scorpacciata di fave novelle, da un amico qui vicino - rispose Perillo. - Buon pro! - E voi, la trovatura quando la prenderete? - gli domandò Zangàra, ridendo. - La prenderà don Tino, - aggiunse Passolone - ora che possiede il Rutilio -. Mastro Rocco alzò la gobba, tentennando il capo, mostrando indifferenza: - La vera trovatura sono i quattrini in tasca -. Passolone raccontò di aver inteso dallo stesso don Tino che egli l'avrebbe presa certamente l'ultimo venerdí di marzo, a mezzanotte, perché quella notte aveva luogo lassú, presso la Grotta dalle sette porte, la fiera delle fate e degli spiriti che accade ogni dieci anni. Fortunato chi ci si trova! - Non lo sapete che il pecoraio di massaio Ravagna, anni fa, ci capitò in mezzo per caso, e le Fate gli vendettero tre arance per un soldo? Il grullo le diede al padrone, senza sapere che fossero di oro massiccio; cosí è arricchito massaio Ravagna -. Mastro Rocco lo guardava in viso con tanto di occhi, pensando allo scellerato di don Tino che voleva fargli quel tradimento; e si tenne la notizia in corpo, fingendo di non averne saputo niente, fino all'ultimo venerdí di marzo, che era il venerdí santo. Quel giorno non vedeva l'ora che annottasse; e seduto su di un sasso davanti la grotta, non senza un po' di terrore in corpo, - con gli spiriti non si canzona - guardava quel fioco chiarore di luna tra le nuvole dense, dietro i colli di Daguara, che illumin ava la campagna silenziosa; non s'udiva cantare neppure il rosignuolo che soleva cantare ogni notte laggiú, tra i pioppi dell'Arsura. Poi egli era andato ad appostarsi su d'un masso per sentire il rumore dei passi di coloro che dovevano arrivare: don Tino, don Micio e la sonnambula. Non stormiva foglia nell'oscurità, e non si scorgeva ombra umana a quel po' di barlume del cielo nuvoloso. I tronchi degli alberi gli mettevano paura; e i macigni e le macchie già gli parevano strane figure di mostri. Verso la m ezzanotte fu buio pesto, appena la luna venne intieramente velata dalle nuvole fosche ... Ed ecco, qua e là, tra le macchie, lumicini che vanno e vengono, e si spengono e si riaccendono; ed ecco colpi di cembalo coi sonaglini che si agitano, e tacciono, e si rispondono; ed ecco grandi fiammate che spariscono subito. - Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta! - E i lumicini erravano qua e là tra le macchie, dietro i fichi d'India, tra i melagranati di massaio Baccannello e il pagliaio di Cudduzzu; e le fiammate scoppiavano dietro i massi, tra gli ulivi, al suono dei sonaglini del cembalo agitati continuamente ... - Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta! - I lumicini si accostavano da tutte le parti, stringendolo in un cerchio, e le fiammate pure: e mastro Rocco si sentí diventare piccino piccino quando scorse, al chiarore d'una fiammata, una figura mostruosa che gli parve di fuoco e spari. Poi, da destra, da sinistra: - Psi, psi, psi! - Gli spiriti gli accennavano: - Psi, psi, psi! - - Ah, madonna santissima! Perché tremo? Mi lascerò scappar di mano la fortuna? - E mosse incontro agli spiriti che continuavano a fargli: - Psi, psi, psi! - Tratteneva il fiato, vacillando, inciampando, senza una goccia di sangue nelle vene, fino a che gli spiriti non gli saltarono addosso, picchiandogli forte sulla gobba. - Mamma mia! ... Santissimo Cristo alla colonna! Santa Agrippina protettrice! - egli urlava, segnandosi per cacciarli via, correndo a rotta di collo verso la grotta, inseguito fino alla porta dagli spiriti, che picchiavano sulla sua gobba, facendo scrosciare catene infernali! ... E non ritentò piú, quantunque don Tino e don Micio il crivellatore lo stuzzicassero; neppure quando si convinse che la burletta degli spiriti gli era stata fatta da Zangàra, Perillo e Passolone. A chi gliene parlava, giurava che non era vero; giurava che quella nottata egli si trovava a Palagonia per la festa del Santo Sepolcro; e rigiurava con le mani in croce, per non far ridere alle proprie spalle. Intanto si divorava il fegato, e scavava, scavava, dopo trovate certe belle figurine che il barone Padullo gli aveva pagato dieci scudi. Chi sa quanto valevano, se colui si era spinto fino a pagarle dieci scudi! Allora il barone lo vide arrivare piú spesso, insieme con un vecchietto che mastro Rocco diceva compagno di scavi. Visto però che essi portavano sempre figurine simili alle prime, tutte sporche di terra, un giorno il barone disse a mastro Rocco: - Trovate qualcosa altro, o risparmiatevi di venire. Di queste, guardate, ne ho già pieno un armadio -. E gli additava le statuette - Cerere seduta e con le mani sui ginocchi - schierate in fila dietro i vetri dell'armadio, tra vasi greci, lucerne, bronzi e monete antiche d'ogni grandezza ... Mastro Rocco stette un bel pezzo senza farsi vedere. Quando gli si ripresentò, insieme col solito vecchietto, posata delicatamente per terra la cesta coperta di fieno portata sotto il braccio, cominciò a gesticolare, annunziando a quel modo i meravigliosi oggetti riposti nella cesta e coperti di fieno: - Signor barone, gran novità! Voscenza resterà incantato! - Il barone si era messo gli occhiali per ammirare meglio; e vedendo quelle quattro figurine di Cerere simili in tutto alle altre ma con tanto di pipa in bocca, invece di restare incantato cominciò a urlare: - Ah, mastro Rocco ladro! Ah, mastro ladro! - E avrebbe, con una pistolettata, sfracellato il cranio a quei due, se non fossero saltati dalla finestra a pian terreno, senza neppur badare che potevano rompersi il collo. Mastro Rocco si ruppe soltanto un braccio; e fece dire una messa al suo santo protettore che lo aveva aiutato in quella circostanza. E col braccio legato al collo, imprecava al tristo compagno da cui gli era stata suggerita la bella novità della pipa! - Non bastava aver fatto cosí bene la forma dell'idoletto che aveva ingannato il barone Padullo? - D'allora in poi, mastro Rocco si contentò soltanto di scavare e scavare. E se don Tino e don Micio gli riparlavano del Rutilio, rispondeva: - Non me ne parlate. È falso! - Pure non disperava di poter avere in mano, un giorno o l'altro, l'autentico, quello del Cinquecento, come gli aveva detto il decano Vita. L'anno dopo, mentre padre Mariano d'Itria, confortandolo in punto di morte, gli raccomandava di chiedere a Dio la grazia dell'anima: - La vera grazia sarebbe stata un buon Rutilio! - esclamò mastro Rocco con voce mezza spenta. E gli voltò la gobba.

- Abbiamo fatto male a legarci col sangiovanni! Senza il comparatico, ora non sarebbe niente! - Janu era diventato serio, parlava poco. Spesso restava, con le mani incrociate su lo stomaco, guardando trasognato. - Che avete, con quel muso? - gli domandò un giorno Filomena. E non ricevendo risposta, cominciò a martoriarlo, per via del padre: - È tutto lavoro di quel vecchiaccio! ... Non mi può soffrire. Invece d'inventare tante infamità contro di me, perché non si sgrava la coscienza dandovi la roba della mamma? - Sta' zitta! - rispose Janu a voce bassa. - Anzi voglio parlare! - E andò a piantarglisi davanti, con le mani sui fianchi, inviperita. - Vi ha cacciato di casa per non darvi la roba. Dovevate ubbidirlo; dovevate sposare la baronessa, la principessa, quella del naso moccioso, la Nera! ... - Sta' zitta! Sta' zitta! - Ah, mi fossi rotta una gamba, la notte che scesi la scala in punta di piedi per fuggire di casa con voi! ... Ma c'è Dio lassú; e prima che io muoia, mi farà la grazia. E quel vecchiaccio lo vedrò passare davanti la mia porta, su di una scala, accoltellato! - Vuoi finirla? - E tutte queste lagrime che verso, saranno altrettante gocce del suo sangue, saranno! - Vuoi finirla? - Filomena, all'opposto, alzava le braccia con le mani aperte, urlava piú forte, imprecando: - Febbre maligna, Signore! ... Mala morte, Signore! ... Senza confessione e senza sacramenti, Signore! - Vuoi finirla? - Quel giorno non la finiva piú; e continuò un bel pezzo a strillare, a strapparsi i capelli; poi si buttò su una sedia in un angolo, col viso nel grembiule, piangendo la sua mala sorte. Janu si sentiva scosso. - Asina? Asina! - le diceva con voce raddolcita. E si aggirava per la stanza quasi in cerca d'un oggetto che non trovava, atterrito di quelle imprecazioni lanciate sul capo di suo padre. - Asina! Asina! Che motivo c'è? - Insomma, perché quel muso? Chi vi mette su contro di me? È vostro padre, non lo negate; è lui! - Fammi un santissimo piacere - le disse Janu bruscamente. - Mio padre non nominarlo piú, né punto, né poco! - Filomena, rimosso il grembiule dagli occhi, lo guardava stupita, mentre Janu andava via con le imprecazioni della moglie dentro gli orecchi. E la notte che lo zi' Peppe Cipolletta venne a svegliarlo, perché il vecchio si trovava in punto di morte, Janu sentí corrersi brividi freddi per la schiena, e ricordò subito quelle imprecazioni, piú atterrito d'allora. - Lo vedi? Lo vedi? - rimproverava alla moglie, vestendosi in fretta e in furia, al lume della lanterna della zi' Peppe. - Oh, bella madre Maria! ... Lo vedi? ... Lo vedi? ... - Filomena restava seduta sul letto, in camicia, ancora sbalordita dal sonno. - Sta male? - domandò. - Sta male? - domandò. - Ha la febbre maligna - rispose lo zi' Peppe. Janu cacciò un "oh!" lamentoso; sentiva rizzarsi i capelli. E le imprecazioni di sua moglie, d'un mese fa, tornarono a risuonargli dentro la testa: - Febbre maligna, Signore! Mala morte, Signore! Senza confessione e senza sacramenti, Signore! - Per istrada vacillava, inciampava nei sassi. Nel salire le scale, quelle scale di casa sua che non aveva piú rifatto da cinque anni, lo zi' Peppe dovette reggerlo, se no ruzzolava. - C'è il confessore - gli disse una delle vicine accorse per dare assistenza, fermandolo sull'uscio della camera dell'ammalato. E nel silenzio, a traverso l'uscio, si udiva la voce del sacerdote, che parlava forte perché il moribondo sentisse: - Massaio Croce! ... Massaio Croce! ... Questi è il Padre del perdono. Com'egli perdonò a coloro che lo crocifissero, cosí noi dobbiamo perdonare anche ai nostri nemici ... Pensate che da un momento all'altro potrete trovarvi davanti il tribunale della sua eterna giustizia! ... Pensate che io, suo indegno ministro, non potrò darvi l'assoluzione, se persistete nell'odio! ... Non l'odiate? ... Gli perdonate? ... Perché dunque non volete vederlo? ... È figlio vostro! Dategli la benedizione, massaio Croce; ve lo comanda Gesú Cristo! ... - Janu spalancava gli orecchi, strizzandosi le dita, trattenendo a stento i singhiozzi, quantunque le lagrime gli lavassero la faccia. E quando, dopo un momento di silenzio, vide aprire quell'uscio, si precipitò ginocchioni davanti il letto del moribondo, baciandogli e ribaciandogli le mani. Il prete li aveva lasciati soli, padre e figliuolo, tirandosi l'uscio dietro. - Sono in punto di morte! - disse allora il vecchio che parlava a stento. - Sono in punto di morte ... e non voglio dannarmi! ... Ma, sappilo: quella troia ... se la intende col compare! ... Se la intende col compare! ... - Janu s'era sentito piombare una gran mazzata sul capo: - Oh! oh! oh! Che trafittura, padre mio! Con che trafittura mi lasciate, padre mio! - - Sí, è vero! ... È vero! ... Al letto di morte non si mentisce ... Voglio però accertarmene con questi occhi ... Quando avrò veduto con questi occhi! ... - E di tanto in tanto Janu rimaneva curvo sul manico della zappa, guardando le zolle rivoltate; e la testa gli girava peggio d'un arcolaio, mentre il bambino, che aveva voluto andare a ogni costo in campagna col babbo, si divertiva a scalpicciare l'acqua melmosa della gora vicina. - Sí, è vero! È vero! - ruminava Janu insistentemente. - Al letto di morte non si mentisce ... Voglio però accertarmene con questi occhi ... Quando avrò veduto con questi occhi! ... - Non lo sapeva neppur lui che cosa avrebbe fatto dopo aver veduto con quegli occhi; e da piú settimane, giorno e notte, non pensava ad altro, non sognava altro. Si sentiva impazzire. E quel giovedí grasso era scappato in campagna, appunto per ingannare a colpi di zappa su la terra dura la gran vampa che lo coceva. Inutile! Dentro la testa vuota vuota gli sbattevano sempre quelle nottate passate al vento e alla pioggia, sotto la finestra di lei; e quella notte che erano fuggiti insieme, perché suo padre non voleva. Se l'era tolta in collo come una bimba, a piè della scala, gli pareva ieri, gli pareva! E s'era rovinato per mantenerla come una regina! ... Si sarebbe buttato giú dallo sbalzo della Mammadraga, se lei gli avesse detto: - Buttati giú! ... - Grullo! ... Povero grullo! Le braccia gli si rallentavano; gli occhi gli si velavano di lagrime che non potevano sgorgar fuori, e la gola gli si serrava per quel gruppo di pianto che rimaneva là, da un mese, a soffocarlo: - Ah, sangiovanni traditore! ... Traditore anche san Giovanni di lassú, che non ha avuto né occhi, né orecchi, se fino a questo momento non si è vendicato neppur lui! - In quel punto il bimbo era accorso con un grillo fra le dita - Papà, papà, serbalo bene, voglio portarlo al compare! - Janu glielo strappò di mano rabbiosamente: - Non nominarlo questo infame! - Ah! Ah! Questa sera ... glielo dirò! ... E lo dirò ... anche alla mamma! - piagnucolava il bambino, coi pugni su gli occhi. Janu, tremante come una foglia, si stringeva forte forte la fronte che gli pareva stesse per scoppiargli. Come mai non gli era balenato in mente prima? - E se il bambino non è mio? ... Se è figliuolo ... ! - E il bambino non smetteva: - Ah! Ah! Questa sera ... lo dirò ... al compare! ... E lo dirò ... anche ... alla mamma! - Zitto! ... Non nominarli! ... Zitto! - Janu, che già si sentiva montar il sangue agli occhi, cercava d'intimidirlo, scuotendolo pei braccini: - Zitto, ti dico! - Il bambino rizzò arditamente la testina arruffata, col viso impiastricciato, minacciante: - Invece chiamerò papà il compare, come mi ha detto ... la mamma! ... - Ah! - urlò Janu. - Ti ha detto cosí? ... Ti ha detto cosí? ... - No, papà! No, papà! ... - Ma Janu non sentiva, non ci vedeva piú, brandendo la zappa ... E quando ebbe coscienza del terribile delitto commesso, pallido come un morto, con la bocca inaridita, il petto ansante, spalancò gli occhi attorno attorno: - Se qualcuno m'ha visto! - Per la vasta pianura, per le strade e le viottole che serpeggiavano, ridenti di sole, tra il verde novello dei seminati, non si scorgeva anima viva. Sotto la tettoia, accanto alla siepe dei fichi d'India, soltanto l'asino - con la testa alta e le orecchie ritte - masticava una boccata di paglia, guardandolo fisso ... - Ma quello lí non può parlare! - Compare Pietro era già in cucina e metteva legna sotto la pentola di rame per far bollire l'acqua da cuocervi i maccheroni. Filomena, accesa in viso, col fazzoletto turchino avvolto attorno al capo, grattava il cacio in un piatto dentro la madia, ridendo ogni volta che il compare veniva a darle un'abbracciatina alla vita, per passare il tempo. - Fermo, se vi riesce! ... Badate al fuoco -. E continuava a grattare, senza voltarsi, agitando i fianchi. - Perché non andate a ballare? - gli disse, sentendo nella casa accanto il bum-bum del cembalo della zia Maricchia che aveva maritata la figliuola, e fatto invito a tutto il parentado. - Il vero ballo sarà pel Mangiapicca, che si becca quella quaglia di Pinuzza. Buon pro gli faccia! - Vi fa gola, peccatoraccio? - Pietro scoppiò a ridere. - Sentiamo: che novità c'è? - disse Filomena. - C'è ... c'è che questa notte dovremmo tentare di farci sposini anche noi. - Siete ammattito? - No, no. Dovremmo ubbriacare compare caprone. - Siete ammattito? - E subito anche Filomena fu presa dal ridere: - Che idea! Ah! ... Ah! ... - Lasciatemi fare, comare! È una bella idea ... Vedrete! - E ridevano, ridevano; egli, reggendosi la pancia con le braccia; ella accesa in viso, col grembiule alla bocca, le pupille che le scintillavano e le carni formicolanti anticipatamente di piacere ... Appena scorsero sull'uscio di cucina compare Janu arrivato dalla campagna e che si era fermato a guardarli con quella faccia sbiadita da vero compare caprone, cessarono di ridere, imbarazzati. - Oh! ... Ben venuto, compare Janu - disse Pietro. - Si rideva ... di ... di ... - Facciamo buon fuoco, compare! - rispose Janu tranquillamente. Filomena, per darsi aria disinvolta, si affrettò ad additargli la salsiccia che fumava su la graticola: - Guardate: compare Pietro si è voluto scomodare ... - Non c'entrava, non c'entrava! Facciamo buon fuoco, compare! - Compare e comare si guardavano negli occhi, rassicurati. Poi, visto che la pentola levava il bollore, Pietro spezzò un ultimo ramoscello d'ulivo: - Comare, buttate giú la pasta. - E la pentola, bollendo, pareva gorgogliasse in cadenza al suono del cembalo della zia Maricchia che di là continuava a suonare bum-bum, agitando i sonaglini, mentre quei del parentado, saltando come un branco di capre sbandate, faceano ballare anche il solaio della cucina: e il Manciapicca si sgolava: - Balanzé! Turdumé! - Mangiavano tutti e tre in silenzio. Imbronciti per l'assenza del bambino voluto restare in campagna, come aveva detto Janu, insieme coi bambini di comare Nela, mamma e compare di tratto in tratto scoppiavano in rimbrotti: - Non so perdonarvela, compare Janu. Lasciarlo in campagna la sera del giovedí grasso! - E Filomena: - Dovevate portarlo via per forza. I bambini non hanno giudizio -. Janu li lasciava sfogare, senza piú scusarsi, e tentava di mandar giú qualche forchettata di maccheroni. Ma, con quella bocca piú amara del tossico, i bocconi gli restavano per la gola; doveva bere ad ogni po' un sorso d'acqua o di vino; e prendendo in mano il bicchiere col vino per accostarlo alle labbra, strizzava gli occhi. Quel liquido rosso gli richiamava in mente l'altro sprizzato al sole sulle verdi zolle di Pudditreddi dalla testina del bambino, sotto i colpi della zappa; e non avrebbe voluto rammen tarsene! ... Ah, la innocente creaturina aveva pagato per quei due scellerati, che ora cercavano di ubbriacare compare caprone! ... Ma san Giovanni benedetto avea tolto ogni lume a quei due! E glieli dava in mano, perché li scannasse insieme, come due porci nell'ammazzatoio! Cosí almeno andava in galera soddisfatto e col cuore in pace! Per questo si sforzava di finire il piatto di maccheroni che aveva davanti; per questo beveva e ribeveva, dopo che a ogni sorso di vino s'era inteso diffondere dallo stomaco un'onda di forza per tutte le vene. Poi, con lo stufato di maiale e la salsiccia di compare Pietro, il ghiaccio fu rotto. Fra l'odore dello stufato e della salciccia arrosto, fra il rumore dei piatti, delle forchette e dei bicchieri, né Filomena né compare Pietro fecero piú parola del bambino. Anzi, Pietro, vedendo che compare Janu non cessava di bere a sorsi, colpo su colpo, premeva sotto la tavola il piede alla comare che gli rispondeva ridendo a fior di labbra e a occhi bassi, intanto che faceva le parti. Pietro, infilzato alla forchetta un bel rocchio di salciccia, lo presentò al compare proprio davanti la bocca: - Mangiatelo per amor mio, compare Janu -. E gli versò anche da bere, colmando il bicchiere. - E quest'altro per amor mio! - Ma Janu, preso con due dita il rocchio offertogli dalla moglie, lo depose nel piatto: - Non mi ci entra; son pieno zeppo. Scoppio! ... E poi, questo vino mi ha rotte le ossa. - Che, che! Se non avete bevuto! - E Pietro tornava a mescergli, colmandogli il bicchiere. Ma piú Janu beveva e piú si sentiva diventar lucida la mente; e dalle viscere che gli si rimescolavano avvelenate, quasi gli fosse scoppiata la milza, gli montava, gli montava un'allegria cupa e feroce, di lupo che stia per sbalzar nel chiuso fra le pecore addormentate. Infatti alla ripresa del bum-bum del cembalo della zia Maricchia, disse ridendo: - Quelli lí, col loro bum-bum, non si riempono le pance! - E sentendo scoppiare un tuono e venir giú un rovescione che pareva il diluvio: - Ecco il vero bum-bum! - soggiunse, strizzando l'occhio. - Il Signore si trastulla a ruzzolar le botti pel paradiso. Sarà carnovale anche lassú ... Beviamo, compare! - Compare e comare si divoravano con gli sguardi e, sotto la tavola, si premevano i piedi piú forte ora che Janu sbadigliava, stirava le braccia e socchiudeva gli occhi, brontolando contro il maledetto succo di vigna che gli avea rotte le ossa. - Il compare ha sonno. E questo diluvio non smette! - esclamò Pietro. Ma il compare, ch'era piú desto di lui, vedendogli aprire la finestra e sentendo lo scroscio dei canali, che versavano come ruscelli: - Vorreste andarvene, con questo tempaccio? - gli disse. - Per farvi trascinare dalla piena? ... Qui, grazie a Dio, c'è un letto piú largo della Piana grande; basterebbe anche per quattro. Vi cedo anche il mio posto -. Janu parlava lentamente, con voce roca e lingua impacciata - compare e comare credettero che cianciugliasse pel troppo vino bevuto. E continuava: - Già, con questo tempaccio d'inferno, è meglio ficcarsi sotto il coltrone. Dove vorreste andare? A farvi trascinare dalla piena? ... La comare, la metteremo a dormire in mezzo. Debbo forse aver soggezione di voi? ... Del sangiovanni? ... - Non v'accorgete che siete ubbriaco? Non gli date retta, compare! - Filomena fingeva di rivoltarsi, frenandosi per restar seria: - Non vi accorgete che siete ubbriaco? ... - Quando si seppe che quella notte Janu Pedi avea scannato moglie e compare e poi era andato a presentarsi al brigadiere, nessuno da prima voleva prestar fede alla notizia. Eppure era vero e potevano andare a vederli, ancora ignudi sul letto e abbracciati. Non doveano aver avuto neppure tempo di dire: Gesú! Maria! La gente brulicava per quelle vie, tutta in favore di compare Janu, poverino, che aveva fatto benissimo; la giustizia non poteva condannarlo. Solo Peppe Nasca, un po' parente del morto, vedendo passare Janu fra i carabinieri, ammanettato ma sorridente e a testa alta, solo Peppe Nasca non poté trattenersi: - Assassino! Ora vi punsero le corna, dopo quattr'anni? - Meno male - rispose Janu, guardandolo in faccia. - A te, quelle di tua sorella col pastaio, quanto ti pungeranno? Mai? - Mineo, 16@ 16 luglio 1882@. 1882.

Abbiamo una lettera per lui. - Insomma, di che si tratta? - Vedete quella ragazza? È diventata muta da un mese. E se le nominate Gesú Cristo e la Madonna, va subito in convulsione. - Siete cascato in buone mani, vi dico. Conosco persona che ne sa molto piú di quel frate. - Grazie, compare. Padre Benvenuto ci aspetta, e non vogliamo farci scorgere. Se mi conducete da lui, c'è un fiore anche per voi -. E il povero don Saverio dovette rassegnarsi a prendere quel fiore, una manciata di soldi, e condurre egli stesso quell'uomo, intanto che i suoi compagni avrebbero atteso lí, fuori il paese, staccando i muli dai carri. Gli tremavano le gambe nel salir le scale di colui che gli aveva rubato il mestiere: e quando fu alla presenza di padre Benvenuto - che pareva proprio un mago con la barbaccia nera, il berretto di velluto calcato fin sopra gli occhi e la sottana da prete sudicia di tabacco - non trovava le parole, quasi fosse andato a invocare aiuto e soccorso per conto proprio. E gli baciò la mano, e gli si raccomandò: - Si rammenti del povero don Saverio! Sono stato sempre buon servo di tutti. - Ma avete la lingua lunga; e questo è male! - Padre Benvenuto non gli rispose altro, secco secco, e lo mise fuori dell'uscio. E parve che queste parole gli avessero buttato addosso una malia! Da quel giorno in poi don Saverio non fu piú lui! Con febbri dietro febbri, che gli facevano battere i denti anche quando stava ad arrostirsi al sole davanti l'uscio della sua tana affumicata, egli deperiva, deperiva; e già sembrava un cadavere. - Come vi sentite, don Saverio? - gli domandavano le vicine. - Come Dio vuole! ... E come vuole la mala gente! - aggiungeva sotto voce. Ed era inutile che il dottore don Ortensio gli assicurasse: - È l'umido della casa. Questi sono reumi belli e buoni! - Ormai don Saverio era convinto che quei cani che gli rodevano le ossa e non gli davano tregua un momento, gli fossero stati mandati addosso da padre Benvenuto, per vendicarsi. Non glielo poteva cavar di testa nessuno! E un giorno lo confidò a un amico: - Mi ha buttato la malia! - E voi non sapete far nulla per voi stesso, con l'arte alle mani? - Non ce la posso con costui -. Si dichiarava vinto, sconfitto. E si lasciava morire, senza voler prendere nessun rimedio, quantunque il dottore gli dicesse che le medicine gliele avrebbe fatte dare per carità dalla farmacia dell'ospedale ... - Ah, signor dottore, c'è di mezzo una mala persona! - Non glielo poteva cavar di testa nessuno. E con questa convinzione nell'animo, una mattina, muovendo a stento le gambe, appoggiato a un bastone, col fiato ai denti, si trascinò fino a casa di padre Benvenuto. - Vi domando perdono! Ho avuto la lingua lunga, è vero! Vi domando perdono. - Siete ammattito? - Cacciatemi questi cani d'addosso! Non lo faccio piú. - Siete ammattito? - gli ripeté padre Benvenuto, vedendoselo cadere ai piedi in ginocchio. E pochi giorni dopo, al confessore che, dandogli il viatico, lo esortava: - Don Saverio, perdonate i vostri nemici, come perdonò Gesú Cristo! - Sissignore! - egli rispose con quel fil di voce di moribondo. - Anche a padre Benvenuto, che mi ha fatto la malia! Roma, gennaio 1889@. 1889.

Poco dopo, intanto che il diacono si segnava per cantare il vangelo e i l prevosto, appoggiate le spalle a un angolo dell'altare, riuniva dignitosamente le mani sul petto, don Peppino e quegli altri seguitarono ad accennargli con insistenza: - Abbiamo fretta! - Che poteva mai farci, se quell'asino di diacono ragliava il vangelo lentamente, per far pompa della sua voce fessa e stonata di frate francescano? Quasi la gente fosse venuta in chiesa unicamente per ammirare i ragli di lui! E il prevosto, con le mani giunte, dall'angolo destro dell'altare, rispondeva a don Peppino e agli altri, torcendo gli occhi e il muso: - Che posso fare, se quest'animale non la finisce piú? E quando toccò di nuovo a lui, non stette piú sulla mossa. Gli oremus , l' orate fratres , i dominus vobiscum , il sursum corda sfilaron via di carriera. E Cristo fu fatto frettolosamente discendere dal cielo nell'ostia e nel vino del calice, moscadello dalla fragranza di paradiso e che pareva oro colato. Il prevosto solea portarsene in tasca una boccettina per la propria messa. Doveva forse guastarsi lo stomaco con l'aceto che i fedeli regalavano alla parrocchia? Intanto i canonici dagli stalli e i fedeli dalla navata di mezzo si erano già accorti della commedia e ridevano sotto il naso. Il prevosto si sentiva su le spine; la pianeta gli bruciava addosso; quando, all'ultimo dominus vobiscum , don Peppino facendo il verso di tirar le carte, gli accennò che egli e gli amici, stanchi d'attendere, andavano via e avrebbero incominciato a giocare senza di lui. Fu il colpo di grazia. I canonici cantavano tuttavia l' Agnus Dei a due cori, e già il prevosto, spezzata in due l'ostia consacrata e rivoltatala lestamente tra la lingua e il palato, vi aveva bevuto su il vino del calice per inghiottirla piú presto. Però, tenendo il calice tra le mani, con gl'indici e i pollici riuniti su l'orlo, si era rivolto al sagrestano perché vi versasse il resto dell'ampollina pel lavabo . Don Panecotto, il sagrestano, ch'era coll'acquolina in bocca da mezz'ora, versava il moscadello a goccia a goccia, per risparmiarne mezzo ditino da berselo lui a messa finita. - Versa! Non lo piscia tua sorella! - gli ringhiò sottovoce il prevosto. - Versa! Versa! - Oramai mancava soltanto l' ite missa est . Ed ecco quell'asinaccio di frate che ricominciava da capo con la voce fessa e stonata; un iiiite interminabile! Il prevosto, che lo aveva davanti, con le spalle a lui rivolte, stralunava gli occhi e sbuffava, gonfiando le gote. Se non gli lasciò correre un calcio in quel posto, fu davvero miracolo di santa Lucia. E cosí finí quella messa cantata, fra le risate dei canonici e della gente, con grande scandalo dei colli torti e delle beghine, che denunziarono il prevosto a monsignore quando venne per la visita. - Ah, signor prevosto, signor prevosto! - cominciò monsignore a quattr'occhi. Solennissima lavata di capo! E questa volta al prevosto non era giovato mettersi a zoppicare quindici giorni avanti, e calzare scarponi di panno nero per simulare la podagra e muovere a compassione monsignore. - Un sacerdote che gioca a toppa in casino! ... Ma le pare, signor prevosto! - E il prevosto era uscito dalla stanza masticando tossico. - Parla bene monsignore! Ma lo sa monsignore che durante tutto l'anno io gioco soltanto a briscola col barone, il cancelliere e don Peppino, il quale è capace di sbagliare le giocate a posta, per farmi arrabbiare, quando mi tocca per compagno di partita? Sfacchina forse lui, monsignore, l'intera annata, a confessare, a predicare, a recitar l'ufficio due volte il giorno? E poi, quando in casino tutti giocano a toppa durante il mese di Natale, perché è costume, monsignore pretende ch'io debba rimanermene in d isparte, come un cane rognoso, e star soltanto a guardare! È giusto, via? È giusto? ... Ah, questo benedetto collare! ... Ci vuol pazienza! - E le prime due sere, mentre gli altri giocavano al solito posto, attorno al solito tavolino, egli si mise a misurare per lungo e per largo lo stanzone, tenendo raccolto l'ampio ferraiuolo dietro la schiena, col nicchio quasi sugli occhi, sbattendo i tacchi, con tanti colpi di mazza sui mattoni del pavimento. - Insomma, signor prevosto? ... - lo stuzzicava don Peppino. - Quest'anno non giuoco! ... - rispondeva, soggiungendo fra i denti: - per far piacere a monsignore! E la zimarra gli sbatteva rumorosa fra le gambe nell'andare in su e in giú. Passando però accosto al tavolino dove gli altri si divertivano a toppa - per loro non c'erano monsignori! - dava una sbirciatina, di sbieco; e le monete che suonavano rimescolate sul tavolino se le sentiva tormentosamente rimescolare in fondo allo stomaco. - Si persuada, signor prevosto. Manca il meglio pezzo con lei! - Quest'anno non giuoco! - E fra' denti: - A monsignore piace cosí! - Ma quei cinquanta scudi ch'egli aveva messi, per abitudine, nei tasconi a cintola uscendo di casa, gli pesavano, gli pesavano! Era già risoluto di andar via; non ne poteva piú, quando gli passò accanto uno studentino che accorreva per puntare. - Questo per me, e zitto! - gli susurrò, mettendogli di nascosto uno scudo in mano. Don Peppino se n'accorse; e appena lo studentino puntò lo scudo, egli lo prese con due sole dita e cominciò a passarselo e a ripassarselo buffamente su gli occhi socchiusi - Oh sacro scudo! Oh scudo divino! Oh scudo miracoloso, piovuto dal cielo e capace di dar la vista ai ciechi e l'udito ai sordi! - Tutti ridevano. Il prevosto, serio serio, con le sopracciglia corrugate che parevano setole, col nicchio rovesciato indietro su la nuca, brancicava il mantello raccolto dietro le spalle, andando su e giú come un'anima dannata, imprecando a monsignore che lo metteva a quella tortura. Ma avvistosi che il suo prediletto fante di cuori stava appunto contro il banco, buttando per aria nicchio e mantello: - Un momento! - urlò. - Dieci scudi! - Mineo, 16@ 16 febbraio 1886@. 1886.

Se rispettava il re, se gli volea anche bene perché con gli sbirri e i compagni d'arme garentiva la vita e la roba di tutti, non sapeva però perdonargli quell'idea degli esercizi spirituali, per l'imbarazzo in cui lo metteva di fronte alla Salara, che pretendeva di essere sposata: - Non abbiamo un figliuolo di dieci anni? Dovrà rimanere sempre mulo questa povera creatura, sangue vostro? Avete cuore? Avete coscienza? O vi fa piú paura vostro fratello, che non Domineddio? ... Vostro fratello pensa alla roba, e non gli importa che noi viviamo in peccato mortale! - Don Ilario non aveva mai detto alla Salara che il fratello anzi gli predicava sempre di prendere moglie, per levarsi di torno quel mucchio di lordura. Egli approvava il consiglio in cor suo, ma non aveva il coraggio di metterlo in atto. Infine, costei lo serviva precisamente come una moglie; anche meglio, perché lavorava piú d'un uomo e gli risparmiava la spesa d'un garzone per la campagna. In quanto a sposarla, no! Che il bambino restasse mulo, non gli facea né caldo né freddo. Ce n'erano tant'altri al mondo in quella condizione; potea starci anche lui. La roba, com'era giusto, spettava ai parenti; glielo avea detto e ridetto al fratello. Ma, cielo di Dio, egli non voleva persuadersene! E cosí don Ilario viveva tra due fuochi. Per questo preferiva di starsene piú in campagna che in città. In campagna almeno la Salara badava a lavorare, a preparare quei due bocconi del desinare e della cena, e non lo tormentava per farsi sposare, ripetendogli la solita storia: - La mia bella giovinezza non ve la siete goduta voi? A sedici anni - l'avete già dimenticato? - ero un bottoncino di rosa! Se mi son ridotta in questo stato, mi vi son ridotta per voi. Ed ecco la ricompensa! Adesso che vengono i padri missionari, perché non ci mettiamo in grazia di Dio, come ha detto il rosariante? - Quella domenica mattina, don Ilario infilò l'abito a coda, di trent'anni addietro, a cui pel poco uso luceva ancora il pelo, si calcò in testa la gran tuba, compagna dell'abito, e presa la mazza dal pomo d'argento, andò via zitto e imbroncito, per veder di sapere in piazza o nel casino se i padri missionari arrivavano davvero e se c'era modo di evitare quegli otto giorni di reclusione nel convento dei cappuccini, che gli pesavano anticipatamente. La Salara lo vide tornare a casa piú imbroncito. I missionari arrivavano appunto in quei giorni, e la commissione l'aveva già notato nella lista dei galantuomi per la contribuzione. - Un tumulo di frumento e ventiquattro tarí in denaro! ... Per soli otto giorni! Io, con la stessa spesa, mangio sei mesi! - Intanto bisognava dire alla Salara che andasse via di casa, per non dare scandalo. Poi, quando i padri sarebbero partiti ... - E se i ladri vi spogliano la casa? - Don Ilario non ci aveva badato; e per ciò a tavola non mangiò quasi niente, pensando ai ladri, fra il borbottio della Salara che, tornando con le pietanze dalla cucina, gli faceva la predica: - Scomunicato! Uomo senza coscienza! Perché non ci mettiamo in grazia di Dio? - Egli aveva già paura di quei padri missionari mandati a posta dal re. Gli avessero anche ordinato di sposar la Salara, lui non avrebbe potuto rispondere di no. Avevano braccio forte dal giudice, dal sottintendente, dall'intendente e dal viceré Satriano, e potevano farlo mettere in prigione, e anche sparire dal mondo, senza che nessuno rifiatasse! Non pensava piú ad altro in campagna, giorno e notte; non aveva piú neppur voglia di lavorare. E un sabato sera era tornato solo in città, lasciando a Rapicavoli la Salara, caso i padri arrivassero e lui dovesse andare a rinchiudersi come un frate in una cella di convento. I padri missionari arrivarono appunto quella notte. Don Ilario, saltato dal letto come si trovava, s'era affacciato alla finestra per vederli passare al lume delle torce a vento, con la gran croce nera inalberata avanti, a due a due, in fila, cantando lamentosamente: - Vieni, vieni, o piccaturi, cà ti chiama lu Signuri! - La gente che li seguiva faceva sul selciato un rumore da mandra in disordine. Quella gran croce nera, con le braccia aperte, che procedeva lenta e solenne; quei visi magri e barbuti, illuminati sotto il cappuccio dai foschi bagliori delle torce; quella pietosa giaculatoria: - Vieni, vieni, o piccaturi, cà ti chiama lu Signuri! - che pareva scaturisse dalle viscere della terra, d'onde i dannati o le anime del purgatorio mandavano grida d'ammonimento ai peccatori vissuti tant'anni, come lui, in peccato mortale - canto che diventava piú lugubre di mano in mano che si allontanava, perdendosi per le oscure viuzze del paesetto - gli avevano prodotto nell'animo tale impressione di terrore, che il cuore gli batteva violentemente, e la pelle gli si era accapponata, quasi l'aria frizzasse. Il vecchio peccatore aveva ceduto; si era lasciato invadere dalla terribilità di quella voce che lo chiamava per la salvazione eterna "Vieni, vieni, o piccaturi!" gravida di minacce contro il peccatore ostinato. E andò in processione, coronato di spine che lo pungevano davvero, flagellandosi forte le spalle con la rozza disciplina di corda. E tosto che si vide nella chiesetta mezza buia, dove una lampada agonizzava a piè del Crocifisso, davanti la Madonna dei sette dolori; e tosto che sentí le prime parole di padre Francesco da Montemaggiore apparso sul pulpito, come un fantasma, pallido, scarno, con la lunga barba grigia cadente sul petto, - parlava in nome del Gran Padre della misericordia che prima di scagliare i fulmini della sua divina giustizia, tentava, per l'ultima volta, salvare quei figliuoli peccatori da cui veniva crocifisso cento volte il giorno con bestemmie, con usure, con ruberie, con fornicazioni, quasi lui non esistesse lassú! - don Ilario scoppiò in singhiozzi, ginocchioni in un angolo della chiesa; e cominciò a picchiarsi il petto, sinceramente, facendo proponimento di mutar vita. Don Pepè Rizzo, piú peccatore di lui ma cuore indurito, gli diceva intanto sotto voce: - La Salara vi fa le corna col vaccaro! - Che gliene importava delle cose di questa terra, che gliene importava piú? Ora pensava a salvarsi, a guadagnarsi il paradiso con la penitenza. E per ciò ascoltava, attento, concentrato, a bocca aperta, la predica di padre Mariano da Caltagirone che, facendo tremare i vetri delle finestre col vocione, rappresentava al vivo la morte del peccatore e i diavoli che aspettavano l'anima al varco per attanagliarla, infilzarla coi forconi e portarla via tra le fiamme e il fumo ammorbante, a rimpinzarla di pece liqui da e di fuoco eterno! Pareva li avesse visti coi propri occhi, e tornasse di laggiú allora allora, col puzzo dell'inferno nella tonaca. Quello scomunicato di don Pepè Rizzo però non mancava mai di sederglisi allato per insinuargli, fra le istruzioni e le meditazioni: - La Salara, vi fa le corna col vaccaro! - Zitto! Che me ne importa? - Verso la fine degli esercizi spirituali, don Ilario aveva già bell'e deciso d'andare a rinchiudersi in una grotta, su le brune colline di Rapicavoli, fra gli spacchi della roccia. lí avrebbe continuato a far penitenza fino alla morte, come sant'Antonio e gli altri eremiti di cui avevano parlato tante volte padre Francesco, padre Mariano e gli altri missionari, raccontando i miracoli operati da Domineddio per quei suoi santi servi nel deserto. Il deserto di don Ilario sarebbe stato lassú, presso Rapicavoli. La grotta era fuori mano; nella grotta allato, gemeva dalle pareti l'acqua d'una fonte, e sarebbe servita a dissetarlo; pel nutrimento, avrebbe provvisto il Signore. A sant'Antonio abate non avea mandato ogni giorno un corvo con la pagnottina al becco? Il Padre della misericordia avrebbe certamente ripetuto il miracolo per lui, visto che voleva far penitenza di tutti i peccati picchiandosi giorno e notte il petto con un sasso, piangendo lagrime di sangue! La Salara lo attendeva in campagna, e si era preparata un bel discorso per intenerirlo. A questo scopo aveva condotto là anche il ragazzo, che da tre giorni metteva a sacco le piante dei carciofi e delle fave, e correva come un frugolo dietro le farfalle, tra i seminati, pestandoli senza pietà, quantunque la mamma lo sgridasse e lo inseguisse per scapaccionarlo: - Fermo, diavolino! Arriva tuo padre! - Ma don Ilario non si era fatto vivo, neppure tre giorni dopo che gli esercizi spirituali dei galantuomini erano terminati; né si sapeva niente di lui. Era sparito di casa senza dir motto a nessuno; e la gente lo diceva andato via a farsi frate, impazzito dagli scrupoli. Mentre la Salara, piú sporca e piú cenciosa, si abbrustoliva al sole, con gli occhi alla strada, sperando di vederlo spuntare da un momento all'altro, e temendo di veder spuntare invece il fratello di don Ilario, per cacciarla via lei e il suo mulo - colui non lo chiamava altrimento - don Ilario, con un vecchio giubbone d'albagio, legato ai fianchi a guisa di tonaca da una corda di ampelodesmo, scalzo, recitando rosari e litanie, dormendo qualche ora, a riprese, rompendosi le costole sul nudo masso, faceva penitenza nella grotta di Rapicavoli, e attendeva l'arrivo del corvo che il Signore doveva spedirgli con la pagnottina al becco, come a sant'Antonio eremita. Per precauzione però egli aveva portato con sé una mezza dozzina di pagnottelle e un po' di cacio fresco, da servirgli nei primi giorni, caso mai il corvo del Signore fosse tardato a venire. Al quinto giorno, pagnottelle e cacio eran terminati; e don Ilario, pieno di fede, dopo il tramonto, s'era disteso per terra, coi crampi allo stomaco, rasegnato alla volontà di Dio, prendendo quei crampi in gastigo dei propri peccati; e non gli era riuscito di dormire neppure un minuto. E, insieme coi crampi, eran sopraggiunte le tentazioni. Si vedeva la Salara dinanzi gli occhi; e non quella lurida e stracciata, ma la giovane di vent'anni addietro, bianca e rossa, fresca al pari di una rosa, come quando era venuta in campagna pel raccolto delle ulive, e lui l'aveva sedotta, lusingandola con mille promesse, non mantenute neppure dopo averne avuto un figliuolo. Don Ilario si segnava, mormorava orazioni, afferrava disperatamente la disciplina e picchiava sodo su le sue spalle di peccatore, per vincere le insidie del diavolo che gli presentava quella immagine di peccato mortale, riaccendendogli nel sangue desideri ch'egli credeva estinti per sempre. Ah! Il diavolo voleva cosí farlo ricadere nella colpa, per poi portarselo via su le corna tra le fiamme dell'inferno: - No, tentazione maledetta! Agnusdei chitolli speccata mundi! - Ma neppure quel latino aveva giovato. - Che nottata eterna! - Vedendo i primi chiarori dell'alba, don Ilario si era sentito rassicurare. Affacciatosi alla bocca della grotta, spiava il cielo bianchiccio e la vasta campagna sottoposta, tutta verde di seminati; e intanto si premeva lo stomaco con le braccia, per attutire gli stiracchiamenti e i crampi venuti a torturarlo piú insistenti e piú forti. La sua fede, in verità, non vacillava ancora al sesto giorno; ma egli già cominciava a pensare che il corvo messaggero di Dio doveva aver preso la via piú lunga per arrivare lassú fra le rocce ... Appunto, ecco il corvo che aliava in alto, gracchiando, facendo larghi giri, accostandosi, allontanandosi, abbassandosi quasi a fior di terra e risalendo ad ali spiegate, remigando lento per l'aria! ... Non doveva essere quello spedito da Domineddio colla pagnottina al becco, se no non sarebbe rimasto cosí lontano, a tessere e ritessere circoli nell'azzurro del cielo, facendo straluccicare le penne al sole, gettando attorno per la campagna i suoi crà crà crà! ... Allora don Ilario rammentò le parole di padre Francesco: - Non fate come il corvo, che dice cras! cras! domani, domani! - E si fece animo. Quel corvo forse era mandato ad annunziargli l'invio del pane per domani. Le lagrime gli spuntarono dagli occhi, e una gran commozione gli rammollí le gambe: - Signore misericordioso! - Però stese una mano, strappò un cesto di acetosella e cominciò a masticarlo; poi ne strappò un altro, poi un altro; e andò a bere un sorso d'acqua alla fonte accosto. - Gli antichi eremiti non facevano cosí? - Gli parve anzi che l'acetosella avesse un sapore squisito, senza dubbio per grazia divina, perché un'altra volta egli non aveva finito di masticarla, tanto gli era parsa cattiva. Riprese il rosario e le litanie, e recitò un centinaio di volte gli atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione nel corso della giornata, fino a sera. Verso il tramonto, il corvo tornò ad aliare per la campagna, facendo larghi giri, gracchiando piú forte nel silenzio della sera, crà, crà, crà. Ma la dimane, e il giorno appresso, non si fece neppur vedere. I crampi, acutissimi, insoffribili, spingevano don Ilario a rivoltolarsi per terra, con gran zufolio negli orecchi, con la vista intorbidata e la lingua arida, rastiante e incollata al palato. Il Signore voleva dunque gastigarlo a quel modo, lasciandolo in balia delle tentazioni? ... Ah, Madonna dei sette dolori! Ah san Giuseppe protettore! A un tratto gli parve di sentirsi chiamare e vedere, su l'entrata della grotta, un'ombra apparire e sparire; certo il diavolo in persona! E si nascose la faccia tra le mani, invocando tutti i santi del paradiso: - Gesú! ... Maria! ... Giuseppe! ... - La mattina dopo, alla voce della Salara che lo chiamava: - Don Ilario! don Ilario! - alle scosse delle mani che l'avevano afferrato per un braccio, egli aprí a stento gli occhi; e sentiva un subitaneo gran ristoro al buon profumo di quel piatto di maccheroni che la Salara gli aveva portato. - Don Ilario! ... don Ilario! ... Pazzo da catena! Sareste morto di fame, se non vi avesse scoperto il vaccaro! - - Quei maccheroni, - soleva dire don Ilario, tutte le volte che ne riparlava, - quei maccheroni me li avrà, forse, portati il diavolo sotto le sembianze della Salara; ma ci fu anche la volontà di Dio. Se il Signore avesse voluto farmi sciogliere dal legame con la Salara, avrebbe mandato il corvo, come fece con sant'Antonio eremita. - E perciò tu sei ora un sant'Antonio al rovescio - conchiuse un giorno suo fratello. - Quegli, oltre al corvo, aveva il porco; tu invece hai la troia!- Catania, 20@ 20 aprile 1888@. 1888.

. - Lassú abbiamo quasi finito. Rimangono soltanto i ceci a insaccare ... Ah, Madonna dalla Stella! - Egli aveva visto donna Salvatrice impallidire, stralunare gli occhi e piegare il capo da un lato; sarebbe cascata dalla seggiola, se Cola Nasca non l'avesse sorretta, gridando: - Signora! Signora! ... - Niente! Niente! ... Mancanza per debolezza ... Tappa il cocchiume, Cola ... Salvatrice! ... Sorella mia! - Le strofinava le mani e le tempia per farla rinvenire, chiamandola e scuotendole ora un braccio, ora l'altro. - Non è niente! ... Salvatrice! ... Tappa il cocchiume, Cola -. Donna Salvatrice, bianca come un cencio lavato, non rinveniva, non dava segno di vita. - Portiamola via di qui - disse il Nasca. - Sarà stato l'odore acuto del vino. Povera signora! - Invece le era scoppiata un'arteria, che non le aveva dato nemmeno il tempo di dire: Gesú! Don Stellario aggiravasi per le stanze dandosi pugni su la testa, non sapendo persuadersi di quella gran disgrazia piombatagli addosso cosí all'improvviso; e non voleva neppure affacciarsi nella camera della morta, quasi per continuare a credere che vivesse tuttavia. Pure, a sera inoltrata, si ricordò nella cassa che bisognava vuotare; e salí in soffitta, solo, con un lumicino che pareva facesse piú buio. - Ah! ... Ah, povera sorella mia! ... Era destinata per te! - E a ogni filza di fichi secchi che metteva dentro il sacco portato seco a posta, ripeteva quella nenia scuotendo il capo, senza una lagrima, con tono di voce che pareva canzonatura e non era: - Ah! ... Ah, povera sorella mia! - La mattina quando comare Stella venne a dirgli in camera, tutta atterrita: - Non c'entra! - Don Stellario, a primo colpo, non capí; e le spalancò in viso gli occhi stralunati, senza muoversi dalla seggiola, con le mani sui ginocchi. - Sissignore! Non c'entra! ... - ripeté singhiozzando la donna ... Don Stellario scattò: - Non c'entra? ... Bestia! ... In quella cassa? - Gli pareva un'enormità. E agitandole convulsamente le mani davanti al viso, le ripeteva: - Bestia! ... In quella cassa non entra? - L'ha detto il becchino -. Non ci mancava altro! - Possibile? ... In quella cassa? ... - È un po' stretta e corta, signore mio. - Tu sei piú bestia di tutti! - urlò don Stellario al becchino. Tremava da capo a piedi, diventato di bragia dalla rabbia. - Te l'ha detto mastro Noce di collo, eh? Levati di torno, bestia! C'entreresti anche te! ... Bestia! Bestione! ... - E si slanciò, spinto dal furore. Per un attimo esitò in faccia del cadavere che non poteva entrare nella cassa; poi cominciò a calcarlo con gran cautela, quasi per non fargli male: - Benedetta da Dio! Benedetta da Dio! - balbettava. - Eppure devi entrarci, sorella mia! ... Devi entrarci! - Calcava, calcava, abbassando il coperchio per prova. - Benedetta da Dio, devi entrarci! ... Ecco! Ecco, se c'entra, bestione! - esclamò rivolto al becchino - Benedetta da Dio! ... Requie materna! - E, data una girata alla chiave della serratura, si buttò ginocchioni davanti alla cassa, piagnucolando il suo latino: - Requie materna! Riscatta in pace! - Roma, novembre 1889@. 1889.

I PESCATORI DI BALENE

682390
Salgari, Emilio 20 occorrenze

. - Ma non abbiamo intanto un briciolo di pane da mettere sotto i denti e non vedo nessun animale intorno a noi. - Per ora stringerai la cinghia dei tuoi calzoni, poi vedremo. Aiutami a spiegare la vela e rimettiamoci in viaggio, giacchè qui più nulla abbiamo da fare. Ad oriente cominciava a biancheggiare quando si rimisero in viaggio, favoriti da un vento abbastanza forte che soffiava da sud-sud-est. La slitta, vigorosamente cacciata innanzi dalla grande vela che era così gonfia da temere che scoppiasse, si rimise a scivolare sulla pianura con un lungo stridio e con una velocità che fu stimata non inferiore ai nove nodi all'ora. Il tenente, che stava a timone, la spinse al di là del bosco lasciando alla sua destra il fiume che accennava a piegare verso sud, poi la lanciò dritta dinanzi a sè, sapendo bene che in qualunque punto avrebbe incontrato sul suo passaggio il Makenzie, il quale taglia quella desolata regione fino alle rive dell'oceano artico. Il paese era sempre piano e disabitato. Solamente a nord, alcune catene di monti, assai lontane, apparivano semi-nascoste fra un fitto nebbione e verso sud dei grandi boschi di pini e di abeti costeggianti il corso del Porcupine. Di quando in quando da quegli alberi uscivano correndo torme di lupi affamati, i quali si davano a inseguire la slitta colla speranza di raggiungerla, ma ben presto desistevano riconoscendo l'inutilità dei loro sforzi; talvolta invece delle renne dalle corna ramose apparivano fra i cespugli e, dopo aver guardato quello strano veicolo che doveva sembrare ai loro occhi un immenso uccello, fuggivano spaventate senza lasciar tempo al fiociniere di prendere il fucile. Dei Tanana nessuna traccia, quantunque i due balenieri si guardassero ben bene d'attorno e porgessero attento ascolto ai rumori del largo. A mezzogiorno, dopo aver percorso molte miglia sotto un sole che cominciava già a diventare caldo ed a sciogliere i ghiacci, Koninson additò al tenente una specie di battello sospeso ad alcuni piuoli alti un paio di metri da terra e che si trovava sull'orlo della foresta. - Cos'è quella roba là? - chiese. - Indica la presenza di qualche tribù di indiani, o la vicinanza di qualche villaggio abbandonato? - Nè l'uno, nè l'altro - rispose il tenente. - Se non m'inganno, quella è una tomba. - Che non ci potrà certamente giovare. - Anzi, troveremo qualche cosa che farà per noi. Ammaina la vela e andiamo a vedere. Il fiociniere s'affrettò ad ubbidire e la slitta, trasportata dal proprio slancio, andò a fermarsi a poca distanza da quella strana tomba. Il tenente e il fiociniere vi si diressero e la esaminarono con curiosità. Consisteva in un vero canotto indiano di corteccia di betulla e armatura di salice, lungo circa otto piedi, solido e leggero ad un tempo. Era sospeso a circa due metri da terra con alcuni piuoli e sotto di esso la neve appariva smossa di recente e vi si vedeva un certo rigonfiamento come se nascondesse qualche cosa. - Il morto è nel canotto? - chiese Koninson. - No, giace sepolto sotto la neve. Il canotto conterrà invece le armi, le scarpe, le reti e le lenze appartenenti all'estinto. - E dei viveri? - Forse, ghiottone. Sali nel canotto e guarda dentro. Il fiociniere si alzò sui piuoli e salito nella leggera imbarcazione gettò giù due fiocine di corno di narvalo diligentemente aguzzate, un paio di scarpe assai malandate, alcune reti e una lenza di pelle di foca lunga una trentina di metri. - Non valeva la pena di venire fin qui - diss'egli di assai cattivo umore. - Ci avessero messo almeno qualche sacchetto di quell'eccellente "pemmican" che sanno fare gli indiani di questa regione! - Sanno bene che i morti non mangiano, ragazzo mio, - disse il tenente. - Ma perchè mettono sulle tombe le armi e le reti? - Perchè se ne servano nell'altra vita. - Ah! Credono che i morti risuscitino. - Tutti gli indiani ne sono convinti. Ora scendi e cerchiamo di procurarci la colazione. Tò! Ecco dei lupi che urlano nel bosco. La loro carne è pessima, ma chi non ha di meglio può accontentarsi. - Voi v'ingannate, signor Hostrup, poichè ho qualche cosa di più appetitoso da offrirvi. Guardate in alto. Il tenente alzò il capo e vide un grossissimo uccello il quale volava pesantemente come se facesse molta fatica a mantenersi in aria. Imbracciò rapidamente il fucile, mirò alcuni istanti con molta attenzione, poi premette lentamente il grilletto. Il grosso volatile colpito dall'infallibile palla del cacciatore, rotolò due volte su sè stesso mandando una nota che parve emessa da una tromba, poi piombò a terra con sordo rumore rimanendo immobile. - È un cigno - disse Koninson precipitandovisi sopra. - Trenta libbre di carne eccellente! - rispose il tenente. - Ma come mai questo uccello si trova qui? - In estate i cigni vengono a visitare questa regione. La presenza di questo uccello indica che lo sgelo dei fiumi non è molto lontano. - Brutta nuova per chi non ha che una slitta a vela. - Bah! Fra poco non avremo più bisogno di questo veicolo, poichè il Makenzie non deve essere molto lontano. Koninson si affrettò a spennare il volatile il cui peso, come aveva detto il tenente, superava le trenta libbre, poi ne mise un grosso pezzo al fuoco che in quel frattempo era stato acceso con legna morta raccolta nella vicina foresta. Calmata la fame, i due naufraghi tornarono a imbarcarsi, e la slitta, favorita ancora da un buon vento, ripartì costeggiando sempre la foresta. L'indomani, dopo una ventina di miglia, il terreno che fino allora si era mostrato molto favorevole cominciò a cambiare. La gran pianura era spesso interrotta da ondulazioni, da salite, da larghi crepacci e da ruscelletti, le cui rive assai più alte dei corsi d'acqua facevano trabalzare disordinatamente il veicolo, minacciando spesso di mandarlo in pezzi. Anche un largo fiume che il tenente suppose fosse il Peel, uno degli affluenti al Porcupine, e che sbocca a breve distanza dal Makenzie, venne ad interrompere la corsa. I due naufraghi furono costretti a calare la slitta dalla riva e attraversare il ghiaccio per poi issarla sulla sponda opposta. In quella traversata poco mancò che affondassero nel fiume poichè il ghiaccio, corroso dall'azione delle acque e dal sole, più volte crepitò e tremò sotto il peso della slitta. II 14 maggio il vento improvvisamente mancò e così pure per altri tre giorni durante i quali il sole, che rapidamente diventava caldo, sciolse gran parte dello strato di neve rendendo così la marcia della slitta assai penosa. Il 18 dovettero rinunciare a partire di giorno, quantunque il vento fosse propizio, anzi molto forte. La neve, eccessivamente rammollita, non permetteva più lo scivolamento. La gran pianura, percossa da una vera pioggia di raggi caldissimi, presentava un sublime spettacolo. Pareva che un immenso incendio la divorasse, estendosi fino agli estremi limiti dell'orizzonte. La neve, i massi di ghiaccio, gli "hummoks", si fondevano a vista d'occhio e fitte masse di vapori ondeggiavano in tutti i versi, sbattute dagli impetuosi soffi del vento meridionale. Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte. - Corpo di una balenottera! - esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. - Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri. - Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta - disse il tenente. - E quando partiremo? - Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest'acqua e questa neve geleranno. Il tenente non si era ingannato. Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull'orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò. I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte. Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo. Ad un tratto l'orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est. - Abbiamo qualche branco d'alci dinanzi a noi? - chiese egli prendendo il fucile. - Lo spero - rispose il tenente, prendendo la sua arma. Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi. Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s'alzò in piedi e si issò sull'albero. Un grido gli sfuggì tosto: - Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi! - È il Makenzie! - esclamò il tenente. In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all'ora. In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.

. - Ad ogni modo abbiamo anche noi delle armi. Dopo dieci minuti di cammino, giungevano in una vasta radura in mezzo alla quale si rizzavano sei grandi tende di pelle di renna, di forma conica, sostenute da pertiche e sormontate da strani emblemi rappresentanti teste di orsi e teste di lupi. Alcune donne ancor più brutte degli uomini, più orribilmente dipinte, infagottate in pelli di orso e di foca e adorne, specialmente al naso, di conchiglie di "ki-a-qua" (dentalium), mossero incontro ai nuovi venuti: ma ad un gesto dei guerrieri si affrettarono a ritirarsi. Il capo condusse gli ospiti dinanzi ad una piccola tenda mezzo sdruscita e che pareva si reggesse per un miracolo di equilibrio e li invitò ad entrare, promettendo di raggiungerli fra pochi istanti. Koninson per il primo vi mise dentro la testa, ma la ritirò subito sternutando sonoramente. - Ma questo è un porcile - disse. - Sfido chiunque a sopportare l'orribile puzza che regna lì dentro. - Bah! Non bisogna essere schizzinosi, ragazzo mio! - rispose il tenente. - Credevi forse di trovare un palazzo? Animo, entriamo. Facendo uno sforzo, si cacciarono sotto la tenda dove si arrestarono mezzo asfissiati da un insopportabile odore di carne corrotta. Nel mezzo ardeva una strana lampada scavata in una pietra ollare, la quale spandeva all'intorno un luce rossastra e fetente. Negli angoli, ammonticchiate alla rinfusa, si vedevano diverse pelli di animali non ancora completamente seccate, poi interiori che finivano di marcire, pesci corrotti, dei sacchetti che parevano contenere carne secca e infine un gran numero di fiocine di ogni forma e dimensione, nonchè certi coltellacci d'una forma particolare montati in corno di narvalo o in un dente di morsa. - Questo deve essere il magazzino della tribù e anche l'arsenale - disse il tenente. - Che pulizia, signor Hostrup! Noi morremo asfissiati se non ci affrettiamo a uscire. - Se vivono i Tanana in queste brutte tende, possiamo viverci anche noi. - Ma forse le altre sono migliori. - Probabilmente saranno peggiori. - E l'orso? Tò, me lo ero scordato. - Quando verrà il capo sapremo qualche cosa. Ah! Eccolo che ritorna! Infatti il Tanana si avvicinava accompagnato da un guerriero il quale portava un grosso pesce, che pareva fosse stato allora allora levato dai carboni. - Mio fratello accetti il regalo che gli offre il capo - disse il Tanana entrando. - Sii il benvenuto, - rispose il tenente - e ricevi i nostri ringraziamenti. Il guerriero depose su di una pelle il pesce, poi uscì mentre il capo si sedeva per terra colle gambe incrociate. I due naufraghi non si fecero pregare a far onore al pasto e lavorarono così bene di denti che ben presto del pesce non rimasero che le pinne. Il Tanana, quando vide che avevano terminato, estrasse dal suo sacchetto che portava appeso alla cintura la pipa, la caricò flemmaticamente, l'accese, aspirò due boccate, poi la passò agli ospiti che fecero altrettanto. Terminata quella funzione che presso tutti gli Indiani dell'America settentrionale è della più alta importanza, poichè viene considerata come una dichiarazione di amicizia, il Tanana, che fino allora non aveva pronunciato sillaba, disse: - Mio fratello il viso pallido è contento dei suoi fratelli dal viso rosso? - Sì e ti ringrazio della cortese ospitalità accordatami. - Allora mi dirà perchè viaggia in queste terre che non sono le sue. - Siamo qui perchè la tempesta ci ha gettati, malgrado tutta la nostra buona volontà per non approdarvi. - Ah! I miei fratelli sono stati disgraziati adunque? Montavano forse una di quelle grandi barche che vengono così da lontano? - L'hai detto. - Ed ora dove vanno? - Cerchiamo di raggiungere un qualche forte o della Compagnia inglese o di quella russa. - Ma i forti sono molto lontani. - Ma le nostre gambe sono buone. - E non possedete un attiraglio? - Una slitta, ma senza cani per trascinarla. - E dov'è questa slitta? - chiese il Tanana, i cui occhi mandarono un lampo. - L'abbiamo lasciata a due ore di cammino di qui, sulla riva del Porcupine. - Mio fratello possederà dell'"acqua di fuoco"? - Dell'acquavite, vuoi dire? No, l'abbiamo consumata tutta. - Possederà della polvere da sparo. - Sì, ma non molta. - Doveva portarne un pò a suo fratello Tanana. - Basta appena per noi due. Il capo non dissimulò un gesto di dispetto che al tenente non sfuggì. - Ma perchè ha lasciato la sua slitta? - chiese il Tanana. - Per inseguire un orso bianco che ci aveva rubato un fucile. È tuo quell'orso? - No. - Sarà di qualche tuo guerriero. Io so che è entrato nel tuo campo e io conto sulla tua generosità per riavere l'arma. Il Tanana lo guardò per qualche istante senza rispondere, poi disse: - Tu l'avrai, ma ad un patto. - Parla. - Che tu venga quest'oggi con me nella foresta a cacciare l'alce. I volti pallidi sono tutti bravi cacciatori e tu e il tuo compagno mi sarete di grande aiuto. - Accetto. II capo si alzò, uscì dalla tenda e poco dopo ritornava portando il fucile che Koninson s'affrettò a prendere, mandando una esclamazione di gioia. - Ora mettiamoci in cammino! - disse il Tanana. - Le alci sono state già scoperte dai miei uomini e forse a quest'ora sono strette da ogni parte. Affrettiamoci, poichè conto di partire questa notte con tutta la mia tribù. - E per dove? - chiese il tenente. - Verso il sole che si leva, nel paese dei Malemuti - rispose il Tanana con un enigmatico sorriso. - Odi le grida dei cacciatori? In lontananza si erano improvvisamente udite delle alte grida seguite dall'abbaiare di numerosissimi cani. - Andiamo! - disse il tenente. Il Tanana uscì seguito dai due marinai, disse qualche parola ad alcuni guerrieri che lo attendevano fuori della tenda, poi si addentrò nel bosco. - Che vi pare di questo selvaggio? - chiese Koninson al tenente. - Mi ha un certo viso che non mi rassicura completamente. - Hai ragione, mio degno fiociniere, ma staremo in guardia e ci guarderemo ben bene alle spalle. Le grida e gli abbaiamenti si avvicinavano rapidamente e ben presto attraverso gli alberi si videro correre parecchi cacciatori preceduti da grossi cani, poco dissimili per altezza e per forme dai lupi. - Dove sono queste alci? - chiese Hostrup al capo. - Dinanzi a noi - rispose il Tanana. - Sono molti i cacciatori? - Una quarantina sparsi sulla nostra destra e sulla nostra sinistra. Camminarono per altri venti minuti sempre più inoltrandosi nella foresta e sempre preceduti dai cacciatori che continuavano a mandare urla selvagge, poi il Tanana si arrestò. Dinanzi a loro, a tre o quattrocento metri, stavano riunite venti o venticinque alci, superbi animali, grandi quanto un cavallo giovane, colle teste adorne di corna robustissime. Correvano or qua or là in preda ad un vivo spavento, cercando di fuggire fra gli spazi lasciati dai cacciatori, ma senza arrischiarsi, poichè subito ritornavano galoppando disordinatamente II tenente e il fiociniere puntarono le armi mirando ognuno un'alce, ma il Tanana con un gesto li trattenne. - Siamo a buon tiro - disse Hostrup. - Non è ancor giunto il momento - rispose il capo. - Aspetta che entrino nel recinto e poi farai fuoco a volontà. - In quale recinto? - Guarda laggiù. Il tenente guardò nella direzione indicata e non senza sorpresa vide, attraverso gli alberi, un grandioso recinto fabbricato con rami assicurati ai tronchi mediante strisce di pelle, il quale si restringeva a mò di collo di bottiglia. - È così che noi cacciamo - disse il Tanana. - Le alci hanno paura ad entrare, ma noi le costringeremo. - E non spezzeranno il recinto? - È semplice, ma molto solido. Attenzione e guardatevi dalle corna, poichè talvolta le alci, rese furiose, si gettano sui cacciatori a testa bassa. I suoi uomini si erano a poco a poco riuniti formando un semicerchio assai vasto il quale si univa colle due estremità del recinto. Ad un cenno del capo impugnarono le fiocine e si spinsero coraggiosamente innanzi raddoppiando le grida e aizzando i cani. Le alci si misero a caracollare confusamente mostrando delle intenzioni tutt'altro che pacifiche, ma quando si videro assalite dai cani e minacciate assai da vicino dai cacciatori, non esitarono più a fuggire e non trovando dinanzi che l'apertura del recinto vi si spinsero dentro. II capo, i due naufraghi e tutti gli altri le seguirono e si appostarono dietro a certi mucchi di neve muniti di una feritoia, che erano stati precedentemente costruiti. - Fuoco a volontà! - comandò il capo. Tosto da ogni parte partirono detonazioni ed alcuni alci, colpite mortalmente, caddero dibattendosi disperatamente. Le altre fecero di gran galoppo il giro del recinto cercando una uscita che ormai non esisteva più, essendo stata subito chiusa quella che poc'anzi c'era, poi si scagliarono contro i rami d'albero tentando di spezzarli a colpi di corna, ma invano poichè, come aveva detto il capo, erano solidissimi e ben legati. Vista l'inutilità dei loro sforzi, si rivolsero contro i cacciatori, ma una nuova scarica, che ne gettò a terra altre quattro o cinque, le costrinse a riprendere la fuga. Riunitesi in fondo al recinto, le povere bestie parvero consigliarsi, poi ritornarono verso i cacciatori a testa bassa mostrando minacciosamente le loro robuste corna. Alcune colpite dalle palle caddero, ma le altre passarono come un uragano fra cumulo e cumulo, si gettarono furiosamente contro il recinto che in quel luogo presentava una solidità molto dubbia, ne rovesciarono un tratto e fuggirono nel bosco allontanandosi verso est con tale rapidità, da par perdere ogni speranza di raggiungerle. Il tenente e il fiociniere fecero atto di inseguirle, ma il capo Tanana li arrestò. - È inutile - disse. - Abbiamo carne quanta ci basta per vivere un bel pezzo. Ed infatti aveva ragione. Nove alci giacevano a terra immobili e due altre si dibattevano negli ultimi aneliti. Mentre alcuni cacciatori uscivano traendosi dietro i cani per condurre colà le slitte, gli altri s'affrettarono a finire le ferite; poi, dato mano ai coltelli, si misero a scuoiare e a tagliare con tanta abilità e prestezza che due ore dopo la non facile operazione era finita. Al tramonto, quell'ammasso di carne ancor palpitante veniva caricato sulle slitte e portato all'accampamento dove erano stati accesi dei grandi fuochi. Il capo offrì ai due marinai una lauta ed abbondante cena, poi li ricondusse nella loro tenda che in quel frattempo era stata completamente vuotata. - Quando parti? - gli chiese il tenente, prima di coricarsi. - Domani all'alba - rispose il Tanana con un sottile sorriso. - Dormi in pace sotto la buona guardia dei miei guerrieri e all'alba riceverai i miei saluti e una provvista di carne da bastarti per un mese. - A domani, adunque! - risposero i due naufraghi. E si sdraiarono con accanto le armi.

In quell'istante, tra i fischi del vento e i muggiti delle onde, si udì mastro Widdeak gridare con accento di terrore: - Abbiamo un "iceberg" a prua! Il capitano, il tenente e Koninson, malgrado i violentissimi beccheggiamenti del vascello, si slanciarono colà. A mezza gomena appena, attraverso il nebbione, si vedeva scintillare una gran montagna di ghiaccio la quale, urtata da tutte le parti dalle onde, pareva fosse lì lì per capovolgersi. - Vira, timoniere! - urlò il capitano. - Tutti ai bracci delle manovre! Il "Danebrog", che non era più che a venti o a trenta passi dall'"iceberg", virò prontamente sul posto, ma ricevette sul fianco tale colpo di mare che lo fece quasi rovesciare sul tribordo. Quasi nel medesimo istante si udì ancora mastro Widdeak urlare: - Bada, timoniere! Un altro "iceberg" dinanzi la prua! Infatti, dritto l'asta di prua, era improvvisamente apparso un altro "iceberg" e questo ancora più grande del primo. Era una specie di colonna alta almeno cento metri e grossa quasi altrettanto. - Siamo proprio circondati? - gridò il capitano con ira. Si slanciò alla ruota del timone, e mentre i marinai, ad un comando del tenente, si portavano tutti a prua armati dei buttafuori, diresse la nave in modo da passare fra le due montagne che erano distanti appena due gomene l'una dall'altra, manovra quanto mai pericolosa, poichè potevano proprio in quel momento perdere l'equilibrio e sfracellare il "Danebrog" assieme a tutti quelli che lo montavano. - State in guardia, capitano! - gridò il tenente, appena vide la nuova direzione presa dalla nave. - Gli "icebergs" non mi sembrano bene equilibrati. - Non temete, tenente! - rispose il capitano con voce ferma. - Che nessuno abbandoni i buttafuori! Il "Danebrog", spinto dal vento e dalle onde e guidato dalla ferrea mano del capitano Weimar, si avvicinò rapidamente alle due montagne le quali, violentemente urtate dalle acque che muggivano e rimuggivano, balzando e rimbalzando, oscillavano spaventosamente minacciando di urtarsi e di capovolgersi. Non mancavano più che poche decine di metri, perchè il "Danebrog" giungesse al pericoloso passo, quando dall'"iceberg" più grande caddero in mare parecchie centinaia di ghiacciuoli, ciò che indicava che stava per perdere l'equilibrio. Un urlo di terrore si alzò sul ponte della nave; i marinai che si erano raggruppati a prua, lasciarono il posto precipitosamente, gettando via i buttafuori. Alcuni si slanciarono verso le baleniere, ritenendo ormai imminente una catastrofe. Il tenente, che era rimasto intrepidamente sul castello di prua, si gettò in mezzo ai fuggiaschi alzando minacciosamente il buttafuori che teneva in mano. - Ai vostri posti! - urlò. - Il primo che pone una mano sulle baleniere lo ammazzo come un cane! - tuonò dal canto suo il capitano, che si teneva aggrappato alla ruota del timone. - Tutti a prua o siamo perduti! Koninson primo, mastro Widdeak secondo, poi tutti gli altri riguadagnarono i posti assegnati. Era tempo! Il "Danebrog" si era cacciato fra le due montagne di ghiaccio e una di queste, portata innanzi da un'onda, minacciava di spezzare i pennoni e le murate. I marinai, quantunque il terrore li agghiacciasse, ubbidirono di comune accordo. L'"iceberg" che avanzava sempre rollando spaventosamente, tutto d'un tratto s'inclinò verso la nave che gli passava di fianco ratta ratta e sfracellò i buttafuori mandando a terra gli uomini che li stringevano. Per la seconda volta i marinai abbandonarono i loro posti fuggendo a tribordo. Il capitano Weimar gettò un vero ruggito e il tenente, malgrado tutto il suo coraggio, impallidì. Entrambi credettero che questa volta pel "Danebrog" fosse proprio finita. Un'altra onda avvicinò di più la montagna di ghiaccio. Un pennone, quello di maestra, che sporgeva assai fuori dal bordo, fu smussato da un blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima dell'"iceberg" - Si salvi chi può! - urlarono alcuni marinai, che avevano perduto completamente la testa. - Fermi! Fermi! Passiamo! - tuonò il capitano Weimar sempre ritto dietro la ruota del timone. Il "Danebrog", trasportato dal vento che soffiava con forza irresistibile, filava come una rondine marina quasi strisciando sul fianco della montagna. Due volte toccò, ma finalmente uscì dal pericoloso passo e si slanciò sulle onde furenti lasciandosi addietro i due "icebergs", i quali in brevi istanti scomparvero nel nebbione. Un grido di gioia s'alzò fra l'equipaggio, unito al grido di: "Viva il capitano"! Ma quel grido cessò quasi subito. Uno strano e formidabile fragore si era improvvisamente udito verso sud-est. Pareva che l'oceano si rompesse contro una costa che il nebbione non permetteva di vedere. - Tenente Hostrup! - gridò il capitano che aveva pure udito quel lungo muggito. - Cosa abbiamo dinanzi a noi? La costa americana forse? Il tenente salì sul castello di prua e guardò attentamente dinanzi, a babordo e a tribordo, ma altro non vide che furiosi marosi i quali trascinavano nei loro disordinati movimenti ghiacci di ogni dimensione, sfracellandoli gli uni contro gli altri. Si curvò più che potè verso l'acqua e tese attentamente gli orecchi. Fra i fischi del vento e i cozzi dei ghiacci udì distintamente un sordo muggito. - Sì, capitano - gridò. - Noi abbiamo vicina la costa o una scogliera. - Tutti ai bracci delle vele pronti a virare! - comandò il capitano, Il "Danebrog" per dieci minuti tirò innanzi, sempre orribilmente sballottato dalle onde, che saltavano sopra le murate inondando la tolda da prua a poppa. Ad un tratto, a breve distanza apparve una spuma biancastra e il muggito poco prima udito divenne così intenso da credere che la costa o le scogliere fossero a poche gomene. Il capitano Weimar stava per dare il comando di virare, quando avvenne un leggero cozzo che arrestò subito la marcia del "Danebrog". Il tenente e Koninson corsero a prua e si issarono, per meglio vedere, sul bompresso. Quasi subito avvenne un secondo urto e questa volta così forte da rovesciare tutto l'equipaggio. Una montagna d'acqua, varcate le murate, si precipitò sulla tolda atterrando tutto ciò che incontrava. Tra i fischi del vento ed i muggiti delle onde s'udirono due grida d'aiuto, poi più nulla. Quando i caduti si rialzarono, il "Danebrog" galleggiava ancora, ma due uomini mancavano. Il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, che al momento dell'urto si trovavano sull'albero di bompresso, erano stati trascinati via dal colpo di mare!

A quest'ora tutti i balenieri hanno dell'olio nel ventre del loro legno, mentre noi non ne abbiamo ancora una goccia. E siamo in pieno agosto! Comprendi, Koninson, in pieno agosto! - Lo comprendo, signore, ma la colpa non è nostra. Se quel "brick" del malanno non ci avesse, colla sua speronata, inchiodati per tre lunghi mesi nei cantieri della Nuova Arcangelo, a quest'ora avremmo già mezzo carico nella stiva. - Che il diavolo si porti quel "brick" e tutta la ciurmaglia che lo monta! Fortunatamente abbiamo del fegato, noi, e il nostro "Danebrog" è un legno che non teme i ghiacci. Se sarà necessario andremo fino al polo. - Il capitano ha questa intenzione? - Per Bacco! Se non troviamo balene nel mare di Behring, egli ci trascinerà sotto il polo. Vuole vincere la scommessa a qualunque costo. - C'è una scommessa - chiese il fiociniere. - Sì, e molto grossa. - E con chi,tenente? - Col capitano del "Biscoë". - Ah! Quel dannato norvegese scommette contro i danesi? Allora bisogna sfidare tutto, pur di vincere. - E tutto sfideremo, Koninson. - Io sono pronto a seguire il capitano anche al polo, purchè colà vi siano delle balene, e vi giuro, signor Hostrup, che il mio rampone non fallirà una sola volta. - Lo so che la tua è un'arma terribile, che ha già ucciso parecchie dozzine di balene. - Delle centinaia, signore! - disse Koninson con orgoglio. - Sono duecento e più anni che viene adoperata nella mia famiglia. - Corbezzoli! La tua è adunque una famiglia di fiocinieri? - Sì, tenente, e il rampone di cui oggi mi servo si trasmette di padre in figlio. - E chi lo adoperò per primo? - Mio nonno Erico Koninson, il quale lo ebbe in dono dal re Cristiano V. - Ah! È un'arma reale? - Sì, e ... Il fiociniere fu bruscamente interrotto da una voce che pareva scendesse dal cielo e che aveva gridato: - Ohè! L'animale soffia! Il tenente e Koninson alzarono il capo e videro sulla crocetta dell'albero di trinchetto un marinaio che stava guardando il mare. - L'hai udito tu? - chiese il signor Hostrup. - Sì, tenente! - rispose il marinaio. - Da qual parte? - Il soffio veniva da sottovento. Il tenente puntò il cannocchiale e guardò con profonda attenzione. - Ebbene? - chiese Koninson, che non era capace di star fermo. - Il marinaio non si è ingannato. Laggiù ho veduta una massa nerastra sorgere e poi tuffarsi. - È una balena? - Non lo so poichè, come ben vedi, l'oscurità è profonda e il cetaceo è apparso a un buon miglio di distanza. - Balena o capodolio, noi lo prenderemo, tenente. - Lo spero, Koninson. Andiamo ad avvertire il capitano Weimar. - E prepariamo le baleniere. Ho il sangue che mi bolle nelle vene pensando che fra poco mi misurerò col mostro che soffia. Il tenente e il fiociniere si aggrapparono alle griselle e scesero rapidamente in coperta, dove dieci o dodici marinai stavano già preparando le baleniere per la caccia. Il capitano, tosto avvertito della presenza del cetaceo, non tardò a comparire sulla tolda. Valdemaro Weimar, comandante e proprietario del legno, non aveva più di trentacinque anni. Era alto, vigoroso, biondo come il tenente Hostrup, con una fronte alta, lo sguardo vivo e nero e labbra sottili che denotavano una energia non comune. Nato in Danimarca, come tutti gli uomini del suo equipaggio, aveva affrontato il mare a soli dieci anni e ora godeva una grande fama, come marinaio e come pescatore di balene. Nulla lo spaventava; nè le più terribili tempeste, nè le più ardite navigazioni nei poco conosciuti mari artici, nè i ghiacci del polo. Sei volte, con un'audacia senza pari, mentre tutti i suoi colleghi fuggivano verso il sud dinanzi all'avanzata del gelo, aveva condotto la sua valorosa nave al di là delle terre abitate, sfidando i ghiacci polari per inseguire le balene che vi si erano rifugiate, e due volte, sorpreso dagli immensi campi di ghiaccio, aveva svernato sulle deserte coste della Giorgia occidentale e senza perdere nè un uomo nè una imbarcazione. Quando il tenente Hostrup lo informò della presenza di un cetaceo, gli occhi del bravo capitano scintillarono di gioia. - Ah, è così! - esclamò. - Sta bene, domani mattina lo cacceremo. Dov'è? - Laggiù, un miglio sottovento! - disse il tenente. - Non bisogna perderlo di vista. Due gabbieri sulle crocette e tu, mastro Widdeak, - aggiunse, volgendosi ad un vecchio marinaio che stava al timone - governa in modo di tenerti sempre a poca distanza dal cetaceo. E ora andiamo a vedere coi nostri occhi. Salì sulla murata di tribordo aggrappandosi alle sartie del trinchetto e guardò nella direzione indicata con un forte cannocchiale. - Lo vedete, capitano? - chiese Hostrup che l'aveva raggiunto. - Sì, tenente. - Balena o capodolio? - Non è facile dirlo, ma dalle sue mosse brusche, lo crederei più un capodolio che una balena. - Lo cacceremo egualmente. - Lo credo, tenente; Koninson non teme simili mostri, quantunque siano, specialmente se soli, pericolosissimi. Mi ricordo che una volta uno, un solitario anche quello, ebbe l'audacia di gettarsi contro un brigantino. - E lo colò a picco? - Lo sfasciò di colpo, tenente. Ehi, Koninson, prepara due baleniere. - Pronto, capitano! - rispose il fiociniere. Con un fischio chiamò i diciotto marinai che formavano l'equipaggio del "Danebrog", e si mise alacremente al lavoro. Dieci minuti dopo tutto era pronto per la pesca. Non mancava che di calare le baleniere in mare e di muovere contro il cetaceo che non pareva disposto ad abbandonare quelle acque. Il capitano Weimar e il suo tenente, sempre in piedi sulla murata seguivano attentamente collo sguardo l'enorme pesce che di quando in quando si tuffava o avventava dei formidabili colpi di coda sollevando delle grandi ondate. Il primo si mostrava impazientissimo e imprecava contro l'oscurità; il secondo invece, uomo flemmatico quanto mai, quantunque non meno intrepido marinaio del capitano, appariva tranquillissimo e taceva fumando con tutta flemma in una vecchia pipa che quasi mai abbandonava. Anche Koninson e l'equipaggio erano in preda ad una viva agitazione, e ingiuriavano il cetaceo che non si lasciava accostare dalla nave, quantunque questa filasse con una notevole velocità avvicinandosi alle isole Aleutine, che ormai non dovevano essere molto lontane. Finalmente cominciò a far chiaro. Ad oriente apparve una luce biancastra che fece impallidire la luce degli astri e che gettò sui neri flutti delle tinte madreperlacee di bellissimo effetto. Il capitano attese ancora un po', quindi tornò a puntare il cannocchiale verso il cetaceo che allora si trovava a due miglia dal "Danebrog", ma quasi nel medesimo istante il gigantesco pesce, quasi indovinasse che qualcuno lo spiava, si tuffò. - Ah, brigante! - esclamò Weimar. - Ma non per questo mi sfuggirai. Ehi, mastro Widdeak governa dritto su quel briccone! Il mastro non si fece ripetere il comando e lanciò il "Danebrog" verso il luogo ove il cetaceo si era inabissato; ma passarono dieci, venti, trenta minuti, senza che apparisse a galla. - Non è una balena quella là! - disse il capitano. - Se lo fosse, a quest'ora sarebbe già tornata a galla. - È un capodolio, capitano - disse il tenente. - Non ci sono che questi cetacei che siano capaci di starsene quaranta, cinquanta e anche sessanta minuti senza respirare. - Niente di meglio. Alla balena preferisco il capodolio che dà maggior profitto. Ma come mai si trova qui? - Guarda! Guarda! - gridò in quell'istante Koninson. A cinquecento metri dal "Danebrog" si era visto alla superficie dei mare un largo tremolio, segno evidente che il cetaceo stava per risalire; poi apparve un punto nero, indi una massa enorme che gettò in aria due nuvolette di vapore grigiastro. Koninson gettò un grido: - Un capodolio! Un capodolio! Alle baleniere, ragazzi!

- disse il tenente - Noi abbiamo da fare con una femmina, la quale ricorre a questa astuzia per allontanarci dal suo nido, - Allora mangeremo anche delle uova. Che pasto, signor Hostrup Questa volta non si lasciò più ingannare dal povero uccello. Appena fu per riprendere il volo, il fiociniere puntò il fucile e, con una palla ben aggiustata, lo fece cadere, ma per sempre. - Il bell'arrosto! - esclamò. Ed infatti era un bell'arrosto. Quell'uccello, dalle penne bianche solcate da un certo numero di macchie brune trasversali e longitudinali, dal becco robusto e ricurvo, era lungo quasi due piedi e non pesava meno di dieci chilogrammi. Era il vitto assicurato per un paio di giorni, per i poveri naufraghi; ma Koninson chiedeva qualche cosa di più. Impadronitosi dell'uccello, si affrettò a raggiungere la macchia di pioppi e, dopo aver cercato qua e là, scoprì il nido, una specie di cavo tappezzato di pochi fili d'erba acquatica e di penne candide e lunghe che la femmina si era coraggiosamente strappate dal petto, e contenente otto grosse uova. - Che giornata fortunata! - esclamò allegramente il bravo fiociniere. - Presto, signor Hostrup, ritorniamo presso il fuoco e mettiamoci al lavoro. Le mie mandibole sono impazienti. Due ore dopo, seduti dinanzi al fuoco, divoravano ferocemente più di mezzo uccello, dopo aver trangugiato le uova a mò d'antipasto. Il tenente, per compiere l'opera, diede la stura ad una bottiglia di "gin", l'ultima che ancora possedevano e che avevano religiosamente conservata per le grandi occasioni. Verso le 4 pomeridiane, approfittando d'un fresco vento che veniva da nord-nord- ovest, spiegavano la vela e riprendevano la corsa verso sud, ma non rapidamente come il mattino a causa della neve che, essendosi in parte sciolta sotto i raggi solari, opponeva una certa resistenza ai pattini della slitta. Parecchie volte dovettero discendere e trascinare il veicolo per qualche tratto onde sorpassare certi strati di neve eccessivamente molle, anzi quasi disciolta. Nondimeno verso le 9 della sera avevano percorso altri quaranta o cinquanta chilometri. Il tenente stava per ammainare la vela volendo accamparsi, quando Koninson gli additò una costruzione piantata sulle rive di un laghetto ancora gelato. - Forse ci sono degli abitanti là sotto! - disse il fiociniere. - Non mi rincrescerebbe di vedere un volto umano per quanto possa essere brutto. - Ho poca speranza - rispose il tenente, - Tuttavia dirigiamoci laggiù. La slitta riprese la corsa e dopo venti minuti si arrestava presso l'abitazione segnalata. I due balenieri balzarono a terra, si armarono dei fucili per precauzione, e si diressero a quella volta. Era una capanna semplicissima, formata da sette od otto pali sostenenti un tetto di ramoscelli e di pezzi di corteccia, assicurata con strisce di pelle. La neve, accumulandosi sopra, l'aveva in parte sfondata, ma poteva ancora servire di ricovero. - È un'abitazione estiva dei . - Abbandonata da molto tempo senza dubbio - osservò Koninson. - Dall'anno scorso, molto probabilmente. - Tò! Cosa sono quegli oggetti ammonticchiati in quell'angolo? - Ossa di animali. - Forse che i Co-yuconi le raccolgono per venderle? - No, Koninson, - disse il tenente ridendo. - Li ammucchiano nelle loro capanne perchè credono che, gettandoli via, debbano succedere delle disgrazie; che le caccie diventino infruttifere; che le trappole lascino scappare la selvaggina; che il freddo distrugga gli animali; ecc. Anche quando si tagliano le unghie, i capelli e la barba, raccolgono il tutto entro sacchetti di pelle che sospendono agli alberi del loro territorio, e ciò per lo stesso motivo. - Strane superstizioni, signor Hostrup. Ma guardate laggiù, presso la riva del laghetto, non vedete qualche cosa? - Sì, dei pali piantati sul ghiaccio o meglio nell'acqua - disse il tenente. - Che cosa saranno? - Mio caro Koninson, credo che faremo bene a recarci laggiù. - Che sperate di trovare? - So che gli abitanti di queste regioni prima che l'inverno cominci, piantano nei fiumi e nei laghi dei pali a cui sospendono delle trappole per i pesci. - Che ci sia sotto qualche rete? - Se non sarà una rete, troveremo qualche cosa di simile. Andiamo, Koninson. Lasciarono la piccola capanna e si diressero verso il laghetto. Il tenente non si era ingannato, poichè attraverso il ghiaccio distinsero una forma nerastra stretta fra due pali e che pareva un gran paniere. Con pochi colpi di scure spezzarono il ghiaccio e sotto vi scorsero una specie di imbuto di vimini terminante in un recipiente pure di vimini, dentro il quale nuotavano parecchi grossi pesci. Koninson cacciò dentro le mani, e in pochi minuti ritirò due trote, tre lucci, due bei pesci che il tenente riconobbe per "gadus lota", ed infine un pesce molto grosso, tutto nero, che gli indigeni chiamano "nalina", ma, la cui carne di qualità mediocre serve per lo più a nutrire i cani delle slitte. - Abbiamo dei viveri per quattro o cinque giorni! - disse il fiociniere tutto contento. - Ringrazio di cuore quel co-yucone che ha avuto la buona idea di collocare qui l'imbuto. Se lo troverò, gli regalerò uno dei nostri coltelli. Fecero ritorno alla capanna sotto cui allegramente pranzarono colle due trote; indi, dopo poche chiacchiere, si avvolsero nelle loro coperte, sicuri di non venire disturbati da nessuno. Alle 4 del mattino, approfittando del freddo della notte che aveva indurito lo strato di neve, tornarono a spiegare la vela e ripresero la corsa con una celerità di dieci o dodici chilometri all'ora. Verso le 7 del mattino Koninson segnalò verso sud un bosco che pareva prolungarsi indefinitamente verso est e verso ovest, formato da pioppi e da abeti neri. - Dobbiamo essere vicini al Porcupine! - disse il tenente. - Apri bene gli occhi, fiociniere. Manovrò in modo da entrare sotto il bosco senza urtare contro gli alberi, e lasciò che la slitta continuasse a scivolare verso il sud. Mezz'ora dopo Koninson con un rapido movimento faceva cadere la vela. Era tempo; duecento passi più innanzi, fra due rive coperte di salici, si estendeva un largo fiume che doveva essere il Porcupine. XXIII L'ORSO BIANCO §Il Porcupine, chiamato anche Ratto, è un bel corso d'acqua comunicante col fiume Makenzie, che scorre da ovest ad est, quasi parallelamente alla costa, da cui però dista oltre duecento miglia. Nella stagione estiva molti canotti lo percorrono mettendo in comunicazione il forte Yucon colla stazione di La Pierre e coi forti che si trovano sulle rive del Makenzie; ma, quando comincia a gelare, la navigazione viene interamente sospesa e le tribù indiane che popolano le rive e che si chiamano "figlie del Ratto", si ritirano o verso sud o verso nord, dedicandosi alla caccia che talvolta è più produttiva della pesca. Quando il tenente e Koninson, lasciata la slitta, discesero la sponda, non scorsero anima viva, nè alcuna abitazione. Il fiume, completamente gelato, non aveva attirato ancora alcuno di quei valenti canottieri e pescatori che s'incontrano così spesso nella buona stagione. Però, percorrendo la riva per qualche tratto, trovarono qua e là numerose traccie del soggiorno degli indiani. Infatti ai piedi d'una roccia rinvennero delle vecchie reti state abbandonate perchè inservibili; più oltre una capanna semi-arsa, un remo ancora piantato nel ghiaccio e finalmente anche un canotto lungo otto piedi, costruito con lunghe liste di corteccia di betulla cucite insieme con sottili radici d'abete e calafatato di resina. Un fianco, però, era stato sfondato, forse dall'urto dei ghiacci, sicchè non poteva più servire. - Diamine, mi pare che questi signori indiani si facciano molto desiderare! - disse Koninson. - Molte traccie abbiamo trovato, ma non un volto umano abbiamo veduto dalle rive dell'Oceano a questo fiume. - Eppure parecchie tribù vivono in questa desolata regione - rispose il tenente. - Ma dove sono? - Non lo so, ma vi sono e qualcuno ne incontreremo. - E verremo bene accolti? - Non ho mai udito dire che gli indiani di queste terre siano cattivi. - Però so che parecchie volte hanno dato addosso ai bianchi. - È vero, Koninson, ma per difendere la loro indipendenza. Aggiungerò anzi, che hanno dimostrato di essere assai coraggiosi e di non aver paura dei forti meglio armati. - Quale tribù sperate d'incontrare? - Quella che si chiama "figlia del Ratto", che vive sulle sponde di questo fiume. È possibile, però, che in sua vece ne incontriamo qualche altra, poichè nessuna ha dimora stabile e tutte vanno qua e là cercando i territori che offrono maggiore selvaggina. - E come si chiamano questi altri indiani? - Vi sono i Co-yuconi, i più numerosi dell'Alaska e che abitano le rive del fiume Yukon; i Koctck-a-Kutkin o indiani delle bassure; gli An-Kutkin e i Tatanckok-Kutkin appartenenti alla famiglia dei Malemuti, che abitano il basso corso dell'Yukon, e i Tanana, che hanno il loro centro al confluente dell'Yukon col fiume Tanana, dove si erge un grosso villaggio chiamato . Altre tribù minori occupano il territorio che si estende fra i fiumi suddetti e il Makenzie, appartenenti quasi tutte alla gran tribù dei "figli del Ratto". - Ed ora che noi siamo qui giunti, dove ci dirigeremo, signor Hostrup? Verso ovest o verso est? - Sarei dell'opinione di seguire il Porcupine fino al Makenzie e di raggiungere il forte Speranza. - Allora andiamo al forte Speranza. - Ti avverto che la via sarà lunga. - Non mi spavento, signor Hostrup. - Oggi accamperemo qui e cercheremo di rinnovare le nostre provviste. Io spezzerò il ghiaccio e mi metterò a pescare; tu batterai i boschi. - Non chiedo di meglio. Tornarono alla slitta, mangiarono un boccone e si separarono: Koninson si cacciò sotto il bosco col fucile e il tenente discese la riva armato di scure per aprire un buco nel ghiaccio. Il fiociniere per qualche tratto costeggiò il Porcupine colla speranza di abbattere qualche capo di selvaggina acquatica, avendo notato qua e là delle traccie di lontre ma nulla scorgendo, si addentrò nel bosco camminando con prudenza e cercando di non far scricchiolare la neve. In lontananza si udivano le lugubri urla di una muta di lupi, forse occupata a cacciare qualche grosso capo di selvaggina, qualche alce senza dubbio, sicchè si diresse da quella parte, niente affatto atterrito dai denti di quei feroci ma non coraggiosi carnivori. Dopo aver superato una piccola altura sulla quale erano già spuntati in gran numero i papaveri dai petali bianchi e dai petali d'oro, primi fiori della buona stagione, un certo numero di sassifraghe stellate e di ranuncoli gialli, ridiscese verso il fiume avendo udite le urla dirigersi da quella parte e quindi allontanarsi in direzione sud. Aveva raggiunta una macchia di piante sui cui rami spuntavano certe coccole rosse delle quali sono amanti gli orsi bianchi, quando scorse a terra delle larghe tracce che indicavano il passaggio di un grosso animale. - Oh! Oh! - esclamò egli, arrestandosi di botto. - Queste non sono nè tracce di alci, nè di lupi e tanto meno di volpi. Si curvò e le esaminò attentamente, poi si sollevò rapidamente gettando uno sguardo inquieto sotto gli alberi e intorno ai cespugli che crescevano in gran numero presso la riva del fiume. - Per di qui è passato un orso, e senza alcun dubbio un orso bianco - mormorò. - Devo tornare o tirare innanzi? Esitò un momento, sapendo quanto fosse forte e terribile l'avversario che poteva da un istante all'altro incontrare, ma la speranza di tornare all'accampamento con un sì bell'animale lo decise a continuare la caccia seguendo appunto quelle orme. Rinnovò per maggior precauzione la carica del fucile introducendovi due palle, si assicurò se il coltello scorreva facilmente nella guaina di pelle, poi si slanciò risolutamente innanzi, ma con gli occhi bene aperti e gli orecchi ben tesi. Percorse un quattro o cinquecento metri fermandosi di frequente per ascoltare, poi si gettò precipitosamente dietro a un grosso albero. In mezzo ad un cespuglio, lontano un tiro di freccia, aveva veduto agitarsi una massa biancastra che era subito scomparsa, forse perchè stava scendendo il pendio della riva. Stette alcuni minuti immobile cercando di distinguere meglio il carnivoro, poi udì, non senza provare un certo tremito, una specie di nitrito simile a quello che emette un mulo. - È un orso bianco! - esclamò il fiociniere, abbandonando con precauzione il nascondiglio. - Animo, mio caro Koninson, se sei venuto fin qui non devi tornare al campo a mani vuote. Sapendo quanto gli orsi bianchi siano diffidenti e difficili a lasciarsi accostare se non sono affamati, si gettò sottovento onde l'animale non lo fiutasse e guadagnò la riva del fiume sempre tenendosi celato dietro i tronchi degli alberi e le irregolarità del terreno. Giunto là, s'alzò sulle ginocchia tenendo in mano il fucile e guardò. A trenta soli passi di distanza egli scorse l'orso bianco occupato a divorare le coccole rosse dei cespugli e le tenere gemme di alcuni minuscoli salici d'acqua che crescevano stentatamente fra la neve. Senza dubbio non si era ancora accorto della presenza del cacciatore, poichè non dimostrava alcuna inquietudine, anzi lentamente gli si avvicinava. Koninson imbracciò il fucile e mirò lungamente la testa del mostro, non ignorando che, se lo avesse colpito in qualunque altra parte del corpo, non lo avrebbe atterrato. Alcuni istanti dopo la detonazione del fucile si fece udire scuotendo fortemente gli strati dell'aria. Quando il fumo si dissipò, il fiociniere, con suo grande terrore, vide l'orso che saliva la riva di galoppo, aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli. Nessuna macchia di sangue si scorgeva sulla bianca pelliccia, segno chiaro che la palla si era perduta altrove. Mancava il tempo di ricaricare l'arma e anche di fuggire, poichè l'orso non era più che a pochi passi. Il fiociniere in quel terribile frangente non si perdette d'animo. Afferrò il fucile per la canna e quando si vide l'animale dinanzi, lo percosse replicatamente sul muso. Disgraziatamente l'arma gli sfuggì di mano mentre vibrava un terzo colpo e si trovò inerme. Impegnare una lotta corpo a corpo col coltello era cosa troppo pericolosa con simile avversario, la cui forza è veramente straordinaria, se non eguale, certo di poco inferiore a quella del terribile orso grigio delle Montagne Rocciose. Non restava che fuggire a tutte gambe. Koninson si appigliò a questo partito, e si diede a precipitosa fuga attraverso la foresta, mandando alte grida per attirare l'attenzione del tenente che non doveva essere molto lontano. Superò, correndo disperatamente, la piccola altura procurando di tenersi presso gli alberi onde, in caso disperato, salvarsi sui rami; poi si lasciò scivolare o meglio rotolare fino al basso, dove incontrò il tenente che si era affrettato ad accorrere col fucile e una scure. - Cos'hai? - gli chiese questi, precipitandosi verso di lui. - Che ti è accaduto? Chi ti insegue? - Fuggite! Fuggite! - esclamò Koninson rimettendosi in piedi. - Ho un orso bianco alle spalle. - Un orso! E dov'è? - L'ho incontrato presso le rive del fiume e si era messo a inseguirmi, dopo essere sfuggito al mio colpo di fucile. - Se si mostra avrà una buona accoglienza, ragazzo mio. Ma dov'è il tuo moschetto? - Mi è sfuggito di mano mentre mi difendevo. - Bisogna andarlo a riprendere, o quell'animale te lo rovinerà tutto. Orsù, prendi la scure e andiamo a vedere. - Badate, tenente, che abbiamo da fare con un orso affamato, il quale si getterà su di noi. - Siamo in due e possiamo tenergli testa. Hai nulla di rotto? - Sono intatto. - Allora silenzio e avanti. Il tenente, che ci teneva assai ad abbattere il carnivoro per rinnovare le provviste già molto scarse, salì intrepidamente l'altura a rapidi passi, fiancheggiato da Koninson, il quale trovandosi male armato tentennava, e giunto sulla cima gettò uno sguardo sul versante opposto, in direzione del fiume, ma. non vide nulla, nè udì il ben noto nitrito del pericoloso avversario. - Dove si sarà nascosto? - si chiese. - Forse dietro a quelle macchie - rispose il fiociniere, indicando i cespugli che crescevano sulle sponde del Porcupine. - Non ti ha inseguito? - Non lo so, poichè non ardii voltarmi indietro. - Scendiamo, amico mio. Tenendosi dietro ai tronchi degli alberi e cercando di produrre meno rumore che fosse possibile, per sorprenderlo e sparargli addosso prima che potesse fuggire, raggiunsero i cespugli e precisamente il luogo ove era avvenuta la lotta. Guardarono attorno alle piante, sulla riva e nel fiume, ma l'orso bianco non c'era e, quello che era più sorprendente, non c'era nemmeno il fucile perduto dal fiociniere. - Tò! - esclamò il tenente al colmo della sorpresa. - Che abbia mangiato il moschetto? Eppure non è una bistecca. Si misero a frugare nelle macchie colla più grande attenzione, visitarono i crepacci, girarono i tronchi degli alberi per un bel tratto di bosco, ma sempre nulla: il fucile era proprio scomparso. - Che ne dici? - chiese Hostrup, che si grattava furiosamente la testa. - Io dico che questa sparizione ha del soprannaturale, - rispose Koninson. - Che l'orso abbia portato con sè l'arma? - E per che farne? - Non lo so davvero, Koninson. - Che sia venuto qui qualche indiano? - Non è possibile, poichè non vedo sulla neve che le tue traccie e quelle dell'orso. - E allora? - Che sia un orso ammaestrato? - Ma non vi sono serragli nei dintorni, che io sappia, signor Hostrup. - Ma vi possono essere degli indiani. - E voi credete ... - Io non credo nulla, ma dico che quell'orso può appartenere a qualche banda d'indiani. - E voi supponete che il birbante abbia portato il mio fucile ai suoi padroni? - Così deve essere. - Cosa dobbiamo fare? - Inseguire il ladro. - Ben detto, signor Hostrup. - Ecco qui le traccie che ha lasciato sulla neve. Ha disceso la riva, ed ha attraversato il fiume dirigendosi senza dubbio verso sud. Forse dietro a quella foresta sorge un accampamento di indiani. - Allora andiamo, ma ... e la nostra slitta? - La ritroveremo nel ritorno. - Ma i lupi la saccheggeranno. - Faranno un ben magro bottino, amico Koninson. Orsù, in cammino. Discesero la riva, attraversarono il fiume che in quel luogo misurava circa duecento metri di larghezza e risalirono l'opposto pendio entrando in un'altra foresta, sotto la quale scorrazzavano diversi lupi bianchi di dimensioni non comuni. Le traccie dell'orso furono ben presto ritrovate ed assieme ad esse l'impronta del calcio del fucile. - Si direbbe che quel birbante adopera la mia arma come un bastone - disse Koninson. - Deve essere un gran burlone! - rispose il tenente. - Ora che ci penso, che sappia anche adoperare il fucile? Non vorrei che ce lo scaricasse contro a tradimento. - Mi hai detto che non hai avuto tempo di ricaricarlo, quindi questo pericolo non esiste. Affrettiamo il passo e apriamo ben bene gli occhi. Si rimisero in cammino sempre seguendo le traccie del carnivoro ma, percorsi duecento metri, tutti e due tornarono a fermarsi in preda ad una certa inquietudine. Da una fitta macchia di pini e di abeti neri, usciva una grande cortina di fumo che strisciava lentamente sul campo gelato prolungandosi infinitamente, e in distanza si udivano delle voci umane. - Un accampamento? - chiese Koninson. - Senza dubbio! - rispose il tenente. - Andiamo innanzi? - Sì, ma con prudenza. Se sono indigeni potremmo venire scambiati per nemici e accolti molto male. - Vedete? - esclamò Koninson, - le traccie dell'orso si dirigono verso quell'accampamento. - Lo dicevo io, che quel burlone doveva essere ammaestrato. Gettiamoci dietro questi alberi e procediamo cauti. Stavano per eseguire quella prudente tattica, quando delle urla selvaggie scoppiarono alle loro spalle. Si volsero rapidamente l'uno puntando il fucile e l'altro impugnando la scure. Alcuni uomini, che si erano forse tenuti nascosti dietro i tronchi degli alberi o i mucchi di neve, correvano loro addosso agitando certe fiocine e certi ramponi di forma particolare ed alcuni vecchi fucili. Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa: - Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!

. - Lo so, ma non ne abbiamo un'altra migliore. Fate ancorare la nave, signore, e andiamo a visitare l'"iceberg". Mastro Widdeak, ad un ordine del capitano, diresse il "Danebrog" verso una specie di "fiord" che formava il banco di sinistra e lo fece ormeggiare con doppie gomene ad un solido "hummock". Ciò fatto, Weimar, Hostrup, Koninson e sei marinai si imbarcarono in una baleniera e si portarono sotto l'"iceberg", in un punto ove l'approdo non era difficile. La montagna di ghiaccio fu minutamente visitata. Misurava novanta e più metri di larghezza e milleduecento di lunghezza con una vetta di almeno quattrocento. Da una parte combaciava perfettamente con un banco, ma dall'altra lasciava un canaletto, così piccolo però da non permettere nemmeno il passaggio ad un canotto. - È inattaccabile! - disse il capitano. - Occorrerebbero cinque tonnellate di polvere e cento uomini per aprire un passo capace di permettere l'uscita al "Danebrog". - Lo riconosco - rispose il tenente. - E se si tentasse di tagliare l'uno o l'altro dei banchi? - disse Koninson. - I grandi freddi ci sorprenderebbero prima di aver scavato un canale di cinquecento braccia - rispose Weimar. - Allora non c'è più speranza di riguadagnare lo stretto di Behring. - Lo temo, Koninson. - Dannate balene! Mi vengono i brividi al pensare che forse dovremo qui svernare. - Torniamo a bordo; non abbiamo più nulla da fare qui - disse il capitano. - Cammina il banco? - Sì, verso sud-sud-ovest. La corrente polare lo porta. - Ma allora finiremo nello stretto di Behring. - Sì, se non verremo arrestati da altri banchi o da qualche isola della costa americana. A bordo, amici, e fidiamo in Dio. La baleniera in pochi colpi di remo li ricondusse al "Danebrog", dove li attendevano con viva ansietà i marinai. Il capitano in poche parole li informò del vero stato delle cose, lasciando però intravvedere delle speranze che forse più non esistevano, poi diede ordine di ammainare le vele che per il momento diventavano inutili e di assicurare vieppiù la nave, ma in modo da tenerla in mezzo al "fiord". Quelle diverse manovre erano state appena eseguite, che il sole scomparve dietro una massa di vapori di un color plumbeo. Era un nebbione che avanzava stendendosi al disopra dei grandi banchi, ma così fitto da oscurare perfino il "blink". - L'inverno procede a grandi passi - disse il tenente a Koninson. - Temo che per il "Danebrog" sia proprio finita. - Anch'io ho questo timore, signor Hostrup - disse il fiociniere. - Fra pochi giorni avremo intorno a noi tanti ghiacci da sfidare lo sperone di cento fregate. Tò! Ecco quegli uccelli che volano verso sud. Fortunati volatili! Verso le 10 il nebbione che avanzava rapidissimamente, spinto innanzi dal vento che aveva cambiato già direzione, era giunto sopra i grandi banchi avvolgendo il "Danebrog" in un velo umidissimo e freddissimo. Quasi subito il termometro scese a 4o sotto zero. L'equipaggio, dopo aver acceso per ogni precauzione i fanali e collocato due sentinelle armate di fucile, onde impedire che qualche orso bianco si avvicinasse alla nave, cosa del resto non difficile stante la vicinanza dei banchi, si ritirò sotto coperta. Durante la notte nulla accadde di straordinario. Il "wacke" - tale è il nome che i balenieri danno ai banchi contenenti un bacino d'acqua - navigò lentamente verso sud-sud-ovest, spinto dal vento e dalla corrente polare, aggregando alla già sua enorme mole i ghiacci che incontrava sul suo cammino. L'indomani, 29, il sole non si fece vedere, nascosto come era dal nebbione sorto alla sera, e il termometro scese di due altri gradi sotto lo zero. I ghiacciuoli, che ingombravano il canale, in parecchi luoghi si unirono formando dei sottili lastroni di ghiaccio. Quel principio di congelamento impressionò non poco l'equipaggio del "Danebrog". Parecchi marinai cominciarono a perdere ogni speranza di poter riguadagnare il porto da cui erano partiti. Il capitano e il tenente, durante la giornata, fecero una visita all'"iceberg" e notarono con dolore che si era cementato ancor più solidamente ai banchi e che il canaletto era interamente gelato. Il 30 fu una giornata orribile. Una nevicata abbondantissima cadde dal cielo coprendo i banchi di un lenzuolo alto parecchi palmi e la coperta del "Danebrog". Il termometro scese di un altro grado. Il capitano fece accendere le stufe e, per non tenere i suoi uomini in ozio, che in quelle fredde regioni influisce assai sul morale, ordinò di procedere alla depurazione dell'olio di balena. Per questa operazione si adoperano sacchi di flanella ripieni nel frammezzo di carbone in polvere distribuito su uno strato grosso un mezzo pollice e trattenuto da trapunti, onde impedire che si raccolga tutto nel fondo. Entro questi sacchi si versa l'olio, dopo averlo liquefatto, se il freddo l'ha già fatto gelare, e si lascia filtrare entro un vaso contenente una certa quantità d'acqua mescolata con solfato di rame. Quando il vaso è quasi pieno, si lascia riposare l'olio tre o quattro giorni, indi si estrae col mezzo di una chiavetta posta alcune linee sopra il livello dell'acqua. Se si vuol avere un prodotto purissimo, che non sappia di pesce rancido, basta ripetere l'operazione due o tre volte. L'equipaggio, impedito di uscire per la neve che cadeva senza posa e per il gran freddo che regnava in coperta, accettò di buon grado quel passatempo. Verso sera la burrasca di neve si calmò e apparve attraverso le bigie nubi un raggio di sole di una bellezza incomparabile, il quale tinse di rosso l'immensa distesa di ghiacci accavallati attorno alla nave. Il tenente e Koninson ne approfittarono per scendere sul banco e abbatterono una mezza dozzina di oche e alcune procellarie. Videro anche, a non molta distanza dalla nave, una foca, ma questa appena scorse gli uomini si cacciò nel buco che aveva scavato nel ghiaccio per venire a respirare. - Se non è oggi, ti prenderemo domani! - disse il fiociniere. - Non sarà però cosa facile, Koninson. Ora che ci ha scoperti diventerà prudente assai. - Ci nasconderemo dietro qualche "hummock" e appena uscirà dal buco le manderemo una palla nella testa. Che ci siano anche degli orsi bianchi su questo "wacke"? - Non è improbabile. Sovente, spinti dalla fame, questi feroci carnivori si imbarcano sugli "icebergs" colla speranza di sbarcare in una contrada ben fornita di selvaggina. Non sarei sorpreso se domani ne vedessi giungere qualcuno. - Niente di meglio, signor Hostrup. La carne degli orsi è eccellente. - Non dico di no, ma quelle bestiacce non temono di assalire una nave. - Bah! Siamo in molti noi, e fucili ne abbiamo in quantità. Ventre di balena! Guardate laggiù, signor Hostrup! Guardate, guardate! - Vedi un orso forse? - Le nostre balene vedo, ventre di foca! Il fiociniere non si era ingannato. Dall'altra parte del banco, undici balene, comprese tre balenottere, nuotavano verso sud aprendosi a gran colpi di coda il passo fra i ghiacci. - Si direbbe che vengono a deriderci - disse il tenente. - Eh! Vorrei essere fuori di qui col mio rampone, per insegnar loro a ridere! - esclamò il fiociniere che seguiva cogli occhi fiammeggianti quei superbi giganti. - E invece siamo qui, chiusi dappertutto, e anche colla brutta probabilità di restarvi un bel pezzo. - Puoi dire colla certezza, Koninson. - Non avete alcuna speranza voi, tenente? - Nessuna, fiociniere. - E lo dite così tranquillamente! Si direbbe che uno svernamento non vi spaventa. Il tenente alzò le spalle. - Bisogna prendere e le cose come vengono, mio caro - disse. - Torniamo a bordo, che comincia a soffiare un vento indiavolato e rigidissimo. Prevedo per domani una burrasca. - Bisognerebbe che fosse così formidabile da spezzare questo dannato "wacke". - Sarà tremenda, te lo assicuro. Guarda che brutte nubi si accavallano in cielo. - E spezzerà il banco? - È probabile, Koninson. Quando tornarono a bordo, il vento aveva cominciato già a soffiare con furia estrema, spazzando la neve che copriva il banco e sollevando a grande altezza l'acqua dell'oceano. Pareva che portasse con sè una legione di demoni; ora fischiava attraverso gli alberi e le corde della nave, ora ruggiva tremendamente sulle vette degli "icebergs", ora muggiva ancor più forte delle onde che già s'infrangevano con grande impeto contro i ghiacci, abbattendoli e frantumandoli contro il "wacke". Il capitano, temendo che la nave non resistesse a quei poderosi soffi, la fece maggiormente assicurare con altre e più grosse gomene, e ordinò che si raddoppiassero gli uomini di guardia. La notte fu spaventevole. I ghiacci dell'oceano, cacciati dalle regioni settentrionali, venivano a cozzare contro il banco a centinaia, con un fracasso indicibile, accavallandosi gli uni sugli altri, spezzandosi, frantumandosi. Ondate mostruose, spinte dal vento, si sfasciavano incessantemente contro il banco e, cacciandosi sotto di esso, malgrado il suo enorme peso e la sua grande estensione, lo facevano traballare e scricchiolare. Dei larghi crepacci si aprivano di quando in quando, ma tosto si riunivano come se avessero paura che la nave fuggisse per di là. Anche nel canale l'acqua era agitatissima e molti ghiacci, strappati alle rive o rovesciati dal ventaccio, galleggiavano correndo disordinatamente ora qua ora là. Il "Danebrog", quantunque solidamente assicurato, tre volte si spostò minacciando di urtare contro le rive del piccolo "fiord". I marinai, malgrado la profonda oscurità, furono costretti a gettare nuove funi e a portare sul banco due ancore che furono cacciate entro profonde fessure. Alle 2 del mattino, quando maggiore era la furia dell'uragano, il banco, come se fosse stato mosso dal terremoto, ondeggiò fortemente da sud a nord e una grande apertura si manifestò in quella direzione con uno scroscio così forte da poter essere udito a dieci chilometri di distanza. L'"iceberg" che chiudeva il canale fu visto un istante dopo staccarsi e oscillare. Un urlo di gioia si alzò fra l'equipaggio del "Danebrog", salito tutto in coperta. Credette di essere finalmente libero! Disgraziatamente quella gioia fu di breve durata. Il colosso, dopo essersi allontanato di poche decine di braccia, spinto dalle onde tornò a urtare contro il banco, incastrandosi ancor più fortemente di prima dentro il canale. Anche la grande fenditura manifestatasi attraverso il "wacke" si chiuse in seguito alla straordinaria pressione esercitata dai ghiacci che scendevano a migliaia dal settentrione. - Tutto è finito per noi! - disse il capitano al tenente. - Bisognerà svernare. - Forse - rispose Hostrup, che da qualche istante guardava con un cannocchiale verso sud. - Su che sperate? - Ho scorto or ora laggiù una vetta oscura che s'innalza in mezzo ad un banco di ghiaccio. - Ebbene? - Il vento ci spinge verso quella terra, capitano. - Ma siete certo che sia una terra? - Non m'inganno. - Ma è impossibile che siamo già giunti presso la costa americana. - Sono già due giorni che il vento ci spinge verso il sud, aiutando la corrente. Può essere anche, invece della costa americana, un'isola. - E cosa sperate nell'incontro di quella terra? - L'uragano ci porta con una velocità non indifferente. - Ah! Voi sperate in un urto. - Sì, capitano. - Infatti il banco potrebbe infrangersi. E non correrà pericolo il "Danebrog"? - Il canale è largo. - Lo so, ma i ghiacci potrebbero accumularvisi dentro e stritolarci. - Se ci mettessimo alla vela? - Avete ragione. Ehi, mastro Widdeack! Fa spiegare le vele e sciogliere gli ormeggi. C'era il tempo necessario, essendo la terra scoperta dal tenente assai lontana. I marinai, che avevano compreso di che si trattava e su quale speranza calcolava il capitano, in un batter d'occhio portarono in coperta le vele, le infierirono ai pennoni e le spiegarono, mentre mastro Widdeack, assieme a Koninson e ad Harwey, scesi sul banco, liberavano le ancore e scioglievano le gomene. Mezz'ora dopo il comando dato, il "Danebrog" usciva dal "fiord" infrangendo i ghiacciuoli che lo ingombravano e si portava in mezzo al canale, allontanandosi dall'"iceberg" che doveva essere il primo a sostenere l'urto. La terra segnalata non distava allora che un miglio. Era una roccia di mille metri di estensione e alta un trecento o quattrocento. Tutto intorno si estendevano grossi banchi di ghiaccio e grande numero di ghiacci galleggianti. Il "wacke", che filava con una velocità di tre o quattro nodi all'ora, in brevi istanti fu addosso all'isolotto. Si udì uno scroscio cento volte più forte di quello avvenuto poche ore prima, seguito, poco dopo, da un tonfo sordo causato dalla caduta di alcune montagne di ghiaccio. Il "wacke", fracassati i ghiacci che circondavano dal lato nord l'isolotto, andò a cozzare contro lo scoglio con tale impeto da ritornare indietro. Due larghe fessure si aprirono, le rive del canale si restrinsero e in parte diroccarono, le piramidi, le arcate, le colonne crollarono, ma il "Danebrog" rimase prigioniero. L'"iceberg", quantunque avesse sopportato quasi tutto il cozzo, non aveva ceduto. Solo la sua torre aveva oscillato e si era screpolata, ma senza cadere. Sul ponte del "Danebrog" si alzò un urlo di rabbia. Questa volta per i balenieri era proprio finita. Più non restava che svernare.

. - Fortunatamente abbiamo i canotti. - Se all'orso saltasse il brutto ticchio di darci la caccia, i nostri canotti a nulla gioverebbero. Sono nuotatori formidabili, quei carnivori dal bianco mantello, e non perdono contro un canotto. - Infatti sovente ho veduto qualcuno di questi mostri nuotare ad una trentina di miglia dalle coste. Mi sorprende però di trovarli qui, su questo fiume. - E perchè, Koninson? - Mi hanno detto che gli orsi bianchi non si allontanano molto dalle rive dell'Oceano. - È vero, ma talvolta si addentrano nelle terre seguendo il corso dei fiumi e non di rado se ne uccisero ad una distanza di centosessanta e anche duecento miglia dalle coste marine. II nitrito si fece udire più vicino. Koninson e il tenente guardarono verso la riva sinistra e videro scendere, attraverso la spaccatura di una roccia, un grosso orso bianco, il quale si arrestò sedendosi sulle zampe posteriori. - Mi pare che non abbia delle buone intenzioni - disse Koninson. - Il birbante deve essere affamato e conta di satollarsi colle nostre carni. Eh, mio caro, sono troppo coriacee per il tuo ventricolo. - Stiamo in guardia, poichè mi ha l'aria di non lasciarci passare. Appoggiamo verso la riva destra. - Se si potesse piantargli due palle nel cranio? - È impossibile avere il polso fermo in questi canotti. Orsù, prendiamo il largo. L'orso non assaliva. Si accontentava di seguirli con due occhi che manifestavano un'ardente bramosia, agitando il capo da destra a sinistra, con quel moto che è particolare a tutti gli orsi, a qualunque razza appartengano. I due canotti erano già giunti presso la riva che in quel luogo disgraziatamente non offriva approdi essendo tagliata quasi a picco, quando l'orso si decise a muoversi. Fece alcuni passi innanzi e indietro, come se cercasse un buon punto, poi si gettò nel fiume con un sordo tonfo, sollevando una colonna d'acqua. - Presto, fuggiamo o siamo perduti! - gridò il tenente. - Attento ai ghiacci, Koninson, poichè se il tuo canotto si spezza l'orso non ti risparmierà. Fecero forza di remi e risalirono la corrente sperando di giungere in qualche punto della sponda che permettesse di approdare e di affrontare sul terreno solido il nemico che nel liquido elemento aveva dalla sua tutti i vantaggi possibili. Ma ben presto s'accorsero con vivo terrore, che quella gara con quell'abile nuotatore era impossibile. Infatti il feroce animale, che forse una gran fame animava, veniva innanzi con una velocità incredibile battendo furiosamente le sue larghe zampe e mostrando una larga bocca che, di quando in quando, richiudeva con colpi secchi da mettere i brividi. Certi momenti si slanciava quasi interamente fuori dell'acqua spiccando dei lunghi salti, come se trovasse un terreno solido, guadagnando in un colpo solo tre o quattro metri. La buona stella però, che fino allora aveva protetto i naufraghi, anche questa volta non li abbandonò. Infatti ad una svolta del fiume scorsero alcun isolotti che potevano offrire un rifugio o almeno un luogo propizio per affrontare l'animale. - Presto, Koninson! - disse il tenente che remava disperatamente. - Dirigiamoci laggiù e prendiamo subito terra. Con un ultimo sforzo si avvicinarono agli isolotti e si arenarono dinanzi al primo. Abbandonati precipitosamente i canotti, si slanciarono a terra portando con loro i fucili e la scure. L'orso non era lontano che trenta passi e raddoppiava gli sforzi temendo che l'agognata preda fosse per sfuggirgli. Vedendo i due uomini prendere terra e puntare i fucili, armi che senza dubbio non gli erano nuove, subito si tuffò. - Fugge forse? - chiese Koninson, che contava di regalarsi uno zampone d'orso per pranzo. - Non lo credo - rispose il tenente, tenendo il fucile sempre puntato. - Simili animali non abbandonano così facilmente una preda, quando sono affamati. Cercherà di avvicinarsi tenendosi sott'acqua per poi gettarsi contro di noi all'improvviso. - Bah! Avrà l'accoglienza che si merita. - Eccolo, Koninson! Mira giusto! Infatti l'orso era repentinamente riapparso a pochi passi dall'isolotto. Con un solo balzo si slanciò sulla riva tentando di risalirla. - Fuoco! - gridò il tenente. Le due detonazioni dei fucili si fusero in una sola. La belva, ferita, mandò un lungo nitrito che parve anzi un vero urlo e tornò a sommergersi, lasciando alla superficie un cerchio di sangue che rapidamente si allargava. - È morto! - gridò Koninson slanciandosi innanzi. - Non ti fidare! - disse il tenente. - Sta in guardia! L'avvertimento giungeva troppo tardi. Koninson si era già immerso nella corrente fino alle ginocchia, quando si sentì violentemente atterrare. L'orso, che spiava il nemico tenendosi sott'acqua, repentinamente si rialzò e urtò violentemente il fiociniere che non resse al colpo. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò il disgraziato, tentando, ma invano, di rimettersi in gambe. - Non temere, ragazzo! - tuonò il tenente. L'orso, con una agilità che si sarebbe creduta impossibile in quel corpo tutt'altro che ben formato, stava per gettarsi sul fiociniere per dilaniarlo coi potenti artigli, ma il tenente gli si gettò coraggiosamente dinanzi. S'udì un colpo secco, seguito da un sordo grugnito. La belva, colpita mortalmente alla testa, si rovesciò nel fiume perdendo un torrente di sangue misto a brani di cervella, e sparve in mezzo ai gorghi. - Grazie, mio tenente! - disse Koninson con voce commossa. - Non dimenticherò mai questo colpo maestro. - Mi ringrazierai a pericolo finito! - rispose Hostrup, raccogliendo prontamente il fucile e disponendosi a caricarlo. - Come? Non è morto dunque? - Non è lui che ci darà ancora da fare, ma i suoi compagni. Guarda, mio povero amico, guarda sulla riva che ci sta di fronte. Koninson guardò nella direzione indicata e non potè trattenere un gesto di spavento. Da una collinetta che scendeva dolcemente nel fiume, tre forme biancastre scivolavano rapidamente sulla neve mandando dei grugniti punto rassicuranti. Erano tre altri orsi bianchi i quali, forse attirati dalle urla del compagno e dalle detonazioni, accorrevano a prendere parte alla lotta. - Corpo d'una balena! - esclamò il fiociniere impallidendo. - Ma questo è il paese degli orsi! Ci assaliranno? - Se son affamati come quello che abbiamo ucciso, non si accontenteranno di guardarci - rispose il tenente che cominciava a diventare inquieto. - Si potrebbe tentare la fuga? - Se la loro intenzione è quella di assalirci, l'acqua non li arresterà. Qui si tratta di mirare giusto e di picchiare sodo. Carica il tuo fucile e stiamo attenti. I tre orsi erano allora giunti sulla riva del fiume, ma non parevano avere molta fretta. Andavano innanzi e indietro lentamente, guardando i due uomini più con curiosità che con ferocia, senza decidersi a entrare nel fiume. Finalmente uno, il più grosso, s'immerse e nuotò in direzione degli isolotti, ma procedendo cautamente. Koninson e il tenente lo mirarono e gli scaricarono contro i fucili. La lezione parve sufficiente, poichè il carnivoro s'arrestò un momento, poi raggiunse i compagni zoppicando e perdendo sangue. Si fermarono ancora alcuni minuti sulla riva, indi s'allontanarono per la stessa via di prima, scomparendo dietro le rocce. - Buon viaggio! - gridò il fiociniere. - E tarda guarigione all'ammalato! - aggiunse il tenente. - Che il diavolo si porti questi affamati abitanti delle regioni artiche! - Fortunatamente che non erano di cattivo umore, quei signori dalla bianca pelliccia. E quello che abbiamo ucciso, dove è andato a finire? - La corrente l'ha portato chi sa mai dove, Koninson. - Che disgrazia che tanta carne sia andata perduta! - Bah! Ne troveremo dell'altra. - Ma le munizioni scarseggiano, signor Hostrup. Non ho più di quaranta colpi. - Ti basteranno per giungere al forte. Orsù, imbarchiamoci e proseguiamo il viaggio. Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d'isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce. Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli. A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo "fiord" che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d'orsacchiotto, poi ripartirono. Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi. - Approdiamo - disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. - Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte. - Non faremo cattivi incontri, spero. - No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno. Presero terra all'estremità dell'isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena. Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto. Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza. Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all'infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l'isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra. Si alzò rapidamente e s'avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte. - Che animale è mai questo? - si chiese egli. - Un orso no di certo. Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano. - Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d'Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi. - Signor Hostrup! - disse in quell'istante il fiociniere che si era svegliato. - C'è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese? - È ciò che io sto chiedendomi - rispose il tenente. - Sono persone o animali? - Persone senza dubbio. - Forse siamo giunti al forte senza accorgercene? - Io credo che sia ancora molto lontano. - Provate a chiamare. - Olà, chi ride? - gridò il tenente. Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone. - Senza dubbio ci sono degli Indiani - disse il fiociniere raggiungendo il tenente. - Ci saranno amici o nemici? - In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento. - Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione? - Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l'inglese o almeno il russo. - Proviamoci. - Olà, chi siete e da dove venite? - chiese egli in inglese. - Co-yuconi, - rispose una voce forte e distinta. - Corpo d'un vascello sventrato! - esclamò Koninson, facendo un salto. - Io conosco questa voce! - È quella ... - Del capo Tanana che ci ha derubati. - Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.

. - Abbiamo i nostri fucili, armi molto preziose in questa regione. - Allora andiamo, signor Hostrup. In fondo al piccolo seno, fra due rupi, s'apriva a uno stretto sentieruzzo per il quale senza dubbio gli indiani erano discesi. I due balenieri, abbandonati i canotti dopo di averli ben assicurati ad uno scoglio, s'arrampicarono su per quello scabroso passaggio e raggiunsero la cima di una rupe dalla quale si poteva dominare un vasto tratto di paese. Dinanzi a loro si estendeva una vastissima pianura, chiusa verso sud, ma a molte leghe di distanza, da una grande catena di montagne che probabilmente si staccava dalla grande catena delle Montagne Rocciose che forma l'ossatura principale dell'America del Nord. Qua e là, specialmente lungo il corso del fiume, apparivano boschi di pini, di abeti, di betulle e di altissimi pioppi. Il luogotenente, che guardava attentamente verso est, non tardò a scorgere un gruppo di tende che si appoggiava ad un bosco e dalle cui cime coniche uscivano delle nuvolette di fumo - Ecco l'accampamento - disse il fiociniere. - Ma mi sembra molto grande, signor Hostrup. Quali indiani saranno? - Forse dei Denè o dei Loschi, oppure dei Chippewyans. - E il forte, lo vedete in nessun luogo? - È molto lontano, fiociniere, forse qualche centinaio e anche più di chilometri. Forza alle gambe e avanti. Si gettarono in spalla i fucili e partirono di buon passo, fiancheggiando un bosco che seguiva il corso del fiume ed entro il quale si udivano numerosi ululati di lupi. La neve che ancora copriva la pianura, essendosi gelata durante la notte, rendeva la marcia facile. In meno di un'ora giunsero a poche centinaia di passi dall'accampamento composto di una quindicina di tende. L'abbaiare di numerosissimi cani, che avevano fiutato le vicinanza di stranieri, fecero uscire dieci o dodici uomini, i quali avanzarono senza diffidenza verso i due naufraghi. Erano tutti di statura piuttosto inferiore alla media, dalla pelle olivastra e lucente, forse perchè unta di recente con grasso, cogli occhi un pò obliqui e i capelli neri, grossi e lunghi. Portavano vesti di pelle di foca e di orso, munite di cappucci orlati di pelle di volpe, ed avevano lunghi stivali cuciti con nervi di animali. Le loro armi consistevano in certe fiocine di denti di narvalo munite d'una punta di rame, e in archi. - Sono eschimesi - disse il tenente che li aveva subito riconosciuti. - Possiamo fidarci? - chiese Koninson. - Godono fama di essere molto ospitali, ma assai vendicativi. Credo che non avremo da temere. Un eschimese, che doveva essere certamente un capo, a giudicarlo dalle vesti che erano più ricche di quelle degli altri, s'avvicinò ai naufraghi e, dopo averli salutati in inglese, strofinò energicamente il proprio naso contro il loro in segno di amicizia. - I bianchi nulla hanno da temere dalle tribù degli Innoit! - disse poscia. - Siano i benvenuti nella mia tenda. - Siamo pronti a seguirti, - rispose il tenente - e non avrai a pentirti di averci ospitati. - I bianchi si recano al forte Speranza? - Sì, ma noi non conosciamo la via venendo dalle lontane regioni dell'ovest. - Kumiath la insegnerà! - rispose il capo. - Seguitemi nella mia tenda. Il capo li condusse nell'accampamento dove vennero circondati da una trentina di eschimesi fra uomini e donne accorsi da tutte le parti ai furiosi abbaiamenti dei cani. Il tenente e il fiociniere notarono che fra i curiosi si trovavano anche alcuni individui che per la loro statura più elevata, per le loro vesti e per i loro lineamenti parevano appartenere ad un'altra razza. Non vi fecero però molto caso e seguirono il capo il quale, dopo averli fatti passare attraverso un vero labirinto di bastoni sostenenti gran numero di pezzi di carne messi a seccare, li condusse in una piccola tenda dove, in mezzo a mucchi di pelli, marcivano, fra odori pestilenziali, ma che sembravano invece apprezzati dagli eschimesi che si cibano volentieri di carni corrotte, salmoni, lucci, trote, gadus, coreganus ed altri pesci del Makenzie. Benchè non si trovassero troppo bene fra quei miasmi, si accomodarono su una gran pelle d'orso distesa per terra e fecero come meglio poterono onore al cavallo marino conservato in olio di balena e ad una grossa trota, un pò troppo passata, offerta loro dal capo. Per tema di fare un affronto all'eschimese, furono anche costretti a sorbire una certa quantità di olio di morsa che fu loro gentilmente offerto, con quante smorfie ognuno lo può immaginare. Terminato quel diabolico pasto, sontuoso per un eschimese gran bevitore d'olio e mangiatore di carne cruda, corrotta o malamente affumicata sulla fiamma di una lampada, ma quanto mai disgustoso per un europeo, il capo intavolò una conversazione narrando che da soli pochi giorni aveva lasciato il forte Speranza, dove aveva fatto moltissimi scambi di pelli contro tabacco, conterie, armi, ecc., e che ora stava per raggiungere le sponde dell'oceano a cacciarvi la balena. - Dista molto il forte? - chiese il tenente, quando il capo ebbe finito. - Tre giorni di marcia e niente di più! - rispose l'eschimese. - Basta seguire questo bosco che si stende lungo le rive del Makenzie per non smarrire la via. - Ci sono altre tribù che si dirigono al forte? - Sì, una che è venuta dalle lontane regioni dell'ovest, come voi e che si è accampata nel bosco. - Appartiene alla vostra razza? - No. - È molto numerosa? - Lo è diventata in questi giorni. Conta almeno quattrocento uomini. - Il suo nome? - Il suo nome è ... Tò, ecco alcuni dei suoi uomini, senza dubbio qui giunti per vedere gli uomini bianchi e che ... Non aveva ancora finito che il fiociniere, alzatesi di colpo, si precipitava fuori urtando furiosamente contro un grosso attruppamento di persone radunatesi dinanzi alla tenda. Il suo robusto pugno piombò con secco rumore su di un uomo il quale stramazzò a terra mandando un urlo di dolore. Gli eschimesi si divisero precipitosamente, lasciando alle prese i due avversari che lottavano con pari accanimento. Il tenente, che non sapeva ancora di che si trattasse, accorse in aiuto di Koninson, il quale ad ogni pugno che lasciava cadere gridava: - Questo per la polvere! Questo per le palle! E questo per la carne che ci hai rubato! Solo allora si accorse che l'avversario era un indiano, anzi il capo Tanana che li aveva indegnamente traditi e derubati sulle rive del Porcupine. Stava per piombare anche lui sul traditore, quando questi sgusciando con una agilità sorprendente fra le mani del fiociniere, riuscì a rimettersi in piedi. - Ti ucciderò! - gridò minaccioso. Poi fuggì a rompicollo verso la foresta dove si trovava il suo accampamento. Il tenente, che aveva perduta la sua flemma abituale, stava già per armare il fucile e inviargli una palla nel dorso, ma il capo eschimese gli abbassò l'arma dicendogli: - Sii prudente! Essi sono molti e molto vendicativi. - Ma quell'uomo ci ha derubati, dopo aver chiesto il nostro aiuto per rifornirsi di viveri - disse il tenente. - Meriterebbe la morte, ma tu qui sei straniero e non hai che un compagno, mentre i Tanana sono numerosi. Vieni nella mia tenda e cercheremo di accomodare ogni cosa. - È troppo tardi! - disse il fiociniere. - Si tratta ora di far parlare i fucili. E non s'ingannava. Dalla foresta uscivano allora due o trecento guerrieri, mandando grida assordanti. I più erano armati di fiocine e di coltelli, ma taluni portavano dei fucili, assai vecchi, ma non del tutto in cattivo stato. - Che uragano sta per scoppiare? - si chiese Koninson che si preparava però a vendere cara la vita. - Non so come la finirà, se quei pagani si gettano tutti uniti contro di noi. - Fuggite! - disse l'eschimese che aggrottava la fronte e che era diventato pensieroso. - I Tanana sono valorosi e non si arresteranno dinanzi ai vostri fucili. - Ma dove fuggire? - chiese il tenente. - I nostri canotti sono lontani e saremo raggiunti prima di trovarli. - Dietro la mia tenda ho una slitta tirata da una muta di robusti cani. Montatela e fuggite verso il forte. - Ma si vendicheranno contro di te, mio buon eschimese. - I Tanana non ardiranno alzare le mani contro di me - rispose con fierezza l'eschimese. - Questa è la terra degli Eschimantik (mangiatori di pesce crudo), come loro ci chiamano, e sanno che una offesa fatta alla mia tribù la pagherebbero cara, poichè i miei compatrioti non la lascerebbero impunita. Presto fuggite, o sarà troppo tardi. Il tenente si levò l'orologio e lo diede al bravo eschimese dicendogli: - Conservalo in memoria della tua buona azione. Ed ora alziamo i tacchi. Si slanciò dietro la tenda seguito da Koninson, ma si arrestò subito mandando una sonora imprecazione. Sette od otto Tanana, che si erano avvicinati tenendosi nascosti dietro le tende degli eschimesi, sbarravano la via. Alla loro testa, armato d'un vecchio fucile, si trovava il capo, il cui naso schiacciato dal potente pugno del fiociniere, mandava ancora sangue. - Ah, brigante! - gridò il tenente. - Non si passa di qui - disse il capo con tono minaccioso. - E cosa pretenderesti tu? - Che tu mi consegni il tuo compagno perchè io vendichi l'affronto fattomi. - Bene, prendi questo, giacchè lo vuoi. Il tenente puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il Tanana, colpito alla fronte, stramazzò al suolo fulminato, mentre i suoi guerrieri fuggivano disordinatamente gettando urla di rabbia e di vendetta. - Presto, Koninson, salviamoci! - disse il tenente. - Andiamo, signore, e filiamo dritti al forte. La slitta era pronta. Dodici robusti cani, somiglianti ai lupi, dalle gambe nervose, erano attaccati due a due, pronti a partire al primo segnale. I due naufraghi balzarono nel veicolo e si slanciarono attraverso la pianura trascinati in una rapidissima corsa. Dalla parte dell'accampamento scoppiarono alcune fucilate, le cui palle attraversarono gli strati d'aria sibilando; poi si videro i Tanana dirigersi correndo verso il bosco mandando clamori assordanti. - Tò! Fuggono forse? - chiese Koninson al tenente che animava i cani colla voce e colla correggia. - Ne dubito, fiociniere. - Che ci diano la caccia? - Lo temo, ma i nostri cani corrono come il vento e abbiamo già un notevole vantaggio. - Terranno duro questi corridori? - Per parecchie ore e senza rallentare. Basta che la neve non ceda sotto il peso della slitta. - Vedo che la pianura è tutta bianca. Ma oh! La matassa s'imbroglia! - Che cosa vedi? - Delle slitte che escono dal bosco. - Sono i Tanana che ci danno la caccia. Quante sono? - Ne ho contate sette e, se non corrono più di noi, certo non rimangono indietro. II tenente volse un rapido sguardo verso il bosco e vide infatti sette slitte correre con fantastica rapidità sulla nevosa pianura, trascinate da lunghe file di cani. Quattordici uomini le montavano e i più erano armati di fucili. - Diamine! Sono proprio decisi a vendicare il loro capo, - disse. - Bah! Avranno pane per i loro denti, se riescono a raggiungerci. Tu sorveglia i loro movimenti, mentre io cerco di far correre i nostri cani. - E gli eschimesi? Mi spiacerebbe che quei buoni diavoli la pagassero per noi. - Il capo mi sembrò quieto; è segno che non avrà nulla da temere. S'avvicinano? - Vorrei ingannarmi, signor Hostrup, ma mi pare che guadagnino su di noi. - Avanti, miei piccini! - gridò il tenente, sferzando i piccoli trottatori. - Se vi comportate bene, avrete doppia razione di carne stasera. - Non ne abbiamo un pezzettino grande come un soldo. - Ne troveremo al forte. Se continuiamo a correre così, vi giungeremo in poche ore. Guadagnano i Tanana? - Sì, signor Hostrup. Non sono che a un chilometro da noi. - Quante cariche ci restano? - Una cinquantina. - Ci bastano per abbatterli tutti quattordici! - disse il tenente con voce tranquilla. - Avanti, miei piccini, lesto il passo e tu, bianco, fatti più sotto. Là, così va bene. Un colpo di fucile echeggiò al largo, ma la palla non giunse fino ai fuggiaschi. - Troppo lontano, mio caro! - disse Koninson ridendo. - Quando sarete a tiro lo darò io il segnale e vi garantisco, brutti pagani, che lo assaggierete, il mio piombo. Altri due colpi di fucile rimbombarono, ma non con miglior effetto. I Tanana compresero che non era ancor giunto il momento di far parlare la polvere e raddoppiarono le grida e le scudisciate per far correre di più i loro cani, i quali parevano più robusti e più veloci di quelli regalati dall'eschimese. Ben presto non furono che a seicento metri di distanza. Koninson, che non li perdeva di vista un sol momento, stava per puntare il fucile quando vide le sette slitte fare un rapido voltafaccia e fuggire precipitosamente verso l'accampamento, di cui si scorgevano appena appena le tende. - Tò! - esclamò il fiociniere al colmo della sorpresa. - Battono in ritirata! - Come? I Tanana fuggono? - Sì signor Hostrup. Che abbiano avuto paura dei nostri fucili? - Io non lo credo. - E allora? Che siamo vicini al forte? - Dinanzi a noi non vedo che un bosco e anche molto lontano. - Che ci minacci qualche pericolo? - Lo temo, Koninson, anzi ne sono certo. - E da che io arguite? - I nostri cani da qualche minuto corrono più rapidi e mi sembrano inquieti. Infatti il tenente non si ingannava. Le povere bestie non parevano più tranquille e divoravano la via con crescente rapidità, senz'essere eccitate. Avevano cessato i loro allegri abbaiamenti, il loro pelo era diventato irto e volgevano frequentemente la testa verso i padroni, come se invocassero la loro protezione. - Hum! - mormorò Koninson. - C'è qualche cosa di grave in aria. - O meglio in terra. Guarda laggiù, guarda! Koninson guardò nella direzione indicata e vide una linea oscura estendersi dinanzi ad un bosco e poi slanciarsi attraverso la pianura con fantastica rapidità. Quantunque dotato di una buona dose di coraggio, impallidì. - I lupi! - esclamò. - Che giungono a centinaia - aggiunse il tenente. - Ecco perchè i Tanana sono fuggiti. Sfuggire al palo di tortura degli Indiani per cadere sotto i denti dei lupi, mi sembra che sia un pò dura. Vi confesso, signor Hostrup, che comincio ad aver paura. - Calma e sangue freddo, fiociniere. Se possiamo giungere a quel bosco che chiude l'orizzonte, siamo salvi. - Contate di trovare colà dei difensori? - No, ma troveremo degli alberi sui quali potremo trovare un comodo rifugio. Prepara le armi e lascia a me la cura di guidare i cani. I lupi arrivavano di gran corsa mandando delle urla brevi, come strozzate e mostrando le loro potenti mascelle armate di acuti e bianchissimi denti. Erano almeno duecento e parevano molto affamati e perciò decisi a tutto. Giunti presso la slitta, che continuava a filare colla velocità di una freccia, formarono un ampio semicerchio. Non assalivano ancora, forse tenuti in rispetto dalla presenza dei due uomini, ma le loro urla parevano volessero dire: Vi mangeremo! Vi mangeremo! - Devo aprire il fuoco? - chiese Koninson con un leggero tremito. - No, finchè si accontentano di seguirci - rispose il tenente che era tutto intento a far correre i cani, nella cui rapidità stava la salvezza di tutti. - Aspetta che ci assalgano. Per un paio di miglia i lupi, quantunque la fame attanagliasse il loro stomaco, continuarono a seguire e a fiancheggiare la slitta, ma poi il loro semicerchio si restrinse e uno di loro, più ardito o più affamato degli altri, si precipitò addosso ai cani che si gettarono violentemente da una parte. Pronto come il lampo Koninson fece fuoco e l'aggressore cadde stecchito nella neve. Alcuni carnivori, spaventati dalla detonazione, si sbandarono, ma gli altri raggiunsero la slitta. Pochi minuti dopo un altro lupo tentò l'assalto, ma ebbe egual sorte del primo. La slitta si trovava allora a due soli chilometri dal bosco e filava con una velocità vertiginosa. Tre o quattro altri l'assalirono per di dietro tentando di balzarvi dentro. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò Koninson. - Io non basto più. Il tenente abbandonò la correggia affidandosi all'istinto dei cani e afferrò il fucile. Era tempo, poichè i feroci carnivori avanzavano sempre più, pronti ad un assalto generale. Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così, mentre i cani li trascinavano verso il bosco. I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli nomini i quali si difendevano disperatamente. Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione. - Non ho più polvere! - Maledizione! - urlò il tenente. - E questo è il mio ultimo colpo! I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era ormai sicura, si precipitarono confusamente all'assalto della slitta, circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo l'orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi, scavezzando gambe, schiacciando musi. Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che era lontano soli trecento passi. Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente, balzarono in mezzo all'orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati. - Signore, - disse un di loro volgendosi verso il tenente che non si reggeva più - non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del forte Speranza.

. - Abbiamo da fare senza dubbio con un vecchio maschio - disse il capitano. - Peccato che sia solo - disse Koninson che guardava il cetaceo con occhio fiammeggiante. - Avrai un gran da fare egualmente, fiociniere. Tu sai che questi mostri sono sempre di cattivo umore e coraggiosi fino alla pazzia. Affrettiamoci prima che si allontani troppo. Ai vostri posti, giovanotti. In un baleno furono imbrogliate le vele e le due baleniere sospese alle gru furono calate in mare. Erano queste due svelte imbarcazioni, colla prua tagliente, le costole saldissime, a prova di coda. I remi, i ramponi, le lance e le lenze erano già state collocate a posto. Il tenente Hostrup, Koninson e quattro robusti rematori, presero posto nella prima; mastro Widdeak, il secondo fiociniere Harwey, un bravo giovanotto allievo di Koninson e che aveva già ramponate non poche balene, presero posto nella seconda assieme ad altri quattro marinai. - C'è tutto? - chiese il capitano curvandosi sulla murata. - Tutto - risposero ad una voce il tenente e il mastro. - Al largo adunque e che Dio vi guardi! Le due baleniere a quel comando s'allontanarono fendendo le onde con grande rapidità. Il tenente e il mastro, con un lungo remo le guidavano e accanto a loro con una coscia trattenuta nella scanalatura della poppa, stavano i due fiocinieri cogli occhi fissi sul cetaceo e i ramponi in mano, lance terribili, munite di una freccia lunga un buon metro, in forma di una V rovesciata, coi margini esterni taglientissimi e i margini interni grossi e dritti per impedire all'arma, una volta entrata nelle carni del cetaceo di uscirne. Ad ognuna di queste armi era già attaccata una lenza di 400 metri terminante in una tavoletta di sughero grossa assai e sulla quale si vedeva impresso, a ferro rovente, il nome del "Danebrog" e il porto da dove era salpato. Il capodolio, a quanto pareva, non aveva ancora scorto le due baleniere che gli si avvicinavano rapidamente e in silenzio, manovrando in modo da coglierlo in mezzo. Continuava tranquillamente a nuotare, tuffando ora la testa per pascersi, o sollevando la possente coda bilobata, un sol colpo della quale era più che sufficiente per gettare in aria o schiacciare gli arditi cacciatori che stavano per affrontarlo. Già le baleniere non erano che a tre gomene, quando il mostro si voltò bruscamente verso di esse guardandole coi suoi occhietti e mostrando la sua enorme bocca capace di contenere tutti i dodici uomini che correvano su di lui. Contemporaneamente battè la coda in basso sollevando onde gigantesche. - Attenzione! - disse il tenente. - Il capodolio è inquieto. - Che brutto sguardo! - disse Koninson con voce un po' alterata. - Si direbbe che affascina. - Non guardarlo, Koninson. - Guardo il punto ove posso lanciare il mio rampone. Le due baleniere avevano rallentata la corsa ed avanzavano colla massima prudenza cercando di virare al largo. Ad un tratto il capodolio gettò fuori una nuvoletta di vapore più denso, agitò la coda e si inabissò lentamente formando un piccolo vortice. - Fermi! - gridarono il tenente e il mastro. I marinai alzarono i remi e le due baleniere rimasero ferme, lasciandosi dondolare dalle onde. Nessuno fiatava nè si muoveva e tutti, eccettuato il tenente, erano pallidissimi. Persino Koninson, che aveva già cacciato centinaia di volte i giganti del mare era bianco e le sue membra provavano, di quando in quando, dei tremiti nervosi. Era il principio di quella strana paura che sovente invade i balenieri, anche i più audaci e i più invecchiati nel mestiere, paura che talvolta assume proporzioni tali da far perdere completamente la testa ai timonieri e ai remiganti e da togliere ai fiocinieri le forze in siffatta guisa da non essere più capaci di alzare il braccio per scagliare, al momento opportuno, il rampone. Se il mare fosse stato tranquillo e le baleniere, nel ricadere, non avessero fatto rumore, si sarebbe udito il cuore di Koninson e di tutti gli altri battere precipitosamente. - Coraggio, fiociniere! - disse il tenente. - Ne ho, signore! - rispose il giovanotto, sforzandosi di sembrare calmo. - Aspetto solo che il mostro ricompaia per piantargli nelle costole il mio rampone, e Dio mi danni se non gli farò una ferita mortale. - Attenti, ragazzi! - gridò in quell'istante mastro Widdeak. Cento passi più innanzi, alla superficie del mare si scorse un largo tremolio, poi apparve prima l'estremità del muso indi la testa e quindi l'intero capodolio. Ad un cenno del tenente i marinai tuffarono i remi e la baleniera mosse velocemente contro il gigante. Già non era più che a trenta braccia e Koninson aveva afferrato e alzato il rampone, quando il cetaceo sollevò colla sua potente coda una montagna d'acqua così enorme, che la baleniera fu rovesciata violentemente su di un fianco atterrando coloro che la montavano - Maledizione - urlò Koninson. Dopo quella prima ondata il mostro ne sollevò una secondi e finalmente una terza ancora maggiore che riempì più che mezza l'imbarcazione, la quale si trovò nell'impossibilità di agire. Koninson e i marinai abbandonato il rampone e i remi si videro costretti a vuotare l'acqua imbarcata che minacciava di mandarli a picco, mentre il cetaceo, preso da un subitaneo accesso di collera, correva qua e là come fosse impazzito gettando sordi brontolii che somigliavano al tuono udito a grande distanza e lanciando ovunque colpi di mare. Pareva che cercasse i nemici per frantumarli a colpi di coda ma, male servito dai suoi occhietti che, sono debolissimi, non riusciva a scorgerli. Mastro Widdeak, che fino allora si era tenuto un po' indietro, spinse la baleniera contro di lui. In tre minuti giunse ad una distanza di sole venti braccia. - Coraggio, Harwey! - gridò Koninson. Il giovane fiociniere, quantunque pallidissimo e in preda ad un forte tremito che paralizzava in parte le sue forze, alzò il rampone cercando un buon punto per lanciarlo. - Getta! - urlò il mastro. Il rampone ondeggiò innanzi ed indietro e partì. Forò due onde, sfiorò una terza e si piantò nel fianco destro del capodolio in una parte carnosa e ricca di tendini. Subito la baleniera si mise a indietreggiare rapidamente lasciando scorrere la lenza. Il mostro, ferito forse pericolosamente fece un balzo innanzi gettando un urlo così acuto da poter essere udito a parecchi chilometri di distanza, indi si tuffò. Ma non rimase sott'acqua che brevissimi istanti e riapparve cento braccia più innanzi gettando un secondo e più forte urlo, battendo furiosamente la coda e rovesciandosi sul fianco ferito come se cercasse di strapparsi l'arma che lo tormentava. Mastro Widdeak diresse l'imbarcazione verso di lui, mentre Harwey afferrava una lancia munita all'estremità di una specie di palla tagliente, aspettando il momento che alzasse la coda per lanciargliela sotto le ultime vertebre caudali. Il tenente spinse pure innanzi la sua baleniera, ma il cetaceo, che senza dubbio non era stato ferito molto gravemente dopo aver descritto un semicerchio, si mise a filare con estrema rapidità verso nord-nord-est. In breve la lenza del rampone fu tutta consumata senza che il capodolio scemasse la sua velocità. Harwey attaccò una seconda la lenza, ma anche questa in pochissimo tempo fu tutta fuori. - Cerchiamo di affaticarlo! - disse mastro Widdeak. - Lega la lenza! - gridò Koninson, che era ancora lontano, quantunque i remiganti arrancassero disperatamente. Harwey legò la lenza e la baleniera fu trascinata dal cetaceo che continuava a nuotare verso nord-nord-est, senza tuffarsi e senza fermarsi un solo istante. Ma anche questo tentativo non riuscì a scemare la corsa del mostro, anzi si accrebbe tanto che c'era da temere che le onde invadessero la baleniera. Mastro Widdeak fece legare la "droga" alla lenza e lasciò andare il capodolio, certo di ritrovarlo ben presto senza vita. - A bordo! - disse egli. - Quel brigante si di stancherà di correre e allora lo troveremo. La scialuppa virò di bordo e si diresse verso il "Danebrog" che avanzava a tutte vele spiegate verso la baleniera del tenente, sulla quale bestemmiava su tutti i toni e in tutte le lingue della terra il fiociniere Koninson. Pochi minuti dopo i dodici cacciatori salivano sul "Danebrog". - Mille tuoni! - esclamò Koninson, mettendo piede sulla tolda. - Non mi aspettavo quest'oggi un tiro così birbone. Brigante d'un capodolio, sfuggire così al mio rampone! Ma se lo incontro ancora gli farò passare un gran brutto quarto d'ora. - Non pigliartela tanto a cuore, fiociniere! - disse il tenente. - Lo raggiungeremo e ben presto, è vero, capitano? - Lo spero - rispose Weimar. - Lo spero anch'io - disse Koninson. - Ma se il mio rampone l'avesse toccato! ... Quel briccone di Harwey ha sempre più fortuna di me. - Saresti geloso? - chiese il capitano, ridendo. - Io! Mai più! Ma se l'avessi ramponato io! ... Mille tuoni, non sarebbe corso tanto. - Ti ripeto che lo raggiungeremo. - Ma dove sarà fuggito? - Scommetterei una botte di "wisky" contro una tazza di "gin" che si è diretto verso lo stretto di Isanotzkoi. - Ci dirigeremo adunque verso quello stretto. - Subito, fiociniere A bordo le baleniere, giovanotti. Le due imbarcazioni in brevi istanti furono issate alle gru, dopo di che il "Danebrog" si rimise in marcia dirigendosi verso la penisola di Alaska che coll'isola di Uminak forma lo stretto accennato di Isanotzkoi L'equipaggio a cui premeva assai ritrovare il cetaceo per non perdere la famosa scommessa impegnata col norvegese, erasi già quasi tutto installato sulle coffe e sulle crocette, tenendo gli occhi fissi verso nord - nord - est. Il capitano aveva promesso una bottiglia di "wisky" al primo che lo scopriva, e quel premio era da tutti agognato. Ben presto però dovette rinunciare a quella guardia che stancava assai, tanto più che non scorgeva alcuna traccia del fuggitivo nè una macchia rossastra che indicasse del sangue, nè quelle materie grasse che si lasciano ordinariamente dietro i cetacei in genere. Per quattro lunghe ore il bravo veliero, spinto da un fresco vento di sud-ovest, filò con una velocità superiore al sette nodi senza deviare dalla sua rotta, poi piegò un po' verso nord-est colla speranza di ritrovare su quella nuova via le tracce. - Nulla! - esclamò il capitano che scrutava l'oceano con un cannocchiale. - Bisogna che sia ben forte per camminare tanto. - Io temo che non sia gravemente ferito, signore - disse il tenente che fumava pacificamente la sua pipa, seduto sulla murata di babordo. - Ha lanciato forse male il rampone Harwey? - Bene no di certo, capitano; nè del resto, lo poteva. Il capodolio aveva sconvolto il mare in siffatta guisa, che nelle baleniere non era possibile tenersi in piedi. - Diavolo! Che lo si perda? - Non lo credo. Camminerà molto, è cosa certa, forse fino allo stretto di Behring, ma poi si fermerà e morrà. - Ma lo ritroveremo noi? - E perchè no? C'è la "droga" attaccata alla lenza. - Lo so ma io so pure che vi sono dei balenieri che non si fanno scrupolo di impadronirsi dei cetacei ramponati dagli altri. E questi pirati di nuova specie non sono pochi. - Aggiungo qualche cosa d'altro, ora che ci penso - disse il tenente. - Che cosa, signor Hostrup? - Che se il nostro capodolio va a morire su qualche isola o su qualche costa per noi è perduto. Gli abitanti se lo prenderanno senza curarsi della "droga". - Non ci mancherebbe che questa disgrazia! Sapete, tenente, che noi siamo molto sfortunati? E proprio quest'anno che abbiamo impegnato la scommessa con quel briccone di norvegese. Fortunatamente ho un equipaggio forte e coraggioso e una nave che non teme i ghiacci del polo. - Siete risoluto a salire molto al nord? - Sì, signor Hostrup - rispose il capitano con voce grave. - Salirò fin oltre lo stretto di Behring, e andrò a visitare le coste della Giorgia. Se non troverò colà tante balene da completare il carico, salirò ancora più al nord verso la terra di Wrangel. - Siate prudente, capitano. - Avete paura dei ghiacci, voi? - Io! ... Quando ho una borsa di tabacco e una bottiglia di "gin" o di "brandy", vado dritto fino al polo. - Lo so, tenente, che voi non avete paura di nulla. Sta bene, saliremo fino a incontrare i grandi banchi di ghiaccio. Bisogna che i danesi vincano i norvegesi. Due ore dopo il "Danebrog" avvistava le isole Aleutine.

Non abbiamo che due gradi sotto zero. Mano alle seghe e ai picconi. Il mastro tracciò sul banco un canale largo sette o otto metri e i marinai si misero alacremente al lavoro manovrando vigorosamente i loro attrezzi. Prima di sera un terzo del banco era stato spezzato. Non restava che un tratto di sessanta metri e questa rottura poteva benissimo farla, e senza pericolo, lo sperone del "Danebrog". Alle otto il capitano e i marinai tornarono a bordo. L'uragano allora cominciava a diminuire rapidamente. Non soffiava il vento che a colpi irregolarissimi e il mare non si sollevava più così furiosamente come il giorno innanzi. Durante la notte anche il cielo si rischiarò e apparve il sole, illuminando d'una tinta porporina, superba, i ghiacci che galleggiavano sul mare diventato ormai quasi tranquillo. Alle 6 del mattino il capitano Weimar, il tenente e tutti i marinai erano in coperta, decisi di uscire a qualunque costo da quel "fiord". Tutte le baleniere furono ritirate a bordo e ben assicurate onde l'urto, che poteva essere violentissimo, non le danneggiasse, poi furono solidamente assicurati i mobili delle cabine di poppa e i barili della stiva. Alle 7 le vele furono spiegate e i! capitano si mise alla ribolla del timone mentre i marinai si disponevano ai bracci delle manovre. Un vento fresco soffiava da sud-sud-est portando in alto mare i ghiacci che la tempesta aveva spinto verso la costa, e un superbo sole brillava sull'orizzonte spargendo all'intorno un dolce calore. Alle 7 e dieci minuti l'ancora fu strappata dal fondo e ritirata a bordo. Subito il "Danebrog", sotto l'azione del vento che gonfiava le sue vele, si scosse come un cavallo che sente lo sprone e cominciò a filare con notevole velocità verso l'uscita del "fiord", dinanzi al quale scintillava il banco di ghiaccio. C'erano oltre novecento metri da percorrere. Tale distanza era più che sufficiente per imprimere al "Danebrog" lo slancio necessario per frantumare l'ostacolo già stato considerevolmente indebolito il dì innanzi dalle seghe, dai picconi e dalle scuri dei marinai. - Saldi, in gambe! - gridò il capitano che stringeva con ferrea mano la ribolla del timone. Spinto dal vento che tendeva a crescere, il "Danebrog" si avvicinava rapidamente al banco, lasciandosi dietro una scia bianchissima in mezzo alla quale guizzavano non pochi pesci. I marinai, aggrappati al bordo o alle sartie, non respiravano quasi più e guardavano con qualche apprensione il banco che si faceva ad ogni istante più vicino. - Attenzione! - gridò il capitano. Non c'erano che quindici o venti metri. Il "Danebrog", che correva colla velocità di sette nodi all'ora, in brevi istanti superò quello spazio e si scagliò in mezzo al canale scavato il dì innanzi dai marinai. Avvenne un urto formidabile che mandò a gambe levate gran parte dell'equipaggio, seguito subito da uno scricchiolìo sinistro e da una mezza dozzina di sorde detonazioni. Il banco colpito in pieno dall'acuto e solido sperone della nave baleniera si fendette come una lastra di vetro, poi si spezzò in dieci diversi punti con lunghi stridii. Per alcuni momenti il "Danebrog" restò quasi immobile, poi guidato dal suo intrepido capitano, si cacciò in mezzo a quei frantumi e uscì in pieno mare colla prua verso nord. - Urrah! - urlò l'equipaggio che si era subito rimesso in gambe. - Viva il "Danebrog"! Viva il capitano Weimar! Dinanzi al "fiord" il mare era libero, ma a destra e a sinistra, un numero immenso di ghiacci accumulativi dall'uragano, ingombrava le coste. Montagne gigantesche, picchi aguzzi, piramidi tronche, colonne enormi, arcate curiose, cupole ancor più strane, poi grandi banchi si estendevano verso nord formando coi loro riflessi la luce bianca che, come dicemmo, i marinai chiamano "ice- blink". Nessuna nave solcava le onde che erano diventate basse assai e molto lunghe e che, sotto i raggi del sole, splendevano magnificamente come se fossero cosparse di pagliuzze d'oro. Solamente in aria, attraverso l'"ice-blink", volavano silenziosamente alcuni gabbiani. - Bisogna spingersi verso nord per qualche centinaio di miglia - disse il capitano al tenente, dopo aver guardato attentamente, con un forte cannocchiale, l'ampia distesa d'acqua. - Troveremo il mare libero e potremo allora navigare senza lottare contro i ghiacci. - Non allontaniamoci tanto dalle coste, capitano - disse il tenente.- Appena lo possiamo, pieghiamo verso ovest; bisogna affrettarsi a raggiungere lo stretto di Behring. - Lo faremo, signor Hostrup, a meno che non incontriamo sulla nostra via qualche ... - Che cosa, capitano? - Tornare in porto sconfitto, mi punge assai. - Ah! Volete dire che se una balena venisse a nuotare nelle nostre acque ... - Non esiterei a darle la caccia, dovessi spingere la mia nave fino ai grandi campi di ghiaccio. - Sarebbe un'imprudenza imperdonabile, capitano. Abbiamo già tardato troppo a ritornare quest'anno. Due giorni ancora perduti potrebbero esserci fatali. Non vi pare? Il capitano non rispose. Aveva puntato il cannocchiale verso est e guardava con grande attenzione. Il suo viso, di solito tranquillo, si era tutto d'un tratto cambiato e un leggero tremito agitava le sue braccia. - La via è lunga assai! - continuò il tenente che non si era accorto di nulla. - Io sono certo che quando giungeremo nel mare di Behring lo troveremo in gran parte gelato e ... - Tenente! - esclamò in quell'istante il capitano con voce alterata. - Non vedete nulla voi laggiù, verso est? - Sì, degli "icebergs" che danzano allegramente. - No, più lontano, guardate più lontano. A voi, prendete il cannocchiale. Il tenente prese lo strumento e lo puntò nella direzione indicata. Là dove il mare pareva confondersi coll'orizzonte, scorse parecchi punti neri apparire e scomparire e poi riapparire. - Vedete nulla? - chiese Weimar. - Sì! - rispose il tenente con voce tranquilla. - Vedo un branco di balene. - La vittoria è nostra, tenente! Anche quest'anno i Danesi trionferanno. - Cosa intendete dire, capitano? - Che daremo la caccia alle balene. Torneremo a Nuova Arcangelo così carichi da affondare, o poco meno. Il tenente fece un gesto di stupore. - Perderemo un'altra settimana, signore - disse poi con grave accento. - Che importa? - Vi ho detto poco fa che siamo lontani dal mare di Behring, e che dubito assai lo si possa attraversare. - Bah! Lavoreremo di sperone, se i ghiacci l'avranno chiuso. - Capitano, pensateci due volte. Giuocate la sorte non solo del "Danebrog", ma di noi tutti. - Quando si tratta dell'onore dei balenieri danesi non occorre pensarci su due volte. Bisogna cacciare quelle balene, tenente, e a qualunque costo. - E sia, signore. Ma badate a me, facciamo presto, assai presto o saremo costretti a svernare in mezzo ai ghiacci. - Non domando che tre o quattro giorni. Ehi!, mastro Widdeak, governa dritto a quelle balene e voi, ragazzi, preparate le baleniere e i ramponi! - Ma ... capitano ... - arrischiò il vecchio lupo di mare, che come il tenente Hostrup aveva previsto il pericolo. - Che vuoi tu dire? - chiese il capitano. - Siamo innanzi assai colla stagione ... - Sei hai paura, sbarca sulla costa americana. - Mai, signore. Il vecchio Widdeak non abbandona il "Danebrog". - Allora ubbidisci. Alle manovre, ragazzi! Domani avremo tanto grasso da affondare il "Danebrog" fino al bastingaggio. Un istante dopo il "Danebrog" virava di bordo mettendo la prua verso la direzione indicata. I marinai, quantunque avessero pur essi compreso che stavano per giuocare una carta pericolosa, che poteva anche costare loro la vita, si erano subito messi alacremente al lavoro, incoraggiati dai due fiocineri. Tutti ci tenevano assai alla scommessa, gelosi dell'onore dei balenieri danesi; per di più, in quel branco di balene, intravvedevano dei grossi guadagni. Le baleniere furono in brevissimo tempo armate e sospese alle gru pronte ad essere calate in mare al comando del capitano. I remi, le fiocine, le lancie, le lenze, furono ben disposte nelle imbarcazioni. In capo ad un'ora il "Danebrog" era lontano otto miglia dalla costa americana e solamente sette dalle balene che filavano superbamente verso nord fra una doppia fila di banchi di ghiaccio. Quale spettacolo offrivano quei giganti dell'oceano artico! Erano nove, seguiti da due o tre balenottere e anche queste di dimensioni non comuni. Avanzavano lentamente, gettando in aria, dai loro sfiatatoi, colonne di bianco vapore che tosto si scioglievano. Il sole, battendo sulla loro pelle oleosa, li faceva sembrare immensi cilindri d'acciaio. Ogni qual tratto uno di essi si tuffava formando alla superficie del mare un vero vortice e poco dopo riappariva a grande distanza sollevando colla possente coda grandi ondate, che facevano oscillare vivamente i ghiacci galleggianti. I marinai del "Danebrog", entusiasmati a quella vista, non stavano più fermi, quantunque il comandante avesse raccomandato a tutti calma e silenzio. Salivano sulle griselle, sulle coffe e più su, fino alle crocette, per meglio vederli e mandavano grida di gioia. Koninson, col suo terribile rampone in pugno correva da prua a poppa animando tutti, seguito da Harwey che era pure desideroso di venire a una lotta con quei mostri, malgrado il loro numero che poteva riuscire fatale all'equipaggio del "Danebrog". Persino mastro Widdeak aveva dimenticato l'altro pericolo che minacciava la nave baleniera e nei suoi occhi brillava un'ardente bramosia. Il solo tenente, calmo sempre, seguiva con sguardo perfettamente tranquillo lo sfilare di quel branco. Già il "Danebrog", spinto da un freschissimo vento di sud-sud-ovest non distava che cinque o sei nodi dalle balene, quando queste ad un tratto, e tutte insieme, si tuffarono. Quando tornarono a galla diedero segni di una viva inquietudine. Si volgevano spesso verso sud, battevano la coda precipitosamente, si drizzavano slanciandosi più che mezze fuori dell'acqua e gettavano con maggior frequenza colonne di vapore. - Cosa succede laggiù? - si chiese il capitano aggrottando la fronte. - Che abbiano paura di noi? - Non lo credo! - disse il tenente che gli stava appresso. - Scommetterei che sono state assalite. - Assalite! E da chi? - Voi sapete, capitano, che hanno numerosi nemici. Ah! Guardate là, verso est, quei corpi nerastri che si avanzano rapidamente. - Sì, sì, li scorgo. In quell'istante si udì Koninson, che si era arrampicato sulla coffa di trinchetto, gridare: - Abbiamo una truppa di delfini gladiatori! Quasi nello stesso tempo le balene si davano a precipitosa fuga verso nord. Avevano scorto i delfini, che sono loro acerrimi nemici. Il capitano fece un gesto di rabbia. - Dannazione! - gridò. - Chissà quanto dovremo filare! - Ma guadagneremo qualche balena senza adoperare il rampone! - disse Koninson che aveva lasciato la coffa. - I delfini raggiungeranno senza dubbio le balene e qualcuna, nella lotta, ci lascerà la vita. - Ma saremo costretti a salire ancora verso nord, e la stagione invernale si avanza a rapidi passi. - Bah! Poi ci trarremo d'impaccio come potremo. Ah! Se potessi affrontare quel branco! Che colpi di rampone! Le balene intanto, che temono assai i delfini gladiatori per la loro forza, per i loro aguzzi denti e per la loro ferocia, fuggivano sempre più rapidamente dirigendosi verso le rigidissime regioni del polo. Attorno ad esse il mare, percorso da quelle dodici code, pareva in burrasca. A destra e a sinistra correvano grandi ondate le quali facevano capovolgere con grande fracasso i numerosi ghiacci galleggianti. Di tratto in tratto si tuffavano come se temessero di venire assalite per di sotto, indi riapparivano cacciando con grande furia nubi di vapore ed emettendo delle note acute che si udivano distintamente dall'equipaggio del "Danebrog". Ben presto però, grazie alla loro prodigiosa andatura, scomparvero dietro ghiacci che coprivano l'orizzonte. I delfini gladiatori, che dovevano essere almeno due dozzine, le seguirono nuotando pur essi con grande velocità. Il "Danebrog" però non si arrestò. Il capitano Weimar, e come lui quasi tutto l'equipaggio, avevano giurato di raggiungerle e, ancorchè i pericoli diventassero sempre più numerosi essendo il mare coperto ovunque di ghiacci d'ogni dimensione, ordinò al timoniere di seguire le grandi macchie oleose lasciate dalle balene. Favorito dal vento, che tendeva sempre a crescere, il "Danebrog" navigò tutta la notte verso nord, notte per modo di dire, poichè il sole non rimaneva nascosto che poche ore, ed anche in quelle poche ore all'orizzonte rimaneva tanta luce da distinguere le traccie oleose. Il mattino del 25 settembre, la nave si trovava già a un centinaio di miglia dalla costa americana, ma le balene, senza dubbio vigorosamente inseguite dai loro accaniti nemici, non erano state ancora scoperte. La sera dello stesso giorno però, presso uno "stream", fu raccolto un delfino gladiatore colla testa sfracellata, probabilmente da un colpo di coda di qualche balena. Il mostro era lungo sette metri e gli uccelli marini gli avevano già lacerato la pelle del dorso. Fu issato a bordo, fatto a pezzi e il grasso rinchiuso nelle botti. Il 26 l'equipaggio del "Danebrog" notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull'orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria. Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il "blink" che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell'animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il "Danebrog" non cambiò rotta. All'indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord. - È un banco solo o sono due divisi dal canale? - si domandò il capitano. - Sono due senza dubbio - disse Koninson che l'aveva udito. - E le macchie oleose continuano nel canale. - E cosa vuoi concludere, fiociniere? - Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall'altro lato. - Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale! Il "Danebrog", che avanzava con una velocità di otto nodi all'ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un "iceberg" immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi. Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il "blink" rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi. Il "Danebrog" guidato dall'esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli "streams" e "hummoks" che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero. Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò: - Capitano! Il canale è chiuso! Weimar salì sull'alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un'imprecazione uscì dalle sue labbra. Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all'estremità di quel braccio di mare. - Bisogna tornare indietro - disse il tenente. - Ma le balene dove sono fuggite? - chiese il capitano con i denti stretti. - Probabilmente sono uscite prima dell'arrivo del banco. - Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi - aggiunse Koninson. - Che fare ora? - chiese il capitano. - Capitano, - disse il tenente - badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito. - E la scommessa? - Ci prenderemo la rivincita l'anno venturo. Il capitano, sceso in coperta diede l'ordine di tornare indietro. Il "Danebrog" virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua. Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all'imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L'"iceberg", visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!

. - Abbiamo i nostri fucili, ragazzo mio. - Non ci assaliranno? - Forse, ma noi li respingeremo. Entriamo nella caverna e prepariamo la zuppa. Trascinarono con loro la slitta onde porre in salvo le provvigioni che ancora restavano e raggiunsero il ricovero, dentro il quale potevano difendersi contro l'attacco delle voraci bestie. Koninson accese la lampada, il tenente sciolse sulla fiamma un pò di neve e mise nella marmitta il lichene raccolto che ben presto cominciò a bollire, spandendo all'intorno un profumo appetitoso. Quando fu ridotto in una specie di pasta gommosa e nerastra, il tenente invitò il fiociniere ad assaggiarla. - Il colore non è rassicurante! - disse Koninson. - Ma il profumo è promettente. E l'assaggiò una, due, tre volte. - Eccellente! - esclamò. - Rammenta il sapore del manioca. E come si chiama dagli eschimesi, questa zuppa? - Trippa di roccia. - Evviva la trippa, adunque! La marmitta, vigorosamente assalita, fu ben presto vuotata. I due balenieri stavano per porre sotto i denti alcuni biscotti onde completare il pasto, quando un enorme lupo, dagli occhi scintillanti e dal pelo lungo e arruffato, fece il suo ingresso nella caverna emettendo un lugubre ululato. - Troppo ardito, mio caro! - disse il tenente afferrando il fucile. All'ululato del lupo fecero eco altri ululati che venivano dal di fuori. - Diavolo! - esclamò Koninson, prendendo l'altro fucile. - Abbiamo una banda dinanzi alla grotta. - Hanno fame quelle brutte bestie e forse calcolano di sfamarsi colle nostre polpe. - È ciò che vedremo. Il lupo, punto spaventato, non si muoveva e pareva invitasse i compagni a seguirlo; ma il tenente con un colpo di fucile lo abbattè. Alla detonazione e all'urlo di dolore emesso dal colpito, gli altri lupi invece di fuggire s'affacciarono all'entrata della caverna, mostrando minacciosamente i loro acuti denti e dardeggiando sui due balenieri sguardi ardenti. Koninson fece fuoco in mezzo al gruppo e fece cadere il più ardito. La banda intera si precipitò sul morto e lo fece a brani contendendoselo ferocemente. - Ah! - esclamò il fiociniere. - Il proverbio questa volta riceve una solenne smentita. - È vero! - disse il tenente. - Ora non si dirà più che lupo non mangia lupo. Orsù, mano alla scure e carichiamo quelle canaglie ... Gettando alte grida, si slanciarono in mezzo ai lupi i quali s'affrettarono a battere in ritirata arrestandosi però a breve distanza. - Pare che non abbiano voglia di lasciarci, signor Hostrup. - Ma noi partiremo lo stesso. Ho fretta di raggiungere la cima del colle. - In marcia, adunque. Caricarono i fucili, s'attaccarono alle corde della slitta e usciti dalla caverna, ripresero la faticosa ascensione. I lupi si misero a seguirli ad una distanza di trenta o quaranta passi, destando tutti gli echi delle montagne coi loro interminabili ululati. Per due ore, tirando e spingendo rabbiosamente la slitta che pareva diventasse sempre più pesante, seguirono quella specie di passaggio ma, giunti ad una certa altezza, si trovarono dinanzi ad una parete di ghiaccio che chiudeva la via e così elevata da non potersi superare. Dovettero deviare ed arrampicarsi sui fianchi della montagna più vicina, che erano i meno aspri, ma che tuttavia presentavano delle pendenze che talvolta parevano inaccessibili, lambendo certi burroni che solamente a guardarci dentro venivano le vertigini. I loro sforzi sovrumani però trionfarono di tutti quegli ostacoli e, verso le otto della sera, rattrappiti dalle immense fatiche e dal freddo che lassù si faceva sentire assai vivo, giunsero finalmente sul versante opposto della montagna dove si fermarono, spaziando gli sguardi sul panorama che si stendeva dinanzi a loro, per un tratto di moltissime leghe. Proprio sotto di loro la montagna scendeva rapida, affatto liscia, coperta da enormi lastre di ghiaccio sovrapposte a strati altissimi, senza abissi, senza valli, senza alberi. Più oltre, una pianura scintillante si apriva a perdita d'occhio, smarrendo verso sud, senza alture, senza capanne, senza boschi, senza un essere animato. A destra ed a sinistra, sulle due vicine montagne, due grandi ghiacciai, due veri fiumi di ghiaccio in movimento, scendevano verso la pianura vomitando di quando in quando degli "icebergs" del peso di parecchie centinaia di tonnellate, che il sole imporporava splendidamente. Una fitta nebbia, che il vento sbatteva a destra ed a sinistra e che talora lacerava, s'alzava dal fondo di profondi abissi, dentro i quali s'udivano muggire degli impetuosi torrenti. - Dove siamo noi? - chiese Koninson. - Sul fianco di una montagna - disse il tenente. - Lo vedo bene, signor Hostrup, ma io vorrei sapere in qual luogo: se vicini o lontani dalle terre abitate. - Vicini no di certo. Bisognerà giungere al Porcupine prima d'incontrare qualche tribù d'indiani. - È molto lontano questo fiume? - So che scorre verso sud, attraverso a questa immensa pianura, ma a quale distanza precisamente non lo so. - A qualche migliaio di chilometri no di certo. - No, ma a più di duecento sì. - Allora lo raggiungeremo. - Ne sono certo. Dove sono andati i lupi? - Pare che si siano stancati di seguirci, signor Hostrup. Certamente hanno capito che la nostra carne non era troppo buona per i loro denti. - Meglio così. Dormiremo più tranquilli. - Contate di rizzare la tenda qui? - E perchè no? Scendere è impossibile per le nostre gambe che non stanno più ritte e il luogo non mi sembra cattivo. - Sarà solido il ghiaccio? - Lo credo poichè non scorgo nessuna spaccatura, nè odo alcuno scricchiolìo. - Allora accampiamoci. Staremo un pò troppo freschi, ma ci siamo ormai abituati. Assicurarono la slitta perchè qualche colpo di vento non la facesse scivolare su quella ripida china, rizzarono la tenda appoggiandola ad un grossissimo masso di ghiaccio, una specie di "hummok" che pareva fosse rotolato dalla cima della montagna, ma che sembrava irremovibile, e si cacciarono sotto. La notte non doveva essere tranquilla sui fianchi di quella montagna, e con quei due ghiacciai vicini che non stavano un solo istante zitti. Parecchie volte, agitati da strani presentimenti e spaventati dalle detonazioni dei ghiacci che diventavano più intense, i balenieri uscirono per vedere se correvano qualche pericolo. Verso la mezzanotte però, affranti dalle fatiche e da quella quasi continua veglia, s'addormentarono profondamente. Non erano trascorse tre ore, quando il tenente fu improvvisamente destato da un formidabile boato che fece tremare il ghiaccio su cui posava la tenda. Aprì gli occhi e attraverso il tessuto scorse un vivo bagliore che pareva cagionato da un grande incendio. - Guarda! - esclamò. - Si direbbe che la montagna brucia. Alzò un lembo della tenda e strisciò all'aperto. Una superba aurora boreale, forse l'ultima della stagione invernale splendeva sull'orizzonte settentrionale lanciando attraverso la volta celeste immensi fasci di luce rossastra, i quali tingevano del colore del fuoco tutte le montagne, i ghiacciai e la gran pianura. Ma questo non era tutto. Si sarebbe detto che quella luce avesse avuto anche il calore del fuoco, poichè tutti i ghiacci delle montagne si fendevano in mille guise come se sotto di loro la terra si sconvolgesse e precipitavano a migliaia nella sottoposta pianura in un disordine spaventevole, sibilando, fischiando, tuonando e tutto abbattendo sul loro cammino. Il tenente balzò in piedi, ma si sentì subito atterrare. Anche i fianchi della montagna su cui si trovava erano in movimento, e quelle grandi lastre di ghiaccio, che poche ore prima parevano inchiavardate e sicurissime, si fendevano in tutti i versi e scivolavano giù per le chine. - Siamo perduti! - esclamò involontariamente. - Koninson! Koninson! All'erta! Il fiociniere si slanciò fuori della tenda, ancora mezzo addormentato. - Cosa succede? - chiese. La sua voce si perdette fra le detonazioni dei ghiacci. Si precipitò verso il tenente che, impotente e ormai rassegnato, aveva incrociato le braccia sul petto aspettando la morte che pareva ormai certa. - Fuggiamo, signore! - esclamò. - Dove? - Alla grotta. - È impossibile, la via è interrotta. - Allora siamo perduti. - Chissà! Speriamo in Dio. - Signor tenente ... Il fiociniere non proseguì. Una scossa violenta l'aveva atterrato assieme al tenente e alla tenda. Quasi subito udirono una detonazione paragonabile solo allo scoppio d'una mina di cinquecento chilogrammi di polvere e si sentirono trascinare verso il basso, dapprima lentamente e poi con una rapidità vertiginosa. Un lastrone di ghiaccio di dimensioni enormi e del peso di parecchie migliaia di tonnellate, su cui si trovavano i due balenieri, si era staccato e scendeva la montagna più rapido di un treno diretto, seco trascinando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, fiancheggiato e seguito da un vero esercito di massi di ghiaccio che rimbalzavano in tutte le direzioni. I due balenieri, mezzo soffocati dalla rapidità della discesa, storditi dalle migliaia di ghiacciuoli che li percuotevano incessantemente, assordati dai fragori che produceva il lastrone nella sua corsa e che talora erano fischi stridenti e tal'altra ruggiti che sembravano emessi da fiere in furore, tentavano di mantenersi presso la slitta, ma brusche scosse, di quando in quando, li separavano violentemente lanciandoli a destra o a sinistra, innanzi e indietro a rischio di cadere in mezzo a tutto quel rovinio di massi che non avrebbe mancato di schiacciarli. Dopo un minuto, che ai due disgraziati parve lungo quanto un secolo, il ghiaccione toccò il piano. Si raddrizzò con un colpo tremendo che lo fece crepitare e fendere in più luoghi, indi continuò la corsa attraverso la pianura con un rullìo paragonabile a quello di una nave in un giorno di tempesta. Ad un tratto avvenne un potente urto. Il lastrone aveva cozzato contro una rupe che s'alzava di pochi metri sulla superficie del suolo, ma che presentava una resistenza incalcolabile. Il ghiaccione si rialzò come un cavallo che si inalbera sotto una violenta speronata, e ricadde spaccandosi in venti e più parti. I due balenieri, scaraventati innanzi da quei due urti, caddero in mezzo alla neve ove rimasero immobili come se fossero stati uccisi sul colpo.

. - Ma dove sono questi indiani, che non ne abbiamo veduto che trenta o quaranta? - Sono disseminati qua e là, ma tutti sanno dove si trovano i forti. - Ne troveremo degli altri, dunque? - Sì, poichè il territorio su cui ci troviamo, e che appartiene alla Compagnia della Baia di Hudson, è più popolato di quello appartenente alla Russia. Nei pressi del Makenzie e del lago del Grand'Orso si trovano numerose tribù di Jannoit della famiglia degli Eschimesi, di indiani Loschi, così chiamati perchè sono realmente loschi, di Fianchi di Cane o Liu-tcan che sono tutti balbuzienti, di Denè, di Diendije, di Fine e di Chippewyans, i quali poi per lungo tempo furono creduti forniti di coda a causa delle loro vesti che di dietro terminano in una lunga punta. - Speriamo di trovare anche abbondante selvaggina, poichè non abbiamo un solo pezzetto di carne da porre sotto i denti. - Ne troveremo, Koninson, anzi mi metterò oggi stesso in cerca di qualche capo di selvaggina. Puoi reggerti? - No, tenente, ho le gambe che si rifiutano di star ritte. - Andrò io solo a battere il paese, e se incontro un orso puoi star certo che stasera faremo un lauto pranzo. Indossò le vesti che si erano asciugate dinanzi a quella grande fiammata, rinnovò la carica del fucile con polvere asciutta, poi, dopo aver raccomandato al fiociniere di fare altrettanto col secondo fucile, per tenersi pronto a qualunque evento, s'allontanò lentamente inoltrandosi, nel paese, un pò verso sud. Camminava da due ore costeggiando un bosco di betulle e di pini che pareva seguisse la riva del Makenzie, quando si trovò sul limite di una palude il cui fango era tenacissimo. Dopo aver errato un pò a destra e un pò a sinistra, s'avventurò su una lingua di terra che si addentrava in quella palude, fiancheggiata da altissimi abeti neri e da folti boschetti di salici, nella speranza di incontrare qualcuna di quelle stupende lontre la cui pelliccia si paga quasi a peso d'oro. Ad un tratto i suoi orecchi furono colpiti da una specie di grugnito, che veniva dal mezzo d'un gruppo di piante. - In guardia! - mormorò, armando il fucile. - Qui ci sono delle bistecche. Si gettò a terra per non farsi scoprire e si trascinò carponi e senza produrre rumore, verso il luogo d'onde venivano i grugniti. Quando giunse in mezzo ai salici vide dinanzi a sè, a circa duecento metri, un orso di statura piuttosto piccola, somigliante agli orsi bruni d'Europa, che si avvoltolava nel fango assieme ad un orsacchiotto grosso quanto un cane di statura media. - Oh! - esclamò egli sorpreso. - Che razza di animale è mai questo? Non può essere che un orso detto delle Terre Nude, accennato da John Richardson, il compagno dell'infelice Franklin. Stiamo in guardia, poichè si dice che sia ferocissimo. L'orsa, poichè doveva essere una femmina, d'improvviso si alzò guardando verso il gruppo di piante. Senza dubbio aveva fiutato la presenza del cacciatore e si mostrava inquieta se non per sè stessa, certamente per l'orsacchiotto che non era in grado di difendersi. Il tenente, che non voleva perdere una sì bella occasione, si alzò pure in piedi e puntato rapidamente i fucile fece fuoco attraverso il fogliame. L'orsa mandò un urlo terribile, poi si diede a fuggire attraverso la palude cacciando dinanzi a sè l'orsacchiotto, che mandava lamentevoli grugniti. Il tenente saltò nella palude risoluto a inseguirli, ma fatti pochi passi fu costretto a fermarsi poichè tanta era la tenacità di quel fango da non lasciargli alzare i piedi. Anzi s'accorse che minacciava di sprofondare. Scaricò una seconda volta il fucile, ma con nessun frutto, poichè l'orsa che forse aveva trovato del terreno più solido, continuò a fuggire scomparendo in mezzo alle piante, sempre accompagnata dal piccino. Uscì dalla palude dopo aver ricaricata l'arma e si slanciò sotto il bosco dirigendosi verso sud, colla speranza di raggiungere la belva che forse era stata gravemente colpita. Percorse tre o quattro chilometri quasi sempre correndo, ma quando si fermò s'accorse di essersi allontanato assai dalla palude. Stava per tornare sui propri passi e riguadagnare l'accampamento, quando gli pervenne un lontano muggito che pareva prodotto dal rompersi d'un grosso fiume. - Che sia il Makenzie? - si chiese. - Ciò non può essere, poichè il fragore viene da sud, mentre il fiume deve scorrere alla mia destra. Il sole è ancora alto e Koninson non diventerà inquieto se tardo a ritornare. Proseguì il cammino verso sud, inoltrandosi in un nuovo bosco di salici, di abeti e di betulle, e dopo una mezz'ora di trovava sulla riva di un largo corso d'acqua che veniva da est. - È il Makenzie, o la riviera del Grand'Orso? - si chiese egli, salendo su di un'alta rupe dalla quale poteva dominare un gran tratto di paese. - Sarà senza dubbio il Makenzie; poichè la riviera deve trovarsi molto più a sud. Ad ogni modo mi accerterò seguendone le rive. Stava per mettersi in cammino quando, girando gli occhi ai piedi della rupe, scorse sulla sponda una tenda semi-atterrata e presso questa quattro lunghi oggetti che potevano fino ad un certo punto sembrare uomini giganteschi avvolti in pelliccie. - Cosa saranno quegli oggetti là? - si domandò. - Andiamo un pò a vedere. Scese verso la riva seguendo un sentieruzzo appena praticabile e si avvicinò a quegli strani oggetti che subito riconobbe. Erano quattro canotti eschimesi, di quelli che si chiamavano "kajacks", leggerissimi assai, essendo costruiti con pelli di foca ricucite sopra uno scheletro di ossa di balena o di legno molto sottile, lunghi tre metri, larghi non più di settanta centimetri, un pò rialzati a prua e bassi a poppa e con un'apertura nella quale si caccia il battelliere. Osservandoli attentamente li trovò in ottimo stato e dentro rinvenne alcune pagaie a doppia pala. - Scoperta magnifica! - disse il tenente. - Se gli eschimesi, con questi canotti, ardiscono sfidare le tempeste e i ghiacci dell'Oceano artico o dei grandi laghi, noi potremo senza tema sfidare la corrente del Makenzie. Se Dio continua a proteggerci fra poche settimane potrò riposare le mie stanche membra al forte Speranza. Si avvicinò alla tenda sollevando un lembo, ma tosto si ritrasse facendo un gesto di orrore. Colà uno scheletro, perfettamente denudato dalle sue carni, giaceva in mezzo a pochi pezzi di pelliccia che un tempo dovevano averlo ricoperto. - Il disgraziato sarà morto di fame e i lupi avranno banchettato colle sue carni - disse il tenente. - E quanti ne muoiono in questa regione dei grandi freddi! Orsù, ritorniamo che Koninson sarà inquieto. Risalì la rupe e si rimise in cammino costeggiando il fiume che accennava a volgersi verso nord. Dopo due buone ore si convinse che percorreva la riva sinistra del Makenzie e non già del Grand'Orso, poichè il fiume, dopo un brusco gomito, si dirigeva verso nord. Si riposò pochi minuti su di un rialzo di terreno, indi proseguì la via a lenti passi volgendo sguardi a destra e a sinistra, sperando di scoprire qualche capo di selvaggina. Già cominciava a distinguere il fumo che si alzava dall'accampamento, quando nello sbucare da un gruppo di pini si trovò improvvisamente dinanzi all'orsa e al suo orsacchiotto che stavano uscendo dalla palude. Imbracciò rapidamente il fucile e fece fuoco. L'orsacchiotto, che stava dinanzi di pochi passi, colpito nella testa, rotolò due volte su di sè stesso, poi rimase immobile. Là madre, furente, si alzò sulle zampe posteriori, cacciò un urlo di rabbia e di dolore, e si slanciò verso il cacciatore il quale, non avendo tempo di ricaricare l'arma e non osando venire ad un combattimento a corpo a corpo, si slanciò verso l'accampamento gridando: - A me, Koninson! ... A me! ... Il fiociniere, messo in guardia dalla detonazione, si era già alzato col fucile in mano. Vedendo l'orsa inseguire il tenente, si slanciò innanzi e fece fuoco. La belva, ferita dalla palla, si arrestò di botto, poi tornò sui propri passi zoppicando; si fermò un momento presso il cadavere dell'orsacchiotto come per assicurarsi se era morto, e finalmente si cacciò nella palude scomparendo in mezzo alle macchie di salici.

Vieni, amico mio, che forse abbiamo tardato anche troppo. Si diressero verso i magazzini che erano poco lontani e che occupavano la cima di una collinetta da cui si dominava un gran tratto di paese e si fermarono dinanzi ad un "iceberg" che pareva solido quanto una rupe. - Ci proteggerà dai venti del nord - disse il tenente, dopo averlo osservato attentamente per assicurarsi della sua stabilità. Si levò dalla cinta il coltello e tracciò nel ghiaccio, fra i magazzini e l'"iceberg", un circolo del diametro di cinque metri che poi approfondì a colpi di scure formando un canale destinato, in seguito, a raccogliere l'umidità scendente dalle pareti della capanna. - Ora, - disse rivolgendosi a Koninson - tagliami dei blocchi di ghiaccio. Il fiociniere non se lo fece dire due volte e manovrando abilmente la scure in breve tempo preparò un grande numero di grossi pezzi di ghiaccio, che il tenente dispose in bell'ordine intorno al canaletto, cementandoli con neve. Sopra quel primo strato il tenente ne sovrappose un secondo, lasciando verso sud un'apertura piuttosto stretta, indi un terzo, un quarto e via via, sempre restringendoli in maniera da formare una specie di cupola la cui elevazione non superava i tre metri. Una famiglia d'eschimesi non avrebbe domandato di più e si sarebbe fermata lì, ma il tenente era più esigente e non voleva correre i pericoli ai quali si espongono spesso gli abitanti di quelle gelide regioni, cioè all'acciecamento prodotto dal fumo ed al congelamento per mancanza di circolazione d'aria. Aiutato dal fiociniere, che si mostrava entusiasta per quella costruzione la cui forma rammentava un mezzo uovo, ma di dimensioni colossali, si arrampicò sulla cupola e apertovi un buco, costruì, servendosi sempre di blocchi di ghiaccio, un tubo alto un buon metro, per dare sfogo al fumo; poi aprì verso est, verso ovest e verso nord tre altre aperture, per combattere efficacemente il congelamento ed anche l'umidità, due nemici pericolosissimi in quei climi. Da ultimo tappezzò il suolo della capanna con pelliccie e con tela da vele, lasciando però in mezzo, proprio sotto il tubo che doveva servire da camino, uno spazio libero. - Che te ne pare, mio bravo fiociniere? - disse il tenente quando ebbe finito. - Io dico che staremo benone in questo nido - rispose Koninson - Bisognerà però chiudere le finestre. - Basterà un pezzo di pelle. - Spero che non geleremo. - Se non gelano gli eschimesi che vivono otto mesi dell'anno nelle loro capanne di ghiaccio, non so perchè dovremo gelar noi. - Ma quando accenderemo il fuoco, le pareti non si scioglieranno? - Non avere questo timore, Koninson. La fiamma è lontana e i blocchi di ghiaccio che ci hanno servito per la costruzione sono grossi. E poi credi tu che non s'ingrosseranno di più? Alla prima nevicata raddoppieranno e alla seconda triplicheranno il loro volume. - Purchè la cupola non ceda. - La sbarazzeremo del soverchio peso. - E siete persuaso che si starà bene qui dentro? - Ne sono convinto, Koninson, e aggiungo che prenderemo amore alla nostra casa e che ci dispiacerà l'abbandonarla quando ci metteremo in cammino per il sud. - Permettetemi di dubitarne, tenente! - disse Koninson. - Non so chi potrà essere quell'uomo che prenderà affezione ad una casa di ghiaccio. - Gli eschimesi, per esempio, preferiscono le loro capanne gelate ai nostri palazzi d'Europa. - Voi scherzate, tenente. - Parlo seriamente, Koninson, e ti so dire che un eschimese condotto a Londra pochi anni fa, dove era trattato come un principe, dopo qualche tempo chiese di tornarsene in mezzo ai suoi ghiacci, dicendo che a tutti i palazzi della capitale inglese preferiva la sua capanna di ghiaccio, e a tutte le barche del Tamigi il suo piccolo canotto di pelle. - Si direbbe una frottola se non uscisse dalle vostre labbra. Come mai si può desiderare questo deserto di ghiaccio dove tutto manca e dove si corre ad ogni momento il pericolo di venire inghiottiti dal mare? - Questione di abitudine e d'amore al natio paese, Koninson. Forse che tu lasceresti la nebbiosa Danimarca per i bei paesi dal dolce clima? - Chissà? Forse, signor Hostrup; ma potrei un bel giorno desiderare di rivedere le sponde del mio paese. - Sono convinto che presto o tardi questo desiderio verrebbe. Ma facciamo punto ed occupiamoci delle nostre provvigioni. - Spero che ci basteranno per finire questo dannato inverno. - Ne avremo anche troppe, Koninson. Lasciarono la capanna e si diressero verso i magazzini che erano a pochi passi di distanza. La galleria che avevano scavata per entrare, era in parte diroccata a causa delle ultime pressioni, ma i due balenieri non esitarono a cacciarsi in mezzo alla neve e ai massi di ghiaccio che in parte la ostruivano. Quando furono entro i magazzini, a colpi di scure aprirono un vano affinchè entrasse un pò di luce, poi si misero a fare l'inventario di ciò che possedevano. Il defunto capitano Weimar aveva accumulate tante provvigioni da bastare per parecchie settimane all'intero equipaggio del "Danebrog" e specialmente alcuni attrezzi che diventavano di un valore inestimabile. Il tenente, aiutato dal suo bravo compagno, che rimuoveva ogni cosa con grande ardore, contò sei casse contenenti non meno di duecento chilogrammi di biscotto, due barili di carne secca ridotta in pemmican col sistema indiano, un barile di farina, due di lardo, una non piccola quantità di cioccolata, parecchie scatole di tè, un centinaio di chilogrammi di pesce secco e un barilotto di acquavite, nonchè alcune bottiglie di succo di limone per combattere i disastrosi effetti dello scorbuto. Scoprì altresì una piccola provvista di patate, due pentole di ferro della massima importanza per loro, una cassa con vesti di pelle di foca e alcune grosse coperte di lana e una provvista abbondante di polvere e di palle con tre fucili, una. vecchia pistola e alcuni coltelli. Mancava assolutamente il legname e il carbone, cose necessarie per resistere ai grandi freddi dell'inverno polare, ma c'erano dodici barili di spermaceto di balena e alcuni d'olio e parecchio canape. Per di più possedevano due baleniere e un canotto, che dovevano fornire una provvista di legna non piccola. - Abbiamo più di quanto ci occorre! - disse il tenente quand'ebbe finito l'inventario. - Passeremo l'inverno senza incomodi e senza sofferenze. - Una cosa ci manca, signor Hostrup. - Quale, mio bravo fiociniere? - Una stufa da porre nella nostra capanna. - Non occorre. Koninson lo guardò con sorpresa. - Forse che nella nostra capanna farà caldo quando all'esterno avremo 40o sotto lo zero? - Non dico questo ma surrogheremo la stufa con qualche cosa di meglio. Hai visto delle stufe nelle capanne degli eschimesi? - No, tenente, e mi sono sempre meravigliato. - Ma avrai veduto ardere giorno e notte una gran lampada. - Sì, me ne ricordo. - Ebbene, anche noi accenderemo una gran lampada in mezzo alla nostra capanna e vedrai che ci darà sufficiente calore. - Se dite ciò, deve essere vero. Ed ora cosa facciamo? - Porteremo alcune provviste nella nostra casupola per non essere obbligati ad aprire ogni giorno i nostri magazzini. - Li chiuderemo dunque? - E per bene, Koninson. Non dimenticare che al polo nord vi sono degli orsi bianchi sempre in lotta colla fame. Se si spingono fin qui e scoprono le nostre provviste, faranno un gran vuoto in sole poche ore. Orsù, al lavoro, fiociniere. Si caricarono entrambi di diverse provvigioni, delle armi, delle pentole e di alcune coperte ed uscirono per recarsi alla capanna. Erano appena usciti dalla galleria, quando il tenente si arrestò bruscamente guardando verso nord. - Cosa vedete? - chiese Koninson, che si era affrettato a sbarazzarsi del carico per afferrare il fucile. - Degli orsi forse? - No, guarda laggiù. Koninson volse lo sguardo nella direzione indicata e scorse una nube nerissima che si staccava vivamente sul fondo stellato del cielo e il cui lembo superiore descriveva una specie di arco. - Una tempesta che si approssima, forse? - chiese. - No, è l'aurora boreale che sta per sorgere! - rispose il tenente. - Guarda, ecco che la nube si allarga e con grande rapidità. Infatti la nube prendeva grandi proporzioni come se fosse stata spinta da un formidabile vento, e al centro a poco a poco diventava più chiara, quasi trasparente, attraversata di quando in quando da rossastri bagliori. D'improvviso successe un cambiamento magnifico, sorprendente. Parve che la nube volasse in mille scheggie, come se nel suo seno fosse saltato un magazzino di polveri e qua e là guizzarono per l'orizzonte colonne di fuoco d'una tinta superba, cangiando i ghiacci in altrettanti massi infuocati. - Stupendo! - esclamò Koninson, che pure aveva osservato moltissime volte quel meraviglioso fenomeno. - Aspetta un pò, fiociniere! - disse il tenente, che non staccava gli occhi dall'orizzonte settentrionale. Le colonne di fuoco continuavano ad innalzarsi ed abbassarsi con le contrazioni dei serpenti, cambiando di frequente tinta che variava dal bianco trasparente al giallo e al rosso ardente e formando delle nebulosità abbaglianti. Poi, a poco a poco, s'innalzò un arco immenso, brillante, il quale sollevando tutti quegli sprazzi di luce variopinta balzò da est ad ovest per poi ritornare, con altro brusco e più rapido salto, ad est. Il fenomeno era allora nel suo pieno splendore. I raggi che si alzavano sul grand'arco, gli uni sottilissimi e gli altri grossi, rossi alla base, verdastri nel mezzo e biancastri all'estremità, si spingevano sino alla testa dell'Orsa Maggiore, formando una specie di cupola di una bellezza incomparabile. I campi di ghiaccio, gli "icebergs", gli "hummocks", le piramidi, i coni, le colonne parevano tutti in fiamme e riflettendo quei vigorosi bagliori illuminavano la regione polare fino agli estremi confini. Ben presto però l'immenso arco fu visto ondeggiare come se fosse stato scosso da un impetuosissimo colpo di vento, formando immense pieghe in senso orizzontale e ben presto sull'orizzonte più non si vide che un ammasso di luce la cui intensità era tale che i due naufraghi furono costretti a difendersi gli occhi colle mani. - Si direbbe che tutto il polo è in fiamme! - disse Koninson, che non parlava più di rientrare nella capanna. - È uno spettacolo che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza bene. - È vero, fiociniere! - rispose il tenente. - Pare di assistere sempre ad un fenomeno nuovo. - Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva? - Hum, è un po' difficile saperlo, mio caro fiociniere, poichè gli scienziati non sono ancora d'accordo, su ciò. Pare che sia causato da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l'ipotesi migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l'estrema siccità dell'aria che s'oppone alla sua dispersione. - È vero, signor Hostrup, che l'aurora altera le bussole? - Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo. - E sono sempre uguali queste aurore? - Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi. - Questi fenomeni sono però molto frequenti. - Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della spedizione d'Islanda per studiare i fenomeni della regione polare, nell'osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni 1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e il 25 gennaio. - Speriamo di vederne molte anche noi. - Ne vedremo, Koninson. Intanto l'aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire. Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a distendersi sui campi di ghiaccio e sull'orizzonte, poco prima infuocato, non rimasero a brillare che gli astri.

. - O m'inganno di molto, o abbiamo da fare con una foca o con un tricheco. - Una foca qui dentro? - E perchè no? Non siamo forse a due passi dal mare? Sarà venuta qui a riposare o a mettersi al riparo dalla tempesta. Va a prendere un ramo di pino. Koninson si affrettò a obbedire e poco dopo ritornò con una bracciata di rami resinosi. Il tenente estrasse da una scatoletta di metallo ermeticamente chiusa l'acciarino e un pezzo d'esca e accese una di quelle torcie. - Avanti! - disse poi. - E i coltelli in pugno! Entrarono nella caverna che pareva assai profonda, e fatti dieci o dodici passi, si trovarono dinanzi ad una foca gigantesca, la quale si era appoggiata ad una parete mostrando i denti ed emettendo rauchi ruggiti. - Addosso, Koninson! - gridò il tenente.- Abbiamo la cena! Il fiociniere balzò addosso alla foca; con un formidabile pugno applicatele sul naso la stordì, poi con un rapido colpo di coltello la scannò. La morte fu quasi istantanea. Il tenente si avvicinò col ramo acceso e la osservò con curiosità. Era una otaria, anfibio appartenente alla famiglia delle foche, dalle quali si distingue per avere un poco d'orecchio esterno. - Quest'animale ci voleva - disse Koninson. - Ho una fame proprio feroce. - Metteremo ad arrostire il fegato, che passa per un boccone delicatissimo- disse il tenente. - Ma affrettati ad accendere il fuoco, Koninson, poichè stiamo per gelare. Tò! Cosa c'è laggiù? Una provvista di legna! Riprese il ramo di pino che aveva piantato accanto la foca e si recò in fondo alla caverna. Con sua grande sorpresa trovò una considerevole provvista di legna, un alto strato di licheni e due lance colla punta di ossidiana. - Ma questa caverna ha servito di ricovero a qualche indigeno - diss'egli. - Forse a qualche cacciatore! - aggiunse Koninson. - Ah! Il bel fuoco che accenderemo! Con due pezzi di roccia improvvisò un camino e vi gettò sopra un ammasso di legna. Il ramo, che continuava ad ardere, fu messo sotto e pochi istanti dopo una superba fiamma illuminava l'antro, spandendo all'intorno un dolce calore. Il tenente e Koninson si spogliarono rapidamente delle vesti che cominciavano a indurirsi, le stesero dinanzi alla fiamma e, impugnati i coltelli, sventrarono destramente l'otaria strappandole il fegato che fu tosto infilzato in una lancia e avvicinato ai tizzoni. - Che colazione! - esclamò Koninson, tornato di buon umore.- Ventre di balena! Il mio naso non ha mai sentito un profumo più appetitoso di questo. Non mancherebbe che una bottiglia di "gin" o di "wisky". - Ne faremo senza! - rispose il tenente, che si era accoccolato accanto alla fiamma e che si stropicciava energicamente le membra per riattivare completamente la circolazione del sangue. - Ditemi, signor Hostrup, - ripigliò il fiociniere. - è buona la carne delle otarie? Confesso di non averne mai mangiato. - Per gli Eschimesi, che vanno pazzi per l'olio e pel grasso, sì, ma per noi bianchi è detestabile. - Ma avendo fame la si può inghiottire. - Anche i tuoi stivali, non avendo altro da porre sotto i denti, si possono rosicchiare. Ma come mai questa otaria si trova qui sola? ... - Vi sorprende forse? - Sì, Koninson, poichè ordinariamente vanno a branchi numerosissimi, specialmente in questa stagione. Su certi punti della costa americana, se ne vedono anche oggidì delle migliaia, malgrado la caccia spietata che loro fanno i balenieri e gli indigeni. - È vero, tenente, che queste otarie non appariscono sulle coste americane che il primo di maggio? - Sì, Koninson, e posso aggiungere anche che tutti gli anni giungono anche alla stessa ora.. - E quanto vi rimangono? - Fino alla metà di dicembre. Oltre quest'epoca non si trova un'otaria a volerla pagare a peso d'oro. È un magnifico spettacolo, Koninson, che merita di essere veduto, l'approdo di questi anfibi. - Ma cosa vengono a fare sulle coste? - Vengono ad attendere le femmine, le quali giungono infallibilmente tutti gli anni il 15 di giugno. - Avete mai veduto uno di questi arrivi? - Sì, Koninson, e parecchie volte.. Sei anni or sono io mi trovavo nella baia Smith quando fu segnalato l'arrivo di parecchie migliaia di otarie. Erano tutti maschi. In men che lo si dica occuparono un punto della costa disponendosi su tre file: dinanzi i "beach-master", o padroni del posto, in mezzo i "bachelors" o celibatari, quasi tutti giovani, ultime le "riserve". Il 15 giugno fu segnalato l'arrivo delle femmine. Venivano innanzi in ranghi compatti e lunghissimi; anche qui le otarie si contavano a migliaia. Allora si vide uno spettacolo curioso. I "beach-master" si gettarono in mare, nuotarono incontro alle femmine e prendendole gentilmente per la pelle della nuca, ne portarono un gran numero a terra. Quando ognuno ne ebbe sette od otto, lasciarono allora il posto ai celibi i quali a loro volta balzarono in mare disputandosi con ferocissime zuffe le femmine rimaste. - I ranghi dei celibi di cosa sono composti? - Di otarie giovani. - E i "beach-master" sono invece? ... - Gli adulti, e, come ti dissi, ognuno prende sette od otto femmine. - Corpo d'una balena! Sono veri sultanelli questi signori "beach-master". - E ve ne sono taluni forti e prepotenti che si prendono persino venti femmine. - E, giunta l'epoca della partenza, se ne vanno tutte assieme le otarie? - No, prima partono i vecchi, e ciò avviene in ottobre, poi i nati, quindi le femmine. - E mentre sono uniti non vengono disturbati? - I balenieri e gli Eschimesi piombano sovente in mezzo a questi grandi campi e fanno degli orribili macelli. - Per averne le pelli? - Sì, Koninson. - E si pagano bene? - Sei, otto e qualche volta dieci dollari ciascuna. - Fanno adunque dei lauti guadagni i cacciatori. - Sempre, poichè uccidono in quei massacri delle migliaia di otarie. Leva dal fuoco il fegato, che mi pare sia cotto a puntino. Il fiociniere obbedì e lo depose su di un sasso ben levigato. II tenente lo divise per metà e tutti e due cominciarono a lavorare di denti e così bene, che in cinque minuti più nulla restava. - Ora, - disse il tenente - facciamo una pipata e poi una dormita. - E non pensate al "Danebrog"? - chiese Koninson. - La tempesta continua, Koninson, e il "Danebrog" non tornerà finchè non sarà finita. - Ma sperate che ritorni? - Ne sono certo; ti ho detto che il capitano Weimar non è uomo da abbandonare i suoi marinai, II tenente accese la pipa che aveva ritrovata in una tasca della sua giacca assieme alla scatola del tabacco che era rimasto perfettamente asciutto, si sdraiò sullo strato di licheni e si mise a fumare flemmaticamente, mentre Koninson richiudeva alla meglio, con grossi sassi e rami di pino, l'apertura della caverna, per essere meglio riparato dal vento e dal freddo. Alle 9 mentre l'uragano accennava a decrescere, i due marinai, coricatisi l'uno accanto all'altro, coi piedi rivolti verso il fuoco, si addormentavano profondamente. Il loro sonno però fu di breve durata, poichè il baccano che veniva dal di fuori era veramente spaventevole. Erano continui muggiti prodotti dalle onde che venivano a sfasciarsi ai piedi del colle, lanciando degli sprazzi d'acqua persino dentro la caverna; erano continui scoppi prodotti dai ghiacci che si frantumavano gli uni contro gli altri e continui fischi ed urla indiavolate prodotte dal vento, il quale dopo essersi un pò calmato, aveva ripreso novella foga. Verso le 11, secondo i calcoli del tenente, provarono a mettere la testa fuori. Non nevicava più, ma il cielo era sempre coperto da gigantesche nubi le quali correvano disordinatamente per il cielo, accavallandosi confusamente sotto i furiosi colpi di vento, e il mare era ancora agitatissimo. Sulle onde oscillavano spaventosamente gran numero di "icebergs", di "hummocks" e di "streams". - Che cosa facciamo? - chiese Koninson. - Ti senti forte? - Sì, tenente. - Allora mettiamoci in cammino. Ho fretta di rivedere il "Danebrog". - Seguiremo la costa? - Finchè potremo sì, poi daremo la scalata a quella catena di colline che vedi lassù. Si coprirono alla meglio, si armarono di un grosso ramo di pino per aiutarsi nell'ascensione che stavano per intraprendere attraverso le dirupate colline, e si misero in cammino con passo abbastanza rapido, tastando però prima il terreno onde non cadere in qualche crepaccio che poteva celarsi sotto lo strato di neve. Per un po' di tempo seguirono la costa passando in mezzo a picchi aguzzi, poi deviarono verso sud non essendovi più passaggi e cominciarono a scalare un'altissima collina coperta di neve e sulla quale ruggiva furiosamente il vento, torcendo un gruppetto di intristiti abeti. - Dannata bufera! - esclamò Koninson, piegandosi verso terra per meglio resistere agli urti del vento. - Quando cesserà? - Ne avremo fino a domani di certo. - rispose il tenente, che segnava la via. - Se il "Danebrog" si trova ancora in mare, sarà a quest'ora ben lontano da noi. - Se non lo troveremo oggi, sarà domani. - Ma dove dormiremo stasera? - In qualche altra caverna. - E metteremo sotto i denti? - Ho un bel pezzo di foca in tasca. Animo, Koninson, che la marcia comincia a diventare faticosa. Bada di non perdere l'equilibrio se non vuoi fracassarti le ossa. La marcia infatti diventava allora difficilissima e anche pericolosa. Non c'erano sentieri in nessun luogo e dalle nevi sorgevano punte rocciose così aguzze da lacerare le scarpe. Oltre a ciò il vento non cessava dal soffiare; anzi, la sua violenza, man mano che i due marinai si innalzavano, diventava sempre maggiore, trascinando con sè nembi di neve e ghiacciuoli e strappando, dalla cima del colle, delle pietre di non piccola mole, le quali scendevano rimbalzando violentemente di roccia in roccia. Verso la cima si udivano poi certi fischi e certi muggiti da mettere i brividi. I due poveri cacciatori di balene, acciecati dalla neve, gelati da quel ventaccio, percossi dai sassi, ora spinti da una parte e ora dall'altra, non procedevano che con molto stento. Ad ogni istante erano costretti a curvarsi ed aggrapparsi alle roccie per non essere portati via. Verso il tocco, sfiniti, insanguinati, coperti di neve, colle vesti lacere, le scarpe sfondate, giungevano sulla cima della collina che si stendeva in forma di altipiano. Colà il vento, non più imprigionato fra le rupi, urlava in modo orribile sconvolgendo lo strato di neve e torcendo come pagliuzze i pochi abeti che lassù vegetavano. - Vedete nulla? - chiese Koninson, addossandosi ad una rupe. Il tenente si arrampicò sulla cima della rupe e guardò innanzi a sè. Alla sua sinistra, ad un miglio di distanza, scorse il mare coperto di ghiacci; alla sua destra si elevava un'alta montagna dirupatissima e coperta di neve; dinanzi si estendeva una pianura ondulata, interrotta qua e là da piccoli corsi d'acqua gelata. Ad un tratto fece un gesto di stupore. Seguendo collo sguardo la costa, aveva veduto sorgere nel mezzo di una profonda spaccatura che doveva senza dubbio essere qualche piccolo seno o qualche stretto "fiord", gli alberi di una nave. - Vedete nulla, signor Hostrup? - chiese Koninson per la seconda volta. - Sì, fiociniere, vedo gli alberi di una nave - rispose il tenente. - Ventre di foca! Una nave avete detto? Il "Danebrog" forse! - Sì, è il "Danebrog", ne sono certo, Koninson. - Iddio sia ringraziato! È molto lontano? - Un miglio e mezzo forse. - Partiamo, partiamo, signor Hostrup! Non sono più stanco. Ah! Bravo capitano! Urrah! Urrah! - Calmati, Koninson. - Andiamocene di qui, signor Hostrup. Io ho le vampe sotto i piedi. Il tenente, che malgrado tutta la sua calma era pure impaziente di ritornare a bordo del valoroso "Danebrog", scese dalla rupe e si mise in cammino preceduto da Koninson. Nonostante la furia della burrasca, attraversarono rapidamente l'altipiano e scesero sul versante opposto lambendo un profondo abisso da cui uscivano dei lamentevoli ululati, forse emessi da qualche branco di lupi affamati. Dopo aver arrischiato più di venti volte di fracassarsi in fondo di quell'abisso e di rompersi le gambe giù per il dirupato pendio, giunsero nella pianura. L'attraversarono quasi a passo di corsa e si arrestarono sulle alte sponde di un lungo e stretto "fiord", in fondo al quale stava solidamente ancorato il "Danebrog" fra un gran numero di ghiacciuoli staccatisi da un grande e grosso banco di ghiaccio che si era incastrato dinanzi l'uscita di quel braccio di mare. - Ohe! Del "Danebrog"! - urlò Koninson con voce tonante. Un marinaio, poi due, poi cinque, poi tutti apparvero sulla tolda della nave. Un gran grido echeggiò - Il tenente Hostrup! Viva il tenente! Viva Koninson! Una baleniera fu subito calata in acqua, sette uomini, compreso il capitano Weimar, vi presero posto, e si diresse a tutta forza di remi verso la riva. Pochi minuti dopo il tenente e Koninson si trovavano l'uno fra le braccia del capitano e l'altro fra quelle di due camerati che ormai li avevano creduti per sempre perduti!

Abbiamo delle buone carabine e le munizioni abbondano. L'indomani il capitano e il tenente rivolsero le loro cure all'interno della nave. La stiva venne accuratamente raschiata e lavata con acqua mescolata a calce, onde il legname non soffrisse troppo durante i grandi freddi e sotto il gran boccaporto fu collocata la stufa munita di un tubo assai curvato affinchè il calore non si espandesse troppo al di fuori. Sopra di essa venne pure collocato un doppio cilindro di ferro galvanizzato destinato allo scioglimento della neve, per aver sempre acqua per la cucina e per la pulizia dell'equipaggio. Anche le cabine furono prima raschiate e lavate con acqua mescolata a calce e a tutte fu aperto un foro dal sotto in alto per lasciar entrare e uscire liberamente l'aria, la quale combatte efficacemente il congelamento e l'umidità. Da ultimo fu munito lo scafo della nave di un rivestimento verticale di grosse travi destinato a difenderla dagli urti e a sollevarla durante le pressioni impedendole così lo schiacciamento. Il 30 settembre il capitano lo destinò al lavoro più faticoso e nel medesimo tempo più indispensabile: l'erezione di un magazzino sul banco di ghiaccio onde, nel caso molto probabile che la nave venisse frantumata dalle pressioni dei ghiacci, l'equipaggio non si trovasse sprovvisto di viveri e dei mezzi necessari per guadagnare la costa americana. Fu scelto a tale uopo un rialzo, una specie di terrazza, che si trovava a non più di sessanta braccia dalla nave e là sopra fu costruito con legname e con blocchi di ghiaccio il magazzino, fornendolo di un'ampia provvista di legna e di carbone, di una stufa, di alcune casse di vestiti, di vele, di remi, di munizioni e di una grossa partita di viveri sufficienti a nutrire per un mese l'intero equipaggio del "Danebrog". A tutto ciò furono aggiunte due delle più grandi baleniere, armate completamente. Compiuti questi ultimi provvedimenti, il capitano e i suoi marinai attesero coraggiosamente i rigori dell'inverno polare. E questi purtroppo non si fecero attendere. Il 2 ottobre il termometro, che da qualche giorno era in moto, scese al mattino a 15 gradi. L'acqua del canale in meno di mezz'ora gelò, stringendo la nave in un cerchio così solido che la scure a mala pena era capace di spezzare. - Addio autunno! - disse Koninson che era uscito con il tenente dalla sala costruita sopra coperta. - Fra qualche giorno tutto il mare che ci circonda sarà gelato. - È probabile! - rispose il tenente. - E poi verranno le pressioni a farci passare dei brutti quarti d'ora. - Delle brutte giornate, Koninson. - Resisterà il "Danebrog"? - Chi può dirlo? - Avete svernato altre volte voi, signor Hostrup? - Sì, una volta a bordo dell'"Albert" e una seconda volta a bordo dell'"Islanda". - Si sono salvate le navi? - No, Koninson. La prima è andata a picco in seguito ad una falla apertasi per la caduta di un "iceberg", la seconda fu frantumata dalle pressioni come fosse stata una semplice noce. - Brutti esempi tenente. - Ma non devi spaventarti, Koninson. Molte altre navi hanno sopportato uno svernamento senza essere danneggiate, e qualcuna ne ha sopportati anche due senza venire fracassata. - E usciremo di qui quando avverrà lo scioglimento dei ghiacci? - Sì, se il banco si sfonderà. Certi anni la stagione estiva è così pessima da non finire lo scioglimento dei campi di ghiaccio, e allora la nave che si è lasciata prendere in mezzo è costretta ad aspettare un altro anno. - Se a noi tocca ciò, moriremo di fame. - Speriamo che la sorte non sia così crudele, Koninson - Ditemi, tenente, dove siamo precisamente ora? - Il punto che feci ieri mi diede 72o 05' di latitudine e 140o 15' di longitudine ovest di Greenwich. - Siamo dunque assai vicini alla costa americana. - Non ci dividono più di centoquaranta o centocinquanta miglia. - E sapete che scoglio sia, questo? - Non tutti gli isolotti che sorgono presso la costa americana hanno un nome, Koninson. - Se non ci avesse arrestati, forse a quest'ora saremmo in vista della terraferma. - Certamente, fiociniere. La corrente ... Un fortissimo scroscio, partito dal grande "iceberg" che ostruiva il canale, gli mozzò la parola. - Cosa sta per succedere? - chiese Koninson, che involontariamente fece due passi indietro. - Che stia per crollare l'"iceberg"? - si chiese il tenente. - Se ciò accade frantumerà il banco. - No, tenente, non è lui che crolla, bensì la sua torre. Guardate! Guardate! La torre infatti si era smossa, facendo inclinare, colla sua mole, la montagna intera e oscillava lievemente facendo piovere al basso migliaia e migliaia di ghiacciuoli. Ben presto si udì uno scroscio ancora più forte, seguito da una serie di detonazioni paragonabili allo scoppio di piccole mine; poi la torre scivolò lentamente in mare lasciando sempre cadere una grande quantità di ghiacciuoli. Ad un tratto si staccò dalla montagna e sparve tutta intera nell'abisso spalancato, mandando in aria uno sprazzo immenso. Restò sottacqua cinque secondi, poi in mezzo alla spuma nuovamente apparve, dapprima lentamente, poi con un balzo improvviso, rovesciandosi subito su di un fianco. Un'onda mostruosa si alzò e si slanciò muggendo sul ghiaccio del canale che in un attimo fu sollevato e sminuzzato e balzato sopra i banchi. Il "Danebrog", investito a poppa, si alzò spaventosamente rovesciando l'equipaggio che era uscito fin dai primi scrosci, poi s'inchinò gemendo e tendendo gli ormeggi. - Ventre di foca! - esclamò Koninson, risollevandosi prontamente. - Un'altra onda come questa e il "Danebrog" sarà sfracellato. - Ai buttafuori! - si udì tuonare in quel momento la voce del capitano. La gran torre, spinta innanzi da una seconda ondata, minacciava di investire la nave e di sfondarle i fianchi. I marinai corsero a prendere i buttafuori e si disposero a tribordo, pronti a respingerla. Fortunatamente incontrò sulla sua via un lastrone di ghiaccio staccatosi dal banco a causa dell'ondata e si arrestò un momento. Ciò bastò perchè una terza ondata la facesse deviare verso una delle due rive alla quale si cementò solidamente. Dieci soli minuti dopo, l'acqua del canale, essendosi calmata, era nuovamente coperta da uno strato di ghiaccio dello spessore di tre pollici! L'equipaggio si affrettò a rientrare nella sala ove la stufa aveva sparso un dolce tepore. Il 3 ottobre il freddo discese a 17 gradi e il tempo si cambiò. Dapprima un nebbione assai fitto si estese al disopra del grande banco e dello scoglio, poi cominciò a cadere la neve ed a soffiare un vento fortissimo ed eccessivamente freddo. L'equipaggio non osò mostrarsi all'aperto. Il capitano, verso mezzogiorno, essendosi un po' calmata la bufera, fece scendere sul banco una decina d'uomini armati di picconi e di scuri, e fece tagliare il ghiaccio attorno alla nave onde le pressioni, sopraggiungendo improvvisamente, il che poteva accadere, non la stritolassero. Fu constatato che il ghiaccio del canale aveva già raggiunto uno spessore di trenta centimetri. - Bisognerà tagliarlo ogni mattina attorno al "Danebrog" - disse il capitano al tenente. - Sento per istinto che le pressioni non sono lontane. - Se questo freddo cresce ancora un pò, tutto il mare gelerà e allora le pressioni ci daranno addosso! - rispose Hostrup. - Però un buon tratto è ancora libero. Non vedete laggiù che il cielo è cupo? - Lo vedo, capitano. È segno che il mare è ancora libero. - Ma pur troppo lo sarà per poco. Temo che questo inverno sia rigidissimo. - Lo sosterremo con coraggio, capitano. - Purchè lo scorbuto non venga a fiaccare le nostre forze. Voi sapete che questo terribile male è un nemico che trova buon terreno nelle regioni polari. - Lo so e farete bene anzi a prendere delle precauzioni contro di esso, fin d'ora. - Avete ragione, tenente. Cominciando da domani dispenseremo a colazione una fetta di patata e qualche pò di sugo di limone. - Farete bene anche a lanciare dei cacciatori sul banco. La carne fresca è pure efficace per tener lontano quello spietato male. - Anche questo faremo, quando il tempo lo permetterà. Voi, che siete un sì abile tiratore, vi metterete alla testa dei cacciatori. - Domani allora farò una visita allo scoglio. Forse incontrerò qualche orso e delle foche. Disgraziatamente il tempo, che pareva dapprima volesse rimettersi al bello, l'indomani fu orribile. La neve cadde in siffatta abbondanza da coprire il banco d'uno strato alto un buon mezzo metro e soffiò tutto il giorno un vento così freddo e così impetuoso da rendere pericolosa anche la più piccola marcia. L'equipaggio, che cominciava già a soffrire il freddo, quantunque avesse indossato le vesti più pesanti, non abbandonò un solo istante la sala ove ardeva senza posa la stufa. Il capitano, onde non mantenerlo in ozio, fece purificare una certa quantità d'olio di balena. Questa operazione però diede poco frutto, essendo cosa non facile lo sgelare il grasso. Il 5 il tempo non migliorò, anzi divenne più orribile. La neve continuò a cadere attraverso un nebbione fitto assai, che il vento non era capace di scacciare. A mezzogiorno il termometro segnò 19o sotto lo zero, ma dopo ridiscese a 15o essendosi calmata la burrasca. Il capitano fu costretto a far sgomberare il tetto della sala dalla neve che lo copriva, onde non finisse col crollare. Per meglio riparare, poi, la nave dal vento che ammucchiava contro di essa una grande quantità di neve e ghiaccioli, fece alzare a breve distanza quattro alte muraglie di ghiaccio, quattro veri bastioni con due uscite. Il 6 il sole apparve all'orizzonte, ma era un sole senza forza, d'un giallo pallido assai. Poco dopo scomparve dietro al nebbione che pareva non volesse più abbandonare il gran banco di ghiaccio.

. - Abbiamo un abile carpentiere a bordo. - Scendiamo nella stiva, signor Hostrup. I due comandanti fecero aprire il boccaporto maestro e scesero nel ventre del vascello preceduti da Koninson e da mastro Widdeak che avevano accese due lanterne. Rimosse le botti che occupavano la stiva, si diressero verso prua dove si arrestarono, ascoltando con profonda attenzione. Udirono distintamente un sordo gorgoglio, dovuto senza dubbia all'acqua che entrava nella falla apertasi. - Sarà grande l'apertura? - si chiese con ansietà il capitano. - Non lo credo, - disse mastro Widdeak. - Il gorgoglio non è molto forte. - Dobbiamo levare le botti? - chiese Koninson. - Per ora è inutile, - disse il tenente. - Finchè la burrasca non sarà cessata, nulla potremo fare. - Non c'è pericolo di colare a picco? - No, - disse il capitano. - Il "Danebrog" è fortemente incagliato e la poppa è molto alta. Saliamo in coperta. Abbandonarono la stiva e tornarono sulla tolda ove i marinai, ancora pallidi, li attendevano con grande ansietà. Il capitano con poche parole li rassicurò. Pel momento nulla eravi da fare, poichè l'uragano continuava a infuriare in siffatta maniera da rendere impossibile la calata delle baleniere. Il capitano fece gettare un'àncora a poppa per assicurare maggiormente il vascello, e altre due ne fece gettare fra gli scoglietti, a babordo l'una e a tribordo l'altra. Ciò fatto attese, in preda ad una certa agitazione che non riusciva a vincere, che il mare si calmasse. La sua pazienza e quella dell'equipaggio furono messe a dura prova, poichè l'uragano infuriò tutto il giorno, scuotendo fortemente la nave che gemeva sinistramente sul suo letto di sabbia. Verso però le 11 pomeridiane quei formidabili soffi a poco a poco scemarono di violenza e attraverso gli squarciati vapori tornò a mostrarsi il sole che allora radeva l'orizzonte occidentale. Alla mezzanotte una calma assoluta regnava negli strati superiori, e l'aria, poco prima così agitata e fredda, era diventata così tiepida da far quasi credere di essere nel Messico anzichè nello stretto di Behring. Il mare però mantenevasi ancora agitatissimo e continuava a infrangersi con grande violenza contro le isole, inoltrandosi nei "fiords" con muggiti prolungati. L'indomani, 2 settembre, a bassa marea il capitano, il tenente, Widdeak e il carpentiere scesero in una baleniera e approdarono sul banco dove la prua del vascello era rimasta quasi interamente allo scoperto. L'avaria causata dal violentissimo urto era gravissima ma non irreparabile. A pochi piedi dall'asta di prua, subito sotto la linea di galleggiamento, la punta aguzza di uno scoglietto aveva aperto un buco così grande che vi poteva passare comodamente un barile. La chiglia fortunatamente non aveva riportato alcun guasto, avendo incontrato un banco di sabbia, in cui vi si era quasi interamente seppellita, - Che ne dici, carpentiere?- chiese il capitano con inquietudine. - Il colpo è stato fierissimo, - rispose l'interrogato, - e la falla è ragguardevole. Però ... . - Però? ... - disse il capitano, nei cui sguardi brillò un lampo di gioia. - La si turerà. - Quanto tempo chiedi? Bisogna che sia breve affinchè possiamo approfittare della gran marea del 12 settembre. - Per quel giorno il Danebrog sarà pronto a prendere il mare. - E quando avremo lasciato il banco, dove andremo? - chiese il tenente che caricava flemmaticamente e con profonda attenzione la sua pipa. - Vi spiacerebbe seguirmi verso il nord? - disse il capitano, guardandolo fisso fisso. - Ne sarei lietissimo, signore. Il capitano gli prese la destra e gliela strinse fortemente. - Siete un brav'uomo, signor Hostrup. - Mi sta sul cuore la scommessa, signor Weimar, - rispose Hostrup. - E da parte mia rischierò senza esitare la mia vita, pur di tenere sempre alta la fama dei balenieri danesi. - Grazie, tenente. Ed ora, carpentiere, al lavoro. Dovendosi approfittare della sola bassa marea, il carpentiere si mise alacremente all'opera, aiutato da una squadra di marinai che su un'altra baleniera gli avevano recato gli attrezzi necessari, una considerevole quantità di legname e parecchie grosse lastre di rame, mentre alcuni altri sgombravano la prua delle botti che l'occupavano e mettevano in opera le pompe per estrarre l'acqua entrata dalla falla. Il tenente Hostrup, che di simili lavori si intendeva poco, tornò a bordo a prendere il suo fucile. - Faremo una passeggiata sull'isola, - disse a Koninson. - Vedo dei grossi uccelli e forse nei "fiords" si nasconde qualche foca o qualche tricheco. Prendi un fucile e seguimi ... . - Maneggio meglio il rampone che le armi da fuoco, tenente, - rispose il fiociniere. - Voi penserete ai volatili e io alle foche. - Come vuoi, amico. S'imbarcarono sul piccolo canotto e presero il largo girando attorno agli scoglietti sui quali venivano a rompersi le ultime onde sollevate dall'uragano. Arrancando con lena, in brevi istanti raggiunsero l'isola, ma da quella parte la costa non offriva approdi, essendo tagliata quasi a picco e molto alta. Attorno vi volteggiavano numerosi uccelli marini, i quali fra i crepacci avevano piantato i loro nidi. Proseguendo, i due cacciatori scoprirono ben presto un piccolo "fiord", il quale terminava in una sponda bassa coperta in parte d'una sabbia finissima e in parte di ciottoloni neri e arrotondati dal continuo lavorio delle onde. Legarono il piccolo canotto ad una rupe e balzarono a terra portando le loro armi. L'isola offriva un brutto aspetto. Qua e là si rizzavano delle alture aridissime, più oltre delle grandi rocce nere nei cui crepacci scorgevansi alcuni magri licheni, qualche rosa canina selvatica, o qualche pianticella di ribes o di uva spina. - Che desolazione! - esclamò Koninson. - Troveremo almeno delle foche? - Lo spero, fiociniere, - rispose il tenente. - Una volta qui erano talmente numerose, che alcuni balenieri vi facevano i loro carichi d'olio; oggi però, in causa delle cacce accanite, non se ne incontrano che pochissime. - Dovevano, distruggerne un numero enorme quei balenieri per fare un carico intero. - Delle migliaia, Koninson. - Allora non tarderanno a sparire dappertutto. - Ciò avverrà sicuramente e forse fra non molto. Già le sponde dell'America settentrionale cominciano a essere spopolate. - Che disgrazia! E dire che sono animali così inoffensivi! Se la prendessero almeno cogli orsi bianchi, quei balenieri paurosi. Dato uno sguardo alle rive, i due cacciatori si addentrarono nell'isola, ove gli uccelli si mostravano talmente numerosi da oscurare talvolta la luce del sole. Ora passavano immense bande di urie, uccelli dalle penne nere e bianche, il becco lungo e dritto e le gambe collocate così indietro da costringere quei volatili a sedersi anzichè coricarsi; ora stormi di strolaghe, bellissimi uccelli col petto e il dorso neri, le ali macchiate e le parti inferiori di un bianco niveo, e ora lunghe file di oche bernine, grosse come un'oca comune e che facevano un baccano indiavolato. - Per bacco! - esclamò il tenente. - Se si volesse fare un carico di uccelli la fatica non sarebbe molta. - Accontentiamoci di empire la dispensa del cuoco, - disse Koninson. - All'opera, signore. II tenente si arrampicò su di una rupe, si accomodò sulla cima e di là cominciò a sparare contro le bande di volatili che gli passavano sopra, a destra, a sinistra e dinanzi senza mostrarsi spaventate. In breve parecchi gabbiani, oche, urie e strolaghe si trovarono a terra colpite dal piombo del valente cacciatore. Koninson ammazzava gli uccelli feriti a colpi di rampone. Quelle continue detonazioni finirono però collo spaventare i volatili, i quali si allontanarono dalla rupe volando verso le coste dell'isola. - Siete un tiratore da far paura, - disse Koninson al tenente, che raccoglieva le vittime. - C'è qui tanta carne da nutrire per un'intera settimana l'equipaggio del "Danebrog". - E non ho ancora finito, fiociniere. Ho visto laggiù due grossi uccelli e conto di abbatterli. Ammucchiarono le vittime sotto la sporgenza di una rupe e si rimisero in cammino riaccostandosi al mare, e precisamente verso un piccolo "fiord", sopra il quale volteggiavano due grandissimi uccelli dalle penne bianche e nere. - Cosa sono? - chiese Koninson. - Aquile forse? - Aquile qui? A me sembrano due albatros. - Ma gli albatros sono uccelli dei mari australi, signore. - Non ti dico, di no, ma non pochi di quei voraci giganti vanno a piantare i loro nidi, sulle isole dei mari della Cina e del Giappone e in giugno si spingono, sin qui. - La loro carne è eccellente? - Se devo dirti la verità, è coriacea; però tenuta qualche tempo nel sale e condita con una salsa piccante, non è sgradevole. I due cacciatori giunsero ben presto al "fiord", ma i due albatros, un po' magri si ma veramente giganteschi, le cui ali spiegate misuravano non meno di cinque metri, si allontanarono e così rapidamente, che in pochi istanti, furono fuori di vista. - Vigliacchi! esclamò il fiociniere. - E lo sono davvero, malgrado la loro mole e, il loro formidabile rostro - disse il tenente. - Ma ... oh! ... - Che hai? - Guardate alla vostra sinistra, presso il mare! - disse Koninson a bassa voce. Il tenente guardò nella direzione indicata e sopra una roccia che cadeva a picco sul mare, ma poco alta, scorse una massa rossiccia, di dimensioni ragguardevoli. - È una foca! - disse Koninson. - No, deve essere un tricheco - disse il tenente, che caricò subito il fucile a palla. - Bisogna ammazzarlo. - Lo ammazzeremo, fiociniere. Cerchiamo però di non farci vedere, altrimenti si lascerà cadere in mare. Si gettarono in mezzo alle rocce e tenendosi sempre nascosti giunsero a soli duecento passi dalla preda che si scaldava ai raggi del sole mezza coricata su un fianco. Il tenente non si era ingannato. Era proprio un tricheco, che taluni chiamano anche morsa, lungo quasi quattro metri e con una circonferenza di tre, coperto di un pelo corto, scarso e rossiccio. Si vedevano distintamente i suoi lunghi denti di avorio che scendono verticalmente dalla mascella superiore. Tali animali, che un tempo erano numerosissimi su tutte le coste settentrionali dell'Asia e dell'America, sono inoffensivi a terra, ove si muovono con molto stento, ma aggrediti in mare, ove nuotano con grande sveltezza, si difendono disperatamente e più di una volta i loro solidi denti spezzarono le scialuppe dei cacciatori. Il tenente mandò Koninson dietro una rupe che era a breve distanza da quella occupata dal tricheco, poi puntò lentamente il fucile, mirò con somma attenzione e sparò. Il tricheco, colpito alla testa, fece un brusco salto mandando una specie di ruggito e si mise a dibattersi, cercando tuttavia di guadagnare l'orlo della roccia per precipitarsi in mare. Ma Koninson era vicino; in dieci salti lo raggiunse e gli vibrò una tale ramponata da finirlo quasi sul colpo. - Bella fucilata - esclamò il fiociniere volgendosi al tenente che si avvicinava colla solita calma. - Questi sì che sono animali che valgono una palla! - Lo credo, Koninson. È tanto grasso questo tricheco che ci fornirà più di due barili d'olio. - E olio migliore di quello della balena, signor Hostrup. - Che ce ne siano degli altri? - Ne dubito, Koninson. I balenieri hanno distrutto anche i trichechi. - E ve n'eran molti in quest'isola? - Delle migliaia, fiociniere. Mi fu narrato da un capitano olandese, quindici anni, or sono, che un baleniere norvegese in quattro sole ore ne ammazzò più di cinquecento. - Che strage! - E so pure, ma non mi ricordo più ora in quale località, che l'equipaggio di un bastimento inglese nel 1705 ne uccise ben ottocento nello spazio di sei ore e che tre anni più tardi un altro equipaggio ne uccise novecento in sette ore. - In una giornata, in quei tempi si caricava un bastimento di olio. - Ed erano carichi quelli che valevano molto di più dei nostri, poichè anche le pelli dei trichechi hanno valore e i denti, che danno un avorio più compatto e più bianco di quello degli elefanti, si pagavano molto cari. - E come faremo a trasportare a bordo questo bestione? - Lasciamolo qui. Manderemo i marinai a raccoglierlo. Continuiamo l'escursione Koninson. - I due cacciatori si misero a costeggiare l'isola facendo un'ampia raccolta di uova di uccelli marini, per lo più depositati sulle sabbie o nei crepacci delle rocce e sparando di quando in quando sui gabbiani. Alle 6, carichi come muli, s'imbarcavano nel piccolo canotto e tornavano a bordo dove il carpentiere, il capitano, mastro Widdeak e i marinai lavoravano febbrilmente attorno alla falla.

Ben presto i fornelli ricominciarono a funzionare empiendo l'aria di un fumo nerissimo e fetente e la coperta del legno offerse il riluttante aspetto che abbiamo già descritto nello smenbramento del capodolio. Questa volta però fiocinieri e marinai lavoravano con maggior alacrità, essendo impazientissimi di rimettersi alla vela. Quegli uomini che da parecchi anni navigavano in quei freddi mari, quantunque la temperatura fosse, cosa insolita, ancora mite, presentivano l'avvicinarsi dell'inverno e d'un inverno rigidissimo Già il sole non lanciava più, alla mezzanotte i suoi splendidi raggi su quei mari e su quelle terre. Da alcuni giorni, fra le 10 e le 11 della notte tramontava e per alcune ore si teneva celato sotto l'orizzonte. E già gli uccelli marini erano diventati meno numerosi e ad ogni istante grandi bande fuggivano verso il sud in cerca di un clima più mite. I ghiacci non erano ancora apparsi, ma i marinai se non li vedevano, li sentivano. Il capitano aveva notato e presentito tutto ciò prima dell'equipaggio e perciò stimolava i lavoranti, non avendo tuttavia ritardato a spingersi più innanzi per completare il carico. Prima che il sole tramontasse una terza parte del cetaceo era stata già dipanata e parecchie tonnellate d'olio erano state calate nella stiva. Quella notte, per la prima volta, il freddo scese tre gradi sotto zero e l'acqua gettata sulla tolda poco prima dello spuntare del giorno, gelò. Il 18 e il 19 settembre lo smembramento fu continuato con tanta alacrità che alle 10 pomeridiane l'ultimo pezzo di grasso veniva ritirato a bordo. Il capitano fece tosto spiegare le vele e il "Danebrog" abbandonò il gigantesco carcame agli uccelli marini, mettendo la prua ad est ove si scorgevano sempre, ed in grandissima quantità, le macchie oleose galleggiare sull'acqua. La sera era magnifica. Il sole splendeva superbamente calando lentamente verso l'orizzonte, dove erravano alcune nuvolette dalla tinta di fuoco, e il mare era liscio come uno specchio, senza la più piccola ruga. In lontananza, verso sud, giganteggiavano le dirupate coste americane coi loro abeti e i loro pini piantati sulle vette; verso nord una coppia di delfini gladiatori scherzava, mostrando ora le code e ora l'oscuro dorso; verso ovest una gran frotta di oche bernine filava in silenzio e rapidissimamente verso regioni più calde. L'aria era mite e aveva una mollezza che rammentava una delle più belle notti d'autunno dei climi temperati, rinfrescata di quando in quando da un venticello che spirava da ovest. Il "Danebrog", con tutte le sue vele spiegate, per alcune miglia filò verso est, poi piegò verso la costa americana ove si dirigevano le macchie oleose. Nulla accadde durante la notte, ma poco dopo il sorgere del sole fu fatta una scoperta che turbò gli animi e fece aggrottare la fronte al capitano Weimar che era appena salito sulla tolda. Era una montagna di ghiaccio, un "iceberg" che scendeva lentamente verso sud spinto dalle correnti e dal vento che da alcune ore soffiava da nord. - Brutto incontro! - disse Koninson al tenente, che era salito sulla murata per meglio osservare l'"iceberg". - Era ora! - rispose con voce tranquilla il signor Hostrup. - Non siamo più in estate. - Non dico di no, tenente, ma se a questa montagna ne tenessero dietro altre cento o duecento, come avanzeremo noi? - Il "Danebrog" ha un solido sperone e non teme i ghiacci. - Ditemi, tenente, le montagne di ghiaccio si spingono molto verso sud? - Molto, Koninson. Io ne vidi alcune a parecchie centinaia di miglia dalle isole Aleutine, in pieno oceano Pacifico, altre a sud del Banco di Terranova o sulle coste del grande Impero russo e perfino presso le sponde della Norvegia. Anzi mi ricordo che una nave in viaggio dalla Scozia a Brema fu schiacciata da un "iceberg" che era sceso nel mare del Nord. - Tanto scendono! - E scenderanno sempre più. Se tu vivrai un secolo ne vedrai alcuni anche sulle coste della Danimarca e fors'anche della Prussia. - E perchè, signore? - Perchè la linea dei ghiacci ogni anno guadagna spazio. - Dunque il freddo cresce nelle regioni polari? - Sì, Koninson. Alcuni mari, che alcuni secoli or sono erano navigabili, ora sono ingombri dai ghiacci e alcune terre, un tempo fertili, oggi sono ridotte a deserti di neve. Vuoi degli esempi? - Gettateli fuori, signor Hostrup. - Nel IX secolo, alcuni Scandinavi che avevano fondato delle colonie in Groenlandia e in Islanda, sbarcavano su una costa ove cresceva la vite, e perciò chiamarono quella terra Vinland. Sai come si chiama oggi quel paese? - No, signor Hostrup. - Si chiama Labrador. - Come, nel IX secolo nel Labrador cresceva la vite! - Si, fiociniere. E cosa è oggi il Labrador? - Un deserto di neve ove la vite non crescerebbe nemmeno accanto alla stufa. Per Bacco, che discesa hanno fatto i ghiacci! - Un altro esempio, Koninson. Quattrocento anni fa gli Islandesi trafficavano liberamente, in pieno inverno, coi Groenlandesi. Oggi d'inverno non si arrischiano più a navigare in quel tratto di mare per non venire stritolati dai ghiacci. - È strano! - disse Koninson. - Vuoi ora un terzo esempio? Quaranta o cinquant'anni fa, sulle coste dell'America settentrionale e sulle vicine isole, vivevano in grande numero i buoi muschiati, grossi e bellissimi ruminanti dal pelo lunghissimo e dalle grandi corna. Sai perchè oggi questi ruminanti sono scomparsi? - Perchè, tenente? - Perchè il freddo è sceso a distruggere le praterie e questa è cosa quasi recente. Io ho conosciuto un capitano il quale cinquant'anni fa cacciava le balene, durante l'inverno, nella baia di Melville. Chi è l'audace baleniere che oggi ardisce entrare d'inverno in quella baia? - E nell'oceano antartico, la linea dei ghiacci si spinge pure sempre più innanzi? - Più che nell'oceano artico, Koninson. Colà si trovano dei ghiacci sopra il 50o parallelo e talvolta anche sopra il 45o, specialmente nel tratto di mare compreso fra l'America del Sud e l'Australia. - Che ciò dipenda dal raffreddarsi del nostro globo? - Certamente. Ecco l'"iceberg"; guarda come è bello! La montagna di ghiaccio era allora vicinissima al "Danebrog". Aveva la forma di una piramide, un'altezza di oltre cento metri e una base di trecento. I raggi del sole, riflettendosi sulle mille faccettine, la rendevano così sfolgorante che a guardarla gli occhi provavano un acuto dolore. Sulla cima di quel colosso, che il vento del nord spingeva verso la costa americana, alcuni uccelli marini avevano piantato i loro nidi e mandavano acute strida. Tutto l'equipaggio del "Danebrog", quantunque abituato a simili incontri, era salito in coperta a contemplare quel primo apportatore del freddo che, colpito in pieno dal sole, scintillava come fosse un enorme diamante. - Bello! - disse Koninson. - Ma pericoloso - aggiunse il tenente. Ad un tratto dalla sommità di quella montagna caddero dei frammenti di ghiaccio che produssero sull'acqua un rumore analogo a quello delle goccie d'acqua. Subito gli uccelli se ne volarono via mandando strida di spavento. - L'"iceberg" si rovescia!- gridò mastro Widdeak. - Attento all'onda, timoniere! La montagna di ghiaccio, rosa alla base dall'acqua, stava per perdere il suo equilibrio. Fu veduta oscillare da destra a sinistra per alcuni istanti, poi tutto d'un colpo la sua vetta tracciò nell'aria una grande curva e l'intera massa piombò nel mare con un cupo rimbombo. Sparve tutta, poi una grande punta azzurra emerse fra un vortice di spuma, dapprima lentamente, indi con un balzo repentino e ricadde sollevando un'ondata che fece piegare sul babordo il "Danebrog", correndo poi ad infrangersi con indescrivibile violenza contro la costa americana. Per alcuni minuti la montagna, che presentava una punta assai aguzza, ondeggiò spaventosamente, ora tuffandosi e ora risalendo, poi a poco a poco riprese l'equilibrio e si allontanò verso sud sempre scintillante, sempre superba, sempre gigantesca. Quello stesso giorno di fronte alla baia Smith, altri due "icebergs", ma di dimensioni più piccole, furono incontrati dal "Danebrog" che navigava sempre in vista della costa americana, dietro le macchie oleose che apparivano ancora numerosissime. Il 21 la temperatura discese bruscamente a 7o sotto zero e il vento crebbe di violenza diventando così freddo che i marinai furono costretti a indossare le vesti d'inverno. Verso il mezzodì il "Danebrog" entrava fra due lunghissime file di "hummoks", piccoli ghiacci di pochi metri di altezza, staccati senza dubbio da qualche campo di ghiaccio o da qualche grande "iceberg". Erano cinque o seicento, arrotondati gli uni, aguzzi gli altri, o scabri, o lisci, o screpolati, che si urtavano rumorosamente frangendosi e che ad ogni istante perdevano l'equilibrio prendendo nuove forme. Il sole, battendovi sopra, dava ad alcuni l'apparenza di zaffiri, ad altri di smeraldi, ametiste e diamanti di grande splendore. II "Danebrog" non provò gran fatica ad aprirsi il passo col suo solido sperone di acciaio e spinto da un buon vento se li lasciò ben presto tutti a poppa. Ma tre miglia più innanzi nuovi ghiacci apparvero, più solidi, più grandi e più numerosi dei primi. Li capitanava un gigantesco "iceberg" ai cui piedi nuotavano alcuni narvali, grandi pesci armati da un dente lungo assai e molto aguzzo. A rendere ancor più difficile la navigazione, scese dalla costa americana un nebbione fittissimo, il quale in pochi istanti coprì il mare celando agli occhi dei marinai i ghiacci. - Hum! - mormorò il capitano che era diventato inquieto. - Se non procediamo cauti, corriamo pericolo di rompere una costola al "Danebrog". Fece prendere terzaruoli su quasi tutte le vele per diminuire la velocità della nave, e mise alcuni uomini a prua con dei solidi buttafuori per respingere i ghiacci che potevano danneggiare il bompresso. Alle 5 del pomeriggio il nebbione era diventato così fitto che il timoniere non distingueva più l'albero di trinchetto, e i gabbieri dalle coffe a gran fatica discernevano la coperta del bastimento. Una viva inquietudine si impadronì dell'equipaggio. Ognuno temeva l'incontro improvviso di qualche "iceberg" che forse in quei momenti navigava a poche gomene e fors'anche a sole poche braccia. Di quando in quando agli orecchi degli uomini di guardia giungevano dei forti cozzi, degli scricchiolii e dei colpi sordi come di ghiacci che, perduto l'equilibrio, capitombolano e delle forti ondate venivano ad infrangersi contro i fianchi del "Danebrog" il quale procedeva alla cieca. Alle 10, dopo il tramonto del sole, a bordo non ci si vedeva più in là di cinque passi. - La cosa diventa seria assai! - disse Koninson al tenente. - Non si sa più dove si va. - Questo nebbione non durerà molto, fiociniere - rispose il signor Hostrup. - Appena il sole risorgerà lo dileguerà, io vedrai. - Ma prima di domani mattina ... - Taci! ... - Che avete udito? - Qualche gran ghiaccio naviga presso di noi, Koninson. Non odi questo gridìo? Il fiociniere tese gli orecchi trattenendo il respiro. Attraverso la fitta cortina di vapori udì distintamente un acuto gridìo che lentamente si avvicinava, indi un sordo muggito, come il rompersi di una grande ondata contro una costa. - Oh! Oh! - esclamò. - Vedi nulla? - chiese il tenente. - Nulla, signore, ma sento la presenza di un "iceberg". Gli uccelli marini non si riuniscono in gran numero che attorno ad una balena morta o a un grande ghiaccio. - Attenzione, timoniere! - gridò il tenente. - E voi, ragazzi, pronti ai bracci delle manovre. Il capitano, che stava a poppa accanto al timoniere, accorse a prua. Quasi nel medesimo istante a poche braccia dallo sperone apparve un debole chiarore. - Un "iceberg"? - chiese Weimar. - Sì, capitano! - rispose il tenente. - E se non m'inganno deve essere colossale. - Barra a babordo tutta, mastro Widdeakl - gridò il capitano. A prua si udirono alcuni cozzi violenti seguiti da forti crepitii, poi un'onda di considerevole altezza venne a spezzarsi contro lo sperone. Un centinaio di uccelli marini fendette il nebbione e calò sulla nave, credendola forse, fra quell'oscurità, il corpo di una balena. - I buttafuori! I buttafuori! - gridò Weimar salendo sul bompresso per meglio vedere. Dieci marinai muniti di solidi spuntoni accorsero per respingere l'assalto del formidabile nemico che li minacciava, ma d'improvviso furono rovesciati sulla coperta. Un urto violentissimo era avvenuto a prua e il "Danebrog" era stato respinto. Un grido di spavento sfuggì da quasi tutti i petti. Un "iceberg" alto almeno cento metri era sorto dinanzi alla nave dondolandosi spaventosamente. - Tutti a prua, perdio! - urlò il capitano che non aveva perduto il suo sangue freddo. I marinai, risollevatisi prontamente, si slanciarono colà e spinsero fuori gli spuntoni, alcuni dei quali si spezzarono contro l'"iceberg" che continuava a oscillare formando alla sua base delle forti ondate. Il "Danebrog", vigorosamente respinto, virò di bordo e scivolò lungo i fianchi del ghiaccione. Tre volte fu toccato e tre volte i suoi pennoni corsero rischio di spezzarsi e le sue murate di piegarsi, ma finalmente si allontanò dirigendosi verso sud-ovest. Pochi istanti dopo l'"iceberg" scompariva fra la nebbia.

- Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo. Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell'America settentrionale.

. - Non abbiamo che sei o settecento metri da percorrere. - E se quei ghiacci ci pigliano in mezzo e ci schiacciano la testa? - Cercheremo di evitarli. Orsù, non tardare un secondo di più, Koninson, se ti preme la pelle. Guarda, la scogliera sta per essere spazzata da quell'onda mostruosa. Coraggio, fiociniere, che Dio non ricuserà di aiutarci. Il tenente saltò in acqua per il primo; Koninson, dopo un pò di esitazione, lo seguì. Credettero tutti e due di morire gelati tanto quell'acqua era fredda, ma si fecero animo e ricominciarono a nuotare affrettando i movimenti. - Tene ... nte - balbettò Koninson. - Mi ... pare che ... mi si schiacci ... il petto ... - Nuota ... forte, fiociniere ... La costa non è lontana. - Auff ... ne ho ... per una settimana e ... - Sta zitto ... conserva le ... tue forze ... Ansando, rantolando, l'uno vicino all'altro, i due disgraziati avanzavano verso i ghiacci che pareva volessero ostruire il passo. Ben presto si trovarono fra due "palks" di non piccole dimensioni i quali dondolavano perpendicolarmente scricchiolando ad ogni colpo. Il tenente si cacciò arditamente nel canale da essi formato, spintovi anche dalle onde che, superata la scogliera, correvano ad infrangersi verso la costa, la quale era difesa da un grande banco tagliato in forma di sperone. Koninson lo seguì. Passato il canale, si cacciarono entro un altro formato da due piccoli "icebergs", dalle cui cime cadevano ad ogni istante pezzi di ghiaccio così sottili e acuti che parevano lame di coltelli. Più di uno cadde addosso ai nuotatori, lacerando le loro casacche. Dopo dieci buoni minuti giunsero finalmente ad una sola gomena dal banco di ghiaccio. Dietro a questo appariva confusamente, fra il nebbione, la costa che era senza dubbio quella americana. Era alta, dirupata, coperta da uno strato di neve e, a quanto pareva, deserta. Però sulla cima di quelle rupi, il tenente credette di vedere delle piante. - Co ... rag ... gio, Koni ... nson! - balbettò. - A ... van ... ti - rispose il fiociniere, che non ne poteva proprio più e che aveva le braccia paralizzate. Fecero un ultimo e disperato sforzo e si avvicinarono ancor più. Finalmente un'onda li prese e li portò abbastanza tranquillamente sul banco di ghiaccio ove rotolarono senza forze e irrigiditi, in mezzo alle nevi ed ai ghiacciuoli. Erano allora le 6 del mattino.

abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all'altro. - Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura. - Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! - rispose il coraggioso fiociniere. - Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura. - La attraverseremo, Koninson. - Affrettatevi dunque, signor Hostrup! - disse il capitano. - Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale. - Vieni, Koninson - disse il tenente. Si diresse verso l'albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio. - Ci servirà per passare il crepaccio! - disse al capitano che lo guardava senza comprendere. - Arrivederci ai magazzini, signor Weimar. - Dio vi guardi, signor Hostrup! - rispose il capitano con voce commossa. Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra. - Non so, - disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento - io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia? - Non lo credo - rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. - Addio, capitano, addio! Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso. - Si direbbe che una disgrazia mi minaccia - mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori. Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato. - Affrettiamoci tenente! - disse il fiociniere. - Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave. Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d'attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri. Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso. Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero. Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita. - Mi sembra che non abbiano sofferto - disse il tenente dopo una rapida occhiata. - È vero - confermò il fiociniere. - Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi. Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono. - Le scialuppe? - chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto. - Eccole lì! - rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino. - Saremo capaci di spingerle fuori? - Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli. In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal "Danebrog", giunsero pure ai loro orecchi. - Presto, presto, Koninson! - gridò il tenente. - Forse la nave sta per affondare. - Eccomi, signore! - rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri. Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino. Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria. Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva. Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave. - Koninson! - esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione. - Tenente! - rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere. - Aiuto! Si salvi chi può! - s'udì urlare al di fuori. Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti. Il "Danebrog", schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio. I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio. - Capitano! Capitano! - gridò il tenente. - Accorriamo! Accorriamo! - esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare. Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il "Danebrog" e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi! Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

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