Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbeverata

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La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 1 occorrenze

Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi… Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta… E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: "Perché sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?…". Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sottacqua risale rapido a galla appena abbandonato a sé stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, mi abbandonai ad esso, interamente. Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su di me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?… Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste… Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: "Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permetterete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera…". Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perché quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perché il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio – ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta – forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!… Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca – perché vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto, ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece… se invece… Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’avea fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi… Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: "Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me… Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia…". Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!… Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: "Grazie! Nessuna attenzione commuove, quanto quella che meno si prevede perché meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli di un tempo, anche perché come quelli di un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni, disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei". Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perché avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: "Un’attenzione che si sa di non meritare… i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo… non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire… un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni… se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica…". Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva. "Tornate!", ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?… Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: "Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo…".

Se non ora quando

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Levi, Primo 1 occorrenze

Nonostante la pioggia che era caduta pochi giorni prima, si distinguevano impronte bovine: forse il sentiero conduceva a un guado, o a un ponte, o ad un' abbeverata. Discesero, videro che il sentiero raggiungeva il torrente proprio all' apice della curva, e che oltre la curva la gola si apriva in un letto pianeggiante; il torrente si divideva in vari rami che scorrevano lenti fra i ciotoli. Nella breve pianura c' erano le rovine di una baracca di pietra; sulla soglia stavano sei uomini, e uno di questi era Leonid. Degli altri, quattro erano armati, e vestivano uniformi del vecchio esercito polacco, lacere e stinte; il sesto, disarmato e nudo fino alla cintola, stava un po' in disparte ad abbronzarsi al sole. Uno degli armati si fece incontro ai gedalisti. Si sfilò al di sopra del capo il mitragliatore, che portava a tracolla; non lo puntò contro i nuovi venuti, ma lo resse negligentemente penzoloni tenendolo per la canna, e disse in polacco: _ Fermatevi _. Gedale, che in Polonia era nato e cresciuto, e che parlava il polacco meglio del russo, si fermò, fece cenno alla fila di fermarsi, e disse in russo a Jòzek: _ Senti un po' che cosa desidera il Pan. Il Pan, cioè il Signore, capì (e del resto Gedale aveva fatto del suo meglio perché capisse), e disse con fredda collera: _ Desidero che ve ne andiate. Qui è terra nostra, e voi avete già fatto abbastanza guai. Davanti alla prospettiva di un litigio, Gedale aveva assunto un' aria estasiata che irritava ulteriormente il polacco. Disse a Jòzek: _ Di' al signore che, se gli abbiamo provocato dei fastidi, è stato senza nostra colpa, o almeno senza intenzione di danneggiare lui personalmente. Chiedigli se vuole alludere alla faccenda della locomotiva di Sarny, e se sì, digli che non lo faremo più. Digli che abbiamo una gran voglia di andarcene, e che non c' è bisogno del suo incoraggiamento. Chiedigli .... Venne fuori che il signore capiva il russo abbastanza bene, poiché non attese che Jòzek traducesse, ed interruppe Gedale con violenza: _ Si capisce che parlo della locomotiva. Anche quello è territorio nostro, delle Forze Armate Nazionali, e la rappresaglia dei tedeschi l' abbiamo dovuta fronteggiare noi. Ma parlo anche del vostro uomo, _ e qui indicò Leonid, con un gesto sprezzante del pollice, _ di questo stupido temerario, di questo insensato con la Stella Rossa che se ne va da solo a fare l' eroe, senza pensare che .... Questa volta fu Gedale ad interrompere, in buon polacco, abbandonando per la sorpresa il giochetto dell' interpretariato: _ Come? Che cosa ha fatto? Dove lo avete catturato? _ Non lo abbiamo catturato, _ ringhiò il polacco, _ lo abbiamo salvato. E non lo andate a raccontare in giro: perché è la prima volta, sangue d' un cane, che le NSZ salvano un giudeo, e per di più russo e comunista, dalle pallottole dei tedeschi. Ma deve proprio essere un po' tocco: armato, in pieno giorno, senza neppure guardarsi intorno, se ne andava diritto verso il posto di blocco dei tedeschi .... _ Quale posto di blocco? _ Quello della centrale di Zielonka. A rischio di scatenare un finimondo; e senza pensare che l' energia di Zielonka serve anche a noi. Se volete fare dei sabotaggi, andate più lontano, che il diavolo vi porti. E informatevi della situazione politica. E soprattutto non mandate dei balordi come questo. _ Non lo abbiamo mandato noi: è stata una sua iniziativa, _ disse Gedale. _ Lo interrogheremo e lo puniremo. _ Ce lo ha detto anche lui, che l' iniziativa era sua: ci abbiamo già pensato noi a interrogarlo. Ma non ci prenderete per dei deficienti. O per dei bambini. È dal '39 che noi combattiamo su due fronti, e certi trucchi li abbiamo imparati. E voi li avete copiati dai nazi: tutto preciso come al tempo dell' incendio del Reichstag, si prende uno un po' debole di mente, lo si manda allo sbaraglio, e poi la rappresaglia cade come un fulmine dalla parte che fa comodo a voi. Il polacco si fermò per prendere fiato. Era alto, secco, non più giovane, e i mustacchi grigi gli tremavano per la collera. Gedale diede un' occhiata dalla parte di Leonid: stava seduto sulla soglia di pietra della baracca, con le mani legate appoggiate sulle cosce. Era lontano solo dieci passi, a portata di voce, ma sembrava che non stesse ascoltando. Il polacco osservava Jòzek con attenzione: _ Ma anche tu mi hai l' aria di essere ebreo. Ne abbiamo viste, di cose strane, ma questa le passa tutte: degli ebrei che vanno in giro per la Polonia con le armi rubate ai polacchi, e si spacciano per partigiani, puttane le loro madri! Gedale scattò. Con la sinistra strappò il mitragliatore dalle mani del polacco, e con la destra gli assestò un violento ceffone sull' orecchio. Il polacco vacillò, fece qualche passo incerto ma non cadde. Gli altri tre si erano avvicinati con aria minacciosa, ma il loro capo gli disse qualcosa, ed essi si ritirarono di qualche passo, tenendo però sempre le armi puntate. _ Sono ebreo anch' io, Panie Kondotierze, _ disse Gedale con voce tranquilla. _ Queste armi non le abbiamo rubate, e le sappiamo usare piuttosto bene. Voi combattete da cinque anni, e noi da tremila. Voi su due fronti, e i nostri fronti non si possono contare. Sia ragionevole, Signor Condottiero. Abbiamo lo stesso nemico da combattere: non sprechiamo le nostre forze _. Poi aggiunse, con un sorriso cortese: _ ... e neppure le nostre ingiurie _. Forse il "condottiero" sarebbe stato meno arrendevole se non si fosse visto circondato da una ventina di gedalisti dall' aria risoluta. Brontolò qualche misteriosa imprecazione a base di tuono e di colera, poi disse burbero: _ Non vogliamo sapere niente di voi e non vogliamo avere niente a che fare con voi. Ripigliatevi il vostro uomo. E prendetevi anche quell' altro, che dice di essere dei vostri: noi non sappiamo che cosa farcene. A un suo gesto, i suoi seguaci afferrarono Leonid per le braccia, lo fecero alzare in piedi e lo spinsero verso Gedale, che tagliò subito la corda che gli legava le mani. Leonid non disse una parola, non sollevò gli occhi da terra, e si inserì nella schiera dei gedalisti fermi sul sentiero. L' altro uomo nominato dal polacco, quello che se ne stava in disparte a torso nudo a prendere il sole, si fece avanti spontaneamente. Era alto quanto Gedale, aveva un ardito naso da falco e un paio di maestosi baffi neri, ma non doveva avere molto più di vent' anni. Il suo corpo, muscoloso ed agile, sarebbe stato un buon modello per una statua di atleta se non fosse stato per il piede equino che gli deturpava una gamba. Aveva raccattato da terra un fagotto, e sembrava contento di cambiare padrone. Era tempo di ripartire; Gedale rese l' arma al polacco, e gli disse: _ Signor Condottiero, credo che possiamo essere d' accordo su un punto solo, e cioè che anche noi non vogliamo avere niente a che fare con voi. Ci dica quale strada dobbiamo tenere. Il polacco rispose: _ Tenetevi alla larga da Kovel, da Lukov e dalla ferrovia. Non provocate i tedeschi nella nostra zona, e andate al diavolo. _ Ma che bel tipo! _ disse Gedale a Mendel quando ebbero ripreso la marcia, senza mostrare né collera residua né disprezzo. _ Proprio un tipo fantastico, da film di indiani. Secondo me aveva sbagliato secolo. _ Però lo hai preso a schiaffi! _ Per forza: ma che c' entra? L' ho ammirato lo stesso: come si ammira una cascata o un animale strano. È uno stupido, e forse anche pericoloso, ma ci ha offerto un bello spettacolo. Del resto, Gedale sembrava innamorarsi di ogni nuovo venuto, al di là di ogni considerazione morale o utilitaria. Girava intorno ad Arié, il giovane zoppo, come se volesse sentirne l' odore ed osservarlo sotto tutte le angolazioni. Nonostante il suo difetto, Arié non aveva difficoltà a seguire la fila, anzi, camminava agile e sciolto, e si rese subito popolare uccidendo una quaglia con una sassata e offrendola in omaggio a Ròkhele Bianca. Non parlava né capiva il jiddisch, e pronunciava il russo in un modo molto strano: era georgiano, Arié, e fiero di esserlo. La sua lingua materna era il georgiano, il russo lo aveva imparato a scuola, ma il suo nome, di cui era altrettanto fiero, era ebraico puro: Arié significa Leone. Pochi fra i gedalisti avevano incontrato prima un ebreo georgiano, e Jòzek, metà per scherzo, metà sul serio, osò addirittura mettere in dubbio che Arié fosse ebreo; chi non parla jiddisch non è ebreo, è quasi un assioma, e lo dice anche il proverbio: "Redest keyn jiddisch, bist nit keyn jid". _ Se sei ebreo, parlaci in ebraico: dicci una benedizione in ebraico. Il giovane accettò la sfida, e recitò la benedizione del vino con la pronuncia sefardita, rotonda e solenne, invece che in quella askenazita, sincopata e stretta. Molti risero: _ Ih, parli ebraico come lo parlano i cristiani! _ No, _ rispose Arié nobilmente offeso: _ noi parliamo come Abramo nostro padre. Siete voi che parlate sbagliato. Arié si integrò nella banda con rapidità sorprendente. Era robusto e volonteroso ed accettava di buona voglia tutti i lavori; accettò anche quel poco di disciplina partigiana che la banda aveva conservato. Mentre tutti erano curiosi di lui, si mostrò poco curioso delle finalità della banda: _ Se andate ad ammazzare i tedeschi, vengo con voi. Se andate in Terra d' Israele, vengo con voi _. Era intelligente, allegro, fiero e permaloso. Fiero di molte cose: di essere georgiano (discendente dai Macedoni di Alessandro, precisò, senza però essere in grado di dimostrarlo in alcun modo); di non essere russo, ma ad un tempo di essere compatriota di Stalin; del suo cognome Hazansvili. _ Ma certo! Gli assomigli perfino, _ rise Mottel. _ Non solo nei baffi, ma anche nel nome. _ Stalin è un grand' uomo e voi non lo dovreste prendere in scherzo. Mi piacerebbe assomigliargli nel nome, ma non è così. Lui è Dzugasvili, cioè il figlio di Dzuga, e io sono soltanto Hazansvili, che vuol dire il figlio del Hazàn, del cantore della Sinagoga. Era permaloso sull' argomento della sua deformità, e non gli piaceva che se ne parlasse, ma con ogni probabilità essa gli aveva salvato la vita: _ Alla leva militare mi avevano riformato, e al paese mi canzonavano, perché andare soldato per noi è un onore. Ma poi, nel '42, quando prendevano tutti, hanno mobilitato anche me, e mi hanno spedito nelle retrovie di Minsk a cuocere il pane nella panetteria militare. I tedeschi mi hanno preso prigioniero, ma come lavoratore civile, e questa è stata la mia fortuna. Che io fossi ebreo, non se ne sono accorti .... _ Tutto merito dei baffi, credi a me, _ disse Jòzek: peccato che pochi ci abbiano pensato, a farseli crescere. _ Dei baffi e della statura. E poi perché mi sono dichiarato contadino e specialista in innesti. _ Sei stato furbo! _ Ma no, è proprio il mio mestiere, io e mio padre e mio nonno abbiamo sempre innestato viti. E allora mi hanno messo in un' azienda agricola a innestare alberi che non avevo mai visti. Eravamo quasi liberi, e in aprile sono scappato. Volevo andare con i partigiani, e sono incappato in quelli che avete visti; con loro però non stavo tanto bene, mi dicevano "ebreo" e mi facevano portare i pesi come a un mulo. Gedale tendeva alle decisioni improvvisate, ma sulla questione di Leonid non se la sentiva di improvvisare. Chiamò da parte Jòzek, Dov e Mendel e non era il Gedale di tutti i giorni: non divagava, pensava a quello che diceva, e parlava sommesso. _ Le punizioni non mi piacciono: né darle né riceverle. Sono roba da prussiani, e per gente come noi servono a poco. Ma questo ragazzo l' ha fatta grossa: se ne è andato con le armi, senza ordini e senza permesso, e ha fatto quanto poteva per metterci nei guai tutti quanti. È stata una fortuna che il grosso delle forze delle NSZ era lontano, altrimenti ce la vedevamo brutta. Si è comportato da sciocco, ed ha fatto apparire sciocchi tutti noi: sciocchi ed intrusi, pasticcioni e guastamestieri. Già da queste parti non siamo mai stati molto amati; dopo questa faccenda lo saremo ancora meno, e la nostra strada è lunga, ed abbiamo bisogno dell' appoggio della popolazione. O almeno di una neutralità silenziosa. Leonid queste cose le deve capire: gliele dobbiamo far capire. Jòzek alzò la mano per chiedere la parola. _ Se fosse un altro uomo, io credo che il miglior rimedio sarebbe quello di picchiarlo un poco e poi di invitarlo a fare l' autocritica, come fanno i russi. Ma Leonid è un tipo strano, è difficile capire perché fa le cose che fa. Tu dici bene, comandante, che dobbiamo fargli capire certe cose; ebbene, secondo me, e almeno per il momento, quel ragazzo non è in grado di capire niente. Da quando lo abbiamo ripreso non ha più detto una parola: non una. Non mi ha guardato in faccia una volta, e tutte le volte che gli ho portato la gavetta ha fatto finta di mangiare e poi, appena io me ne andavo, versava via tutto: l' ho visto benissimo. Se fossimo in tempo di pace, so io che cosa ci vorrebbe per lui. _ Un medico? _ chiese Gedale. _ Sì, il medico dei matti. _ Voi due lo conoscete da più tempo, _ disse Gedale rivolto a Mendel e a Dov. _ Qual è il vostro pensiero? Parlò per primo Dov, del che Mendel fu lieto. _ A Novoselki mi ha dato qualche fastidio perché non era puntuale sul lavoro. L' ho mandato a fare un sabotaggio, per metterlo alla prova e per dargli un' occasione di far buona figura davanti agli altri: mi pareva che ne avesse bisogno. Se l' è cavata né bene né male, con coraggio e con precipitazione: lo hanno tradito i nervi. Secondo me è un bravo ragazzo con un brutto carattere, ma io non credo che si possa giudicare un uomo da quello che ha fatto a Novoselki; o del resto, anche da quello che fa qui. _ Non mi interessa giudicarlo, _ disse Gedale, _ mi interessa sapere che cosa dobbiamo fare di lui. Tu che dici, orologiaio? Mendel era sulle spine. Gedale sapeva, o aveva indovinato, la vera causa della sortita suicida di Leonid? Se sì, non parlarne era puerile e disonesto. Se no, se non lo aveva intuito, Mendel avrebbe preferito non fornire materia alla sua curiosità ed ai pettegolezzi di tutti. Insomma erano fatti suoi, non è vero? Suoi e di Line, fatti privati. Di aggravare la posizione di Leonid non si sentiva l' animo, e raccontare che Leonid aveva disertato per una faccenda di donne voleva dire aggravare la sua posizione. E aggravare anche la tua. Sì, certo: aggravare anche la mia. Si tenne sul vago, sentendosi intimamente bugiardo, e spregevole come un verme: _ È un anno che siamo insieme, ci siamo incontrati nel luglio dell' altr' anno nelle foreste di Brjansk. Sono d' accordo con Dov, è un bravo ragazzo con un carattere difficile. Mi ha raccontato la sua storia, la sua vita non è mai stata facile, ha incominciato a soffrire molto prima di noi. Secondo me, punirlo sarebbe una crudeltà, e per giunta inutile: si sta punendo da sé. E sono d' accordo anche con Jòzek; sarebbe un uomo da curare. Gedale si alzò di scatto e cominciò a camminare su e giù. _ Siete veramente dei bravi consiglieri. Curarlo, ma non si può. Punirlo, ma non si deve. Tanto valeva dirlo chiaro, che il vostro consiglio è di lasciare le cose come stanno, e che la faccenda si risolva da sé. Mi sembrate i consolatori di Giobbe. Va bene, per adesso lasciamola così; vedrò se la ragazza mi saprà dare un suggerimento più concreto: lei lo conosce meglio di voi, o almeno sotto un aspetto diverso. Dunque non sa, pensò Mendel con sollievo, e insieme vergognandosi del suo sollievo. Ma del colloquio fra Gedale e Line Mendel non seppe più nulla; o non era avvenuto, o (cosa più probabile) Line non aveva detto niente di essenziale. Il malumore di Gedale durò poco; nei giorni successivi era ritornato ai suoi modi consueti, ma, come già aveva fatto a Sarny, scomparve nuovamente ai primi di luglio mentre la colonna era accampata nei pressi di Annopol, non lontano dalla Vistola. Ricomparve il giorno dopo, con una giacca nuova di velluto, un cappello di paglia da contadino, una boccetta di profumo-Ersatz per Bella, e regalini anche per le altre quattro donne. Ma non era andato in città per fare acquisti; dopo di allora diverse cose cambiarono. Le precauzioni aumentarono: di nuovo, come in primavera, si marciava di notte, e di giorno la banda si accampava cercando di non dare nell' occhio; il che si faceva sempre meno facile, perché la zona era fittamente percorsa da strade, e cosparsa di villaggi e case coloniche. Gedale sembrava avere fretta; richiedeva tappe più lunghe, anche di venti chilometri per notte, e puntava in una direzione precisa, verso Opatòw e Kielce. Raccomandò a tutti di non allontanarsi dal gruppo e di non rivolgere la parola ai contadini che eventualmente si incontrassero: con la gente del luogo potevano intrattenersi solo quelli che parlavano polacco, ma anche loro il meno possibile. Sia nelle tappe, sia durante gli spostamenti, la presenza di Leonid era diventata penosa per tutti, e per Mendel in specie. Mendel dovette confessare a se stesso che di Leonid aveva paura: evitava la sua vicinanza, nelle marce in fila indiana si metteva in testa quando Leonid era in coda, o viceversa; ma invece, notò Mendel con disappunto, Leonid, consapevolmente o no, manovrava in modo da essergli vicino, pur senza rivolgergli la parola. Si limitava a guardarlo, con quei suoi occhi neri carichi di tristezza e di richiesta, come se volesse affliggerlo con la sua presenza, non lasciarsi dimenticare, vendicarsi affliggendolo. O forse anche sorvegliarlo? Forse: alcuni suoi gesti facevano pensare che Leonid fosse in preda al sospetto. Volgeva di scatto la testa guardandosi alle spalle. Durante le fermate, che avvenivano di giorno, e per lo più in casupole contadine abbandonate, si coricava per dormire scegliendo il posto più vicino alla porta, e dormiva poco; si svegliava di soprassalto, si guardava intorno inquieto, spiava fuori dalla porta o dalle finestre. In un mattino grigio di nuvole, dopo una tappa notturna che aveva affaticato tutti, Mendel stava raccogliendo legna nel bosco e se lo vide accanto, che raccoglieva legna anche lui, sebbene nessuno glielo avesse ordinato. Era dimagrito e teso, aveva gli occhi lucidi. Si rivolse a Mendel con aria complice: _ Lo hai capito anche tu, non è vero? _ Capito che cosa? _ Che siamo venduti. Non possiamo più farci illusioni. Siamo venduti, e ci ha venduti lui. _ Lui chi? _ chiese Mendel sbalordito. Leonid abbassò la voce: _ Lui, Gedale. Ma non poteva fare diversamente, lo ricattavano, era un burattino nelle loro mani _. Poi fece cenno con l' indice sulle labbra di fare silenzio, e riprese a raccogliere legna. Mendel non raccontò l' episodio a nessuno, ma pochi giorni dopo Dov gli disse: _ Quel tuo amico ha delle idee strane. Dice che Gedale lavora per l' NKVD o per non so quale altra polizia segreta, che loro lo ricattano, e che noi siamo tutti ostaggi nelle loro mani. _ Qualcosa del genere ha detto anche a me, _ disse Mendel. _ Che fare? _ Niente, _ disse Dov. Mendel si ricordò di avere paragonato Leonid a un orologio inceppato dalla polvere; adesso, invece, Leonid gli ricordava certi altri orologi che gli avevano portati da riparare: forse avevano preso un urto, le spire della molla si erano accavallate, un po' ritardavano, un po' avanzavano follemente, e finivano tutti col guastarsi in modo irrimediabile. L' estate era fulgida e ventosa, e i gedalisti si accorsero di essere entrati nel paese della fame. Le raccomandazioni di Gedale, di evitare i contatti con la gente del luogo, si rivelarono superflue, se non ironiche. Non c' era molta gente, in quelle campagne: nessun uomo, poche donne; sulle soglie delle fattorie devastate, solo vecchi e bambini. Non era gente di cui si dovesse avere paura, anzi, erano essi stessi sigillati dalla paura. Pochi mesi prima, i partigiani dell' Armata Interna polacca avevano scatenato un attacco ai presidi4 tedeschi della zona, mentre a sud di Lublino reparti paracadutati sovietici interrompevano le linee di comunicazione tedesche che portavano munizioni e rifornimenti al fronte. Altri reparti polacchi avevano fatto saltare in aria ponti e viadotti, ed avevano attaccato un villaggio da cui i tedeschi avevano allontanato con la forza i contadini nel 1942 per installarvi i coloni del Reich Millenario. La rappresaglia tedesca si era estesa a tutta la zona ed era stata feroce. Non si era rivolta contro le bande, pressoché inafferrabili, che si erano rifugiate nelle foreste, ma contro la popolazione civile. I tedeschi avevano fatto accorrere rinforzi dalle lontane retrovie; di notte accerchiavano i villaggi polacchi e li incendiavano, oppure deportavano tutti gli uomini e le donne in età di lavoro: gli concedevano mezz' ora di tempo per prepararsi al viaggio, poi li caricavano sui loro autocarri e li portavano via. In alcuni paesi avevano dedicato la loro attenzione ai bambini: deportavano in Germania i bambini dall' aspetto "ariano" e uccidevano gli altri. I villaggi, poveri da sempre, erano ridotti ad ammassi di ruderi affumicati e di macerie, ma i campi erano rimasti indenni, e la segala matura aspettava invano chi la mietesse. L' iniziativa venne da Mottel. Era andato a chiedere acqua ad un casolare isolato, a forse un chilometro dal villaggio di Zborz, e ci aveva trovato una vecchia sola, coricata sulla paglia della stalla, ma nella stalla bestie non ce n' erano più. La vecchia faticava a muoversi, aveva una gamba rotta che nessuno le aveva curato. Aveva detto a Mottel che andasse al pozzo, prendesse tutta l' acqua che voleva, e ne portasse un poco anche a lei. Ma che le portasse anche qualcosa da mangiare: qualunque cosa. Era digiuna da tre giorni, ogni tanto qualcuno del villaggio si ricordava di lei e le portava una fetta di pane. Eppure nel campo lì davanti c' era segala da nutrire una grossa famiglia, ma alla prima pioggia sarebbe marcita, perché per falciarla non c' era nessuno. Mottel riferì a Gedale, e Gedale decise all' istante. _ Dobbiamo aiutare questa gente. La nostra guerra è anche questo. È l' occasione buona per fargli capire che veniamo da amici e non da nemici. Jòzek storse la faccia: _ Da queste parti non ci hanno mai voluto bene; prima che i tedeschi bruciassero le loro case, loro bruciavano le nostre. Non vogliono bene agli ebrei, e neanche vogliono bene ai russi, e molti di noi sono ebrei e russi. Sanno che cosa è successo ai contadini russi negli anni venti, e hanno paura della collettivizzazione. Aiutiamoli, ma stiamo attenti. Tutti gli altri, invece, furono d' accordo senza riserve: erano stanchi di distruggere, stanchi delle opere negative e stupide a cui la guerra costringe gli uomini. I più entusiasti erano Piotr e Arié, che erano pratici dei lavori della campagna. Mottel aveva riferito che il tetto della "sua" vecchia era sfondato, e Piotr disse: _ Lo riparerò io. Sono bravo a rattoppare i tetti di canne, è un lavoro che facevo al mio paese, mi pagavano per farlo. Ma adesso, per riparare il tetto della tua vecchia, darei tanti rubli quanti me ne davano; se li avessi, beninteso, perché invece non li ho. La vecchia accettò, Piotr si mise al lavoro aiutato da Sissl, e pochi giorni dopo un uomo anziano dai baffi spioventi fu visto aggirarsi nei dintorni. Faceva le viste d' interessarsi d' altro: raddrizzava paletti, controllava le paratie dei fossati benché questi fossero disperatamente asciutti, ma spiava da lontano il lavoro dei due. Un giorno si presentò a Piotr e gli rivolse in polacco diverse domande; Piotr finse di non capire e andò a cercare Gedale. _ Sono il Burmistrz, il sindaco del villaggio, _ disse il vecchio con dignità, benché avesse piuttosto l' aspetto di un mendicante. _ Chi siete voi? Dove andate? Che cosa volete? Gedale si era presentato al colloquio disarmato, in maniche di camicia, in brache borghesi lacere e stinte, e con il cappello di paglia che aveva comperato. Parlava polacco senza accento jiddisch, e per chiunque sarebbe stato difficile appurare la sua condizione. Da principio fu cauto: _ Siamo un gruppo di dispersi, uomini e donne. Veniamo da diversi paesi, e non vogliamo farvi del male. Siamo di passaggio, andiamo molto lontano, non vogliamo disturbare nessuno, ma non vogliamo neppure essere disturbati. Siamo stanchi ma abbiamo le braccia buone: forse vi possiamo essere utili in qualche cosa. _ Per esempio? _ chiese il sindaco diffidente. _ Per esempio potremmo mietere, prima che la segala si guasti. _ Che cosa volete in cambio? _ Una parte del raccolto, quella che ti sembrerà giusta; e poi acqua, un tetto, e che si parli poco di noi. _ Quanti siete? _ Una quarantina; cinque sono donne. _ Sei tu il loro capo? _ Sono io. _ Noi siamo meno di voi: neppure trenta, contando anche i bambini. Guarda che denaro non ne abbiamo mai avuto, bestiame non ne abbiamo più, e non ci sono neppure donne giovani. _ Peccato per le donne giovani, _ rise Gedale, _ ma non è questo il nostro primo pensiero. Te l' ho detto, ci bastano l' acqua, il silenzio, e se possibile un tetto sotto cui dormire qualche notte. Siamo stanchi di guerra e di cammino, abbiamo nostalgia dei lavori di pace. _ Anche noi siamo stanchi di guerra, _ disse il sindaco; e subito aggiunse: _ Ma sapete mietere? _ Siamo fuori esercizio, ma ce la caviamo. _ A Opatòw c' è il mulino, _ disse il sindaco, _ e pare che funzioni. Falci ce ne sono, quelle ce le hanno lasciate. Potete incominciare domani. Andarono a mietere tutti gli uomini di Blizna e di Ruzany, e in più Arié, Dov, Line e Ròkhele Nera, a cui si aggiunse Piotr quando ebbe finito di rassettare il tetto: una ventina in tutto. Arié era il più pratico, e insegnò a tutti gli altri come si rizzano i covoni e come si affila la falce prima con il martello e poi con la cote. Anche Piotr si dimostrò bravo e resistente alla fatica. Line stupì tutti: esile com' era, mieteva dall' alba al tramonto senza mostrare segni di stanchezza, e sopportava senza disagio il calore, la sete e il nugolo di tafani e di zanzare che si era subito radunato. Non era la prima volta che faceva quel lavoro: lo aveva fatto mille anni prima, presso Kiev, in una fattoria collettiva in cui i giovani sionisti si preparavano all' emigrazione in Palestina, al tempo remoto in cui essere sionisti e comunisti non era ancora diventata una contraddizione assurda. Lavorava bene anche Dov, benché gli pesassero gli anni e le ferite. Neanche per lui era un' esperienza del tutto nuova: aveva mietuto i girasoli quando era confinato a Vologda, dove i giorni d' estate erano lunghi diciotto ore e bisognava lavorarle tutte. Gli altri della banda, fra cui Mendel, Leonid, Jòzek ed Isidor, si distribuirono nel villaggio a fare diversi lavori che il sindaco aveva indicati: c' erano pollai da rimettere in ordine, altri tetti da riparare, orti da zappare. Superata la prima diffidenza, si venne a sapere che c' erano anche patate da raccogliere, e furono le patate stesse a fare da cemento fra gli ebrei vagabondi e i contadini polacchi disperati, a sera, sotto le stelle dell' estate, seduti nell' aia, sulla terra battuta ancora calda di sole.

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Lilit

681969
Levi, Primo 1 occorrenze

Venivano in quel luogo all' abbeverata anche gli unicorni ed i minotauri, timidi come ombre, ma solo ad ora tarda, quando il crepuscolo cede alla notte. Brokne e Danuta non avevano nemici, al di fuori del tuono, e del gelo negli inverni rigidi. Il pascolo preferito di Danuta era una valle verde e profonda, ricca d' erba e d' acqua; il fondo era percorso da un rio, e questo era scavalcato da un ponte di pietre. Danuta passava lunghe ore a considerare il ponte: in tutto il loro territorio, che girava più di cento miglia, non c' era niente di simile. Non poteva averlo scavato l' acqua, né poteva essere caduto così dalle montagne. Qualcosa o qualcuno lo doveva avere costruito, con pazienza, ingegno, e mani più sottili delle sue: si curvava per vederlo da vicino, e non si stancava di ammirare la precisione con cui le pietre erano state tagliate e commesse, a formare un arco elegante e regolare che a Danuta rammentava l' arcobaleno. Doveva essere molto vecchio, perché era ricoperto di licheni gialli e neri sulle parti esposte al sole, e di muschio spesso sulle parti in ombra. Danuta lo toccava delicatamente col dito, ma il ponte resisteva, sembrava proprio fatto di roccia. Un giorno radunò parecchi macigni che le parevano di forma adatta, e cercò di edificare un ponte come quello, ma che fosse della sua misura; non ci fu verso, non appena aveva installato il terzo macigno, e lo abbandonava per afferrare il quarto, il terzo le crollava addosso, e qualche volta le ammaccava le mani. Avrebbe dovuto avere quindici o venti mani, una per ogni pietra. Un giorno chiese a Brokne come, quando e da chi il ponte era stato fatto, ma Brokne le rispose di malumore che il mondo è pieno di misteri, e che se uno volesse risolverli tutti non digerirebbe più, non dormirebbe e forse diventerebbe matto. Quel ponte c' era sempre stato; era bello e strano, ebbene? Anche le stelle e i fiori sono belli e strani, e a farsi troppe domande si finisce con il non accorgersi più che sono belli. Se ne andò a pascolare in un' altra valle; a Brokne l' erba non bastava, e ogni tanto, di nascosto da Danuta, divorava alla svelta un giovane pioppo o un salice. Sul finire dell' estate, Danuta s' imbatté un mattino in un faggio abbattuto: non poteva essere stato il fulmine, perché splendeva il sole da molti giorni, e Danuta era sicura di non averlo urtato lei stessa inavvertitamente. Si avvicinò, e vide che era stato reciso con un taglio netto, si vedeva a terra il disco biancastro del ceppo, largo come due delle sue dita. Mentre guardava stupita, sentì un fruscio, e vide, dall' altra parte della valle, un altro faggio che crollava a terra, sparendo fra gli alberi vicini. Discese e risalì, e scorse un animaletto che fuggiva a tutta forza verso la balza delle caverne. Era diritto e correva con due gambe; buttò a terra un arnese lucente che lo impacciava nella corsa, e s' infilò nella caverna più vicina. Danuta sedette lì accanto con le mani tese, ma l' animaletto non accennava ad uscire. Le era sembrato grazioso, e doveva anche essere abile se da solo era riuscito ad abbattere un faggio; Danuta fu subito sicura che il ponte l' aveva costruito lui, voleva fare amicizia, parlargli, non farselo scappare. Infilò un dito nell' apertura della grotta, ma sentì una puntura e lo ritirò subito di scatto con una gocciolina di sangue sul polpastrello. Aspettò fino a buio, poi se ne andò, ma a Brokne non raccontò niente. Il piccolino doveva avere una gran fame di legno, perché nei giorni seguenti Danuta ne rinvenne le tracce in vari punti della valle. Abbatteva di preferenza i faggi più grossi, e non si capiva come avrebbe fatto per portarseli via. In una delle prime notti fredde Danuta sognò che la foresta era in fiamme e si svegliò di soprassalto; l' incendio non c' era ma l' odore dell' incendio sì, e Danuta vide sull' altro versante un chiarore rosso che palpitava come una stella. Nei giorni seguenti, quando Danuta tendeva l' orecchio, sentiva un ticchettio minuto e regolare, come quando i picchi perforano le cortecce, ma più lento. Cercò di avvicinarsi a vedere, ma appena lei si muoveva il rumore cessava. Venne finalmente un giorno in cui Danuta ebbe fortuna. Il piccolino si era fatto meno timido, forse si era abituato alla presenza di Danuta, e si mostrava di frequente fra un albero e l' altro, ma se Danuta accennava ad avvicinarsi scappava svelto a rintanarsi fra le rocce o in mezzo al fitto del bosco. Danuta lo vide dunque avviarsi verso la radura dell' abbeveratoio; lo seguì di lontano cercando di non fare troppo rumore, e quando lo vide allo scoperto con due lunghi passi gli fu addosso e lo intrappolò fra i cavi delle mani. Era piccolo ma fiero: aveva con sé quel suo arnese lucente, e tirò due o tre colpi contro le mani di Danuta prima che lei riuscisse a pizzicarlo fra l' indice e il pollice ed a buttarglielo lontano. Adesso che l' aveva catturato, Danuta si rese conto che non sapeva assolutamente che cosa farsene. Lo sollevò da terra tenendolo fra le dita: lui strideva, si dibatteva e cercava di mordere; Danuta, incerta, rideva nervosamente e tentava di calmarlo carezzandolo con un dito sulla testa. Si guardò intorno: nel torrente c' era un isolotto lungo pochi passi dei suoi; si sporse dalla sponda e vi depose il piccolino, ma questo, appena libero, si buttò nella corrente, e sarebbe certo annegato se Danuta non si fosse affrettata a ripescarlo. Allora lo portò da Brokne. Neppure Brokne sapeva che farsene. Brontolò che lei era proprio una ragazza fantastica; il bestiolino mordeva, pungeva e non era buono da mangiare, che Danuta gli desse il largo, altro da fare non c' era. Del resto, stava scendendo la notte, era ora di andare a dormire. Ma Danuta non volle sentire ragione, l' aveva preso lei, era suo, era intelligente e carino, voleva tenerselo per giocare, e poi era sicura che sarebbe diventato domestico. Provò a presentargli un ciuffo d' erba, ma lui girò la testa dall' altra parte. Brokne sogghignò che tanto domestico non era e che in prigionia sarebbe morto, e si stese in terra già mezzo addormentato, ma Danuta scatenò un capriccio d' inferno, e tanto fece che passarono la notte col piccolino in mano, a turno, uno lo teneva e l' altro dormiva; verso l' alba però anche il piccolino era addormentato. Danuta ne approfittò per osservarlo con calma e da vicino, ed era veramente molto grazioso: aveva viso, mani e piedi minuscoli ma ben disegnati, e non doveva essere un bambino, perché aveva la testa piccola e il corpo snello. Danuta moriva dalla voglia di stringerselo contro il petto. Appena si svegliò cercò subito di fuggire, ma dopo qualche giorno incominciò a farsi più lento e pigro. _ Per forza, _ disse Brokne: _ non vuole mangiare _. Infatti il piccolino rifiutava tutto, l' erba, le foglie tenere, perfino le ghiande e le faggiole. Ma non doveva essere per selvatichezza, perché invece beveva avidamente dal cavo della mano di Danuta, che rideva e piangeva dalla tenerezza. Insomma, in pochi giorni si vide che Brokne aveva ragione: era uno di quegli animali che quando si sentono prigionieri rifiutano il cibo. D' altra parte, non era possibile andare avanti così, a tenerlo in mano giorno e notte, un po' l' uno, un po' l' altra. Brokne aveva provato a fabbricargli una gabbia, perché Danuta non aveva accettato di tenerlo nella grotta: lo voleva avere sotto gli occhi e temeva che al buio si ammalasse. Aveva provato, ma senza concludere nulla: aveva divelto dei frassini alti e diritti, li aveva ripiantati in terra a cerchio, ci aveva messo in mezzo il piccolino e aveva legato insieme le chiome con dei giunchi, ma le sue dita erano grosse e maldestre, e ne era venuto fuori un brutto lavoro. Il piccolino, benché indebolito dalla fame, si era arrampicato in un lampo su per uno dei tronchi, aveva trovato una lacuna ed era saltato a terra all' esterno. Brokne disse che era tempo di lasciarlo andare dove voleva; Danuta scoppiò a piangere, tanto che le sue lacrime rammollirono il terreno sotto di lei; il piccolino guardò in su come se avesse capito, poi prese la corsa e scomparve fra gli alberi. Brokne disse: _ Va bene così. Lo avresti amato, ma era troppo piccolo, e in qualche modo il tuo amore lo avrebbe ucciso. Passò un mese, e già le fronde dei faggi volgevano al porporino, e di notte il torrente rivestiva i macigni di un sottile strato di ghiaccio. Ancora una volta Danuta fu svegliata in angoscia dall' odore del fuoco, e subito scosse Brokne per ridestarlo, perché questa volta l' incendio c' era. Nel chiarore della luna si vedevano tutto intorno innumerevoli fili di fumo che salivano verso il cielo, diritti nell' aria ferma e gelida: sì, come le sbarre di una gabbia, ma questa volta dentro erano loro. Lungo tutta la cresta delle montagne, sui due lati della valle, bruciavano fuochi, ed altri fuochi occhieggiavano molto più vicini, fra tronco e tronco. Brokne si levò in piedi brontolando come un tuono: eccoli dunque all' opera, i costruttori di ponti, i piccoli e solerti. Afferrò Danuta per il polso e la trascinò verso la testata della valle dove pareva che i fuochi fossero più radi, ma poco dopo dovettero tornare indietro tossendo e lacrimando, l' aria era intossicata, non si poteva passare. Nel frattempo, la radura si era popolata di animali di tutte le specie, anelanti ed atterriti. L' anello di fuoco e di fumo si faceva sempre più vicino; Danuta e Brokne sedettero a terra ad aspettare.

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LEGGENDE NAPOLETANE

682480
Serao, Matilde 1 occorrenze

L'anima come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione vi è stata. Tutto quel Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così invadente che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini dalla sua mente, l'artista s'inchina nella esaltazione del suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi, piangendo, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci. Singolare anima d'artista doveva esser quella dello scultore che ha dato all'arte questo Cristo morto. Nell'opera sua vi è tutto il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori: quello per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente doloroso il primo. Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una sofferenza senza nome può far passare tutta la poesia di questa sofferenza nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle lagrime, nell'angoscia, nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria, può infondere nel marmo il solitario e cupo dolore di questo Cristo. Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse il tormento sottile che stride come una sega piccina ed inesorabile; la desolazione grigia, lunga, monotona, dove tutto è cenere, tutto è nausea, tutto è disgusto: la disperazione larga e vasta e lenta come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa e tumultuante come un torrente che tutto trascina. Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d'amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un fremito mortale gli ha travolto le fibre; ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita; ha amato senza speranza, senza gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa voluttà del dolore. Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell'uomo vivo creava la passione del Cristo morto. E ne veniva fuori un'anima d'artista che imprimeva il suo carattere in un capolavoro dell'arte. - Perché quella tomba non ha ritratto? - chiesi di nuovo uscendo dalla chiesa, mentre il custode faceva tintinnire le chiavi. - Lo scultore non ebbe tempo di finirlo ... - Quale scultore? - Il Sammartino. - Ah!... - ... Morì prima di finirlo. Fu trovato in una straduccia buia, di notte, con un pugnale nel petto. - Fu ucciso o s'uccise? - Si crede che si fosse ucciso. Come nello strazio dell'ignota agonia, la testa del morto scultore doveva rassomigliare a quella del Cristo morto!

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