Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIPIEMONTE

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Plico del fotografo: trattato teorico-pratico di fotografia

517270
Venanzio Giuseppe Sella 46 occorrenze
  • 1863
  • Tipografia G.B. Paravia e Comp.
  • Torino
  • Fotografia
  • UNIPIEMONTE
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Egli è facile l’esperimentare questo andamento della distanza dell’immagine rispetto a quella dell’oggetto, questa relazione dei due fochi coniugati prendendo una lente, la cui distanza focale principale sia piccola; essa si pone davanti ad una candela accesa, in una camera ad imposte chiuse, e ponendo dietro alla lente un foglio di carta si muoverà il medesimo sinchè si abbia un’immagine nitida della fiamma della candela. La distanza del foglio dalla lente darà la distanza del foco corrispondente alla distanza della candela dalla lente.

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Senza diaframma l’oggettivo semplice, che abbia un diametro un po’ grande, dà una immagine troppo confusa e di piccola estensione. Quando invece si mette avanti alla lente un diaframma abbastanza piccolo, il diametro dell’immagine prodotto dalla lente con buoni dettagli è così grande, da quasi eguagliare la lunghezza focale della lente, o, in altre parole, l’immagine, che in tal circostanza la lente è capace di produrre in una superficie piana, è nitida ed uniformemente illuminata quando essa è compresa da un campo visuale angolare di 35 a 40 gradi. Questa immagine è limpida, non è guastata dalla falsa luce, che si produce molto facilmente con oggettivi più complicati, per causa delle ripetute riflessioni di luce nelle interne superficie delle lenti; ma la quantità della luce, che forma l’immagine, è poco grande, epperciò l’oggettivo semplice è destinato soltanto a ritrarre oggetti inanimati, e che permettono al fotografo una lunga posa. La quantità della luce al centro dell’immagine è circa di 1/4 maggiore di quella che illumina le parti estreme di essa, il che è prodotto principalmente da ciò; che i raggi diretti apportano sull’immagine maggior quantità di luce che non i raggi obliqui; da ciò ne segue che nel far uso dell’oggettivo semplice conviene sempre, quando è possibile, fare in modo che gli oggetti più illuminati vengano a produrre la loro immagine lungi dal centro del campo (a), che deve esser riservato per gli oggetti meno illuminati, e, se si vuole avere sulle immagini una nitidezza uniforme, bisogna disporsi in modo che gli oggetti del mezzo, cui si presenta l’oggettivo, siano più distanti di quelli ai lati. E ciò è una conseguenza della proprietà che hanno tutte le lenti convergenti di produrre una immagine piana di una superficie curva, mentre producono un’immagine curva di un originale piano. Quando l’operatore può trovarsi in così favorevole circostanza da avere oggetti disposti sopra una superficie curva da riprodurre colla camera oscura, può far uso di un diaframma di una apertura più grande, ed ottenere tuttavia una perfetta nitidezza; e ciò gli dà il modo di ottenere l’impressione fotografica colla più grande rapidità possibile. La curva, sopra cui si fa l’immagine degli oggetti lontani, ha presso a poco lo stesso centro che ha la convessa superficie posteriore della lente.

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Suppongasi che si abbia una scorza sferica di vetro ripiena di acqua, e s’incominci per supporre che il vetro sia molto sottile.

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Alcuni preferiscono che la camera oscura abbia la forma quadra, perchè allora non si ha mai a cambiare la posizione della camera. La forma quadra è più razionale, perchè la luce viene meno facilmente riflessa sull’immagine delle pareti della camera, che sono più distanti dalla lente, ed essa permettendo di levar sempre dalla stessa parte lo sportello del telaio che porta la lastra sensibile, si ha maggior facilità nel maneggiarla, e si ottiene una più costante immobilità.

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Si deve osservare che essa sia di legno tenace, forte, ben stagionato, e che insieme ad una sufficiente leggerezza abbia una grande solidità ed una precisione perfetta nei telai, che servono ad esporre le lastre. Altrimenti la pazienza dell’operatore sarà severamente messa alla prova, una camera di cattiva costruzione essendo una vera tribolazione per chi la usa.

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. — Se si ha a copiare una fotografia su piastra, oppure un piccolo rilievo, una pittura, ecc., bisogna mettere l’oggettivo quasi nel fronte della camera oscura copiatrice, e l’oggetto deve essere illuminato, il più fortemente che sia possibile, o col mezzo di una forte luce diffusa, od anche con una luce artificiale (p. e. quella che si ottiene facendo passare un getto di ossigeno sulla fiamma di una lampada ad alcool, e dirigendo la fiamma sopra una piccola palla di calce viva, la quale riceve dalla fiamma un calore così grande, che essa diventa tanto luminosa, che la sua luce supera di gran lunga quella della lampada di Carcel e di Argand). La luce artificiale viene concentrata sul modello col mezzo di un condensatore, ossia col mezzo di una lente piano convessa più grande dell’oggetto a copiare. I piccoli bassi rilievi si possono copiare in questo modo con pieno successo su scala più grande del vero, purchè si abbia cura di far uso di uno specchio, con cui riflettere della luce sulle ombre, onde non avere dei contrasti troppo grandi.

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Una camera stereoscopica che abbia due oggettivi sarà di un uso più conveniente se i due oggettivi saranno due combinazioni di lenti per ritratti. Questi oggettivi, quando hanno un diaframma interno abbastanza piccolo, servono per le vedute egualmente bene che gli oggettivi semplici. Nei due oggettivi non conviene che sia alterata la forma delle lenti collo scopo di produrre un grande spostamento delle immagini come praticavasi in alcune camere oscure, per esempio nel così detto quinetoscopio, in cui la lente di fronte è tagliata obliquamente al suo asse in una delle sue facce, in modo da avere quasi una forma prismatica, perchè con una tale disposizione l’oggettivo non può a meno di produrre una molto forte aberrazione cromatica e sferica, per cui l’immagine risulta indistinta, e trasfigurata.

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Il potassio avendo maggiore affinità pel cloro di quella che esso abbia pell’iodio, abbandona quest’ultimo e si porta sul cloro, il quale a vicenda colla stessa forza a sè lo attrae, e si produce in tal modo un cloruro di potassio.

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La base più forte, avendo un maggiore antagonismo per l’acido di quello che vi abbia la base meno forte, ha perciò un’affinità più grande di questa ultima per l’acido presente, e per soddisfare a questa maggiore affinità scaccia prepotentemente la base più debole, e prende il suo posto.

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Questa essendo una base più forte dell’ossido di ferro, ha una più grande affinità per l’acido di quella che abbia lo stesso ossido di ferro, il quale in presenza della potassa deve cedere il posto e staccarsi dall’acido solforico, che, attratto ed attraente, viene preso in combinazione dalla potassa per formare un solfato di potassa.

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Si scoprì che un corpo, il quale combinasi chimicamente con un altro corpo in una data proporzione di peso, si combina con tutti gli altri, con cui abbia affinità, nella stessa e medesima proporzione, senza giammai variarla in più od in meno. Determinando coll’esperienza queste proporzioni di peso con cui tutti i corpi si combinano, e designando le quantità rispettive col mezzo di numeri, avremo i numeri proporzionali con cui tutti i corpi si uniscono chimicamente tra loro.

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Da quanto abbiamo detto si scorge che l’equivalente dei corpi nell’atto della loro combinazione chimica non si altera, nè modifica menomamente, quantunque abbia luogo un così profondo cambiamento nelle altre proprietà. L’equivalente è dunque come uno spirito invulnerabile, intangibile, che presiede alla combinazione dei corpi senza mai abbandonarli.

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L’idrogeno si estrae dall’acqua levando da questa l’ossigeno col mezzo di una sostanza che abbia maggiore affinità per l’ossigeno di quella che vi abbia l’idrogeno. Una tale sostanza è per esempio il ferro, in presenza di un acido. Il zinco gode della stessa proprietà.

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Questa proprietà del vapore acqueo è principalmente nociva al fotografo in quanto che essa può far guastare le sue bilancie esatte, quando non abbia cura di porle in una cassetta di vetro, contenente un piatto ripieno di cloruro di calcio torrefatto, per mantenere l’aria della cassetta perfettamente secca. Il lettore non deve qui confondere il cloruro di calcio col cloruro di calce, perchè quest’ultimo farebbe un effetto affatto opposto; farebbe ossidare in breve tempo il metallo delle bilancie.

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Si rimesta dapprima la polvere con pochissima acqua, aggiungendone gradatamente una maggiore quantità a piccole dosi, e sempre rimestando sino a che il miscuglio abbia preso una consistenza liquida. Il fotografo ha spesso occasione di usare questo metodo nel mescolare coll’acqua l’amido, la gomma, il cloruro di calce, ecc.

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6° Continuare l’azione del laminatoio sino a che la lamina abbia lo spessore voluto, cioè circa 2/5 di un millimetro. Se lo spessore dell’argento sarà di 1/50 dello spessore totale, la lamina sarà del titolo di un trentesimo, ossia sarà al trentesimo come si dice;

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La tua carta prenderà una tinta blù aggradevole, e sarà convenientissima per dosare le minute quantità di acido nei varii liquidi; oppure anche per dosare gli alcali, purchè tu abbia la precauzione di far volgere al rosso deciso la carta stessa immergendola per breve tempo in un’acqua leggermente acidulata.

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L’acqua distilla con poco acido sino a che la soluzione abbia acquistato la composizione 9HO,NO5 ed il calore di + 128°.

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Questo sale ha la facoltà di potere da se solo rendere fotografica la carta sopra cui si stende, senza che questa abbia previamente ricevuto alcun’altra preparazione, e questa sua facoltà deriva da ciò che il nitrato di argento in contatto delle sostanze organiche tende a decomporsi, principalmente in presenza della luce. La carta nitrata non potrebbe servire per prove negative prese nella camera oscura, perchè non è abbastanza sensibile, ma vuolsi che corrisponda assai bene impiegandola per positive nella pressa a copiare, ed ha questo di vantaggioso sopra ogni altra carta resa fotogenica, cioè di dare delle positive che si lasciano fissare perfettamente con semplici lavature nell’acqua calda.

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Non occorre di dover dire che la superficie sensibile deve esser rivolta verso gli oggetti a riprodurre e deve occupare esattamente il piano (a meno che la lente non abbia fochi coincidenti, come vedremo presso il collodio) già occupato dalla superficie appannata del vetro spulito.

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La lastra sensibile, dopo di essere stata nella camera oscura, esposta alle radiazioni luminose trasmesse dalla lente, contiene una immagine fotografica, della presenza della quale non si può in alcun modo dubitare, quantunque sembri in apparenza che lo strato albuminoso non abbia ricevuto alcuna modificazione.

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Questa proprietà del cotone fulminante fa sì che nella sua preparazione si abbia una grande latitudine nella concentrazione dei liquidi, nel tempo dell’immersione, e nella temperatura.

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Per ottenere una tale temperatura di +65° il miglior modo sarebbe di riscaldare dell’acqua sino a +70° circa ed in quest’acqua lasciare immerso il bicchiere o la capsula in cui si ha l’acido nitrosolforico sino a che la temperatura di questo abbia raggiunto la temperatura di +65°, il che succederà in 10 minuti circa. Ma questa precauzione è un po’ incomoda nella pratica, epperciò io trovo che l'operatore può esimersi da essa, operando semplicemente al calore che si svolge nel fare il miscuglio dell’acido, del sale e del cotone. Alcuni raccomandano di verificare la temperatura del miscuglio con un termometro. La temperatura dell’acqua nel caso di sopra si può, e si deve verificare col termometro, immergendo questo nell’acqua ed aspettando circa 3 minuti, ossia finchè il calore del mercurio sia eguale a quello dell’acqua, ma il provare con un termometro la temperatura del miscuglio acido, quando si opera in piccolo, mi pare impossibile, perchè non potendosi immergere nel miscuglio che l’estremità del termometro, la temperatura del mercurio rimane sempre minore, epperciò esso non accusa tutta la temperatura che si ha nel miscuglio.

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Quando si prepara la pirossilina mescolando acido nitrico con acido solforico, può avvenire che non si abbia un acido nitrico sufficientemente concentrato da potersi ottenere esattamente la formola predetta. Allora si deve aumentare la proporzione dell’acido solforico, il quale ha per effetto di togliere dall’acido nitrico l’acqua eccedente, e renderla innocua, così:

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È difficile lo stabilire in modo esatto la quantità di alcool che deve essere aggiunta all’etere affinchè il miscuglio abbia la maggior forza dissolvente possibile, dipendendo essa principalmente dalla purezza e dalla concentrazione di questi liquidi.

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Il collodio che abbia un eccesso di alcool si distingue col nome di collodio alcoolico, mentre si chiama collodio etereo quello in cui l’etere predomina.

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In generale l’alcool e l’etere, quando contengono sostanze organiche estranee, non convengono per preparare un collodio che produca delle immagini colla massima purezza di tinte, e che abbia la massima sensibilità. Un tal collodio potrà servire a produrre delle negative molto intense, ma per positive dirette, sarà di niun valore, darà risultati imperfetti, e veramente troppo negativi.

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Per evitare un simile inconveniente noi abbiamo veduto di sopra che conviene mettere il collodio in piccoli fiaschetti, in modo che ciascuno abbia a servire per una sola operazione nello stesso giorno. Quando si ha una provvista di collodio sufficientemente grande, è veramente così che si deve fare per evitare i non successi, ma quando si ha poco collodio, e che l’operatore deve far servire il collodio contenuto in un sol recipiente per collodionare alcune lastre, il miglior modo è di versare in un altro vaso il superfluo del collodio di ogni lastra. In tal maniera il primo vaso di collodio, se venne decantato con cura, per cui non abbia dei precipitati nel suo fondo, conserva la sua limpidezza, ed oltre a ciò non viene a ricoprirsi di bolle d’aria, le quali altrimenti venendo ad errare per le lastre che si preparano in appresso, occasionano delle striscie diagonali nel versare dalle lastre il collodio eccedente. Il collodio ricevuto nel vaso a parte si addiziona con qualche gramma di etere, e si ripone quindi col collodio primitivo quando si sarà ben chiarificato col riposo.

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I quadri, in cui si imprigiona la lastra sensibilizzata per portarla nella camera oscura, si devono preventivamente preparare, spolverare, affinchè non si abbia a perder tempo nel cercarli, o ripulirli dopo di aver sensibilizzato. Il modello da riprodurre si deve prima mettere esattamente al foco della lente nella camera oscura per potere, senza por tempo in mezzo, esporre la lastra dopo sensibilizzata. Si deve avere in pronto nel gabinetto oscuro il liquido per sviluppare, l’acqua per lavare, e fuori del gabinetto oscuro, nel laboratorio per positive, si deve aver bello e preparato il liquido fissatore, dell’acqua in abbondanza, e due o tre bacinelle ben proprie, onde l’operatore dopo il collodionamento possa continuare senza interruzione le operazioni occorrenti a terminare la prova negativa.

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Si sensibilizza la lastra collodionata nel bagno vecchio sino a che siano scomparse le macchie grassiformi della superficie dello strato, si estrae dal bagno, si lascia sgocciolare, si asciuga nel suo rovescio con carta bibula, poscia, stando avanti alla finestra a vetri gialli del gabinetto oscuro, vi si versa sopra, e nel mezzo dello strato, una piccola quantità di bagno sensibilizzatore, che non abbia mai servito, o che sia in buono stato. Questa quantità può essere di 25 o 30 grammi secondo la grandezza della lastra. Si osserverà che esso ha difficoltà ad inumidire regolarmente lo strato perciò lo si fa scorrere per alcuni istanti per ogni parte dello strato, sino a che si vede che vi scorre sopra senza lasciare dietro di sè delle vene grasse. Quando ciò ha luogo si versa nel vaso ad hoc questo bagno di nitrato, che potrà essere al 3 od al 4 per 100 solamente, poichè il suo effetto non è quello di sensibilizzare la lastra, ma di lavare, di rendere puro, di rendere incapace di macchiarsi lo strato sensibile nella seguente operazione dello sviluppare.

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Vale fa dire un’azione luminosa in circostanze eguali che abbia richiesto 10 secondi di tempo si distinguerà coll’occhio da un’altra che abbia subìto per 11 secondi l’azione della luce, oppure abbia subito solo un’azione di 9 secondi. La differenza sarà piccola, ma visibilissima.

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Basta operare con un oggettivo, che non abbia un foco troppo lungo, che sia munito di un diaframma molto piccolo, e che gli oggetti a riprodurre non siano troppo vicini alla lente. Nel prendere i ritratti è molto più difficile ottenere una immagine di forma nitida, perchè bisogna operare con oggettivi aventi una larga apertura angolare, e l’oggetto a ritrarre deve essere molto più vicino alla lente di quello che siano comunemente, gli oggetti compresi in una veduta.

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Che si abbia una tale nitidezza per oggetti inegualmente distanti, si comprende: 1° Se si considera che per causa del piccol diaframma i pennelli luminosi rifratti dalla lente sono così ridotti, che il foco fuori del suo vero punto è ancor abbastanza nitido da non lasciare scorgere alcuna differenza all’occhio disarmato; 2° Se si considera che la lente non è assolutamente corretta riguardo all’aberrazione sferica, e ciò per rendere il campo più piano, e che il foco non è realmente giammai un punto geometrico, perchè nell’acromatizzare la lente non si tien conto di tutti, ma solo di due raggi dello spettro, per cui il foco non è esattamente l’apice di un cono di raggi convergenti, ma una superficie di uno stretto cilindro che può essere intersecato entro certi limiti senza alcun divario sensibile nella relativa nitidezza risultante.

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Chi non ha a sua disposizione una lente a foco molto corto può far uso di un tubo che in una estremità abbia una piccola apertura circolare ed all’altra estremità abbia una apertura rettangolare, i cui lati hanno tra loro lo stesso rapporto, che i lati del vetro appannato della camera oscura. Il tubo o è di latta o è di cartone ed è composto di due parti, di cui l’una scorre nell’altra come un cannocchiale, esso si allunga o si restringe, e si può fare in modo che gli oggetti veduti per mezzo di esso abbiano lo stesso campo di quello che hanno nel vetro appannato della camera oscura, epperciò sarà facile determinare esattamente la posizione della camera oscura, che deve essere approssimativamente quella dell’osservatore che tiene il tubo. Un tubo del diametro di 45 millim., con apertura rettangolare di 34×37 mm., della lunghezza di 32 mm. pel primo tubo, e di 40 mm. pel secondo tubo, può servire pei casi ordinari.

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Perciò l’operatore laverà con acqua la prova sviluppata col ferro e quindi la ricoprirà colla soluzione più sopra indicata di nitrato d’argento al 4 per 100, che dopo breve riposo sulla lastra si versa in un bicchiere ad hoc, e quindi si ricoprirà la prova con soluzione di acido pirogallico al 1/2 per 100 e contenente 0,2 per 100 di acido citrico, e quest’ultimo liquido si lascierà sull’immagine sino a che questa abbia acquistato la voluta intensità.

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La prova sviluppata e lavata con acqua si deve subito fissare appena sortita dal gabinetto oscuro, e per ciò eseguire la si ricopre tutta colla soluzione fissatrice, e questa si lascia sullo strato sino a che esso abbia perduto il suo aspetto biancastro, opaco, e sia diventato perfettamente trasparente nei bianchi.

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Tuttavia ci siamo decisi a mettere in questo luogo la descrizione del procedimento che conduce ad ottenere direttamente delle positive invece di prove negative, per la grandissima analogia che le manipolazioni di questo procedimento hanno colle manipolazioni or ora descritte, per cui basterà accennarle per farci tosto comprendere dal lettore, che abbia imparato a conoscere il modo di produrre le prove negative, mentre se dovessimo aspettare a trattare di questo procedimento nella parte in cui si descrive il modo di produrre su carta le positive, dovremmo forse ripetere la descrizione delle manipolazioni sopraddette.

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Si lava con acqua lo strato sensibile facendo cadere da una bottiglia un sottile getto di acqua sullo strato sino a che questo abbia perduto la sua apparenza oleosa, e per questo occorre circa un mezzo litro d’acqua. Dopo si prende un poco d’acqua distillata, p. e. un mezzo bicchiere, che si versa sullo strato, e quindi si versa via, e si lascia sgocciolare bene per alcuni istanti.

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Non si deve tuttavia protrarre l’esposizione sino a che l'immagine positiva abbia preso una tinta bronzata metallica.

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Varie sono le soluzioni di cloruro d’oro che vennero proposte per colorare le prove, principalmente le prove ottenute su carta albuminata, e si può quasi affermare che ogni operatore abbia la sua soluzione particolare. Le soluzioni coloratrici venivano dapprima impiegate dopo della fissazione dell’immagine, ora si riconobbe essere invece più conveniente portarle sull’immagine prima di fissare questa coll’iposolfito. La seguente soluzione di Bayard ci diede costantemente buoni risultati. Questa soluzione, che non è certamente la migliore possibile, si prepara nel seguente modo:

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Allorquando la soluzione avrà sufficientemente modificato la tinta dell'immagine, in accordo col gusto dell'operatore e coll'effetto che si vuole essa abbia a produrre, si deve lavare copiosamente la prova nell'acqua, diversamente non si potrebbe contare sulla sua durata e solidità.

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Queste tre materie coloranti mescolate fra loro in date proporzioni ci daranno tutti i colori possibili, perchè nella loro mutua azione non si alterano in modo, che il loro colore particolare abbia a soffrirne.

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A questa ultima tinta si chiude il compartimento dell’iodio, e si trasferisce la lamina su quello del bromuro di calce, ove si lascierà sino a che abbia preso il color rosa violaceo. Ora si rimette per misurare il tempo dell’azione della luce e degli altri agenti sulle sue preparazioni, è bene che abbia una chiara idea di esso.

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Si pone la prova su di un treppiede orizzontale, si ricopre con tanto cloruro d’oro, quanto la lamina è capace di contenerne, indi, transitando sotto di questa una lampada ad alcool accesa, si riscalda la prova sino a che essa, col sorgere di una folla di bollicine, abbia ricevuto un grande splendore, e che le bollicine si siano divelte dalla lamina per la forza del calore. Col mezzo di una tanaglietta si afferra ora per l’apice di un angolo la lamina, si scaccia di un tratto il liquido soprastante e tosto la si immerge in un bacino ripieno d’acqua. Si riprende la lamina colla tanaglietta, si diluvia con un forte getto d’acqua filtrata per allontanare tutto il cloruro d’oro che potesse ancora rimanere su di essa.

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Mi pare che sotto un tal punto di vista questo nome si possa anche con maggior esattezza applicare al mio procedimento descritto trattando dell’albumina, per cui un foglio di carta, posto semplicemente in contatto coll’immagine fotografica sviluppantesi sotto l’azione dell’acido gallico e del nitrato d’argento, riceve un’ immagine positiva senza che esso abbia ricevuto alcuna impressione dalle radiazioni luminose.

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London. che abbia acquistato un color grigio. Dopo si espone per cinque minuti in un’atmosfera di gas solfuro di idrogeno, che annerisce le parti impressionate dalla luce. Si lava nell’acqua, e dopo si immerge in un bagno di nitrato di bismuto acidulato con poco acido nitrico affinchè il bismuto possa sostituirsi al rame, e rendere l’immagine permanente.

Pagina 496

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