Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266646
Boito, Camillo 50 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Dove sono sforzati a guardare il vero, come nei ritratti, lì si alzano spesso all’arte succosa e robusta: di Giulio Carlini, per esempio, abbiamo visto molte figure vivaci. Così abbiamo visto del D’Andrea parecchi buoni lavori. Studioso e coscienzioso artista, egli pure è sovente guastato dalla preoccupazione del bel tinteggiare: non contento di cercarlo nella natura e di esprimerlo come lo sente, si travaglia intorno all’antico. Tempo addietro alla Esposizione di Venezia c’era un suo grandissimo quadro di storia. I cavalieri, i senatori, il doge, i paggi, la loggia del palazzo ducale, gli stendardi spiegati, tutto voleva essere colore; e il colore era, come accade spessissimo, smagliante insieme e fiacco; e sotto ai panni variopinti si cercava invano la solidità dei corpi; nè sotto al celeste si trovava l’aria, nè sotto alla superficie dell’architettura la pietra. La composizione stessa soffriva in quella vacuità di tinte.

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Abbiamo per altro una gran paura che il busilli stia solamente nel saper dipingere con sicurezza e con facilità. Del resto gli artisti non ignorano oramai quali sieno le essenze e gli impasti, che contribuiscono ad oscurare le tinte o ad alterarle in pochi anni; e se li adoprano ad ogni modo, lo fanno per trascuratezza, per fretta, o perchè non si prendono nessuna briga della fama futura.

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L’avere la mano assuefatta anche al dipingere in vaste dimensioni — abbiamo veduto una sua pala d’altare — fa sì ch'egli non duri fatica nel rendere conto d’ogni parte anche minuta del vero; ma di codesta scienza inclina ad abusare e, ricercando con soverchia cura i particolari delle cose, pare un tantino secco nel disegno e crudo nel colorito, Buona parte delle sue qualità pittoriche viene dalla soda e bella cultura del suo spirito: la quale cultura non è meno necessaria al pittore di cose famigliari e contemporanee, che al pittore di storia. È critico brioso e assennato: ma quasi ci rammarichiamo di tali virtù, perchè lo traggono a quella letteratura quotidiana dei giornali, che non può non irritare alla lunga l’animo dello scrittore e non ispremere vanamente il miglior succo del suo cervello.

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Di Domenico Caligo abbiamo veduto alcune prospettive veramente squisite: una specialmente, che sta nella pinacoteca moderna dell'Accademia di Brera; e che ritrae la sala dell'Illiade nel palazzo Pitti. I celebri quadri appesi alle pareti sono riprodotti con lo stile e col tocco dei differenti maestri; gli stucchi, gli ori, i marmi simulano davvero marmi, ori, stucchi; il pavimento è sdrucciolevole, e a traverso le porte si passa dall’una sala all’altra via via. Eppure chi si avvicina al dipinto lo vede eseguito con una certa sfumata sprezzatura di modo: gli è che nella prospettiva, come negli altri generi d’arte, non giova porgere la imitazione pedantesca delle forme, ma conviene darne il carattere. Gran peccato che Ippolito Caffi, felice e prontissimo ingegno, non abbia lasciato nessun ragionevole erede di quella sua arte di luci fantastiche, di nebbie, di lune, di bizzarrie, alle quali si presta tanto la città delle gondole. Povero amico, infaticabile e curioso! Voleva studiare i casi di una battaglia navale, voleva farsi il pittore delle glorie dell’armata italiana. È scomparso nel gorgo di Lissa!

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L’autore censurava il Laocoonte; ma perchè non abbiamo nella memoria le ragioni scientifiche di quelle censure e ci manca il tempo di consultare il volume, il lettore, se gli preme, cerchi da sè. Ad ogni modo, almeno nell’apparenza, il Laocoonte è modellato con una verità e con una vigoria ammirabili: e intendiamo la sola figura di lui, perchè nei figliuoli è un altro paio di maniche. In essi la tradizione dell’arte greca pare scrupolosamente seguita: codesti ometti, con le teste piccole e le membra sottili, stanno fra le anella degli spaventosi serpenti in attitudine quieta e aggraziata. Ne’ fanciulli è ancora idealizzatala eleganza tranquilla del corpo umano, mentre nel padre le cautele dell’arte lasciano luogo alla veemenza della espressione. Il difetto capitale del famoso gruppo sta dunque nella mancanza di unità di stile: fosse tutto barocco sarebbe tutto stupendo.

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Del Borro abbiamo lungamente parlato in proposito del monumento a Daniele Manin. Non possiamo tacere il nome del Minisini, uomo attempato, scultore saggio, placido e qualchevolta gentile di monumenti sepolcrali, di statue religiose e allegoriche.

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Abbiamo visto di lui un ottimo bozzetto del monumento, che Venezia intende alzare al suo grande Goldoni. La figuretta ha il lungo panciotto, le gonfie gale al petto ed a’polsi, il cappello a tre punte. Appoggia la mano destra sul pomo di un’alta mazza, che tiene piantata dinanzi a sè. In tutta la persona v’è l’attenzione acuta, sul volto il sorriso. Studia la sua commedia nel popolo, ascolta, ma già inventa, come fa l’uomo di genio, che copiando crea. Non si può scambiare quel piccolo Goldoni con nessun altro grand’uomo: è brioso, vero, finamente sarcastico. Per carità lo facciano di marmo candido: il bronzo stonerebbe col carattere di quella schietta figura.

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Abbiamo sentito sperare da qualcuno che una volta o l’altra ci si risolva di interrare il Canal grande per farne una larga via carrozzabile, un corso, un’ampia arteria, come dicono. Se il disegno, che è e resterà il desiderio di qualche cervello smanioso di modernità, avesse luogo, Venezia morirebbe di pletora o di vergogna. E che convenga essere molto cauti nel rimodernare, si vede già da una via nuova e larga, la quale fu aperta cinque anni addietro lì dove stavano certe viuzze a sghimbescio e tanto strette, che gli amanti potevano stringersi la mano da una finestra all’altra di rimpetto. L’allargamento era indispensabile: facilita il cammino alla gente, che prima, andando dalla Stazione della ferrovia al centro della città, s’ingorgava a ogni tratto; e non ostante, mentre nelle altre città le vie necessarie, in un quartiere popoloso, in una linea di grande passaggio s’arricchiscono facilmente di vasti edifici ornati decorosamente, qui non vediamo alzarsi che misere casette ad uno o due piani oltre il pian terreno, con certi stipiti e certe cornicette magre magre da far compassione. Codesta gretteria moderna stringe il cuore davvero, e paiono meno pitocche le calli vecchie coi loro cenci d’ogni colore appesi alle finestre, e con le donne che ciarlano sedute dinanzi alle porte delle case infilando perle o facendo calzette.

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Sempronio ha già divorato il suo pane ed il suo cacio, ha baciato più volte il fiaschetto del vino; voi ed io non abbiamo nè fame nè sete. Ci alziamo finalmente, ci accostiamo, ci mostriamo i bozzetti. Oh, la lieta cosa ch’è il vostro! tutto luce, tutto serenità, tutto gaiezza; il vento pare uno zeffiro che lambe affettuosamente le spiche, la nube una rapida nuvola volante. Nel vedere quello studio verissimo ecco che si pensa a’ fiori della vita, alle ricchezze della natura, alla esistenza placida e ingenua di chi scorre gli anni tra i campi. Nel mio schizzo è invece diffusa non so quale mestizia: le spiche non si piegano più che nel vero, la nube non è nè più negra nè più pesante che non sia proprio in realtà; ma quel vento, quella nuvola, quell’ombra larga che si proietta sul campo di biade, fanno correre, non si sa come, la fantasia alle grandini ed alle bufere; lo stesso limpido azzurro del cielo, le stesse collinette lontane, gli stessi fiori del prato, o diventano tristi, o, col contrasto, fanno parere più triste l’insieme. Or vediamo Sempronio. Graziosa pennellata, tocco elegante, buon disegno, bel colore, savia prospettiva, e poi? Nulla. Ma come? Ogni forma, ogni tinta non corrisponde forse alla verità delle cose? Sì; ma quel dipinto non dice niente. Torniamo a guardar la natura, è la natura ci torna a muovere, per mezzo degli occhi, il cuore. Or dunque quella copia di Sempronio è al certo difettosa o imperfetta: lungi dall’interpretar la natura, ce la aombra e vela. Egli, che è grande maneggiatore di pennelli, ma che artista non è, ha veduto della viva scena la parte materiale soltanto, lasciando dall’un de’ lati la parte ideale o morale o, che è lo stesso, poetica: ha fatto come il musicista pedante, il quale, udendo un quartetto dei Beethoven, studia solo i contrappunti e gli accordi, o come il medico materialista, che nel contemplare una vezzosa giovane rimedita alle interiora e ai vermi parassiti.

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— noi non li abbiamo cercati — ne troverebbe di peggiori che non in certe figure solennemente misurate ed elegantemente cadaveriche, di cui sono popolate le stanze de’ buoni vecchi scultori. La fanciulla tutta nuda, come l’ha fatta natura, è sbalzata dal letto non ancora ben sveglia. Solleva il gomito destro, puntando la mano con forza dietro la nuca; le sue gambe s’intrecciano nervosamente, ma dovranno subito snodarsi e piantare più saldo, perchè il bel corpo, che s’incurva gettandosi con le spalle un po’indietro, non potrebbe alla lunga durare in quel fuggitivo equilibrio. Dalla testa ai piedi della gentile creatura scorre un brivido di voluttà virginale: in quello svegliarsi c’è come il resto di un sogno candidamente amoroso, come la promessa di un fervido bacio puro. I muscoli, i tendini, i nervi tornano alla vita ed al moto: il corpo esce dal sonno: l’adolescente vuol diventare donna.

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Quale diritto abbiamo noi di goderci l’arte in pigrizia, come un Sultano che, sdraiato sui molli cuscini, sonnecchia, sbadiglia, e con gli occhi socchiusi mormora — divertitemi? Non è egli giusto che ci si debba conquistare questo diletto del bello con un poco del sudore della nostra fronte? Avremo allora meritato davvero di goderci la bellezza, saremo più contenti di noi medesimi, e la soddisfazione di noi stessi ci moltiplicherà il piacere. Nessuna cosa fa pro, se non è ottenuta difficilmente. L’artista non è un saltimbanco. Ha diritto di dire al pubblico: io ho sofferto, faticato, logorato il mio cervello ed il mio corpo per te; io ti do il diletto delle mie opere io, ma voglio che in compenso di tanti mesi, di tanti anni di travaglio, tu mi porga qualche minuto di attenzione intensa e benevola; voglio che tu sappia ascoltare, guardare e divertirti virilmente, come io ho virilmente operato.

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Abbiamo lungamente contemplato quell’opera e ripensato ad essa con tenace memoria: il dramma ci pare vivo tuttavia e terribile, ma di una terribilità tutta estetica. Sotto uno sprezzo quasi pretensioso la forma è meditata, accurata, modesta, così nelle teste e nelle membra, come nelle pieghe e negli accessorii; si vede che il pensiero, concepito nelle furie di un animo infiammato, ha preso corpo nella ragione e nella coscienza dell’artefice.

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Questa medesima coscienza dell’arte chi crederebbe che si potesse trovare anche ne’ dolori del parto di quella monaca, la quale, quasi per celia, abbiamo menzionato in principio? Eppure in un così bislacco e sconveniente concetto la espressione del dolore morale, che s’indovina in mezzo alle sofferenze fisiche, è sottilmente cercata; e tutta la figura si vede condotta con quella convinzione di ben fare, che spegne sulle labbra il sorriso. Le opere del Grita escono dalle sue viscere; chi non le rispetta non le ha guardate abbastanza o le ha guardate con animo di trovarle brutte: la quale cosa accade tuttodì, senza che il guardatore si possa dire perciò di mala fede o di poco ingegno, poichè la leggerezza anche degli uomini più sodi — la nostra di critici segnatamente — è maravigliosissima. L’artefice che non bada a’ quattrini, che non cerca le lodi del pubblico e delle gazzette, che non fa un compromesso tra l’arte propria ed il gusto della età in cui vive, che alza la sua professione a ministero di idee, ha diritto non all'ammirazione, se non è ammirabile, ma alla stima della gente, massime in questi anni, nei quali gli artisti non abbominano i soldi, gli elogi e gli onori.

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Abbiamo dovuto dimenticarcela per entrare nell’ambiente dell’arte. Quando il Proudhon col suo libro Du principe de Vart et de sa destination sociale, scritto in gloria del Courbet, fantastica certe idee demagogiche nei Casseurs de pierre, nelle Demoiselles de la Seine, nel Retour de la Conférence, egli non discorre dell’arte, ma continua le sue ricerche sul problema, che fu tentato di sciogliere dianzi a Parigi: Qu'est-ce que la propriété? E il Courbet, buon uomo, grande pittore, timido, ma pigliato dalla vanità socialistica, non ha giovato punto con questa a’suoi quadri, che gli sono venuti, come vengono tutte le opere agli artisti, dall’istinto dell’arte, bensì è stato per essa in punto di rimetterci, con dodici palle di fucile in corpo, la vita.

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Abbiamo sotto gli occhi una fotografìa molto curiosa. È la fotografia di un uomo che si uccise tre mesi addietro in Milano, dopo avere annunziato ad un suo protettore come allora allora si fosse fatto fare il ritratto, perchè i pochi suoi conoscenti, a’quali importava di lui, se lo andassero a pigliare. Era vecchiotto e pieno di ingegno. Aveva la mania delle invenzioni, nelle quali si lambiccava il cervello e sciupava i suoi pochi soldi. Un po’la miseria, un po’i disinganni dell’ambizione lo trascinarono a darsi una pistolettata nel cranio. Ma si conosce che gli sarebbe assai rincresciuto se questa sua sinistra determinazione non si fosse veduta dipinta nel suo ritratto. La bella fronte spaziosa è corrugata, le ciglia sono aggrottate, gli occhi guardano dal sotto in su, i labbri si serrano l’uno all’altro sdegnosamente, la barba grigia è scompigliata, i capelli bianchi sono rabuffati ed irti, la testa si avvalla nelle larghe spalle, un solo bottone chiude al petto con certe pieghe stirate l’abito di panno nero: tutta la figura insomma riesce un pochino artefatta, e pare che la vanità dell’uomo, il quale vuole uscire dalle vanità della vita, abbia bisogno di questo sfogo innocente.

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Abbiamo rivisto in questi giorni nella Galleria moderna dell'Accademia fiorentina di Belle Arti i due dipinti che fecero tanto chiasso. Ci parvero tuttavia freschi e vigorosi, lì in mezzo a molte opere di celebri nomi, delle quali il passato plauso è un enimma. Tanti fervori sprecati, che restano solo vivi nella sbiadita memoria, fanno dubitare tristamente della possibilità di un buon gusto pubblico e di una soda critica. Fra quindici o venti anni, se un fannullone curioso aprirà per caso le facce di questo volume, certo riderà dei nostri accendimene e dei nostri sdegni, come talvolta, quando ci cascano in mano gli sproloquii di venti anni fa, noi ridiamo.

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Avevamo cancellato è indifferente per sostituirvi ama di eguale amore; poi, pensando un poco, abbiamo rimesso le prime parole. Infatti nell’amore che questo singolare e semplicissimo giovine ha, ne’ suoi lavori, per l’arte, v’è un’ombra di scetticismo. Abbraccia con fervore una cosa, l’accarezza, l’ama più coi sensi che col fondo del cuore, ne gode fino all’ultimo, se ne sazia e la abbandona senza rammarico, senza rimembranza. Amante caldissimo, sinché ha Ottenuto i favori della sua bella, poi, come Don Giovanni, le volta le spalle, e s’invaghisce di un’altra.

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Del Bignami abbiamo anche visto un piccolo dipinto, che ci ha commosso: un lavoro fatto dal pittore per sè medesimo, mesto e pur dolce ricordo d’affetto. Non una figura, nè una pianta, nè un lembo di cielo: è l’angolo quieto di una stanza; dove si vede la credenza con sopra un vassoio, alcune chicchere e pochi altri oggetti. Sul tavolino da lavo.ro sta deposta una calza non finita; ma il gomitolo è caduto a terra col muoversi della persona — s’indovina che doveva essere vecchia e placida — la quale nell’alzarsi per uscire ha lasciato le recenti ammaccature sul cuscino rosso del seggiolone. Quella stanza pulita, modesta, un po’all’antica, serba tuttavia qualcosa dell’anima della madre rispettata ed amata. Bisogna vedere con quanta venerazione il pennello ha riprodotto le minuzie della verità, il lustro dei mobili, le macchiette quasi impercettibili: e così l’arte giova all’affetto, e l’affetto sa mettere dignità ed espressione nelle cose più grettamente comuni.

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Abbiamo perso con la dissuetudine il senso delia grande arte architettonica, per modo che non sappiamo risuscitarla neanche lì dove potrebbe avere libero campo; e facciamo delle cose smisurate, come la nuova Galleria di Milano e i nuovi Mercati di Firènze, che sono misere. Ma in Roma peggio. Sembra che gli architetti si sentano sgomentati e che tremino loro le mani. Già vivono in due brutte condizioni: prima, di non potere scegliere altro stile che quello del Risorgimento, rimontando tutt’al più sino al Bramantesco e scendendo tutt’al più sino al Berninesco; seconda, di potere adoperare assai facilmente e utilmente il cemento per la decorazione delle facciate.

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Ora noi, da più di quarant’anni a questa parte, viviamo in una condizione unica nella storia degli uomini: non abbiamo nessun carattere di arte; ci aggiriamo in una babele di architetture, senza fermarci a nessuna, senza avere nessuna preferenza, senza possedere nessun criterio vero di scelta. Nè si può dire che da tanto singolare incertezza sia dato uscire tra poco; ma gioverebbe che almeno il desiderio di uscirne si manifestasse più fruttuosamente che non nei quesiti e negli ordini del giorno di un Congresso. Comunque sia, benché le ciarle non servano a nulla, chi si mette a ragionare di ciò bisogna, crediamo, che ponga per primissima condizione i prima anche della nazionalità o della cittadinanza dell’arte, che l’architettura futura sia pieghevole, varia, abbondante, ma unica.

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E noi da ragazzi lo abbiamo tanto amato. I suoi apologhi fanno sui teneri ingegni quello stesso effetto che fa sull’anima, uscendo dalla stretta gola di erti monti, l'aperta vista di una larga valle con le cime delle montagne lontane, e poi altre cime di più lontane montagne che si confondono con l’azzurro del cielo. Quelle favole sono un gran soffio di aria vivificante: una rinnovazione dello spirito infantile. Ognuna di esse disnebbia dinanzi agli occhi uno dei tanti velami, che nascondono la natura e la vita. Non c’è cosa al mondo, per nostra memoria, che ci abbia tanto insegnato quanto il Cervo che si specchia nel fonte. Quel cervo, il quale nella selva, avendo sete, si trattiene alla bella onda chiara come argento, e considera nell’acqua l’armonia del proprio corpo, e si compiace degli ampii rami, che gli coronano il capo, e si vergogna delle gambe stecchite e misere: quel cervo ammaestra a contemplare i rapporti delle forme; e il bimbo, il quale ha visto prima de’ cervi senza badare a nulla, grida: È vero, le gambe del cervo sono troppo sottili! Poi viene il dramma: i cacciatori, i bracchi, la fuga del cervo, la sua corsa precipitosa nel fìtto della foresta. Ed eccoci alla catastrofe, quando i rami delle corna s’impigliano nei rami bassi degli alberi, e il disgraziato animale con la testa prigioniera dimena invano le gambe, ed è ucciso; e così quello che il cervo stimava utile e dilettevole — traduce uno da Siena antico — fu cagione della sua morte, e quello che stimava sozzo e dannoso era stato più volte cagione del suo campamento.

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Ma può darsi che il bizzarro Salvatore, al quale, naturalmente, non ispiacevano le donne amabili, sia andato a visitarne una, mentr’ella conversava piacevolmente con l’altra signora e col cavaliere vecchiotto, e, presa a un tratto la mandòla, abbia cominciato così a dire versi all’improvviso, la quale cosa si sa che egli faceva assai spesso e con prontissima grazia; e noi abbiamo già visto come la poesia, ch’egli recita, non possa essere nè la pesante e biliosa delle Satire, nè quella dei Lamenti, nè la melliflua e amatoria delle strofette per musica.

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Tale perfezione deve essere stata una causa del poco entusiasmo di certuni per codesta opera; giacché la forma che non manca di nulla, rivela meno prontamente la individualità dell’autore, e il genio, come abbiamo detto, sembra tanto più grande, quanto le opere sue appariscono meno contrappesate. Infatti il carattere singolare di un artista, di un poeta, di un letterato si rivela più spiccatamente col mezzo delle imperfezioni, che non per mezzo delle buone e ben regolate qualità.

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Qui sta la differenza tra l’avviamento de’ vecchi e quello dei giovani: la pittura, per ripetere quel che abbiamo già detto, oggi è ridiventata pittura. Ma l’affermare, come qualcuno fa, che dipingere o eseguir bene non vuole dire altro che avere una buona tecnica, non è giusto. Buona tecnica è quella che si vale di tutti i mezzi del mestiere pittorico, e che, maestra nel maneggio degli strumenti pratici dell’arte, non può tenersi dal fare sfoggio della sua abilità sopraffina. Il dipingere bene è meno e più: meno, perchè si può dipingere bene con un certo difetto, con un certo squilibrio, volontario o involontario, di tecnica; e più, perchè bisogna che la maniera di esecuzione abbia un’indole ben personale al pittore e sicurissima. Conviene, insomma, che l’artista sappia, almeno materialmente, quel che egli vuole, e lo mostri.

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E non è male, crediamo, ripensare a questi casi de’ secoli andati, noi che viviamo in questo umano e gentile secolo decimonono, noi che abbiamo assistito al bombardamento e agli incendii di tanti monumenti d’arte maravigliosi. Un re solo dei nostri ha forse qualcosina di re Demetrio. Raccontano che quel di Baviera, sempre innamorato di Wagner, udendo l’esito della battaglia di Sédan, battesse per gran gioia le mani, e prorompesse in questa esclamazione: « Ecco la rivincita di Tannhàuser».

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Nel nostro giardino invece abbiamo piante d’ogni specie, nostrane ed esotiche, seminate in ogni qualità di terreno, coltivate in tante maniere diverse, all’aria aperta od in serra. Strappiamo i frutti insieme alle foglie, ai gambi ed alle radici. Spesso, impazienti, strappiamo i fiori senz’aspettare i frutti. I nostri giardinieri lavorano tutti uno ad uno, indifferenti o sprezzanti delle coltivazioni vicine, padroni assolutissimi della propria zolletta o del proprio vaso. In Grecia il giardiniere aveva molti valenti operai, ma era uno solo, e si chiamava Grecia; e all’ombra gigantesca e maravigliosa della pianta, ch’egli educò, vennero poi a ricrearsi, ad ammirare, a meditare, a studiare le generazioni future. Dalle gemme di quell’albero divino germogliarono altre arti, infinitamente minori di esso, e pure rispettabili. Chi tra i Greci diceva il nome di Fidia, vedeva tutti gli artefici inchinarsi; ora provatevi un po’a pronunciare il nome del più grande scultore d’oggi, e tre quarti degli artefici che vi ascoltano faranno spalluccie e muoveranno le labbra ad un sorriso di scherno. Il più grande dei nostri scultori! — Chi è, di grazia? — Ce n’è tanti, secondo il cervello di chi giudica. — E chi giudica? — Tutti. —

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Noi abbiamo timore che il Monteverde s’affatichi a ristudiare troppo sè stesso. L’ignoranza è sempre una pessima cosa anche negli artisti; ma non sappiamo se quella che pareva al filosofo la più difficile delle sapienze, conoscere sè stessi, non diventi per l’artista una cattiva sapienza. È forse bene che l’artefice si ignori; è forse utile ch’egli lasci, fino ad un certo punto, correre il suo genio sbrigliatamente dove gli garba, matto fanciullo alato e bendato, amorino prepotente, che ha suggerito le più grandi opere ai grandi artisti, ai grandi musicisti, ai grandi poeti, e forse talvolta anche ai grandi filosofi e scienziati. Ma, per carità! non ci s’intenda a rovescio, poichè, lungi dal fare l’apologia dell’ignoranza, non vogliamo dire altro che questo, che l’artista, come il poeta, dotto quanto si voglia e savio, non deve mai artefare o strafare la propria natura, e che per istrafarla o artefarla il peggio è ricercarla troppo. Accade come in certi Cattolici, che, a forza di fare l’esame di coscienza, perdono il senso retto della moralità naturale. Cinque, anzi nove decimi della bellezza artistica e della bontà santa, vengono da ciò che, in misura più copiosa e in qualità più preziosa, abbiamo comune con le povere bestie, l’istinto.

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È realismo bello, ma pretto, la Cieca che legge del Grita, la quale abbiamo già lodata; è realismo una Ragazza povera dell'Amendola, magra, malata, affranta, seduta a terra ed appoggiata con la spalla e col capo ad un paracarro; è realismo una Bambinetta meschina del Belliazzi, anch’esso, come gli altri due, delle provincie meridionali. La semplicità de’ concetti è accompagnata dalla semplicità delle forme; la verità è spogliata d’ogni prestigio esterno; l'esecuzione è aridetta e punto magistrale, almeno nell’apparenza. Poi codesti scultori e alcuni altri che non nominiamo, hanno nell’arte loro un certo che tra l'evangelico ed il socialistico, e si compiacciono nella rappresentazione de’ casi e de’ caratteri del popolo e dei disgraziati: arte umanitaria, melanconica, ristretta, la quale potrà giovare alla scultura indirettamente, tirandola allo studio dei vero ingenuo e a ricercare in esso la spontaneità del sentimento, ma arte che in sè medesima non è propriamente compiuta. Come nelle forme, così nella materia non comporta nessuna pompa; la Cieca del Grita, passando dal gesso al marmo, ha perduto una buona parte della sua modesta naturalezza, e le cose del Belliazzi perderebbero anche più, passando dalla terra cotta al candido Carrara.

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Ma delle altre buòne sculture, che abbiamo già visto e tornato a vedere nelle Esposizioni italiane, non vogliamo ricantare le lodi. Non vogliamo neanche dir nulla delle polpose Armide e Angeliche e Mascherine seminude ed Eve tutte nude, che fanno l’occhietto ai visitatori della Esposizione viennese. Però dobbiamo, confessare che, guardando una formosa Frine e poche altre sue gentili compagne, noi non ci sentiamo la virtù di quel povero ciabattiere, di cui parla messer Giovanni Villani. C’era dunque « un povero ciabattiere, il quale era uomo di santa vita, e l’occhio ch’egli aveva meno perdè, che calzando una bella cristiana gli venne tentazione di carnalità, onde si scandalizzò molto, e ricordandosi del Vangelio di Cristo, ove disse: se 'l tuo occhio ti scandalizza sì il ti trai; ed egli, prendendo il semplice della lettera, con una lesina si punse l’occhio, e il perdè».

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Dappertutto nella statuaria l’Italia è sembrata la prima, a Parigi, a Londra, a Monaco: anche a Vienna i Francesi non hanno venduto nulla, e noi abbiamo dato via tanta roba. Nessuna delle loro statue si vede nelle vetrine dei negozianti di fotografie; mai nostri gruppi di bimbi e le nostre figure di donna si ammirano ormai dai venditori di stampe, dai librai, sul tavolino di coloro che hanno voluto, nel partire da Vienna, portare seco qualche grato ricordo. Le sale francesi contano molti guardatori per le tele che coprono le pareti, pochi per i marmi ed i bronzi che ingombrano il passo; ma, benché i nostri dipinti non attraggano lo sguardo, bisogna vedere come la gente sta con tanto d’occhi dinanzi alle nostre plastiche, e come le commenta, e come ride di soddisfazione, o si sente venire l’acquolina in bocca pel desiderio.

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Non abbiamo mai visto un’opera di pennello moderno che ci contentasse più l’animo, nè che ci desse una sensazione tanto simile a quella che ne procura la musica dei grandi maestri suonata dalle grandi orchestre. E la composizione? È disordinata e bizzarra. E il disegno? Santo Dio, è in molte parti scorretto. Ma non ci fastidite, per carità, con queste dimande da uomini saggi: contentatevi di sentire dentro di voi la gioia pura e ridente del bello, che dagli occhi scende al cuore, senza seguire la via dell’intelletto. E pure quanta scienza, quanta pazienza, quanta coscienza in quell’orgia di colore! Ne diremo una grossa: ci pare un quadro di Paolo Veronese, non annerito, non annebbiato dal tempo, ma netto, fresco, luminoso come se fosse appena appena uscito dal pennello magico.

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Ma l’Austria ha il Roller, che, come abbiamo detto, è tedesco, e l’Ungheria ha il Munkàcsy, che è proprio ungherese. Nè lui, nè gli altri pittori suoi connazionali sono quieti osservatori della natura. Egli si compiace di intonazioni brune, e dipinge volentieri de’ vagabondi, che, all’alba, vengono trascinati in prigione, tra mezzo a donne e a ragazzi pitocchi; ma gli altri, come il Zichy, si compiacciono nelle leggende patrie, nelle allegorie cervellotiche, e se anche ne’ quadri storici hanno una certa indole propria del paese, essa viene più che da altro dalle loro imperfezioni. Così l’impotenza o il difetto diventa qui ancora occasione di singolarità, poichè certe forme di vizio sono virtù.

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Non abbiamo per esso nessuna attraente tradizione italiana, nessuna influente Scuola accademica, e dall’altro canto sentiamo il bisogno di consultare a ogni tratto la natura, di seguirla con docilità. La campagna romana, con i suoi bufali selvatici, con le rovine de’ suoi monumenti, severe e grandiose come le linee del terreno e de’ colli; la spiaggia d’Astura, col mare che si insena, e le barche dei pescatori, ed i ragazzi che nuotano; un paese d’un verde chiaro nell’erba, d’un verde cupo negli alberi, e gli altri quadri del Vertunni, possono schierarsi, non ostante al colore qua e là crostoso e pesante, accanto ai migliori paesaggi stranieri. Peccato che alcuni degli ottimi nostri paesisti abbiano esposto un lavoro per uno e neanche dei più notevoli; peccato che altri non abbiano esposto nulla! L’Italia avrebbe avuto a Vienna, in grazia del paesaggio, quella lode dagli uomini colti, della quale per le figure dipinte non è stata creduta degna.

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Abbiamo visto un amore di carrozzella volare in via Toledo. Aveva le due ruote altissime colorite in minio ed in giallo, e la cassa, sul campo azzurro, mostrava fiori dipinti e meandri. Il guidatore, cantando, scoppiettava la frusta. Dentro c’erano tre guardie di Questura dinanzi, tre carabinieri di dietro, e nel mezzo tre galeotti incatenati, che guardavano intorno attoniti di quel carnevale.

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Uno che dica: Signori, guardatemi: eccomi qua, io sono un gran caro matto, abbiamo forte sospetto che non sia poi un tanto gran matto quant’egli vuol che si creda.

Pagina 388

Pare, se abbiamo visto bene, che all’alto vi sia un gruppo in basso rilievo, figurante una donna avvolta in un lunghissimo lenzuolo, la quale porta in cielo un bambino, e poi un uomo nudo, che guarda in giù ad un disco di ottone lucido con una pallottola nera sopra, il quale disco non si sa se sia il sole con la terra, o piuttosto la bocca di un calorifero. Al disotto un colossale rosario attraversa l'angolo del quadro e porta appese medaglie e croci. E il resto della cornice è sparso di stelle bianche, di cicogne volanti, di scarabei. V’è anche un grosso crostaceo. Finalmente si legge al basso in lettere confuse: Corpus Domini. Uscita della Processione. Abruzzo.

Pagina 392

Del D’Agostino abbiamo invece i Saltimbanchi a Pompei: il cernuus, che, al suono delle tibie, agita le gambe in aria e cammina sulle mani; il funambulus, che balla sulla corda alla maniera di quei piccoli saltatori di Ercolano, i quali si vedono ora nel Museo sul loro campo nero acconciarsi in atti tanto leggiadri. La gente guarda, parte attenti, se il gioco sembra ad essi curioso, parte distratti, se par loro seccante. E i tipi veri pure hanno qualcosa che non ritrae troppo del moderno; e sebbene qua e là, massime nelle figure principali, la esecuzione sia un po’vuota e monotona, pure l’artista ha, meglio forse degli altri colleghi suoi, trovato il punto della naturalezza antica.

Pagina 396

I due ingegni più spiccatamente napoletani fra tutti quelli della Mostra di Napoli, sono i due appunto che abbiamo serbati per ultimi, e che, prima di trattare l’arte scultoria in grande, l’hanno variamente esercitata nelle piccole figurine e nei piccoli busti, dei quali abbiamo dianzi discorso; ed in questi lavoretti, che gli scultori delle altre parti d’Italia considerano quali caricature o ninnoli da schiccherare ad ore perdute, i nostri due pongono un sottilissimo studio del naturale e tutta l’anima loro.

Pagina 408

Vorremmo prendere commiato non dal lettore, ma da un nostro amico, che è morto, e al quale abbiamo tante volte pensato correggendo le bozze di questo volume.

Pagina 412

Abbiamo visto un giorno scendere lente due lagrime sulle sue guance, perchè egli vedeva con gli occhi della fantasia il bello così alto, che le ali del suo nobile genio non bastavano a tanto volo. Se fosse vero, come dicono, che l’anima dei buoni, sciolta, s’accosta alla bellezza eterna, nessuno la meriterebbe più dell’amico nostro, perchè nessuno in vita l’ha più caldamente desiderata e più pazientemente cercata.

Pagina 419

Dov’è il Cavour per noi che lo abbiamo conosciuto? Dove sarà la memoria, non diciamo reale, ma morale e intellettuale del Cavour per i nostri figliuoli? La natura produce le sue opere in un insieme, di cui le parti sono strettissimamente annodate. Il sorriso del Cavour è immedesimato alla sua anima profonda; ma il suo sorriso non è più il suo senza il suo modo di muoversi e di vestirsi. L’arte non può scindere queste cose senza cadere nell'artificio vano e scolastico. Meglio una epigrafe sopra un obelisco che una immagine falsa.

Pagina 45

Il Genio della Rivoluzione è quasi identico nella mossa e nel tipo a quello che nel Piede della Tazza figura il Genio di Roma pagana; il Genio di Roma nel gruppo dell'Indipendenza è simile in tutto a quello dell’Etruria, del quale abbiamo parlato; e nel gruppo principale del Cavour con l’Italia, dove sbuca un certo mistico cattolicesimo, si scorge uno sbiadito riverbero dell’Angelo nel monumento alla Ferrari-Corbelli. Insomma, tolti giù dai loro piedistalli, portati in una galleria, sbattezzati, ribattezzati con altri nomi, il Diritto, il Dovere, la donna dell'Indipendenza, potrebbero diventare stupendi esempii del modellare classico; ma lì a quel posto, con i loro titoli, anche queste, che sono le più belle figure dell’opera, diventano freddamente e insulsamente accademiche. Non bastano certo a fare che si perdoni il disgraziato insieme architettonico, lo stentato gruppo della Politica, e quelle due figure del Cavour e dell’Italia, che sono una vergogna dell’Italia e dello scultore.

Pagina 59

Abbiamo detto che il bel monumento del Borro è squilibrato anche nelle parti. Il Manin, per esempio, larghissimamente modellato, ha certe minuzie di particolari, che sminuiscono la massa, certe pieghette ammaccate, certi ciuffetti irti nei capelli, e, nell’orlo posteriore della gonfia zimarra, una ripiegatura in su, artificiosetta e accennante invano al desiderio di rompere almeno al lembo la monotonia del vestito. Nel Leone poi la metà dinanzi con la foltissima giubba, e la metà di dietro con la spropositatissima coda, non appartengono alla stessa bestia: quella è ampia, eccessiva, ma pensata ed eseguita con arditezza magistrale; questa è povera, manchevole, tormentata di piccoli rialzi nodosi, che vorrebbero parere muscoli.

Pagina 68

Ma da tale necessità non deriva punto la conseguenza che la imitazione viva della natura non basti; anzi, allorchè in faccia ad un quadro o ad una statua ci sfugge questa esclamazione: pare la verità, noi abbiamo già provato dentro di noi una sensazione artistica, la quale potrà essere lievissima o fortissima, secondo la cosa riprodotta, lo stato del nostro animo, e le idee accessorie, che il collegamento involontario e misterioso dei pensieri ci crea nella testa.

Pagina 7

abbiamo visto sovente in una opera di statuaria tanto affetto, tanta delicatezza d’arte quanto il Borro n’ha messo in un ritratto, che sta sulla parete di una delle absidi nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, e che rappresenta il capitano Wlten, veneziano, morto a Custoza: giovine, bello, sano, forte, scriveva versi e commedie, aveva il cervello pieno di magnifiche cose, l’animo caldo di amori, la fantasia allegra d’infinite speranze!

Pagina 70

Così del Cavour non abbiamo neanche un busto, il quale proprio somigli, nè di nessuno, che portasse costantemente occhiali od occhialetto; e il Vela, impacciato esso pure ad onta della sua straordinaria maestrìa, ha messo al Balbo di Torino gli occhiali in mano. Neanche la pittura, neanche la fotografia possono riprodurre giustamente lo sguardo sotto il vetro; pensiamo poi il bronzo od il marmo. Ma, salvo questa differenza inevitabile tra il modello e la statua, il Manin dei Borro è il ritratto del vero Manin; gli somiglia nelle fattezze, gli somiglia nell’indole: solo è pigliato in una delle sue grandi ore solenni, quando la sua natura, per solito un po’floscia, diventava di acciaio, e i lineamenti del volto e tutta la persona si conformavano ad un’alta e severa energia, nella quale la passione, che bolliva al fondo, s’indovinava attraverso la calma esteriore. E il Borro ha fatto del ritratto di Daniele Manin una figura monumentale: non gesticola, non discorre; ascolta, pensa, e si crede di capire che codesto Presidente di Governo, codesto Dittatore abbia compiuto qualche grande atto generoso o s'appresti a compierlo. Certo, non si poteva sentire più nobilmente il nobilissimo tema.

Pagina 78

Non abbiamo detto imitazione del vero, ma finzione del naturale, pensando che alcuni rami dell’arte, come l’arte monumentale, storica, religiosa ed anche, in parte, quella di genere, non potendo contentarsi di guardare alle cose effettive, devono spesso ricorrere alla invenzione. Ma nell’inventare conviene seguano le leggi e le apparenze della natura, per modo che, entrando nell’ambiente intellettuale in cui l’artista s’è messo, si possa dire: così quel fatto dovette svolgersi, o quella idea potrebbe incarnarsi nella verità delle cose. Copiare, del resto, non è dato che al sole con la fotografia: bisogna dire interpretare.

Pagina 8

Quanti Danti abbiamo visto sorgere dappertutto su piedistalli in questi ultimi anni! E a Torino le statue sbocciano sulle pubbliche aiuole; e Venezia ha una figura in marmo del Paleocapa ed una figura in bronzo del Manin; e Firenze, disgraziata nel Fanti, vuole ammirare Carlo Goldoni, Massimo d’Azeglio, il La-Farina, il Giaunone; e Napoli fra gli altri aspetta il Leopardi, e Ferrara il Savonarola, e Pieve di Cadore il Vecellio, e Certaldo il Boccaccio, e Bellano il Grossi, e via via, senza contare la gran briga che si dànno a Urbino per l’Urbinate.

Pagina 83

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