Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266171
Boito, Camillo 28 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Il Roi, quantunque nella pittura abbia un poco di leccato e di pallido, nel delineare è tutto geometria; e il suo vasto cartone, dove si vede il corpo di re Manfredi portato innanzi a Carlo d’Anjou, non va solamente lodato per la bontà dei contorni, ma ben anche per la maestà dello stile.

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Gran peccato che Ippolito Caffi, felice e prontissimo ingegno, non abbia lasciato nessun ragionevole erede di quella sua arte di luci fantastiche, di nebbie, di lune, di bizzarrie, alle quali si presta tanto la città delle gondole. Povero amico, infaticabile e curioso! Voleva studiare i casi di una battaglia navale, voleva farsi il pittore delle glorie dell’armata italiana. È scomparso nel gorgo di Lissa!

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Si contavano sette specie principali di nei: l’appassionato stava all’angolo esterno dell’occhio, il galante nel mezzo della guancia (ci pare, se la memoria non ne tradisce, che lo Zezzo abbia messo uno di questi nei galanti sul viso di una dama, nel suo quadro ch’è esposto alla mostra permanente di belle arti); sul naso stava lo sfrontato, sul labbro il civettuolo, all’estremità della bocca il badante. Un neo grosso e rotondo era l'assassino; finalmente il neo simulato posto sopra un neo naturale era il complice. Ma la importanza di questo ultimo ci persuade a riferire la propria parola francese, difficile, per cagione della diversità dal femminile al maschile, a tradursi nella nostra lingua, la quale — oh sventura! — si presta meno dell’altra a queste sublimità delle finezze eleganti. Al tempo dunque di madama di Pompadour e di Pietro Longhi quel neo si diceva monche recéleuse, e può considerarsi come un parlante simbolo della società d’allora, che teneva il neo per una grande bellezza naturale, a questo patto per altro, che fosse un neo artificiale.

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Ha qualche rassomiglianza con la torre di Pisa, e può essere che questa rassomiglianza abbia fatto dire nell’Allgemeine Bauzeitung al Körber che la scala è del duodecimo secolo, castroneria madornale. La prima rampa, diritta, sale sotto la loggia terrena del palazzo; poi comincia la scala a lumaca, la quale è tutta aperta con archi portati da colonnine e seguenti per cinque giri lo sviluppo della spirale, che s’interrompe all’alto, lasciando luogo ad una ghirlanda di archi piantati orizzontalmente, i quali terminano con degna corona il bizzarro cilindro bucato. È notevole anche la costruzione: ciascuno dei gradini forma con un solo pezzo il nucleo centrale e insieme le testate del perimetro esterno, sulle quali poggiano le colonne e i balaustri, unendo così in un tutto il di fuori e il di dentro. Il nucleo poi è portato da una sola colonna, corrispondente a quella delle arcate del piano terreno, sotto il principio della spirale: concetto audacissimo e non senza pericolo, giacché molto tempo indietro fu creduto utile alla solidità di rassodare con muri codesto esile piede.

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La pupilla, immobile, fissa il vertice della lama, e sembra che un dialogo sepolcrale abbia luogo tra quella punta e gli occhi profondi. La testa è piegata in giù. Cascano disordinate sul fronte due ciocche di folti capelli rabuffati, ne’ quali le dita dovettero fare durante la lunga veglia un gran lavorìo di scompiglio; ed è scompigliata e malmenata la stoffa del breve mantello. Ma oramai alle tremende perplessità ed alle agitazioni febbrili pare succeduta la calma sinistra della risoluzione. Il giovine è appoggiato al tronco di un albero senza rami, più alto della figura. Certo, per uccidersi ha scelto il luogo deserto di un parco abbandonato. Nel tronco morto e nelle ortiche del terreno v’è una desolazione lugubre: l’ambiente della figura — cosa rarissima nella statuaria — è trovato con evidenza pittorica. Non si sa il perchè, ma si va pensando ad una mattina rigida, nebbiosa, cupa, senza aurora: una di quelle mattine, in cui ci si sente larve d’uomini in mezzo alle larve della natura.

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La bella fronte spaziosa è corrugata, le ciglia sono aggrottate, gli occhi guardano dal sotto in su, i labbri si serrano l’uno all’altro sdegnosamente, la barba grigia è scompigliata, i capelli bianchi sono rabuffati ed irti, la testa si avvalla nelle larghe spalle, un solo bottone chiude al petto con certe pieghe stirate l’abito di panno nero: tutta la figura insomma riesce un pochino artefatta, e pare che la vanità dell’uomo, il quale vuole uscire dalle vanità della vita, abbia bisogno di questo sfogo innocente.

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A primo tratto sembra la stanza di un giovine ch’esca appena dalla scuola, che non abbia mai fatto nulla, che sia impacciato e povero. Gli è che il Sorbi — Raffaele Sorbi, per chi non lo sapesse — non ha tempo di lavorare per sè, non ha tempo di pensare a sè. Gli spazzano la stanza di ogni cosa ch’esca dalla sua mano, appena egli ci ha messo sotto la cifra; ed egli fa presto, presto e bene, e quando ha cominciato un quadro, non si svaga, non divaga, ma lo finisce. Così nella sua stanza non si può vedere mai nulla. NuIla dies sine linea, ma neanche un segno perduto. Egli che ha dipinto delle tele grandissime, la sua Madre dei Gracchi, per esempio, schicchera de’ bozzetti più piccoli di un polizzino da visita con tre colpi di pennello. De’ suoi quadri non gli restano che certi studii di qualche figura, alti pochi centimetri, e de’ disegni in una cartella, pur piccoli, ma tracciati con rara sapienza de’ moti e della forma. Non ha neanche gli schizzi dell’insieme, neanche le fotografìe delle sue opere migliori.

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Di quella sua pretensione di derivare dall’antico pare che le si abbia una certa riconoscenza; e, mentre a Milano, a Venezia, a Firenze sembra fastidiosissima per monotonia e per freddezza, d’accanto alle cose romane antiche riesce, in grazia delle sue buone intenzioni, piacente no, ma tollerabile. Del resto a imitare adesso l’antico si diventa necessariamente accademici. Ridurre agli usi nostri quelle moli e quei concetti imponenti, piegare alle nostre misure quegli ordini e quelle vôlte, non è cosa che si possa fare senza una operazione di restringimento estetico, nè senza infinitissime storpiature e deplorabili sminuzzamenti. Codesta arte scolastica domina tuttavia in Roma, e negli ultimi anni ha prodotto la universale fama del Canina, disgraziatissimo restauratore di monumenti romani, del Poletti, infamissimo restauratore della basilica di San Paolo, e di altri, che non sono morti; ma sembra che le opere di tale arte, non disturbando la fantasia di chi guarda, le consentano di aggirarsi in pace in quel cerchio di idee e di sentimenti, nel quale la sublimità della Roma antica la tiene volentieri serrata. Se non che il detto pregio, tutto negativo, non basta, crediamo, a formare lo stile di Roma contemporanea.

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Ad una innanzi tutto che abbia indole romana, giacché nella città dove la tradizione antica si fece così tenacemente sentire persino nei secoli in cui sembrò rotta dovunque, il portare un modo straniero o italiano ad essa del tutto nuovo, sarebbe un bestemmiare la storia e seminare patate dove crescono palme.

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Che un forzierino, ageminato con minuti ornati arabi e con disegni di carte geografiche, sia vecchio e valga più oro di quel che pesi il suo ferro, o sia una ingegnosa falsificazione fatta a Venezia nel primo anno di questo secolo; che un leggìo da chiesa sia bisantino e abbia viaggiato da Costantinopoli a Rodi, da Rodi a Candia, da Candia a Venezia, o sia opera del XIV secolo e di fattura francese; che una Pace sia proprio la Pace di Maso Finiguerra descritta dal Vasari, o sia del Caradosso, o non sia nè di questo nè di quello; che un tal Punto di Burano appartenesse a Marino Faliero, e una tal ciabatta al papa Giulio II; che certa chiavetta del Medio Evo sembri la chiavetta di un baule moderno, o certi bronzi etruschi paiano fusi in questi anni ci importa poco davvero. Rispettiamo la patina, la ruggine, le ossidazioni d’ogni specie, le screpolature, le ammaccature, le smussature; vogliamo credere alle rughe e ai battesimi: ci basta per oggi nella storia la verosimiglianza, nell'arte lo stile.

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Ma quando le composizioni storiche od allegoriche, quando le copie dei celebri dipinti pigliano a pretesto la ceramica e intendono alla pittura, si chiede perchè il pennello, scansando l’impaccio delle curve e la volgarità dell’uso dell’oggetto, intorno al quale s’adopera, non abbia voluto darsi con più agio e con migliore risultato a colorire liberamente una superficie piana. Non è industria, perchè non serve al suo scopo: è arte impacciata, arte fuori di luogo. E non basta per fare che questa pittura diventi industriale che i colori non si vedano all’atto del dipingere, e che il fuoco solo li faccia sbalzar fuori nella fornace sulla terra smaltata, giacché nessuno si penserebbe di affermare che il dipingere a buon fresco è un’industria, sebbene anche lì l’artista, non vedendo il valore delle tinte, debba aiutarsi con la lunga pratica e aspettare dal tempo che la sua tavolozza riesca ad accordarsi e a brillare. I più begli anni, le più preziose opere della nostra maiolica ci mostrano codesta prepotenza burbanzosa dell’arte.

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Le Bue teste ed il Trovatore del 1865 furono uno scandalo: in quegli sgorbii, non più pensiero, non più composizione, non più disegno; il colore era da cadavere in putrefazione, la pennellata da scenografo che abbia fretta.

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Non c’è cosa al mondo, per nostra memoria, che ci abbia tanto insegnato quanto il Cervo che si specchia nel fonte. Quel cervo, il quale nella selva, avendo sete, si trattiene alla bella onda chiara come argento, e considera nell’acqua l’armonia del proprio corpo, e si compiace degli ampii rami, che gli coronano il capo, e si vergogna delle gambe stecchite e misere: quel cervo ammaestra a contemplare i rapporti delle forme; e il bimbo, il quale ha visto prima de’ cervi senza badare a nulla, grida: È vero, le gambe del cervo sono troppo sottili! Poi viene il dramma: i cacciatori, i bracchi, la fuga del cervo, la sua corsa precipitosa nel fìtto della foresta. Ed eccoci alla catastrofe, quando i rami delle corna s’impigliano nei rami bassi degli alberi, e il disgraziato animale con la testa prigioniera dimena invano le gambe, ed è ucciso; e così quello che il cervo stimava utile e dilettevole — traduce uno da Siena antico — fu cagione della sua morte, e quello che stimava sozzo e dannoso era stato più volte cagione del suo campamento.

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I Russi hanno cavato certo qualcosa dal codice di Manu, antico di più che tremila anni, il quale ordina all’uomo di torre donna ben fatta, che abbia l'andare di un cigno e d’un giovine elefante, il corpo coperto di molle lanugine, capelli fini, denti piccoli, membra soavi; e raccomanda al marito di non mangiare colla moglie nello stesso piatto, e di non guardarla quand'ella mangia, starnuta o sbadiglia. Questo desiderio della sanità, della bellezza e della compostezza nel corpo, viene da un molto fino sentimento dell’arte, e Roberto Fontana ha fatto bene di mostrarci l’esame estetico della giovane sposa. Ma il busilli stava nel modo. Era troppo facile sdrucciolare nella lascivia. Bisognava innanzi tutto che il soggetto non fosse il pretesto per mostrare una modella svestita; bisognava che la nudità paresse necessaria e semplice. Il Fontana ha dunque messo coi visi rivolti allo spettatore le donne vestite, e ha girato la fanciulla verso le donne. Ha combinato la luce in modo che non piombi sfacciatamente sul corpo, ma lo illumini radendone il profilo; sì che la parte più chiara sia quella che non si vede, e che le altre donne stanno appunto guardando. Le membra della ragazza sono inoltre gentili, non rotonde e sensuali; anzi è un tantino magretta, e così naturalmente atteggiata, che gli occhi la guardano con gusto, ma senza ombra di avidità. Insomma, il pittore — tanto giovine e già tanto furbo! — sa farci credere che ha messo innanzi al nostro sguardo quel nudo, quasi senza volerlo, perchè il soggetto glielo imponeva. La fanciulla ha i capelli sciolti dietro le spalle: i capelli castagni, di cui le treccie sono rammentate sovente nei mesti canti del popolo russo. Con la mano sinistra tiene un lembo della camicia, che le copre i piedi. Sta ritta, lasciando cadere le braccia lungo il corpo, e chinando un poco la testa. Sotto alla finestra, da cui si vedono i comignoli dei tetti e i fumaiuoli coperti di neve, sono sedute le attente esaminatrici: una di esse, vecchia grinzosa, lascia intendere che avrebbe qualche censura da fare; le altre, giovani e belle, ammirano, non senza una certa malizietta e invidiuzza. Queste espressioni sono fìnissimamente indicate; e le attitudini efficaci, varie, vive, non escono mai dalla misura e dalla schietta nobiltà dell’arte. L’esecuzione è corretta, solida, facile, briosa. Colui che guarda non assiste ad una commedia, che gli debba parere strana; ma ad un fatto vero, che gli sembra naturalissimo. La difficoltà della naturalezza era cresciuta in questo soggetto dalle foggie degli abiti, ricchi, smaglianti di colore, ma troppo bizzarri, massime nelle acconciature del capo. E il pittore è stato scrupolosamente fedele ai costumi, e, per fondo, ha dipinto una stanza tutta di legno, dove in una delle pareti serve di ornamento un altarino dorato, con alcuni santi bisantini stecchiti. Non basta: il Fontana ha indovinato la luce di quei tristi paesi settentrionali: è fredda, diffusa, viene proprio dal cielo biancastro, e si riflette davvero nel candor della neve. Ma quante belle sapienze, quante belle malizie dell’arte dobbiamo lasciare indietro! Vincere, con un soggetto così sdrucciolevole, tanti ostacoli, oltre quelli della composizione e della pittura — pudore, luce, abbigliamenti — sarebbe una maraviglia anche in un artista celebre e vecchio. Pensate un giovine ignoto: uno scolaro!

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Ma può darsi che il bizzarro Salvatore, al quale, naturalmente, non ispiacevano le donne amabili, sia andato a visitarne una, mentr’ella conversava piacevolmente con l’altra signora e col cavaliere vecchiotto, e, presa a un tratto la mandòla, abbia cominciato così a dire versi all’improvviso, la quale cosa si sa che egli faceva assai spesso e con prontissima grazia; e noi abbiamo già visto come la poesia, ch’egli recita, non possa essere nè la pesante e biliosa delle Satire, nè quella dei Lamenti, nè la melliflua e amatoria delle strofette per musica.

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Il dipingere bene è meno e più: meno, perchè si può dipingere bene con un certo difetto, con un certo squilibrio, volontario o involontario, di tecnica; e più, perchè bisogna che la maniera di esecuzione abbia un’indole ben personale al pittore e sicurissima. Conviene, insomma, che l’artista sappia, almeno materialmente, quel che egli vuole, e lo mostri.

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Vi è anche dà tenere in conto la luce; poichè una figura, su cui non possa battere il sole, vuole essere diversa da una che venga per molte ore avvivata dai raggi suoi; ed una statua, che abbia per campo l’azzurro del cielo, chiede altra massa ed altri contorni che non una, la quale stacchi sulla tinta opaca del marmo.

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Può darsi che il duca abbia chiesto a qualche artista o meglio a qualche vescovo o abbate di là dai monti il disegno per la sua chiesa; può darsi che gli sia stato mandato, come usavano fuori d’Italia sovente, quale opera di una confraternita o loggia di artefici o fors’anco di monaci. Gl’italiani poi avrebbero mutato nel disegno il coperto da acuminato in quasi orizzontale, cavate le cuspidi e modificate le sagome. Comunque sia, questa opinione è forse in fondo fallace al par di quella del Nava, ma apparisce più verosimile, e vince gli ostacoli della storia e dell’arte con qualche naturalezza.

Pagina 314

Certo, il padre non si è assicurato bene che il fanciullo non si possa muovere, e che, in uno sbalzo, la punta dello strumento non lo abbia troppo a ferire: pare più invaso dalla idea della propria invenzione in sè, che non dal pensiero del suo figliuolo, e la mano che tiene il braccio mostra meglio l’atto di una attenzione calma al di fuori, ma ansiosissima nell’animo, che non quello dello stringere e del tenere fermo. L’altra mano è stupenda: il dito mignolo preme sulla spalla del putto, il pollice e l’indice serrano con sicurezza e leggerezza di artista il manico del bistorino, di cui la sottilissima lama s’appoggia alla punta del dito medio. Jenner aggrotta le ciglia, serra l’uno contro l’altro i labbri: è il chirurgo, non è il padre: spietato nell’amore della scienza e nella coscienza del bene.

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Nel resto è strano che la Svizzera, la quale ha un quadro di marina con buona acqua, non abbia nè animali, nè paesaggi bellissimi. È rimasta forse impacciata dalla scuola che sopravvisse al Calarne, e che ora sembra farragginosa nella composizione e legnosa nella maniera.

Pagina 372

Notavamo come nel Canaris il Civiletti si fosse allontanato dalla sua propria indole estetica; e non è da dire quanto ci abbia rallegrato di vederlo rientrare in essa per mezzo del suo giovine Cesare, il quale sta a sedere con una gamba sull’altra, il braccio sinistro piegato sulla spalliera e la mano destra poggiata all’angolo del sedile, nudo, salvo le gambe, che sono coperte da un drappo di belle pieghe. Questo nudo riesce di sentimento raccolto, quasi timido, ma elegante; e la testa è piena di pensieri. La statua, che a primo tratto reca immagine di cosa antica, non afferra l’attenzione dello spettatore; ma poi, un po’alla volta, si conosce quanto v’ha in essa dello studio modesto del naturale e dello spirito dell’arte moderna; e, girando intorno, nei fianchi e di dietro le linee della figura s’accordano in belli e diversi aspetti, sicchè alla fine si gusta un amabile sapore di classicismo veridico.

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Che il Clessinger abbia vestito il suo Napoleone terzo da conquistatore romano, e il Canova abbia svestito di ogni drappo il suo Napoleone primo s’intende, giacché gl’imperatori e i Re, come sfuggono alle comuni leggi sociali, così possono, in qualche caso, sfuggire alle ragionevoli norme dell’arte; e la tradizione scusa il Canova ed il Clessinger, poichè i Romani stessi per adulare i regnanti e spesso i loro congiunti e favoriti trasmutavano il ritratto nel simulacro di un Dio.

Pagina 44

Ma se c’è uomo, il quale non sia mai uscito dalle consuete leggi sociali, non abbia mai tentato di, sovrapporsi alla nazione e al suo secolo, nè voluto atteggiarsi mai da redentore; se c’è uomo che nella gloria sia rimasto semplice e borghese, è il conte Camillo Benso di Cavour. Piuttosto noi capiremmo che il colonnello Bismarck, il quale ha creato una Germania contro il volere della Germania, fosse avvolto in un lenzuolo e avesse a’ piedi la figura allegorica del suo paese; ma chiedete un po’alla Germania se vorrebbe tollerare, all'imperatore se vorrebbe permettere e ad uno scultore tedesco se vorrebbe pensare una cosa tanto contraria ad ogni convenienza di politica, di arte, anzi di creanza. Il fatto è che di codesto Cavour di marmo i nostri nipoti non potranno dire: Ecco l’uomo che, compreso da un Re, secondato dalla nazione, ha cacciato via d’Italia gli stranieri, preparandola a diventare regina in Roma: aveva quell’aspetto, quel fare, che corrispondono alla sua vita laboriosa e modesta, la quale noi leggiamo nei libri, ed agli atti della sua politica liberale, ingegnosa, animosa, che la storia ci spiega, e di cui la nostra bella patria è monumento immortale. — Cavour col lenzuolo, che s’usa mettere nell’inferno a Virgilio! Lo stesso suo volto, mascherato in quella gonfia rettorica di panneggiamenti, muta carattere: non c’è più l’espressione; le fattezze svaniscono. Dov’è il Cavour per noi che lo abbiamo conosciuto? Dove sarà la memoria, non diciamo reale, ma morale e intellettuale del Cavour per i nostri figliuoli? La natura produce le sue opere in un insieme, di cui le parti sono strettissimamente annodate. Il sorriso del Cavour è immedesimato alla sua anima profonda; ma il suo sorriso non è più il suo senza il suo modo di muoversi e di vestirsi. L’arte non può scindere queste cose senza cadere nell'artificio vano e scolastico. Meglio una epigrafe sopra un obelisco che una immagine falsa.

Pagina 45

E il Borro ha fatto del ritratto di Daniele Manin una figura monumentale: non gesticola, non discorre; ascolta, pensa, e si crede di capire che codesto Presidente di Governo, codesto Dittatore abbia compiuto qualche grande atto generoso o s'appresti a compierlo. Certo, non si poteva sentire più nobilmente il nobilissimo tema.

Pagina 78

E dicono che il Benzoni della sua Innocenza, bambinetta con un cane ed un serpe, abbia cavato o, per meglio dire, fatto cavare più di un centinaio di copie.

Pagina 83

Lo scultore per poco che abbia da fare ha bisogno di aiuti; si piglia de’ ragazzi, i quali, mezzo fattorini, mezzo scolari, servono e insieme imparano: imparano nel modo migliore, cioè vedendo come opera il maestro, come il maestro si vale del modello vivo, come impronta i bozzetti, come circonda di creta l’armatura in legno ed in fil di ferro, dalle cose più volgarmente materiali salendo via via, se hanno ingegno, allo spirito dell'arte. Fatto sta che, salvo rarissime eccezioni, i grandi scultori uscirono da questi poveri principii e da famiglie oscurissime. La rinomanza di certi artefici, ricchi di allogazioni e di quattrini, viene alle volte tutta dall’opera ignorata e male ricompensata dei giovani, i quali non si sono ancora schiusa una via tra la gente; e qualcuno di questi, contento di una giornata sicura e di un bicchiere di vino — gli scultori per solito bevono volentieri — senza ambizione, ignorantissimo — gli scultori non di rado sono molto ignoranti — com’è vissuto, così muore nella caligine dell'obblio.

Pagina 84

Possiamo figurarci che abbia detto la sua fiacca difesa, la quale ci è riferita da Platone, che era presente, o sia lì lì per pronunciarla; possiamo figurarci che intorno gli stieno gli accusatori, quell’Anito riccone, quel Licone avvocato, quel Melito poeta tragico, e in faccia i cinquecentocinquantasei giudici, i quali per tre soli voti di maggiorità lo mandarono a morte. Mutata la scritta, mutato nella immaginazione dello spettatore l’ambiente, la stessa statua dice altre cose, reca sull’animo una impressione diversa. Il punto per lo scultore sta dunque qui, nel trovare un soggetto che, chi guarda, possa compiere da sè rapidamente e calorosamente; e il Monteverde, ad esempio, è ammirabile per ciò, meno nel suo Colombo e nel suo Genio di Franklin, che non nel suo Jenner famoso.

Pagina 88

E non vogliamo dire che la poesia abbia più merito e più difficoltà della pittura, nè la pittura della statuaria, intendiamo solo che hanno merito e difficoltà differenti. Per lo scultore v’è l’impaccio del trovare in così ristretto campo e dopo le infinitissime statue d’ogni tempo qualche cosa di nuovo; di concretare e di ravvivare l’allegoria; di collegare allo spirito moderno un’arte la quale parrebbe che dovesse aggirarsi soprattutto nelle memorie antiche. Ma, non guardando ad altro che ai monumenti, alzati in questi ultimi anni nelle piazze e nel Cimitero di Milano, che grettezza d’idee! Il contentarsi della sola figura dell’uomo, che s’intende onorare, è una saggia prudenza: l’ebbe il Corti nel cardinale Borromeo della piazzetta dell’Ambrosiana, buona statua; e avrebbe fatto bene ad averla il Grandi nel Beccaria, che sta in faccia al palazzo di Giustizia, figura cincischiata, ma vivacissima, poichè, quando volle in due lati del piedistallo mettere due bassorilievi con l'allegoria della Civiltà e del Tempo, fece cosa affettata ed oscura. Il Cavour, posto fra il pubblico giardino ed i vecchi Archi di Porta Nuova, fu poco fortunato. Si volle con due bozzetti diversi, ideati da due scultori di diversa maniera, accozzare una cosa sola: il Tabacchi mise al di sopra un Cavour tozzo, vestito de’ suoi panni, e il Tantardini al di sotto una figura di donna, mezza ignuda, che, voltando la schiena al riguardante, scrive il nome del grande Italiano. È la Storia, è l’Italia? Ne discussero un pezzo, sinché le piantarono in fronte una stella dorata.

Pagina 89

Racconti 1

662683
Capuana, Luigi 10 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Si vergognava come un ragazzo che n'abbia fatto una grossa e non abbia il coraggio di presentarsi alla mamma. Aveva rabbia di sentirsi cosí avvilito di nanzi ai propri occhi. In che modo aveva tollerato che colei accennasse due volte, e ironicamente, a sua moglie? Come aveva potuto ridere? ... Vigliacco! Una passione, un delirio di sensi, via, sarebbero state circostanze attenuanti. Ma a freddo? Per curiosità? Voleva schiaffeggiarsi. Il pensiero che sua moglie, un giorno o l'altro, potrebbe apprendere la verità, gli metteva i brividi. - Povera Fasma! Non se lo merita -. E gironzolava di qua e di là, senza trovare il verso di rientrare in casa. Fasma, riconosciuto il suono dei passi per le scale, gli era andata incontro. Oreste si fermò sulla soglia, per osservarla. Era sorridente, tranquilla, senza sospetti. E quando si sentí abbracciare e baciare con effusione, come da parecchie settimane non era piú stata abbracciata né baciata, ella spalancò i grandi occhi che brillarono. - Ritorni insomma il mio Oreste di prima? - E non disse una parola. Quell'abbraccio, quei baci le avevano subitamente scancellato ogni cattivo presentimento del cuore. - Sai? - le disse Oreste. - Son passato dal Novi; le buccole che ti piacevano tanto non ci son piú -. Fasma fece una spallata: - Che m'importa delle buccole? - Ho preso in cambio quest'altre - soggiunse Oreste, cavando di tasca un involtino. - Oh! ... Bugiardo! - E fissava ora suo marito, ora lo scatolino aperto, con pupille tremolanti di tanta tenerezza che quegli si sentiva morire dalla mortificazione. - Sciupone! - disse Fasma. - Da oggi in poi non potrò piú manifestare che una cosa mi piaccia. Egli intanto cominciava a metterle le buccole alle orecchie con mani tremanti. Poi andarono tutti e due davanti lo specchio; Oreste reggeva il lume; la testina di Fasma illuminata a quella maniera e riflessa dal cristallo, era proprio un incanto. - Non so spiegarmi - egli pensava - in che modo abbia potuto ... - Trista bestia l'uomo! Fasma intanto gli passava il braccio attorno alla vita: - Come ti voglio bene - A me o alle buccole? - domandò Oreste, per dissimulare con questo scherzo il proprio turbamento. - Alle buccole - rispose Fasma, facendo una smorfietta di broncio. E scoppiò a ridere: - Quando si dice i presentimenti! Ecco la gran disgrazia che mi pendeva sul capo -. Indicava le buccole riluccicanti alle orecchie. Oreste scoppiò a ridere anche lui: - Hai ragione. Quando si dice i presentimenti! -

Che un qualche accidente abbia sconvolto i nostri piani? Ch'ella si sia pentita della sua arditezza nel momento di metterla in atto? - Appoggiato all'intaglio della porticina dell'orto, ruminavo da un pezzo queste domande e già cominciavo a credere che la signora avesse mutato risoluzione, quando intesi il girar di una chiave nella toppa dell'uscio. Mi tirai da parte, trattenendo il respiro. L'uscio si aperse lentamente; una testa affacciossi indistinta nell'ombra e stette un minuto ad ascoltare; indi intesi picchiare sul legno i tre colpi di chiave convenuti. - Son qua da due ore - dissi a bassa voce, facendomi innanzi. - Siamo già pronte - rispose una voce di donna; - vo a chiamar la padrona. - Benissimo! Le parole mi facevan nodo alla gola. Se la persona che doveva da lí a poco fuggire con me fosse stata la mia dama o la mia amante non avrei potuto essere piú agitato. Trascorsero cinque minuti che mi parvero un secolo. Non vedevo l'ora di esser lontano di lí un buon paio di miglia e m'impazientivo d'ogni intoppo. Avevo spinto l'usciolino lasciato aperto, avevo messo il piede nell'orto, mi ero anzi inoltrato sino a mezzo viale, ed ero tornato subito addietro per paura di commettere un'imprudenza. Un lume apparve finalmente dietro le imposte di una finestra e si spense a un tratto. Aguzzai gli occhi nel buio: due ombre disegnaronsi sul bigio delle mura del villino e sulla striscia del viale. - Per dove? - chiese la signora con voce soffocata. - Per di qua - risposi prendendola per la mano. Ansante, tremante, non poteva camminare spedita. - Coraggio! - le dissi, sentendola singhiozzare. Mi strinse la mano come per ringraziarmi, e si asciugò gli occhi. - Il cavallo è dei piú tranquilli - feci io, aiutandola a montare in sella, mentre il mio servitore, piegato un ginocchio a terra, le presentava l'altro onde servirle da gradino. - Cavalcherò al suo fianco; stia tranquilla. - Grazie! - rispose col solito tono di voce. E saltò leggiera in sella, come persona abituata a cavalcare. Lo stradale tirava dritto fra due siepi di fichi d'India. Lo scalpito monotono delle ugne ferrate dei cavalli era il solo rumore che si perdesse confuso fra i sibili acuti del vento. Era appena un'ora dopo la mezzanotte, e l'aria pungeva, benché si fosse verso la fine dell'aprile. Stavamo tutti zitti: già, con quel vento, era impossibile il parlare. Ella tossicchiava di quando in quando e fermava un pochino il cavallo; poi riprendeva subito il trotto. Uno dei miei contadini e la cameriera ci seguivano a breve distanza. Il mio servitore e l'altro contadino venivano dietro a cento passi per avvertirci di galoppo a ogni possibile contrattempo. A quella stess'ora Paolo ballava furiosamente in casa di un parente di lei onde allontanare ogni sospetto. Lo stradale, dopo un buon tratto, dava una svolta. In fondo al gomito ch'esso formava poco piú giú, splendeva un lume. - Che sarà mai? - chiese la signora arrestando il cavallo. - È la barriera - risposi, - non abbia paura. Si trova bene sulla sella? - Benissimo; grazie -. L'omo urtò colle gambe del cavallo la grossa catena di ferro che sbarrava il passo e fece suonare una campana dentro la baracca di legno. Una voce dall'interno ciangottò non so che parole: indi, allo scarso lume del lanternino attaccato al muro, vedemmo affacciarsi allo sportello dell'uscio una testa barbuta, collo sbadiglio alla bocca e gli occhi nuotanti nel sonno. Pagato il pedaggio, lo sportello si richiuse e la catena cadde a terra. Lo stradale tornò a risuonare del trotto dei nostri cavalli. Il buio non mi aveva permesso di veder bene in viso la fuggitiva: avevo però udito la sua voce, una voce dolce, carezzevole tanto da potermene accorgere alle poche sillabe pronunciate. - Era bella? Naturalmente mi figuravo di sí. Le davo degli occhi cerulei, limpidissimi, e dei capelli biondi. Perché? Non lo sapevo neppur io, ma mi sembrava che a quelle forme svelte, eleganti e un po' virili stessero bene una capigliatura bionda e degli occhi cerulei. Quel che di virile delle forme mi pareva dovesse venir modificato dalle tinte dolci del ceruleo e del biondo. Alcune mosse intravvedute nell'oscurità, prima che montasse a cavallo, me le facevano supporre un carattere mite, affettuoso, uno d i quei caratteri che quando amano si danno tutti intieri, un po' per bontà, un po' per fiacchezza. Ma quella sua fuga non mostrava il contrario? Oh! no, non era forse una bionda. Sotto una fronte bruna, contornata da capelli di lucido ebano, saettavano forse due grandi occhi nerissimi ... Io però tornavo a vederla bionda, per lo meno castagna, tendente molto al biondo ... La statura indicava una persona sui venticinque anni. La voce un po' piena, con delle inflessioni di grand'effetto, faceva supporre una donna. Maritata? Vedova? Non volevo entrarci. Quel Paolo era sempre stato l'uomo dalle belle avventure! Questa volta però mi sembrava l'avesse fatta un po' grossa. Basta! Doveva pensarci lui! Ma come ella lo amava! Fuggir di casa sua, accompagnata da una persona a lei sconosciuta, andarsi ad esiliare in una campagna lontana, per vivervi fuori d'ogni relazione socievole, sola coll'uomo del suo cuore; o non era questa una gran prova di affetto? E voleva dir nulla quello sfidare il terribile sdegno dei parenti, le inesorabili rigidezze di un paesetto ove il suo nome sarebbe diventato segno ad ogni abbominio, ad ogni vitupero? ... Doveva amarlo perdutamente! ... Mi sentivo intenerire. L'ombre della notte si erano intanto diradate. Il vento era quasi cessato; ma il freddo del mattino mordeva piú vivo. Lo stradale cominciava ad animarsi di carri che montavano in su carichi di ortaggi, per trovarsi al mercato dei paesetti vicini prima dello spuntare del sole. I carrettieri, sdraiati bocconi sul gran mucchio di roba accatastata, fumavano le loro pipe canticchiando, e scotevano di tanto in tanto le redini di corda raccomandate a un pomo della tavoletta di fianco. La signora vestiva un abito nero con piccole gale arricciate, orlate da un profilo di seta azzurra. Uno scialle egualmente nero, fissato al petto da uno spillo, le copriva le spalle. Il cappellino di paglia scura, con nastro e fiori rossi, che le sormontava la testa era quasi tutto avvolto da un gran velo denso, accortamente abbassato sul viso, il quale m'impediva di accertarmi se le mie supposizioni fossero state, o no, bene azzeccate. Avevamo da un pezzo preso una scorciatoia a traverso i campi; e non tanto per evitare d'incontrar gente che la riconoscesse, quanto per trovarci a tempo alla piccola stazione di Bicocca. Vi arrivammo infatti che già spuntava il sole. Il treno avrebbe tardato un quarto d'ora a passare. Spossata dal viaggio e piú, forse, dalle emozioni, domandò un bicchier d'acqua. Il capostazione invitolla gentilmente a montare nella stanza di sua moglie: lassú avrebbe anche potuto riposarsi un po' meglio che sulle panche di legno della stanzuccia di aspetto. Le tenni dietro. Smaniavo di vedere in viso la persona alla quale dovevo tener compagnia non solamente per altri due lunghi giorni di viaggio, ma finché il mio amico non avrebbe potuto venire presso lei senza punto farsi scorgere. Allorché la moglie del capostazione le presentò il bicchier d'acqua, la signora alzò il velo poco piú in su delle labbra e bevve lentamente. Aveva un collo stupendo. La carnagione brunetta tirava un po' al pallido. Dei capelli nerissimi, un viso ovale piuttosto piccolo, un mento gentile, una bocchina stretta come un anello, ma seria per naturale atteggiarsi delle labbra: ecco quello che potei vedere con un'occhiata investigatrice, nell'intervallo di due secondi, tra l'alzata e l'abbassata del velo. Bella, nello stretto significato della parola, non mi parve potesse essere; intendo di quella bellezza scintillante, sfolgorante, che non si lascia discutere, ma s'impone. Però simpatica sí, molto simpatica, che per me, infine, voleva quasi dire piú di bella. Nel viso di una persona simpatica non par di trovare qualcosa di affine al nostro essere che ci si assimili subito, mentre la persona bella ci rende sorpresi, ammirati, ma ci mantiene come in distanza? Una donna perfettamente bella, a mio modo d'intend ere, non può essere amata. Non avevo però veduto la vera espressione del viso, la sua vera anima, gli occhi: e bisognava attendere per pronunciare un giudizio. Frattanto m'abbandonavo a un lavoro di ricostruzione simile a quello dei naturalisti. Dati quel collo, quel mento, quella bocca, quel colorito della pelle, quella statura, quei capelli, qual'avrebbe dovuto essere l'intiero volto e, piú specialmente, la espressione degli occhi? E una serie di visi ora accennati, ora sbozzati, ora disegnati con accuratezza e coloriti con amore t remolava, brillava, si sbiadiva, spariva, ricominciava ad apparire innanzi i miei occhi fissati sulla panchina agghiaiata, sottostante alla finestra. La signora intanto, seduta presso il capezzale del letto sur una sedia di paglia, il capo appoggiato ai guanciali, le mani ferme sulle ginocchia, pareva si riposasse dalla fatica del cavalcare e pensasse Dio sa a che! Il servitore e i due contadini rimasero lí per tornare a casa coi cavalli. Correva poco meno di un giorno di cammino dal posto dove eravamo andati a prendere la fuggitiva, e i poveri animali avevan bisogno di ristoro. Nel vagone fummo soli, lei, la cameriera ed io. Credetti che lí quel velo importuno sarebbe stato alfine rimosso ... Ma niente affatto! Ella adagiossi in un canto come per cercar di dormire, ed io dovetti rassegnarmi a scambiare qualche parola colla cameriera, che non era né giovane né bella, ma aveva una fisonomia intelligente, maliziosa, e prodigava l'"eccellenza". Cavai di tasca il portasigari e domandai se la signora soffrisse pel fumo. - Eccellenza no - rispose la cameriera - e nemmeno io. - Fumi pure - soggiunse la signora senza rimuoversi dalla posizione in cui si trovava. - Non mancherebbe altro ch'ella avesse anche questa noia! Sarebbe un troppo grande sacrifizio: fumi, fumi, la prego -. Il Jonio scintillava come un immenso specchio contro il sole. La spiaggia disegnava in quel punto una vasta curva, dolcissima, dove l'onda del mare veniva a morire lentamente quasi per languore amoroso. Giardini ancora bagnati della rugiada del mattino, che profumavan l'aria colla loro zagara, strisce di prati, scogliere, gole di colline, strappi di mare e poi giardini di bel nuovo, tutto mi passava velocemente di fianco con la rapida corsa del treno; ed io guardavo sí, ma senza distinguere gli oggetti, com e se il velo della mia fuggitiva si fosse anche steso su quella meravigliosa natura, destatasi fresca e gioconda ai primi raggi del sole. Infatti rimanevo lí serio, indifferente, intontito, fantasticando a seconda della facile corrente dell'imaginazione e contento di prestarmi ai suoi piú bizzarri capricci. Nella stazione di Siracusa ci attendeva una carrozza a due cavalli: ripartimmo immediatamente. - Ed ora che non ci è piú degli importuni da temere - dissi appena chiuso lo sportello - ella può liberarsi della seccatura del velo. - Ma ... ma ... - balbettò. Intanto spinse risoluta le mani dietro il capo e, staccato uno spillo, rimosse via quell'ingombro. La guardai sorpreso. L'avevo già vista altrove? Mi pareva di riconoscerla. Via! non poteva darsi: sapevo con certezza che la vedevo allora la prima volta. Pure nei suoi lineamenti doveva esserci qualcosa di a me noto che produceva quell'effetto; ma non trovavo, lí per lí, una spiegazione plausibile. Era simpatica. Altro! Gli occhi però non corrispondevano preciso con quelli da me imaginati dopo visti il mento e la bocca. Erano neri, vivaci, ma piccoli, dallo sguardo profondo che a un lieve aggrottar delle sopracciglia assumeva un'espressione di indefinibile tristezza. Mi sentivo imbrogliato. Quegli occhi, senza fallo, gli avevo veduti prima di allora; quell'indefinibile espressione di tristezza non mi giungeva punto nuova. Ma non mi raccapezzavo. Ella mi tolse dalla confusione domandandomi: - Si arriverà tardi? - Alla Marza? Domani - risposi, ricomponendomi subito. - E viaggeremo tutto questo giorno e la notte seguente? - disse un po' meravigliata. - No, questa sera ci fermeremo in Rosolini: ripartiremo di buon'ora. - È un bel posto la Marza? - chiese dopo qualche minuto. - Stupendo - risposi - massime in questa stagione. Vedrà: qualcosa di strano ch'ella non può imaginare. - Molte piante? - Nessuna. - Una campagna rasa, un deserto? - Presso a poco -. E mi fissò tra incredula e dispiaciuta. Le abbozzai, per tranquillarla, una breve descrizione della Marza, che produsse quasi subito l'effetto voluto. Indovinando poi facilmente il suo naturale ritegno, mi decisi ad essere il primo a parlare di "lui". - Paolo - dissi - forse non potrà esser lí prima dell'altra settimana. - Come? - ella fece, - non verrà fra tre giorni? - Potendo - ripresi. - Ma bisogna esser cauti ... capisce? - Non correrà pericolo, è vero? - chiese, voltandosi piú direttamente verso di me. - Oh per questo stia tranquilla! - Dio mio! Vergine santa! - esclamò ripetutamente, guardando in viso la cameriera, come per persuadersi se quella partecipasse i suoi terrori. - Voscenza stia zitta - rispose la cameriera, che comprese a volo la muta interrogazione degli occhi. - Non facciamo cattivi auguri. Bedda matri! Si cheti! - Dopo un quarto d'ora il diaccio di ogni primo incontro era bello e rotto, e ragionavamo tranquillamente di mille cose. Spesso però ella interrompeva il discorso per ritornare col pensiero a Paolo, alla famiglia, a ciò che doveva accadervi in quel momento, alla lettera diretta alla sorella, lasciata sul marmo del comodino della sua stanza, e il volto le si abbuiava, e le pupille le si velavano di lagrime; ma infine faceva uno sforzo, sospirava e riattaccava il discorso. Verso il tramonto, assai prima di arrivare in Rosolini, si avvolse nello scialle, rannicchiossi nel suo angolo di carrozza e stette cosí, pensosa, cogli occhi socchiusi, senza pronunciare una sillaba, fino al momento che, a sera inoltrata, la carrozza fermossi innanzi il portone dell'albergo. Ci rimettemmo in viaggio prima che fosse l'alba. Ella scese le scale in fretta, con dei movimenti di freddolosa e, appena entrata in legno, - Vorrei essere di già arrivata! - esclamò con accento di grande stanchezza. La carrozza partí di galoppo, accompagnata da una musica di sonagli, di chiocchii di frusta e di "ohé! ohé!" del cocchiere. Avevo dormito poco, interrottamente e mi ero svegliato di malumore. Mi sentivo oppresso da uno di quegli inesplicabili sentimenti che non lasciano ben distinguere se un malessere fisico ne produca in quel punto uno morale, o se un patema d'animo agisca sui centri nervosi, li contragga e li faccia soffrire. Mentre il piede destro picchiava con dei colpettini irrequieti il fondo zingato della vettura, gli occhi fissavano, macchinalmente, a traverso i cristalli, la tinta uniforme della notte, e l'imaginazione vi gettava ad intervalli dei grandi sprazzi di luce. Era un angolo di paesaggio ridente di sole; era una stanzetta ben nota; era una testina di donna che non giungevo a ravvisare; era un tramonto, veduto non ricordavo piú quando; una pianticina fiorita, un muro coperto di screpolature bizzarre; erano cento simili visioni che dipingevansi di tratto in tratto su quel fondo oscuro come per l'istantaneo aprirsi e chiudersi di una lanterna magica posta sul cielo della carrozza; ed io continuavo, tra sonno e veglia, a osservare senza preoccuparmi d'intendere quali attinenze potessero esistere fra quelle apparizioni disparate e il mio improvviso malumore ... Ma forse avevo nel cuore una segreta paura d'intenderle! Quando l'alba dipinse dei suoi miti colori lo spazio di cielo inquadrato nello sportello della carrozza, accorciai le gambe, mi rizzai sul busto, e vedendo che la signora se ne stava sempre zitta, con un lieve sorriso sulle labbra. - Eccoci a un terzo del cammino! - esclamai dopo aver dato un'occhiata al posto che traversavamo in quel momento. - Credevo che lei dormisse - disse la signora - e avevo paura di svegliarlo. - Non ho dormito - risposi - ma intanto ho sognato. - Desto? - ella fece con un grazioso movimento di sorpresa. - È il miglior modo di sognare. - Ah! Non sapevo - replicò la signora. - Mi pareva che si sognasse soltanto dormendo. - Basta prenderci il verso - risposi. - Io vede? sogno a piacere. Due minuti di raccoglimento, una speciale giacitura del corpo, un particolar modo di fissare la pupilla, ed è bella e fatta: il sogno prende l'aire. Ed ha questo di meglio sul sogno ordinario: posso anche indirizzarlo verso un soggetto determinato, senza timore che perda la sua incoerente natura -. La signora fece un movimento degli occhi e della bocca come per dire: - Sarà! Ma stento a prestarle fede! - Durante il silenzio che seguí questo dialogo, io riflettei che trovarsi accanto a una donna simpatica, nel piccolo spazio di una carrozza, coi vetri tirati su, entro quell'atmosfera riscaldata dal solo calore dei fiati, è una sensazione gradevole, quasi voluttuosa che merita di esser provata almeno una volta, specie quando la donna che viaggia con noi non ci appartiene, e non si possono avere verso di essa altri sentimenti fuorché la stima e il rispetto. Ma dopo cotesta breve riflessione, appena mi accorsi di non essere osservato, tornai, come il giorno innanzi, a guardare attentamente la fuggitiva. L'idea della sua rassomiglianza mi tormentava tuttavia. Anzi non era tanto il non averla ancora trovata quel che mi desse noia, quanto il veder agitarsi dentro di me, e per effetto di essa, un sentimento indefinito di sentimenti dolcissimi provati una volta, che ora venivan lenti a galla dal piú profondo del cuore. - Ma che stavo a confondermi? Che m'importava a me di quella benedetta rassomiglianza? Era ciò che mi domandavo la mattina dopo sulla terrazza del villino di Cozzu di Pietra, aspettando che la signora Emilia uscisse dalla sua stanza per far colazione rimpetto al mare, in piena luce di sole. Però quando apparve sull'uscio non seppi frenare un piccolo grido di sorpresa: era trasfigurata! Indossava un abito d'indiana colore fior di pomo, brizzolato di minuti tondini rossi, guarnito di un galloncino nero a disegni che davan risalto alla foggia. Il busto le abbracciava strettamente la vita e la faceva parere piú snella. I capelli, semplicemente tirati su e trattenuti sulla testa da un nastro di velluto celeste, luciccavano di ondeggianti riflessi azzurrognoli attorno alla fronte elevata, e ricadevano sulle spalle increspati e abbondanti. Mi porse la mano domandandomi scusa dell'essersi fatta aspettare; poi dette una rapida occhiata al mare immenso, tremolante dei mille bagliori del sole, un'altra occhiata alla campagna che scendeva, a sinistra, tutta verde di messi quasi fino alla spiaggia; e alzando le sopracciglia e aprendo gli occhi con una viva espressione di piacere: - Che magnificenza! - esclamò. E rivolgendosi a me, che stavo lí immobile a fissarla: - Non è vero? - soggiunse. In quel momento io mi sentivo interdetto: respiravo appena. La rassomiglianza, cosí ostinatamente cercata e non potuta trovare, mi era all'improvviso saltata agli occhi, dandomi una fortissima scossa. - Che stupido! Come non me n'ero accorto subito? Come avevo potuto aspettare fino a quel momento per riconoscere ciò che avevo confusamente avvertito, appena veduta quella donna? Sospettando di avere addosso qualcosa di strano che mi facesse impressione, la signora Emilia osservò, voltandole e rivoltandole, attentamente le sue mani, distese ad una ad una le pieghe del davanti della sua veste, e non scoprendo nulla che giustificasse quel mio fissarla cosí insistente, - O perché mai ...? - domandò quasi mo rtificata, senza finire la frase. - Scusi, scusí! - mi affrettai a dire. - È proprio un caso incredibile! - Che cosa? - ella fece, confusa d'intendere assai meno di prima. - Oh! Nulla - risposi. - Ella somiglia tanto, ma tanto! a una persona di mia conoscenza ... - Non è che questo? - m'interruppe ridendo. - È una fortuna per me. - Ma cosí identicamente - continuai senza punto badare al complimento, - cosí identicamente che non può nemmeno idearlo! - Una persona ... molto cara ... m'imagino! - disse, pronunziando le parole con tono di graziosa malizia. - Molto! - risposi vivamente. - Tanto meglio - ella riprese. - Cosí patirà meno la noia di questo esilio della Marza. - Non mi sarei annoiato lo stesso. - Grazie! - disse la signora tornando a ridere. - Ma ora son certa che vi rimarrà con piacere. - Coll'egual piacere di prima. - Però cotesta sua amica - ella osservò - non sarebbe forse molto contenta se sapesse che ha già stentato due giorni prima di riconoscerla nei miei tratti. - Ah! V'era qualcosa che me lo impediva - risposi: - il suo vestito, la sua acconciatura del capo, la ... - E poi forse - m'interruppe con un sorrisetto di celia - questa identità che mi assicura non sarà proprio un'identità. - Sí, è vero - risposi. - Per esempio, le voci hanno due intonazioni diverse. - E niente altro? ... - Parmi, sí, qualcosa ... ecco, nell'aria della persona - dissi ingenuamente, ma esitando; - l'altra è piú dimessa, piú seria. - Cosí? - E prese un atteggiamento di serietà senz'affettazione né caricatura. - Precisamente, Dio mio! - Starò seria tutto il giorno, se può farle piacere! - Oh! ma non creda ... - dissi con simulata indifferenza. Poi, per far divergere il discorso: - Se qui ci fosse una tenda! - esclamai; - vi si potrebbe qualche volta anche desinare col sole. La sera però, volendo, potremo cenare al chiaro di luna come si fa nei romanzi. - Ha dormito bene? - quindi le chiesi dopo alcun istanti di silenzio. - Poco - rispose. - Che vuole? - E fece una mossa del capo e degli occhi, quasi volesse dire: - Sono forse tranquilla? Rimasi per tutta la giornata col capo intronato. Non sapevo capacitarmi che i lineamenti della mia Iela potessero quasi ripetersi in un'altra persona. Iela! Il mio ideale, il dolce sogno della mia giovinezza! La sola donna che io abbia sempre amata anche amandone delle altre? Tu sai bene, amico mio, che non posso ancora, dopo tant'anni, pronunciar questo nome senza tremare di commozione! Tu sai che la imagine di lei non solamente ha resistito nel mio cuore a tutte le offese del tempo e dei mille casi della vita, ma che ogni mese, quasi a giorno fisso, torna a stringermi affettuosamente tra le sue braccia ideali, con un raccoglimento piú che religioso, con una vera estasi di parecchie ore, durante le quali l'idillio della mia giovinezza ricanta allegramente le sue gentili canzoni . - Fanciullaggini! Ridicolezze! - tu mi hai spesso ripetuto sentendomene a parlare. Ed io ti ho sempre risposto - Può darsi, ma fanciullaggini divine! Da chi ho mai ricevuto consolazioni piú profonde? Da chi conforti piú ineffabili? - Purificata, idealizzata da un lungo e segreto lavorio, pel quale il carattere, le circostanze della vita e l'indole dei miei studi si porsero a vicenda la mano, la malinconica figura della Iela assunse presto pel mio cuore e pel mio spirito il valore di un simbolo. Pavento anch'oggi come una sciagura il momento in cui potrò forse dimenticarla, o mi rimarrà indifferente. Ed ecco perché il vederla cosí riprodotta, vivente, nella persona della signora Emilia mi sconturbava tanto e mi rendeva come ingrullito. Avrei provato verso questa donna gli stessi sentimenti che per la Iela? Gli avrebbe essa modificati? Alterati? Il gentile e sacro ideale della mia vita avrebbe patito per tale incontro una mutilazione, che mi metteva i brividi al solo pensarvi? Tentavo distrarmi da queste idee, ma non riuscivo. Eravamo andati a visitare l'antico casamento della Marza, un tratto assai breve di passeggiata. L'atrio merlato; il cortile ingombro di erbe; la chiesa in rovina e già ridotta a fienile; le stanze vaste ma inabitabili; le rovine di un altro casamento lí accanto, una volta dei frati carmelitani, deviavano di quando in quando la mia mente da quella fissazione ostinata. Dovevo farla da cicerone, dovevo dare degli schiarimenti, dovevo appagare le mille curiosità femminili destate da un sasso, da una grondaia, d a un gruppo di rigogliose viole a ciocche cresciuto sull'architrave della porta della chiesa, e rispondere alle cento domande che il posto naturalmente suggeriva. - Quella bianca cupola in fondo, cosí staccata sul grigio della pianura? - È della chiesa di Pachino. - E quel colle con quel vasto e severo edificio sulla cima? - Il colle di San Basilio e la villeggiatura dei proprietari. - E quel tondo nero in mezzo al mare, non molto lontano dalla spiaggia? - L'isoletta dei Porri -. La giornata era splendidissima. Un vero sole di primavera; un'aria profumata dagli odori particolari delle messi e delle erbe selvatiche in fiore. Ma quel sole, quelle messi, quelle erbe selvatiche in fiore mi richiamavano alla mente un'altra giornata di maggio e una piú bella compagna. La Iela appoggiavasi, sorridente, al collo rustico di un pozzo sulla spianata accanto all'aia. I piccioni domestici beccavano ai suoi piedi i grani di orzo e di frumento ch'ella faceva cadere a poco a poco dal pugno della mano destra levata in alto; un cane bigio scodinzolava fisso, col muso in aria, quasi aspettasse anch'esso qualcosa. - A che pensa? - mi chiese la signora, vedendomi rimanere cosí assorto e poi uscire da tale stato con un profondo sospiro. - Penso - risposi - che è bene ci siano al mondo delle felicità che non si possono mai possedere! - Perché? Una felicità che non si possiede è piuttosto un dolore. - Perché - ripresi - per possedere certe felicità e possederle per sempre (aggravai la voce sul "certe" e sul "sempre"), l'unico mezzo, cara signora, è il non possederle giammai. - Una donna - ella osservò - non parlerebbe a questo modo. - Perché? - chiesi alla mia volta. - Perché nella vita noi siamo molto piú pratiche. - Questo mi sorprende dopo quanto mi ha detto sui mille romanzi che ha letti. - È vero, ho letto molto - ella fece con scherzevole serietà; - ma piú creda, ho vissuto! - Mi tornò alla memoria quel po' della sua vita che mi aveva confidato la sera innanzi. Sentivo susurrarmi all'orecchio: "Ho sofferto, ho lottato!" E poi in tono piú severo, come l'ultimo resultato della sua triste esperienza: "Non c'è che il possesso che renda felici; tutto il resto è illusione!" Ma io protestavo internamente: - Oh! Non è illusione! - Si accorse presto del mio debole, e mi sorrideva in viso maliziosa, quantunque non osasse apertamente canzonarmi. Richiamava spesso il discorso sul "mio ideale", com'ella diceva, e m'interrogava con curiosità, quasi provasse del gusto a delicatamente tormentarmi. - Era molto piú piccola di me? - mi domandò una volta ex abrupto,- mentre appoggiata al mio braccio saliva uno dei tanti mucchi di sabbia del piccolo Sahara della Marza. - Piú gracile assai - risposi a malincuore, non sapendo dove quella interrogazione avrebbe voluto condurmi. - E, maritata, è rimasta sempre la stessa? - Sempre. Rivedendola dopo un lustro, mi parve soltanto un po' piú pallida e assai piú triste. - Non è dunque felice? - Ahimè, poverina! - esclamai. - La colpa è un po' anche sua! - fece ella sorridendo e piegando di lato il collo per guardarmi negli occhi, mentre agitava in aria l'indice della mano sinistra con un gesto accusatore. - Dica del caso, delle circostanze: eravamo tanto ragazzi tutti e due! - Ma un po' l'avrà, credo, consolata ... dopo - insinuò con un accento di fina malizia che mi fece trasalire. - Oh! No! - dissi risoluto, levando alta la fronte. - Quella donna è per me proprio morta. Io non amo che la ragazza, un ricordo, un fantasma! Infatti ciò che rende questo sentimento piú fiero e piú orgoglioso della sua purezza, è l'idea ch'essa lo ignori. - Che assurdo! - esclamò con vivacità. - Una donna amata può, se vuole, anche fingere di assolutamente ignorare; ma ignorare per davvero ...! - Le assicuro che ignora - insistevo. E intanto sentivo battermi il cuore all'idea che quel mio sentimento non vibrasse ignorato. Avrei però voluto esser io solo a sospettarlo. La signora Emilia divertivasi a salire, a discendere pei mucchi di sabbia sparsi, come tanti tumoletti, lungo la spiaggia; e, attaccata al mio braccio, mi spingeva ridendo a correre per quella stesa mobile, gialliccia che s'inoltra a perdita d'occhio, di lungo e di traverso, come un deserto in miniatura. Era uno spettacolo affatto nuovo per lei; e le riesciva piú gradito perché le dava l'impressione di una grandissima lontananza da casa sua. Evidentemente ella provava un forte bisogno di dimenticare qualcosa, e le si leggeva negli occhi, benché volesse darlo a comprendere poco. Vi ritornammo parecchie volte nei giorni appresso, ora ad ammirarvi l'alzata del sole, ora a provarvi il calore meridiano per formarci una idea approssimativa del vero deserto, ora a godervi gli effetti del chiaro di luna. I raggi lunari, investendo della loro luce bianchiccia quella vasta e brulla estensione di sabbia, davan risalto colle ombre a tutte le disuguaglianze del terreno, e il luogo assumeva cosí un aspetto strano e pauroso che nessuno, di giorno, si sarebbe imaginato. Le onde svogliate del mare, battendo monotonamente sulla spiaggia poco discosta, facevano un perfetto contrasto col silenzio che incombeva dall'altro lato su quella solitudine sconfortata. Pareva di essere chi sa a quante miglia da ogni creatura viv ente, sperduti, senza speranza di soccorso, entro un oceano di sabbia. La configurazione del terreno contribuiva, celandone i limiti, a far credere immensa quell'estensione di poche miglia. La signora Emilia lanciava ad ora ad ora per l'aria cheta un allegro scoppio di risa che suonava piú argentino del solito e vi si perdeva senz'eco. Io, quando stavamo zitti, canterellavo una romanza. E intanto andavamo su e giú, facendo il giro dei pantani, gettando delle manate di sabbia fra i giunghi attorno per far levare le anitre, le folaghe ed i gheppi lí rimpiattati. Ma io, dico il vero, non mi svagavo di molto. Nei giorni precedenti mi ero piú volte sorpreso intentissimo a guardare la signora Emilia con un sentimento di dolce compiacenza che non scaturiva soltanto della sua somiglianza colla Iela. Ed ora, in quel posto, tornando silenziosi verso casa, avvertivo con stizza che il calore del suo braccio, appoggiato con naturale stanchezza sul mio, mi faceva pensare a qualcosa di vagamente sensuale che s'infiltrava nella pura atmosfera del mio spirito e cominciava a viziarmela. Pur troppo era vero! La signora Emilia mi aveva rapidamente svegliato nel cuore tutti gli ardori dei miei sedici anni e con l'uguale freschezza di una volta. No, non vivevo insieme ad essa alla Marza, ma colla mia Iela evocata lí, per miracolo, da una misteriosa potenza che ne aveva, un pochino, alterato i lineamenti e le gracili forme. Capivo però benissimo come oltre a quei sentimenti se ne fossero sviluppati dei nuovi che legavansi strettamente a quegli altri e quasi servivano a completarli: temevo appunto di questi. Alcune parole, alcune frasi della signora Emilia, mi turbavano da qualche giorno in un modo incredibile. Certe occhiate, certi sorrisi, certe inflessioni della voce che piú vivamente riflettevano o rammentavano, anche dalla lontana, le occhiate, i sorrisi, le inflessioni della voce della Iela, mi facevan provare delle scosse, dei tremiti, dei languori che talvolta arrivavano perfino a spossarmi. Ed io soffrivo di questo sovrapporsi di lei, di questo suo impertinente sostituirsi alla cara imagine che formava da tanti anni il culto piú sacro della mia vita. Soffrivo, ma non resistevo, non reagivo; mi lasciavo sopraffare. Provavo qualcosa di simile a quelle tiepide correnti sottomarine, delle quali ci parlano i pescatori di corallo, che intorpidiscono nelle mute profondità delle acque il sentimento della vita e fanno assaporare la morte come una delizia ineffabile. Sentivo che ormai quel fascino mi aveva avviluppato in modo da non poterne piú vincere la malefica azione. - E poi? - mi chiesi una sera indignato, piantandomi rimpetto alla mia ombra proiettata dal lume sul muro bianco della stanza. E siccome l'ombra non rispondeva, - Tu sei un vile! - schiaffai sul viso di quell'altro me stesso che mi vedevo coll'imaginazione confuso ed abbiosciato lí innanzi. E andavo su e giú tirando buffi di fumo fantastici da un sigaro spento. - Miserabile! - continuavo - tu carezzi dei desideri che non osi schiettamente confessare nemmeno a te stesso! Già stai per trascinare nel fango il piú puro sentimento che abbia nobilitato la tua vita! Già non sei piú ben sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un'indegna azione! E tornavo a spasseggiare, stritolando fra l'indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo. Queste parole mi facevano montare le fiamme al viso, proprio come se fossero state pronunziate da un'altra persona, da un amico severo, venerato pegli anni e per l'esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo: - Andiamo! Via! Tu esageri: non son capace di tanto! Tradir la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere! Volessi pure, quella donna lí ... Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po' per persuadermi che m'ero forse potuto illudere, un po' per l'involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m'ero illuso. Quella donna non sarebbe stata forte! Lo indovinavo. Da che? Da mille piccoli e quasi impercettibili indizi che sarebbero sfuggiti ad ogni altr'occhio meno in teressato del mio. - E poi? E poi? - ripetevo con insistenza. E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo come l'imagine della mia Iela avesse un momentino potuto offuscarsi; indegnato che la rassomiglianza mi fosse, mio malgrado, servita da mezzana per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei. - Che debolezza! Che vigliaccheria! - Oh! No, volevo esser omo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo: dovevo al culto della mia Iela una riparazione di questa fatta! E andiedi a letto consolato. Avevo noleggiato una barca che venne a prenderci allo spuntare del sole. Un marinaio dai larghi e corti calzoni rivoltati in su fino all'anguinaglia ci portò in collo di peso, una appresso all'altro, nella barca; poi diede una spinta alla poppa, e la barca, che era mezzo arenata, si cullò tosto mollemente sulle onde dopo aver traballato un pochino pel peso del marinaio saltatovi dentro. Il mare era una tavola. Dei larghi riflessi verdognoli, azzurri, rossastri lo colorivano in diverse direzioni, divisi da strettissimi orli fosforescenti; le varie correnti marine lo striavano a fior di onda come tanti solchi di rotaie sur un immenso piazzale. La signora Emilia batteva le mani e dava in esclamazioni di sorpresa e di gioia. L'acqua doveva produrle dei fascini violenti che le lampeggiavano nelle pupille con incredibile vivacità. Di quando in quando, ad un'ondata che turbava il moto regolare della barca, ella cacciava un piccolo grido (non sapevo ben discernere se di paura o di piacere) e mi diceva ridendo: - Se si cadesse in mare? - E scoteva la testa e la persona quasi già provasse i brividi del freddo contatto delle onde. Io la guardavo tranquillo, dominando le mie impressioni, lieto di vedere che potevo opporre qualcosa alle involontarie seduzioni di lei. I miei sensi erano calmi, l'equilibrio del mio spirito perfetto; ma questa contentezza interiore doveva certamente tradurmisi sul volto in un'insolita serietà e in un raccoglimento che mi faceva star zitto. - Si annoia? - ella mi chiese dopo un buon tratto di silenzio. - No davvero - risposi. - Eppure si sospetterebbe che il suo pensiero non sia qui: non dice nemmeno una parola! - I grandi spettacoli della natura mi rendono muto. - Oh, non le faccio torto dell'annoiarsi! - ella continuò. - Però mi dispiace che debba annoiarsi per cagion mia. Anche l'amicizia ha i suoi pesi! - Ma niente affatto. Non merito ch'ella si formi di me una sí cattiva opinione -. Approdammo all'isoletta dei Porri, un largo scoglio quasi piano, sollevato di qualche metro fuori del mare che vi balla attorno spumante. Lo percorremmo in pochi minuti, poi ci sedemmo nel centro rimpetto alla spiaggia. La campagna ci si spiegava sotto gli occhi colle sue linee larghe, colle sue mille tinte di verde che si armonizzavano insieme. Lontano, in fondo, entro una nuvola di vapori dorati, torreggiavano nel cielo opalino le cupole e i campanili di Spaccaforno infiammati dal sole. Il mare rumoreggia va da ogni lato dell'isoletta con urli sordi, con scrosci interrotti. Di tratto in tratto vedevamo qua e là sollevarsi gli spruzzi iridati dei cavalloni irrompenti sui fianchi piú bassi. - Ecco un posto - ella disse - ove abiterei volontieri, ed ove vorrei morire tutt'a un colpo, ingoiata dal mare quasi prima di accorgemene. - Che fantasia! - esclamai ridendo. - E vorrebbe vivervi sola? - Oh! No - rispose; - dicono che soli non si starebbe bene neppure in paradiso: ma in due, con un'altra persona che avesse il medesimo gusto, che trovasse nella mia compagnia, come io nella sua, una ragione bastevole per non farle rimpiangere il mondo! ... Sciocchezze, è vero! - soggiunse sospirando. - Bisogna invece contentarsi della dura realtà! Ecco: pel mio cuore di donna, questo misero scoglio potrebbe valere l'intiero universo. Ma pel cuore di un uomo? Com'è triste il pensare che noi, nel cuore del l'uomo, possiamo appena appena essere un accessorio! - Oh! Scusi - dissi. - Non è sempre cosí. Vi son delle donne che riempiono tutta la nostra vita del loro benefico influsso; che diventano la miglior parte dell'anima nostra, del nostro spirito, e sopravvivono in noi anche quando le relazioni esterne della vita son rotte per sempre. - Iela! - esclamò, fissandomi in volto con uno sguardo ove sorpresi un lampo di dolore e d'invidia. Quel nome, pronunciato dalla sua bocca, mi diede i brividi. Vedendo che io tacevo, la signora Emilia mi prese amichevolmente una mano: e con accento interrotto, pieno di rimpianto e di affetto represso, - Come dev'esser felice quella donna! - mi disse. - Darei metà della mia vita per essere amata allo stesso modo. - Dio mio! Sento già tremare questa mano al solo ricordo, e veggo quegli occhi inumidirsi ... E son già dodici anni! - Ma quanti dolori! - soggiunse - quante tristezze! - Una felicità troppo cara e che certamente, ahimè! non esisterebbe se invece di essere stati proprio a tempo divisi, ella avesse potuto vivere unito alla sua Iela, o l'avesse posseduta un istante tutta intiera fra le sue braccia! ... Ma, caso o no, quella donna intanto dev'essere troppo felice. Chi non cangerebbe la propria con la sua sorte? Chi non vorrebbe provare la sua tremenda voluttà di doversi, col corpo, concedere all'uomo che non ama, e di dar si nel punto stesso, collo spirito, al suo assente adorato! - Oh no! no! - interruppi indignato. - È un amore di altro genere. Ella non lo intende ... non può intenderlo! E mi rizzai in piedi. Avevo bisogno di esser scortese ... "La tremenda voluttà di doversi concedere!" Queste parole mi eran sonate all'orecchio come una profanazione. Oh! La signora Emilia mesceva la sua bassa sensualità ad un sentimento che non avrebbe appannato il cuore piú puro. Sí, avevo bisogno di esser scortese! E non solamente per protestare, ma anche per difendermi dalle strane impressioni della sua voce che mi s'infiltravano per tutto il corpo come un'onda di latte. Sentivo dolcemente vellicarmi i nervi con un'irritazione delicata, raffinata e temevo di dimenticare troppo presto le belle risoluzioni della notte innanzi. Ma fu un momentino. Mi sedetti subito ammansito: volevo correggere quell'impeto troppo violento che l'aveva un po' mortificata. - Perdoni - le dissi; - oggi son nervosissimo. Quel ricordo della Iela mi disturba. Osservi: ho le mani fredde, un diaccio! - E toccavo le sue. Ella mi guardava ammirando, colle sopracciglia un po' aggrottate, colle labbra strette e la faccia alquanto sollevata verso di me come per fissarmi meglio. Era la Iela, preciso la Iela! Distorsi gli occhi. Se stavo a guardarla ancora, forse non sarei piú stato padrone di me e avrei commesso qualche sciocchezza. Me la prendevo con Paolo che non veniva. Intanto i giorni passavano apparentemente uniformi, ma il mio cuore era sconvolto. Oramai non lottavo piú, non resistevo; ma ragionavo, ma tentavo scusare agli occhi della coscienza la mia vigliacca debolezza. Non ero ancora arrivato al punto di dimenticare i miei doveri di amico; non osavo ancora pensare che, come tant'altri, quest'amore avrebbe potuto scivolare anch'esso sul mio cuore senza lasciarvi segno, senza ledere i diritti del purissimo affetto della Iela; no, tal ragionamento mi sarebbe parso un'empietà. La rassomiglianza della signora Emilia con la Iela era cosí grande; la passione (perché non dirlo?) che quella mi destava era un cosí vivo riflesso del ricordo di questa, che non avevo il coraggio di gi ustificare innanzi ai miei occhi neanche la possibilità di un tal caso. Mi limitavo a concedere che non era poi un gran delitto amar quasi di bel nuovo la Iela in quel suo ritratto vivente; riamarla colla stessa semplicità di cuore, colla stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito verso di lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di una quasi realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore! La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere colla sua acutezza femminile quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, vi si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dal suo amor proprio di donna cosí fortemente lusingato. - E Paolo? E la fuga? E la sua passione? - Ahimè! Nulla di piú vero di quel tristo proverbio: gli assenti hanno torto. Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al par di me, e lottava e cedeva e transigeva ... Chi lo sa? Forse anche provava contro quell'incognita amata delle gelosie di rivale. Non sapeva perdonarle di venire fin lí ad invasarmi in tal guisa il cuore da contrastarle perfino quel piccolo tributo di simpatia che la donna la piú onesta è lieta di ricevere come un buffo d'incenso alla bellezza o alla bontà! E voleva vendicarsene, voleva avvilire la povera rivale colla stessissima ar me della rassomiglianza con cui essa era venuta ad assalirla nel suo piccolo regno! Spesso le intravvedevo negli occhi qualcosa di piú, come una sfida, una rabbia di provarmi che non soltanto l'amor puro, l'amore ideale lasciava perenne il suo ricordo nel cuore; ma che vi potevano esser dei baci, degli abbracciamenti, da scuotere da cima a fondo tutta l'essenza della vita e assai piú terribilmente, assai piú durevolmente di quelle vaghe fantasie da collegiale che io nella mia inesperienza giudicavo la suprema delle felicità che un uomo potesse raggiungere al mondo. E allora i suoi sguardi lanciavan delle fiamme che venivano a lambirmi il cuore colle loro lingue di fuoco; e la sua bocca sembrava transudasse delle picciolissime stille di un liquore inebbriante che attirava con forza irresistibile le mie labbra per succhiarlo e assaporarlo fino all'ultima gocciolina, fino a ridurre le labbra di lei piú aride di un sasso ... Mi occorreva certamente un gran sforzo per restar ragionevole e savio. Un giorno ella mostrommi il desiderio di voler raccontata tutta intiera, per filo e per segno, la storia della Iela. Non seppi rifiutarmi. Da prima ero deciso di accennarle soltanto i sommi capi di quel delirio, di quell'estasi di amore durata tre anni. Ma, narrando, mi sentii di mano in mano soavemente travolto dai miei cari ricordi; piú non seppi che scegliere, e mi lasciai andare a briglia sciolta dietro i bei fantasmi della mia giovinezza, quei fantasmi che hanno avuto una cosí grande influenza su tutto il resto della mia vita. Ella ascoltava intentamente, avidamente, con una agitazione ed una commozione che aumentavano come piú il mio racconto si coloriva e si animava. A un certo punto però fece un brusco movimento delle palpebre e del capo; e: - Basta per oggi - mi disse con affettata indifferenza. - Veggo che si riscalda troppo: non vorrei le nuocesse -. Si alzò dalla sedia che aveva fatto recare sulla terrazza, scese i pochi scalini della gradinata, girò sbadatamente pel piano lí innanzi, tutto coperto di erbe selvatiche e di stelline gialle e bianche tremolanti sui loro lunghissimi steli ad ogni piccolo soffio, poi fermossi innanzi ad una statuetta greca che giaceva ancora distesa presso il posto dove l'avevano scavata. - Ha letto - mi chiese con un tono di voce tranquillo - la iscrizione che orna i lembi del pallio di questa Dea? - Seguivo coll'occhio turbato tutti i suoi movimenti. Avevo subito compreso quel brusco interrompermi, quella forzata indifferenza, e mi sentivo venir meno la forza di dissimulare di aver capito. Se non davo retta ad un ultimo fievolissimo rimprovero della coscienza, mi precipitavo senz'altro pegli scalini, e correvo a buttarmele ai piedi per baciarle furiosamente le mani e dirle le cose insensate che già mi gorgogliavano in gola ... Quella domanda mi calmò. - L'iscrizione è monca - risposi. - Pare dovrebbe dire: "Ad Heraz la sacerdotessa (il nome è illeggibile) nella festa di marzo". - Povera Dea! - esclamò quasi non sapesse che dire. A me intanto parve avesse voluto sottintendere: - Povera Iela! - E mi sentii stringere il cuore. La notte presi un'energica risoluzione: decisi di fuggire. Se, per poco, cedevo a quella tempesta di sensi scoppiatami cosí improvvisamente nel petto, non sarebbe stato soltanto il culto ideale della Iela quello che avrebbe naufragato; ma insieme ad esso, la mia dignità di uomo e, soprattutto, la lealtà del mio carattere di amico. Decisi di fuggire, ma all'insaputa dell'Emilia (già nel mio interno avevo soppresso il "signora"); ero certo che, di viso a viso, non avrei piú messo in atto quell'urgentissima ri soluzione. Scrissi, la sera, due paroline di lettera e la situai sul tavolo di mezzo, onde desse subito agli occhi. Mi levai prima dell'alba. La mia stanza, come tutte le altre, aveva una finestra molto bassa che rispondeva sulla terrazza. Apersi l'imposta con cautela, scavalcai senza stento il davanzale e mi avviai in fretta verso la stalla. Il contadino, che custodiva le cavalcature messe a mia disposizione dal fittaiuolo dell'ex feudo, dormiva vestito sulla ticchiena, una specie di letto murato. Lo svegliai, lo aiutai a insellare una giumenta e presi la carreggiata. Contavo di recarmi in Spaccaforno, confidare il mio caso a un vecchio amico e pregarlo di andar lui, per qualche paio di giorni, a tener compagnia alla signora; Paolo aveva già scritto che fra due settimane sarebbe arrivato. Quell'amico era un uomo serio, e in quanto a discrezione potevo dormire fra due guanciali. Doveva, da giovane, essere anche stato molto galante; conservava tuttavia il motto arguto e l'aneddoto gaio a dispetto dei suoi acciacchi, nei quali la galanteria della giovinezza entrava forse pe r qualche cosa. La Emilia non si sarebbe certamente annoiata con quel vecchietto che pareva aver concentrato tutta la vita negli occhi. E se si fosse anche annoiata? A me premeva soltanto di evitare il pericolo. La giumenta andava lentamente: chi badava a spronarla? Ero troppo assorto nei miei pensieri. Avevo dispetto di commettere la viltà di quella fuga, e tentavo di trovar in fondo al cuore una dose di fortezza bastevole a guarentirmi; ma non la trovavo. Ero ridicolo. Cento altri al mio posto non avrebbero avuto tanti scrupoli. Io stesso, se non ci fosse stata di mezzo la rassomiglianza colla Iela, sarei poi rimasto cosí virtuoso? Non dicevo né sí, né no, ma sorridevo sarcasticamente: mi canzonavo da me. La giumenta, lasciata in pieno suo arbitrio, rallentava il passo: sí fermava a strappare delle grandi boccate di erbe, e si voltava di qua e di là colla testa, quasi per interrogarmi su quel che avrebbe dovuto fare. Ad intervalli io mi riscotevo, le davo una stretta immeritata di sproni, tiravo in su la briglia, e la giumenta, poverina, riprendeva il trotto. Era già l'aurora. Le allodole trillavano festosamente sui campi di frumento; mille altri uccelli rispondevano dalle siepi e dagli alberi. Le messi, ai lati della strada, ondeggiavano come un mare ai soffi del venticello mattutino, facendo un rumore secco, stridente colle teghe delle loro spighe. Un misto di odori di erbe fresche, di profumi di fiori e di acri emanazioni di terreni coltivati mi si affollava alle narici e alla gola, e mi faceva provare la speciale sensazione dell'aria della campagna, che par fortifichi le fibre ed allarghi i polmoni. Questa sensazione mi produsse l'effetto di un vero calmante. Senza darmene per inteso, feci rivoltar addietro la giumenta e ripresi il cammino verso la Marza. Ero vergognoso: non volevo nemmen rammentarmi di aver tentato quella fuga. Dalla strada spiavo le finestre del villino di Cozzu di Pietra: erano sempre chiuse. La mia lettera non poteva fortunatamente essere stata scoperta. E davo di sproni alla giumenta, che scuoteva la testa costernata di quell'insolito trattamento. Volevo arrivare senz'esser veduto. Ma sí! Quando fui a pochi passi dal villino, la finestra dell'Emilia si aprí, ed ella sporse fuori il capo curiosa di vedere chi potesse venire a cavallo. - Oh, lei, signor Carlo! - esclamò con sorpresa. - Buon giorno! - risposi, cercando di dissimulare il turbamento che quell'incontro mi produceva. - Ha fatto una passeggiata troppo mattiniera, perbacco! - Una gran bella cosa! - feci io, accostandomi colla giumenta proprio sotto la finestra, involontariamente curioso di vederla daccosto. Ella era nel piú bel disordine del mattino, appena levata da letto. I capelli le scendevano tutti scinti arruffatamente pel collo; un leggero scialle a colore le copriva le spalle, aprendosi innanzi il petto e lasciando vedere gli smerli della camicia ampiamente scollata che contornavano la sua fresca carnagione poco piú in giú della gola; la pelle del suo volto aveva ancora quel che di madido che vien dal calore delle coltri; gli occhi erano contornati da certe pesche sfumatamente azzurre, le quali davan r isalto al magnifico splendore delle pupille. Accostava quel piccolo scialle alla vita con un atteggiamento che voleva esser pudico ed era procace. Le braccia, sfuggenti ignude dalle corte maniche della camicia, reggevano a stento le vesti tirate su in fretta, cadenti da ogni parte con voluttuoso abbandono, e le davano l'aria di una donna uscita allora allora dalla stretta di focosi abbracciamenti, coll'ambrosia sulle labbra dei baci dati e ricevuti. A tale vista sentii subito fremere nelle mie vene tutte le indomite potenze del sangue: ebbi degli abbagliamenti, delle vertigini. La casta e malinconica figura della Iela, offuscata dagli splendori di quell'apparizione sfolgorante, non trovò piú forza di farsi scorgere dalle mie pupille intorbidate. - Una gran bella cosa! - ripetei, senza proprio sapere quel che mi dicessi, divorandomi intanto cogli occhi quel corpo semivestito, a cui la licenza della mia imaginazione levava dattorno ogni velo. - A rivederci! - ella disse, arrossendo di scorgersi cosí avidamente guardata. E con un movimento di gazzella impaurita chiuse le imposte dopo avermi fatto un sorriso ed un inchino col capo. Era sparita! Ma io però, rimasto lí immobile, la vedevo tuttavia nettamente dietro i cristalli, come se le vibrazioni luminose prodotte dal suo corpo fosser rimaste impresse nell'aria e ve ne mantenessero l'apparenza. Ero già pentito di essere ritornato. Mi vedevo sull'orlo dell'abisso e sentivo il terribile fascino delle profondità: una piccola spinta, e cadevo lanciato nel vuoto. Dei brividi mi correvano per la persona. Oh quel Paolo maledetto! E la Iela, il mio gentile ideale? M'ingegnavo di persuadermi ch'esso avesse pur troppo bisogno di questa specie di nuova incarnazione per ridursi completo; la sua forma affatto spirituale prendeva nell'Emilia le agili letizie del corpo; oh! Sarebbe rimasta sempre lei, la mia Iela, ma avrebbe assunto qualcosa che me l'avrebbe resa piú omogenea. Futili sottigliezze del cuore che non voleva confessare la propria debolezza; artifizi della coscienza che non aveva il coraggio di accettare la sua colpa a viso aperto e dire per iscusa: è piú forte di me! La giornata era calda; l'estate batteva all'uscio. I raggi del sole penetravano il corpo di una lassezza piacevolissima, come di voglia di sonno. Le farfalle erravano turbinose di qua e di là; le mosche verdi volavano impertinenti attorno il viso, con quel loro ronzio prolungato, un vero adagio musicale di ninnananna che cullava i sensi e li legava col suo torpore. Ad ogni muover di passo fra le erbe, i fiori, il timo, la nepitella e il cardospino, migliaia di piccoli insetti si levavano a volo e tornavano, quasi subito, a rannicchiarsi di bel nuovo all'ombra delle foglie e dei calici per ripararsi dal sole. Appoggiata al mio braccio, ella ora percoteva colla punta del suo piedino i cespugli fioriti, ora allungava la sua canna da pesca appoggiata alla spalla per disturbare le carezze delle farfalle sul letto dorato delle pratoline; e intanto canticchiava delle parole inintelligibili, dondolando lievemente la testa. La spiaggia formava lí presso un piccolo seno scavato nella costa dal continuo rodere dell'onda. Un letto di sassi lisci, arrotondati, di diversi colori, poco piú largo di uno stanzino, veniva circondato dalla curva della costa all'altezza di due metri; vi si scendeva per una rozza scalinata, la quale non accusava certamente la mano dell'uomo. - Vedrà che magnifica pesca! - ella disse, adagiandosi sur un sasso da me preparatole per sedile. - Oh! - risposi ridendo; - i pesci saranno lietissimi di esser pescati da una mano cosí gentile -. E, inescato il suo amo, lanciai il filo nell'onda. L'onda ci lambiva i piedi; quella piccola diga di sassi ne smorzava la stesa. Nelle fonticine formate fra sasso e sasso dagli spruzzi dell'acqua e dai meati della diga, vedevansi correre i piccoli granchi marini sul fondo arenoso. Le patele solitarie stavansene aggrappate ai sassi col loro grigio gusciolino che si lasciava scorgere appena. L'olio di mare agitava le sue filamenta a seconda dell'onda, o le arricciava e le formava ad arco per assorbire dai muschi le sue impercettibili prede. Dopo aver dato un po' la caccia ai granchi marini e alle patelle, inescai alla mia volta l'amo e mi sedetti accanto a lei, sui ciottoli, il piú comodamente che potei. L'atmosfera era pesante ed immobile. Un silenzio grave regnava intorno. L'acqua che veniva a scherzarci ai piedi aveva dei mormorii voluttuosi di sirena, dei mormorii seduttori. Nissuno di noi due diceva una parola. Quella solitudine si faceva complice dei nostri segreti pensieri; pareva che una corrente magnetica ci tenesse in comunicazione e rivelasse all'una i piú riposti movimenti del cuore dell'altro. Ella aveva lasciato abbandonatamente cadere la sua mano destra poco discosta dalla mia testa (sedevo piú basso di lei). Stetti alcuni minuti a guardarla, come un goloso, coll'acquolina in bocca. Piccola, dalla pelle fina e lucente, dalle ugne color di rosa, sfiorarla colla guancia e colle labbra divenne una tentazione insistente. Mi spingevo in là senza parere, quando l'improvviso scostarsi di alcuni ciottoli sui quali poggiavo il gomito accelerò il movimento, e andai proprio a posare la guancia sulla mano di lei ... che non si mosse! Allora non mi mossi nemmeno io. Cominciai ad accarezzargliela con un lieve strofinio, che mi faceva gustare tutta la delicatezza di quella pelle sotto cui non si sentivano gli ossi. Avevo già perduto ogni coscienza di me stesso. I ciechi istinti animali mi facevano nelle fibre una fanfara di trionfo. Spinsi gli occhi verso di lei. Ella, avvertito forse quel movimento, chinava in quel punto il viso dalla mia parte, colle labbra semiaperte al sorriso quasi ebete che rivela il venir meno della persona dalla eccessiva emozione, cogli occhi lampeggianti di sensualità sconfinata. - Carlo! ... Carlo! ... - disse dolcemente, languidamente. Ero già levato sui ginocchi e la stringevo tra le braccia, soffocandola dai baci. Fu un minuto! - Fortuna che nessuno ci abbia visti! - esclamò l'Emilia quando, rientrato quasi repentinamente in me, le sciolsi le braccia dal collo. E rise di quel suo riso allegro, sonoro, che in quel punto mi parve tristamente triviale. Non c'era in esso nessun'eco della commozione profonda che doveva agitarle tutto il corpo; ma una contentezza, un appagamento, uno scoppio di soddisfazione volgare ... Avrei preferito che quella pigra ondata del mare spirante sui sassi si fosse a un tratto levata su sdegnosa e mi avesse travolto e annegato. Avrei preferito che mentre io ricercavo avidamente la sua bocca e la stringevo al mio petto, Paolo fosse improvvisamente comparso sul ciglio della spiaggia e mi avesse fulminato con una parola, o mi si fosse lanciato addosso con tutto il furore dell'amico e dell'amante tradito. Ma nulla di questo! L'onda continuava il suo monotono mormorio. Il silenzio meridiano incomb eva attorno non turbato nemmeno dal ronzio di un insetto. Ella non capí niente di quel che avveniva dentro di me. - Fa troppo caldo! - disse. - Fa troppo caldo! - ripetei collo stesso tono di voce. E raccolte le canne da pesca, le porsi la mano per aiutarla a montare la rozza gradinata e riuscire sui campi. Giungemmo a casa senza scambiare una parola. Avevo il cuor grosso. Che nottataccia! Al cader della sera mi si erano ridestate piú violente nel cuore le bufere della giornata. Smaniavo, pestavo coi piedi, mi strappavo i capelli. - Perché non spingevo quell'uscio? Perché non entravo ad un tratto nella stanza di lei? Verso le due dopo la mezzanotte il mio delirio giunse al colmo. Mi tolsi le pantofole e, a piedi scalzi, trattenendo il respiro, traversai il salottino e la camera che dividevano la mia dalle sue stanze. Origliai un gran pezzo all'uscio per persuadermi se fosse sveglia. La sua respirazione calma ed uguale, era il solo rumore che si sentisse. Grattai leggermente all'uscio; nessun movimento. La sua respirazione continuava calma ed uguale. Dal buco della serratura vedevo il lumino da notte agonizzare sur un tavolo in fondo. Ai piedi del letto scorgevansi le sottane e il corpetto buttati disordinatamente sopra una sedia e un po' strascicanti per terra. Che malia in quelle ombre appena diradate, in quella respirazione ascoltata a traverso l'uscio! Ritornai vergognoso, disilluso nella mia stanza, e molto tardi cedetti al sonno. Chi svegliommi la mattina dopo? La voce di Paolo. Era arrivato improvvisamente per farci una piacevole sorpresa! - Poltrone! - mi urlava dietro all'uscio. - Come si fa, in campagna, a dormire fino alle dieci? - Sei giunto a proposito - gli dissi dopo la colazione. - Ero sul punto di andar via senza piú aspettarti un minuto. - Come? Non rimarrai almeno un par di giorni, ora che ci son io? - insistette Paolo. - No - risposi - è impossibile -. Non sapeva darsene pace. La signora Emilia aggiungeva anche lei qualche parola, ma non cosí insistente e calorosa come quelle di lui. Avevo a stento la forza di guardar Paolo in viso; la sua schietta cordialità mi feriva il cuore come uno stile. Fui fermo. Verso le cinque di sera, sul punto di montare a cavallo, - Senti - mi disse Paolo - io sono in collera. Non ti accompagnerò nemmeno fino al limite dell'ex feudo -. Infatti rimase sulla terrazza. Poi volgendosi alla signora Emilia che ritta in mezzo alla spianata, a pochi passi da me, mi guardava con certi occhi sdegnosi e turbati, - Ma pregalo te! - le disse. - Forse l'insistenza di una signora lo piegherà -. La signora Emilia mi si accostò, guardandomi fisso negli occhi, e con accento represso, vibrato, - Perché mi fuggi? - mormorò impallidendo. E si morse le labbra. - Ma se rimango - risposi anch'io a bassa voce - noi commetteremo un'infamia! - Grullo! - esclamò con inesprimibile gesto di disprezzo, voltandomi bruscamente le spalle. Quella trista parola mi rese tutta la mia coscienza d'uomo e la mia fierezza di carattere. Salutai, montai a cavallo, e mi rivolsi appena una volta indietro per rispondere ad un ultimo addio di Paolo. La serata era calma, splendidissima di tutte le glorie del vicino tramonto. Di mano in mano che mi allontanavo dalla Marza, mi pareva veder il cielo vestirsi gradatamente di un sorriso piú bello; e su quella profonda limpidezza, oh gioia!, tornava ad apparire la soave figura della mia Iela, casta e pietosa come prima e sorridente di perdono. Mineo, 25@ 25 marzo 1876@. 1876.

Credo vi abbia una profonda ragione fisica in questi turbamenti che l'influenza di un organismo fa risentire ad un altro. Perché fra cento donne, e tutte belle, una sola possiede la virtú di affascinarci e di sconvolgere in tal guisa l'ordinario andamento della nostra vita, da farci spesso terminare o in un delitto o nella pazzia? Senza credere a delle segrete ed intime affinità, non si arriva a spiegar nulla; affinità della materia, che si risolvono nelle affinità dello spirito, e danno le fantasie, gl'ideali, tutte le mille gioie purissime dei cuori elevati. Non arrivo quindi a persuadermi che tra lei e me tutto debba "arrestarsi qui". Le circostanze sociali possono mettere degli insormontabili ostacoli all'unione dei corpi; ma nulla, proprio nulla, può impedire la inesauribile comunione di due cuori. Ho bisogno di fantasticare, di sognare, di slanciarmi, sulle ali dello spirito, lontano, lontanissimo dalla balorda realtà che mi urta e m'irrita colla sua ignobile prosa. Se sapesse come son ridiventato ragazzo in pochi giorni! Se sapesse come le son grato di avermi strappato dalla noia, dalla solitudine di cuore in cui mi accasciavo da un pezzo! Ma sia pure che tutto si "arresti qui!" Però non mi neghi la consolazione di persuadermene colla sua bocca. Dopo farò ogni sforzo per rassegnarmi alla mia sorte". E mentre la posta le recava la mia lettera, io quasi mi pentivo di averla scritta e inviata. Con che leggerezza andavo incontro a una relazione, di cui dovevo anticipatamente calcolare tutte le possibili conseguenze! Come poesia, come arte in azione, sí, stava benissimo. Di tanto in tanto il cuore e lo spirito hanno bisogno di simili scosse, di una ginnastica morale che loro snodi le giunture e li rimetta in quell'agilità di forze attutita dal lungo riposo ... Ma se ciò che mi sembrava difficile fosse diventato facilissimo? Ma se quella donna, vinta, mettiamo, dalla mia insistenza, sedotta dai bagliori di un amore che usciva dalle forme comuni, lusingata da speranze che le mie parole avevano imprudentemente fatto intravvedere, fosse finalmente venuta ad abbandonarmisi tra le braccia a lei tese con spensieratezza suprema? Se vi fosse venuta rompendo altri legami, abbandonando piú sicure speranze, sacrificando ad un'illusione il suo nome, la sua felicità presente, il suo avvenire, ogni cosa? Che avrei allora fatto? Quale responsabilità non mi sarei assunta? Ero forse sicuro di mantenere quel che le mie calde parole promettevano senza esplicitamente spiegarlo? Non mi accumulavo una larga messe di noie, di impacci, di dolori, di disinganni? Ma chiudevo gli occhi, mi stringevo alle spalle e lasciavo fare al cuore; ero troppo esaltato da dar retta alla ragione. E forse è bene che l'uomo sia cosí! Senza questa irragionevolezza di certi giorni, la vita correrebbe troppo uniforme, troppo noiosa; e molte cose grandi, e tutte le cose belle rimarrebbero spesso nell'oscurità del nulla, da cui soltanto la passione le fa sbalzare alla luce. Venne. La scorsi da lontano, in fondo al viale, e le mossi incontro quasi trepidando. Avevo le puerili esitazioni del primo amore. I polsi e le tempie mi martellavano con violenza. Era anch'ella un pochino turbata; la sua mano infatti tremava. Le diedi braccio e andammo un pezzetto silenziosi, guardandoci negli occhi, con quel sorriso che monta alle labbra quando ci troviamo impacciati e non sappiamo che dire, forse perché abbiamo troppe cose da dire. In tali casi è sempre la donna quella che mostra piú spirito. - Mi avvedo - ella disse - di aver avuto torto a dar retta alle sue insistenti sollecitazioni. Da lontano si è piú liberi e piú forti! - Grazie, signora! - feci io. - Non si penta di un'opera buona. - Ebbene - ella riprese - che vuole da me? - Poco, nulla! ... Se fosse possibile ... essere riamato! - Dica tutto! - ella esclamò sorridendo. - E quando l'avessi riamato? - L'amore è fine a se stesso. - Forse nei cieli; ma in terra ...! - Osservi - le dissi; - a trentadue anni mi vede impappinato come un meschino collegiale. Questo può darle la misura dell'affetto che provo per lei -. E dopo una breve pausa soggiunsi: - Sono libero, solo, non ho parenti e possiedo una discreta fortuna. Faccio una vita ritirata, un po' studiosa; ma piú volentieri ozieggio fantasticando, contento di osservare il mondo a traverso una nebbia la quale gli dà sovente l'aspetto di un'apparizione che si dissolve, e rassegnato a veder arrivare la volta che dovrò dissolvermi anch'io. Il suo incontro mi ha destato da un sonnambulismo che suol essere l'ordinaria condizione del mio spirito, e mi ha richiamato alla gioconda realtà della vita. Son liet o di sapere che c'è ancora al mondo qualcosa che può farmi amare e sperare ... Mi sono ingannato? Sotto a questo nostro incontro nascondesi forse una delle solite e terribili ironie del caso che uccidono gli animi fiacchi? Non lo capisco ancora e, quasi, non vorrei mai capirlo. - Ho marito! - ella rispose sospirando e chinando il capo addolorata. - Che importa? - feci io. - Il mondo è crudele! - ripigliò. - C'impone dei doveri che potrebbero dirsi una violazione della natura, e il pudore spesso ci fa vittima perfino nostro malgrado. Non mi pare di esser brutta; molti mi hanno ripetuto preciso il contrario. Prima e dopo della legale separazione da mio marito, che io dovetti domandare, sono stata spesso circondata da tentazioni superiori alle deboli forze di una donna; e benché in questo momento sia proprio sicura di non esser creduta, soggiungerò che son uscita tremendamente abbattuta e straziata sí da quelle lotte del cuore, ma vittoriosa; anche quando mi sarei facilmente rassegnata a rimaner vinta! ... Non glielo dico né per orgoglio, né per artifizio di donna. - Oh le credo! - risposi. - Sarò franca; è mio costume. E comincerò dal confessarle che non sono qui venuta per mera cortesia, o per cedere soltanto a un impulso di curiosità femminile. C'è un altro sentimento che io non so come chiamare, (è cosí incerto e confuso!) il quale ha lusingato il mio spirito e mi ha spinto a porgere facile orecchio al suo invito. Ho capito appena qui giunta, e gliel'ho detto subito, che ho fatto male a venire. - Invece ha fatto benissimo! - Le sue parole dell'altra volta, il persistere a ricordarsi di me dopo tanti giorni, le sue lettere che mi rivelano un animo gentile e troppo aperto a dei sentimenti che non sono piú di moda, hanno naturalmente fatto impressione nel mio cuore. Piú che ogni altra donna e per la condizione in cui mi trovo io sento un bisogno di continui conforti. Illusioni o realtà, non mi confondo a discerner bene quello che mi si presenta a consolarmi. L'unica realtà che io cerchi è la mia consolazione, la soddisfazione di un bisogno ineffabile che mi agita e mi fa soffrire; e spesso non è davvero l'illusione quella che sappia meno soddisfarlo. - Come son lieto - le dissi - di sentirla parlare a questo modo! - Non si imagini nulla che possa secondare qualche suo desiderio; si troverebbe ingannato. - Le giuro - risposi (e in quel momento ero sincero) - che i miei desideri, le mie speranze non vanno piú in là di quello che ora mi si concede. - Oh! Si dice sempre cosí! - Avrà la conferma del fatto. - Non è un uomo lei? - Ma un po' diverso dagli altri. - Ecco, dunque: ho assecondato il suo desiderio, son venuta, le ho detto forse piú di quello che non avrei dovuto dirle; non rimane che separarci da buoni amici e ... dimenticarci. - Perché dimenticarci? - Perché sarebbe meglio. Non le pare? - Ma se fra noi due non può, come lei dice, esservi luogo per l'amore, potrebbesi invece trovar un posto all'amicizia. - L'amicizia tra un uomo ed una donna si riduce ad un amore che ha vergogna di mostrarsi a viso aperto, ed io ho in uggia gli equivoci. - Cediamo dunque al destino! - dissi fermandomi. E presi tra le mie le sue mani e la guardai fisso nelle pupille, con le labbra atteggiate a un sorriso di speranza ed esprimendo cogli occhi un'intensa preghiera. - Ed è cosí ch'ella è diverso dagli altri! - esclamò tentennando amaramente la testa e alzando gli sguardi al cielo. - Interpreta male le mie intenzioni! - Interpreto giusto! - E riprese il mio braccio. - Non ci vedremo piú - mi disse dopo con accento commosso. - Ella tornerà alle tranquille occupazioni della sua vita; io ... alle noie ed alle lotte della mia. Ciò che mi fa rifuggire da un legame, creda, è un puro calcolo. Se io ora cedessi alle sue premure, se credessi alle sue proteste, non farei che prepararmi un disinganno crudele. Un mese, due mesi, sei mesi, un anno! E poi tutto sarebbe finito, e l'apparizione celeste diventerebbe un fantasma intollerabile. Non vi è peggiore umiliazione pel nostro amor proprio: è una ferita che non sana. Ho ragionato sempre cosí quando il cuore ha tentato di trascinarmi dietro le seducenti appariscenze di una felicità che mi si faceva brillare vagamente sotto gli occhi; e il ragionamento mi ha salvato. Parlo schietta: non mi faccio piú virtuosa di quel che sono. Forse non ho ancora avuto occasione di provare una di quelle passioni che non dan campo a ragionare, e quando verrà, gliel'assicuro, non me ne lagnerò; ma intanto la sfuggo. Bisogna mi colga all'improvviso, alla sprovveduta! - Ma se tutte le donne la pensassero come lei - interruppi scherzando - che sarebbe del mondo? - Ciò che salva il mondo - rispose - è che si predica bene e si razzola male. Io stessa, forse, non isfoggio in questo momento tante belle teoriche che per giustificarmi dell'inconseguenza di esser qui venuta. - Senta - dissi; - lei ragiona troppo! Ami invece! - E strinsi il suo braccio col mio. Restò a capo chino, come assorta improvvisamente in una riflessione penosa. - Ami! - le ripetei all'orecchio. - No! - disse, sciogliendosi dal mio braccio e passandosi le mani sulla fronte. Si era fatto tardi senza che ne fossimo accorti. Il viale era deserto; i lampioni brillavano qua e là fra i tronchi e i rami degli alberi come pupille investigatrici di ciò che può avvenire nelle ombre notturne; e il rumore delle acque del canale daccanto faceva meglio avvertire la solitudine e il silenzio onde eravamo circondati. Di tanto in tanto il sordo strepito delle carrozze e degli omnibus, che si accresceva o si affievoliva secondo l'avvicinarsi o lo scostarsi accelerato, rammentava che a cento pass i di distanza le vie della città formicolavano ancora di gente. - Abbia l'amabilità di accompagnarmi un pochino - ella mi disse avviandosi verso il Naviglio. - Come passano presto le ore! - Mi promette che ci rivedremo? - feci prendendole una mano. - Non insista - rispose. - Rimanga colle impressioni che ha ricevuto finora. Forse, conoscendomi meglio, mi troverebbe molto diversa da quel che si è imaginato: e lo stesso probabilmente sarebbe per me. Ci scapiteremo tutti e due. - Rivediamoci! - ripetei. - Sento che l'amo di piú dopo di averla conosciuta da vicino: l'istinto del cuore non mi ha ingannato. - Abbiamo scherzato col fuoco - ella disse ridendo: - non ripetiamo lo scherzo -. Per un buon tratto rifacemmo la stessa via del giorno in cui le andai dietro la prima volta. L'incertezza ov'ella mi teneva era quasi piú dolce del sí che avrei voluto strapparle. - Addio, signore - disse fermandosi: - mi lasci ora andar sola. - Ubbidisco - risposi, - ma però non mi tolga affatto la speranza. - Addio! - replicò sorridendo. E fino alla sera dopo io non vissi che di quel sorriso. Era davvero divisa dal marito, e non per sua colpa? Era davvero rimasta sempre vittoriosa di tutte le seduzioni che dovevano, cosí bella e sola, circondarla da ogni parte? Era stata proprio sincera parlando a quel modo? Queste interrogazioni mi si affacciavano ripetutamente allo spirito, ma non volevo fermarmici su per trovar loro una risposta. Ho sempre amato un che d'indefinito, di digradato, di incerto nei sentimenti e nelle cose, e son riuscito per questo poco adatto agli affari. Possiamo noi forse, colle nostre indagini, toccare proprio il fondo della realtà? Non avviene, nel passaggio dai sensi allo spirito, un alterarsi, un modificarsi, un trasformarsi dell'impressione del di fuori per cui spesso vediamo non già quello che è, ma quello che ci pare, il contrario? Dall'altra parte in ciò che io provavo riguardo a lei non c'era evidentemente nulla di preciso e di determinato. Se ella non avesse avuto il marito? Se fosse stata una donna che non trovavasi piú alla sua prima relazione? Se, illuso da una vernice di gentilezza, di cultura e di eleganza io non avessi capito quello che altri avrebbe compreso di primo acchito, cioè ch'ella era una delle solite pericolose femmes de proie, come le dicono i francesi, nelle quali un'arte sopraffina simula le piú squisite, le piú pudiche ritrosie della virtú per irretire gli allocchi? Che cosa sarebbe avvenuto allora del mio povero cuore, delle fervide espansioni di un amore che viveva di rugiada, tra cielo e terra, quantunque avesse i suoi quarti d'ora nei quali sarebbe rimasto molto volentieri sulla terra? Ma io mi seccavo di tante supposizioni, di tante indagini, e lasciavo correre. Amavo! Mi bastava. Amavo infatti da amatore, da dilettante. Succedeva da qualche giorno dentro di me uno strano e delizioso sdoppiamento dello spirito; metà di esso subiva gli incanti della passione, metà stava ad osservare, e spesso chi godeva di piú era la metà che faceva da spettatrice tranquilla. Ciò intanto non impediva la spontaneità degli slanci e delle esaltazioni dell'altra. Forse vi era un che di artificiale in tutto cotesto rimescolarsi di sentimenti. Un lavorio della imaginazione, combinando alla sua guisa e sviluppando sensazioni, impressioni, sentimenti vecchi e dimenticati, ricostruiva di bel nuovo il mondo fresco e sorridente della giovinezza e mi dava un'illusione simile a quella del miraggio del deserto, che si sposta a seconda del punto di vista del viaggiatore. Ora io vedevo innanzi a me quel che già mi sembrava fosse rimasto alle mie spalle. E poi, che giovava preoccuparsi di quanto poteva avvenire? Tanto, non era in mia mano l'impedire che avvenisse. Volevo quindi andar spensieratamente incontro all'ignoto; era un viaggio divertentissimo benché pieno di pericoli. Maritata o no, donna di mondo o femme de proie, vi era infine in lei una cosa innegabile e indiscutibile: la bellezza. Quando la natura si perde tutt'intiera nella creazione di un corpo perfetto (e il suo era tale) non ha mica tempo di confondersi molto col resto. Una linea di quel corpo equivale benissimo al cuore; un'armonia di quelle forme equivale senz'altro allo spirito; una bella e forte sensazione non la cede in nulla al piú bello e piú generoso dei sentimenti. Pensavo tutte queste cose alla rinfusa e non mi fermavo a lungo e in particolare su nessuna. Avevo ancora nell'orecchio l'armonia della sua voce, provavo ancora il blando tepore della sua mano e del suo braccio; e a traverso i globi azzurri del fumo della mia sigaretta di lathachié scorgevo intanto qualcosa di luminoso, di sorridente, che poteva anche esser l'effetto del tabacco orientale voluttuosamente aspirato, e non era per questo meno amore e meno ideale di qualsivogliano amori e ideali di piú alta pro venienza. Per due sere di seguito non venne; le scrissi e non rispose. La terza sera, quando già cominciavo a disperare di rivederla, me la sentii alle spalle, col suo passo lesto e cadenzato. Piovigginava. Le gocce dell'acquerugiola facevano un rumore gradevole tra le foglie degli ippocastani. Il sole, prossimo a tramontare, dorava di un colore rosso ranciato le frondi degli alberi che, trasparenti, lucidissime, stillanti, parevano proprio di smeraldo. Per l'aria rinfrescata errava diffuso l'odor speciale che si lev a in primavera, dal terreno inzuppato dalla pioggia. - Mi aspettava? - ella disse, mostrandosi sorpresa di trovarmi. - Sicuramente - risposi stringendole forte la mano. - Come è buono! - La pioggia aumenta - soggiunsi offrendole il braccio; - verrà giú un rovescione. Andiamo a ripararci nel Caffè dei Giardini; saremo soli, solissimi; potremo ragionare a bell'agio. - Abbiamo ben poco da dirci! - ella fece, chiudendo il suo ombrello per prendere il mio braccio e reggere con l'altra mano il lungo strascico della veste. Nel Caffè dei Giardini c'era soltanto un vecchietto. Avrei voluto, entrandovi insieme a lei, far rivolgere almeno un centinaio di occhi su noi; avrei voluto sentire quel mormorio di ammirazione e vedere quei sorrisi di piacere che l'aspetto di una bellissima donna suol sempre produrre al suo primo apparire in un salone. Oramai quella donna in qualche modo mi apparteneva, e credevo di avere un po' il diritto di insuperbirmi della sua bellezza come di qualcosa di mio. La conversazione fu piú sentimentale, piú vaporosa dell'altra volta. Ella era contenta di vedermi già savio. Finché duravo cosí, quelle scappatelle da giovani innamorati potevano continuare. Come non appagarsi di una felicità modesta, soave, che trovava nella sua stessa natura una guarentigia di durata? Io sorridevo, dicevo di sí; ma gli leggevo nell'intonazione della voce e negli occhi qualcosa di simile a quello che sentivo accadere nel mio interno, e raffrenavo la gioia. Non avrei saputo dire perché, ma mi sembrava che le parole della nostra conversazione esprimessero quel giorno preciso l'opposto di quello che valevano nel loro ordinario significato. Piú intendevamo dirizzare le ali per l'alto, e piú mi pareva si radesse terra terra. Parlando di unione di cuori, mi sembrava che di accordo volessimo sottintendere; corpi; parlando di sentimenti ineffabili, eterni, mi sembrava evidentemente parlare di sensazioni ineffabili sí, ma fugaci, alle quali ci pareva mill'anni non pot erci inaspettatamente abbandonare, senza dirci una parola, come trascinati nostro malgrado. Che pause eloquentissime! Che sorrisi accompagnati da tentennamenti espressivi del capo, quasi per dire: guarda un po' come si va di carriera! E intanto ella parlava di mille piccole cose, del tempo, della pioggia la quale non voleva piú smettere, della sorella con cui viveva e dei suoi vasi di fiori; ed io progettavo una passeggiata alla Certosa di Garignano e a un mio villino in quei pressi; ed ella rispondeva di no, specie pel villino di cui, diceva, era molto giusto diffidare. Voleva che il nostro piccolo sogno di amore non si allontanasse mai e poi mai dal ristretto orizzonte dei viali dei Boschetti e dei Giardini Pubblici. Fiore delicatino, sarebbe subito appassito a trapiantarlo in terreno e sotto clima diversi. E poi, m'imaginavo forse che quel sogno dovesse durare molto a lungo? Oibò! Mi sarei presto annoiato, stancato; già ella mi secondava unicamente per provarmi che aveva ragione a diffidare di piú larghe profferte e di dichiarazioni piú solenni. - Che brutta cosa è la vita! - conchiudeva sospirando. Ma un sorriso gli lampeggiava a un tratto sulle labbra e negli occhi, e pareva dicesse all'opposto: - Com'è bella cosí la vita! Ed io internamente esclamavo di conserva: - Divina! Divina!- Da quel giorno in poi ci rivedemmo regolarmente con un'assiduità che non diminuiva affatto il piacere di ogni nuova passeggiata. Parlavamo meno che mai di qualunque progetto sul nostro avvenire. Ma annoiarci? Stancarci? Non se ne scorgeva l'ombra di un indizio. E cosí la Cecilia diventava di grado in grado meno diffidente, piú espansiva, e le nostre passeggiate si prolungavano sui bastioni di Porta Nuova fino a Porta Garibaldi. Una volta rientrammo tardi per la via Principe Umberto e per la via Manzoni. La serata era stata dolce; un magnifico lume di luna faceva impallidire le fiammelle del gas; la gente andava attorno allegra, chiassosa, contenta di godersi, dopo molti giorni di pioggia, una vera serata primaverile. Avevamo tanto ciarlato e tanto riso anche noi come due veri ragazzi! Ed ora camminavamo muti, raccolti, governati intimamente da una tristezza soave e tenevamo, quasi senza avvedercene, la mano dell'una stretta in quella dell'altro con pressione tenera e casta, da nuovi sposini. Passando parecchie volte per la via Manzoni, innanzi alla casa ove abitavo, io le avevo sempre indicato con piacere i terrazzini delle mie stanze. - Son belle? - mi aveva chiesto una volta. - Perché non viene a vederle? - le avevo subito risposto. Ma ella aveva affrettato il passo, dicendo di no. Quella sera, come al solito, ci fermammo innanzi al portone e con un semplice accenno degli occhi le chiesi, per grazia, di salir su. Esitò sospettosa e la rassicurai collo sguardo. Forse, se avessi pronunciato una parola, ella non si sarebbe indotta a salire; ma quel linguaggio intimo, intenso, che pareva non potesse celare una menzogna perché veniva diritto dal cuore senza l'intermediario della voce, corrispondeva tanto bene in quel punto allo stato dell'animo nostro, ch'ella sorrise languidamente quasi le fosse impossibile opporre della resistenza e fece il primo passo per entrare. Montammo le scale lenti, a capo chino. Dal suo respiro indovinavo che il cuore doveva batterle con l'uguale violenza del mio. Come siamo sciocchi e ridicoli in certi momenti della vita! Entrò guardando attorno, quasi spaurita di aver osato venir su. Nel salotto non volle sedersi, e rimase in piedi accanto al tavolo di mezzo, con una mano appoggiata sur un album e tenendo l'altra sospesa come preparata a respingere un assalto. Io accendevo tutti i lumi e volevo perfino accendere la lumiera; il salotto doveva risplendere a festa pel gran ricevimento della serata. Poi me le appressai, battendo le mani dalla gioia, e le chiesi che gliene sembrava. - Bello! - esclamò un po' distratta. - Visiti ora le altre stanze - le dissi porgendole il braccio. - No - rispose - mi basta: andiamo via. - Cosí presto? - È già tardi. - Si segga qui un momentino - feci, tentando di prenderla per la mano onde attirarla presso una poltrona. - No! no! - esclamò con voce soffocata, incrociando le dita e mettendo tra lei e me il tavolo sovraccarico di gingilli chinesi. Quest'atto di paura mi fece capire che significasse lo stordimento e l'affluire del sangue al capo che provavo in quell'istante. Dovevano certamente lampeggiarmi negli occhi le mille cupidigie che l'influenza del ristretto ambiente del salotto mi aveva all'improvviso destate. Ebbi vergogna ch'ella sospettasse potessi io usarle violenza in casa mia; e benché mi passasse un istante per la mente l'idea che quella paura poteva anch'essere uno dei tanti gestri del pudor femminile i quali vogliono ordinariamente esser intesi all'incontrario, pure preferii di parer un po' semplice, e con un accento da cui traspariva l'emozione: - Cecilia! - dissi - non dimentichi di trovarsi in casa d'un gentiluomo! - Grazie - rispose stendendomi la mano e stringendo con riconoscenza la mia. - Ma ... - soggiunse - la prego, andiamo fuori! La precessi col lume. Ella non parve pienamente rassicurata che quando fu sul pianerottolo. Lí riprese il suo sorriso, la sua vivacità e scese le scale lesta come un augellino che saltelli fra i rami. Non aveva mentito. Scopersi per caso che un mio amico conosceva il marito, lei, la sua famiglia e lo interrogai destramente. Era di buona nascita e aveva ricevuto un'educazione raffinata. Indotti da improvvisi rovesci di fortuna, i parenti la sposarono a un ricco piú vecchio di lei, un uomo brutale e vizioso con cui poté stare insieme appena sei mesi. Morti i genitori, conviveva al presente con la sorella, vedova di un impiegato governativo. Il marito, intrigato in brutti affari di speculazioni equivoche, e ra fuggito in America; ma libera e senza lo spauracchio di una vendetta minacciatale spesso da quell'uomo brutale, ella non aveva mai dato nulla a ridire sulla sua condotta. - Però - conchiuse l'amico - non sarei niente sorpreso di sentire un giorno o l'altro che sia anch'essa caduta: ha troppo cuore quella donna ed ha troppo sofferto; e la fortezza del carattere non sempre riesce a scacciar via le tentazioni di fuori e quelle di dentro, che son le piú pericolose perché ne diffidiamo assai meno -. Di primo lancio, apprendendo che non aveva mentito, provai una grande allegrezza; indi a poco a poco cominciai a riflettere sulla serietà di quel che stavo per fare. Ma quando la rividi e mi parve che lo splendore della sua bellezza fosse quasi offuscato da un raggiare mite e soave proveniente dalla bontà affettuosa e rassegnata scoperta nel suo carattere, sentii divamparmi piú forte nel petto il fuoco dell'amore destatovi da lei. Fui piú dimesso, piú gentile, piú premuroso; la trattavo, senza volerlo, come una di quelle convalescenti che hanno bisogno di cure minute e continue, da prevenirne i desideri, da indovinarne i capricci; e rimanevo ammaliato anch'io dall'incanto che scaturiva da questa nuova fase della nostra relazione. Ella n'era commossa e nello stesso tempo atterrita. Ne capiva meglio di me le conseguenze e avrebbe voluto evitarle; ma si sentiva oramai raggirata da un vortice che la trascinava rapidamente via e che l'avr ebbe inghiottita. Avevamo fatto dei giardini pubblici il nostro nido: non ci passava per mente di allontanarci di lí. Vi eran dei viali che ci sembravano esclusivamente nostri, quasi parte di noi stessi: delle piante, delle aiuole, dei punti di veduta che, ammirati le cento volte, entravano come elementi necessari nella vita spirituale dei nostri cuori, e piú non sapevamo come poterne far di meno. Una sera che provammo ad andar diritto, fuori Porta Venezia, lungo il viale di Monza, non riuscivamo a raccapezzarci; provavamo q ualcosa che c'impacciava; non ci sentivamo piú intimi come nei giardini; e quando ci persuademmo di tornare indietro e trovammo chiusi i cancelli, girammo silenziosi attorno ad essi fermandoci ad osservare dietro le sbarre di ferro. Le ombre della notte erano dense; gli alberi stormivano leggermente; i zampilli tacevano; di tratto in tratto mostravasi tra le cime degli alberi qualche strappo di oscurità e un po' di cielo stellato faceva risaltare sur un fondo scuro e diafano i neri frastagli delle frondi. Avevamo il cuore oppresso; ci agitava un vago rimorso; da quel silenzio, da quell'ombre partivasi un misterioso pispiglio di rimproveri: chi sa se domani vi avremmo trovato nuovamente le nostre sensazioni di tutti i giorni! E ci fermavamo e ci stringevamo l'una al braccio dell'altro, quasi per rimpiangere con quella stretta una felicità perduta; ed io ricercavo la sua mano ed ella me l'abbandonava come suol farsi nei momenti di grave dolore. - Eccoci scacciati dal nostro piccolo paradiso terrestre! - disse la Cecilia con voce che tremava delle strane emozioni di quel momento. - Oh mia Eva! - risposi, pronunciando quest'esclamazione con una serietà e con uno slancio che in altra occasione mi sarebbero parsi ridicoli. E le girai un braccio attorno il busto, e stringendomela al cuore le impressi ripetutamente i primi baci sulla fronte. Ella taceva come venuta meno, agitata per tutto il corpo da un ineffabile fremito. Gustavamo una quasi fisica voluttà nell'indugiarci con arte inconscia un momento che tutti e due eravamo certi dovesse finalmente arrivare. La Cecilia diventava sempre piú triste: mi guardava con quella occhiate lunghe e piene di tenerezza cosí speciali alla donna, ove si leggeva: - Tu mi farai del male, ma per questo non posso né voglio amarti di meno! - Io evitavo ogni parola, ogni frase che potesse sembrare un accenno a quel che stava per accadere, e lasciavo che il caso, una piccola circostanza imprevista assumesse l'ufficio della gocciolina che fa traboccare la tazza già ricolma fino agli orli. Ma, come al solito, la donna fu piú schietta e nello stesso tempo piú coraggiosa. Un giorno che io parlavo dell'eternità del nostro amore: - T'inganni - mi disse; - esso non fu mai cosí prossimo a finire come in questi momenti che tu ti compiaci di crederlo eterno! - Perché mai? - chiesi stupito di sentirla parlare a quel modo. - Perché la prova - rispose mestamente - sarà infallibile e breve ... Ma è meglio non pensarci! - No, non può essere! - dissi. - Credi dunque che io mentisca? - È il cuore - replicò - è la natura che verrà meno! Siamo entrambi in buona fede. - Vedrai! - Oh! Vedrai! - Quel giorno i giardini erano tuttavia illuminati dal bel sole dei primi del giugno. Brillava, cantava attorno una gran festa di luce, di colori, di sussurri che faceva bollire il sangue ed eccitava le menti. In che maniera ci trovammo, da lí a poco, a salire le scale di casa mia? Non lo saprei dire davvero. Appena passato l'uscio, la strinsi tra le braccia e la baciai sulla bocca, esclamando: - È l'investitura del tuo regno! - Sorrise triste, incerta, ma non rispose nulla. Entrò in salotto con un incredibile abbattimento sul viso: le pupille nuotavano nelle lagrime che non si decidevano a venir giú. Io ero piú commosso di lei, ma in un'altra guisa. Le stavo attorno pregandola cogli sguardi di non mostrarsi cosí, e intanto l'aiutavo a cavarsi i guanti e il cappello. - Che sbaglio stiamo per fare - esclamò. E nello stesso punto abbandonossi singhiozzando tra le mie braccia e mi coperse di baci Il giorno appresso le mie stanze mi parvero un giardino improvvisamente fiorito sotto la bacchetta di una fata. Ella andava, veniva, sorrideva, mi interrogava, mi faceva delle proposte per disporre meglio certi mobili, mi parlava di tanti piccoli nulla che pel suo genio di donna avevano una grande importanza; ed io non sapevo persuadermi fosse quello il primo giorno ch'ella stesse con me ed abitasse la mia casa. C'era dappertutto un nuovo colorito vivace, chiassoso che mi abbagliava: c'era un profumo soavis simo che deliziava le narici e penetrava fino all'anima; c'era una musica paradisiaca, come di un'orchestra invisibile, destata dal voluttuoso fruscio della sua veste di seta: mi pareva strano, quasi impossibile che tutte queste cose non ci fossero mai state fino allora! Presi per mano, andavamo in salotto senza sapere perché; tornavamo addietro girando per le altre stanze, fermandoci innanzi un quadro, una stampa, un gingillo di porcellana, cosí spensierati, cosí contenti, cosí felici da non metter fuori nemmeno un'esclamazione per dircelo a vicenda con un semplice monosillabo. Parlavano piú efficacemente, piú profondamente gli sguardi; e quando essi non bastavano aiutavano i baci. Che baci, Signore Iddio! Che baci! La sua stanza da letto fu adornata come un piccolo santuario dell'amore: tutta cortine candidissime, tutta ombre e frescura, pareva, entrando, prendervi un bagno vivificante di giovinezza e di felicità. Come ero superbo di quel santuario cosí elegante e civettuolo, intorno al quale avevo speso tante cure meticolose quasi si fosse trattato di un'opera d'arte! E come ero beato di vederla il mattino uscire di lí avvolta nel suo bianco abbigliamento da toeletta, con la cuffiettina da notte che ratteneva a stent o i capelli disciolti, coi nastri di essa che le svolazzavano per le spalle e sul petto, e coi piedi entro le microscopiche pantofoline rosse che affasciavano di quando in quando la punta sotto gli orli della veste come due linguette di serpenti! Pensavo alle belle apparizioni delle dee antiche sognate dai greci e sentivo diffondersi per l'aria attorno un odore soavissimo come di cosa sovrumana. Per piú settimane i limiti del nostro quartierino segnarono per noi gli estremi confini del creato! Vi era intanto un che di austero in quel sogno di amore! Cecilia, benché si sforzasse di non mostrarmelo, provava in tanta felicità una tristezza che giornalmente diventava piú intima e piú profonda. I suoi occhi avevano spesso degli sguardi di un abbandono inesprimibile; sulle labbra le appariva frequente un sorriso che toccava il cuore come un rimpianto. Non era, lo capivo, a una felicità sparita che rivolgevasi quell'indefinito sospiro dell'anima; ma ad una felicità che le pareva fuggisse via di mano in mano che ella si accorgeva diventasse piú intensa. E ques to metteva nella nostra vita un'intonazione elevata, austera che me la rendeva piú cara. La mia stanza da studio fu adornata per suo consiglio di vasi di fiori. Rimpetto al tavolo dove leggevo o scrivevo, ella situò il suo tavolino di lacca intarsiato in madreperla, col cestino del lavoro e qualche libro; e sedeva lí sur una poltroncina bassa, covandomi coi suoi sguardi e coi suoi sorrisi pieni di un sentimento di premura quasi materna, di qualcosa insomma che trascendeva qualunque straordinaria espressione di amore. Spesso mi levavo dal tavolo, andavo a sedermele accosto per terra e, la testa sui suoi ginocchi, le domandavo con un gesto delle labbra la mia elemosina di baci. Altra volta era lei che mi s'avvicinava in punta di piedi per dirmi dolcemente all'orecchio - Maurizio, ti affatichi troppo! E mi distraeva dallo studio coll'accarezzarmi e col baciarmi. Ingrati come tutti gli amanti, non ritornammo piú ai giardini pubblici, non ne parlammo nemmeno una volta. Ella si chiuse in casa pari a quelle femmine di uccelli, che nel tempo della cova non abbandonano mai un solo momento il lor nido e vi son nutrite dal maschio che va in busca di preda. Non voleva piú veder nessuno, nemmeno la sorella; tutto il suo mondo era circoscritto in quelle nostre stanze; che le importava del resto? Mi pregava intanto di non sacrificarmi per lei. Amici, conoscenze, relazioni sociali, tutto dovevo coltivare come prima, senza mutare un'abitudine, senza venir meno a un dovere, senza mancare a una convenienza! ... Per carità, non la facessi accorta che mi fosse già diventata un impaccio! ... Pur troppo questo momento sarebbe arrivato! Che arrivasse almeno il piú tardi possibile! Tanta insistenza a dubitare dell'avvenire m'irritava un pochino e mi costringeva mio malgrado a riflettere. Ero forse mutato? No. Provavo dei sintomi di stanchezza e non mi accorgevo di mostrarli? Neppure per ombra. La Cecilia, conosciuta intimamente, superava perfino l'ideale che me n'ero formato al solo vederla. Ma quel suo lamento rassegnato mi feriva. In confuso capivo forse anch'io che qualcosa di ciò che ella prevedeva dovesse finalmente avvenire; ma m'illudevo volentieri e m'ostinavo a credere che invece non sarebbe punto avvenuto. - Perché sempre cosí triste? - le dissi un giorno. - Mi fai soffrire! - Io triste? - rispose sorridendo, ma in maniera che il sorriso ne smentiva le parole. - Non son mai stata tanto felice! - Temi sempre che il nostro amore ... - Chi ama teme! - m'interruppe. - Però tu mi hai giurato che il giorno in cui ti accorgeresti di non piú amarmi, saresti tanto generoso e leale da dirmelo subito. - E lo torno a giurare. - Del resto poi non aspetterò che tu me lo dica; lo saprò anche prima che tu stesso abbia coscienza del mutamento avvenuto. Con una donna che ama davvero è cosa inutile il mentire -. E sorrideva. Intanto le tremava la voce e aveva gli occhi imbambolati. Divenne, e mi pareva impossibile, piú tenera, piú espansiva. Sentivo nei suoi baci come un furore di affetto. Dalle sue carezze traspariva una smania, un tormento di volerne esaurire tutt'intera la dolcezza e uno scontento di non riuscire. Spesso mi chiamava a nome due, tre volte di seguito, unicamente pel piacere di pronunciare: "Maurizio! Maurizio!" - Matta! - le dicevo abbracciandola, e battendole sulla guancia colla punta delle dita, quasi per castigarla come una bimba cattiva. Insomma sembrava avesse fretta di godersi una felicità che vedeva dileguarsi a poco a poco. Io intanto vivevo tranquillo. Non scorgevo nei miei sentimenti e nei miei modi nessun mutamento. Naturalmente mi trovavo assai piú calmo; lo stato di esaltazione febbrile non poteva durare in perpetuo; ma quel godimento sereno, sempre uguale che vi era succeduto, mi sembrava piú dolce, piú intimo e per conseguenza piú duraturo. Le smanie della Cecilia, le sue tenerezze eccessive m'inquietavano stranamente, come un cattivo presagio. La rimproveravo con un accento che sembrava preghiera; e in seguito mi stizz ivo di non averla rimproverata con bastante energia; quella fiacchezza di rimproveri mi sembrava un delitto dalla mia parte. - Tu hai pianto! - le dissi un giorno, sorprendendola cogli occhi rossi e asciugati malamente in fretta nel sentirmi rientrare in casa. - No - rispose; - ho dormicchiato sulla poltrona; ho un po' di emicrania -. Mi appagai di quella risposta; ma rimasi inquieto fino a sera. Perché m'ero appagato? Non ero forse sicuro che la Cecilia aveva voluto nascondermi la verità? Sí, ella aveva pianto! E non mi era passato pel capo di dirle una parolina sola di conforto. Ingrato! Ma non trovavo il verso di riparare al mal fatto. Era un po' dimagrita da qualche tempo in qua, e un po' pallidina. Mi persuasi dopo alcuni giorni che doveva dormir poco. Una notte fui di un tratto svegliato da un fruscio di veste nella mia stanza. Apersi gli occhi con un senso d'indefinito terrore, e vidi la Cecilia accoccolata sul tappeto accanto al mio letto, coi capelli sciolti sulle spalle, colle mani aggrappate attorno un ginocchio, gli occhi spalancati, immobili sopra di me, le guance irrigate da lagrime che scorrevano silenziose. - Dio mio! Cecilia, che fai? - le dissi. E tentavo rimoverla da quella posizione attirandola per un braccio verso di me onde spingerla a levarsi. - Lasciami star qui! - rispose, - lasciami star qui, te ne prego! - Ma ti ammalerai! Sei fredda! Cecilia! - Lasciami stare! - Non rispondeva altro, né si asciugava le lagrime e continuava a guardarmi fisso. Mi posi a sedere sul letto accostandomi alla sponda, in modo di prendere la sua testa fra le mie mani, e cominciai a baciarla sui capelli, mormorando affettuosamente: - Cecilia mia! Levati su, per carità! Levati su! Parla che è stato?- Si alzò lentamente, come un'apparizione, ricacciò dietro le orecchie i capelli e mi tese le mani sorridendo sconsolata. I capelli nerissimi sciolti pel collo, l'accappatoio bianco, il pallore del viso, alla luce del lumino da notte che ardeva sul comodino entro un vaso di alabastro, davano a quella figura di donna un fascino sacro ... In quel momento ero superstizioso e credevo a qualcosa di un altro mondo. - Parla, che è stato? - tornai a balbettare. - Tutto è finito! - rispose con un filo di voce che parve quello di una moribonda. Poi, dopo una breve pausa, diessi a divorarmi dai baci per parecchi minuti di seguito in modo da togliermi il respiro e fuggí via. Rimasi fino al mattino cogli occhi fissati all'uscio da cui l'avevo vista sparire come un fantasma, incerto se avessi assistito ad una realtà o sognato a occhi aperti. Nella giornata non osai interrogarla sull'accaduto della notte. Ero sbalordito: credevo di aver ricevuto un gran colpo sulla testa e non mi stupivo di non riuscire a riordinar bene le idee. La vidi affaccendata a far dei preparativi che mi sorprendevano: ma non trovavo modo di aprir bocca per domandargliene ragione. Mi pareva che facesse un'operazione convenuta di accordo fra noi. Per un viaggio? Per una villeggiatura? Non lo rammentavo preciso; però quei preparativi erano tristi, mi stringevano il cuore, mi riempivano gli occhi di lagrime. Finalmente il mio spirito acquistò ad un tratto una sorprendente lucidità. Tutto era finito! Come? Cosí lentamente, cosí segretamente che non me n'ero accorto io medesimo; ma pur troppo tutto era finito! La Cecilia aveva detto una cosa che la mia mente non avrebbe saputo esprimere per cento ragioni, e sopratutto perché si rifiutava a credere quello che imaginava non avrebbe dovuto accadere. La Cecilia era calma. Ripiegava i suoi vestiti di mano in mano che li toglieva dall'armadio e li situava nelle casse. Ogni abito era per me un ricordo di un giorno di beatitudine, di un'ora felice, e a vederlo riporre, mi pareva assistere alla tumulazione di una particella del mio povero cuore ... Soffrivo un dolore compresso, un acuto limío, ma non avevo il coraggio di accostarmi a lei per dirle: - Rimani! Ricominciamo daccapo! - Non volevo mentire; non avrei neanche saputo. Sentivo tutta ora la stanchezza di una situazione irregolare, nella quale ci eravamo imbarcati io colla spensieratezza di un uomo appassionato, ella colla rassegnazione del sagrificio di una donna che ama! Pensavo con tristezza: - Perché non può durare? Perché non deve durare? - E la riflessione rispondeva tranquillamente: - È la legge! - Tornai dopo alcuni giorni ai giardini pubblici per rintracciarvi un passato che piú non trovavo dentro di me. Era la stessa stagione del nostro primo incontro, la primavera. Gli alberi ricchi di fronde; le aiuole verdi di erbe e qua e là fiorite; il sole, prossimo al tramonto, scherzava coi raggi fra le foglie agitate dai venticelli della sera. Ahimè! Quei viali, quelle frondi, quelle aiuole non mi dicevano piú nessuna delle mille celesti cose rivelatemi una volta. I zampilli mormoravano stupidamente monotoni; le acque dei laghetti e dei canali torbide, verdastre, riflettevano il cielo e gli oggetti in un tono di colorito che faceva schifo. Le rane, nascoste tra le foglie delle ninfee, gracidavano una musica degna del posto, che ora mi sembrava pretenzionoso e volgare. Gironzolai qua e là, facendo ogni sforzo per evocare una sensazione, un sentimento; ma invano. Il viale dei Boschetti mi parve tristo, lungo, basso da mozzare il fiato; dal canale accanto esalava un cattivo odore di borraccina che non avevo mai avvertito. E andando via rimuginavo: - Ma è dunque vero che questo mondo di fuori sia una mera creazione del nostro spirito, uno scherzo, un'illusione? Povera Cecilia! Tu non avresti mai creduto che perfino il mio rimpianto di amore sarebbe un giorno sfumato perdendosi fra le nebbie di un problema di metafisica!

La mia, aspetta che io abbia chiusi gli occhi ... E, per ora, ne ho poca voglia -. E cosí pure lo zio canonico: - Donde vuoi che li cavi i quattrini, se il governo si succhia tutto e c'è il gastigo di Dio sopra le campagne? - Cristina non badava all'insolita taciturnità del marito, a quei profondi sospiri che gli scappavano involontariamente, di tanto in tanto. Si confondeva coi vasi di fiori dei terrazzini che dovevano far bella mostra per la festa di san Michele e per la fiera, quando la processione, con gli stendardi delle confraternite, con la statua del santo su la barella, seguita dalla banda impennacchiata, sarebbe passata lí sotto, all'andata e al ritorno. Avrebbe invitati gli amici, ora che non aveva piú bisogno di scom odarsi per andare a godere la vista della processione in casa altrui. E pensava a pararsi, a lisciarsi, per godersi il fresco a vespro sul terrazzino centrale di quella bella casa nuova che tutti guardavano con invidia, e che attirava l'occhio dei passeggieri appena scendevano dalla corriera davanti la posta, lí di faccia, mentr'ella fingeva di non accorgersene, con quell'aria altiera che strappava l'ammirazione. - È la mano di Dio! - rispondeva inesorabilmente donna Momma a chi le parlava degli imbarazzi del figliuolo. - Non ha ubbidito a sua madre, ha voluto fare di suo capo ... Ben gli stia! - Enrico, a quelle parole, scrollava la testa: - La mano di Dio! - E, pur di far piacere alla sua Cristina, si sarebbe rovinato da capo, a occhi chiusi. Quel maraviglioso corpo di donna insensibile lo teneva ammaliato fortemente; lo riduceva un bambino. Con lei dimenticava subito ogni preoccupazione di interessi, ogni danno: - Oh, quel bronzo finalmente si animerà fra le mie braccia! - La notte però, quando le sue palpebre non volevano chiudersi neppure un momento e Cristina gli dormiva accanto, egli chinava ansiosamente l'orecchio sul petto di lei, scostandone con cautela, adagino adagino, la camicia: - Sí, il cuore batte regolarmente qui sotto ... Ma dunque? ... Ma dunque? E, una notte, un soffio di pazzia gli era passato sul viso: - Se avesse spaccato quel seno caldo e palpitante, per accertarsi che lí sotto c'era un cuore come in tutti gli altri! ... Aveva dovuto levarsi da letto, perché le dita gli si contorcevano. Se fosse restato un altro momentino, avrebbe conficcato in quelle belle carni, rabbiosamente le unghie, simile a una bestia feroce. E si era contentato di baciarle a fior di labbra, e scappar di camera. E, dopo, gli pareva di avere fatto un orribile sogno, e non voleva neppure rammentarselo. - Già, non sto bene. Ho la febbre -. Il dottore, a capo chino, picchiando leggermente con la punta della mazzettina sul pavimento, aspettava che la signora gli facesse qualche domanda mentre l'ammalato, assopito dalla violenza della febbre, con la testa voltata di fianco, le occhiaie livide, la bocca semiaperta sotto i biondi baffi arruffati e rovesciati in giú, respirava forte, sibilando; quasi avesse avuto dentro il petto un viluppo di cose vive che non voleva uscir fuori e gli zufolava ora in alto, nella gola, ora in basso, nello stomaco te so e gonfiante le coperte. La signora non diceva nulla, impassibile, mezza annoiata, si vedeva, di quella malattia che già durava da una settimana e non accennava a diminuire. Poi l'ammalato diè uno scossone, riaperse gli occhi intorbidati e, con le labbra riarse, esclamò: - Cristina - In ogni momento, quegli sguardi stanchi e smorti la cercavano, le si inchiodavano addosso quando l'avevano trovata, la seguivano per la camera in tutti i movimenti, la invocavano supplicanti, rivolti all'uscio donde era uscita, si rianimavano un istante appena la vedevano ricomparire: - Cristina! - Siamo qua, caro avvocato - disse il dottore. E ricominciò le sue osservazioni, tastandogli il polso, saggiando il calore della pelle su le guance e su la fronte, premendogli lo stomaco teso e rimbombante come un tamburo; e scrollava il capo, pensoso, voltando di tratto in tratto gli occhi verso la signora che, seduta da piè del letto, si guardava le belle mani quasi non avesse altro da fare. - Dottore, guaritemi presto ... per lei! - Il dottore gli rispondeva di sí col benevolo sorriso delle persone abituate agli spettacoli tristi. E cosí eran passati altri due giorni, nell'opprimente silenzio di quella camera, rotto soltanto dal fil di voce del malato che chiamava continuamente: - Cristina! - La voleva vicino, per stringerle la mano, per richiederla di un bacio, atteggiando a un bacio le labbra scottanti ... - Sta' tranquillo - gli rispondeva sua moglie. - Bada piuttosto a guarire, per la festa -. Ella pensava alla festa che già rumoreggiava nella piazza, dove rizzavano i palchetti per le bande musicali e piantavano gli ultimi pali per la illuminazione e pei festoni; e su quella fronte altiera e su quelle labbra tumide e sanguigne lampeggiava la grande stizza per la malattia di suo marito, sopraggiunta cosí male a proposito, quasi a posta per contrariarla! Merluzzo stava attorno al dottore, attendendolo a ogni visita giú nel portone, su le spine per le notizie: - Il Signore deve accordare cent'anni di vita a questo galantuomo! Ma se la disgrazia però ... - Una mattina il dottore gli disse: - L'avvocato va male. La signora, non sospetta niente; corro da donna Momma, per sgravio di coscienza -. Quegli allora montò i gradini di marmo a quattro a quattro: - Chiamatemi la signora - disse alla serva. E vedendo che la signora tardava, si era introdotto, in punta di piedi, fino all'uscio della camera del malato. Cristina si rizzò, fulminandolo dall'alto in basso con terribile sguardo. Colui però le accennò con la mano, umilmente, aspettando nell'altra stanza, togliendosi di capo il cappellaccio unto appena la vide venire, sebbene venisse repugnante. Si faceva piccino, le si strisciava dinanzi come un verme, movendo la testa di qua e di là, con occhi obliqui e voce compunta: - In questo momento non bado ai miei interessi ... In caso di disgrazia, sono garantito. Ma non è giusto che il signor avvocato si sia messo allo sbaraglio, con la grande spesa di questa casa per amore di lei; e, all'ultimo, debba venir la suocera ad afferrarla per un braccino e a metterla fuori dell'uscio ... - Cristina tese gli orecchi, fissandolo inquieta: - Ma ... mio marito non sta male. - Per l'altra vita sí, signora mia! - Quel viso bruno impallidí, quelle labbra sanguigne si scolorarono, quasi donna Momma l'avesse già afferrata per un braccino, e stesse per metterla fuori dell'uscio - Che posso fare? - Subitamente dimessa, con una preghiera negli occhi, si era accostata all'uomo dalla faccia smunta e butterata che poco prima le faceva schifo. - Senta, signora mia ... - E lasciò che colui la prendesse per una mano e la trascinasse nell'altra stanza piú appartata dove potevasi ragionare a quattr'occhi. - In caso di disgrazia, meglio aver da fare con costei, che con quel diavolo di donna Momma - pensava Merluzzo. Donna Momma, capitata mentre il notaio e i testimoni scendevano le scale, montò su col sangue alla testa, le lagrime agli occhi: - Come? Mio figlio muore e non me ne fate sapere niente? - E alla vista della nuora che, soddisfatta del testamento, teneva tra le mani una mano del moribondo: - Non te la godrai, no, la sua roba! - si mise a gridare - Enrico, Enrico! Figliuolo mio! - Il disgraziato cercava, con gli occhi che non ci vedevano piú, la figura adorata di sua moglie; e moveva le labbra senza poter piú pronunziare quel nome che doveva essere il suo estremo sospiro. Mineo, giugno 1884@. 1884.

La fisonomia, il suono della voce, i discorsi, i piú insignificanti gesti di lei prendono un carattere indefinibile di gioie negate, di d esideri perduti nel vuoto, di speranze morte in un istante come una bolla di sapone; e una gran parte della mia vita vi si vede meravigliosamente riassunta, senza che io abbia ancora saputo intendere per qual segreta attinenza. Chi era costei? Non lo so; ignoro perfino il suo nome. Nulla può farmi credere che sotto ci sia stato un qualche inganno. Manca il motivo di sospettarlo: sii giudice tu stesso. La vidi per la prima volta in Firenze, mentre scendeva da un legno entro il cortile della stazione della strada ferrata. Era vestita di nero, con rara semplicità e con piú rara eleganza. Una borsa di cuoio russo appesa al braccio, un ventaglio e un ombrellino, ecco tutto il suo bagaglio. Entrò sotto la tettoia con passo affrettato e s'indirizzò verso lo sportellino ove si distribuivano i biglietti. Io le tenni dietro, guardandola attentamente; mi era parsa agitata. Una donna giovane, bella (oh, immensamente bella!) che mostra di essere colpita da un sentimento vivo e penoso, che viaggia sola, senza bagagli renderebbe curioso anche un santo. Quando venne la sua volta ella chiese al distributore dei biglietti: - Uno per Genova, prima classe. - È piemontese - pensai, giudicando dall'accento. - Uno per Empoli ... prima classe - dissi io che m'ero introdotto dietro lei. E quel "prima classe" venne da me pronunziato un po' spiccatamente, sia perché la risoluzione della scelta era stata improvvisa (viaggio sempre in seconda), sia perché proprio volevo ch'ella se ne fosse accorta. Voltossi infatti, secondo il mio desiderio, a guardarmi un istante, poi si allontanò lestissima per entrare in sala. Avevo in pochi minuti raffazzonato un progetto: montare nel vagone ch'ella avrebbe scelto e tentar di appiccare conversazione con lei. Niente altro; un capriccio! Quelle poche lire di piú spese pel biglietto di prima classe mi sarebbero parse benissimo impiegate, se potevo entrare in discorso sul motivo del suo viaggio. La vera mia curiosità era questa: non dico la sola. I sentimenti del cuore umano son cosí complicati che quando ci mettiamo a sbrogliarli non si arriva a finire. Sotto la pellicola di uno se ne cela un altro e poi un altro; e quello che a prima vista tu diresti il piú semplice, talvolta all'esame risulta il piú complicato. Sotto la mia curiosità c'era naturalmente il piacere di poter contemplare per un'ora e cinque minuti il piú stupendo spettacolo della creazione, una bella donnina. Un paesaggio, con tramonto di sole o con chiaro di luna, è - non dico di no - qualcosa di magnifico a vedersi. Quando si ha quel vivo sentimento della natura che cogliendo ogni armonia, ogni perfezione di linee e di colori, ne traduce i segni materiali in sentimenti indefiniti; quando per una dolce illusione, che aggiunge incanto allo spettacolo, tu riversi addosso alla natura tutta la poesia del tuo cuore, mentre intanto ti figuri scaturisca da essa come da vergine ed inesauribile sorgente, è sempre la cosa inanimata che ti fa sentire e pensare; i tuoi sentimenti, le tue riflessioni son circoscritti e limitati nella loro stessa indeterminatezza. Una bella donnina invece è tutto l'infinito e, se fosse possibile, qualcosa di piú. Qui la poesia che t'inonda non è un'illusione. La realtà supera qualunque sforzo di fantasia; quel corpo vive e pensa. O trovami un limite, se ti riesce! Io mi tuffo in quest'immenso con una voluttà da non potersi dire; una voluttà sui generis, dove il sentimento dell'arte entra spessissimo per piú di tre quarti. Mi basta o un par di occhi, o un nasino, o una fronte, o una chioma di capelli, o due labbra, o una pozzettina del mento; giacché per via dell'umana imperfezione bisogna limitare anche l'immensità e contemplare tutto un po' alla volta. Che problemi da risolvere! Che scoperte da fare! Sotto quella bellissima forma c'è un sangue che bolle, un cuore che palpita; c'è un'anima! Che vuol dire quel sorriso degli occhi? Quel movimento delle labbra? Quelle linee della fronte e del naso? E la voce? E quella ilarità cosí cordiale? E quei passaggi improvvisi dall'allegria alla tristezza? E quella malinconia profonda, congenita che sta fitta tra le sopracciglia e la pupilla e ti commuove ogni fibra? Sotto la mia curiosità si nascondeva pure un altro sentimento. Hai dovuto osservarlo. Talvolta fra te e una bella donnina passa qualcosa che non vien giustificato dalla sua sola bellezza; molte belle donnine non producono simile effetto. Vuol dire (è la fisiologia che lo attesta) che tra i due organismi vi sian rapporti materiali di piú intima natura, rapporti d'identità. Ci si guarda, la prima volta, come se ci si fosse conosciuti non si sa dove né quando. Se si dà il caso di potersi avvicinare, la franca corrente dell'intimità prende l'aire subito subito. C'è una con fidenza reciproca, un abbandono che altrimenti rimarrebbero degli inesplicabili misteri; c'è, non di rado, la fatale necessità da cui nascono quelle invincibili e spesso tragiche passioni che gli sciocchi battezzano con una comoda parola: mattezza! Questo sentimento, che vo' chiamar fisiologico, io lo avevo già provato in quel punto Per dire piú esattamente ne avevo avuto una sensazione indistinta; il sentimento sviluppossi piú tardi, un quarto d'ora dopo. Nella sala di aspetto ella era andata a sedersi in fondo, presso il caffè. Con un gomito appoggiato al tavolo, colla faccia appoggiata alla mano, aveva preso un atteggiamento tristo e pensoso. Fissi gli occhi sul pavimento, guardava distratta, o piuttosto seguiva coll'occhio certi bizzarri segni che la sua destra tracciava idealmente sul marmo colla punta dell'ombrellino; ma il suo pensiero non era lí; se ne sarebbe accorto anche un cieco. Sedetti rimpetto a lei, e cominciai a farmi intanto un mondo di domande a cui dovevo trovar poi le risposte. Fantasticare è una delizia. Le si accostò Beppa la fioraia, e le porse un mazzettino di viole tricolori. L'incognita guardolla in viso come destata da un sogno, prese e pagò il mazzettino, poi ricadde quasi subito nel suo malinconico torpore, e le dita si diedero a sfogliare ad uno ad uno, con visibile sbadatezza, quei poveri fiori. In quest'atto non c'era, dalla sua parte, né rabbia né piacere; le dita agivano per conto loro. Infatti quando la campana dié il segno della partenza, ella si riscosse, guardò sorpresa i gambi rimastile in mano e le foglie sparse per terra, scosse la bella testina come per dire: oramai! E s'introdusse nell'imbarcatoio. Corse difilato al vagone piú lontano e, credo, per calcolo. C'era molta probabilità di rimaner sola. Lasciai che montasse. Ella si affrettava a chiudere lo sportello, quando mi presentai io colla valigetta alla mano. - Oh, scusi! - ella disse; e si trasse indietro e andò a sedersi al lato opposto. - Scusi me - risposi, esitando qualche istante a salire. - Faccia il suo comodo - ella soggiunse, vedendo che restavo incerto sul gradino. Entrai e dopo aver riposto in alto, sulla reticella, la valigia: - Son dolente - ripresi con una di quelle piccole ipocrisie a cui siamo tanto abituati - son dolente di averle forse tolto il piacere di rimaner sola. Ma la colpa non è mia. Quest'amministrazione delle strade ferrate va cosí male! I vagoni non son mai in numero sufficiente. - Un vagone per due! - osservò ella sorridendo; - ci si può contentare. Forse arrossii a questa ingenua risposta; certamente mi sentii mortificato. Il convoglio frattanto aveva preso le mosse. Come suol accadere in simili occasioni, il ragionare corse un po' intorno il bel tempo, le ferrovie, i viaggi, i compagni di viaggio; e a tal proposito le domandai di nuovo scusa dell'averla forse infastidita colla mia presenza - Però - continuai - le darò noia per poco: mi fermo ad Empoli. E lei? (Ipocrita domanda anche questa). - Ho preso un biglietto per Genova, tanto per avere uno scopo - ella rispose coll'involontaria loquacità delle persone afflitte da qualche sventura - Sento un gran bisogno di distrarmi: vorrei fuggire da me stessa. Già forse scenderò alla prima fermata e tornerò addietro Comincio a pentirmi della mia risoluzione. Ella è d'Empoli, credo? - No, di Firenze Ho preso in affitto una villa a due miglia da Empoli, un punto grazioso e appartato. Conto menarvi due mesetti di vita eremitica, coi miei libri, s'intende. Tornai ieri a bella posta. Ho svaligiato il Bocca, il Bettini, il Paggi di tutte le novità francesi ed inglesi; romanzi, filosofia, critica letteraria, scienze naturali, una trentina di volumi: ne ho per un pezzo. Quando si è costretti a una certa vitaccia, due mesi di solitudine riescono proprio un ristoro. Ne conviene? - Di certo. Ci ha giardino? - Sí, un piccolo aborto andato cosí a male che fa pietà. - Non le piacciono i fiori? - Moltissimo: però a coltivarli ci ho poca pazienza -. Parve pentita di essersi lasciata cogliere a questa conversazione. Si accostò allo sportello e diessi a guardare la campagna che fuggiva vertiginosa. Io guardavo lei. Era bella! Quel che si dice bella, cioè della bellezza squisita che Bacone scrisse non esser mai tale senza una certa stranezza di proporzioni. Nessuno l'avrebbe detta una statua greca! Fidia certamente non le avrebbe fatto né quel nasino, né quel mento ma non per questo avrebbe avuto ragione. Quelle piccole stonature erano il meglio di lei! C'erano anche le labbra, due labbra tumidette, rosee, sensualissime, di una freschezza portentosa. C'era, a dir vero, anche la mano, bianca, con dita p iccinine, con unghie perfette, non magra né pienotta, una cosa di mezzo da far strabiliare. Io però badavo poco a tutto questo. Ciò che piú attirava la mia curiosità era il carattere, era l'anima di quella donna intravveduta pel sottile spiraglio delle brevi parole: "Vorrei fuggire da me stessa!" Che dramma doveva agitarsi nel suo cuore! Le si leggeva negli occhi. - E quanto paga di fitto? - ella chiese rivolgendomisi improvvisamente. - Cento franchi il mese - risposi; - però ci ho quasi tutti i diritti di padrone sulle frutta e sugli ortaggi, quanto occorre per mio uso, si capisce. - Ed è lí? - Da venti giorni - Senza la famiglia? - Coi fittaiuoli del posto, bravissima gente che non mi dà punto noia; ci han tanto da fare! - Perdoni la mia curiosità - disse dopo un momento; - il caseggiato è ristretto? - Anzi vasto; otto stanze, oltre la cucina, e una magnifica terrazza; poi cantina, stalla, rimessa, roba inutile per me -. Stette un momento a capo chino, forse per raccogliere meglio i suoi pensieri; poi, quasi avesse (secondo quel che le frullava in testa) risoluto di no, tornò ad affacciarsi allo sportello e a guardare la campagna, come se nulla fosse stato. Però io avevo cominciato a notare in lei una commozione nervosa che si accresceva di momento in momento. Quando le rivolgevo la parola, ella mi guardava in viso con una cert'aria da parere volesse far dei confronti, o rammentare qualcosa e aver dispetto di rammentare. La mia voce doveva particolarmente produrle un'impressione assai strana. Mentre parlavo, ella stava ad ascoltare come se avesse voluto udire qualche suono lontano, o pure scrutar qualcosa nel suono di essa. Io mi smarrivo tra mille supposizioni, ma provavo intanto un gran piacere. Mi ero accorto (ci voleva poco) che non solamente non le riuscivo antipatico, ma che già si era tra me e lei sviluppato quel sentimento fisiologico di sopra accennato. Le confidenze potevano, dovevano venir fuori; tutto dipendeva dal sapervele attrarre. Bene spese quelle poche lire! Avevo avuto una grande ispirazione, un vero colpo di genio! Io, si vede, non stavo a far il tirato nel lodarmi da me stesso! - E, scusi, Dio mio! sono troppo importuna - fec'ella dopo un lungo intervallo di silenzio, durante il quale parve fosse tornata sopra la sua risoluzione negativa ed avesse mutato parere. - Dica, mi fa un regalo. - Sarebbe - continuò esitando - nel caso di cedere una parte, quella che gli farebbe meno comodo, del suo caseggiato? - A dir vero io non mi attendevo una simile domanda e la guardai fisso negli occhi. - Ma, a seconda - risposi - Vi son delle persone alle quali non si può mai dire di no. - A una sconosciuta non la cederebbe dunque? - Perdoni, signora! Possono esservi delle sconosciute che si conoscono subito meglio di una vecchia conoscenza. - È un epigramma? - Me ne guarderei bene; né un complimento. - Sia pure. La stranezza della mia situazione in questo momento potrebbe espormi anche a peggio. Che pensa ella di me? - Oh, nulla di male, stia certa! - Non dice la verità. - Dico quello che penso, ma non credo d'ingannarmi. - Non saprei significare che sorta di sentimento io provassi intravvedendo la possibilità di avere la bella incognita qual ospite della mia villa. C'era, non lo nego, da mettersi in sospetto ad una simile proposizione fatta cosí alla lesta. Ma quella gentile figura proprio impediva si pensasse male di lei Chè! Non era un'avventuriera; si vedeva da lontano un miglio! Doveva però essere o una donna molto strana e capricciosa, o una grande sventurata. Queste due ipotesi lusingavano la mia vanità. Della curiosità non è a parlare! Io già ho avuto sempre un gran gusto per le cose impreviste. C'è tanta poesia! Anche quando si arriva, dopo molti stenti, al fondo e si pesca un granchio, a dir poco. L'imprevisto anzi è il mio forte. Figurati dunque se tremavo che la bella donna non si pentisse la seconda volta! Mi pareva un gran peccato. - Non ardisco offerirle tutta la villa, per quel che posso disporne - diss'io vedendo ch'ella taceva tra irresoluta e peritosa; - ma se nessun'altra considerazione la ritenesse, mi farebbe veramente dispiacere a non accettare. - Accetto - rispose con un impeto di franchezza, che mi piacque tanto - Ma, ad un patto! - soggiunse - Ella mi cederà metà, un quarto del caseggiato, come meglio le giova, ricevendosi anticipatamente la parte del fitto che mi spetta. - Questo poi no - feci io un po' piccato - Tanto, il fitto non è piú da pagare, e, solo o con altri, val lo stesso. Parve offesa delle mie parole, e un po' indispettita rispose: - Non se ne parli piú. Già era una follia! - Se questa mia sciocchezza - mi affrettai a soggiungere - dovesse impedirle di accettare, la ritenga per non detta; pagherà. - È una follia! - ripetè l'incognita come parlando a se stessa. Il convoglio si fermava. - Empoli, chi scende! Empoli, chi scende! - urlavano due o tre impiegati della ferrovia - Io m'impossesso del suo bagaglio - dissi arditamente, prendendo l'ombrellino e la borsa di lei - No, no - rispose con un accento languido e irresoluto. Intanto ero saltato fuori del vagone e le stendevo la mano. - Che penserà di me? - disse fermata sullo sportello per guardarmi in viso, accompagnando queste parole con un'espressione di dolore profondo che il rossore delle sue guance modificava un pochino. - Tutto il bene possibile - risposi; e le diedi braccio. Non credevo a me stesso. Mi pareva di aver vinto la prima battaglia del mondo. I viaggiatori che scesero ad Empoli e ci squadravano curiosi già li scambiavo preciso con dei moscerini. Non credevo a me stesso, e la tenevo stretta sotto il braccio perché avevo paura del treno che non si decideva a ripartire. Che animale doveva essere quel capo-convoglio! Una fermata di un secolo! Volevo fare un ricorso. Quando udii il fischio della locomotiva e vidi il convoglio volar diritto fumando e strepitando, trassi fu ori un sospirone che la fece sorridere; certamente aveva capito. Mezz'ora dopo un fiàcchere ci depositava innanzi il cancello della villa, senza che nessuno di noi due avesse, dalla stazione fino a lí, pronunziato una sillaba sola. Pure, che vertigine avevo in testa! Quanti milioni di cose non mi eran passati pel capo; milioni, non esagero. Lungo il piccolo viale che dal cancello conduceva diritto al caseggiato: - È curiosa - dissi - che nessuno di noi abbia cercato di sapere il nome dell'altro. Mi presenterò da me, Oreste Lastrucci. Posso ora conoscere chi sia la mia gentile pigionale, giacché si vuole cosí? La sua fronte e gli sguardi si annuvolarono per qualche secondo. Arrestossi colla testa bassa e mormorò: - Non ci avevo badato! - Poi scosse una o due volte il capo e si rivolse a me sorridente dicendo: - Che importa il mio vero nome? Me ne dia uno a suo piacere. Varrà lo stesso. Si ricorda? Giulietta diceva a Romeo: What's in a name? That which we call a rose, By any other name would smell as sweet. - È vero - risposi subito - Però talvolta tra un nome e una persona c'è tale misteriosa relazione da sembrare che quella non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti. Dargliene uno diverso spesso equivale a torle qualcosa di essenziale - Non è il caso. Qui la persona è talmente insignificante - ella riprese sorridendo sempre con grazia infinita, che questo o quel nome non importerà nulla. Mi ribattezzi dunque ... Sarà una stranezza di piú - Fasma! Un nome greco - dissi improvvisamente. - E significa? - Apparizione, fantasma! Le torna a capello. Non è nuovo; il povero Dall'Ongaro intitolò con esso uno dei suoi piú gentili lavorini di soggetto greco. - Questo volevo dire - ella soggiunse; - ne avevo un'idea confusa. E sia Fasma! - continuò; - mi piace. Cosí Oreste non stona. O i contadini che diranno? - Questa interrogazione mi scosse. La moglie del fittaiuolo che ci aveva scoperti quando eravamo a mezzo viale, ci veniva incontro insieme alla figliolina, una bimba di sette anni. - Passerà per mia sorella - diss'io alla Fasma; - non bisogna dar campo a sospettare. I contadini son la razza piú maligna del mondo. - Anche questa! - E permetterà che innanzi a loro ci diamo familiarmente del tu. - Non se ne può far di meno - sclamò ella ridendo di cuore: - un passo obbliga all'altro - La bimba volle caricarsi di una parte del nostro bagaglio; la fittaiuola mi tolse di mano la valigetta che pesava un pochino perché zeppa di libri, ed entrammo in casa. - Prendi tutte le stanze che ti occorrono, le dissi (la fittaiuola era presente); due son sufficienti per me. Queste qui son le piú libere e le meglio esposte. - Basta - rispose; - farò la scelta piú tardi -. Non potè trattenersi dal ridere - Ed ora pensiamo alla colazione - ripresi; - è la cosa che in questo punto mi pare importi il piú. - Ci ho già pensato - disse la fittaiuola; - se voglion vedere ...- Infatti poco dopo eravamo seduti l'una rimpetto all'altro, con un monte di frutta, del burro, del cacio e delle uova davanti a noi. La Fasma aveva perduto un po' di quella profonda tristezza che pareva la tormentasse. Non già che a volte non rimanesse tutt'assorta nei suoi pensieri e quasi straniera a quanto la circondava; però era ad intervalli che di mano in mano si andavan facendo piú brevi. A tavola parlammo poco, ma con schietto buon umore. Avevo un magnifico appetito. Mi accade sempre cosí; quando son lieto divoro. E in quel momento ero piú che lieto, felice. Di che? Di nulla; di vedermela lí innanzi, di sentirla parlare, di riflettere che quella notte ella avrebbe dormito sotto il mio stesso tetto! Honni soit qui mal y pense! Terminata la colazione, si affrettò a darmi innanzi tutto i venticinque franchi del suo fitto di un quarto di villa, piú altri cencinquanta pel vitto: io dovevo pensare a ogni cosa. Non ricusai, né rifiatai, perché sapevo di farle dispiacere. Dopo questo scendemmo a girare un po' pei campi. Voleva, come si dice, fare una ricognizione dei luoghi. - Ella non smetterà le sue abitudini - mi disse per le scale; - mi farebbe pentire troppo presto di averla disturbata. - In campagna - risposi - abitudini non se ne hanno. Si fa quel che piú piace. Gli alberi e le siepi sono d'una tolleranza e d'una discrezione a tutta prova -. Ed infilammo una viottola. La campagna era inondata d'una luce diversa e migliore di quella del sole? Io credo di sí. La bella figurina doveva senza dubbio proiettare invisibili raggi che mutavano la faccia delle cose. Le infinite e leggiere gradazioni del verde; le tinte vivaci dei fiori che brizzolavano qua e là, in tanti toni, l'aspetto fresco e vegeto dei campi; i susurri delle frondi; i mormorii delle acque correnti pei rigagnoli e zampillanti dai getti di una piccola vasca; i pigolii malinconici, i gorgheggi chiassosi degli ucc elletti affaccendati alla cova su pei rami degli alberi; il profumo che imbalsama l'aria; le mille intime voci della natura sprigionantesi da ogni parte con impeto folleggiante ai bei ultimi giorni del maggio; ogni cosa aveva, per virtú di lei, acquistato un sentimento nuovo, un soffio di vita piú allegra. Le donne son maghe senza volerlo. Figurati lei! Pure la Fasma appariva trista e quasi stizzita di quelle correnti di gioia che la indifferente Natura emetteva, senza curarsi d'altri, per proprio conto. Che so? Quel paesaggio non slontanavasi forse abbastanza pei suoi sguardi e pel suo cuore. Forse il posto non aveva un aspetto tanto diverso da qualch'altro che ella avrebbe voluto dimenticare. E cosí, mentre il piede s'inoltrava lesto, potrei dire affrettato, lungo le viottole o fra l'erba, la sua anima fuggiva, fuggiva chi sa dove e parlava agitata con s e stessa. Le labbra infatti le si atteggiavano di quando in quando a un che da non potersi dire né un sorriso, né un'espressione di rabbia o di sdegno: qualcosa di straziante, d'immensamente doloroso; un pianto (sicuro, era proprio cosí) un pianto dell'anima. E intanto gli occhi brillavano a volte, lampeggiavano, parlavano quasi allo inverso. Io la guardavo stupito - Strana la vita! - esclamò ella ad un tratto - Due che poche ore fa erano perfettamente sconosciuti l'uno all'altra, si trovano ora vicini, ospiti della medesima casa, in via di diventare forse amici. Domani la fatalità che gli ha riuniti li sbalzerà di nuovo per lati opposti, e verrà dí che torneranno ad incontrarsi senza nemmen riconoscersi. - Impossibile questo! - risposi. - La vita ha cose peggiori! - soggiunse tentennando il capo. - Badi qui; mi dia la mano. Eravamo all'orlo di un ciglioncino ch'ella voleva saltare. La sua manina fremette nella mia mano come colta da brividi, e la lasciò quasi subito. In questo punto due farfalle ci passarono davanti l'una inseguendo l'altra. Ella fermossi e, proprio stizzita, diessi a sparire coll'ombrellino quella che pareva inseguisse, il maschio probabilmente. - Rissa di amore! - diss'io. - Dica violenze - rispose, - violenze del piú forte. - S'intende, l'amore è una divina violenza: per questo è una gran cosa -. Guardommi con tal cipiglio che non potrò mai dimenticare. Parve meravigliata osassi ragionar dell'amore; me ne rimproverava cogli occhi. - Ho detto male? - richiesi. - No; ... che vuole che io ne sappia! - rispose correggendo coll'esitazione quel suo primo slancio - Solamente ... - Prego, parli - Solamente (badi, ve', è una mia opinione) io credo che gli uomini non abbiano diritto a discorrere d'un sentimento che non possono mai provare. - Non possono? - Certo. L'uomo non ama, fa all'amore. - È una distinzione troppo sottile - Ma verissima. Noi donne ... - Giusto quel che volevo domandarle! - Noi donne invece, una sola volta in vita nostra (non piú) noi amiamo davvero. Pel resto, noi non si fa mica all'amore; viviamo dei bricioli di quel primo banchetto della vita. Se gli uomini se ne persuadessero! Già spesso non ce ne persuadiamo neanco noi stesse. - È la teorica del primo amore portata all'eccesso - osservai ridendo. - S'inganna - rispose - Ciò che comunemente dicesi il primo amore è una sensazione quasi animale, istintiva, e può indefinitivamente prolungarsi per diversi stadi della vita. Frequente è il caso che parecchi uomini nel cuor d'una donna rimangano, l'un dopo l'altro, sempre un unico primo amore. Creda, la donna è capace del vero amore soltanto nella pienezza del suo sviluppo, dai vent'anni ai venticinque. - Quanta poesia ella mi ammazza! - E c'è peggio - continuò con arguta malizia - Non tutte le donne possono amare: fra cento, appena due! - Qui bisogna intendersi - dissi - sul preciso significato che si dà alla parola. - È un significato che non si spiega, s'intuisce. Noi donne lo comprendiamo quasi tutte. Che discorsi, non è vero? Mentre si ha dinanzi gli occhi una cosí bella campagna, con questa magnifica giornata, con quell'usignuolo tra i pioppi che gorgheggia divinamente! - E corse, mutata d'un subito, alla fonte lí presso. Il capelvenere rivestiva per intero la rozza muratura fatta a proteggere l'acqua dalle frane della collina; gli acanti vi crescevano rigogliosissimi alla base colle loro larghissime foglie frastagliate, riverse a guisa di capitello; e i lati venivano protetti da una siepetta di rovi fra cui si erano intrecciate certe campanule a fiori bianchi e grandi che non so come vengan chiamate dai naturalisti, né mi importa saperlo. - Com'è bello qui! - disse; e tuffò nell'acqua le mani per spruzzarsi un pochino il viso con bizzarria fanciullesca. Avessi tu visto che incanto! Che capolavoro di quadretto non avrebbe potuto farsi con quel piccolo sfondo verdeggiante e pieno di ombra e la sua gentile personcina ritta in piedi innanzi la fonte, cogli occhi chiusi e il capo riversato all'indietro, nell'atto che riceveva la fresca e cara impressione dell'acqua spruzzata! Meravigliato piú che curioso, fermato a dieci passi di distanza, io domandavo intanto a me stesso: - Ma chi è costei che cita Shakespeare in inglese, ragiona dell'amore con tanta sottigliezza, e prende in affitto il quarto d'una villa dove sa doversi trovare sola a solo con un uomo ch'ella ha visto ora per la prima volta? Non sapevo che rispondere. Vi era tanta semplicità, tanta franchezza in quel suo fare, dirò anche tanta imprevidenza, che invece di sospettare qualcosa intorno a lei, io provavo verso la b ella creatura un sentimento di rispetto e di tenerezza quasi protettrice, e la ringraziavo in cuor mio. Questo sentimento somigliava l'impressione provata alla lettura di una di quelle serene e meravigliose pagine che Omero fra gli antichi e Goethe fra i moderni ebbero, quasi soli, la fortuna di poter scrivere: né piú, né meno. Infatti, per una strana associazione d'idee, io mi sentivo mulinare nel cervello: Come vider venire alla lor volta La bellissima donna i vecchion gravi Alla torre seduti ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... Essa all'aspetto Veracemente è Dea! E ci mancava poco non mi stizzissi di quella pedanteria fuori stagione. - Fuori proposito, anzi! - riflettevo alle dieci di sera, quando ella si era già ritirata nelle sue stanze, ed io appoggiato sul davanzale della finestra, col sigaro acceso, riandavo i menomi avvenimenti della giornata. Poco prima avevo visto lí, sullo spianato, la famiglia dei fittaiuoli mangiar la minestra all'aria aperta; gli avevo sentiti calmi e alla buona ragionare di bestiame, di agli, di polli, di grano turco, di una piccola tirchieria del padrone, di tutto il lor mondo. E osservando la massaia belloccia un tantino, pulita, di un carattere mite e sottomesso, ero stato naturalmente tratto a confrontare le due vite, quella della Fasma e di lei, le due anime, i due cuori. Che differenza! Che sproporzione! E le mie sim patie non erano mica per la massaia, la donna all'antica, ma per la nervosa, per l'agitata, per la tormentatissima Fasma. Ecco perché dicevo che i versi di Omero mi eran venuti in mente a sproposito. Tra Elena e Fasma non ci scorgevo rapporto di sorta e irriverentemente concludevo: - Elena! Elena! È la massaia! - Suonava la mezzanotte all'orologio di Empoli che nel silenzio notturno si sentiva benissimo fin là. Quei cento tocchi picchiati e ripicchiati cosí solennemente che dominavano cupi e lontani lo stormire delle frondi, il canto di alcuni grilli e il gracidare di qualche rana, accrebbero il senso d'indefinita malinconia e di sconforto, la quasi voglia di piangere che mi opprimeva in quel punto. Quel fantasma vivente ne aveva già richiamati due altri che da un pezzo non mi si erano piú presentati alla memoria, o, se si erano, n'erano stati facilmente scacciati via. Ricordi lontani e recenti, immenso tesoro di aurei sogni, di grandiose speranze, di desideri ardentissimi, di dolcezze, di possessi, di dolori, di smanie, di disperazioni, quanto aveva insomma influito piú che ogni altra cosa sulla mia vita, e modificato l'anima e il cuore con indelebile stampo; tutto mi si era rimescolato nella memoria dietro quei due fantasmi di donne! - E questo qui? - mi domandavo inquieto E tornavo a fantasticare, a creare colla rapidità dell'elettrico dei veri romanzi onde spiegarmi l'enimma della giovane donna che forse, certo fantasticava alla sua volta tre stanze piú in là della mia - L'amerò? - insistevo finalmente a domandarmi - l'amerò? E facevo e rifacevo un rigoroso esame di coscienza; però conchiudevo sempre di no. Non sapevo capirlo; ma c'era un che da cui mi veniva interdetto il sentimento preciso dell'amore: una forza repulsiva, un fluido misterioso (benefico o malefico, chi avrebbe potuto giudicarlo?) che mi teneva, come suol dirsi, a rispettosa distanza da lei. Ed io ora mi consolavo di questo, ora me ne sentivo un po' offeso; infine avevo trent'anni! Il giorno dopo ella volle dei libri. Li scelse da se stessa, l'Ernesto Maltravers del Bulwer, i Nouveaux contes fantastiques del Poe, tradotti dal Baudelaire (due libri agli antipodi l'uno dall'altro) e stette quasi tutta la giornata nella sua stanza, ove io non osai andare a disturbarla. Però dal finestrino di un piccolo andito potei, non visto, osservarla a lungo: leggeva a sbalzi. Sdraiata sur una poltrona, si lasciò due o tre volte cadere il libro di mano e non lo riprese che dopo un pezzo. Era il libro che slanciava quell'anima irrequieta dietro le visioni del passato, o incontro alle incerte nebbie dell'avvenire: o non aveva esso tanta potenza da impossessarsi completamente dell'attenzione di un cuore rigoglioso e travagliato dalla stessa sua forza, che pur tentava forse dimenticare il passato, forse dominare le fatalità del futuro? A volte ella si levava, con uno scatto, da sedere; passeggiava su e giú per la stanza, ora rapida, ora lenta; poi si fermava colla testa bassa, colle braccia alzate in avanti e le mani aperte, quasi avesse voluto impedire a certi ricordi di accostarsi alla sua memoria, e restava in quell'atteggiamento per piú secondi; indi rimettevasi a leggere. Verso le quattro pomeridiane scese in giardino e diessi a ripulire i fiori, ad annaffiarli, facendosi aiutare dalla fittaiuola. Mi affrettai a raggiungerla e fui molto sorpreso di non trovarle sul volto nessuna traccia di quell'agitazione interna della quale ero stato spettatore (per quanto dalle umane azioni si possa indurre con certezza i sentimenti e i pensieri). La sua fronte era serena, d'una serenità verginale, illuminata dal tranquillo splendore della pupilla e da quello del suo sorriso; giacché il suo sorriso ora splendeva ed ora scintillava: almeno a me mi faceva quest'effetto. Vi era nel suo gesto una calma gentile; e dal suono della sua voce erano affatto sparite quelle vibrazioni tremule, imperiose, che davano alla parola un'espressione altiera, imponente, efficacissima. - Questi poveri fiori! - disse vedendomi: - perché farli nascere e poi lasciarli morire di sfinimento? - Crede ella che si accorgano di soffrire? - risposi. (La fittaiuola si era allontanata per riempire d'acqua l'annaffiatoio) - Non lo so - replicò - ma infine non mi pare una bella cosa. Io però ritengo che tutto soffra nella natura quando gli vien meno ciò che dovrebb'essere il suo alimento, il suo sostegno; l'anima, come il sasso: non vive ogni cosa? - Sí; ma non ogni cosa ha la coscienza di vivere. - Soffre meno forse; ma noi, per questo, restiamo meno cattivi? E continuò attentamente, con pazienza proprio materna, a levar via qua delle foglione riarse, là delle erbucce parassite; qua a smuovere la terra, lí ad accostarla piú al ceppo, rimondando, ripulendo, strappando; e i fiori pareva la ringraziassero quando il venticello gli agitava. - Sa? - riprese dopo un pezzetto; - ho dovuto dire una bugia. - Grossa? - feci io, sorridendo. - Piccina, a dire il vero. La fittaiuola mi ha domandato come non avessi, benché sua sorella, l'accento toscano. - Va'! Le bugie hanno le gambe corte. Ed ella ha risposto? - Lo supponga. Sono stata lungamente fuori casa, maritata in Piemonte. Son vedova adesso. - Una bugia veritiera? - Ecco! - esclamò con gesto di rimprovero - lei rompe i patti. Ieri sera si fissò che nessuno dei due dovesse chiedere all'altro indicazioni di sorta sul passato; dovremmo prenderci per quel che si apparisce, due piovuti dalle nuvole. - Ha ragione. Mi mordo la lingua -. Quest'incidente bastò per turbarla. Lasciò in asso i suoi fiori, portò una mano alla fronte e voltommi le spalle avviandosi a manca, pel piccolo viale delle acacie. Fatti alcuni passi però si rivolse addietro e mi chiese: - Non vuoi venire? Passarono cosí parecchi giorni senza che il mistero di quella donna si chiarisse per nulla, ma non senza che la nostra famigliarità non divenisse piú intima e piú espansiva C'era in quel carattere un po' del giovinotto e del virile, mescolato a quanto di piú finamente femminile possa trovarsi in una donna; ed io a poco a poco avevo, conversando, perduto il ritegno di toccare con lei certi soggetti scabrosi. Ci mettevo, è vero, tutta la delicatezza, tutto il pudore possibili; ma ritenevo anticipatamente ch'ella non avrebbe mai fatto la contegnosa fuori proposito. Mi pareva all'inverso, che il suo carattere elevato la dovesse difendere da qualunque bassezza. Infatti non c'è che le donne nobili di cuore e di mente per non arrossire di nulla in conversazione e tollerar quasi tutto. Dopo due settimane ella veniva piú frequente nella mia stanza. Era un raggio di sole! Un nugolo di sentimenti vaghi ed incerti, di desideri confusi ed inestricabili, di dolcezze indovinate e non assaporate, le quali si eran lasciate dietro la smania di gustarle fino all'ultima goccia, turbinava, turbinava a guisa del pulviscolo dell'aria in quel soavissimo raggio, ed io me ne sentivo rischiarato fin dentro i piú ciechi nascondigli del cuore. Ella si affacciava sorridente, esitando; spesso rimaneva a lungo fermata sull'uscio e poi si slanciava nella stanza con un piccolo salto. Voleva non mi levassi da sedere, né lasciassi l'occupazione che avevo per le mani; ed ora veniva a guardarmi a scrivere o a leggere e si appoggiava alla spalliera della mia sedia per dar un'occhiata al libro in lettura; ora andava attorno lesta come una rondine, mettendo in assetto ogni cosa, garrendomi del disordine seminato dappertutto. - Facciamo un po' gli uffici di buona sorella! - diceva ridendo; e la luce del suo sorriso, direi anche il profumo della sua persona restava impresso e attaccato su qualunque oggetto ella toccasse. L'orma del suo piedino mi pareva vederla luccicare sul pavimento come del fosforo stropicciato. - Sa - le dissi un giorno - che io finirò coll'innamorarmi pazzamente di lei? - Non ha ancor cominciato? - rispose; - sarà troppo tardi! - Per amare non è mai tardi - replicai un tantino punto sul vivo dal suo tono frizzante. - Faccia presto, per carità! - continuò sullo stesso tono. - Ma è proprio cattiva! - esclamai. - Anzi troppo buona, mi pare. Cred'ella d'avermi fatto un bel complimento dicendomi che finirà coll'innamorarsi pazzamente di me? Quando un uomo non s'innamora, cioè, non sente la voglia di far all'amore a prima vista; quando può rivedere una donna, parlarle impunemente per due settimane e dirle infine scherzando: "Quasi quasi commetterei la sciocchezza di far all'amore con lei!" pretenderebbe forse che la donna gli dovesse rispondere: "Oh, grazie!" e gettarglisi al collo? Siete capaci anche di questo voial tri! Si metta in collera, via! - Rimasi di stucco a quest'uscita. Ella si accorse del mio imbarazzo, e mutando intonazione, mentre rassettava sul tavolo le carte ed i libri, continuò senza guardarmi: - Stia tranquillo; non mi amerà! - E la sua voce tremava alquanto. - Chi glielo assicura? - feci io, rinfrancato. - Il mio cuore - rispose - Se non avessi questa certezza, capisce?, non rimarrei qui -. La sua gaiezza sparí ad un tratto, e poco dopo ella andò via dalla mia stanza, piú che stizzita, turbata. Quai ricordi, quai dolori, quali passioni le avevo destati nell'anima con quelle parole? N'ero tanto piú dispiaciuto, quanto piú convenivo ch'ella avesse ragione. Non l'amavo; era cosa certa: non mi sentivo tratto ad amarla. Avevo sbadatamente parlato a quel modo. Ella mi piaceva immensamente, mi inspirava un rispetto illimitato, misto ad un senso di compassione profonda: qualcosa che so io? di religioso, di superstizioso, di fanciullesco; amore, no di sicuro. Perché? Ecco il problema che non mi era riuscit o di risolvere, e me lo ero messo innanzi piú volte. Avrei dato un occhio perché fosse stato diversamente. Vanità, sciocchezza o altro, mi attristavo di non amarla e di non esserne riamato. In quel cuore (non occorreva un gran sforzo) scorgevo sepolti inestimabili tesori di affetto, d'ingenuità, di sacrifici, di pudiche debolezze, di care fantasie, di nobili sdegni, di tenerezze quasi violente; non mancava uno solo di tutti i divini elementi onde la natura e la civiltà traggono fuori la sublime creazione de lla donna moderna: e mi pareva di doversi ritenere per fortunato davvero chi avesse potuto dire con piena coscienza: "Quel cuore mi appartiene!" Perché non dovevo esser io? E se non l'amavo, non avrei potuto amarla fra qualche giorno, fra una settimana, ed esserne riamato? Il cuore intanto, testardo! rispondeva sempre di no. Ella però dimostrò, nei giorni appresso, voler quasi compensarmi di questa privazione con un mondo di gentilezze, di attenzioni cortesissime e cordiali che avevano il lor pregio e soddisfacevano in alcuni momenti le piú strane esigenze dell'amor proprio. Potei sorprendere nei suoi sguardi, nel suo accento, nei suoi discorsi certi lampi di abbandono inusitati, involontari, che mi diedero i brividi. Giacché a volte, curiosa questa! provavo paura di essere amato da lei. La sua forza mi avrebbe sopraffatto; non sarei piú rimasto lo stesso! E rifuggivo da un amore in tal guisa. Avrei, all'opposto, voluto foggiarla a modo mio: cosí soltanto potevo meglio assicurarmene il possesso. Ma era un'assurdità! Pure! D'allora in poi ripetetti piú volte quel "pure!" pieno d i tante cose; mi lasciai lusingare. La vedevo di giorno in giorno venir a me con delle concessioni piú larghe. Erano atti, gesti, occhiate, bizzarrie, motti lanciati a mezzo, che indicavano evidentemente un segreto lavorio del suo cuore, un'effervescenza che non poteva piú venire padroneggiata dalla sua energica volontà; qualcosa piú forte di lei. Ma quando mi ero illuso un pezzetto, mi accorgevo da lí a poco che avevo torto. Il segreto lavorio, l'effervescenza, l'abbandono erano dei fatti da non potersi negare; ma tra questi sentimenti e la mia persona non ci scoprivo finalmente relazioni di sorta. Intravvedevo un sottinteso; ero, che dire? Un pretesto. E siccome sentivo avvilirmi troppo da quest'idea, correggevo: un capriccio. Ci scapitavo in tutti e due i casi e tornavo di bel nuovo, e di proposito, a illudermi. In alcuni momenti il suo fascino diventava proprio immenso. Sentirmi avviluppare e compenetrare da quella malia era una delizia indicibile che, sopratutto, veniva dal suono della sua voce molle, velato, con la greca rotondità vantata da Orazio, che io non avevo capito fino a quel punto: la quale non era soltanto nel suono delle parole, ma nelle cose ch'esse esprimevano, in un'armonia che non si apprende. E poi quel suo carattere a sbalzi! Quei passaggi inattesi! Quei contrasti cosí strani che pur riuscivano cosí naturali, perché venivano da lei! Io mi stancavo a seguirla in tutte queste rapide trasformazioni, in tutti questi nuovi e sorprendenti avatara del suo cuore ch'ella spiegava forse ad arte innanzi i miei occhi sbalorditi, e mi davano le vertigini. Non c'ero abituato; scotevano troppo e, infine, perché? Non dovevo piuttosto rimanermene passivo, indifferente, in guardia (se cosí volevo) e lasciar fare? Non provavo anche in tale situazione un piacere squisito? Che andavo di piú cercando? Ma il "pure!" ecco, veniva a galla insistente; il filtro della Fasma operava. Le mie illusioni diventavano piú lunghe, piú frequenti; non osavo toccarle con la punta di un dito per tema di non vedermele volar via a stormo, come degli uccellini spauriti. Ella mi guardava in un modo! Mi sorrideva con tal'espressione! Finalmente non ero mica di marmo! L'illusione fu completa. Mi credetti amato davvero! Chi non l'avrebbe creduto? Un giorno ella venne nella mia stanza, col volume del Poe. Scrivevo una lettera di affari; la pregai mi scusasse. Appoggiossi al davanzale della finestra, colle spalle rivolte alla campagna, e continuò la sua lettura. Di tanto in tanto non potevo far a meno di levare gli occhi dall'uggiosissima lettera per contemplare quella bella figura illuminata dai lievi riflessi della luce che venivano di fuori. Una o due volte i nostri sguardi s'incontrarono: sorridemmo a vicenda. Quand'ebbi terminata e suggellata la lettera, la Fasma mi parve talmente assorta nel libro, che non volli disturbarla. Stesi la mano ad un volume arrivatomi fresco fresco la sera innanzi, l'Eva del Verga, ripresi anch'io la lettura interrotta e fui legato alla mia volta Quel volumetto, si sa, proprio divora il lettore: ella me ne aveva parlato Ma in quel punto le mie sensazioni non provenivano soltanto dalla schietta bellezza del libro. L'imaginazione traduceva, interpretava, a modo suo quelle pagine appass ionate. Eva e Fasma si confondevano bizzarramente: non le discernevo piú. L'opera dell'artista toglieva ad imprestito dalla realtà; la persona vivente dall'opera d'arte; e qualche volta sparivano tutte e due perché io le avevo lasciate chi sa dove? molto indietro, e mi ero lanciato alla ventura entro una vaporosa immensità tutt'ombre e splendori, tutta musiche e profumi, l'immensità dei sogni ad occhi aperti, e stentavo a rivenirne. Infatti non mi accorsi che la bella Fasma si era pian pianino accostata e che, posatami leggermente una mano sui capelli, china col viso fin sulla mia spalla, osservava curiosa qual libro leggessi. - Eva! - esclamò con stizza improvvisa, strappandomi il libro di mano. Il libro, sfogliandosi tutto, era volato in un canto. - Perché? - chiesi stupito. - Perché quel libro è cattivo! - Credetti accennasse al falso concetto della moralità di un'opera d'arte che è in voga fra noi. - Sono forse una ragazza? - le domandai ridendo. - Non dico questo - rispose - È cattivo perché quell'Eva par viva e commove ed interessa e si fa amare come a una vera donna riesce di rado. Che infamia è l'arte! Possiamo noi entrare in lotta colle sue creazioni, con la sua potenza che spoglia la realtà da ogni triviale bassezza, da ogni accidentale stonatura e la rende immortale? Ma, quando vi siete montati la testa con tali visioni degne dell'oppio e dell'haschich, che ci rimane a noialtre infelici colle nostre debolezze, colle nostre miserie? Come ispir arvi interesse, compassione, amore? È una lotta disuguale: la donna colla Dea, e la povera donna soccombe! Che infamia è l'arte! Per un minuto di effimera consolazione spreme anni intieri di pianto. Il suo male non è ciò che dice, ma quel che non dice e costringe a supporre e a indovinare. Allorché questa morbosa facoltà si è sviluppata (e la si sviluppa tosto) il suo potere non ha confini; l'ebbrezza stimola all'ebbrezza. Quelle raggianti figure ch'essa evoca col potere della sua magica bacchetta passano g loriose e trionfanti innanzi ai vostri occhi e li fanno tremolare di sensazioni vivissime. Che siam noi rimpetto ad esse? Volgari, meschine, spregevoli ombre e, sopratutto, noiose, noiose all'eccesso! Qual terribile confronto! Ecco; ella guarda ancora il libro buttato lí e tenta, forse, ricostruirsi l'illusione che gli ho rotta. Ecco; non mi bada nemmeno! - Ma no! - esclamai, levandomi dalla sedia e tentando di trattenerla per la mano. Era scappata via come un lampo. Dapprima, lo confesso, avevo creduto scherzasse; ma dall'accento compresi a un tratto ch'ella diceva davvero. Divenuta pallidissima, le sue labbra tremavano agitate, frementi: già pareva fosse lí lí per dare in uno scoppio di pianto. - Mi ama! - dissi con superba compiacenza; - gelosa fin di un fantasma! Nessun critico aveva fatto a quel libro un elogio di tal sorta. Mi lasciai tutto di un pezzo cader sulla seggiola e stetti lí chi sa quanto! Assaporandomi a centellini la sublime scoperta. Perché intanto non l'amavo anch'io? Verso le cinque pomeridiane cadde quel giorno una delle solite pioggerelle del maggio, e l'aria ne rimase cosí rinfrescata da non permetterci affatto la nostra passeggiata serale. La bella Fasma, del resto, non si fé' mica viva. Volevo questa volta picchiare due colpetti al suo uscio (omai me ne riconoscevo tutto il diritto); pure non mi parve conveniente: montai sulla terrazza. Il vento aveva disperso qua e là le nuvole che, ridotte leggiere e trasparenti come tante ondate di fumo bianchiccio ai raggi della luna, facevan l'effetto di slontanare piú e piú l'azzurro cupo del cielo seminato di stelle. Dai prati attorno levavasi un fresco sentore di humus piacevolissimo, una vera sensazione della vita della natura, la quale pareva godesse coi suoi mille esseri affollati pei campi e pelle colline i dolci sogni della sua lieta giovinezza, dei veri sogni di amore. La campagna infatti spi egavasi lí innanzi scura, con ondulazioni diverse, con linee larghe, con masse immense, imponenti, nel fondo. Era come accovacciata e ripiegata su se stessa; rifiatava appena, sotto una pioggia di pulviscolo argentato cadente dall'alto quasi a proteggerne il sonno Stetti lí circa fino alle due dopo la mezzanotte, col capo scoperto, incurante del freddo e del sonno, incurante spesso anche di pensare; immerso nell'onda dolcissima di un piacere senza nome, di una sensazione tiepida, snervante, che finiva col tormi la coscienza del mondo e di me stesso; e la mattina ero in preda d'una fiera emicrania; tolleravo appena la piú debole luce; tenevo a stento gli occhi aperti. Mi ero, la notte, buttato vestito sul letto; e in tale stato ella trovommi verso le nove della mattina, quando, aperto lievemente l'uscio, chiese a bassa voce: - Si sente male? - Non ebbi la forza di darle subito una risposta; sicché ella accostossi premurosa sulla punta dei piedi al mio letto, e, vedendo ch'ero desto, tornò a domandarmi, questa volta: - Ti senti male? - Benché mezzo stordito capii la forza di quel "ti" e apersi gli occhi per ringraziarla con uno sguardo e con un sorriso. Nel tempo stesso m'impadronii di una sua mano e l'accostai alle labbra. C'era qualcosa di nuovo, di sorprendente in lei, come un'effusione, uno straripamento di affetto che si versava dalle pupille tremule e imbambolate di tenerezza. Non avevo mai udite tante carezze nel suono della sua voce, né mai veduto tanto abbandono nel suo gesto. - Ti senti male? - replicò per la terza volta con accento ognora piú affettuoso e piú carezzevole, chinando il viso presso il mio. Tenni chiusi gli occhi. Sentivo il tepore della sua pelle e il suo respiro, e non osavo rispondere per paura di rompere colla mia voce quell'incanto. La sapevo cosí bizzarra, e cosí strana! - È la mia solita emicrania - risposi finalmente per non tenerla piú sulla corda. - Hai medicine? - tornò a domandarmi. - Sí, ho preso il guarana. Passerà. Vorrei star peggio e averti sempre vicina! - soggiunsi dopo E ribaciai la sua mano. Ella mi posò lievemente le labbra prima sulla fronte, poi sugli occhi, poi sulla bocca (e qui ve le tenne piú a lungo) Fece cosí due o tre volte, sempre lievemente, toccando appena la pelle come per non farmi male. Io mi sentivo guarire. Non erano mica baci quelli lí, erano qualcosa di meglio; una dolcezza nuova, ineffabile che, se non mi guariva, mi avrebbe ucciso. Il dover ristorare, ravvivare i nervi sofferenti e intorpiditi dimezzò la loro potentissima azione, e fu bene davvero. La stanza era al buio. Verso la parte del letto veniva di rimbalzo la poca luce di mezz'uscio aperto e copriva tutta la sua persona, facendo luccicare le pieghe della sua veste di faglia nera con riverberi smorzati. Il suo volto specialmente era illuminato per intero; ma piú che da quella, pareva lo fosse da una luce sua propria, da uno sprigionarsi d'atomi brillanti dalla pelle e dagli occhi che le svolazzavano attorno. - Mi ami dunque? - le chiesi attirandola verso di me col braccio che le cingeva il busto Liberossi improvvisamente dalla mia stretta e balzò in piedi. Impaurito di quell'atto sorsi anche io sul sedere. Sorrise, mi porse le due manine, e guardandomi fisso in volto, con un'indefinibile civetteria che era nell'accento, nel sorriso, nell'atteggiamento, in ogni cosa, domandommi: - Che piú ti piace di me? - La bocca - risposi Aperse gli occhi quasi atterrita, lasciò cadere le braccia e ripetè macchinalmente: - La bocca! La bocca! - Era pallida: tremava. Io non capivo davvero. Che mai potevo aver detto di male? E per stornarla da quell'impressione mormorai nuovamente: - Mi ami dunque? - Dio mio! - fece ella portando, con acuta espressione di dolore, le mani al suo volto. E scappò via. - Fasma! Fasma! - le gridai dietro, ma invano. Avevo avuto torto. Che importava quella domanda? Non era anche troppo ch'ella mi facesse evidentemente capire ciò che io volevo confessato dalle sue labbra? Perché tormentarla? Perché quasi avvilirla innanzi a se stessa esigendo un'inutile conferma del mio trionfo? Fosse l'emozione o il guarana, l'emicrania era sparita. Saltai giú dal letto, apersi le imposte e la improvvisa inondazione della luce (il sole era in alto) mi giunse incresciosa. Colle ombre amiche e discrete parve s'involasse dalla stanza la miglior parte delle dolcezze poc'anzi provate, e quando colla superstizione di un contadino richiusi le imposte, credetti sentire dei lievi e ironici cachinni dietro i cristalli, al di fuori. Erano le fuggite impressioni che si facevano beffa di me. Mi son chiesto piú volte perché l'amore si compiaccia volentieri di ombre e di mistero. Dei sentimenti che tu hai tenuto lunga pezza nascosti, che ti son montati piú volte a fior di labbra e gli hai ricacciati indietro, sdegnoso persino di confessarli a te stesso, in un luogo appartato e privo di luce, ecco ti sgusciano dal cuore senza ritegno, senza che tu te ne accorga, e il cuore si sente come levar una macina di addosso. Affare di nervi o m'inganno! La luce irrita, mette in attività, distrae le cento forze dell'organismo, e l'amore, questo terribile autocrate, non può tollerare che una menoma parte dell'attività vitale sia impiegata altrimenti quando esso governa. Innamorati, cerchiamo perciò la notte con indomabile istinto. Un bacio dato allo scuro val piú di mille baci scoccati sotto i giocondi testimoni dei raggi solari. Una parola sussurrata senza che si veggano le labbra dalle quali ci viene, dice un mondo di cose che tu non trovi nella stessa par ola pronunziata di giorno da due labbra stillanti dolcezza. Consigliati forse da quest'istinto, la Fasma ed io ci evitammo, quel giorno, a vicenda. Le imposte delle nostre stanze rimasero chiuse; desinammo alla meglio, ognuno per proprio conto; ed io mi rimisi a letto e guardai per delle ore il soffitto, da cui mi brillava nella mente certo rosone di fiori stranissimi osservato altre volte, il quale intanto serviva di pretesto a dei soavi pensieri Levatomi dopo il tramonto apersi l'uscio e le imposte, attesi con impazienza di sentire il fruscio della sua veste nella camera attigua, e quando fu il momento sporsi fuori il capo ad interrogare l'espressione del volto di lei. Era di una tristezza rassegnata, una tristezza di amore però e di nient'altro; si vedeva. Le andai incontro, le strinsi la mano senza dire un sol motto; e indovinata la sua intenzione d'uscire all'aria aperta, le accennai si avviasse. - Che stupenda serata! - diss'ella scendendo lenta le scale. All'orizzonte il cielo somigliava un lago di purissimo verdemare con spuma di oro lucente Su quei spruzzi di nuvole, su quei vapori crepuscolari la luce del sole tremolava di mille riflessi sempre cangianti che smorivano chiari, con bellissimo effetto, sulle linee nette e frastagliate dei colli, e in alto con dei toni di azzurro sempre piú densi e piú cupi, di tale trasparenza e di tale unità da far disperare qualunque artista. L'aria agitata leggermente da un venticello vespertino, fresca, asciutta, profumata da odori indistinti, avviluppava il corpo e lo penetrava con una sensazione di ristoro efficacissima; lo rendeva una piuma. La campagna aveva sussurri, gemiti, mormorii, rumori vaghi, canti interrotti di galli, trilli sommessi d'insetti, agitar d'ali impercettibili, rosicchii continuati, affacendamenti misteriosi, abbaiare di cani, tintinni di campane di bestiami lontani; e poi quell'intiera, indefinibile, fremebonda corrente di vita da cui son legati assieme tutti gli esseri, per cui si sente il pensiero umano e nell'insetto e nella fronda e nella roccia immobile e tranquilla. Oh, c'era davvero piú di quanto occorresse! Le nostre mani, ricercatesi di accordo, si erano avviticchiate avidamente e si premevano forte. Procedevamo commossi cogli sguardi slanciati per l'immensa campagna, senza sentir bisogno di dirci una breve parola, fermandoci di quando in quando per scambiarci un bacio interminabile ch'ella era la prima ad interrompere, esclamando sottovoce: - Mio Dio! - Pareva che quella felicità la facesse soffrire. Io intanto avevo stizza di non soffrire a quel modo. Non ero evidentemente neppur felice a quel modo! Sopraffatta da un impeto di passione selvaggia, stordita, concentrata in sé, fremente per tutta la persona con spasimo lieve, ella lasciavasi in pieno abbandono delle mille sensazioni onde era dominata ed oppressa, anzi procurava di raddoppiarne l'effetto: e ciò che io chiamava soffrire ne era proprio il colmo, il loro estremo valore. Quel pieno abbandono, quel dimenticare me stesso a me, invece, non riusciva. Provavo un piacere dimezzato. Vedevo insistentemente la mia immagine sorridere ed agitarsi nel suo piccolo cuore: ma la vedevo preciso come un'immagine riflessa sul nero della camera oscura. Attraverso quell'immagine, che pur sembrava solida e vivente, ne passava sovente un'altra che non potevo discerner bene, la quale la avvolgeva, le si sovrapponeva formando una strana confusione, e infine le spariva dietro come se vi si chiudess e dentro e l'animasse e le desse il moto Appunto per questo ora non ripetevo piú la sciocca domanda della mattina. Le ombre cadevano fitte dal cielo: la terra dormiva. Gli alberi, le macchie, le erbe avevano già preso una figura molto diversa da quella del giorno. A dieci passi di distanza, l'aspetto delle cose assumeva sembianze fantastiche: la mente ne era un po' turbata, e l'occhio vedeva quel che non era, l'orecchio sentiva rumori strani e fuori natura. Un altro momentino, e le fate, gli spiriti, sarebbero venuti a volteggiarci sul capo, a turbarci, a impaurarci colle loro apparizioni improvvise. Provava anch'ella quest'effetto, e mi si stringeva al braccio con forza e girava attorno diffidente la testina e si fermava ad ascoltare. Ci eravamo dilungati troppo benché si fosse andati lentamente. Chi voleva accorgersi delle ore volate via? Andavamo incontro ad un gruppo di alberi che disegnavansi sull'orizzonte con forme immani e grottesche. Si sarebbe detto che dei mostri giganteschi, fermati ad attenderci lí sul passaggio, agitassero le teste orrende e digrignassero i denti. - Torniamo addietro: ho paura! - sussurrommi all'orecchio, appendendomisi al collo come una bimba. Questo bacio fu il piú lungo. Traversammo i campi da un'altra parte e prendemmo per far piú presto una scorciatoia. La fittaiuola, addormentata, ci attendeva a piè della scala. La mandai a letto ringraziandola e seguii la Fasma ch'era già nel salotto. Il sorriso con cui mi accolse fu qualcosa di sublime. Mi sentii come preso da un delirio veemente, e le corsi incontro e la levai di peso tra le braccia. Ella die' un piccolo grido e nascose il volto sulla mia spalla Credetti che qualcosa di eterno per la mia vita si fosse deciso in quel punto! E tutto tremante varcai, la prima volta, con essa in collo, la soglia oscura della sua stanza. La mattina dopo mi domandavo: - Ho sognato? Non trovavo il verso di persuadermi che quanto era accaduto fosse proprio una realtà. Certe volte non c'è cosa che paia piú impossibile del vero. Giú mi attendeva un ragazzo con una lettera da Firenze. Un urgentissimo affare di famiglia mi richiamava colà; potevo esser di ritorno la sera. Guardai l'orologio; mancava ancora tre quarti di ora pel passaggio del treno: giusto quanto occorreva ad arrivare in tempo alla stazione. Rifeci, stizzito, le scale onde avvertire la Fasma. Trovai il suo uscio serrato col paletto di dentro. La chiamai a nome; non rispose. Stetti ad origliare commosso. Mi era parso d'aver sentito singhiozzare. Possibile? E ritenni il fiato Non mi ingannavo. Veniva dalla sua stanza un suono di pianto represso, di grida soffocate, di singhiozzi interrotti. - Ahimè! - pensai, - questi passaggi repentini come debbono farle del male! - E picchiai, ripicchiai, tornai a chiamare piú volte. Nessuna risposta! Quel pianto, quelle grida smorzate a forza, continuavano sempre. Che fare? Il tempo stringeva. - Fasma! Fasma! - le urlai dietro l'uscio; - debbo andare a Firenze; sarò qui col treno di sera. Per carità, stia tranquilla! Mi risponda. Stia tranquilla. A rivederci! - Non avevo piú il coraggio di darle del "tu"! Nessuna risposta! - A rivederci! - replicai E rimanevo dietro l'uscio. Però dopo alcuni minuti mi parve sentire, o sentii davvero, una parola di addio. Corsero alcuni istanti di angoscioso silenzio. Il pianto a poco a poco cessò, cigolò finalmente il paletto e la Fasma apparve accanto all'uscio. Sorrideva, ma in viso le si vedevano chiare le tracce del suo dolore. - Che è stato? - le chiesi tremante. - Nulla! - diss'ella - È passato. Addio. - Tornerò presto; non posso far a meno di andare. - Addio! - ripetette con una monotonia di accento che mi trafisse l'anima. Evidentemente ella pativa a star lí. Mi decisi a partire. - Per carità, stia tranquilla! - replicai stringendole affettuosamente la mano. - Addio! - diss'ella per la terza volta e collo stessissimo tono. Affrettai di una corsa il mio ritorno. Eran le sette di sera. - La signora dov'è? - chiesi alla fittaiuola. - È già attorno da un pezzo - rispose quella donna con aria inquieta. Entrai nella mia stanza e non so perché gli occhi mi corsero subito al tavolo; c'era un foglio spiegato. Sentii stringermi il cuore da un tristo presagio! Non osavo accostarmi. Che poteva aver scritto? Finalmente presi convulso quel foglio e corsi subito alla finestra. Era una sua letterina. "Caro signore" diceva "non pensi male di me! Mi compatisca invece, mi compianga. Prima di buttarmi la pietra del suo disprezzo, ella dovrebbe conoscere tutta la storia del mio cuore e della mia vita, un'infelicissima storia. Non gliela posso dire; è troppo lunga; e poi, a qual pro? Non pensi male di me! Mi dimentichi: è meglio! Non osa domandarle altro la sua gratissima Fasma" Pensar male di te! Dimenticarti, divina creatura! Oh, potessi rivederla! Villa Santa Margherita, agosto 1874@ 1874

Il disinganno può averle aperti gli occhi; e un amore prodotto da tale stato dello spirito diventare il piú violento, il piú schietto, il piú duraturo del mondo; quasi un primo amore anche per una donna che, come l'Ebe, abbia amato fin troppo. Ma non mi lasciavo rimovere, per quanto mi sentissi straziato. Cedere, fosse pure ad un sentimento di naturale curiosità, mi faceva ribrezzo. Il mio odio era certamente uno dei mille aspetti dell'amore (per dire che non amiamo piú bisogna sentirci indifferenti) ma cosí, da odio, lo tolleravo; senza maschera invece non lo avrei tollerato un momento: avrei preferito spezzarmi il cuore, non potendolo vincere altrimenti. Ero troppo superbo: ella indovinava. Posai la lettera sul marmo del caminetto e non andai, né risposi. Quel procedere villano era un gran sforzo che facevo mio malgrado. Mi ritenevo impegnato per mille ragioni a non cedere; e, temendo di esser preso da qualche improvvisa debolezza, esageravo il rigore, passavo ogni limite. Accade sempre a questo modo, nella vita, nell'arte, in ogni cosa: la giusta misura riesce impossibile e all'uomo e alla natura: è l'ideale che non arriva ad attuarsi. Continuai le mie visite alla vicina con crescente frequenza. Viveva sola. Il suo amante viaggiava qua e là per affari, e non le scriveva mai. La signora Augusta, ignorando sempre per quali provincie la ferrovia scarrozzasse il suo "protettore" (lo chiamava cosí), non aveva nemmeno lo svago di riempire ogni giorno un fogliolino di carta da spedire alla posta. Attendeva, facilmente rassegnata per effetto, in massima parte, della sua costituzione e del suo carattere. Era un organismo tranquillo, un carattere armonico: sentiva la vita come una luce ugualmente rosea e moderata; mai troppi bagliori, mai troppe ombre. Era però nel medesimo tempo un organismo delicato, facile a percepire le mille sfumature di un sentimento, e inclinatissima a questo quasi sensuale godimento delle sfumature in ogni cosa. Insomma una vera donna di spirito, caduta nella condizione ove ora si trovava per una lunga serie di vicende che spesso rimanevano inesplicabili anche per lei stessa. Forse per questo ella chiamava "protettore" il suo amante, sfumatura di linguaggio tutta sua e non superficiale di certo. Quella tranquillità di organismo, quell'armonia di carattere corrispondevano a qualcosa del mio spirito un po' pagano, a qualcosa che dominava talvolta tutte le facoltà della mia mente e del mio cuore e mi faceva vivere piú di sensazioni che di sentimenti, proprio come una felice creatura della Grecia antica. Però in quei giorni ero poco o punto disposto ad apprezzarne il valore. Ero anzi disposto a giudicarle assai male; scambiavo infatti la tranquillità per freddezza, l'armonia per fiacchezza o per comple ta assenza di contrasti. Ma cominciai a disingannarmi la prima volta che le udii sonare da vicino il pianoforte. Quella ondata di melodie e di armonie pareva facesse montare a galla la sua anima gentile da una profondità sconosciuta. Le dita vibravano con forza, spesso con violenza sulla tastiera, e lo strumento non rispondeva come un semplice meccanismo dalle sue viscere cave, ma come una parte dell'organismo di lei la quale ne rivelasse le intime voci del petto. Però in tutto quest'intimo c'era un che di carnale e di sensuale che ricercava le fibre con dolcezza squisita. Dopo quelle armonie ci voleva assolutamente un grand'accordo di baci. Dopo quelle vibrazioni sonore che agitavano il sangue e riscaldavano la pelle come se avessero sferzato il corpo con invisibili verghettine, si richiedeva assolutamente la fiera stretta di un abbraccio, o il pezzo di musica sarebbe parso senza significato, senza chiusa, insomma, incompleto. Non occorse dircelo: ci fu il tacito accordo di tutti e due. Ma i baci non venivan mai prima che la musica gli eccitasse. Quando la conversazione, cominciata freddina, continuava a sbalzi, noiosa, sconclusionata, ella levavasi tosto dalla poltrona, andava a sedersi al pianoforte ..., e i sensi, riconosciuto subito il loro inno reale, si destavano inebbriati per proseguirlo alla loro maniera, senza bisogno di musica. Il "protettore" ritornò. Per tre settimane potemmo vederci di rado, dal terrazzino, e scambiare ora un saluto, ora un centinaio di parole. Abbassavamo le tende per evitare di esser veduti da una zitellona di rimpetto che bracava dalla mattina alla sera tutti i fatti del vicinato; e il dialogo si riduceva quasi invariabilmente a questo qui: - Sei vedova? - No; ma partirà fra qualche settimana. - Starà fuori a lungo? - Chi lo sa? Non dice mai nulla. Parte e arriva improvvisamente nei giorni e nelle ore che meno l'aspetto. - Che rabbia! - E l'Augusta sorrideva di quel suo tranquillo sorriso, che mi piaceva ogni giorno piú che mai. - Aspetta lí - diceva talvolta. E rientrava per mettersi al pianoforte. Spesso però il pianoforte taceva a un tratto, ed ella non ricompariva piú. Il protettore era venuto a casa. Il nostro dolce colloquio restava interrotto sul meglio. Ma "lui" ripartiva; faceva delle assenze di quindici, di venti giorni, e noi tornavamo alle nostre intime relazioni con un'assiduità meravigliosa, come se ciò fosse stato la cosa piú regolare del mondo. Ci preoccupavamo di "lui" soltanto per sapere quando partiva e indovinare possibilmente quando sarebbe ritornato. Ci amavamo? Nessuno dei due aveva osato fare all'altro questa interrogazione. Amarci? Di che amore? Domande complicate che esigevano risposte ancora piú complicate. Lasciavamo correre: valeva lo stesso. Io avevo intanto trovato in lei qualcosa che addolciva le amarezze del mio cuore, e spesso anche le addormentava. Ma vi eran dei giorni però nei quali preferivo rigustare quelle amarezze, e glielo davo a vedere. - Sei stanco di me? - mi chiese un giorno con un accento di affettuoso rimprovero. - Perché dovrei esser stanco? - feci io, evitando cosí di rispondere. - Perché è naturale - riprese l'Augusta; - non c'è nulla di eterno al mondo, e l'amore meno di tutto. - Credi tu - le domandai all'improvviso come conseguenza delle idee che mi si affollavano in testa, - credi tu che una donna possa morire di amore? - Mio Dio! - esclamò con un'intonazione di voce che mi suona ancora nell'orecchio; - ma le donne non muoiono di altro -. Questa risposta cosí semplice mi turbò profondamente. - Senti - ella disse dopo un pezzo: - è vero che tu sei stato l'amante di una gran dama? - Chi ti ha sballato questa sciocchezza? - Prima rispondi: ti dirò poi. - Ho già risposto, se t'ho detto: sciocchezza. - Eppure io so di certo che tu hai avuto una amante e che ora siete in rottura; quel biglietto di tre mesi fa dovette inviartelo lei. - Quella? Un'amante? Oh! Niente affatto, mia cara! - Eh, via! Ti vuoi nascondere da me: ma io, tu lo sai, non sono punto gelosa. Dunque, la poverina ti vuol bene a tal segno che si è rovinata la salute per te. Dopo il tuo abbandono fece delle pazzie; corse, balli, viaggi, ogni possibile stravaganza pur di buscarsi un malanno che la facesse morire ... e c'è finalmente riuscita. - Chi ti ha detto questo? - chiesi meravigliato di sentire sulla sua bocca quello strano miscuglio di falso e di vero. Tacque un pezzetto e stette a capo chino, colla fronte corrugata, coll'indice della mano sinistra appoggiato sulle labbra, come se cercasse di ricordare. - Mi perdonerai? - fece poco dopo, sedendomisi sulle ginocchia e passandomi le braccia intorno al collo. Questo sfoggio di tenerezza accrebbe straordinariamente la mia curiosità. - Parla - dissi impaziente. - Mi perdonerai? - tornò a domandare l'Augusta. - Cento volte, non una, ma parla, ti prego! - Ecco qui. Tre giorni fa la cameriera di quella gran dama venne a cercarti. Tu non eri in casa, e nemmeno il tuo servitore. La Lucia, sentendo replicatamente suonare il tuo campanello, affacciossi all'uscio, e riconobbe in quella cameriera una sua amica d'infanzia. Si misero a chiacchierare sul pianerottolo. L'altra aspettava con una smania incredibile; ogni minuto le pareva l'eternità: infatti, dopo un'ora, vedendo che tu non rientravi in casa, si decise a lasciar l'imbasciata alla Lucia, caldamente racco mandando di fartela appena arrivato. Fu lei che confidò alla Lucia tutta la storia della sua padrona: la Lucia, che forse fece lo stesso dei fatti miei, venne subito a riferirmi fedelmente ogni cosa: mi fece vedere anche ... la lettera. - C'era una lettera? - dissi, mostrando un'indifferenza che in quel momento non provavo. - Oh sí ... una lettera ... E per via di essa che ho bisogno del tuo perdono! - L'hai già letta? - No, no! ... Ma n'ebbi una forte tentazione ... e quindi ... Eccola! ... - disse alzandosi a un tratto dalle mie ginocchia. E aperto un cofanetto di porcellana di Sèvres a fermagli di rame dorato, la cavò fuori ancora chiusa e me la porse colla punta delle dita, mormorando: - Perdona! Qual parola occorrerebbe per esprimere la vile infamia che allora mi balenò nella mente e che misi subito in atto? Quelle rivelazioni della cameriera, misto di verità e d'invenzioni, avevano irritato il mio amor proprio come uno scherno crudele; né la lettera dell'Ebe poteva avere per me un significato diverso. Amante io, io che ero stato tolto di mira quasi per vincere una scommessa! Io che ero stato ammaliato da tutte le divine seduzioni, da tutti i terribili artifizi del corpo e dello spirito e poi lasciato lí, con una risata, appena avevo mostrato di prender sul serio e lo spirito e il cuore e fin le stranezze di qu ella donna! Amante io che ora mi credevo perseguitato con una commedia di amor postumo piú spietatamente insultante dello stesso scherno con cui aveva ella accolto una sera la provocata mia dichiarazione di amore! - Leggi - dissi all'Augusta. E siccome l'Augusta esitava, supponendo che io intendessi di dare una soddisfazione alla sua gelosia, - Leggi - fammi il piacere, le dissi; - non lo faccio per te -. Appoggiai i gomiti sul piccolo tavolo lí accanto, misi la testa tra le mani e stetti cogli occhi chiusi ad ascoltare. La lettera diceva cosí: "Non meritereste che vi scrivessi. Il mio braccio, la mia testa si rifiutano ad un lavoro imposto ad essi dal cuore; ma io voglio scrivervi per l'ultima volta, prima di chiudere (se pur sarà possibile) le porte del mio spirito ad ogni affezione terrena e aprirle alle consolazioni di Dio, le sole che mi rimangano in questo punto. Ho guardato la faccia del dottore mentre toccava il mio polso. Si è rannuvolata ad un tratto. Però non avevo bisogno di questo indizio per credere che mi avvicino precipitosamente verso la morte. Mi sento morire con un'ineffabile soddisfazione che vi è impossibile imaginare. Anch'io, prima di ora, non avrei mai supposto che la morte potesse essere qualcosa di immensamente soave. Vi mando il mio perdono. Non mi preme piú di avere il vostro: me lo son meritato, e provo una consolazione come se avessi sentito ripetere questa parola dalla vostra stessa bocca. Vi ho avvelenato la giovinezza, il presente e forse l'avvenire! ... Vi ho fatto soffrire senza volerlo, ma non per cattiveria come vi siete ostinato a credere ... ed ora muoio di amore per voi! Perché vi scrivo tutto questo? Non lo sapete da gran tempo? Ah! Ve lo scrivo onde avvisarvi che avete ancora qualche giorno per risparmiarvi un rimorso. Io vi ho amato disperatamente quando voi non mi amavate piú; voi, badate! Mi amerete piú di prima appena saprete che sarò morta! Ho messo quattro ore a scrivere questa lettera, e mando la mia cameriera per consegnarvela di sua mano. Muoio sola, con una fida amica al capezzale. Mi lascerete morir cosí? Vi perdonerò anche questo. Addio per sempre! P. S. Ho pregato la mia amica di tagliarmi appena morta tutti i capelli. Se un giorno li vorreste come ricordo di colei che vi ha amato fino a morirne, chiedeteli alla Giorgina Nozzoli che voi conoscete. Addio un'altra volta e per sempre!" Sul principio al sentir pronunciare lentamente, nel modo che leggeva l'Augusta, quelle tristi parole, io avevo provato la voluttà di una quasi violazione brutale compita dalla voce di essa sullo spirito dell'Ebe. Era appunto questo il vigliacco e raffinato piacere che avevo voluto procurarmi; era questo lo strano avvilimento voluto infliggere all'Ebe facendomi ripetere dalla bocca di una donna come l'Augusta le parole dirette a commovere il mio cuore e scombuiare il mio spirito. Ma tale soddisfazione durò p oco: l'effetto fu tutto il contrario di quanto avevo imaginato. La voce dell'Augusta prese di mano in mano delle inflessioni che violentemente mi scossero il cuore. Da quella gola femminile che l'emozione rendeva tremante, ogni parola, ogni frase, ogni periodo della lettera riceveva un'espressione direi quasi un nuovo significato che addirittura ne centuplicava l'efficacia. Sentivo ad una ad una cadermi sul cuore, come del piombo liquefatto, le grosse gocce di lagrime dovute scendere silenziose sul pallido viso della morente, mentre la scarna sua mano erasi stentatament e trascinata sul foglio; e quando l'Augusta faceva una piccola pausa, e quando la sua voce si turbava in guisa che le parole gli uscivano molto confuse di bocca, mi pareva di udire l'affanno della infelice che la mia superbia condannava a morire senza una parola di perdono insistentemente invocata; e mi sentivo annodare la gola e strozzare il respiro. A metà della lettera aveva fatto un gesto quasi per strapparla di mano dell'Augusta e impedire la sacrilega offesa che intendeva di essere la mia vendetta; ma mi trattenne l'idea d'infliggermi come un affronto il sentirmela leggere sino in fondo dalla stessa bocca scelta per quella profanazione veramente indegna di un uomo. Non piangevo, ma tremavo, ma mi sentivo schiacciare da una terribile mano. Provavo sulle guance dei colpi di staffile che dovevan lasciarvi le lividure. Ogni stilla del diaccio sudore ch e mi scendeva dalla fronte mi pareva uno sputo di disprezzo lanciatomi in viso da tutte le creature gentili. Terminata la lettura successe nella stanza un silenzio profondo. Ero sotto l'oppressione di un incubo e non potevo destarmi. - Se tu fossi in tempo! - disse l'Augusta con voce commossa e colle lagrime agli occhi. Ci voleva quest'affettuosa esclamazione di una donna per farmi rientrare in me stesso. - Se fossi in tempo! - ripetei torcendomi dolorosamente le mani. Il fiàcchere mi pareva non volasse a precipizio come il cuore febbrile avrebbe voluto. Si trattava di dover correre da un capo all'altro della città e per le vie piú frequentate. Il cocchiere dovette credermi ammattito sentendomi sempre urlare dietro le sue spalle: - Ma corri! Ma sferza! - Montai gli scalini a quattro a quattro. La cameriera che già piangeva diede, appena mi vide, in un nuovo e piú forte scoppio di pianto. Ahimè! Giungevo troppo tardi? Un vecchio prete uscito in fretta dalla stanza dove era corsa la cameriera, mi venne incontro, mi porse la mano, e con accento semplice e calmo, ma che imprimeva intanto qualcosa di solenne al suo aspetto quasi volgare: - Signore! - mi disse - quali che possano essere le sue idee religiose, la prego di non turbare alla morente questi ultimi istanti. Iddio le ha concesso una tranquillità ch'ella stessa non sperava. Dimenticata la terra, tutti i suoi pensieri sono ora rivolti al cielo che si apre misericordioso alla sua anima afflitta. Non ci appartiene piú, o signore! Questi momenti sono di Dio! - Lo guardai ebetito. Una sentenza dell'Hegel mi si presentava in quel punto limpidissima alla memoria, e me la ripetevo macchinalmente: "La necessità della morte è quella del passaggio dell'individuo nell'universale". Rammentavo un'altra sentenza del Goethe: "La nostra vita non è una vera vita, ma la morte della vita divina che viene ad estinguersi nella nostra". E mi meravigliavo di poter fermarmi col pensiero su tali ed altre simili idee che mi passavano per la mente scombuiata pari a nuvoloni di un temporale spinti per l'aria dalla furia del vento. Come non provavo un dolore immenso? Come non morivo di dolore? Una strana lucidità mi faceva riflettere: - Forse sto per ammattire! - E tentavo di assistere al lento confondersi della mia ragione entro le tenebre della pazzia. Tutt'ad un tratto l'uscio da cui era uscito il prete spalancossi con violenza, e la cameriera venne fuori urlando e battendosi il petto. Mi avanzai fino alla soglia, tenuto sempre per mano dal prete il quale mi diceva delle parole che piú non riuscivo ad intendere ... Una suora di carità asciugava sulla bianca fronte dell'Ebe l'ultimo sudore della morte! Miseria del cuore umano! Son passati appena quattro anni! Mi pareva che senza di lei la mia esistenza non avrebbe piú avuto nessuna ragione di durare! ... E già ne parlo tranquillamente, e già sorrido pensando che obbliare è una profonda, una divina necessità della vita.

una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore ... ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io pre sto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti ... Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente , quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero! - Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile? - È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama? ... E intanto! E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa. "Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!" "È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco" "Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!" pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava! Suonò il campanello Era lei. Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria potei sentir tutto e vedere ... Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia ... Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma d ignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno! L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile ... Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte ... Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita. Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto ... Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla. Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse: "Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!" Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella, indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa. Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non cadere a terra ... Mi sentivo mancare "Poverino! - esclamavo; - poverino!" E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto. Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi dal dirle: "Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto proprio male!" Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: "Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!" E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: "Passerà!" Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei ... e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore. Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai pati to abbastanza! Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai! Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto : non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto. Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, s empre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita! Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina! Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! "Non mi ha riconosciuta!" dissi all'amica che avevo allato. Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente! Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso! ... Come sono ora felice! Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo! Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere - Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo aggiunger altro - Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di preghiera - Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito - Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi? Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà! Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra - Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima - T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente dietro. - Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela? - Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto. - Non seguirmi! - Oh! - Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci! Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? - Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello. - T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano. - T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí innanzi. Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!

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