Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbattimento

Numero di risultati: 35 in 1 pagine

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IL BENEFATTORE

662582
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Febbre a quaranta gradi; delirio, durante il quale il povero cavaliere si sentiva rodere le carni dalle virgole nere osservate sotto le lenti del microscopio; coma, abbattimento, e tutti i malanni che il tifo porta con sè. Nei brevi lucidi intervalli concessigli dalla febbre e dal delirio, egli si recitava deprofundis e requiem , e dava occhiatacce di odio al dottore, che intanto aveva la sfacciataggine di assicurargli: - Siamo fuori di pericolo! Infatti, il cavaliere ne era uscito quasi per miracolo, ma diventato proprio un altro. Quei microbi a cui fin allora non aveva voluto credere, ora, dopo l'esperienza, diceva, li vedeva dappertutto; e la sua vita diveniva un continuo tormento. In casa sua, dove prima entrava appena qualche romanzo francese, del Montepin, del Merouvel e simili, prestatogli da questo o quell'amico, ora si accumulavano giornali, opuscoli, fascicoli di riviste mediche, opere in più volumi, con figure, intorno ai diabolici microbi, dai quali egli voleva guardarsi e difendersi finchè fosse stato possibile. Ogni suo atto era regolato scientificamente, con minuzia da sbalordire; il puzzo dell'acido fenico, del sublimato corrosivo, di altri disinfettanti prendeva alla gola chi aveva la disgrazia di dover andare a trovar il cavaliere in casa, per qualche affare. Agli amici non più strette di mano, non più baci di addio o di ben arrivato; non si sapeva mai quel che costoro potevano portar addosso, senza loro colpa! E che scene con la sua amica, alla quale una sera aveva annunziato: - Da oggi in poi, niente baci, niente carezze! Niente! Non voglio infettarti di microbi, nè esserne infettato! Ah, tu non sai! È terribile. Quell'ignorantaccia intanto supponeva che fosse un pretesto per distaccarsi da lei a poco poco, per abbandonarla! E per ciò non voleva sentir parlare di acido fenico, di sublimato, di disinfettanti di nessuna sorta. Oh, meglio quando egli non sapeva nulla! E la chiamavano scienza questa che, invece di guarire la gente, la faceva morire di paura! Mangiando un boccone, bevendo un dito di vino, o di acqua bollita e ribollita, insipida da far nausea, il poveretto si domandava spesso: - Ci sono? Non ci sono? E il minimo dolorino di pancia, la minima accapacciatura lo tenevano in ambascia mortale. Eppure vedeva che la gente se n'infischiava della scienza e dei microbi; mangiava a crepapelle, si ubbriacava, faceva stravizii di ogni genere, e campava allegra, e moriva ... quando doveva morire: giacchè una volta o l'altra, con una scusa o con un'altra, bisognava fare, pur troppo, quella bestialità! Ma sùbito si riprendeva: - Non è una bella ragione! Se gli altri vogliono ammazzarsi, padronissimi! Io ora so; io ora debbo premunirmi! Si premuniva, sì, ma dimagrava, diveniva giallo come una carota, a furia di privazioni, a furia di regime scientifico. Egli, che, prima, avrebbe digerito anche il ferro, era già ridotto a non poter digerire più, chi sa per quale razza di microbi acchiappati non ostante le cautele! Ah, Signor Iddio! Ed erano questi i benefici della Scienza? Perchè non lasciare in pace la umanità, visto che i microbi erano invincibili, onnipossenti, eserciti, miriadi, da starne due, tre milioni rannicchiati nello spazio di un foro fatto con la punta di uno spillo? Era scoraggiato; non li combatteva più con fede, dopo di aver letto che, ammazzati i microbi di una specie, si faceva un favore a quelli di un'altra; la quale così prendeva rigoglio, si moltiplicava più rapidamente. E l'infelice impallidiva leggendo giornali, riviste mediche, che poi - si lamentava - parlavano turco per non farsi capire e far disperare un galantuomo che voleva istruirsi. Lotta a corpo a corpo! Ma che lotta, con un nemico invisibile, con cui non si sapeva precisamente mai chi aveva vinto o chi era rimasto sconfitto? Si rassegnava a vivere solo, come un cane, lontano da tutti. - Eh, cavaliere? Non vi si vede più! Che avete? Non state bene? ... Dio, come siete ridotto! - Beato voi, che siete un ignorante! - rispondeva l'infelice. - Ah! ... La solita storia dei microbi! Ormai tutti sapevano la sua fissazione, e gli ridevano in viso. Ma una mattina, che è che non è, ecco il cavaliere, vispo e gaio, che va in piazza a far la spesa, senza più badare a niente. Una catasta di roba! Erbaggi, frutta, pesce, carne, salami, pasta, burro, conserva, mostarda: una catasta! E un barile di vino rosso, di quello! Era ammattito all'incontrario? - Insomma, che è accaduto, Cavaliere? - Ah, la scienza! La scienza! È come la spada di ... di quel tale, che feriva e sanava nello stesso punto! Gli scienziati, ecco la rovina della scienza! ... Microbi? Sissignori! Ma, Dio benedetto, aspettate un po', studiate bene prima di scompigliare il mondo con certe scoperte! Finalmente c'è stato chi ha messo a posto ogni cosa! ... Farò un viaggio per andare a baciargli la mano, quella mano che ha scritto l'opuscolo La funzione dei microbi nell'organismo umano! Lo guardavano sbalorditi, pensando: - Senti come parla quel bestione del cavaliere! È proprio ammattito all'incontrario! Ma egli continuò per settimane a predicare il nuovo vangelo, la vera Buona Novella dei microbi. E prendeva indigestioni per nutrirli, per amicarseli tutti quelle care virgole ... e punti - diventava faceto - che gli stavano annidati addosso, tra i denti, tra l'orlo delle ugne, negl'intestini, nel sangue, nelle ossa; convinto ormai che l'uomo non fosse altro che un vasto microbaio a cui bisognava dar nutrimento, se si voleva star bene. Vedevano? Egli era ritornato grasso, roseo, forte: gli si era fin stirata la pelle vaiolata della faccia, ora che badava lui a dar da mangiare scientificamente ai microbi; i quali, poverini, non chiedevano niente di meglio che di vivere in pace, ben nutriti, quasi accarezzati! - Questo, pei microbi della mucosa! Questo, pei microbi del sangue! Questo, pei microbi dei nervi! Questo, pei microbi dei muscoli! Questo pei microbi delle ossa! Sissignori anche per quelli delle ossa. - E più essi divoravano, più egli stava bene! Se li sentiva rimescolare addosso, dentro, nelle più intime fibre del corpo; ma ora li conosceva perfettamente quei cari amici! Amici, sì, sì! Lavoravano per lui, combattevano per lui, distruggendo i nemici che lo assalivano di fuori. Se non si trovavano in forza, come potevano resistere? E certi imbecilli di scienziati avevano proclamato la crociata: - Morte ai microbi! - Imbecilli! Viva i microbi! si doveva gridare. E il giorno che un capo ameno gli disse: - Ebbene, insegnatemi il vostro metodo di dar il pasto a coteste feroci bestioline! - il cavaliere lo invitò a pranzo, e gli spiegò tutto: - Questo, pei microbi della mucosa! Questo ... Intanto divorava come un lupo affamato, e beveva, beveva, perchè bisognava anche dar da bere a quei carissimi amici ! All'ultimo, si levò in piedi, alzando il bicchiere ricolmo per fare un bel brindisi. Ma barcollava, il braccio non gli stava fermo, e la lingua gl'impastava le parole in bocca. - Viva i microbi! - balbettò - Viva i microbi! E ruzzolò sotto la tavola.

PROFUMO

662650
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Gli tenne dietro un grande abbattimento. Eugenia non tollerava la luce, nè i rumori più lievi. Il dottore però si accor- se che quella repugnanza per la luce non era soltanto degli occhi. La malata voleva restar sola, allo scuro, per pensare, per fantasticare con maggior libertà. La crisi dello spirito era dunque più grave che non apparisse. Questo lo rallegrò. Guarito lo spirito, sarebbe venuta, di conseguenza, la guarigio- ne del corpo. E ne disse qualcosa a Patrizio per consolarlo, per spingerlo a sormontare le ingenue titubanze. Non ce n'era più bisogno. Un lievito di vaga gelosia fermentava nel cuore di Patrizio. Fino a due giorni fa, egli non aveva mai sospettato che il malinteso tra sua moglie e lui sarebbe potuto diventare una rottura o peggio. Si sentiva tutta- via amato in quel dispetto di Eugenia che non si vedeva amata a modo suo; il chiuso rancore, lo sdegno di lei gli sem- bravano una forma dell'amore, non bella, nè invidiabile, ma da contentarsene in mancanza di meglio. Non era egli rima- sto e non rimaneva tutto di lei pur soggiacendo alle influenze della propria mitezza ai bisogni della gelosia materna, alle conseguenze dell'educazione e dei casi della vita? Così Eugenia rimaneva tutta di lui anche nello slancio vacuo, nella ricerca inutile, che rappresentavano la direzione di quel povero cuore, non ismentita un solo giorno da che il matrimonio li aveva uniti. Il dottore intanto aveva detto benissimo: "Ogni resistenza ha un limite!". Riflettendo intorno al possibile disastro, Patrizio dava sbalzi, tendeva le braccia quasi ad afferrare la dolce creatura che vedeva sfuggirsi di mano. "Non accadrà! Non accadrà!" Sentiva fitte punture di rimorso, smaniava domandandosi: "Farò in tempo?" E i primi tentativi lo scoraggiarono. Eugenia gli resisteva; non sopportava una carezza, respingeva i baci, e con tale vivacità da sembrare che le ispirassero orrore. Infatti era proprio così. Sconvolta, indignata dal ricordo dei baci di Ruggero, dopo lo sbalordimento di quel giorno, ella avrebbe voluto portarli via assieme con la pelle della fronte e delle labbra. Invece, macchia indelebile, la loro im- pronta persisteva; e l'idea che le labbra di Patrizio dovessero posarsi là dove si erano posate quelle dell'altro le produce- va intensa nausea, la faceva fremere da capo a piedi. "Baciata! ... Baciata!" Le pareva tanto enorme, che in certi momenti dubitava di quel ch'era accaduto, cercava persuadersi di esserselo so- lamente sognato. E quando non poteva dubitare più, abbrividiva al pensiero che, pur indignandosi, pur non volendo, a- himè, forse sarebbe stata trascinata, un giorno o l'altro, molto più in là! "E per colpa tua!" avrebbe voluto gridare come una forsennata a Patrizio, vedendolo aggirarsi per la camera, a capo chino, con le mani dietro la schiena, senza sospetto, senza turbamento, soddisfatto del presente, sicuro dell'avvenire! "Già stai meglio, è vero?" Ella chiudeva gli occhi, e si stirava sul canapè, irritata da quella domanda, sempre la stessa! Ma quando Patrizio non le domandava niente e le si accostava per accarezzarle i capelli, o si chinava a darle un bacio, mormorando qualcosa che non prendeva suono distinto e non si lasciava intendere, gli opponeva subito le braccia irrigidite dallo sdegno: "Soffro! ... Lasciami stare! ... Soffro!" Non gli credeva più; si sentiva irrisa da quel che le pareva sembiante di carezza e di bacio, mostra senza significato nè valore alcuno. "Soffro! ... Lasciami stare! ... Soffro!" Non mentiva: soffriva torture ineffabili, e si augurava di morire. Ah, se uno di quegli accessi nervosi l'avesse fatta restar là, stecchita sul colpo! Ma no, non sarebbe morta così presto! Doveva penare ancora, Signore Iddio! Che delitti aveva mai commessi da doverli scontare così duramente?

Racconti 1

662668
Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Ella era rimasta sdraiata sulla poltrona, con tale abbattimento di forze da non poter tenere nemmeno semiaperti gli occhi; e mentre il marito la confortava, lieto del male passeggero, pregandola di riguardarsi, giusta le raccomandazioni del dottore, lagrime silenziose le scorrevano sul bianco volto, e le mani ghiaccie le tremavano stringendo la mano di lui. - Mi hai fatto paura! - egli le diceva, asciugandole la faccia, accarezzandola, dandole lievi baci sulla fronte ... - Mi hai fatto paura, sai? - Ma Teresa non rispondeva, immobile, sfinita; e pensava fisso a quell'aborto che sarebbe stato la sua salvezza, se fosse davvero avvenuto. E ruminando cattivi propositi contrariamente alle raccomandazioni del dottore, vedeva passare, quasi in sogno, una minuscola cassetta funebre portata via di nascosto da un uomo vestito di nero, come ben si addiceva alla trista cosa lí racchiusa ... E le pareva che quell'uomo vestito di nero, con quella funebre cassetta sotto braccio, andasse, andasse, andasse ... e si perdesse lontano, in una nebbia fitta, mentre le viscere dilaniate le doloravano ancora. Non avveniva cosí. Il suo fragile corpo diveniva piú resistente e piú forte, il tormento dell'animo prendeva maggior vigore. E intanto non solo ella non si riguardava, ma commetteva imprudenze; s'affaticava, si stancava, si esponeva a serii pericoli, e senza approdare nulla! Cosí, di giorno in giorno, mentre il seno le si arrotondava con la piú benigna e piú sana gestazione che mai donna potesse desiderare, un odio sordo la invadeva contro quell'ostinato germe che voleva vivere per forza e crescere e venire alla luce ... E picchiando sul proprio seno, intendeva schiacciare il capo dell'invisibile nemico lí dentro nascosto, finché inorridita di quel soffio di pazzia che le aveva attraversato il cervello, non s'arrestava e non cadeva in ginocchio invocando il perdono di Dio, e dell'innocente creaturina. - Era ingiusta. Non doveva risentire solo colei il peso dell'infamia altrui, né scontarne la pena! - Poco dopo la bambina s'era ammalata gravemente. Teresa avea voluto restare notte e giorno al capezzale della inferma. Preghiere non erano valse, né minacce del marito per indurla a rimuoversi di là. Il rimorso le lacerava il cuore. Ella rammentava con spavento la vile menzogna: - È per la bambina ... Ho il cuore grosso ... Che so io? ... E il ricordo di queste parole le si mutava in terribile rimprovero, quasi avesse buttata cosí una cattiva sorte addosso alla creaturina che ora smaniava nel letto riarsa dalla febbre, tra la vita e la morte ... - Oh, lei stessa la uccideva! La bambina avrebbe espiato, vittima pura, l'infame delitto di quell'uomo! ... - E credendo d'assistere all'agonia della creatura che era stata la sua gioia, la sua superbia di madre immacolata e felice, si sentiva intanto sussultar nel seno quell'altra con festoso anelare alla luce, con vivo senso d'allegrezza pel vicino sprigionamento. E presso il capezzale dove le pareva che l'alito freddo della morte gelasse il sudore sul viso sfigurito della sofferente, ecco il fantasma di colui - dello scomparso - che le si ripresentava dinanzi con umile aria di preghiera: "Ti amavo, da due anni. Per questo m'ero allontanato da casa tua!" Perché se lo sentiva cosí pertinace nell'orecchio? Perché il di lei pensiero vi si fissava dispettosamente, con una specie di sdegnosa compiacenza? E quando, Signore!, quando? Ora che la sua figliuolina era all'estremo, ora che ella avrebbe dato volentieri in olocausto la propria inutile e triste vita, pur di sviare il pericolo da quel capo diletto! Il Signore era stato misericordioso; non le aveva preso la bambina! Teresa riviveva con lei. E al rifiorire del roseo colore sulle guancine dimagrite, le fioriva in cuore una nuova dolcezza di maternità, un senso di pace che neppure quei rapidi sussulti del seno riuscivano a turbare. - La sua bambina era salva! - Si sentiva felice; non odiava piú, con l'istessa intensità di prima, l'altra creatura che già si faceva sentire maggiormente col grave pondo e coi vaganti dolorini, preludi di un'altra fase di tortura ... Sí, di un'altra fase di tortura. La infelice non poteva pensare, senza raccapriccio, alla continua presenza di quell'insultante testimone della ignominia di lei, di quella menzogna, di quell'inganno vivente che sarebbe stato di continuo sotto i suoi occhi, e ch'ella non avrebbe mai potuto, mai!, tenere come sangue e carne sua! ... E allorché il marito la rimproverava dolcemente, non vedendole preparar nulla pel prossimo arrivo del figliolino tanto desiderato - egli credeva con certezza che sarebbe stato un figliuolo - Teresa gli rispondeva: - Chi sa quel che accadrà? - Presentimento e mal augurio. S'era fissata nell'idea di dover morire soprapparto insieme con la creatura da nascere; e se ne rallegrava, provando pure un indefinito terrore di quel momento, e non per sé, ma per coloro che sarebbero rimasti, il marito e la bambina. E se la teneva stretta al seno per ore intere, accarezzandola, baciandola, quasi già fosse orfanella, dicendole cose strane che la bambina non capiva: - Se me ne andassi? ... Se non tornassi piú? - Saresti cattiva. - Non vorresti piú bene alla mamma? - Dovresti portarmi con te. - Oh, no, figliolina mia! - La bambina, impressionata da questi discorsi, la denunciò al babbo: - La mamma dice che se n'andrà, che non tornerà piú -. Giulio impallidí. La persistenza di quel presentimento gli aveva dato nel cuore. - La mamma è una sciocchina! - disse, tentando di scioglier la mano da quella di sua moglie. Teresa lo trattenne. - Hai ragione: sono una sciocca! - Provava insolite tenerezze anche per lui. Spesso gli gettava le braccia al collo, guardandolo fisso negli occhi, muta, quasi per compensarlo; vergognosa di non poter essere sincera e di dover tacere, lei, lei che non gli aveva mai nascosto un sentimento, un pensiero, com'egli a lei! E non potergli dir: "Taci!" quando le parlava del bambino che sarebbe stato il colmo della loro felicità coniugale! Ah, se egli avesse saputo! ... Giulio intanto progettava di dare il nome di Carlo al nascituro, per ricordo del fratello creduto morto da che non scriveva piú e non se n'era potuto aver notizia né dai consoli, né dalla legazione ... Il mistero lo tormentava. - Cosí buono! Di carattere un po' chiuso, un po' fantastico, ma docile nella stessa impetuosità. Qualche passione malaugurata! - rifletteva talvolta. Ed ella tremava nel sentirglielo ripetere. - A che stillarti il cervello? - gli rispondeva con durezza. Ma si riprendeva subito: - È tuo fratello; hai ragione ... Al bambino però, se sarà un bambino, daremo il nome di tuo padre. Non ti pare piú giusto? - Negli ultimi quattro mesi era frequentemente ritornata dal confessore, ogni volta che si era sentita a estremo di forze. E il marito, lasciandole pienissima libertà, la canzonava un pochino, senza cattive intenzioni, credente anche lui, quantunque troppo distratto dal rimescolio degli affari. In quella chiesa dove tante volte aveva dato pienissimo sfogo al proprio cuore, ella trovava sempre il balsamo che le addolciva la piaga, e gliela rendeva sopportabile, se non riusciva a guarirla. Ribellioni, indignazioni, tetri propositi, tutto si ammansiva, si acchetava in lei alla voce consolante che le parlava in nome del Signore. Un'intima corrispondenza si stabiliva allora tra lei e Dio. - Egli solo sapeva la verità! ... Egli solo poteva giudicarla e compatirla! - E, una o due volte, si era sorpresa con parole di preghiera, con invocazioni di perdono sulle labbra anche in favore di colui che le aveva fatto tanto male. - Era morto? O espiava terribilmente il delitto di un istante? ... - Là, in chiesa, poteva pensarci senza che la coscienza le si rivoltasse, senza che un'ondata d'odio e d'orrore le si sollevasse nel petto. - Dovete perdonare anche voi, figliuola mia! - le ripeteva il confessore. E dietro il confessionario, a piè dell'altare, le riusciva facile. Ma da lí a poco, in casa, ai primi sussulti del seno, non sapeva, non poteva piú! In quell'ultima settimana, con la fissazione di dover presto morire, un senso piú vasto di pace e di serenità la penetrava tutta, una tenerezza di distacco e di rimpianto, che involgeva persone e cose e le gonfiava gli occhi di lagrime. Non ne parlava per non rattristare anticipatamente suo marito. Si sforzava anzi di mostrarsi allegra; e preparava il corredino, quantunque lo credesse inutile, e la sola vista di quelle fasce, di quei pannilini, di quelle camicette, di quelle cuffiettine le desse i brividi ... Ma il suo Giulio n'era contento; voleva apparir contenta anche lei. Acuti dolori l'avevano tormentata fin dalla mattina, senza che n'avesse detto niente al marito. La morte, invocata e aspettata, ora le metteva spavento; e le pareva di allontanarla con l'illudersi che quelli che la incalzavano, la incalzavano non fossero i dolori prenunzi del parto. Andava da una stanza all'altra, appoggiandosi alle pareti e ai mobili nelle strette che si rinnovavano sempre piú forti, intestata di avvertire il marito soltanto all'ultimo, quando non avrebbe piú potuto nascondergli le soffere nze. A un tratto aveva gridato: - Giulio! Giulio! - E gli s'era aggrappata al collo, baciandolo desolatamente con le labbra diacce: - Giulio! ... Muoio! Giulio! Neppure allora era morta! Si tastava tutta, tastava le coperte del letto, per convincersi d'essere ancora in vita, per accertarsi che proprio suo marito accarezzasse e baciasse il bambino ignudo, vagente tra le mani della levatrice. Girava gli occhi attorno, stupita che il presentimento l'avesse ingannata; con tale confusione nella mente, e tal'indicibile prostrazione di forze da credere di sognare, o di vedere ogni cosa a traverso una nebbiolina leggera, in mezzo alla quale si muovevano silenziosamente le persone, mormorando parole a voce bassa e che ella non riusciva ad afferrare. - Forse si muore in questo modo! - pensava. Al destarsi dal sonno riparatore che l'aveva vinta, allo scorgere a piè del letto il marito in amorosa contemplazione del neonato, che riposava coperto d'un velo di tulle; al: - Come ti senti? - di Giulio, a cui dalla commozione e dalla gioia tremava la voce, ella lo fissò spalancando gli occhi, sorridendogli inconsapevolmente. Sentiva intanto dentro di sé un'oppressione non mai provata, uno strazio nuovo: la barbara violazione del cuore materno, che le rendeva repugnante la bella creaturina dormente lí acc osto. - Guardalo ... Che bocciuolo di rosa! - Giulio non si era contentato di sollevare il velo di tulle da una parte; ma, spinte le mani sotto il guanciale dove il piccino era adagiato, lo aveva deposto delicatamente a fianco della mamma, perché potesse ammirarlo, senza scomodarsi. Ella si trasse un po' indietro e serrò gli occhi ... - Che hai, Teresa! Ti vien male? - Allontana cotesto guanciale ... Mi opprime il respiro ... E questa coperta ... - Non era vero. Voleva soltanto, a ogni costo, evitar di baciare il piccino; avrebbe voluto, se fosse stato possibile, impedire egualmente che suo marito lo baciasse ... Quelle carni rosee non gli avrebbero dato alle labbra una sensazione rivelatrice? ... A lei poi ... sarebbe parso di baciare ... Oh no ... mai, quantunque il suo cuore di madre la invitasse intanto e la spingesse! ... Avrebbe voluto, almeno, che qualche tregua si fosse stabilita tra la innocente creaturina e lei; ma nel tempo istesso che parte di lei cosí desiderava e voleva, l'altra parte, la piú orgogliosa, si tirava indietro, s'adontava di quel desiderio, si ribellava a quella volontà e ce rcava di paralizzarla! Voleva forse baciare ...? E restava là, cogli occhi serrati, inerte, sotto lo spasimo della chiusa tortura; pensando con terrore che finalmente, una volta o l'altra, doveva vincere la ripugnanza per non dar nell'occhio al marito. E inorridiva dell'inevitabile contatto che le avrebbe fatto risentire piú immediata la violenza patita. La mattina che dinanzi al marito non poté fare a meno di baciare il figliolino prima di tentare di dargli la poppa, appena sfiorate con le labbra quelle carni delicate, Teresa gettò un urlo e cadde in deliquio. Si era immaginata che dando il bambino a balia, avrebbe dovuto sentirsi alleviata, sollevata; invece era peggio. Giulio parlava continuamente del piccino. Ogni due o tre giorni le proponeva una scarrozzata fuori porta, fino alla cascina della balia. La figliuola, anche lei, rammentava in ogni istante il fratellino con cui avrebbe voluto già fare il chiasso insieme. Cosí l'odiata creaturina, quantunque lontana, riempiva la casa di sé piú che se fosse stata presente ... E poi ... - Come? ... Perché ora? ... - ella si domandava, spaventata. E poi, qualcosa di strano, di mostruoso cominciava ad avvenire dentro di lei ... - Come? ... Perché ora? ... Dio! Dio! - Quell'altro, lo scomparso, tornava a poco a poco a farsi risentire, dimessamente al suo solito, supplichevole: "T'amavo! Da due anni! ..." - Come? ... E lei, lei piú non se ne offendeva? ... E lei stava ad ascoltare, mezza indignata, sí, ma pari a chi lascerebbesi forse commuovere, se colui avesse insistito? - Ahimè! Nella solitudine in cui volentieri rimaneva per lunghe ore della giornata, il ripetio di quel: "Ti amavo! ... Da due anni!" diveniva sempre piú insinuante e piú forte ... E all'allucinazione del suono delle parole, s'univa quella della figura, alta, bruna, dal viso serio, dallo sguardo quasi severo e contenuto a stento ... E qualcosa si ridestava in tutto il suo corpo con lento brulichio di sensazioni e di vibrazioni, qualcosa rimasto a germogliare nell'oscurità feconda, e che usciva fuori a un tratto, e si espandeva e fioriva ... Questo le pareva piú abbietto della prima violazione del suo corpo ... - No! No! No! - protestava sdegnata, come in quel triste istante, in quella sera, - No! No! - Inutile! "Ti amavo da due anni!" E lei non se n'era mai accorta! ... Quanto avea dovuto soffrire colui! Che tormenti e che lotte, povero giovane! E si era esiliato per lei! E aveva abbandonato tutto ... per lei ... per espiare la colpa d'un istante! - ella pensava trasognata, quasi un'influenza esteriore le spingesse la povera mente verso quel punto e ve la tenesse fissata. E riscuotendosi tutt'a a un tratto, guardava attorno atterrita, feroce contro colui, riboccante di sprezzo di se stessa, con c osí tragico pallore sul viso, e sguardi cosí smarriti, che Giulio tornava a impensierirsi. La gravidanza ora non c'entrava piú. Certe stranezze del carattere di sua moglie diventavano addirittura inesplicabili. Non la riconosceva! Nei momenti, nei giorni ch'ella tentava di rifugiarsi in lui per vincere il tristo demone, egli la vedeva sempre agitata, eccessiva in quei baci ed abbracci piú da amante che da moglie, e affatto diversa da quella ch'era stata fin allora. Poi, ella mostrò improvvisamente desiderio di lanciarsi fuori della cerchia intima e tranquilla che li aveva accolti tant'anni, ignari quasi ed ignorati, paghi e contenti della felicità di amarsi e di sentirsi amati fra le consapevoli pareti dove non giungeva nessun rumore della vita cittadina. E a quegli scatti di sensazioni, a quei capricci di passeggiate, di visite, di teatri, di feste, che lo meravigliavano assai, Giulio cominciò a temere che la gravidanza non avesse lasciato in lei qualche funesto germ e d'esaltazione nervosa ... Il dottore, ripetutamente consultato senza che Teresa ne sapesse nulla, era stato d'ugual parere. Avevano fissato insieme un metodo di cura abilmente combinato: viaggi, bagni, regime ricostituente ... Ed ella aveva subito acconsentito, lietissima ... Capiva che già v'era qualcosa di guasto dentro di sé, di affievolito per lo meno. Lo stesso confessore non le consigliava di distrarsi, di fuggire la solitudine, perché in questa il demonio conduce meglio il suo scellerato lavoro di tentazione? Era andata piú volte ad accusarsi, ingenuamente, chiedendo perdono a Dio della sua debolezza, implorando la forza di resistere; e confessore e dottore, quasi d'accordo, le ripetevano: - Si distragga! - Ma che posso farci? ... Il nemico è accovacciato qui, nel mio interno! - Da un mese ella dormiva soltanto a brevi intervalli; poi le palpebre le si ritiravano in su. Doveva svegliare ogni volta il marito? E il nemico la sopraffaceva. Andati per vedere il bambino, avevano trovato la balia piangente. - Signora mia, non vuol poppare. - Da quando? - domandò Giulio. - Da ier sera dopo le otto. Alle quattro aveva poppato benissimo -. Giulio disse: - Non è nulla ... Riportiamolo in città -. Fingeva di non essere turbato, per rassicurare Teresa che teneva fissi gli occhi su la culla dove il bambino, col viso pallido, i labbrini violacei semi aperti e le manine increspate, dormiva. Che triste ritorno! Ella si era rovesciata in fondo al legno, muta, stringendo una mano di Giulio. La balia seduta dirimpetto, canticchiando sotto voce, cullava il piccino; e la bambina, su le ginocchia del babbo, stringendogli le braccia attorno al collo e appoggiandogli la testina alla spalla, ora guardava lui, ora la mamma, e non osava rompere il silenzio. Solo Giulio, che invece avrebbe voluto piangere, tanto aveva il cuore ingrossato, ripeteva di tratto in tratto, monotonamente: - Non sarà nulla! Non sarà nulla! - Alle prime parole della balia, Teresa aveva avuto un sussulto - Se il bambino morisse! - E il malvagio istintivo movimento era stato subito seguito da un senso di ribrezzo e di orrore. Poi, in casa, attorno al lettuccio del bambino, quando già si poteva leggere in viso al dottore il destino della povera creaturina, la brutale preoccupazione della propria salvezza aveva preso di nuovo il sopravvento, snaturata, senza pietà. Sentendosi quasi affogare, la infelice s'aggrappava a tutto. Pur di salvarsi lei, che doveva importarle degli altri? ... Perciò s'irritava contro suo marito che, inconsola bile, forsennato, pregava, scongiurava il dottore con insistenza bambinesca, quasi lo credesse padrone della vita e della morte e capace di fare un miracolo! ... Il maleficio le pareva legato a quel filo di esistenza che non voleva spegnersi, che non volevano lasciar spegnere ... lui specialmente, suo marito! ... Ed ella vibrava tutta, si sentiva tirare, strizzare tutta; vedeva fiammelle. E immediatamente, senza stacco, cadeva in grande prostrazione, mutata di punto in bianco, con le lagrime agli o cchi per quella creaturina agonizzante; stupita che poco prima avesse potuto desiderare e affrettare coi voti l'empio scioglimento. - Ma sí, ma sí! ... Lo voleva! Aveva sofferto troppo! ... Non resisteva piú! - E vedendo il marito chino sul lettuccio, dolorosamente intento a spiare il mancante respiro del figliolino, si sentiva spinta ad afferrarlo per un braccio e strapparlo di là, e urlargli una terribile parola. Il sangue le affluiva al cervello, le martellava le tempia, un violentissimo tremito tornava a scoterle la persona. - Giulio! ... Giulio! ... - Voltandosi al grido sommesso, egli l'avea vista accostare cautamente, in punta di piedi, con gli sguardi smarriti e un dito sulle labbra. - Lascialo andare, Giulio! ... Lascialo andare! ... - E lo tirava via dolcemente, sorridendo triste, scuotendo la testa con movimento significativo ... - Teresa! Teresa mia! - balbettò Giulio, non comprendendo ancora tutta la sua sventura da quegli occhi smarriti, da quelle parole incoerenti. - Lascialo andare ... Ti vorrò piú bene ... Vorrò bene a te solo. A te solo - ripeteva la misera pazza, tirandolo pel vestito: - A te solo! - Sei mesi dopo, al ritorno della ragione, ella credeva di aver fatto un lungo sogno orrendo, e lo raccontava al marito, domandandogli a intervalli: - Ho sognato, è vero? - Sí, hai sognato - egli rispondeva fremendo. - Abbiamo sognato tutti! - soggiunse all'ultimo. E pensava quasi con invidia al fratello che avea cessato di sognare, uccidendosi in Australia. Roma, maggio 1889@. 1889.

Entrò in salotto con un incredibile abbattimento sul viso: le pupille nuotavano nelle lagrime che non si decidevano a venir giú. Io ero piú commosso di lei, ma in un'altra guisa. Le stavo attorno pregandola cogli sguardi di non mostrarsi cosí, e intanto l'aiutavo a cavarsi i guanti e il cappello. - Che sbaglio stiamo per fare - esclamò. E nello stesso punto abbandonossi singhiozzando tra le mie braccia e mi coperse di baci Il giorno appresso le mie stanze mi parvero un giardino improvvisamente fiorito sotto la bacchetta di una fata. Ella andava, veniva, sorrideva, mi interrogava, mi faceva delle proposte per disporre meglio certi mobili, mi parlava di tanti piccoli nulla che pel suo genio di donna avevano una grande importanza; ed io non sapevo persuadermi fosse quello il primo giorno ch'ella stesse con me ed abitasse la mia casa. C'era dappertutto un nuovo colorito vivace, chiassoso che mi abbagliava: c'era un profumo soavis simo che deliziava le narici e penetrava fino all'anima; c'era una musica paradisiaca, come di un'orchestra invisibile, destata dal voluttuoso fruscio della sua veste di seta: mi pareva strano, quasi impossibile che tutte queste cose non ci fossero mai state fino allora! Presi per mano, andavamo in salotto senza sapere perché; tornavamo addietro girando per le altre stanze, fermandoci innanzi un quadro, una stampa, un gingillo di porcellana, cosí spensierati, cosí contenti, cosí felici da non metter fuori nemmeno un'esclamazione per dircelo a vicenda con un semplice monosillabo. Parlavano piú efficacemente, piú profondamente gli sguardi; e quando essi non bastavano aiutavano i baci. Che baci, Signore Iddio! Che baci! La sua stanza da letto fu adornata come un piccolo santuario dell'amore: tutta cortine candidissime, tutta ombre e frescura, pareva, entrando, prendervi un bagno vivificante di giovinezza e di felicità. Come ero superbo di quel santuario cosí elegante e civettuolo, intorno al quale avevo speso tante cure meticolose quasi si fosse trattato di un'opera d'arte! E come ero beato di vederla il mattino uscire di lí avvolta nel suo bianco abbigliamento da toeletta, con la cuffiettina da notte che ratteneva a stent o i capelli disciolti, coi nastri di essa che le svolazzavano per le spalle e sul petto, e coi piedi entro le microscopiche pantofoline rosse che affasciavano di quando in quando la punta sotto gli orli della veste come due linguette di serpenti! Pensavo alle belle apparizioni delle dee antiche sognate dai greci e sentivo diffondersi per l'aria attorno un odore soavissimo come di cosa sovrumana. Per piú settimane i limiti del nostro quartierino segnarono per noi gli estremi confini del creato! Vi era intanto un che di austero in quel sogno di amore! Cecilia, benché si sforzasse di non mostrarmelo, provava in tanta felicità una tristezza che giornalmente diventava piú intima e piú profonda. I suoi occhi avevano spesso degli sguardi di un abbandono inesprimibile; sulle labbra le appariva frequente un sorriso che toccava il cuore come un rimpianto. Non era, lo capivo, a una felicità sparita che rivolgevasi quell'indefinito sospiro dell'anima; ma ad una felicità che le pareva fuggisse via di mano in mano che ella si accorgeva diventasse piú intensa. E ques to metteva nella nostra vita un'intonazione elevata, austera che me la rendeva piú cara. La mia stanza da studio fu adornata per suo consiglio di vasi di fiori. Rimpetto al tavolo dove leggevo o scrivevo, ella situò il suo tavolino di lacca intarsiato in madreperla, col cestino del lavoro e qualche libro; e sedeva lí sur una poltroncina bassa, covandomi coi suoi sguardi e coi suoi sorrisi pieni di un sentimento di premura quasi materna, di qualcosa insomma che trascendeva qualunque straordinaria espressione di amore. Spesso mi levavo dal tavolo, andavo a sedermele accosto per terra e, la testa sui suoi ginocchi, le domandavo con un gesto delle labbra la mia elemosina di baci. Altra volta era lei che mi s'avvicinava in punta di piedi per dirmi dolcemente all'orecchio - Maurizio, ti affatichi troppo! E mi distraeva dallo studio coll'accarezzarmi e col baciarmi. Ingrati come tutti gli amanti, non ritornammo piú ai giardini pubblici, non ne parlammo nemmeno una volta. Ella si chiuse in casa pari a quelle femmine di uccelli, che nel tempo della cova non abbandonano mai un solo momento il lor nido e vi son nutrite dal maschio che va in busca di preda. Non voleva piú veder nessuno, nemmeno la sorella; tutto il suo mondo era circoscritto in quelle nostre stanze; che le importava del resto? Mi pregava intanto di non sacrificarmi per lei. Amici, conoscenze, relazioni sociali, tutto dovevo coltivare come prima, senza mutare un'abitudine, senza venir meno a un dovere, senza mancare a una convenienza! ... Per carità, non la facessi accorta che mi fosse già diventata un impaccio! ... Pur troppo questo momento sarebbe arrivato! Che arrivasse almeno il piú tardi possibile! Tanta insistenza a dubitare dell'avvenire m'irritava un pochino e mi costringeva mio malgrado a riflettere. Ero forse mutato? No. Provavo dei sintomi di stanchezza e non mi accorgevo di mostrarli? Neppure per ombra. La Cecilia, conosciuta intimamente, superava perfino l'ideale che me n'ero formato al solo vederla. Ma quel suo lamento rassegnato mi feriva. In confuso capivo forse anch'io che qualcosa di ciò che ella prevedeva dovesse finalmente avvenire; ma m'illudevo volentieri e m'ostinavo a credere che invece non sarebbe punto avvenuto. - Perché sempre cosí triste? - le dissi un giorno. - Mi fai soffrire! - Io triste? - rispose sorridendo, ma in maniera che il sorriso ne smentiva le parole. - Non son mai stata tanto felice! - Temi sempre che il nostro amore ... - Chi ama teme! - m'interruppe. - Però tu mi hai giurato che il giorno in cui ti accorgeresti di non piú amarmi, saresti tanto generoso e leale da dirmelo subito. - E lo torno a giurare. - Del resto poi non aspetterò che tu me lo dica; lo saprò anche prima che tu stesso abbia coscienza del mutamento avvenuto. Con una donna che ama davvero è cosa inutile il mentire -. E sorrideva. Intanto le tremava la voce e aveva gli occhi imbambolati. Divenne, e mi pareva impossibile, piú tenera, piú espansiva. Sentivo nei suoi baci come un furore di affetto. Dalle sue carezze traspariva una smania, un tormento di volerne esaurire tutt'intera la dolcezza e uno scontento di non riuscire. Spesso mi chiamava a nome due, tre volte di seguito, unicamente pel piacere di pronunciare: "Maurizio! Maurizio!" - Matta! - le dicevo abbracciandola, e battendole sulla guancia colla punta delle dita, quasi per castigarla come una bimba cattiva. Insomma sembrava avesse fretta di godersi una felicità che vedeva dileguarsi a poco a poco. Io intanto vivevo tranquillo. Non scorgevo nei miei sentimenti e nei miei modi nessun mutamento. Naturalmente mi trovavo assai piú calmo; lo stato di esaltazione febbrile non poteva durare in perpetuo; ma quel godimento sereno, sempre uguale che vi era succeduto, mi sembrava piú dolce, piú intimo e per conseguenza piú duraturo. Le smanie della Cecilia, le sue tenerezze eccessive m'inquietavano stranamente, come un cattivo presagio. La rimproveravo con un accento che sembrava preghiera; e in seguito mi stizz ivo di non averla rimproverata con bastante energia; quella fiacchezza di rimproveri mi sembrava un delitto dalla mia parte. - Tu hai pianto! - le dissi un giorno, sorprendendola cogli occhi rossi e asciugati malamente in fretta nel sentirmi rientrare in casa. - No - rispose; - ho dormicchiato sulla poltrona; ho un po' di emicrania -. Mi appagai di quella risposta; ma rimasi inquieto fino a sera. Perché m'ero appagato? Non ero forse sicuro che la Cecilia aveva voluto nascondermi la verità? Sí, ella aveva pianto! E non mi era passato pel capo di dirle una parolina sola di conforto. Ingrato! Ma non trovavo il verso di riparare al mal fatto. Era un po' dimagrita da qualche tempo in qua, e un po' pallidina. Mi persuasi dopo alcuni giorni che doveva dormir poco. Una notte fui di un tratto svegliato da un fruscio di veste nella mia stanza. Apersi gli occhi con un senso d'indefinito terrore, e vidi la Cecilia accoccolata sul tappeto accanto al mio letto, coi capelli sciolti sulle spalle, colle mani aggrappate attorno un ginocchio, gli occhi spalancati, immobili sopra di me, le guance irrigate da lagrime che scorrevano silenziose. - Dio mio! Cecilia, che fai? - le dissi. E tentavo rimoverla da quella posizione attirandola per un braccio verso di me onde spingerla a levarsi. - Lasciami star qui! - rispose, - lasciami star qui, te ne prego! - Ma ti ammalerai! Sei fredda! Cecilia! - Lasciami stare! - Non rispondeva altro, né si asciugava le lagrime e continuava a guardarmi fisso. Mi posi a sedere sul letto accostandomi alla sponda, in modo di prendere la sua testa fra le mie mani, e cominciai a baciarla sui capelli, mormorando affettuosamente: - Cecilia mia! Levati su, per carità! Levati su! Parla che è stato?- Si alzò lentamente, come un'apparizione, ricacciò dietro le orecchie i capelli e mi tese le mani sorridendo sconsolata. I capelli nerissimi sciolti pel collo, l'accappatoio bianco, il pallore del viso, alla luce del lumino da notte che ardeva sul comodino entro un vaso di alabastro, davano a quella figura di donna un fascino sacro ... In quel momento ero superstizioso e credevo a qualcosa di un altro mondo. - Parla, che è stato? - tornai a balbettare. - Tutto è finito! - rispose con un filo di voce che parve quello di una moribonda. Poi, dopo una breve pausa, diessi a divorarmi dai baci per parecchi minuti di seguito in modo da togliermi il respiro e fuggí via. Rimasi fino al mattino cogli occhi fissati all'uscio da cui l'avevo vista sparire come un fantasma, incerto se avessi assistito ad una realtà o sognato a occhi aperti. Nella giornata non osai interrogarla sull'accaduto della notte. Ero sbalordito: credevo di aver ricevuto un gran colpo sulla testa e non mi stupivo di non riuscire a riordinar bene le idee. La vidi affaccendata a far dei preparativi che mi sorprendevano: ma non trovavo modo di aprir bocca per domandargliene ragione. Mi pareva che facesse un'operazione convenuta di accordo fra noi. Per un viaggio? Per una villeggiatura? Non lo rammentavo preciso; però quei preparativi erano tristi, mi stringevano il cuore, mi riempivano gli occhi di lagrime. Finalmente il mio spirito acquistò ad un tratto una sorprendente lucidità. Tutto era finito! Come? Cosí lentamente, cosí segretamente che non me n'ero accorto io medesimo; ma pur troppo tutto era finito! La Cecilia aveva detto una cosa che la mia mente non avrebbe saputo esprimere per cento ragioni, e sopratutto perché si rifiutava a credere quello che imaginava non avrebbe dovuto accadere. La Cecilia era calma. Ripiegava i suoi vestiti di mano in mano che li toglieva dall'armadio e li situava nelle casse. Ogni abito era per me un ricordo di un giorno di beatitudine, di un'ora felice, e a vederlo riporre, mi pareva assistere alla tumulazione di una particella del mio povero cuore ... Soffrivo un dolore compresso, un acuto limío, ma non avevo il coraggio di accostarmi a lei per dirle: - Rimani! Ricominciamo daccapo! - Non volevo mentire; non avrei neanche saputo. Sentivo tutta ora la stanchezza di una situazione irregolare, nella quale ci eravamo imbarcati io colla spensieratezza di un uomo appassionato, ella colla rassegnazione del sagrificio di una donna che ama! Pensavo con tristezza: - Perché non può durare? Perché non deve durare? - E la riflessione rispondeva tranquillamente: - È la legge! - Tornai dopo alcuni giorni ai giardini pubblici per rintracciarvi un passato che piú non trovavo dentro di me. Era la stessa stagione del nostro primo incontro, la primavera. Gli alberi ricchi di fronde; le aiuole verdi di erbe e qua e là fiorite; il sole, prossimo al tramonto, scherzava coi raggi fra le foglie agitate dai venticelli della sera. Ahimè! Quei viali, quelle frondi, quelle aiuole non mi dicevano piú nessuna delle mille celesti cose rivelatemi una volta. I zampilli mormoravano stupidamente monotoni; le acque dei laghetti e dei canali torbide, verdastre, riflettevano il cielo e gli oggetti in un tono di colorito che faceva schifo. Le rane, nascoste tra le foglie delle ninfee, gracidavano una musica degna del posto, che ora mi sembrava pretenzionoso e volgare. Gironzolai qua e là, facendo ogni sforzo per evocare una sensazione, un sentimento; ma invano. Il viale dei Boschetti mi parve tristo, lungo, basso da mozzare il fiato; dal canale accanto esalava un cattivo odore di borraccina che non avevo mai avvertito. E andando via rimuginavo: - Ma è dunque vero che questo mondo di fuori sia una mera creazione del nostro spirito, uno scherzo, un'illusione? Povera Cecilia! Tu non avresti mai creduto che perfino il mio rimpianto di amore sarebbe un giorno sfumato perdendosi fra le nebbie di un problema di metafisica!

Racconti 3

662736
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Don Paolo aveva anche notato segni di tristezza e di abbattimento sul viso ordinariamente calmo della marchesa, e di severità quasi dura su quello del marchese che, aggrottando di tratto in tratto le sopracciglia, rendeva piú insolcate le rughe della fronte sormontata da folti capelli grigi tagliati corti, a fior di pelle. E per ciò, nella sala da pranzo, dove li aveva raggiunti appena deposti i paramenti sacri, per prendervi il caffè assieme con loro, egli non seppe frenarsi di domandare con vivace premura: - La signora marchesina non sta bene? - Sta benissimo - rispose il marchese. E sorbí rapidamente l'ultimo sorso della sua tazza. Don Paolo non insistette. Intinse un altro biscotto e nel recarlo alla bocca diè un'occhiata indagatrice alla marchesa che lasciava freddare davanti a sé la tazza riempita a metà. - Se sta bene di corpo - soggiunse il marchese gravemente - la marchesina, però, sta poco bene di spirito. Viviamo in tempi che la piú sacra autorità, quella del padre e della madre, non vien rispettata neppure in una famiglia come la nostra! Voi che siete il confessore dovete aiutarci a guarire la marchesina da questa, voglio sperarlo, momentanea indisposizione morale. - Ai suoi ordini, signor marchese - rispose umilmente don Paolo socchiudendo gli occhi e abbassando la testa. - Io temo che non facciamo peggio - intervenne la marchesa con voce che sembrava umida di lagrime recenti. - Lasciamo che operi il tempo e la riflessione. - La gioventú di oggi è caparbia; faremmo peggio assai mostrando alla marchesina che noi non abbiamo piena coscienza della nostra autorità. Io non posso tollerare che una Santacroce si ribelli alla volontà dei suoi genitori. È già stata eccessiva concessione l'apparenza di consultarla ... Il cappellano sa di che cosa si tratta -. Don Paolo accennò di sí con la testa, atteggiandosi a una mossa di dispiacere in conferma delle parole del marchese. - Da quattro giorni non esce di camera, col pretesto di un fiero dolor di capo. Buttata vestita sul letto, tiene chiusi gli scuri dell'imposta del balcone e rifiuta di ricevere il dottore. Io non sono andato da lei per farle cosí intendere la mia collera. Oggi non è neppure intervenuta al sacrificio della santa messa ... È troppo! Bisogna finirla! - Il marchese aveva parlato lentamente, a bassa voce, tracciando dei segni sul tappeto della tavola col cucchiaino di argento quasi vi scrivesse in strani caratteri quel che diceva; e pronunciando le ultime parole, picchiato sdegnosamente su la tavola col cucchiaino due volte, lo aveva rigettato lontano, facendogli urtare il piattino della tazza del prete. - Ho sentito dire nella farmacia Russo - ruppe il silenzio don Paolo - che il signor barone sarà qui tra qualche giorno. - Si parla già in pubblico del matrimonio? - E se ne rallegrano tutti, signor marchese. Il barone di Pietrerase è ottimo partito. Il principe suo fratello è vecchio e non ha figli; un giorno o l'altro la marchesina potrà essere principessa di Cavanna ... - I Cavanna sono nati ieri di fronte ai Santacroce - lo interruppe severamente il marchese. - La probabilità del principato non entra per niente nella mia decisione. - Lo credo! Lo credo! - si affrettò a ripetere don Paolo per scancellare la cattiva impressione prodotta dalle sue imprudenti parole. - Non ho cercato io il barone di Pietrerase, né so come gli sia venuta l'idea di domandare la mano della marchesina. Non l'ha neppure veduta, credo, o di sfuggita in qualche occasione; a Catania forse, l'ultima volta che siamo andati colà per la malattia della marchesa. È uomo all'antica, buon amministratore dei suoi beni ... Il feudo di Pietrerase confina col nostro di Saccorotto ... Ho preso le piú scrupolose informazioni ... Eccellenti, riguardo ai principi politici e alla morale. Negli ultimi avvenimenti si è tenuto dignitosamente da parte; ha rifiutato di essere consigliere provinciale ... Lo avevano eletto non ostante le sue franche dichiarazioni; e non si è lasciato sedurre dai voti degli elettori. Noi nobili non dobbiamo attendere che ci abbandonino in un canto; siamo di altri tempi e dobbiamo volontariamente ridurci a vivere e a morire come in un mondo a parte ... finché dura la tempesta, come la chiamano, democratica. Quando Dio vorrà ... - Presto, eccellenza; cosí non può durare! - disse don Paolo - La marchesina dunque… - egli soggiunse timidamente. - La marchesina pretende ... Ditelo voi, marchesa, che cosa pretende, voi che le avete parlato di questo matrimonio ... - Senza nessuna ragione ... rifiuta - balbettò la marchesa. - Come se noi potessimo proporle un partito indegno di lei! - Oh, eccellenza! - esclamò don Paolo. - Io ho la mia maniera di tagliare i nodi; sono un po' brutale. Non ho comunicato alla marchesina la mia decisa volontà, cedendo al troppo benevolo desiderio di sua madre. Ho avuto torto. «Senza nessuna ragione!» Lo avete già udito ... Prima dell'autorità paterna, facciamo pure sentirle il peso di quella di Dio! Onora il padre e la madre, dice il decalogo, e si onorano soprattutto obbedendo. Dopo il confessore, interverrò io. Non voglio discutere con mia figlia. Quando il marchese mio padre mi disse: «Tu sposerai la baronessina Grimaldi» risposi soltanto: «Come vuole vostra eccellenza!» Allora usava cosí. Il nostro matrimonio è stato felice. Se il Signore mi avesse concesso un figlio, non mi sarei comportato diversamente con lui. L'autorità paterna è di diritto divino, come quella dei re, anzi prima di quella dei re -. Nella vasta sala da pranzo la voce del marchese si affiochiva quasi sperdendosi per la volta elevata, coperta di pitture sbiadite, o insinuandosi tra le credenze di noce scolpito che coprivano le pareti e tra le larghe pieghe delle pesanti tende scure dei quattro usci che sembrava la segregassero dal resto di quel palazzo dove parecchie generazioni di Santacroce erano vissute in orgogliosa solitudine, ora resa piú grande dal cupo carattere dell'ultimo marchese che vedeva estinguersi malinconicamente la sua razza per difetto di un erede. Don Paolo, tutte le volte che attraversava gli ampi saloni nei giorni che il suo ufficio di cappellano e di confessore lo faceva «salire al palazzo», sentiva un senso d'intimidazione e di freddo, come se egli penetrasse in un posto pieno di religioso mistero. Per gli abitanti di R*** la mole grigia, coi grandi balconi con ringhiere bombate di ferro battuto su le mensole rose dal tempo e dall'umido, con le imposte stinte che combaciavano male, e l'immenso portone sempre chiuso, mole dominatrice dall'alto della collina su tutte le altre case del paese, era il «palazzo» per antonomasia. «Salire al palazzo» significava andare dal marchese di Santacroce, giacché il marchese e la marchesa uscivano di rado, e quasi unicamente per recarsi nel feudo di Serralonga in primavera e in autunno, mutando la loro prigionia nell'antica cittaduzza che la posizione su l'altura teneva appartata da ogni contatto di vita commerciale, con l'altra nel feudo dove un gran casamento mezzo rustico, con immensi stanzoni anch'esso, circondato da un muro con feritoie che formava cortile, dava appena qualche differenza al tenore di vita della famiglia. Prima del '60@, '60, il marchese esercitava una specie di dominio su i cittadini di R***, tradizionale residuo di quello dei suoi antenati quando essi erano padroni del borgo, poi divenuto cittaduzza libera, passata alla Camera Reginale per vicende politiche che avevano prodotto la decadenza della famiglia Santacroce e ne avevano stremato i vasti possedimenti e le ricchezze. Il padre del marchese, don Alvaro Gutierrez-Guerrero, avea regnato da tirannello. Ai suoi tempi era stato adattato a lui il vecchio proverbio: «Non si muove foglia che Dio nol voglia»; se non che invece di Dio, si metteva irriverentemente ma esattamente «il marchese». La tirannia, del resto molto benigna, del padre era passata nelle mani del suo erede, che continuava a venir consultato in tutti gli affari privati, e aggiustava liti, annodava matrimoni, dotando le ragazze povere senza richiedere, come si diceva facessero i suoi antenati fino al suo genitore, certi diritti contro cui i contadini non osavano di ribellarsi. Nel comune, nella matrice, decurioni e canonici non deliberavano niente prima di domandarsi: - Che ne dirà il marchese? - E quando il marchese aveva risposto: - Fate cosí! - la sua parola diventava sentenza inappellabile; si faceva cosí. Il '60@ '60 aveva cangiato di punto in bianco ogni cosa. A R*** quattro teste sventate, come il marchese le qualificava, avevano fatto la rivoluzione senza consultarlo, ed erano andati ad attaccargli la bandiera tricolore a una delle colonne del portone, quasi per significargli che il suo regno era finito. Il marchese aveva avuto tanto spirito da non far togliere la bandiera, nell'attesa che i soldati del re venissero a toglierla loro, come nel '49@; '49; e si era chiuso in casa, stupito ogni giorno piú che la «rivoluzione» prendesse piede, ma pur lusingandosi sempre che, non ostante Garibaldi e Vittorio Emanuele, il buon diritto, quello dei Borboni, dovesse finalmente trionfare. Poi, deluso, si era rassegnato, con una vaga speranza in fondo al cuore, che il guardiano dei pp. cappuccini prima e, dopo, don Paolo Forti alimentavano fiaccamente recando, di tratto in tratto, qualche notizia lassú di quel che avveniva nel mondo e che il marchese ascoltava con orecchio diffidente, crollando la testa per compiangere la tristizia dei tempi. Egli e la marchesa vivevano smarriti pei saloni del palazzo, tra le poche vecchie persone di servizio tenute in segregazione assieme con loro; egli occupandosi a riordinare antiche scritture di famiglia, oppresso dal rammarico che il titolo di marchese di Santacroce dovesse passare, dopo la sua morte, a un lontano parente col quale da quasi mezzo secolo, per ragioni d'interessi, i Santacroce non avevano avuto piú relazione di sorta alcuna; la marchesa immersa in pratiche religiose o di carità nascosta, specialmente da che la marchesina era stata affidata alle cure della settantenne zia del marchese, badessa in un convento di benedettine in Catania. Otto anni dopo, essi si erano figurati di ritirare dal convento una ingenua educanda e invece si erano trovati dinanzi una giovine seria, chiusa, che aveva negli occhi e nella fronte qualche cosa d'incomprensibile e d'inquietante. Il marchese avea notato subito che la loro figliuola parlava poco. Infatti rispondeva con semplici monosillabi alle interrogazioni. La marchesa domandandole un giorno se era stata contenta della vita di convento, avea sentito rispondersi: - Non lo so -. E non si era attentata di chiederle spiegazioni di quelle strane parole. La vecchia badessa l'aveva molto viziata, un po' facendole fare quel che piú le pareva e piaceva, un po' - e non ce n'era bisogno - sviluppando coi consigli e con l'esempio l'alterigia naturale in una Santacroce per eredità e pel prestigio del nome. La marchesina Cecilia, o Cilia , come la chiamavano, non era una bellezza appariscente. Le linee del viso rigide, quasi dure, e il naso solido e aquilino della sua razza venivano però raddolciti dagli occhi neri e grandi e dalle labbra tumide e sensuali. Il mento, solido anch'esso, ne indicava il carattere fermo, ostinato, e la voce, gutturale ma sommamente melodiosa, dava alle sue parole un'indefinibile malia che non faceva badare alla bassa statura della sua personcina e alla lieve sproporzione tra il busto e le gambe per cui somigliava alla madre. Dalla madre aveva ereditato anche le mani piccole con dita sottili e i piedini ben fatti, le une e gli altri suo orgoglio in convento tra le quattro educande di nobili famiglie con le quali aveva avuto qualche contatto, perché una Santacroce, diceva la zia badessa, doveva stimarsi tale da dover tenere in distanza la «nobiltà» che poteva contare appena due secoli di esistenza. Cosí, durante gli anni passati tra le monache, ella si era sentita invadere da un senso di isolamento e di tristezza irrequieta, di mano in mano che i ricordi dell'infanzia vissuta nel malinconico palazzo di R*** le si erano schiariti nella memoria, quasi costringendola a rivivere con l'immaginazione quelle giornate interminabili, quelle serate paurose delle quali ora comprendeva meglio tutta la vacuità e tutta la desolazione e a cui neppure il suo orgoglio di casta riusciva a farla compiutamente rassegnare. A traverso le doppie grate del parlatorio, a traverso la grande grata di legno dorato del coro che dominava dall'alto la chiesa luminosa, piena, le domeniche, di elegante pubblico di signore e di signori accorsi ad assistere alla messa cantata, uno sbuffo, un'onda, un profumo di vita piú allegra, piú agitata penetrava nel convento, dove non tutte le monache erano, quantunque di nobili famiglie, impassibili e fredde come la zia badessa, né cosí assorte nelle pratiche religiose da sfuggire, quali pericolose e malsane, le relazioni col mondo profano. La zia le avea ripetuto, in parecchie occasioni, che la sua condizione la destinava a un'alleanza con qualcuna delle poche famiglie siciliane degne di ricevere l'onore di accogliere - poiché il Signore avea voluto cosí! - l'ultimo bagliore dei Santacroce. Anche la badessa reputava immensa disgrazia che quel titolo dovesse passare, per mancanza di erede maschio, a uno del ramo cadetto quasi povero e incapace di portarlo con la dignità e l'austerità mantenute onorevolmente finora. E siccome, parlandole del futuro matrimonio, la badessa soggiungeva sempre: - A questo penseranno i tuoi genitori; ci penserò pure io, se il Signore vorrà concedermene la grazia! - l'idea che la coscienza e la volontà di lei non dovessero contare per niente nella decisione intorno all'avvenire che l'attendeva le aveva lungamente torturato l'animo, inasprendoglielo sordamente e fortificandolo - forse invano! ella rifletteva - per una lotta nella quale già capiva di dover essere perditrice. E ogni volta che la zia tornava a parlargliene, la marchesina fissava negli occhi quel viso pallido, rugoso, con labbra sottili e un che di maschile nei lineamenti che le rammentavano quelli del padre. E le sembrava di scorgere nella voce lenta e sommessa della vecchia monaca benedettina un accento di rancore e di rimpianto, misto con un altero senso di rassegnazione che avrebbe voluto nascondere o attenuare quel rimpianto e quel rancore. Era stata, forse, vittima anche lei delle circostanze e dei pregiudizi di razza, sacrificata a un primogenito, eliminata dalla vita comune per quell'inesorabile volontà che non avrebbe consultato neppur lei il giorno in cui suo padre ne avrebbe deciso la sorte! E si era sentita oppressa, sopraffatta dalla fatalità, rientrando in quel palazzo dei Santacroce isolato lassú in cima alla collina di R***; e che le sembrava assai piú cupo del convento, dove almeno le pratiche e le feste religiose servivano da distrazione giornaliera e da svago impazientemente atteso e quasi infantilmente goduto. La messa che don Paolo Forti veniva a dire, le domeniche e le feste, nella cappella di famiglia era cerimonia fredda e compassata, in confronto anche della messa bassa di tutti i giorni a cui ella aveva assistito in convento. Quei quattro ceri accesi davanti al quadro di santa Margherita da Cortona, quell'altare disadorno, con la predella di legno che risonava sotto i grossolani scarponi del prete a ogni passo ch'egli moveva, quei vecchi seggioloni col piano e le spalliere coperti di cuoio, dietro i quali ella udiva il sommesso borbottio del rosario e i colpi di tosse delle poche persone della servitú inginocchiate sul freddo pavimento di mattoni di Valenza, le mettevano tale sgomento e tale tristezza nell'animo che le impedivano di concentrarsi e di pregare. E durante la settimana? Una o due visite di vecchie signore e lo spettacolo della campagna che si stendeva, a perdita d'occhio, a piè della collina, fino alla catena delle Madonie coperte di neve e fino alle falde dell'Etna che, sotto il sole, svaniva quasi sul cielo azzurro, niente altro. Giacché i balconi della camera e del salottino della marchesina rispondevano su la parte opposta a quella dove stava arrampicata la cittaduzza di R*** e i balconi delle stanze che guardavano da questo lato, per ordine del marchese, rimanevano sempre chiusi a testimoniare la sua protesta contro le «novità» finché esse duravano e che, contro ogni sua illusione, persistevano a durare. Fortunatamente in convento ella aveva appreso a suonare il pianoforte e vi si era appassionata sotto la direzione della suora che insegnava il canto fermo alle educande. E tutta quella vecchia musica sacra più particolarmente studiata avea sviluppato in modo severo il suo gusto. Il Palestrina, il Bach, lo Scarlatti, il Mozart, le erano divenuti cari anche per le difficoltà da superare nell'esecuzione. Soltanto all'uscita del convento ella avea voluto provvedersi di una larga scelta di cose moderne, accettando tutto quel che dal negoziante di musica le era stato proposto; e il suo salottino appartato, da mattina a sera, risonava di melodie prima ignorate, ora studiate e interpretate con fina intelligenza e che divenivano tale rivelazione per lei da darle fremiti, da agitarla e lasciarla stanca e spossata dopo le molte ore consacrate ad esse in quelle giornate di primavera cosí splendide e cosí eccitanti nella solitudine della sua vita. Don Paolo Porti aveva intuito sin da principio che qualche cosa di segreto, d'inafferrabile stava in fondo all'animo della giovane silenziosa, e avea tentato di scoprirlo nella confessione, consigliato dalla marchesa; ma inutilmente. E fermatosi, quella domenica, su la soglia della camera tenuta al buio, mentre la marchesa entrava ad annunziare alla figlia la insolita visita, egli non sperava affatto di essere piú fortunato nel nuovo tentativo. La marchesa avea aperto gli scuri, invitando don Paolo a farsi avanti. - Ho pregato per voscenza nel sacrificio della santa messa - egli disse dopo alcune parole di scusa pel disturbo di quella visita. - Brutta cosa l'emicrania! Ne soffro pure io qualche volta ... - Grazie! - rispose la marchesina che aveva aperto gli occhi, senza moversi dalla posizione in cui si trovava. Don Paolo si sentí turbare dagli sguardi di sospetto e di diffidenza con cui si vedeva fissato. Appena la marchesa, col pretesto di un ordine da dare, lo lasciava là, seduto a piè del lettino dove la marchesina era coricata vestita, coperta soltanto fino a metà del corpo con uno scialle, egli abbassava gli occhi e non trovava parole per riprendere la conversazione. - Indovino perché mammà vi ha condotto qui - disse la marchesina, rompendo il lungo intervallo di silenzio, quasi impietosita dell'imbarazzo del prete. - Che cosa vogliono da me? - Quel che una figlia rispettosa e obbediente deve ai suoi genitori. Le parlo da indegno ministro di Dio, da confessore. - Mi vogliono maritare con uno che non conosco neppure di vista. - Pensano all'avvenire di voscenza, alla sua situazione nel mondo. E giacché si sono decisi per questa scelta, vuol dire che vi trovano tutte le eccellenti condizioni morali e materiali degne della loro nobilissima casa. I genitori s'ingannano di rado. - E il mio cuore non conta nulla? - Il suo cuore sarà tutto della persona che avrà la fortuna di sposarla. Voscenza ha l'esempio della mamma, di una santa ... - E se ... Ella s'interruppe, irrigidendosi, facendo un visibile sforzo di contenersi. - So che ha risposto con un rifiuto - disse il prete. - Oh! Una Santacroce non deve avere volontà di fronte ai genitori. Vi sono doveri che s'impongono innanzi tutto quando si occupa, per nascita, una posizione elevata come la sua. Le donne della famiglia Santacroce sono state sempre mirabili modelli su questo punto. La signora marchesina non vorrà dare un gran dispiacere a suo padre ... che ha già impegnata la parola col barone di Pietrerase. Gran signore anche lui, il barone ... Il principe suo fratello non ha figli ... Io le auguro di vederla principessa, un giorno o l'altro. Il titolo toccherebbe di diritto al barone. I Cavanna, dice bene il signor marchese, non possono competere coi Santacroce per nobiltà, ma sono tra le piú illustri e ricche famiglie siciliane. - E se io volessi sposare un altro? - lo interruppe la marchesina sollevandosi sopra un gomito e appoggiando la testa sul palmo della mano. - Mi confido col confessore ... Sono stata di poco coraggio; non ne ho detto niente a mia madre. - Un altro? ... Chi? Giacché mi parla come a confessore ... - Il nome non importa ... per ora. - Se è degno della sua famiglia, il marchese certamente non si opporrà. - Non è nobile, né ricco. - In questo caso ... Una Santacroce non può discendere in basso. Sarebbe un gran dolore pei suoi genitori; sarebbe un fatto senza precedenti in famiglia ... una cosa impossibile! - Rimarrò zitella. - La signora marchesina deve riflettere ... - Ho riflettuto. Non credo che si voglia la mia infelicità. - Se la prepara voscenza stessa, con le proprie mani. Non si ostinerà, oso di lusingarmi. Io, suo confessore, non verrei a consigliarle di sottomettersi, se credessi di fare opera contraria al mio sacro ministero. Non si offenda se immagino che la poca esperienza del mondo, la giovinezza, e, forse, una mal riposta passioncina la illudono in questo momento. - Al confessore si deve dire tutto. Mi sarei confidata con mammà se non sapessi che ella non ha altra volontà all'infuori di quella di mio padre. Ho voluto risparmiarle un dispiacere. Dirò tutto al confessore. Sí, io amo un altro, da due anni, e so di essere amata. Tutti e due abbiamo però compreso le difficoltà che oggi si oppongono alla nostra unione, e ci siamo rassegnati. Se mio padre vorrà disporre di me altrimenti, io forse non resisterò ai suoi ordini, quantunque in questo momento sia già decisa a resistere. Avrà un gran peso su la coscienza mio padre! Quel che farò dopo non so ... - Niente che possa recar disonore alla sua nobile famiglia, ne sono sicuro - la interruppe don Paolo. - Il barone di Pietrerase è un gran signore anche lui; saprà darle tutte le felicità che si possono conseguire in questo mondo ... - Preferirei di essere infelice ma libera di agire a modo mio. - Guardi, marchesina. Crede voscenza che io sia un cattivo prete? Ho i miei difetti ... ma, insomma! ... Ebbene io sono stato fatto prete per forza. Mio padre mi mise il collare da chierico a dieci anni; poi mi mandò in seminario ... E una volta che ebbi l'ardire, prima di prendere gli ordini minori - ero grande e grosso, a diciotto anni - una volta che ebbi l'ardire di dirgli che avrei voluto essere medico, avvocato, agrimensore, o altro ma non sacerdote, mio padre mi schiaffeggiò come un ragazzino, mi saziò di pugni e pedate - era manesco, Dio l'abbia in gloria! - e cosí mi levò di capo ogni voglia di ribellarmi alla sua volontà. Ora dico che fece bene. Sono contento del mio stato; e quando osservo tanti altri che furono in seminario con me, e che buttarono via il collare anche dopo di aver ricevuto gli ordini minori, benedico quegli schiaffi, quei pugni, quelle pedate. - E se suo padre si fosse ingannato? Se lei fosse riuscito un cattivo prete? - Bisogna aver fede in Dio, marchesina! ... Che cosa dovrò dunque riferire alla marchesa? Attende ansiosamente la risposta, povera signora. Forse, se dipendesse da lei ... - Ditele che le chiedo perdono del dispiacere che le faccio, ma che rifiuto, rifiuto ... rifiuto! Mi lascino in pace. Vogliono sbarazzarsi di me? Io non do noia a nessuno in questa casa ... Perché mio padre dovrebbe mantenere la sua parola al barone? ... Poteva darla? - Allora ... - rispose don Paolo, esitando - Allora sarà meglio fare cosí. Dia retta al mio consiglio. Io riferirò al marchese e alla marchesa che voscenza, da figlia buona e obbediente, si sottomette alla loro volontà ... Mi lasci dire. La prima volta che si troverà da solo a solo col barone di Pietrerase - e sarà presto, forse in settimana - abbia il coraggio di dire a lui quel che ha avuto la sincerità di accennare a me. Troverà lui, dovrà trovare lui una soluzione dignitosa per tutti, perché non è possibile che voglia ostinarsi nella sua richiesta dopo quel che lei gli avrà confidato ... Faccia a modo mio ... Dio l'aiuterà ... E in questa maniera ella eviterà a sé e ai suoi genitori gravissimi dispiaceri ... Faccia a modo mio! - La marchesina si era subito pentita di essersi lasciata indurre ad accettare il consiglio del confessore. Avrebbe ella avuto la forza d'animo di aprire il suo cuore a una persona che si sarebbe trovata davanti a lei la prima volta e in un momento che doveva decidere irrimediabilmente del suo avvenire? Si era sentita già condannata vedendo entrare nella camera inaspettatamente il marchese: - Godo che state meglio, marchesina -. La marchesa, che era venuta assieme con lui, non aveva detto nulla; ma gli occhi materni avevano cercato di leggere sul viso della figlia una risposta piú sincera di quella recata da don Paolo Forti. E appena rimasta sola con lei, le domandava: - È vero? ... È vero? - Sí, mammà . - E sei contenta? - Sí, mammà -. La povera signora esitò qualche istante; gli occhi le si empirono di lagrime; ed abbracciò e baciò la figlia; poi, ponendole le mani sul capo, pronunciò commossa: - Dio ti faccia felice! - C'era una gran tristezza in quelle parole. La marchesa, infatti, si era rivista giovane come sua figlia, quando sotto il tormento di una costrinzione per volontà dei parenti, come sua figlia, aveva invidiato la sorte delle piú umili creature che potevano liberamente secondare gli impulsi del loro cuore, e non accusare nessuno della loro infelicità nel caso che il cuore si fosse ingannato. Si era rivista sposa, madre, quasi schiava di un uomo che ella aveva rispettato senza mai poter arrivare ad amarlo; e pensava, tremando, che forse sarebbe accaduto cosí anche a sua figlia, a cui la parola del confessore aveva probabilmente imposto una rassegnazione che le avrebbe contristato tutta la vita. A che insistere intanto per sapere se «era vero»? Se la marchesina si fosse decisa a confidarsi con lei, che cosa avrebbe potuto ella fare per impedire la disgrazia? Dio aveva disposto cosí: i signori dovevano scontare a quel modo la vanità dei titoli delle loro ricchezze, e vedersi invidiati quando avrebbero dovuto essere compatibili! In quei giorni la marchesina parve presa da un furore di musica; il pianoforte tacque soltanto a intervalli. Le melodie piú tristi e piú cupe piansero, ulularono, si lamentarono sommessamente, ripresero a ululare e a piangere nel salottino, quasi la nervosità delle dita della suonatrice partecipasse alle note un'espressione tutta personale da farle diventare pianto, ululo, lamento del suo cuore straziato. Di tratto in tratto, esse venivano improvvisamente interrotte; melodie dolcissime, sognanti, si elevavano allora, sospiravano, simili a invocazioni, simili a richiami, smorivano quasi andassero lontano lontano dove il cuore della sonatrice le inviava; e si sarebbe detto che esse recassero contristanti risposte, se, poco dopo, le desolatissime note riprendevano con impeto, prolungatamente; e il silenzio che seguiva finalmente, per stanchezza, produceva infatti un senso di disperato abbandono alla marchesina proprio come se colui al quale ella inviava, a quel modo, il grido del suo cuore, le avesse risposto: - Non c'è piú speranza! È finita! - E rivedeva, quasi in sogno, l'albergo di Catania dove era andata, pochi mesi dopo di essere uscita dal convento, per assistere la marchesa che doveva subire una difficile operazione chirurgica. Questi stanzoni del vecchio palazzo signorile trasformato in albergo erano severi e malinconici come gli stanzoni del suo palazzo a R***. Un via vai di medici, di chirurgi, di persone di servizio ... Un silenzio greve, un raccoglimento malauguroso, una segregazione ... E al balcone accanto alla sua camera, quel giovane pallido, biondo, malato anche lui, che un giorno aveva ardito di chiederle notizie della signora marchesa che doveva essere operata e della quale tutti nell'albergo s'interessavano. Poi, nelle ore in cui il male concedeva qualche riposo alla sofferente, un piú lungo scambio di parole, e d'intensi sguardi che, dalla parte del giovane, dicevano assai piú che non le parole, anzi quel che esse non osavano di esprimere, ella se n'era subito accorta. - Ora che sua madre sta meglio, lei partirà ... e non la rivedrò piú! Anch'io sto meglio ... È doloroso conoscere una persona e non aver speranza di rivederla piú. - Chi non muore si rivede. - Perché desiderare di rivedersi? È sciocco quel che io dico ... - Ella aveva interrotto la conversazione col pretesto che l'avevano chiamata; ma le era rimasta negli occhi la desolazione di quel viso pallido che già stava per dirle quel che ella aveva indovinato, quel che l'aveva turbata profondamente nei giorni avanti e nelle notti senza sonno, dandole insieme col turbamento una sensazione nuova, un fremito di vita, la sodisfazione ineffabile di un inconsapevole bisogno del suo cuore e della sua giovinezza, una nova coscienza di se stessa. Quante volte non aveva ella evocato questi ricordi nella solitudine della sua camera, e quel che le era accaduto poche ore prima di lasciare l'albergo e ripartire per R***! - Poiché non ci rivedremo piú ... Mi perdoni, non posso fare a meno di dirglielo ... quantunque sia convinto che lei dimenticherà presto le mie parole ... - Ella gli aveva accennato di tacere, tremante di commozione, ma con negli occhi un tal sorriso di felicità da rendere inutile il divieto ... E appena colui avea finito di parlare, uno scoppio era avvenuto nel cuore di lei, uno scoppio che le aveva fatto dimenticare ogni ritegno, che l'aveva violentemente spinta a dire quel ch'ella si era immaginato dovesse restarle sepolto nel profondo petto, come un segreto da portar con sé nella tomba. Poche e semplici parole, ma esaurienti, definitive, chiamandolo per nome, dandogli del tu, quasi per fargli cosí un'affettuosa carezza, per stringere un patto infrangibile, urgente, giacché qualche ora dopo sarebbero stati divisi, ma legati almeno da quel patto, ma sostenuti almeno da un barlume di speranza! - Ti scriverò io; troverò io il modo con cui tu possa farmi pervenire le tue lettere! - E la marchesina era sparita dal balcone, con lo spavento di chi ha commesso un atto di audacia incredibile, e nello stesso tempo con l'intima gioia di aver operato quell'incredibile atto di audacia. Non rileggeva piú le tre lettere da lui ricevute per mezzo di una povera donna che aveva acconsentito, dopo molte preghiere e molte promesse, a ritirarle dalla posta indirizzate al marito. C'era mancato poco che costui non l'avesse picchiata quando avea saputo dell'incarico assunto da sua moglie, per pietà della marchesina, d'impostare cioè le lettere di lei e ritirare quelle dell'«altro» e portargliele a palazzo nelle rare occasioni che vi andava. Quelle lettere ella non le rileggeva piú; già le sapeva a memoria: lettere infiammate, sconsolatissime, nelle quali egli tornava a domandarle perdono di averle svelato il suo amore servito unicamente a renderla infelice, mentre da parte sua non avrebbe mai osato di pensare che la marchesina di Santacroce potesse un giorno abbassare gli occhi fino a lui e concedergli il suo cuore. Per disgrazia, quella povera donna era morta da quattro mesi; e la marchesina non aveva potuto trovar altro mezzo di comunicazione col lontano; che però era stato avvisato della probabilità di una lunga interruzione della loro corrispondenza e incoraggiato a non sospettare di lei. Ella si dichiarava sempre pronta a combattere contro ogni resistenza dei genitori quando il momento opportuno fosse arrivato. Ed ora si lusingava che la disperazione l'avrebbe resa fin temeraria, quantunque la remissione al consiglio del confessore non sembrasse a lei stessa buon indizio, oh, no! Il barone di Pietrerase non era una figura signorile. Aveva qualcosa tra di maggiordomo o di cocchiere di buona famiglia, con la folta chioma spartita da lato e le fedine all'austriaca. All'entrata della marchesa, che teneva ancora per mano la marchesina quasi avesse temuto di vederla tornare addietro attraversando il largo corridoio per recarsi nel salone di ricevimento, egli le aveva fatto un profondo inchino e le aveva baciato la mano; un altro inchino aveva fatto alla marchesina, che rispose abbassando un po' il capo e squadrandolo con rapida occhiata indagatrice. - Cilia , - disse il marchese - il barone di Pietrerase ci ha fatto l'onore di chiedere la vostra mano, ed io e la marchesa siamo stati lieti di fargli sapere che la sua richiesta vi è gradita quanto a noi. - L'onore, marchese, è tutto mio. Ringrazio la marchesina del suo benigno acconsentimento, e voglio credere che ... e voglio augurarmi che ... - Cosí parlando, cercava nelle tasche posteriori dell'abito nero qualche cosa che doveva compire la frase imbarazzata e rimasta interrotta. Ne cavò due astucci di velluto azzurro, e presentandoli alla marchesina, con aria di volgare compiacenza, soggiungeva - E voglio augurarmi che accetterà gentilmente questo piccolo segno di affetto che mio fratello il principe ed io ci permettiamo di offrirle -. La marchesina balbettò qualche parola di ringraziamento intanto che la marchesa, aperti gli astucci, ammirava il regalo e ringraziava da parte sua. - Gioie di famiglia - disse il marchese - e per ciò di maggior valore. È stato delicatissimo pensiero. - Ricordo della principessa mia madre. Il principe mio fratello è dispiacente che uno dei soliti attacchi di podagra a cui va soggetto - fa pena a vederlo soffrire, inchiodato su una poltrona, come l'ho lasciato ieri! - gli abbia impedito di accompagnarmi per conoscere personalmente la futura cognata -. E tutt'a un tratto, mutando tono, aggiungeva: - Bisogna essere allegra in casa mia, cara marchesina! Io sono sempre di buon umore. Bado ai miei affari; non m'impaccio di cose pubbliche; e non amo certi contatti con certa gente venuta su a galla al giorno di oggi. Mio fratello il principe è di parere diverso ... È però appassionato della musica, come voi; so che siete una pianista di prima forza. Mio fratello è bravo suonatore di violoncello; la principessa mia cognata canta discretamente ... Vi troverete in buona compagnia con loro ... Io ... io faccio qualcosa di piú utile; bado agli affari di casa mia, che non sono pochi ... Per la musica ho l'orecchio duro ... Stono terribilmente cantando. Non sembro della razza dei Cavanna che sono stati tutti, chi piú chi meno, musicisti. Non vi dispiacerà. Sono sincero; è meglio farsi conoscere subito per quel che si è. Con me bisogna stare sempre allegri; le barzellette mi piacciono, lecite, s'intende. Non posso patire i collitorti. «Servite Domino in laetitia», come diceva mio zio il vicario capitolare, che non volle esser vescovo per non avere troppi grattacapi. Io rassomiglio a lui ... - Pareva che, preso l'aire, non potesse fermarsi; e parlando, si stropicciava le mani, contento di sé e di quel che diceva. E non si accorgeva dell'impressione di repugnanza e di nausea che la marchesina non riusciva a nascondere, seria, impallidita un po', con le labbra lievemente contratte da un lato, e gli occhi socchiusi. Oh, si sentiva salir dal cuore una forza inattesa! Davanti a quell'uomo ella avrebbe parlato forte, dignitosamente, da vincerlo in pochi istanti, da abbatterne la sciocca vanità. Che confronto con l'«altro», col lontano, con l'amato! Tutta l'anima sua si protendeva verso l'assente, e la persona secondava il moto dell'anima, inchinando il busto, irrigidendo il collo, quasi rapita dalla visione che le sorrideva davanti. Piú tardi, poco prima di andare a pranzo, si erano trovati soli sul terrazzino del salone che guardava verso la cittaduzza sottoposta, gran mucchio di case addossato alla collina, con le punte dei campanili e le cupole delle chiese indorate dagli ultimi raggi del sole prossimo a tramontare. - Bella vista! - egli disse. La marchesina approvò con la testa. Poi cominciò: - Per scrupolo di coscienza e confidando nella vostra generosità ... - Siccome egli aveva fatto un gesto di sorpresa alle prime parole di lei, cosí la marchesina si era arrestata. - Quale scrupolo? - egli fece dopo breve pausa. - Dicono che una Santacroce deve rassegnarsi alla volontà dei parenti; mi sono rassegnata. A voi però, non posso né devo nascondere ... che il mio cuore ... - E si arrestò di nuovo a un piú vivo gesto di sorpresa del barone, che, rizzandosi su la persona, appoggiate le mani sul ferro della ringhiera, la fissava curiosamente, quasi egli non avesse capito bene ... - ... che il mio cuore non è libero, da due anni ... I miei parenti lo ignorano - riprese la marchesina. - Tutte le ragazze, alla vostra età, hanno il segreto di un amoruccio ... senza conseguenze. Grazie della confidenza. Questo intanto non influisce ... Eh, via! Se si dovesse tener conto di simili picciolezze! ... - Picciolezze? Barone, v'ingannate ... - Eh via! Io conosco la vita ... Va bene! ... Non vi affliggete per ciò. Il matrimonio è un'altra cosa. Il matrimonio scancella ben piú che un amoruccio ... di convento, mi figuro. Non c'è da avere scrupoli ... Io conosco la vita! - Dovreste fare un atto degno di voi ... Rinunziare alla mia mano; trovare una scusa, un pretesto qualunque ... - Anzi! Anzi! Questa vostra confessione, mi fa anzi capire che ho scelto bene, molto bene. Un'altra, nel vostro caso, avrebbe taciuto. Inezie! Io mi ritengo un confessore in questo momento; dimenticherò ... Non ne parliamo piú! - Rideva, si stropicciava le mani; e la marchesina lo guardava sbalordita, con un fiotto di sdegno che la soffocava e le strozzava le parole in gola. - Parliamone piuttosto - ella balbettò - mentre siamo in tempo. Ho fatto appello alla vostra lealtà, alla vostra generosità. Io, ve lo dico schiettamente, non potrò esser felice con voi. Voglio risparmiarvi l'umiliazione di un rifiuto; l'accetto, la invoco da voi. Trovate un pretesto qualunque.,. - Ma queste cose si fanno nei romanzi francesi! - egli la interruppe - La gente riderebbe di voi e di me, se mai arrivasse a sapere ... - Nessuno saprà niente. Sarà un segreto tra noi due ... Come potrete sposarmi, ora che conoscete che il mio cuore appartiene a un altro? - Eh, via, marchesina! Parlate sul serio? - Come se fossi in punto di morte! - ella rispose. - Ho detto cosí non perché io dubiti della vostra sincerità, ma perché i vostri scrupoli, scusate, mi sembrano puerili. Voi siete inesperta. Siete vissuta in convento fino a diciotto anni. La vostra casa è peggio di un convento ... Io non sono d'accordo col principe mio fratello, che ... liberaleggia; ma non approvo neppure il marchese vostro padre che si è chiuso in questo palazzo come in una prigione ... Io batto la via di mezzo. In casa mia si prende il mondo com'è; tanto, il mondo va senza di noi; è inutile affannarsi per esso. Dobbiamo badare ai fatti nostri. Chi ha tempo da perdere ... Io non ne ho, e voglio vivere tranquillo, come mio zio il vicario capitolare che rinunziò di esser vescovo ... Vescovo di casa mia, sí ... Ho pensato sempre cosí. Penserete cosí anche voi, perché il matrimonio accomuna ... E gli amorucci ... di convento, svaniscono presto ... Avrete altro a cui badare quando sarete baronessa di Pietrerase! - Ma voi mi giudicate male ... - Vi giudico benissimo. Lasciate fare a me. Se il vostro amoruccio fosse una cosa seria, già sarebbe un matrimonio, o un principio di matrimonio; non avreste avuto ritegno di confessarlo ai vostri parenti ... Uno studentucolo, mi figuro! Ah! Ah! Vi ammiro, per l'ingenuità ... Vapori! Nebbia! Un soffio di vento porta via ogni cosa! E poi, e poi ... farei una bella figura presso il marchese vostro padre e presso la marchesa! E perché? Per una fisima! Se ne aveste parlato a vostra madre, l'avreste veduta sorridere, vi avrebbe risposto come me: Non c'è d'avere scrupoli, figlia mia! ... Zitta! Eccola ... Per me è come se non sapessi niente. E non ve ne riparlerò mai; contate su la mia parola -. Quasi le fosse cascato un macigno addosso! Quasi tutto quel rosso che tingeva cupamente il cielo là di faccia fosse stato il sangue del suo cuore sgorgato dalla ferita ch'ella si sentiva fatta dalla barbara mano del barone! ... - Fa un po' fresco; sei pallida - le disse la marchesa. - Bella vista! - esclamò il barone, per rompere il silenzio. - I polmoni si dilatano nel respirare tant'aria. - Non abbiamo altro qui - rispose la marchesa. La marchesina trambasciava e sfuggiva gli sguardi di sua madre che sembrava volessero interrogarla. Aveva perduto ogni ardire, ogni forza. Era inutile ribellarsi contro il destino. Si vedeva già in balia di quell'uomo che si accarezzava stupidamente le fedine, che appariva pago di sé per la risposta data a lei poco prima, quasi assaporasse la vittoria, poiché sorrideva senza nessun motivo, mentre tutti e tre tacevano e anche la marchesa sembrava assorta da qualche dolorosa riflessione. - Ho avuto torto di non confidarmi con mammà! - pensava la marchesina. - Ma ormai ... è troppo tardi! ... - A tavola, il barone avea parlato per dieci. Don Paolo Forti, unico commensale estraneo alla famiglia, si era creduto in obbligo di applaudire, ridendo, le volgari spiritosità del futuro marito della marchesina. Certamente essa non aveva ancora avuto l'occasione di parlargli da solo a solo, altrimenti il barone non sarebbe stato di umore cosí allegro - pensava don Paolo. - Ma pensava anche che i signori sogliono prendere le cose in modo diverso dagli altri. Poteva darsi benissimo che quell'allegria fosse finta, per mascherare la sconfitta. - Cappellano, siete di poco appetito oggi! - Ah, signor barone! La mia tavola ordinaria non va piú in là di due pietanze alla buona. - Ma quando capita ... - Lo stomaco ha le sue abitudini. - Io non ho preferenze né repugnanze in fatto di mangiare. In campagna mangio anche pane e cipolla come i contadini, se occorre. «T'invidio» mi dice sempre il principe mio fratello. Lui, con la podagra, deve privarsi di questo, di quello; non sa piú che cosa mangiare. Stomaco di ferro ci vuole. Io digerirei anche i ciottoli, come gli struzzi. La marchesina non dovrà impazzire per la mia tavola. - Dovrà pensarci il maestro di casa o il cuoco - disse la marchesa con lieve punta di ironia. - Certamente; ma le redini della casa - è tradizionale nella famiglia Cavanna - stanno in mano della padrona. La principessa mia cognata bada a tutto, ha occhio per tutto; una vera massaia. Se non si fa cosí, specialmente oggi che l'Italia ci scortica, anche le piú solide famiglie vanno giú -. Il marchese scosse la testa, confermando. Durante il pranzo, la marchesina Cilia aveva detto poche parole. Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

ARABELLA

663054
De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Scarmigliata, cogli occhi distrutti e infossati, essa era più forte di lui, gli graffiava il viso, lo copriva di oltraggi volgari, finché rotta e sfinita in tutte le ossa, ricadeva in un profondo abbattimento. Lorenzo, posando la testa sul suo guanciale, piangeva come un bambino. Gli altri in casa non eran più gente. Eran morti in piedi. Si chiamò con telegramma lo zio Demetrio, che aspettava d'essere invitato a battesimo. Durante quei tre o quattro giorni la poverina rivisse in sogno delirando ora coi vivi, ora coi morti, finché le rimase un'oncia di forza. Rivide la sua bella mamma ancor giovane andare alle feste con un vestito celeste orlato di un pizzo doré. Vide se stessa ancor fanciulletta in mezzo a' suoi fratellini, mentre frullava il sabaglione in una piccola cazzeruola lucente. Mario, Naldo e il piccolo Bertino, bello e biondo come un angelo, ridevano a veder la spuma gialla e profumata traboccare dall'orlo; e la malata rideva anche lei d'una gioia intera e traboccante, immaginando che quella spuma gialla e profonda montasse a ondate ad avvolgerla. Quindi usciva la sensazione della prima comunione, colla vista della chiesa lunga, chiara, tutta fiori e pizzi bianchi; ma non capiva perché Ferruccio fosse andato a porsi in mezzo alle ragazze. Che c'entrava lui colle ragazze? e perché tutti lo carezzavano con tanta tenerezza. Essa ne provava un'invidia amara, correva a strapparlo via, gridava: "È mio". Se non che altri fantasmi la conducevano a visitare le cameruccie sotto i tetti, dove abitava una volta lo zio Demetrio, un uomo buono come un santo, che aveva molte gabbie di canarini, che cantavano a stordire, svolazzando liberi intorno. Entrando nelle stanzuccie, ne vide più di cento volarle addosso, belli, vispi, bianchi e gialli posarsi sulle spalle, sulla testa, sul braccio. Se la pigliavano in mezzo, la portavano via, in alto in alto, in un volo delizioso, verso il campanile di Cremenno, che si disegnava sullo sfondo azzurro del cielo... E in questa felicità la poverina finiva di patire.

Molti fatti nuovi e imprevisti erano intervenuti a mutare il suo sentimento, a scuoterla da uno stato di abbattimento e d'inerzia morale, che non di rado è così comodo confondere coll'umiltà e colla rassegnazione. La lettera di don Felice (persona degna d'ogni fede) era stata per lei come la chiave di molte cose misteriose, che prima non sapeva spiegare, una fiaccola che, se non rischiara tutti gli angoli di un brutto sotterraneo, è abbastanza per mostrare l'orrore del sito e per non invogliare a rimanervi di più. Man mano che le forze fisiche tornavano e che essa ripigliava le sue abitudini nella bella casa fresca e nuova, presa da un senso di abbandono, quasi di squilibrio nel corpo, cresceva in lei il dubbio, se poteva rimanere senza rimorso e senza vergogna a godere della sua agiatezza, acconciarsi, come scriveva don Felice, alla sua parte di complice inerte e soddisfatta dell'ingiustizia, continuando a godere i frutti d'una ricchezza, per la quale aveva perduto il frutto più caro del suo sacrificio, per la quale aveva quasi bussato all'uscio della morte. Se Dio non l'aveva voluta di là, questo era un segno che il suo dovere non era ancora tutto compiuto. Ma il suo dovere, oggi, non poteva più essere, come ieri, semplicemente d'obbedire e tacere. Il suo dovere era di combattere, forse più per gli altri che per sé. Segretamente scrisse a don Felice chiedendo qualche schiarimento e dei consigli. L'Augusta portava e riportava le lettere. Non chiesta e non desiderata, arrivò anche una lettera della zia Sidonia, che scusavasi di non venire ad abbracciare la nipote come avrebbe desiderato il suo cuore. La compassionava mostrando di separare la causa di Arabella da quella di suo suocero, uomo indegno del nome di fratello, che come aveva speculato sulla bontà dei signori Botta, costringendo un povero angiolino a sposare un uomo indegno del nome di marito, così sperava di speculare sulla dabbenaggine dei parenti, confiscando un'eredità carpita colla frode e col tradimento. E come se queste scosse non bastassero, si aggiunsero altre noie da parte della mamma. Questa benedetta donna si era fissa in mente che Arabella avesse i sacchi dell'oro in casa e che il matrimonio era stato fatto principalmente per aggiustare gli strappi, per rabberciare i buchi, per provvedere a tutti i bisogni della famiglia. È vero che il signor Tognino aveva dato di frego a un grosso debito, ma i bisogni erano più grossi. All'avvicinarsi della Pasqua scadeva una rata d'affitto, e i fieni erano in ribasso, le bestie valevan nulla e il povero papà Paolino, uomo in croce, non sapeva a che santo votarsi. La promessa che aveva fatto il signor Tognino di interessarlo nell'azienda di San Donato non aveva ancora portato a nulla, perché la guerra dei parenti e gli intrighi di una causa imprevista tenevano le cose sospese. Arabella, a sentir la mamma, avrebbe potuto o dovuto fare di più. Suo suocero aveva della bontà per lei, non le diceva mai di no, e se la ragazza avesse fatto presente lo stato della famiglia che cosa erano due o tre mila lire per un uomo quasi milionario? Una volta la buona donna disse tanto, che persuase suo marito a venire a Milano a discorrere personalmente colla figliuola. Papà Paolino venne, ma trovò Arabella così pallida, così malinconica, con un'aria così poco felice, che dopo aver girato e rigirato un pezzo di cappello nelle mani e masticato dei discorsi vaghi, se ne tornò via senza dir nulla, con un velo sugli occhi. La mamma pensò allora di ricorrere a qualche ambasciatore più coraggioso e più eloquente. Che cosa non avrebbe fatto la povera donna per il bene della sua famiglia? La malata cominciava a uscir dal letto. Suo suocero, sempre attento e premuroso, aveva pensato a farle regalare da Lorenzo una ricca vestaglia di lana, tutta bianca, con dei risvolti di seta celeste e badava attentamente che le stanze fossero ben riscaldate e che quello zoticone non portasse in casa il puzzo del tabacco e del cognac. Più volte, combattuta tra il sì e il no, essa fu sul punto d'approfittare di queste buone disposizioni di suo suocero per consegnargli la lettera di don Felice; ma ebbe paura sempre di far peggio, d'irritare il vecchio, di chiudersi la via a comprendere il resto. Un giorno, in principio di quaresima, sedeva nella sua poltrona davanti al caminetto, ancor debole e svogliata, quando l'Augusta venne ad annunciare la visita di un uomo di campagna e d'un ragazzetto. Entrò il Pirello della Cascine, con un cesto sul braccio, in compagnia di Naldo, che aveva una lettera della mamma. Erano i soliti rimproveri. Nel suo stile blando e lagrimoso, la mamma finiva coll'accusarla d'ingratitudine e di cattivo cuore. Se non voleva procurare le due mila lire, consegnasse almeno duecento lire subito in mano del Pirello: o preferiva esporre sua madre e il suo benefattore al disonore di un sequestro? Le facce contrite del vecchio contadino e del ragazzetto facevano un muto commento alla lettera. Arabella, colta in un momento di malinconia nervosa, contrastata, offesa nelle sue intenzioni e ne' suoi pensieri, accasciata da un rancore che non trovava in nessuna parte compatimento, invece di interrogare quei muti ambasciatori di tristezza, cominciò a piangere come forse non piangeva da un pezzo, come forse non piangeva più dai giorni della sua fanciullezza; era un pianto che da tre o quattro mesi andava via via addensandosi nel suo cuore. Naldo, ammaestrato dalla mamma, si accostò alla sorella, e carezzandola, le disse con una vocina di pitocchetto: "Fallo in memoria del nostro povero papà, Ara..." Il Pirello, spremendo anche lui due lagrime di compassione colla cantilena propria dei villani furbi, che cercano d'intenerire un padrone in buona fede, entrò a dire: "Fa proprio pietà ai sassi, povero sor padrone! Domani deve pagare una bestia, e il mediatore ha detto che se non ha i denari sequestra il latte e il formaggio cosa che, oltre il dispiacere, è una malora in questa stagione. Se ci fosse il fieno alto, pazienza, ma la Merica seguita a mandar giù roba, che oggi come oggi, vale di più, con poco rispetto parlando, quel che si mette sul prato, che non quel che si raccoglie. Povero padrone! con quel cuore che darebbe via anche la camicia, è proprio tribolato." Naldo, vestito di pochi panni mal lavati, col peggior paio delle sue scarpe sui piedi, andava ripetendo colla nenia imparata: "Fallo per il nostro povero papà, Ara." Arabella con una piccola scossa di donna irritata lo fece tacere; ma pentita del suo mal garbo se lo strinse subito al cuore, lo baciò sulla fronte, gli accomodò il colletto e la cravatta, mentre contemplava nei lineamenti delicati e signorili del povero ragazzo una sembianza che si allontanava sempre più dalla sua memoria, quasi ottenebrata da una nebbia di nuovi dolori. "Darò quel che potrò" disse alzandosi, e passò nella camera da letto. Essa non aveva denari, perché suo suocero amava tener lui i conti della casa; ma pensò che avrebbe potuto disporre liberamente, senza rimorso, di una bella fornitura di corallo, unico avanzo salvato e ricuperato dallo zio Demetrio dal naufragio di casa Pianelli. Questo astuccio era la sola ricchezza che aveva ereditata da suo padre, la sola dote che aveva portato andando sposa. Di questo piccolo tesoro, che per la sua antichità e per il lavoro artistico poteva valere un prezzo, come si dice, di capriccio, essa poteva liberarsene senza correre il pericolo di dar via roba non sua, e poiché l'accusavano d'ingratitudine e di cattivo cuore voleva dimostrare a' suoi che dava quanto aveva di più caro e di più geloso. Aprì il cassetto dove teneva le sue robe più fine, e tra i pizzi e le garze cercò il vecchio astuccio verde dagli orli consumati; ma non ve lo trovò più. Turbata da quel senso di penosa meraviglia che ci assale in questi casi, quando non si osa sospettare della gente che ne sta intorno e non ci si rassegna a credere agli occhi propri, rimandò le sue ricerche a più tardi, raccolse invece due o tre anelli d'oro in uno scatolino, anche questi memorie del passato, vi aggiunse la medaglia d'argento degli esami, e consegnò tutto a Naldo, con un biglietto per la mamma. "Credo che questi oggetti basteranno per ora a impedire un sequestro" disse al Pirello. "Domani manderò altre cose, se sarà necessario..." E, quando furono partiti, tornò col batticuore a cercare il suo vecchio astuccio verde; aprì tutti i cassetti, buttò in aria ogni cosa. L'Augusta, una buona ragazzona friulana, che nei pochi mesi del suo servizio aveva imparato a voler bene alla padrona, la sorprese nel momento che, affaticata, cogli occhi riarsi dalle lagrime non asciugate, tentava inutilmente di rimettere i cassetti a posto. Arabella non poté nascondere il motivo delle sue lagrime. Oltre il bene che la padroncina sapeva acquistarsi colla sua bontà, c'era per l'Augusta un'altra ragione fondamentale che la spingeva a proteggere la sua siora : ed era l'odio accanito che quel pezzo di friulana portava ai siori omeni Questi dovevano avergliene fatta una grossa al suo paese, da dove era quasi fuggita, una grossa a cui non accennava che con frasi e con pugni in aria, ma che non avrebbe dimenticato più, come non si dimentica più un male irreparabile. Nei pochi mesi che serviva in casa Maccagno aveva avuto campo d'osservare che gli omini ominisono malignazi , birboni, egoisti anche a Milano come al suo paese, forse come dappertutto, tranne forse quel povero putelo che scriveva nel mezà , con quegli ocioni neri e grandi come parioli e con quei riccioloni che facevan vogia a vederli. L'Augusta non avrebbe voluto fare la spia, perché non era nata per questo mestiere; ma la siora poteva sospettare di lei e la verità è sacrosanta come la messa cantata. Dopo aver tentennato un pezzo la testa, come se pesasse il pro e il contro, incrociate le braccia al petto, disse inchinandosi verso la padrona, che non cessava mai dal rimestare nei cassetti: " So mi dove che 'l xe sto astucio ". "Parla, dunque." " L'ho visto in te la camera del sior ." Avvertita da un pronto consiglio di prudenza e messa in guardia contro le insidie, Arabella ebbe la virtù di reprimere un senso di stupore e d'irritazione, mostrando di prendere la cosa naturalmente. Mandò l'Augusta fuori di casa con un pretesto, e corse a far nuove ricerche nella stanza di Lorenzo. Era la prima volta, dopo la grave malattia, che osava porre il piede nello studio del signor agente di cambio, trasformato in poco tempo in una specie d'antro o di covile, tanto era il disordine e lo scompiglio della roba. Il caminetto, il tavolino, il letto, erano più che ingombri, sepolti dalle cose più disparate, messe là, buttate là, e dimenticate; stivali, bottiglie di liquori, scatolette, cartuccie, pistole, morsi di cavallo, pipe e giornali illustrati e il tutto condito di quell'acredine speciale che manda il tabacco trinciato di seconda qualità, delizia e ristoro dei cacciatori di forza. Arabella, superata l'afa e la ripugnanza, cominciò a cercare con febbrile impazienza il suo astuccio verde. Che cosa l'aveva persuasa a credere così subito alle indicazioni di una donna di servizio? Non era in istato di rispondere, ma sentiva quasi che la spiegazione data dall'Augusta non poteva essere più vera e più naturale. Cominciò a cercare cogli occhi intorno, sui tavolini e sulle sedie, e non trovando quel che le stava a cuore di trovare, provò ad aprire qualche cassetto della scrivania, colla mano tremante di una doppia emozione, tra il desiderio di ritrovare un oggetto caro e il timore di scoprire qualche cosa di più triste e di più penoso. Durante la lunga malattia di sua moglie, Lorenzo, abbandonato a se stesso, precipitò nelle vecchie abitudini, da cui non era uscito se non come un soldato ubriaco, che fa degli sforzi enormi per star diritto innanzi al caporale. Ogni cosa intorno a lui parlava di un uomo incapace di un pensiero d'ordine e di un'elevata aspirazione. Arabella si arrestò un minuto a contemplare quel gran disordine con un senso di scoraggiamento. La vista di un vecchio mazzo di carte, abbandonato sul camino, richiamò ciò che più volte si era presentato al suo pensiero, vale a dire la possibilità che Lorenzo fosse tornato al vizio di prima. Il giuoco è una passione terribile, che non perdona, secondo essa aveva udito dire: e forse la sua bella fornitura di vecchio corallo era andata a pagare un nuovo debito... La mente correva ancora dietro a questi presentimenti quando, in un cassettino a destra, la mano, frugando, cadde sull'astuccio. Fu un attimo di gioia; un attimo. L'astuccio era vuoto. Vuoto! - Questa parola rimbombò nella testa per un istante e rese ottusi i suoi sensi. La prima idea fu di parlarne a suo suocero, che rappresentava il giudice della casa; ma un secondo riflesso fece presente quel che la gente diceva e scriveva anche di lui. Qual giudice? Essa era in mano ai ladri... Questa volgarità di parola scattò, quasi con dispetto, dal fondo amareggiato della sua coscienza, l'avvilì, come se per la prima volta sentisse e vedesse la volgarità della sua casa insudiciare la dignità di una donna onesta. Era una casa di ladri! Come pretendere che questi ladri restituissero la roba sua? che cosa scrivere allo zio Demetrio, che a riscattare quel tesoro di famiglia aveva consacrato tutti i risparmi di una vita sobria e solitaria? E un vagabondo gliel'aveva carpito, approfittando d'un istante di delirio o di debolezza, forse penetrando di notte, come un ladro volgare, nella sua camera... C'era ben motivo di piangere; ma con suo stupore gli occhi non davan lagrime: qualche cosa di forte e di ribelle vi si opponeva. Dai cassettini uscirono dei vecchi ritratti di donne. Eran le antiche simpatie di suo marito, il suo genere, come soleva esprimersi egli stesso, parlando delle avventure galanti degli amici. Eran forse le memorie non distrutte di un passato allegro, forse non dimenticato, forse rimpianto... chi sa? forse ricercato. Anche quelle care creature dalle gonnelle corte, dalle pose arrischiate avevano preso col tempo una forte tinta di tabacco. Le buttò via con schifo. Essa non poteva essere gelosa di questo passato, per quanto ripugni a una donna onesta di vedere attraverso a quali viottoli suo marito è arrivato fino a lei. C'era anche un libro in quel tritume di carta che rappresentava gli affari del signor agente di cambio, un logoro romanzo tradotto, dalla copertina gialla, che portava scritto in un angolo un nome di donna. E dal libro uscì un ritratto, lucido e fresco, che pareva fatto ieri. Era una donna non molto giovine ma di una bellezza maestosa e teatrale. Mentre la moglie onesta sforzavasi di trovare dei sensi logici nella torbida violenza da cui fu assalita, il suono di un passo, e uno sbattere di usci nella stanza vicina, la strappò repentinamente al suo dolore. Richiuse i cassetti, dopo avere deposto il libro, ma nascose l'astuccio e il ritratto nell'ampia manica della vestaglia. Si sforzò di alzarsi, ma non poté, come se a un tratto le venisse meno la forza nelle gambe. Coi gomiti appoggiati alla scrivania, strinse nelle mani la testa che mandava vampe di fuoco, mentre un brivido le corse per tutto il corpo, le parve che tornasse la febbre terribile dei primi giorni. Lasciò passare una lunga visione di mali, come un ingenuo che giunto alla riva di un gran fiume si ferma ad aspettare che l'acqua passi tutta, prima di tentare il guado. Quando la prima tempesta fu alquanto sedata, trovò che in fondo al suo cuore non c'era soltanto del dolore... Non avrebbe osato sperare di trovarci tanto orgoglio! Ed era un orgoglio amaro ed aspro, che dava un vigore insolito alla sua natura, come certe medicine ripugnanti al palato che rinforzano la fibra. Se non le fosse sembrato un assurdo, avrebbe osato dire che dal mezzo di questo suo dolore scaturiva una vena di acre piacere, o, se piacere è dir troppo, di soddisfazione selvaggia, qualche cosa insomma di ancora indecifrabile, che si sarebbe potuto paragonare al sentimento che prova una schiava affranta dalle verghe quando vede il furore del suo padrone scagliarsi su un altro corpo ignudo. Quando aveva essa amato codesto suo padrone, perché dovesse fargli l'onore d'essere gelosa? E perché avrebbe odiata a morte la donna che, frammettendosi, qualche poco glielo contrastava? Era sorpresa di sentirsi così calma e così ragionevole davanti al testimonio della sua umiliazione; ma capì ben presto che da quell'uomo non poteva venire a lei nessuna umiliazione, che quella donna poteva aver nome anche liberazione. L'enorme mare di ribrezzo, che l'anima e il corpo avevano assaporato a goccia a goccia in quattro mesi di matrimonio, soverchiava già i limiti della sua pazienza e del suo dovere. Qualcuno finalmente gettava una fune alla vittima vicina ad affogare. Prese con sé il ritratto di Olimpia come un documento, e pensò di chiedere alla zia Sidonia, già così disposta a compatirla, delle spiegazioni che la buona zia era smaniosa di dare colla speranza di avere nella nipotina una forte alleata nella gran guerra che i parenti e gli offesi facevano ai Maccagno. Per alcuni giorni non si mostrò diversa in casa; anzi cercò di essere lieta e disinvolta. Guardandosi nello specchio si trovò per la prima volta meno pallida. Anche la voce, se doveva giudicare da ciò che ne sentiva, aveva acquistato un tono più vibrato e sicuro. Qualche cosa di forte e d'individuale nasceva in lei. Forse la monachella di Cremenno aveva finito di patire... Dio, la ragione, la giustizia, l'opinione pubblica erano con lei e per lei. Ecco perché, quando l'Augusta venne ad annunciare in ora così insolita che Ferruccio desiderava parlarle, corse in sala, col passo ardito di chi si muove al primo segnale della battaglia.

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

sí, era questa che moriva in quel profondo abbattimento di tutte le forze, in quella crisi nervosa di malinconia. Ora che l'idillio della sua vita era finito e che il lume dell'ultima illusione erasi spento come un razzo nelle tenebre, non gli rimaneva che di morire. Morire! — questa brutta parola risonò come un fischio nelle sue orecchie attutite dal male. — Gesú di misericordia! che idea gli passava ora per il capo? anche a lui, anche a lui lo spettro della morte doveva presentarsi come una liberazione? che avesse perduta veramente ogni fede nelle cose di questo e dell'altro mondo? che Dio e la sua mamma lo avessero proprio abbandonato del tutto? Ah Cesarino! Spalancò gli occhi per bere la luce del giorno e per liberarsi da quel tremendo incubo che lo trascinava a rivedere suo fratello disteso sotto una stuoia fra le ruote d'una carrozza: e gli occhi andarono a posarsi sopra la tazza di vetro, in cui Arabella aveva collocate le belle rose di maggio. Fisso in quei fiori lasciò che le lagrime colassero un gran pezzo in silenzio, come se dentro di lui si sciogliesse veramente qualche cosa di duro e di irrigidito.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Il pover'uomo non trovò nel suo abbattimento la forza di risvegliare nemmeno quella gran bontà, che aveva sempre sonnecchiato in lui. E cosí, dopo aver tanto cercata la pace in vita sua, moriva in una mezza collera cogli uomini e con sé stesso, benedetto dal buon canonico Ostinelli, che accettò di esprimere (la buon'anima gli perdoni) in una sua iscrizione alla buona, tutte le belle qualità che ornavano il suo spirito e che non impedirono a un Magnenzio di Villalta d'essere quasi un uomo inutile. Giacinto, chiamato in fretta al letto di morte, partiva, subito dopo la disgrazia, per l'Africa, mentre già cominciavano a venire di là grosse notizie di guerra. Intanto gli affari delle fornaci si rialzavano colla mediazione dello zio prete e sotto gli auspici di una solida ditta bergamasca, che, rilevando i crediti del signore della Rivalta, assicurò pane e lavoro a Battista ed Angiolino, e permise alla mamma Santina di continuare a bere il suo caffè nel seggiolone del pà. Anche il matrimonio della Lisa fu definitivamente conchiuso; e cosí fu dimostrato quel che don Angelo Lanzavecchia non cessa mai di ripetere, cioè che le cose del mondo, come le noci, si accomodano da sé nel paniere tanto piú presto quanto maggiori sono le scosse del viaggio. E speriamo che in quest'opinione torni anche il sor Francesco, l'oste della Fraschetta, se, come si dice, per intercessione della contessa e di Monsignore, i giudici vorranno usargli dell'indulgenza. Fu un gran sussurro quel giorno che i carabinieri si presentarono all'uscio dell'osteria, non per bere il solito vin bianco, ma con un mandato di cattura! Si parlava d'un complotto ordito tra lui e non so quali vagabondi per cavar denari al conte Lorenzo colla minaccia di scandalose rivelazioni. Si volle che la letteradel famoso Galiasso fosse stata scritta coll'inchiostro lungo dell'osteria; ma non si è potuto dimostrare. E, siccome ciò che non si può dimostrare non ha nessun dovere d'essere vero, cosí possiamo sperare che il buon Francesco esca dall'intrigo e torni presto a fabbricare il suo vino, magari anche coll'uva.

. - Portalo via, non mi va giú - disse restituendo la scodella, con una mesta espressione di abbattimento. - Guasterei anche quella poca colazione delle undici e mezzo. Lasciami vedere ancora una volta quegli scarabocchi. Altro che! si precipita maledettamente, si precipita! - Non ci pensi piú. Vedrò io il signor Riboni - disse Fabrizio, facendo scomparire il foglio nella pettorina del suo grembiale di servizio. - Vedete se con una cinquantina di lire si può mandare in pace un povero affamato. - Se lei comincia a dare, non si salva piú. Queste lettere è meglio fingere di non averle ricevute, o si consegnano al questore. - Guardatevi bene dal metter in mezzo la polizia! non voglio gendarmi in casa. Ve lo comando! - gridò, alzandosi quanto era lunga la sua piccola persona, lasciando cadere un gran pugno sul "Dizionario dei sinonimi". - Non voglio intrighi, deposizioni, arresti, diavolerie di questo genere, né per tre mila né per sei mila, né per dieci mila. Avete capito? comando io! - Mai la paura d'un uomo aveva parlato con piú coraggio. Fabrizio finse acconciarsi e disse: - Come vuole, signor conte. Del resto, creda pure, che quando non si dà nulla e non si ha nulla a temere, queste lettere son buone per la stufa. - E soprattutto si badi a non far saper nulla ai giornali. Non voglio pettegolezzi. Come si semina si raccoglie! brontolò parlando con sé stesso - Per certa gente è già una grande colpa il nascere bene. Come se avessi domandato io al padre creatore di farmi nascere dal grembo d'una nobile Magnenzio. Si precipita . Fabrizio lasciò il conte in preda alle sue smanie piagnucolose, e corse a far leggere la lettera alla contessa, perché fosse avvertita in tempo di questa nuova minaccia. Donna Cristina aveva ricevuto alcuni giorni prima la lettera di Giacomo e in seguito a una nuova visita di don Angelo cominciava appena a veder un po' di lume in mezzo a quella spaventosa oscurità, in cui si dibatteva da cinque mesi. La bontà di Giacomo l'aveva commossa. Seguendo l'ispirazione del cuore riconoscente, stava preparando una lettera di conforto al generoso amico, che non rifiutava d'essere suo alleato nell'opera di riparazione, mentre gli sarebbe stato cosí facile vendicarsi colla rovina di tutti. Il cuore della donna, della madre, della cristiana, ravvivato da un raggio di speranza, insieme alla riconoscenza, sentiva un ardore insolito di bene, quasi un desiderio di emulazione in questa gara di sacrificio, e andava pensando quel che poteva restituire di bene al mondo in compenso di tanto male e quale soddisfazione, degna di sé e dell'uomo, potesse offrire al giovine avvilito e trafitto nei sentimenti piú sacri. "Io non so scrivere" gli diceva "e mi manca l'arte di esprimere tutta la pietà, che ho provato e che riprovo leggendo la vostra lettera. Non al professore, non all'uomo dotto, ma immagino dunque di scrivere a quel giovinetto Giacomo, che in altri tempi frequentava la mia casa e al quale non mi pento ancora d'aver dato un forte consiglio. È invocando questa mia benevolenza quasi materna, che vi parlo come da amica ad amico, da donna che ha salito il Calvario ad uomo che ha salita la croce, nella fratellanza dei comuni dolori. Conforti materiali, riparazioni degne di voi non potremo darvene. Indegna io stessa d'ogni consolazione, sarei quasi spregevole, se volessi offrirne a voi; tanto meno ho consigli a darvi. Vi dico soltanto questo: che prego per voi colla stessa anima con cui prego pe' miei figli, nella fiducia che Dio, che ha la mano miracolosa, voglia versare nelle vostre piaghe l'unico balsamo che può col tempo ristabilire le forze perdute. Lasciatemi almeno l'illusione, povero Giacomo, che io non prego, no, per il riposo d'un morto, ma per la pace di un vivo. Davanti ai mali irreparabili l'uomo forte ha sempre un rifugio nell'idea che non vi è cosí gran male che non possa essere superato da una piú grande speranza. I mali vengono piú dalla fatalità che non dalla cattiva volontà degli uomini; ma l'idea del bene vien tutta da noi. Io ho troppa stima della forza del vostro cuore, per non sperare che chi ha scritto qualche pagina virtuosa e sublime non sappia arrivare col cuore fin là dove un giorno è volato col pensiero. Spero che in molti istanti, cosí piagato come siete, abbiate a sentire la santità e la dignità della natura umana ingrandita in voi. "Il fuoco raffina i nobili metalli. Il dolore ha scoperto e messo a nudo molta parte di voi, ch'era prima ignota a voi stesso e che, senza queste scosse, sarebbe rimasta per sempre sepolta. Non dite dunque come un povero merciaio alla vigilia del suo fallimento, che la vostra vita è finita. Provate a chiedervi una volta se per caso una vita nuova non stia per cominciare per voi. Che voi abbiate gettato alle fiamme il manoscritto in cui, come dite, eran raccolte le illusioni della vostra giovinezza, non mi fa pena, come pare che infondo faccia a voi. A me basta che non abbiate abbruciata la vostra fede. Purché la fiamma salga al cielo, poco importa che abbruci l'altare. Provate a cercare nella cenere e ritroverete il vostro diamante. Per quanto grande possa essere il vostro sacrificio, i meriti che acquistate agli occhi di Dio e a quelli della vostra coscienza sono tali che non potranno produrre col tempo che un gran bene. Voi siete giovine e dovete conservare intatte le vostre idealità. Seguitate a studiare. Noi abbiamo bisogno di chi sostenga la fede nella virtú. I nostri figli, lo vedete, non credono piú all'affetto delle madri, e quelli stessi, che dovrebbero combattere in prima fila per l'onore, sono i primi a imbrattarsi di fango. Voi potrete fare del bene, non solo coll'ingegno che Dio vi ha dato, ma anche coll'esperienza che vi siete acquistata. Nessun privilegio nobilita tanto l'anima nostra quanto la coscienza di aver molto sofferto ." A questo punto era arrivata e stava quasi per chiudere la lettera nella quale il suo cuore, nella felice improvvisazione del sentimento, si esaltava della misteriosa dolcezza che hanno le umane consolazioni, quando Fabrizio con un passo sospettoso entrò a farle vedere la scarabocchiata lettera, che aveva tanto spaventato il povero conte. Essa, che quasi s'illudeva di toccare il porto, trasalí a questo nuovo inaspettato assalto. Quel mondo geloso e avaro nelle sue pretensioni, a cui aveva sperato di sfuggire, dava segno di risvegliarsi e già si presentava all'uscio come un esoso creditore. I debiti del male voglion essere scontati e pagati; l'esattore era qui. Pallida, tremante, nascose il lurido scarabocchio tra le carte profumate dello stipetto. - Non dite al conte che mi avete fatta vedere questa lettera: cercherò di parlare col Prefetto. Non parlatene con nessuno. Ah mio Dio, non abbiamo finito!

La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 1 occorrenze

… Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perché dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perché era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per la via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male! Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla – ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza… Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perché tutto fosse detto?… Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poiché il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi in quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii. In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri, voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi… Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta… E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: "Perché sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?…". Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sottacqua risale rapido a galla appena abbandonato a sé stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, mi abbandonai ad esso, interamente. Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su di me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?… Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste… Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: "Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permetterete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera…". Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perché quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perché il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio – ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta – forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!… Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca – perché vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto, ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece… se invece… Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’avea fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi… Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: "Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me… Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia…". Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!… Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: "Grazie! Nessuna attenzione commuove, quanto quella che meno si prevede perché meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli di un tempo, anche perché come quelli di un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni, disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei". Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perché avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: "Un’attenzione che si sa di non meritare… i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo… non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire… un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni… se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica…". Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva. "Tornate!", ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?… Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: "Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo…".

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 2 occorrenze

Unici rimasti ritti nel generale abbattimento Svembaldo e Gilda perché avevano tenuto fede al proprio amore; Spirito e Lorenzina, perché questa imperterrita aveva perdonato ad un amore alieno del marito ed aveva ricondotto lui alla fede coniugale. Di vero il barone ing.re Svembaldo Svolazzini ha la più alta e meritata fortuna con la costruzione delle locomotive a vapore e dei vagoni ferroviarii, rendendone l'industria nazionale quasi sovrana, mentre prima era tributaria omninamente all'estero. Il barone Svembaldo figlio è già succeduto al barone Rollone padre nel Senato del Regno. La giovine baronessa, leggendo una gentile novella di Nino Pettinati, concepì il gentile pensiero, che suo marito designasse e facesse costruire per la vecchia baronessa madre emiplegica un vagone appositamente imbottito e adobbato ... quasi su misura. Ora la austera semiparalitica ancora desiosa di mobilitazione se ne serve quasi a delizia, facendosi trasportare dalla villa di San Gerolamo alle Officine di San Pier d'Arena, e a Roma per i ricevimenti Vaticani e per le Sedute Reali del Parlamento e dei Lincei. Onde la vecchia già orgogliosa ed inesorabile ora benedice teneramente al figlio e alla nuora. Il professore Spirito Losati già vide celebrarsi il proprio giubileo cattedratico con targa, medaglione, medaglietta, pergamena, album di autografi illustri e di sottoscrizioni popolari, banchetto e marcia musicale espressamente per lui composta dal compositore Maestro organista Massimo Bonario. Si dice pure prossima la sua chiamata all'alto ed augusto consesso dei Senatori. La consorte del cattedratico, anziché ampliarsi come una cattedrale, si rimpiccolisce e si mostra umile in tanta gloria ed accarezza con un profumo di santa massaia operosa il marito, i figli, non che il vecchio papaloto , macellaio emerito. Quindi conclusione indeclinabile: principale, se non unica, felicità sulla terra è l'amore reso divino ossia congiunto ai doveri e senza capricci. Ed egli Gioiazza? Egli, che predica così bene, razzola forse male? Facendo uno spregiudicato esame di coscienza, egli crede di avere adottato questo programma, questa filosofia della vita: essere sempre tollerante, e possibilmente irreprensibile, tenendo fermi i seguenti capisaldi: onore, dovere, riconoscenza, proporzionalità, e sopratutto amore; per la proporzionalità trattare le pie monache come pie monache e non come dissolute sgualdrine; trattare le dissolute sgualdrine come dissolute sgualdrine e non come pie monache, e così nel termini medi restare equanimi; per l'amore massimamente del prossimo, fare tutto il bene che si può, non fare mai del male a nessuno, non fare mai ingiustamente soffrire alcuna creatura ... * Ma, dico, padre Zappata, che predica così bene, praticamente come razzola ... ? L'avvocato Ilarione Gioiazza, nel difendere la sua condotta davanti se stesso, ha l'ilare coraggio di paragonarsi al Padre della Patria. Sì per giustificare il suo faux menage , la sua vita domestica more uxorio con Quagliastra, ha l'ardimento di riferirsi all'esempio del Gran Re Liberatore, che nell'amore relativamente libero, predilesse come raggio della Natura, figlia o nipote divina, la forma e la psiche popolare. Gli è vero che Vittorione, dopo aver sposata morganaticamente una piacentissima tamburina, sentendo che l'Altezza Reale di un suo augusto cugino faceva lo stesso con una ballerina, sentenziò in un eccesso di autocritica scherzosa, fino a tradurre dialettalmente un verbo plebeo di Dante: Casa d'le Crossade a l'è ampus ... asse pa' mal! Ma è pur verissimo che papà Vittorio, il Gran Re finì vittorioso a Roma, mentre il piccolo Napoleone, imperatore curvo al lecchezzo delle superbe dame, venne abbattuto, spazzato via da una delle più sonore batoste storiche ... * Ma, * ripiglia * padre Zappata, hai forse seguito, per quanto ti fosse possibile, l'esempio morganatico del Gran Re? * Comprendo, * rispondeva a se stesso, sdoppiandosi psicologicamente l'avvocato * comprendo ed apprezzo il tuo sospetto, comprendo e sento la tua gelosia quasi lancinante per le testarde premure della tua serva padrona verso il giovane ortolano, benché Miclìn si mostri teco estremamente servizievole con un'aria da santificetur e con un profilo di San Luigi Gonzaga. * Insomma chi conterà la fine di un capriccio di Gioiazza? Lo conterà la sua serva padrona ed ereditiera? Per ora l'avvocato Gioiazza, constatando che non è possibile restaurare il concubinato nella presente civiltà giuridica, presagisce, che egli finirà con lo sposare Quagliastra almeno con il rito religioso, magari licenziando il giovine ortolano, ed assumendo all'irrigazione e alla coltivazione dell'orto un giardiniere stravecchio, o meglio un veterano reduce d'Africa, a cui gli abissini abbiano fatto l'estremo oltraggio, dando gli onori dei cantori della cappella Sistina. Nell'ultimo sguardo alla illuminazione della sottostante Torino, l'avvocato Gioiazza già si vede, come in uno specchio: salire alla villa, portando la sporta alla cuoca elevata a mogliera, ed aggiungendole cordiali, stimolanti e rispettose facezie per ingraziarsi lei ingrugnata, per feje chitè 'l grugn. Il purgato spirito di Nerina folgore caduta in un pozzo, risorgerà in alto, in alto, e sorriderà da una stella invisibile al critico contatore dei Capricci per pianoforte .

Ma dai meccanici Pater ed Ave esalava un sentimento storico: * O chiesa millenaria, che da Carlo Magno a Napoleone hai viste tante invasioni e tante sventure, tante liberazioni e tanti sollievi, che hai guarita la pazzia del conte Orlando e hai dato conforto ad artigiane tradite e maestre licenziate, o chiesa di Dio, concedi tuttavia un ristoro a questo abbattimento. Invece la superiora cadde svenuta. Il canonico Giunipero additandola al delegato di Pubblica Sicurezza, mentre essa rinveniva per le ultime cure delle sue beneficate, uscì in questi termini: * Signor avvocato, e forse cavaliere! Noi inermi non possiamo lottare contro la vostra forza armata. Ma notate: se io divenissi infame, come tante rispettate persone, che so io, ed in questo fabbricato legalmente mio, che Voi fate forzatamente sgombrare di tante anime pie, io domandassi di istituire un postribolo secondo i vostri regolamenti, un postribolo- villeggiatura, io sarei tollerato e non solo tollerato, ma protetto, privilegiato ... O vergogna della civiltà liberale! Appena si vide nel suo fabbricato vuoto delle disgrazie umane e della vita spirituale, che egli e Suora Crocifissa avevano voluto addensarvi, egli per l'educazione classica sentì quasi un sollievo nella visione del Giove oraziano, pater deorum, rubente dextera sacras iaculatus arces. Esula dall'euritmia del nostro racconto il seguire le varie sorti delle numerose espulse, di cui alcune troveremo tuttavia nell'orbita della protagonista. Di essa dobbiamo principalmente occuparci. La Contessa Nerina, perpetua Dea dei Capricci, dopo avere provate le emozioni claustrali ed essersene liberata, si vide ancora dinnanzi una lunga gamma musicale da suonare per esaurire il programma della sua vita: Capricci per pianoforte , programma quasi consono al fortiter et suaviter dei gesuiti. Perché il trapasso non fosse troppo dissonante dal ritiro del Santo Oblio al ritorno mondano, essa vagheggiò di ripigliare la parte di infermiera, che già aveva sostenuta così bene a Firenze, quando il suo primo marito era curato della gloriosa ferita di Mentana. Anzi ora essa fantasticava di progredire nella carriera e diventare una infermiera scienziata, come una nurse inglese. Se non che intendeva applicare la sua scienza pratica non più al primo marito, i cui genitori d'altronde non l'avrebbero ricevuta, ma al secondo, che essendo un celebre scrittore l'avrebbe rimorchiata alla posterità. A San Gerolamo, dove Adriano Meraldi degente aveva la migliore cura dalla sua semplice maman e dal suo bravo papà, Nerina avrebbe rivissuto gli idillii giovanili, che impropriamente essa chiamava innocenti, poiché la tenera Aracne vi aveva tessuta la ragnatela per acchiappare i moscerini, non ancora emancipati da lei, benché divenuti mosconi. Il padre di lei si oppose irremovibilmente a quel divisamento. Nella sua testa di droghiere consumato si era assodata la convinzione, che l'unica riparazione di certi enormi peccati o misfatti mondani era nella segregazione giudiziaria o religiosa dal mondo. * Adunque, Nerina, dato che tu eviti la prigione per la tua bigamia, almeno rinserrati in un chiostro. Se mancano in Italia, chiostri non mancheranno all'estero. Gli ottimi coniugi Losati credettero di rappresentare, in mancanza di meglio, la Divina Provvidenza offrendo essi ospitalità generosa all'amica contessa. La loro modesta, ma intemerata casa, sarebbe naturale e logica transizione, tra la vita del chiostro ed il ritorno alla vita familiare. Nerina accettò con uno slancio di riconoscenza quell'offerta, che le permetterebbe di penetrare a fondo un ambiente di borghesia modello e probabilmente guastarlo come un giocattolo. Sì! Vero modello di borghesia: il nonno per antonomasia, macellaio emerito, che serbava un passo e un vocione da far tremare i vetri, e non aveva ancora bisogno degli occhiali per leggere Il Diritto , organo della Democrazia italiana ; la moglie Lorenzina, l'anima popolana più rettilinea, che sia entrata nell'intelligenza e nella virtù borghese; la bambina Cecchina di tre anni, un fiore per le guancie e pei capelli, una luce per gli occhi furbetti e carezzosi, una civettuola innocente per gli inchini, un amorino, un'angioletta in tutto; e lui, il padre, il marito esemplare, il prof. Spirito Losati, che dalle crudeltà infantili, e dal vulcano esplosivo di una passione d'adolescente era uscito redento, temprato in un equilibrio di studio, amore e sanità. Serbava a lungo il calore come una pietra di fornace. Senza mancare per nulla alla sua cattedra di professore, alternava lo studio rigoroso e passionato del problema religioso e civile, dopo la breccia di porta Pia, alla amena cura di una 2a edizione della sua fortunata, benché scabra, traduzione di Anacreonte. Fu Anacreonte, che produsse un'incrinatura al metallo corinzio del vaso di sue virtù? Certamente la filosofia e la poesia pagana non è fatta per serbare immacolata la purezza dei sentimenti cristiani. Quando egli studiava l'immenso Vincenzo Gioberti, feroce anche contro i vizii illustri del Byron, Spirito Losati si sentiva nell'anima flavilli, ch'aveano spirto sol di pensier santi . Ma quando ripassava il suo Anacreonte, uno sciame di genietti lascivi lo tormentava, come nel prologo del Faust; alcuni di quei folletti gli scantuffiavano i ricci neri della testa poderosa; altri gli pesavano plumbei sopra un ginocchio o sopra un piede da farlo arrancare. Egli si provava a cacciarli con una minaccia da Mefistofele napolitano. Con fiotti torrentizii di bile giobertiana scomunicava l'amor socratico, l'amor platonico, come idealizzazione, glorificazione di ignominiosa pederastia. Pure era così artisticamente leggiadro quel Batillo di Anacreonte ... E quella Ciprigna dal rosato seno ! * Oh! con Batillo Ganimede, che mi porga il nappo di nettare, avendo a lato Ciprigna dal rosato seno, cinto il crin d'edera bruna, sdraiato calco coll'animo tutto il creato. La contessa Nerina in casa gli era il commento vivente, seducente di Ciprigna dal rosato seno. Con sapienti scuciture della serica veste sul busto scultorio, scuciture, che si scordava risarcire, con il calorico estasiante di fortuite necessarie vicinanze, essa gli comunicava desiderii peccaminosi, rovelli incendiarii. Gli scompariva dinnanzi l'onesta bellezza di quell'ambiente famigliare. Quando si era vicini a dare in tavola, e il nonno impaziente di avere la bambina sua subordinata commensale ordinava: ciamela, coula benedeta masnà, deje 'na cichinada , la comparsa di Cecchina era come la vista di un fiore ordinario da fieno ed inodoro per lo straniato papaloto. L'antica servitù più non lo contentava. Egli che già poteva dirsi servo dei servi sul serio, mentre il papa si firmava tale per finta, ora aveva frequenti cose a ridire contra la vecchia cuoca brofferiana Marcolfa, contra la cameriera Barberina, e contro il domestico carrozziere Bertrame, personale inamovibile, secondo lo statuto patriarcale, passato dalla casa Calzaretta alla casa Calzaretta Losati. Che più? Egli si sentiva svanire l'amore per la sua penelopea consorte. La consuetudine smaga l'estetica; le necessità uxorie sono prosa, che elimina la poesia dell'amore. E quando l'amore viene meno, allora sfiorare un seno di ninfa è come toccare una palla di gomma elastica od una pera di guttaperca; premere un piedino di dea, è come manomettere un soprascarpe di cautciù. Invece nell'accensione erotica per la Contessa, ogni materialità di questa gli diventava un poema ideale; i legaccioli degli stivaletti di lei, anche impolverati, gli diventavano un cinto di Venere, un laccio di amore, un laccio da strangolarvici dentro, se egli non fosse giunto a possedere la Diva sullodata. La sua virtù oramai zoppicava maledettamente. Egli si sentiva pervertito anche nella interpretazione dei suoi classici prediletti. Egli, che già aspirava all'alta gloria di dare alla Patria Italiana e all'Umanità un valente filologo, un filosofo riformatore religioso e un virtuoso cittadino, ora si sentiva invasato dall'ossessione brutale di possedere Nerina. Egli rimpiangeva, rievocava i tempi, in cui coltivava la sola parte spirituale di sé; sentiva fastidiosi i legami, onde il suo spirito era avvinto al corpo, e anelava sciolto dai terreni impacci, di ricongiungersi al sommo Bene. Ma Nerina nel ritiro del Santo Oblio aveva accumulato tante energie di elettricità amorosa, che la sua batteria era inoppugnabile. La voglia di lei entrava come succhio afrodisiaco anche nelle più serie e sante di lui letture. Spirito Losati profanava, applicando a Nerina con doppi sensi salaci da Nice del Guerrin Meschino , la sua assidua, quotidiana lectura Dantis , il suo breviario poetico. Così nelle sue procaci speranze, la mossa spirituale della santa Contessa Matelda è profanata in un programma di facile conquista della porca contessa Nerina: Come anima gentil che non fa scusa Ma fa sua voglia della voglia altrui, Tosto com'è per segno fuor dischiusa. E già Nerina è per lui La bella image, che nel dolce frui Liete faceva l'anime conserte. Ma così audace nell'oscenità dei doppi sensi letterarii egli trovasi impacciato, più di un seminarista nel fare realmente la corte a Nerina. Basti dire, che incredibile dictu ! egli era vergine prima del matrimonio. Deve Nerina, somma sofista del cuore, casista inesauribile del sentimento, egoista raffinata dei sensi, intraprendere direttamente la seduzione di Spirito Losati. Un giorno, in cui la signora Losati con la sua Cecchina si era recata nel gabinetto di un prezioso dentista, per cui aveva fissato l'orario tre giorni prima, e la servitù di casa era tutta occupata altrove od altrimenti, il prof. Losati si sprofondava caldamente nel suo studio a rileggere i Prolegomeni al Primato Civile e Morale degli Italiani di Vincenzo Gioberti. Al profondo e focoso lettore balenò la visione che il conte Federico De Ritz dei migliori tempi rappresentasse l'ideale giobertiano dell'uomo pelasgico innestato nel cattolico, avente per contrassegno speciale " il genio virile, la gioventù del cuore, il fiore dell'età maturati dal senno, l'operosità, la maschiezza, che è quanto dire la natura umana nel colmo delle sue forze e della sua perfezione" . In quel punto apparve la Contessa Nerina davanti la libreria, come Venere sorta da un mare spumante di idee. E sembrò comicamente aristofanesca la situazione del prof. Spirito Losati forse costretto a tradire l'uomo pelasgico cattolico, immediatamente dopo l'apoteosi. Nerina con un gesto da Beatrice e Laura fuse in un solo invito di paradiso terrestre gli offre e porge una delle prime rose sbocciate in quel tardo aprile. Losati accalappiato con il capo chino confuso ardisce baciare quel fiore. Nerina desiosa di essere baciata fin dentro le carni, sorride dentro l'anima con disprezzo di quel pusillo, che si crede audace; ed ammagliandolo dagli occhi grandi e luminosi mostra sulle proprie labbra lo sboccio di un bacio, come il fiore più bello del Paradiso celeste. Losati coglie avidamente il bacio. Nerina con un gemito, un sussurro confidente, imperioso, supplice: * Qui no! Spirito Losati, dopo avere accettato e prolungato il primo bacio peccaminoso, sente tale palpito di rimorso profondo da soffocargli il cuore, tale mortificazione intima e cervellotica, da farlo vagellare nel proposito ossia nello sproposito di emigrare in America.

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

"Riferisca le condizioni gravi in cui ho dovuto prestare la mia assistenza; riferisca lo stato di sopore e di abbattimento in cui ella si trova presentemente, e se qualcuno Le domanda di me, La prego rispondere a nome mio che per un'ora mi si troverà qui in loggia." La voce era sinistramente fredda. Qualcuno che portava un lume tornò indietro; il medico attraversò la loggia, Silla vi entrò dopo di lui. Steinegge gli si fece incontro. "Signor Silla!" diss'egli. L'altro non gli rispose, non si voltò nemmanco a guardarlo, andò a buttar le braccia sulla balaustrata verso il cortile. Steinegge fece un altro passo. "Signor Silla, non mi riconoscete?" Silenzio. "Ah, quand'è così, bene." Egli tornò dov'era prima e tacque, guardando Silla che non si muoveva. "Io non so" diss'egli. "Io non credo aver meritato questo." Nessuna risposta. "Questo è amaro, signor Silla, di venire come amico ed essere accolto così! Io voleva solamente dirvi che io avrei preferito non vedervi più mai qui; anche adesso io vorrei piuttosto vedere una buona onesta bocca di fucile sul Vostro petto, per Dio! Ero venuto per dire a Voi questo e altre cose, ma poiché Voi non volete ascoltarmi, io vado. Addio." S'incamminò per uscire. Allora Silla, senza voltare il capo, gli disse freddamente: "Dica a Sua figlia che ho tenuto parola e son caduto a fondo." "A mia figlia! Questo?" "Sì, e adesso vada. Vada, vada via!" ripeté Silla con passione improvvisa perché Steinegge, sorpreso, tornava verso di lui. Questi piegò il capo in atto di rassegnazione e se n'andò. Due lanterne, un corteo silenzioso attraversano il cortile. Subito dopo il commendatore viene ad avvertire Silla che i Salvador sono andati ad aspettar la carrozza in casa del giardiniere, e che, s'egli desidera, può comunicargli una disposizione del conte che lo riguarda. L'uscio si chiuse dietro a loro, la loggia rimase vuota.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Dopo quel disinganno ebbe un lungo periodo di abbattimento. Non si commoveva più quando gli affidavano una causa. Le sue illusioni erano sfrondate, e sapeva che, con quelle piccole liti, non c'era per lui da cavare un ragno dal buco. Tuttavia glie ne capitavano abbastanza di frequente, ed a poco a poco perdette l'abitudine delle scarpe logore, degli abiti spelati, e lasciò il mezzanino del fornaio. Ma, insieme alla miseria, era passata anche l'illusione della futura grandezza, ed era venuta la prosaica e triste mediocrità. Ho sbagliato carriera, pensava. Coll'avvocatura non si arricchisce. E si sentiva avvilito, al pensiero che dopo tre anni non era ancora in grado di presentarsi al castellano di Fontanetto, senza farlo sorridere di compassione a' suoi famosi guadagni di trecento lire al mese o giù di lì. Gli venne la curiosa idea di tornare alle grandi economie che aveva abbandonate, per metter da parte una somma ed arrischiare poi delle operazioni alla Borsa. Sapeva di patrimoni colossali che erano stati iniziati a quel modo, e diceva: "Chissà?". S'era fatto ingegnoso, durante i suoi anni difficili, nell'arte di vivere con meno denaro possibile. Ed infervorato nel pensiero di fare quell'ultimo sforzo per arrivare a Rachele prima che gli fosse tolta, non gli riescì grave d'abbandonare la sua nuova vita relativamente agiata; lo fece con entusiasmo, godendo in sé delle privazioni che s'imponeva, e per ogni scudo che aggiungeva a' suoi risparmi, giubilava come un avaro. Dopo un anno stava per avere mille e cinquecento lire, quando ricevette una lettera da suo padre che gli scriveva: "Sono pieno di debiti e di malanni; e, dacché non sono più in grado di dire le barzellette per tenerli allegri, i signori non mi danno più da pranzo. Non ho gran fede nella generosità umana e tanto meno nella voce del sangue. Ma spero che, per non tollerare che tuo padre vada mendicando, il che ti farebbe torto, penserai a provvedermi il necessario per questi ultimi anni. Non sono mai stato un padre tenero, ma è certo che fino a dodici anni, o bene o male, t'ho dato da vivere. Ed è ben difficile ch'io ti resti altrettanto tempo sulle spalle...". Giovanni tremava tutto nel leggere quella lettera. Gli pareva di sentirsi trascinare in un abisso. S'era creato un lieve sostegno, ed ora gli mancava sotto i piedi, ed acquistava la certezza che gli mancherebbe sempre. Omai quanto guadagnava era appena sufficente per lui e pel padre. Privandosi della somma raccolta, non poteva sperare di raggranellarla di nuovo. Tuttavia non gli venne neppure un momento l'idea di sottrarsi a quel dovere. Era un pezzo che non piangeva; e pianse disperatamente su quella lettera. Suo padre aveva mangiato e bevuto e s'era divertito, mentre lui si struggeva in quel lavoro da formica, per arrivare alla fanciulla che amava. Ed ora quel padre aveva il diritto di prendere il frutto de' suoi sudori e dei suoi sacrifici, e di dirgli: "Rinuncia alle tue speranze spontaneamente, o ti ci faccio rinunciare svergognandoti collo spettacolo della mia indigenza". Il suo cuore si ribellava a quell'ingiustizia, fremeva sotto la pressione di quel dovere gravoso, e, quando chiuse il denaro in una lettera raccomandata, non provò la soddisfazione di chi sente di far del bene, non si commosse della sorte miseranda del Dottorino, ma sentì un gran vuoto nel cuore, un grande sgomento dell'avvenire, un rammarico inenarrabile per la speranza che perdeva; e calcando con ira il quinto soggello sulla cera disciolta, mormorò: "Maledizione!". Era infatti una maledizione, una iettatura, una fatalità che perseguitava lui come perseguita tanti altri e lo condannava a vivere ignorato col suo ingegno, la sua scienza e tutte le sue superiorità. Omai, stanco d'aver lottato quattro anni inutilmente, scoraggiato da quell'ultimo colpo, s'abbandonava alla sua sorte, non isperava più. Pensava a' suoi sogni di fortuna ed a Rachele come ad una gloriosa visione svanita. Scacciava con vero spavento il pensiero che avrebbe potuto incontrarla al braccio d'un altro, e desiderava non rivederla mai più. Sentiva che si sarebbe vergognato dinanzi a lei. Aveva mancato alle sue promesse audaci, era stato presuntuoso, e la cattiva riescita lo accusava d'essere stato un presuntuoso ignorante. In fondo aveva più che mai la convinzione del contrario. Ma non è dato a nessuno di salire sui tetti e gridare alle turbe: "Badate ch'io sono un grand'uomo. Lasciatemi fare questo e quest'altro, e ve lo proverò". Bisogna che le circostanze ci aiutino; noi non possiamo che profittarne. Ma le circostanze non erano state favorevoli al povero Giovanni. Un giorno l'avvocato Berti lo chiamò nel suo studio, e gli comunicò un processo pendente per omicidio. Un acquavitaio aveva ucciso in rissa un servitore. Era un assassinio volgare, non c'era da fare una brillante difesa, e l'avvocato illustre la affidava al giovine sostituto. Giovanni prese a studiare la causa con quell'interessamento da artista che metteva sempre nei suoi lavori. Ma non era possibile negare la responsabilità dell'accusato. Oltrecché risultava chiara dalle prime inchieste e deposizioni, l'accusato stesso la confessava. Egli era inoltre un uomo intrattabile. Quando Giovanni lo vide, ne fu impressionato penosamente. Stava seduto nell'angolo più buio del carcere, coi gomiti sulle ginocchia e le guancie duramente appoggiate sui pugni chiusi, che gli raggrinzavano gli zigomi, e li rialzavano a nascondere gli occhi. Aveva sessant'anni, ma pareva un vecchione; aveva la testa calva e la barba bianca. Il suo sguardo era duro; il viso imbronciato come d'un uomo collerico. La presenza del giovine avvocato parve seccarlo più che altro. Non si mosse affatto al vederlo, e quando Giovanni gli si presentò come suo difensore, si strinse nelle spalle, e rispose: "Ho ucciso quell'uomo, non nego nulla. Non c'è bisogno del difensore". Per quanto Giovanni lo interrogasse, non volle dir altro. Quel cinismo cupo parve anormale al giovine avvocato. Egli si rivolse al carceriere: "Cosa dice l'imputato del suo processo?" "Non dice nulla perché non parla mai". "Come impiega la giornata?" "Sta quasi sempre seduto a quel modo. Qualche volta legge, o scrive colla matita sul muro". Giovanni volle vedere il libro in cui leggeva. Era una bibbia sporca e sdrucita, che si apriva da sé alla pagina dove parla d'un ricco, il quale avendo cento pecore aveva rubata la pecora unica d'un povero. Sul muro trovò pure delle sentenze contro i ricchi, alcune prese da libri devoti o da canzoni popolari; altre, meno felici, di sua invenzione. Sopra un'imposta c'era scritto: "Nel cuore dei ricchi c'è un serpente". Alla testa del pagliericcio si leggeva: "Il diavolo mette i suoi demoni nella pelle bianca dei ricchi per tentare i poveri". "Se ti chiami nobile ed hai del denaro, godi a questo mondo la tua vita da ladro, perché in quell'altro sarai carbone da riscaldare i poveri". Poi c'erano i nomi famosi che la rivoluzione francese ha resi popolari anche fra noi: Marat, Robespierre, Danton e sopra c'era scritto a grandi caratteri: "Evviva!". E sotto: "Gloria eterna!" Giovanni dopo quelle strane letture domandò all'imputato: "Siete socialista?". Egli non capì e non rispose. "Non vi piace come va il mondo" tornò a dire l'avvocato, "e vorreste cambiarlo?" Il vecchio prese con violenza la brocca dell'acqua che aveva accanto, e la capovolse furiosamente, senza curarsi dell'acqua che allagò il pavimento. "Vorreste capovolgerlo?" insistè Giovanni. "Eh!" sospirò il vecchio. Poi si strinse alto nelle spalle, e sospirò più forte: "Omai, a cosa servirebbe?". "Ma c'è un ricco che v'ha fatto qualche torto?" interrogò l'avvocato. L'imputato si rizzò sdegnato, quasi minaccioso, e gridò: "A me nessuno ha fatto torto, capisce? Sono povero, ma onorato. Ho ammazzato. Ebbene? Ma sul mio nome non c'è nulla da dire". Giovanni non ci raccapezzava nulla, perché l'uomo ucciso dall'acquavitaio era un povero servitore. Questi era entrato per bere nella bottega, ed il vecchio, al vederlo, senza precedenti di parole, gli si era avventato contro, urlando: "Ah, ladro, svergognato, servo dei ricchi, te la do io, ora, te la do!" E, con un coltellaccio che aveva afferrato sul banco, gli aveva squarciata la gola. C'erano cinque testimoni che s'erano trovati nella bottega, e narravano il fatto, che l'imputato non pensava affatto a smentire. Giovanni, preso alle strette, non poté scoprire nulla a favore dell'assassino. Ma domandò una perizia medica. L'idea fissa di quell'uomo era l'odio dei signori; poteva essere una mania, o un vecchio rancore. Nel primo caso, i medici gli avrebbero fatto giustizia; nel secondo l'avvocato avrebbe potuto arrivare ad indovinare il suo segreto, e forse a salvarlo. Intanto la perizia, che il tribunale accordò, dava tempo ad altre ricerche. Giovanni non tardò a mettersi in campagna. Quell'uccisione, improvvisa e violenta, doveva essere premeditata; e, per essere premeditata, doveva avere una causa. La sola causa che confessava l'imputato era l'odio pei ricchi; aveva ucciso quell'uomo perché era il servitore d'un ricco. Ma bastarono poche informazioni presso i frequentatori del negozio, per provare che di servitori di ricchi ce ne bazzicavano parecchi, e che l'acquavitaio li trattava bruscamente, ma non ne aveva mai offeso né provocato nessuno. Era dunque quel dato servitore che odiava, e nella causa di quest'odio poteva stare la scusa, o, almeno, una forte attenuante pel colpevole. Questi però diceva che non conosceva affatto la sua vittima. Che non l'aveva mai veduta prima di quel giorno. Bisognava indagare il suo passato per risalire alla causa vera che l'aveva spinto al delitto. Ma quell'acquavitaio Galbusera aveva sloggiato tante volte in quegli ultimi anni che i casigliani dell'ultimo casamento che aveva abitato lo conoscevano da poco, e non sapevano dirne nulla. Giovanni risalì la catena di quegli sloggi, da Porta Romana andò a S. Celso. Là il suo cliente era stato sei mesi, ma la bottega l'aveva in fondo alla via Gozzadini, fin dal semestre prima, quando stava a Porta Romana. Finalmente, a forza di correre e bussare a tante porte, in una catapecchia a Porta Ticinese, dove l'acquavitaio aveva abitato molti anni prima, Giovanni seppe che in quel tempo il vecchio aveva una figlia. Avevano sloggiato improvvisamente senza aspettare la scadenza del San Michele; però non avevano lasciato debiti, e la pigione era stata pagata. Che cosa era avvenuto di quella figlia del vedovo? Giovanni andò al carcere e ne domandò a lui. "Mia figlia è morta" rispose l'imputato. "E lei, la prego di non immischiarsi altro ne' fatti miei". Il vecchio s'era fatto tutto rosso, ed aveva parlato con tanta eccitazione che Giovanni si convinse d'aver posto il dito sopra una piaga. L'uomo ucciso dal padre doveva essere il seduttore della figlia. Dalla perizia medica era risultato che l'acquavitaio possedeva le piene facoltà intellettuali. In capo a pochi giorni si dovevano riprendere i dibattimenti. Intanto i giornali, nell'annunciare che quel processo per assassinio era stato rimandato, perché il difensore dell'Ambrogio Galbusera aveva domandata la perizia medica, avevano riferite le ragioni addotte in appoggio a quella domanda, che erano le invettive furiose del Galbusera contro i signori e le sue frasi stravaganti scritte sul muro della prigione. E questo era bastato perché quel processo, che al principio non aveva inspirato nessun interesse, suscitasse alquanta curiosità. Questa curiosità crebbe enormemente, quando ad un tratto si seppe che nel seguito del processo si troverebbe implicato il principale rappresentante d'una grande famiglia milanese, notissimo, oltre che pel nome storico che portava, pel suo sfarzo, per le sue avventure galanti, pe' suoi scialosi capricci, che assai spesso fornivano materia alla cronaca cittadina. Come accade, nacque gara tra cronisti a dare le informazioni più particolareggiate sul clamoroso scandalo che si preparava; ed il nome del giovine avvocato Giovanni Mazza fu su tutte le bocche, insieme a quello del signore citato fra i testimoni a difesa. Si seppe che la scoperta delle cause segrete del misfatto era dovuta allo zelo ed all'acume finissimo dell'avvocato Mazza; e la fantasia popolare eccitata creò una leggenda su questo giovine che aveva rifatta e compiuta da solo l'istruttoria del processo, ed aveva vinta, a forza di coraggio e d'energia, l'influenza che potenti personaggi avevano tentato di esercitare, per impedire che la verità fosse chiarita. Ecco, in sunto, la storia che i giornali narrarono e che i dibattimenti confermarono. Dodici anni prima del delitto, il Galbusera aveva bottega a Porta Ticinese, era vedovo con una figlia di quindici anni, che andava da una cucitrice ad imparare il mestiere. Il cocchiere Teodoro Donadio aveva cominciato a frequentare con assiduità la bottega dell'acquavitaio nelle ore della sera. Ben presto tutti s'erano accorti che faceva la corte alla giovinetta. Allora il Galbusera lo aveva preso a parte, e gli aveva detto che le donne della sua famiglia erano sempre state oneste, e che questa era la sua gloria. Se aveva intenzione di sposare sua figlia lo invitava a dichiararlo, ed a farsi conoscere; altrimenti egli non gli avrebbe permesso di comprometterla colle sue galanterie. Il Donadio aveva domandato tempo qualche giorno a rispondere, e poco dopo era tornato, accompagnato da un sigaraio della contrada, il quale era incaricato di domandare in nome suo la mano della Maddalena Galbusera. Il Donadio aveva soggiunto che egli serviva in una buona casa, che guadagnava a sufficenza per mantenere una famiglia e che certo il suo padrone non avrebbe avuto difficoltà a permettergli di prender moglie. Il Galbusera aveva incaricato il sigaraio, nel quale aveva fiducia, di presentarsi al marchese Trestelle, che era il padrone di Donadio, a prendere informazioni del cocchiere, ed a sentire se realmente non c'era pericolo che il matrimonio avesse a fargli perdere il posto. Il sigaraio non era stato ricevuto dal marchese Trestelle, ma dal suo segretario, il quale aveva preso nota dell'imbasciata, ed il giorno dopo aveva portato egli stesso la risposta del padrone: questi diceva ogni bene del Donadio, ed approvava il matrimonio. Le nozze erano state fissate pel San Michele, perché allora il Marchese sperava di poter dare due stanze agli sposi nelle soffitte d'una sua casa. Mancavano cinque mesi, ma non erano di troppo per cucire il modesto corredo. Del resto Maddalena era tanto giovine, che il padre aveva piacere di aspettare che avesse almeno compiti i sedici anni. Quando tutto era stato combinato, Donadio aveva cominciato ad andare ogni sera a prendere la sua sposa dalla cucitrice. Sovente la incontrava anche il mattino, e la accompagnava. Al negozio del futuro suocero si fermava più poco, ed aveva finito per non fermarvisi affatto, perché tanto vedeva Maddalena fuori, e preferiva di non far scene dinanzi agli avventori. Tornando dal magazzino la ragazza diceva: "Mi è venuto a prendere. M'ha accompagnata fin qui...". Una volta però, quando la relazione durava da circa quattro mesi, Donadio era stato quindici giorni senza farsi vedere; Maddalena era malinconica, ed il padre s'accorgeva che piangeva molto. Ci doveva essere qualche guaio fra gli sposi. Egli aveva interrogata la ragazza, che per un poco aveva negato la sua afflizione, ma presa alle strette, aveva finito per confessar tutto. Ed ecco la confessione di Maddalena. Fin dai primi giorni, Donadio, nell'accompagnarla a casa, aveva incontrato il suo padrone. Erano in via Arena. Non c'era nessuno, ed il Marchese s'era degnato di domandare al cocchiere se quella era la sua sposa, e di farle dei complimenti. Poi s'erano incontrati altre volte, ed in quelle circostanze il servitore si tirava da parte, e lasciava che il signore s'intrattenesse con lei. Il Marchese era più bello, più gentile, più raffinato del cocchiere. E la giovine cucitrice si era lasciata dire delle belle parole. Se n'erano veduti degli altri marchesi e conti sposare delle ragazzette; a quindici anni si crede tutto possibile. Dacché quel signore lo prometteva... Soltanto, in causa della sua alta condizione, egli non poteva farlo sapere fino all'ultimo momento; bisognava lasciar credere che lo sposo fosse il cocchiere... Intanto ogni mattina il padrone si trovava fuori di porta colla carrozza. Donadio conduceva Maddalena fin là, ella saliva accanto al Marchese e passava la giornata con lui. Un mese circa prima del San Michele, servo e padrone avevano cessato di farsi vedere. La ragazza era andata al magazzino dove la maestra la trattava con diffidenza in causa della sua poca assiduità, e le ragazze parlavano della sua relazione signorile, che avevano scoperta. Vedendo passare i giorni e le settimane senza che il Marchese si facesse più vivo, l'afflizione aveva sopraffatta la giovinetta, che s'era confidata alla maestra cucitrice, e questa le aveva detto che da quindici giorni il Marchese Trestelle aveva sposata la figlia di un ricco banchiere di Genova, e che, dopo il viaggio di nozze, sarebbe andato a stabilirsi a Genova presso la famiglia della sposa. Quanto al cocchiere Donadio, fosse o no col padrone, era scomparso da Milano. E Maddalena era incinta. Dopo questa confessione della figlia, il Galbusera aveva lasciata improvvisamente la casa di Porta Ticinese senza aspettare la scadenza, per nascondere la sua vergogna. La maestra cucitrice, alla quale Maddalena s'era confidata, l'aveva raccomandata ad una levatrice di Monza, dove la fanciulla avrebbe potuto rimanere sconosciuta. Due mesi dopo la giovinetta era morta di un parto immaturo. Galbusera aveva passati dieci anni a ruminare la sua collera, il suo dolore e la sua vergogna, schivando i vecchi conoscenti, mutando quartiere ogni volta che sospettava d'essere riconosciuto, tremando al pensiero d'incontrare Donadio o il suo padrone. Un giorno il Donadio era entrato nella sua bottega; ed egli lo aveva ucciso. È impossibile descrivere la commozione prodotta in Milano dai dibattimenti di questo processo. E non solo in Milano, ma in tutta Italia se ne parlò. Era capitato in un momento in cui le cose politiche offrivano poco interesse, ed i giornali si gettarono affamati su quel dramma criminale. La passione di partito, come al solito, concorse ad infiammare gli spiriti. I fogli repubblicani e socialisti descrissero l'assassino come un eroe, e portarono a cielo persino le sentenze tracciate sul muro, ed i bigliettini sgrammaticati che scriveva Galbusera nel carcere. Mentre qualche giornale conservatore insinuò a mezza bocca che l'ingerenza attribuita al marchese Trestelle era una macchina montata per spillargli del denaro, e per diffamare la classe sociale a cui apparteneva. Il sapersi fatto segno all'attenzione generale, fu un colpo di sprone potentissimo per l'ingegno di Giovanni. Fino dalle prime udienze, nella discussione di alcuni incidenti, fu meravigliato egli stesso del calore della sua parola e del vigore dei suoi ragionamenti. L'udienza in cui comparve il marchese Trestelle - udienza i cui particolari furono la sera stessa telegrafati distesamente a tutti i giornali d'Italia - fu un trionfo per l'avvocato Mazza, tanta fu l'arte con cui riescì ad ottenere dal teste la confessione completa della verità, e tanto felici furono le apostrofi, ora sarcastiche, ora sdegnose, con cui umiliò l'albagia di quell'individuo, e gl'inflisse la condanna morale che la sua condotta si era meritata. La sua arringa, che coronò i dibattimenti, superò l'aspettativa dell'uditorio, ed è tuttora ricordata nel foro milanese come un modello d'eloquenza. Non fu una difesa legale; fu uno studio psicologico e sociale, nel quale le figure dell'imputato, della vittima, del seduttore e della giovinetta, furono ritratti come tipi impersonali, per modo che la discussione prese un carattere elevatissimo. Quella causa, la quale, alla prima, era sembrata nulla più che uno scandalo volgare, si trasformò grazie all'arringa del Mazza, e prese aspetti affatto nuovi. Si mutò in una grande tragedia, piena di profondi insegnamenti. Quando Giovanni si pose a sedere, affranto dalla fatica durata, il presidente non ebbe forza di frenare il clamore degli applausi e delle acclamazioni. Quanti erano nella sala, avvocati, letterati, magistrati, giornalisti, tutti unanimi pensarono: "Un grande ingegno s'è rivelato". Nessuna fortuna mancò in quell'occasione a Giovanni; il verdetto de' giurati non fu completamente negativo, ma, escludendo la premeditazione e ammettendo la "forza semi-irresistibile", ridusse leggera la pena. I giornalisti offersero un banchetto al nuovo criminalista illustre. I giovani legali ne organizzarono un secondo. Ed egli, in mezzo a quelle feste, ripensò sorridendo il lontano banchetto di cinque lire dei praticanti dello studio, che gli era costato tante umiliazioni e tanti sacrifici. E ripensò con un tripudio di gioia alle speranze che aveva credute morte. Le vide risorgere più belle, perché d'un tratto, da un giorno all'altro, aveva raggiunta quella rinomanza, che sembrava essergli sfuggita per sempre. Ormai la sua situazione era assicurata; l'avvenire gli si presentava glorioso, ed i denari non potevano mancar di venire. Ad ogni articolo di giornale che gli giungeva pieno d'encomi, pensava: "Lo leggerà Rachele; suo padre pure lo leggerà". E tornava colla fantasia a quel triste giorno d'autunno, in cui passando, sconsolato e respinto, lungo il fossato del castello, aveva esclamato: "Anche lei! Ebbene, vedrà!". Ecco; ora lo vedeva di che cosa era stato capace. "Ah! M'è costato caro, ma sono riescito!" diceva. Ed era glorioso della sua costanza, degli stenti sofferti. Era felice di sentirsi giovine e d'avere tanto avvenire dinanzi a sé. Dopo quel processo cominciò per Giovanni una vita nuova, tutta movimento, tutta azione, in cui le ventiquattro ore del giorno non bastavano ai suoi affari. I clienti si facevano sempre più numerosi. Un circolo politico lo nominò relatore per le elezioni. Fu invitato a collaborare in vari periodici legali, e scrisse articoli sopra un progetto di legge pendente, che furono commentati dai più accreditati giornali. Il suo ingegno, la sua dottrina, rimasti ignorati fin allora, si rivelarono potentemente, ed in breve tempo il suo nome acquistò grande notorietà e divenne popolare. In cinque anni che aveva passati coll'avvocato Berti, non era mai stato presentato alla moglie del principale. L'aveva veduta parecchie volte entrare con un grande fruscio di seta nello studio del marito, lasciandosi dietro un'ondata di profumo alla violetta, che gli aveva data una grande idea della sua eleganza. Qualche volta lei lo aveva guardato traverso il velo di trina, ma non gli aveva mai rivolta la parola. Il giorno dopo il famoso processo dell'acquavitaio Galbusera, l'avvocato disse a Giovanni: "Mia moglie desidera conoscerti. Vieni domani a sera a prendere il tè da noi. Ti presenterò". Non c'era mai stata intimità fra loro. Il principale gli dava del tu come ad un subalterno, ad un giovinetto, non come ad un amico. Tuttavia Giovanni aveva acquistata bastante esperienza, per comprendere quel cambiamento improvviso; e sorrise di quell'uomo d'ingegno che, conoscendolo da cinque anni, aveva aspettato, ad apprezzarlo, che lo avessero apprezzato prima il pubblico ed i giornali. L'entrare in casa di quel superiore diretto, il presentarsi a quella matrona, alla quale egli attribuiva quasi il doppio della sua età, lo metteva in soggezione. Infatti la signora Berti aveva varcata di qualche anno la quarantina. Ma non aveva figli, era bella, prendeva una cura grandissima della sua persona, vestiva con eleganza, frequentava i teatri e le feste da ballo, scollata, colle braccia nude, coi fiori in capo: danzava, faceva le chiacchierine galanti coi giovinotti, amava che le facessero la corte, e lo lasciava comprendere. Giovanni aveva capito facilmente da' suoi modi leziosi, e dalle occhiate, e dal vestire, che quella signora aveva delle pretese giovanili; ed era impensierito del modo di mettere d'accordo quelle aspirazioni coll'età di lei, e colla qualità di moglie del suo principale; due cose che lo intimidivano. Quando entrò in casa Berti, l'avvocato lo accolse come un camerata; appena lo vide, gli andò incontro colle mani stese; poi gli prese il braccio confidenzialmente e, nel fargli traversare due sale per condurlo da sua moglie, gli disse: "Trattiamoci da amici, dammi del tu. Qui non c'è più principale né sostituto. In casa mia ricevo i miei amici...". E fermandosi per ripetere una stretta di mano soggiunse: "ed i miei colleghi". Poi gli affermò che ormai, dopo il processo Galbusera, egli aveva preso posto fra gli avvocati più valenti di Milano, e tirò via a discorrere del suo genere di eloquenza forense, confrontandolo col proprio, discutendo le sue argomentazioni, ammirando le sue trovate. Giovanni fu commosso, e strinse egli pure cordialmente la mano di quell'uomo, che aveva giudicato artifizioso e rettorico, e che ora cominciava a conoscere sotto un altro aspetto. Il Berti non ci metteva studio nelle tirate sentimentali che da tanti anni formavano la sua gloria; era realmente un uomo sentimentale malgrado i suoi cinquant'anni. Aveva la fantasia poetica, il cuore appassionato; era una natura romantica. Durava fatica a tenersi un po' in sussiego coi giovani di studio, perché amava la gioventù, si univa volontieri ai suoi spassi, ne aveva l'ingenuità, la spensieratezza, lo spirito avventuroso. Dapprincipio le difese di Giovanni, serrate, positive, senza quelle tirate declamatorie colle quali egli faceva piangere le signore ed abbarbagliava i giurati, gli erano sembrate fredde: "Non ha sangue nelle vene, costui" diceva. "Non sa commovere; non fa nulla pei suoi clienti". Ma quando aveva udita nel processo Galbusera la parola del giovine avvocato attingere tanta efficacia dalla semplice esposizione dei fatti, ne era stato vivamente impressionato, ed aveva risentito un sincero piacere del trionfo del suo sostituto. Rimanendo rettorico, perché era nato ed invecchiato così, capiva il merito d'un sistema differente e più verista. La cordialità della signora fu meno candida. Lei pure era contenta realmente d'avere nel suo salotto il giovine avvocato che faceva parlare di sé tutta Milano; ma era contenta per vanità, non per sentita ammirazione di lui. Tanto lei che il marito avevano delle aspirazioni giovanili. Ma nel Berti erano effetto d'una natura entusiastica e sentimentale, che l'età non era riescita a disilludere. Nella signora erano vanità e civetteria. Tutta la sera ella prestò un'attenzione quasi esclusiva a quel nuovo venuto illustre; lo presentò alle signore, che fecero a gara nell'invitarlo alle loro serate, e ad ogni invito rispose per lui: "Sì; te lo condurrò martedì, te lo condurrò domenica. Sono io che lo patrocino, come allievo di mio marito...". Poi soggiungeva, ridendo come chi dice una cosa stravagante: "Gli faccio da mamma". E Giovanni era obbligato a protestare che era troppo giovine, e bella, e che una mammina così inspirava tutt'altro che riverenza, tutt'altro... Un po' colla sua protettrice, un po' da solo, Giovanni fece il giro delle conversazioni di Milano. La sua bella figura, i suoi modi d'una semplicità elegante, il contegno dignitoso, l'umore giocondo, e soprattutto il suo spirito brillante, lo rendevano simpatico a tutti. Gli uomini lo consultavano sulle questioni politiche e sociali, e facevano gran caso del suo parere. Le signore si dolevano perché non ballava, dicevano che alla sua età era una pedanteria, e lo invitavano loro stesse per una polka, per una quadriglia, col pretesto d'insegnargli a danzare, ma, in realtà, perché amavano di passeggiare al suo braccio per le sale, di conversare con lui, di sentirlo dire dei complimenti, un po' diversi da quelli convenzionali che udivano sempre. Infatti Giovanni cominciò a ballare, e nel carnovale seguente prese parte alle danze, sebbene molto moderatamente, e divenne uno dei giovani più ricercati ed alla moda. Ma l'impianto di uno studio e d'un piccolo quartiere, il vestire elegante, il vivere in una locanda buona e ben frequentata, come conveniva alla sua nuova situazione, erano cose dispendiose assai. C'era sempre nel suo cuore lo sgomento di avvezzarsi a farla da parassita come suo padre, e che un giorno s'avesse a dire di lui: "Vive alla mensa dei signori come il Dottorino". Misericordia! Per evitar questo, prodigava mazzi di fiori, gingilli artistici, palchi in teatro alle famiglie che lo invitavano a serate ed a pranzi. Tutto questo gli costava caro. I suoi guadagni bastavano appena per le sue spese e pel sussidio che mandava a suo padre; ed in mezzo a' suoi trionfi, era sempre lontano, lontano assai, dall'ideale del signor Pedrotti: "Un marito ricco per sua figlia". Ma questo pensiero non lo perseguitava più tanto. La memoria di Rachele, sempre soavissima quando gli tornava alla mente, vi tornava con minore insistenza. L'idea di sposarla era sempre fissa in lui, come un patto contratto con sé medesimo, come un destino. Ma le impazienze ardenti di raggiungere quella meta non le provava più, ed altri ardori, altre impazienze ne avevano preso il posto nel suo cuore. Dacché era liberato dalle cure affannose della vita materiale d'ogni giorno, dacché s'era adagiato in un'esistenza comoda e si vedeva circondato dal lusso e dalla bellezza, la sua potente vitalità giovanile gli aveva ridestata nell'anima la sete dei piaceri, tanto più viva, quanto più lunga ne era stata la privazione. Si sentiva affascinato dalla bellezza provocante delle dame, che gli sorridevano e gli stendevano la mano. Contemplava avidamente le loro spalle e le braccia nude, e quando non eran vestite da serata, le ripensava, le rivedeva coll'immaginazione, traverso i velluti e le sete. I fuggevoli amoretti delle sartorine e delle crestaie, che avevano interrotta di tratto in tratto l'uggia della sua vita da giovinotto povero senza occupargli né la fantasia né il cuore, ormai non lo allettavano più. Nella sua natura da poeta era istintivo l'amore dell'eleganza. Amava le donne belle, ben vestite, che parlano bene. Amava di entrare nella loro atmosfera signorile, di mettersi ai loro piedi sopra un ricco tappeto, di sedere con esse sui divani di raso, di sentire il profumo dei loro capelli e dei loro guanti. Anelava alla sua parte di felicità, al romanzo tempestoso della gioventù, si trovava nell'ambiente che poteva crearlo, e si compiaceva, coll'immaginazione appassionata, a figurarselo pieno di emozioni e di gioie. Una sera, che in una festa da ballo s'era nascosto fra due vasi di camelie, per abbandonarsi all'estasi snervante di quei sogni, si vide dinanzi un braccio meravigliosamente bello, ed una voce soave ed affannosa gli disse: "Per carità, venga a ballare questa quadriglia. Ho dovuto ritirarmi per ravviarmi i capelli, e sono rimasta senza ballerino". Egli si rizzò sbalordito, cogli occhi fissi su quelle braccia, su quelle spalle, su quel seno, su tutta quella pelle bianco-rosata da bionda, che gli pareva la realtà della sua visione d'amore. Seguì la bella donna trasognato e muto, sbagliò tutte le figure della quadriglia a cui non badava punto; non cessò mai di fissare la sua ballerina con uno sguardo avido. Si sentiva oppresso. Aveva incontrata parecchie volte quella signora, era stato in casa sua, la conosceva, sapeva che era bella, ma non aveva mai provata nessuna commozione accanto a lei. Si erano trattati con quella certa confidenza compagnevole e gioviale che le donne avvezze alla società accordano spesso ai gentiluomini, e spesso Giovanni parlando di lei aveva detto: "Mi piace, perché non ha la pretesa che le si faccia la corte. Si può parlare con lei come con un amico". Invece, in quel momento d'eccitazione gli parve che quella bellezza fosse fatta per lui, che la rivelazione di quelle forme, provocantemente nude, fosse una conseguenza delle sue fantasticherie amorose; che le avesse evocate, e gli fossero apparse. Non parlava affatto, ed aveva l'aria turbata ed infelice. "Che cos'ha, avvocato?" gli domandò la contessa. "Siete troppo bella!" rispose Giovanni colla voce sommessa ed affannosa d'un uomo appassionato. La contessa rimase sbalordita. Ebbe un sussulto come se avesse ricevuto un colpo nel petto. Comprese che avrebbe dovuto risentirsi, rimproverare il suo cavaliere troppo audace, oppure voltargli le sue belle spalle e piantarlo solo. Ma in realtà non provò nessun risentimento. Aveva infatti ricevuto qualche cosa come un colpo nel petto, come l'urto d'una pila elettrica. Lo stesso turbamento che opprimeva Giovanni oppresse anche lei. Finirono la quadriglia muti, agitati, in uno di quegli affannosi silenzi d'amore, più eloquenti ed espansivi di qualunque parola. Le loro mani s'incontravano tremando, si stringevano a lungo, si separavano lentamente e con rammarico; i loro sguardi s'incrociavano e rimanevano avvinti come due lame calamitate; i loro petti erano oppressi da una grande malinconia, da uno sgomento ignoto, e lei aveva voglia di piangere. La contessa Gemma Castellani di Monte era una donna ambiziosa e scettica. Fin dall'adolescenza aveva amato il lusso sfrenatamente, e quella passione, crescendo cogli anni, aveva invaso tutto il suo cuore. Da bimba in collegio aveva sempre ricercate le compagne ricche e nobili, disprezzando quelle che non avevano una mamma elegante, delle carrozze e dei servitori in livrea. Fatta più grande, poi, desiderava un ricco matrimonio ed un titolo di nobiltà con tale ardore che non le rimaneva cuore per altri sentimenti. L'amore la faceva sorridere. Se udiva di due sposi innamorati che si isolavano per vivere l'uno all'altra, crollava le spalle con disdegno e diceva: "Che gusti!". In fatto di matrimonio s'interessava soltanto di conoscere la rendita, il corredo e le toelette della sposa; se questa andrebbe in società, se riceverebbe molto, se avrebbe molti cavalli e belle carrozze. Per conto suo, in fondo in fondo all'anima, aveva anche una speranza vaga di cavalcate eleganti e di lunghi abiti all'amazzone. Ma era figlia d'un banchiere che aveva una numerosa famiglia e che, per non dissestare i suoi affari, non poteva darle più di centomila lire di dote. Sua madre le aveva fatto capire che con una dote così modesta non bisognava manifestare molte esigenze per non impaurire i pretendenti. E la bella Gemma, che per nulla al mondo non avrebbe voluto diventare una zitellona, s'era tenuto in cuore il suo cavallo da sella, salvo a tirarlo fuori e ad imporlo al marito quando fosse ben sicura che questi non potesse sfuggirle. Ma faceva grande assegnamento sulla sua bellezza, e non volle sacrificare i suoi sogni d'ambizione ai giovani agenti di cambio, avvocati, piccoli possidenti, che le offersero il loro cuore ed una situazione modesta. Un giorno le fu presentato, in una casa aristocratica, un generale in ritiro, che aveva il titolo di conte, trenta capelli bianchi per tutta capigliatura, e sessant'anni sonati. Qualcuno bene informato disse che era milionario, e la bella Gemma confidò alla padrona di casa che nessun giovinotto le aveva mai fatta un'impressione tanto buona come quell'uomo "dall'aspetto nobile e dalla fronte intelligente". Del resto non era vecchio; lei non credeva che avesse più di cinquant'anni; certo non li dimostrava; ed a cinquant'anni un uomo è sul fiore dell'età. Lei aveva diciannove anni appena; ma era sicura che, se l'avesse domandata in moglie, non avrebbe avuto difficoltà a sposarlo; un marito deve avere acquistata una lunga esperienza della vita, per essere guida sicura ad una giovine sposa. Lei non capiva come si potesse affidare il proprio avvenire, la propria felicità ad un giovinotto spensierato... Sapeva con chi parlava, la bella Gemma. La sua confidente riferì i discorsi della giovinetta al generale milionario; riferì di nuovo a lei l'espressione della gratitudine del conte, e quanto avrebbe desiderato di possedere una giovine sposa così bella e ragionevole; ma, alla sua età, non osava domandarla; temeva di rendersi ridicolo... "So bene che lui non ci pensa" disse Gemma. "Neppur io ci penso; non ho mai sognato che mi toccasse una simile fortuna. So che il babbo ha in vista un banchiere ricchissimo, un giovinetto... Lo sposerò; ma se m'avesse domandato quest'uomo serio, l'avrei accettato con maggior fiducia..." Daccapo la signora confidente riferì quegli incoraggiamenti impliciti della sua giovine amica, e, dopo due mesi, la figlia del banchiere diveniva contessa e milionaria, ed aveva fra i suoi doni di nozze un bel cavallo da sella. Erano passati i primi sette anni di matrimonio con una rapidità vertiginosa. La contessa Gemma correva con una smania febbrile di festa in festa; lusso, divertimenti d'ogni sorta, ricevimenti sfarzosi che assorbivano in una serata la rendita di un anno, villeggiature splendide, l'avevano inebbriata. S'era abituata subito al suo titolo, ma si compiaceva sempre di sentirselo dire; e gli elogi alla sua eleganza, le ammirazioni, per quanto iperboliche, non la saziavano mai. Nei primi tempi il marito, prendendo sul serio la sua missione di guida presso la giovine sposa, aveva cercato di frenare quella foga esagerata, e ne erano nati dei dissensi, che avevano rese anche più vive per la contessa quelle soddisfazioni che doveva ottenere al prezzo di lotte acerbe. Era ancora un trionfo della sua vanità l'aver vinta l'opposizione del marito. Alla fine il generale s'era rassegnato ad essere semplicemente una guida materiale, per accompagnare sua moglie dovunque ella sapeva di trovare una soddisfazione d'amore proprio o un diletto. Alle bagnature di Baden e di Vichy, alle invernate di Nizza, alle mostre mondiali di Parigi e di Londra, ai ricevimenti di corte il vecchio soldato compariva immancabilmente presentando la sua bella dama. Con un simile treno di vita cinquantamila lire di rendita sono ben poco; si fecero dei debiti, si tirò innanzi finché si poté, ma all'ultimo s'era dovuto darsi vinti ai creditori, e ridurre le spese alla modesta rendita che era rimasta per non finir male. Allora la superba signora aveva abbandonate le società aristocratiche dove, per nulla al mondo, avrebbe voluto comparire meno splendidamente di prima, e s'era messa nei circoli della borghesia, nei quali si poteva far buona figura anche con una carrozza ad un solo cavallo, e senza nessun cavallo da sella. Ed ecco in che modo Giovanni l'aveva incontrata in casa della signora Berti, e delle sue conoscenti. La galanteria aveva sempre lusingata la vanità della contessa, ma la passione non aveva mai parlato al suo cuore. Il suo stesso lusso, il suo orgoglio, avevano intimidito gli amori nascenti. Quanto a lei, amava troppo se stessa, troppo le premeva di far parlare di sé come della dama più elegante di Milano, per aver mente e cuore ad innamorarsi. Forte della sua bellezza e della sua gioventù non aveva bisogno di civetterie per farsi ammirare: e quella mancanza di civetteria, e l'altezza che le veniva dalla grande opinione che aveva di sé, le avevano fatta una riputazione d'onestà ed era stata la sua salvaguardia. Era considerata una fortezza inespugnabile. C'era voluta tutta l'eccitazione, il rapimento, la follia a cui era giunto Giovanni quella sera, nella lotta tra la sua imperiosa vitalità giovanile ed i suoi desiderii d'amore insoddisfatti, per gettare così in faccia ad una signora, che tutti giudicavano onesta, quelle tre parole ardenti come un bacio: "Siete troppo bella!". La contessa aveva ventotto anni, e di tutte le ebbrezze dell'amore non aveva conosciute che le carezze del suo vecchio marito. La passione, latente nel suo cuore, si accese come una fiamma all'urto di quello sguardo, al suono di quella voce. Ella non pensò di resistere a quel fascino come non aveva pensato mai di resistere a nessuno de' suoi desiderii. Il suo egoismo era grande come una passione; non sapeva negar nulla a se stessa. Quella notte, rientrando dal ballo, sola nella sua stanza, pianse di gioia e d'impazienza, ripensando le strette di mano e gli occhi neri e profondi di Giovanni. Dove l'avrebbe riveduto? Quando? Era tutto un orizzonte inesplorato di delizie che le si apriva dinanzi: una vita nuova. Dopo l'orgoglio di sapersi ammirata e bella, l'orgoglio più intenso di sapersi amata e la gioia d'amare. Giovanni si sentiva attirato da quella donna. La ricercava, la seguiva, la avvolgeva in una rete di passione. E quando la lontana immagine di Rachele gli si presentava alla mente, non più come una visione di cielo, ma come una meta da cui si allontanava, egli diceva come per tranquillarsi: "Questo amore passeggero per una donna maritata è un fiore che si coglie per via. Non impegna a nulla". Ma per nessuna cosa al mondo avrebbe rinunciato a cogliere quel fiore. Andava dappertutto dove sapeva di trovare la contessa; le stava sempre accanto coll'occhio avidamente fisso sulla sua persona bella. Coglieva l'occasione, nelle figure delle quadriglie, per stringerle la mano, e pareva che tra quelle mani ci fosse un filo conduttore d'elettricità che le facesse tremare all'unisono, e le congiungesse così fortemente, che il distaccarle era una pena e, separate, si ricercavano. Giovanni ballava poco. Ma una sera, trovandosi accanto alla contessa mentre intonavano una polka, le porse la mano in silenzio, ed ella accettò. Allora se la strinse al cuore come se volesse rapirla, la riscaldò, la arse in quell'abbraccio, le sfiorò i capelli, la accarezzò tutta quanta nella stretta delle due persone congiunte, poi, nel ricondurla a sedere, le serrò le mani con una forza che compendiava tutte le strette amorose, supplichevoli, ardenti, intime con cui aveva parlato a quella mano cara durante il ballo. Ma non le disse nulla. Era felice di quella passione calda che lo invadeva tutto. Si sentiva amato, s'inebriava, s'inteneriva in quelle mute dolcezze; amava di assaporarle; non sentiva il bisogno di precipitare il romanzo colle spiegazioni che lo avrebbero abbreviato. Sapeva che una spiegazione verrebbe. Vedeva la gioia suprema che lo aspettava, e lasciava che venisse da sé, di tenerezza in tenerezza, temendo quasi che, affrettando il momento supremo, avesse a perdere una di quelle sfumature del sentimento, uno di quegli episodi puerili e muti, che lo deliziavano. Pensava le spalle bianche, la vita flessibile, i capelli biondi della contessa Gemma, ricordava fremendo le sue strette di mano febbrili, i suoi lunghi sguardi innamorati; ed ardeva tutto all'idea che quella donna sarebbe sua. Dove? Come? Quando? Non ne sapeva nulla, ma era certo di possederla; e quella certezza lo inebbriava. Un giorno la signora Berti gli aveva dato appuntamento in casa sua, perché doveva presentarlo a qualcheduno misteriosamente. Infatti Giovanni trovò nel salotto della sua amica la signora del banchiere Ipsilonne, il quale era seriamente compromesso in un processo che si stava iniziando per una grossa falsificazione a danno dello stato. Una somiglianza fatale della sua scrittura con una delle firme falsificate lo accusava, e, dei due periti calligrafici chiamati dal tribunale, uno dichiarava di conoscere la mano di scritto del banchiere, e l'altro esitava, senza osare di negare la sua colpabilità. Ma in realtà egli era innocente. La moglie desolata giurava per lui, e si raccomandava a Giovanni perché ne assumesse la difesa, coll'impegno, coll'amore che aveva posto nella difesa del povero acquavitaio omicida. Era un processo interessantissimo, che prometteva all'avvocato un nuovo trionfo, e la causa di quell'uomo integro, fatalmente implicato in una truffa vergognosa, lo appassionò. Mise il suo tempo, la sua mente, il suo cuore al servizio del nuovo cliente. Impose silenzio alla sua passione, e, senza accordarsi il tempo per rivedere e salutare la contessa, si recò a Napoli, a Roma ed a Torino, per assumere documenti, prove e testimoni in favore del banchiere. Poi tornò a precipizio, perché la mattina seguente dovevano cominciare i dibattimenti. Giunse a Milano coll'ultimo treno della sera, dopo essere stato assente più di una settimana. Rientrando in casa trovò un telegramma del parroco di Fontanetto che lo aspettava da sei giorni. Partecipo con dolore morte dottor Mazza, tuo padre. Trovato esanime in letto stamane; spirato, pare, iersera. Regolamenti sanitari vietano differire sepoltura oltre ventiquatt'ore. Telegrafa ordini funerali. Dopo sei giorni i funerali dovevano essere fatti e dimenticati. Non era molto che Giovanni aveva spedita al padre una piccola somma; poi c'erano i mobili di casa. Egli pensò che ormai non c'era più bisogno de' suoi ordini, e tanto meno della sua presenza a Fontanetto, che del resto il processo del domani rendeva assolutamente impossibile. Egli aveva fatto il suo dovere, anche a costo di grandi sacrifici, sovvenendo il padre nella sua miseria; ma non era un figlio devoto. La vita da parassita, le ubbriacchezze del Dottorino, la sua servilità verso i signori, le sue violenze in casa, e l'ultimo degradamento del delirium tremens a cui lo sapeva ridotto, non lo invogliavano a correre al suo paese, per raccogliere l'eredità di sprezzo, che doveva essere l'unica successione del povero morto. Sapeva che in quel momento non avrebbe inspirata nessuna simpatia, perché era troppo viva la memoria di quell'ignobile vita e di quell'ignobile morte. E d'altra parte non gli premeva più tanto di produrre un'impressione favorevole a Fontanetto. Non s'era bastantemente arricchito per domandare Rachele, pensava. Ma in realtà, mentre cinque anni prima quel momento gli era sembrato tanto lontano, ora trovava che era troppo presto per ammogliarsi. Rispose con un telegramma, che la notizia gli era pervenuta troppo tardi e per conseguenza non aveva potuto assistere ai funerali; che confidava nel parroco, il quale certo aveva fatte le cose ammodo. Giovanni pensò con profonda tristezza la vita miserabilmente trascinata per trent'anni da suo padre, la sua morte vergognosa, tutta quell'esistenza oscura, senza elevatezza e senza affetti, e ne sentì un infinito rimpianto Il Dottorino aveva forza ed ingegno. Senza dubbio avrebbe potuto far qualche cosa; ed era passato così. Ed egli era suo figlio; forse aveva ereditato il germe del carattere paterno; forse le passioni abbiette che avevano rovinato il padre gli stavano latenti nel cuore aspettando un momento di snervatezza, d'inerzia, per svilupparsi e per vincerlo. Questo pensiero lo impaurì, gli riaccese più viva nel sangue la smania del lavoro, l'ambizione della gloria che incalza, il desiderio della ricchezza per assicurarsi l'indipendenza. E passò tutta la notte allo studio del suo grande processo per prepararsi alla difesa. I dibattimenti durarono una settimana, e furono una serie di trionfi pel giovine avvocato. Ormai era noto e famoso; ogni sua parola era aspettata, ripetuta in giro, riferita dai giornali. Il fatto solo ch'egli doveva parlare, faceva accorrere una folla di gente, stenografi, giornalisti; le sue frasi erano ridette, commentate nelle conversazioni, i suoi criterii facevano legge per molti, ed erano discussi e presi in considerazione anche dalle persone più serie. Ogni sera egli trovava alla sua porta un fascio di biglietti da visita, riceveva lettere di congratulazione, parole d'ammirazione e d'amicizia. Egli però era ancora sotto l'impressione triste della morte del Dottorino. Rientrando in casa, gli pareva sempre di doverci trovare il cadavere di suo padre, decrepito anzi tempo, morto nell'ubbriacchezza. Avrebbe voluto non pensarci, e non poteva. Ogni giorno vedeva nella tribuna la contessa che stava ad ascoltarlo. Era splendida di bellezza e d'eleganza, ed attirava tutti gli sguardi. Ma lei non guardava che il giovine difensore. Giungeva presto; quand'egli entrava era già là ad aspettarlo. Gli fissava in volto i suoi occhi d'un turchino metallico, e rimaneva immobile, cogliendo al volo lo sguardo di lui quando alzava il capo, lanciandogli un'occhiata tagliente, acuta, penetrante, che gli andava all'anima traverso le pupille. Durante la sua difesa, più volte egli la guardò; era appassionato e commosso, e sentiva il desiderio d'un volto amico. Lei era sempre nella stessa posizione, coll'occhio intento su lui, come per forza magnetica. La pupilla azzurrina era velata da uno strato vitreo: piangeva; non colla pezzuola, né con una mano sugli occhi; piangeva lasciandosi cadere lungo le guancie le lacrime lente, che pendevano tremolanti ai lati del mento, e si staccavano come perle per caderle sul seno, dove segnavano dei larghi dischi plumbei sulla seta cenerina del vestito. Giovanni era turbato da quegli sguardi, da quelle lacrime, da quella bellezza affascinante, da quell'amore prepotente che sfidava le convenienze per rivelarsi a lui. In quei giorni di tristezza sentiva d'amare la contessa con una tenerezza dolce da sposo. Non provava gl'impeti di passione sfrenata di un mese prima, non aveva il desiderio febbrile di stringerla, di stritolarla sul suo cuore, di mordere le sue carni rosee da bionda. Avrebbe voluto sederle accanto in un misterioso silenzio, e piangere sul suo seno. Ogni giorno si proponeva di andar da lei; ma differiva sempre. Si deliziava di quell'aspettativa, della stessa intensità del suo desiderio. E non cessava di pensare a lei. Il Dottorino era caduto in un tale stato d'ebetismo, che era passato dall'ubbriachezza alla morte senza forse avvedersene, certo senza poter chiamare aiuto, né aiutarsi. La Matta l'aveva trovato freddo, stecchito nel suo letto, ed era corsa ad avvertire il parroco, e questi l'aveva mandata a chiamare il procaccio per spedirlo subito a fare il telegramma a Borgomanero. "È pel signor Giovanni" diceva la Matta al procaccio. Ed era in tale orgasmo all'idea di rivedere Giovanni che non pensava più alla tragedia che era avvenuta in casa. Si fermava all'ingresso delle botteghe, e susurrava come chi teme di destare qualcuno che dorme: "È morto il padrone! È morto briaco!". E faceva atti di meraviglia; pareva che ricevesse lei quella notizia invece di darla. E quando lo stupore dei bottegai era passato un pochino, ripigliava, raggiante di gioia, come se fossero trascorsi degli anni, e non ci fosse nessun rapporto tra la nuova luttuosa della morte, e l'avvenimento felice che annunciava: "Ora il padrone è il signor Giovanni; servirò lui". La sera il parroco, vedendo che il figlio non veniva né rispondeva, disse che bisognava seppellire il cadavere. La Matta rimase atterrita. Guardò il morto, che aveva la bocca contorta come se la schernisse dalla sua cassa, e pensò che stava per andarsene. Poi pensò alla lontananza ignota del padrone giovine, e si mise a piangere ed a gemere: "Oh Dio! Come farò a trovarlo? Come farò?" Era sempre stato il suo ideale, povera donna, di servire un giorno Giovanni, di vivere con lui. Nella devozione del suo amore da schiava, non aveva mai desiderato altro che di servirlo; ma lo aveva desiderato con un'intensità passionale, ne aveva fatta la méta della sua vita in questo mondo; e quando in chiesa pensava vagamente al paradiso si figurava ancora Giovanni in alto, e lei a' suoi piedi; un atteggiamento cui non avrebbe osato aspirare nel suo stato presente, ma che le pareva d'una dolcezza paradisiaca. Intanto pregustava piaceri più terreni. Passava delle ore incantevoli ad immaginarsi di preparare un pranzo per Giovanni. Sapeva che amava il risotto, pensava tutta la cucinatura d'un risotto squisito; vi aggiungeva idealmente dei funghi, e fin dei tartufi; e rideva di gioia all'illusione di vederglielo mangiare e di sentirsi dire: "Com'è buono!". Si faceva insegnare dalle cuoche del farmacista e del parroco una quantità d'intingoli complicati, per nutrire i suoi sogni d'amore. Ed ora dov'era mai quel padrone che voleva servire con tanto cuore? Dove trovarlo? E se si fosse smarrita per via? Ed anche il morto se ne andava. Lei non lo aveva amato; ma ne aveva presa cura perché era il padre di Giovanni, e perché sentiva vagamente che quel vecchio inebetito era un legame tra la casa ed il giovine assente. Il morto fu messo sotterra; e quando la Matta tornò dal cimitero, sfigurata dal piangere lungo e disperato, trovò il parroco, che era tornato prima di lei, e faceva esaminare a parecchi creditori i mobili del defunto. I denari che riceveva dal figlio il Dottorino li spendeva all'osteria, dall'acquavitaio, dal tabaccaio; ed aveva lasciati dei debiti presso tutti i bottegai e presso il padrone di casa. "È un debito di quattrocento lire in tutto" diceva il parroco. "Poi ci sarebbe quel poco funerale, e la messa... Sul figlio non c'è da contare, perché non ha nemmanco risposto e non è venuto; ma, vendendo i mobili, se ne caverà una piccola somma che forse basterà a pagar tutti". La Matta, che era stata ad ascoltare a bocca aperta, si fece pallida e tremò. Vendere i mobili! I mobili, fra i quali aveva sognato di vivere il resto de' suoi giorni con Giovanni! Il suo letto; la tavola dove pensava sempre d'apparecchiargli da pranzo. E quei libri che gli piacevano tanto! Rimase un poco assorbita in riflessioni difficili, senza più badare ai discorsi degli altri che parlavano di vendita amichevole di asta giudiziaria di altre cose che lei non capiva. Poi se ne andò, corse ad aprire la sua cassa, e ne tolse il libretto della cassa di risparmio, che portò al parroco, ridendo di gioia cogli occhi ancora gonfi di pianto. "Cosa vuoi farne?" domandò il parroco. "Comperare i mobili..." implorò la povera donna. "Sarebbe un prestito che faresti al figlio del tuo padrone?" "Sono suoi" disse la Matta con generosa convinzione. "E il padrone è lui". "Ma dei mobili cosa vuoi farne?" "Portarli al padrone. Ma bisogna insegnarmi la strada". Il parroco rimase perplesso. Non voleva abusare della generosità stupida della povera serva. D'altra parte sapeva che i mobili del Dottorino non potevano fruttare in tutto che un centinaio di lire. Invece, le cinquecento lire all'incirca che offriva la Matta erano bastanti per pagare i creditori ed anche la parrocchia. Ci pensò a lungo, perché non aveva la mente molto svegliata; ma finì per trovare una soluzione: "Tu comperi i mobili per conto dell'avvocato" disse alla Matta. "Più, gli presti il rimanente della somma per pagare i debiti di suo padre. Io farò in modo che ti rimanga da pagare il viaggio ed il trasporto dei mobili. E tu, andando a Milano colla roba, gli dirai la cosa com'è, e ti farai restituire il fatto tuo. Gli dirai che, se non ha fede nella tua parola, scriva pure a me, ch'io attesterò del prestito che gli hai fatto di cinquecento lire...". Di tutto questo la Matta non capì nulla, assorta com'era nell'idea d'andare a Milano da Giovanni e di portargli i suoi mobili, che dovevano fargli tanto piacere. Dove fosse Milano, come potrebbe arrivarvi, non ci pensava più. Il parroco le avrebbe insegnata la strada. Andava a servire Giovanni, a fargli da pranzo, a spazzolargli i vestiti, a rifargli il letto. Come si proponeva di rivoltare le foglie del pagliericcio! di farle stare sollevate perché il letto fosse morbido! Lei non conosceva ancora i pagliericci elastici. Diceva alle vicine: "Ora non gli mancherà più nulla, poveretto. Ora sono io che lo servo!". E lo diceva con un intenerimento, con un senso d'abnegazione, come se, dacché era lontano da lei, nessuno gli avesse più resi quei servigi, e stesse squallidamente abbandonato, aspettando lei. Era trasfigurata dalla gioia. Salutava tutti dicendo: "Non mi vedrete più". Ma quella parola tristissima delle separazioni eterne, la ripeteva giubilando: non poteva cessare di ridere; quel riso era diventato una contrazione involontaria del volto; una convulsione di gioia. Passò parecchi giorni e spesso vegliò anche la notte per pulire, involgere, imballare, sempre col pensiero smarrito nelle visioni, lungamente vagheggiate, di piatti in cucinatura, destinati a Giovanni, delle scarpe di lui infilzate nel suo braccio, e lustrate, lustrate, fino alla lucentezza d'uno specchio, fino ad indolorirle la spalla pel resto della giornata. La partenza da Fontanetto sul carro, la strada ferrata, che vide per la prima volta a Novara, non la distrassero dalle sue fantasie. Osservò con ispavento i facchini che portavano i mobili verso i carri delle merci, lontani dalla carrozza di terza classe, dove il carrettiere, dandole il biglietto, aveva indicato a lei di salire; poi si avviò verso le merci per viaggiare accanto al suo deposito. Ci vollero spiegazioni infinite per farla tornare al suo posto. Guardava con diffidenza quel pezzo di carta che doveva farle restituire i mobili a Milano e lo teneva preziosamente stretto in mano, sebbene dubitasse del suo valore. Il carrettiere le disse: "Vedrete come si va presto là dentro. Altro che sul carro!" Ma lei non gli diede retta rispose soltanto: "Siete sicuro che me li restituiranno quando sarò a Milano?" Si avvide appena della rapidità della corsa; non poteva essere bastantemente rapida pel suo desiderio. Scendendo a Milano si gettò sul primo impiegato delle ferrovie che vide, col suo biglietto in mano, e non badò a nulla, fuorché alla ricerca dei mobili. Il facchino che li caricava, vedendo quella specie di selvaggia, le disse: "È la prima volta che venite a Milano?" La Matta stese ansiosamente le mani verso uno stipo sgangherato che egli stava sollevando e non rispose. "Vedrete com'è grande e bella Milano!" tornò a dire il facchino. "Più del vostro paese. Di dove siete?" "Badate che non si rompa; posatelo pianino" gridò la Matta tutta assorta nella responsabilità di quello stipo. Percorse le contrade, a piedi, dietro i due carri tirati dai facchini, cogli occhi fissi sui mobili, senza badare ad altro. In piazza del Duomo il facchino ciarliero si voltò per godere della sua meraviglia. Ma la Matta non guardava il Duomo. Pensava che stava per veder Giovanni, per comparirgli dinanzi improvvisamente, le batteva il cuore, ed aveva una inesplicabile paura. Poi pensava alla gioia che proverebbe ricevendo i suoi mobili. "Tanta bella grazia di Dio che volevano vendere!" Il facchino le gridò: "Ohe! Guardate un po' in su. È più bello del San Gaudenzio di Novara". La Matta alzò gli occhi; vide una massa bianca e smisurata colla Madonna in cima, si fece il segno della croce, poi riprese a camminare a capo chino. "Stupidi villani!" mormorò il facchino ambrosiano; e diede un urtone al carro dei mobili, per vendicarsi. La Matta aveva un bigliettino che le aveva dato il parroco coll'indirizzo di Giovanni, Via del Capuccio N... Non aveva voluto darlo al facchino, l'aveva presentato tutto spiegazzato a due o tre persone domandando ansiosamente: "Dov'è? Da che parte si va?" Ed aveva preteso di dirigere i facchini dietro quelle indicazioni. Furono essi invece che la guidarono, e si fermarono al portone che a lei, incapace di leggere i numeri, sarebbe sfuggito. Giovanni non era in casa. Lo scrivano dello studio aperse l'uscio, e rimase sbalordito al vedere quella contadina seguita da due uomini carichi di vecchi mobili. Il giovine avvocato non aveva che lo studio, con un salottino annesso, e la camera da letto. Lo scrivano esitava a lasciar ingombrare le stanze con quelle anticaglie. Ma la Matta lo guardò ben bene in aria di sfida, e gli disse: "Sono i suoi mobili, ed io sono la sua serva". D'altra parte i facchini grugnivano "che non potevano rimaner sull'uscio eternamente con quei pesi sul capo". Bisognò lasciarli deporre il carico, una volta, due, tre, finché ebbero vuotati i carri. C'era una stia sulla scrivania dell'avvocato, e la vecchia libreria vuota, posata contro l'armadio della camera da letto, ne nascondeva lo specchio. Nel vano del balcone entrò come una nicchia il cassone dei libri, e dappertutto seggiole zoppicanti, materassi rotolati, fodere da pagliaricci, credenze. La Matta contemplò avidamente il mobiglio del piccolo quartiere che le parve splendido. "Questa però non è roba sua", pensava. Aveva una vaga rimembranza di discorsi uditi quando Giovanni era all'università, che non aveva bisogno di portarsi un letto né altro perché gli dava tutti i mobili la padrona di casa. "Sono più belli dei suoi" diceva fra sé guardando il letto di ferro vuoto, e le modeste poltroncine di damasco di lana, "ma sono troppo belli, danno soggezione. Non si potrebbe prendere la rincorsa e saltare su quel tavolino, lucido a quel modo; ci resterebbe l'impronta dei piedi..." E, tutta rasserenata a quell'idea gioconda dei salti che Giovanni faceva da fanciullo, riprese a sorridere alle vecchie tavole che ingombravano il passaggio. "Come si troverà più libero fra questi mobili suoi che conosce..." E si figurò di vederlo rallegrarsi di quegli oggetti come di vecchi amici; le pareva che dovesse guardarli ad uno ad uno, e ridere delle memorie che gli richiamavano, e quasi accarezzarli, e poi dire a lei che era contento di riavere la sua roba, e che aveva fatto tanto bene a portargliela, guai se l'avessero venduta! E fregarsi le mani, e saltare, e dire: "Ora sì che mi sentirò in casa mia, e staremo bene!" Era tutta animata evocando col pensiero l'immagine del bel giovinetto che era partito dal paese cinque anni prima, ma se lo figurava più gaio, più felice pel dono che lei gli portava. Guardò i suoi abiti appesi ad un attaccapanni, li rivoltò da ogni lato, introdusse timidamente una mano nella fodera d'una manica, poi sorrise e disse forte: "È seta!" Vicina al letto c'era una poltroncina, e sul tappeto una pianella capovolta. La raccolse, cercò sotto il letto la compagna, e le dispose una accanto all'altra. Accarezzò lo schienale imbottito della poltrona, passò leggermente una mano sul sedile; le batteva forte il cuore; si sentiva opprimere; cedendo ad un'attrazione irresistibile, si guardò intorno come se temesse di venir sorpresa, poi si mise a sedere sull'orlo di quella poltroncina dove sedeva lui. Una specie di ebbrezza la invadeva; tremava tutta; era commossa e finì per abbandonarsi ad un pianto silenzioso e dolce. Finalmente s'udì il campanello. La Matta balzò in piedi e corse all'uscio dello studio. Era lui che tornava di certo; e lei era là in casa sua a riceverlo, a servirlo. Come doveva essere contento di vederla là! Le si struggeva il cuore dalla tenerezza. Diede un'occhiata rapida al letto laggiù in fondo alla camera, ed all'uscio, e le splendevano gli occhi come due fiamme. Forse pensava se traverso la toppa si potesse vederlo dormire, come laggiù nella stanza di Fontanetto. S'udì lo scrivano aprire l'uscio del salotto, poi una bella voce, sonora come una musica di chiesa, disse in tuono di grande meraviglia: "Che cosa c'è?" "È giunta una contadina... La sua serva..." rispose lo scrivano. La Matta che s'era sentita commossa fin nelle viscere da quella voce, ringoiò un singhiozzo che la strozzava, e s'affacciò all'ingresso del salotto gridando: "Son io, signor Giovanni, son io!". Poi si mise le mani giunte fra le ginocchia, e stette a guardarlo dondolandosi e ridendo, ridendo finché gliene rimasero gli occhi pieni di lacrime. "Oh! sei tu, poveretta! Come va? Come va?" disse Giovanni cordialmente. La Matta non poté che rimettersi a ridere, perché quel gruppo in gola non la lasciava parlare. "Mi fa piacere di vederti" soggiunse l'avvocato, battendole una mano sulla spalla. "Brava! mi fa piacere". Questa volta il gruppo uscì dalla gola in un singhiozzo, e la povera donna si nascose il volto nelle cocche della pezzuola del capo che le pendevano sotto il mento. "Via via" tornò a dirle Giovanni affettuosamente, "non agitarti. Siedi. Riposati. Parleremo più tardi". Ed entrò nella sua camera. Ma ne uscì presto, stette un momento sull'uscio per assicurarsi che il primo impeto di commozione era passato poi disse: "E così? Com'è che hai portati questi mobili?" "Sono suoi" rispose la Matta, ed il suo volto s'irradiò di gioia nel dargli quella nuova consolante. "E tu hai fatto il viaggio apposta per accompagnarli?" domandò Giovanni, senza esternare il piacere che la Matta s'aspettava. "Sei stata ben buona, e te ne ringrazio". La Matta ripeté ancora: "Era giusto; sono suoi". "E non ci sono debiti da pagare laggiù?" "No, no. È pagato tutto". Giovanni aveva mandato sufficiente denaro a suo padre per poter credere facilmente che fosse morto senza lasciar debiti, ed avanzando da pagare i funerali. Fece un giro nello studio, guardando la stia sulla scrivania, due panche da letto ritte contro un casellario, pigliando in mano una vecchia cassetta pel sale, che era sulla tavola dello scrivano; poi tornò dalla Matta e ripeté i ringraziamenti. "Sei stata troppo buona davvero. Non metteva conto di venire fin qui per questi cenci. Si sarebbe potuto venderli là; oppure avresti potuto tenerli". "Oh, sono suoi" disse per la terza volta la povera donna col cuore serrato. "Non importa" riprese Giovanni, "te li regalerei volentieri in compenso delle cure che hai avute pel povero babbo". La Matta si sentiva gelare il sangue di dentro. Non era l'accoglienza che s'era aspettata; le pareva che la mettesse fuori dell'uscio, e tremava tutta di vedersi sola nel mondo. Giovanni, vedendo che rimaneva a capo chino senza rispondere, credette di comprendere, e ripigliò: "Ma forse non sapresti dove metterla questa roba; non puoi portartela in casa dei padroni. Dove andrai ora?" le domandò con affettuosa premura. "Hai trovato da collocarti?" Fu un colpo di pistola in mezzo al cuore per quella serva devota. Non la voleva! Non ci pensava nemmeno di tenerla con sé! Quella delusione la colpì così dolorosamente che si lasciò ricadere sulla sedia e si mise a piangere ed a sospirare: "Oh povera me! O povera donna me!" Giovanni le sedette accanto, cercò di consolarla. "Non affliggerti così. Se non hai padrone, lo troverai; intanto puoi rimanere qualche giorno qui, e poi ti darò del denaro perché tu possa aspettare in casa della tua balia finché non ti capiti da collocarti bene. Sai che non sei una donna abbandonata. Ho de' doveri verso di te, e li riconosco volentieri..." Passeggiò su e giù per la stanza, come impacciato dalla presenza di quella donna, poi guardò l'orologio e vide che erano le sei: "Ma tu avrai fame" disse con premura. "Io pranzo alla locanda e qui non ho nulla da darti. Ti farò accompagnare ad un albergo qui accanto, dove ti daranno da mangiare, ed anche da dormire. Potrai fermarti due, tre giorni, fin che vorrai. Sono buona gente. Le ragazze ti condurranno fuori a vedere Milano". La Matta non si moveva. S'era tirata giù la pezzuola fin sulla fronte, e rimaneva muta colla testa bassa. "Non vuoi venire? Che cosa vuoi fare?" domandò Giovanni con un lieve tono d'impazienza. Lei sentì che doveva rispondere, e facendo uno sforzo sovrumano balbettò: "Io non so". Egli era avvezzo a quella parola inconsapevole della povera scema, ma in quel momento, vedendo che rifiutava di andare a mangiare e dormire, mentre doveva averne tanto bisogno, pensò che forse le mancava il denaro, ed aprendo il cassetto della scrivania, ne trasse un biglietto da cento lire, e glielo mise in mano dicendole: "Prendi. Questo è per te. Ti pagherai le spese all'albergo, ed il viaggio quando vorrai tornare al paese. Ed in ogni occorrenza che tu abbia bisogno, fammi scrivere, perché sei sempre stata buona e non ti abbandonerò". Era una sentenza definitiva. Non voleva tenerla con sé. Era finita, non c'era più speranza. Il lungo sogno della sua povera vita svaniva, il suo grande amore da schiava era respinto dal padrone. In quella immensa rovina parve alla Matta che il mondo crollasse intorno a lei, che la spingessero sola in un immenso deserto. Le venne in mente l'asino del mugnaio che girava sempre sempre intorno ad un palo per far girare la macina, e, quand'era vecchio e non girava più, lo conducevano a Borgomanero e lo vendevano per poche lire. E pensò che lei era come quell'asino. Si rizzò convulsa, scese le scale barcollando, Giovanni la seguì. Provava una grande pietà per quella povera creatura. La condusse egli stesso in un piccolo albergo modesto, dove altre volte aveva mangiati i suoi modesti pranzi da una lira, e la raccomandò all'albergatrice. Poi le disse prendendole una mano come avrebbe fatto con una signora: "Sei stanca, poveretta. Ora mangerai bene, berrai un buon bicchiere di vino, e ti metterai a letto. Addio; stai di buon animo. Vieni a trovarmi prima di partire. E se hai bisogno di me, ricordati". Se ne andò commosso e pensoso. Quella comparsa gli faceva tornare alla mente vaghe e lontane le immagini del passato: il suo poetico amore, mezzo morto, soffocato dalla passione che lo divorava. Ma quello era l'amore dell'avvenire, l'amore dell'età tranquilla, il riposo, la pace. Ora aveva nell'anima la tempesta. Quell'ultimo giorno la contessa lo aveva magnetizzato, bruciato coi suoi lunghi sguardi. In certi momenti era penetrata nel suo cuore fino a fargli tremare la voce, a mettergli un singhiozzo in gola. Colla fissità innamorata di quegli occhi larghi e chiari gli aveva detto ancora ed ancora che lo amava, che era sua. Ed egli sentiva che era vinto, che non potrebbero più vivere separati, che avevano assaporate tutte le note dell'incantevole preludio dell'amore, che erano giunti a quello stato d'esaltamento che rende felici od uccide. E per essi non c'erano ostacoli, non dovevano morire. Quella notte vegliò febbrilmente sognando l'ultimo rapimento dell'amore confessato, la gioia ineffabile e crudele di possedere quella donna, d'abbandonarsi a lei, di confondere le loro vite in una passione colpevole. Il mattino fece sgombrare lo studio dei vecchi mobili di suo padre. Incaricò lo scrivano di farli mettere sul solaio, e di riporre i libri nella libreria. Aspettava qualche cosa; era agitato; avrebbe voluto che la sua casa fosse bella. Non osava pensare che la contessa poteva venire; ma aspettava qualche cosa da lei; era certo di vederla; quel giorno sarebbe andato e le avrebbe detto che la amava. Ma sperava che lo scrivesse prima lei. Andò a sedere alla scrivania; ma era impaziente. Ad ogni scampanellata guardava l'uscio ansiosamente; se tardavano ad entrare, gridava allo scrivano che era andato ad aprire: "Chi è?" Una volta lo scrivano gli rispose: "È il cameriere della locanda. Viene per quella donna di ieri..." "Ah! Va bene, pagalo" rispose Giovanni distratto. Ma poco dopo lo scrivano rientrò: "Dice che vuol parlare con lei". Giovanni accennò col capo di sì, e guardò il cameriere per invitarlo a parlare. Questi crollò il capo, poi disse: "Era disperata, povera donna!" "Disperata! Perché?" "Non so. Non ha voluto parlare. Andò a rannicchiarsi in un angolo della bottega e rimase tutta la sera cogli occhi da spiritata. Urlava come un cane rabbioso, e si cacciava le unghie nella fronte". "Ma cosa aveva?" domandò Giovanni. "Sie... Aveva un bell'interrogarla in tutti modi, anche la padrona. Non rispondeva nulla, la respingeva ed urlava più forte. C'è voluto tutto a farla andare in camera quando si dovette chiudere l'albergo. E tutta notte l'abbiamo udita gemere. Poi questa mattina la padrona la trovò ancora rannicchiata in terra; non s'era messa a letto. Disse che voleva tornare al suo paese, e non ci fu verso. Bisognò metterla nell'omnibus e condurla alla stazione pel primo treno di Novara. Non sapeva neppure prendere il biglietto; l'ho preso io..." Giovanni rimase impensierito. Aveva ascoltato un po' distrattamente, ma pure s'interessava della povera serva; disse a mezza voce: "Cosa potrà avere? Ma!". Poi pensò che i campagnoli non sanno stare lontano dai loro paesi. Quella poi non se ne era scostata mai, ed era un po' scema; s'era spaurita... Prima che il cameriere uscisse, s'udì un tocco del campanello; e portarono una lettera a Giovanni. Era la lettera della contessa. Egli si alzò, e corse a leggerla solo nella sua stanza. Alla Matta non pensò più. La bella contessa Gemma, avvezza ad appagare tutte le sue brame ad ogni costo, appena s'era sentita nascere nel cuore un amore, vi si era abbandonata senza la minima resistenza; l'aveva anzi fomentato coll'immaginazione, aveva pregustate con delizia le sorprese di quella nuova gioia che si prometteva. S'era figurata l'ora inebbriante e soave della confessione; le parole ardenti, gli sguardi innamorati e profondi, le carezze febbrili; ed aveva vissuto quell'ora col pensiero, coll'ansia del desiderio; ne aveva provate le emozioni, intense fino allo spasimo, fino al delirio; e di giorno in giorno aveva detto: "Sarà domani". Poi i domani s'erano succeduti monotoni e lenti senza portare nessun avvenimento nel suo romanzo d'amore; ed allora la contessa s'era sentito stringere il cuore da apprensioni paurose: "Se non lo vedessi più? Se non mi amasse? Se quella sera avesse ceduto ad un'eccitazione momentanea e poi l'avesse scordata come si scorda un'ora d'ubbriachezza?". Ed allora le era parso che le mancasse qualche cosa di profondamente caro, di necessario alla sua esistenza; aveva provato un bisogno potente che, comunque fosse, ubbriachezza, eccitazione, delirio, quella sensazione durasse nell'animo di Giovanni; oppure si rinnovasse, se quel breve tempo l'aveva dissipata. E s'era data a cercarlo affannosamente nelle case ch'egli frequentava, ai teatri, alle feste, studiando le abbigliature e le scollature più provocanti, facendosi bella e seducente per riconquistare quella dolcezza, che l'aveva inebbriata un momento ed era svanita. E da ogni ricerca tornava prostrata, irritata, nervosa; s'abbandonava a pianti convulsi, ed accessi di furia; spezzava quanto le cadeva sotto mano, maltrattava la cameriera, lacerava abiti e trine, scriveva lettere disperate, poi le lacerava anch'esse. Finalmente aveva saputo che egli era assorto in un processo di grande importanza; e lei era corsa a cercarlo alle udienze, aveva preso il posto più in evidenza nella tribuna, aveva fatto pompa delle commozioni che provava nell'ascoltarlo, s'era gloriata superbamente di quel sentimento tutto nuovo pel suo cuore frivolo, e che metteva una nota romantica nella sua vita. Per tutta la durata dei dibattimenti, aveva scandagliato il giovine avvocato colla fissità delle sue pupille metalliche; gli aveva trasfusa nell'anima traverso gli occhi un'onda d'amore, l'aveva attirato a sé colla potenza d'una passione imperiosa, d'una volontà irresistibile. E lo aveva veduto arrossire, impallidire, tremare, commoversi sotto suoi sguardi, ed aveva riprovata la gioia suprema di sapersi amata. Ma ancora i giorni s'erano succeduti, e Giovanni non era andato da lei. Tornando dalla grande seduta quell'ultimo giorno, ardente d'entusiasmo, ardente d'amore per quel giovine dalla voce armoniosa e profonda che strappava lacrime ed applausi a tutti, la contessa aveva rotto ogni freno di riserbo femminile, e, nella sua impazienza, aveva scritto: "Perché non venite? Non sapete che vi amo?" Quella lettera mise la febbre nel sangue a Giovanni. Dopo il lungo studio e la lunga fatica di quel processo che lo aveva occupato esclusivamente, si gettò con un ardore da assetato in quella festa d'amore che la fortuna gli offriva. Corse come un pazzo dalla contessa, dimentico dell'ora, delle convenienze, di tutto. Erano appena le undici del mattino. Fu introdotto in sala da pranzo, dove il generale e sua moglie stavano a colazione. Giovanni rimase istupidito come uno che si svegli improvvisamente da un bel sogno. Non gli pareva possibile che quella signora, seduta compostamente a tavola, che mangiava una bistecca discorrendo del più e del meno con quel marito vecchio, fosse la stessa eroina da romanzo che gli aveva scritto: "Non sapete che vi amo?" In un momento tutta la sua illusione inebbriante si dissipò, gli parve di aver delirato, e che non fosse vero nulla, e che dovesse trattare sempre quella bella donna come la trattava in quel momento davanti al conte. Quell'ambiente tutto impregnato d'odori di vivande, colla mensa coniugale, coi cerchietti dei tovaglioli marcati coi nomi dei due sposi, colle biancherie colle loro cifre, con una quantità di cosette di uso comune che li vincolavano, non era fatto per udire proteste d'amore, e le soffocava in gola. Un momento Giovanni pensò che quella lettera era stata un artificio per ottenere una visita che egli tardava troppo, e forse anche per ischernirlo di quel momento d'aberrazione, in cui egli s'era lasciato sfuggire quell'esclamazione stravagante: "Siete troppo bella!" Stette ad assistere alla colazione, comprendendo appena le domande che gli facevano sui particolari del processo, rispondendo lungamente come se, per giustificare in qualche modo la sua presenza a quell'ora, volesse persuadere il generale che era andato appunto per portare quelle nuove. Era imbarazzato di trovarsi là, e non sapeva come andarsene. Guardava la contessa e la vedeva così tranquilla, sorridente, felice, che non poteva più figurarsela tribolata da una grande passione. Senza dubbio il solo pazzo era lui. Finalmente il conte si alzò da tavola, porse la mano al visitatore, e, coll'aria rassegnata d'un uomo avvezzo a piegarsi alla volontà della moglie, domandò di uscire per fumare un sigaro: "Gemma non può tollerare l'odor di tabacco in casa". E se ne andò. Appena egli fu scomparso parve che l'ambiente della stanza si mutasse; la prosa era uscita con lui. La contessa, ritta accanto all'uscio che aveva chiuso dietro il generale, sembrava trasfigurata. Le sue pupille turchine mandavano lampi acuti come punte d'acciaio; tremava tutta. Giovanni le si fece incontro, e sentì che le parole d'uso, i saluti convenzionali non erano più possibili. S'erano compresi e spiegati troppo; erano due innamorati, soli per la prima volta, l'uno in faccia all'altra. Stese le mani in silenzio; Gemma gli porse le sue, e stettero così un momento colle mani strettamente congiunte, cogli occhi fissi, muti, palpitanti, inteneriti. Poi Giovanni se l'attirò accanto, la serrò in un abbraccio ardentissimo, silenzioso, mentre lei, sopraffatta dalla violenza dei suoi sentimenti, si abbandonava ad un pianto convulso. Da quel giorno Giovanni e la contessa Gemma divennero inseparabili. Dovunque essa andava, si era certi di vederla accompagnata da lui. Alle sue serate, ai suoi pranzi d'invito il giovine avvocato era immancabile come uno della famiglia. Era difficile giungere prima di lui e partire dopo. Dal canto suo la contessa era assidua in tribunale quando Giovanni perorava qualche causa; si teneva al corrente di tutti i processi che gli erano affidati, e si gloriava dei trionfi di lui come d'una cosa che la riguardasse. Quel primo amore a trent'anni, nella pienezza del suo sviluppo fisico, della sua esperienza di donna, s'era rivelato alla prima imperioso, violento, intollerante d'ogni freno. Pareva che ella si compiacesse a far pubblica la sua relazione con Giovanni come per dire alla gente: "Badate, questo uomo è mio". Vivevano quanto più potevano insieme; in mezzo ad un circolo di conoscenti sapevano cogliere il momento per rivolgersi qualche parola sommessa, per isfiorarsi la mano nel porgersi una tazza di tè, nel leggere insieme un giornale. Davano appena, lui al lavoro, lei alle esigenze della vita elegante, il tempo e l'attenzione che erano strettamente necessari. Poi si cercavano, si rinvenivano, dimenticavano ogni cosa per assorbirsi l'uno nell'altra. Sovente, a tarda sera, uscendo dal teatro, si facevano condurre fino ai bastioni lontani di Porta Nuova, poi mandavano la carrozza ad aspettarli a Porta San Celso e facevano a piedi sulla neve quel lungo tratto di strada, rabbrividendo di freddo, stringendosi l'uno all'altra per riscaldarsi, correndo, parlando poco, beati di sentirsi uniti e soli e liberi nella misteriosa oscurità. Se per necessità di professione Giovanni doveva allontanarsi da Milano, la contessa scompariva al tempo stesso, e ricompariva soltanto quand'era tornato lui. Si dava appena la briga di immaginare una parente lontana che era stata a visitare in campagna, ma senza curarsi di farlo credere. Inventarono alcune di quelle follie temerarie che i giornali pettegoli amano di narrare, nascondendo male i nomi dei protagonisti sotto il trasparente velo dell'anonimo Fecero l'ascensione del Monte Rosa vestiti tutti e due della medesima stoffa grigia, colla stessa cravatta, gli stessi stivaletti, lo stesso cappello di feltro ornato d'un pennacchietto e di una sciarpa bianca, gli stessi guanti. Sull'alpenstok, sotto il nome del picco e la data dell'ascensione, fecero incidere le loro iniziali riunite, e, lungo il viaggio, sugli album degli alberghi, s'inscrissero sempre come sposi in viaggio di nozze, mettendo accanto ai loro nomi delle frasi sentimentali. Un'altra volta andarono a Monte Carlo, giocarono fin all'ultimo soldo, e dovettero rimanere in pegno all'albergo finché Giovanni ebbe telegrafato a Milano, e gli fu spedito il denaro del ritorno. Il generale ignorava forse quelle spedizioni di sua moglie; oppure le conosceva, e si era rassegnato. Comunque fosse, la relazione della contessa col giovine avvocato non era un mistero per nessuno. Era una di quelle situazioni che la gente tollerante accetta malgrado la loro illegalità, che le persone ammodo tengono a distanza, ma a cui tutti finiscono per avvezzarsi. Anche i due amanti ci si avvezzarono, e dopo qualche tempo, esaurito il repertorio delle follie amorose, tirarono via ad amarsi tranquillamente come due sposi. Era un amore troppo sicuro e palese per creare situazioni da romanzo. Non c'era il mistero né la paura affannosa d'essere scoperti. Tutto procedeva liscio in quella passione spensierata e gioconda che si alimentava più di monellate che di sentimentalità languenti; era un amoretto più che un amore, e per questo durava. Tuttavia Gemma, sotto quell'apparenza giuliva d'amoretto galante, nutriva una forte passione nella quale aveva concentrata tutta la poesia d'un primo amore, tutto l'ardore dell'età matura. Mentre invece Giovanni, sedate le prime tempeste, s'era fatto de' suoi rapporti con la contessa una dolce abitudine, che lo riposava da' suoi lavori senza distrarnelo troppo, che non lo turbava con impazienze ardenti né con gelosie, che gli lasciava tutta la sua serenità di spirito. E gliene era grato, e le era affezionatissimo. Tratto tratto ripensava le sue lontane ambizioni di farsi ricco per strappare al signor Pedrotti il consenso di sposare Rachele. Ora era ricco, guadagnava cinquantamila lire all'anno. Ma quanto tempo c'era voluto! Fortuna che quella giovinetta non s'era impegnata ad aspettarlo. Ormai doveva essere maritata, e madre di famiglia. In certi giorni noiosi, monotoni, sospirava che anche lui avrebbe voluto esser padre di famiglia, e che invecchiava solo, e più tardi non avrebbe nessuno intorno per amarlo... Ma poi rivedeva la contessa, passava delle buone ore con lei, e non ci pensava più. Così passarono degli anni, durante i quali la fama, la fortuna, la situazione sociale di Giovanni si consolidarono. Non era più un giovinotto; aveva trentacinque anni: era un uomo serio; si trovava alla testa di uno dei principali studi legali di Milano; possedeva un appartamento signorile; era decorato della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, ed era certo d'essere portato candidato alle prime elezioni. La contessa era sempre bella, e, con quella tenacità che è particolare alle donne, sempre innamorata. Finché Giovanni fu assiduo presso di lei, e devoto ai suoi desideri, fu felice anche lei di quell'amore sereno in cui tutto era piacere e diletto. Ma venne il tempo in cui anche le formalità della galanteria furono messe da parte, e, gradatamente, senza quasi avvedersene, Giovanni trascurò di mostrarsi innamorato, e lasciò troppo comprendere che considerava l'amore coll'occhio d'un uomo serio. "Questa" diceva, "è la parte privata della mia vita: non deve invadere il terreno della parte pubblica. Ho altri doveri: lo studio, il tribunale, gli affari, la politica. Debbo leggere i giornali, frequentare i circoli. Quando sono libero non domando di meglio che stare con te. Ma non posso passare le giornate a farti la corte. Sai che ti voglio bene..." La bella Gemma invece s'era fatta delle idee da romanzo; sognava la passione esclusiva ed eterna, non poteva rassegnarsi a quel cambiamento di Giovanni, ne cercava le cause, scriveva lunghe lamentazioni, e quando rivedeva l'amante, occupava le poche ore ch'egli poteva dedicarle a fare scene di risentimento e di gelosia. Giovanni, in realtà non aveva fatto nessun cambiamento. Egli, che l'aveva sempre amata ad un modo, e soltanto aveva smessa un po' la galanteria e le dimostrazioni a misura che era cresciuta l'intimità, non capiva di che cosa ella si lagnasse, la trovava esigente ed ingiusta. "Alla nostra età" le diceva, "non possiamo più abbandonarci alle follie amorose come due giovinetti". Quelle parole sembravano crudeli alla contessa. Si disperava ch'egli la trovasse vecchia. "Ecco" diceva, "è per questo che non mi ama più". E si torturava di gelosia se egli avvicinava una donna più giovine di lei. Giovanni ci metteva della buona volontà per renderla contenta; tornava studiatamente alle frasi amorose, si metteva in ginocchio, le baciava le mani. Ma era troppo uomo per non avere un certo sussiego in società: ed in presenza della gente ripigliava il suo contegno serio che affliggeva tanto Gemma. "Debbo farlo per rispetto alle convenienze" diceva, "per rispetto a te stessa". Ma lei, che ripensava sempre con rimpianto il tempo in cui egli pure non si curava di quel rispetto, non rinunciava alla speranza di vederlo rinascere, ed insisteva a cercare la causa che rendeva freddo il suo amante. Più d'una volta lo mise nell'imbarazzo frapponendosi tra lui ed una supposta rivale. Una sera, mentre egli si disponeva ad accompagnare al pianoforte la giovine sposa d'un suo amico che doveva cantare una romanza, la contessa dichiarò che stava male, che aveva bisogno di ritirarsi immediatamente perché si sentiva svenire, e obbligò Giovanni ad uscire per ricondurla a casa, prima che la signora avesse potuto cantare. Giovanni uscì irritatissimo, ed appena fu solo in carrozza con lei si lagnò che lo rendesse ridicolo con quelle scene. Ne seguì una lite aspra, che durò per tutta la strada, poi un lungo malumore, uno scambio di lettere desolate, supplichevoli, umili da parte della contessa, fredde da parte di lui, e finalmente una riconciliazione stentata. Così tirarono avanti del tempo ancora, un po' in pace, un po' in guerra, ritrovando tratto tratto qualche raggio della passata felicità, illudendosi d'averla ricuperata, poi ricadendo nelle liti, nei malumori per una puerilità, per un saluto che Giovanni rivolgeva ad un'altra, per un atto di poco riguardo verso Gemma. Nell'inverno una signora, artista di canto, che aveva una lite con un impresario teatrale, andò a consultare l'avvocato Mazza e gli affidò la sua causa. Giovanni dovette recarsi più volte da lei per avere informazioni ed istruzioni. Era una bella donna e la gente pettegola non perdette l'occasione di ciarlare a proposito di quella nuova relazione dell'avvocato. La contessa divenne inquieta, sospettosa, pazza di gelosia. Pretendeva che Giovanni rinunziasse a quella causa. Implorava questo come una prova d'amore, e non poté ottenerla. Giovanni era infastidito di quelle esigenze strane, e diventava meno condiscendente ogni giorno. Fu un tristo carnovale per la contessa, che si sentiva trascurata, e vedeva con dolore il suo amante sfuggirle a misura ch'ella metteva più passione e studio per trattenerlo; sfogava il suo malcontento in dispettucci meschini che inasprivano tutti e due. Una sera in teatro uscì improvvisamente dal palco a metà dello spettacolo perché Giovanni aveva salutata la sua cliente, che era nel palco di contro. Poi venne la quaresima; non c'erano più spettacoli teatrali, e poteva meno sorvegliare Giovanni. Se non andava da lei, se non lo incontrava in qualche casa di comuni amici, si figurava che fosse dalla cantante; nessuna ragione valeva a persuaderla del contrario. Giovanni finì per impazientarsi e non iscusarsi più. Allora ella s'abbandonò ad una vera persecuzione contro l'artista. Fece inserire degli articoli malevoli sul suo conto in un giornale teatrale, e giunse persino a scriverle delle lettere anonime, accusandola di fingere una lite per sedurre un avvocato illustre e ricco. Giovanni, a cui la cantante comunicò quelle lettere, rimase male; s'irritò della situazione ridicola in cui lo metteva la contessa, e nel suo giusto sdegno le rimproverò acerbamente la sua ignobile azione. Fu la crisi decisiva che doveva rompere quella relazione già troppo prolungata e violenta. La contessa, quando si vide abbandonata, nella sua gelosia insensata, non pensò che a ravvivare l'amore di Giovanni rendendo lui pure geloso. E si fece vedere in pubblico accompagnata da un giovinotto che la corteggiava da qualche tempo, ed ostentò di trattarlo con confidenza, di accordargli delle libertà che lasciavano supporre relazioni molto intime fra loro. Giovanni lo vide, e ne provò un profondo disgusto; ma non fu geloso, non andò a rimproverare alla bella infedele la fede tradita, non scrisse lettere disperate. Il suo cuore s'era fatto freddo per lei e rimase freddo. Allora, nella sua nervosità febbrile, la contessa si abbandonò davvero ad un amore che non sentiva, per vendetta, o per dispetto, o per amor proprio, o per tutte e tre le ragioni unite; ed, eccessiva in tutto, prese una risoluzione pazza, che annunciò lei stessa a Giovanni, in un'epistola insensata e crudele. Forse prese quella risoluzione unicamente per scrivere quella lettera. Vi avevo giudicato troppo bene - diceva per concludere una serie di periodi amari e pungenti -. E voi non meritate il mio amore. Finché aveste bisogno d'una relazione nella società alta per farvi strada, fingeste d'amarmi. Ora che avete una situazione, mi abbandonate come un ingrato. Ma non vi state a figurare d'avermi avvilita col vostro disprezzo, e ch'io debba passare il resto de' miei giorni a rimpiangervi; non siete degno di tanto. Se voi non mi trovate più troppo bella, e neppure bella a sufficienza per riscaldare il vostro cuore d'uomo positivo, c'è chi mi trova ancora bastantemente bella per consacrarmi tutta la sua vita, per sacrificarmi la sua posizione come voi non avete saputo sacrificarla mai, per sfidare l'opinione del mondo, il vostro idolo. Siate felice colla vostra conquista da palcoscenico; io cercherò di dimenticare, nell'amore d'un uomo generoso, un altro che non lo fu mai... Prima che Giovanni ricevesse quella lettera violenta e verbosa da amante offesa, tutta Milano parlava della fuga della contessa Gemma col suo nuovo amante. Quella vendetta mostruosa di passare freddamente, e per pura pazzia gelosa, da un uomo che amava ad un indifferente, finì di disgustare Giovanni; si sentì deluso, oltraggiato, diffidò della dignità umana. Certo, nel suo amore per la contessa, non aveva mai posta molta idealità. Aveva subito il fascino della bellezza, dell'eleganza. L'aveva conosciuta quando egli era nel completo sviluppo della sua gioventù, dopo una vita di privazioni, e col cuore e la fantasia eccitati da un lungo amore contrariato. Aveva ceduto alle tendenze della sua età, ed era stato felice ed infelice con quella donna, senza averne un alto concetto morale, curandosi appena del suo animo, del suo carattere. Era certo di non trovarsi mai nel caso di darle il suo nome, e s'appagava di trovarla bella, spiritosa, ammirata. Era un'amante che lusingava il suo amor proprio, che lo rendeva felice e lo manteneva di buon umore, senza che egli la mettesse nel suo pensiero al disopra di tutte le donne. E tuttavia, la sua parte di vanità umana non gli avrebbe mai permesso di credere che la donna amata da lui potesse scendere tanto in basso. E quando dovette riconoscerlo, dubitò di tutte le donne, pur di non credere che gli era toccata appunto la peggio. E, mentre, non amando più la contessa, non provava alcun dolore nel perderla, si sentiva desolato, infelice, solo. Era la sua ultima illusione che la bella fuggitiva s'era portata con sé; ed era quella che egli rimpiangeva. Ebbe un momento di aberrazione, in cui si buttò a corteggiare disperatamente la sua cliente artista di canto, come per ravvivare con un'altra passione, o apparenza di passione, i sentimenti che si sentiva morire nell'anima. Ma quella giovine era talmente avvezza ad essere corteggiata, che trovò naturale di esserlo da lui, e non ne fece caso. Soltanto quand'egli volle spingere le cose più innanzi, gli disse netto netto che, in quel momento, aveva una relazione di cuore. Era facile capire che, senza quella circostanza, avrebbe accolte ad ogni modo le sue profferte, quand'anche la sua relazione con lui non avesse potuto essere di cuore. Fu una nuova amarezza per Giovanni. Egli si trovava appunto in quell'età in cui l'esperienza della vita è completa. Aveva provate tutte le illusioni poetiche della gioventù. Poi ne aveva compresi gli errori, aveva imparato a considerare il mondo dal suo lato più positivo, a riguardare come sogni giovanili i sentimenti puri, le passioni disinteressate, a prendere il mondo dal suo lato piacevole e gaio. Ed ora, anche di questo secondo apprezzamento comprendeva gli errori, e, fatto il confronto, si persuadeva che gli errori di prima erano preferibili. E ricordava con rimpianto il nobile ardore che lo infiammava altre volte per le prime cause sostenute, il lavoro fervente ed amoroso del giorno, le veglie, impazienti d'altro lavoro e d'altre scoperte. Ora le cause affluivano al suo studio senza procurargli nessuna gioia. Le esaminava coll'occhio freddo e sicuro dell'esperienza, le sosteneva senza eccitazioni, senza lacrime, qualche volta senza metterci neppure interessamento. Ricordava il suo punto di partenza. Un'estrema povertà, ed un grande amore. E ricordava la meta che s'era prefissa. La gloria e la ricchezza, sempre per quell'amore. Ora aveva ottenute la ricchezza e la gloria; ma l'amore lo aveva perduto per via. Forse, se, appena conseguita una situazione onorevole ed agiata, si fosse affrettato a domandare Rachele, sarebbe giunto in tempo prima che altri l'avesse ottenuta. Ma allora le mille curiosità della vita cittadina lo spronavano per un'altra via; la poesia serena di quell'amore verginale, la pace del matrimonio non l'avrebbero reso felice; avrebbe portate nella calma della vita coniugale le febbri ardenti del suo cuore giovine, le aspirazioni illusorie della sua inesperienza. C'eran voluti la vita burrascosa del mondo galante, gli amori adulteri ed avventurosi, per appagarlo, e restituirgli la pace; e lo avevano, più che appagato, saziato, deluso. E lo lasciavano malcontento di sé, sfiduciato degli altri, solo, senza speranze, col cuore assiderato. Furono i giorni più tristi della sua vita. Nel suo quartierino elegante, o nei salotti aristocratici dov'era accolto, ripensava con invidia il mezzanino del fornaio, l'assito mal connesso. Nell'aula affollata del tribunale, fra ammiratori, giornalisti, stenografi, che pendevano dalle sue labbra, fra gli applausi e le lodi, ripensava la sua prima arringa fatta agli zoccoli appesi nella sua stanza; ed avrebbe voluto tornare a quei tempi, povero ed ignorato, pur di avere ancora la speranza e la fede d'allora in quel trionfo che, conseguito, lo lasciava freddo. Non aveva fatto nulla di tanto anormale che dovesse rimproverarsi. Giovine e libero, aveva seguite le inclinazioni naturali della sua età. Ognuno al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Ma gli doleva che le inclinazioni naturali fossero così; s'accorgeva troppo tardi che la prima strada era la buona; ed avrebbe voluto riprenderla; ma ormai non era più in tempo. La seconda festa di Pasqua ricevette un invito per una festa da ballo; e per abitudine vi andò. Si era fatto talmente alla vita elegante, era egli stesso così raffinato, così gentiluomo, e così uomo di mondo, che si trovava nel suo centro nelle sale sfarzose e nelle società delle belle dame, degli uomini illustri, dei diplomatici, degli artisti celebri, della nobiltà eletta. Da qualche tempo non danzava più, non giocava, non si divertiva; ma era nel suo ambiente. Quella sera era più triste del solito, e s'era messo a discorrere di politica con un vecchio senatore. Nel più bello d'una discussione seria sul macinato, che era allora la questione più interessante, il senatore sorrise da lontano a qualcuno, che poi s'avvicinò a salutarlo. "Il conte Tale; uno dei nostri futuri diplomatici..." disse il vecchio presentando a Giovanni il nuovo venuto, un giovinotto sui venticinque anni. Giovanni balbettò una delle solite frasi: "che era fortunato di fare quella conoscenza". "Ma la nostra conoscenza non comincia ora" rispose il giovinotto; "e se non mi sbaglio data per lo meno da sedici anni". Giovanni lo guardò attentamente, ma non lo riconobbe. "Non avevo che otto anni allora" riprese il giovine sorridendo. "E quand'ero invitato a pranzo mi mettevano alla tavola dei bambini..." Allora Giovanni si risovvenne del nome di quella famiglia, e riconobbe uno de' suoi piccoli commensali di casa Pedrotti. Tutta quella scena fresca, quell'ombra estiva, quelle mense signorili, quei vecchi barbassori, quella giovinetta bionda, gli si ravvivarono al pensiero come in quel giorno lontano; e stringendo le mani con effusione al suo nuovo conoscente esclamò: "Come mi fa piacere! Come mi fa piacere!" Era vero; gli faceva un grande piacere quel ritorno sul passato. L'imbarazzo che aveva provato allora, i suoi risentimenti feroci contro gli orgogliosi mecenati, la paura d'avvilirsi che lo rendeva scontroso, si erano dissipati per sempre colle circostanze che li avevano suscitati, colla gioventù che non torna. Quel quadro remoto di agiatezza e di pace gli appariva nella luce simpatica che gli dava l'esperienza de' suoi trent'anni, raggiunti traverso un lungo periodo d'avventure e di disinganni. Non si figurava d'esser laggiù ragazzo, seminarista, selvatico e disprezzato come era allora; ma nelle sue circostanze attuali, col suo bel nome, la sua sicurezza, e l'anima stanca anelante alla quiete. Gli rinacque in cuore tutt'ad un tratto una grande tenerezza pel suo paese patriarcale, per le sue colline verdi, pel vasto giardino del castello, e pei muraglioni neri che lo ombreggiavano. Tutto codesto gli parve bello e grandioso e pittoresco; e pensava che sarebbe stata una delizia di ritirarsi là, e di vivere in pace... S'impadronì del giovine diplomatico, e pel rimanente della serata se lo tenne al braccio, interrogandolo su Fontanetto e sulla gente ch'egli vi aveva lasciata. Quel giovinotto aveva dei ricchi possedimenti in paese, e vi faceva una corsa ogni anno, per cui era bene informato. Il signor Pedrotti era morto di gotta da parecchi anni e Rachele aveva continuato a vivere solitaria nel suo vasto castello. Né prima della morte del padre né poi, non aveva voluto saperne di prendere marito. L'aveva domandata l'ingegnere X di Maggiora, che era divenuto famoso fra gli architetti di Roma. Poi le avevano proposto il figlio d'Ipsilonne, quel possidente proprietario di quasi tutto il territorio di Fontanetto e Cavaglio e Ghemme, tanto ricco che lo chiamavano il Rotschild d'Italia. Poi era tornato a stabilirsi in paese quel fabbricante di violini, figlio della Tognina la mugnaia, il quale s'era fatto un patrimonio colossale ed un'educazione in America, e anche lui aveva offerto la sua mano ed il suo cuore ed i suoi milioni ed i suoi violini alla signorina Pedrotti; ma lei aveva rifiutati tutti. Alcuni dicevano che avesse un amore segreto, altri la credevano bigotta. Giovanni, nella disposizione di spirito in cui si trovava da qualche tempo, preferì la prima supposizione: che Rachele coltivasse un amore segreto nel cuore. Infatti perché non ammettere che avesse aspettato lui? Quando era partito da Fontanetto era certo che lo amava. Alla prima s'era lasciata intimidire dall'autorità del padre, e non aveva osato scrivergli né fargli una promessa contro la volontà espressa di lui. Ma col tempo aveva trovata la forza di resistere; dopo aver rifiutata una prima proposta di matrimonio, aveva capito che le era possibile, persistendo in quella via, restar fedele al suo primo amore senza mettersi in aperta ribellione con suo padre. Si sapeva amata, aveva fede nel suo innamorato, e rimaneva fanciulla per aspettarlo. Quella sera Giovanni, rientrando presto dalla festa, portò nel suo quartierino da uomo ricco, tutta la poesia de' suoi vent'anni. Salì le scale canticchiando la vecchia romanza della segretaria di Fontanetto, dimenticata da tanti anni, e che gli era tornata in mente coi ricordi del suo paese: "Non mi chiamate più biondina bella, Chiamatemi biondina sventurata..." Entrò nelle sue stanze col passo forte e la fronte alta, sorridendo come un giovinetto che torni dal primo convegno d'amore. Non aveva fin allora nessuna idea precisa, ma si deliziava nella dolcezza delle memorie; aveva la visione d'un paesaggio verde, d'un grande isolamento, d'una pace soave nella quale egli s'abbandonava all'ebbrezza d'un lungo idillio. E sorrideva al vuoto dinanzi a sé, come se dicesse: "Ora ho trovato il mio pezzettino di paradiso; il mondo non mi gabba più". Si buttò a sedere nella poltroncina accanto al letto, e cominciò a svestirsi lentamente, distratto da quei nuovi pensieri sereni, cercando collo sguardo i pochi mobili dell'eredità paterna che non aveva relegati cogli altri sul solaio, contemplandoli con amore, evocando da ciascuno una memoria, una persona, una scena d'altri tempi. E tutte queste cose, nel riapparire alla sua mente dopo tanti anni, si erano spogliate delle amarezze che le avevano accompagnate altre volte. Rivivevano soltanto nella loro parte bella, come le farfalle, che nel risorgere abbandonano la forma ingrata e lo strisciamento del bruco. Giovanni vi fissava sopra il pensiero intenerito. Quando fu coricato, prese il libro che era avviato a leggere; una relazione dei processi famosi di Londra. Ma quella sera le birbonate della grande capitale dell'Inghilterra non lo interessavano punto. Balzò dal letto, andò ad aprire la libreria, ed in punta di piedi, col lume alzato quant'era lungo il suo braccio, si mise a cercare nel piano più alto, dove teneva le opere letterarie, che non erano la sua lettura abituale. Ad un tratto fissò gli occhi sopra un volume ricoperto di marocchino rosso, lo prese vivamente come se avesse trovata una cosa smarrita e cara, e tornò a coricarsi lasciando la libreria spalancata. Era la seconda edizione dei Promessi Sposi che, tanti anni prima, aveva prestata a Rachele. Era il libro che aveva ridomandato al momento di abbandonare definitivamente il suo paese, nella speranza di trovare fra quelle pagine una promessa implorata, e che gli era tornato senza una parola, portandogli invece una delusione. Se allora vi avesse trovata quella promessa, sarebbe venuto a Milano vincolato da una parola d'onore; e non avrebbe badato ad altro che a mantenerla ad ogni costo. Appena fosse stato nella condizione di farlo senza paura di nuove umiliazioni, sarebbe corso a ridomandare la sua fidanzata; e la sua vita avrebbe preso tutt'altro indirizzo. Ora si troverebbe da parecchi anni ammogliato, alla testa d'una famiglia, e quel triviale disinganno della contessa non l'avrebbe avuto. Egli pensava queste cose colla rapidità vertiginosa con cui si pensa, mentre andava sfogliando quel volume, nel quale aveva fatte delle note in margine, degli appunti, dei segni che gli richiamavano tante memorie giovanili. Ad un tratto, nel voltare un foglio trovò una lettera. Una lettera un po' sucida, un po' gualcita ma ancora suggellata nella sua busta. Si sentì tutto rabbrividire, e gli prese un tremito, un batticuore, come se avesse veduto ricomparire un morto. Era la scrittura di Rachele. Era la lettera implorata tanti anni prima; era la promessa che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla sua vita. E non l'aveva trovata allora! La aperse agitatissimo, colle mani tremanti, colla mente ottusa. Gli pareva di essere appunto ancora a quell'epoca remota, e di stare aspettando, coll'angosciosa ansietà d'allora, quella sentenza che doveva decidere del suo avvenire. Erano poche parole: "Non mi metterò in ostilità con mio padre per esser tua (perdona questa debolezza al mio cuore di figlia). Ma non isposerò mai altri che te. Lo giuro". Giovanni rimase sbalordito, convulso. Era certissimo che quella lettera non era nel libro quando la Matta glielo aveva riportato. "Quella stupida donna!" pensò. "L'avrà tolta fuori per la curiosità di cercare gli o sulla soprascritta. Poi l'avrà rimessa a posto troppo tardi". E si ricordò con una lucidezza fenomenale tante circostanze che gli erano sfuggite allora. L'improvviso voltarsi della Matta per evitarlo quand'egli era andato, nella sua impazienza amorosa, ad incontrarla per via; il suo imbarazzo, la resistenza a dargli il libro, l'insistenza con cui reclamava ancora di portarlo lei quand'egli lo avea già ripreso; e finalmente l'averla trovata nella sua camera col libro in mano quand'era salito l'ultima volta per pigliare il baule. Coll'abitudine delle induzioni e delle ricerche acquistata nella sua lunga carriera legale, tutto questo gli risultò chiaro, e disse: "Allora aveva riposta la lettera nel volume". E si perdé a fantasticare da che piccole cause dipendono i nostri destini; e che cosa sarebbe stato di lui, se da bambino non gli fosse venuta l'idea di insegnare ad una serva scema le lettere dell'alfabeto... E tutto quel romanzo alla Dickens d'amor puro, di gioie intime, di vita casalinga che sarebbe stato la sua vita senza quella circostanza affatto casuale, gli si presentò alla mente, e gli parve un sorriso di cielo. Si fermava con compiacenza su certi particolari d'una dolcezza calma e serena, su certe scene tenerissime d'un amore senza lotte, senza vergogne, senza paure. E tutto codesto gli appariva tanto più bello, quanto più era differente dall'esistenza avventurosa e dagli amori burrascosi che lo avevano disgustato. A forza di fissarsi su quel pensiero, il rimpianto del tempo passato si dissipò. La gioia, la fede, l'amore gli rinacquero nell'anima. Infatti non gli avevano detto quella sera stessa che Rachele aveva rifiutate tutte le offerte di matrimonio? Ecco. Era appunto, com'egli pensava poc'anzi, per amor di lui. Aveva mantenuto il suo giuramento; l'aveva aspettato. Ed egli era libero, e l'amava più che non l'avesse amata mai. Cosa importava che quella lettera non gli fosse pervenuta? Che egli avesse ignorata la fedeltà generosa di lei? La situazione era la stessa; ritardata di parecchi anni, ma non alterata. Rachele era buona ed intelligente; era onesta, incapace di menzogne. Da lei non avrebbe mai a temere una bassezza né un atto sleale. Vegliò, vegliò a lungo, pensando a lei. Non poteva più essere una giovinetta. Doveva avere, poco più, poco meno, l'età della contessa: ma la contessa era piacevolissima, giovine ancora, e per lungo tempo. Rachele era bella e bionda come lei, ma i suoi lineamenti erano più regolari. Era certo di trovarla ancora più bella nel suo pieno sviluppo di donna. Se la figurava più alta, un po' più tondeggiante che a diciotto anni, e più disinvolta, più spiritosa, colle maniere cordiali ed espansive che si acquistano cogli anni e coll'abitudine del mondo. Aveva fin da giovinetta molta grazia naturale, un gusto fine, un'eleganza di modi, ed un'intelligenza... Doveva essere ormai una donna affascinante. Ed era orfana; l'avrebbe accolto sola, coll'ospitalità d'una castellana. Dopo tanto tempo forse non lo sperava più. Che commozione doveva provare al rivederlo! Doveva essere una scena da medio evo, rappresentata da una bella donnina moderna e da un lion. Si figurava di giungere a cavallo, sollevando un nembo di polvere, e di vedere la sua dama salita sull'alto della torre come la moglie desolata di Malbourough, pour voir s'il reviendra. S'addormentò in mezzo a quelle fantasie rosee, e sognò sogni di poesia e d'amore. La mattina si alzò presto, impaziente di correre a Fontanetto, di rientrare in quel romanzo d'amore giovanile e puro, di portare quella sorpresa di piacere alla donna onesta e fedele che lo aveva aspettato. Ma dovette occupare molte ore a riordinare le cose sue, a dare le disposizioni necessarie perché i suoi sostituti potessero supplirlo nello studio durante la sua assenza. Soltanto nel pomeriggio poté partire. Quanto poteva stare assente? Non lo sapeva, non volle dirne nulla. Andava incontro a tali gioie, che voleva esser libero d'abbandonarvisi senza misura di tempo, senza sopraccapi d'affari. Alla stazione di Novara dovette aspettare circa un'ora il treno per Borgomanero. Si ricordò come gli era sembrato bello altre volte il caffè della stazione. Appunto nella primavera era il ritrovo del mondo elegante di Novara. A Fontanetto se ne parlava come d'un luogo di delizie. Chi ne tornava, raccontava per un pezzo il lusso della sala, le cornici dorate ed i grandi specchi, i mobili di velluto, il marmo candidissimo delle tavole ed il sontuoso buffet apparecchiato con ogni ben di Dio. E poi si facevano descrizioni enfatiche dell'eleganza sfrenata delle signore, che nel pomeriggio di estate stavano ad udire la banda dai tavolini esterni nel giardino del caffè, mentre prendevano un gelato. Questa volta invece Giovanni si sentì soffocare entrando in quella piccola sala, che era rimasta fin allora senza riforme dopo la sua inaugurazione. I mobili di velluto di lana erano scoloriti, ed andavano perdendo il pelo come teste di vecchi. Le cornici dorate erano annerite e scrostate malgrado la mussola rosa ingiallita che le ricopriva. Sugli specchi migliaia di generazioni di mosche avevano depositate tante traccie che il viso vi si rifletteva cosparso di puntolini neri come dopo una malattia di vaiuolo. Il marmo delle tavole era deturpato da scritte e figure stupide. Era una rovina, tanta rovina, che poco dopo venne rimesso a nuovo ed ampliato, per farne una sala confortable. Al banco stava una giovine, a cui due giovinotti maturi, tra il cittadino ed il campagnuolo, facevano dei madrigali che ella accettava come roba che le fosse legalmente dovuta. Se ne stava impettita nel busto con una vitina sottile sottile da perderne il fiato: ed il capo, ornato da una pettinatura piramidale, liscia e simmetrica da parrucchiere, troneggiava dietro due piramidi di scatole da biscottini che ingombravano i due lati del banco. Di fuori un organetto suonò una polka, e la giovine caffettiera, con quella mania sfrenata pel ballo che distingue le provinciali, corse a pigliare un'altra ragazza in cucina, ed uscì a danzare con lei sotto il porticato della stazione, sbirciando i suoi due galanti, e ridendo colla compagna in modo provocante ad ogni osservazione un po' temeraria che essi facevano sulla sua persona. Poi cominciarono a giungere alcune famiglie borghesi; le signorine camminando innanzi coi vestiti chiari, ed i cappellini più stravaganti dei figurini di moda, il babbo e la mamma pochi passi indietro. Alcune giovani spose, in gran lusso, con molti gioielli, sfoggiando le ultime mode con più esagerazione che le signorine. Finalmente dei giovani eleganti che salutarono con un cenno la bella caffettierina, senza togliersi il cappello per non farsi scorgere dalle signore. Quella non era la società scelta di Novara; era la piccola borghesia; ma era quella appunto di cui si parlava molto a Fontanetto, dove si diceva una Novarese come in un villaggio del Poitou si direbbe una Parigina. Giovanni guardava quelle scene di provincia, e sorrideva tra sé dell'impressione che gli avevano fatta nella sua prima gioventù, e si abbandonava alle riflessioni di circostanza. "A misura che ci veniamo raffinando, avvezzandoci al benessere, al lusso, a tutte le delicatezze della vita signorile, ci rendiamo più difficile l'esistenza, perché soffriamo se ci troviamo in una cerchia meno eletta di quella in cui viviamo; troviamo tutto meschino, tutto brutto, tutto ridicolo, a torto ed a ragione, e non siamo mai contenti... Cos'aveva guadagnato lui diventando un personaggio ricco ed illustre? Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Ma dopo quel primo momento di abbattimento, che tiene dietro alle notizie inattese, i moderati ripresero coraggio; e la sera quando entrarono nel teatro circondando il loro candidato e sedette dinanzi alle tavole imbandite, tutti i volti dimostravano la gioia per la lotta che avrebbero incominciata nel campo amministrativo, appena chiusa quella nella lizza politica. Il teatro di Castelvetrano è un piccolo edifizio e la platea non è più grande di una sala da ballo. Al posto dell'orchestra, che è più alta del resto dell'ambiente, troneggiava la tavola per Roberto, per tutti i pezzi grossi del partito; per un ex deputato moderato di Trapani, che contava di esser rieletto, e per due senatori di Palermo. Le tavole per gli altri invitati erano tre. disposte in altro senso, e parallele fra loro, per modo che dalla tavola d'onore si dominavano tutte. Il concorso non poteva esser molto numeroso; perché quelli che s'iscrivevano per assistere alla festa dovevano pagare quindici lire, e quindici lire sono una somma in un piccolo paese. Gli elettori dell'Orlando, che erano tutti più o meno rovinati, non avrebbero potuto assistervi. ma egli aveva fornito i mezzi a diversi, fra i quali il Torres e il Bonajuto, sui quali contava molto per combattere il discorso che Roberto doveva pronunziare. Naturalmente fra gl' iscritti figurava anche l'agente elettorale che non voleva perdere quella bella occasione per farsi un merito presso il sottosegretario Gelsi, clie gli aveva affidato la delicata missione. Mentre l'altra in casa Moltedo era stata una riunione alla buona, questa era l'adunanza ufficiale e tutti aspettavano dalla bocca di Roberto un vero discorso-programmaEgli, partendo da casa, dove aveva lasciato Velleda convalescente e agitata, dove lo assalivano tanti timori, non era punto disposto a pronunziare un discorso. Non aveva avuto il tempo di scriverlo, ma tutto ciò che voleva dire non era una improvvisazione; era il risultato di idee divenute convinzioni, e a parlare non si sgomentava. Come in tutti i banchetti di quel genere, in principio le cose vanno bene; la gente mangia e sta zitta; ma il fermento comincia ali' arrosto, quando si stappano le bottiglie di vino spumante e si attende che il candidato si alzi. Il Torres e il Bonajuto, giunti in tempo, eran riusciti a collocarsi proprio di faccia a Roberto, nella tavola centrale; l'agente elettorale Marvuglia alla tavola a destra. ma anch'egli era abbastanza vicino al candidato per afferrare ogni parola di Roberto, il quale parlò poco e mangiò meno durante il pranzo. La notizia dello scioglimento del Consiglio Comunale, appresa poco prima, lo costringeva a modificare tutto il suo discorso. Che parli! Che parli! - urlavano da tutte le parti, specialmente gli avversarj. Roberto si alzò e disse: La mia prima parola è un grido di protesta. Il nostro partito, che è quello degli onesti, è indignato dell'arbitrio del Governo che scioglie il nostro Consiglio perché professa idee diverse da quelle della maggioranza. Sì, io protesto perché noi non siamo più liberi, perché una tirannia odiosa cerca di soffocare ogni manifestazione di libertà. Ma il Governo è mal consigliato dai suoi fidi, poiché questi atti d'arbitrio, di spudorata ingerenza nelle elezioni, generano sempre una reazione. È vero! - gridavasi da ogni parte. I partigiani dell'Orlando tacevano. Questa protesta, - continuò Roberto, - io la dovevo far qui, ma la farò con più efficacia, se mi crederete degno di rappresentarvi alla Camera; io la farò dinanzi ai rappresentanti della nazione. Bene! - gridavano i convitati che si erano alzati e formavano come una muraglia attorno alla tavola d'onore. E l'esempio corruttore del Governo è seguito dai suoi partigiani, i quali non rifuggono da nessuna bassezza per conquistare un seggio. In una casa del paese, il candidato della parte avversa lanciava contro di me accuse, che io mi sarei vergognato di raccogliere. Ma quelle accuse stampate, diffuse, commentate da chi aveva interesse di demolirmi hanno messo lo scompiglio fra i miei operai, hanno quasi provocato uno sciopero, e un vecchio innocente è caduto sotto il colpo di uno sciagurato, divenuto assassino credendo a quelle accuse. Basta! - gridò una voce e il Torres salendo sopra una sedia ripetè: - Basta! Non accusate un assente. Tutto quello che ha detto l'Orlando è verità. Menzogna! Calunnia! - gridarono cinquanta voci a un tempo. - Altro che menzogne! - continuò il Torres, nonostante il baccano. - Se non volesse licenziare gli operai non avrebbe comprato le macchine. Negate, se potete ; chi rovina i piccoli proprietarj? - L'Orlando rovina tutti e si fa eleggere per lucrare sul voto con ogni Ministero, - gridò don Calogero, che era salito sopra una tavola e si sbracciava. - E il Frangipani si fa eleggere per salvarsi dalla rovina, - gridava il Torres. L'uditorio scoppiò in una risata. - Sì ridete - seguitò il partigiano dell Orlando, se non fosse rovinato non lascerebbe che il fratello non pagasse neppure i debiti di giucco, - e agitava la dichiarazione del duca. -E' falso - E vero. Eppoi voi, buoni padri di famiglia, persone timorate, eleggete uno che tiene una donna maritata in casa, la moglie di un forzato, e non si vergogna di affidarle la figlia che é testimone dei loro amori. Propugnerà il divorzio per isposarla. - Basta! - urlarono tutti. Ma il Torres accennava , voler continuare e agitava la carta. Uno voi e straparla di mano, il Bonajuto accorse in difesa dell'amico volarono i bicchieri e i due partigiani dell' Orlando erano stretti e circondati da una cinquantina di forsennati, Roberto si fece largo, tolse i due disgraziati tutti malconci dalle mani di chi voleva finirli, e li spinse fuori del teatro Che cosa mi avete consigliato! - disse Roberto al Lo Carmine che lo aveva seguito. Il Marvuglia se n'era andato quando aveva veduto la faccenda farsi seria. Gli amici di Roberto, sicuri che fra loro vi era più nessuno di ostile, pregarono il candidato a riprendere l'interrotto discorso. E allora Loberto dette veramente prova di essere un uomo superiore poichè mentre il suo cuore sanguinava per le offese che un indegno aveva pronunziate contro Velleda, mentre fremeva di rabbia, riuscí a imporre alla sua mente di svolgere con chiarezza ammirabile un vasto programma di riforme sociali, un programma da uomo di Stato. I suoi amici ne rimasero sbalorditi e non rifinivano dall'applaudirlo; Roberto aveva misurato le sue forze ed era contento di sè, contento del dominio che sapeva esercitare sui proprj sentimenti. Quel discorso fu stampato nella notte e la mattina Roberto ne portava un esemplare a Velleda. Lo scioglimento del Consiglio Comunale era una sfida che anche i più indifferenti tra i cittadini di Castelvetrano avevano raccolta. Molti di essi, convertiti in agenti elettorali, percorrevano le vie di campagna, distribuendo il discorso del Frangipani, enumerando le persecuzioni cui era fatto segno, accaparrando voti nelle masserie, nei paesi del circondario, spingendo alla guerra contro l'Orlando, che era il rappresentante della tirannia ministeriale. A mezzogiorno, nonostante la diserzione degli operai, cui Roberto non aveva voluto fosse distribuito neppure un esemplare del discorso, il trionfo del candidato della opposizione era assicurato. Dopo tante lotte Roberto aveva bisogno di riposarsi presso Velleda, e quando la vide nel viale dei palmizj seduta sopra una poltrona, sorridergli da lontano, sentì svanire dal cuore tutti i dolori e provò una di quelle gioie intime, così intense, che mozzano il respiro. - Legga, - le disse, - ma più tardi quando io non sarò più al suo fianco. Ora mi narri come ha passato la serata e la notte, mi dica come si sente. - Bene, - rispose ella con un dolce sorriso. - Ora non desidero nulla, - e chiuse gli occhi come fanno i convalescenti, quasi avessero bisogno di riconcentrarsi per sentire il benessere che da la salute. - Io ho un progetto, Velleda,- disse Roberto. - Se sono battuto come se sono eletto a primo scrutinio, lunedì partiamo col " Selino ", andiamo a Palermo prima e poi a Sorrento. Viaggeremo per tre settimane circa, insieme con Maria, dimenticheremo le pene di questi ultimi tempi e vivremo soltanto per vivere. - E per amarci, - rispose ella interrompendolo. Lasci che la pronunzi la parola vera che esprime i nostri sentimenti. Ho veduto la morte in faccia e ho tanto sofferto credendo di dovermi separare da lei, che è per me una gioia immensa di affermare che vivo, affermando questo unico sentimento che mi domina. Questa malattia repentina mi ha reso più sincera e più cattiva. - Non è stata la malattia, sono state le cause di essa. - È vero forse. Ebbene, ora io sento la prepotente necessità di parlarle d'amore e le confesso che la speranza della mia vita è una speranza malvagia, ma naturale. Io spero che mio marito termini una inutile esistenza obbrobriosa nel bagno. - Velleda! - esclamò Roberto. - Non glielo ho detto che sono divenuta più cattiva, che sento i sacrifizj che questo legame m'impone, che anelo di vivere perché la morte mi ha sgomentata? - Cambiamo discorso, - disse Roberto, - e non culliamoci in speranze ingannatrici. Prepariamoci al viaggio che, in tutti i casi, sarà un sollievo dopo una sconfitta. - Mi prometta che il signor Franco non ci accompagnerà. - Glielo prometto, - rispose Roberto facendosi a un tratto triste; - anzi, debbo parlargli; torno subito. E senza dir altro lasciò Velleda, che aperto il foglio che aveva in grembo, si mise a leggere il discorso, accompagnando con un sorriso di gioia la lettura. Franco era ancora a letto quando Roberto salì nel quartiere di lui e sonnecchiava, come accadevagli di fare spesso in questi ultimi giorni, come chi vorrebbe ammazzare il tempo per non soffrire le torture dell'attesa. Costanza ogni giorno sapeva dirgli, mentre nessuno li ascoltava, che aveva ancor poco da attendere ed egli dormiva, affinchè le ore passassero senza sentirne la noia incresciosa. - Franco! - disse Roberto fermandosi sulla porta con tono di voce aspro. - Che cosa vuoi ?-Domandò l'altro aprendo gli occhi. Roberto si accostò al letto senza sedersi, senza stendere la mano al fratello. - È vero, - gli domandò; - che tu non hai pagato un debito di giuoco e hai firmato una obbligazione? Roberto parlava lentamente e teneva gli occhi fissi sbarrati in quelli del fratello per avere una risposta più sincera di quella che avrebbero potuto pronunziare le labbra. - Che te ne importai - rispose il duca col solito fare sprezzante per evitare di rispondere. - Hai un debito di giuoco? Hai rilasciato una obbligazione? - ripetè Roberto a denti stretti, fremente di rabbia. Franco si sentiva dominato da quello sguardo imperioso, sotto il quale doveva abbassare gli occhi e balbettò: - Tu mi tenevi senza un soldo! Per non sentire i tuoi rimproveri ho preferito non pagare altri che ricorrere a te. - Che ne hai fatto del vaglia bancario che rappresentava il piccolo patrimonio di una famiglia? - Non credo necessario di darti conto di quel che ne ho fatto; non potevo pagare. - A quanto ascende il tuo debito? Chi è il tuo creditore? - Il debito ascende a tre mila lire; il creditore è l'Orlando. - Ah! sciagurato! - esclamò Roberto. - Tu non sai forse quanto mi hai fatto soffrire! - E per non mostrare a quel pervertito, privo di senso morale, di delicatezza, tutto il disprezzo che gl'ispirava, traversò il quartiere e scese rapidamente le scale. Giù nello stabilimento era giorno di grande lavoro. Una tartana e un vapore attendevano il carico, le barche. andavano e venivano per prendere i fusti, gli operai li rotolavano sul piazzale, gl'impiegati di amministrazione riempivano bollette, la mercé usciva abbondante e i denari rientravano in gran copia. L'industria non aveva fruttato mai quanto negli ultimi mesi, le fatiche di Roberto non erano state mai cosi largamente ricompensate. - Che cosa fanno gli operai? - domandò il padrone al Varvaro. - Lavorano o discutono il vostro programma; molti, che erano divenuti propensi per l'Orlando, ora ritornano sotto la vostra bandiera. - Badate, Varvaro, non fate loro nessuna pressione! - Padrone, mi conoscete; io ho un alto ideale del rappresentante della nazione. Altri può farsi eleggere con i raggiri e con il danaro; voi dovete essere eletto per quello che valete, e valete molto. Il vostro programma è il frutto di una mente profonda e obbiettiva, di un cuore che impone silenzio ai proprj sentimenti, per accogliere i lamenti che il dolore strappa al cuore dell'umanità. Padrone, io sono altero di starvi a fianco. - Amico, vi è un'altra difficile missione da compiere. Dopo la scena di ieri sera, diviene anche delicata. Bisogna che andiate subito in città, e ricuperiate l'obbligazione di Franco all'Orlando. Ne siete informato? - Il Lo Carmine mi ha narrato tutto. Oh! quel signor Franco! Roberto stava per allontanarsi quando richiamò il Varvaro. - Sentite, - gli disse, - bisogna preveder tutto; è probabile che il losco avvocato si sia fatto fare la dichiarazione per una somma maggiore di quella di cui Franco gli è realmente debitore; cercate di saperlo da mio fratello, io non voglio interrogarlo. Inoltre è possibile che l'Orlando ci voglia fare un ricatto e non restituisca la carta altro che sborsando noi una somma ingente. In questo caso non vi curate di ritirarla. Gli affari di mio fratello sono ben divisi dai miei e chi ha per più milioni di vino nei magazzini e possiede terre senza ipoteche, può ridere di una inezia come quella. Poi con un tono d'amarezza soggiunse: - Sapete, amico, quando tornai da Roma ero tutto lieto di poter consegnare a mio fratello qualche migliaio di lire che avevo salvate a stento dalla rovina. Vedete quel che ne ha fatto? Sono tutte passate nelle mani dei nemici, ed è in grazia di quel debito di Franco che l'Orlando mi scatena a dosso tutti i diavoli e tutte le versiere. - Oh! quel signor Franco, scusate veh! non ha ne testa ne cuore; io lo credo un infelice, ma non mi fa compassione. Questo fu tutto ciò che il Varvaro si permise di dire rispetto al duca; ma se avesse lasciato parlare il cuore oh! quanto di più avrebbe aggiunto. Roberto, per andare nel magazzino del cognac, di cui sorvegliava specialmente la fabbricazione, perché voleva mettere sul mercato, dopo alcuni anni, un prodotto perfetto, passò per l'officina dei fusti, che era sempre il focolare di tutti gli scioperi. Alcuni operai, amici di Giovanni, per far dimenticare al padrone i fatti recenti, lo salutarono; altri gli chiesero il suo parere sui lavori da farsi; si vedeva in tutti una specie di pentimento, un desiderio di farsi perdonare, che consolava quel cuore amareggiato da tanta ingratitudine. Mentre dava alcune disposizioni, un guardiano andò ad avvertirlo che vi erano due carabinieri insieme con un uomo, che volevano parlargli. Quell'annunzio non lo turbò punto, poiché dopo l'uccisione di Federigo quelle visite erano frequenti e andò a riceverli nel suo studio. I carabinieri rimasero sul piazzale, l'uomo soltanto entrò. Era mal vestito, grosso, con una faccia accesa senza baffi, e i capelli rasi. Benché potesse avere appena quarant'anni, pure le sue guance erano flosce e cadenti e la mancanza di baffi e di capelli gli dava l'aspetto di un frate. - Che cosa volete? - gli domandò Roberto cui quella faccia ispirava una istintiva repulsione. - Sono l'avvocato Mario Crespi. Ella, tiene in casa sua mia moglie, Velleda Crespi, nata Bianchi, e io le ingiungo, in forza di una ordinane del presidente del tribunale di Castelvetrano, di restituirmela. Nel caso di rifiuto, mi farei assistere dalla forza. Roberto non tremò e non impallidì. - Ah! siete Mario Crespi, condannato a tre anni di reclusione! Credevo che non aveste ancora scontata la pena. Gli occhi dell'ex forzato si abbassarono sotto lo sguardo di Roberto. - Ho avuto la grazia sovrana, - rispose, - e voglio tornare a viver insieme con mia moglie, alla quale sono pronto a perdonare. - Voi non avete nulla da perdonarle, - disse Roberto, - rammentatevi bene di questo. E io credo che ella serbi un documento che vi toglie su di lei ogni diritto e di cui voi conoscete bene il contenuto. L'ex forzato non andava in collera. - Si vede che il signore è bene informato degli affari di mia moglie, - disse in tono ironico. - Ma fino a che non mi mostrerà quel documento, io ho diritto di far valere il mio, - aggiungeva, spiegando l'ordinanza del presidente. Aspettatemi, - disse Roberto indicandogli il piazzale, sul quale i carabinieri passeggiavano. Anche questa! - esclamò uscendo dalla parte verso il mare. - Ma chi è che mi perseguita così, chi è? e quello spettro misterioso dalle cento braccia malvagie che andava anche a togliere un forzato dal bagno, gli si presentò alla fantasia più spaventoso che mai. Giunse alla villa pallido e agitato, e non incontrando nessuno dovette bussare alla camera di Velleda. Maria, esci, - disse Roberto alla bambina, cui Velleda faceva ripetere una lezione. Che cosa succede? - domandò la signora leggendo in faccia a Roberto una agitazione insolita. Non si turbi per carità. Se avessi potuto nasconderle questa nuova infamia, risparmiarle questo nuovo dolore, avrei dato tutto ciò che possiedo, ma non posso. Mi dica, serba l'atto della separazione legale da suo marito? Sono carte che non si abbandonano; è li, - disse Velleda accennando un mobile. - Ma a che può servire? Il forzato è stato liberato da Nisida e reclama sua moglie, Dov'è? - domandò Velleda. - Voglio parlargli io, voglio sapere chi lo manda. Per carità, pensi alla recente malattia. Sono forte, - rispose ella, - e la vista di quel miserabile non mi può commuovere. Lo faccia chiamare. Velleda! No, voglio vederlo, - e scese per dar ordine a Saverio di chiamare l'individuo che attendeva allo stabilimento; poi risali in fretta; prese alcune carte e andò ad attendere nella biblioteca. Roberto le aveva rivolto un'ultima supplica, affinchè evitasse quell'incontro. No, mio buon signore, ho bisogno di sapere, di strappargli di bocca un nome; mi lasci con lui. Roberto entrava in una piccola stanza attigua, di cui lasciava socchiusa la porta, per accorrere in aiuto di Velleda; pochi istanti dopo, marito e moglie si trovavano di fronte. Che cosa volete? - domandò lei in tono imperioso. Ricondurti a Firenze e riprendere la vita comune. Sono libera, lo sapete; l'atto di separazione mi da facoltà di vivere dove voglio. Finché non lo produrrai, ha valore l'ordinanza del tribunale ed io la farò eseguire. Vieni con le buone, se no ti costringerò a seguirmi in mezzo ai carabinieri. L'atto è nelle mie mani, - rispose Velleda, e io lo mostrerò ai carabinieri, non a voi che sareste capace di lacerarlo. E possiedo altri documenti preziosi, con i quali posso farvi tornare in galera. Quali? - domandò egli turbato. Le cambiali false. Non sono più la donna ignara, la poetessa, la romanziera, come mi chiamavate, di cui s'inganna la buona fede, che si spoglia, cui si ruba la figlia per farla morire. Contro i delinquenti ci si premunisce. Le cambiali che faceste a mio nome, falsificando la firma, non sono state da me pagate alla cieca; sono passate per le mani dei giudici, si è fatta una perizia ed è stato riconosciuto che il falsificatore siete voi. Oggi, domani, potrei intentare l'azione penale; vedete che sono armata di tutto punto. L'ex-forzato taceva. Ma le lacererò in presenza vostra, se mi rivelerete il nome del vostro liberatore; di colui che vi manda qui. Il Re mi ha liberato, - rispose egli evasivamente. Il Re firma le grazie, ma qualcuno deve avere intercesso per voi, deve avervi detto che ero qui, nascosta, vergognandomi di un nome che avevate infamato. Chi vi manda, parlate! Ma le cambiali? Le straccerò appena avrete pronunziato quel nome; ma voglio quel nome, ditelo! Una luce sinistra le balenava negli occhi che in quel momento erano orribilmente stravolti. Ti rammenti del deputato Cesti, per il quale sostenni e vinsi un processo? - rispose l'ex forzato. Ebbene, nell' inverno gli scrissi perché impetrasse la mia grazia. Per più mesi non ebbi risposta. Quindici giorni fa ricevei una lettera in cui mi diceva che il decreto era stato spedito a Monza per sottoporlo alla firma sovrana e tre giorni fa giunse la grazia e una seconda lettera del Cesti con un sussidio. Egli mi diceva che se volevo l'indirizzo di mia moglie, partissi subito per Castelvetrano e mi dirigessi all'onorevole Orlando. Egli mi ha ottenuto l'ordinanza dei tribunale e ieri sera ... . Ieri sera ... . - ripetè Velleda ansiosa. Dovevano presentarmi a un banchetto elettorale, ma nacque un tafferuglio ... . Oh, la politica! - esclamò Velleda. - E voi, voi avreste detto chi sa quali -infamieNon ti curare di quello che avrei detto; dammi le cambiali. Ella se le cavò di tasca e gliele gittò in faccia insieme con un pacchetto di biglietti di banca, dicendogli: Questa è la mia elemosina, malfattore! - e gl'indico la porta. Nell'ingresso, seduti sopra una panca, i carabinieri attendevano. Velleda pose loro sotto gli occhi l'atto di separazione. Vedete che io posso vivere dove voglio, - disse loro quando ebbero letto. Poi accostandosi al marito gli susurrò nell'orecchio: Andate lontano e non turbate la mia esistenza, perché se le mie cambiali false sono distrutte, rimangono quelle di mia madre. Ah! Velleda, come ti avrei amata se tu fossi stata sempre così! - esclamò il Crespi avvolgendola con uno sguardo cupido. Ella gli volse sdegnosamente le spalle e corse da Roberto, che incontrò nella biblioteca. Quanto, quanto fango! - esclamò afferrandogli la mano e scoppiando in lagrime. Quando si fu un poco calmata volle narrargli la scena. Ho udito tutto, - disse Roberto, - e non credo l'Orlando abbastanza potente per mettere in moto un sottosegretario di Stato ... . Lei, mia povera amica, ha rinunziato ad armi potenti; ma noi siamo sempre dinanzi a quel mistero che nulla serve a svelare, e ogni giorno ci sentiamo colpiti da qualche lato. Velleda rialzò la testa e mostro gli occhi ancora umidi di pianto, ma sorridenti. Sono lieta, vede, perché godo di aver riveduto mio marito in quello stato e di avergli gettato in faccia la mia elemosina. Sono cattiva davvero! Roberto non credeva in quel mutamento di carattere e attribuiva tutto alla malattia recente, all'eccitamento nervoso che perdurava, e ognuna di quelle manifestazioni di risentimento e d'odio lo facevano tremare per la salute della sua cara. Sì, sono perfida con tutti, meno che con lei, con tè, gli disse accostandogli la bocca al viso e sollevando su di lui uno sguardo pieno d'amore. Roberto la baciò sulle labbra e le loro bocche rimasero un momento unite. - Sai; - diss'ella senza scostare il volto, - il mondo non merita che noi c'imponiamo sacrifizj, e quel vile, cui hanno certo detto che ti amo, non merita nulla. Roberto, io voglio esser tua, voglio darti la gioia, voglio; capisci! Il passo di Maria nell'anticamera li fece sussultare. Quando la bambina entrò erano già distanti, ma tremavano come due colpevoli. Vede. Velleda, - disse Roberto, - che v'e qualcosa superiore al mondo e alla condiscendenza di un vile, qualcosa che deve imporci l'antico riserbo? Babbo, che vuoi dire? - domandò la bambina. Velleda l'attirò a sé dicendole : Tuo padre intende dire che l'affetto per te deve essere superiore a tutto. Un giorno forse capirai che cosa significano queste parole che ti sembrano oscure.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679064
Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Cecco le stava accanto fumando la pipa e la guardava con amore, mentre ella placidamente dormiva; ma il sonno dei vecchi dà alla loro fisonomia una espressione di profondo abbattimento, come se stessero per morire, e Cecco, che non toglieva gli occhi dal volto di sua madre, scrollò il capo come per dire: "Ce n'è per poco!". Dopo un breve sonno la Regina aprì gli occhi e gli sorrise, mostrandogli le gengive sdentate, e, colpita dal turbamento di quel figliuolo, che era il suo cucco, gli domandò, mentre nessuno li ascoltava: - Te ne accorgi, Cecco, che il giorno della separazione è vicino? Mi dispiaceva di morire senza che tu mi chiudessi gli occhi; ma ora son tranquilla. Cecco non rispose, e per dare ai pensieri della madre un altro corso, andò sull'uscio e si mise a gridare: - Ragazzi, la mamma ha fatto il pisolino; venite a sentir la novella del frate con la gamba di legno! La gaia masnada entrò di corsa in cucina e ci fu un po' di baruffa prima che tutti i bambini si fossero seduti, perché quelli Marcucci volevano di riffa o di raffa aver accanto questo o quello degli invitati, e spesso erano in due o tre ad esigere la stessa vicinanza. Intanto la Carola aveva attaccato il paiuolo all'uncino; le altre avevano acceso la lucerna, e in quello stanzone nero e triste era penetrata la vita e la luce. La vecchia Regina, vedendo attorno a sé tutto quell'uditorio, sorrise e prese a narrare: - C'era una volta un villan di Signa, per nome Lapo, che si arrolò fra i fanti della Signoria fiorentina. Era costui un uomo rozzo, ma faceto quanto mai, e avrebbe riso anche sulla forca. In quei tempi non facevano altro che battersi, e non vi crediate che le città stessero in pace come oggi. La guerra avveniva frequente fra le città vicine, e poi anche fra cittadini e cittadini, così che era sempre un carnaio. Firenze poi, per prepotenza, bisogna lasciarla stare. Oggi pigliava un paese, domani un altro, e così un boccon dopo l'altro si mangiò tutto il Casentino, e più ancora. Lapo non stava davvero con le mani alla cintola e si divertiva un mondo a menar bòtte da orbi. Egli si sarebbe divertito così per un pezzo, se appunto nel pian di Campaldino non avesse riportato alla gamba sinistra una ferita che lo fece cadere in terra. Per buona sorte sua, il punto ove egli cadde venne presto abbandonato, perché fiorentini e aretini accorsero in massa: quelli ad assalire il vescovo Ubertini; questi a difenderlo; in caso diverso, Lapo sarebbe stato schiacciato da' cavalli e dai pedoni, e il suo corpo sarebbe diventato una frittata. Ma se da un lato fu bene per lui di restar solo in quel punto, senz'altra compagnia che i morti, da un altro lato fu male perché nessuno lo udiva gemere e niuno poteva soccorrerlo. Dalla ferita gli usciva il sangue, non a gocce, ma a bocca di barile, e Lapo, che si sentiva mancare il fiato, si raccomandava alla Madonna e a tutti i santi del Paradiso. Intanto annottava, ed egli, vedendo che nessuno veniva a soccorrerlo, cessò di pregare e incominciò a dire: - Ma non c'è neppur un cane che abbia pietà di me! Queste parole furon da lui ripetute tre volte; alla terza giunse di corsa un can da pastori, scodinzolò, e poi, accucciatosi accanto al ferito, si diede a leccargli la ferita. - Saremo amici, e, se campo, ti prometto che non soffrirai mai fame e non annuserai mai bastone, - disse Lapo, che sentiva rallentare il fiotto del sangue sotto quella continua medicatura. Il soldato passò così buona parte della notte, ma si sentiva ardere dalla sete e provava allo stomaco un certo stringimento, che gli rammentava di non aver mangiato da più ore. - Mi hai salvato dalla morte, - disse Lapo, - ma dovrò forse crepar di sete o di fame? Non aveva finito di parlare che il cane si alzò e, scodinzolando, batté la coda sulla mano destra del soldato, il quale, afferratala come se fosse un canapo, si mise l'altra mano sotto la gamba ferita e si lasciò trascinare attraverso il campo pieno di soldati e di cavalli morti, in cui i predoni si aggiravano a frotte per ispogliare i cadaveri. Il cane tirava, e Lapo si strascicava dietro a lui, lasciandosi condurre come fanno i ciechi dalle loro guide. Giunti che furono in prossimità di un fosso, nel quale scorreva acqua chiara e abbondante, il cane si fermò, e il ferito poté chinarsi sulla sponda e attinger acqua per dissetarsi. Il cane bevve pure e poi batté di nuovo la coda nella palma della mano destra di Lapo, e questi, afferratala, riprese la via col suo curioso compagno; ma non andaron molto oltre perché il cane si fermò accanto a un carro che pareva abbandonato e sotto al quale giaceva morta una mula. Lapo non ne poteva più e non avea più forza d'alzare un dito, perciò si lasciò cadere supino e disse: - Corri pure, cane mio, ma io non mi muovo più! Se è destinato che muoia qui, tu mi farai da becchino. Il cane pareva che intendesse non soltanto quel che Lapo diceva, ma anche quello che pensava, perché fatto un lancio entrò nel carro abbandonato e si diede ad annusare, frugando da un lato e dall'altro. Dopo aver armeggiato un pezzo, fece un altro lancio e depose a portata di mano del ferito una fiaschetta, scodinzolando dall'allegria. Quella fiaschetta conteneva del vino generoso, e dopo che Lapo ne ebbe bevuto alquanto si sentì ristorato. Il cane era tornato sul carro, e ogni volta che ne usciva portava accanto al soldato pane, formaggio, salame e ogni grazia di Dio, senza addentare nulla per satollarsi. - Sei una vera provvidenza, - diceva Lapo, - e se guarisco ti voglio fare un collare d'argento. Il sonno chiuse ben presto le palpebre di Lapo di Signa, e il cane, accucciatoglisi accanto, tenne a distanza da lui i predoni, che, vedendolo inetto a difendersi, gli avrebbero tolto anche le calze, che allora era uso portare affibbiate alla cintola. Però Lapo non dormì di un sonno tranquillo. Gli pareva di essere in un bosco foltissimo e di vedersi sulla testa un uccello smisurato e nero come la pece, che faceva larghi giri per carpirlo. Vide in questo mentre un altro uccello, tutto bianco, piombare dal cielo, dare una beccata nel cervello all'altro e farlo cader morto. Lapo si destò spaventato, mentre albeggiava, e disse: - Si vuole che i sogni che si fanno verso la mattina, sien veri. Cerchiamo di spiegare questo. L'uccello nero non può esser altri che il Diavolo, che mi vuol portare all'inferno; e quello bianco che mi salva, qualche santo; ma son tanti i santi che ho pregati di aiutarmi, che non so davvero chi si sia rammentato di me. Sia forse san Rocco che m'abbia mandato il suo cane? Appena egli ebbe nominato quel santo, il cane fece un lancio di gioia e si diede ad abbaiare festosamente come soglion fare i cani quando odono mentovare il padrone. Intanto s'era fatto giorno, e Lapo incominciava a perdersi di animo vedendo intorno a sé tutta quella caterva di morti e sentendo i lamenti di quei feriti che nessuno soccorreva. Prima si mise le mani agli orecchi, poi chiuse gli occhi, ma se per disavvedutezza gli veniva fatto di lasciare entrare il suono nel timpano o di alzar le palpebre, di nuovo lo colpivano quelle voci dolorose o quello spettacolo che gli metteva i brividi addosso. - Bisogna che cerchi di sloggiare di qui; - disse Lapo, - ma con questa gamba così rovinata, come farò mai! Il cane gli leccò le mani, come se volesse dirgli di aspettare un momento e poi corse via. - La morte è brutta quando la viene fra i piedi, - diceva Lapo che aveva l'uso di dire a voce alta tutti i pensieri che gli passavano per la mente. - Finché si vede da lontano, ci si scherza; ma ora gli è un'altra faccenda. Se non c'è qualcuno che mi soccorra, son bell'e fritto, perché di peccatucci non ne ho pochi sulla coscienza, e il Diavolo mi porterà all'inferno dritto dritto! Povero Lapo, ieri tanto arzillo e oggi mogio mogio! Si dice che dopo la burrasca viene il sereno, ma per me non verrà più e non rivedrò neppure la mi' Signa! Così lamentandosi sulla propria sorte egli s'era intenerito, e ora piangeva a calde lacrime. - San Rocco benedetto, - aggiunse col viso nero e polveroso tutto solcato di lacrime, - se siete proprio voi che mi avete mandato quel cane, non mi abbandonate così. Se mi aiutate, non vi posso promettere né una tavola d'altare, né qualche voto di argento o d'oro; ma vi prometto di far, per devozione, un pellegrinaggio alla Verna, magari con una gamba sola, perché quell'altra ormai è ita, e vi prometto anche di mordermi le dita tutte le volte che una di quelle maledette bestemmie mi corra alle labbra. Intanto che si lamentava a quel modo, impetrando l'aiuto di san Rocco, ecco che la gamba gl'incomincia a dolere terribilmente e, riscaldata dal sole ardente di giugno, gli scottava come un tizzo di fuoco. - San Rocco è sordo come tutti gli altri santi, - disse Lapo, - e son bell'e fritto! Frattanto egli stava per coricarsi sulla nuda terra, spossato e scoraggiato, quando vide tornare di corsa il cane e non fece a tempo a difendere la gamba ferita, che già quello aveva addentato la calza che gliela copriva, e la stracciava furiosamente con le zanne. Lapo, anche in quel momento, espresse a voce alta i suoi pensieri: - Morte, come sei brutta; se mi vuoi davvero, pigliami subito, e non mi fare sbrandellare così da un cane da pastore! Ma il cane, appena ebbe strappato la calza, andò a tuffare il muso in un rivo e ne bagnò la ferita. E tante volte tornò all'acqua, finché non ebbe tolto dalla piaga tutto il sangue che v'era rimasto aggrumato; poi raccolse di terra certe erbe che aveva recato in bocca giungendo, e le stese sulla gamba. - Che cane! - esclamò Lapo sentendosi sollevato dal dolore dopo quella medicatura. - Io scommetto, sapiente animale, che tu hai imparato a curar le piaghe stando al servizio di san Rocco? Il ferito s'aspettava una risposta, perché ormai da quella bestia nulla più lo meravigliava; ma il cane non fece altro che scodinzolare, poscia fuggì, e Lapo rimase di nuovo solo, ma per poco, ché di lì a un momento l'animale tornò strascinando un lenzuolo. Rise il soldato a quella vista, e non capì lì per lì per qual ragione glielo recasse; ma quando osservò che il cane, tirandolo con i denti e reggendolo con le zampe, come se volesse spolpare un osso, lo stracciava in tante strisce, fece un lancio di meraviglia e gridò: - Evviva il cane cerusico ed il suo santo protettore! - e buttò all'aria l'elmo in segno di gioia. Raccolse infatti le sottili bende, con quelle si fasciò la ferita, e dopo essersi ristorato con le vivande che il cane avea prese nel carro, disse all'animale: - Vogliamo andarcene da questo campo di morte prima che cali la sera? Se te lo devo dire, la vicinanza di questi ceffi di morti e i lamenti dei feriti non mi vanno a genio. Aiutami, e io ti vorrò più bene che a tutte le creature della terra e dell'aria. Il cane non si fece ripetere due volte l'invito, e, alzatosi sulle gambe di dietro, infilò una delle zampe davanti sotto l'ascella di Lapo, il quale, appoggiandosi sopra un troncone di asta raccolto in terra e camminando a piè zoppo, poté allontanarsi da Campaldino e cercar rifugio in una casa di contadini verso Soci, dove per compassione lo misero in un fienile. Lapo, appena coricato su quel letto di fieno, dormì come un ghiro senza pensare a nulla, e così, ben nutrito dal cane e ben riposato, non stette molto a rimettersi in salute; ma la prima volta che si provò a posare il piede in terra, s'accòrse che la gamba non la poteva più raddrizzare e che doveva camminare a piè zoppo. - Sono un uomo rovinato, sono un uomo perduto! - diceva. - Era meglio, cane mio, che tu mi avessi lasciato morire dove ero, piuttosto che farmi tanta assistenza per poi avere questo bel risultato! Lapo senza una gamba è un uomo morto! Il cane gli leccava le mani e guaiva. - Lo capisci anche tu, - continuava Lapo, - che per me non v'è più salvezza? Che cosa vuoi che faccia a questo mondo con una gamba di meno? E senza rammentarsi la promessa fatta a san Rocco, snocciolò una filastrocca di bestemmie degne di un turco. Il cane corse a rintanare il muso fra il fieno, e Lapo, accorgendosi di aver mancato di parola al suo santo protettore, si morse le dita a sangue. La sera di quel giorno, Lapo, appoggiandosi sul troncone d'asta, scese dal fienile e, ringraziati i contadini, stava per andarsene tutto sconsolato, quando il vecchio capoccia gli disse: - Ma come farai a tornartene a casa tua con una gamba sola? - Non ci penso neppure a tornare a casa! Signa è lontana, e poi così mutilato non avrei faccia di presentarmi a nessuno. - E che vuoi fare allora? - Quel che vorrà san Rocco; è lui che m'ha tenuto in vita e che m'ha mandato questo cane; mi figuro che per qualche cosa egli abbia voluto che non crepassi. - Aspetta, - rispose il capoccia, - ho visto una volta uno storpiato come te che si serviva di un certo armeggio per poter camminare; guardiamo se mi riesce di fartene uno. E preso dalla legnaia un ceppo di lecciolo, lo misurò al ginocchio dello storpio per vedere se era largo abbastanza per potervelo appoggiare; poi, lo assottigliò da un lato con l'accetta, vi fece con lo scalpello una specie di buco dal lato opposto, e, fasciato quell'armeggio con alcune cinghie di cuoio che tolse da una sua bisaccia, lo affibbiò alla gamba inferma. - Cammina, - ordinò il contadino a Lapo. Lo storpiato non se lo fece dir due volte e incominciò a battere in terra, gridando: - Ora il mio passo è accompagnato dalla musica: bim, bum; bim, bum! Nella sua allegria di potersi movere, Lapo aveva dimenticato la promessa fatta a san Rocco, e appena fu sulla strada maestra, invece di domandare al primo che incontrava quale via avrebbe dovuto seguire per giungere al gran sasso della Verna, domandò dove poteva trovare un'osteria, e, saputolo, si diresse a quella volta. Sotto una pergola v'erano alcuni soldati della sua compagnia che bevevano e giuocavano ai tarocchi. Appena lo videro gli corsero incontro dicendogli che lo avevan creduto morto, e domandandogli come aveva fatto a scampar dalla ferita. Lapo si mise a raccontare per filo e per segno quello che gli era occorso, ma quando chiamò il cane per mostrare agli amici il suo salvatore, chiama che ti chiamo, il cane non c'era più. Lo storpio non ci fece caso, perché era assuefatto a vederlo sparire ogni momento, e una volta imbrancato con gli antichi compagni bevve e giuocò tutto quanto aveva in tasca, finché, disperato di trovarsi senza un soldo, bestemmiò tutti i santi del Paradiso, compreso san Rocco, per non far parzialità. L'oste, sapendo che era al verde, non volle dargli da dormire, e Lapo dovette passare la notte allo scoperto. Ma trovandosi così abbandonato, gli venne il pentimento per quello che aveva fatto, e pianse e si raccomandò come un bambino, non solo a san Rocco, ma anche agli altri santi, che non gli levassero la loro protezione. Peraltro il cane non ricomparve, ed egli rimase tutta la notte con le spalle appoggiate ad un albero a pensare alla sua sorte. La mattina dopo, all'albeggiare, appoggiandosi sul troncone dell'asta e zoppicando, si avviò sulla via maestra chiedendo l'elemosina a quanti incontrava; ma tutti gli rispondevano: - Ben ti sta del tuo malanno, can d'un fiorentino! - Ma che si son dati l'intesa, che tutti mi rispondono a un modo? - esclamò Lapo, che sempre parlava a voce alta con se stesso. - Forse mi riconoscono a questo giglio che mi feci rapportare sul giustacore; ma se arrivo alla Verna voglio vestire il saio, e allora il giglio non mi farà più inviso a nessuno. E senza sgomentarsi per l'erta via, passa sotto Bibbiena e si inerpica sull'aspro monte. Quella salita si fa male con due gambe; figuriamoci quel che sia il farla con una gamba sola ed a stomaco vuoto! Lapo doveva fermarsi ogni momento, e quando si sedeva sopra un sasso, si lamentava più della notte dopo la battaglia, quando era in mezzo ai morti e ai feriti. Mentre era colà in preda alla disperazione, vide salire per l'erta un frate cercatore, che guidava un asino carico di bisacce. - Frate benedetto, - gli disse con voce piagnucolosa, - ho promesso al mio santo protettore, a san Rocco, di compiere il pellegrinaggio della Verna; ma con una gamba sola mi è assai disagevole il far la salita; mi faresti portar dal tuo asino? - Non vedi, - rispose il Frate, - che egli già s'inginocchia sotto il peso? - Ma di quello lo libererò io, - replicò Lapo, - e lo caricherò sulle mie spalle. Il Frate, che era un semplicione e al convento non lo impiegavano altro che alla cerca, non s'accòrse che l'asino avrebbe portato lo stesso il carico, ed aiutò Lapo a salire sul ciuco. Ma questi, a forza di frusta mosse due passi e poi fece una genuflessione come se si fosse veduto davanti san Francesco in carne e ossa, che aveva virtù di comandare agli uccelli, ai pesci e persino ai lupi. - Il tuo asino è stanco, - disse Lapo cui era tornato l'umor faceto. - Fa' una cosa: caricati sulle spalle queste bisacce e tu guadagnerai il Paradiso, perché avrai sudato per portare al convento l'elemosina per i poveri. Il Frate, assuefatto all'ubbidienza, si mise le bisacce sul groppone e arrivò al convento, rosso e trafelato, mentre Lapo vi giunse comodamente. Lassù, come avviene a tutti i pellegrini, egli fu refocillato e ospitato. - Ora che ci sono e che ho compiuta la penitenza, - disse Lapo, - è bravo chi mi manda via. Per fare il soldato non son più buono, ma per vestire il saio, sì. Per molti giorni Lapo rimase alla Verna, e gli pareva d'essere in Paradiso in mezzo a quella frescura, fra quella gente che gli diceva buone parole. Dipingeva allora una cappelletta detta degli Angeli, un certo frate Bigio fiorentino, il quale, attaccato discorso con lo zoppo, si fece narrare come era rimasto impedito nella gamba nonché tutte le avventure capitategli dopo, e financo il sogno. Lapo non aveva la lingua punto legata, sicché frate Bigio, dopo esserlo stato a sentire una mezz'ora, sapeva vita, morte e miracoli di lui, ed essendo persuaso che il sogno e l'aiuto miracoloso del cane significassero che lo storpiato aveva in Cielo qualche santo protettore, volle acquistarlo al convento, affinché la protezione si estendesse anche su questo. Così con bei modi prese a dimostrargli come il mestiere del soldato portava gli uomini alla eterna perdizione, perché oltre i vizî che in quella vita randagia s'incontrano e l'uso del mal parlare, avviene sovente che sieno colpiti improvvisamente dalla morte, senza che abbiano tempo di raccomandar neppure l'anima a Dio. - Frate Bigio, lo so anch'io, - rispondeva Lapo, - e anche prima di esser ferito, avrei voluto campare altrimenti; ma non sono atto a far nulla. - Vedremo, vedremo, - replicava il Frate. - Ti contenteresti, per esempio, d'indossar l'abito e andare in giro per la cerca? - Magari mi contenterei; ma come volete che me ne vada per le salite e per le scese con questa gamba unica? - C'è il somaro che ne ha quattro e che ti potrebbe portare. - Allora dico di sì subito, e se mi fate presto toglier da dosso quest'abito e questo elmetto, che mi rivelano per fiorentino in questo paese dove i fiorentini sono discacciati come se fossero diavoli, io vi prometto, frate Bigio, che dirò per voi tutti i giorni la coroncina a san Rocco, mio protettore. - Io te ne sarò grato, e avrò caro che tu resti fra noi, poiché ciò che m'hai narrato è così strano che io voglio raffigurarti, mentre ricevi la visione di san Rocco in qualcuno degli affreschi di cui vado ornando il refettorio. Perciò conserva codesti abiti anche quando avrai vestito il saio, affinché io possa farteli riprendere al momento in cui mi occorrerà di ritrarti. Lapo non tardò ad ascriversi all'Ordine, ma senza aspirar però né a dir messa né a confessare, poiché non conosceva l'a dalla zeta e anche il pater noster lo seminava di una ventina di strambotti. Appena ebbe vestito il saio se ne andò alla cerca, e nessuno degli altri cercatori riportava al convento tanti donativi quanti egli ne recava. - Come fai? - gli domandavano gli altri frati. - San Rocco mi aiuta, - rispondeva egli. Ma non era, davvero, mercé l'aiuto di san Rocco, che Lapo mangiava e beveva a crepapelle e poi riportava tanta roba su alla Verna. Tutta quella grazia di Dio la doveva alle sue ladre fatiche, perché è d'uopo sapere che sebbene egli avesse vestito l'abito di san Francesco, era più ribaldo che mai. Ecco che cosa aveva fatto. Prima di tutto aveva pregato frate Bigio che gli facesse un quadretto da appendersi nella chiesa del convento, nel quale egli fosse raffigurato mentre san Rocco gli mandava il cane a leccargli la ferita; e, non contento di questo, aveva ottenuto dal buon Frate che da un lato della tavola dipingesse il sogno, poi la sua conversione, e che sotto al quadro scrivesse il racconto di quel periodo della sua vita. Poi, dallo stesso Frate si fece fare un buon numero di abitini di tela da portarsi al collo, con l'immagine di san Rocco e il cane. Naturalmente ogni giorno una gran quantità di gente saliva per devozione alla Verna, vedeva il quadro di frate Bigio, era informato del miracolo, e quando quella gente tornava a casa, spargeva in tutto il contado la notizia. Così, quando fra' Lapo si presentava a chieder la carità con la gamba di legno e il saio, tutti lo pregavano d'intercedere per loro san Rocco, e non lesinavano nel dare al Frate ogni ben di Dio. Lapo ringraziava umilmente, e ai donatori più generosi lasciava l'abitino. A pregare per gli oblatori non ci pensava neppure, anzi, se aveva alzato il gomito più del consueto, snocciolava a voce alta per la via una litania di bestemmie da far venir la pelle d'oca. Così durò il Frate alcun tempo, e più grande si faceva nel contado la sua nomea di sant'uomo, e più prendeva baldanza. Né si limitava a regalare soltanto gli abitini, ma se era richiesto da qualche malato per ottenere da san Rocco la guarigione, portava delle erbe che diceva gli erano state additate dal Santo come salutari, e pronunziava parole che non appartenevano a nessuna lingua. E di questi inganni fra' Lapo non provava nessun rimorso. Egli non si dava cura altro che di mangiare e bere. Una sera, mentre tornava sull'imbrunire al convento, egli diceva fra sé: - Con queste erbe e con questi esorcismi ho trovato un tesoro. Oltre il grano, il vino e i polli, mi dànno anche elemosine in denari. Quando ne avrò raggruzzolati abbastanza, butto il saio in un burrone e mi metto la via fra le gambe per tornare a Signa. E allora, Lapo mio, che baldorie! Mentre così diceva, era giunto a un bosco molto folto, e il somaro s'impuntò senza voler fare un passo avanti. Lapo gli dette un paio di frustate, ma l'asino tenne duro. Allora a un tratto uscì dal bosco il solito can da pastori, che un tempo aveva soccorso Lapo, e con un morso gli staccò tre dita della mano destra; poi fuggì di nuovo a rintanarsi fra gli alberi. Fra il dolore e la paura, Lapo credé di morire, e non trovava neppur la forza di spronare il somaro per uscire da quel luogo cupo e solitario. Prima che il somaro si rimettesse in moto, tal quale come nel sogno, Lapo vide scendere dalla vetta altissima di un poggio un'aquila con le ali spiegate, che si mise a fare cerchi sulla testa di lui. - È finita! San Rocco pietoso aiutatemi, mi pento, salvatemi! E si buttò di sotto dal somaro. Alla invocazione di san Rocco il cane era tornato accanto a Lapo e lo aveva afferrato per la gamba sana, mentre l'aquila s'era attaccata con gli artigli a quella di legno e tirava anch'essa. Tira tira, le cinghie cederono, e l'aquila scappò via scorbacchiata con quell'armeggio fra le zampe; anche il cane lasciò la presa, e, come aveva stagnato a Lapo il sangue della gamba sul campo di battaglia, così questa volta gli stagnò quello che gli usciva dalle dita mozzate. Come Dio volle fra' Lapo risalì sul ciuco e si diresse al convento. - Torno in un bello stato, - disse al frate portinaio, - mi mancano tre dita e la gamba. - Foste forse assalito dai predoni? - domandò l'altro. - Così m'hanno ridotto il Cielo e l'Inferno, - rispose fra' Lapo. - Fratello, qui non si scherza, bisogna prepararsi a morire! - Noi ci prepariamo ogni giorno e ad ogni ora al gran passo. Per questo la morte non ci coglie mai alla sprovvista. - Così potessi dir io! - esclamò Lapo tutto afflitto, - ma sono ancora un gran peccatore. - Fate pubblica confessione. - La farò domattina. Infatti la mattina dopo, Lapo si fece portare nella chiesina degli Angeli, perché non poteva più camminare senza l'armeggio di legno; ma quando a voce alta si mise a narrare tutti i suoi inganni, i frati incominciarono a gridare: - È maledetto! È maledetto! E lo fecero portare fuori del recinto della Verna. - Ieri l'Inferno e il Paradiso si disputavano l'anima mia; oggi non mi vuole né Cristo né il Diavolo. Aspettiamo per veder quello che succede, - disse Lapo. E tanto per consolarsi, trasse fuori dalla scarsella i quattrini accumulati con frode e con inganni e si diede a contarli; ma eccoti che mentre contava gli vola in grembo una gazza, piglia i fiorini nel becco e fugge. - Ora son bell'e spacciato! - disse, - mi pigli anche il Diavolo non me ne importa più nulla! E difatti, nel colmo della notte scese il Diavolo, e, afferratolo, se lo portò all'Inferno. I ragazzi capirono che la novella era finita e ringraziarono la vecchia, la quale trattenne i piccoli invitati, dicendo loro: - O che la pattona non la volete? - Orsù, servitevi! - disse la Carola. Nessuno si fece pregare. E ne mangiarono anche i grandi, specialmente Cecco, che al reggimento non l'aveva mai neppur veduta. - Ora andate a casa, - diss'egli agli amici dei nipoti, - e se la novella e la pattona vi son piaciute, tornate la vigilia di Capo d'anno. - Verremo! - risposero i bambini uscendo tutt'allegri.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679343
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Nessun pennello, nessuna penna avrebbe potuto ritrarre l'indefinibilmente profonda espressione di dolore e di rabbia, di abbattimento e di energia che in quel momento appariva in quella faccia smunta su cui le lagrime non scorrevano più. Io e Baccio attoniti, rattenendo il respiro, non battendo ciglio, lo guardavamo immobili e atterrati ugualmente; egli, semi-idiota e vecchio montanaro, ed io non montanaro, non semi- idiota e non vecchio, affratellati da due sentimenti di pietà che nella bilancia di Dio certo avrebbero pesato lo stesso. E Beppe, alzatosi e camminando a lunghi passi per la cucina, continuava: - A questo dubbio che mi afferrò per il collo come una tenaglia rovente, restar un minuto ancora immobile e allo scuro, sarebbe stato lo stesso che morire. Balzai dal letto, accesi il lume, lo accostai a Gina e la fissai ... chi sa come, in faccia. Ella aveva gli occhi spalancati e a sua volta mi affissava, tentando di sorridere ... ma piena di spavento. Non mi perdonerò mai ciò che feci e dissi allora. La presi per ambo le braccia e le diedi uno scrollo che la fece scivolare dal letto, e stringendole le mani come un forsennato, e quasi mordendole le labbra colle mie, urlai: - Tu non mi hai detto tutto! Egli ti ..... La sventurata si lasciò cadere in ginocchio, e liberate le mani ch'io, quasi fuor dei sensi, le abbandonai, le congiunse come si fa davanti all'altare. - «Ti ho detto tutto, mi disse; lo giuro sulla testa di quei due poveri innocenti; tutto, tutto, tutto!» E diede in uno scoppio di pianto, mentre mi stringeva e mi baciava e ribaciava le ginocchia. Piangemmo insieme abbracciati non so per quanto tempo; quando ripresi conoscenza di me stesso, la notte era ancora alta e la Gina stava rattizzando i carboni sul focolare. Me le accostai mormorando: - Perdonami. - Taci, rispose Gina, questa volta sorridendo davvero. Ci vogliamo tanto bene. Ma vien qua, il mio uomo, e riscaldati che sei tutto intirizzito. Datti pace, va, che il diavolo non è brutto come si dipinge. Quel briccone sa che siamo andati da Don Luigi; ciò lo farà pensare due volte prima di ..... - No, no, la interruppi io; ho preso la mia decisione; sai che le poche terre che abbiamo mi sono state a parecchie riprese cercate da Gervasio, il ricco mandriano; le posso vendere domani; se voglio, e a patti d'oro. Senti, Gina, le rondini abbandonano il nido dove furono una volta minacciate; noi faremo come le rondini; andremo altrove a fabbricarci un nido nuovo; in questo non si potrebbe più vivere in pace. - Quello che tu farai, buon Beppe, sarà ben fatto; benchè la sia dura il lasciar il paese dove si è nati. - Il paese è dappertutto dove si può vivere sicuri, lavorando. Andremo in un sito più bello di questo. Così conversando del nuovo progetto, stretti l'uno all'altro, accanto al fuoco, fummo sorpresi dai primi bagliori dell'alba. Io era così ansioso di mettere modo alle cose per mandare ad effetto il più presto il mio disegno, che, fosse anche un presentimento, la terra mi abbruciava i piedi. Sicchè senza aspettare che i vecchi si risvegliassero, per dar loro il buon giorno, siccome ero solito fare fin dall'infanzia, presi il cappello e i miei ferri e mi avviai verso i pascoli di Gervasio, dopo aver raccomandato a Gina di non porre piede fuori dell'uscio, promettendole poi che sarei stato di ritorno al più presto. Non trovai Gervasio ai pascoli, che come ben sai Baccio, distano da qui una buon'ora di Cammino; egli era partito quella notte stessa per la sua casera di San Sulpizio; cinque leghe di strada, e che strada! Titubai alquanto se dovessi raggiungerlo, o rimandar la cosa al suo ritorno. Ma quando sarebbe tornato? i pastori non ne sapevano niente; poteva fermarsi alla casera un giorno, poteva fermarsi quindici. Decisi di spingermi fino a San Sulpizio. Mi fornii di due bei tozzi di cacio e di polenta, e via pei greppi e le pinete, certo che camminando a dovere avrei potuto essere di ritorno a casa per il cadere del giorno. Ma, - ve l'ho già detto prima: - Era scritto ciò che era scritto! Ti ricordi, Baccio mio, quella crocetta che sta a due passi dalla colma dei Tre Ladri Fu là che mi prese l'uragano. Un uragano come, in vita mia, non ne avevo mai visto. To'! il cielo pareva disceso sulla terra, e i cocuzzoli delle montagne pareva che si arrampicassero in cielo. Si cozzavano insieme i ghiacciuoli delle nubi e i ciottoli delle frane; la vallata era scomparsa, le cime non le vedevo più; mi pareva di sentirmi schiaffeggiare e bastonare da centomila demoni! ... - mi mancava il respiro ... - ero come una pulce fra due unghie ... to'. Mi girava la testa, ma, questa volta, diversamente di prima, vo' dire di quando la mi girava nel mio letto, allo scuro. Mi sentivo mancar il fiato: era la tormenta! E turbinava, oh! come turbinava! Mi credetti morto, e lo ero quasi, e mi distesi in terra, colle mani in croce, dicendo il De profundis e pensando intanto alla mia Gina, ai miei vecchi, ai miei piccini ... e al ... e anche al Sindaco! Restai lì parecchi minuti in tal modo, aspettando l'ultimo momento. D'improvviso mi sentii battere sulle spalle da una mano vigorosa. Apro gli occhi già quasi irrigiditi dal gelo, e mi vedo davanti, indovina? ... il figlio maggiore del signor De Emma, che, superata la bufera passava appunto di lì, colla sua muta, inseguendo il camoscio. Mi sollevò, mi pose alle labbra la fiaschetta del rhum, e in men che non si dica, mi ritrovai il Beppe di prima, vispo e sano di corpo e pronto a far non cinque ma venti leghe ... quanto al resto ... Il resto era di ritornare a casa, e al più presto possibile. - Grazie, dissi al bel giovanotto; ella è proprio il figlio di suo padre, il figlio della Provvidenza! Oh! fa tardi, se si ritornasse laggiù? Mi aspettano, sa? e se ella vuol far tappa nel tugurio della mia Gina, - è un'amica del di lei babbo, la dev'essere una festa davvero! Il signor Arturo, - Baccio tu lo conosci, - aggradì l'offerta. Ci incamminammo, aggrappandoci alla meglio per gli scogli irti di sterpi. Ma la via del ritorno par sempre buona. Almeno sembrava tale allora per me. Beppe parlava come un oratore che non sa, o meglio non vuol venire alla perorazione. Bevette un bicchier di vino offertogli da Baccio e, asciugatasi di nuovo quella fronte piena di passato e di avvenire, continuò ma con una inflessione di voce e con un atteggiamento che accennavano alla catastrofe: - Sissignori. E rividi, che non mi parea vero, la cima del mio campanile, e poi i fumaioli dei vicini, e finalmente infilai il viottolo che mena alla mia casa. Per quanto fosse stata posta la strada fra le gambe, la notte ci aveva precorsi. A cinquanta passi dalla mia ortaglia chi mi vedo venir incontro? È mio padre, il mio padre ottuagenario, che non aveva fatto, a mia memoria, più che non faccia di cammino un bimbo appena uscito di fascie. E mi dice, spalancando le braccia: - Se Dio vuole! Sei qui! Che spavento? E la tua Gina? - Che! risponde, la Gina? - Dov'è? - Se non lo sai tu!! - Ma come? - Non l'hai tu mandata a chiamare perchè ti raggiungesse al campo della Crocetta - Io? - Venne un ragazzotto a dirle che ti raggiungesse colà! ... per una cosa d'urgenza ... - Io vengo ... vengo ... da tutt'altro sito ... non ho mandato nessuno ...! ... - Che birbonata è questa? sclamò il povero vecchio guardando in faccia a tutti quanti. - Una birbonata, urlai, e, senza aggiungere una sola parola, mi slanciai a tutta corsa verso il campo della Crocetta Non mi ricordavo più della strada; non so in quante siepi mi insanguinai le dita in quante pozzanghere mi ingolfai. Udivo da lontano i gemiti che uscivano dalla mia casa. Ma un gemito più vicino, più straziante, un gemito simile a quello di chi sta per morire, mi arrestò di repente; come se avessi dato del capo in un muro. Oh! quel gemito! .... mi ricordava quelli della notte scorsa! Era lei, era Gina! La trovai, la rinvenni, non so come, nelle tenebre, tra gli sterpi, distesa per terra .... - Gina! - Lasciatemi morire! - Sono io, sono Beppe! il tuo Beppe! ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... Mi parve che udendo il mio nome, si addormentasse. La presi sulle spalle e lento lento, mentre il cuore e la testa non sapeva più dove fossero, raggiunsi, la mercè di Dio, la mia soglia. La adagiai sul letto, livido, estenuata. Il vicinato era accorso. Il signor Arturo era scomparso. Poverino, si prese in corpo sei leghe, e a queill'ora, per andare in cerca di suo padre. Allontanai tutti quanti. Gina, dopo un lungo sopore, aperse gli occhi e mi vide. Rabbrividii a quello sguardo. Ella rabbrividì più di me. E con una voce che sembrava venire da sotterra: - Non guardarmi, sospirò, non toccarmi! Chiudi la porta! ... È là ... il sindaco! ..... è là ... porta in quel bel paese, in quel paese più bello, i nostri bambini! ... Portali via, senza farmeli vedere! ... oh! povera, povera me! - Gina, dicevo io, Gina ... dimmi, spiegati .... - Taci ... taci .... e si metteva un dito sulla bocca e alzava gli occhi al cielo. - Taci. Ho resistito, oh! se gli ho graffiato la faccia .... Ella cacciò allora la testa sotto il guanciale, ed io restai solo col lucignolo agonizzante ....

Se questo è un uomo

680890
Levi, Primo 1 occorrenze

Non si può dire che ne risulti un' ondata di abbattimento. Il nostro morale collettivo è troppo inarticolato e piatto per essere instabile. La lotta contro la fame, il freddo e il lavoro lascia poco margine per il pensiero, anche se si tratta di questo pensiero. Ciascuno reagisce a suo modo, ma quasi nessuno con quegli atteggiamenti che sembrerebbero più plausibili perché sono realistici, e cioè con la rassegnazione o con la disperazione. Chi può provvedere provvede; ma sono i meno, perché sottrarsi alla selezione è molto difficile, i tedeschi fanno queste cose con grande serietà e diligenza. Chi non può provvedere materialmente cerca difesa altrimenti. Ai gabinetti, al lavatoio, noi ci mostriamo l' un l' altro il torace, le natiche, le cosce, e i compagni ci rassicurano: _ Puoi essere tranquillo, non sarà certo la tua volta, ... du bist kein Muselmann ... io piuttosto invece ... _ e a loro volta si calano le brache e sollevano la camicia. Nessuno nega altrui questa elemosina: nessuno è così sicuro della propria sorte da avere animo di condannare altri. Anch' io ho sfacciatamente mentito al vecchio Wertheimer; gli ho detto che, se lo interrogheranno, risponda di avere quarantacinque anni, e che non trascuri di farsi radere la sera prima, anche a costo di rimetterci un quarto di pane; che, a parte ciò, non deve nutrire timori, e che d' altronde non è per nulla certo che si tratti di una selezione per il gas: non ha sentito dal Blockältester che i prescelti andranno a Jaworszno al campo di convalescenza? È assurdo che Wertheimer speri: dimostra sessant' anni, ha enormi varici, non sente quasi neppur più la fame. Eppure se ne va in cuccetta sereno e tranquillo, e, a chi gli fa domande, risponde con le mie parole; sono la parola d' ordine del campo in questi giorni: io stesso le ho ripetute come, a meno di particolari, me le sono sentite recitare da Chajim, che è in Lager da tre anni, e siccome è forte e robusto, è mirabilmente sicuro di sé; e io l' ho creduto. Su questa esigua base anch' io ho attraversato la grande selezione dell' ottobre 1944 con inconcepibile tranquillità. Ero tranquillo perché ero riuscito a mentirmi quanto era bastato. Il fatto che io non sia stato scelto è dipeso soprattutto dal caso e non dimostra che la mia fiducia fosse ben fondata. Anche Monsieur Pinkert è, a priori, un condannato: basta vedere i suoi occhi. Mi chiama con un cenno, e con aria confidenziale mi racconta che ha saputo, da qual fonte non mi può dire, che effettivamente questa volta c' è del nuovo: la Santa Sede, per mezzo della Croce Rossa Internazionale ... infine, garantisce lui personalmente che, sia per sé che per me, nel modo più assoluto, è escluso ogni pericolo: da civile lui era, come è noto, addetto all' ambasciata belga di Varsavia. In vari modi dunque, anche questi giorni di vigilia, che raccontati sembra dovessero essere tormentosi al di là di ogni limite umano, passano non molto diversamente dagli altri giorni. La disciplina del Lager e della Buna non sono in alcun modo allentate, il lavoro, il freddo e la fame sono sufficienti a impegnare senza residui le nostre attenzioni. Oggi è domenica lavorativa, Arbeitssonntag: si lavora fino alle tredici, poi si ritorna in campo per la doccia, la rasatura e il controllo generale della scabbia e dei pidocchi, e in cantiere, misteriosamente, tutti abbiamo saputo che la selezione sarà oggi. La notizia è giunta, come sempre, circondata da un alone di particolari contraddittori e sospetti: stamattina stessa c' è stata selezione in infermeria; la percentuale è stata del sette per cento del totale, del trenta, del cinquanta per cento dei malati. A Birkenau il camino del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto posto per un enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen. I giovani dicono ai giovani che saranno scelti tutti i vecchi. I sani dicono ai sani che saranno scelti solo i malati. Saranno esclusi gli specialisti. Saranno esclusi gli ebrei tedeschi. Saranno esclusi i Piccoli Numeri. Sarai scelto tu. Sarò escluso io. Regolarmente, a partire dalle tredici in punto, il cantiere si svuota e la schiera grigia interminabile sfila per due ore davanti alle due stazioni di controllo, dove come ogni giorno veniamo contati e ricontati, e davanti all' orchestra che, per due ore senza interruzione, suona come ogni giorno le marce sulle quali dobbiamo, all' entrata e all' uscita, sincronizzare i nostri passi. Sembra che tutto vada come ogni giorno, il camino delle cucine fuma come di consueto, già si comincia la distribuzione della zuppa. Ma poi si è udita la campana, e allora si è capito che ci siamo. Perché questa campana suona sempre all' alba, e allora è la sveglia, ma quando suona a metà giornata vuol dire "Blocksperre", clausura in baracca, e questo avviene quando c' è selezione, perché nessuno vi si sottragga, e quando i selezionati partono per il gas, perché nessuno li veda partire. Il nostro Blockältester conosce il suo mestiere. Si è accertato che tutti siano rientrati, ha fatto chiudere la porta a chiave, ha distribuito a ciascuno la scheda che porta la matricola, il nome, la professione, l' età e la nazionalità, e ha dato ordine che ognuno si spogli completamente, conservando solo le scarpe. In questo modo, nudi e con la scheda in mano, attenderemo che la commissione arrivi alla nostra baracca. Noi siamo la baracca 4., ma non si può prevedere se si comincerà dalla baracca 1 o dalla 60. In ogni modo, per almeno un' ora possiamo stare tranquilli, e non c' è ragione che non ci mettiamo sotto le coperte delle cuccette per riscaldarci. Già molti sonnecchiano, quando uno scatenarsi di comandi, di bestemmie e di colpi indica che la commissione è in arrivo. Il Blockältester e i suoi aiutanti, a pugni e a urli, a partire dal fondo del dormitorio, si cacciano davanti la turba dei nudi spaventati, e li stipano dentro il Tagesraum, che è la Direzione-Fureria. Il Tagesraum è una cameretta di sette metri per quattro: quando la caccia è finita, dentro il Tagesraum è compressa una compagine umana calda e compatta, che invade e riempie perfettamente tutti gli angoli ed esercita sulle pareti di legno una pressione tale da farle scricchiolare. Ora siamo tutti nel Tagesraum, e, oltre che non esserci tempo, non c' è neppure posto per avere paura. La sensazione della carne calda che preme tutto intorno è singolare e non spiacevole. Bisogna aver cura di tener alto il naso per trovare aria, e di non spiegazzare o perdere la scheda che teniamo in mano. Il Blockältester ha chiuso la porta Tagesraum-dormitorio e ha aperto le altre due che dal Tagesraum e dal dormitorio dànno all' esterno. Qui, davanti alle due porte, sta l' arbitro del nostro destino, che è un sottufficiale delle SS. Ha a destra il Blockältester, a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell' aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda all' uomo alla sua destra o all' uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una baracca di duecento uomini è "fatta", e nel pomeriggio l' intero campo di dodicimila uomini. Io confitto nel carnaio del Tagesraum ho sentito gradualmente allentarsi la pressione umana intorno a me, e in breve è stata la mia volta. Come tutti, sono passato con passo energico ed elastico, cercando di tenere la testa alta, il petto in fuori e i muscoli contratti e rilevati. Con la coda dell' occhio ho cercato di vedere alle mie spalle, e mi è parso che la mia scheda sia finita a destra. A mano a mano che rientriamo nel dormitorio, possiamo rivestirci. Nessuno conosce ancora con sicurezza il proprio destino, bisogna anzitutto stabilire se le schede condannate sono quelle passate a destra o a sinistra. Ormai non è più il caso di risparmiarsi l' un l' altro e di avere scrupoli superstiziosi. Tutti si accalcano intorno ai più vecchi, ai più denutriti, ai più "mussulmani"; se le loro schede sono andate a sinistra, la sinistra è certamente il lato dei condannati. Prima ancora che la selezione sia terminata, tutti già sanno che la sinistra è stata effettivamente la "schlechte Seite", il lato infausto. Ci sono naturalmente delle irregolarità: René per esempio, così giovane e robusto, è finito a sinistra: forse perché ha gli occhiali, forse perché cammina un po' curvo come i miopi, ma più probabilmente per una semplice svista: René è passato davanti alla commissione immediatamente prima di me, e potrebbe essere avvenuto uno scambio di schede. Ci ripenso, ne parlo con Alberto, e conveniamo che l' ipotesi è verosimile: non so cosa ne penserò domani e poi; oggi essa non desta in me alcuna emozione precisa. Parimenti di un errore deve essersi trattato per Sattler, un massiccio contadino transilvano che venti giorni fa era ancora a casa sua; Sattler non capisce il tedesco, non ha compreso nulla di quel che è successo e sta in un angolo a rattopparsi la camicia. Devo andargli a dire che non gli servirà più la camicia? Non c' è da stupirsi di queste sviste: l' esame è molto rapido e sommario, e d' altronde, per l' amministrazione del Lager, l' importante non è tanto che vengano eliminati proprio i più inutili, quanto che si rendano speditamente liberi posti in una certa percentuale prestabilita. Nella nostra baracca la selezione è ormai finita, però continua nelle altre, per cui siamo ancora sotto clausura. Ma poiché frattanto i bidoni della zuppa sono arrivati, il Blockältester decide di procedere senz' altro alla distribuzione. Ai selezionati verrà distribuita doppia razione. Non ho mai saputo se questa fosse un' iniziativa assurdamente pietosa dei Blockälteste od un' esplicita disposizione delle SS, ma di fatto, nell' intervallo di due o tre giorni (talora anche molto più lungo) fra la selezione e la partenza, le vittime a Monowitz-Auschwitz godevano di questo privilegio. Ziegler presenta la gamella, riscuote la normale razione, poi resta lì in attesa. _ Che vuoi ancora? _ chiede il Blockältester: non gli risulta che a Ziegler spetti il supplemento, lo caccia via con una spinta, ma Ziegler ritorna e insiste umilmente: è stato proprio messo a sinistra, tutti l' hanno visto, vada il Blockältester a consultare le schede: ha diritto alla doppia razione. Quando l' ha ottenuta, se ne va quieto in cuccetta a mangiare. Adesso ciascuno sta grattando attentamente col cucchiaio il fondo della gamella per ricavarne le ultime briciole di zuppa, e ne nasce un tramestio metallico sonoro il quale vuol dire che la giornata è finita. A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent' anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell' uomo di fare, potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn.

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LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Non vi era sfinimento, non vi era abbattimento: le fibre non volevano morire, il corpo non voleva morire. Ma sotto le pieghe del lenzuolo la testa ha un carattere stupendo: la fronte liscia ha un vasto pensiero; piangono gli occhi, è vero, pel cruccio fisico, ma le labbra schiuse hanno una traccia di sorriso che è una indefinita speranza. È vero. è vero, il dolore è passato dal corpo all'anima; è vero, l'anima è contristata, ma non è disperazione, ma non è desolazione. L'anima come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione vi è stata. Tutto quel Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così invadente che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini dalla sua mente, l'artista s'inchina nella esaltazione del suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi, piangendo, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci. Singolare anima d'artista doveva esser quella dello scultore che ha dato all'arte questo Cristo morto. Nell'opera sua vi è tutto il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori: quello per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente doloroso il primo. Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una sofferenza senza nome può far passare tutta la poesia di questa sofferenza nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle lagrime, nell'angoscia, nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria, può infondere nel marmo il solitario e cupo dolore di questo Cristo. Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse il tormento sottile che stride come una sega piccina ed inesorabile; la desolazione grigia, lunga, monotona, dove tutto è cenere, tutto è nausea, tutto è disgusto: la disperazione larga e vasta e lenta come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa e tumultuante come un torrente che tutto trascina. Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d'amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un fremito mortale gli ha travolto le fibre; ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita; ha amato senza speranza, senza gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa voluttà del dolore. Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell'uomo vivo creava la passione del Cristo morto. E ne veniva fuori un'anima d'artista che imprimeva il suo carattere in un capolavoro dell'arte. - Perché quella tomba non ha ritratto? - chiesi di nuovo uscendo dalla chiesa, mentre il custode faceva tintinnire le chiavi. - Lo scultore non ebbe tempo di finirlo ... - Quale scultore? - Il Sammartino. - Ah!... - ... Morì prima di finirlo. Fu trovato in una straduccia buia, di notte, con un pugnale nel petto. - Fu ucciso o s'uccise? - Si crede che si fosse ucciso. Come nello strazio dell'ignota agonia, la testa del morto scultore doveva rassomigliare a quella del Cristo morto!

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 4 occorrenze

Gravemente, solennemente, lo aveva promesso a Bianca Maria, in quella serata dolorosa in cui ella gli aveva confidato tutto il mistero della sua famiglia: e un galantuomo deve mantenere le sue promesse, anche se fatte nell'estasi inebriante o nel doloroso abbattimento di supremi momenti. Gli tardava: e intanto i giorni trascorrevano, e una incertezza lo vinceva, quando più era deciso a chieder a Cavalcanti la mano di sua figlia. Sentiva vagamente che quella parola sarebbe risolutiva: e poteva risolversi in bene o in male: il bene gli era necessario, non potea farne a meno; il male gli pareva insopportabile. Ma un grave avvenimento, a un tratto, lo fece decidere. Il marchese Cavalcanti, fra le fluttuazioni della sua follia, aveva conservato la mistica reverenza, e ogni venerdì passava delle ore in preghiere, nella sua cappella, innanzi alla Madonna Addolorata, con cuore trafitto dalle spade, innanzi a quell' Ecce Homo i grandezza naturale, tutto sanguinante, dalla fronte coronata di spine, dal costato trafitto. Con quella fede dei meridionali che ha tutti gli slanci, ma che è anche vinta da una fitta rete di volgarità, che la trattiene sulla terra, egli mescolava continuamente la divinità a tutte le terrene complicazioni della sua passione: e ogni tanto, nella disperazione, la rendeva responsabile della sua rovina. - Tu l'hai permesso, tu l'hai permesso, Gesù Cristo mio! - gridava il marchese, nelle sue preghiere. Ma nei giorni terribili, la sua fede diventava anche più accusatrice, ingiusta, sacrilega: - Tu l'hai voluto, Gesù, tu l'hai voluto!… - egli imprecava con le lacrime che gli bruciavano gli occhi, con la voce soffocata. Anzi, una sera mentre Bianca Maria credeva che il padre fosse uscito, passando innanzi alla porta della cappella udì partirne delle voci interrotte, fra l'ira e il lamento: ella si avanzò e, sporgendo il capo, vide il padre che, inginocchiato, aveva buttate le braccia intorno al corpo dell' Ecce Homo e ora si lagnava della sua sfortuna, ora dava in esclamazioni, in bestemmie, maledicendo tutti i nomi della Divinità con empia parola, subito pentendosi, chiedendo perdono delle ingiuste e sacrileghe offese: infine, un novo impeto di collera lo assalse e si staccò dal sacro busto con disdegno, profferendo delle parole di minaccia. Egli prometteva nel suo delirio, a Gesù Cristo legato alla colonna, di punirlo, sì, di punirlo, se per la prossima settimana non disponeva che egli vincesse una grossa somma al lotto. Bianca Maria, esterrefatta, non vedendo più la misura di questa empia follia, fuggì, nascondendosi il volto fra le mani: e, chiusa nella sua stanza, ella pregò tutta la notte il Signore, perché l'inconscia eresia di suo padre non fosse punita. Oramai, ella si chiudeva sempre, di notte, per sottrarre il suo riposo notturno alle suggestioni di suo padre, che la voleva obbligare a evocare lo spirito, che le parlava di questi fantasmi come di persone vive, che la perseguitava, infine, in ogni ora, tenendola sotto quell'incubo spaventoso. Ma poco dormiva, malgrado la solitudine e il silenzio della sua stanzetta: poiché i suoi nervi, tesi, oscillavano al minimo rumore: poiché temeva sempre che suo padre picchiasse alla porta, o tentasse di aprire con un'altra chiave, per indurla a chiedere i numeri, nella notte, allo spirito assistente. entre ella sonnecchiava, in un lieve dormiveglia, donde il minimo scricchiolìo la traeva, ella sussultava come se voci fievoli la chiamassero, sbarrava gli occhi nell'ombra, quasi a vedere uno spettro, che le sorgesse accanto al letto: e quante volte ella si levò, seminuda, scalza, correndo sul pavimento, poiché le pareva che una mano leggera strisciasse sul capezzale, venisse a toccarle la fronte, a carezzarle i capelli! E una notte, una notte sopra sabato, ella udì, nel dormiveglia, suo padre passeggiare su e giù per la casa, passando varie volte innanzi alla sua porta, nelle furiose cogitazioni della sua anima tumultuante: e sottovoce, ella invocò per lui la calma del cielo, la calma che pareva fuggita, per sempre, da quello spirito. Ma mentre si riaddormentava, un bizzarro e sordo rumore la risvegliò, trabalzante: era come se si trascinasse un corpo pesantissimo, facendo vacillare le porte, le finestre e i pavimenti, con quel tetro fragore. Ogni tanto, il misterioso rumore si andava chetando, taceva: dopo una pausa di qualche minuto ricominciava, più forte e più sordo, nel medesimo tempo. Ella era rimasta levata sui guanciali, inchiodata da una ignota mano di ferro: che accadeva di là? Avrebbe voluto gridare, suonare il campanello, fare accorrer gente, ma quel fragore le toglieva la voce: ella restò muta, sudando freddo, con tutta la tensione dei suoi nervi concentrata nell'udito. Il rumore quasi di tremuoto, che si approssima, era sempre più vicino alla sua porta ed ella, nell'ombra, congiunse le mani, chiuse gli occhi forte forte, per non vedere, pregando Dio che non la facesse vedere. Insieme a quello strascinìo di corpo pesante e traballante, ella udì un respiro affannoso, di persona che si adopera a una diseguale fatica: e poi, un urto forte, come se avessero battuto alla sua porta con una catapulta. Ella credette che la porta si fosse schiusa violentemente e ricadde sui cuscini, non udendo più, non vedendo più, smarriti i deboli sensi. Ben tardi, molto più tardi, rinvenne: gelida, immobile, tese l'orecchio, ma non udì più nulla, per molto tempo, e nella confusione, oramai, che nella sua fantasia si formava fra la realtà e il sogno, le parve che tutto quello che aveva udito, non fosse stato che una lugubre visione, che l'avesse oppressa coi suoi terrori. Aveva sognato, dunque, quel bizzarro tremuoto, e quell'affannoso respiro, e quel forte colpo alla porta della sua stanza. La mattina, dopo aver riposato poche ore, si levo più tranquilla, e dopo aver detto) le sue orazioni andò nella stanza di suo padre, come soleva fare ogni mattina, per augurargli il buon giorno. Ma non lo trovò: e il letto era intatto. Talvolta, da qualche tempo, il marchese Cavalcanti non rientrava a casa, e l'allarme suo e dei servi, le prime volte, era stato grande: ma quando il marchese di Formosa era rientrato, aveva sgridato coloro che lo avevano cercato dicendo che non tollerava inquisizioni, che faceva il piacer suo. Pure, Bianca Maria, ogni volta che sapeva aver egli passato la notte fuori di casa, diventava inquieta: era vecchio, era stravagante, la sua follìa lo metteva in perigliosi contatti, lo rendeva credulo e debole: ella temeva sempre che qualche pericolo lo soverchiasse, una di quelle notti, nella via, in qualche oscura riunione di cabalisti. Anche quella mattina tremò: e passò nelle altre stanze, ripensando a quel fenomeno della notte, di nuovo, domandando a sé stessa, se tutto ciò non si rannodasse a un truce mistero. Trovò Giovanni che spazzava accuratamente: - Non è rientrato questa notte, il marchese? - domandò, con finta disinvoltura. - È rientrato: ma è uscito prestissimo, - rispose il servitore. - Non è andato a letto… credo… - mormorò, abbassando gli occhi. - No, Eccellenza, - disse il vecchio servitore. In questo sopraggiunse Margherita e disse qualche cosa frettolosamente al marito, che annuì e disparve nella cucina. - Ho pregato Giovanni, che tirasse lui il secchio dell'acqua, dal pozzo, stamane, - spiegò la vecchia cameriera. - Stamane non ho forza. - Poveretta, ti stanchi troppo, - osservò pietosamente Bianca Maria, con gli occhi pieni di lacrime. - Sono un po' vecchia: ma per voi farei qualunque cosa, Eccellenza, - disse la fedele, con voce materna. - Ma non so che cosa abbia, il secchio, stamane: è così pesante, che non lo posso tirare su: ho pregato Giovanni che ha più forza, a prendere il mio posto. E ambedue andarono di là, perché Margherita ci teneva all'onore di pettinare le belle e folte trecce nere di Bianca Maria. Anche la pettinatura fu interrotta da Giovanni che, non osando entrare, chiamava fuori Margherita e parlottarono fra loro, qualche tempo, mentre Bianca Maria aspettava, coi capelli neri disciolti sul bianco accappatoio. Margherita ritornò, turbata, e tremava, tenendo il pettine: - Che è? - chiese Bianca Maria. - Niente, niente, - mormorò in fretta, la cameriera. - Dimmi, che è? - insistè l'altra, guardando la vecchia. - È che neppure Giovanni, ha potuto tirar su il secchio... - Ebbene?... - Giovanni dice.., dice, che vi è un ostacolo. - Un ostacolo? - Ha chiamato Francesco il facchino… tireranno su insieme… forse vinceranno l'ostacolo... - Che ostacolo? - balbettò la fanciulla, impallidendo mortalmente. - Non so, signorina… non so, - disse la vecchia, tentando di ricominciare a pettinarla. - No. - disse quella risolutamente, scartando la mano col pettine e raccogliendo sulla testa i capelli con le forcinelle. - No, andiamo di là. - Eccellenza, Eccellenza, che ci andiamo a fare? Vi sono Giovanni e Francesco… restiamo qui. - Andiamo di là, - insistette la fanciulla, avviandosi verso la grande cucina. Il vecchio Giovanni e il facchino Francesco, in maniche di camicia, tiravano con tutte le loro forze la fune: e la fune saliva con un moto impercettibile, con uno scricchiolìo, come se si spezzasse. Ma tanto sulla faccia del vecchio servitore Giovanni come sulla faccia del facchino Francesco, oltre il senso della grossa fatica che duravano, si leggeva una grande paura. Ogni tanto, coi fianchi ansimanti e le braccia che s'irrigidivano, si fermavano dal tirare e si guardavano, scambiando un'occhiata spaventata. Dalla soglia della cucina, avvolta nell'accappatoio bianco e coi capelli mezzo disciolti, Bianca Maria li guardava fare, mentre Margherita la cameriera, alle sue spalle, la veniva pregando, sottovoce, perché se ne andasse, se voleva bene alla Madonna, perché se ne andasse, in nome di Dio. - Ma infine, che sarà? - disse con fermezza Bianca Maria, rivolgendosi ai due uomini, a cui il crescente timore troncava le forze. - Che vi posso dire, Eccellenza? - balbettò Giovanni, - questo peso non è cosa buona... Ma mentre tutti tenevano gli occhi fissi sul pozzo, in una angosciosa aspettazione, avendo tutto lo spasimo di quell'attesa e tutta la paura dell'ignoto, la cosa he i due uomini tiravano su, urtò fragorosamente, due volte, a destra e a sinistra, nelle pareti del pozzo: e il grave rumor sordo si ripercosse nel cuore di Bianca Maria, poiché era identico a quello che aveva udito nella notte. Un piccolo grido di spavento le uscì dalla bocca ed ella strinse le mani, fino a farsi entrare le unghie nella carne, per soffocare innanzi a quei servi il suo terrore. Ma ancora una volta con un rumore più forte, più vicino, la cosa attè contro la parete del pozzo. - Sta venendo, - disse il facchino paurosamente. - Sta venendo, - ripetette Giovanni, costernato. E alle spalle di Bianca Maria che non poteva più domare i suoi nervi eccitati, Margherita pregava, sottovoce, tremando: - Madonna, assistici; Madonna, scampaci! Ma quello che apparve all'orlo del pozzo, barcollando, vacillando, con la fune del secchio che gli girava tre volte intorno al collo, con la catena del secchio che gli pendeva sul petto, la fece urlare di paura. Era un tronco d'uomo, dalla fronte stillante acqua e sangue sulle guance dolorose, dal torace nudo, stillante a rivoli sangue e acqua dal costato ferito, e negli occhi aveva sangue e lagrime, e la faccia e il petto avevano il livido colore della carne dei morti. Urlando di spavento, Francesco e Giovanni fuggirono, chiamando aiuto, aiuto: rlando di paura, le due donne, padrona e cameriera, erano fuggite nel salone tenendosi abbracciate, l'una con la faccia nascosta sul petto dell'altra, non osando levare il volto, perseguitate da quella orribile visione di tronco di assassinato. E il tronco tutto livido, tutto sanguinante nel viso, e nel petto, e nelle braccia avvinte, con l'espressione desolata dei suoi occhi, della sua bocca socchiusa quasi a un singulto, gocciando acqua e sangue, restò appoggiato sul parapetto, legato dalla fune, legato dalla catena. Il facchino e il servitore si erano buttati verso le scale gridando che vi era un morto, che vi era un morto ucciso: e subito nella scala, nel portone, nel vicinato, si diffuse la voce che nel pozzo del palazzo Rossi, era stato trovato il cadavere di un assassinato. Tutti avevano aperte le porte di casa, tutti erano alle finestre: ma il racconto confuso e tremante che facevano Francesco e Giovanni, aveva tanto comunicativo spavento, che nessuno osava penetrare nella casa aperta del marchese Cavalcanti e nella cucina dove il cadavere giaceva, abbandonato. Nel salone, le due donne si tenevano sempre strette, tremando, mentre Margherita cercava di vincersi per amore della sua padrona, il cui corpo, nelle sue braccia, ella sentiva a volte ammollirsi come per mancanza di spiriti vitali, a volte irrigidirsi, come in un impulso di convulsione nervosa. Ma il gran susurro del palazzo, dal portone era giunto anche in casa del dottore, che aveva il cuore sempre fremente nell'aspettativa di una catastrofe: messo il capo alla finestra, vide gente dovunque e confusamente arrivò, anche a lui, la vociferazione che s'era trovato un morto, ucciso, nel pozzo del palazzo Rossi e che il morto era nella cucina di casa Cavalcanti. Giusto, Giovanni, ripensando alle due donne lasciate sole, pentito di quel gran chiasso, intendendo che tutto quello scandalo sarebbe ricaduto sulla famiglia Cavalcanti, risaliva le scale: - Veramente, ci è un morto? - gli chiese Amati, non arrivando a nascondere, malgrado la propria forza, il turbamento che lo aveva colpito. - Veramente, Eccellenza, - disse il cameriere, con la disperazione negli occhi e nella voce. - Chi lo ha visto? - Tutti, Eccellenza. - Chi, tutti? Anche la signorina? - Anche la signorina. Il dottore gli gettò una occhiata terribile ed entrò nella casa fatale, dove un fiato tragico aveva sempre soffiato dal primo momento che vi aveva posto il piede, dove tutte le lugubri bizzarrie parevano possibili. Girò per le stanze, come un pazzo, in cerca della fanciulla e la trovò seduta in un seggiolone del salone, così pallida, così stravolta e così muta che Margherita, sgomenta, le si era inginocchiata dinanzi, tenendole le mani, pregandola che le dicesse una parola, solo una parola. Bianca Maria diè un'occhiata ad Amati e parve non lo riconoscesse, tanto rimase fredda e inerte, fissa nella sua espressione di spavento. - Bianca! - disse il medico, con voce dolce. Ella seguitò a tacere. - Bianca! - replicò lui, più forte. E le prese la mano: a quel lieve contatto ella fremette, diè in un grido, ritornando in sé stessa. - Amor mio, amor mio, parla, piangi, - suggerì lui, guardandola magneticamente, cercando di trasfonderle la sua volontà, la sua forza, il suo coraggio. E a un tratto, come se quella volontà e quella forza le avessero dissuggellate le labbra, ella si mise a gridare: - Il morto, portatelo via, il morto! - Ora, ora, non temere, lo portiamo via, sta calma, - le disse il medico. - Il morto, il morto! - gridava lei, con la faccia fra le mani, convulsamente. - Per carità, portatelo via, questo morto, o mi porterà via! Non mi fare portar via, te ne supplico, amor mio, se mi vuoi bene! Con uno sguardo il dottore raccomandò la fanciulla a Margherita e, seguito da Giovanni, andò in cucina: in anticamera vi erano già due o tre persone che parlavano di chiamare il delegato, il portiere, la portiera, le serve di casa Fragalà e di casa Parascandolo, Francesco il facchino, ma nessuno di essi, pure seguendo il dottore, osò entrare nella cucina: lo lasciarono andar solo, aspettando nell'anticucina, in silenzio, vinti, di nuovo, da una gran paura. Il medico, pur avvezzo ai cadaveri, scosso da quella catastrofe che lo feriva intimamente, demoralizzato dal pensiero delle sue conseguenze, entrò in cucina, in preda al più profondo dei turbamenti, che la vista di quella fronte sanguinante, di quelli occhi piangenti, di quelle mani legate e sanguinanti, di quel torso livido, ferito e sanguinante, fecero crescere a dismisura. Ma il sangue freddo dello scienziato, avvezzo alla morte, riprese il sopravvento e accostandosi, egli vide che quel capo aveva la corona di spine: e in una stupefazione immensa, egli comprese tutto. Era l'Ecce Homo. a mezza statua di legno, che rappresentava alla sua naturale grandezza il Divin Redentore legato alla colonna, scolpita e dipinta magistralmente, avea tutto l'orribile aspetto del cadavere sanguinante: e l'acqua del pozzo in cui era stata immersa, ne aveva stinto il color di carne e il vermiglio del sangue, facendolo colare, nella duplice magica apparenza dell'assassinio e del l'annegamento. Pure, il dottor Amati si era sentito stringere il cuore, allo scoprire quella lugubre farsa, quella miscela di crudeltà e di grottesco: e dominata totalmente la stupefazione, l'uomo forte intendeva soltanto l'immensa amarezza di Bianca Maria inferma, addolorata, ferita forse a morte, per una tetra, mistica e puerile follia, in cui vaneggiava il marchese Cavalcanti. Adesso urgeva soccorrerla. - È l'Ecce Homo, - disse brevemente, uscendo fuori, alla gente raccolta nell'anticucina. - Voi che dite, Eccellenza! - gridò Giovanni provando lo stesso senso di stupefazione, aumentato dal dolore di quel sacrilegio. - È l'Ecce Homo, - egli ripetè, guardando tutti coloro freddamente, con quella sua aria imperiosa che non ammetteva replica. - Andate in cucina, asciugatelo e riportatelo nella cappella. Coloro si guardarono, consultandosi, sanati dal terrore del morto, presi dall'orrore di quell'oltraggio alla Divinità. - Dopo farete venire il prete, a benedire, - egli disse, conoscendo il cuore del popolo napoletano. Andò di là, nel salone. La fanciulla era ancora distesa sul seggiolone, con gli occhi coperti dalle mani, mormorando sempre, fra sé: - Il morto, il morto, amore caro, fate portare via il morto... - Non vi era nessun morto, cara, - egli le disse, con quella dolcezza che gli veniva dalla infinita pietà. - Oh sì, sì, vi era.. . - mormorò ella, melanconicamente, crollando il capo, quasi che nulla valesse a persuaderla del contrario. - Non vi era nessun morto, - replicò lui, seriamente, sentendo il bisogno di domare quel vagabondaggio della ragione. E cercò di toglierle le mani dagli occhi: ma esse s'irrigidirono e una espressione di spasimo stirò la fisonomia della ragazza. - Guardatemi un poco, Bianca Maria, - le mormorò lui con voce insinuante. - Non posso, non posso, - disse lei, con voce triste e misteriosa. - E perché? - Perché potrei vedere il morto, amore, amore mio, - ella disse, sempre con quel profondo senso di mestizia che faceva venire le lagrime agli occhi del dottore. - Cara, vi giuro che non vi è nessun morto, - replicò ancora lui, con la dolce insistenza che si fa a un fanciullo malato. E intanto cercava di prenderle il polso, per sentirne le pulsazioni, per sentire la temperatura della pelle. Strano a dirsi, mentre la fanciulla pareva quasi in delirio, la mano era gelida e le vibrazioni del polso erano lente, fievoli. Egli ebbe una stretta al cuore, come se la mancanza di vita e di forza della poveretta, gli desse la prova di una decadenza continua, invincibile. Avrebbe voluto raccapezzarsi in quel morbo singolare, in cui tutto il sangue pareva diventato debolissimo e in cui tutti i nervi fremevano in una acutissima sensibilità; ma troppo il suo cuore amava Bianca Maria, perché la sua scienza conservasse la sua lucidità. Non trovava più, non trovava il segreto di quel sangue impoverito e di quella nervatura frizzante: intendeva soltanto, così, confusamente, che quell'organismo si consumava di debolezza e di sensibilità: non pensava né alle medicine, né ai rimedii eccezionali: pensava solo, confusamente, così, che egli doveva salvare l'amor suo, niente altro. Ah, sì, egli doveva strappar subito dagli artigli di quel pazzo, la povera creatura innocente a cui s'infliggevano le quotidiane paure di una follia che non si guariva; egli doveva torre via da quella miseria crescente dell'anima e del corpo, da quella fatale discesa verso l'onta e verso la morte, la purissima creatura, che sapeva solamente soffrire, e soffriva senza ribellarsi, senza lamentarsi. Egli lo doveva, subito: era un uomo, era un cristiano, doveva salvare la infelice, come altre volte, tante volte, aveva salvato gli ammalati d'idrofobia dalla morte per la rabbia, come aveva salvato, una volta, un disperato colpito dall'implacabile tetano. Subito, subito, doveva salvarla, o non si era più a tempo. Dove era il marchese, dunque, dove era il crudele, il folle che col denaro giuocava il suo nome, il suo onore e la sua figliuola? - Eccellenza, è fatto, - disse Giovanni, facendo capolino nel salone. Il vecchio servitore era pallidissimo: dopo l'impressione orrenda di quello che aveva creduto un cadavere, la grave offesa fatta dal suo padrone alla Divinità, ne aveva sconvolto l'umile coscienza religiosa. Quella figura del Redentore, con la fune al collo, sospeso giù nel pozzo, come la salma gemente sangue di un ucciso, quella immagine del pietoso Gesù, così vilipesa, gli sembrava che avesse dato il crollo alla ragione del marchese, gli sembrava che dovesse portare la maledizione della casa. E chiamò fuori Margherita, per dirle quello che era accaduto, mentre nelle case dei vicini, nelle scale, nei portone, nelle botteghe, si andava dicendo che l' Ecce Homo i casa Cavalcanti aveva fatto un miracolo, salvando un ucciso, mettendosi al posto dell'ucciso: e dovunque, in mille forme, si cavavano i numeri dal singolarissimo avvenimento. - Il morto, il povero morto... - vaneggiava la fanciulla, con la voce che le usciva come un soffio dalle labbra. - Non dite più questo, Bianca Maria, credetemi, credetemi, - soggiunse il dottore, con una dolce fermezza. Non vi era il morto: era la statua dell' Ecce Homo. Che era? - gridò ella, levandosi in piedi, guardando il dottore, con certi occhi stravolti. Egli si scosse: ma credette che questa fosse la crisi di quel lungo vaneggiamento e le ripetette, cercando domarla con lo sguardo: - Era la statua dell' Ecce Homo: ostro padre l'aveva sospesa nel pozzo, con una fune al collo. - Dio! - urlò lei, con voce potentissima, levando le braccia al cielo. - Dio, perdonateci! E cadde ginocchioni, si prostese, toccando la terra con le labbra, piangendo, pregando, singhiozzando, continuando a supplicare il Signore, di perdonare a lei e a suo padre. Nulla valse a calmarla, a farla levare di terra, dove, ogni tanto, si abbandonava, in una crisi di lunghissimo pianto: invano il dottore volle usare la dolcezza, la bontà, la forza, la violenza, non vi riescì: l'emozione di Bianca Maria cresceva; cresceva, con qualche intervallo di stupefazione, per ricominciare più forte. Ogni tanto, mentre parea che si chetasse, un rapidissimo pensiero le attraversava il cervello ed ella si abbatteva al suolo, gridando: - Ecce Homo, Ecce Homo, perdonateci voi! Il dottore assisteva, fremendo, col capo chino sul petto, sentendo l'impotenza della sua volontà, sentendo l'impotenza della sua scienza. Che fare? Aveva chiamato Giovanni e scritte due righe sopra una carta, un'ordinazione di morfina, l'aveva mandato alla farmacia: ma la stessa morfina lo sgomentava, Bianca Maria era già troppo debole per sopportarla. Ella, desolata, con una vitalità nervosa, bizzarra, si batteva il petto, mormorando confusamente le parole latine del Miserere, iangendo sempre, come se inesauribile fosse in lei la sorgente delle lacrime. Fu dopo un'ora che il marchese, silenziosamente, entrò nel salone. Era come più vecchio, più stanco, più rotto dal peso della vita. - Che ha Bianca Maria? - domandò timidamente al dottore. - Che le hanno fatto? - Voi la uccidete, - disse gelidamente il medico. - Hai ragione, hai ragione, figlia mia, sono un assassino, - strillò il vecchio. Quell'uomo sessantenne si buttò ai piedi di sua figlia, tremante di vergogna e di umiliazione, tutto sussultante di un singulto senza pianto. E sotto gli occhi del dottore la compassionevole scena si svolse: quel padre canuto, dal gran corpo cadente, pieno di raccapriccio e di dolore, piangendo le rare e brucianti lacrime dei vecchi, sentendo tutto l'orrore della sua colpa, si piegava innanzi alla giovane figliuola, chiedendole perdono, con un balbettìo infantile, proprio come il fanciullo, che sfoga nel pianto tutto il puerile pentimento del suo errore: e la figliuola fremeva ancora, per la gran ferita che le aveva aperta nell'anima la inconscia crudeltà, per la ferita che frizzava sotto l'insulto del fiele che quella crudeltà seguitava a versarvi, per la ferita frizzante sanguinante che questa umiliazione di suo padre faceva gemere ancora, più dolorosamente: e ambedue, al forte uomo la cui vita era stata sempre una onesta e nobile lotta, una continua via verso i più alti ideali, apparivano così deboli, così miseri, così infinitamente infelici, uno come carnefice, l'altra come vittima, che egli, ancora una volta, rimpianse quel tempo, in cui questa tragica famiglia Cavalcanti non aveva preso nel suo stritolante ingranaggio, il suo cuore: ma era tardi, quella miseria, quella debolezza, quella infelicità adesso lo colpivano così direttamente che lui, il forte uomo, soffriva per tutti quegli spasimi e non poteva più domare il purissimo istinto di salvazione, che era il segreto della sua nobiltà d'animo. - Perdona, figlia mia, perdona al tuo vecchio padre; calpestami, me lo merito, ma perdonami, - andava ripetendo il marchese di Formosa, in preda a un furore di umiliazione. - Non dite questo, non lo dite, io sono una misera peccatrice: cercate perdono all' Ecce Homo he avete offeso, o la nostra casa è maledetta, o noi moriamo tutti e ci danniamo...ci danniamo...per la salute eterna, padre mio, cercate perdono all' Ecce Homo. Quello che tu vuoi, figliuola mia, quello che tu m'imponi, così sia, - egli replicò, umiliandosi ancora, tendendo le braccia in atto di supplicazione, - ma l'Ecce Homo i aveva abbandonato, Bianca Maria, egli mi aveva tradito, ancora una volta, capisci? - finì di dire, lui, di nuovo in preda alla collera che lo aveva indotto all'atto sacrilego, sciagurato e grottesco. - Voi mi fate spavento, - gridò lei, indietreggiando e stendendo le braccia per non farsi toccare da lui, - voi, uomo, avete voluto punire la Divinità di Gesù!... cercate perdono, cercate perdono, se non volete che moriamo tutti dannati... - Hai ragione, - mormorò lui, sgomento, umiliato di nuovo. - Fa di me quel che vuoi, farò penitenza, ti ubbidirò come se tu fossi mia madre, sono un assassino, sono un infame! Il marchese si era buttato sopra un seggiolone, accasciato, col petto ansimante, col capo chino, con lo sguardo vitreo fisso al suolo: e la sua figliuola ritta in piedi, nel bianco accappatoio che castamente la copriva dal collo ai piedi, coi neri capelli disciolti sulle spalle, aveva l'aria trasognata e dolorosa delle sonnambule, svegliate dalle loro errabonde e soavi visioni. Il medico intervenne: - Bianca Maria, - egli disse. - Che vuoi? - ella rispose, fievolmente, mentre il padre era immerso in un profondo abbattimento. - Tuo padre è assai turbato, tu soffri: bisogna che ambedue dimentichiate questa dolorosa scena. Vuoi ascoltare un mio consiglio, umano, buono? - Tu sei la bontà e la umanità, - sussurrò ella, levando gli occhi al cielo. - Parla, ti obbedirò. - Quest'ora è stata assai triste, Bianca, ma forse essa potrà aver frutto di bene. Avete pianto, insieme, tu e tuo padre: le lacrime lavano. Per le comuni sofferenze, per il bene che vi volete, tu devi chiedere a tuo padre, non già che egli si umilii fino a chiederti perdono, ma che ti prometta, in nome di tutto quello che hai sofferto, di fare quello che tu gli domanderai, più tardi, quando sarete calmi: diglielo così, Bianca. La mobilissima faccia della fanciulla, alla parola imperiosa, calma e benevola del medico, a quella voce che aveva il magico potere di ridarle la quiete e la fede nella vita, la faccia sino allora contratta e spasimante, si andava rasserenando. L'anima sua, sconquassata e stanca, si posava. - Così sia, - ella mormorò, come se compisse ad alta voce una preghiera interiore. E avvicinandosi al seggiolone, dove giaceva disfatto suo padre, si piegò verso lui e con una tenerissima voce, gli disse: - Mio padre, voi mi volete bene, non è vero? - Sì, - disse lui. - Voi mi volete fare una grazia? - Tutto, tutto, Bianca Maria! - Una grazia sola, per il mio bene, per la salute e la felicità del mio avvenire, promettete di farla? - Tutto quello che vuoi, figliuola, sono il tuo servo... - ... È una grazia singolare, ve la dirò più tardi quando saremo ritornati in grazia di Dio, quando saremo più tranquilli.., ho la vostra parola, mio padre, voi non avete mai mancato... - Hai la mia parola, - egli disse, affannato, come se non reggesse a quel dialogo. Ella intese. Si piegò e con quel suo consueto atto di sommissione filiale, gli sfiorò la mano con le labbra: egli le toccò la fronte, lievemente, in segno di benedizione. Ella si appressò al dottore, gli tese la mano e lo guardò con tale intensità di amore, che egli impallidì, e per nascondere la sua emozione, si abbassò a baciarle la mano. Lentamente, trascinando la persona sottile di cui le forze mancavano, ella si allontanò, uscì dal salone, lasciando i due, soli. Il vecchio pareva concentrato in profonde e tristi riflessioni, poiché ogni tanto levava la faccia al cielo in atto di angoscia e la riabbassava, crollando il capo, quasi scorato. Ma il medico vedeva che l'ora era giunta. - Potete ascoltarmi? - gli domandò, freddissimamente. - Preferirei… preferirei un altro giorno..., - gli rispose, con voce fioca, il marchese. - Meglio oggi, - insistette Amati, con la stessa freddezza dominatrice. - Sono assai turbato… assai… - Forse in quello che vi dirò, avrete modo di placarvi. Voi sapete se vi sono devoto… - Sì, sì..., - rispose l'altro, vagamente. - Io non so dire molte parole, per dimostrare la mia devozione. Cerco, quando posso, di agire devotamente. Vi sono sinceramente, sinceramente affezionato... affezionato a entrambi... - Lo sappiamo: il nostro debito di gratitudine è grande… - Non parlate di ciò. È da tempo che volevo dirvi una mia speranza e non osavo. Sapete meglio di me, che nessun interesse materiale può guidarmi. Vedete, marchese… Non vorrei richiamarvi alla memoria il passato, è troppo doloroso, ma è necessario il farlo. Voi e questa fanciulla, da anni, siete in dolorose condizioni… oh! non per colpa della fanciulla, certo! Le vostre intenzioni sono affettuose, sono sante, hanno uno scopo alto che tutti gli uomini onesti debbono approvare, la rifazione della vostra casa e della vostra fortuna, la felicità offerta a vostra figlia, sante intenzioni, non lo nego: io stesso vi ammiro in questo desiderio così nobile… Il marchese aveva levato la testa e ogni tanto sogguardava il dottore, approvando con un battito di palpebre tutto quanto egli andava dicendo, cautamente, delicatamente, per non offendere, per non abbattere di più quel vecchio, la cui umiliazione tanto lo aveva fatto soffrire. - Ma i mezzi, certo, - riprese il dottore, continuando, con la stessa cautela, - erano rischiosi, azzardati, pericolosissimi e l'ardore con cui desideravate la fortuna, vi ha fatto trascendere, vi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, che inconsciamente seminavate intorno. Non vedete, marchese? Avete intorno la malattia, la miseria, l'avete intorno e in voi: la passione vi ha portato via, e nel precipizio cade con voi la più pura, la più bella, la più cara fra le donne, vostra figlia! - Povera figliuola, povera figliuola, - mormorò pietosamente il marchese. - Voi amate vostra figlia, non è vero? - chiese il dottore Amati, volendo far risuonare tutte le corde del sentimento. - Io non amo che lei sopra tutte le cose, - disse subito il vecchio marchese Cavalcanti, con le lagrime agli occhi, nuovamente. - Ebbene, marchese, vi è un mezzo, per porre quella giovine esistenza innocente al coperto di tutte le angosce fisiche e morali che la consumano; vi è un mezzo, per toglierla dall'ambiente di malattia, di tristezza, di decente ma penosa miseria, in cui ella soffre per tutte le sue fibre; vi è un mezzo, per assicurarle un avvenire di salute, di agiatezza, di pace, di serenità come merita quell'anima purissima; vi è un mezzo, per cui ella può rivivere e questo mezzo è nelle vostre mani... - Ho tentato, lo sapete, - disse desolatamente il marchese Cavalcanti, fraintendendo, - ma non sono riescito. - Voi non m'intendete, - riprese il medico, frenando a stento la sua impazienza, poiché vedeva sempre acciecato il marchese. - Non vi parlo del lotto che è stato il gran disastro della vostra famiglia, che è il cruccio di vostra figlia, che è il tormento di tutti coloro che vi amano. Come potete supporre, che io vi parli del lotto?... - Eppure, è il solo mezzo per far denari, molti denari: solo con esso, io posso salvare Bianca Maria. - V'ingannate, - replicò sempre più freddamente il dottore. - Vi parlo di altro: si può trovare altrove la quiete e la fortuna. - Non è possibile: le fortune che si possono guadagnare al lotto, non hanno limite... - Marchese, qui si parla seriamente. Queste follie cabalistiche mi lasciano freddo, anzi mi esasperano, quando penso ai dolori che cagionano: posso ammetterle come intenzioni nobili, ma esse rappresentano una passione imperdonabile, non ne parlate giammai con me, giammai! Cavalcanti aveva levato la testa e la fisonomia, fino allora molle e disfatta, si era fatta glaciale e dura. Quel giammai, ronunciato con fermezza da Antonio Amati, gli aveva fatto aggrottare un po' le sopracciglia. - Di che mezzo parlavate voi? - egli domandò con una voce strana, dove Amati udì nuovamente l'ostilità. - Forse oggi siamo troppo alterati... tralasciamo, - mormorò il dottor Amati, che si vedeva in procinto di perdere una grave partita. - Domani. - Non ritardiamo, - insistette con fredda cortesia, il marchese Cavalcanti, - giacché si tratta di Bianca Maria, sono pronto. - Datemi vostra figlia in moglie, disse rapidamente ed energicamente il dottor Amati. Il marchese Cavalcanti chiuse gli occhi; un momento, quasi che una vivida luce lo abbagliasse, come se volesse nascondere il suo sguardo lampeggiante: non rispose. - Credo di poter offrire a vostra figlia una posizione degna del suo nome, - riprese subito il medico, deciso ad andare in fondo, - poiché il mio lavoro mi ha dato denaro e reputazione, è inutile esser modesto: lavorerò ancora, molto di più, perché ella sia ricca, ricchissima, felice, inattaccabile, protetta dal mio amore e dalla mia forza... - Voi amate Bianca Maria? - disse il marchese, senza guardare in viso il suo interlocutore. - Io l'adoro, - disse l'altro, con semplicità. - Ed ella vi ama? - Sì. - Voi mentite, signore, - rispose con voce profonda, il marchese Cavalcanti. - Perché insultarmi? - chiese il medico, deciso a sopportar tutto. - Un insulto non è una risposta. - Vi dico che mentite e che nulla vi autorizza a credervi amato. - Vostra figlia mi ha detto d'amarmi. - Bugia! - Me lo ha scritto. - Bugia! Dove sono le lettere? - Ve le porterò. - Sono false. Tutte bugie! - Domandate a lei. - Non lo domanderò. Mia figlia non può amare,senz'averlo detto a suo padre. - Domandateglielo. - Non si è confidata con me: voi mentite. - Domandate a lei. - Mi avrebbe già parlato: mia figlia è obbediente, mi dice tutto. - Non pare che vi dica tutto. - Sono suo padre, perdio! - Voi lo avete spesso dimenticato: essa, qualche volta, lo avrà dimenticato. - Dottore, non vogliate insistere, - fece il marchese, con la sua fredda, ironica cortesia. - Insisto, perché è il mio diritto. Non ho mentito. Del resto, io ho parlato chiaro. Mi offro a vostra figlia che è ammalata, povera, triste, come marito, come protettore, come amico, per guarirle l'anima e il corpo, per amarla e per servirla, come ella merita. Volete darmi vostra figlia? A questo dovete rispondere. - Non ve la voglio dare. - Perché? - Non ho dovere di spiegarvi le mie ragioni. - Siccome il rifiuto mi offende, ho diritto di chiederle. Forse perché non sono nobile? - Non è per questo. - Non mi trovate giovane? - Neppure per questo. - Avete una particolare disistima di me? - No. - E perché, allora? - Ripeto, non debbo dirvi le ragioni. Non posso rispondervi che questo: no. - Neppure aspettando? - Neppure. - Senza nessuna speranza? - Nessuna. - Per nessuna circostanza? - Giammai, - conchiuse il marchese Cavalcanti. Tacquero. Ambedue, diversamente straziati, erano straziati. - Voi volete veder morta la vostra figliuola, - disse il medico, dopo aver pensato. - Non temete, non morrà; vi è una forza che la sostiene. - Domani, essa sarà all'elemosina, una Cavalcanti! - Io la farò ricca a milioni, signore; ma io soltanto ho il dovere di arricchirla. - Vi ho detto che l'amo. - Nulla può agguagliare la mia tenerezza. - Ma il destino delle donne, delle fanciulle è l'amore, è il matrimonio, sono i figli! - Delle donne comuni, volgari, non di Bianca Maria Cavalcanti. Ella ha un'altissima missione, la compirà. - Marchese, voi perderete quella fanciulla. - Io la salvo: e le assicuro una fama immortale e una vita immortale. - Marchese. io ve ne prego, vedete come ve ne prego, io che non ho mai pregato nessuno: non dite di no, così, ostinatamente, senz'aver neanche interrogata Bianca. Voi le preparate un nuovo grandissimo dolore: voi togliete, a me la possibilità di vivere per lei e offendete un galantuomo, così, senza una ragione. Ve ne prego, pensateci, non vi decidete in questo momento. - O domani, o poi, è lo stesso. È un no, sempre un no, niente altro che un no. Non avrete la marchesina Bianca Maria Cavalcanti, - e sghignazzò diabolicamente. - Ripensateci ancora, marchese. Se mi dite ancora di no, io dovrò allontanarmi, per sempre. Non recidete così bruscamente i nostri legami. - Siete libero di allontanarvi, non ci vedremo più; forse, era meglio che non ci fossimo mai visti. - È vero. Me ne andrò. - Andate pure. Addio, signore. - Prima di andarmene, però, io voglio interrogare la vostra figliuola, qui, voi presente. Non siamo più nel Medio Evo: anche la volontà della fanciulla, conta. - Non conta. - V'ingannate. Io la interrogherò. Andrò via, quando essa mi dirà di andare. Chiamatela, se siete uomo leale, se siete gentiluomo. Il vecchio signore, interpellato in nome della lealtà, si rizzò e suonò il campanello, dicendo a Giovanni di far venire la figliuola. I due nemici stettero in silenzio, fino a quando ella comparve. Con la facilità dei temperamenti estremamente nervosi, ella aveva riacquistata tutta la sua calma: ma un'occhiata rivolta alle due persone che amava, sconvolse il suo spirito, immediatamente. - Lascio a voi la parola, - disse con gentilezza il medico, inchinandosi al marchese. - Bianca Maria, - cominciò con voce grave il padre, - il dottor Antonio Amati dice di amarvi: lo sapete voi? - Sì, mio padre. - Ve lo ha detto? - Sì, mio padre. - Avete tollerato che ve lo dicesse? - Sì, mio padre. - Voi avete commesso un grave errore, Bianca Maria. - Tutti erriamo, - ella mormorò, guardando Antonio Amati, per prender coraggio. - Ma vi è qualche cosa di molto peggio. Egli dice che voi lo amate. Io, in volto, gli ho ripetuto che egli mentiva, che voi non potevate amarlo. - Perché lo avete chiamato mentitore? - È mai possibile che tu abbia smarrito ogni pudore, amando costui e dicendoglielo? - Anche mia madre vi amava, e ve lo ha detto, ed era una donna pudica! - Non divergere, non chiamare testimonianze, rispondi a me, a tuo padre: tu ami questo dottore? - Sì, - ella disse, aprendo le braccia. - Io non ti perdonerò mai questa parola, Bianca Maria. - Che Dio sia più misericordioso di voi, mio padre. - Dio castiga i figliuoli disobbedienti. Il dottore Antonio Amati mi ha cercato te in isposa. Gli ho risposto di no, di no, per adesso, di no, per domani, di no, per sempre. - Voi non volete che io sposi il dottor Amati? - No, non voglio. È vero che neppure tu lo vuoi? Ella non rispose: due grosse lacrime le rigarono le guance. - Rispondete, signorina, - disse il medico, con tale angoscia nella voce, che la poveretta fremette di dolore. - Non ho nulla da dire. - Ma non avete detto che mi amate? - Sì: l'ho detto: lo ripeto. Vi amerò sempre. - E mi rifiutate? - Non vi rifiuto: è mio padre che vi rifiuta. - Ma voi siete libera, non siete una schiava; ma le fanciulle hanno diritto di scelta; ma io sono un galantuomo. - Voi siete l'uomo più buono e più onesto che io abbia mai conosciuto, - diss'ella, congiungendo le mani gracili, in atto di preghiera. - Ma mio padre rifiuta, io debbo ubbidire. - Voi sapete, che mi date il più grande dolore della mia vita? - Lo so: ma debbo ubbidire. - Voi sapete che spezzate la mia esistenza? - Lo so: non posso fare altrimenti, mia madre mi maledirebbe dal cielo, mio padre mi maledirebbe sulla terra. So tutto: debbo ubbidire. - Rinunziate alla salute, alla felicità, all'amore? - Rinunzio, per obbedienza. - E tal sia! - gridò lui, con un atto energico, quasi buttasse via tutta la sua debolezza. - Non diciamo più che una parola: addio. - Voi ve ne andate? - disse ella, tremando come un albero scosso dalla tempesta. - Debbo andare: addio. - Partite? - Sì: addio. - Non tornerete più? - Mai più. Ella guardò suo padre: egli era impassibile. Ma tanta disperazione ella sentiva in sé, ella sentiva nel cuore di Antonio Amati, che tentò ancora: - Poc'anzi, mio padre, mi prometteste in un momento di pentimento e di confusione, che avreste fatto tutto quello che voglio io, e io vi chiesi di fare una sola cosa, una sola. È questa. La parola di un gentiluomo, di un Cavalcanti, è cosa sacra. Manchereste? - Ho le mie ragioni: Dio le vede, - disse misteriosamente il marchese. - Negate? - Sempre. - Nulla può indurvi? Né le nostre preghiere, né il bene che mi volete, né il nome di mia madre, nulla v'induce? - Nulla. - Egli dice di no, amore mio, - mormorò ella, guardandosi intorno, con l'occhio smarrito. Ma Antonio Amati era troppo mortalmente ferito, per provare più compassione delle sofferenze altrui. Adesso non lo teneva che un solo desiderio, quello delle persone forti che, chiusa nell'anima la gran catastrofe di tutta la loro vita, non pensano che a fuggire, a fuggire nella solitudine, sdegnose di sterile conforto. Aveva bisogno dell'ombra, del silenzio, dove nascondersi per piangere, per urlare di dolore. La fanciulla innanzi a lui era l'immagine della desolazione, ma egli non vedeva più, non sentiva più: ogni compassione era sparita dal suo cuore, egli provava tutto l'implacabile egoismo delle immense sofferenze. - Amore mio, amore mio, - ripetette ancora lei, cercando di dar forma alla passione che l'angosciava. - Non pronunziate queste parole, Bianca Maria, - egli disse con l'amaro sogghigno dei delusi, - non servono, non ve le chiedo. Abbiamo parlato anche troppo. Lasciatemi andare. - Restate ancora un minuto, - diss'ella, come se si trattasse di arrestare, per un momento, la morte. - No, no, subito. Addio, Bianca Maria. Egli s'inchinò davanti al marchese, profondamente: il feroce e impassibile vecchio che niente aveva potuto scuotere, i cui occhi non vedevano più altro che le sue pazze visioni, gli rese il saluto. Quando il medico passò innanzi alla fanciulla, per uscire dal salone, costei gli tese la mano, umilmente: ma il dottor Amati non prese quella mano. Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l'esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili. Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l'orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse: - Beneditemi. - Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti. - La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.

E traendosi dal suo abbattimento, levandogli gli occhi nel volto, timidamente gli disse: - Voi non dite che io sono cattiva ed ingrata, nevvero? - No, cara. - Voi non lo giudicate male, lui? - Io lo guarirò, - egli disse, pensando.

Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

Ogni tanto si fermava, quasi si pentisse di quello che andava facendo o che andava pensando: ma si rianimava da quel momento di abbattimento, subito. E quando lo stridulo campanello dello studio innì la prima volta, il dottor Trifari ebbe un sussulto e stette incerto, quasi non osando di aprire. Pure, andò: e schiudendo solo a metà il battente, con precauzione, lasciò passare Colaneri che aveva una faccia assai torbida e tutte le spalle bagnate, poiché il piccolo e gramo ombrello gli riparava solo il capo. Scambiarono la buona sera, a voce bassa. L'ex-prete, dagli sguardi guardinghi dietro gli occhiali, si asciugava con un fazzoletto di dubbia bianchezza le mani bagnate, le mani grasse e floscie e biancastre, che sono speciali ai sacerdoti. Non si parlavano. Una medesima, complessa angoscia li opprimeva, tanto che la consueta verbosità meridionale ne era domata; e tutto l'eccitamento del passato, vinto da una serie di delusioni, pareva si fosse risoluto in un esaurimento di tutte le forze. A un tratto, levando il capo, Colaneri domandò: - Verrà? - Sì, - soffiò fra le labbra, il dottore. - Non ha sospetti? - Nessun sospetto. Una raffica di vento s'ingolfò nella stanza e fu per smorzare il lume, fu allora che Trifari andò a chiudere i vetri. - Tutto quello che facciamo, è necessario, - soggiunse il professor Colaneri, ripetendo ad alta voce la scusa, che andava ripetendo, da qualche giorno, alla sua coscienza. - È impossibile andare più innanzi, - osservò, con voce tetra, il dottore, mentre, per darsi un'aria di disinvoltura che non aveva, accendeva un sigaro, lungamente, lasciando spegnere i fiammiferi. - Il rapporto che hanno fatto contro di me al Ministero è terribile. - disse Colaneri, sottovoce, con gli occhi bassi. - Ho una quantità di nemici, giovanotti che ho riprovato agli esami, capisci. Mi hanno denunziato al preside del liceo, dicendogli che ho venduto il tema dell'esame a dieci studenti: hanno messo anche i nomi… - Come hanno potuto saper questo? - chiese il medico, lentamente. - Chissà! Ho tanti nemici… il preside ha fatto un orribile rapporto, io sono minacciato. - Di destituzione? - Non solo… di processo… - Eh, via! - Tanti nemici, Trifari, tanti! La minaccia è grave: come potrò provare la mia innocenza? - Li hai poi venduti, questi temi?… - borbottò cinicamente il dottore, buttando via il suo sigaro. - La paga è così meschina, Trifari ! E gli esami sono tutta una impostura! - Se ti fanno un processo, è male… - Sono perduto, se mi processano. Bisogna aver la fortuna in mano, questa volta, per forza, capisci? È necessario: se no, sono rovinato. Non mi resta che tirarmi un colpo di rivoltella, se mi processano. Dobbiamo vincere, Trifari! - Vinceremo, - affermò l'altro. - Io ho una quantità di guai, al mio paese e qui. Mio padre ha venduto tutto; mio fratello invece di tornare a casa. dopo aver fatto il soldato, per la miseria, si è arruolato come carabiniere; mia sorella non si marita più, non ha più un soldo, è ridotta a cucire i vestiti delle contadine ricche… Avevamo poco, io ho mangiato tutto… una quantità di debiti, di obbligazioni… Il padre di quello studente che firmò la cambiale a don Gennaro Parascandolo, vuole darmi querela per truffa… dobbiamo vincere, Colaneri, non possiamo più vivere una settimana senza vincere… io sono più rovinato di te… Suonarono pian piano. - È lui, forse! - domandò Colaneri, con un leggiero tremito nella voce. - No, no, - rispose Trifari. - Viene più tardi, quando ci saremo tutti… - Chi lo porta? - Cavalcanti. - Egli non ha sospetti, dunque? - No, niente. - E lo spirito, nulla gli dice? - Pare che lo spirito non si possa opporre alla fatalità, perché nulla gli dice. - Fatalità! fatalità! Suonarono nuovamente. Trifari andò ad aprire. Era l'avvocato Marzano, il vecchietto arzillo, bonario, sorridente. Ma una improvvisa decrepitezza parea che lo avesse assalito: il pallore del volto si era fatto giallastro, i mustacchi pepe e sale erano tutti bianchi e pioventi radi sulle labbra. Il sorriso era scomparso, come se per sempre, e all'approssimarsi della morte, fosse sparito dalla sua anima il criterio buono dell'esistenza. Entrando, sospirò. Era tutto bagnato; il soprabito luccicava di goccioline d'acqua, dovunque, e le scarne mani tremavano. Si sedette, silenzioso: tenne il cappello sul capo, abbassato sulle orecchie, e la bocca solamente conservava l'antica consuetudine di muoversi continuamente, masticando cifre. Adesso aveva appoggiato al bastone il mento aguzzo, dove una barba incolta cresceva, e si assorbiva nei suoi pensieri, senza neppur udire quello che dicevano fra loro Trifari e Colaneri. A un tratto, anche lui, avendo lo stesso pensiero dominante, domandò: - Verrà? - Verrà, sicuramente. - risposero insieme, gli altri due. - Non se lo immagina? - Non s'immagina niente. - Questi assistiti, vedono assai, o non vedono nulla. - Meglio così, - mormorarono gli altri due. Il dottor Trifari, udendo bussare alla porta, andò prima nella seconda stanza a prendere tre o quattro altre sedie e le collocò intorno al grezzo tavolino. Entrarono Ninetto Costa e don Crescenzo, il tenitore di Banco lotto, al vico del Nunzio. L'agente di cambio aveva perduto tutta la sua eleganza. Era vestito alla meglio, con un abito da mattino, su cui un troppo chiaro soprabitino aveva larghe chiazze di acqua: sulla cravatta di raso nera, era confitto uno spillo di strass. con l'eleganza era anche sparito il suo bel sorriso di uomo felice, che gli scopriva i denti bianchi. L'agente di cambio andava, a stento, di liquidazione in liquidazione, senz'arrischiarsi più, non osando più giuocare, avendo perduta tutta la sua audacia; e arrivando solamente a tenere a bada i suoi creditori, che gli avevan ancora fede, così, perché il suo nome era conosciuto in Borsa, perché suo padre era stato un modello d'integrità e perché egli stesso era stato così fortunato, che tutti ancora credevano alla sua fortuna; ma il disgraziato sapeva che era giunta l'ora della crisi, che non avrebbe potuto neppure pagare gli interessi dei suoi debiti, e che il nome di Ninetto Costa sarebbe stato quello di un fallito, fra poco. Oh, aveva smesso tutto, casa sontuosa, equipaggi, amanti di lusso, viaggi, pranzi e vestiti inglesi di Poole, ma tutto questo sacrificio non bastava, non bastava, poiché il cancro che gli rodeva il seno, il cancro che rodeva tutti, non era stato estirpato, poiché egli continuava disperatamente a giuocare al lotto, preso oramai totalmente, anima e corpo, chiudendo gli occhi in quella tempesta, per non veder venir l'onda che lo avrebbe sommerso. Accanto a lui, don Crescenzo, dalla bella faccia serena, dalla barba castana ben pettinata, aveva anche lui le tracce di una decadenza iniziale. A furia di stare a contatto coi febbricitanti, come chi tocca le mani troppo calde, qualche cosa gli si era attaccato: e innanzi alle disperate insistenze dei giuocatori, egli era arrivato a far credito ai giuocatori. In qual modo resistere alle supplichevoli domande di Ninetto Costa, alle pretese che nascondevano una vaga minaccia di Trifari e Colaneri, alle nobili promesse del marchese Cavalcanti, a quelle diverse forme di preghiere? Sul principio faceva loro credito dal venerdì al martedì mattina, giorno in cui preparava il versamento allo Stato, ed essi rinnovando ogni settimana il miracolo, arrivavano a restituirgli quello che gli dovevano, perché egli potesse essere puntuale, il mercoledì; ma alla lunga, esaurite le risorse, qualcuno di costoro cominciò a pagare una parte, o a non pagare niente: egli cominciò a rimetterci del suo, per non farsi sequestrare dallo Stato la cauzione. I giuocatori non osavano ricomparire che quando avevano di nuovo denaro, scontavano una parte del debito e il resto lo giuocavano: uno era addirittura sparito, il barone Lamarra, il figliuolo dello scalpellino, che era divenuto appaltatore e riccone. Gli doveva più di duemila lire, a don Crescenzo, il barone Lamarra, e quando costui lo ebbe aspettato, per due o tre settimane, andò a rincorrerlo a casa. Trovò la moglie, in uno stato di furore; il barone Lamarra aveva falsificato la firma di lei, sopra una quantità di cambiali, e ora le toccava pagare, se non voleva diventare la moglie di un falsario, doveva pagare, purtroppo, ma aveva già fatto domanda di separazione: il barone Lamarra se n'era fuggito a Isernia, donde non dava segno di vita. Don Crescenzo fu cacciato via, in malo modo. Duemila e più lire perdute! Giurò di non far più credito a nessuno: e malgrado che ogni tanto pagassero qualche somma, i suoi debitori, restavano sempre sette od ottomila lire arrischiate, con poca speranza di riaverle: ottomila lire, giusto la somma dei suoi risparmi di vari anni. D'altronde, non li poteva tormentare troppo, i suoi debitori; non avevano, oramai, che certe risorse disperate che saltavano fuori solamente innanzi all'ardente e scellerata volontà di giuocare. Ed era adesso lui che s'interessava vivamente al loro giuoco, che desiderava le loro vincite, per poter rientrare nelle sue economie, per riacquistare quel denaro messo così imprudentemente al servizio di quei viziosi, sorvegliando i giuocatori, perché non andassero a giuocare altrove, inquieto, ammalato, anche lui, oramai, al contatto di tanti infermi. Per questo, il misterioso disegno che si doveva compiere quella sera, gli era noto: non gli si poteva nascondere più nulla, tutti gli dovevano del denaro. E malgrado che una segreta amicizia, diremo quasi una complicità, lo unisse a don Pasqualino, l' assistito egli taceva sul misterioso disegno e il silenzio pareva un'approvazione. Erano già in cinque, nella stanzetta, seduti intorno alla tavola, in pose diverse di raccoglimento, anzi di preoccupazione: non parlavano, alcuni col capo abbassato, segnando ghirigori con le unghie sul greggio piano del tavolino, altri guardando il fumoso soffitto, dove la lampada a petrolio gittava un piccolo cerchio di luce. - A Roma si è pagato settecentomila lire - disse don Crescenzo, per ispezzare quel penoso silenzio. - Beati loro, beati loro! - gridarono due o tre, con un impeto d'invidia ai fortunati vincitori di Roma. - Se ciò che facciamo, riesce, - mormorò tetramente Colaneri, i cui occhiali avevano un triste scintillìo, - il governo paga a Napoli tre o quattro milioni. - Dobbiamo riuscire, - ribattè Ninetto Costa. - L'urna sarà comandata questa volta, - disse misticamente il vecchietto Marzano. Bussarono nuovamente, pian piano, come se una timidezza indebolisse la mano che bussava. Trifari disparve, ad aprire, dopo aver domandato, attraverso la porta, chi era, insospettito subitaneamente. Gli fu risposto amici riconobbe la voce. E i due popolani, Gaetano il tagliatore di guanti, Michele il lustrino, entrarono: si cavarono il berretto, augurando la buonasera: restarono sulla soglia della stanzetta, non osando sedere, innanzi a quei galantuomini. uori, infuriava lo scirocco e la pioggia: e una grondaia carica d'acqua traboccava nel cortiletto, con un forte scroscio. Adesso, sotto le impannate della finestra, dalla fessura, entrava un rivolo di acqua continuamente, bagnava il poggiuolo della finestra e colava a rivoletti sul terreno: gli ombrelli chiusi, ma sgangherati, appoggiati ai muri, negli angoli, colavano acqua sul pavimento impolverato, e, sotto le scarpe bagnate, si formava una poltiglia di fango: gli uomini seduti non si muovevano, in un immobilità grave, in un silenzio lugubre, quasi che stessero lì a vegliare un morto, colti dalla stanchezza, dall'oppressione, dai loro funebri pensieri. I due popolani, in piedi, uno scarno, scialbo, con le spalle curve di chi fa il mestiere di tagliatore, coi capelli già radi alla fronte e alle tempie, l'altro sciancato, gobbo, bistorto come un cavaturaccioli, vecchio e pur vivace nella faccia rugosa e arguta, i due popolani tacevano anche essi, aspettando. Solo Ninetto Costa, per darsi un qualunque aspetto di disinvoltura, aveva cavato un vecchio taccuino, residuo della sua antica eleganza, e vi scriveva delle cifre, con un piccolo lapis, bagnandone in bocca la matita. Ma erano cifre fantastiche: e la mano gli tremava un pochino: gli amici dicevano che erano gli eccessi dell'esistenza, che la facevano tremare. Così passarono una quindicina di minuti, minuti lunghi, lenti, gravi sulle anime di tutti coloro che aspettavano, per mettere a esecuzione il loro segreto progetto. - Che tempaccio! - disse Ninetto Costa, passando una mano sulla fronte. - Si è aperto il cielo - osservò don Crescenzo, sbadigliando nervosamente. - Dottore, che ora fate? - domandò il vecchio avvocato Marzano, con una vocetta tremolante di decrepitezza. - Sono le dieci meno cinque, - disse il dottore, cavando un brutto orologio di nichelio, di quelli che non si potevano impegnare, e che era raccomandato a un sordido laccetto nero. - Per che ora è l'appuntamento? - chiese Colaneri, fingendo l'indifferenza. - Sarebbe alle dieci, ma chi sa! - rispose il medico, abbassando la voce, imprimendo a quello che diceva, tutta la sua incertezza e tutto il suo dubbio. - Chissà! - disse Ninetto Costa, profondamente. E un lungo sospiro gli sollevò il petto, quasi non potesse resistere al peso che l'opprimeva. - Siete ammalato? - gli chiese Colaneri. - Vorrei esser morto, - borbottò l'agente di cambio, desolatamente. Qualcuno crollò il capo, sospirando: qualcuno annuì con l'espressione della faccia, e la dolorosa parola si allargò nella stanzetta umida e sudicia, sotto la lampada che fumicava, fra il rumore scrosciante del temporale. Poi, per un poco, la bufera estiva si venne calmando e si udirono le stille più rade battere sui cristalli della finestra, poi, di nuovo, un gran silenzio. E attraverso il muro, senza sapere donde venisse, come una voce lenta, ammonitrice, un grave orologio suonò le dieci ore, con rintocchi melanconici. I colpi erano spaziati e gittarono un dato di spavento, fra quella gente riunita là, a complottare non so quale truce proponimento. - Lo spirito! - disse don Crescenzo, tentando di scherzare. - Non scherziamo, - ammonì duramente Trifari, - qui si tratta di cose serie! - Nessuno vuole scherzare, - riprese Ninetto Costa, - tutti sappiamo quello che facciamo. - Qui non ci sono Giuda, non è vero? - disse il medico guardando intorno, tutti quanti. Vi fu un mormorìo di protesta; ma debole. No, nessuno di essi era un Giuda, né per loro vi era un Cristo, ma tutti sentivano, vagamente, così, nel fondo della loro febbre, che venivano a commettere un tradimento. - Non è Giuda nessuno, - gridò il medico, impetuoso. - Giuro a Dio che se vi è, farà la mala morte!… - Non giurate, non giurate, - disse il vecchio Marzano. impaurito. Bussarono alla porta. Tutti si guardarono in faccia, improvvisamente fatti pallidi e trepidanti, messi al cospetto della loro colpa. E come se dietro alla porta vi fosse un grave pericolo, nessuno si mosse ad aprire. - Ci sarà? - osò dire Colaneri, senza levar gli occhi. - Forse… - mormorò Costa, che girava convulsamente il taccuino fra le mani. E subito, tutti quanti disperarono che fuori la porta vi fosse l' assistito. a stessa ombra di feroce delusione stravolse i loro visi, che s'indurirono, nella crudeltà del malvagio che vede sfuggire la sua preda. E l'istinto di ferocia che dorme in fondo a tutti i cuori umani, sospinto dalla lunga passione mal soddisfatta, sviluppatosi in quella forma di delirio in cui li metteva il vizio, urgeva in tutti, nei giovani e nei vecchi, nei signori e nei popolani. Le facce erano chiuse e dure, impietrite nella ferocia, e fu con un atto energico che il dottor Trifari si avviò ad aprire. Per rassicurare l'assemblea, di là, che l' assistito ra venuto, lo salutò subito, ad alta voce, lui e il marchese Cavalcanti. - Buona sera, buona sera, marchese, - don Pasqualino, tutti vi aspettavano. E si mise da parte, per lasciarli entrare. Di là, respiravano con una gioia truce: non vi era più pericolo che l' l'assistito oro sfuggisse. E colui che parlava con gli spiriti ogni giorno e ogni notte, colui che aveva comunicazioni speciali di grazia con le anime errabonde, colui che doveva sapere tutte le verità, entrò quietamente nella stanzetta, dove erano i congregati, senza nulla supporre. Gittò, al solito, una obliqua occhiata intorno, ma le facce dei cabalisti non gli dissero niente di nuovo: avevano quel pallore, quello stravolgimento, quel febbrile turbamento consueto del venerdì sera, non altro. Solo il marchese Cavalcanti, accompagnandolo, due o tre volte era stato scosso da un brivido e quasi pareva avesse voluto tornare indietro. Ma il marchese era così nervoso, da tempo! Balbettava, parlando: e la sua nobile figura era oramai degradata dalle ignobili tracce della passione, mal vestito, disordinato, con le scarpe sporche e il solino sfilacciato, con la faccia dalla barba mal rasa, faceva ribrezzo e pietà. Era così nervoso, da che non trovava più denaro, da che la sua figliuola si era fidanzata col dottor Amati! L' assistito on ne poteva avere più denaro e lo fuggiva, vedendolo soltanto nelle riunioni dei venerdì sera, via Nardones: ma in quella settimana le relazioni erano ricominciate, il marchese cercava dovunque l' assistito, nella giornata gli aveva dato cinquanta lire, prendendo convegno, per la sera, alle dieci. Anzi, si era ostinato ansiosamente per questo convegno: e l' assistito 'aveva attribuito all'ardore dei giuocatori delusi per avere i numeri, il contegno del marchese, durante la strada, era stato dubbio: pure, don Pasqualino, abituato alle bizzarrie dei giuocatori, non vi aveva badato. E andò a sedersi al suo posto di ogni settimana, presso la tavola, mettendosi una mano sugli occhi, per ripararsi contro la fiammella della lampada a petrolio. Intorno era il silenzio in cui ogni tanto un sospiro si udiva: e guardando tutte quelle facce pallide, mute, ardenti, l' assistito bbe un primo, vaghissimo sospetto. E cercò di fare il suo solito lavoro fantastico d'ingarbugliamento: - Piove, ma il sole uscirà a mezzanotte. - Chiacchiere - gridò Trifari, scoppiando in una ironica risata. Gli altri, attorno, mormorarono, ghignando. Oramai, non ci credevano più, alle parole misteriose di don Pasqualino. E questa sfiducia risultò così chiaramente, che l' assistito i trasse indietro, come se volesse schermirsi da un attacco. Ma tentò di nuovo, credendo di poter profittare, come sempre, della immaginazione bollente di quei cabalisti, facendo stridere le corde capaci di dar suono: - Piove, il sole uscirà a mezzanotte: ma chi porta lo scapolare della Madonna, non si bagna. - Don Pasqualino, voi scherzate, - disse sarcasticamente il tagliatore di guanti. L' assistito li vibrò una occhiata collerica. - Senza che mi guardiate come se voleste mangiarmi, don Pasqualino: col permesso di questi bravi signori, voi volete burlarvi di noi…e noi non siamo gente da farci burlare. - Marchese, fate tacere questo stupido, - mormorò l' assistito, on un cenno di disprezzo. - Non tanto stupido, don Pasqualino, - disse Cavalcanti, reprimendo a stento la sua commozione. - Che volete dire, marchese? - chiese vivacemente con Pasqualino, levandosi da sedere e facendo per andarsene. Ma Trifari che non si era mai mosso dalle spalle dell' assistito, enza parlare, gli mise una mano sul braccio e lo costrinse a sedersi di nuovo. L' assistito iegò un minuto il capo sul petto, a meditare, e guardò obliquamente la porta. - Restate seduto, don Pasqualino, - disse lentamente Cavalcanti. - qui dobbiamo parlare a lungo. Una lieve espressione di angoscia passò sul volto di colui che evocava gli spiriti: e ancora una volta, guardando gli astanti, egli non vide che fisonomie dure, ansiose, indomabili nel desiderio del guadagno. Capiva, adesso, confusamente. - Gaetano, il tagliatore di guanti, non è uno stupido, quando dice che voi vi burlate di noi. Quello che ci state facendo, da tre anni a questa parte, pare una burla. Sono tre anni, capite, che voi ci andate ripetendo le cose più strampalate, con la scusa che ve le dice lo spirito: tre anni che ci fate giuocare l'osso del collo, con queste vostre strampalerie, e ognuno di noi, non solo non ha mai guadagnato niente, ma ha buttato la sua fortuna, dietro le vostre chiacchiere, ed è pieno di guai, alcuni dei quali irreparabili. Coscienza ne avete, don Pasqualino? Voi ci avete rovinati! - Rovinati, rovinati! - gridò un coro di voci straziate. Spesso, il parlatore con gli spiriti, aveva udito queste lamentazioni massime negli ultimi tempi: ma la fiducia era ricomparsa subito, negli animi dei suoi affiliati. Adesso, lo intendeva, non ci credevano più. Pure, nascondendo la sua paura, tentò di discutere. - Non è colpa mia, la fede vi manca. - Frottole! - gridò il vecchio, esasperato, mentre gli altri tumultuavano contro l' assistito, he ripeteva loro l'eterna ragione della delusione. - Frottole! Come, manca la fede a noi, che abbiamo creduto in voi, come si crede in Gesù Cristo? Manca la fede, quando, per premiarvi delle troppe parole che ci avete dette, vi abbiamo pagato profumatamente? Avete incassato migliaia di lire, in questi tre anni, non lo negate! Non abbiamo fede, noi che abbiamo fatto dire tridui, messe, orazioni, rosari, noi che ci siamo inginocchiati, ci siamo battuti il petto, chiedendo al Signore la grazia? Non abbiamo fede, quando la dobbiamo avere per forza, per forza, capite, altrimenti lo sperpero, lo sciupio del denaro, l'infelicità nostra e quella delle nostre famiglie, sarebbero altrettanti delitti?! Non abbiamo fede, quando voi siete stato il nostro dio, per tre anni, e ci avete ingannati, e non vi abbiamo detto niente e abbiamo seguitato a credere in voi, che ci avete tolto tutto, tutto? - Tutto ci avete tolto! - urlò l'assemblea. - Voi mi offendere, basta così, - disse risolutamente l' assistito, evandosi. - Io me ne vado, buona sera. - Voi non uscirete di qui! - urlò il marchese Cavalcanti, giunto al colmo del furore. - È vero che non uscirà di qui? - domandò all'assemblea dei cabalisti. - No, no, no! - urlò ferocemente la congrega di quei pazzi feroci. L' assistito veva compreso. Un mortale lividore gli covrì le guance pallide e scarne: lo sguardo smarrito errò intorno, a una ricerca disperata di fuga. Ma i truci cabalisti si erano levati e gli si erano stretti addosso in un breve cerchio: alcuni di loro erano pallidissimi, quasi reprimessero una forte emozione, altri erano rossi di collera. E negli occhi di tutti, l' assistito esse la medesima, implacabile crudeltà. - Io voglio andarmene, - disse lui, sottovoce, con quel tono roco, che dava tanta misteriosa attrazione alla sua voce. - Nessuno di noi vi vorrebbe trattenere, don Pasqualino, - rispose con ossequiosa ironia il marchese Cavalcanti, se non avessimo bisogno di voi. Se non ci date i numeri, di qua non uscite, - finì gridando, preso da un impeto di furore. - I numeri, i numeri, - fischiò la voce sottile di Colaneri. - Se no, non si esce! - strillò Ninetto Costa. - O i numeri, o qua dentro! - tuonò il dottore Trifari. - Sono finite le burlette, dateci i numeri, - disse, digrignando i denti, Gaetano, il tagliatore di guanti. - Don Pasqualino, persuadetevi che questi signori non vi lasciano andar via, se non date loro i numeri. Persuadetevi!… - osservò saviamente don Crescenzo, che volea fingere di essere disinteressato nella questione. - La settimana ventura… ve li prometto… ora non li ho…ve lo giuro sulla Madonna! - balbettò l' assistito, olgendo gli occhi al cielo, desolatamente. - Che settimana ventura! - urlarono tutti. - Deve esser stasera, o domattina, presto! - Non li ho, non li ho, - balbettò lui, nuovamente, crollando il capo. - Ce li dovete dare, a forza, - ruggì il marchese. - Non ne possiamo più. O vinciamo questa settimana, o siamo perduti, don Pasqualino. Abbastanza abbiamo atteso: vi abbiamo creduto troppo, ci avete trattati indegnamente. Lo spirito ve li dice i numeri veri voi li sapete; li avete saputi sempre; ma ci avete sempre burlati, raccontandoci delle sciocchezze. Non possiamo aspettare la settimana ventura: fino allora possiamo morire, o veder morire qualcuno o andar in galera. Questa sera o domattina: i numeri veri, apite? apite?- I veri, i veri! - fischiò Colaneri. - Non ci dite stupidaggini, non è più tempo! - gridò Ninetto Costa, al massimo della indignazione. Eppure, malgrado che si sentisse vinto e preso, in balia alla irragionevole passione di cui egli stesso aveva acceso le fiamme, l' assistito oleva combattere ancora. - Lo spirito non dà numeri per forza, - dichiarò lentamente. - Lo avete offeso, non mi parlerà più. - Bugie, bugie! - ribattè il marchese. - Centomila volte, ci avete detto che lo spirito vi obbedisce, che voi fate di lui quello che vi pare, che voi ne ottenere tutto: centomila volte, ci avete detto che l'urna dei novanta numeri è comandata. ite la verità, è meglio, ve lo assicuro, è meglio. Siete a un mal passo, don Pasqualino: lo spirito vi deve aiutare. La nostra pazienza è esaurita, sono esauriti i nostri denari e anche quelli degli altri: lo spirito vi deve are arei numeri. Allora egli tacque un poco, come se si concentrasse, e gli occhi gli si stravolsero, mostrando il bianco della cornea. Tutti lo guardavano, ma freddamente, abituati a questi suoi stralunamenti. - Fra breve fioriranno le camelie, - egli disse, a un tratto, tremando tutto. Ma nessuno dei cabalisti si commosse, a questa enunciazione mistica dei numeri. Il dottor Trifari, che portava sempre la chiave dei sogni n tasca, non cavò neppure lo sdrucito libro, per vedere camelie fiorite, che numero corrispondessero. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina, - ripetette, tremando sempre più, l' assistito. essuno si mosse. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina e sulla montagna, - replicò per la terza volta, tremando di ansietà, guardando in faccia i suoi persecutori. Una sghignazzata d'incredulità gli rispose. - Ma che volete da me? - gridò lui, con un singhiozzo di spavento. - I numeri veri, - disse freddamente Cavalcanti, - queste cose che ci dite, non le crediamo: cioè, per uno scrupolo, noi giuocheremo i numeri che rispondono alla montagna, alla Marina e alle camelie fiorite. Ma altri debbono essere i numeri veri: così aspettandoli, noi giuocheremo questi tre, ma vi terremo chiuso qua dentro. - Sino a quando? - chiese lui, precipitosamente. - Sino a quando i vostri numeri saranno usciti, - ribattè il marchese duramente. - Oh Dio!… - disse l' assistito, ian piano, come un soffio. - Capite, don Pasqualino, questi signori vogliono avere una garanzia e vi vogliono tenere in pegno, - spiegò don Crescenzo, il tenitore del Banco del lotto, volendo legittimare il sequestro. - E a voi che fa? Che fatica vi costa dire la verità? Se li avete tenuti in asso, finora, è il tempo di parlare sul serio, don Pasqualino: questi signori hanno ragione, e lo so io, di essere esasperati. Parlate, don Pasqualino, mandateci via contenti. Voi rimarrete qui fino a domani, alle cinque: e appena fatta l'estrazione, vi verremo a prendere, in carrozza, per una scampagnata. Su, su, fate quel che dovete fare. - Non posso - disse l' assistito, prendo le braccia. - Non mentire, voi potete e non volete; gli spiriti vi obbediscono, - disse Colaneri, scattando, in un impeto di furore. - Diteli questa sera, è meglio, è meglio per voi, - mormorò Gaetano, il tagliatore di guanti, con un malvagio tono di voce. - Levatevi questa preoccupazione, - consigliò fraternamente Ninetto Costa. - La verità, la verità, - balbettò il vecchio avvocato Marzano. - Non posso, - disse ancora l' assistito, guardando le finestre e le porte. Allora i cabalisti, a un cenno del marchese Cavalcanti, si riunirono nel vano della finestra: presso l' assistito, estò soltanto Trifari, dalla feroce faccia minacciosa, che gli aveva posta la mano grassa, corta, coperta di pelame rossiccio, sulla spalla. I cabalisti confabularono fra loro, a lungo: discutevano, in cerchio, tutte le teste riunite, parlandosi nel volto. Poi, decisi, ritornarono. - Questi signori dicono che sono fermi nella loro intenzione, anzi nel loro diritto di avere i numeri, dopo i tanti sacrificii che hanno fatti, - parlò, freddamente, il marchese Cavalcanti, - e che quindi don Pasqualino resterà qui, chiuso, sino a che non si sarà deciso di far paghi i nostri giusti desiderii. Di qui non si può andar via: d'altronde, il dottor Trifari, che non ha paura di niente, resterà in compagnia di don Pasqualino. Fare del chiasso sarebbe inutile, tanto i vicini non udrebbero; e se per caso don Pasqualino volesse ricorrere alle autorità per farsi ragione, noi teniamo pronta una querela di truffa, con testimoni e documenti, da mandare in carcere venti assistiti. meglio, dunque, chinare la testa, per questa volta, e cercare di scamparsi, dando i numeri veri. oi siamo fermi. Fino a che non avremo guadagnato, don Pasqualino non esce il dottor Trifari si sacrificherà a tenergli compagnia. In quell'altra stanza, vi è da dormire per due, e da mangiare per vari giorni. Fra questa notte e domani, uno di noi, per turno, verrà, ogni quattro ore, a vedere se don Pasqualino si è deciso. Speriamo che si decida presto. - Voi volete farmi morire, - disse l' assistito, on un'angelica rassegnazione. - Voi potete liberarvi, se volete. Vi auguriamo la buona nottata, - conchiuse, implacabile, il marchese Cavalcanti. E i sette sciagurati cabalisti passarono davanti all' assistito, ugurandogli sardonicamente la buona notte. L' assistito tava in piedi, presso la tavola, con una mano lievemente appoggiata sul piano del legno, con una espressione di stanchezza e di pena sulla faccia, guardando ora questo, ora quello dei cabalisti, come se li interrogasse, se alcun di loro fosse più pietoso. Ma le delusioni dolorose avevano indurito i cuori di quegli uomini: e l'esaltamento del loro spirito impediva loro d'intendere che commettevano una colpa. Passavano innanzi all' all'assistito, alutandolo, dicendogli una frase fredda a mo' di consolazione, senza veder la penosa espressione del suo volto, la supplica dei suoi occhi. - Buona notte, don Pasqualino: Dio v'illumini, - disse il vecchio avvocato Marzano, crollando il capo. - Chiediamo troppo a Dio, - rispose l' assistito, on una grande malinconia nella voce. - Buona notte: dormite tranquillo, - augurò ironicamente il tagliatore di guanti in cui tutto parea fosse diventato tagliente, la parola, la voce, la figura. - Così vi auguro, - rispose enigmaticamente l' assistito, bbassando le palpebre, a smorzare il lampo crudele di vendetta che gli era balenato negli occhi. - Buona notte, buona notte, don Pasqualino - mormorò Ninetto Costa, con un po' di rammarico, tanto la sua frivola natura si opponeva a quel dramma. - A rivederci presto. - E già! - mormorò l'uomo degli spiriti, con un lieve sogghigno. - Buona notte, - osò dire il lustrino Michele, che si era ficcato complice in quella congiura di signori, e che parea nobilitato da tanta compagnia. - buona notte e mantenetevi forte… L' assistito on gli rispose neppure, non si degnò neppure di abbassare lo sguardo sopra lo sciancato, appartenente a quel vile popolo cui anche egli apparteneva, e da cui non arrivava mai a cavar denaro. - Pasqualino, li volete dare, questi numeri certi? - domandò Colaneri, passandogli innanzi, sempre accanito. - Non li posso dare, così, violentato… - Voi scherzate, noi siamo tutti amici vostri, - squittì il professore. - Fate come credete, buona notte. - Buona notte: la Madonna vi accompagni, - mormorò l' assistito, iamente, aumentando l'intensità mistica della sua voce. - Caro don Pasqualino, via, un buon movimento, prima che andiamo via, - disse con una improvvisa bonomia il marchese Cavalcanti, - dateci i numeri certi e la vostra prigionia dura sino a domani, alle cinque. - Non so niente, - disse l' assistito, ardeggiando uno sguardo di odio sul marchese, poiché era stato il nobile signore a condurlo in quel mal passo. Essi si riunirono sotto la porta, per partire, per lasciarlo solo col dottor Trifari che andava e veniva dalla stanza accanto, pacificamente e freddamente, con quella gelida volontà che mettono i malfattori nati, nella esecuzione dei loro misfatti. L' assistito ino allora, salvo qualche ombra che gli era passata sul viso, lasciandovi la sua traccia di fastidio, di dolore, salvo un'umile espressione di preghiera che era nel suo sguardo, aveva dato segno di molto coraggio: ma quando vide che essi partivano, quando comprese che sarebbe rimasto solo, col dottor Trifari, per lunghe ore, per giorni, per settimane, forse, tutta la sua forza d'animo cadde, la viltà dell'uomo imprigionato sorse, ed egli, stendendo le braccia gridò: - Non ve ne andate, non ve ne andate! A quel grido straziato, gli uomini complici di quel carceramento si fermarono: e le loro facce di giustizieri violenti, furono coperte da un improvviso pallore. Fu quello il solo momento di tutta la tetra serata, in cui essi pensarono che dannavano a una pena atroce, una creatura umana, un cristiano, un uomo come loro, fu il solo momento in cui videro tutta l'entità di quello che commettevano, nella sua portata legale e morale. Ma il demone del giuoco aveva messo sede nella loro anima, impossessandosene completamente: e tutti quanti insieme, tornando indietro, circuirono l' assistito, omandandogli ancora i numeri, i numeri certi i veri numeri che egli conosceva e che fino allora non aveva voluto loro dare. E allora, soffocato dall'emozione, comprendendo di aver rivolta contro sé l'arma di cui sino allora li aveva feriti, colui che li aveva a poco a poco sommersi sotto le onde di un naufragio lento, colui che aveva preso il loro denaro e le loro anime, innanzi a quella insistente malnata ferocia che niente più poteva placare, innanzi a quel vero Spirito del Male, con cui, realmente, egli si era messo in comunicazione, l' assistito, igliaccamente, provò una immensa paura e si mise a singhiozzare come un fanciullo. Gli altri, interdetti, sconvolti, lo guardavano: ma più forte, più forte era il Demonio, di tutte le loro volontà riunite insieme. L'ora suprema della loro esistenza era giunta, pel vecchio e pel giovane, pel signore e per il plebeo, l'ora tragica in cui niuna cosa arriva a dissuadervi dalla tragedia. Udendo piangere come un bimbo quell'uomo che si asciugava le lagrime con un lurido e lacero fazzoletto, nessuno di loro provò pietà: tutti sentirono più ardente, più acre il desiderio di avere i numeri del lotto, per salvarsi dalle ruine che minacciavano le loro teste. Lo lasciarono che piangeva, vilmente, come uno sciocco pauroso: e a uno a uno, senza far rumore, uscirono lentamente da quella casa, che era diventata una prigione. Egli, pur continuando a singultare, tese l'orecchio: udì richiudere la porta, lugubremente, con quel rumore che si ripercuote nell'anima. Trifari, dietro la porta, andava mettendo catenacci e lucchetti, serrandosi dentro il carcere con il nuovo carcerato, senz'aver paura, né di lui come uomo, né degli spiriti che egli avrebbe potuto evocare. La faccia dal pelame rossastro, quando appariva nel giro luminoso della lampada a petrolio, aveva qualche cosa di animalesco, come crudeltà e come ostinazione nella crudeltà. E rientrando, il dottore aveva respirato di sollievo: si era guardato intorno, quasi che la partenza di tutti quei cabalisti, amici suoi, che lo avevano delegato a far da carceriere, gli fosse piaciuta. Adesso, ancora andava e veniva dalla stanza accanto, portando e riportando non so quali cose; poi rientrò, essendosi cambiato di vestito, avendo indossata una vecchia giacchetta, in cambio del soprabito. L' assistito eguiva con l'occhio tutte le mosse del suo carceriere, come tutti i prigionieri che studiano l'unica loro compagnia, con tutta la profondità dell'osservazione. A un certo punto avevano scambiato una occhiata fredda, dura, da carcerato ad aguzzino. - Volete fumare? - aveva chiesto il dottore, da un cantuccio della stanza. - Non fumo, - aveva risposto, cupo, l' assistito Non sedete? - aveva chiesto all' assistito, ottovoce. ottovoce.- Grazie, - aveva risposto costui, lasciandosi cadere sopra una seggiola. - Volete dormire? - No, grazie. Il dottore sedette allora anche lui, accanto alla tavola, mettendosi una mano sugli occhi, quasi a ripararsi dal lume. Silenzio profondo notturno. Fuori, anche la pioggia era cessata. Dentro, la lunga e tetra veglia cominciava.

STORIA DI DUE ANIME

682509
Serao, Matilde 1 occorrenze

Vedendola innanzi a sè, quale l'aveva pensata nei suoi sogni spasimanti di peccatore contrito, quale l'aveva immaginata, nelle sue ore di abbattimento mortale, quale l'aveva desiderata, nelle sue ore di disperata e vana penitenza, vedendola nell'aureola di splendor tetro come egli l'aveva invocata nella sua dedizione spirituale, nella ricchezza funebre dell'oro simile alle coltri dei cadaveri, vedendola negli occhi disperati, nel cuore trapassato, sotto una corona pesante che ne accasciava il picciol capo arrovesciato, e sotto il manto mortuario, innanzi alla realtà della sua visione e della sua preghiera, il gentiluomo sussultò, il suo viso si decompose ed egli vacillò, come se svenisse. Gli dettero una sedia: vi cadde: e nulla sapendo più, nulla vedendo e nulla udendo, come un essere misero e caduco, fra quei miseri e caduchi, egli si nascose la faccia fra le mani, scoppiando in pianto. Niuno osò accostarsi a lui, pronunziare una parola. Quella povera gente, attese, mutamente, in attitudine di rispetto, che la emozione del duca avesse tutto il suo sfogo. E, presto, negli occhi imperiosi del gentiluomo, le lagrime si disseccarono; con uno sforzo di dissimulazione, il suo viso si ricompose, riassunse l'aspetto freddo e orgoglioso che persisteva, sempre, anche nel pallore crescente, anche nelle linee consumate. Fermo sulle sue gambe, egli si levò, andò ai piedi della immensa statua, per vederne meglio i particolari, vi girò attorno lentamente, osservando tutto con minuzia, portando in questo esame come la glacialità di un mercante. E, infine, ritornato innanzi al ricco e nobile simulacro della Dolente, egli disse, con tono breve e asciutto, a Domenico Maresca: - Avete fatto una bella cosa. Sono contento. Il pittore dei santi accennò con un inchino, con la testa, senza nulla rispondere. E l'altro, seccamente: - È pronta per essere trasportata? - Prontissima. - Sta bene. Vi rammentate, Maresca?! miei uomini verranno a prenderla, dopodomani mattina, all'alba. V'incomoderete qui, voi stesso, a quell'ora, per darne la consegna. - Certo. - Scelgo quell'ora, per evitare la curiosità della gente. Le persone che io manderò, sono molto esperte e fanno l'imballaggio con rapidità. Massima rapidità, segretezza massima. È inteso? - È inteso, signore. - Un'altra cosa essenziale. Oggi e domani la vostra bottega sarà chiusa, non voglio che vi entri nessun curioso, nessun indiscreto. Oggi è festa, naturalmente; ma se per domani vi dà fastidio, tener chiuso, compenserò questo fastidio. - È inutile. Riposeremo, domani, dopo tante fatiche. - Chi conserva la chiave di questa bottega, Maresca? - Io. - Voi, personalmente? - Personalmente. - Non vi fidate di nessuno. Promettetemi che la porterete via, questa chiave, a casa vostra, che non l'affiderete a nessuno, e che dopodomani, all'alba, verrete qui, solo, a riaprire, per la consegna. - Lo prometto. - Non mando a rilevare domani, la Madonna, per mie ragioni particolari; e me ne dispiace, ve lo assicuro. Ho aspettato tanto, e, ora, queste ventiquattro ore mi seccano. Non vi è che fare! Alle volte, nè la volontà, nè il danaro, bastano a togliere un ostacolo materiale. Pure, Maresca, mi fido di voi che, per contentare il mio desiderio, nessuno vedrà, qui, la mia Madonna e nessuno saprà ove io la mando. È il mio desiderio! Che fate, ora, quando me ne sarò andato? - Se vi piace, chiuderemo. - Ecco. È festa. Chiudete subito. Raccolti in un angolo, lontani, in una paziente aspettativa, gli altri nulla avevano udito di questo dialogo, avvenuto a bassa voce. Ancora una volta, il gentiluomo mise gli occhi sul viso della Dolente e ve li tenne, intenti, ardenti, riflettenti un dolore torbido e intimo. Poi, scosse il capo, e mettendo la mano in tasca, ne cavò il portafogli. - Per voi, Maresca - gli disse, consegnandogli un biglietto azzurro di mille lire. Il pittore dei santi ringraziò semplicemente, chiudendo in un vecchio e sdrucito portafogli il prezzo delle sue lunghe e buone fatiche. E, man mano, il gentiluomo donò cento lire alla ricamatrice, cinquanta allo stuccatore Ursomando, venti lire a ognuna delle due ragazze ricamatrici, dieci lire al piccolo sciancato, e ognuno di costoro volendo esplodere nei vivi e verbosi ringraziamenti meridionali, ognuno, commosso della sua generosità, volendo baciargli la mano, egli ebbe due o tre atti imperiosi e duri, per non essere ringraziato, nè a voce, nè con gesti. - Addio, Maresca - egli disse dalla porta, uscendo. E in quel senso di sorpresa generale che aveva destato, in quella gente semplice, il suo contegno strano, la ricamatrice ebbe un moto di spalle, una parola definitiva: - Poveretto... chi sa!. La comitiva, lentamente, si sciolse: ognuno di coloro che aveva passato dei mesi intorno alla grande effigie e che, ora, non l'avrebbe vista più, si licenziò da essa, con una breve orazione, con un segno di croce, passandole innanzi, salutandola con un inchino: le due ragazze si inginocchiarono, baciandole il lembo della veste, su cui anche le loro abili mani avevano intessuto l'oro, in lavoro silenzioso, e che, adesso, era diventata sacra, benedetta da Dio, messa sulla statua benedetta, parte istessa della Madonna Addolorata. - Ci vediamo dopodomani, verso mezzogiorno - disse il pittore dei santi, a Gaetano Ursomando e al ragazzo, volendo obbedire rigorosamente agli ordini del duca. - Ci vediamo - dissero quelli, andandosene, abituati a una obbedienza cieca: e contenti del dono avuto, del riposo, di tutto. Alle loro spalle, Domenico Maresca chiuse a chiave la porta della bottega e restò un momento, solo, davanti alla Madonna Addolorata. Poichè, nella sua perfetta onestà, egli voleva mantenere in tutto e per tutto la parola data al gentiluomo, voleva partire, anche lui, subito, rinserrando preziosamente il simulacro dietro le pesanti, duplici porte della sua bottega. Non l'avrebbe vista, sino all'alba del secondo giorno, in cui la Dolente doveva lasciare per sempre la bottega, ove era stata circa tre anni, non l'avrebbe vista più: così egli aveva promesso e così doveva mantenere. E senza parole, si appoggiò col capo, col viso, ai piedi della Dolente, calzati di sandali, nudi nei sandali, e immobili sul piedistallo, quasi li avesse pietrificati lo spasimo: senza parole, egli mise la sua bocca su quei piedi, che, pure esciti dalle sue mani di artista, adesso, benedetti, consacrati, formavano parte di una figura divina, formavano parte di un simbolo di dolore e di pietà. In quell'atto di reverenza, di umiltà, di abbandono, il pittore dei santi concentrò tutta la sua anima semplice, e raccolse tutto il suo spirito semplice, e adorando la Dolente, dandole l'ultimo saluto, affidò a Lei, nella vita, nella morte, la sua salvazione. Malgrado il sonno profondo in cui era immerso, Domenico Maresca, percepì, a un tratto, di trovarsi nelle tenebre. Ma non giungeva ad aprire gli occhi, combattendo contro il suo torpore: quando, anche lo colpì il puzzo di uno stoppino spento nell'olio, un puzzo forte e disgustoso che finì per svegliarlo. Aprì gli occhi: era all'oscuro. La piccola lampada, accesa innanzi a una immagine di san Domenico Guzman, la piccola lampada, con cui egli era stato avvezzato a dormire, da quando era piccino, consuetudine diventata invincibile, si era spenta. Ciò accadeva, talvolta, quando la serva si dimenticava di rifornirla di olio, dell'acqua, o dimenticava di cambiarvi il lumino consunto. E, immancabilmente, questo piccolo incidente, aveva il potere di risvegliare Domenico, qualunque fosse il sonno in cui era tenuta e abbattuta la sua persona. - Bisogna riaccendere la lampada - egli pensò, male risvegliato, ancora. Con la mano, cercando di non far rumore, tastò sul tavolino da notte, per cercarvi la scatola dei fiammiferi. Non la potette trovare ed ebbe un moto di delusione e di lassezza, con la testa sull'origliere: temeva di risvegliare Anna; costei era abituata a dormire sempre, con la lampada accesa o spenta, e s'irritava assai di essere svegliata, quando Domenico faceva del rumore, per riaccendere la lampada, burlandosi, amaramente, di lui, come di un bimbo pauroso che non sapesse dormire all'oscuro. Domenico rimase qualche minuto immobile, sveglio, guardando nell'ombra, tendendo l'orecchio, a udire il respiro di Anna. - Dorme profondamente - disse, fra sè. E pensò di alzarsi, pianissimo, senza disturbarla, per riaccendere la lampada. Quella profonda oscurità, lo opprimeva, da un canto, e gli dava una inquietudine singolare, dall'altro: sentiva che non si sarebbe riaddormentato, se non rivedeva la fioca luce del lumino, nel bicchiere rosso innanzi a san Domenico. Con una cautela di movimenti, arrestandosi ad ogni secondo, per non produrre neppure uno scricchiolìo del letto, egli mise fuori le gambe, trovò le pianelle, si levò in piedi: tastò lungamente sul tavolino da notte, dove si ricordava di aver deposta, senz'altro, come ogni sera, una scatola di fiammiferi. Niente. Come fare? La sua inquietudine misteriosa lo eccitava sempre più: egli fece qualche passo, distese la mano, trovò sulla sedia, a piedi del letto, i suoi panni, infilò i suoi calzoni. Poichè in camera non vi erano fiammiferi, poichè nella sua giacca non ne avrebbe ritrovati, perchè non fumava, voleva andare in cucina, ove ne avrebbe trovati. Levando i passi, con una lentezza singolare, per non farsi udire, a tastoni, fermandosi, barcollando, eppur continuando il suo cammino, egli uscì dalla stanza da letto. - Meno male che Anna non si è svegliata - disse, fra sè, con un sospiro di sollievo. Con la consuetudine che aveva, da tanti anni, della sua piccola casa, si diresse all'oscuro, senza troppo inciampare, verso la cucina. Da che, l'anno scorso, Anna aveva licenziato la vecchia Mariangela ed egli non aveva avuto il coraggio di opporvisi, e la poveretta aveva dovuto prendere, a giorno fisso, implacabilmente, la via del paesello ove era nata, e donde mancava da tutta una vita, essi avevano cambiato due o tre domestiche, per capriccio di Anna, per lo più, o perchè erano indolenti, insolenti, mangione. - L'ultima, una giovine, vi stava da un paio di mesi miracolosamente, poichè Anna sembrava proteggerla molto: ma lei, come le altre, andava via dalla casa, la sera, dopo il pranzo e dopo aver rigovernato le stoviglie. Era Anna che aveva voluto così, dicendo che si nauseava di tenere a dormire in casa queste donne sudicie, che sciupavano la biancheria, che forse, avrebbero portato degli insetti nel letto e nella casa. Era, anche, una economia, poichè le domestiche che vanno via di sera, si compensano meno delle altre, che restano a dormire. Domenico che aveva fatto compiere, vilmente, il sacrificio di Mariangela, nulla aveva tentato di osservare, a questi mutamenti. Il dietrostanza oscuro dove, un tempo, dormiva la fedele Mariangela, era vuoto: e in quella notte, in quel silenzio, mentre si avviava alla cucina, Domenico pensò, che, in altri tempi, tante volte, quando si era alzato, a quell'ora, Mariangela si era svegliata subito, con quel senso fine dei cani di custodia, e gli aveva chiesto se voleva qualche cosa. Nulla, ora; la casa era deserta di quell'antica fedeltà, e Mariangela aspettava la morte, in vita divota e solinga, ad Airola, in un piccolo paese di montagna. Sospirando, tastando qua e là, Domenico finì per mettere le mani sopra una scatola di fiammiferi da cucina, di legno, dalla capocchia di zolfo. Bisognava contentarsi, poichè gli era impossibile continuare la sua notte nelle tenebre. - Povera Mariangela! - mormorò fra sè. Rientrò nella camera da letto, smorzando di nuovo i passi, diminuendo quasi il respiro, per non turbare il riposo di Anna, sua moglie. La lampada spenta era collocata sovra un cassettone, a sinistra del letto coniugale, dal lato di Domenico: appoggiato al cassettone, egli strofinò due fiammiferi, prima di avere la fiamma fosforica e male odorante, tossi per il fosforo, e riaccese il lumino, sempre tenendo le spalle voltate al letto, cercando, per cautela, di nascondere le sue operazioni. Vide che l'olio non mancava e che il lumino era nuovo: esso si era spento, non da sè, ma dalla mano di qualcuno che lo aveva annegato nell'acqua. Nella stanza si diffuse un pallido chiarore. Domenico si voltò verso il letto. Esso era vuoto, deserto, Anna non vi era. Egli si accostò di più, per vedere meglio. Il letto era deserto e vuoto: Anna non vi era. Si avvicinò moltissimo, toccò, con le mani, le coltri un po' rimboccate donde la donna si era levata, toccò l'origliere, in un incavo rotondo donde la testa della donna si era sollevata, toccò tutto il letto, con le mani, due volte. Era vuoto e deserto, Anna non vi era. E fulmineamente, una certezza gli squarciò tutte le fibre e tutta l'anima: Anna lo aveva abbandonato. Anna era fuggita. Non credette a un caso singolare, a un accidente bizzarro, a una combinazione qualsiasi, che attenuasse o contradicesse l'orrenda verità: tutta la orrenda verità gli fu palese, senza velo d'illusione alcuna. Come coloro che, in un istante, apprendono il massimo male, che li abbatte e li travolge, come coloro che sono toccati, in un istante, in un solo istante, dalla folgore del dolore, una vertigine lo colse, più forte, più forte, lo gittò sovra una sedia, ai piedi del letto, fatto vasto e deserto, donde Anna era fuggita; e nei giri larghi, ove egli perdeva conoscenza, girando attorno a lui, il letto, la stanza, la casa, la città, l'universo, in questi giri, in cui si sprofondava la sua conoscenza, egli pensò: - Io muoio, va bene. Ma non morì. Qualche minuto dopo, o molti minuti dopo, non intendendo bene la misura del tempo, supponendo che fosse passato un secolo di dolore o un secondo di altissimo dolore, Domenico Maresca si ritrovò solo, caduto di traverso sovra una sedia, sovra dei panni, solo, in quella stanza, solo, innanzi a quel letto, solo, in quella casa, in quella notte. E il terrore di quella solitudine, di quel silenzio, di quella penombra, un freddo terrore lo colse: si levò, come un pazzo, accese le due candele steariche nei candelieri, sulla toilette di merletto, escì nel salotto, accese il grande lume a petrolio, che era sul tavolino centrale, corse in istanza da pranzo, accese la sospensione, la luce si diffuse dapertutto, nelle poche stanze della piccola casa, tutto fu chiaro e fu chiara la solitudine, e fu chiaro il deserto di quella casa, una solitudine ultima, irrevocabile, un deserto ove neppure la voce di una familiare, di una serva sarebbe venuta ad aiutare la disperazione dell'uomo, che era stato abbandonato e che aveva fatto la luce per avere, quasi, il senso più largo e più estremo del suo abbandono. Tutto era a posto, tutto era in ordine, nella stanza da pranzo, nel salottino, ma tutto vi aveva un aspetto funebre, di dimora, ove, un tempo, fosse stata la vita di esseri palpitanti, vibranti e donde questa vita si fosse ritratta, per sempre. Sgomento, come folle, vacillante, egli corse di nuovo nella stanza da letto: là, ai piedi del letto, vi erano, dal lato ove dormiva la moglie, le pianelline sue: sovra la sedia era disposta la sua vestaglia di lana azzurra, le braccia pendenti, aperte, come in atto di ineluttabile disperazione. - Oh Anna, Anna! - gridò, vanamente, l'abbandonato. Il suo grido stesso, in quella camera muta, gli ridestò nel cuore, smarrito e straziato, dei tumultuosi sentimenti d'ira, di gelosia, di amara e beffarda curiosità, dei sentimenti novelli nella sua natura mite e fiacca, un impeto di collera come non ne aveva mai avuto, tutta la collera repressa in quegli anni d'infelicità e dì oppressione, un furor di anima debole che si è maturato per anni: e gittandosi sulla vestaglia azzurra, con le mani, coi denti, coi piedi, la lacerò, la fece a brandelli, la pestò, imprecando al nome di Anna. - Assassina, assassina della vita mia, assassina! - gridava, solo, nella stanza vuota. E si slanciò, per compiere qualche altra vendetta manuale contro le vesti, contro la biancheria di Anna, per soddisfare quel desiderio cruento e fugace che aveva di strappare, di svellere, di rompere, di calpestare, si slanciò contro il settimanile di Anna, che era a destra del letto, aprì il primo cassetto ove era la chiave, aprì il secondo, il terzo, il quarto, tutti, tirandoli violentemente, sbattendoli nel richiuderli: erano vuoti, lisci, vuoti, vuoti. - Ha portato via la sua roba, tutta la sua roba! - gridò, ancora, esterrefatto. E si arrestò, vinto da un tremito nervoso così forte, così forte, che le sue mani non potettero più rinchiudere l'ultimo cassetto. Andò a un grande armadio a specchio, ove erano le vesti e i mantelli di Anna; era socchiuso. lo schiuse perfettamente: vuoto, liscio, le gruccie sospese e libere, non una veste, non una giacchetta. Traversò di nuovo la casa, andò nella stanzetta ove, un tempo, aveva dormito Mariangela e ove vi erano altri due armadi, di biancheria e di vestiti. Tutta la roba di Anna mancava. Il corredo di biancheria così ricco e così elegante, per cui egli aveva speso tanto denaro, tre anni prima, e di cui ella non aveva usato che una parte, tutti gli abiti donatile nelle nozze, dopo le nozze, tutti, sino ad uno, da mattina, portatole dalla sarta, due giorni prima, e di cui Domenico aveva saldata la nota, tolto via, portato via, la roba pagata col danaro del pittore dei santi, non un fazzoletto lasciato, non un nastrino, non un cencio di merletto. Freddamente, da tempo, Anna non solo aveva premeditata questa fuga, ne aveva dovuto combinare, lungamente, il piano, ma lo aveva dovuto eseguire, giorno per giorno, ora per ora, da tempo! Sì, ella era partita, nella notte, un'ora prima, forse, due ore prima, appena lo aveva visto, immerso, il pittore dei santi, in una densità profonda di sonno. ma non si porta via, tanta roba, di notte. - La roba, via, prima, - egli pensò, amaramente - e lei, questa notte, quest'assassina della mia vita! Tremando, nella persona, nelle mani, come se avesse il ribrezzo della febbre terzana, egli ritornò in camera da letto: gittò uno sguardo sulla sveglia. Erano le quattro del mattino. - Questa notte, due ore fa: non sola. Con Mariano Dentale - pensò, ancora, mordendosi le labbra, in un accesso impotente di furore geloso, nella inanità dell'uomo tradito e abbandonato. E insieme al nome del bel giovinotto così beffardo, così seducente nella sua insolenza, insieme a questo nome che, per tre anni, era stato l'incubo segreto della sua anima, un ricordo lo colpì, dandogli un nuovo sussulto di spavento. Non aveva inteso dire che Mariano Dentale doveva partire per l'America, per farvi fortuna, non lo aveva udito, così vagamente, due o tre volte, negli ultimi tempi, mentre Anna era assorta, muta, indifferente, come sempre, Anna che, certo, era partita con lui. Con qual danaro? Con qual danaro? Mariano Dentale era un pezzente. Con qual danaro? Un pezzente! I gioielli di Anna Dentale, quelli, cioè, che suo marito le aveva donati alle nozze, e nelle sue feste, durante tre anni, qualche altro dono avuto, dal compare, dai parenti, erano chiusi, ordinariamente, in uno dei tiretti, il superiore, del cassettone di Domenico, e per maggiore sicurezza, alla loro volta, erano tutti raccolti in un cassetto di sicurezza, di ferro, non molto grande, di cui Domenico teneva la chiavettina. Quando aveva bisogno di adornarsi, Anna cercava la chiave del cassettino e, per lo più, la restituiva immediatamente a suo marito, con una smorfia di sarcasmo, per quella diffidenza. Accanto a questo cassettino, dei gioielli, ve ne era un secondo più grandicello, di cui teneva sempre la chiavettina Domenico, non affidandola mai a sua moglie, e in esso, da anni, erano chiusi quei titoli di rendita al portatore che suo padre gli aveva lasciati, circa trentamila lire, raccolte dopo una vita di lavoro. In verità, con il matrimonio, con le spese consecutive, Domenico Maresca ne aveva dovuto distaccare e vendere, di titoli, per dodicimila lire e ve ne erano, quindi, rimasti solo diciottomila, non toccate più, naturalmente, dopo, presa solo la rendita, poichè i guadagni del pittore dei santi erano bastati a fare andare innanzi la casa. Anna sapeva che, lì dentro, vi era tutta la piccola fortuna di Domenico: ma aveva sempre finto di non saperlo, di non interessarsene, uscendo dalla camera, con un'alzata di spalle, quando egli apriva il tiretto del cassettone, quando immergeva il viso nel fondo, per schiudere misteriosamente il cofanetto di ferro. Dopo, Domenico richiudeva e metteva la chiave del cassettone nel taschino del suo panciotto, ove già erano le chiavettine dei due cofanetti di ferro. Folle di spavento, dunque Domenico Maresca afferrò i suoi panni, frugò nel taschino del panciotto: nessuna delle tre chiavi vi era: si voltò al cassettone, e vide che il tiretto, come il settimanile, come tutti gli armadi, era socchiuso: folle di spavento, lo aprì tutto, vi cercò, con gli occhi, freneticamente, i due cassettini di ferro. Non vi erano. Tastò con le mani, come aveva tastato il letto, donde Anna era fuggita: i due cofanetti non vi erano più, più, essa li aveva portati via, essa aveva rubato i gioielli, essa aveva rubato il denaro. - Assassina e ladra! - gridò il povero pazzo, nella notte, maledicendo l'infame. E volle uscire, correr per le vie, correr dietro ai due ladri del suo onore, della sua felicità, della sua fortuna, volle raggiungerli, ove si trovavano, essi che si portavan via tutto, quei due ladri ma più ladra lei, che gli toglieva la sua persona e che gli derubava quanto egli aveva, tutto, tutto, glacialmente, cinicamente, come una scellerata. Oh li avrebbe ritrovati, non potevan esser lontani, non potevano essersi imbarcati, quella notte istessa, per l'America, sarebbe andato in questura, avrebbe fatto dei telegrammi per fermarli, per arrestarli. Diciottomila lire, tutto quello che egli aveva. tutto, portato via, dalla donna, dal suo amante! Voleva uscire, cominciò a vestirsi frettolosamente, mettendosi le scarpe, la camicia di giorno, i calzoni, un panciotto, la giacchetta, frugando macchinalmente nelle tasche, dove aveva poche lire spicciole, tre o quattro, forse: aprì il portafogli ove aveva riposto le mille lire dategli dal duca, per la Madonna Addolorata. Non vi erano. La sera, le aveva fatte vedere ad Anna, con un sorriso di soddisfazione, ed ella appena le aveva guardate, nella sua alterigia signorile. Prima di fuggire, scelleratamente, Anna aveva rubato anche quelle, lasciando suo marito con le poche lire che aveva, egli, in saccoccia. - Ladra, ladra! - gridò ancora, lui, nei singhiozzi che gli salivano dal petto, Frugandosi, ancora, nelle tasche della giacchetta, non trovò la chiave della bottega dei santi. Rovesciando le sedie, urtando nei mobili, senza cravatta, afferrando macchinalmente il cappello, in anticamera, egli escì di casa, si dirupò per le scale oscure, ritrovando, a stento, la via, nel piccolo portone senza portinaio ove essi abitavano, e di cui i battenti erano chiusi solo con un lucchetto. Nella via Donnalbina, l'oscurità era grande, egli corse in piazza Ecce Homo , rasentando le mura, con la consuetudine antica che non lo faceva sbagliare, anche attraverso il delirio fisico e morale che lo trasportava: traversò, di corsa, la piazza Madonna dell'Aiuto, e si precipitò contro le porte della bottega dei santi. Come i cassetti, e i tiretti del settimanile, come le porte degli armadii, come i tiretti del cassettone, le porte della bottega erano leggermente schiuse: entrandovi, Domenico inciampò nella chiave, che era caduta per terra, lasciatavi dai fuggiaschi, dai due ladri. Il delirante non si ricordò, più tardi, come egli aveva acceso il grande lume a petrolio, che aveva, dietro, un grande riflettore di metallo: certo che, ai suoi occhi, che tanti successivi spettacoli terribili avevano veduto, l'ultimo spettacolo si offerse. La bottega dei santi era svaligiata e devastata. Dal petto e dalle spalle del san Sebastiano erano state strappate le freccie di argento e lo stucco che si era rotto, qua e là, mostrava il fondo di creta, il fondo di legno; dalla mano del san Giovannino era stata tolta la mazza pastorale di argento e, nella fretta, il braccio si era spezzato per metà; dalla mano di santa Filomena era stata strappata la penna di argento, e da un san Francesco, da un san Cataldo, da un san Gregorio, erano state svelte le aureole di argento, più grandi, più piccole, onde erano incoronate le loro teste. Due di questi santi, più piccoli, erano stati arrovesciati dal loro piedistallo, per derubarne il prezioso metallo che li adornava; un terzo, il san Cataldo, giaceva per terra, a faccia sul suolo. Nel mezzo della bottega, la Dolente appariva denudata, derubata di tutto. Le avevano tolto la massiccia corona di argento dal capo, il manto carico di oro, le sette spadine confitte nel petto e che erano anche di argento massiccio, la veste carica di oro: disadorna, svestita, ella aveva la sua sottana nera, di tela forte, mezza discinta, per la rabbiosa fretta degli svaligiatori, e si vedeva la tunica di mussola bianca, come una camicia: mentre, sul capo denudato, in alto, ove erano dipinti leggermente i capelli, vi era un buco, prodotto dalla furia di tirar via la corona di argento e il manto che vi erano inchiodati: le bende e il soggolo pendevano lacerati, sul petto: dalla mano distesa era stato tolto persino il fazzoletto. E il furto sacrilego, quel furto che offendeva infamemente la immagine di Maria Addolorata, che aveva mutilato e spezzato le immagini dei santi, che aveva tolto sacrilegamente, da queste immagini benedette e consacrate, gli ornamenti benedetti e sacri, questo furto era completo, perfetto, tutto ciò che poteva valer danaro, dalle vesti della Dolente che costavano seimila lire di oro, alle piccole aureole di argento dei santi che ne costavano dieci, tutto, tutto era sparito, e la Madonna era spogliata, col capo infranto, i santi erano spogliati, con le braccia rotte, con il costato aperto, e giacevano in terra, spezzati, e il sacrilegio era consumato, nella sua forma più oltraggiosa, più irreparabile, più orribile. Dato un urlo altissimo, Domenico Maresca, cadde, come morto, ai piedi di Maria Addolorata e vi giacque, per terra, come morto. Tutta la sera, una pioggia scrosciante accompagnata da larghe raffiche di vento, una improvvisa e violenta bufera di equinozio primaverile, aveva battuto le vie e le case napoletane: verso le colline già verdi e odorose, qualche tuono rumoreggiava, mentre, in città, nelle vie deserte, allagate di vasti specchi di acqua nerastra, per la ineguaglianza del selciato, i lampioni a gas diffondevano delle fantastiche, vacillanti luci gialle. Gli scrosci di pioggia ora rallentavano, quasi cessavano, per riprendere, dopo pochi minuti, con ira maggiore: il vento ora ravvolgeva a turbine la pioggia, come un gorgo, ora la sbatteva sul volto, come uno schiaffo. Laggiù, verso santa Maria la Nova, verso Santa Maria dell'Aiuto, non un viandante, non un'ombra: altro che il fracasso del temporale, più intenso nelle strade anguste, coi vortici di pioggia che vi si ingolfavano, col turbine del vento che vi si angustiava dentro. A quell'ora piuttosto tarda, la bottega dei santi era ancora aperta: attraverso i vetri sudici ed opachi delle sue impannate, un lume fioco trapelava. Dentro vi era un silenzio intenso, in contrasto col rumore affannoso e urlante della bufera, un silenzio che aveva qualche cosa di mortale. E tutte le cose vi erano restate come Domenico Maresca le aveva trovate: la spoliazione, il furto, la devastazione, il sacrilegio, vi apparivano, in tutta la loro realtà e in tutta la loro crudeltà. Ma queste cose orrende non avevano più, da che una giornata era trascorsa, una eterna giornata di stupore di desolazione e di disperazione, non avevan più la loro espressione impensata e violenta: sembrava che da tempo, oramai, quelle cose orrende fossero accadute: che da tempo, lo spettacolo loro avesse destato il lungo grido di orrore e che tutti gli echi, oramai, di tal grido, si fossero spenti: che la sventura, l'onta, l'infamia che esse rappresentavano, non fossero più la convulsione spasmodica di fatti inaspettati e brutali, ma la pacata e immanente desolazione senza confini, oltre l'anima, oltre il mondo, oltre il Cielo. Il momento altissimo, atrocissimo, era trascorso e la tragedia aveva toccato il suo culmine: già le vittime senza vita o viventi, parevano coperte dal tetro, pesante, ineluttabile manto della rassegnazione. Un solo lume a petrolio, portato dalla casa di Donnalbina, ardeva debolmente sovra la tavola, fra gli strumenti dell'arte, i mucchi delle biacche, i vaselli degli ori e degli argenti, i pennelli e le stecche. Contro il muro di fronte, la immensa ombra della Madonna Addolorata, che le ciniche mani avevan dispogliata delle sue vesti sontuose e dei suoi gioielli, si allungava, misteriosamente: e la statua era rimasta deturpata, come le mani dei due furenti spoliatori l'avevan lasciata: e tutti gli altri santi, derubati dei loro ornamenti, spezzati, protendevano, colpiti da quella poca luce, le loro linee sulle muraglie, in ombre fantasiose e lugubri. Quella penombra conveniva ad essi: meno si scorgeva il danno, e il sacrilegio si avvolgeva di incertezza, per gli occhi non avvezzi. Il grande lume dal vividissimo riflettore, era stato spento, e pareva che, in quella bottega, si vegliasse, da giorni, in silenzio, in penombra, intorno a una persona morente, intorno a una persona morta. Tendendo l'orecchio, un respiro penoso si udiva, infatti, interrotto, talvolta, da sospiri dolenti: non altro. In un cantuccio della sua bottega, sovra una sedia, coi gomiti appoggiati a un angolo estremo di un tavolino, Domenico Maresca vegliava, colà, come in una camera mortuaria. Era solo! I due poveretti suoi compagni di fatica, lo stuccatore Gaetano e il piccolo storpio Nicolino che, nella mattinata, qualcuno era andato a chiamare, per soccorso, avevano passato la giornata con lui, piangendo con lui, provando un dolore più semplice e più candido, non osando neppure consolarlo, non osando nominargli nè la fuggiasca che gli aveva tutto strappato, l'onore, la felicità, il denaro, nè il suo complice che l'aveva spinta al tradimento, al furto, al sacrilegio. E non gli erano stati di altro aiuto, che come triste compagnia. Non potevano essergli di altro aiuto: non lasciarlo solo, in preda all'abbattimento delle forze fisiche ed alla disperazione: erano restati lì, in bottega, chiusi con lui, fra le statue spogliate e manomesse, non osando toccarle, non osando neanche toccare il san Cataldo che era caduto con la faccia per terra, non osando quasi voltarsi alla Dolente, dal piccolo capo rotto, donde era stata strappata brutalmente la sua corona: e chiusi col pittore dei santi, in una taciturnità d'avvilimento, di sgomento, di stupore, non sapendo che cosa dirgli, comprendendo, così, vagamente, che nulla potevano dirgli e che nulla egli poteva udire. Avevano vegliato con lui, come si veglia con uno sventurato che ha perduto una persona amatissima, rapitagli da un destino avverso: senza parole, con movimenti cauti e lenti, lasciando trascorrere le ore. Per prendere un boccone, morenti di fame, come erano, verso la sera, uno alla volta, erano usciti, si erano allontanati, dandosi il cambio: e dal non aver egli neanche risposto, all'offerta di portargli qualche cosa, dal non aver neanche udito, forse, le loro discrete e umili insistenze, essi si eran convinti, che era meglio lasciarlo stare, immerso nel suo muto e atroce dolore. E quando egli li aveva rinviati, la sera, nel momento che principiava la tempesta di primavera, essi non avevano chiesto di restare, avevano obbedito, come erano avvezzi a obbedirgli, sempre. Così mentre la pioggia imperversava, colpendo i vetri delle impannate e il vento ne faceva scricchiolare i cardini, Domenico Maresca era solo, con i gomiti puntati sul tavolino e il volto nascosto fra le mani; solo, assorto, perduto nella vastità di uno strazio muto. Nè udì schiudere la porta, verso le dieci e mezza di sera, mentre, furiosamente, acqua e pioggia entravano dall'uscio e quasi spegnevano il fioco lume a petrolio; nè vide la donna che entrava, richiudendo subito con la chiave, e posando, in un angolo, un ombrello stillante di acqua, nè la vide asciugarsi con un fazzoletto le vesti tutte bagnate, passarsi il fazzoletto sul viso bagnato di pioggia. Mentre Fraolella faceva questo, teneva gli occhi fissi su quella massa immobile e accasciata, che formava il corpo di Domenico Maresca: ma la massa non si scosse, l'uomo era immerso, profondamente, nella sua contemplazione angosciosa. La giovine, allora, si accostò pianamente a lui, rasciugandosi le mani. Ancora del tempo era passato sul capo della graziosa e sventurata creatura: e malgrado la giovinezza, i segni della decadenza si erano fatti più palesi sul suo viso e sulla sua persona. Più gracili le forme, come se un malore intimo le avesse cominciate a distruggere, a venti anni, quando ogni essere fiorisce, e ha bellezza più vivida, e forza più salda. Più languido, più stanco l'andare, e le vesti come troppo larghe, cadenti, fluttuanti, con pieghe di abbandono. Portava una veste di lana viola pallida, guarnita goffamente di nastri rosa, e una camicetta di seta, di un rosa molto vivo, sovraccarica di galloncini di oro, di nastrini bianchi, di bottoncini: sulle spalle, uno dei suoi soliti scialletti, celeste questa volta: un insieme chiassoso, senza gusto, con quel carattere di vita viziosa, ahimè, indelebile, come una livrea di vergogna, come una livrea di disonore! Non portava più il cappello: e i suoi bei capelli folti erano acconciati pomposamente, in nodi, in ciocche, in ciuffi, in ricci, sempre nella forma più caratteristica delle poverette vagabonde, di cui si profila l'alto casco oscuro di capelli, nella notte, agli angoli delle vie. Assottigliato il viso, con gli zigomi sporgenti, carico di rossetto, con gli occhi dipinti, sotto, e le leggiadre palpebre, un tempo rosee e trasparenti, cariche anch'esse di un bistro azzurrino: e disegnata, col rossetto, la piccola fragola presso il mento, non più come un tempo, come una voglia, ma come un artifizio d'ignobile seduzione; e torbidi gli occhi, sempre torbidi, tristi, rassegnati, quasi servili, traversati, talvolta, da onde di collera servile, da onde di lagrime servili e inani. Ella si curvò sull'uomo assorto e, chetamente, lo chiamò. - Domenico, Domenico! Egli non udiva, forse, o giaceva in torpore doloroso. - Domenico, sono io, Fraolella , Domenico! - ella mormorò e poichè gli pareva di veder trasalire quella massa abbattuta, delicatamente, gli prese le mani, gliele distaccò dal viso, lo forzò dolcemente a guardarla, a riconoscerla. E nel guardarla, nel riconoscerla, il cuore di Domenico Maresca si franse: egli scoppiò a piangere singultando, balbettando, torcendo le mani: - Gelsomina... Gelsomina... hai visto, che mi è successo?.. hai visto, che mi hanno fatto?.. mi hanno ucciso... mi hanno assassinato... - Poveretto, poveretto, poveretto! - diceva lei, a bassa voce, ritta innanzi a lui, lasciandolo piangere. - Gelsomina... Gelsomina... perchè Anna non mi ha ucciso? Era meglio una coltellata nel cuore... era meglio uccidermi... era meglio... - Certo, è meglio morire - mormorò lei, con la sua voce dalla raucedine così forte, che ne aveva ottusa ogni armonia. - È meglio morire, che sopportare certe cose. - Oh Dio! oh Dio! - esclamava lui, battendosi dei pugni nella testa, in un nuovo accesso di disperazione, aridi gli occhi, adesso, e con la voce concitata. - Non far così, Domenico, - disse lei, tentando di prendergli le mani, tentando di tenergliele ferme. - Non far così, calmati, calmati!... - Ma lo sai, che Anna è fuggita in America, che non la vedrò più, che è morta, per me, che è come se fossi vedovo, mentre ella vive, con un altro, per un altro, lo sai? - Lo so - disse lei, crollando il capo. - Lo sai che ha portato via, dalla mia casa, diciottomila lire, tutto quello che io possedeva, tutto ciò che mi restava, della eredità di mio padre, e le mille lire, anche, che avevo in tasca, Gelsomina, anche quelle, perchè gliele aveva fatte vedere, lo sai? - Lo so - replicò lei, a testa china. - E lo sai, lo sai, che infamia ha commessa, qui, ove non era mai venuta, ove è entrata solo per rubare? Non le bastavano, a lei, a lui, quei denari miei, le fatiche del mio povero papà, non bastavano, le mie fatiche, è venuta qui, a rubare la Madonna, capisci, a rubare i santi, ha spogliato Maria Addolorata, si è portata tutto, per vender l'oro, per vender l'argento, in America, Gelsomina, questo, non lo sapevi? - Lo sapevo, lo vedo - disse ella, girando intorno gli occhi torbidi e tristi, dalle palpebre pesanti e oscure. - L'avresti creduto, tu, Gelsomina, che Anna mi avrebbe assassinato, l'avresti creduto? - Io l'ho sempre creduto - diss'ella, semplicemente. - Da prima? - Dal primo momento - ella soggiunse, con fermezza. - E non mi hai detto niente? Nessuno, mi ha detto niente! - Non dovevo dirti niente - ella soggiunse, ancora. - E perchè? Perchè? - Perchè tu l'amavi: perchè tu eri pazzo, Domenico - continuò lei, tristemente. - Ed era inutile dirti nulla. - E mi hai lasciato perdere, Gelsomina, tu che mi volevi bene! Tu dicevi, allora, di volermi bene! - Ti volevo bene e assai - disse la misera, con un tremito nella voce. - Come a nessuno, ti volevo bene! - E mi hai taciuto tutto! Non mi hai avvertito! Mi hai lasciato perdere, così, Gelsomina. - Anch'io mi sono perduta, Domenico! - dichiarò la disgraziata, a voce alta, con l'accento della verità. La verità, a un tratto, grandeggiò, fra quei due, si fece più alta di loro, s'impose a loro, luminosa, immensa, fatale, apparsa troppo tardi, fatale, troppo tardi, inutile e fatale. Tutto ciò che era stato e che era finito, per sempre, tutto ciò che avrebbe potuto essere e che mai più sarebbe stato, l'Irreparabile, l'Irreparabile si levava fra loro, e riempiva di sua fantastica e tragica presenza la bottega dei santi, tra le immagini rotte e deturpate, innanzi ai simulacri violati, nell'ora alta notturna, mentre imperversava, fuori, il temporale, e i due si guardavano, colpiti dalla medesima fatalità, trascinati, ognuno di essi, nel dolore, nel disonore, nel fango, per non aver visto a tempo, ove erano la verità e la vita. E l'uomo obbliò il suo immenso strazio, la sua anima si sollevò dal proprio pianto, egli sentì la comunanza di un'altra sciagura, assai più profonda della sua, perchè più oscura, più ostinata, più tetra, più inguaribile, sentì la miseria di un altro essere, la miseria del corpo e dell'anima, la miseria di un essere che lo aveva amato e del cui amore egli non si era accorto, la miseria di un essere che egli anche aveva amato, ma che non aveva saputo amare. - Ah povera, povera Gelsomina! - egli gridò. E poichè vide il volto di lei decomporsi, farsi livido, sotto il belletto, poichè vide quel sottil corpo giovanile tremare, egli prese la poveretta nelle sue braccia, per la prima volta, e con la castità della pietà infinita, paternamente, fraternamente, la strinse, tenne il picciol capo di lei sulla sua spalla e ne baciò, leggermente, i capelli, mentre ella singhiozzava, funebremente, con un singulto roco e penoso, ove vi era un lamento, un lamento di creatura colpita a morte, colpita senza speranza, senza rimedio, a morte. Gelsomina, lentamente, si sciolse dalle fraterne braccia di Domenico, si ravviò i capelli, si sedette presso a lui. Un'aridità improvvisa aveva diseccato le loro lacrime, e calmato i loro singhiozzi: l'aridità della pietà inane, della pietà vana, della pietà che non può diventare coraggio, energia, forza, della pietà che ha solo delle gelide lacrime, degli abbracci paterni, dei baci fraterni, della pietà che è un sentimento senza lena, della pietà che non ha fiamma e che nulla può distruggere, della pietà sterile che a nulla può dar vita. - Io sarei stato felice, se ti avessi sposato, Gelsomina - disse lui, con un rimpianto triste e vano, a occhi bassi. - Sì, tu saresti stato felice - replicò lei, a occhi bassi, con lo stesso tono. - Io ti avrei stimato e onorato come un benefattore e come un innamorato, Domenico. - Ahimè, io era cieco e sordo. in quel tempo! Una benda mi copriva gli occhi, Gelsomina. - Eppure io feci assai, per farti comprendere. Non ti rammenti, Domenico? Qui. venivo a cercarti, a parlarti, ogni sera. - Mi rammento, Gelsomina. - E tu non ti accorgevi di nulla. Tu guardavi le finestre del palazzo Angiulli, perchè tu amavi Anna, Domenico. - Lo sapevi, Gelsomina? - Lo sapevo, Domenico. Come potevo, ho tentato di staccarti da lei, ti ricordi, Domenico? - Mi ricordo, Gelsomina. - Ma non mi è riuscito, Domenico. - Non ti è riuscito, Gelsomina. - Non era possibile, Domenico. - Non era possibile, Gelsomina. Il dialogo continuava. Monotono, arido, quasi freddo, quasi essi facessero la storia di un lontanissimo passato. la storia di due altre persone, e non di loro due. - Dio mi ha punito della mia folle passione e del mio orgoglioso desiderio - disse lui, dopo un silenzio, riabbandonandosi all'egoismo della sua sciagura. - Raccomandati a Lui: Egli ti darà forza - mormorò Gelsomina, crollando il capo. - Io sono perduto - disse lui, cupamente. - Ci vuole coraggio: gli uomini debbono aver coraggio. - Avevo una moglie e una famiglia: non ho più nulla. - Dimentica quella donna: essa ha tentato di ucciderti. - Avevo una fortuna: non ho più un soldo. - Puoi lavorare ancora: il Signore ti manderà del lavoro. - Domani andrò in carcere, come ladro. - Tu? Tu? - Io! - Ma perchè? - Perchè Anna ha rubato le vesti della madonna, che costavano seimila lire, e gli argenti, e ogni cosa: perchè io debbo consegnare, domattina, la statua della Madonna a chi l'ha ordinata e pagata, sino all'ultima lira. - Dì che non è finita. - Non posso. Egli l'ha vista. finita. All'alba, la manda a prendere. - Va da lui, digli tutto. - Non so dove abita. - Cercalo, gittati ai suoi piedi. - Non so chi è. - Oh Dio! - esclamò lei, disperata. - Sono perduto, Gelsomina. Bisogna che dimentichi di esser un cristiano, e che mi uccida ai piedi di questa Madonna. - No - disse lei, con forza. - Bisogna che lo faccia. Non posso esser chiamato ladro. - Vuoi dannarti, dunque? - Anna mi ha messo nell'inferno, per la vita e per la morte - egli conchiuse, con l'ostinazione della follia. Ella lo guardò, stralunata. - Tu vuoi ucciderti - gli gridò, nel viso, tenendogli le mani, bruciandolo coi suoi sguardi, ove ardeva la vampa della disperazione. - Vuoi ucciderti? E che avrei dovuto fare io? Cento volte, avrei dovuto uccidermi, io! Ero una fanciulla buona, ti volevo bene, mi hai respinta, non mi hai voluta, ed io mi sono lasciata prendere, da uno qualunque, così, per debolezza, per tristezza, per non aver più che fare, di me. Non mi dovevo uccidere, forse, il giorno seguente al mio errore? Don Franceschino Grimaldi mi ha lasciata; e io, abbandonata, già perduta, ho rotolato sempre più giù, ogni giorno, perchè ero sola, perchè ero fiacca, perchè nessuno mi ha soccorso, neppure tu, perchè era impossibile, a un certo punto, di soccorrermi più. Ah quante volte la morte mi è parsa bella: e non mi sono uccisa! Io non ti posso dire la mia istoria, tutta quanta, Domenico, ma essa ti farebbe rabbrividire: non te la voglio dire, non devi saperla, non me la voglio ricordare, no, no: la volontà di morire l'ho avuta, ogni sera, ogni mattina, e non mi sono uccisa! Un tempo, due o tre anni fa, questa vita di vergogna mi dava da vivere, avevo degli abiti, dei cappelli: poi sono venuti degli infami, come Gaetanino Calabritto, degli altri, mi hanno oppressa, mi hanno maltrattata, mi hanno tolto tutto... Poi sono stata malata... all'ospedale, Domenico... ma non sono morta... e quando sono uscita, capisci... anche peggio... è stato anche peggio... Egli la udiva, smarrito, atterrato da quel tremendo racconto. - Chiedi al tuo stuccatore, Gaetano, dove sono io, adesso - disse ella, cupamente. - Egli abita dirimpetto alla mia casa. Stassera, mi ha incontrato. Giravo. Debbo girare. Mi ha raccontato tutto. E sono venuta qui, per dirti, Domenico, che se uno doveva uccidersi, dovrebbe uccidersi, sono io, io sola... io che era una buona ragazza... e che sono una disgraziata... - Ma tu non l'hai fatto! Tu non lo faresti? - No - ella disse, levandosi. - Aspetto che Dio mi tolga da queste tribolazioni. - Aspetti? - Aspetto. Deve venire il giorno... deve venire. Addio, Domenico. - Te ne vai adesso? te ne vai? - È tardi, debbo andare - diss'ella, con atto rassegnato, levando le spalle. - Mi lasci solo? - Non posso passar la notte, qui - soggiunse ella, con un sorriso amaro. - Ritornerai? domani? - No. Come posso venire, qua, di giorno? Dimentichi chi sono? Qui... da te... come sono... vedendomi tutti? No, non verrò. - Ma dove vederti, allora? - insistette ancora lui, nel suo bisogno di soccorso. - Oh non da me, non da me! - gridò lei, facendo un atto di ribrezzo. - Hai ragione - annuì lui, lentamente. E si guardarono in viso. Il destino li aveva avvicinati un tempo, ed essi tenevano nelle loro mani, la quiete e la dolcezza della loro vita, e l'avevano lasciata sfuggire, per ignoranza, per cecità, per timidezza, per debolezza: sovra loro, sovra le loro fragili anime, sovra le loro caduche compagini, era sorto un essere forte e crudele, una donna imperiosa e malvagia che li aveva combattuti, in nome dei suoi istinti di dominazione, di cupidigia, di potenza, li aveva combattuti, debellati, distrutti. E travolti dal turbine, sempre più, essi dovevano incontrarsi, ogni volta, per compiangersi, per piangere insieme, per esalare i lagni del loro dolore, ma incapaci, nella loro fiacchezza, di salvarsi, l'un l'altro, ma inetti ad agire, inetti a lottare, inetti a vivere, destinati, infine, ad aspettare che Iddio li liberasse dai triboli, ad aspettare la morte pacificatrice, solo quando il giorno della liberazione fosse venuto. Si guardarono, infelici come mai creature umane, in una notte bruna e tempestosa, furono infelici: e sentirono che nulla avevan più da dirsi: che le loro mani non dovevano toccarsi: che le loro vite dovevano separarsi: poichè la loro salvazione non era più in loro, ma fuor di loro, in mani misteriose, e chiuse, e alte, e supreme. Nella bottega dei santi, Domenico Maresca restò solo e piegò la testa sulle braccia, versando rade e fredde lacrime. Nella via, sotto la pioggia, la gracile ombra notturna di Gelsomina si allontanava, trascinando la stanca persona, e sul triste viso scendevano le rade e gelide lacrime.

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682829
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- Voi vedete in me, gli disse Rosen con aria di abbattimento profondo e senza rispondere direttamente alla sua domanda, voi vedete in me un uomo che è incontrastabilmente il più sventurato fra quanti abbiano patite sventure d'ogni sorta nel mondo. E ciò non di meno sento che questo dolore non ha il potere di uccidermi; e ho non so quale presagio nel cuore che mi dice che io devo vivere, vivere inesorabilmente a dispetto della mia volontà, e de' miei progetti. Ah! domandare soltanto di morire.... e non poter morire! È una cosa orribile! - Che volete? sono travagliato da un'idea fissa, da un dubbio, da un sospetto che mi atterisce. Sarei io mai dotato di una natura immortale? È un pensiero che mi fa rabbrividire, e non di meno non lo posso scacciare dalla mia mente. È un pensiero che se io fossi suscettibile di morire, basterebbe solo ad uccidermi. - Sentite, riprese Rosen dopo qualche intervallo di silenzio, se io potessi morire di veleno, dopo il fatto di ieri, dopo che si conosce a Montdidier la mia qualità di barone, credete che potrei destare sospetto di suicidio? - Non lo credo, disse Lamperth, ma dovete pensare che ne cadrebbe il sospetto sopra persone innocenti. Le cronache giudiziarie registrano a questo proposito dei fatti terribili, e i primi tentativi che avete fatto per morire vi hanno già creata una responsabilità abbastanza grave. - È vero, interruppe Rosen, con accento mortificato, ma la verità verrebbe poi sempre alla luce. E avendo veduto che Lamperth aveva come accennato del capo in atto di adesione, dopo un istante di silenzio, afferrò le sue mani, si sollevò un poco sul guanciale, e gli disse con suono di voce supplichevole: - Lamperth, mio buon amico, ve ne scongiuro, deh! procuratemi un veleno. - Impossibile, rispose Lamperth con aspetto grave e severo; io posso assistere alla vostra morte, posso assecondare fino ad un certo punto i vostri disegni, giacché ho compreso che è impossibile di potervene distogliere; ma non posso procurarvi io medesimo i mezzi di morire, Rivolgetevi ad altri, La mia coscienza m'impedisce di favorirvi, - Bene, bene, disse Rosen, sia come non detto, ma ciò non di meno voi sapete che ho della simpatia per voi…. voi siete incaricato di una lettera per mia moglie... avete ricevute le mie confidenze... ve ne prego, ottimo signor Lamperth, non mi abbandonate sì presto.... Se non posso morire qui, conto di venire con voi in Italia, dove credo che un uomo che non chieda che di morire, possa correre miglior fortuna che in Francia, - Oh! in quanto a questo rassicuratevi, disse Lamperth, io vi seguirò dappertutto, e indugierò a partire da Montdidier fino a che non sarete guarito. Tanto più che si beve realmente dell'ottimo fiore di latte a Montdidier... bisogna dirlo, non è un cattivo soggiorno... - No, no, riprese Rosen, vi ho passati alcuni mesi nella mia infanzia, e non è veramente un soggiorno dispiacevole, ma io non domando che di morirvi. - Speratelo, conchiuse Lamperth stringendogli la mano, e accomiatandosi da lui; la fortuna è capricciosa, e può concedervi domani ciò che vi ha rifiutato oggi; e quando meno state in aspettazione delle sue grazie, colmarvi de' suoi doni e de' suoi favori. Ma rimanete tranquillo; verrò a rivedervi domani; spero trovarvi peggiorato. Appena Lamperth si fu allontanato, ciò che Rosen aspettava con impazienza, egli fece chiedere d'un giovine commesso di farmacia che gli aveva recate alcune medicine, e applicate alcune striscie di taffetà nel giorno antecedente, e gli disse: - Voi dovete essere un ottimo ragazzo, e ho in mente di giovarvi per quanto mi è possibile, combinando l'interesse vostro ed il mio in un affare che vado a spiegarvi in due parole. Il cuore mi dice che noi riusciremo a qualche cosa. Ecco come sta il fatto. Si tratterebbe di un.... bisognerebbe.... ascoltatemi. - Dite, io sono tutto orecchi. - Vado a spiegarmi: io ho un'amante nel mio paese, una ragazza a dovere... figuratevi... una bellezza rara, una bellezza prodigiosa; una di quelle donne che hanno diritto a pretendere in un amante delle attrattive irresistibili.... ora... non dico d'averle avute io, ma certo... voi lo vedete, la mia faccia, i miei lineamenti sono alterati, io sono ora un uomo brutto, diciamolo francamente, brutto, è la parola. Io non ho più il coraggio di farmi rivedere da lei in questo stato, ho preso una risoluzione energica, irremovibile; ho deliberato di... Come vi chiamate signor Tricotèt? - Tricotèt, l'avete detto. - E a che somma ascendono i vostri onorarii? - Oh! ad una somma assai lieve, se volete, ma considerevole sempre per un giovine commesso di farmacia, a venticinque lire mensili. - Bene! riprese Rosen, sappiate adunque che per i motivi che vi ho esposti, io ho deliberato di... morire; e vi darò qui su due piedi venticinque mila franchi se voi mi procurate un veleno per farlo. Un veleno! esclamò Tricotèt alzandosi due spanne dalla sua sedia; ma, signore, se non è che il timore della vostra deformità che vi consiglia questa determinazione, io vi assicuro che voi guarirete: fidatevi di me, sono in grado di accertarvelo, io; studio il terzo anno di farmaceutica; e non sono più di due mesi che colla pomata vergine di Vernicot, ho fatto rinascere le ciglia e i capelli all'illustrissimo signor Verrier, che è l'avvocato generale del dipartimento, e che era raso quanto una guancia... Avete detto venticinque mila franchi? - Venticinque mila. - E che veleno vi occorrerebbe? - Oh! un veleno qualunque..... purché sia potente, pronto, efficace, ma sopratutto potente. - In quanto a questo, non avreste a temere.... credo avervi detto che studio il terzo anno di farmaceutica; queste cognizioni le ho sulle punta delle dita. - Bene, bene, riprese Rosen, pensateci seriamente, ne va della vostra fortuna. - Ci penserò, disse Tricotèt avviandosi verso la porta per uscirne. Ma non aveva ancora chiuso l'uscio dietro di sé, che ritornò nella stanza di Rosen e gli disse: - Signore, ci ho pensato... parmi di poter accettare.... ho a mia disposizione una certa pasta nera, il cui effetto è terribile, è immediato, benché procuri una irritazione intestinale abbastanza sensibile... se voi credete... se persistete nella stessa offerta, io ve la potrei procurare dietro la riscossione della somma su cui abbiamo convenuto. - Non v'è che dire, riprese Rosen, voi mi darete il veleno... la pasta.... ciò che dite, ed io vi sborserò i venticinque mila franchi. - Accettato, rispose Tricotèt con risolutezza, volo a provvedermene: fra due minuti sarò di ritorno. Rosen, sicuro finalmente di morire, si abbandonò tutto alla voluttà di questo pensiero. Un istante dopo Tricotèt ricomparve portando con sé un piccolo vaso ripieno d'una pasta nera che liberò con molta precauzione da cinque o sei fogli di carta in cui era avviluppato, e lo presentò a Rosen dicendogli: - Non avrete tempo a prenderne quattro boccate che sarete freddo. Rosen gli sborsò i venticinque mila franchi che erano tutto ciò che gli rimaneva della sua fortuna. Tricotèt li intascò con tutta l'impassibilità d'un uomo d'affari; ridiscese a saltelloni la scala, e, preso un posto nella diligenza di Lafitte, partì in quella stessa mattina per Parigi - Rosen, rimasto solo, si raccolse tutto in sé stesso, richiamò tutte le sue memorie, ripensò alla sua fanciullezza e a sua moglie, fece un breve esame di coscienza, si pose in pace alla meglio con essa e con sé medesimo, e dato un addio alla vita e alle sue rimembranze, rinchiuse gli occhi e ingoiò in quindici o venti boccate tutto il suo veleno. Era un sapore acre ma dolce, e pareagli d'averlo gustato altre volte; non aveva nulla di disgustoso, nulla di forte, e Rosen stava per dubitare della fede di Tricotèt, quando lo incominciarono ad assalire degli spasimi colici così potenti che non potè trattenere suo malgrado le grida. Erano dolori orribili, insopportabili, atroci. Rosen, come tutte le nature vivaci, ma deboli, era vile dinnanzi al dolore. I suoi lamenti fecero accorrere il signor Caupin che, non ostante le sue proteste, si affrettò a mandare pel medico. Rosen nell'entusiasmo del suo sacrificio non aveva preso tutte le precauzioni opportune, e aveva dimenticato sul tavolo il vaso del veleno. Se ne avvide troppo tardi quando il medico se l'era già tolto in mano, e esaminandone le reliquie gli diceva: - Che diavolo avete preso o signore? Chi è quell'asino di dottore che vi ha fatto una simile ordinazione? Oh la scienza! E c'è tanto da vergognarsene... siamo giunti davvero a un bel punto!... Quattr'oncie di conserva di prune coll'emetico! È una cosa orribile, un'ordinazione da cavallo!.... - È il signor Tricotèt, mormorò Rosen tra lo spasimo, un commesso di farmacia che.... - Il signor Tricotèt!.... diamine... ho trovato or ora il suo padrone, il degno farmacista Sapiston, che ne va in cerca per monti e per mari; egli ha ricevuto in questo momento una sua lettera in cui gli annunzia che parte oggi stesso per Parigi, e va ad acquistarvi una delle farmacie meglio avviate della capitale. - Ah Tricotèt scellerato! disse Rosen, tenendosi il ventre colle mani, piccolo malandrino! giuro al cielo che io vo' guarire a posta, rinunciare a tutti i miei progetti per andargli a strappare le orecchie a Parigi. - Via, via, disse il dottore in aria di conciliazione, quel piccolo monello vi ha fatto uno scherzo di cattivo genere, ma la cosa non ha in sé nulla di conseguente, prima di domani sarete perfettamente guarito. Venti giorni dopo questo avvenimento, Rosen ristabilito della sua malattia, prendeva con Lamperth la strada della capitale. Un nuovo campo di avventure doveva aprirsi adesso per Rosen. In quel gran centro che è Parigi dove le statistiche registrano ogni giorno centinaia di furti, di aggressioni, di delitti, di calamità d'ogni genere, non doveva riuscirgli difficile di morire. Almeno Rosen lo sperava; considerava le avversità passate come un brutto giuoco della fortuna, ma nulla più che un giuoco; era impossibile ch'essa potesse contendergli più a lungo la realizzazione di un desiderio sì semplice e sì naturale, il compimento di un destino inevitabile e comune a tutte le cose. Oltre a ciò egli era divenuto triste e soffrente; bisognava aggiungere alle cause che lo eccitavano a desiderare con tanta ostinazione la morte, quel non so che di mesto e di inusitato che gli era provenuto dalla sua infermità, e il dispiacere delle traccie che ella aveva lasciato sulle sue fattezze. Perché Rosen ci teneva alla sua avvenenza, e non aveva totalmente mentito quando aveva detto a Tricotèt che non avrebbe potuto reggere al pensiero di rivedere l'Inghilterra così malconcio. Il più delle volte noi amiamo di essere belli per noi stessi, perché amiamo anzi tutto noi stessi, e consideriamo la bellezza fisica come un riflesso, come un'espressione della bellezza morale. I fanciulli che ignorano ancora tutta l'influenza che la beltà esercita sugli affetti, ambiscono nondimeno di essere leggiadri, ed è questo il primo istinto di vanità che apparisca ordinariamente nell'uomo. Vi furono in ogni tempo delle donne segnalate per avvenenza straordinaria, le quali non amarono alcuno, e furono tuttavia felici, e trovarono nella sola coscienza di questa loro beltà un conforto a mali grandi e reali della vita che non avrebbero saputo tollerare altrimenti. Egli è che esse amavano potentemente e sovra tutto sé stesse; e si è spesso tentati di credere che quell'amore che si dà ad altrui non sia che un'esuberanza, un residuo di quello che si dà a noi medesimi. Si toglie a sé, e si dà ad altri; più amate altrui e meno amate voi stesso: da ciò il sacrificio in amore, e quella legge immutabile di egoismo che lo governa provvidamente e lo frena. Rosen incominciò da quei giorni una nuova serie di tentativi. Risoluto a non ritentare le sorti del duello che non gli avevano fruttato fino allora che dei rimorsi crudeli, immaginò nuove imprese e nuovi disegni: ma non era così agevole l'immaginarne di efficaci e di utili. Ne concepiva molti, e molti ne rigettava come ineffettuabili. Vi era sempre in ciascuno di essi qualche ostacolo, qualche conseguenza probabile che lo distoglieva dall'eseguirla. Perché egli si era fatto saggio dopo quelle prime prove, e la sua coscienza infiacchitasi, come suole nella malattia, gli suggeriva rimedii più cauti e più onesti. In quel primo periodo della sua dimora a Parigi aveva cercato, ma indarno, di morire con qualche mezzo comune; si era buttato tre o quattro volte tra le carrozze che gli attraversavano la via, come persona che ha difetto d'udito, o che non bada molto a sè per distrazione soverchia; ma i cocchieri erano sempre stati troppo avveduti, e s'erano sempre trovati importuni che gli avevano strillato alle orecchie: - Ehi, signore, la si guardi, badi che le viene addosso una carrozza; e talora ne l'avevano sottratto a forza, afferrandolo e trattenendolo violentemente per l'abito. S'era provato a passeggiare lungamente e pazientemente sotto i ponti e sotto le bertesche degli edificii in costruzione, sperando la caduta d'una tavola, d'una pietra, o di un arnese qualunque che avesse potuto ucciderlo, ma indarno: aveva girato tutto il vecchio Parigi, e cercato tra quelle case antiche e tra quei vecchi recinti di giardino qualche muro che minacciasse di sfasciarsi, e vi aveva passato notti intere aspettando che rovinasse, ma non era stato più fortunato in ciò, di quanto lo fosse già stato dapprima. Un destino misterioso altrettanto che strano, governava la vita di Rosen. Spesso nello scorrere per passatempo i giornali della sera, si arrestava con un senso di sdegno e d'invidia a meditare sull'elenco dei morti nella giornata - tre o quattrocento ogni giorno; e tra essi molti più giovani di lui, molti fanciulli che vi avevano diritti infinitamente minori..... E tuttavia egli viveva…. Talora si sentiva sgomentato nello scorgere che la maggior parte di quei morti erano vissuti fino ad una età molto avanzata, fino a settanta, a ottant'anni; ve n'erano spesso alcuni che per poco non avevano toccato il secolo.... Se egli avesse avuto lo stesso destino.... se fosse stato condannato ad una vita sì lunga! In quegli intervalli di scoraggiamento tornavalo ad assalire il sospetto che egli fosse dotato di una natura immortale, che tutti i suoi sforzi sarebbero riusciti vani, eternamente vani... Non poteva reggere al pensiero di una vita che non doveva aver fine; era questo fine che egli voleva affrettare, che egli voleva raggiungere; e quantunque si avvedesse dell'assurdità di un simile sospetto, n'era soventi in timore, e passava giornate angosciose, travagliato, come era, da un pensiero così scoraggiante e terribile. In quei giorni avendo appreso che molti assassinii succedevano la notte nei quartieri più remoti di Parigi, sui boulevards, al bosco di Boulogne, in quelle vecchie e strette viuzze che si trovano dal lato occidentale della città, Rosen vi si cacciava tutte le sere, e vi errava per lunghe ore senza frutto; rientrava a notte inoltrata, e talora, verso il mattino, scoraggiato, prostrato, vinto da quella cieca fatalità che vigilava con tanta costanza sulla sua vita. Oltre a ciò egli doveva struggersi di celare l'entità della sua persona: le sue avventure di Dover e di Amiens avevano messo la polizia sulle sue tracce, e benché egli non avesse palesato a persona il suo nome, bastava un indizio, un sospetto, perché si fosse venuto in chiaro di tutto. Più che di una pubblicità disonorante, Rosen temeva della violazione del suo segreto, dell'inutilità del suo sacrificio, e delle ristrettezze domestiche di sua moglie. Si era creato mille sorgenti di dolori, mille motivi di pene e d'inquietudini, e comprendeva di non potervi rimediare che morendo. Aveva risolto di abbandonare Parigi, quando una sera essendo entrato in una bettola, come soleva fare, per corrervi qualche avventura, e essendosi seduto colle spalle rivolte a un assito che tramezzava la camera, scorse da una fessura delle tavole quattro persone, che sedevano in un angolo della stanza, discutendo a bassa voce circa un complotto di furto che si proponevano di effettuare in quella notte medesima. Quantunque essi parlassero assai piano, non riuscì difficile a Rosen che stava origliando alla fessura, d'intendere queste parole: - Vi ripeto che il teatro dell'Opera non finisce che dopo la mezzanotte. È impossibile che egli ritorni prima di quell'ora. - Ma siete poi sicuro che il signor Meustrier vi vada tutte le sere? - Tutte le sere. Bene! ma io credo ad ogni modo che convenga indugiare fino alle undici. Sapete che al secondo piano la signora Ronson non si corica mai prima di quell'ora, e si ferma spesso sul pianerettolo ad inacquarvi i suoi vasi di basilico. Già, io temo di voi, mio caro amico, perdonatemi, ma siete così smemorato; metterei un occhio della testa che prima che siate partito e tornato per le nostre provviste, avrete dimenticato la strada, la casa, il numero, e perfino la qualità di dottore dell'onorevole signor Meustrier, e lo scopo per cui andiamo a rendergli quella visita. - Via, e lo so a mente come le litanie: vicolo della Chiusa, n. 42, piano terzo, uscio a sinistra, quattro finestre sul vicolo, abitazione del signor Meustrier, dottore in ambo le leggi. Ma a me passano pel capo ben altri timori. - E sarebbero .... - Ve l'ho già detto; voglio dire quella persona che ci spiava alla cantina del Falcone, e che sarebbe stato scambiato per un ispettore di polizia anche da un cieco. Temo che ci abbia uditi. - Voi non vedete che ispettori di polizia. Ma è tempo che andiate per le cose nostre... già non vi dimenticherete del convegno... al tocco delle undici sull'angolo. - E se ... - Cosa? - Se nel discendere e nel salire, incontrassimo il signor Meustrier, se lo trovassimo in casa... - In casa è impossibile, non torniamo sulle questioni già appianate: se lo incontreremo per le scale sarà un altro paio di maniche, bisognerà fargliele ridiscendere a capo fitto. Rosen non volle udire altro, non mancava più alcun dettaglio al suo piano; uscì a precipizio dalla bettola, deciso di rappresentare la parte del signor Meustrier, e di appostarsi sulle scale del suo palazzo. Ma la cosa più difficile era trovare il vicolo della Chiusa; non è sì agevole il trovare un vicolo a Parigi sulla semplice indicazione del suo nome, e Rosen temeva di compromettersi chiedendone notizia a qualche passeggiero. Non erano però le nove, e gli avanzavano due ore per farne ricerca: poteva sperare ragionevolmente di riuscirvi. Fino dal primo momento che aveva sentito i ladri accennare a quel luogo, aveva supposto che non sarebbe stato molto lontano da quel quartiere, perché essi non si sarebbero radunati in un punto opposto della città: era d'uopo passare ad una ad una per tutte quelle vie e leggervi le indicazioni dei viottoli traversali: dopo ciò se tutto fosse stato inutile, richiederne con franchezza qualche persona, e non trovando chi glielo indicasse, cacciarsi in una vettura pubblica e farvisi condurre come a casa propria. Concepito questo piano, Rosen si accinse di buon animo alle sue ricerche. Ma era inutile; il tempo volava con una rapidità spaventosa, e Rosen non era adesso più fortunato di quanto lo fosse stato in quei giorni. Ad ogni breve intervallo di tempo guardava con trepidazione sull'orologio, e vedeva la lancetta affrettarsi a raggiungere l'ora fatale, senza che potesse aver indizio alcuno di quella strada. Erano le dieci e mezzo, mancava mezz'ora al convegno... Risolse allora di chiederne notizia ad alcune persone che gl'inspiravano qualche fiducia, ma nessuna di esse seppe indicarglielo. Si azzardò a interpellarne una guardia di polizia, che lo guardò di traverso come una persona sospetta, ma anche questi non ne sapeva più dei primi. Intanto erano già trascorse le undici, Rosen era sulle spine; conobbe che bisognava tentare rimedii estremi, e aprendo lo sportello d'una vettura pubblica vi si buttò dentro come una persona disperata strillando alle orecchie del cocchiere: vicolo della Chiusa, n. 42, a gran corsa. Il cocchiere dopo essersi raccolto un momento quasi per chiamare a rassegna tutte le sue cognizioni topografiche, fece scoppiettare la sua frusta, e spinse il cavallo in una direzione opposta a quella per cui era venuto Rosen. Si corse per una buona mezz'ora; Rosen era al colmo della desolazione; mancavano pochi minuti alla mezzanotte, e già aveva deliberato seco stesso di rinunciare a quel tentativo e di farsi condurre invece da Lamperth, quando vide la carrozza voltare in una piccola via, e appena girato l'angolo, arrestarsi. Rosen ne discese, guardò in alto e vide il numero 42 illuminato dal fanale della strada che pareva dirgli: questa è la casa, venite. Pagò sontuosamente il cocchiere, e raccogliendo tutto il suo coraggio entrò nell'atrio, e cominciò a salire le scale. Era giunto appena al terzo piano, quando gli parve d'intendere del rumore nell'appartamento del signor Meustrier; e appressandosi all'uscio, conobbe che le imposte ne erano socchiuse, e vide uscirne un filo di luce che le illuminava di dentro. Non v'era dubbio, ladri non ne erano ancora usciti; bisognava usare dell'audacia, far la parte del signor Meustrier, entrarvi, assalirli, e lasciarvisi sgozzare come un agnello. Ma Rosen non aveva ancor messa la mano all'imposta, che udì una voce maschia chiedere di dentro: Chi va là? - Io, disse Rosen, spalancando la porta e precipitandosi nella stanza, io, il dottore Meustrier; chi è che è entrato in mia casa? - Onorevole dottore, rispose una persona che Rosen riconobbe subito per un gendarme, li abbiamo pigliati nella trappola; e aprendo l'uscio della seconda stanza disse: il signor Meustrier è arrivato in questo momento. Rosen guardò, e vide una quantità di gendarmi, intenti ad ammanettare i quattro personaggi che aveva conosciuto alla bettola. L'ispettore di polizia, appena vedutolo, gli si appressò con aria di soddisfazione, e togliendosi rispettosamente il berretto, gli disse: Egregio signor Meustrier, ella ci vorrà perdonare se abbiamo dovuto violare la sua casa, ma la giustizia ha esigenze sulle quali non è possibile transigere ... D'altra parte le abbiamo ricuperati i quaranta mila franchi di deposito che ella incassò stamattina, e che questi galantuomini avevano già fatto passare nelle loro saccoccie. Fu un fatto molto onorevole per la polizia di Parigi, questo; non lo dico per vantarmene, io, ma ... già, tutto il merito è dovuto al nostro agente, il signor Chaperron, che ha saputo scoprire il complotto nella cantina del Falcone, dove questi signori si erano radunati per concertare il loro piano. Aveva fatto cercare di lei, ma non ci è stato possibile di trovarla. Ho sentito in questo momento la sua carrozza, e ho detto tra me stesso: il signor Meustrier è qui, egli rimarrà ben stupito di trovar tanta gente in sua casa. Come fare? E bisognerà ora che ella abbia anche la bontà di accompagnarci all'uffizio della sezione, dove redigeremo il verbale, e le restituiremo il danaro rubato, appena verificata esattamente la somma. - Sono ben grato, disse Rosen, che si sentiva calare il sudore gelato dalla fronte, sono ben grato delle cure che questa benemerita autorità si assume per la tutela della proprietà privata, e mi duole di non poterle offrire che un attestato verbale della mia riconoscenza: del resto, signor ispettore, io mi farò un dovere di far conoscere a tutti la di lei avvedutezza e il di lei zelo, segnalandolo per le stampe alla ammirazione ed alla gratitudine del paese. L'ispettore s'inchinò fino a terra. Rosen, avendo ammiccato dell'occhio ai quattro arrestati, che lo guardarono stupiti, come avesse voluto dir loro: non temete, non mi tradite, non sono il signor Meustrier, io; lo so bene che non mi conoscete, ma sono uno dei vostri, uno che saprà liberarvi, purché abbiate un'oncia di giudizio, riprese: - Signor ispettore, io sono ai di lei ordini, andiamo. E si avviarono all'ufficio di polizia. Quivi Rosen che si sentiva i bordoni alla testa, dovette subire un lungo interrogatorio, declinare il suo nome, la sua qualità, la provenienza del danaro rubato; dopo di che, avendo firmato il verbale che faceva constare del fatto, l'ispettore generale gli disse, consegnandogli i quarantamila franchi, che erano stati tolti a Meustrier: - Signor dottore, ella può ora ritirarsi, ma è necessario che ritorni domani al nostro ufficio per assistere all'interrogatorio degli accusati. Rosen, intascando alla meglio il danaro, si cacciò giù per le scale, leggiero come una rondine, si ficcò in una carrozza da nolo, si fece condurre dal suo amico Lamperth, e gli disse: - Io parto in questo istante per Melun; sono stato costretto a rubare quarantamila franchi, e non potrei rimanere un'ora di più a Parigi; raggiungetemi domani in quella città, dove desidero di giustificarmi con voi di questa appropriazione. - Sta bene, ci rivedremo domani a Melun, rispose Lamperth con freddezza. * * * Quel piccolo gruzzolo del signor Meustrier non era giunto inopportuno per Rosen; egli era stato a un filo dal vedersi senza un quattrino; e d'altra parte considerava quel dono singolare della fortuna, come un compenso alle somme che Lachard e Tricotèt gli avevano arraffate prima del suo arrivo a Parigi. Ciò di cui egli si sgomentava non era tanto il ritardo che tutte quelle mille fatalità frapponevano al raggiungimento del suo scopo, quanto quel non so che di ostinato e di derisorio con cui quelle stesse fatalità tentavano di paralizzarne l'azione. Tuttavia, appena arrivato a Melun, si era avveduto che una nuova serie di avventure le attendeva in quella città. La Senna, ingrossatasi per le pioggie che erano state frequenti in quei giorni, era uscita dal suo letto e aveva allagato buona parte di quelle campagne. Molte case di coloni erano rimaste sepolte a metà dalle acque, senza che le famiglie che le abitavano avessero avuto il destro d'uscirne: non poche di esse mancavano di provvigioni, o erano minacciate in altro modo nelle loro case medesime, che scalzate dal fiume alle fondamenta erano in procinto di rovinare. Ogni giorno si numeravano nuove vittime, e quei pochi generosi che s'erano spinti in loro soccorso ne costituivano la maggior parte. Rosen aveva appreso queste notizie non appena partito da Parigi, ond'è che giunto a Melun, era corso tosto alla riva del fiume per vedere le cose da sé, e confortarsi della certezza di questo avvenimento. Tutta quell'estensione di campagna così allagata presentava uno spettacolo stupendo. Dalla parte di Corbeil, l'occhio non giungeva a distinguere il limite estremo dell'allagazione, e l'orizzonte si chiudeva in una linea confusa e bianchiccia, come avviene in una scena di mare, quando le onde agitate presentano alcune creste di una bianchezza abbagliante sopra un fondo oscuro e verdastro. Dal lato opposto, la via di Fontainebleau, dove le acque si erano arrestate in un declivio, porgeva l'aspetto di un serpente smisurato che stesse per uscire dal fiume. Dappertutto biancheggiavano delle case, quali scoperte in gran parte, quali sepolte fino al tetto, di cui non si scorgevano che i comignoli, simili ad alberi di nave naufragata; le piante investite dalla corrente oscillavano sui loro fusti; e molte di esse sradicate erano travolte impetuosamente dalle onde; in alcuni punti il fiume era limpido e calmo, in alcuni altri scorreva con un fragore spaventoso, e si riversava negli avallamenti, che riempiuti si scaricavano negli altri seni più bassi. Mille altri particolari completavano la scena stupenda di quel quadro. Rosen gioiva dal più profondo del cuore nel contemplarlo. Quanti pericoli non avrebbe egli potuto corrervi domani, e quanti pretesi non avrebbe egli avuto per correrli? Come doveva essere facile il morire in quel luogo! - una barca rovesciata, una riva franata, una casa sfasciata dall'acqua, un naufrago che invoca soccorso .... no, era impossibile che questa volta non riescisse a Rosen di morire. Dopo che egli ebbe passato alcune ore beandosi in quella vista, rientrò nella città che la notte era di molto inoltrata, si gettò sul letto fantasticando, ebbe sogni pieni di voluttà e di visioni. Gli pareva che, essendosi gettato nella Senna, le onde lo avessero travolto e inghiottito senza che egli od altri avessero avuto tempo di opporvi la menoma resistenza; le acque si erano chiuse sopra di lui, egli si sentiva affondare affondare, scendere scendere continuamente senza poter giungere al fondo, la corrente lo portava con impeto e lo faceva girare su sé stesso come una foglia investita dal vento. In quel lungo sommergersi Rosen provava una strana sensazione di piacere, avrebbe voluto scendere così eternamente senza toccare il letto del fiume; ma non avea concepito questo desiderio che ne scorse il fondo tutto coperto di musco e di conchiglie, e non l'ebbe raggiunto che disse a sé stesso con un senso di tranquilla rassegnazione: sono morto sono finalmente morto! Allora una miriade di pesciolini e di piccoli mostri acquatici si precipitarono sopra di lui per divorarlo. A quella vista Rosen si spaventò e destossi. - Sia lodato il cielo, diss'egli, questo sogno è una previsione, andiamo. E vestitosi in fretta si avviò verso il fiume. Appena giunto alla Senna fu lieto di apprendere che si era costituita fra alcuni filantropi di Melun una società di soccorso per le persone che si trovavano chiuse nelle case allagate. Rosen domandò sull'istante di farne parte e lo ottenne. Da lungo tempo egli godeva nel suo paese fama di abile nuotatore, e pensò con piacere che prima di morire avrebbe potuto rendere realmente qualche servigio a quegli sventurati: in fondo in fondo egli non era cattivo, e un istinto di umanità lo aveva tratto sovente a sacrificare per l'utile altrui, il bene proprio, come aveva fatto in occasione dell'incendio di Montdidier. Rosen chiese che gli fosse affidata una barca colla quale avesse potuto trasportare alcune provvigioni nelle fattorie che ne avevano difetto, o tentare di trarre in salvamento gli abitanti di quelle case che minacciavano rovina. Per due giorni fu un prodigio di attività e di fortuna, e rese beneficii immensi alle vittime di quell'innondazione - tutta Melun era occupata di lui e del suo coraggio, il nome di Rosen era sulle bocche di tutti - ma, al terzo giorno, quando appunto prostrato da quelle fatiche e impaziente di morire, aveva risolto di tentare qualche cosa di decisivo, avvenne che guidando egli una barca su cui trasportava alla riva due fanciulle raccolte sopra un piccolo rialzo di terra che era stato circondato dal fiume, questa investì in un albero che scendeva giù trascinato dalla corrente, e n'andò rovesciata. Al momento in cui Rosen incominciava a sommergersi guardò alla riva, vide la folla che assisteva al triste caso; e non potendo più dubitare che la sua morte non potesse venir impedita e non dovesse essere considerata affatto accidentale, provò nel fondo dell'anima una strana gioja, e disse: oh finalmente .... Ma non aveva ciò pensato, che si sentì afferrare da una di quelle fanciulle che si erano sommerse con lui, e che gli s'avvinghiava alla persona con tutta quella disperata tenacità che da l'istinto della vita. Il cuore di Rosen non era eccessivamente pietoso, ma pure ne sentì compassione, e slacciandosi alla meglio dalle sue braccia, e stringendola con una mano alla cintura, incominciò a nuotare verso la riva. V'è un'altra vittima da salvare pensava egli tra sé stesso, mentre lottava disperatamente colle onde, nessuno mi toglierà il pretesto di rituffarmi nel fiume. E messo in pace da questo pensiero continuò ad affrettarsi alla sponda. Rosen vi giunse sì spossato, sì oppresso dalla fatica che appena potè intendere le grida e gli applausi della folla, che stava schierata lungo la riva. Ma non ebbe posata a terra la fanciulla, che, fingendo di voler correre alla salvezza dell'altra, tornò ad immergersi, e prese a nuotare verso il largo della Senna. Intanto alcune barche si erano distaccate dalla sponda; Rosen le vide, e fosse la fatica fosse il timore che potessero venire in suo soccorso, si sentì venir meno, incominciò a perdere la vista dell'orizzonte, a gettare le braccia inerti sull'acqua, a diventare leggiero, nel tempo stesso che si sentiva inghiottire dalle onde; e smarrendo in un istante ogni forza ed ogni coscienza di sé, si sommerse. In quell'intervallo di tempo due barche lo avevano raggiunto, e due francesi si erano già gettati nell'acqua per salvarlo. Rosen non aveva avuto tempo di toccare il letto del fiume, che uno di essi lo aveva afferrato alla cintura e trattolo fuori e coricatolo nella barca, lo aveva ricondotto alla riva. Tutto ciò era avvenuto in istante, e senza che Rosen, che era svenuto, avesse potuto avvedersene. Ma quale non fu la sua maraviglia, quando nel risensare si trovò nella sua stanza, nel suo letto; e vide Lamperth seduto al suo fianco; e richiamando in un istante le sue memorie, potè indovinare agevolmente tutte le particolarità della sua sventura. - Ah! sono ancora vivo, egli disse, sono ancora vivo! ... e si riposò con dolore su questa parola. Egli era sì debole che un istante dopo si pose a piangere e singhiozzare come un fanciullo, esclamando colla voce interrotta dalle lagrime: - Io non morirò più! ... Io non potrò più morire! ... Indarno Lamperth si provò a consolarlo: il suo abbattimento era estremo. - Io morirò di crepacuore, io morirò di angoscia, ripeteva Rosen ad ogni frase del suo amico. E l'altro a soggiungergli: - è il genere di morte più valido dinanzi alla società di assicurazione. Alcuni giorni dopo Rosen guarito aveva detto a Lamperth: - Andiamo via di qui, non fermiamoci più fino a che non saremo giunti in Italia. E stavano per partire, quando una deputazione del municipio di Melun entrò nella stanza recando a Rosen un indirizzo di quel comune, nel quale lo si ringraziava del soccorso prestato durante l'inondazione, e gli si offriva, come unico compenso degno di tanta abnegazione, la cittadinanza di Melun. Rosen volle rispondere, ma provò tale un eccesso di sdegno contro la sua fortuna e contro sé stesso, che si sentì soffocare dalla bile; e non potendo reagire e superare la sua emozione, cadde svenuto sopra una sedia. - Egli è ancora assai debole, disse un membro della deputazione a Lamperth, e questo attestato di onore che ha voluto porgergli la nostra città, lo ha profondamente commosso. - Sì, disse Lamperth, lo ha commosso molto profondamente. * * * Dopo quindici giorni di viaggio, Rosen e Lamperth giunsero a Grenoble, col pensiero di passare le Alpi presso Brianzure, e di passarle a piedi come due buoni inglesi. Rosen era prostrato dalle tante disillusioni sofferte; ma come suole avvenire in tutte le nature immaginose e fantastiche, si confortava di nuove speranze. Gli pareva che in Italia sarebbe riuscito, che anzi sarebbe riuscito alla prima prova, e aveva deciso di non tentare più che avventure serie, avventure utili, nelle quali la sua sensibilità e la sua coscienza non avessero più a distoglierlo dallo scopo immediato dei suoi tentativi. Oltre a ciò sentiva in sé stesso un presagio consolante, il presagio che egli si avvicinava al suo fine, che qualche cosa di solenne, qualche cosa di decisivo doveva accadergli in quei giorni. Gli s'erano già offerte tre o quattro occasioni, ma aveva ricusato di approfittarne, come quelle che non promettevano un esito sicuro, quando, essendo giunto ad un piccolo villaggio alle falde dalle Alpi, e avendo saputo che in una foresta vicina era imboscata una grossa masnada di assassini che vi commettevano delitti inauditi, risolse di andarli ad incontrare. Fino allora non s'era dato esempio di viaggiatori che fossero capitati nelle loro mani e che ne fossero usciti vivi, per quanto danaro avessero lor dato, e per quante preghiere avessero rivolte; era naturale che Rosen, deciso a difendersi e a provocarli, potesse lusingarsi di correre lo stesso destino. Accomiatandosi da Lamperth che sicuro della morte del suo amico lo abbracciò colle lagrime agli occhi, Rosen tolse pretesto di una passeggiata su pel monte, e s'inoltrò arditamente nella foresta. Camminava triste e pensoso, guardando gli alberi che distendevano i loro rami sopra di lui, come un ombrello gigantesco; raccogliendo per distrazione qualche corbezzolo, e compiacendosi di sentire sotto i suoi piedi quel non so che di molle e carezzevole che hanno gli alti strati di foglie così accumulate da anni nelle montagne. Era pensoso, è vero, ma lo era pel timore di non imbattersi nella masnada: oramai Rosen era sì indispettito dei suoi casi trascorsi e della sua triste fortuna, che quasi avrebbe bastato quel suo risentimento, quella specie di amor proprio che lo rendeva incaponito nel suo progetto, a fargli desiderare e affrontare qualunque sorta di morte. Ma i suoi timori erano vani come le sue speranze. Non aveva camminato più di mezz'ora che udì suonarsi all'orecchio un: Chi vive? uscito da un petto così robusto, e pronunciato così d'appresso a lui e con suono di voce così minaccioso, che Rosen, assorto in quell'istante in altro pensiero, si arrestò, e emise, suo malgrado, un leggiero grido di spavento. Nel tempo stesso un uomo uscì fuori da una macchia, e spianando verso di lui il suo fucile, gli disse: - Fermatavi, o siete morto. - Miserabile! disse Rosen; e fingendo di prendere la mira, sparò un colpo di pistola verso l'assassino. La palla passò in aria fischiando; l'assassino dal canto suo sparò il suo fucile, ma sparò in fallo. Rosen si percosse la fronte col pugno. Al rimbombo di quello scoppio, cento masnadieri comparvero da tutte le bande; e Rosen si vide ad un tratto circondato. Pieno di speranza e di gioia, deciso a difendersi per eccitarli ad ucciderlo, impugnò le sue pistole, e avventandosi contro coloro che gli erano più d'appresso sparò i tre colpi che gli rimanevano, evitando di ucciderne alcuno. I masnadieri erano rimasti sì colpiti da tanto ardimento, che nessuno di loro aveva tentato di trattenerlo; e solamente quando lo videro slanciarsi, già disarmato, contro il nucleo maggiore della loro banda, si avventarono per colpirlo coi loro coltelli. A quella vista il capo dei masnadieri accennò loro di arrestarsi, venne incontro a Rosen, ordinò che non gli si torcesse un capello; e afferrandolo per le mani, che gli diedero una stretta simile a quella d'una morsa, gli disse: - Che cosa volete fare? arrendetevi; avete coraggio, ma siete un insensato, credete di poterla spuntare con noi? - Io non mi arrenderò mai, disse Rosen, dovessi combattere a morsi; e tentò di slacciarsi una mano per menargli un colpo alla guancia, ma era impossibile, Il suo avversario riprese con tranquillità: - Voi siete decisamente un uomo coraggioso; acquietatevi, avete nulla a temere da noi; non uccidiamo gli uomini della vostra tempra, noi; uccidiamo quelli che guaiscono come le femmine, che ci ricusano la loro borsa, che non vogliono ammettere il diritto che noi abbiamo sulle sostanze dei ricchi, e la missione che ci siamo imposta di migliorare la società, distruggendo la disparità delle fortune. Voi siete un uomo straordinario: è a deplorarsi che vi sciupiate così miseramente nella vita corrotta della città .... ma sareste ancora in tempo a riabilitarvi; io vi offro uno dei posti più onorevoli nella mia banda; spero che non sarete per ricusare. Il capo dei masnadieri aveva rallentato sensibilmente la stretta delle sue mani nel pronunciare queste parole; Rosen annientato da tanta avversità di fortuna, taceva. Dopo un istante di silenzio, l'altro riprese: - La vostra fisionomia, il vostro coraggio ... sareste voi mai un inglese? - Sì, disse Rosen rianimato dalla speranza. - Oh! permettete che io vi abbracci; ho goduto per quattro anni dell'ospitalità del vostro paese, e ho sempre sentito una simpatia irresistibile per la vostra nazione. L'Inghilterra è l'asilo di tutti gli uomini liberi. Non ci vogliate usare scortesia, aggiunse abbandonando le mani che teneva strette nelle sue - qui vi sono uomini che hanno ammirato il vostro coraggio, e che sanno di dovervi rispettare .... Sono lieto di aver fatto il vostro incontro, e vorrei dimostrarvi in qualche modo la gratitudine che ho pel vostro paese .... Il governo pontificio in Italia mi offre un posto di capobanda con un corpo di quattrocento uomini; io sono disposto a cedervi il comando di questa onesta brigata ... accettate? - No, mormorò Rosen, è impossibile ...; dei legami di famiglia .... dei doveri ... duolmi sinceramente di dover respingere un'offerta così onorevole; anzi io devo accommiatarmi; sono atteso per stassera al villaggio. - Bene, bene, disse l'altro, sia come non detto; aggradite ad ogni modo prima di partire un attestato della mia ammirazione per voi e della mia gratitudine pel vostro paese. Così dicendo si tolse dal dito un anello di molto valore, e lo fece passare nel dito di Rosen; quindi, riconsegnandogli le sue pistole, ordinò a due dei suoi soggetti che lo accompagnassero fuori del bosco per difenderlo da qualunque malvivente; e lo abbracciò con effusione, mentre molti dei masnadieri venivano a stringergli la mano e offrirgli rispettosamente i loro servigii. * * * Rosen, giunto a casa, si pose a letto; era malato, aveva la febbre: ciò che gli era successo era stato superiore a tutte le sue previsioni più scoraggianti. Oramai gli era venuto meno il coraggio di tentare altre vie, e doveva risolversi a tornare in Inghilterra. Dieci giorni dopo stava per riprendere il suo viaggio, quando gli giunse all'orecchio la notizia di un disastro accaduto in quel giorno lungo la via che egli doveva percorrere. Una carrozza, il cui cavallo aveva perduto il freno era precipitata, in un abisso profondissimo che costeggiava la strada, e che era chiamato il Picco del diavolo; non una persona si era salvata. Una nuova luce si fece allora nella mente di Rosen; andò a visitare quell'abisso, e conobbe che era impossibile sopravvivere a quella caduta: risolse sull'istante, uscì solo in vettura, spinse il cavallo alla carriera più concitata, e si precipitò giù dal picco. La carrozza, discendendo orizzontalmente, si impigliò nelle liane che crescevano lungo il fianco dell'abisso, e si rovesciò rimanendovi sospesa, quando non rimaneva più che un terzo della rupe a raggiungere il fondo. Rosen ne fu sbalzato fuori, e cadde sul corpo del cavallo che era morto. Raccolto da alcuni terrieri fu trasportato all'albergo, dove aveva lasciato Lamperth. Da principio fu creduto estinto, ma alcune ore dopo la sua caduta rinvenne; e il chirurgo constatò che si era spezzato il femore sinistro, e che era d'uopo amputare la gamba nello spazio di quattro ore, prima che si sviluppasse la cancrena di cui avrebbe dovuto morire. Quando Rosen, che era già poco meno che morto per la meraviglia di ritrovarsi vivo, udì parlare della cancrena, sentì finalmente che tutto era finito, che tutto era compensato; e rivolgendosi al chirurgo gli disse: - Voi potete ritirarvi .... io non mi farò amputare mai .... io sono vile dinnanzi al dolore .... preferisco morire. - Pensateci, rispose l'altro, ripasserò fra due ore, e mi lusingo che sarete di parere diverso. Partito il chirurgo, Lamperth entrò nella stanza dove Rosen era stato lasciato solo; e levandosi gli occhiali dal naso, ciò che non era solito fare che nelle circostanze solenni, e assumendo un nuovo tuono di voce gli disse: Signor Alfredo di Rosen, è tempo che noi definiamo la nostra posizione, è tempo che io cessi dal rappresentare una parte che mi affligge per quanto sia doverosa, e che io desista da una finzione che è oramai divenuta inutile. Io sono un'agente della Società d'assicurazione. Quando ella è venuta ad assicurare la vita di sua moglie, la nostra società non ignorava la di lei posizione finanziaria e le gravi perdite che ella aveva subite al giuoco nella notte precedente. Si sospettò ciò che era vero, che ella volesse, cioè, ingannare la società con una morte volontaria; e io fui incaricato di seguirla e procurarmi le prove che avessero constatato questa determinazione. Questa è la lettera che ella mi ha incaricato di rimettere alla signora baronessa sua moglie, e nella quale ella dichiara di voler morire spontaneamente per darle diritto all'assegnamento vitalizio. Ancorché ella avesse ora a morire, a questa lettera che i doveri della mia qualità m'impongono di consegnare alla società, priverebbero la signora Rosen di qualunque compenso. Ella intende ora che non le rimane una via più onorevole e più doverosa che quella di sottoporsi a questa amputazione e di tentare di vivere per compiere quei doveri di uomo e di marito che ha troppo trascurato finora. In quanto a me io non ho fatto che obbedire alle esigenze della mia carica. Rosen stette lungo tempo senza poter rispendere, tanto il dolore, lo sdegno e la meraviglia lo avevano reso muto e agghiacciato. Quando fu in grado di pronunciare alcune parole, disse: Oh Lamperth, voi mi avete rovinato .... Un colpo simile in questo momento! ... una rivelazione di questo genere nell'istante in cui io stava per raggiungere la mia felicità! ... ah, voi avete un cuore di tigre, Lamperth! ... fingere in questo modo ... trascinarmi a questo punto ... senza una gamba! ... Ma noi ci batteremo, per l'inferno noi ci batteremo; io vi domanderò conto di questa indegna simulazione. - È inutile, non avrete più che una gamba. - Ci batteremo alla pistola, seduti. - Via, via, disse Lamperth riponendosi gli occhiali; sono un padre di famiglia io, ho sette figli, e ci penso alla mia vita e a miei doveri. Voi avete profusa una fortuna, avete tenuta una condotta riprovevole, avete tentato d'ingannare una società di onesti speculatori, l'avete tentato a costo della vita degli altri; vergognatevi, io sento in questo momento tutta la superiorità morale che ho sopra di voi .... Non costringetemi ad abusare del vostro stato. - Avete ragione, esclamò Rosen piangendo come un fanciullo, oh! avete ragione; voi siete ciò che io non sono più, un uomo onesto ... Io vedo troppo tardi il male che ho fatto. - No, no, non è troppo tardi, riprese in tuono affettuoso Lamperth, tornandosi a levare gli occhiali, e stringendo le mani del malato. Ecco qui, io vi restituisco la lettera che vi accusa dinanzi alla società; voi guarirete, me ne ha accertato il chirurgo; e io vi farò ottenere un posto elevatissimo in questa stessa società di cui avete voluto eludere le disposizioni. Potrete essere ancora felice, perché potrete ancora meritarlo. Due mesi dopo, Rosen amputato e guarito, ritornava in Inghilterra, dove Lamperth che ve lo aveva preceduto, manteneva la sua promessa. La natura che gli aveva ricusato fino allora le gioie della paternità gli diede ora dei figli. Lamperth divenne il suo subordinato e ad un tempo il suo amico. Nulla turbò più da quel giorno la sua vita. Alfredo di Rosen è il più esemplare dei padri e dei mariti.

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