Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 16 occorrenze

Masaccio sembra essersi ispirato direttamente al vero, utilizzando un modello, ma non c’è dubbio che abbia anche tratto spunto dalla statuaria antica. Quel che più colpisce, comunque, è lo scabro e lucido realismo della scena, con lo straordinario dettaglio del giovane in piedi, seminudo, che sembra percorso da brividi e tremare per il freddo, mentre attende impaziente il suo turno ed essere battezzato. Fig. 93. Nanni di Banco, I Quattro Santi Coronati, 1410-15, firenze, Museo di Orsanmichele (da una nicchia esterna di Orsanmichele). Diversamente da Gentile e dagli altri protagonisti del Gotico cortese, il realismo masaccesco non è un mezzo per divagare, raccontando aneddoti più o meno gustosi ma estranei al tema centrale della scena, idealismo di Masaccio è strettamente funzionale al racconto, cui conferisce carattere, forza espressiva, attendibilità.

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In questo caso è chiaro che, indipendentemente o meno dalla volontà dell’artista, fu la Confraternita a chiedere a Piero d’impreziosire la tavola con un fondo oro, ma è comunque significativo che l'artista abbia evitato qualsiasi tipo di arricchimento ornamentale (punzonature, pastiglie, pietre semipreziose, ecc.), usando l’oro in modo naturalistico, come pura fonte di luce. La differenza sostanziale rispetto alla tavola di Hans Clemer, comunque, deriva dalla rigorosa impostazione prospettica del dipinto, dall’asciutta nudità strutturale di quel manto che si apre a formare una sorta di concava abside, entro cui si dispongono i fedeli, assumendo anch’essi pose attentamente calcolate sul piano della «diminuzione prospettica». La Madonna si erge frontalmente in tutta la sua imponenza, solenne e rigida come un’icona. La luce e l’ombra ne modellano la figura potentemente, conferendole un forte risalto plastico di tipo statuario. Piero non si concede nessuna divagazione ornamentale o grafica e non esita, ad esempio, a celare alla nostra vista i volti dei due fedeli in primo piano, pur di rispettare l’impostazione spaziale che ha concepito: all’abbraccio della Madonna, che apre il suo mantello formando un’ampia concavità, corrisponde la convessità della disposizione a semicerchio dei fedeli. Il risultato è un potente effetto illusivo di spazio tridimensionale: protettrice e protetti si saldano insieme, formando un volume geometrico perfettamente conchiuso, una sorta di accogliente cupola virtuale che ne suggella la reciproca appartenenza.

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Ma la finzione messa in scena da Giulio Romano implica che anche il visitatore abbia la sensazione di vedersi crollare addosso la volta e le pareti: un «effetto speciale», volto a produrre un moto di paura che presto si muta in riso e sollievo, proprio come nelle fiabe o nei film dell’orrore, in cui gli spunti terrorizzanti servono, in ultima istanza, da svago rassicurante. A tendere visibilmente giocoso il tono della decorazione è il registro esplicitamente grottesco usato dal pittore nel descrivere i Giganti, che appaiono mostruosi, goffi e impotenti, tanto da destare, con le loro cadute ingloriose e le loro smorfie atroci, non paura o commiserazione, ma ilarità.

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In una mostra tenutasi a Roma alcuni anni fa, intitolata Gaspare Vanvitelli e le origini del vedutismo, erano presenti un centinaio di suoi dipinti di diverse dimensioni e anche vari suoi disegni quadrettati (figg. 138-139), che dimostrano come egli abbia utilizzato la camera ottica da vari punti di vista, avvicinando e allontanando la camera dalla veduta per riuscire a definire anche i dettagli più minuti.

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Nel bassorilievo posto sul basamento della statua del San Giorgio, dov’è rappresentato il Combattimento di San Giorgio con il drago per liberare la principessa (fig. 142), troviamo uno dei primi esempi di stiacciato, utilizzato per la realizzazione dell’edificio porticato e della grotta in prospettiva, mentre nelle assai più tarde formelle bronzee dell’Altare del Santo, nella Basilica di Sant’Antonio a Padova (fig. 143), vediamo quali complessi risultati prospettici abbia raggiunto questa tecnica di rappresentazione dello spazio, che fu messa a punto da Donatello e si diffuse largamente, sia in Toscana che altrove, diventando pratica comune agli scultori di tutta Europa.

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Il Teatro Olimpico è rimasto un unicum nel suo genere, un episodio isolato che, però, è indicativo di come l’architettura rinascimentale, fuorviata dalla contemporanea pratica prospettica, abbia interpretato la scenae frons in maniera del tutto impropria. Nel teatro antico, infatti, la scena a forma di facciata di palazzo fungeva da sfondo alle azioni dei protagonisti. Nel Teatro Olimpico, invece, la scenae frons non è più una facciata di palazzo, ma un’aulica e sovrabbondante cornice, che invece di fare da sfondo convoglia lo sguardo dello spettatore al di là di se stessa, nello spazio illusorio di una veduta di città che si estende a perdita d’occhio.

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Un’altra particolarità da rilevare in quest’opera è la presenza della firma OPUS PETRI DE BURGO S[an]c[t]i SEPULCRI che si trova nella base del trono di Pilato: è abbastanza singolare, infatti, che Piero della Francesca abbia sentito il bisogno di firmare e datare, e per di più in lettere capitali maiuscole ad imitazione delle epigrafi latine, questa tavoletta che è tutto sommato molto piccola e potrebbe sembrare, a prima vista, lo scomparto di una predella. Uno degli enigmi più intriganti di questo quadro è, infatti, proprio quello concernente la sua destinazione e funzione originaria. Attualmente esso è custodito tra le raccolte della Galleria Nazionale in Palazzo Ducale, ma da un manoscritto settecentesco apprendiamo che in quell’epoca era conservato nella sagrestia del Duomo urbinate. Ma era la sua collocazione originaria? Difficile, comunque, che possa essersi trattato di uno scomparto di predella: non abbiamo infatti notizie di una predella di Piero che possa aver implicato un simile soggetto. Inoltre, proprie la presenza della firma induce a far scartare l’ipotesi che sia stato uno scomparto di predella. Possibile, infatti, che sia sopravvissuto solo uno scomparto e per di più proprio quello su cui il pittore aveva scelto di apporre la propria firma? Tanto più che, di norma, i pittori apponevano la propria firma sulla pala d’altare e non sulla predella.

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A questa ipotesi fa eco, poco dopo, quella di una studiosa, Fiorella Sricchia Santoro, che tenta di dare un nome a questo «terzo» ipotetico maestro presente negli esagoni di Orvieto, ipotizzando che il grande pittore francese Jean Fouquet, presente sicuramente a Roma negli anni Quaranta, quando dipinge un ritratto del pontefice Eugenio IV (purtroppo andato perduto), possa essere passato da Orvieto e abbia lasciato prova della propria notoria perizia ritrattistica negli esagoni della Cappella di San Brizio.

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Personalmente sono convinto che Fouquet, come del resto anche altri autori ed opere provenienti da Oltralpe, abbia avuto un ruolo importante nella formazione di Benozzo come ritrattista, ma francamente l’idea che un personaggio come lui abbia fatto una gita ad Orvieto e abbia lasciato qualche saggio della sua bravura, salendo sulle impalcature di Angelico e Benozzo, mi appare cervellotica, anche perché è quanto mai improbabile che Fouquet, di cui non si conosce nessuna opera ad affresco, abbia imparato questa difficile tecnica, praticata quasi esclusivamente in Italia. Ma confesso che anche l’ipotesi formulata da Toscano di un «anonimo collaboratore», così modesto da accontentarsi di pochi interventi «a margine» e così fugace (e tempestivo) da comparire e poi rapidamente sparire «a comando» nel giro di tre o quattro anni, mi sembra davvero poco praticabile. Tanto più che proprio dalla mostra di Montefalco è venuta quella che a me sembra un’ulteriore, convincente conferma dell’ipotesi Benozzo.

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Tutto perciò, compresa la collocazione centrale dell’episodio, lascia credere che il pittore abbia inteso rappresentare in esso la prima volta in cui Cristo lascia i discepoli per andare a pregare da solo. Ciò non toglie che sussista un margine di ambiguità, di cui Duccio ha forse scientemente tratto partito per «comprimere» il ripetuto andirivieni compiuto da Gesù nell’orto di Getsemani in questo unico sdoppiamento della sua figura, che evoca altri sdoppiamenti rimasti, per così dire, tra parentesi.

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Non sappiamo, invece, né chi sia l’autore degli straordinari bassorilievi che si avvolgono attorno al fusto della Colonna Traiana, né chi abbia progettato edifici famosi come il Colosseo, il Pantheon o le Terme di Caracalla.

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Ma se ignorassimo la loro originaria ambientazione all’interno della Cappella Cerasi, o semplicemente non ne tenessimo il debito conto, rischieremmo di non capire perché il pittore abbia impostato le due composizioni con un forte scorcio in diagonale: un dispositivo spaziale che gli è stato suggerito dalla collocazione dei due quadri e dalla visuale cui è di fatto costretto il visitatore della Cappella, anche nel caso che gli sia concesso di entrarvi e di muoversi entro il suo angusto spazio. Com’è noto esiste una prima versione, su tavola, della Conversione di Saulo, che è oggi nella collezione Odescalchi a Roma. Sulla base delle velenose e spesso false affermazioni di Giovanni Baglione che aveva più di un motivo per detestare il Caravaggio, che gli era immensamente superiore come pittore e non era certo un tipo che teneva a freno la propria lingua (e la propria spada), la necessità di fornire una nuova versione della Conversione è stata sovente addebitata al rifiuto della prima da parte del committente. Ora, invece, la storiografia è assai più propensa a ritenere che il cambiamento sia stato operato dal Caravaggio nel momento in cui poté vedere conclusa la Cappella dove i suoi due dipinti sarebbero stati collocati, e dopo aver visto la pala d’altare di Annibale Carracci. Del resto, il drammatico conflitto di luce ed ombra che caratterizza le due tele, sebbene destinato a divenire una delle più note peculiarità espressive dell’opera matura del Caravaggio, trova una sua piena spiegazione anche nelle particolari condizioni ambientali e di illuminazione dei due laterali. Investendo le figure con un fascio di luce cruda e violenta che le fa emergere dal buio che le assedia e ne accende i colori, il Caravaggio conferisce loro un fortissimo risalto plastico, che ne aumenta l’impatto visivo contrastando la collocazione sfavorevole dei due laterali. In questo modo, l’artista riesce infatti ad imporli ad un pubblico che, in assenza di questi accorgimenti, sarebbe inevitabilmente portato ad adeguarsi al cannocchiale visivo che gli si offre dinanzi, orientando spontaneamente il proprio sguardo sull’asse frontale, e dunque sulla pala d’altare piuttosto che sulle due tele che la fiancheggiano. D’altro canto, a ben vedere, l’aver concepito la composizione in funzione di una visione scorciata su assi obliqui consente al Caravaggio non solo di risolvere la questione di imporre le sue due tele allo sguardo del visitatore, ma anche di adempiere al compito di far convergere le loro principali direttrici prospettiche verso la pala d’altare con l'Assunta, in modo che l’attenzione dello spettatore sia riconvogliata verso di essa, dopo essere stata risucchiata dal magnetico dispositivo prospettico-luministico dei due laterali.

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La verità è che, anche volendo prescindere dalla singolarità di ogni esperienza artistica individuale, non si può fare a meno di constatare che in ogni epoca coesiste una pluralità di tendenze e sottotendenze, ciascuna delle quali possiede una propria legittimità e utilità storico-critica sempre che si abbia ben chiaro la loro natura di astrazioni concettuali ad uso classificatorio.

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Non vanno dunque scambiate per entità concrete, né si può pretendere che esse abbraccino l’intera fenomenologia artistica di un’epoca, così come sarebbe un grave errore ritenere che ciascuna di esse abbia confini cronologici precisi, scanditi in modo netto, con una data di nascita ed una di morte, come Fig. 58. Francisco Goya, La famiglia dell'Infante don Luis di Borbone, 1783 ca., Mamiano di Traversetolo (Parma), Fondazione Magnani Rocca. se si trattasse di organismi biologici. Il Rococò, tanto per fare un esempio, fiorisce tra il 1690 e il 1730-40 circa, ma ciò non toglie che esso si prolunghi ben oltre quest’ultima data con artisti anche di primissimo piano perfettamente «etichettabili» come rococò, che operano quando già sta decollando e conquistando sempre più favore il Neoclassicismo. Quest’ultimo, del resto, è senz’altro la corrente stilistica egemone tra il 1750 e il 1815. Ma a prescindere dal fatto che un pittore come Francisco Goya (fig. 58), pur rientrando perfettamente in questo ambito cronologico, non è neppure alla lontana inquadrabile nella nozione di Neoclassicismo, è facile constatare come opere che in tutto e per tutto corrispondono ai canoni estetici e ai precetti neoclassici non solo continuino a nascere anche nell’Ottocento inoltrato, ma addirittura vengano riproposte in pieno Novecento. Si pensi, ad esempio, al caso della National Gallery di Washington, costruita, rispettando canoni rigorosamente neoclassici, fra il 1937 e il 1941, o di questa banca giapponese degli anni Trenta del secolo scorso (fig. 59), che sfoggia un austero e massiccio ordine dorico, con tanto di triglifi e metope nel fregio, non diversamente da un’opera-manifesto del Neoclassicismo tedesco come il Walhalla di Leo von Klenze, che fu costruita esattamente un secolo prima.

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Con Giotto questo progressivo abbandono degli stilemi astratti in favore di un nuovo naturalismo diviene un fatto compiuto: nel suo celebre Crocifisso fiorentino (fig. 65), si può dire che Giotto abbia rappresentato, appeso sulla croce, un uomo in carne ed ossa. La tensione dei muscoli e dei nervi rende evidente il peso di quel corpo senza vita, che grava verso il basso e, per dirla con Dante, «come corpo morto cade».

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Riprendendo il nostro percorso storico-iconografico sul tema della Crocifissione, balza subito agli occhi come Cimabue abbia contribuito in modo significativo a questa evoluzione in senso naturalistico della raffigurazione anatomica, attingendo ai modelli figurativi d’Oltralpe: nel Crocifisso di Arezzo (fig. 63), che è un’opera ancora giovanile (1265 ca.), pur mantenendo ancora forti legami con la tradizione figurativa bizantina, Cimabue mostra già rapporti con il mondo gotico transalpino: il suo Cristo non è più triumphans, bensì patients, vale a dire sofferente, con il capo reclinato, gli occhi chiusi, e il corpo che si inarca con dolorosa eleganza, discostandosi dalla croce. Certi schematismi nella rappresentazione dell’anatomia risalgono però ancora, in tutto e per tutto, ai modelli greco-bizantini. Dieci anni più tardi nel Crocifisso in Santa Croce a Firenze (fig. 64) purtroppo seriamente danneggiato dall’alluvione che flagellò la città nel 1966, ma che qui vediamo in una riproduzione anteriore a quello sciagurato evento il pittore riprende lo stesso soggetto, ma quegli stilemi tipicamente bizantini che nell’altro Crocifisso avevano il compito di delineare in modo astratto il corpo martoriato di Cristo sono praticamente spariti, per dar luogo ad una rappresentazione anatomica più naturalistica e modellata plasticamente dalla luce.

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