Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbattuto

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Passa l'amore. Novelle

241670
Luigi Capuana 2 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Di là del giardinetto, il grano sul punto di spigare si era allettato, abbattuto dall'impeto della pioggia, e gli ulivi gocciolavano ancora a ogni scossa del vento levatosi tutt'a un tratto, appena era cessato di piovere. Veramente quella pioggia non si poteva dire opportuna. -Ma il Signore sa bene quel che fa. E se l'ha mandata per nostro castigo, - rifletteva don Pietro, -vuol dire che ce lo meritiamo. Sia fatta la sua santa volontà! Per la campagna attorno non si vedeva anima viva. Egli spiava da un capo all'altro la viottola che serpeggiava laggiù nella pianura e poi saliva a zig-zag su per la collina dov'era situata la villetta. Da Ràbbato avrebbe dovuto arrivare da qualche ora il garzone con la mula e le provviste. Don Pietro era venuto in campagna per una sola giornata; e certi guasti nella conduttura dell'acqua che alimentava la vasca lo avevano inattesamente trattenuto colà quattro giorni. Intanto non si scorgeva nessuno lungo la viottola che luccicava agli ultimi raggi del sole come un gran nastro di argento tra il verde dei seminati. Forse era accaduto qualche guasto nel Passo del Fico pel gran diluvio della giornata. Don Pietro ne era impensierito. Con quell'ammasso di neri nuvoloni che fasciavano l'orizzonte, ora che il sole era sparito, le ombre della sera già si addensavano attorno, quando egli scorse un punto nero proprio là dove la viottola cominciava a salire a zig-zag su per la collina. Quel punto nero, sbucato dal gruppo di ulivi che nascondeva la casa rustica del piccolo fondo dello Storto, come lo chiamavano -ed era storto di nome e di fatto, soleva dire la gente -si avanzava affrettatamente per la salita, spariva, riappariva dietro gli alberi e le siepi di roveti che la fiancheggiavano; evidentemente, persona che veniva da lui. L'occhio acuto, addestrato a veder bene anche da lontano, gli fece distinguere finalmente che si trattava di una donna, la moglie o la figlia dello Storto; probabilmente per chiedere in prestito qualche pagnotta, com'era accaduto altre volte. Capitava bene! E quando potè accertarsi che appunto la figlia dello Storto saliva l'ultima rampa della viottola, don Pietro, ritiratosi dalla finestra, si affacciò al ballatoio della scala, per dirle subito che non che una pagnotta, egli non avrebbe potuto darle neppure una fetta di pane. Il garzone con le provviste non era ancora arrivato dal paese. La giovane si era fermata sotto il carrubo, quasi esitasse di farsi avanti. Don Pietro le diè la voce; -Ehi! Comaretta! Che cosa volete? E vedendo che non si moveva e che si soffiava il naso e si asciugava gli occhi col grembiule, egli si affrettò a scendere la scala e ad andare incontro alla piangente. -Che cosa è stato, Comaretta?... Qualche disgrazia?... Vostro padre?... Vostra madre?... -Ah, voscenza!... Ah, signor don Pietro!... - si mise a singhiozzare più forte la ragazza. -Parlate... Spiegatevi! Coraggio! Venite su. Qui sotto vi piove addosso a ogni scossa di vento. Venite. Présala per una falda della mantellina di panno scuro che le copriva la testa e le spalle, e poi per un braccio, la condusse su, la fece sedere; e, acceso il lume, chiuse la finestra e la porta, e le si sedette di faccia. -Voscenza è come un padre.... -Sì, non dubitate, come un padre, anche come un nonno, per l'età, - la interruppe sorridendo. -Mi ricoveri, questa notte.... nella stalla, non me n'importa. Mio padre mi ha cacciata via come una cagna! -Perchè? -Perchè.... -Dite pure, figliuola mia! -Perchè vuole che io vada a servizio.... -Che male c'è? Andare a servizio non è vergogna. Bisogna guadagnarsi il pane, lavorando, come si può. -Ah! Voscenza non sa.... È stata la mia matrigna!... Glielo ha suggerito essa, essa che mi odia più del fumo agli occhi. Che le ho fatto?... L'ho rispettata sempre da madre, non da matrigna.... A servire, sì andrò, ma non da chi vogliono loro. -Da chi? -Dal cavaliere Ferro. -Ah! -fece don Pietro. -E mi hanno bastonato. Guardi. Ho le carni piene di lividure. Mia matrigna mi teneva afferrata pei capelli e mio padre con un legno, giù, peggio che a una bestia.... Guardi! E tirava in su le maniche della camicia per mostrare le lividure delle povere braccia flagellate. -Ma io: No! No! Mi sarei fatta ammazzare!... No! No! -Forse avete ragione. La casa del cavaliere veramente non è posto per voi. Non per dir male di quel signore, Dio me ne guardi, ma per la verità. Ha pochi scrupoli; se ne dicono tante! Vostro padre avrebbe dovuto capirlo. -Si fa menar pel naso da quella donnaccia. -Non la chiamate così. E quasi madre vostra ora. -Voscenza mi perdoni. Parlo per rabbia di cuore. -E che intendete di fare intanto? -Non lo so. Ma a casa mia non torno più, mai più! Ho segnato con la mano dritta un gran crocione sulla porta.... Mai più finchè ci sarà quella! Mio padre mi ha preso per le spalle e mi ha buttato fuori, sbattendomi l'uscio dietro; "Vattene! Vattene! E il tuo demonio non ti tenti di ritornarmi dinanzi!„ Oh, non dubitino! Sono risoluta a tutto! E se il mio tristo destino vorrà.... -Il destino ce lo facciamo noi, con le nostre stesse mani, figliuola mia! -Fosse campata mia madre! È morta di dolore, dai maltrattamenti. E piangeva per me negli ultimi mesi: "Figlia disgraziata! Figlia disgraziata!„ -È inutile ora che torniate a piangere voi. Lasciate che parli io con vostro padre. Lo chiamano Storto, va bene; ma non sarà poi tanto storto, via! Un padre è sempre padre. La ragazza scoteva il capo, continuando a piangere silenziosa. -Ecco il garzone! Meno male! -esclamò don Pietro, sentendo il rumore dei passi della mula. Il garzone, entrando con le bisacce piene di provvisioni a una spalla, si fermò stupito di vedere colà, la figlia dello Storto. -Oh! La gnà Trisuzza! Teresina. E, rivolto al padrone, soggiunse ridendo: -Voscenza, se non venivo, ah! ah!... non avrebbe avuto paura dei tuoni questa notte.... Sente? Tra poco avremo di nuovo la pioggia.... Il Passo del Fico, Madonna santissima! bisogna confessarsi prima di attraversarlo. Se non pensano a farvi il ponte, un giorno o l'altro accadrà qualche disgrazia. Intanto, parlando, vuotava le bisacce. Pane, carne, formaggio, pasta, un barilotto col vino; don Pietro posava alla rinfusa sul rustico tavolino di abete gli oggetti che il garzone gli porgeva. -La gnà Trisuzza l'accompagno io fino a casa, prima che la pioggia riprenda, - egli concluse, strizzando maliziosamente un occhio. Vedendo però le lagrime che le inondavano improvvisamente la faccia appena ella scoppiava in singhiozzi, il garzone piegò le bisacce, e, mortificato, le disse quasi sotto voce: -Scusate!

E l'uscio della camera numero nove aperto, e la camera piena di gente di questura, di carabinieri, e tra essi, seduto in angolo, abbattuto un po', il professore. Di faccia, spettinata, in un abbigliamento molto mattinale, con uno scialletto grigio su le spalle, la vedova Garacci e dietro a lei, col viso tra le mani, piangente, la signorina. Quando mi affacciai a l'uscio, dietro le spalle dei due carabinieri, il funzionario di pubblica sicurezza, terminava di scrivere, e presentava il foglio al professore perché ne prendesse visione e lo firmasse. Il professore firmò senza leggere. E allora il funzionario, si alzò da sedere, piegò in quattro il foglio e se lo mise in tasca, dicendo: - Sono contento che tutto sia accomodato senza chiasso e senza scandalo. Quando si ha da fare con persone per bene! Si accostò alla signorina, la prese per una mano, fe' cenno alla madre di precederli, e, dietro a loro, andarono via tutti. - Che cosa le è accaduto, professore! Oh, Dio! Mi guardò, scrollò il capo, con un triste sorriso su le labbra. - Niente, caro mio! Non c'è altro di mutato nel mondo all'infuori di questo: la vedova Garacci si è costituita.... mia suocera! - Suocera? - Che volete? Le ho sedotto la figlia.... minorenne; ho abusato dell'ospitalità.... ho perpetrato non so che altro, da fare accorrere la questura, i carabinieri, tanta gente quanta non ne ho mai vista in camera mia.... Quando si ha da fare con persone per bene - ha detto così il delegato o questore che sia - lo avete udito. E appunto, perchè sono disgraziatamente persona per bene, ho dovuto affermare che la signorina era stata indotta a venire in camera mia in ore indebite, dove è stata sorpresa dalla madre; dove siamo stati sorpresi, caro mio, dalla questura fatta accorrere in gran fretta. Sono stato capace di tutto questo; mi son lasciato cogliere in flagrante.... Voi non l'avreste mai supposto, mai sospettato, caro mio!... E così, e così, eccomi futuro genero della vedova Garacci!... Imparento bene a quel che paro, con un alto funzionario di non so che ramo amministrativo, con un colonnello di linea, che, a quel che pare, hanno avuto la stessa mia debolezza, anni fa, uno appresso all'altro con due altre figlie della vedova.... - Ma lei è caduto in un tranello! Bisogna protestare.... Lei.... - Che! Che! Non voglio impicci, non voglio noie. Ormai! Nella filosofia, nel sistema, entra anche la fatalità, diciamo meglio l'accidente, il caso.... Non possiamo eliminarlo. E questa volta il caso è una signorina non brutta, nè gobba, nè sciocca, per fortuna. Disgraziata! Poteva sceglier meglio e lasciarmi in pace. Ma ha, preso a volermi bene perchè, ella afferma, sono tanto buono, tanto buono! Una signorina neppure ventenne che vuol bene a un vecchio! Si dà anche questo, specialmente oggi. Oh! Mi par di fare un gran tradimento alla filosofia; ma essa è indulgente perchè comprende tutto. - Sicchè lei soffrirà in pace questa specie di ricatto! - Ormai! Ormai! Non aggiunse altro; e accese la pipa.

Pagina 192

Cosima

243831
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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A Cosima pareva una di quelle figure romantiche che le piacevano nelle vignette di qualche antica edizione di Chateaubriand, possedute da Santus; cosí, un giovine sventurato, preso da una segreta passione, che si smarrisce nella solitudine di un tramonto campestre e appoggiato al riparo di un precipizio, o seduto sul tronco abbattuto di una quercia, fra tralci d'edera e rupi coperte dal fiore del muschio, medita sulla sua triste sorte. Triste, certo, era la sorte del giovine Fortunio, e il cuore di Cosima non poteva non accoglierne l'eco, fra le voci poetiche che le raccontavano l'eterna poesia del dolore umano: e cosí, quando la comitiva prese la via del ritorno, lasciando lo sventurato poeta solo appoggiato alla roccia della sorgente, intento a sentirne anche lui il mormorio melanconico, fra le ombre già dorate del crepuscolo, ella si sbandava, a capo chino, mentre le compagne si rincorrevano nello stradone e cantavano e ridevano come figlie di contadini, al ritorno dal lavoro dei campi. Sorge la luna, fra i denti del monte, sopra i macigni che dànno l'illusione delle rovine di un castello: il suo chiarore lilla si fonde con quello arancione dell'orizzonte; l'odore della vegetazione inumidisce l'aria tiepida; canti lontani rispondono a quelli delle fanciulle che accompagnano e trasportano sull'ala del loro coro la tristezza indistinta di Cosima. Che cosa vuole, Cosima? Non lo sa bene neppure lei: vorrebbe fermarsi, non tornare nella sua casa soffocante, appoggiarsi anche lei al parapetto dello stradone, sopra la valle piena di mistero, seguire il corso della luna sul cielo sempre piú chiaro e luminoso. Le compagne non badavano a lei: le sorelle, stordite dall'allegria delle amiche, si lasciavano trascinare avanti, e lei rimaneva sola, sperduta, come dimenticata nella strada e nel mondo. Sopraggiungeva qualche carro di contadini, trainato dai buoi sonnolenti, qualche uomo a cavallo, qualche tarda donnicciuola che ritornava dall'aver lavato i panni al torrente: le ombre si allungavano di traverso sulla strada bianca, le voci e i passi risonavano dolci nell'aria molle e profumata. Ed ecco un passo diverso dagli altri, con qualche cosa di ambiguo, come il passo di un essere fantastico, uno gnomo, un gigante che tenta di non far rumore, o un Belfagor fatale, o un arcangelo che con un batter d'ali può trasportarti fra le torri d'argento e gli spalti lunari della montagna. È Fortunio: sarebbe stato piú in carattere con la chitarra a tracolla, come un trovatore sceso appunto dai boschi d'elci che circondavano gli illusorii castelli dell'orizzonte: ad ogni buon fine aveva ancora un libro in mano; un libro che biancheggiava alla luna, con le parole magiche che aprono la porta dei sogni. Versi; versi d'amore. Raggiunse Cosima e le si mise a fianco, silenzioso. Ella non si stupí: tutto doveva procedere cosí; e quando egli le cinse lievemente le spalle col braccio che tremava ella non protestò, non cercò di liberarsi. Tutto doveva procedere cosí: era una cosa ordita dalle sorelle maliziose di Fortunio, ma pareva anche un incantesimo prodotto dall'ora, dal luogo, dalla sorte che protegge gl'innamorati. Anche l'ombra folta che si stendeva al margine dello stradone, in una svolta ove le rocce scendevano fino al paracarri, parve una tenda di velluto, che avvolse i due giovani poeti e permise ai loro freschi volti di formarne uno solo il volto dell'amore. Tutto sembrava proteggerli: il modo facile di scambiarsi le lettere, la strada in comune, la vicinanza dei loro orti. E dell'orto di Cosima, di notte, quando si sapeva che la madre e le sorelle riposavano, la prima avvolta anche nel sonno dal suo velo di sofferenza e di preghiere, le seconde nei loro sogni ancora bianchi di innocenza, Fortunio riusciva, nonostante la sua infermità, a scavalcare il muricciuolo, e ritrovare, sinceramente ansante e appassionato, all'ombra di un angolo protettore, la sua piccola amica che sembrava, cosí sbalordita e silenziosa, il fantasma di se stessa. Ella si lasciava baciare da lui, ne sentiva il calore della persona, i fremiti e gli ansiti di eroe incatenato, la violenza impotente con la quale egli avrebbe voluto portarsela via: ma una fredda, quasi malvagia potenza di analisi la sosteneva in quella specie di lotta dei sensi contro se stessa e contro l'altro; e ne usciva stanca, disgustata, amara di umiliazione e di rimorso. Anche di rimorso: poiché credeva, fra le altre cose, di commettere peccato: ella non avrebbe mai sposato Fortunio. Finché la vicenda non trapelò, destando una nuova ondata di scandalo fra la gente per bene del luogo. Eh! si capiva; Cosima sola era capace di quelle avventure, con uno storpio, un bastardo, un rinnegato dalla sorte. E un giorno Andrea disse, in pubblica piazza, che avrebbe fracassato col bastone l'altra gamba del «suonatore di chitarra»; e a Cosima somministrò una dose di schiaffi e pugni che oltre le membra le pestarono l'anima come il sale nel mortaio.

Pagina 105

Una peccatrice

249849
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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«Egli rimase abbattuto, in silenzio, sulla panchetta della barca. «Quel silenzio durò cinque minuti. «Quando risollevò il volto fui atterrita dallo spaventevole pallore che copriva i suoi lineamenti solcati profondamente. « - Ascoltami, Narcisa! - cominciò egli con voce solenne, quasi calma: - io ho un sacro dovere di gratitudine verso di te... dovere che mi fanno care le reminiscenze che non potrò dimenticare giammai, e che formano ora il mio inferno... Eppure, te lo giurò sul mio onore, io non mi trovo colpevole... no!... che soltanto queste reminiscenze mi restino ora vicino a te... Tu hai il diritto di disporre di me, in tutto... Io sacrificherò al dovere quello che avrei sacrificato all'amore, e farò quanto è possibile all'uomo per renderti la tua felicità. Ho tanto provato di sì immenso nella voluttà del godimento, nel delirio dell'esser felice che forse all'uomo non è concesso di godere... e Dio mi punisce col soffiare su tutte quelle sensazioni che formavano il mio amore... che cerco invano da due mesi... e spegnerle per me. Nel tremito ardente dei tuoi labbri sul tiepore della tua pelle rosata, nelle nervose e convulse pressioni delle tue braccia, nel delirio fervente delle tue carezze; ho cercato invano un atomo, un atomo solo, di quello che provavo d'arcano, d'indefinibile, di più che terreno, quando, seduto sul lastrico della. strada, ti vedevo al verone, ciò che formava il delirio dei miei sogni; che nei primi trasporti del possederti, quando mi pareva di divenir folle per la felicità dell'amor tuo, io provai sino a quel parossismo del godimento che ci annienta, direi, nel godimento istesso, e che ci lascia sbalorditi della sua estensione. lo ho cercato invano questo profumo, questo vapore che ti circondava d'incenso come gli angeli, e in cui non osavo immergermi per timore di perdervi la ragione o di perdervi l'illusione... È duro, è crudele quello che dico... ma tu hai mente per apprezzarlo e cuore per perdonarmelo... come mi hai perdonato tutto quello che ti ho fatto soffrire da due mesi, che mi son rimproverato, e di cui il rimorso mi lacera... Quello che io piango, Narcisa, è l'amore che ho provato e che non posso più trovare... che cerco assetato per inebbriarmene, poichè la sete che ne ho è ardente, divoratrice, e che mi fugge sempre dinanzi come un fuoco fatuo... Io avrei paura, rimanendoti più a lungo vicino, che la stanchezza dell'animo non vincesse anche il desiderio ineffabile che ho di quest'amore... e che tutto questo tesoro di diletti che trovasi in te, di cui m'abbeverai forse sino all'ebbrietà, non vada perduto dell'intutto per me! Oh! io ho paura di ciò, Narcisa!... poichè la speranza di riamarti un giorno come ti ho amato, m'impedisce che mi bruci le cervella, non avendo più nulla a godere sulla terra. Bisogna che io mi allontani da te per qualche tempo, ch'io torni a dubitare della felicità che ho goduto... ch'io dubiti della speranza fin anche di questa felicità, per esser pazzo di te come ero quando passavo le notti innanzi la tua casa senza sperare un'occhiata da te... bisogna che io ti vegga ancora lontana da me, in mezzo allo pompe del tuo lusso, all'incanto delle tue seduzioni, per cercarti ansioso, cieco, folle, come allora; e stendere le braccia, delirante, invocando un altro sorso di questa coppa fatata... a cui fui tanto stolto da bere troppo... «Egli non potè più proseguire, soffocato dalla violenza della sua commozione; tenendosi il petto colle mani increspate da una violenta contrazione; inginocchiato ai miei piedi; coll'occhio luccicante di una fosca luce sul pallore quasi tetro del suo volto; coi capelli irti sulla fronte madida di freddo sudore. «Quest'addio che quel cuore mi dava era grande, era sublime, come l'amore di cui m'aveva amato. «Lo sollevai fra le mie braccia; lo baciai in fronte, sentendomi ancor io fredda di sudore ghiacciato, provando una forte risoluzione che quelle parole infondevanmi, la quale correva al cuore, quasi con gli smarrimenti di una vertigine, insieme al sangue che da tutte le vene vi affluiva. « - Addio dunque! - gli dissi con una calma nella voce della quale io stessa ero atterrita: - Addio, Pietro!... «Egli cercò i miei labbri coi suoi freddi, tremanti d'angoscia e di voluttà. « - Addio!... gli mormorarono ancora i miei labbri palpitanti nei suoi. - E svenni fra le sue braccia.

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