Sulle sponde del Tevere siede una donna in abiti vedovili: è la personificazione di Roma che, interrogata da Fazio e Solino, denuncia la propria condizione di vedova inconsolabile per la rovina che si è abbattuta su di lei a seguito del trasferimento ad Avignone della sede papale. Il Dittamondo fu infatti scritto intorno alla metà del Trecento, e dunque nel pieno di quel periodo, convenzionalmente definito della «cattività avignonese» (da captivus, prigioniero), che cominciò nel 1309 dopo la nomina di papa Clemente V e si concluse nel 1377 con il ritorno di papa Gregorio XI nella sede di Roma.
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Il tetto è rovinato; il troncone di una trave, precipitando, s’è ficcato in terra verticalmente; ogni cosa è abbattuta, sconquassata, fracassata, ridotta in frantumi. L’occhio si confonde nelle miserande macerie; ma, un po’alla volta, attenti, esce dai rottami un seno mezzo scoperto e la testa arrovesciata di una giovane donna. Attenti: vedete le braccia distese di quella poveretta, e la sua rozza veste impigliata al troncone della trave, e le ginocchia ed i piedi? Attenti: ecco un bambino ignudo, già morto. Guardate ancora, scavate con l’occhio in mezzo a tante rovine, non vi lasciate vincere dalla compassione e dal ribrezzo: ecco un secondo bambino, ignudo, morto. Sentite un lamento? Cerchiamo palpitanti, allibiti, cerchiamo: ecco un terzo bambino nudo, che respira in mezzo ai cadaveri. Quel letto è pauroso e tremendo: pauroso e tremendo senza uscire dall’arte.
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