Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbellita

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Della scultura e della pittura in Italia dall'epoca di Canova ai tempi nostri

251401
Poggi, Emilio 1 occorrenze
  • 1865
  • Tipografia toscana
  • Firenze
  • critica d'arte
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Nella contessa Matilde la bontà abbellita dalla Religione.

Pagina 28

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266173
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Per altro è cosa onesta il soggiungere che Pio IX provvide meglio al restauro dei monumenti cristiani; e, per dire di uno, la basilica di San Lorenzo fuori le mura, rimessa a nuovo rispettando l’antico e abbellita dai dipinti di quel raro genio del Fracassini, morto così giovine, non ha perduto dell’aspetto primitivo che la sudicerìa e le rotture, le quali, se giovavano all’apparenza pittoresca, non giovavano certo alla conservazione dell’edifìcio. Ma questo è merito dell’archeologia, non già un segno che la Chiesa si ritiri in su nei riti e nei costumi.

Pagina 229

L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa

299002
Guerrini, Olindo 2 occorrenze

Questa maniera fondamentale può essere variata ed abbellita con tritume di carni cotte, di lardo, di burro d'acciughe, di funghi, di risotto ecc. in che la vostra inventiva può sbizzarrirsi senza che occorra moltiplicare ricette che sarebbero press'a poco simili.

Pagina 257

Disponete ogni cosa con gusto in una insalatiera di vetro, umettate (dico umettate e non bagnate) con qualche liquore che vi piaccia, versate su tutto uno strato grossetto di crema pasticciera abbellita di panna montata a mucchietti e mettete il recipiente sul ghiaccio per alcune ore, indi servite come piatto dolce.

Pagina 268

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

663158
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Poiché la sera era mite e chiara, Margherita uscì e si lasciò condurre da un vialetto bruno, che luccicava alla luna, fino ad una fontanella zampillante da una grotta di tufo, da dove si poteva vedere tutta la facciata della casa imbiancata e abbellita da tutti gl'incanti, che le ombre portate dalle gronde e quelle tremolanti delle piante fanno sopra gli edifici e sulle anime poetiche. Nell'angolo più remoto del giardino nereggiava un boschetto di alte conifere, pieno di segreti e di malinconie. Che volete? a Margherita balenò in cuore la immagine chiara di quella casetta, di quel paradiso tante volte sognato a braccio di Leopoldo. Addentrarsi alcun poco sotto gli alberi alla ventura di quel sentieruzzo di ghiaia, che saliva una montagnola, le parve di sentire intorno a sé quel fremito di soavissime passioni, che egli le aveva tante volte promesse. Quanto sarebbe stato bello di tornare a passeggiare, come una volta, sotto quel tempio di sempreverdi lumeggiati qua e là dal raggio piovente della luna vagolante, tutta appoggiata al braccio dell'uomo che ci ama! Perché Poldo non l'amava più? perché non era più per lui la sua Margherita? Se egli fosse uscito di dietro a quel tronco, oh! come l'avrebbe abbracciato stretto per non perderlo più! gli occhi le si riempivano di pianto e il cuore di amarezza. Quando rientrò in casa trovò il suo gentilissimo ospite, che dopo aver cambiato gli abiti, l'aspettava presso una tavola piena di biccchierini, di tondi, di biscotti, di fiori e d'altre galanterie. - Intanto che ci scaldano un caffè, o un brodo, possiamo sedere a far quattro chiacchiere in compagnia. Tanto, è troppo presto di andare a dormire e quattro chiacchiere preparano il sonno. Se pur io potrò dormire, senza la mia dolce metà. Margherita, dopo essersi levati il cappello e il dolman, andò a sedere in una poltroncina che il sor Claudio accostò alla tavola. Nell'avvicinarsele si trovò in piedi dietro di lei seduta e poté contemplare la ricchezza de' suoi capelli color del miele di Bormio, intrecciati con una semplicità di cui la sora Ballanzini non aveva idea. Parimenti ebbe occasione di osservare la malizia delle milanesi di indossare certi vestiti che stringono, con risparmio di stoffa e con vantaggio di chi li porta. Qui è il caso di dire che chi meno spende guadagna di più. A Margherita toccò d'obbedire e d'accettare ciò che l'ospite le offriva con tanta cortesia. Già si erano detti scambievolmente i loro nomi e cognomi: il cavaliere Spazzoletti non era ignoto a Musocco. Quasi quasi si trovavano parenti. Anch'essa si chiamava Margherita? Che combinazioni si dànno, e che differenze! Al sor Claudio piaceva e lo spirito e i modi distinti, e la flessuosità aristocratica della signora e più di tutto quell'aguzzare delle labbra, sorseggiando il caffè, e quell'incurvare del mignolo in un certo archetto nel tener la chicchera, che a non baciarlo quel mignolo ci voleva tutta la soggezione che imponevano quegli occhi. Di discorso in discorso si tornò a parlare della povera Cecilia, morta già da dieci anni. Se ci fosse stata poteva avere giusta l'età di Margherita. Sia che quella festa di eleganza, e quella giovinezza sorridente lo ammaliassero, sia che il pensiero e l'immagine di Cecilia si confondessero in quella personcina graziosa che gli stava davanti, a poco a poco il sor Claudio divenne malinconico. - Chi suona il piano? - domandò la signora. - L'avevamo comperato per Cecilia, che già sapeva suonarci su qualche cosa. Lo conserviamo per memoria. - Qui c'è della musica. - Erano cosette che la bambina stava studiando quando morì. - Permette che dia loro una scorsa? - Anzi, mi farà piacere. Margherita si mise al piano, aprì la musica e cominciò a suonare le "Violette", una mazurca semplice e graziosa. Al risentire quelle note che da forse dieci anni (cioè dal giorno che Cecilia s'era sentita male su quello sgabello) parevano morte con lei, al risentirle evocate dolcemente nel gran silenzio della notte, mentre dal giardino entrava il profumo dei fiori, il sor Claudio, sprofondato in una poltrona, chiuse gli occhi e giunse le mani in atto di preghiera. Così a occhi chiusi rievocava l'immagine di Cecilia, la ingrandiva, e aprendo gli occhi si compiaceva di vederla seduta davanti. - Ancora - disse quando ella ebbe finito. Quella musica che aleggiava sopra le aiuole del giardino e per gli atrii della casa non parlava solamente della povera Cecilia, ma di tutto un mondo invisibile di cose belle e gentili, che egli non aveva conosciute, ma delle quali gli pareva di avere i germi nel cuore. - Mi pare, - disse aprendo le mani- mi pare di sentire a volar gli angeli sopra il tetto. Poi volle che suonasse dell'altra musica, e che gustasse un altro bicchieruccio di Cipro... Finché scoccarono, fra ciarle e complimenti, le undici al campanile di Musocco. Poiché parve l'ora di ritirarsi, il sor Claudio offrì di nuovo il suo braccio e preceduto dalla Savina, che portava i lumi, accompagnò il suo "angiolino" fin sulla soglia della cameretta destinata, messa in bianco come la stanza d'una fanciulla. Quivi, volendo lasciarla con qualche barzelletta allegra, pentito di averle parlato di morti e di malinconie, s'inchinò, tenendosi una manina di lei nelle sue, vi posò rispettosamente le labbra e con una voce, in cui si sentiva una profonda commozione, soggiunse: - Badi a non cadere, perché io dormo di sotto. E ridendo e piangendo, il sor Claudio un quarto d'ora dopo soffiava il lume. Se quella notte chiuse gli occhi fu per vedere una farfalla bianca che passava e ripassava svolazzando intorno al letto.

Malombra

670400
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

La immagine che aveva serbata di suo padre nella memoria era venuta lentamente trasformandosi col tempo, s'era elevata e abbellita; proprio all'opposto del pover'uomo. Anche per Edith v'era adesso qualche cosa di straniero nell'aspetto di lui; anch'essa aveva bisogno di abituarvisi prima di potergli parlare a cuore aperto. Nelle tenebre, invece, la voce di cui tante volte, lassù a Nassau, aveva cercato di ricordare il timbro esatto, la cara voce paterna le correva dentro per tutti i nervi, le riempiva il petto, le riportava impetuosamente nel cuore i più minuti ricordi dell'infanzia. Anche a lei piaceva parlare così, all'oscuro. E raccontò quei dodici anni passati con il nonno materno, due zii e le loro famiglie. Il nonno, morto da pochi mesi, era stato assai buono per lei, ma non aveva permesso mai che in casa si pronunciasse neppure il nome del proscritto. Edith ne parlò con delicata pietà e temperanza, dissimulando, scusando, per quanto era possibile, gli odii tenaci del vecchio, imbevuto di pregiudizi che nessuno della famiglia si era mai curato di combattere. Steinegge non la interruppe mai; era ansioso di udire l'ultima parte del racconto, di sapere come Edith, che aveva lasciate senza risposta tutte le sue lettere, si fosse poi decisa di abbandonare patria e parenti per venire in traccia di lui. Quest'ultima parte fu la più difficile e amara per la narratrice. Fino alla morte del nonno essa non aveva ricevuto alcuna lettera di suo padre. Morto il nonno, ne aveva trovata per caso una direttale da Torino e aveva saputo in pari tempo che fino a due anni prima moltissime altre lettere erano arrivate per lei da vari paesi e che tut te erano state trattenute e distrutte. Qui il racconto fu interrotto da un'espansione di Steinegge contro quei maledetti bigotti ipocriti furfanti vili che son capaci di queste azioni da assassini. Tempestò sbuffando per la camera buia e non si fermò se non quando ebbe rovesciate due sedie. Allora udì un passo leggero venire a lui, si sentì una mano sulla bocca. Tutta la sua ira cadde. Egli baciò quella mano e la tolse con ambo le sue. "Hai ragione" disse "ma è orribile!" "Oh no, è basso, basso, molto più basso di noi, papà." Ella continuò narrando come quella lettera vecchia di due anni e mezzo, l'avesse quasi fatta impazzire. La sapeva a memoria. Ripeté le preghiere appassionate fatte agli zii onde ricuperare qualche altra lettera. Ma erano tutte scomparse e neppure una ne poté tornare in luce. Si spezzarono invece i fragili legami che tenevano unita Edith alla famiglia materna dopo la morte del nonno. Ella ebbe la sua parte dell'eredità, modicissima perché gli eredi erano parecchi e la famiglia, non molto ricca, aveva sempre vissuto signorilmente. Chiese di poterne disporre subito e l'ottenne a condizioni inique che ella accettò senza discutere. Partì subito per l'Italia, sola, con la sua piccola eredità, seimila talleri, e una lettera per un impiegato della Legazione di Prussia a Torino, che prestava i suoi buoni uffici anche ai cittadini del Nassau. Si recò difilata a Torino; quel signore si adoperò molto per lei e fu presto in grado di farle sapere dove avrebbe potuto tr ovare suo padre. Edith terminò con dire come si fosse accompagnata ai Salvador. Steinegge osservò allora ch'era forse suo dovere scendere nel salotto prima che gli ospiti del conte si ritirassero. Accese il lume per Edith e la pregò di attenderlo, si sarebbe sbrigato in pochi minuti. Escì in fretta e scese la scala senza badare che la lampada sospesa sul pianerottolo del primo piano era spenta e che nessuna voce si sentiva tranne quella dell'orologio. Scoccò da questo, mentre passava Steinegge, un tocco sonoro. Pareva dicesse: "Ferma!". Quegli si fermò, accese uno zolfanello. Le undici e mezzo! Lo zolfanello si spense e Steinegge rimase immobile con la mano distesa in aria. Possibile? Avrebbe creduto che fossero le nove e mezzo. Risalì la scala in punta di piedi e spinse pian piano l'uscio della camera di Edith. Ella era ritta davanti alla finestra aperta, teneva stretta alla persona con le mani giunte la spalliera d'una seggiola e curva sul petto la testa. Steinegge si fermò; gli si era stretto il respiro. Sentiva forse gelosia dell'Invisibile cui saliva allora, oltre le stelle, il pensiero di sua figlia? Non lo sapeva bene neppur lui, che sentisse. Era un freddo, un'ombra fra Edith e sé. Egli non aveva mai nella sua mente distinto Iddio dai preti, dei quali parlava sempre con disprezzo, benché fosse incapace di usare la menoma scortesia al più zotico e bigotto chierico della cristianità. Aveva spesso pensato con dolore che sua figlia sarebbe stata educata da i preti, e ora, solo per averla veduta pregare, gli pareva che lo avrebbe amato meno, si sgomentava del futuro. Edith s'avvide di lui, depose la seggiola e disse: "Avanti, papà." "Ti disturbo?" Ella si meravigliò del tono sommesso e triste della domanda e rispose con un no attonito, levando le sopracciglia come per dire: "Perché mi domandi così?". Lo volle accanto a sé, alla finestra. Era una notte senza luna, quieta. Il lago non si distingueva dalle montagne. Appena si vedeva a piedi dell'alta finestra una striscia biancastra, il viale di fronte all'arancera, lungo il lago. Tutto il resto era un'ombra che cingeva da ogni parte il cielo grigio, e dentro a quell'ombra si udiva di tratto in tratto il breve e dolce mormorar dell'acque chete, che, rotte dal guizzo d'un pesce, si dolevano e si riaddormentavano. Edith e suo padre conversarono ancora lungamente a voce bassa, per un inconscio rispetto alla silenziosa maestà della notte. Ella gli domandava mille cose della vita passata, dalla separazione in poi; faceva domande disparatissime, perché ne aveva preparato un tesoro da lunga pezza e ora le venivano sulla bocca alla rinfusa, alcune gravi come questa: se avesse mai sofferto di nostalgia, alcune puerili come quest'altra: se ricordasse il colore della tappezzeria del salottino dov'ella aveva dormito e sognato di lui per dodici anni. Al povero Steinegge si spandeva nel petto una dolcezza ricreante, un calore d'orgoglio. Raccontando ad una ad una le sue tribolazioni alla giovinetta che ne palpitava e ne piangeva, quel che aveva sofferto gli pareva niente a fronte della consolazione presente. Un suono di campane passò sul Palazzo, andò a echeggiare nelle valli, a perdersi nei fianchi selvosi dei monti. V'era l'indomani una sagra in Val... "Perché suonano, papà?" "Non lo so, cara" rispose Steinegge. "Die Pfaffen wissen es, il pretume lo sa." Appena pronunciate queste parole, sentì di aver detto male e tacque. Tacque anche Edith. Il silenzio durò qualche minuto. "Edith" disse finalmente Steinegge "sarai stanca non è vero?" "Un poco, papà." Era sempre tenera quella cara voce argentina; Steinegge si consolò. Era sempre tenera quella voce, ma vi suonava dentro stavolta una nuova corda delicatissima, mesta, appena sensibile. Poi che Steinegge si fu congedato con un bacio, Edith tornò alla finestra e parve parlare a lungo con Qualcuno al di là delle nubi. Intanto suo padre non poteva trovar posa. Tornò cinque o sei volte a picchiar all'uscio per chiederle se aveva acqua, se aveva zolfanelli, a che ora voleva essere svegliata, se le dovevano portare il caffè, se desiderava questo, se desiderava quello. Fu tentato d i coricarsi lì all'uscio, come un cane fedele; finalmente, poco prima dell'alba, andò a coricarsi bell'e vestito sul suo letto.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675759
Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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«Che fortuna è la mia di possedervi un istante sotto questo tetto, in questa stanza istessa che fu abbellita una volta dalla vostra presenza e mi sembra deserta da che la vostra preziosa persona l’ha abbandonata». «Quanta galanteria sfoggia questa serpe» pensò fra sé la nostra Giulia, mentre che ascoltava il grandiloquente sermone del cicisbeo, e sedutasi, con poche cerimonie, rispondeva «Gentile e graziosa è l’E. V. e io le ne sono grata. Una volta io veniva qui più spesso per copiare i capi d’opera di cui va adorno questo palazzo, ma già da alcun tempo ho terminate le mie copie ed oggimai qui non saprei quello che dovrei venirci a fare». «Non ci sapreste più che fare?! oh! questa poi è una dichiarazione poco galante da parte vostra, signora Giulia! qui come ovunque voi avrete un culto, bellissima fanciulla!». Biascicando queste e simili frasi melate, Don Procopio cercava di avvicinare frattanto la sua poltrona a quella di lei ma ella ritirava la propria d’altrettanto dimodoché le due poltrone avevano l’aria di onde agitate che si perseguono sempre, e non si raggiungono mai. Stanco di perseguitare la giovine straniera a corso di poltrona, il prelato si alzò e risolutamente mosse verso di lei. «Ma sedete, od io parto!» esclamò Giulia alzandosi e mettendo la poltrona tra lei e l’indecente Cardinale mentre gli figgeva due occhi in volto che lo atterrarono. Il prete si lasciava andare sulla seggiola come colpito dal fulmine e Giulia sedutasi pure cominciò: «La mia visita non è senza grave motivo, già lo sapete che per vedervi non ci verrei. Io son qui a chiedervi notizie d’una famiglia che m’interessa: della famiglia dello scultore Manlio». «Fu qui è vero, ma se n’è andata» rispose Procopio, rinvenuto dal primo stupore. «È molto tempo che se n’è andata?» chiese Giulia, con accento da cui trapelava la sua incredulità. «Sono pochi momenti che le donne lasciarono queste stanze» fu la risposta di Don Procopio. «Saranno dunque a quest’ora fuori del palazzo», ripigliava la straniera. Ed il prete: «lo saranno», rispose colla certezza di mentire. Giulia con un gesto d’incredulità troncava il dialogo e maestosamente ripigliava la sua via, appena salutando con un cenno del capo l’eminente canaglia. Ha pure i suoi vizi i suoi difetti la razza britannica. E cosa v’è di perfetto nell’umana famiglia? Ma se v’è popolo ch’io mi compiaccia a paragonare ai nostri antichi padri di Roma, è certamente l’inglese. Egoista e conquistatore come quelli, la sua storia rigurgita di delitti; delitti commessi nel suo seno e nel seno delle altre nazioni. Molti sono i popoli che egli ravvolse e ravvolge nelle sue spire di ferro per contentare l’insaziabile sua sete d’oro e di predominio. Pur non si può negare che egli non abbia immensamente contribuito al progresso umano e gettato la base di quella dignità individuale che presenta l’uomo diritto, inflessibile, maestoso, davanti alle esigenze dispotiche che padroneggiano l’uman genere. A forza di costanza e di coraggio egli ha saputo conciliare l’ordine governativo colle libertà adeguate ad un popolo padrone di sé stesso. L’isola sua divenne il santuario e l’asilo inviolabile di tutte le sventure, il despota, come il proscritto dal despota, vivono insieme su quella terra ospitale, colla sola condizione di essere uomini. Egli ha proclamato l’emancipazione dei negri oggi felicemente conseguita dalla lotta gigantesca della sua stessa razza sul nuovo continente; a lui infine deve l’Italia in parte la propria ricostituzione, grazie alla maschia sua voce di non intervento da lui fatta risuonare nello stretto di Messina nel 1860. Alla Francia come all’Inghilterra molto deve l’Italia. Alla Francia molto deve l’umanità per la propaganda de’ principi filosofici, per l’affermazione dei diritti dell’uomo. Alla Francia si deve l’annientamento della schiavitù barbaresca nel Mediterraneo. La Francia seppe mettersi alla testa della civiltà umana ma non lo è più. Oggi strisciando davanti al simulacro d’una grandezza fittizia essa distrugge l’opera grandiosa del suo passato. Un giorno la Francia proclamava e propagava la libertà nel mondo, oggi è dessa che cerca distruggerla dovunque. La Dea ragione, quel parto straordinario dell’intelligenza emancipata, essa oggi la rinnega ed i suoi soldati fanno il gendarme al Sacerdote dell’oscurantismo. Speriamo per il bene dell’umanità veder presto le due grandi Nazioni rimettersi insieme all’avanguardia dell’umano progresso.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676097
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Come ho detto, la giornata è abbellita da uno splendido sole. Gli Apparatori pubblici hanno allentati i velarli riparatori l'estate di S. Martino penetra allegramente nelle vie a cacciarne le poco salubri esalazioni delle stufe. Dai balconi e dalle finestre svolazzano bandiere e girandole di mille colori, e al suono delle fanfare a migliaia i subalterni di ogni classe sì spandono nella città per affiggere i proclami di concorso. Chi potrà reggere alla rassegna di quelle tappezzerie stampate e dipinte? - Si vuole che i pretendenti alla Propostura dell'Olona siano diecimila. - vorreste voi leggere altrettanti proclami? Attendiamo! Quelle dicerie verranno riprodotte dai giornali: ed ecco appunto una processione di Portavvisi si diparte dal Piccolo Campidoglio per attraversare quella grande arteria cittadina che si intitola il Corso Ossobuco. Poniamoci a sedere sotto il Padiglione del Caffè Merlo, dove la processione dovrà passare e dove per avventura ci sarà dato raccogliere dalle conversazioni animatissime dei cittadini qualche sintomo della pubblica opinione. Affrettiamoci. V'è ancora un tavolino libero, e poco lungi da quello, seggono, con alcuni milanesi di nostra antica conoscenza, due Primati dalla fisonomia grave ma altrettanto simpatica. - Ci siamo, caro Pestalozza! - La è proprio così, caro Pirotta! E i due milanesi, scambiandosi un risolino più ebete che sarcastico, tuffano il loro chiffer nel caffè e pannera ed esclamano: - Prepariamoci alla lotta! - Rinforziamo la macchina! Esaurita la colazione, i due amici riprendono il discorso. - Hai fissato il tuo ... individuo? - Non ancora; ma io voterò colla maggioranza de' miei colleghi politici. - Tu appartieni a qualche circolo? - Al Circolo dei Droghieri indipendenti - Il vostro programma? - Vogliamo che il governo adotti il caffè igienico fico-patata pei Coscritti dell'Agro. - Come afferma il vecchio Pungolo, tutte le opinioni politiche sono rispettabili quando si ispirino, al pari delle vostre, ai grandi interessi della patria. Quanto a me, intendo portare il mio voto sul Primate Albani ... - Vedremo il suo manifesto ... Pur che vi abbia qualche allusione in favore dell'anzidetto caffè igienico, io vedrò di appoggiarlo. - L'elezione dell'Albani farebbe scoppiare dalla bile quel bel mobile dell'ex proposto Berretta con tutti i satelliti della infame Consorteria. - S'io fossi certo di veder crepare l'ex proposto ... - Quel ludro! - Quel ladro, dico io! - E che ladro! Si vuole che tutti gli anni mandasse secretamente a Madera un miliardo di lussi! ... - E i buoni Milanesi l'han lasciato partire ... - Oh! la morte del Prina! ... - E noi due a far la parte del cavallo ... Ma ecco un compare che sarà del nostro avviso. - Che vuol dire quell'aria affannata? Il brugnone Perelli si accosta al tavolino con un giornale alla mano, esclamando: - Avete letto? cose da far piangere i sassi! ... - Che è stato? - È morto l'ex-proposto Berretta. - Morto! Oh, disgrazia! Ma quando? Ma come? - Leggete! ... sentite! «La mano ci trema ... le lagrime ci fan velo agli occhi ... il cuore ci si spezza nel trascrivere l'infausta novella ... Quell'ottimo patriota, quell'illustre pubblicista, quell'integro amministratore della cosa pubblica, quel solerte funzionario al cui genio, alla cui operosità Milano va debitrice dei tanti abbellimenti edilizii, dei tanti provvedimenti economici e filantropici che in pochi anni la elevarono al rango di città capitalissima - l'illustre, il benemerito, il grande, l'immortale nostro concittadino Berretta non è più! Al momento di abbandonare per sempre la sua diletta Milano, quel nobile cuore si è spezzato ... di angoscia». - Povero Berretta! - esclama il Pestalozza; - vero galantuomo! ... vero patriota! ... - E una testa! - soggiunge il Pirotta, - una di quelle teste ... - E galantuomo, perdio! - Uomini che non dovrebbero morir mai! - Ma Milano farà il suo dovere. - Apriamo subito una sottoscrizione per erigergli un monumento ... - Approvato! - gridarono molte voci. - Io proporrei ... - Sentiamo! tu proporresti? ... - Che i Milanesi facessero pubblica e solenne riparazione dei loro torti verso l'illustre estinto, rieleggendolo alla carica di Gran Proposto. - Sarebbe una dimostrazione degna di noi. L'illustre estinto aveva troppo buon senso per opporsi alla adottazione del caffè igienico fico-patata ... Proporrò la nomina al Circolo dei droghieri ... - Frattanto sottoscriviamo! Olà! penna, calamaio! e avanti a chi tocca! I circostanti si affollano intorno al Pirotta, e mentre, inneggiando al defunto, tutti gareggiano nell'offrir denaro pel monumento, i due Primati prendono a parlare fra loro sommessamente. - Ecco un altro cittadino benemerito, a cui verrà resa giustizia quando i suoi compatrioti non vedranno più in lui che un uomo di Pietra! - mormora il giovane Foscolo. - Il volgo fu sempre volgo - risponde il Primate Alfieri, e l'istruzione universale ha cretinizzato le masse completamente. Se il governo non mette un freno alla stampa ... - E tu osi profferire questo voto liberticida? ... - Esso formerà la base del mio programma elettorale. La libertà di stampa fu utile e buona ai tempi in cui l'istruzione era privilegio di pochi. A quell'epoca, l'audacia dello scrivere quasi sempre andava accompagnata alla coscienza del sapere. La falange degli scrittori pessimi non era tanto compatta da chiudere il varco agli intelligenti ed agli onesti, e la voce solitaria del genio poteva ancora soverchiare il raglio collettivo delle plebi. Ma oggi? Tutti leggono, tutti scrivono. La statistica libraria ci afferma che nella Unione Europea vengono in luce da venti a trentamila volumi ogni giorno. Altrettanti, e forse più, ne produce l'America; e non parliamo delle altre province già invase e corrotte dalla nostra civiltà. A leggere tutti i volumi che si pubblicano in un giorno, appena basterebbe la vita di un uomo! Qual criterio può ora guidare le nostre preferenze? E chi ci addita il buon libro? Chi vorrà sommergersi in questo oceano di insensatezze stampate, colla incerta lusinga di scoprire quando che sia, per favore del caso, qualche perla sepolta fra le alghe? Ammesso che alla espansività dell'idiotismo che scrive non si voglia mettere un freno, qual sarà l'avvenire della nostra letteratura? L'asfissia del senso comune, e un contagio di asinità irreparabile. Uomini di genio, appiccatevi! Il mondo non ha più orecchio per voi, dacché la stampa è in balia dell'ebete maggioranza. - I parrucchieri! i parrucchieri!(32)

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Della città romana, l'Augusta Taurinorum, costrutta sullo stampo quadrangolare degli accampamenti legionari romani di Giulio Cesare, ampliata ed abbellita dall'Imperatore Augusto, si può segnare approssimativamente la cinta perimetrale delle mura con i nomi delle attuali vie. Lato Nord per Via Giulio da Via Consolata e per Via Bastion Verde sino al Giardino Reale; lungo questo lato aprivasi la Porta Principalis dextera ora Porta Palatina: all'angolo di Via Consolata e Giulio è rimessa in piena vista la base della torre angolare nord-ovest delle mura; presso l'angolo nord-est, lungo la Via XX Settembre, era il Teatro Romano. Lato Est dal Giardino Reale alle Torri Occidentali di questo Palazzo Madama e poi per una linea mediana tra Via Roma e Accademia delle Scienze. Lato Sud da questa linea per Via Santa Teresa e Cernaia al Corso Siccardi: lungo questo lato aprivasi la Porta detta Marmorea nel Medio Evo. Lato Ovest da Via Cernaia per Corso Siccardi e Via della Consolata a Via Giulio: lungo questo lato aprivasi la Porta Praetoria detta Segusina nel Medio Evo. La Torino Medioevale spopolata e immiserita non si ampliò oltre la città romana della quale conservò la planimetria. Vista dalle alture della collina la città doveva ricordare quelle città minuscole, chiuse da alte mura, che le sante reggono per ex-voto nella palma della mano protesa. Torino finiva adunque qui, dove oggi è il suo cuore più pulsante; qui era un fortilizio: una domus de forcia Infatti il trattato fra Guglielmo VII, Marchese di Monferrato, e Tommaso III, Conte di Savoia, venne conchiuso nel fortilizio che su queste pietre stesse preesisteva al Castello dei D'Acaja. Il patto fu stretto in domu de forcia quam ibi de novo aedificavimus ... La porta romana - scrive il prof. Isaia - era per dimensioni, struttura e pianta, del tutto, uguale alla Porta Principalis dextera o Palatina Della porta romana, oltre le due torri, conservate nel lato orientale del palazzo, si rinvennero le fondazioni ed una parte dei pilastri tra le fauci, oltre a molti tratti del selciato poligonale. Addossato alla cinta romana e alla porta sorse all'esterno della città, all'epoca di Guglielmo VII di Monferrato, un fortilizio chiamato nei documenti col nome di Castrum Portae Phibellonae Dal 1404 al 1417 il Principe Ludovico d'Acaja ampliò le costruzioni difensive, provvide al rinforzo delle torri romane ed aggiunse alla casa forte del Marchese di Monferrato un corpo di fabbrica fiancheggiato da torri. Altra trasformazione importante fu quella compiuta al tempo di Carlo Emanuele II, che mutò completamente la disposizione del Castello, riducendo il cortile ad atrio con vôlte a crocera, sostenute da pilastri ed erigendo il grande salone centrale, che fu poi l'aula del Senato. A tutti i precedenti lavori si aggiunsero infine, nel 1718, la facciata di ponente e il grandioso scalone a due rami costrutti dal Juvara. L'epoca romano con le sue pietre massiccie, il medio evo col profilo merlato delle sue torri, il Rinascimento che cercò di illeggiadrire la casa forte con qualche segno di bellezza, il 700, infine, che chiude questo sovrapporsi di epoche e di stili con l'arte del Juvara: tutto un poema di pietra. Quali figure di donna animarono questa pietra che reca nel nome stesso una chiara dedicatoria muliebre e non so che imponenza matronale? Palais de Madame Royale, Palazzo Madama nel dialetto infranciosato subalpino, ma prima ancora, fin dall'inizio del medio evo, intitolato a Nostrae Dominae a Nostra Signora. E non in senso mistico, non a Nostra Donna, che sta nei cieli, ma ad una donna di carne, certo molto bella. Quale dei rudi Marchesi di Monferrato, quale dei Principi d'Acaja ebbe pel primo l'idea di quell'ossequio coniugale, veramente cavalleresco, verso la sua amatissima sposa? Dominae, Mesdames, Madame: le Marchese di Monferrato, le Principesse d'Acaja, le Contesse e le Duchesse di Savoia, animarono per secoli, per quasi un millennio, lo squallore tetro di queste mura e forse i loro fantasmi attirano la nostra fantasia più degli avvenimenti che qui si svolsero o furono sanciti. Avvenimenti solenni e storici: dalla pace conchiusa tra i Marchesi di Monferrato e i Conti di Savoia, dalla pace tra Genovesi e Veneziani, che ebbe ad arbitro inappellabile il Conte Verde, al Senato del Regno, che meditò le sorti dell'Italia risorgente ed ebbe sede nella grande aula dal 1848 al 1864. Avvenimenti giocosi e pittoreschi, l' Abbazia degli Stolti ad esempio, la singolare associazione privilegiata ed approvata dal Duca, la quale aveva qui la sua sede, apprestava le pubbliche feste e le pubbliche facezie e attendeva a cariche singolari come la percezione del diritto di barriera tassa che gravava sui novelli sposi che giungevano a Torino. La coppia era fermata precisamente tra queste torri, alla Porta Decumana; l'Abate degli Stolti, con i suoi Monaci si recava incontro agli sposi in pompa magna e con rituale scherzoso fingeva di voler loro impedire il passo: lo sposo doveva sottostare ad alcune formalità e sborsare un tanto per fiorino sulla dote della sposa novella. I Monaci cedevano il passo e la coppia entrava in città. Consuetudini che sanno di lepida farsa; ma l'Abbazia attendeva ancora all'allestimento di feste solenni, di giostre sontuose, quali si sognano soltanto nei poemi cavallereschi; e il cortile antistante al Palazzo si gremiva di popolo plaudente. Gli storici rammentano la giostra allestita a cura dell'Abbazia nel dicembre 1459 tra il Cavaliere errante Giovanni di Bonifacio e Giovanni di Compei, i quali si provarono alle armi a piedi ed a cavallo. Rammentano le splendide feste del 1474 in occasione della elezione del Rettore dell'Università, alle quali era presente la Duchessa Violante di Francia vedova del beato Amedeo IX e quelle per la Marchesa di Monferrato, moglie di Guglielmo VIII. Nel 1500 per le nozze del Duca Carlo Emanuele con Caterina d'Austria - scrive Daniele Sassi - nella sala maggiore del Palazzo si formò un teatro per rappresentare il Pastor Fido del Guarini. Il Duca Carlo Emanuele aveva spirito d'artista, incoraggiava le pubbliche festività, componendo egli stesso azioni spettacolose di soggetto mitologico o marziale. La Corte ne seguiva l'esempio. Così nel gran salone del Palazzo Madama il Conte San Martino d'Agliè produsse un suo Ercole domatore dei Mostri e un Amore domatore degli Ercoli ed altre inventioni il Principe Maurizio, figliolo del Duca, scrisse e recitò il suo Nettuno Pacifico ... Dolce accademia, arcadia di endecasillabi sciolti, di stucco e di tela dipinta! Come si conciliava il "bello stile" con la rudezza guerresca piemontese? Come la letteratura iperbolica con il gaio stuolo illetterato di quei tempi in cui la lingua, italiana era lingua straniera e poche erano le dame che sapessero scrivere il proprio nome o lo scrivevano con quella calligrafia tremula, deforme che oggi distingue soltanto certe serve campestri? Non erano però illetterate le spose dei signori: non era illetterata la moglie di Guglielmo VIII di Monferrato, nè la moglie di Ludovico I, se scrivevano in corretto latino epistole affettuose ai consorti, lontani e guerreggianti; non quella Giovanna Battista di Savoia Nemours che componeva in un dolce francese arcaico strofe piene di sentimento aggraziato, non Cristina di Francia, la prima Madama Reale, che culmina nella storia e nella leggenda. Il solo suo nome sembra evocarne l'ombra imponente; e l'ombra invade gli atri, le scale, i saloni di questo Palazzo Madama, l'occupa tutto come sua dimora, esclusiva, sembra offuscare d'una luce unica i fantasmi leggieri delle altre principesse. "Beauté, douceur, esprit, mémoire, jugement fin, éloquence, libéralité, constance dans le malheur, tout concourait à en faire une princesse, accomplie. Elle s'exprimait avec noblesse et avec grâce en français, en espagnol, en italien. Ses connaissances, variées, sa sagacité d'esprit ne l'empêchaient pas de déférer volontiers aux bons avis. "Quoiqu'elle ne fut pas ennemie des fêtes et des plaisirs, elle se livrait avec assiduité aux affaires d'état les plus graves. Nous la verrons exercer une grande influence durant le règne de son époux, gouverner avec sagesse pendant les onze ans de sa régence, être, toute sa vie, l'âme des affaires. Vêtue en amazone, cette Princesse conduit elle-même au camp de Verole cinq régiments d'infanterie, et deux mille hommes de cavalerie, inspecte les troupes, les exhorte à bien faire, et ne revient à Turin qu'après leur avoir vu prendre la route de Verceil". Così l'ufficioso, e molto timorato storico Jean Frézet, abate di Corte e pedagogo. Certo è che, rimasta vedova giovanissima, lanciata dal destino tra le vicende più tragiche che possano turbare un reame, Madama s'innalza nella nostra fantasia come un'immagine di forza e avvedutezza che pochi regnanti possono vantare. Ella sa equilibrarsi, tra cupidigie opposte, tra nemici formidabili. La Francia da una parte, che è pure la sua patria perduta, la quale l'incalza contro la libertà del Piemonte con la politica subdola, terribile, inesorabile di Richelieu e del fratello Luigi XIII. Dall'altra la fortuna e la libertà del Piemonte che è anche la fortuna e la libertà del figlio superstite, un gracile bimbo di sei anni che ella adora e che sarà col tempo il grande Vittorio Amedeo; dall'altra i cognati: il Principe Tommaso e il Cardinale Maurizio implacabili contro la Reggente. Da questo nodo di cupidigie opposte scoppia la guerra civile del 1640. C'è, di quei giorni, una lettera di Madama, che non si può leggere senza un fremito di commozione e di ammirazione, e che rivela la tempra veramente superiore di quella donna che ha paura d'esser donna Ella deve lasciare per qualche giorno la Cittadella, deve abboccarsi segretamente col fratello Luigi XIII e Richelieu, a Grenoble, per moderarne i disegni crudeli e conciliare il destino di tutti quelli che ama. Essa lascia il figlio piccolino al Marchese di San Germano, lo affida con queste parole che è bene meditare: "Je vous confie le dépôt le plus cher. Ne laissez point sortir monn fils de la Citadelle: n'y recevez pas d'étrangers. Ne remettez cette place forte à personne. Si vous receviez des ordres contraires, fussent-ils revêtus de ma signature, regardez-les comme non avenus. On me les aurait extorqués. Je suis femme . .E altrove, accasciata per un attimo dal destino che minaccia la catastrofe ultima, oppressa dalla malvagità dei più famigliari, scrive al fratello: L'heureux a peu d'amis: le malheureux n'en a point! Je suis femme Com'era? Bella? Nessuna stampa dell'epoca la ritrae come doveva essere: è forse bene che il nostro sogno faccia di tutte le sue effigi una sola, per vederla com'era, o basta sillabare il suo nome, pensarla intensamente ad occhi socchiusi perchè la sua figura si profili contro la parete sanguigna, sotto le vôlte a crociera. Ha una veste nera - non ha deposto le gramaglie più mai, dal giorno che è rientrata in Torino vittoriosa centro i suoi sudditi - la quale l'avvolge graziosamente, con un guardinfante appena accennato: una veste che potrebbe ricordare la foggia odierna se non terminasse alle maniche, alla gorgiera con sbuffi di velo bianco e ondulato. Madama non ha più gioielli. Dato fondo al Tesoro per sostenere le spese della guerra, essa ha venduto i famosi brillanti, dono e retaggio di principi sabaudi, ha venduto "le smaniglie e le boccole pesanti", ha venduto la collana di Ahira, la meravigliosa collana bizantina d'oro massiccio e di smeraldi che gli Avi Cristianissimi avevano portato da Gerusalemme al tempo delle Crociate: " J'aime mieux, mon frère, me passer de joyaux que de lasser mes troupes sans paie ... ". Il volto è circondato da un'acconciatura di tulle nero, alla Holbein, che gli darebbe non so che espressione monacale se sotto non balenassero gli occhi chiari di amazzone, il profilo diritto, la bocca volontaria, la mascella forte: un volto che sembra la maschera dei guerrieri greci, come si sognavano nelle fantasie mitologiche di allora, non il volto d'una Regina, d'una donna segnata dal destino al dolore ed all'amore. L'amore? "Elle eut des envieux, des ennemis qui s'efforcèrent de répandre des nuages sur ses belles qualités: la calomnie n'épargna pas la grande Princesse". L'amore? La immagino dolorante, tragica, combattiva: non la so pensare amante. Se qualche verità c'è in fondo alla calunnia e alla leggenda, se in un'ora di sconforto supremo ella ha piegato la bella fronte virile sulla spalla di qualche amico, certo deve essersi sollevata subito, conscia del suo destino, deve aver ripetuto fieramente al favorito d'un'ora le parole che scriveva al Marchese di San Germano: "Regardez-les (trattati politici o baci che fossero) - regardez-lecorame non avenus, on me les aurait extorqués. - Je suis femme".

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael. La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi. Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente. Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi. - Che cosa può raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle. - Io non so, ma vedo una cosa. - Quale? - Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi. - Che quella vecchia pazza ... - Signor Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato, dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik. - Una commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore. - Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni. - Che cosa c'entrano i montoni ... i cammelli ... Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente: - Io saluto in voi il principe di Turfan. - Io principe! - gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare. - Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo. - Fulmini del Don! - Fortunato amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava d'avermi accompagnato in Cina!

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

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Brigola, Gaetano 1 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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A questa Piazza si diede il nome di Fontana allorchè nel 1780 venne abbellita e lastricata, ponendovisi nel mezzo la fontana di granito rosso, ridotto a lucido, disegno di Piermarini, con due bellissime Sirene di marmo bianco di Carrara, opera di Giuseppe Franchi carrarese, celebre professore di scultura nell'Accademia di Belle Arti. _ L'acqua per l'alimento della fontana si trae dal canale Seveso, che scorre di sotto la città, per mezzo di una ruota mossa continuamente dalle acque medesime del Seveso. _ Questo luogo era il Viridarium degli antichi, e, se si deve credere al Fiamma, vi era un vasto giardino, nel mezzo del quale i Gentili veneravano la statua della dea Februa, quale oracolo a cui ricorrevano per le predizioni sopra l'esito della guerra. Nell'anno 1864, idi primavera, fa abbellita da verdi zolle ed alberi e sedili a cura del Municipio.