Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Dapprima una viva sovreccitazione fisica e intellettuale che li rende talvolta pericolosi, diventando temerari e spavaldi; poi un benessere generale che li immerge in un sonno profondo, abbellito da sogni piacevoli. A poco a poca si abbrutiscono e diventano ributtanti, ischeletriti, tremanti come se avessero sempre indosso la febbre e quasi nella impossibilità di camminare diritti. Un mangiatore d'oppio si riconosce subito essendo sempre in preda a una specie di sonnolenza che rende le sue mosse tarde e incerte. - E non possono abbandonare quel brutto vizio? - Sarebbe peggio; ricadrebbero in una profonda apatia che ben presto li condurrebbe alla morte - rispose Fedoro. - E fumandolo, invece? - chiese il capitano. - I fenomeni sono quasi identici, tuttavia meno intensi. Volete farne la prova? Il tartaro non mancherà di pipe, né di oppio; devo avvertirvi, innanzi tutto, che le prime volte quel narcotico produce nausee e acuti dolori di testa. - Non ne ho alcun desiderio. Ho udito raccontare che si beve anche col caffè. - Sì, nel Turchestan; e quella bevanda eccitantissima si chiama koknar. È anzi tale l'abitudine che hanno ormai quegli abitanti, che non potrebbero farne a meno. Per loro è diventata una vera necessità, come per la maggior parte degli europei il vermut, l'assenzio o la birra. L'uomo che volesse rinunciarvi, non potrebbe resistervi a lungo; diverrebbe presto un infelice, privo di qualsiasi energia, apatico, svogliato e non saprebbe imprendere qualsiasi lavoro. - Al diavolo l'oppio! - esclamò Rokoff. - Preferisco mille volte la mia pipa carica di buon tabacco. In quel momento il tartaro usciva dalla capanna, recando su un tondo d'argilla i fagiani e l'anitra mandarina con un contorno di pien-hoa, specie di radici e di hing, frutti angolosi che crescono negli stagni e che assieme alle prime surrogano, fino a un certo punto, il pane, che è quasi sconosciuto nella Tartaria e nella Mongolia. Portava inoltre un vaso colmo di acquavite e di riso e alcuni prosciutti, che dalla loro forma dovevano essere di cani e forse ingrassati con bachi da seta, come usano i cinesi. - Riporta i prosciutti - disse Fedoro. - Non fanno per noi. Il tartaro lo guardò con una certa meraviglia, poi ritornò nella sua casupola borbottando. I tre aeronauti si sedettero sotto una superba quercia che nonostante il freddo aveva conservato ancora gran parte del suo fogliame e attaccarono con molto appetito l'arrosto, le radici e gli hing, magnificando soprattutto la squisitezza dei due fagiani. - Ecco una colazione che molti ci invidierebbero, - disse Rokoff che divorava per quattro. - Capitano, i vostri pasticci di California e dell'Australia farebbero certamente una ben meschina figura dinanzi a questi deliziosi volatili. - Nessuno c'impedirà di provvederci sempre di questi arrosti - rispose il comandante. - La Mongolia è ricca di uccelli e anche di selvaggina da pelo e faremo ogni giorno una battuta. Voi non avete fretta di tornarvene in Europa, è vero? - No, signore - rispose Fedoro. - Desiderei però avvertire la mia casa di Odessa di non fare, almeno per un certo tempo, alcun assegnamento su di me e d'incaricare il mio rappresentante a Hong-Kong di acquistare il tè che io non ho potuto avere dal defunto Sing-Sing. - Una cosa facilissima - rispose il capitano. - Si manda un telegramma. - Ma ... signore ... voi vi dimenticate che qui non vi sono uffici telegrafici e che siamo nella Mongolia. - Se qui non ve ne sono, ne troveremo presto uno il quale trasmetterà in poche ore il vostro dispaccio. - E dove lo cercheremo? - Non occupatevene, - disse il capitano con un sorriso misterioso. - Preparate il telegramma e fra tre giorni o quattro la vostra casa lo riceverà. Ehi, tartaro, portaci delle altre radici. Il signor Rokoff ha divorato tutto. - Erano così eccellenti! - rispose il cosacco, ridendo. - Mi avete capito? - gridò il capitano, dirigendosi verso l'abitazione. Con sua sorpresa il tartaro non si fece vivo. - Dove sarà andato? - chiese Fedoro, un po' inquieto. Il capitano si spinse fino alla porta chiamando il proprietario ad alta voce e anche questa volta senza successo. Entrò nella cucina e vide solamente i mangiatori d'oppio coricati l'uno presso l'altro e profondamente addormentati. - Non c'è più? - chiese Rokoff raggiungendolo. - È sparito - rispose il capitano. - Che sia fuggito? - Signori miei - disse il capitano - questa scomparsa m'inquieta. Raccogliamo la nostra selvaggina e andiamocene. Io non sono tranquillo. - Che cosa temete? - chiese Fedoro. - Non dimentichiamo che noi siamo stranieri e che l'odio del cinese e del tartaro verso l'uomo bianco non è ancora spento. - Che quel briccone si sia recato in qualche villaggio a chiamare degli amici, per poi farci prendere? - È quello che sospetto. Orsù, prendiamo i nostri volatili e corriamo al fiume. - Maledetto paese! - esclamò Rokoff. - Non si può nemmeno fare colazione senza apprensioni! Stavano per slanciarsi attraverso il bosco, quando Fedoro si arrestò dietro un gruppo di pini colossali, esclamando: - Fermi tutti! - Che cosa c'è - chiese Rokoff. - Ci hanno tagliato la ritirata. - Chi? - I manciù! Eccoli che si avanzano attraverso il bosco. - Ah! Brigante d'un tartaro! - gridò Rokoff. - Egli ci ha traditi! Che siano i soldati del fortino? - Lo saranno di certo - rispose Fedoro. - Nella casa - disse il capitano. - Là almeno ci troveremo al coperto e potremo resistere lungamente. - E lo "Sparviero"? - chiesero con angoscia il cosacco e il russo. - Il mio macchinista non è uomo da lasciarsi sorprendere e le eliche possono funzionare subito. Siamo noi invece che corriamo il pericolo di passare un brutto quarto d'ora. Fortunatamente abbiamo dei buoni fucili da caccia e mitraglieremo i manciù.

Vi si penetra per un immenso porticato di marmo bianco, il quale mette in un viale abbellito da statue che rappresentano dei mandarini, dei sacerdoti e dei guerrieri, elefanti, cammelli, leoni, cavalli e liocorni mostruosi, alcuni in piedi ed altri inginocchiati e alti due, tre e perfino quattro metri. Vi sono monumenti bellissimi, fra i quali spicca il tempio dei sacrifici sostenuto da sessanta colonne di lauro alte ognuna tredici metri, con una circonferenza di tre. Lo "Sparviero" descrisse parecchi giri al disopra del parco, poi deviando bruscamente prese la corsa verso il nord-ovest, attraverso le montagne dei Tiencia. Dove andava? Rokoff e Fedoro avrebbero desiderato saperlo, ma non osarono chiederlo. Il capitano, d'altronde non pareva disposto a soddisfare la loro curiosità, perché li aveva bruscamente lasciati dirigendosi verso poppa, dove si trovava il macchinista. Si sedette dietro la ruota e dopo aver scambiato alcune parole col suo compagno, si era messo a osservare il paese circostante, senza più occuparsi dei suoi ospiti. - Ebbene, Fedoro, che cosa ne dici di tutto ciò? - chiese Rokoff. - A me pare di essermi risvegliato in questo momento e d'aver sognato. - Anch'io mi domando ancora se sono vivo o morto - rispose il russo. - Vi sono certi momenti in cui dubito di non essere stato ammazzato. Se non avessi veduto coi miei occhi Pechino, mi crederei in un nuovo mondo. - Infatti, l'avventura è strana, Fedoro, tale da far impazzire. Trovarci dinanzi alla morte e risvegliarci in aria in viaggio per l'Europa! Quando noi lo racconteremo ai nostri amici, non ne troveremo uno che ci crederà. - Mostreremo loro lo "Sparviero". - Se ci porterà fino a Odessa. Il capitano ha detto che vuole raggiungere l'Europa, ma non dove ci deporrà - disse Rokoff. - E chi credi che sia quell'uomo? - Non te lo saprei dire, perché mi ha detto che parla tutte le lingue. - Un gran dotto di certo. - E anche un originale, Fedoro. - E non vuole dirci dove ci trasporterà ora. - Attraverso l'Asia. - Un, viaggio meraviglioso - disse il russo. - Che non mi rincresce affatto - aggiunse Rokoff. - E che compiremo presto, perché questa macchina mi pare dotata di una velocità tale da sfidare gli uccelli. - Filiamo come le rondini, Fedoro. Guarda come spariscono i campi, i boschi e i villaggi! Questa macchina volante è una vera meraviglia. - Purché qualche accidente non le faccia spezzare le ali e ci mandi a fracassarci sulla superficie della terra! - Non credo che ciò possa accadere - disse Rokoff. - Questo treno aereo è d'una solidità incredibile. Malgrado lo sforzo poderoso delle macchine, non si sente il più leggero fremito nel fuso. Leggerezza, potenza e solidità! Quel diavolo d'uomo non poteva ottenere di più. Ma e dove andiamo noi? Mi pare che lo "Sparviero" abbia deviato ancora. - Si dirige verso quella città che vedo sorgere là in fondo - disse Fedoro. - Una città? - Forse quella di Tschang-pin, perché alla nostra sinistra vedo un corso d'acqua che deve essere molto voluminoso. Deve essere il Pei-ho. - Allora ci dirigiamo al nord. - E verso la grande muraglia, ne sono certo - rispose Fedoro. - - L'Europa non si trova già al nord. - Lo "Sparviero" piegherà poi verso l'ovest. - No, signori - disse una voce dietro di loro. - Non ora; più tardi, molto tardi. Il macchinista si era accostato loro tenendo fra le labbra una di quelle monumentali pipe di porcellana, usate dagli olandesi e dai tedeschi. Il compagno del capitano era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura media, muscoloso e ad un tempo di taglia snella, colla pelle assai bruna, gli occhi nerissimi tagliati a mandorla e i capelli ondulati e biondissimi, che portava lunghi. Dire a quale razza appartenesse, sarebbe stato molto difficile, perché pareva che i lineamenti degli uomini del nord e del sud si fossero fusi in lui. Aveva del semitico, del greco, del romano e dell'anglosassone. Da quale paese dunque veniva? Che però appartenesse alla razza bianca, malgrado la tinta oscura della sua pelle, non vi era da dubitare. - Non piegheremo verso l'ovest? - chiese Rokoff dopo averlo osservato con curiosità. - Non per ora - ripeté il macchinista in cattivo russo. - Continueremo dunque la corsa verso il nord. - Sì, signore. - Allora andremo in Siberia. - Non lo so - rispose il giovane, quasi si fosse pentito d'aver detto troppo. - È il capitano che comanda. - Eppure ci aveva detto di condurci in Europa - insistette Rokoff. - Se lo ha detto, manterrà la parola. - È molto tempo che viaggiate? - chiese Fedoro. - Molto e poco. - Vale a dire? - Che non lo so. - Ecco una risposta strana. Non siete partito col capitano? - Può essere. - Non sapremo mai nulla da costui - disse Rokoff in francese a Fedoro. - Non devo parlare, tale è l'ordine - disse il macchinista nell'egual lingua e sorridendo. - Ah! Voi parlate anche il francese! - esclamò il cosacco, confuso. - Ed altre ancora, signore. Ecco Tschang-pin: la gran muraglia non è lontana. - Faremo provare una gran paura ai cinesi. - To'! Che cos'è quell'immenso recinto brulicante d'animali? - chiese Rokoff indicando una specie di parco che si estendeva per miglia e miglia verso l'ovest. - Una delle riserve dell'imperatore - rispose Fedoro. - Ne ha parecchie nella provincia di Pechino. - Vi sono migliaia di cavalli. - E tutti di proprietà imperiale. - E che cosa ne fa l'Imperatore? - Non lo saprei, perché non cavalca quasi mai. Tuttavia posso dirti che tiene a sua disposizione quasi centomila destrieri, scelti fra i migliori del suo sterminato impero. - Tanti da morire prima di averli provati tutti, anche se dovesse diventare vecchio quanto gli antichi patriarchi. - Sì, Rokoff. - Vedo anche dei buoi. - Ne possiede dodicimila. - E delle pecore. - Si dice che ne abbia duecentoquarantamila. - Ecco un proprietario che invidio, Fedoro. E quella massa enorme che s'innalza presso le mura del parco? La si direbbe una campana. - Fedele copia di quella di Pechino - disse il capitano, che si era silenziosamente accostato a loro. - Solamente che quella è in pietra, mentre quella della capitale è di bronzo finissimo. - Io non ho mai potuto vederla, ma se quella è una copia, deve essere ben mostruosa. - La più grande che esista al mondo, avendo tra una altezza di cinque metri, un diametro di quattro e mezzo e un peso di sessantamila chilogrammi. Se la bella Ko-hi non si fosse sacrificata, non so se i cinesi, per quanto abili, sarebbero riusciti a fonderla. - Ko-hi! - esclamò Rokoff, guardando il capitano. - Chi era? - Una delle più belle fanciulle dell'impero. - E che cosa c'entra colla famosa campana? - Signor Fedoro - disse il capitano, volgendosi verso il russo. - Non conoscete la storia di questa campana? - No, signore. Il capitano s'appoggiò al bordo, guardò per alcuni istanti Tschang-pin che ingrandiva a vista d'occhio, poi disse, quasi bruscamente: - Narrasi che l'imperatore Yung-ko avesse incaricato il mandarino Kuang-yo di fondergli una campana che, per mole, non avesse l'eguale nel mondo. L'impresa era così ardua, che per due volte l'immenso torrente di bronzo fuso si riversò nello stampo senza riuscire a dare una campana perfetta. L'imperatore, sdegnato, concesse una terza prova, minacciando di morte lo sventurato mandarino nel caso che non fosse riuscito. Interrogato un astrologo, questi aveva predetto che la fusione sarebbe riuscita se assieme al bronzo si fosse mescolato il sangue d'una vergine. Kuang-yo aveva una figlia, giovane e bellissima. Apprendendo la profezia dell'astrologo e temendo l'ira dell'imperatore contro suo padre, la fanciulla si decise per l'orrendo sacrificio. Ed ecco che, quando il fiume di bronzo usciva come lava ardente dall'immensa fornace, la bella giovane si slancia, gridando: "Per mio padre!" Un soldato si precipitò su di lei per trattenerla, ma già il giovane corpo si era immerso nel metallo, non lasciando in mano dell'uomo, che voleva salvarla, che una delle sue piccole scarpe. Il mandarino, che aveva assistito al sacrificio della figlia, impazzì, ma la fusione riuscì pienamente, come aveva predetto l'astrologo. Si dice che il primo suono che diede la campana sembrò un colpo di scarpetta. Era la disgraziata giovane che reclamava ancora, nelle vibrazioni del bronzo, la sua piccola shieh. Macchinista alziamoci! Ecco le prime case di Tchang-pin ed ecco i primi colpi di fucile destinati a noi. Non sono cortesi questi abitanti!

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