Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Il salone dietro la cucina, formato da due stanze riunite, in cui alla abbattuta parete divisoria si era sostituito un arco sorretto da un pilastro, era rigurgitante di gente, pareva una fitta piantonaia di uomini clamorosi, come un'assemblea operaia per fondare un magazzino cooperativo, o un comitato elettorale, in cui un candidato pagasse le spese alle sue speranze di consigliere o deputato delle acque. La Ghita doveva affaccendarsi a voltare i grossi peperoni gialli e rossi; e le fette di polenta, che arrostivano sopra le molle adagiate sulla brace; e a portare litri e doppi litri alle tavolate richiedenti. Nello scompartimento di destra c'era la tavolata del dottore, il quale quella sera pareva proprio in buona vena d'accettare con Ambrogione la sfida a chi le dicesse più grosse. Ambrogione si presentava maestoso quale un fiume nella sua piena. Il dottore aveva già comunicato per la millesima volta il suo progetto di una confraternita religiosa, nella cui processione il Gran Tommaso avrebbe fatta la parte di Longino, e Ambrogio quella del buon Ladrone; aveva già narrato in una ultima edizione il suo sogno di una rivista militare che farebbe il Commissario di leva agli impiegati e alle impiegate del Municipio che sarebbero denudati e denudate come coscritti alla visita; aveva già riferito il famoso testamento di Don Coraglia. ? Non ho capito bene ? osservò il panattiere mansueto ed inesauribile nel bere ed ascoltare e far ripetere. ? Don Bertrame Coraglia, ? ripeté il dottore - dopo avere vissuto da lepido gaudente, aveva voluto mantenersi buffo anche in morte, corbellando il pubblico con un pio teatrale decesso, che accadde, come si ricordava mia nonna, a Trentacelle, nel 1840. Egli era caduto ammalato in uno dei primari alberghi dell'antico capoluogo della nostra provincia; e per farsi trattar bene dall'albergatore e onorare dalla cittadinanza, mandò a chiamare il notaio, a cui dettò un grasso testamento. Con esso nominò erede universale delle sue sostanze il venerando Capitolo metropolitano, e profuse un'immensità di legati pii non dimenticando il padrone dell'albergo, a cui lasciò l'orologio d'oro, né i camerieri che lo assistevano durante l'ultima malattia, ai quali lasciò, in compagnia del padrone, le cedole della sua valigia. Anzi, prima di spirare, ebbe cura di farli chiamare intorno al letto, e loro pronunciò distillando con la solennità dell'Uomo Giusto, che muore nell'ultimo atto di un dramma, un commovente discorso, in cui loro raccomandò la fermezza nella fede cattolica, l'amore di patria e la purezza dei costumi. I canonici commossi di riconoscenza gli ordinarono un funerale sontuoso di prima classe, durante il quale cantarono colla più sfogata solennità a squarciagola; ma poco dopo dovettero mangiarsi i pugni di pentimento per la voce prodigata e per la cera buttata al diavolo, riconoscendo che le sostanze dell'abate erano una vera burla: zero via zero. L'albergatore trovò di ottone, trovò essere un misero giocattolo da fiera il famoso orologio d'oro; e i camerieri dell'albergo poi, aperta la famosa valigia delle cedole, scopersero che esse non erano già cartelle del Debito pubblico, come essi avevano fermamente creduto, ma cartelle del Debito privato del testatore, cioè cedole di citazione intimate pel ministero d'usciere dietro istanza dei creditori al Don Coraglia, diventato da parecchi anni debitore non solvente. Il panattiere batté le mani, poi le lasciò cadere congiuntamente sui ginocchi, per atto di grande meraviglia. Lo stesso Ambrogione si degnò cavallerescamente di tacere alla ripetizione di questa storiella. Onde il dottore lesse una nuova tacita preghiera negli occhi del panattiere, e, senza pigliar fiato, riprese: ? Voi, Gregorio, volete sapere... E Gregorio: ? Sì... Ma era proprio... ? Ve lo ripeto? L'abate Coraglia era proprio quel desso, che nel confessare dava l'assoluzione a capriccio e secondo le conoscenze. In una sera scura si recò a confessarsi da lui il vecchio Conte. E Don Coraglia distratto gli negò l'assoluzione. Quando il penitente si partì, il prete sporgendosi dal confessionale si avvide di chi si trattava; e gli trottò dietro gridandogli: scusi non l'aveva mica conosciuto... Se vuol tornare, subito ripariamo. Risero discretamente gli ammiratori del medico, ma il panattiere si prese la testa fra le mani, per non scoppiare dal contento, e parve risoluto di assumere coi suoi monosillabi la parte di leader del partito. Ambrogione punto di invidia, per non riuscir sopraffatto in quel torneo, cominciò a parlare con voce strepitosa alla sua tavola, ma in modo che la direzione della sua voce e del suo racconto pareva sopratutto rivolta a vincere gli avversari costringendoli a non perderne una sillaba. Disse: ? Don Coraglia l'ho conosciuto pur io. Si è conservato fino a settant'anni una capigliatura nera e folta. Usava di una certa pomata, che avrebbe fatto nascere i capelli anche sopra una palla di bigliardo. Un giorno, avendo le dita unte di quella pomata, toccò un sedile di pietra nel giardino. Or bene, il giorno dopo quel sedile era coperto di peli come un velluto... ? Boun! E Ambrogione senza scomporsi seguitò: ? Del resto, la morte e il testamento di Don Coraglia sono accaduti non nel 1840, ma nel 1849, quando io era all'eroica difesa di Casale. C'erano con me allora tre cannonieri veterani così sordi, che quando avevano sparato il cannone, si domandavano l'un l'altro, se aveva preso fuoco: l'a pià fò? Balzarono gli ah ah! più contenti dalle bocche dei suoi abbronziti partigiani, i quali poscia bevettero; e dopo la bevuta, batterono rumorosamente il bicchiere sulla tavola. Riscaldato, Ambrogione continuò dicendo: ? Ciò è nulla a petto dei Cinesi, i quali respingono gli attacchi alla baionetta e le scalate date ai loro spalti, gettando della polvere negli occhi... ? Ai gonzi! ? interruppe il dottore sentendosi incoraggito dall'approvazione che continuava a scintillare negli occhi al panattiere. ? No, signore! Ai nemici Francesi ? continuò imperturbato Ambrogione. ? Perché quei guerrieri vanno alla guerra colle tasche piene di sabbia... Cosa, del resto, facilissima a capirsi... Perché vi sono dei metodi di guerra e di caccia ancora più semplici... Un mio amico, guarda?convoglio, mi raccontava che egli prendeva gli orsi comodamente così: metteva in capo al sentiero, per cui essi dovevano passare, un semplice cribro di fili di ferro. Allorché gli orsi si affacciavano a quell'ostacolo, rizzandosi per apporvi le zampe di contro, attraversavano colle unghie i buchi del crivello. Allora il cacciatore appostato dall'altra parte con un piccolo martello ribatteva quelle unghie, ritorcendole gentilmente contro i fili di ferro. Tich tach. Così gli orsi rimanevano attaccati al cribro e si potevano portare via belli, vivi e sani. ? Questa è da Barone di Münchhausen! ? dissero a un tempo il medico e il segretario comunale. ? Non c'entra nessun calcio nel caffè di Moka rispose Ambrogione. ? È un fatto storico... Si tratta dello stesso capo?convoglio, mio grande amico, che venne poi nominato capo stazione a Baltesana. Egli per non interrompere la partita a tarocchi colle guardie doganali, era solito a non presentarsi al passaggio dei treni diretti e collocava sull'uscio dell'ufficio un fantoccio della sua statura, col berretto, e colle cifre del grado. Una volta il vento nell'impeto di un treno celerissimo rovesciò il fantoccio, onde il macchinista, temendo di avere travolto il capo?stazione, fermò la macchina; e si riconobbe... ? Ih! Ih! Ah! Ah!... Uh! Uh! ? urlarono tutti. L'organista, come fosse pagato per dargli l'imbeccata: ? Baltesana è lo stesso paese... ? Lo stesso paese ? abboccò Ambrogione ? dove c'era quella ragazza magnifica, ma smorfiosa e prepotente, la quale una volta recitava coi dilettanti nella Suor Teresa. Avendo sentito in platea alcuni giovinastri darle la baia, essa benché vestita da monaca, si avanzò risolutamente sul proscenio, si rivolse al pubblico bestemmiando: "Fate silenzio, brutti diavoli! cri... cco! contacc!" e alzando le anche si diede una patta di dietro. Un'altra volta, sul loggione, al teatro dei burattini, si lagnò infinitamente d'aver sentito un rumore e un odore cagionato da una scorpacciata di fagiuoli. Per tutta quella sera e per il giorno dopo non cessò mai dal protestare che non si dovevano permettere quelle porcherie, vantando che a lei non era mai accaduta... simile disgrazia. I giovinotti del paese per punirla di quel vanto, una volta la colsero in un bosco, mentre essa andava per funghi, e con un soffietto, che avevano portato espressamente con loro, la gonfiarono tanto, che essa tornando a casa strombettava per via come una diavolessa! - E fece... ? disse il medico. Il segretario completò la citazione di Dante. ? Impossibile! Una ragazza ricca, non va sola per funghi... ? osservò il panattiere. ? Osate negare ciò che dico io...? Si fece il processo... Fui io testimonio, ché in quei tempi lavoravo pel canale Cavour a Baltesana... Minchioni! Se non li cercano le ragazze ricche, chi andrà a cercar funghi in quel paese!? in cui il più povero pezzente, che si presenti agli usci per amor di Dio, ha per lo meno una ventina di giornate in proprietà tra risaie e marcite. ? Boun! Le due tavolate rimasero veramente spaventate. Ambrogione, offeso dai volti increduli, inferocì. ? Ché! Vi prego di credere, che a Baltesana certi contadini pigliano per carità i calzoni di mezzalana dall'Opera pia, e posseggono tenimenti di 200 giornate... L'osteria tremò... Si guardava dai più la finestra in modo supplichevole, perché la si aprisse pel passaggio delle bombe. L'organista arrischiò: ? Io non stento a credere. Allora Ambrogione per rimunerarlo: ? Ghita, due litri... e di vino imbottigliato. L'attenzione degli astanti si tolse volentieri dallo sballone e si riposò sul bel Rolando che aveva staccata dalla parete la chitarra. Sedutosi sull'angolo della tavola, colle gambe incrociate, teneva la cassa armonica sulle ginocchia e la testa in su a domandare ispirazioni. Il berretto alla marinara, dalla gronda larga di panno azzurro, gli faceva un'aureola celeste; egli era una bella cosa da osservare per la Ghita. La ostessa guardandolo sentiva sotto le ascelle un calore, un'arsura di abbracciarlo, di avviticchiarselo. Egli unghiava le corde, e ne cavava lentamente vibrazioni sonore che empievano, rallegravano l'aria e il petto a tutti; rompevano il tanfo e guizzavano nei nervi più pigri. Mentre egli sonava, gli si ingrandivano gli occhi; gli passavano sulla fronte rossori, vergogne di trovarsi un fannullone paesano, e baldanze, desideri di essere un elegante, misterioso giovane, barabba di città: correre come un demone sull'asfalto degli Skating?Ringh, trascinandosi allacciata pei fianchi, intrecciata nelle mani la più bella cocotte di Torino, ? e ai balzi della musica, al fragore delle rotelle girare con una gamba in aria, valseggiare con lei, volteggiando fra quelle anime dannate, fra quelle fanciulle vestite di velluto, dal largo cappello peloso, dalla pellegrina, intagli di prete: e poi scivolando, filare dietro il paravento, e scalzarla, premerla lei, così superba e di così alto prezzo pei senatori, e per lui docile al solo prezzo di picchiarla come una cagnolina. Indi gli si ritiravano le vedute pornografiche dalla fronte ed erano sostituite da nobili propositi di andar via a guadagnarsi il pane, e diventare qualche cosa di buono, un bravo ingegnere, disegnatore, capo officina... Questa lanterna magica non solo si vedeva passare sulla fronte del bel Rolando, ma la si sentiva nel suono della sua chitarra. Il panattiere, ottuso per la musica, profittando di una pausa, aveva cercato di avviare il medico sul tema dei Conciliatori. - Signor dottore, sarà vera la risposta, che Bertolo, l'oste, ha data al Conciliatore di Calciavacca? ? Sì, me lo hanno riferito. Bertolo era stato citato da Rolla il droghiere, che avanzava da lui venti lire per spezie e candele. Il Conciliatore minacciava l'oste di una condanna coi danni, spese e vacati; quando Bertolo gli osservò placidamente: "Io pagherò le venti lire, che devo a Rolla, quando voi, signor Conciliatore, mi pagherete le trenta lire per quelle due brente di vino...". Allora il Conciliatore furioso: "Silenzio! Silenzio! Se no, metto mano in carta libera...". ? Ah! Ah! Che ridere! Che ridere! ? scompisciava il panattiere. ? Ma la più buffa ? ripigliava il dottore ? è la sentenza, che ha pronunziato il nostro macellaio Conciliatore all'ultima udienza. Egli stanco di due litiganti temerari, che non ho bisogno di nominarvi, li licenziò dicendo: "Sentite! aggiustatevi! se no, ve lo giuro su questo santo Vangelo, per Cristo morto, se vi presentate ancora al mio macello, non vi do più una libbra di carne intera. Vi do tutta giunta ed ossi... E non fatemi perdere la testa...". ? Oh, che ridere! che ridere! ? seguitava il panattiere, lacrimando e quasi scompaginandosi dalla contentezza. ? Questo è nulla in paragone del Conciliatore di Baltesana ? disse Ambrogione, riafferrando il mazzo lui; ? quel Conciliatore, antico furiere in riposo, non essendo stato provvisto di nessun Codice civile dal Procuratore del Re, né dal Comune, si serviva del Codice penale militare, che aveva portato dal reggimento e per questioni di galline o di uno schizzetto di pochi soldi, minacciava condanne alla reclusione, e ai lavori forzati. Nella festa di Sant'Orsola, le ragazze della Compagnia, essendosi ubbriacate in casa della Priora, messesi in fila sul ballatoio, improvvisarono una fontana nel cortile con grande scandalo e bagnatura dei musicanti che suonavano di sotto. Il Conciliatore, fattele citare, le condannò alla fucilazione nella schiena previa degradazione. Trrr... um. Il bel Rolando, con una strappata delle sei corde a un tempo, tagliò degnamente la frottola di Ambrogione, in modo che tutti l'applaudirono ridendo come matti; quindi da quell'arrabbiato accordo, egli si sollevò e li sollevò ad una cavata dolcissima, mentre dalla testa pareva che gli svaporasse un inno oraziano in lode di Cesare Augusto.

La virtù di Checchina

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Checchina camminava piano, ancora abbattuta dallo scorno di aver dovuto dire tutto, parendole oramai tutto fosse finito, poichè un'altra lo sapeva, poichè ella aveva avuto la debolezza di pronunziare quel nome. Quando voltò in via Santi Apostoli, dette uno sguardo alla chiesa e, passando, urtò il cancello, era chiuso. Dinanzi al grande palazzo Odescalchi una carrozza stemmata stava ferma: era vuota, aspettava qualcuno. Poi, dall'altro marciapiede, Checchina vide l'arco e dopo l'arco, due botteghe, e poi la porticina, con uno scalino. Ma sulla soglia, sbarrando la metà dell'entrata, appoggiato al muro, vi era il portinaio, un uomo alto e grosso, dalla faccia volgare e irsuta di peli bigi, con un fazzoletto di lana rossa al collo e un berretto con la visiera, messo un po' di traverso. Fumava la pipa, guardando in aria. Di botto, sul marciapiede dirimpetto, Checchina si fermò, senza poter attraversare la via. Per entrare nella porticina, bisognava domandare al portinaio di poter entrare, chiedergli se il marchese d'Aragona era su e poi passare. Ella riunì tutte le sue forze, per far questo tentativo, ma a mezza via si fermò di nuovo. Il portinaio aveva un viso brutto e brutale, una di quelle facce irriverenti che disanimano i timidi. Ella arrivò sino dal tappezziere Reanda, cercando di farsi coraggio e attraversò la strada. Passò innanzi alla porticina, non levando gli occhi sul portinaio: eppure vide che costui la squadrava, sfacciatamente. Essa arrivò di nuovo sino alla chiesa: e si voltò a guardare le finestre, disperatamente, come se chiedesse aiuto. Le imposte verdi erano chiuse, il marchese lo aveva detto, che lui amava l'ombra. Allora ella rifece la strada, dal palazzo Odescalchi sino al caffè, all'angolo di via Nazionale, ripassando lentamente innanzi alla porticina. Il portinaio leggeva un biglietto del lotto, con una cèra collerica, ma non si muoveva. Ella non entrò. Per la terza volta, ritornando verso il palazzo Odescalchi, ella ripassò: egli ricaricava lentamente la pipa, premendo il tabacco col pollice - nè si levava dalla soglia. Allora Checchina abbassò il capo e se ne andò a casa rinunziando. In Roma, dicembre 1883.

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