Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbellire

Numero di risultati: 3 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Cosima

243854
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Allora Cosima, come già aveva fatto sul Monte, cominciò a riordinare e abbellire quella che, per far sorridere la madre, chiamava la villa. La madre non sorrideva: come sempre era taciturna e chiusa in una tutta sua segreta preoccupazione: ma gli occhi le si erano un po' illuminati, e il da fare che si diede, per preparare un po' di cibo nel camino della prima stanzetta, adibita a cucina, sala da pranzo e da ricevere, la distrasse. Si sarebbe potuto usufruire, per gli usí più comuni, della cameretta del colono, dove c'era un vecchio e grande camino che tirava molto bene; ma la padrona intendeva rispettare gli antichi privilegi del dipendente, che con la sua sola opera si era costruito quel rifugio da quando aveva assunto servizio nella vigna, e vi teneva i suoi stracci e il suo giaciglio. Cosima d'altronde ci sentiva odore di selvatico e non le sarebbe piaciuto neppure di guardare dentro se il vecchio non avesse attirato la sua curiosa attenzione, interessata, di osservatrice di tipi fuori del comune, con la nebulosità del suo passato e la sagoma della sua figura. Egli avrebbe forse potuto, ad esplorarlo, a farlo diventare docile e confidente, raccontarle qualche cosa d'interessante, con un colore diverso dal locale, qualche cosa da mettersi sulla carta e trasformarlo in materia d'arte. Appena dunque l'abitazione fu in ordine, ella andò nella vigna, dove i due uomini lavoravano, e diede ascolto ai discorsi del servo paesano, poiché l'altro conservava il suo assoluto e impassibile mutismo. «Speriamo» diceva il giovinotto «che la vostra mutria si cambi in buon umore fra una settimana, quando verranno le ragazze a vendemmiare. Verranno due mie cugine: ma quelle dovete contentarvi di guardarle da lontano e di non toccarle neppure con una canna: le altre, che la padrona sceglierà di suo gusto, ve le lascio liberamente, vecchio cinghiale.» Il vecchio cinghiale pareva non lo sentisse neppure: solo, all'accenno di una donna, una vedova già anziana, che un tempo si diceva avesse avuto relazioni con l'esiliato, i suoi occhi si allargarono un poco, ed egli scosse il mazzo di foglie di viti che teneva in mano: ma non apri bocca, non si volse a guardare Cosima che era arrivata in mezzo al filare e lo osservava silenziosa. Né piú fruttuosi furono gli altri approcci durante quella prima giornata, sebbene ai due uomini fosse servito un pasto certo per loro insolito, preparato dalla padrona, e anche lei tentasse di attaccare discorso col vecchio taciturno. Egli rispondeva sí e no alle domande di lei, riguardanti l'orto e la vigna, nel vederla si alzava e si piegava con segni di un rispetto quasi esagerato: null'altro. «È un idiota» disse il servo, quando l'altro non poteva sentirlo. «Ma è anche malizioso, e la sa lunga.» E raccontò della vedova, che un tempo veniva a trovarlo nella vigna, e accennò al lontano passato di lui. Pare che avesse tentato di derubare un suo ricchissimo parente, nelle cui terre lavorava: sebbene il parente avesse rimesso la querela, Elia era stato condannato. Poi la voce cambiava; il parente diventava un banchiere, o addirittura una banca, che era stata, svaligiata da un gruppo di ladri, dopo narcotizzato il custode, e fra i manigoldi era Elia. Disse la padrona : «Se fosse stato cosí, il mio povero marito non l'avrebbe assunto al suo servizio.» «Oh, il signor Antonio era buono: era un santo, di quelli che non ne nascono piú» disse il servo. Nel pomeriggio arrivò, a cavallo, Andrea. Fra le altre cose portava un giornale e una lettera per Cosima. Una lettera! Ella la prese, come faceva sempre, trepidando: le pareva, ogni volta, di afferrare un uccello a volo, l'uccello favoloso della fortuna e della felicità. Ma questa era una semplice lettera d'invito a mandare i suoi libri a un giornaletto, che prometteva di parlarne ai suoi lettori. Ed ella la lasciò andare, come appunto si lascia andare un uccellino che non serve a niente. Ad ogni modo la giornata fini bene: il tramonto arrossava la vigna, la vasca e i salici scintillavano; le distese della pianura avevano la calma e melanconica poesia della steppa, come Cosima l'aveva intraveduta in qualche racconto russo: ma il punto centrale del paesaggio, il piú bello, era il pino solitario entro il quale vibravano le fiamme del sole che pareva vi si annidasse come un grande uccello di porpora. E Cosima se ne andò per un sentiero della brughiera, dove avrebbe potuto camminare finché voleva, poiché non c'era pericolo di sperdersi, e dalla vigna potevano sorvegliarla con un solo sguardo. Le erbe sembravano colore di rosa, ogni seme, ogni fiorellino, ogni bacca, aveva come un occhio d'oro che rispondeva al suo sguardo: e i monti lontani, color d'acquamarina, svaporavano nel cielo arancione e verde e rosso che a poco a poco trascolorava e cambiava tinta. Una coccinella sali, da un cespuglio, sulla veste di Cosima, come su un cespuglio piú alto: andò su, su, tranquilla, fino al braccio di lei, fino alla sua mano. Era un essere meraviglioso e quasi terribile: sul piccolo dorso piatto, d'un rosso scuro di lacca, era disegnato in nero un viso umano perfetto, con gli occhi, il naso, la bocca, tutti un po' obliqui come nelle maschere giapponesi: parve a Cosima che quegli occhi la guardassero, con la stessa meraviglia misteriosa con cui lei li guardava. Arrivata all'estremità del dito medio, sull'unghia rosea di tramonto, la coccinella aprí due piccole ali iridate e volò via. Cosima avrebbe voluto imitarla, ma i suoi piedi erano legati alla terra, ed ella avrebbe dovuto camminare fino all'estremità del mondo per potersi slanciare cosí. Quando il sole spari, uno stupore quasi infantile parve incantare ogni cosa: il cielo si fece trasparente come l'acqua, e la stella che apparve sull'orizzonte vi tremolò come appunto riflessa dal mare. Mai Cosima, neppure sul limite dei boschi e delle roccie del Monte, davanti ai sontuosi tramonti visti dall'alto, aveva provato una malia simile a questa che l'avvolgeva in mezzo alla terra incolta, guardata solo da Dio. Invece di sentirsi piccola, e poiché era impotente a volare, le parve di essere alta, alta fino a toccare con la fronte la stella della sera; eppure in quel momento dimenticava tutte le sue ambizioni, i suoi vani sogni, la sua attesa di avvenimenti straordinari. La vita era bella cosí, anche fra gli umili steli nati da sé, fra le cose create da Dio per la gioia del cuore che è vicino a lui come il cuore del bambino a quello della madre: ed ella ne ebbe quasi la prima rivelazione, e si senti uno scalino ancora piú in alto, nella scala di Giacobbe che doveva essere la sua vita. Cosí, per nulla: solo perché vedeva la stella della sera brillare sopra i monti non meno e non piú meravigliosa della coccinella, e le erbe selvatiche odoravano al suo passaggio. Decise di non aspettare piú nulla che le arrivasse dall'esterno, dal mondo agitato degli uomini; ma tutto da se stessa, dal mistero della sua vita interiore. Cosí, ebbe fine l'attesa delle notizie dell'esploratore: e anche lui, del resto, non scrisse piú.

Pagina 123

L'indomani

246147
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

. - Fortunato mortale cui è dato abbellire la propria casa con la presenza di una donna! oh la donna!

Pagina 64

La sorte

247974
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1887
  • Niccolò Giannotta editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Per questa ragione Salvatore non pensava ad abbellire la sua bottega, e i bacili di rame lucente e le filze dei denti strappati da suo padre facevano ancora la loro bella figura sui ferri arrugginiti inchiodati sopra l'uscio. In città, nelle vie più frequentate, i saloni parevano altrettanti negozii di mobili: da per tutto poltrone, divani, specchiere alte fino al soffitto, tappeti e stuoie, vasi pieni di piante mai più viste! - Tutta illusione - diceva Salvatore all'amico Agostino - Tutta polvere agli occhi per far pagare tre lire il mese agli abbonati. Egli non aveva le poltrone che giravano attorno, nè gli spazzolini per i mustacchi; ma per una lira il mese tagliava i capelli anche ogni giorno, se così piaceva, e faceva la barba a dovere, senza lesinare il sapone con la scusa che era profumato. Ora non si poteva neanche andare in un salone alla moda, senza trovarci dei ragazzi che, fingendo d'imparare il mestiere, servivano veramente a scroccare i soldi delle mancie. Quando un galantuomo s'era fatta la barba e pigliava il cappello per andarsene, quelli gli venivano dietro, lisciandogli il soprabito con la spazzola, quasi gli facessero il solletico, e se uno non dava loro un soldone, non riusciva a cavarseli di mezzo alle gambe. - Una vergogna che da me non si trova, perchè io non ho bisogno di aiuti! Egli s'era dato all'arte da ragazzo e la sua mano aveva acquistata una straordinaria agilità; i capelli cadevano sotto le sue forbici come la lana quando tosano, e i suoi rasoi portavano via le barbe, di un colpo solo, senza lasciare il più piccolo frego sulle guancie. La domenica era giornata campale. Dall'alba a mezzogiorno, la bottega restava continuamente affollata da ogni sorta di persone: contadini che si facevano radere sulla faccia e sulla nuca, e lavare le teste talmente piene di terra che si poteva seminarvi il prezzemolo, e all'ultimo leticavano sui soldi, ch'egli non ci ripigliava neanche il sapone; giovanotti che gli sciupavano una bottiglia d'olio per ungersi i capelli e gli facevano perdere un'ora per la scriminatura; murifabri terrosi, tutti imbiancati di calcina sulle giubbe color mattone; poveri diavoli con le barbe ispide, con le capigliature boscose che non conoscevano altro pettine fuor delle dita e si dimenavano sulla sedia ad ogni strappata di forbice; operai di tutte le età e di vario pelo, che una volta seduti, dinanzi allo specchio, con tanti buoni odori d'acque e di pomate sotto il naso, non trovavano più il verso di alzarsi e di cedere il posto ai nuovi venuti. Egli spiegava allora tutta la sua pazienza e la sua abilità, trattando ogni persona secondo il suo grado, aiutandosi con le mani e con la lingua, raccontando storielle, ripetendo le notizie che aveva raccolto durante la settimana da questo e da quello, aggiungendovi di suo un pizzico di sale e pepe, per non dare agli avventori il tempo di seccarsi. - Perchè non v'abbonate alla Gazzetta? - gli diceva l'amico Agostino, che passava tutte le sue ore libere nella bottega. - È buona per gli scuoia-cani della città, la Gazzetta! - Il vero giornale è la mia testa, e la gente mostra di gustarlo. Egli andava anche in casa, a servir le pratiche, e cominciava il suo giro appena giorno, con la scatola degli strumenti sotto il braccio e le mani dentro le saccoccie del soprabito. I vecchi volevano esser serviti presto; essi si levavano col sole, e non lo facevano aspettare; ma i giovani si ravvoltolavano fra le coltri fino a tardi e non erano contenti se non gli facevano salir le scale un paio di volte almeno. - Lasciamoli fare! Ho buone gambe, sia lodato Dio! La gioventù è tutta a un modo - pensava - e anche lui, diciamo la verità, se si metteva assieme una serenata e l'amico Agostino gli veniva a dire di portare il suo mandolino, non c'era il caso che si facesse pregare! Il mandolino, fra le mani di Salvatore, cantava come una voce umana e aveva certe note che facevano piangere. In tutta la città non c'era chi gli potesse stare a fronte, e i capi-musica dei reggimenti, e le stesse signore lo mandavano a chiamare per sentirgli suonare quel suo strumento che, come la casa e la clientela, gli veniva dal padre e dal nonno. Ma il grande svago di Salvatore era un altro: la lettura. Nelle lunghe ore quando la bottega restava deserta e non c'era da affilar rasoi nè da spazzare capelli tagliati, egli divorava romanzi, seduto dinanzi alla porta, talmente assorto da non sentire nè vedere quello che accadeva per la strada. I romanzi glie li prestava l'amico Agostino, il quale era parente d'un libraio che teneva la biblioteca circolante; ma quando ne capitava uno che gli piaceva davvero, lo andava a comprare addirittura. Così aveva messo assieme una piccola libreria: i Misteri di Parigi, il Cornuto, i Vermi, le Avventure di Rocambole, i Miserabili e finalmente il Conte di Monte Cristo, ch'egli sapeva quasi a memoria, tanto lo aveva letto e riletto. Quei cinque volumi gialli, dopo aver fatto il giro dei suoi avventori, giacevano di qua e di là, per la bottega, squadernati e unti, ma indispensabili a lui più degli stessi ferri del mestiere. Con Edmondo Dantès, con l'abate Faria, con Mercede, col signor Villefort, e Caderousse, e Massimiliano, e Morcerf, con tutti quei personaggi meravigliosi e interessanti, Salvatore faceva vita assieme, si poteva dire, poichè li aveva sempre dinanzi agli occhi e parlava di loro come se fossero vivi. La sera, quando venivano gli amici, a passare un'oretta, egli socchiudeva la porta, metteva fuori una bottiglia di vino e raccontava quella storia con più piacere che giuocando a briscola o chiacchierando dei fatti del prossimo. - Dunque, s'era rimasti? - S'era rimasti che i gendarmi chiudevano Edmondo Dantès al castello d'If - rispondeva Michele Lisani. Salvatore riassumeva gli avvenimenti precedenti, s'interrompeva per richiamare qualche particolare dimenticato; ma bisognava vederlo quando si rimetteva in carreggiata, ripigliando il filo del racconto! Allora si animava straordinariamente, come se tutti quei casi fossero capitati a lui in persona; si alzava in piedi, dava alla sua voce l'intonazione necessaria, trovava gesti energici ed espressivi che commentavano le parole e lasciava i suoi uditori sbalorditi, con la bocca aperta e gli occhi intenti. Ah! quella fuga dal castello! quei custodi che portavano il sacco con dentro il morto, che non era morto e sentiva quell'incomprensibile discorso! E quel rumore del mare, nella notte, mentre dondolavano il carico sull'abisso: «Uno!.. due!.. tre!..» - Bene!.. Bravo Salvatore! - Sapete che a fare il cantastorie potreste egualmente guadagnarvi la vostra giornata? - diceva Giovanni Santoro. - Alla generosità di lor signori! - E Salvatore faceva il giro della compagnia, col berretto in mano, per raccogliere le offerte. Con i soldi che mettevano assieme, compravano delle castagne, o delle carrube arrosto, roba che metteva sete e faceva rasciugare i bicchieri d'un sorso solo. - Alla salute della società! - Alla salute di Agostino - Che m'ha regalato questo bel vino! - Alla salute dei vostri figli, quando ne avrete! Salvatore si metteva a ridere, perchè quell'idea non gli era mai passata pel capo. Si trovava così bene, in quella pace degli angeli! e le donne non sapeva neanche dove stessero di casa. - Che bisogno ho mai di andare a cercar degli impicci? Del resto, ci sarà sempre tempo di pensarci, a cotesta corbelleria. - Eh, amico caro! - gli diceva Agostino - lo sapete che i quarant'anni son passati da un pezzo! - E questo che importa? Se mi trovate un pelo bianco ve lo pago quello che voi volete. - Ma date retta a me; cercatevi una moglie che faccia per voi, e v'arricchisca la casa! Voi avete del vostro, e non dovrete angustiarvi se verranno i figli. - Trovarla! Dove volete ch'io la vada a pescare? - Gli amici ci son per niente? Ma dite piuttosto che avete la testa ai romanzi e fantasticate Dio sa che stramberie! Agostino diceva così per farlo indispettire. Quando toccavano quel tasto, Salvatore che era sempre buono come il pane, s'arrabbiava davvero. - Non ne capite niente! Quasichè io fossi un ragazzo da guastarmi la testa! Se leggo romanzi vuol dire che ci trovo il mio gusto. A voi che piace, il bagordo? E chi vi dice nulla! - Basta! non se ne parli più. Invece tornava a parlarne. Egli aveva una gran premura di dargli moglie, ma diceva pel suo bene; si conoscevano da ragazzi, e ne aveano passate tante, insieme! Lui non l'aveva fatta quella corbelleria; ma c'era la ragione, che non aveva un soldo di suo, e il poco che guadagnava non gli bastava pei suoi bisogni. Con le tre lire il giorno che gli davano dal principe Leoparretti, dove accudiva alla contabilità, sarebbe stato padrone di morir di fame se gli fosse venuta la malinconia di ammogliarsi! - Che dice la principessa? - chiedeva Salvatore, pigliandogli il mento con due dita, per levargli la barba dal collo. - Eh! amico caro... - masticava l'amico Agostino - quella tiene i ganzi a quattro per volta... Se n'è perfino perduto il numero!.. - Quando poi si dice! Queste gran signore, se ci si mettono, ne vogliono cento di quelle... - Ma che bel pezzo di donna.... vista in casa... in disabigliè!... - e quello si dimenava voluttuosamente sulla sedia, mordendosi le labbra. - Una volta di queste ve la farò conoscere! Infatti, un giorno l'amico Agostino venne a dirgli che la principessa lo voleva a palazzo, col mandolino. - È per domani sera. Sono venuti certi parenti da Palermo e ci sarà gran concerto. Lui da principio non ne voleva saper nulla. - Che figura mi toccherà fare, in mezzo a tanti signori? - Non ci sarà nessuno, sono fra loro parenti. Andiamo, non fate il difficile; hanno inteso che siete un gran suonatore e vogliono ammirare la vostra abilità! E poi, date retta: quando sarete lì, guardatevi bene attorno, e me ne darete notizie! - Che intendete dire? - Lo so io! Salvatore aveva un cuor d'asino e un cuor di leone, come si dice, e non sapeva decidersi tra la voglia di andare dalla principessa e la soggezione che lo vinceva soltanto a pensarci. - Dunque, stasera? - venne a ricordargli il cocchiere della signora, che era dilettante di chitarra. - Ci sarete anche voi? - Passerò a pigliarvi. Così, quando fu l'ora, Salvatore mise il suo abito più bello, prese lo strumento sotto il braccio e s'avviò.

Pagina 125

Cerca

Modifica ricerca