Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Saggi di critica d'arte

261856
Cantalamessa, Giulio 7 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Si direbbe ch’egli abbia pensato che ad adattarlo alle esigenze della sua fede bastassero le sole sue forze, e non s’ingannava. Ho detto tino dei tipi, perchè io principalmente ne discerno due, ben distinti. Il primo proviene dalla Niobe, la cui testa egli doveva aver disegnata e ridisegnata con immensa passione nella scuola del Calvart, ch’era ben fornita di gessi calcati dall’antico. Di quella sua giovanile passione non si scordò mai più: i lineamenti della sventuratissima madre eternata nel marmo di Paro gli dominarono sempre la fantasia, e gli ricorsero spontanei alla mano ogni volta ch’ei dovesse dipingere un viso femminile volto all’insù. Qui a Bologna possono vedersene vari saggi. Uno è nella madre esterrefatta che accovacciata alza al cielo gli occhi senza pianto nella Strage degl’Innocenti; un altro è nella Madonna che solleva il viso verso Cristo morente in croce, egualmente in questa pinacoteca; un terzo è nell'Addolorata del gran quadro della Pietà. Ma forse il più perfetto esemplare di questo genere c nella Maddalena detta dei Corsini, di cui c’è a Bologna una bella copia nella sagrestia di S. Michele in Bosco, dipinta da Domenico Canuti. Non do altri esempi per non prolungar di troppo l’enumerazione; ma desidero si noti da quelli che ho dati come la reminiscenza della Niobe si ripresentasse vivace a Guido, non solo quando ei volea far visi rivolti in alto, ma quando gli era necessario atteggiarli a dolore. Quanto poi a piegare il dolore di Niobe a servigio dell’arte cristiana, si rifletta che il dolore infine assume la stesse forme in donne appartenenti a religioni diverse, che quello particolare del capolavoro antico non ha l’espressione disperata che sola disconverrebbe al cristianesimo, e che Guido, insuperato maestro nel far lo sguardo fiso in alto, sostituiva alla cecità della statua la viva pupilla umana, circondandola di umidore pietoso, e nella compostezza rassegnata della bocca poneva un certo accento di tenerezza che non si può analizzare da che cosa dipenda che non si può copiar mai perfettamente, che sfugge ad ogni materialità di indagine, ch’è insomma il soffio di uno spirito eletto, il quale con espedienti quasi impercettibili modifica, sublimandola, qualunque parvenza. Qualche rara volta il tipo della Niobe è riconoscibile, quantunque l’angoscia sia scomparsa per dar luogo all’estasi. Esempio: la bella Assunta di Castelfranco.

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Non ch’egli abbia accettato dal Perugino e norme e abitudini, tanto da parer che gli vada dietro; anzi egli ebbe il buon senso di comprendere i vizi del Perugino e di respingerli, e soprattutto si guardò dall’imitarne il drappeggiare pesante e falso: avvedutezza che nei primi anni della gioventù non ebbe lo stesso Raffaello; ma l’arte del Perugino fu, io penso, come un tocco benefico nell’animo del Francia, il quale determinò l’equilibrato e sano svolgersi di una virtù sua personale, che dai ferraresi non aveva avuto eccitamenti. E lo ideale del Francia fu tosto fissato: un gran sentimento del decoro congiunto all’avvenenza e alla grazia; una quiete e una serenità dedotte dal suo spirito naturalmente giocondo, aperto e confidente, il quale s’incontrava e s’incoraggiava collo spirito del paganesimo, atto a promuovere una tale espansione d’ingegno. Già ottimo disegnatore quando si dedicò alla pittura, anzi artista perfetto, egli ebbe adoperando il pennello tutte le precisioni, tutte le curiosità, tutta la nettezza elegante a cui l’aveva avvezzato il bulino; ebbe oltracciò una grande finezza nei modellati, una tenuità mirabile di mezzetinte perline negl’incarnati, una gran paura dei toni pesanti, una grande abilità nell’introdurre un po’di luce diffusa anche dove le ombre sono più forti, una grande ripugnanza ai cieli turbati dalla procella, alla campagna senza luce e senza sorrisi. Ognun vede come tutti questi elementi dello stile cospirassero a meraviglia verso l’ideale della serenità, della grazia, del decoro. Si aggiunga l’uso di pilastrini con leggiadre decorazioni all’antica, bassorilievi talvolta sui plinti dei troni, cornici finamente sagomate, frammenti di classiche architetture sparsi nel fondo.

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E pare anche ragionevole supporre che, datosi a dipingere quand’era maturo d’età e d’intelletto, il Francia abbia volontariamente prescelto a maestro chi si presentava al suo giudizio più degno d'insegnare. Egli, del resto (l’ho già detto), non avea bisogno di educazione artistica propriamente detta. Salvo la tecnica del colorire, che gli era necessario apprendere, tutte le altre parti dell’arte gli erano familiari come a qualunque dei più valenti. È perchè mai per apprenderla si sarebbe rivolto a Marco Zoppo, le cui carni color di mattone, le cui membra quasi di mummia, e gl’impasti poveri e magri, e le pieghe striscianti sui corpi come viluppo di steli, e le durezze incorreggibili doveano metterlo nella sua estimazione al disotto dei forestieri dimoranti qui, del Costa e del Roberti principalmente?

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C’è l’esitazione del principiante; i caratteri pittorici del Francia si schiudono appena sotto l’involucro, come bottoni baciati dall'alito d’aprile, ma la loro natura è riconoscibile, ed a me sembra che il senatore Morelli abbia avuto ragione nel contendere questa pittura ad Ercole Grandi per ascriverla al Francia. Il rispetto dell’arte rende qui incontentabile il pittore, finchè non abbia ritrovato ogni segno più accidentale e rilisciata ogni modellatura e cercato con sottilissimo pennello ogni particolare più lieve. Il corpo di Cristo appeso sulla croce e spiccante nel cielo sereno non ha sufficiente solidità; ma in quella stessa snervatezza di modellato e di tinta io sento il novizio. S. Giovanni in piedi effonde il dolore; S. Girolamo inginocchiato e seminudo prega. Molta intelligenza dal vero nella schiena e nel braccio scoperto di questo santo. Gettati con gusto i panneggi, finiti, strafatti fino allo scrupolo. I capelli, le barbe, la criniera del leone accoccolato dietro a S. Girolamo sono preparati con opportuna tinta locale e poi son rilevati garbatissimamente i peli più sporgenti e riflessati. Questa fu abitudine costante del pittore, ma qui l’investigazione degli accidenti è più oziosa. Lo spirito sereno del Francia si manifesta ovunque in questa tavoletta. La morte non ha percosso della sua impronta terribile il crocifisso; gli strazi non ne hanno neppure alterato la pettinatura, che scende in regolari serpeggiamenti. L’aria è limpida e lieta, la campagna amena, la città di Gerusalemme ( dal solito color azzurrognolo chiaro che il Francia adopera sempre ne’ fabbricati lontani ) è irradiata di sole. Alcuni soldati a cavallo vi rientrano tranquilli, e nulla par che annunzi l’ira dell’Eterno.

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Si direbbe ch’egli abbia sempre un po’diffidato di sè stesso, evitando difficoltà, salvo quelle che nessun artista può schivare, perchè sono inerenti all’arte: le difficoltà del buon disegno e della modellatura che rende onestamente le apparenze del vero. E certo egli le supera abilmente; ma resta nell’opera sua l’indizio d’una lunga fatica, che le forze dell’ingegno hanno sostenuta bene, sì, ma lunga ad ogni modo e paziente ed anche talora alquanto sfreddata dell’entusiasmo che doveva aver avvivato la prima concezione; sicchè si pensa che l’artista abbia adunato a raccolta tutte le sue energie e le abbia spese compiutamente, mentre è proprio dei veramente grandi far cose perfette con tal disinvoltura apparente da non dar segno di esser giunti ai limiti estremi del loro potere. Non cerca neppure novità, non modifica con varianti ingegnose i motivi tradizionali, pago di serbarsi la sola libertà di interpretarli a seconda del suo cuore. Poco gli basta. Madonne in trono col putto; santi a destra e a sinistra simmetricamente, e non mai uno scorcio, salvochè talvolta nelle gambine degli angioli che si compiace di porre seduti alla base del trono. Si contenta di essere nulla più che un compositore ragionevole, e non gli passa mai nella mente il proposito di sorprendervi con una trovata imprevista. Non si sprigiona dalle sue invenzioni il sentimento di una forza nuova, non ne esce quel che fu detto grido dell'anima, quel poderoso scatto delle sensibilità eccezionali, quel fremito che or delizia lo spettatore, or l’impaura, sempre lo soggioga.

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La sola verità intellettuale trapassa inalterata d’una in altra mente: la voce di chi l’ha ricevuta non l’enuncierà con meno eloquenza che abbia quella di colui che l’ha scoperta; ma l’arte non è pura elucubrazione intellettuale: essa si avviva del pulsare spontaneo di un cuore, e illanguidisce quando un cuore si muove galvanicamente per virtù trasmessa da un altro.

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Vitale, tanto più che il Bagnacavallo qui sembra indipendente da influssi; quando non voglia dirsi che nel profeta seduto in terra e introdotto nella scena come simbolo, egli abbia cercato appropriarsi, come dice il Malvasia, la terribilità michelangiolesca. Del resto, la composizione è buona. C’è nell’ampiezza della scena una quiete conveniente al soggetto. Grandeggia nel fondo un’architettura sontuosa, a cui si ascende per magnifico scalone, e in ciò pare il Bagnacavallo quasi un precursore di Paolo Veronese. In disparte stanno genuflesse le figure dei committenti, gentil nesso di idee che collega i protettori celesti coi bisognosi di protezione, e che solo la nostra borghese e gretta positività fa denominare anacronismo. Non oso mettere tra gli affreschi del Bagnacavallo i tondi dipinti sulla volta di S. Giacomo, perchè tal giudizio è irto di dubbi; ma è dovere ricordare i tredici santi dipinti nella sagrestia di S. Michele in Bosco. Qui par veramente che il Bagnacavallo, più che abbarbagliato dalle esteriorità raffaellesche, sia stato agitato e incalorito dallo spirito di lui; la qual cosa poi in altri termini vuol dire che, levato il pensiero ad un’alta e indefinita intonazione artistica, egli ha potuto rendere un abbastanza largo margine alla sua libertà individuale. Questi santi sono notevoli pel carattere semplice, austero e maestoso degl'insiemi, per la convenienza dei tipi, pel getto decoroso dei panni. Sono esseri che veramente vivono al disopra di noi; si sente di aver con essi un rapporto da inferiori a superiori; appaiono come nobile trasfigurazione dell’aspetto umano. E questo suggello di superiorità è mirabilmente secondato dal disegno largo quanto puro, dal colore sapientemente discreto, dalla ricchezza stessa dei tappeti e degli arazzi sui quali l’artista ha fatto posar le figure. Un po’róse dal tempo e non immuni dalla tabe dei ritocchi, esse tuttavia sono assai lontane dal mostrarsi a noi in quell’eccellenza che fruttò all’artista, nel suo tempo giustissima ammirazione.

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