Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Lui abbatteva gli alberi, li scheggiava, e la moglie raccoglieva la legna, la portava nel posto e preparava la catasta, con la rocchina attorno per tenerla ben legata, e vi stendeva su la pelliccia con piote o piallacci. Il marito l'aiutava a far la bocca in alto alla catasta e i buchi per darle sfogo, e appiccava il foco. Lavoravano così tutta l'annata, contenti di guadagnarsi il pane onestamente. Sarebbero stati felici se avessero avuto un figliolo. E mentre la catasta ardeva, sdraiati per terra, essi facevano tanti bei castelli in aria: - Quando avremo un bambino ... - O una bambina ... - Tu prenderai un garzone. - E tu starai in bottega, in città. - Tu condurrai il carbone ... - E tu lo venderai ... - Se sarà un bambino, gli faremo apprendere un altro mestiere. - Se sarà una bambina ... Carbonaia, carbonaina, Sotto il nero, pelle fina. Tra piallacci e tra piote, Voi ci avete una bella dote; Ne faremo una Regina, Carbonaia, carbonaina! La moglie cantava cosi; le parole erano allegre, ma la cantilena era triste. E il marito ripigliava: Carbonaio, carbonaino, Sotto il nero, viso fino. Tra piallacci e tra piote, Tu ci avrai una bella dote; Ne faremo un Principino, Carbonaio, carbonaino! Le parole erano allegre ma la cantilena era triste. Di tanto in tanto, egli si alzava per osservare l'andamento del loco, e soggiungeva: - La catasta arde bene. Otto giorni dopo, tornando dalla città dov'era andato a vendere il carbone, il marito portava un grosso involto sotto il braccio. - Che bel regalo mi hai comprato, marito mio? - Indovina, moglie mia. - Una veste di mussola? - Ma che! - Un coscetto di abbacchio? - Ma che! Lasciami vedere. Che sarà mai, se lo posi con tanta cautela sul letto? - Ti ho portato un figliolino. - Di cenci? - Di carne e ossa. Guarda! Era davvero un bel bambino roseo, biondo, che dormiva saporitamente, avvolto in pannilini finissimi, orlati di trine. - E chi te l'ha dato? - L'ho trovato tra l'erba, su l'orlo di un fosso. - Sarà la nostra fortuna. - Gli vorremo bene come a vero figliolo. - Ma, per allattarlo? ... - Compreremo una capra. La capra, in poco tempo, si affezionò talmente al bambino, che andava a porgergli i capezzoli assai meglio di una nutrice. La carbonaia glielo posava per terra su una coperta di lana e quella, appena lo sentiva vagire, accorreva e sceglieva la posizione più comoda perché il bambino poppasse. Ciò pareva un miracolo al marito e alla moglie, che, al veder crescere quella creaturina sana, vispa e bella, ripetevano ogni giorno: - Sarà la nostra fortuna! La donna ora, dovendo badare al bambino, non poteva più aiutare, come prima, il marito nel far la catasta, la rocchina per tenerla ben legata, né a stendervi su la pelliccia con piote e piallacci. Avevano preso un garzone. Il bambino, cresciuto, era diventato un frugoletto. Correva qua, montava là, si arrampicava agli alberi, non stava cheto un momento. E spiccava certi salti, come una cavalletta; per questo, col nome di una di esse, lo chiamarono Saltacavalla. Più cresceva e più frugolo diventava. - Dov'è Saltacavalla? - Era qui un momento fa. - Tu non lo tieni d'occhio abbastanza! - E tu lo vizi con le carezze! - É così buono! - É così buffo certe volte! - Ora appicco foco alla catasta. - Ehi! Ehi! Adagino, ci sono io! Dov'era andato ad accovacciarsi? In cima alla catasta, dentro la buca. Aveva preso di mira il garzone e gliene faceva di ogni specie. Gli nascondeva le scarpe nei mucchi di carbone; gli faceva sparire la camicia o i calzoni, che andava ad appendere in cima a un albero, dove non poteva arrampicarsi altri che lui. E dopo averlo fatto ammattire un bel pezzo, esclamava: - Toh! Hanno messo bandiera bianca lassù! La camicia sventolava proprio come una bandiera. - Toh! C'è là, in alto, lo spauracchio pei passeri! Erano i calzoni infilati a due rami. I carbonai, mal trattenendo le risa, non riuscivano a sgridarlo. E Saltacavalla si faceva pregare un po' prima di arrampicarsi lassù, e di restituire al garzone calzoni e camicia. La donna gli lavava mani e faccia due, tre volte al giorno; ma dopo pochi minuti Saltacavalla era nero, mani e faccia, peggio di un piccolo carbonaio. E se la mamma e il babbo - egli non sapeva che non fosse loro figlio - lo sgridavano, Saltacavalla faceva smorfie e gesti così strani, torcendo il muso, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, che non era possibile rimanere seri; e tutto finiva in una grande risata. Rideva anche il garzone. - É il nostro divertimento; lasciamolo fare. - Poverino, non ha altri svaghi! - Tieni, è la colazione. Sta' là cheto, almeno mangiando. Saltacavalla prendeva la fetta di pane e il companatico, un pezzetto di Cacio o una mezza cipolla, e cominciava a masticare di mala voglia, quasi non avesse appetito. Tutt'a un tratto, dava un balzo, da quel Saltacavalla che era, e in un attimo eccolo in cima a una quercia, a dondolarsi su un ramo così sottile, che pareva gli si dovesse spezzar sotto. - Quassù, sì, si mangia bene! E faceva bocconi grossi, con tanti forti scoppiettii delle labbra, per mostrare che pappava di gusto. - Scendi giù, ti può accadere una disgrazia! - Intanto schiaccio un sonnellino! Si stendeva tra i rami, incrociando le gambe, tenendosi aggrappato con le mani, e si addormentava. E la povera donna stava a vegliarlo a piè dell'albero, atterrita. Alla discesa, lo prendeva per un braccino, voleva sgridarlo, ma Saltacavalla le faceva una strana smorfia di scusa e la sgridata si mutava in uno scoppio di risa. Or accadde che un giorno si trovò a passare nel bosco il Re con due persone del suo séguito. Avevano smarrito la strada. Vedendo che i carbonai stavano per dar fuoco alla catasta, scese da cavallo e volle assistere all'operazione. Il Re era triste, cupo e non diceva una parola. Non dicevano una parola neppure quelli del séguito, mentre il carbonaio appiccava il foco. Marito e moglie avevano capito che quei signori, vestiti così bene e con quei bei cavalli, dovevano essere personaggi di gran conto; la donna per ciò si tenera in disparte e tratteneva a sé Saltacavalla per impedirgli di farne qualcuna delle sue. A un tratto, Saltacavalla scappa e va a piantarsi a gambe larghe, con le braccia dietro la schiena, in faccia al Re, squadrandolo da capo a piedi: - Tu non sei carbonaio, è vero? Che cos'hai con quel viso scuro? Il Re stese una mano per fargli una carezza. Saltacavalla allungò il muso, cacciò fuori la lingua, sgranò tanto di occhi, e torse il collo a destra e a sinistra. Un lieve sorriso spuntò su le labbra del Re, ma disparve subito. - Me lo dài quel bastone lustro che porti al fianco? Intendeva di dire la spada. Saltacavalla non aveva mai visto spade, e non sapeva come si chiamassero, né a che uso servissero. Il Re tirò fuori del fodero la spada e gliela mostrò per fargli capire che non era un bastone. - É un coltello? Troppo lungo per affettare il pane! Non serve. Guarda il mio: costa due soldi. E cavato di tasca il coltellino, Saltacavalla lo aperse e cominciò a far l'atto di tagliare una, due, tre fette di pane da una pagnotta, accompagnando il gesto con tali smorfie delle labbra, di tutto il viso, torcendo gli occhi, cacciando fuori a più riprese la lingua, che il Re sorrise e stese di nuovo la mano per fargli una carezza. La povera donna era su le spine e accennava a Saltacavalla di smettere, minacciando di picchiarlo. Come se gli avesse detto: - Fai peggio! - É tuo quel cavallo bianco? Me lo dài? E prima che il Re rispondesse, Saltacavalla era in sella, e picchiava con le calcagna sui fianchi dell'animale legato per le briglia al tronco di un albero. L'animale, abituato agli speroni, non si dava per inteso di quei colpettini e rimaneva tranquillo. Saltacavalla si arrabbiava, gridando: - Arri là! Arri là! - E faceva gesti così scomposti, così buffi, cacciando fuori la lingua, agitando le braccia e le gambe, che il Re, non ostante la sua serietà e il suo cattivo umore, fu preso da una vera convulsione di risa; non aveva mai riso tanto da un gran pezzo. Quando poté frenarsi e parlare, disse ai carbonai: - Affidatemi questo ragazzo. Lo porto via con me; ne farò un gran signore. Neppure al Re in persona! risposero insieme marito e moglie. - Lo abbiamo allevato col nostro sangue. - Non è vero! - gridò Saltacavalla. - Mi hanno detto loro stessi che mi ha allattato una capra. Il Re fu preso da un nuovo accesso di risa. E quando poté frenarsi e parlare, disse. - Vi farò ricchi, lui e voialtri. Questo bambino è stato per me il più gran medico del mondo: mi ha fatto ridere, ed erano anni ed anni che non ridevo. Verrète ad abitare nel mio palazzo. Sono il Re. Marito e moglie sbalordirono. Si confondevano in iscuse. - Perdono, Maestà! Chi poteva immaginare? Ma tutto fini in una gran risata, perché Saltacavalla, sceso giù di sella, si buttava ai piedi del Re, ripetendo in modo buffo, stralunando gli occhi, cacciando fuori la lingua, picchiandosi il petto: - Perdono, Maestà! ... Chi poteva immaginare? Cosi Saltacavalla e i carbonai, marito e moglie, furono accolti nel palazzo reale; i creduti genitori in un appartamentino a pian terreno, che aveva un orto; Saltacavalla in una camera vicina a quella del Re, che lo voleva davanti quasi in tutte le ore della giornata, anche quando teneva consiglio coi Ministri. Gli aveva fatto cucire dal sarto di Corte un bel vestito da paggetto, e dal calzolaio di Corte un paio di borzacchini, che erano gli stivaletti allora in uso. Ma Saltacavalla vi si trovava dentro impacciato, quasi vestito e borzacchini gli impedissero i movimenti. A volte accadeva che il Re lo cercasse per le sale del palazzo senza riuscire a trovarlo. Fruga, chiama, all'ultimo scoprivano Saltacavalla in una terrazza, con indosso i vecchi cenci, scalzo, che correva da un punto all'altro, facendo salti, capriole, mosse buffe ... E siccome lo cercava perché voleva divertirsi con lui, lo lasciava fare e rideva, rideva! Un altro giorno, cerca, chiama: Saltacavalla era sparito. Scorrazzava in fondo al giardino, calpestando aiuole, stroncando rami di piante a cui si afferrava con balzi, riducendo tutto strappi il bel vestitino da paggetto, sgualcendo i borzacchini, facendosi beffe dei giardinieri che avrebbero voluto impedirgli di guastare le aiuole, di sciupare le piante ... Saltacavalla si arrampicava lesto lesto in cima a un grand'albero e rispondeva impertinentemente: - Se non viene qui Sua Maestà, non mi movo! Non mi movo! E manteneva la parola. Ma prima di scendere faceva certe mosse, certe smorfie sempre nuove, che il Re si sbellicava dalle risa, e gli perdonava volentieri l'impertinenza. Avanti dell'arrivo di Saltacavalla, il palazzo reale era triste, silenzioso come un cimitero. Il Re, oppresso da grave malinconia, viveva solitario, appartato nelle sue stanze, dove, a lunghi intervalli, riceveva i Ministri. - Maestà, c'è da far questo, c'è da fare quest'altro. Vostra Maestà permetta ... Il Re accennava di sì col capo e non vedeva l'ora di levarseli di torno. I Ministri per ciò facevano quel che a loro pareva e piaceva. Da che il Re era divenuto un altro per virtù di Saltacavaila, spandeva il buon umore per tutto il palazzo e fuori. Si occupava di ogni cosa, e più non lasciava libertà ai Ministri di fare quel che a loro pareva e piaceva. Dava grandi feste, prendeva parte alle pubbliche cerimonie, accordava udienze anche alle più umili persone. E tutti, meno i Ministri, benedicevano Saltacavalla, che aveva operato quel miracolo. I Ministri si riunirono un giorno segretamente: - Saltacavalla è il nostro malanno! - Quando sarà cresciuto con gli anni, il vero Ministro sarà lui. - Il Re gli vuole così bene, che finirà col dichiararlo suo successore, vedrete! - Non ci mancherebbe altro! Bisogna dar moglie a Sua Maestà! - Dite bene, eccellenza! E la prima volta che furono chiamati a Consiglio, il capo dei Ministri disse: - Maestà, il popolo desidera l'erede del trono. - Non sono vecchio, né malaticcio: ho ancora tempo da pensarci. - Maestà, certe cose è meglio farle presto che tardi. Picchia oggi, picchia domani, il Re si decise a dir di sì. Appena Saltacavalla seppe che il Re aveva mandato a chiedere in isposa la figlia del Re di Francia, si fece avanti stropicciandosi le mani dall'allegrezza: - Maestà, il Re di Francia avrà certamente un'altra figlia anche per me. - Che cosa vorresti farne.* - Oh bella! ... Sposarla. - Sei troppo ragazzo per ora. Bada a crescere. Dopo ... Saltacavalla rimase pensoso, e in tutta la giornata non fece nessuna smorfia da fare ridere il Re. Maestà, son cresciuto di un giorno! - É pochino, Saltacavalla. - Maestà, son cresciuto di otto giorni. - É poco ancora, Saltacavalla! Si avvicinava il mese in cui dovevano aver luogo le nozze del Re, e intanto nel palazzo reale non si faceva nessun preparativo. Il Re, di giorno in giorno, ridiventava di cattivo umore. - Perché non mi fai ridere più, Saltacavalla? - Quando non rido io, non deve ridere nessuno. - E perché tu non ridi più.* - Perché non mi volete dar in moglie una figlia del Re di Francia. - Bada a crescere ... Dopo ... Sono già cresciuto di due mesi! E andava via, triste, a capo chino, più triste di lui. Venne un ambasciatore del Re di Francia per stabilire, d'accordo, il giorno preciso delle nozze. - Non sposo più! - rispose il Re. - Maestà, questo è un affronto; ce ne darete ragione! Non sposo più; prendetela come volete. Il Re di Francia la prese malissimo: mandò a intimargli guerra, e invase subito il regno con numeroso esercito. - Maestà, i nostri soldati sono stati disfatti! - Mandate un altro esercito incontro al nemico. Maestà, i nostri soldati sono stati nuovamente disfatti! Mandate un altro esercito! Si presentò tutt'a un tratto Saltacavalla: - Maestà, date il comando a me! Vi farò vedere io! E faceva gesti di menar la sciabola in tondo e di tagliar teste: - Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Saltava da un punto all'altro della sala, menando pugni e calci, facendo smorfiacce, cavando la lingua in faccia ai Ministri, e tornando a far finta di sciabolare in tondo, di tagliar teste e d'infilare nemici: - Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Il Re cominciò a ridere a ridere ... cominciarono a ridere a ridere anche i Ministri, mentre Saltacavalla continuava: Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Tutt'a un tratto il Re disse: - Saltacavalla sia generalissimo. - Maestà! Maestà! Con l'esercito nemico non si scherza! Saltacavalla sia generalissimo! Di fronte agli ordini del Re, i Ministri non fiatarono più. - Tanto meglio! -- pensarono. - É l'unico mezzo di levarci Saltacavalla di torno! Saltacavalla, tutto ringalluzzito, disse: - Grazie, Maestà! E rivolto ai Ministri, con aria spavalda, soggiunse: - Mi si mandi subito il sarto di Corte! Il sarto, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò che qualcuno si fosse fatto beffa di lui. E stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re, e gli ordinò di eseguire ,quel che Saltacavalla desiderava. - Voglio un paio di calzoni con la gamba destra metà bianca e metà nera, e la sinistra metà rossa e metà gialla ... - Sarà obbedito! - Voglio una divisa metà azzurra e metà verde, con la manica verde dai lato azzurro e la manica azzurra dai lato verde. - Sarà obbedito! - Voglio un berretto a spicchi gialli, rossi, verdi, bianchi, azzurri, e un gran gallone d'oro dattorno. - Sarà obbedito! - Chiamatemi il calzolaio di Corte. Il calzolaio, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò anch'esso che qualcuno si fosse fatto beffa di lui, e stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re e gli ordinò di eseguire quel che Saltacavalla desiderava. - Voglio un paio di borzacchini, quello di destra metà di pelle rossa e metà di pelle gialla; quello di sinistra, metà di pelle bianca e metà di pelle nera. - Sarà obbedito! - E che abbiano la punta aguzza, lunga così ... - Sarà obbedito! Saltacavalla aveva pensato alla divisa, ai calzoni, ai berretto, ai borzacchini, ma né a spada, né a lancia, né ad arma di sorta alcuna. L'esercito era pronto a partire. Saltacavalla aveva già calzato i borzacchini, indossato la divisa, si era messo in capo il berretto a spicchi. - Dove vai, Saltacavalla? - Maestà, vado in cucina. - Per far cosa, Saltacavaila? - Vado a prendere una padella per scudo e uno spiedo per spada. - Come ti piace, Saltacavalla. E si mise a capo dell'esercito con la padella e lo spiedo in ispalla. Cosa strana! Nessuno rideva vedendolo vestito ed armato a quel modo. Prima di mettersi in marcia, egli disse ai soldati: - Quando darò un colpo sul fondo della padella, voi dovete fermarvi; quando ne darò due, precipitatevi all'assalto; quando ne darò tre, cessate di combattere. Chi non mi obbedisce, peggio per lui. Cammina, cammina, arrivarono in faccia al nemico. Saltacavalla diè un colpo sul fondo della padella, e i suoi soldati si fermarono. Egli invece andò avanti con certe mosse così buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, al suo solito, che i nemici cominciarono a ridere, a ridere, a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra ... Allora Saltacavalla dà due colpi sui fondo della padella tan! tan! - e i suoi soldati si precipitano all'assalto e fanno strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza. Quando Saltacavaila diè i tre colpi: tan! tan! tan! dei soldati nemici non ne rimaneva vivo neppure uno. Ma essi erano l'avanguardia. Saltacavalla ordinò di rimettersi in marcia, e, dopo poche ore di cammino, ecco il grosso dell'esercito nemico che non s'aspettava di vedersi arrivare addosso l'avversario. Tan! E i soldati di Saltacavalla si fermarono. E lui si fece avanti con mosse buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua a riprese. E i nemici lo guardano stupiti e poi cominciano a ridere a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra ... Tan! tan! I soldati di Saltacavalla si precipitano all'assalto, e fanno un'altra strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza. Tan! tan! tan! Rimanevano appena un centinaio di uomini che Saltacavalla voleva far prigionieri, e condurli, legati a due a due, al cospetto del suo Re. Ma parecchi dei suoi, inebriati dalla vittoria, non cessarono di combattere dopo i tre colpi, e n'ebbero la peggio. Quell'ultimo centinaio di uomini non rise più, si diè a menar le mani, e fece pagar cara la disobbedienza a coloro. Dovette intervenire Saltacavalla, e fece prodigi di valore. Accoppava con la padella, infilzava con lo spiedo, e in pochi minuti di quel centinaio di nemici non ne rimaneva in piedi neppure uno. Quando si sparse la notizia che Saltacavalla tornava vittorioso, il popolo si rovesciò per le vie, e migliaia di persone gli uscirono incontro fuori le porte della città. Il Re gongolava dalla gioia; ma i Ministri, diventati in viso più verdi di limoni, doverono fingere letizia. Se, col ritorno di Saltacavalla sano e salvo, Sua Maestà riprendeva a ridere e a star di buon umore, la loro cuccagna era finita! Affacciati a un balcone del palazzo reale, ai lati di Sua Maestà, essi si stupivano di non sentire applausi o gridi di evviva ma un rumore indefinibile che diveniva più forte, di mano in mano che pareva si venisse accostando. Erano risate. Alla vista di Saltacavalla, vestito e armato a quel modo, che, dall'alto del suo cavallo di generalissimo, faceva smorfie, stralunava gli occhi, allungava le labbra, cacciava fuori la lingua, e dondolava la testa come un burattino, per ringraziare della festosa accoglienza, il popolo aveva dovuto cessare di applaudire, e rideva, rideva, rideva; e l'onda della risata si propagava rumorosa di mano in mano che Saltacavalla si avanzava alla testa dell'esercito vittorioso. Al clamore delle risate del popolo sotto il palazzo reale si unì ben tosto lo scoppio di quelle del Re e dei Ministri. I Ministri, specialmente, si contorcevano, si davano gomitate e spintoni, si buttavano gli uni addosso agli altri, senza punto riguardo alla presenza del Re. Il Re rideva, si, ma non con quella violenza. I Ministri erano diventati paonazzi in viso, non ne potevano più, soffocavano, e, rientrati nel salone, si buttarono per terra, rotolandosi in convulsioni di risa, poi giacquero. Erano morti! Il Re, paventando che accadesse qualcosa di simile tra la folla, scese incontro a Saltacavalla, che saltò giù di sella, gli depose ai piedi la padella e lo spiedo, e piegò un ginocchio, ma con un gesto così buffo, che le risate della gente raddoppiarono. - Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Vuoi tu farli morire dalle risa, come sono morti i Ministri? - Ah! - fece Saltacavalla. - Poverini! Poverini! E finse di scoppiare in pianto dirotto. Allora, in un attimo, tutta la folla stipata davanti al palazzo reale passò dal riso al pianto. Si udivano singhiozzi ed esclamazioni: - Poverini! Poverini! - E le lacrime venivano giù a torrenti. Scoppiò a piangere anche il Re. Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Saltacavalla fece un gesto di stizza. - Basta, se faccio ridere! ... Basta, se faccio piangere! Il meglio è che me ne vada! - No, Saltacavalla! No! Ma il Re ebbe un bel gridare - No! No! - Saltacavalla, in quattro salti, era già sparito. Il Re capì troppo tardi che quel pianto era anche esso una specie di risata. Attese, attese che Saltacavalla ritornasse; ma Saltacavalla non si fece più vedere. Il Re mandò a chiamare i carbonai marito e moglie che vivevano tranquillamente nell'appartamento a pian terreno, loro assegnato: - Sapete niente di vostro figlio? Quei due credettero che Saltacavalla avesse fatto qualche cattiva azione e che il Re volesse prendersela con loro. - Maestà, perdono! ... - disse il marito. - Ma Saltacavalla non era nostro figlio! Io lo trovai un giorno tra l'erba su l'orlo di un fosso, e lo facemmo allattare da una capra! - Era involtato - soggiunse la moglie - in pannilini finissimi, orlati di trine. Il Re volle vederli. Non aveva mai visto niente di così fine e di così bello. Ma non poté capire altro. E nessuno ha mai saputo chi era Saltacavalla, e da quel giorno in poi non se n'è avuto più notizia! Peccato! Se tornasse ora che si ride tanto di rado! Stretta la foglia, larga la via, Dite la vostra, che ho detto la mia.

SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E l'altro ragazzo cominciava a far l'atto di mietere, movendo le braccia quasi avesse in pugno il manico dell'arnese di cui portava il nome; e il seminato gli si abbatteva davanti, di qua e di là, meglio assai di come sarebbe potuto accadere per opera di una dozzina di mietitori. La gente si meravigliava: - Compare, avete lavorato tutta la nottata? - Badate ai fatti vostri. Come mai quell'uomo riusciva a far tutto da sé? I due ragazzi non potevano dargli nessuna mano di aiuto, anche perché erano gracili e delicati da non sembrare contadini. La cosa giunse all'orecchio del Re che diè ordine gli conducessero davanti quell'uomo e i suoi due figli. - Dimmi (e non mentire; ci va della tua testa!) in che modo tu riesci a coltivare il tuo campo da te? - Maestà, con zappa e falce si fa tutto in campagna. Ma tu, a quel che ne so, non hai né zappa né falce. Questi è Zappa, e questi è Falce. E indicò i due ragazzi, accarezzandone con le mani le teste. Se :non che, sbadatamente, indicò Falce per Zappa e Zappa per Falce. Il Re si sentì canzonato. Pure frenando lo sdegno domandò: - E come fai per adoperarle? Dico: Zappa, all'opra! Zappa! Dico: Falce, all'opra! Falce! - Bene. Tu intanto vai in carcere finché non avrò fatto la prova. I ragazzi li tengo qui, nel palazzo reale. Il contadino si lasciò condurre in carcere, come se nulla fosse stato; e i ragazzi si misero a fare il chiasso col Reuccio e con la Reginotta, che avevano la stessa età di loro. Il Re una mattina fece scendere in giardino il Reuccio, la Reginotta e i due fratelli Zappa e Falce, che il Reuccio e la Reginotta volevano sempre con loro. Il Re disse a questi: - Attenti! Vedrete un portento! Zappa, all'opra! Zappa! Falce, all'opra, Falce! Come se avesse parlato al muro! Falce non si mosse; Zappa non voltò neppure la testa! Il Reuccio e la Reginotta si misero a ridere vedendo la faccia delusa del Re. Uno dei Ministri, per ordine del Re, andò dai contadino che se ne stava sereno in carcere, in attesa di essere liberato. - Sua Maestà ha ordinato ai tuoi figli: Zappa, all'opra! Zappa! Falce, all'opra! Falce! Ed essi son rimasti tranquilli come se non avesse parlato a loro. - Gli ordini devo darli io. Mi faccia sapere Sua Maestà se ha bisogno di Zappa o di Falce, ed io lo servirò subito. - Di Falce. E, intanto, ingannato dall'indicazione sbagliata del contadino, aveva messo Zappa davanti a una stesa di fieno da mietere. Si udì dal carcere il grido: Falce, all'opra! Falce! E che si vide? Zappa rimase inerte, con le braccia penzoloni, e Falce che agitava le sue e abbatteva nel giardino reale tutto quel che gli si presentava davanti: fiori, piante, alberetti, alberi, ogni cosa; una vera distruzione! Il Reuccio e la Reginotta scapparono, gridando, atterriti. Il Re credé che ciò fosse avvenuto per malignità del contadino, e gli mandò a dire con uno dei Ministri: - Domani sarai impiccato. - Grazie tante! - rispose il contadino. - La prendi in burletta? Domani sarai impiccato. - Eccellenza, quel che fa Sua Maestà è sempre ben fatto. Per ciò ripeto: Grazie tante! - Dei figli non ti dài pensiero? Avessero almeno la mamma! Tua moglie è morta da un pezzo? - Non ho avuto mai moglie, Eccellenza! - E quei due ragazzi dunque? ... - Li ho trovati in una cesta dietro l'uscio. Chi sa di chi sono? Se Sua Maestà li vuole, glieli regalo. Il Re disse: - Costui è matto! E ordinò che lo mettessero in libertà. - Prima di uscire di qui, devo parlare col Re. - Verrai al palazzo reale. - Prima di uscire di qui, devo parlare col Re. Vista l'ostinatezza del contadino, il Re andò al carcere. Che poteva voler dirgli quel matto? - Maestà, quei due ragazzi non sono uomini vivi. Il Re si mise a ridere. - Ecco questi due oggettini di argento: una zappa e una falce. Per farvi obbedire da essi, prima di dare un ordine: "Zappa, all'opra! Zappa! Falce, all'opra! Falce!" bisogna prendere in mano uno di questi arnesi: se no, quelli non si muovono. Il Re, credendo che tutto questo fosse una stranezza da matto, si mise a ridere più forte. - E chi li ha fatti quei fantocci, giacché non sono uomini vivi? - Li ha fatti il Mago, mio padrone. Egli è morto e son rimasti a me. Il Re allora volle far la prova. Mandò a chiamare Zappa e Falce, e ordinò: - Zappa, all'opra! Zappa! Zappa non si mosse. - Falce, all'opra! Falce! Falce non si mosse. Presa poi in mano la zappettina d'argento, tornò ad ordinare: - Zappa, all'opra! Zappa! E fu una meraviglia. Il ragazzo cominciò ad alzare e abbassare le braccia quasi avesse in mano il manico dell'arnese di cui portava il nome, e in men che non si dica il suolo di quella stanza fu sossopra. Il Re non sapeva dove riguardarsi i piedi. - E per farlo smettere? - domandò. - Lasciate andare la zappetta d'argento. Infatti, tutt'a un tratto, Zappa cessò di lavorare. Non occorse far la prova con Falce. Visto che quel contadino non era un matto, il Re gli disse: - Chiedi quel che vuoi; e ti sarà concesso. - Non chiedo niente. Me ne vado dal mio padrone. Si allungò, ondeggiò quasi fosse stato di fumo e dileguò dalla grata del finestrino del carcere. Il Re si convinse che il Mago era lui, il contadino. E tornato a palazzo reale fece un decreto: - Chi vuole Zappa, chi vuole Falce, faccia richiesta al Re: gli saranno concessi. Voleva che coloro che avevano campi da zappare e da falciare godessero di quel benefizio. Da principio la gente diffidò, quantunque vedesse coi propri occhi il portentoso lavoro di Zappa e di Falce. Poi uno, poi due, poi dieci, venti proprietari di campi si decisero; si contendevano Zappa, si contendevano Falce, secondo le stagioni. E i poveri zappatori, i poveri mietitori trovavano a stento da lavorare perché Zappa e Falce facevano meglio e più presto di loro. Nacquero dei tumulti. - Morte a Zappa! Morte a Falce! E una mattina, cerca e chiama: - Zappa, o Zappa! Falce, o Falce! - i due fratelli erano spariti, non si seppe mai come, né dove. Ma la fiaba dice: Zappa e Falce torneranno Zapperanno e falceranno; Falceranno, zapperanno Tutto l'anno!

Il Marchese di Roccaverdina

662609
Capuana, Luigi 1 occorrenze

E, nei giorni scorsi, mentre il piccone dei manovali abbatteva le pareti della sua camera, non si era sentito stringere il cuore ... ? «Ho torto! Vada via! Lontano! ... Vada! ... E se ella avesse l'audacia ... » Ma quella sera, al vedersela improvvisamente davanti, avvolta nella mantellina nera e vestita a lutto, nell'andito del portoncino dov'ella lo aveva atteso quasi un'ora, sapendo che doveva arrivare da Margitello, al sentirsi salutare don voce commossa: « Voscenza benedica! » , il marchese non ebbe animo di passare sdegnosamente innanzi, né di fare un gesto o di dirle un'amara parola che la scacciasse. L'umile atteggiamento, il suono di quella voce che, non udita da un pezzo, gli ronzava da qualche giorno nell'orecchio col ricordo di parole e di frasi evocate suo malgrado (egli stesso non avrebbe saputo dire se per rimpianto, o per indignazione, o per rigurgito di odio), lo sopraffecero, anche perché lo coglievano alla sprovveduta. «Che fai qui? ... Perché non sei entrata?», le disse in risposta al saluto. «Volevo almeno vederlo ... Per l'ultima volta!» «Entra! Entra!» La voce del marchese si era già alterata, e il gesto era diventato brusco, imperioso. Mamma Grazia, accorsa ad aprire l'uscio al tintinnio dei sonagli delle mule e al rumore delle ruote della carrozza, indietreggiò spalancando gli occhi vedendoseli apparire insieme, e non poté trattenersi dall'esclamare sotto voce: «Oh, Vergine santa!». Agrippina Solmo la salutò con un cenno della testa, inoltrandosi dietro al marchese tra le impalcature e gli arnesi da muratori che ingombravano le stanze, fino alla sala da pranzo, rimasta intatta, dove il marchese si fermò, sbatacchiando nervosamente l'uscio per chiuderlo. «Volevo almeno vederlo ... per l'ultima volta», ella replicò tra i singhiozzi irrompenti. «Sto per morire, forse?», disse il marchese con cupa ironia. «Per te, lo so, sono morto da un pezzo!» «Perché, voscenza ?» «Perché? ... Non avevi giurato?», egli proruppe. «Ti ho costretto con la forza quel giorno? Ti feci una proposta. Potevi rifiutarla, rispondermi di no!» «Ogni sua parola era comando per me. Ho obbedito ... Ho giurato, sinceramente.» «E poi? ... E poi? ... Nega, nega, se hai coraggio!» «Per Gesù Cristo che deve giudicarmi!» «Lascia stare Gesù Cristo! Nega, nega, se puoi! ... Ti sei data ... a tuo marito, come una sgualdrina! Non era, non doveva essere marito di apparenza soltanto? ... Lo avevate giurato, tutti e due!» «Ah ... Voscenza! » «Tu, tu stessa me l'hai fatto capire!» «Com'è possibile?» «Ti faceva pena! Ti sembrava avvilito davanti alle persone! Me lo hai detto più volte.» «È vero! È vero! Ma pensi, voscenza ! ... Da prima, niente; come due estranei, come fratello e sorella. Spesso lo vedevo appena mezza giornata, le domeniche ... Dopo quattro o cinque mesi ... oh! sembrava scherzasse: "Bellavita, eh? Ho sotto gli occhi la tavola apparecchiata e debbo restare digiuno!". Io lo lasciavo dire. E poi, di tratto in tratto, mordendosi le mani: "Ci voleva il santissimo ... del marchese di Roccaverdina per farmi fare questo sacrificio!". E una volta: "Vi pare che io non indovini che cosa dice la gente? Quel cornutaccio di Rocco!". Gli risposi: "Dovevate pensarci prima! ... ". "Avete ragione! ... ". Pensi, voscenza. Sentirlo parlare così! ... Non ero di bronzo!» «E allora? ... Allora? ... Non me ne dicevi niente però!» «A che scopo? Perché voscenza andasse in collera? ... » «E ... poi?» «E poi ... Ma pensi, voscenza ! ... Un giorno gli risposi: "Femine ne avete quante volete ... Chi v'impedisce? ... Non vi bastano?". Si mise a piangere; come un bambino piangeva, imprecando: "Sangue ... qua! Sangue ... là! Dobbiamo finirla questa storia! Non reggo più! ... Che cuore avete dunque?". Che cuore? Non glielo davo a vedere, ma piangevo, di nascosto, pel peccato mortale in cui vivevo ... » «E per lui pure! ... Dillo! Confessalo!» «Niente! Niente, voscenza ! ... No», ella soggiunse dopo breve pausa, «non voglio mentire! ... Ma il Signore ci ha castigati ... per la mala intenzione soltanto! E, quella notte, non lo fece arrivare a casa! ... Oh! ... Saremmo venuti da voscenza, a pregarlo, a scongiurarlo ... Tanto, a voscenza che le è più importato di me? ... Il mio destino ha voluto così! Sia fatta la volontà di Dio! ... Ed ora, si perderà di me anche il nome. Vado via, in un paese dove nessuno mi conosce; per disperazione vado via ... Se un giorno però ... Serva, serva e nient'altro! Ah! Vorrei dare il mio sangue per voscenza !» Il marchese l'aveva ascoltata con crescente ansietà, stringendo tra i denti il labbro per non irrompere; e quando, fermatasi un istante, ella aveva subito soggiunto: «No, non voglio mentire!», il sangue gli aveva dato un tuffo, quasi egli dovesse vedere compirsi di nuovo l'infame tradimento e proprio sotto i suoi occhi. Stette immobile, senza fiato. Immediatamente però il petto gli si gonfiava con un gran respiro di tetra soddisfazione. Aveva colpito a tempo! Aveva impedito che il tradimento fosse compiuto! ... Ma la intenzione, la mala intenzione, c'era dunque stata! E, chi sa? - non osava di confessarglielo - essa rimpiangeva ancora il morto! Un feroce pensiero gli attraversò la mente: impedirle di sostituire il morto con un vivo! Tenersela sempre schiava, e colmarla di disprezzo, non guardandola neppure in viso! Quei singhiozzi, quelle lagrime, quelle proteste erano certamente menzognere! E già stava per dirle: «Non sposare! ... Resta!». Si trattenne a stento. Agrippina Solmo gli si era accostata umilmente, asciugandosi le lagrime; e, presagli una mano, gliela baciava con labbra gelide e convulse: « Voscenza benedica ! E il Signore le dia tutte le felicità ... se è vero che sposa!». Un lieve senso di tenerezza lo invase al contatto, ed egli ritrasse lestamente la mano. E prima che maggiore commozione lo vincesse, al gesto di commiato, fece seguire, con voce turbata, queste sole parole: «Se, per caso ... avessi bisogno ... Ricordati! ... ».

SCURPIDDU

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Ora, in certe serate di vento, gli sembrava di non essere più alla masseria, tanto quel vasto stormire degli ulivi nella vallata somigliava al rumore del mare che si abbatteva su i massi della diga in Catania, Col permesso della massaia, aveva strappato ai galli del pollaio le belle piume ritorte della coda e se le era adattate al berretto capricciosamente, alla foggia dei bersaglieri. E con esse in capo conduceva i tacchini al pascolo, facendoli marciare di corsa, e suonava lui la marcia, imitando le trombe dei bersaglieri col pugno davanti a la bocca, quasi suonasse davvero una tromba. Non pensava più alle coroncine. Aveva reso le tre lire allo zi' Girolamo, e col po' di fil di rame rimastogli, si era fatto una bella catenella, a cui aveva legato lo zùfolo che ora portava in una tasca del panciotto. Ogni sera, lettura. E appena si trovava col Soldato , lo interrogava: - I bersaglieri corrono sempre così?, - Si arràmpicano come capre. Sono i migliori soldati. - E le manovre? Voleva sapere tutto della vita militare; come i soldati dormivano, come mangiavano, come si divertivano, tutto! - E il re che fa alla guerra? - Il soldato anche lui, a cavallo, coi generali. coi colonnelli, alla pioggia e al sole, dando ordini a tutti. Il Soldato descriveva le cose a modo suo, spesso esagerando un pochino. Si era trovato alla presa di Roma, davanti a la barricata di Porta Pia, ed era stato ferito leggermente a una gamba. Si vedeva ancora la cicatrice, ed egli la mostrava con orgoglio. - Se avessi ripreso la ferma, sarei andato anche in Africa. E ora forse non sarei qui, ma tra i morti, laggiù. Là sono selvaggi, neri come la pece ... Sono bestie feroci; non hanno paura della morte. Questo dispiaceva a Scurpiddu : che alla guerra si dovesse morire, - A chi tocca, tocca! - diceva il Soldato , - Tanto si muore dappertutto. Tuo padre è morto cascando da un albero. Meglio alla guerra. Una palla ti fredda, e tu non t'accorgi di niente! E si fa guerra ogni giorno? - Ogni mill'anni! ... C'è soldati che non hanno mai visto il fuoco. Ce n'è che sono stati dieci volte alla guerra e non hanno mai avuto una scalfittura. A chi tocca, tocca! Scurpiddu si rasserenava, quasi avesse dovuto partir domani per la guerra. A chi tocca, tocca! Dovea toccare proprio a lui? Giacchè l'idea di andar Soldato gli ribolliva nella fantasia dal giorno che aveva visto i bersaglieri. Voleva vedere un po' di mondo, come tant'altri, - e a spese del re - soggiungeva. Per lui, come per tutti i contadini, il re era il governo. I quattrini delle tasse non se li prende il re? E se li prende per mantenere i soldati, per fare quel che gli pare e piace. Chi arresta la gente? Il re, Chi mette in carcere i ladri e gli assassini? Il re. Il re fa pure impiccare. Il padrone è lui; lo aveva detto tante volte il massaio. - Com'è il re? - domandava Scurpiddu al Soldato . - Un uomo come te e me, con tanto di baffi e certi occhi che pare ti vogliano mangiare. - Chi l'ha fatto il re? - C'è nato. Noi nasciamo contadini; e quelli nascono re. Sorte! - Ma ... lui chi lo chiama per fare il soldato? - Comanda, non fa il soldato. Il figlio del re è quasi ragazzo, e intanto è generale. Sorte! Ma pure un soldato semplice può diventare generale; prima caporale, poi sergente, poi luogotenente, poi capitano, poi maggiore, poi colonnello ... . - Ora che non ho ne padre nè madre, io sarò nella leva, è vero? - Ti scarteranno, se non cresci. Sei un ranocchio. Glielo diceva per ischerzo, Scurpiddu veniva su diritto come un fuso, mingherlino sì, ma forte e ben fatto. E si sforzava di prendere aria militare con quel berretto piumato che voleva essere un cappello alla bersagliera. Era però sempre un ragazzo dalla fantasia facile ad accendersi, mutabile. L'idea di entrare nella milizia ora lo spingeva alla lettura. Si immaginava, dai discorsi del Soldato , che, sapendo lèggere, lo avrebbero fatto subito caporale. E non voleva perder tempo. Un giorno Don Pietro, prima di dire la messa, gli domandò: - È vero che hai già appreso a lèggere? Sentiamo. Scurpiddu cavò sùbito fuori il sillabario, che portava sempre in tasca ed era ridotto molto male. Leggeva cantilenando, strascicando un po' le sillabe e le parole, strapazzando un po' gli accenti. E di tratto in tratto si fermava per alzare la testa e fissare Don Pietro negli occhi. - Bravo! Avanti! Bene! E Scurpiddu riprendeva a lèggere, lieto dell'approvazione del prete. - Queste qui sono le figure, - s'interruppe all'ultimo. - Ecco il leone, ecco il bue, - Nuova-legge dello zi' Girolamo, tal quale - C'è pure ... E sfogliava il libro lestamente. - C'è pure il Guappo , guardate, quando fa la ruota! Lo chiamano tacchino. È vero Soldato , che tacchino vuol dire nuzzu ? Don Pietro sorrise. - Ma non si lègge cantando - gli disse; - si canta l'ufficio. Devi lèggere piano, come parli, Scurpiddu si sentì offeso. - I soldati lèggono così; mi ha insegnato lui, - rispose, additando alteramente il maestro. Ormai il sillabario egli lo sapeva tutto a memoria. E sotto gli ulivi di Piano del Galluzzo o all'ombra del gelso bianco, lo ripeteva ad alta voce, senza più guardare il libro. C'era, fra gli altri, un raccontino intitolato: La mamma è morta ! che lo commoveva fortemente. Si trattava d'una bambina che chiedeva l'elemosina e rispondeva così a un signore che le domandava: Dov'è la tua mamma? Anche lui aveva chiesto l'elemosina, anni fa: e la sua mamma pure era morta! Se ne rammentava come di un avvenimento assai lontano, e che non gli aveva lasciato profonda traccia nell'animo. Certe volte - tutt'a un tratto - gli passava davanti agli occhi la rapida visione della sua infanzia, della straducola che sbucava nel piano di S. Maria, dei bambini cenciosi e seminudi o nudi affatto che facevano il chiasso, al sole, insieme con lui, insudiciandosi con la creta, con la polvere, mentre le loro mamme filavano in crocchio chiacchierando e cantando. E allora egli rideva la sua, giovane, bruna, coi neri capelli tirati in su che luccicavano al sole, lasciando libera la fronte: e gli risuonavano nell'orecchio le lunghe risate che ella faceva, e le belle canzoni che cantava con vocina limpida e intonata; una mamma, ahimè, molto diversa da quella riveduta parecchi anni dopo, invecchiata avanti il tempo, irriconoscibile, e che se n'era andata via per sempre quasi all'insaputa di lui! Visioni d'un istante, che gli facevano battere rapidamente le palpebre e tremare un po' il cuore. Poi il presente lo riafferrava, lo distraeva, coi tacchini che si azzuffavano, con Paola che si prendeva troppa libertà di vagare lontano dal pascolo, di confondersi su per gli ulivi e su pei mandorli con le tàccole selvatiche, di fare un po' la sorda quand'egli la richiamava; e anche con tutte le fantasticaggini che gli ribollivano nella mente ora che egli si sapeva possessore di una somma assai grossa per lui: quaranta lire. Otto carte da cinque, nuove nuove, ricavate dalla vendita dei suoi tacchini! Se le avesse avute nella tasca, le avrebbe contate e ricontate; ma gliele teneva in serbo la massaia, perchè lui non le smarrisse. Le contava però e le ricontava mentalmente. Con l'anno nuovo, il massaio gli avrebbe dato anche il salario: quattro piastre all'anno ... .quarant'otto tarì ... .quasi ventiquattro lire, oltre il mantenimento! Con esse avrebbe potuto farsi un vestito e un paio di scarpe. E poi, tra altri due anni, otto piastre ... tre once e sei tarì ... ..novanta lire all'anno, come il Soldato , come gli altri garzoni di masseria ... se non lo prendevano nella leva. Perchè avrebbero dovuto rifiutarlo? Oltre il sillabario, sapeva anche quasi tutto a memoria un altro libro che gli aveva prestato il Soldato , Istruzione per le armi di fanteria . Ne capiva poco, ma non voleva dir niente. - Dovresti piuttosto imparare la dottrina cristiana, - gli disse un giorno Don Pietro. - Ti porterò il libriccino io, domenica ventura. Tu cresci come un turco. Dovrai confessarti, far la prima comunione; non sei neppur cresimato! Che ti giova sapere quante parti ha un fucile? - Per quando sarò soldato. - Bel mestiere! Mestiere di ammazzar la gente e di farsi ammazzare. Scurpiddu guardò il Soldato ; toccava a lui rispondere. - E San Sebastiano? E San Martino? Non erano forse soldati? - quegli disse. - Ma erano anche santi. Tu, per esempio, non sei uno stinco di santo, tu! E ti chiamano il Soldato . Dico: bel mestiere! Per chi non vi è costretto dalla legge. Se fossimo cristiani davvero, ci sarebbe bisogno di soldati? Ognuno farebbe il proprio dovere, ognuno sarebbe contento dello stato in cui Dio l'ha fatto nascere, e si vivrebbe tutti in santa pace, Ma siamo peggio dei pagani. Il mio è mio, e il tuo è mio; ecco perchè si fanno le guerre! E con le guerre vengono poi tutti gli altri guai! Castigo di Dio! E andremo di male in peggio, figliuolo, se non si muta strada! - Il mondo è stato sempre così, caro Don Pietro!- intervenne massaio Turi, con la faccia bonaria sorridente. - Ha le gambe storte, come i cani, e nessuno può raddrizzargliele. - No, no. Il Signore perchè ci ha dato dunque la ragione? Perchè è venuto Gesù Cristo a predicare il Vangelo? Le gambe dobbiamo raddrizzarcele da noi, facendo il nostro dovere, sforzandoci di essere uomini, non bruti. Scurpiddu stava a sentire. Gli sembrava che il Soldato però non avesse saputo rispondere bene a Don Pietro, e che si fosse lasciato imbrogliare da lui. Si rammentava di aver sentito parlare di soldati del Papa. Il Soldato era stato ferito alla gamba da loro, alla presa di Roma. O allora? ... Non era cristiano neppure il Papa? E non si potè trattenere dal dirlo. - Il Papa un tempo era re, - rispose Don Pietro un po' imbrogliato, - e doveva avere soldati. Ora Domineddio ha voluto che non sia più re, ed è meglio ... forse. Noi dobbiamo badare ai fatti nostri. E tu bada ai tacchini, sciocco; e non dar retta al Soldato che è più ignorante di te. Scurpiddu , zitto zitto, si rimise in tasca il sillabario

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Egli cozzava, rompeva, abbatteva ogni ostacolo, impiegando a tal uopo, con istinto taurino, la catapulta di un cranio resistente ad ogni urto. Imaginate il terrore di quella apparizione, in una folla esaltata dagli entusiasmi politici e dai fumi del vino! Dove la gente non era lesta a sgombrare, il gigante si faceva largo coll'impeto della persona, colle irruzioni del capo, colla violenza dei calci. I più accorti tentavano schermirsi da lui passandogli fra le cosce o saltandogli sul capo per scivolare al suolo tra le curve della schiena interminabile; ma i fortunati ai quali riusciva di salvarsi, se la davano poi a gambe esterrefatti, annunziando il finimondo e la comparsa dell'anticristo. Quello sgomento generale aveva fatto passare la generale ubbriacatura; in meno d'un'ora il vasto agro di Stradella e di Broni si era mutato in un deserto. La popolazione che prendeva il largo, sbandandosi pei vigneti e cercando rifugio nei letti dei fiumi, verso le otto della sera fu colpita da un nuovo terrore. Nell'impeto bestiale della corsa, il gigante aveva dato il capo in un campanile, quattro metri più alto di lui. La torre era crollata, ma anche il grosso cranio, con tanta sapienza di mezzi chimici confezionato dal Piria. si era spezzato nell'urto. Slanciando il suo uomo chimico-meccanico, il dabben Piria non aveva riflettuto che in ogni essere animato la percezione sensuale non può svilupparsi che gradatamente. Per la conservazione di quel mostruoso fenomeno vitale si esigeva un trattamento di neonato; supponendo in lui ingenita quella facoltà di discernimento che può formarsi soltanto nell'adulto per una successione di esperienze, l'illustre primate vide sfasciarsi in un attimo la più ardita creazione che mai fosse concepita e realizzata dal genio umano. Coll'ultimo muggito del gigante chimico-meccanico, e col fragore di un campanile in rovina, a Stradella ed a Broni ebbe fine in quella notte il baccanale rivoluzionario degli equilibristi. A dieci ore l'ordine più perfetto regnava nell'acro.

La tregua

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Levi, Primo 1 occorrenze

Viveva come i nostri lontani progenitori: tendeva trappole alle lepri e alle volpi, si arrampicava sugli alberi per nidi, abbatteva le tortore a sassate, e non disdegnava i pollai dei casolari più lontani; raccoglieva funghi, e bacche tenute generalmente per incommestibili, e a sera non era raro incontrarlo nelle vicinanze del campo, accovacciato sui talloni davanti a un gran fuoco, su cui, cantando rozzamente, arrostiva la preda della giornata. Dormiva poi sulla nuda terra, coricato accanto alle braci. Ma, poiché era figlio d' uomo tuttavia, perseguiva a suo modo la virtù e la conoscenza, e perfezionava di giorno in giorno le sue arti e i suoi strumenti: si fabbricò un coltello, poi una zagaglia e un' ascia, e se ne avesse avuto il tempo, non dubito che avrebbe riscoperto l' agricoltura e la pastorizia. Quando la giornata era stata buona, si faceva socievole e conviviale: attraverso Cesare, che si prestava volentieri a presentarlo come un fenomeno da fiera, e a raccontarne le leggendarie avventure precedenti, invitava tutti quanti a omerici festini di carni abbrustolire, e se qualcuno ricusava diventava cattivo e tirava fuori il coltello. Dopo alcuni giorni di pioggia, e altri di sole e di vento, nel bosco i funghi e i mirtilli crebbero con tale abbondanza da diventare interessanti non più sotto l' aspetto puramente georgico e sportivo, ma sotto quello utilitario. Tutti, prese le opportune precauzioni per non smarrire la via del ritorno, passavamo intere giornate alla raccolta. I mirtilli, in arbusti molto più alti di quelli nostrani, erano grossi quasi come nocciole, e saporiti: ne portavamo al campo a chili, e tentammo perfino (ma invano) di farne fermentare il succo in vino. Quanto ai funghi, se ne trovavano di due varietà: alcuni erano normali porcini, gustosi e sicuramente commestibili; gli altri erano simili a questi come forma e come odore, ma più grossi e legnosi e di colori alquanto diversi. Nessuno di noi era certo che questi fossero mangerecci; d' altra parte, si poteva forse lasciarli marcire nel bosco? Non si poteva: eravamo tutti mal nutriti, e inoltre era ancora troppo recente in noi la memoria della fame di Auschwitz, e si era mutata in un violento stimolo mentale, che ci obbligava a riempirci lo stomaco a oltranza e ci vietava imperiosamente di rinunciare a qualsiasi occasione di mangiare. Cesare ne raccolse una buona quantità, e li fece bollire secondo prescrizioni e cautele a me ignote, aggiungendo all' intingolo vodka e aglio comperati al villaggio, che "ammazzano tutti i veleni". Poi, lui stesso ne mangiò, ma poco, e ne offrì un pochino a molta gente, in modo da limitare il rischio e da disporre di una abbondante casistica per il giorno dopo. Il giorno dopo fece il giro delle camerate, e non era mai stato tanto cerimonioso e sollecito: _ Come sta, sora Elvira? Come va, don Vincenzo? Avete dormito bene? Avete passato una buona nottata? _ e intanto li guardava in faccia con occhio clinico. Stavano tutti benissimo, i funghi strani si potevano mangiare. Per i più pigri e i più ricchi, non era necessario andare nel bosco per trovare "extra" alimentari. Presto i contatti commerciali fra il villaggio di Staryje Doroghi e noi ospiti della Casa Rossa si fecero intensi. Ogni mattina arrivavano contadine con ceste e secchi; sedevano a terra, e stavano immobili per ore in attesa dei clienti. Se veniva uno scroscio di pioggia, non si muovevano dal luogo, ma soltanto si ribattevano le sottane sopra il capo. I russi fecero due o tre tentativi di cacciarle via, affissero due o tre manifesti bilingui che minacciavano ai contraenti pene di insensata severità, poi, come d' abitudine, si disinteressarono della questione, e i baratti continuarono indisturbati. Erano contadine vecchie e giovani: quelle, abbigliate al modo tradizionale, con giacche e gonne trapunte e imbottite e il fazzoletto legato sul capo; queste, in leggere vesti di cotone, per lo più scalze, franche, ardite e pronte al riso, ma non sfrontate. Oltre ai funghi, ai mirtilli e ai lamponi, vendevano latte, formaggio, uova, polli, verdura e frutta, e accettavano in cambio pesce, pane, tabacco, e qualsiasi capo di vestiario o pezzo di tessuto, anche il più lacero e logoro; anche rubli, naturalmente, da chi ancora ne aveva. Cesare in breve le conobbe tutte, specialmente le giovani. Andavo spesso con lui dalle russe, per assistere alle loro interessanti contrattazioni. Non intendo già negare l' utilità che in un rapporto di affari si parli la stessa lingua, ma, per esperienza, posso affermare che questa condizione non è strettamente necessaria: ognuno dei due sa bene che cosa l' altro desidera, non conosce inizialmente l' intensità di tale desiderio, rispettivamente di comperare e di vendere, ma la deduce con ottima approssimazione dalla espressione del viso dell' altro, dai suoi gesti e dal numero delle sue repliche. Ecco Cesare, che di buon mattino si presenta al mercato con un pesce. Cerca e trova la Irina, sua coetanea ed amica, le cui simpatie si è conquistato tempo addietro battezzandola "Greta Garbo" e regalandole una matita: Irina ha una mucca e vende latte, "molokò"; anzi, spesso, alla sera, tornando dal pascolo, si ferma davanti alla Casa Rossa e munge il latte direttamente nei recipienti della sua clientela. Questa mattina si tratta di concordare quanto latte valga il pesce di Cesare: Cesare mostra una pentola da due litri (è di quelle di Cantarella, e Cesare la ha rilevata da un "ménage" scioltosi per incompatibilità), e fa segno colla mano tesa, palmo all' ingiù, che la intende piena. Irina ride, e risponde con parole vivaci e armoniose, probabilmente contumelie; allontana con uno schiaffo la mano di Cesare, e segna con due dita la parete della pentola a metà altezza. Ora tocca a Cesare indignarsi: brandisce il pesce (non manomesso), lo libra in aria per la coda con enorme sforzo, come se pesasse venti chili, dice: _ Questa è una ribbona! _ poi lo fa scorrere sotto il naso di Irina per tutta la sua lunghezza, e così facendo chiude gli occhi e inspira lungamente aria, come inebriato dal profumo. Profittando dell' attimo in cui Cesare ha gli occhi chiusi, rapida come un gatto Irina gli strappa il pesce, ne stacca netta la testa coi denti candidi, e sbatte il corpo flaccido e mutilato in faccia a Cesare, con tutta la notevole forza di cui dispone. Poi, per non rovinare l' amicizia e la trattativa, tocca la pentola a tre quarti di altezza: un litro e mezzo. Cesare, mezzo stordito dal colpo, brontola con voce cavernosa: _ Séeee: e come te metti? _ e aggiunge altre galanterie oscene idonee a restaurare il suo onore virile; poi però accetta l' ultima offerta di Irina, e le lascia il pesce, che quella divora seduta stante. Dovevamo ritrovare la vorace Irina più tardi, a diverse riprese, in un contesto piuttosto imbarazzante per noi latini, in tutto normale per lei. In una radura del bosco, a metà distanza fra il villaggio e il campo, era il bagno pubblico, che non manca in alcun villaggio russo, e che a Staryje Doroghi funzionava a giorni alterni per i russi e per noi. Era un capannone di legno, con dentro due lunghe panche di pietra, e sparse ovunque tinozze di zinco di varia misura. Alla parete, rubinetti con acqua fredda e calda a volontà. Non era invece a volontà il sapone, che veniva distribuito con molta parsimonia nello spogliatoio. Il funzionario addetto alla distribuzione del sapone era Irina. Stava a un tavolino con sopra un panetto di sapone grigiastro e puzzolente, e teneva in mano un coltello. Ci si spogliava, si affidavano gli abiti alla disinfezione, e ci si metteva in fila completamente nudi davanti al tavolo di Irina. In queste sue mansioni di pubblico ufficiale, la ragazza era serissima e incorruttibile: colla fronte aggrottata per l' attenzione e la lingua infantilmente stretta fra i denti, tagliava una fettina di sapone per ogni aspirante al bagno: un po' più sottile per i magri, un po' più spessa per i grassi, non so se a ciò comandata, o se mossa da una inconscia esigenza di giustizia distributiva. Neppure un muscolo del suo viso trasaliva alle impertinenze dei clienti più sguaiati. Dopo il bagno, bisognava ricuperare i propri abiti nella camera di disinfezione: e questa era un' altra sorpresa del regime di Staryje Doroghi. La camera era scaldata a 120ä: quando ci dissero per la prima volta che occorreva entrarvi personalmente a ritirare i panni, ci guardammo perplessi: i russi sono fatti di bronzo, lo avevamo visto in più occasioni, ma noi no, e saremmo andati arrosto. Poi qualcuno provò, e si vide che l' impresa non era terribile come sembrava, purché si adottassero le seguenti precauzioni: entrare ben bagnati; sapere già in precedenza il numero del proprio attaccapanni; prendere fiato abbondante prima di passare la porta, e poi non respirare più; non toccare alcun oggetto metallico; e soprattutto fare in fretta. Gli abiti disinfettati presentavano interessanti fenomeni: cadaveri di pidocchi esplosi, stranamente deformati; penne stilografiche di ebanite, dimenticate nel taschino da qualche benestante, contorte e col cappuccio saldato; mozziconi di candela fusi e imbevuti nel tessuto; un uovo, lasciato in una tasca a scopo sperimentale, screpolato ed essiccato in una massa cornea, tuttavia ancora commestibile. Ma i due bagnini russi entravano e uscivano dalla fornace con indifferenza, come le salamandre della leggenda. I giorni di Staryje Doroghi passavano così, in una interminabile indolenza, sonnolenta e benefica come una lunga vacanza, rotta solo a intervalli dal pensiero doloroso della casa lontana, e dall' incanto della natura ritrovata. Era vano rivolgersi ai russi del Comando per sapere perché non ritornavamo, quando saremmo ritornati, per che via, quale avvenire ci attendeva: non ne sapevano più di noi, oppure, con candore cortese, ci elargivano risposte fantasiose o terrificanti o insensate. Che non c' erano treni; o che stava per scoppiare la guerra con l' America; o che presto ci mandavano a lavorare in kolchoz; o che aspettavano di scambiarci con prigionieri russi in Italia. Ci annunciavano queste o altre enormità senza odio né derisione, anzi, con sollecitudine quasi affettuosa, come si parla ai bambini che fanno troppe domande, per farli stare tranquilli. In realtà, non comprendevano quella nostra fretta di tornare a casa: non avevamo da mangiare e da dormire? Che cosa ci mancava, a Staryje Doroghi? Non avevamo neppure da lavorare; e forse che loro, soldati dell' Armata Rossa, che avevano fatto quattro anni di guerra, e l' avevano vinta, si lamentavano di non essere ancora tornati a casa? Tornavano infatti a casa alla spicciolata, lentamente, e, secondo le apparenze, in un disordine estremo. Lo spettacolo della smobilitazione russa, che già avevamo ammirato alla stazione di Katowice, proseguiva ora in altra forma sotto i nostri occhi, giorno per giorno; non più per ferrovia, ma lungo la strada davanti alla Casa Rossa, passavano brandelli dell' esercito vincitore, da ovest verso est, in drappelli chiusi o sparsi, a tutte le ore del giorno e della notte. Passavano uomini a piedi, spesso scalzi e con le scarpe in spalla per risparmiare le suole, perché il cammino era lungo: in divisa o no, armati o disarmati, alcuni cantando baldanzosamente, altri terrei e sfiniti. Alcuni portavano a spalle sacchi o valige; altri, gli arnesi più disparati, una sedia imbottita, una lampada a piede, pentole di rame, una radio, un orologio a pendolo. Altri passavano su carretti, o a cavallo; altri ancora, in motocicletta, a stormi, ebbri di velocità, con fragore infernale. Passavano autocarri Dodge di fabbricazione americana, gremiti di uomini fin sul cofano e sui parafanghi; alcuni trascinavano un rimorchio altrettanto gremito. Vedemmo uno di questi rimorchi viaggiare su tre ruote: al posto della quarta era stato assicurato alla meglio un pino, in posizione obliqua, in modo che una estremità appoggiasse sul suolo strisciandovi. A mano a mano che questa si consumava per l' attrito, il tronco veniva spinto più in basso, così da mantenere il veicolo in equilibrio. Quasi davanti alla Casa Rossa, una delle tre gomme superstiti si afflosciò; gli occupanti, una ventina, scesero, ribaltarono il rimorchio fuori di strada, e si cacciarono a loro volta sull' autocarro già zeppo, che ripartì in un nugolo di polvere mentre tutti gridavano "Hurrà". Passavano anche, tutti sovraccarichi, altri insoliti veicoli: trattori agricoli, furgoni postali, autobus tedeschi già addetti alle linee urbane, che ancora portavano le targhe coi nomi dei capilinea di Berlino: alcuni già in avaria, e trainati da altri automezzi o da cavalli. Verso i primi di agosto, questa migrazione molteplice prese a mutare insensibilmente natura. A poco a poco, sui veicoli cominciarono a prevalere i cavalli: dopo una settimana, non si vide più altro che questi, la strada apparteneva a loro. Dovevano essere tutti i cavalli della Germania occupata, a decine di migliaia al giorno: passavano interminabilmente, in una nuvola di mosche e di tafani e di acuto odore ferino, stanchi, sudati, affamati; erano sospinti e incitati con grida e colpi di frusta da ragazze, una ogni cento e più animali, esse pure a cavallo, senza sella, a gambe nude, accaldate e scarmigliate. A sera, spingevano i cavalli nelle praterie e nei boschi ai lati della strada, perché pascolassero in libertà e si riposassero fino all' alba. C' erano cavalli da tiro, cavalli da corsa, muli, giumente col puledro alla poppa, vecchi ronzini anchilosati, somari; ci accorgemmo presto non solo che non erano contati, ma che le mandriane non si curavano per nulla delle bestie che uscivano di strada perché stanche o ammalate o azzoppate, né di quelle che si smarrivano durante la notte. I cavalli erano tanti e poi tanti: che importanza poteva avere che ne arrivasse a destinazione uno di più o uno di meno? Ma per noi, pressoché digiuni di carne da diciotto mesi, un cavallo di più o uno di meno aveva una enorme importanza. Chi aprì la caccia fu, naturalmente, il Velletrano: venne a svegliarci un mattino, insanguinato da capo a piedi, e teneva ancora in mano l' arma primordiale di cui si era servito, una scheggia di granata legata con cinghie di cuoio in cima a un randello biforcuto. Dal sopraluogo che facemmo (poiché il Velletrano non era molto bravo a spiegarsi a parole) risultò che egli aveva dato il colpo di grazia a un cavallo probabilmente già in agonia: il povero animale aveva un aspetto sommamente equivoco, la pancia gonfia che suonava come un tamburo, la bava alla bocca; e doveva avere scalciato tutta la notte, in preda a chissà quali tormenti, poiché, sdraiato su un fianco, aveva scavato con gli zoccoli nell' erba due profondi semicerchi di terra bruna. Ma lo mangiammo ugualmente. In seguito, si costituirono diverse coppie di cacciatori-beccai specializzati, che non si accontentavano più di abbattere i cavalli malati o dispersi, ma sceglievano i più grassi, li facevano deliberatamente uscire dalla mandria e li uccidevano poi nel bosco. Agivano di preferenza alle prime luci dell' alba: uno copriva con un panno gli occhi dell' animale, e l' altro gli vibrava il colpo mortale (ma non sempre) sulla cervice. Fu un periodo di assurda abbondanza: c' era carne di cavallo per tutti, senza alcuna limitazione, gratis; tutt' al più, i cacciatori chiedevano per un cavallo morto due o tre razioni di tabacco. In tutti gli angoli del bosco, e quando pioveva anche nei corridoi e nei sottoscala della Casa Rossa, si vedevano uomini e donne affaccendati a cuocere enormi bistecche di cavallo coi funghi: senza le quali, noi reduci da Auschwitz avremmo tardato ancora molti mesi a riacquistare le nostre forze. Neppure di questo saccheggio i russi del Comando si diedero il minimo pensiero. Vi fu un solo intervento russo, e una sola punizione: verso la fine del passaggio, quando già la carne di cavallo scarseggiava e il prezzo tendeva a salire, uno della congrega di San Vittore ebbe l' improntitudine di aprire una macelleria vera e propria, in uno dei molti stambugi della Casa Rossa. Questa iniziativa ai russi non piacque, non fu chiaro se per ragioni igieniche o morali: il colpevole venne pubblicamente redarguito, dichiarato "cort (diavolo), parazìt, spjekulànt", e cacciato in cella. Non era una punizione molto severa: alla cella, per oscure ragioni, forse per burocratico atavismo di un tempo in cui i prigionieri dovevano essere stati a lungo in numero di tre, spettavano tre razioni alimentari al giorno. Che i detenuti fossero nove, o uno, o nessuno, non importava: le razioni erano sempre tre. Così il macellaio abusivo uscì di cella allo scadere della pena, dopo dieci giorni di sovralimentazione, grasso come un maiale e pieno di gioia di vivere.

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Se non ora quando

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Levi, Primo 1 occorrenze

Giocava con gesti esibiti e grotteschi, avanzando ad ogni mossa la spalla ed il braccio come se il pezzo che spostava avesse pesato una dozzina di chili; lo abbatteva sulla scacchiera come per piantarvelo dentro, o lo girava premendolo come per avvitarlo. Leonid si trovò subito a disagio, sia per questa mimica, sia per l' evidente superiorità dell' avversario: era chiaro, Peiami non voleva altro che toglierlo di mezzo il più presto possibile per cimentarsi contro Mendel. Muoveva con rapidità insolente, senza attardarsi a meditare i tratti, e manifestando sgarbata impazienza davanti alle esitazioni di Leonid. Gli diede il matto in meno di dieci minuti. _ A noi due, _ disse subito a Mendel, con un' aria così risoluta che questi si sentì a un tempo divertito e inquieto. Anche Mendel, questa volta, giocava per vincere, come se la posta in gioco fosse stata una montagna d' oro, o la vita sicura, o l' eterna felicità. Percepiva confusamente di giocare non per sé solo, ma come campione di qualcosa o qualcuno. Aprì attento e prudente, imponendosi di non lasciarsi innervosire dal comportamento dell' altro: il quale, d' altronde, abbandonò presto le sue gesticolazioni disturbatrici per concentrarsi anche lui sulla scacchiera. Mendel era riflessivo, Peiami tendeva invece a un gioco temerario e lampeggiante: dietro ad ogni suo tratto, Mendel stentava a capire se si nascondesse un piano meditato, o il desiderio di stupire, o l' audacia fantasiosa dell' uomo di ventura. Dopo una ventina di tratti nessuno dei due aveva avuto perdite, la situazione era equilibrata, la scacchiera era spaventosamente confusa, e Mendel si accorse che si stava divertendo. Perse deliberatamente un tempo, al puro scopo di indurre l' usbeco a rivelare le sue intenzioni, e vide che l' altro si innervosiva: adesso era lui che esitava davanti ai tratti, guardando Mendel negli occhi come per leggervi dentro un segreto. L' usbeco fece un tratto che si rivelò immediatamente disastroso, chiese di rifarlo, e Mendel glielo permise; poi si alzò in piedi, si scosse come un cane uscito dall' acqua, e senza parlare si avviò verso l' aereo. Mendel fece un cenno a Leonid, che comprese, lo seguì da vicino ed entrò dietro di lui nella cabina; ma l' usbeco non pensava alle armi, era solo venuto a prendere il samogòn. Bevvero tutti e tre, mentre il cielo incominciava già ad oscurarsi e si era levato il vento fresco del tramonto. Mendel si sentiva strano, fuori del tempo e del luogo. Quel gioco intento e serio si collegava nel suo ricordo a tempi e luoghi e persone intensamente diversi; a suo padre che gli aveva insegnato le regole, lo aveva vinto facilmente per due anni, con stento per altri due, e poi aveva accettato le sconfitte senza disagio; agli amici, ebrei e russi, che davanti alla scacchiera si erano educati con lui all' astuzia e alla pazienza; al calore quieto della casa perduta. Probabilmente l' usbeco aveva bevuto troppo. Quando si fu riseduto davanti ai pezzi, scatenò un' interminabile serie di cambi da cui emerse una situazione alleggerita e decantata: lui con un pedone di meno, Mendel padrone della grande diagonale e sicuramente arroccato. L' usbeco ribevve, perfezionò la propria catastrofe con un assurdo tentativo di contrattacco, si diede sconfitto, e dichiarò che pretendeva la rivincita; era stato debole, lo sapeva che quando si gioca non si deve bere, aveva ceduto al vizio come un bambino. Oramai era troppo buio, ma voleva la rivincita: domani mattina, subito, appena fatto giorno. Salutò, salì incespicando la scaletta a pioli tutta sconnessa che portava alla cabina, e dopo cinque minuti russava già. I due tacquero per qualche istante. Sul fruscio delle fronde, scosse dalla brezza, si sovrapponevano suoni meno familiari: fremiti d' insetti o di piccoli animali, scricchiolii, un coro lontano di rane. Mendel disse: _ Non è questo, il compagno di viaggio di cui abbiamo bisogno, vero? _ Non abbiamo bisogno di un compagno di viaggio, disse Leonid, ancora imbronciato per la sconfitta. _ È da vedersi; comunque, è tempo di rimettersi in cammino, prima che sia notte profonda. Attesero che il russare dell' usbeco si fosse fatto regolare, ripresero gli zaini dalla cabina e si misero in via. Per precauzione, si avviarono dapprima verso sud, poi fecero una brusca conversione e procedettero verso nord-ovest: ma il terreno era asciutto e non conservava le impronte.

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

Volteggiavano stridendo ed azzuffandosi fra loro: ogni tanto uno si abbatteva come un sasso, frenava con un brusco mulinare delle ali, prendeva terra attirato da un obiettivo invisibile, ed intorno a lui la fiumana dei lemming si divaricava come intorno a un isolotto. _ Ecco, _ disse Walter, _ adesso l' abbiamo anche visto. Adesso è diverso: non abbiamo più giustificazioni. È una cosa che esiste, che esiste in natura, che esiste da sempre, e perciò deve avere una causa, e perciò questa causa deve essere trovata. _ Una sfida, vero? _ disse Anna, in tono quasi materno: ma Walter si sentiva già in battaglia, e non rispose. _ Andiamo, _ disse; prese il sacco di rete e volò giù per il pendio, fin dove i lemming più frettolosi gli passavano fra le gambe senza mostrare timore. Ne acchiappò quattro, poi gli venne in mente che forse quelli che procedevano a mezza costa non rappresentavano un campione medio: potevano essere i più forti, o i più giovani, o i più risoluti. Ne liberò tre, poi avanzò in mezzo al brulichio grigio e ne catturò altri cinque in vari punti della valle. Risalì fino alla tenda coi sei animaletti, che squittivano debolmente ma non si mordevano fra loro. _ Poverini! _ disse Anna. _ Ma già, tanto sarebbero morti ugualmente _. Walter stava già chiamando con la radio l' elicottero della Guardia Forestale. _ Verranno domattina, _ disse: _ adesso possiamo cenare _. Anna sollevò uno sguardo interrogativo; Walter disse: _ No, diamine, non ancora. Anzi, dài qualcosa da mangiare anche a loro: ma non molto, per non alterarne le condizioni. Ne parlarono a lungo, tre giorni dopo, col professor Osiasson, ma senza concludere molto. Rientrarono in albergo. _ Che cosa aspettavi da lui, finalmente? Che criticasse la teoria che lui stesso ha messa in piedi? _ No, _ disse Walter, _ ma almeno che desse mente alle mie obiezioni. È facile ripetere le stesse cose per un' intera carriera e con la coscienza in ordine: basta rifiutare i fatti nuovi. _ Sei così sicuro dei fatti nuovi? _ Sono sicuro oggi, e lo sarò anche più domani. Lo hai visto tu stessa: i sei che abbiamo catturato, al termine della marcia, erano ottimamente nutriti: 2. per cento di grasso, più della media dei lemming catturati sugli altipiani. Ma se non basta ritornerò .... _ Ritorneremo. _ ... ritorneremo, e ne prenderemo sessanta, o seicento, e allora vedremo quale Osiasson oserà ancora ripetere che chi li muove è la fame. _ O la sovrappopolazione .... _ È una sciocchezza. Nessun animale può reagire all' affollamento con un affollamento peggiore. Quelli che abbiamo visti venivano da tutte le pieghe dell' altipiano: ebbene, non si sfuggivano, anzi si cercavano, tribù con tribù, individuo con individuo. Hanno marciato per due mesi, sempre verso occidente, e ogni giorno erano più fitti. _ Allora? _ Allora ... vedi, non so ancora, non te lo posso ancora formulare con esattezza, il mio pensiero, ma io ... io credo che vogliano proprio morire. _ Perché un essere vivente dovrebbe voler morire? _ E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere? _ Perché ... ecco, non lo so, ma tutti vogliamo vivere. Siamo vivi perché vogliamo vivere. È una proprietà della sostanza vivente; io voglio vivere, non ho dubbi. La vita è meglio della morte: mi sembra un assioma. _ Non ne hai mai avuti, di dubbi? Sii sincera! _ No, mai _. Anna meditò, poi aggiunse: _ Quasi mai. _ Hai detto quasi. _ Sì, lo sai bene. Dopo che è nata Mary. È durato poco, pochi mesi, ma è stato molto brutto: mi sembrava che non ne sarei uscita mai, che sarei rimasta così per sempre. _ E cosa pensavi in quei mesi? Come vedevi il mondo? _ Non ricordo più. Ho fatto di tutto per dimenticarlo. _ Dimenticare che cosa? _ Quel buco. Quel vuoto. Quel sentirsi ... inutili, con tutto inutile intorno, annegati in un mare di inutilità. Soli anche in mezzo a una folla: murati vivi in mezzo a tutti murati vivi. Ma smetti, per favore, lasciami stare. Tieniti sulle questioni generali. _ Vediamo ... senti, proviamo così. La regola è questa, che ognuno di noi uomini, ma anche gli animali, e ... sì, anche le piante, tutto ciò che è vivo, lotta per vivere e non sa perché. Il perché sta scritto in ogni cellula, ma in un linguaggio che non sappiamo leggere con la mente: lo leggiamo però con tutto il nostro essere, e obbediamo al messaggio con tutto il nostro comportamento. Ma il messaggio può essere più o meno imperativo: sopravvivono le specie in cui il messaggio è inciso profondo e chiaro, le altre si estinguono, si sono estinte. Ma anche quelle in cui il messaggio è chiaro possono avere delle lacune. Possono nascere individui senza amore per la vita; altri lo possono perdere, per poco o molto tempo, magari per tutta la vita che gli resta; e finalmente ... ecco, forse ci sono: lo possono perdere anche gruppi di individui, epoche, nazioni, famiglie. Sono cose che si sono viste: la storia umana ne è piena. _ Bene. C' è una parvenza d' ordine, adesso: ti ci stai avvicinando. Ma adesso devi spiegarmi, anzi, devi spiegarti, come questo amore può sparire in un gruppo. _ Ci penserò dopo. Adesso volevo ancora dirti che fra chi possiede l' amore di vita e chi lo ha smarrito non esiste un linguaggio comune. Lo stesso evento viene descritto dai due in due modi che non hanno niente in comune: l' uno ne ricava gioia e l' altro tormento, ognuno ne trae conferma per la propria visione del mondo. _ Non possono aver ragione tutti e due. _ No. In generale, tu lo sai, e bisogna avere il coraggio di dirlo, hanno ragione quegli altri. _ I lemming? _ Diciamo pure così: chiamiamoli lemming. _ E noi? _ Noi abbiamo torto, e lo sappiamo, ma troviamo più gradevole tenere gli occhi chiusi. La vita non ha uno scopo; il dolore prevale sempre sulla gioia; siamo tutti dei condannati a morte, a cui il giorno dell' esecuzione non è stato rivelato; siamo condannati ad assistere alla fine dei nostri più cari; le contropartite ci sono, ma sono scarse. Sappiamo tutto questo, eppure qualcosa ci protegge e ci sorregge e ci allontana dal naufragio. Che cosa è questa protezione? Forse solo l' abitudine: l' abitudine a vivere, che si contrae nascendo. _ Secondo me, la protezione non è la stessa per tutti. C' è chi trova difesa nella religione, chi nell' altruismo, chi nell' ottusità, chi nel vizio, chi riesce a distrarsi senza interruzioni. _ Tutto vero, _ disse Walter: _ potrei aggiungere che la difesa più comune, ed anche la meno ignobile, è quella che sfrutta la nostra essenziale ignoranza del domani. E vedi, anche qui c' è simmetria, questa incertezza è quella stessa che rende la vita insopportabile ai ... ai lemming. Per tutti gli altri, la volontà di vita è qualcosa di profondo e confuso, qualcosa in noi e insieme accanto a noi, separato dalla coscienza, quasi come un organo che di norma funziona in silenzio, in disciplina, ed allora è ignorato: ma può ammalarsi o atrofizzarsi, essere ferito o amputato. Allora si continua a vivere, ma male, con fatica, con dolore, come chi abbia perduto lo stomaco o un polmone. _ Sì, _ disse Anna, _ questa è la difesa principale, quella naturale, che ci viene donata insieme con la vita perché la vita ci sia sopportabile. Ma ce ne sono altre, io credo: quelle che ho detto prima. _ Ecco, ci deve essere qualcosa in comune a tutte le difese. Se sapremo rispondere alla domanda che abbiamo lasciata in sospeso, cioè che cosa agisca entro un gruppo, sapremo anche che cosa accomuna le diverse difese. Si possono fare due supposizioni: una è che un "lemming" contagi tutti i suoi vicini; l' altra è che si tratti di una intossicazione o di una carenza. Nulla è più vivificante di un' ipotesi. Il Laboratorio della Guardia Forestale fu mobilitato in pochi giorni, e i risultati non tardarono, ma furono per molto tempo negativi. Il sangue dei lemming migranti era identico a quello dei lemming stazionari: così pure l' urina, la quantità e la composizione del grasso, tutto. Walter non pensava ad altro e non parlava d' altro. Ne parlava una sera con Bruno, davanti ai bicchieri pieni, ed ebbero l' idea insieme. _ Questo, ad esempio, serve, _ disse Bruno. _ È vecchia esperienza, esperienza comune. _ È un farmaco molto rudimentale. L' alcool non è innocuo, è di dosaggio difficile, e il suo effetto è molto breve. _ Ma ci si potrebbe lavorare sopra. Il giorno dopo erano davanti al recinto dei lemming, nel parco dell' Istituto. Avevano dovuto rinforzare la rete dal lato verso il mare, ed approfondirla di due buoni metri sotto il livello del suolo, perché quelle bestiole non avevano pace: erano ormai un centinaio, e per tutto il giorno, e per metà della notte, si accalcavano contro la rete, calpestandosi, cercando di arrampicarsi e di respingersi vicendevolmente indietro; alcuni scavavano cunicoli che fatalmente si arrestavano contro la rete interrata, uscivano strisciando all' indietro, ricominciavano: gli altri tre lati del recinto erano deserti. Walter entrò, ne catturò quattro, legò loro un contrassegno alla zampina, e somministrò loro un grammo d' alcool con una sonda. I quattro, rimessi nel recinto, sostarono per qualche minuto col pelo ispido e le narici dilatate, poi si allontanarono e si misero tranquilli a brucare l' erica: tuttavia, dopo un' ora ad uno ad uno avevano ripreso il loro posto nella mischia degli individui risoluti a migrare verso ponente. Walter e Bruno furono d' accordo nel concludere che non era molto, ma era una traccia. Dopo un mese, il reparto dei farmacologi era in piena attività. Il tema proposto era semplice e terrificante: individuare o sintetizzare l' ormone che inibisce il vuoto esistenziale. Anna era perplessa, e non lo nascose. _ Se lo troveremo, avremo fatto un bene o un male? _ Un bene per l' individuo, certamente. Un bene per la specie umana, è dubbio, ma è un dubbio sconfinato: si addice a qualsiasi medicamento, non solo a questo. Ogni farmaco, anzi, ogni intervento medico, rende adatto un inadatto: vorresti contestare tutti i farmaci e tutti i dottori? La specie umana ha scelto da secoli questa via, la via della sopravvivenza artificiale, e non mi sembra che ne sia uscita indebolita. L' umanità ha voltato le spalle alla natura, da un pezzo: è fatta di individui, e punta tutto sulla sopravvivenza individuale, sul prolungamento della vita e sulla vittoria contro la morte e il dolore. _ Ma ci sono altri modi di vincere il dolore, questo dolore: altre battaglie, che ognuno è tenuto a combattere coi propri mezzi, senza l' aiuto esterno. Chi le vince, si dimostra forte, e così facendo diventa forte, si arricchisce e si migliora. _ E chi non le vince? Chi cede, di schianto o a poco a poco? Cosa dirai tu, cosa dirò io, se ci troveremo anche noi a ... camminare verso ponente? Saremo capaci di rallegrarci in nome della specie, e di quegli altri che trovano in sé la forza di invertire il cammino? Passarono altri sei mesi, e per Anna e Walter furono mesi singolari. Risalirono il Rio delle Amazzoni con un battello di linea, poi con un battello più piccolo il Rio Cinto, e infine in piroga un affluente senza nome: la guida che li accompagnava aveva loro promesso un viaggio di quattro giorni, ma solo al settimo superarono le rapide di Sacayo e giunsero in vista del villaggio. Distinsero di lontano i contrafforti cadenti della fortezza spagnola, e non commentarono, perché non ce n' era bisogno e non era nuovo per loro, un altro elemento del paesaggio: un fitto intrecciarsi nel cielo di voli di rapaci, che sembrava avere centro proprio sopra la fortezza. Il villaggio di Arunde ospitava gli ultimi resti della tribù degli Arunde: ne avevano appreso l' esistenza casualmente, da un articolo comparso su una rivista di antropologia. Gli Arunde, un tempo estesi su di un territorio vasto quanto il Belgio, si erano ristretti entro confini sempre più angusti perché il loro numero era in continuo declino. Questo non era effetto di malattie, né di guerre con le tribù confinanti, e neppure di alimentazione insufficiente, ma soltanto del tasso enorme di suicidi: non altro era stato il motivo per cui Walter si era deciso a chiedere il finanziamento per la spedizione. Furono ricevuti dal decano del villaggio, che aveva solo trentanove anni e parlava correttamente lo spagnolo. Walter, che odiava i preamboli, entrò subito nel vivo dell' argomento: si attendeva dall' altro ritegno, pudore, forse sospetto o freddezza davanti alla curiosità impietosa di uno straniero, e si trovò invece davanti ad un uomo sereno, cosciente e maturo, come se a quel colloquio si fosse preparato per anni, forse per l' intera sua vita. Il decano gli confermò che gli Arunde, da sempre, erano privi di convinzioni metafisiche: soli fra tutti i loro vicini, non avevano chiese né sacerdoti né stregoni, e non attendevano soccorso dal cielo né dalla terra né dai luoghi inferi. Non credevano in premi né in punizioni. La loro terra non era povera, disponevano di leggi giuste, di una amministrazione umana e spedita; non conoscevano la fame né la discordia, possedevano una cultura popolare ricca ed originale, e si rallegravano spesso in feste e banchetti. Interrogato da Walter sul costante declino numerico della popolazione, il decano rispose di essere consapevole della fondamentale differenza fra le loro credenze e quelle degli altri popoli, vicini e lontani, di cui era venuto a conoscenza. Gli Arunde, disse, attribuivano poco valore alla sopravvivenza individuale, e nessuno a quella nazionale. Ognuno di loro veniva educato, fin dall' infanzia, a stimare la vita esclusivamente in termini di piacere e dolore, valutandosi nel computo, naturalmente, anche i piaceri e i dolori provocati nel prossimo dal comportamento di ognuno. Quando, a giudizio di ogni singolo, il bilancio tendeva a diventare stabilmente negativo, quando cioè il cittadino riteneva di patire e produrre più dolori che gioie, veniva invitato ad un' aperta discussione davanti al concilio degli anziani, e se il suo giudizio trovava conferma, la conclusione veniva incoraggiata ed agevolata. Dopo il congedo, egli veniva condotto alla zona dei campi di ktan: il ktan è un cereale molto diffuso nel paese, ed il suo seme, vagliato e macinato, si impiega nella fabbricazione di una sorta di focacce. Se non è vagliato, lo accompagna il seme assai minuto di una graminacea infestante, che possiede azione stupefacente e tossica. L' uomo viene affidato ai coltivatori di ktan: si nutre con focacce confezionate con seme non vagliato, ed in pochi giorni, o in poche settimane, a sua scelta, raggiunge una condizione di gradevole stupore, a cui fa seguito il riposo definitivo. Pochi mutano pensiero, e ritornano dai campi di ktan alla città fortificata: vi vengono accolti con gioia affettuosa. Esiste un contrabbando di semi non vagliati attraverso le mura, ma non è di misura preoccupante, e viene tollerato. Al loro ritorno, Anna e Walter si trovarono davanti ad una grossa novità. La "sostanza mancante" era stata trovata: più precisamente, era stata dapprima creata dal nulla, per sintesi, attraverso uno sfibrante lavoro di vagliatura di innumerevoli composti sospettati di esercitare sul sistema nervoso un' attività specifica; poco dopo, era stata identificata nel sangue normale. Stranamente, l' intuizione di Bruno aveva colpito nel segno: il composto più efficace era proprio un alcool, benché di struttura piuttosto complessa. Il suo dosaggio era molto basso, talmente basso da giustificare l' insuccesso degli analisti che non lo avevano identificato come componente normale del sangue di tutti i mammiferi sani, compreso l' uomo, e che quindi non ne avevano potuto cogliere l' assenza nel sangue dei lemming migranti. Walter ebbe il suo quarto d' ora di successo e di notorietà: i campioni di sangue che aveva prelevato dagli Arunde non contenevano neppure una traccia del principio attivo. Questo, che era stato denominato fattore L, venne presto prodotto su scala pilota. Era attivo per via orale, e si dimostrò miracoloso nel restaurare la volontà di vita in soggetti che ne erano privi, o che l' avevano perduta in seguito a malattie, sventure o traumi: negli altri, in dosi normali, non provocava effetti degni di nota né segni di sensibilizzazione o di accumulo. L' opportunità di una conferma fu subito evidente a tutti: anzi, di una duplice conferma, sui lemming migranti e sui loro analoghi umani. Walter spedì al decano degli Arunde un pacchetto che conteneva una dose di fattore L sufficiente per cento individui e per un anno; gli scrisse a parte una lunga lettera in cui gli spiegava minutamente il modo in cui il medicamento doveva essere somministrato, e lo pregava di estendere l' esperimento anche agli ospiti dei campi di ktan; ma non ebbe tempo di attendere la risposta, perché la Guardia Forestale gli aveva segnalato che una colonna di lemming si stava avvicinando rapidamente alla foce del Mo5lde, in fondo al fiordo di Penndal. Non fu un lavoro agevole: Walter dovette ricorrere all' aiuto di quattro giovani assistenti, oltre a quello entusiasta di Anna. Fortunatamente il fattore L era solubile in acqua, e l' acqua era disponibile sul posto in abbondanza: Walter si proponeva di spargere la soluzione al di là del valico, dove l' erica cresceva folta, ed era da presumere che i lemming si fermassero a brucarla, ma si vide subito che il progetto non era realizzabile; l' area era troppo estesa, e le colonne di lemming già si stavano avvicinando, segnalate da alti turbini di polvere visibili a venti chilometri di distanza. Walter decise allora di nebulizzare la soluzione direttamente sulle colonne, nel passo obbligato che stava immediatamente sotto il valico. Non avrebbe potuto agire sull' intera popolazione, ma riteneva che l' effetto sarebbe stato ugualmente dimostrativo. I primi lemming si affacciarono al valico verso le nove di mattina; alle dieci la valle era già piena, e il flusso tendeva ad aumentare. Walter scese nella valle con nebulizzatore assicurato alla schiena; si appoggiò contro un masso ed aprì il rubinetto del propellente. Non c' era vento: dall' alto del costone Anna vide distintamente scattare la nuvola biancastra, allungata nel senso della valle. Vide la marea grigia arrestarsi turbinando, come l' acqua di un fiume contro il pilone di un ponte: i lemming che avevano inspirato la soluzione sembravano incerti fra il proseguire, il fermarsi e il risalire. Ma poi vide una massiccia ondata di corpi inquieti sovrapporsi alla prima, e una terza alla seconda, cosicché la massa ribollente giunse all' altezza della cintura di Walter; vide Walter fare rapidi gesti con la mano libera, gesti confusi e convulsi che le parvero di richiesta d' aiuto, e poi Walter barcollare, strappato al riparo del masso, cadere ed essere trascinato, sepolto e ancora trascinato, visibile a tratti come un rigonfiamento sotto il fiume delle piccole innumerevoli creature disperate, che correvano verso la morte, la loro morte e la sua morte, verso la palude e il mare non lontano. Quello stesso giorno ritornò, respinto al mittente, il pacco che Walter aveva spedito oltre Oceano. Anna non ne venne in possesso che tre giorni più tardi, quando già il corpo di Walter era stato recuperato: conteneva un laconico messaggio indirizzato a Walter "y a todos los sàbios del mundo civil". Diceva così: "Il popolo degli Arunde, presto non più popolo, vi saluta e ringrazia. Non vi vogliamo offendere, ma vi rimandiamo il vostro medicamento, affinché ne tragga profitto chi fra voi lo vuole: noi preferiamo la libertà alla droga, e la morte all' illusione".

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Abbatteva di preferenza i faggi più grossi, e non si capiva come avrebbe fatto per portarseli via. In una delle prime notti fredde Danuta sognò che la foresta era in fiamme e si svegliò di soprassalto; l' incendio non c' era ma l' odore dell' incendio sì, e Danuta vide sull' altro versante un chiarore rosso che palpitava come una stella. Nei giorni seguenti, quando Danuta tendeva l' orecchio, sentiva un ticchettio minuto e regolare, come quando i picchi perforano le cortecce, ma più lento. Cercò di avvicinarsi a vedere, ma appena lei si muoveva il rumore cessava. Venne finalmente un giorno in cui Danuta ebbe fortuna. Il piccolino si era fatto meno timido, forse si era abituato alla presenza di Danuta, e si mostrava di frequente fra un albero e l' altro, ma se Danuta accennava ad avvicinarsi scappava svelto a rintanarsi fra le rocce o in mezzo al fitto del bosco. Danuta lo vide dunque avviarsi verso la radura dell' abbeveratoio; lo seguì di lontano cercando di non fare troppo rumore, e quando lo vide allo scoperto con due lunghi passi gli fu addosso e lo intrappolò fra i cavi delle mani. Era piccolo ma fiero: aveva con sé quel suo arnese lucente, e tirò due o tre colpi contro le mani di Danuta prima che lei riuscisse a pizzicarlo fra l' indice e il pollice ed a buttarglielo lontano. Adesso che l' aveva catturato, Danuta si rese conto che non sapeva assolutamente che cosa farsene. Lo sollevò da terra tenendolo fra le dita: lui strideva, si dibatteva e cercava di mordere; Danuta, incerta, rideva nervosamente e tentava di calmarlo carezzandolo con un dito sulla testa. Si guardò intorno: nel torrente c' era un isolotto lungo pochi passi dei suoi; si sporse dalla sponda e vi depose il piccolino, ma questo, appena libero, si buttò nella corrente, e sarebbe certo annegato se Danuta non si fosse affrettata a ripescarlo. Allora lo portò da Brokne. Neppure Brokne sapeva che farsene. Brontolò che lei era proprio una ragazza fantastica; il bestiolino mordeva, pungeva e non era buono da mangiare, che Danuta gli desse il largo, altro da fare non c' era. Del resto, stava scendendo la notte, era ora di andare a dormire. Ma Danuta non volle sentire ragione, l' aveva preso lei, era suo, era intelligente e carino, voleva tenerselo per giocare, e poi era sicura che sarebbe diventato domestico. Provò a presentargli un ciuffo d' erba, ma lui girò la testa dall' altra parte. Brokne sogghignò che tanto domestico non era e che in prigionia sarebbe morto, e si stese in terra già mezzo addormentato, ma Danuta scatenò un capriccio d' inferno, e tanto fece che passarono la notte col piccolino in mano, a turno, uno lo teneva e l' altro dormiva; verso l' alba però anche il piccolino era addormentato. Danuta ne approfittò per osservarlo con calma e da vicino, ed era veramente molto grazioso: aveva viso, mani e piedi minuscoli ma ben disegnati, e non doveva essere un bambino, perché aveva la testa piccola e il corpo snello. Danuta moriva dalla voglia di stringerselo contro il petto. Appena si svegliò cercò subito di fuggire, ma dopo qualche giorno incominciò a farsi più lento e pigro. _ Per forza, _ disse Brokne: _ non vuole mangiare _. Infatti il piccolino rifiutava tutto, l' erba, le foglie tenere, perfino le ghiande e le faggiole. Ma non doveva essere per selvatichezza, perché invece beveva avidamente dal cavo della mano di Danuta, che rideva e piangeva dalla tenerezza. Insomma, in pochi giorni si vide che Brokne aveva ragione: era uno di quegli animali che quando si sentono prigionieri rifiutano il cibo. D' altra parte, non era possibile andare avanti così, a tenerlo in mano giorno e notte, un po' l' uno, un po' l' altra. Brokne aveva provato a fabbricargli una gabbia, perché Danuta non aveva accettato di tenerlo nella grotta: lo voleva avere sotto gli occhi e temeva che al buio si ammalasse. Aveva provato, ma senza concludere nulla: aveva divelto dei frassini alti e diritti, li aveva ripiantati in terra a cerchio, ci aveva messo in mezzo il piccolino e aveva legato insieme le chiome con dei giunchi, ma le sue dita erano grosse e maldestre, e ne era venuto fuori un brutto lavoro. Il piccolino, benché indebolito dalla fame, si era arrampicato in un lampo su per uno dei tronchi, aveva trovato una lacuna ed era saltato a terra all' esterno. Brokne disse che era tempo di lasciarlo andare dove voleva; Danuta scoppiò a piangere, tanto che le sue lacrime rammollirono il terreno sotto di lei; il piccolino guardò in su come se avesse capito, poi prese la corsa e scomparve fra gli alberi. Brokne disse: _ Va bene così. Lo avresti amato, ma era troppo piccolo, e in qualche modo il tuo amore lo avrebbe ucciso. Passò un mese, e già le fronde dei faggi volgevano al porporino, e di notte il torrente rivestiva i macigni di un sottile strato di ghiaccio. Ancora una volta Danuta fu svegliata in angoscia dall' odore del fuoco, e subito scosse Brokne per ridestarlo, perché questa volta l' incendio c' era. Nel chiarore della luna si vedevano tutto intorno innumerevoli fili di fumo che salivano verso il cielo, diritti nell' aria ferma e gelida: sì, come le sbarre di una gabbia, ma questa volta dentro erano loro. Lungo tutta la cresta delle montagne, sui due lati della valle, bruciavano fuochi, ed altri fuochi occhieggiavano molto più vicini, fra tronco e tronco. Brokne si levò in piedi brontolando come un tuono: eccoli dunque all' opera, i costruttori di ponti, i piccoli e solerti. Afferrò Danuta per il polso e la trascinò verso la testata della valle dove pareva che i fuochi fossero più radi, ma poco dopo dovettero tornare indietro tossendo e lacrimando, l' aria era intossicata, non si poteva passare. Nel frattempo, la radura si era popolata di animali di tutte le specie, anelanti ed atterriti. L' anello di fuoco e di fumo si faceva sempre più vicino; Danuta e Brokne sedettero a terra ad aspettare.

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Sparava un colpo di carabina la cui palla abbatteva quasi sempre un uomo, poi balzava alla spingarda appena era stata ricaricata e prendeva d'infilata la colonna che s'avanzava verso la saracinesca, facendo dei tiri veramente meravigliosi, che stupivano lo stesso Tremal-Naik e che strappavano grida di entusiasmo ai malesi ed ai giavanesi del kampong. I dayaki, che non si sentivano troppo sostenuti dalle loro artiglierie dirette da pessimi tiratori, nè dai loro fucilieri, più abili nel lanciare frecce che palle, cercavano di affrettare il passo, incoraggiandosi con urla ferocissime e coprendosi più che potevano coi loro scudi, come se non potessero venire attraversati dai proiettili delle carabine indiane degli assediati. Il fuoco del kampong, vigorosissimo, li decimava per bene. Le loro colonne soffrivano perdite immense e tuttavia non si scompaginavano ancora. Quando però le spingarde cominciarono a scagliare addosso a loro nembi di mitraglia, coprendoli di chiodi e di frammenti di ferro, si videro oscillare e le linee si aprirono qua e là. - Avanti! - gridava Yanez, che non si prendeva nemmeno la briga di ripararsi dietro il parapetto. - Date dentro e finiremo per mandarli a rotoli. Mitragliateti alle gambe! Ed il fuoco aumentava sempre, coprendo le bande di una vera pioggia di piombo, di ferro e di chiodi. Tigri di Mompracem, malesi e giavanesi gareggiavano in bravura ed in audacia, risoluti a non permettere ai dayaki di giungere sotto le cinte e di slanciarsi all'attacco. Soprattutto le spingarde facevano delle vere stragi gettando a terra, ad ogni scarica di mitraglia, un buon numero d'uomini. Non producevano ferite mortali, è vero, ma mettevano i guerrieri fuori di combattimento, rovinando loro le gambe. Nondimeno, malgrado le enormi perdite, quegli ostinati selvaggi non accennavano ancora ad arrestarsi. Anzi con un ultimo slancio giunsero ben presto dinanzi alla zona alberata, gettandosi coraggiosamente in mezzo alle spine dove si appiattirono per prendere un po' di riposo e per riordinarsi prima di tentare l'ultimo sforzo. - Quella è vera carne da cannone, - disse Yanez, la cui fronte si era abbuiata. - Non credevo che potessero spingersi così vicini. È bensì vero che non sono ancora sulle cinte e che se le spingarde diventano pel momento inutili, tuttavia le carabine e le pistole avranno ancora buon giuoco. - Non inquietarti, amico mio, - disse Tremal-Naik. - Ho preparato loro una sorpresa che produrrà sulla loro pelle maggior effetto dei chiodi. - Ma intanto ci sono sotto. - Lasciali venire. D'altronde le cinte sono alte e le tavole di tek così grosse che i loro kampilang si smusseranno senza riuscire a spaccarle. - M'inquieta il fuoco dei loro pezzi. - Tirano così male! - Che cosa fanno? Non li odo più. - S'avanzano strisciando tra le spine. - È bene assicurata la saracinesca? - Ho fatto mettere le caviglie di ferro e nessuno potrà alzarla. Eccoli! Mentre i lilà e il mirim continuavano a tuonare, aprendo nei panconi delle cinte qualche foro appena sufficiente per lasciar passare una mano e i fucilieri s'avanzavano, sempre disposti in catena, strisciando al suolo e nascondendosi dietro i piccoli rialzi di terreno e dietro i tronchi abbattuti per sfuggire alle scariche della spingarda collocata sul minareto, che non aveva cessato di far fuoco, gli assalitori s'aprivano con precauzione il passo fra le piante spinose. Essendo quasi tutti nudi ed i cespugli e gli arbusti foltissimi e formidabilmente armati di punte acutissime, l'impresa era tutt'altro che facile e lo provavano le grida di dolore che di quando in quando mandavano gli assalitori, che non potevano frenare. - La loro carne va a brandelli, - disse Yanez, che curvo sul parapetto, fra l'apertura lasciata da due sacchi di sabbia collocati dinanzi alla spingarda, li spiava. - Mordono le spine, miei cari. - Eppure passano egualmente quei demoni. Ecco lì il primo che striscia lungo la cinta. - E che non andrà a raccontare ai suoi compagni se è più o meno solida, - aggiunse il portoghese. Puntò la carabina e sparò quasi senza mirare. Il dayako che era riuscito, a prezzo di chissà quali punture, ad attraversare quella formidabile barriera, si levò di colpo sulle ginocchia allargando contemporaneamente le braccia e cadde col cranio attraversato dal proiettile, mandando un urlo rauco. - Fuoco in mezzo alle piante! - gridò Yanez. - Ci sono sotto. Poi facendo girare la spingarda sul perno e abbassando la canna più che potè, lanciò una bordata di mitraglia di traverso, mentre i Tigrotti di Mompracem, i malesi ed i giavanesi ricominciavano il fuoco massacrando arbusti e assedianti insieme. Vociferazioni spaventevoli s'alzarono sotto le piante, segno evidente che non tutti i colpi erano andati perduti, poi una valanga d'uomini si rovesciò verso la saracinesca assalendola a colpi di kampilang, mentre i lilà ed il mirim raddoppiavano il fuoco, cercando di mandare le loro palle sulle terrazze per allontanare i difensori. Tremal-Naik aveva mandato un lungo fischio. Subito si videro uscire dalla cucina otto uomini che portavano delle enormi caldaie che spandevano all'interno un fumo acre e denso. Salirono rapidamente la scala, deponendo le caldaie sul terrazzo sovrastante la saracinesca. - Per Giove! - esclamò Yanez, sentendosi avvolgere da quel fumo che gli strappava dei colpi di tosse. - Che cosa portate qui? - Guardati, Yanez! - gridò Tremal-Naik. - Lascia il posto a questi uomini. - Ma gli altri cominciano a montare. - Il caucciù bollente li farà ridiscendere. Gli otto uomini, armatisi di giganteschi mestoli, cominciarono a rovesciare il liquido fumante contenuto nelle caldaie. Urla, orribili, strazianti, s'alzarono tosto alla base della cinta. I dayaki, spaventosamente ustionati dal caucciù bollente che veniva gettato dall'alto della cinta e senza alcuna economia, si erano scagliati come pazzi in mezzo alle piante, fuggendo a precipizio. Una mezza dozzina di loro, che avevano ricevuto le prime palate del terribile liquido, si dimenavano e si contorcevano dinanzi alla saracinesca, ululando lugubremente come lupi idrofobi. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto d'orrore. - Questo indiano ha avuto una trovata magnifica! Cucina vivi quei poveri diavoli! I dayaki fuggivano anche dalle altre parti, poichè anche da quelle terrazze gli assediati avevano cominciato ad aspergere coloro che avevano tentato di scalare la cinta. Il fuoco intenso delle spingarde e delle carabine completava la sconfitta degli assedianti i quali ormai non pensavano ad altro che a porsi fuori di portata dalle armi da fuoco dei difensori del kampong e a rifugiarsi nei loro accampamenti. Invano i fucilieri avevano tentato di accorrere in aiuto delle colonne di assalto che si ripiegavano confusamente. Una bordata di mitraglia lanciata da tutte le spingarde li persuase a seguire i fuggiaschi. Due minuti dopo intorno al kampong non restavano che i morti e qualche ferito che stava per esalare l'ultimo respiro.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Ogni tanto, mentre parea che si chetasse, un rapidissimo pensiero le attraversava il cervello ed ella si abbatteva al suolo, gridando: - Ecce Homo, Ecce Homo, perdonateci voi! Il dottore assisteva, fremendo, col capo chino sul petto, sentendo l'impotenza della sua volontà, sentendo l'impotenza della sua scienza. Che fare? Aveva chiamato Giovanni e scritte due righe sopra una carta, un'ordinazione di morfina, l'aveva mandato alla farmacia: ma la stessa morfina lo sgomentava, Bianca Maria era già troppo debole per sopportarla. Ella, desolata, con una vitalità nervosa, bizzarra, si batteva il petto, mormorando confusamente le parole latine del Miserere, iangendo sempre, come se inesauribile fosse in lei la sorgente delle lacrime. Fu dopo un'ora che il marchese, silenziosamente, entrò nel salone. Era come più vecchio, più stanco, più rotto dal peso della vita. - Che ha Bianca Maria? - domandò timidamente al dottore. - Che le hanno fatto? - Voi la uccidete, - disse gelidamente il medico. - Hai ragione, hai ragione, figlia mia, sono un assassino, - strillò il vecchio. Quell'uomo sessantenne si buttò ai piedi di sua figlia, tremante di vergogna e di umiliazione, tutto sussultante di un singulto senza pianto. E sotto gli occhi del dottore la compassionevole scena si svolse: quel padre canuto, dal gran corpo cadente, pieno di raccapriccio e di dolore, piangendo le rare e brucianti lacrime dei vecchi, sentendo tutto l'orrore della sua colpa, si piegava innanzi alla giovane figliuola, chiedendole perdono, con un balbettìo infantile, proprio come il fanciullo, che sfoga nel pianto tutto il puerile pentimento del suo errore: e la figliuola fremeva ancora, per la gran ferita che le aveva aperta nell'anima la inconscia crudeltà, per la ferita che frizzava sotto l'insulto del fiele che quella crudeltà seguitava a versarvi, per la ferita frizzante sanguinante che questa umiliazione di suo padre faceva gemere ancora, più dolorosamente: e ambedue, al forte uomo la cui vita era stata sempre una onesta e nobile lotta, una continua via verso i più alti ideali, apparivano così deboli, così miseri, così infinitamente infelici, uno come carnefice, l'altra come vittima, che egli, ancora una volta, rimpianse quel tempo, in cui questa tragica famiglia Cavalcanti non aveva preso nel suo stritolante ingranaggio, il suo cuore: ma era tardi, quella miseria, quella debolezza, quella infelicità adesso lo colpivano così direttamente che lui, il forte uomo, soffriva per tutti quegli spasimi e non poteva più domare il purissimo istinto di salvazione, che era il segreto della sua nobiltà d'animo. - Perdona, figlia mia, perdona al tuo vecchio padre; calpestami, me lo merito, ma perdonami, - andava ripetendo il marchese di Formosa, in preda a un furore di umiliazione. - Non dite questo, non lo dite, io sono una misera peccatrice: cercate perdono all' Ecce Homo he avete offeso, o la nostra casa è maledetta, o noi moriamo tutti e ci danniamo...ci danniamo...per la salute eterna, padre mio, cercate perdono all' Ecce Homo. Quello che tu vuoi, figliuola mia, quello che tu m'imponi, così sia, - egli replicò, umiliandosi ancora, tendendo le braccia in atto di supplicazione, - ma l'Ecce Homo i aveva abbandonato, Bianca Maria, egli mi aveva tradito, ancora una volta, capisci? - finì di dire, lui, di nuovo in preda alla collera che lo aveva indotto all'atto sacrilego, sciagurato e grottesco. - Voi mi fate spavento, - gridò lei, indietreggiando e stendendo le braccia per non farsi toccare da lui, - voi, uomo, avete voluto punire la Divinità di Gesù!... cercate perdono, cercate perdono, se non volete che moriamo tutti dannati... - Hai ragione, - mormorò lui, sgomento, umiliato di nuovo. - Fa di me quel che vuoi, farò penitenza, ti ubbidirò come se tu fossi mia madre, sono un assassino, sono un infame! Il marchese si era buttato sopra un seggiolone, accasciato, col petto ansimante, col capo chino, con lo sguardo vitreo fisso al suolo: e la sua figliuola ritta in piedi, nel bianco accappatoio che castamente la copriva dal collo ai piedi, coi neri capelli disciolti sulle spalle, aveva l'aria trasognata e dolorosa delle sonnambule, svegliate dalle loro errabonde e soavi visioni. Il medico intervenne: - Bianca Maria, - egli disse. - Che vuoi? - ella rispose, fievolmente, mentre il padre era immerso in un profondo abbattimento. - Tuo padre è assai turbato, tu soffri: bisogna che ambedue dimentichiate questa dolorosa scena. Vuoi ascoltare un mio consiglio, umano, buono? - Tu sei la bontà e la umanità, - sussurrò ella, levando gli occhi al cielo. - Parla, ti obbedirò. - Quest'ora è stata assai triste, Bianca, ma forse essa potrà aver frutto di bene. Avete pianto, insieme, tu e tuo padre: le lacrime lavano. Per le comuni sofferenze, per il bene che vi volete, tu devi chiedere a tuo padre, non già che egli si umilii fino a chiederti perdono, ma che ti prometta, in nome di tutto quello che hai sofferto, di fare quello che tu gli domanderai, più tardi, quando sarete calmi: diglielo così, Bianca. La mobilissima faccia della fanciulla, alla parola imperiosa, calma e benevola del medico, a quella voce che aveva il magico potere di ridarle la quiete e la fede nella vita, la faccia sino allora contratta e spasimante, si andava rasserenando. L'anima sua, sconquassata e stanca, si posava. - Così sia, - ella mormorò, come se compisse ad alta voce una preghiera interiore. E avvicinandosi al seggiolone, dove giaceva disfatto suo padre, si piegò verso lui e con una tenerissima voce, gli disse: - Mio padre, voi mi volete bene, non è vero? - Sì, - disse lui. - Voi mi volete fare una grazia? - Tutto, tutto, Bianca Maria! - Una grazia sola, per il mio bene, per la salute e la felicità del mio avvenire, promettete di farla? - Tutto quello che vuoi, figliuola, sono il tuo servo... - ... È una grazia singolare, ve la dirò più tardi quando saremo ritornati in grazia di Dio, quando saremo più tranquilli.., ho la vostra parola, mio padre, voi non avete mai mancato... - Hai la mia parola, - egli disse, affannato, come se non reggesse a quel dialogo. Ella intese. Si piegò e con quel suo consueto atto di sommissione filiale, gli sfiorò la mano con le labbra: egli le toccò la fronte, lievemente, in segno di benedizione. Ella si appressò al dottore, gli tese la mano e lo guardò con tale intensità di amore, che egli impallidì, e per nascondere la sua emozione, si abbassò a baciarle la mano. Lentamente, trascinando la persona sottile di cui le forze mancavano, ella si allontanò, uscì dal salone, lasciando i due, soli. Il vecchio pareva concentrato in profonde e tristi riflessioni, poiché ogni tanto levava la faccia al cielo in atto di angoscia e la riabbassava, crollando il capo, quasi scorato. Ma il medico vedeva che l'ora era giunta. - Potete ascoltarmi? - gli domandò, freddissimamente. - Preferirei… preferirei un altro giorno..., - gli rispose, con voce fioca, il marchese. - Meglio oggi, - insistette Amati, con la stessa freddezza dominatrice. - Sono assai turbato… assai… - Forse in quello che vi dirò, avrete modo di placarvi. Voi sapete se vi sono devoto… - Sì, sì..., - rispose l'altro, vagamente. - Io non so dire molte parole, per dimostrare la mia devozione. Cerco, quando posso, di agire devotamente. Vi sono sinceramente, sinceramente affezionato... affezionato a entrambi... - Lo sappiamo: il nostro debito di gratitudine è grande… - Non parlate di ciò. È da tempo che volevo dirvi una mia speranza e non osavo. Sapete meglio di me, che nessun interesse materiale può guidarmi. Vedete, marchese… Non vorrei richiamarvi alla memoria il passato, è troppo doloroso, ma è necessario il farlo. Voi e questa fanciulla, da anni, siete in dolorose condizioni… oh! non per colpa della fanciulla, certo! Le vostre intenzioni sono affettuose, sono sante, hanno uno scopo alto che tutti gli uomini onesti debbono approvare, la rifazione della vostra casa e della vostra fortuna, la felicità offerta a vostra figlia, sante intenzioni, non lo nego: io stesso vi ammiro in questo desiderio così nobile… Il marchese aveva levato la testa e ogni tanto sogguardava il dottore, approvando con un battito di palpebre tutto quanto egli andava dicendo, cautamente, delicatamente, per non offendere, per non abbattere di più quel vecchio, la cui umiliazione tanto lo aveva fatto soffrire. - Ma i mezzi, certo, - riprese il dottore, continuando, con la stessa cautela, - erano rischiosi, azzardati, pericolosissimi e l'ardore con cui desideravate la fortuna, vi ha fatto trascendere, vi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, che inconsciamente seminavate intorno. Non vedete, marchese? Avete intorno la malattia, la miseria, l'avete intorno e in voi: la passione vi ha portato via, e nel precipizio cade con voi la più pura, la più bella, la più cara fra le donne, vostra figlia! - Povera figliuola, povera figliuola, - mormorò pietosamente il marchese. - Voi amate vostra figlia, non è vero? - chiese il dottore Amati, volendo far risuonare tutte le corde del sentimento. - Io non amo che lei sopra tutte le cose, - disse subito il vecchio marchese Cavalcanti, con le lagrime agli occhi, nuovamente. - Ebbene, marchese, vi è un mezzo, per porre quella giovine esistenza innocente al coperto di tutte le angosce fisiche e morali che la consumano; vi è un mezzo, per toglierla dall'ambiente di malattia, di tristezza, di decente ma penosa miseria, in cui ella soffre per tutte le sue fibre; vi è un mezzo, per assicurarle un avvenire di salute, di agiatezza, di pace, di serenità come merita quell'anima purissima; vi è un mezzo, per cui ella può rivivere e questo mezzo è nelle vostre mani... - Ho tentato, lo sapete, - disse desolatamente il marchese Cavalcanti, fraintendendo, - ma non sono riescito. - Voi non m'intendete, - riprese il medico, frenando a stento la sua impazienza, poiché vedeva sempre acciecato il marchese. - Non vi parlo del lotto che è stato il gran disastro della vostra famiglia, che è il cruccio di vostra figlia, che è il tormento di tutti coloro che vi amano. Come potete supporre, che io vi parli del lotto?... - Eppure, è il solo mezzo per far denari, molti denari: solo con esso, io posso salvare Bianca Maria. - V'ingannate, - replicò sempre più freddamente il dottore. - Vi parlo di altro: si può trovare altrove la quiete e la fortuna. - Non è possibile: le fortune che si possono guadagnare al lotto, non hanno limite... - Marchese, qui si parla seriamente. Queste follie cabalistiche mi lasciano freddo, anzi mi esasperano, quando penso ai dolori che cagionano: posso ammetterle come intenzioni nobili, ma esse rappresentano una passione imperdonabile, non ne parlate giammai con me, giammai! Cavalcanti aveva levato la testa e la fisonomia, fino allora molle e disfatta, si era fatta glaciale e dura. Quel giammai, ronunciato con fermezza da Antonio Amati, gli aveva fatto aggrottare un po' le sopracciglia. - Di che mezzo parlavate voi? - egli domandò con una voce strana, dove Amati udì nuovamente l'ostilità. - Forse oggi siamo troppo alterati... tralasciamo, - mormorò il dottor Amati, che si vedeva in procinto di perdere una grave partita. - Domani. - Non ritardiamo, - insistette con fredda cortesia, il marchese Cavalcanti, - giacché si tratta di Bianca Maria, sono pronto. - Datemi vostra figlia in moglie, disse rapidamente ed energicamente il dottor Amati. Il marchese Cavalcanti chiuse gli occhi; un momento, quasi che una vivida luce lo abbagliasse, come se volesse nascondere il suo sguardo lampeggiante: non rispose. - Credo di poter offrire a vostra figlia una posizione degna del suo nome, - riprese subito il medico, deciso ad andare in fondo, - poiché il mio lavoro mi ha dato denaro e reputazione, è inutile esser modesto: lavorerò ancora, molto di più, perché ella sia ricca, ricchissima, felice, inattaccabile, protetta dal mio amore e dalla mia forza... - Voi amate Bianca Maria? - disse il marchese, senza guardare in viso il suo interlocutore. - Io l'adoro, - disse l'altro, con semplicità. - Ed ella vi ama? - Sì. - Voi mentite, signore, - rispose con voce profonda, il marchese Cavalcanti. - Perché insultarmi? - chiese il medico, deciso a sopportar tutto. - Un insulto non è una risposta. - Vi dico che mentite e che nulla vi autorizza a credervi amato. - Vostra figlia mi ha detto d'amarmi. - Bugia! - Me lo ha scritto. - Bugia! Dove sono le lettere? - Ve le porterò. - Sono false. Tutte bugie! - Domandate a lei. - Non lo domanderò. Mia figlia non può amare,senz'averlo detto a suo padre. - Domandateglielo. - Non si è confidata con me: voi mentite. - Domandate a lei. - Mi avrebbe già parlato: mia figlia è obbediente, mi dice tutto. - Non pare che vi dica tutto. - Sono suo padre, perdio! - Voi lo avete spesso dimenticato: essa, qualche volta, lo avrà dimenticato. - Dottore, non vogliate insistere, - fece il marchese, con la sua fredda, ironica cortesia. - Insisto, perché è il mio diritto. Non ho mentito. Del resto, io ho parlato chiaro. Mi offro a vostra figlia che è ammalata, povera, triste, come marito, come protettore, come amico, per guarirle l'anima e il corpo, per amarla e per servirla, come ella merita. Volete darmi vostra figlia? A questo dovete rispondere. - Non ve la voglio dare. - Perché? - Non ho dovere di spiegarvi le mie ragioni. - Siccome il rifiuto mi offende, ho diritto di chiederle. Forse perché non sono nobile? - Non è per questo. - Non mi trovate giovane? - Neppure per questo. - Avete una particolare disistima di me? - No. - E perché, allora? - Ripeto, non debbo dirvi le ragioni. Non posso rispondervi che questo: no. - Neppure aspettando? - Neppure. - Senza nessuna speranza? - Nessuna. - Per nessuna circostanza? - Giammai, - conchiuse il marchese Cavalcanti. Tacquero. Ambedue, diversamente straziati, erano straziati. - Voi volete veder morta la vostra figliuola, - disse il medico, dopo aver pensato. - Non temete, non morrà; vi è una forza che la sostiene. - Domani, essa sarà all'elemosina, una Cavalcanti! - Io la farò ricca a milioni, signore; ma io soltanto ho il dovere di arricchirla. - Vi ho detto che l'amo. - Nulla può agguagliare la mia tenerezza. - Ma il destino delle donne, delle fanciulle è l'amore, è il matrimonio, sono i figli! - Delle donne comuni, volgari, non di Bianca Maria Cavalcanti. Ella ha un'altissima missione, la compirà. - Marchese, voi perderete quella fanciulla. - Io la salvo: e le assicuro una fama immortale e una vita immortale. - Marchese. io ve ne prego, vedete come ve ne prego, io che non ho mai pregato nessuno: non dite di no, così, ostinatamente, senz'aver neanche interrogata Bianca. Voi le preparate un nuovo grandissimo dolore: voi togliete, a me la possibilità di vivere per lei e offendete un galantuomo, così, senza una ragione. Ve ne prego, pensateci, non vi decidete in questo momento. - O domani, o poi, è lo stesso. È un no, sempre un no, niente altro che un no. Non avrete la marchesina Bianca Maria Cavalcanti, - e sghignazzò diabolicamente. - Ripensateci ancora, marchese. Se mi dite ancora di no, io dovrò allontanarmi, per sempre. Non recidete così bruscamente i nostri legami. - Siete libero di allontanarvi, non ci vedremo più; forse, era meglio che non ci fossimo mai visti. - È vero. Me ne andrò. - Andate pure. Addio, signore. - Prima di andarmene, però, io voglio interrogare la vostra figliuola, qui, voi presente. Non siamo più nel Medio Evo: anche la volontà della fanciulla, conta. - Non conta. - V'ingannate. Io la interrogherò. Andrò via, quando essa mi dirà di andare. Chiamatela, se siete uomo leale, se siete gentiluomo. Il vecchio signore, interpellato in nome della lealtà, si rizzò e suonò il campanello, dicendo a Giovanni di far venire la figliuola. I due nemici stettero in silenzio, fino a quando ella comparve. Con la facilità dei temperamenti estremamente nervosi, ella aveva riacquistata tutta la sua calma: ma un'occhiata rivolta alle due persone che amava, sconvolse il suo spirito, immediatamente. - Lascio a voi la parola, - disse con gentilezza il medico, inchinandosi al marchese. - Bianca Maria, - cominciò con voce grave il padre, - il dottor Antonio Amati dice di amarvi: lo sapete voi? - Sì, mio padre. - Ve lo ha detto? - Sì, mio padre. - Avete tollerato che ve lo dicesse? - Sì, mio padre. - Voi avete commesso un grave errore, Bianca Maria. - Tutti erriamo, - ella mormorò, guardando Antonio Amati, per prender coraggio. - Ma vi è qualche cosa di molto peggio. Egli dice che voi lo amate. Io, in volto, gli ho ripetuto che egli mentiva, che voi non potevate amarlo. - Perché lo avete chiamato mentitore? - È mai possibile che tu abbia smarrito ogni pudore, amando costui e dicendoglielo? - Anche mia madre vi amava, e ve lo ha detto, ed era una donna pudica! - Non divergere, non chiamare testimonianze, rispondi a me, a tuo padre: tu ami questo dottore? - Sì, - ella disse, aprendo le braccia. - Io non ti perdonerò mai questa parola, Bianca Maria. - Che Dio sia più misericordioso di voi, mio padre. - Dio castiga i figliuoli disobbedienti. Il dottore Antonio Amati mi ha cercato te in isposa. Gli ho risposto di no, di no, per adesso, di no, per domani, di no, per sempre. - Voi non volete che io sposi il dottor Amati? - No, non voglio. È vero che neppure tu lo vuoi? Ella non rispose: due grosse lacrime le rigarono le guance. - Rispondete, signorina, - disse il medico, con tale angoscia nella voce, che la poveretta fremette di dolore. - Non ho nulla da dire. - Ma non avete detto che mi amate? - Sì: l'ho detto: lo ripeto. Vi amerò sempre. - E mi rifiutate? - Non vi rifiuto: è mio padre che vi rifiuta. - Ma voi siete libera, non siete una schiava; ma le fanciulle hanno diritto di scelta; ma io sono un galantuomo. - Voi siete l'uomo più buono e più onesto che io abbia mai conosciuto, - diss'ella, congiungendo le mani gracili, in atto di preghiera. - Ma mio padre rifiuta, io debbo ubbidire. - Voi sapete, che mi date il più grande dolore della mia vita? - Lo so: ma debbo ubbidire. - Voi sapete che spezzate la mia esistenza? - Lo so: non posso fare altrimenti, mia madre mi maledirebbe dal cielo, mio padre mi maledirebbe sulla terra. So tutto: debbo ubbidire. - Rinunziate alla salute, alla felicità, all'amore? - Rinunzio, per obbedienza. - E tal sia! - gridò lui, con un atto energico, quasi buttasse via tutta la sua debolezza. - Non diciamo più che una parola: addio. - Voi ve ne andate? - disse ella, tremando come un albero scosso dalla tempesta. - Debbo andare: addio. - Partite? - Sì: addio. - Non tornerete più? - Mai più. Ella guardò suo padre: egli era impassibile. Ma tanta disperazione ella sentiva in sé, ella sentiva nel cuore di Antonio Amati, che tentò ancora: - Poc'anzi, mio padre, mi prometteste in un momento di pentimento e di confusione, che avreste fatto tutto quello che voglio io, e io vi chiesi di fare una sola cosa, una sola. È questa. La parola di un gentiluomo, di un Cavalcanti, è cosa sacra. Manchereste? - Ho le mie ragioni: Dio le vede, - disse misteriosamente il marchese. - Negate? - Sempre. - Nulla può indurvi? Né le nostre preghiere, né il bene che mi volete, né il nome di mia madre, nulla v'induce? - Nulla. - Egli dice di no, amore mio, - mormorò ella, guardandosi intorno, con l'occhio smarrito. Ma Antonio Amati era troppo mortalmente ferito, per provare più compassione delle sofferenze altrui. Adesso non lo teneva che un solo desiderio, quello delle persone forti che, chiusa nell'anima la gran catastrofe di tutta la loro vita, non pensano che a fuggire, a fuggire nella solitudine, sdegnose di sterile conforto. Aveva bisogno dell'ombra, del silenzio, dove nascondersi per piangere, per urlare di dolore. La fanciulla innanzi a lui era l'immagine della desolazione, ma egli non vedeva più, non sentiva più: ogni compassione era sparita dal suo cuore, egli provava tutto l'implacabile egoismo delle immense sofferenze. - Amore mio, amore mio, - ripetette ancora lei, cercando di dar forma alla passione che l'angosciava. - Non pronunziate queste parole, Bianca Maria, - egli disse con l'amaro sogghigno dei delusi, - non servono, non ve le chiedo. Abbiamo parlato anche troppo. Lasciatemi andare. - Restate ancora un minuto, - diss'ella, come se si trattasse di arrestare, per un momento, la morte. - No, no, subito. Addio, Bianca Maria. Egli s'inchinò davanti al marchese, profondamente: il feroce e impassibile vecchio che niente aveva potuto scuotere, i cui occhi non vedevano più altro che le sue pazze visioni, gli rese il saluto. Quando il medico passò innanzi alla fanciulla, per uscire dal salone, costei gli tese la mano, umilmente: ma il dottor Amati non prese quella mano. Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l'esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili. Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l'orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse: - Beneditemi. - Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti. - La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.