Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbattimento

Numero di risultati: 14 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

La fatica

169665
Mosso, Angelo 1 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Pagina 225

Come devo comportarmi?

172903
Anna Vertua Gentile 1 occorrenze
  • 1901
  • Ulrico Hoepli
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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O se qualcuno avverte l'espressione malinconica di un visetto infantile, o l'aria di abbattimento della piccola persona, ne cerca tosto la causa nella salute; e crede di guarire con ferro e olio di merluzzo un male morale, che avrebbe bisogno di affetto, di carezze, di dolce persuasione. Ora, chi può usare di tali rimedi per ritornare la serenità sul volto dei bimbi, mi pare ne abbia da risentire una dolcezza infinita. E una tale dolcezza se la può procurare senza fatica, anzi ubbidendo spontaneamente al proprio cuore, la signora nubile, che può consacrarsi allo studio dell'infanzia senza le distrazioni e gli impegni di chi ha famiglia.

Pagina 389

L'angelo in famiglia

182590
Albini Crosta Maddalena 3 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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il cristiano è un navigante ben fortunato, poichè se il polo non sa indicare al marinajo i banchi d'arena, e gli scogli, e le correnti sottomarine, e gl'innumerabili pericoli che lo possono sorprendere e farlo perire; il polo del cristiano, non è solo una lucerna fissa, costante che gli addita il porto, che lo illumina; ma è altresì una voce amica che lo consiglia in ogni dubbiezza, lo rincora in ogni abbattimento, gli fa sentire quella potente parola che lo rianima, lo elettrizza, lo rende capace di quanto colle sole sue forte non avrebbe mai osato sognare. E dovrò io dirti, sorella mia, che quel polo, quella mano, quella voce non è altro che Dio? Ed a qual pro tel direi, dappoichè tu lo sai per prova, e non vuoi, non hai, non ami altro indirizzo fuorchè quello che ti segna l'Onnipotente? Lo so, tu sei buona, credente, e sei anche attaccata alla tua cara fede ed alle pratiche 14 ch'essa ti insegna; ma non per fare oltraggio alla saldezza ed alla delicatezza dei tuoi sentimenti, sibbene perchè mai non te ne distacchi, sento forte il dovere di prescriverti quanto ti può ajutare, e intingendo la penna piuttosto nel cuore che nella testa, cerco alla Stella del mare, alla protettrice dei naviganti, Maria, i lumi e il potere di radicar sempre più potentemente la tua fede, ed in conseguenza di rendere più attiva la tua carità. Vi sono deformità che noi dobbiamo compatire, ma vi sono alcune deformità che noi non possiamo nè dobbiamo tollerare mai e poi mai. Certo, la carità cristiana ci obbliga a tollerare non solo in noi, ma più ancora negli altri, le deformità corporali, perchè sono involontarie, e perchè spesse volte in un corpo deforme è serrata un'anima perfetta; su di ciò ragioneremo altra volta; ma la carità cristiana quanto alle deformità morali ci obbliga a tollerarle negli altri solo quando non sia in nostro potere correggerle; in quanto a quelle che macchiano l'anima nostra, anzichè tolleranza ci comanda violenza, ferro e fuoco. Egli il nostro Salvatore ci ha offerto in sè stesso il balsamo infallibile per sanare ogni nostra piaga, per raddrizzare ogni stortura; perchè adunque non ci rivolgeremo a lui con animo grato e confidente? Tenere un giusto equilibrio nelle proprie facoltà, ed operare sempre secondo i dettami di coscienza dev'essere lo studio incessante e faticoso d'ogni buon cristiano, ma non si riesce ad ottenere questo, se non con grande fatica. Or bene, io direi che la radice, anzi il cardine su cui si muove tutto l'edificio della spiritual perfezione, non è altro che la retta intenzione, la quale guarda sempre ed unicamente Dio come il mezzo e la meta, cui deve mirare. Non è forse vero, le mille volte sentito e provato, che nostro unico fine è Dio, che l'unico mezzo per giungere a Lui è quello da Lui suggerito, d'osservare cioè la sua santa legge? Allora sarà provato una volta di più che il cardine, sul quale deve poggiare e muoversi l'edificio della nostra perfezione, è una intenzione retta di servire Dio solo, di piacere a Dio solo. Noi dobbiamo tutti gl'istanti della nostra vita a Colui che ce l'ha data, ce la conserva, ed Egli potrebbe pretendere da noi che mai un solo momento distaccassimo il nostro occhio dalla contemplazione dei suoi perfettissimi ed infiniti attributi, e che il nostro cuore fosse immerso in una profonda, incessante meditazione della sua infinita Maestà, Potenza e Misericordia. Ma il Signore il quale ci ha creati, ci conosce, ci ama e si contenta di molto meno. Egli permette che noi ci occupiamo nei molteplici ufficj cui ci obbligano il nostro stato, il nostro bisogno, e perfino la convenienza; ma ce lo permette a questo patto: che come il navigante ha sempre attento l'occhio al polo, così noi miriamo unicamente a Lui, fine unico della nostra esistenza. Questa direzione, questo indirizzo che noi dobbiamo avere, si dice ed è propriamente la retta intenzione, la quale ci deve animare a fare in tutto la sua santa volontà. Ora questa intenzione non basta formarla una sola volta, ma dobbiamo rinnovarla tratto tratto per rendere meritorie le nostre azioni anche indifferenti, perchè tutte quante le opere nostre (quando, s'intende, non sieno cattive), tutte possono diventar grate a Dio e glorificarlo, ove noi le rivolgiamo a questo fine. Tel dicevo pure io:Il giogo del Signore è soave, e leggiero il suo peso, ed ora tel ripeto, e tu converrai meco, quando ti accennerò in quanti modi possiamo fargli piacere. Se io facessi opere di carità eroica, ma le facessi solo per mio gusto o per soddisfare il mio amor proprio col plauso del mondo o dei mondani; quando il mondo ed i mondani mi avranno lodato poco, sarà tutto finito, ed io non avrò più premio alcuno da attendere, poichè il mio salario l'ho già ricevuto. Che se io invece donerò un solo bicchier d'acqua per amor di Dio, so per fede essermi riserbata ricompensa eterna. E questo ti provi ancor una volta che è la retta intenzione che dà o toglie il merito soprannaturale alle azioni nostre, e che è lo spirito, che è il cuore ciò che vuole il Signore, quel Signore il quale ha dettodi voler essere adorato in ispirito e verità. Il Signore non ha bisogno di noi; ma noi abbiamo bisogno di Lui, e per questo il nostro interesse richiede che noi stiamo sempre a Lui uniti in tutte le opere nostre, almeno colla volontà e col cuore. Ti diceva poc'anzi che con poco o nulla ci possiamo acquistare meriti per il Cielo, e te lo provo. Le occasioni di far del bene non sono frequentissime, e meno frequente è ancora il caso che noi ne possiamo profittare, perchè ce ne mancano sovente i mezzi, o ci fa difetto la salute, ovvero manchiamo del necessario, oppure siamo vincolati da occupazioni obbligatorie, o cento altre circostanze vi si oppongono. Non possiamo prestare continuamente servigi al prossimo, nè continuamente essere promulgatori della gloria di Dio; ma continuamente possiamo rendere gloria a Dio ed acquistarci dei meriti, se questo è il fine principale ed il movente vero di tutte le nostre azioni. Potrei aggiungere che questo fine e questo movente ci presentano una grandissima utilità anche perchè, finchè siamo inspirati da essi, siamo in certo qual modo impossibilitati a fare il male: quando io sto per commettere un peccato, la stessa abitudine di riferire a Dio ogni mia operazione mi farà avvertita che quella che sto per fare è cattiva, e mi distorrà quindi dal farla. Ma senza dilungarmi in questo, almeno pel momento, ti faccio osservare che perfino il riposo, il sonno, il divertimento, possono divenire per te occasione di merito, se hai la retta intenzione di piacere a Dio solo. Egli è buon pagatore sai, e non guarda alla grandezza del dono, sibbene al cuore con cui gliel'offri, benchè piccolo e di niun conto. Io vorrei che ogni giorno, almeno la mattina durante la meditazione, che non lascerai mai e poi mai, non colle parole che io scrivo, ma con quelle che ti detterà il cuore, ordinate o no, intere od interrotte, in una lingua o nell'altra, a voce alta o senza muovere le labbra, ma con profondo sentimento, io vorrei che tu dicessi a Dio:Signore, tutto quanto io faccio di buono o d'indifferente, di obbligatorio o di volontario, io tutto lo offro e lo dedico a Voi, affinchè spruzzato dai meriti vostri il mio operare sia retto e si attiri la vostra benedizione. Tutto per Voi, tutto per Voi, niente per me, niente pel mondo, nè pel demonio, nè per la carne. Questa che ti ho indicata è, mi pare, una specie di economia spirituale, pel cui mezzo possiamo farci dei meriti con poca o niuna fatica, e procurarci una salvaguardia per non cadere abitualmente in peccato; ma vi hanno altri casi in cui la retta intenzione ci è più che mai indispensabile ed urgente per tenerci sulla via della virtù e della giustizia. Il nostro corpo e l'anima nostra sono opera delle mani stesse di Dio e del suo fiato poichè il nostro corpo non lo fece come quello delle altre creature con un atto solo della sua volontà, ma lo plasmò Egli stesso colle sue mani; indi a questo corpo, fattura di un Dio, inspirò un alito vivificatore, e quest' alito metteva in lui la vita, e colla vita lo dotava di un'anima ragionevole e suscettibile di tutte le virtù, perchè foggiata a sembianza e similitudine del suo Creatore. Non ci rechi adunque meraviglia se con un corpo ed un'anima fatti a somiglianza di Dio, noi troviamo talvolta e sempre in noi medesimi alcunchè meritevole di lode, e non poche disposizioni virtuose. Ma qui appunto sta, io credo, un grande pericolo, in cui l'ignoranza troppo universale di quasi tutte le persone, anche d'altronde più colte, non manca di cadere. Taluno si crede in obbligo, sotto pena d'orgoglio, di negare le proprie buone qualità, e così non di rado si trova in aperta e dichiarata opposizione al vero. Ciò accade, per esempio, quando taluno essendo e riconoscendosi tenero ed affettuoso di cuore, si dichiara duro ed insensibile; donando tutto il suo ai poverelli, si dice attaccato di avarizia; avendo ricca la mente di svariate ed utili cognizioni, si protesta idiota; e così si dica delle molteplici menzogne e vere finzioni che una malintesa umiltà ci fa commettere, a vero sfregio della verità e della giustizia. Lo stesso potremmo dire delle doti esteriori della persona, della nascita, del grado e così di seguito degli innumerabili doni della Provvidenza alla quale dobbiamo esserne grati. No, la colpa non istà nel conoscere i beni da noi posseduti, nè senza colpa e rimorso possiamo ripetere coll'Uomo del Monti: ... - Io, son io, v'è sculto Delle create cose la più bella. - La colpa, o dirò meglio il pericolo, sta nell'attribuire a noi anzichè a Dio i beni che possediamo, per cui aveva ragione il vescovo di Ginevra di dire che chi si gonfia di quanto possiede, ed è dono di Dio, è simile al ciuco che crede suoi i tesori del suo padrone perchè li porta in groppa, e la cui valdrappa dorata ricopre la naturale bruttezza. Tu, figlia mia, se ti senti pungere il cuore da vanità perchè havvi chi trova il tuo viso grazioso e il tuo portamento leggiadro, ringraziane iddio; tutto e anche la naturale bellezza è un dono suo; ma in pari tempo forma l'intenzione di non adoperar mai a mal uso questa grazia, bensì di servirtene a gloria sua, cercando che la bellezza interiore non solo la uguagli, ma di gran lunga la superi. E quanto io dico di questo, si dica di tutti i vantaggi della intelligenza, dello spirito e del cuore, ed ogni cosa riconoscendo dalla liberalità divina, cerchiamo di non rendercene indegni e di porvi ostacolo colla nostra poca o cattiva corrispondenza. Mi pare così ovvia, così evidente la verità accennata, essere cioè vanità vanissima quella d'insuperbirci di ciò che non è nostro, ma abbiamo ricevuto senza alcun nostro merito, come dono puramente gratuito, che penso di lasciare alla tua meditazione sviluppare meglio l'argomento, sicura che il buon Dio agli altri doni vorrà aggiungere questo d'infonderti una salutar confusione per la tua nullità, pensando come tutto e fino questo sentimento ti viene da Lui. Un pericolo più grande per la nostra perfezione, il quale tenta deviare il merito delle nostre buone opere, si è lo spirito di proprio contentamento, di vanità, d'orgoglio, d'interesse; e spesso uno spirito complessivo di queste grame qualità, o doti, o tentazioni come le vogliamo chiamare, guasta ogni nostra buona azione. Poniamo che io mi metta a fare una carità grande, di' pure quella, per esempio, di salvare dall'inopia un'intera famiglia, e toglierla così ancora all'imminente pericolo di peccare. Se io, secondando, se vuoi, anche una felice tendenza dell'animo mio, intendo con ciò di dar lode al Signore, Egli me lo attribuirà a merito grande, e nel giorno del gran rendiconto troverò che il Signore mi cancellerà i debiti miei per l'opera buona che avrò fatto: se invece io nel fare la mia carità, anzichè pensare a soccorrere nell'uomo la creatura figlia di Dio, penso a secondare unicamente l'impulso del cuore, o ad ottenere lodi o ringraziamenti, te l'ho già detto, io non posso attendere dal Signore alcuna mercede. Ma talvolta s'incomincia con buona intenzione, poi alla buona intenzione subentra l'intenzione difettosa o cattiva o pessima, secondo che siamo più o meno trascurati a tenere di vista il nostro fine unico. Insomma tutto si riassume in ciò: non facciamo nulla per contentamento del nostro amor proprio, o della carne, o delle passioni; ma in tutto teniamo fissa la retta intenzione. Questa sia il timone, la calamita, il polo, che guida il nocchiero alla sua meta; se il nocchiero trascura questi mezzi non potrà mai salvarsi dalle procellose onde del mare infido, senza una straordinaria grazia di Dio, vorrei quasi dire senza un miracolo. Mia dolce sorella, mia tenera figlia, se tu avrai sempre in mente di mirare a Dio solo, la tua vita correrà serena, e sul tuo capo si accumulerà un tesoro di meriti e di benedizioni. Oh! sì, io ti auguro col cuore che tu possa raggiungere un grado elevato di virtù e di santità in questo mondo, e una bella corona in quell'altro mondo, il quale non come questo è pianeta e satellite; ma immensamente e incomparabilmente grande e beato non andrà come questo soggetto a leggi fisse, indeclinabili e penose, nè ad alcuna vicenda. Ti potrà ben accadere alcune fiate che colla miglior intenzione tu non riesca a quanto avevi desiderato e fors'anche iniziato, e per cui avevi fatto dei grandi sacrificj: forse il mondo se se n'accorge ti deriderà, o ti darà quell'amaro compatimento che più ferisce dello stesso biasimo; ma se la tua intenzione sarà stata unicamente di piacere al Signore, Egli che non ha bisogno dell'opera tua, ma desidera solo il tuo cuore, sarà contento del tuo buon volere, e ti preparerà in Paradiso un seggio più luminoso anche per la negazione che hai avuto di ogni soddisfazione umana. Voglio provarti quanto dico con un confronto. Una bambina all'avvicinarsi della festa della sua cara mamma, volge in cuor suo un tenero e delicato progetto che tutti assorbe i suoi pensieri ed interessa il suo cuore. Ella vuol far festa alla cara genitrice; trova modo d'incominciare un lavoro da offrirle, e si bea pensando alla buona accoglienza ed il piacere col quale verrà ricevuto. Essa, la fanciulla, lavora lavora; il suo ricamo è finito,è ben riuscito, e la domane appena il sole comparirà sull'orizzonte, essa lo presenterà alla cara mamma e ne riceverà cento baci. Una combinazione qualunque, una mano indegna ha sciupato quel lavoro o lo ha rapito, e la fanciulla dopo tanta fatica si trova la domane senza nulla avere da presentare alla diletta sua. È mortificata la piccina, si vergogna, si desola; la madre però ha saputo, od almeno ha indovinato tutto, perchè ha visto il pianto della figliuola, ne ha indagato la ragione, l'ha trovata. Corre essa medesima in camera della figlia che se ne sta in pianti, l'abbraccia, la colma di carezze, e piange essa pure di dolce commozione... Aveva bisogno la madre di quel lavorino, di quel ricamo? No, essa voleva il cuore della figliuola, essa si è trovata in possesso di quel cuore; è contenta, è soddisfatta, non cerca di più. Non ravvisi tu, amica mia, l'amor tenerissimo del tuo Dio, nelle tenerezze matterne di colei di cui t'ho parlato? Non ravvisi tu nella sua soddisfazione quella del tuo stesso Signore, quando, benchè non riuscita un'opera, tu l'hai pensata, iniziata, condotta con o senza esito, ma col solo intendimento di fargli piacere? Su, coraggio, figliuola; disprezza le tentazioni che il nemico ti crea all'intorno affine di persuaderti che agisci per lui e non per Iddio. Leva alto il tuo cuore, e quando ti ondeggia l'animo e temi e tremi di essere mossa da un interesse tuo particolare, o dal desiderio del plauso, o da qualunque altro fine terreno, leva alto il tuo cuore, e ripeti a te stessa: per Iddio, per Iddio, e la medesima tua lotta diventerà per te preziosa occasione di merito. Se il mondo ti troverà affettata perchè non comprenderà l'eroismo che non divide, tu lo sopporterai volontieri, poichè è ben giusto tu paghi con qualche sagrificio la immensa soddisfazione che t'inonderà l'animo quando avrai coscienza di aver fatto il dover tuo. Mia dolcissima amica, ricordati di non fare mai, mai nulla che tu non possa offerire a Dio, onde non aggravare la tua coscienza e fare cosa a Dio discara. Non fare mai un'azione qualunque buona od indifferente, senza formare l'intenzione di servire Colui, al quale tu devi tutta te stessa e tutte le opere tue, ed ogni volta ti accorgi che lavori per te stessa o per gli altri, raddrizza il tuo timone, guarda il Cielo, e ti sentirai forte e vigorosa a condurre felicemente a termine ciò che fai se è cosa penosa, ed a godere con animo lieto quanto di buono ti si presenta nella vita. Io credo di sì grande rilievo questo punto della retta intenzione, che non finirò mai di raccomandartela, poichè se essa si troverà in te, tu sarai sicura che credi in Dio, che speri in Lui solo, che lo ami davvero. Lo dico un'altra volta; l'occasione di fare azioni grandi e generose si presenta rare volte, e resta poi anche a vedere se allorchè si presenterà noi avremo l'eroismo di profittarne; mentre nell'operare rettamente le azioni più comuni della vita consiste il vero merito di noi, che meschine, non sappiamo nè possiamo aspirare a servir Dio con opere straordinarie ed eroiche. 15

Pagina 208

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Ma vi era una vecchia madre trascurata, sprezzata, alla quale quasi per elemosina si gettava un pezzo di pane ed una scarsa borsa che, se bastava appena a toglierla dall'indigenza, era ben lungi dal toglierla dal suo abbattimento, dall'avvicinarla, e dal comunicarle il benessere e la gioja comune. Io ero allora fanciulla, ed allorchè quella vecchia signora sfogava il suo cuore colla mia mamma, ed io sentiva il racconto delle sue pene, provavo una venerazione per la povera vecchia, ed un'indignazione pei giovani suoi figli, una specie di paura che non avesse a piombare sovra essi un tremendo gastigo. Un giorno la campana dà i mesti tocchi dell'agonia; un altro giorno una povera bara seguíta da pochi è portata al Cimitero; un altro giorno della vecchia si parla da pochi, poi non se ne parla più, non si ricorda nemmeno!... Quella famiglia quasi priva da un onere, continua a vieppiù prosperare, i figli si fanno essi pure un ridente ed agiatissimo stato... ma un giorno di morte repentina muore il capo di casa... un altro dì uno di quegli individui che incorniciati dal credito e dal buon nome pajono lanciati dal demonio nella società per sfasciarla, per annichilarla, quell'individuo fa morire di dolore una figlia, getta quasi nella miseria gli altri due; uno di questi ripristina la propria fortuna, ma a spese della pace e forse dell'onestà: l'altro maledice la madre, la quale se ne rimane così isolata nel mondo, abbandonata, infelice! Il mondo se degna di uno sguardo quelle membra staccate che formavano già un corpo solo, o non le cura o le disprezza; ma chi conosce quella storia oscura, non può a meno di ritornar con amarezza al pensiero una voce fioca ma concitata; una cuffia bianca ed un crine canuto su cui sdegnava posarsi la mano filiale... Buon Dio! perdona, perdona a tutti i loro errori; perdona a quel figlio forse più debole e sventurato che colpevole, perdona le sue colpe. Da quella famiglia dove tu sei sbandito, dove è sbandita fino l'immagine tua, leva i flagelli; ritorna tu colla tua presenza, porta la tua fede, la tua speranza, la tua carità, e quando tu avrai fatto ritorno in quella casa, tornerà il sereno, tornerà la calma, cesseranno le ire, cresceranno i figliuoletti nella tua legge, ed al fuoco delle passioni subentrerà il fuoco dell'amor tuo verace! Ma più frequenti, molto più frequenti io amo credere i casi in cui, non una prosperità fittizia, ma una prosperità vera, è il premio da Dio accordato a coloro i quali devoti al comandamento onorerai il padre e la madre tua venerano i cadenti genitori, o gli avi che la Provvidenza ha loro conservato per moltissimi anni. E se tu hai la grande ventura di avere ancora i tuoi nonni, ricordati di venerarne la canizie, perchè quella canizie riflette qualche cosa della maestà stessa dell'Onnipotente, perchè a quella canizie vanno attaccate le benedizioni del Signore. Te beata, se nel sentiero spinoso della vita avrai il conforto di non aver conturbato i vecchi anni degli avi tuoi! Te beata se, vecchia tu pure un giorno, potrai ricordare con compiacenza e con commozione che un dì sulla tua testa s'è posata una mano tremola e scarna, che una voce conosciuta presso a spegnersi per sempre, ha fatto un ultimo sforzo per benedirti... Oh! quella benedizione Iddio l'ha confermata, la conferma ogni giorno in cielo, e sarà feconda d'ogni bene al tuo corpo e all'anima tua!

Pagina 354

Galateo ad uso dei giovietti

183915
Matteo Gatta 1 occorrenze
  • 1877
  • Paolo Carrara
  • Milano
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Le indigestioni pel troppo mangiare portano gravissimi incomodi al nostro corpo, e, causa le relazioni che passano tra il fisico e il morale, anche lo spirito si trova in uno stato di abbattimento e di prostrazione. Dunque, regola generale: comandare alla gola e non lasciarsi vincere dalla tentazione di odorose leccorníe e di squisite delicature. Vi raccomando altresì di non bere oltre il bisogno. Già conoscerete il proverbio che dice: « Il vino è il latte dei vecchi e il veleno dei giovani. » Vino e liquori in troppa quantità mettono il fuoco nel corpo, infiacchiscono l'animo. ùChi nell'età giovanile ne abusa, coll'andare degli anni si fa beone, e diventa per lui un'abitudine quel turpe vizio dell' ubbriachezza, in cui l'uomo affoga la facoltà sublime che lo distingue dal bruto, la ragione. Guardatelo: non ha peranco varcata la virilità, ed è già rotto di salute, ottuso di mente, paralitico. Osservate invece quell'altro che conta più anni di lui, ma ebbe sempre a regola indefettibile la sobrietà; esso gode di verde vecchiezza, robusto di corpo, sereno di spirito, contento di sè, utile e caro ai concittadini, agli amici. La maggiore difficoltà nel resistere alle tentazioni della gola voi la incontrerete in un pranzo d' invito, ove tutto abbonda, dove le molte o varie vivande sono condite in maniera da aguzzar l'appetito, o dove la letizia dei commensali, ravvivata dalla eccellenza dei vini, può far dimenticare le abitudini di sobrietà e di temperanza. Ma la vostra moderazione sarà ancor più lodevale al cospetto di tante e così forti attrattive. E poi tenete ben fisso nella memoria che so la nostra ragione qualche volta è facile ed indulgente, la natura non lo è mai: e quando taluni ci dicono: « Oggi ci è permesso di stare allegri oltre il solito », e noi abusiamo di questa, imprudente, o meglio, chimerica permissione, la natura ci castiga con quelle malattie che sono la conseguenza degli abusi. Non fraintendete però i miei consigli, nè tirate le mie parole a un senso falso. Raccomandandovi la sobrietà, non intendo dirvi che in un giorno di comune allegrezza abbiate a camuffarvi da anacoreti, trasformandolo, per quanto è da voi, in un giorno di penitenza e di malinconia. Tale contegno sarebbe in aperta contradizione coi più elementari insegnamenti del galateo. Delle molte cose dette nella precedente lezione alcune sono generali e applicabili a qualsiasi mensa, altre riguardano specialmente i pranzi d'invito. Ma, quantunque sembri ch' io abbia in certo modo posto il suggello a codesta materia colla soluzione intorno alla sobrietà, mi nasce il sospetto di aver lasciata qualche lacuna. E i tanti e diversi atti d' inciviltà che tuttogiorno, colpa in gran parte la trascuranza o la troppa indulgenza dei genitori, si veggono commessi da fanciulli e da giovinetti in buone famiglie, mi persuadono della necessità di soggiungere, a guisa di appendice e come giunta sulla derrata, poche altre avvertenze che valgono per tutti i casi ; alcuna delle quali dirette particolarmente ai più teneri di età fra i miei ascoltatori e a quelli che per la prima volta sentono parlare di siffatti doveri. Ed eccomi all'opera. Rompete sempre il pane colle mani o col coltello, nè mettetene mai alla bocca tal pezzo che abbiate a distaccarlo coi denti. Non istritolate coi denti nè ossi nè nocciuoli, chè ciò fa ribrezzo e ricorda il mangiare dei cani. Non succhiate gli ossi per estrarne il midollo, nè addentateli per istaccarne la poca carne che vi rimane. Ciò s'ha a fare sul proprio tondo, colla forchetta e col coltello. È gran villania anche al desco di famiglia, l'intingere nella saliera un boccone che si vuol condire a proprio gusto. Guardatevi dal mettere il vostro cucchiaio o la forchetta nel piatto comune o d'altri che vi offra parte di vivanda non tocca. Non porgete mai a nessuno ciò che voi avete assaggiato. Non riponete sul piatto comune quello che fu sul vostro. Non lasciate cader d'alto alcun che di bocca, nè sputate fuori acini d'uva succhiati o altro; ma tutto va preso colle dita e posto sul piattello. Se per vostra negligenza o per la qualità delle vivande vi trovate unte le dita, non le pulite colla tovaglia, sibbene col tovagliolo o con mollica di pane, che porrete sul vostro tondo. Fate il possibile per astenervi a tavola da sputare, da tossire e più da starnutire, onde alla mente d'alcuno non si affacci l'idea di qualche spruzzo, giusto il proverbio che «mai vento non fu senz'acqua.» Anche grattarsi il capo a tavola sta male. Che dire poi di que' malcreati che si fregano colle dita o col tovagliolo i denti, e per pulirli adoperano forchetta e coltello? A quest' uopo serve l'apposito stecco: però non vuolsi usarne dinanzi a persona di riguardo, nè tenerlo sempre in bocca a somiglianza d'uccello che faccia il nido. Non porgete mai ad altri quel bicchiere di vino al quale avrete posto la bocca, salvo che egli non fosse con voi più che domestico. E molto meno si deve porgere pera o altro frutto nel quale avrete dato di morso. Abbiate cura a mensa di masticare senza strepito, cosa molto spiacevole ad udire e contraria ad ogni gentil costume. Nè in palese sta bene risciacquarsi la bocca; e la sconcia moda introdotta, or fa qualche anno, alle tavole signorili di portare ad ogni commensale una ciotola d'acqua tiepida a quest'uso è ormai smessa quasi del tutto per generale riprovazione. Non può essere lecito che intingere nell'acqua le estremità delle dita, e con quelle passar sulle labbra. In quanto all'ora opportuna per recarvi alla casa dove siete invitati a pranzo o ad altro qualsiasi convegno, guardatevi bene, o giovinetti, dall'imitare quegli ineducati che si fanno sempre aspettare e sono l' indugio, lo sconcio, il disagio di tutta la compagnia. Rispetto ai discorsi poi, ricordatevi che nè a festa nè a tavola si vogliono raccontare malinconiche istorie, nè far menzione di malattie, di pestilenze, di morti, nè di altra dolorosa materia: anzi, se alcuno fosse sbadatamente caduto in siffatte rammemorazioni, è bene scambiarli per acconcio modo la materia e mettergli per le mani più lieto è più convenevole soggetto. In certe famiglie di città, e più ancora del contado, i padroni, nei calori dell' estate, insisteranno, con una cordialità schietta, sebbene un po' spinta, perchè abbiate a spogliarvi del soprabito innanzi di mettervi a tavola. Io vi consiglio di ringraziarli della premura, ma non di arrendervi mai a cotesto invito. Siffatta libertà, a mio giudizio, è appena permessa tra amici, e soli uomini, in un'osteria di campagna, sotto il bel verde di una pergola o di un frascato. Nè venite a dirmi che anche in città, e non in bettola ma in buone osterie, avete visto persone della classe civile in manica di camicia. Eh, miei cari, in società se ne vedon di crude e di cotte. Vi hanno certuni che all'osteria, in sala comune e presenti signore, non solo si cavano il soprabito, ma si tolgono la cravatta, il panciotto, rimboccando le maniche della camicia fino al gomito, e mostrando le braccia nude e il petto irsuto, come operai che sudano alla fucina o contadini sotto la sferza del sole. E v'hanno altri che non si accontentano di ciò, ma usano del tovagliuolo per quell'indecente ufficio di tergere il sudore del quale abbiamo toccato più sopra, e se ne servono come di pezzuola pel naso e di spazzola per le scarpe polverose e per nettare il bocciolo del sigaro. Vedete che sporcizie! Eppure ne avrei molte ancora da mettervi innanzi, e potrei dirvi come alcuni puliscono le unghie in pubblico collo stecco e commettono altri atti villani e ributtanti a chiunque abbia dramma di educazione. Ma usciamo da questo fango, e il saggio recato basti a persuadervi che della società non hassi a imitare che il buono e l'onesto. Io vi ho ragionato a lungo sul modo di contenersi a mensa, specialmente in casa altrui, e su questo punto il mio cómpito sarebbe finito. Tuttavia, per le ragioni più volte allegate, non credo fuor di proposito dir quattro parole anche intorno ai doveri di quei che convitano; e sarà, come tante altre, una lezioncina da tenere in serbo per l'avvenire. Anzitutto sarebbe mancare ad ogni principio di pulitezza e di convenienza raccogliere alla stessa tavola persone che si veggono di mal occhio, che sono in aspra lite, oppure divise da freschi rancori o da vecchi dissidii. Ciò non è da farsi che nell'idea di suggellare una riconciliazione già preparata, e in questo caso il pensiero meriterebbe le lodi di tutti gli animi onesti e gentili. Nè il riunire al medesimo desco uomini di opinioni politiche diametralmente opposte è senza pericolo: stantechè nelle quistioni che valgono su tali argomenti anche le persone più gravi e più educate si lasciano talvolta trasportare fuori dai confini della calma e dignitosa discussione. Non è conveniente far aspettare troppo tempo i commensali già raccolti per la ragione che ne manchi alcuno. L'incivile in ritardo non dev'essere causa d'incomodo altrui. Voglionsi però eccettuare due casi: l'uno, quando si aspettano forestieri pei quali è dato il pranzo; l' altro, quando un convitato ragguardevole abbia fatto sapere alla padrona il grave motivo del suo involontario ritardo, e questa ne presenti le scuse alla compagnia. Però non è mai lecito oltrepassare i limiti della convenienza e della discrezione, e chi è sorpreso da subito impedimento può con bel garbo scusarsi del suo non intervenire al convitto, senza recar noia e disagio a nessuno. Sarebbe stranezza peccare di parsimonia, ma non potrebbe piacere neanche una sontuosità esagerata a paragone del censo di chi invita. Sfoggiare un lusso principesco con una rendita non corrispondente gli è un mettersi in ridicolo, fare il passo, come suona il motto popolare, più lungo della gamba. Spiacciono poi sommamente certi padroni strani, bizzarri, meticolosi, che non trovano mai nulla fatto a loro modo, e non rifinano di lagnarsi del cuoco, di sgridare fanti e fantesche al cospetto altrui e a mensa, che è luogo di allegria. Tu chiami gli amici a letizia, e invece li rattristi: poichè come gli agrumi che altri mangia alla tua presenza a te pure allegano i denti, così il vedere che altri si adira, turba anche noi. Il padrone dev'essere il primo a mostrarsi di buon umore, a diffonderlo come corrente elettrica nei convitati; e la padrona dee spandere intorno il tesoro delle sue grazie e del suo spirito. Colle sole persone molto famigliari e domestiche, o con inferiori visibilmente troppo timidi può correre il costume di stuzzicarli a mangiare, quando però si faccia con discrezione; chè altrimenti sarebbe una cortesia ben incomoda quella di costringere un galantuomo a rimpinzarsi di cibi contro sua voglia e a buscarsi una buona indigestione. Siffatta insistenza notasi principalmente nella campagna, in quei banchetti per nozze, per messe nuove, per sagre, nei quali la moltiplicità e la quantità enorme delle imbandigioni ricordano i pranzi degli eroi omerici e renderebbero necessarii i loro stomachi di ferro. Per chiusa di questa lunga lezione, volgo una parola speciale a voi, mie buone fanciulle: prestatemi dunque orecchio. Delle tante rac comandazioni, dei tanti suggerimenti, che avete udito testè dalla mia bocca, io sono persuaso che una parte sia quasi superflua per voi giacchè l'istinto della decenza e del pudore che si sviluppa così precocemente nell'animo vostro è come una salvaguardia che vi rattiene dal commettere non pochi atti contrarii alla buona e bella creanza nei quali cadono facilmente i maschi. Ma, per converso e quasi a bilanciar le partite, certe mancanze che con più larga indulgenza si perdonano a questi, non si vogliono vedere nelle fanciulle, e sono con assai maggiore severità giudicate. Qual'è la causa di tale diversità di pesi e di misure ? È forse una ingiustizia del sesso forte contro il più debole? Nemmeno per celia. La ragione è questa: che siccome il sesso gentile ha diritto ad ogni delicato riguardo, così ha pure l' obbligo di serbar sempre il sentimento d'ogni delicatezza e di non fare il minimo atto che anche impercettibilmente offenda la dignità femminile. Eccovene un esempio: dopo un pranzo, spiace il vedere un giovinetto che, avendo ascoltato più i consigli della gola che quelli della moderazione, si sente aggravato il ventricolo, non dice parola, o pallido e sofferente si lascia cadere sur una seggiola, se pur non gli avviene di peggio...; ma quanto non dispiace di più una fanciulla che si trovi in simile stato! Lo lascio dire a voi stesse, mie care. Un ragazzo che in un dì di festa e d'allegria si mostri un tantino brillo potrà venire scusato pel caso eccezionale, per non essere abituato a vini generosi, e spandere anche il buon umore nella brigata. Ma d'una fanciulla io non vorrei che in nessuna circostanza si possa dire: « Ha bevuto un po' troppo, il vino le ha fatto male. » Anzi il mio consiglio sarebbe di non bere che acqua pura o vino corretto. Dunque, mie buone ascoltatrici, imprimete nella memoria quegli insegnamenti che fanno per voi come pei maschi, e tenete conto di queste ultime osservazioni che in modo particolare vi riguardano.

Pagina 76

Come devo comportarmi. Le buone usanze

185299
Lydia (Diana di Santafiora) 1 occorrenze
  • 1923
  • Tip. Adriano Salani
  • Firenze
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Pagina 303

Il saper vivere

186985
Donna Letizia 1 occorrenze
  • 1960
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Pagina 213

Angiola Maria

207148
Carcano, Giulio 1 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Troppo spesso la sana mente e la fredda ragione sono umiliate da una specie di vago abbattimento, da un amaro disgusto di tutto, perchè possano essere capaci di grandi e virtuose risoluzioni. La coscienza del dovere, senza l' alito segreto dell' affetto, non è virtù; perchè la virtù viva nel cuore, non basta la persuasione indotta dalla chiara evidenza del fatto; è forza che al fatto si trovi una spiegazione, un principio sovrano, il misterioso legame dell' anima con la vita. Arnoldo aveva conosciuto nella nostra città uno di quegli uomini di semplici costumi e d'animo incorrotto, i quali, in mezzo al mondo, seguono con passo sicuro una via negletta e taciturna, la via dell'onesta saggezza. Gli applausi e la gloria non sono per loro, anime grandi e oscure; ma sono per loro la tranquillità dell' uomo modesto e la forza del giusto: vengono sulla terra ignoti, passano dimenticati, e se ne vanno del pari; ma il frutto delle parole e dell'esempio loro sopravvive, nè può andar perduto. Quest' uomo, del quale non dirò il nome, perchè i buoni non cercano quaggiù lode nè invidia, paghi dell'amore de' pochi, nel piccolo cerchio di coloro che si ricordano del bene ricevuto; quest' uomo, colla dolcezza dei consigli e con la forza mite d' un senno angelico e consapevole del cuore umano, indirizzò e sostenne i pensieri di Arnoldo a quel fine a cui l'anima sua da tanto tempo anelava. Egli lo preparava a' gravi studi, lo nutriva di ferventi meditazioni e di calda volontà, ne accendeva il coraggio, e rinfrancava la vigilanza; gli prometteva la vittoria dopo la battaglia, e dopo la fatica il sospirato riposo. Alle severe lezioni di lui Arnoldo consacrava allora la maggior parte del suo tempo; ond' avveniva che si rimanesse, talvolta anche per interi giorni, lontano dalla suo casa e dall' amata giovinetta. E poi, al ritornarvi, quasi sempre lo videro mesto, chiuso ne' suoi pensieri; non parlava, e passava lunghe ore intento a nuove e severe letture, coll' animo combattuto da strane e inquiete fantasie. Nondimeno, con gran cautela, tenne nascosta a tutti la ragione di quelle sue assenze quotidiane, di quell' assidua e muta preoccupazione. Maria sola se n' era accorta, ma taceva; e per il suo cuore era un tormento di più. Pure, in mezzo a quest' ignota cura d' Arnoldo, vi era de' giorni ne' quali l'amore, quasi divenuto in lui una quieta abitudine, si faceva più forte del suo proposito, più grande della sua virtù. Allora egli s'abbandonava a' suoi sogni antichi, a quei fallaci disegni che fa sempre l' incauta giovinezza, persuasa la scusa dell' amore rendere tutto facile e giusto. Allora la leggiadra immagine di Maria non rallegrava più, come prima, tutti i suoi pensieri; il suo cuore era ardente, gravato; cercava spesso di lei; ma poi venutole vicino, sentiva conturbarsi; voleva parlarle, spiegarle l'amor suo, nè sapeva con che parole. E se mai avvenisse che i timidi occhi della fanciulla s'incontrassero per un momento ne' suoi, ella era colta da un terrore nascosto, non mai provato. Una mattina - era in febbraio - le due sorelle e Maria sedevano silenziose presso un tavolino di lavoro, non lontano dalla finestra, dalla quale penetrava una luce fosca attraverso i cristalli, dalla gelata nebbia notturna infiorati coi più bizzarri rabeschi. Arnoldo, appoggiato alla spalla del camino, volgeva distratto le pagine d'un volume che teneva fra mano. Poco di poi, essendo annunziata una mercantessa di mode, le due sorelle uscirono; e Arnoldo rimase solo con la fanciulla. Tacevano entrambi, e Maria non osava levar gli occhi dal lavoro, al quale pareva intenta. Arnoldo aveva posto giù il libro, e la rimirava, tutt'occupato in quella idea d'amore. Alla fine se le avvicinò, e con voce concitata e commossa, « Maria! » le disse « è tanto tempo che devo parlarvi, e voi.... » Maria taceva; ma il suo cuore era tremante, batteva rapido e forte.

Pagina 154

Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222622
Misteri del chiostro napoletano 3 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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Pagina 103

Pagina 202

Quand'ebbi ricuperati i sensi e riaperti gli occhi, mi vidi circondata da uno stuolo di monache, di converse, di educande, tutte straniere a me, tutte intente a pascere l'ozio, la curiosità, l'apatia, proprie alla loro condizione, nello spettacolo del mio abbattimento. Chi bisbigliava di qua, chi commentava di là, chi dell'altra parte componeva il viso al sarcasmo; non una sola di esse che mi volgesse un accento di sincera carità. Il medico Ronchi, che allora entrava nella porteria, essendo uno dei curanti della comunità, mi fece somministrare pronti rimedi. La febbre, che mi sopravvenne mi confinò in letto per più d'una settimana. Quando il destino è avverso, concatenate vengono le disgrazie. Di lì ad un mese incominciai a, persuadermi ch'era pur troppo reale anche l'abbandono di Domenico. Nutriva, sino allora in quel mio sepolcro la dolce speranza, non solamente di ricevere qualche sua lettera, ma, sì ancora di vederlo ritornato in Napoli, e farsi il mio liberatore. Se uguale al mio era l'affetto suo, se generosi sentimenti albergavano nel petto suo, se la voce dell'umanità gli favellava in cuore, se la reminiscenm della mia verace e costante devozione poteva nell'animo suo, più che il vile interesse, come avrebb'egli tollerato ch'io cadessi vittima, della giuratagli fedeltà? Quanta volte guardai dal coro della chiesa per vedere se vi era! Quanta volte dall'alto dei belvederi con febbrile ansietà slanciai lo sguardo in cerca di lui lungo le vie circonvicine! Spesso, delusa dalle sembianze, dall'andatura, dal vestiario di chi parevami che gli somigliasse, mi sentii in procinto di svenire, credendo che giunto fosse il momento del mio riscatto. Ma, ohimè! nè egli direttamente m'indirizzava due linee, nè mia madre nelle sue lettere mi faceva motto di lui. Vedeva di tratto in tratto Giuseppina, ma la presenza di questa diletta sorella, non faceva ogni volta che aumentare le cagioni del mio dolore. L'infiermità alla gamba, provocata, dalla caduta, erasi col cambiamento dello stato dichiarata incurabile, talchè, per muoversi, la misera era costretta di appuntellarsi alle gruccie. Veniva pur talvolta a porgermi pietoso conforto il generale Salluzzi, cui tributo figliale gratitudine. Gli altri parenti, l'amante, gli amici, non si rammentavano più dell'orfana. Sarebbesi detto che già un abisso mi separasse dal mondo intero, a dispetto de' concenti umani, che tuttora echeggiavano teneramente dentro l'animo mio. Se non che, nel mezzo di tanto abbandono, una consolazione sublime rattemprò le mie pene: l'elevazione dello spirito a quel Dio della carità, che volle nascere, vivere e morire, non già per i muti orrori del deserto, per l'inanimata solitudine, ma sibbene per la salute dell'umanità, in civile e vasto consorzio tenuta da una sola ed indivisibile legge di connessione. Una sera di febbraio mi trovai sola sul terrazzo. I raggi del sole morente non isplendevano più che sulla cima del Vesuvio e sulle vette di Castellammare, le cui nevi ripercuotevano un chiarore, che respingeva il progresso dell'oscurità. Regnava, intorno un insolito silenzio; lo schiamazzo del carnevale aveva attirate le genti ne' centri più frequentati della città, per modo che il quartiere di San Lorenzo, ove ergesi il monastero, restava del tutto spopolato. Non giungeva, all'udito mio che l'eco spirante delle popolari esultanze, siccome fragore di mare lontano. Una commozione novella m'invase: all'aria libera sotto l'immensa vôlta del firmamento mi sentii sola, è vero, come prima, ma non isolata. La voce del Signore m'appellava alla contemplazione della sua misericordia. Piegai il ginocchio a terra, giunsi le mani, sollevai al cielo le pupille bagnate di pianto, ed invocai l'aiuto dell'Onnipossente. "E che son io?" esclamai, rialzatami poscia e tergendo le lagrime; "che sono i miei patimenti in confronto a quelli della nazione cui appartengo? Se sotto il doppio giogo della temporale e della spirituale tirannide langue l'Italia intera, pretenderei io, atomo incalcolabile, io sola fra tanti milioni di oppressi, consumar la vita nei contenti e nella prosperità?"

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Il marito dell'amica

245157
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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Emanuele non si era mai potuto trovare accanto a Maria, ma non ne aveva peranco cercata l'occasione, chiuso in un abbattimento che gli si rifletteva sul volto e gli allontanava la compagnia, tanto come egli cercava di sfuggirla. La Guidobelli disse piano alla Bonamore (alla quale, da che le aveva portato via l'amante, si mostrava molto affezionata): - Campo non è punto allegro. Avrà forse dei meriti, ma gli manca indubbiamente quello di essere simpatico. - Deve stare poco bene; Sofia mi ha detto che questa notte non si è coricato. - Amabile anche come marito. - Non occupiamoci di lui; è il meglio che possiamo fare. Sofia ce ne dà l'esempio. E sedettero allegramente sull'erba, gettando via il cappello. La Bonamore aveva in tasca uno specchietto, che fece il giro delle signore, intanto che gli uomini stappavano le bottiglie. L'aria frizzante e il vino buono accesero presto i cervelli: la conversazione, tumultuosa dapprima, si suddivise e si fece più intima. Gli uomini, quasi tutti, provarono il bisogno di confidare qualche cosa nell'orecchio della loro vicina. Maria si trovava un po' a disagio. Approfittando della confusione sorta da un brindisi si allontanò chetamente ed entrò in chiesa; una chiesuola rustica, primitiva, scrupolosamente pulita, con quell'odore indefinibile delle chiese abbandonate e quei lumicini spaventati tra l'economia e la divozione. Visitò i tre altari, esaminando i voti appesi e leggendo qualcuna delle ingenue dedicatorie; molte fra esse erano vecchie di due secoli, scritte con vernice bianca su rozze tavole di legno. Guardò le palme di fiori di carta piantate nei loro vasettini di vetro celeste, le tovaglie delle mense, gialline, ornate di pizzi all'uncinetto; la Via Crucis, con un Cristo gigantesca vestito di rosso, replicato quattordici volte; e poi si raccolse in un banco, senza pregare, assorbendo con tutta l'anima la calma mistica del tempio, meravigliata di trovarsi sempre nel cuore, accanto alla pace riconquistata, tin fondo di malinconia. Fuori, sul prato, trillava la vocetta acuta di Sofia in mezzo al cozzare dei bicchieri. Maria si mosse e senza sapere il perchè, guidata dal desiderio crescente della solitudine, passò davanti all'altare maggiore e uscì dalla porticina della sacristia. Là il silenzio era perfetto; sembrava di essere ai confini della terra. Un sentiero strettissimo girava dalla parte opposta della montagna, scoprendo i fianchi di un burrone irto di massi granitici, in fondo al quale, alla profondità di un duecento metri, scorreva mugghiando il torrente. Maria prese quel sentiero, a passi lesti come se qualcuno, la chiamasse. Una brezza freschissima, un po' umida, le scioglieva i capelli sulla fronte, le spianava i ringonfi dell'abito; un ramo spinoso le strappò il pettine, che cadde sui sassi e si ruppe. Ella sembrava non se ne accorgesse. Camminava, camminava, fuggendo il mondo, beata dell'aria pura e della libertà, compiacendosi di immaginarsi sola in quella natura incontaminata. A un tratto le apparve un uomo, ritto sul tronco di un albero rovesciato. Per un senso istintivo di pudore portò le mani nei capelli e alle vesti scomposte. L'uomo voltò la testa dalla sua parte; lo riconobbe, era lui. Egli la vide avvicinarsi senza pronunciare una parola, senza fare un gesto. Quando Maria gli fu accanto si accorse con terrore che il tronco dell'albero sporgeva dritto sull'abisso, ad una altezza vertiginosa. - Che fate? - gli domandò, sorpresa e spaventata. Non rispose subito; ma stette a mirarla con una disperazione negli occhi, con uno smarrimento di tutto il volto, fino a quando accostandosi ella vieppià, le disse a bassa voce: - Datemi la vostra mano. Maria credette che non potesse da solo rimettersi sul sentiero e fu pronta a tendergli la destra. Egli la baciò con affetto riverente e poi la sciolse. Il tronco scricchiolò, torcendosi sotto il peso del corpo che vacillava. Ella comprese tutto. Non ebbe che un grido: Emanuele! e slanciandosi forsennata lo prese nelle braccia, trascinandoselo sul petto, retrocedendo con quel corpo sempre stretto contro il suo, finchè caddero entrambi sulla roccia, quasi esanimi.

Pagina 150

L'indomani

246130
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Pagina 49